Forme del melodramma 8871194187, 9788871194189

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Forme del melodramma
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QUADERNI DI FILMCRITICA 23/BULZONI

FORME DEL MELODRAMMA a cura di ALBERTO PEZZOTTA

Formea cura deldi Alberto melodramma Pezzetta

BULZONI 1992

TUTTI I DIRITTI RISERVATI I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

ISBN 88-7119-418-7 © 1992 by Bulzoni Editore s.r.l. 00185 Roma - Via dei Laburni, 14

Introduzione: Le metamorfosi del melodramma Alberto Pezzotta

1. L’interesse per il melodramma da parte degli studiosi di cinema è relativamente recente: una data emblematica può essere il 1967, anno in cui sui «Cahiers du cinema» compare un’intervista a Douglas Sirk accompagnata da un saggio di Jean-Louis Comolli. Negli anni immediatamente successivi gli studi sono frequenti soprattutto nei paesi anglofoni; è solo alla fine degli anni 70 che si assiste a una vera esplosione critica in Francia, Italia e Spagna. L’attenzione verso il melodramma ha tutti i caratteri di una riscoperta: non è un caso che, ai tempi dell’intervista appena ricordata, Sirk avesse smesso di girare da quasi dieci anni. La rivalutazione del melodramma è parallela a quella di altri generi negletti: il noir innanzitutto, e poi tutte le forme di cinema di serie B (horror, film mitologico, peplum...). Né è senza significato, si vedrà, che l’elezione del melodramma a oggetto di studio sia stata più o meno contemporanea a quella della pornografia. Tutti i generi ricordati finora hanno subito l’ostracismo della critica accademica in quanto legati, almeno all’origine, a una fruizione non intellettuale. Se si dovessero applicare a un mèlo oppure a un noir i «modelli interazionali» con cui Jauss spiega come lo spettatore (o lettore) si identifica con l’eroe di un racconto, si sarebbe incerti tra la modalità simpatetica e quella catartica, che provocano, rispettivamente, compassione e commozione. L’identi­

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ficazione simpatetica coincide con «l’immedesimazione (SichEinfuhlen) nell’altro», che conduce lo spettatore a «solidarizzare con l’eroe sofferente»1. L’identificazione catartica «trasferisce lo spettatore dai suoi interessi reali e dal suo mondo di vita nella situazione dell’eroe sofferente o in angustia, per provocare una liberazione del suo animo mediante la commozione tragica o l’alleviamento comico»12. Scopo di Jauss è mostrare come l’esperien­ za estetica sia imprescindibile «da quei momenti dell’identificazio­ ne primaria quali ammirazione, choc, commozione, compianto, riso, e che soltanto uno snobismo estetico può prendere come volgari»34 . D’altra parte lo studioso tedesco mette in guardia come le modalità interazionali possano determinare norme di comporta­ mento «regressive». L’adesione simpatetica, nel caso di La dame aux camélias e di Love Story (e a differenza che in Madame Bovary), «viene prima avviata e poi riassoggettata all’ipocrita morale borghese dominante»'*. In fondo si tratta del vecchio rimprovero alla natura intimamente conservatrice del melodram­ ma: le lacrime versate non farebbero che confermare lo statu quo. Analogamente, l’identificazione catartica corre il rischio di sclerotizzarsi in un piacere gratuito: «la partecipazione emotiva [...] può sempre rovesciarsi in una identificazione con la passione rappresen­ tata che ha di mira solo il piacere»5. Il piacere cui Jauss ha dedicato un’apologià non è infatti quello ingenuo dello spettatore che scambia per reale l’opera rappresentata: il piacere estetico possiede

1 Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria. I. Teoria e storia dell’esperienza estetica, trad, dai tedesco, Bologna, Il mulino, 1987 (prima edizione: 1982), p. 311. 2 Ivi, p. 318. 3 Hans Robert Jauss, Apologia dell’esperienza estetica, trad, dal tedesco, Torino, Einaudi, 1985 (prima edizione: 1972), p. 35. 4 Jauss, Esperienza estetica, p. 316. 5 Ivi, p. 323.

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una «prestazione cognitiva» e richiede «un atto di presa di distanza»6 che derealizza l’oggetto, valorizzando il soggetto fruito­ re. Nel godimento estetico ingenuo, al contrario, le distinzioni di ruolo tra soggetto e oggetto sono confuse. Si capisce, a questo punto, che la radice del lungo esilio critico di generi come il melodramma risieda in una presunta incapacità a svolgere una funzione estetica alta: solo delectare, insomma, senza alcun prodesse. La riprovazione che colpisce il cinema melodrammatico è affine a quella del cinema erotico (non necessariamente hard). «I processi di rimozione e censura cui è sottoposto il patetico», scrive Gianni Canova, «trovano corrispondenza, significativamente, solo nel pornografico»7. Il cinema che fa versare lacrime, per usare una formula di Abruzzese, è prossimo al cinema che fa versare sperma: in entrambi i casi saremmo «nel regno delle passioni e dei fenomeni, lo scoglio naturale su cui si infrangono i ‘marosi’ dell’anima e delle forme»8. Al di là di una caratterizzazione genericamente psicologi­ ca, Franco La Polla precisa che il melodramma, come il porno, è un genere «ristretto in termini spaziali [...] giocato sui corpi degli attori e su quelli soltanto»9. Certo Vhard core non conosce la complessità diegetica del mèlo, né possiede quell’apparato di figure codificate

6 Ivi, p. 99. 7 Gianni Canova, Un fazzoletto pieno di forza, in «Segnocinema», 30, 1987, p. 30. 1 Alberto Abruzzese, Le lacrime e lo sperma, in «Segnocinema», 30, 1987, p. 34. ’ Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 330. La Polla aggiunge che «Fassbinder [è] uno dei registi che, facendo melodrammi, si è forse più di ogni altro avvicinato idealmente al limitare che divide questo genere dal pornofilm: non certo per le sue eventuali visioni di copulazione, ma proprio per la sua formidabile condensazione del senso del corpo, condizione necessaria ma non sufficiente per fare del melodramma, ma anche condizione unica per fare del pornocinema di normale amministrazione», ibidem.

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(la peripezia, l’equivoco, l’agnizione, il sacrificio...) da cui, tradizio­ nalmente, dipende il coinvolgimento patetico. Non mancano, per altro, hard core che inclinano al sentimentalismo (Memories Within Miss Aggie di Gerard Damiano); viceversa, ma posso accennarlo solo di sfuggita, la pubblicistica femminista ha considerato il romanzo rosa come «pornografia per le donne»10* . Pornografia e melodramma (ma si potrebbe aggiungere anche l’horror) sono forme di cinema del piacere, che richiedono uno spettatore in qualche modo ingenuo, che sappia stare al gioco. Questo non implica che il linguaggio filmico sia semplice: si vedrà invece come l’ironia e la consapevolezza metalinguistica siano spesso presenti nel testo melodrammatico (e lo stesso si potrebbe dimostrare anche àeW'hard core).

2. La critica accademica si è impadronita del melodramma sfruttando, in primo luogo, gli strumenti offerti da sociologia e psicanalisi. Lo studio sociologico, in particolare, ha consentito inquadramenti storici utili, ma non sempre ha reso un buon servizio ai testi, ignorando volutamente le questioni di stile e di linguaggio: «il cinema ha avuto poche evoluzioni di natura lingui­ stica nel corso della sua storia», scriveva Roberto Campari; «a livello di strutture narrative, variano le ‘fabulae’ adeguate all’evolversi della società, al mutare dei problemi e dei gusti, ma restano fissi gli ‘intrecci’, cioè il modo specifico in cui queste ‘fabulae’ sono organizzate»". Non si può dire inoltre che siano argomentazioni corrette quelle in cui l’analisi sociologica introduce assiologie, tanto in negativo quanto in positivo. Si veda lo scrupolo con cui Halliday si sforzava di legittimare la dignità dei weepies di Douglas Sirk:

10 Cfr. ad esempio Beatrice Faust, Donne, sesso e pornografia, trad, dall’inglese, Torino, Centro scientifico torinese, 1988, pp. 114-5. “ Roberto Campari, / modelli narrativi, Università di Parma, Quaderni di storia dell’arte, 1974, pp. 7-8.

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On the surface, AU that Heaven Allows [Secondo amore] is a standard women’s magazine weepie — mawkish, mindless and reactionary. Yet beneath the surface it is a tough attack on the moralism of petit bourgeois America. Within the story, and the genre (and the cast), Sirk has constructed a film which [...] situates the barren ideology of bourgeois America in class terms12.

Il saggio di Elsaesser raccolto in questo volume, pur essendo di poco posteriore a quello di Halliday, è un esempio di come l’uso di strumenti sociologici e psicanalitici non sacrifichi un’analisi perspi­ cua delle forme della narrazione e delle caratteristiche della messa in scena. Nella rivalutazione dei generi bassi ha contato, più che la difesa che Jauss ha fatto di un piacere estetico troppo legato a prestazioni cognitive, la nozione barthesiana di ‘piacere (e godimento) del testo’. Il «testo di godimento», scriveva Barthes (non siamo più abituati a sentire queste parole), è «quello che mette in stato di perdita, quello che sconforta (forse fino a un certo stato di noia), fa vacillare le assise storiche, culturali, psicologiche, del lettore, la consistenza dei suoi gusti, dei suoi valori e dei suoi ricordi»13. Non è un caso che Barthes costruisse la sua teoria partendo dalla rivalutazione di un autore negletto per eccellenza, Sade. Il libretto di Barthes, che non ha avuto né poteva avere seguito, è stato tuttavia all’origine di un soggettivismo anarchico, che ha scardinato il ruolo che hanno avuto la psicanalisi e la semiologia nella ridefinizione del piacere estetico14; mi sembra in ogni caso che il pamphlet barthesiano abbia avuto il carattere di un atto inaugurale, 12 Jon Halliday, Sirk on Sirk, London, Seeker & Warburg, 1971, p. 10. 13 Roland Barthes, Il piacere del testo, trad, dal francese, Torino, Einaudi, 1975 (prima edizione: 1973), pp. 13-4. 14 I testi di Freud di maggiore rilevanza estetica, si sa, sono II motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905) e II poeta e la fantasia (1907). Al piacere sensibile dedica importanti (e poco divulgate) riflessioni Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico, trad, dal russo, Milano, Mursia, 1985 (prima edizione: 1970), pp. 76-7.

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legittimando di colpo tutti i film e i libri che fino ad allora si erano letti o visti di nascosto: melodrammi compresi. Certo, a tornare indietro nel tempo, si può trovare la passione dei surrealisti per i feuilletton cinematografici a puntate come L'étreinte de la pieuvre (si veda Nadja di Breton) o per film come Peter Ibbetson (Sogno di prigioniero, 1935) di Henry Hathaway1516 . Né si può escludere che la rivalutazione del melodramma sia uno dei tanti casi della promo­ zione del Kitsch ad arte, in sintonia con un gusto pop e camp che risale agli anni 60. Del resto, a proposito di Kitsch, è lo stesso Sirk a usare questo termine approposito di The magnificent obsession-. If I had had to stage Magnificent Obsession as a play, I wouldn’t have survived. It is a combination of kitsch, of craziness, and trashiness. But craziness is very important, and it saves thashy stuff like Magnificent obsession. This is the dialectic: there is a very short distance between high art and trash, and trash that contains the element of craziness is by this very quality nearer to artlfc.

Kitsch, follia e sublime («high art») sono anche i termini tipici della dialettica di chi ama il melodramma. Il complesso di inferiori­ tà («trashy stuff») non viene mai completamente rimosso, ma viene anzi coltivato come fonte di un piacere ulteriore, quello del proibito e della trasgressione (si intende rispetto al cinema impe­ gnato e perbene). 3. Finora ho parlato di melodramma dando per scontata la definizione di questa parola; è come se avessi sperato che, a sciogliere eventuali dubbi, bastasse il paratesto: questo è un libro di cinema, se si parla di melodramma si presuppone che il concetto abbia una sua evidenza, come quello di horror o di hard core. Di fatto la nozione di melodramma è sfumata e incerta: più che essere un genere, il melodramma attraversa i generi, al limite identifican­ 15 II film narra di due innamorati che, divisi dalla vita reale, continuano a incontrarsi in sogno. Cfr. Campari, / modelli narrativi, pp. 15-6. 16 Halliday, Sirk on Sirk, p. 96.

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dosi con l’intero cinema — ma di questi problemi si occupa esteramente il saggio di Lucilla Albano nelle pagine seguenti. Il nome stesso di melodramma è una metafora abbastanza imprecisa per indicare che la storia raccontata dal film è drammatica ed esagerata come quella dei melodrammi. La parola, non sarà inutile ricordare, nasce in Italia nel XVIII secolo per indicare un dramma interamente cantato con accompagnamento musicale — quello che più tardi sarà battezzato ‘opera’. Nel secolo successivo l’aggettivo melodrammatico passa a significare cosa che ostenta sentimenti esagerati e intensamente passionali, quasi sempre in senso spregiativo. In anni non lontani mèlo e melodrama sono ritornati termini tecnici, anche se non proprio neutri17, usati dapprima dalla critica letteraria, poi da quella cinematografica. In quest’ultimo campo melodrama si è posto come alternativa al termine spregiativo di weepie. Una definizione del melodramma è ardua. Marza! Felici e Rubio Marco propongono, persuasivamente, di «riformulare le caratteri­ stiche del ‘melodrammatico’ non nei termini di una teoria dei generi [...] bensì come un complesso sistema di procedure testuali»18 che si pongono in alternativa a quelle codificate dal Modello Rappresen­ tativo Istituzionale19. Tratti caratteristici di quest’ultimo, si inten­ de, sono «il montaggio come sutura della continuità tra i piani, la cancellazione di ogni traccia enunciativa del processo di produzio­

17 Per Miguel Marias (La melodia del drama o melodrama sin fronteras in AA.W. A cerca del melodrama, Valencia, Generalità! Valenciana, 1987) la parola melodramma ha sempre una connotazione negativa: «è come se in questo genere non fosse possibile peccare per difetto, come se il difetto di melodrammaticità non potesse essere mai un difetto» (p. 13). 18 José Javier Marza! Felici e Salvador Rubio Marco, El melodrama cinematografico en dos clasicos mudos: una critica estetica de la nocion de genero, mimeo. 19 II termine è stato coniato da Noèl Burch, Porter ou I’ambivalence, in Raymond Bellour ed., Le cinema américain. Analyses de films, vol. I, Paris, Flammarion 1980.

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ne, la naturalizzazione dello spazio della rappresentazione»20. La specificazione dei procedimenti testuali melodrammatici che i due autori propongono comprende però fenomeni non esclusivi del melodramma, e a volte non sempre pertinenti21. Spesso gli studiosi hanno tentato di delimitare il melodramma individuandone tratti formali caratteristici. Un breve elenco po­ trebbe comprendere figure stilistiche (la preponderanza dei primi piani e delle riprese in interni), tecniche narrative («l’accelerazione dei tagli di montaggio mano a mano che la vicenda si sviluppa verso il suo acme drammatico»22*), modalità di rappresentazione («l’uso ridondante della metafora per tradurre stati d’animo»21), tipologie attanziali («l’unità narrativa del melodramma non è propriamente l’azione ma [...] il patimento: l’azione declinata al passivo, sofferta anziché attuata»24). Dall’altra parte stanno le definizioni che tengono conto della fabula, del materiale narrativo. Gli elenchi di topoi non mancano; per conto mio tenterei di circoscrivere il melodramma come "storia d’amore contrastato in cui qualcuno muore”. Non importa chi muoia, se il buono o il cattivo: in un melodramma è essenziale che sia rappresentata una morte, o almeno una minaccia di morte. Per quello che può valere la formula, la componente erotica veicola l’immedesimazione, quella tanatologica la compassione.

20 Marzal Felici e Rubio Marco, ivi. 21 E vero che molti melodrammi ricorrono al flashback, ma è eccessivo affermare che la non coincidenza di fabula e intreccio sia una trasgressione al modello classico di rappresentazione ‘invisibile’. 22 La Polla, Sogno e realtà, p. 183. 21 Juan Miguel Company Ramón, Dulces prenda; por mi mal halladas. El objeto en el melodrama cinematogràfico, in AA.W., Acerca del melodrama, P- 19‘ 24 Jesus Gonzalez Requena, Escenografìa de la herida. Algunas conside­ ratone; ;obre el tejido del film melodramàtico, in AA.W., Acerca del melodrama, p. 40.

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Certamente ha ragione La Polla a contestare la riduzione del melodramma al solo motivo dell’«impedimento amoroso»25: ben­ ché quella amorosa resti privilegiata, passioni come l’ambizione, la sete di giustizia o l’amore filiale possono essere altrettanto forti ed efficaci — ciò che giustifica l’analisi sub specie melodramatis di film come The Caine Mutiny o Ace in the Hole. Se possiamo considera­ re come mèlo dei film di morte senza amore, come Ikiru (Vivere) di Kurosawa26, non è vero il contrario: un film d’amore senza morte (o minaccia di morte) non è abbastanza drammatico, è una comme­ dia — o un rosa. E stato sottolineato che il primo piano inventato da Griffith «consente un livello di identificazione emotiva con il personaggio impensabile fino a quel momento»27. Il cinema sarebbe dunque naturaliter melodrammatico: «/’immagine -affezione è il primo pia­ no, e il primo piano è il volto» — immagine-affezione che «è al contempo un tipo d’immagine e una componente di tutte le immagini»2829 . Ma il primo piano del volto assume nel melodramma una funzione particolare: è la cristallizzazione del tempo nello spazio, la mappa delle tracce del tempo. [...] Mentre in altri generi il viso non è altro che (...) espressione codificata di alcuni sentimenti narrativamente funzionali (la paura, la sorpresa, l’allegria) nel melodramma il viso (e il primo piano) è una superficie ferita dal passato, tessuto di ferite attraverso le quali si iscrive lo spessore intransitivo del tempo [...]”. 25 La Polla, Sogno e realtà, p. 178. 26 In Ikiru non manca neanche il melos: la canzone che il protagonista canta con voce lugubre, mentre su morendo, tra la neve che cade, sull’altalena del parco che ha fatto costruire. 27 Emanuela Martini, citata in La Polla, Sogno e realtà, p. 183. Ma si deve pensare anche a ciò che scrive nel primo piano un classico come Béla Balasz, II film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, trad, dal tedesco, Torino, Einaudi, 1952 (prima edizione: 1949). 2* Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, trad, dal francese, Milano, Ubulibri, 1984 (prima edizione: 1983), p. 109. 29 Requena, Escenografia, p. 41.

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Il melodramma si confonde col cinema in quanto è legato al senso dell’irreversibilità del tempo, della perdita del passato. Nel melodramma, come nel cinema (e forse più che in ogni altro genere di film), la morte è al lavoro. La produzione di immagini, affermava Bazin in un saggio famoso, ha a che fare con la morte, nel senso che produce il calco di un attimo (la fotografia) o di un movimento (il cinema): «l’immagi­ ne filmica delle cose è anche quella della loro durata, e quasi la mummia del cambiamento»30. Ogni immagine, una volta fissata, rimanda a un prima nel tempo, a qualcosa di irrecuperabile: qualcosa che è stato, ed è stato visto, ma ora non può essere più — nello stesso modo in cui anche l’occhio che l’ha fissata non può ripetersi. Vedendo un film di qualche anno fa, spesso si fa il gioco dei sopravvissuti. Un film si dà nel tempo, scorrendovi: ciò che occupa il tempo materiale del testo filmico sono calchi di sguardi gettati in un passato più o meno prossimo: sguardi che hanno colto dei corpi, dei soggetti mortali, che a volte, di film in film, si vedono invecchiare. La macchina da presa possiede una forza di derealizzazione analoga a quella della morte: seleziona, fissa, risuc­ chia un corpo, e lo getta nel non essere più3’. Vi è la possibilità di revocare questo calco dal suo limbo nel momento in cui viene rivisto da un altro occhio: ma in ciò quel corpo continua a morire. Rappresentare una morte vera sulla pellicola di un film, per Bazin32, sarebbe un’oscenità — come se si costringesse qualcuno a

30 André Bazin, Ontologia dell'immagine fotografica, in Che cos'è il cinema?, trad, dal francese, Milano, Garzanti, 1979 (prima edizione: 1958), p. 9. 11 Sto plagiando ciò che scrive Blanchot sulla morte e sul linguaggio: «la £arola mi dà l’essere, ma me lo dà privo d’essere». Cfr. Maurice Blanchot, a letteratura e il diritto alla morte m La follia del giorno, trad, dal francese, Reggio Emilia, Elitropia, 1982 (prima edizione: 1949), p. 92. ” André Bazin, Morte ogni pomeriggio, in Che cos'è il cinema?

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continuare a morire. Sono due le morti che si sovrapporrebbero in questo caso: quella vera e quella dell’essere-immagine. La rappre­ sentazione di una morte vera sarebbe, paradossalmente, negazione di morte, giusta il paradosso epicureo che, nella forma datagli da Blanchot, enuncia: «la morte che si annuncia [...] non è più morte ma impossibilità di morire»33. Viceversa, una morte simulata è il massimo di finzione, il massimo di realtà cui può attingere il cinema, la finzione più coinvolgente oltre la quale non si può andare. Quando qualcuno scompare dall’universo diegetico, la credibilità per quel mondo fittizio viene incrementata: anche lì si muore, penserà lo spettatore. Il melodramma, imitazione della vita, trova nella morte il nodo di senso attorno a cui si organizza tanto l’articolazione dell’intreccio, quanto l’adesione emotiva dello spettatore. Si intende che la morte, in un melodramma, ha una qualità ben diversa, per esempio, che in un horror. In un melodramma la morte è anzitutto la scomparsa di una persona, un evento irrecuperabile e definitivo, colto dal punto di vista di chi resta. In un horror di rado importa la perdita di chi muore: l’individuo scompare di fronte alla morte (si pensi al ciclo degli zombi di Romero). Il melodramma non fa della filosofia sulla morte, né questa è coltivata come valore in sé, come capita agli intellettuali protagoni­ sti di Morte a Venezia, Fuoco fatuo e Sotto il vulcano (dove vale il riferimento sia al romanzo che al film). La morte melodrammatica si vede negli effetti: c’è chi viene gettato nella disperazione e chi viene liberato da un peso insostenibile. Spesso conditio sine qua non del lieto fine è l’eliminazione di'chi è di troppo (si veda johnny Guitar). Il melodramma sa anche essere cinico e sbrigativo: in The World of Suzie Wong (1960) di Richard Quine la morte del piccolo orientale, per quanto celebrata da fiumi di lacrime e fastosi funerali, di fatto risolve a William Holden un ‘imbarazzante’ problema

33 Blanchot, La letteratura, p. 113.

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d’adozione. La morte del piccolo è del tutto ingiustificata, e non si spiega se non come punizione (razzista) che cade dal cielo su un amore non del tutto legittimo. Ma, a parte le interpretazioni ideologiche, la svolta patetica di questo film mi sembra indicativa di come nel melodramma vi sia un bisogno di morte: l’immedesimazione patetica deve passare di lì. Che si muoia, si uccida, o ci si suicidi, in un melodramma, lo si fa sempre per un altro: la morte non è mai un evento solipsistico, ma è sempre rifratta e rivissuta. In questo senso Travis Bickle, in Taxi Driver (1976) di Scorsese, adotta una strategia tipicamente melo­ drammatica: cerca la morte per dimostrare qualcosa — a Iris, a Betsy, che importa? La strategia, però, fallisce: l’eroe resta solo, senza avere realizzato né un destino da melodramma (la morte purificatrice), né un destino da eroe intellettuale autodistruttivo, quale in fondo è. Detto tra parentesi, in ciò risiede la modernità e la genialità del film di Schrader e Scorsese. La morte data e cercata per gli altri (in questo caso, l’uomo amato), è il motore di uno dei melodrammi giustamente più celebrati, Leave Her to Heaven (1945) di John M. Stahl (il titolo italiano, Femmina folle, è banalizzante). La protagonista, Ellen (Gene Tierney), che ha alle spalle un rapporto edipico col padre (che «ha fatto morire col suo amore troppo forte»), seduce Richard (Cornel Wilde) sulla scena delle esequie di quello (si tratta di spargerne le ceneri tra le montagne). Sposatolo, lascia affogare il suo invadente fratellino, e successivamente abortisce, gettandosi da una scala, presa da odio per quel nascituro che la priverebbe dell’amore del marito. Alla fine si suicida, manipolando le prove in modo da incolpare la sorellastra Ruth (Jeanne Crain), di cui nel frattempo Richard si è innamorato. La diegesi fa perno su una serie di morti eseguite o provocate dalla gelida e splendida Ellen; il circolo si chiude col suicidio. Circolarità è pure nella costruzione a flashback. Le morti sono fuori campo, tranne che nel climax dell’affogamento del fratellino, dove vi è una esplosione di gioia sadica e un’adesione totale alla

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crudeltà della bella che lascia morire il poverino che, con la sua invadenza, non le lascia fare l’amore col marito. Il film di Stahl è giocato sull’alternarsi da una pane di piacere sadico, dall’altra di orrore per la mone. E giusto che Ellen muoia, ma non perché debba essere punita: piuttosto per riportare la finzione a un livello di verosimiglianza (e di piacere) media, e identificazioni più rassicuranti. Ellen incarna un eccesso di finzione, deve morire perché si possa ristabilire quell’ordine senza il quale non ci sarebbe nemmeno delirio. Ellen rappresenta anche la forza della morte: ella continua a essere il motore della finzione anche se non esiste più: con la sua macchinazione postuma pregiudica un soffertissimo happy end. La memoria corre a un’altra vendetta dalla tomba, quella di La Paloma (1975) di Daniel Schmid. Schimid è un autore che si è spesso confrontato col melodramma, anche nel senso letterale del termine (vedi 11 bacio di Tosca - Casa Verdi, 1982). In La Paloma Ingrid Caven, smunta «d emaciata, è una cantante tisica che sceglie di possedere il primo che le capita, per fare dispetto a chi l’ha invischiata di unamore maniacale. La sua vendetta suprema consiste nel costringere il marito a fare a brandelli il suo corpo, riesumato miracolosamente intatto dopo anni, perché possa essere riposto in un’urna, secondo le vincolanti disposizioni ereditarie. Schmid raggela situazioni tipiche del mèlo (la diva ingrata) con una messa in scena antinaturalista, dai tempi dilatati e dai raccordi alogici. In una sequenza i due protagonisti, sullo sfondo di un vistoso trasparente che riproduce monti innevati su cui volteggiano spiriti, cantano un’aria d’opera in palese playback: tutto, in questo film, si connota come fittizio, a cominciare dalle antiquate iridi che aprono e chiudono le inquadrature. Per di più, l’intera storia si rivela alla fine un’allucinazione. Quello di Schmid non è però propriamente un film d’avanguardia metanarrativo: il suo scopo è piuttosto quello di accumulare situazioni inimmaginabili e irrap­ presentabili. Nella scena climatica della riesumazione e del rito macabro34 vengono confuse le classiche polarità di amore/odio,

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vita/morte, possesso/perdita della donna amata. L’eroina è morta ma è come se fosse viva (è ancora bella), e, per odio, costringe chi l’ama a un atto d’odio: facendo a pezzi il suo corpo, l’uomo la perde definitivamente. Scrive Quaresima che la sovramisura è il principio organizzativo generale, la regola compositiva ‘strutturale* del melodramma. Sovramisura del linguag­ gio, sovramisura nella caratterizzazione dei personaggi, nell’allegorizzazione delle passioni, nella concatenazione degli eventi, nelle relazioni attanzialP*.

Il melodramma, che rimescola le pulsioni fondamentali di eros e thanatos, tende sempre all’eccesso (un dubbio: e se L'impero dei sensi di Oshima fosse il più radicale — ma anche il più completo — di tutti i melodrammi?). Spesso di un mèlo si ricorda solo la scena madre, quella che, in modo esagerato (e diciamo pure barocco), condensa e fa esplodere il viluppo delle passioni. La Paloma sembra girata in funzione della scena della riesumazione, vero coup de théàtre che determina anche un diverso grado di adesione emotiva, dopo tanto straniamento. Non sempre la scena madre in cui eros e thanatos si confondono è collocata alla fine, secondo il modello di Duel in the Sun (1945) di King Vidor. In Written in the Wind (Come le foglie al vento., 1956) di Sirk la scena parossistica in cui Dorothy Malone si scatena in una danza orgiastica mentre il padre (in montaggio parallelo) sta morendo sulle scale, non è neanche a metà della storia. Si potrebbero dividere (ma non vorrei essere preso troppo sul serio) i melodrammi in due categorie: quelli in cui la morte è

M II rito macabro comunque non viene mostrato. Prima Peter Kern agita un coltello nella bara fuori campo, poi si dirige verso il tramonto con l’urna sulle spalle. Leonardo Quaresima, Melodramma, in «Cinema e cinema», 30, 1982, p. 52.

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presente fin dall’inizio, e pesa per tutto il resto del film (Written in the Windt ma anche The Magnificient Obsession); quelli in cui la morte, lungamente temuta o attesa, arriva solo alla fine (X Time to Love and a Time to Die; Some Came Running). Due film di Joseph L. Mankiewicz, regista che si cita poco di frequente quando si parla di melodrammi (meno, comunque, di un Elia Kazan, che a prima vista sembrerebbe più estraneo al genere), esemplificano questi due tipi di intreccio. The Ghost and Mrs. Muir (Il fantasma e la signora Muir, 1947), interpretato da Gene Tierney, è la storia di una fuga dalla vita. Lucy, una vedova ritiratasi in una casa solitaria contro la volontà dei parenti, è oggetto delle visite di un fantasma (Rex Harrison) in cui decide di credere: anzi, è il fantasma stesso a supplicarla di dargli vita in questo modo. Mai come in questo film si desidera tanto la morte dell’eroina, o, meglio, se ne resta talmente appagati: solo una volta morta, infatti, Lucy può incontrare veramente il fantasma. Questa sorte è negata, viceversa, a Eben Adams (Joseph Cotten) in Portrait of Jennie (1948) di William Dieterle, dove il fantasma (Jennifer Jones) ritorna nell’aldilà, lasciando solo (e vivo) il protagonista maschile. Diversa funzione ha la morte in The Barefoot Contessa (La contessa scalza, 1954), che inizia proprio con i funerali della sua eroina, Maria Vargas (Ava Gardner). La sua storia è ricostruita da tre flashback, ognuno dei quali è focalizzato su un diverso perso­ naggio. A volte i flashback si sovrappongono, come nell’episodio dello schiaffo, che è presente in due racconti secondo due ocularizzazioni diverse54 56. Il personaggio di Ava Gardner resta nondimeno * un vuoto, un enigma: nessuno dei personaggi che la ricordano l’ha mai posseduta. Maria, morta, rappresenta anche il vuoto e la morte che stanno dentro coloro che ha lasciato. 54 Cfr. l’analisi narratologica di The barefoot Contessa in Francois Jost, L'oeil-caméra. Entre film et roman, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 1987, p. 42-3.

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Per tutto il film Maria vive in funzione della sua morte, attesa dallo spettatore che, a causa della particolare struttura dell’intrec­ cio, gode di un vantaggio cognitivo. L’onniscienza dello spettatore (focalizzazione spettatoriale per Jost, ex focalizzazione zero di Genette) è appunto un mezzo per produrre un effetto patetico: noi sappiamo già — o sappiamo di più — e proprio per questo trepidiamo per la vittima17. 4. A differenza di Written in the Wind (un altro film la cui narrazione è quasi per intero in flashback), The Barefoot Contessa appare freddo, manipolato, non fosse che per il continuo andare avanti e indietro nel tempo. Nel cinema hollywoodiano vi è un intreccio di pathos ultraro­ mantico e di ammiccamenti metanarrativi cui, in genere, non si è prestata molta attenzione. La metanarratività è un problema prag­ matico, che riguarda l’effetto e la comprensione delle immagini. Quando si parla di metanarratività al cinema, il rischio è quello di ipotizzare uno spettatore modello (‘modello’ nello stesso senso di ‘scolaro modello’) che, grazie a una serie di conoscenze soprattutto extratestuali, sa riconoscere marche di enunciazione e svelamenti di finzione. Connotazione vs. denotazione, enunciazione (o discorso) vs. diegesi, ammissione vs. assenza (o occultamento) di macchina­ zione; spostandosi dal lato della ricezione, adesione ingenua vs. consapevolezza della finzione: questi sono i termini della dialettica entro cui si gioca la visione (l’effetto) di un film. La teoria può spiegare a posteriori la risposta dello spettatore, più che determinar­ la in anticipo18.

17 II nesso tra effetto patetico e punto di vista onnisciente è ben analizzato in Requena, Eseen agrafia. 18 La risposta dello spettatore varia in modo clamoroso: vedi il passaggio, direbbe Morin, dalla visione magica (dal simbolo) al segno grammaticale. Per usare parole di Christian Metz: «ciò che oggi è percepito come semplice figura del discorso [per esempio la sovraimpressione] per i primi spettatori

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Jost ha bene rilevato la «funzione ambigua» del discorso filmico: «esso contribuisce alla costruzione della diegesi, proprio mentre la dichiara come pura finzione cinematografica»59; di più, egli aggiun­ ge che, «il discorso cinematografico è innanzitutto un metalinguaggio»^ e che ogni immagine può significare «sono cinema». Per conto mio, riserverei il termine ‘metanarratività’ a fenomeni precisi e limitati, quelli che hanno l’effetto (la metafora è di Chatman41) di incrinare la finzione, di svelare Panificio. Fino a che punto funziona la soggettiva di Dark Passage (un noir che termina come un mèlo) di Delmer Daves? fino a che punto, voglio dire, la soggettiva smette di funzionare a livello di diegesi per essere percepita come macchinazione? Quale è il sottile confine tra narrazione nascosta e manipolazione palese? Qualsiasi tipo di narrazione, allora, non sarebbe che un trucco, dove «lo spettatore non è vittima dell’inganno al punto da ignorare che esso esiste, ma non ne è cosciente al punto da fargli perdere l’efficacia»42. Ma non sono forse troppo evidenti le alterazioni cromatiche del finale di Some Came Running di Minnelli o la stilizzazione di Johnny Guitar di Ray (dove Sterling Hayden «suona su una chitarra che sembra quasi finta e [è] visibilmente incapace di muovere le dita sui tasti»45)? Si pensi ancora al famoso piano in soggettiva di Spell-

del cinema era molto spesso un ‘effetto’ magico» {Trucchi e cinema, in La significazione nel cinema, trad, dal francese, Milano, Bompiani, 1980 [prima edizione: 1972], p. 280). ” Francois Jost, Discorso cinematografico, narrazione: due modi di considerare il problema dell'enunciazione, trad, dal francese, in Lorenzo Cuccù e Augusto Sainati ed., Il discorso del film, Napoli, ESI, 1988, p. 120. Il saggio di Jost è del 1980. 40 Ivi, p. 119. 41 Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, trad, dall’inglese, Parma, Pratiche, 1981 (prima edizione: 1978), p. 274. 42 Metz, Trucchi e cinema, p. 283. 45 La Polla, Sogno e realtà, p. 188.

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bound di Hitchcock, dove il bicchiere di latte bevuto dal protagoni­ sta letteralmente inonda l’immagine. Il piano ha una ragione drammaturgica forte (è una scena madre), in quanto in quel momento si teme che stia per esplodere la follia di John Ballantyne (Gregory Peck), innescata dalla fobia per il bianco; al tempo stesso l’inquadratura è così insolita da spostare l’attenzione dello spettato­ re sulla messa in scena, l’enunciazione. Come ogni film, è bene ricordare, ogni melodramma agisce su orizzonti d’attesa che chiamano in causa competente intertestuali. In un genere come il melodramma, dove certi elementi dell’intrec­ cio (e non solo quelli: si pensi alla musica) sono fortemente codificati, il piacere dello spettatore è legato in buona misura al riconoscimento. Si potrebbero analizzare i segnali che, fin dall’ini­ zio, fanno prevedere ì'happy end o la conclusione tragica. Ricono­ scere tratti tipici del mondo diegetico significa ammetterne, implici­ tamente, la natura fittizia. Un melodramma in bilico tra patetismo e riflessioni metalingui­ stica è The Legend of Lylah Claire (Quando muore una stella, 1968) di Robert Aldrich. Aldrich, per inciso, ha fatto spesso i conti col mèlo (The Big Knife, 1955; Autumn Leaves, 1956; il western The Last sunset, 1961). The Legend of Lylah Claire è una via di mezzo tra Vertigo, Blow Out e Body Double: Kim Novak interpre­ ta la sosia di una diva defunta, e si immedesima nella parte al punto da morire sul set, davanti alla macchina da presa. La sequenza verrà utilizzata dal regista Peter Finch, così come in Blow out di De Palma l’urlo di terrore di Nancy Alien viene poi sfruttato per sonorizzare un horror. Aldrich complica il topos del cinema nel cinema con un illusorio raddoppiamento di set: Elsa si meraviglia col regista di come sia perfetta la ricostruzione, sul set del film in lavorazione, dì una parte della loro casa — mentre è evidente che il set è sempre lo stesso, solo che ora è finto due volte. Le situazioni del film sono da melodramma (con tanto di maternità auspicata e tormentata, come in Written in the Wind), ma la materia è involgarita (Kim Novak

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sfoggia deshabillé sconosciuti alle eroine positive di Sirk) e conti­ nuamente smontata; Aldrich fa addirittura il verso a Rashomon, proponendo diverse versioni della morte di Lylah. In tal modo l’adesione ingenua (identificazione e compassione) che un melo­ dramma richiederebbe, viene allontanata e raffreddata. La ricerca dell’eccesso diventa fine a se stessa: la coerenza della narrazione (condizione di una fruizione ingenua del film) viene persa a favore di un gusto per l’accumulo e la manipolazione4-’. Tratti stilistici analoghi si possono ravvisare in melodrammi più lontani nel tempo come Pandora and the Flying Dutchman (1950) di Albert Lewin, la cui storia ultraromantica (del genere fantastico­ funebre di Portrait of Jennie) è sottoposta a un trattamento avanguardistico. A parte il gioco di incastri temporali e di mise en ahimè, per cui si rimanda al saggio di Stefano Socci nelle pagine seguenti, vorrei sottolineare l’esplicito carattere surrealista di molte sequenze, spesso del tutto gratuite nell’economia narrativa. E non mi riferisco solo allo pseudo De Chirico che sta dipingendo James Mason, ma a tutta la sequenza della festa sulla spiaggia, con i jazzisti che suonano tra statue classiche; a certe inquadrature (Ava Gardner in primo piano con l’abisso dietro la testa) che sembrano ispirarsi a Man Ray; alle scenografie oniriche dei flashback. Dreams that Money Can Buy (1947) di Hans Richter (e in particolare l’episodio di Max Ernst, con una donna irraggiungibile) doveva avere fatto lezione. Il risultato è che in Pandora la messa in scena è molto più evidente ed esibita che in film come Portrait of Jennie. Lewin, a volte, si dimentica che è un mèlo quello che sta girando, e lo stesso accadrebbe allo spettatore se, fin dall’inizio, non conosces­ se il destino ferale dell’eroina (Ava Gardner, detto tra parentesi, è *• Vale la pena ricordare che l’ultima sequenza di The Legend of Lylah Claire è uno spot pubblicitario di cibo per cani che interrompe il notiziario con la morte di Elsa. Uno spot che diventa un incubo (la ragazza viene circondata da cani sempre piu numerosi e inferociti), straniarne ma anche allusivo della storia appena terminata.

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molto meno eterea non solo di Gene Tierney, ma anche di Jennifer Jones). 5. A tracciare una storia e una geografia del melodramma si rischierebbe di ripercorrere l’intera storia del cinema. Gli studiosi concordano nel rinvenire caratteri melodrammatici in Griffith e nel primo cinema narrativo. In genere l’analisi sceglie però un segmento ristretto, il cinema americano del ventennio 1940-1960. Forse il motivo di questa delimitazione di campo sta nell’eccellenza formale e nell’esemplarità tematica dei film di quel periodo. Ma il melodramma continua a Hollywood anche dopo la crisi degli anni 60. Olivier Eyquem ha individuato i filoni tipici del melodramma degli anni 70: quello legato alla malattia {Love Story, 1970, di Arthur Hiller; Bobby Deerfield, 1977, di Sidney Pollack); quello biografico {Lady Sings the Blues, 1972, di Sidney J. Furie); quello alla Harold Robbins {The Carpetbaggers, 1964, di Edward Dmytryk); quello giovanilistico-sportivo (spesso incrociato con la malattia: Bang the Drum Slowly, 1973, di John Hancock)45. Molto cinema d’autore europeo, a partire dagli anni 70, intrattie­ ne col melodramma un rapporto che va dalla citazione ironica al culto feticista. Sulla coppia Fassbinder-Sirk si è scritto molto, e si è anche sottolineato quanto i due registi divergano nello stile (e non solo in quello), malgrado le reciproche attestazioni di stima e qualche ossessione in comune (quella per gli specchi). Sirk non è del resto l’unico autore melodrammatico del passato cui si è ispirato Fassbin­ der. Secondo Wilhelm Roth, Whity (1970) deriverebbe da Morocco di Josef Von Sternberg e da Band of Angels di Raoul Walsh46. Nei melodrammi di Fassbinder il finale tragico e senza speranza è 4S Oliver Eyquem, Un retour du mélodrame américain, 1, 2, 3, in «Positif», 228, 229, 230, 1980. 44 Wilhelm Roth, Filmografia commentata, in Enrico Magrelli e Giovan­ ni Spagnoletti ed., Tutti i film di Fassbinder, Milano, Ubulibri, 1983, p. 75.

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obbligatorio, a differenza di quanto accade in Sirk. Personaggi come Erwin-Elena (In einem Jahr mit dreizehn Monden} o Veroni­ ka Voss sono condannati fin dall’inizio alla marginalità e al fallimento. L’evoluzione va dalla felicità alla sofferenza (Effi Briest, Die Ehe der Maria Braun, Lili Marleen}: non c’è, come in Sirk, redenzione finale (magari mediata dalla morte di qualcun altro: Written in the wind, Imitation of life}. In questo modo i film di Fassbinder costruiscono modalità di identificazione ben diverse da quelle di Sirk: la catarsi ha la meglio suH’immedesimazione — ciò che spiega, tra l’altro, una certa freddezza e straniamento di marca brechtiana. Lo stile di Fassbinder è però meno metacinematografico (o, se si preferisce, citazionista) di quanto farebbero supporre le sue dichia­ razioni di modelli — e in ciò è ben diverso, si vedrà, da un Vecchiali o da un Almodovar. I film di Fassbinder possono essere visibilmen­ te artefatti (Querelle su tutti), ma non sempre ammettono, se si tratta di melodrammi47, l’ammiccamento intertestuale o la distanza ironica. Nelle scene sul set di Veronika Voss, dove una specie di Max Ophiils (almeno secondo Wilhelm Roth) maltratta l’ex diva, non c’è alcun gioco di cinema nel cinema o di finzione svelata, ma solo adesione patetica al punto di vista della protagonista sofferen­ te. E anche la scena iniziale in cui Veronika, seduta in un cinema, rivede un suo vecchio film, serve solo a segnare il tempo che è passato per il personaggio, non a rivelare allo spettatore che anche lui sta assistendo a una finzione. Fondamentale è il còte melodrammatico in un autore poco divulgato come Werner Schroeter, dove ‘melodramma’ ritorna spesso alla accezione originaria di dramma con musica, opera lirica. Eika katappa (1971) giustappone senza ordine particolare scene

47 Smentiscono queste parole, per esempio, i balletti ispirati a Jerry Lewis in In einem Jahr mit dreizehn Monden. Il comico, comunque, è di tipo clownesco, e quindi patetico, straziante.

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climatiche dell’opera (nella fattispecie, Il Rigoletto), del romanzo d’appendice (duelli) e della religione (Cristo portato al sepolcro48). Schroeter stabilisce così un’equazione tra gli spettacoli a maggiore tasso emotivo della cultura occidentale; essenziale è il ruolo della musica come filo conduttore e collante diegetico. Situazioni esaspe­ rate e larmoyant sono ricorrenti nei film successivi (tra cui Weisse Reise, 1980, e Der Rosenkònig, 1986). La narrazione antinaturalisti­ ca e non lineare ha l’effetto di straniare le situazioni topiche (amori impossibili conclusi tragicamente; lettere che arrivano da lontano, nel tempo e nello spazio; gelosia protatta all’eccesso), così come la recitazione bigger than life di Magdalena Montezuma introduce una certa ironia. Nondimeno il mondo (sia stilistico che diegetico) dei film di Schroeter resta chiuso e appartato nei confronti del cinema sia passato che presente. Un autore di melodrammi metacinematografici è invece Paul Vecchiali. In Rose la rose, fitte publique (1985) i modelli intertestua­ li sono subito dichiarati da una dedica nei titoli di testa (a Max Ophiils e a Danielle Darrieux, tra gli altri) oltre che da fotografie bene in evidenza nelle scenografie (come quella di Madame de... di Ophiils). Già in Femmes femmes (1974) il racconto era scandito da innumerevoli fotografie di attrici del passato. In Vecchiali il mèlo è un genere citato e mitizzato, che viene però innestato a viva forza su storie crude, o comunque impensabili nella tradizione holly­ woodiana. Vecchiali mostra il lato oscuro e hard (in senso sessuale: si pensi alla concretezza della passione di Corps à eoenr, 1979) del melodramma, porta alla superficie pulsioni che, nel cinema di trent’anni prima, rimanevano implicite o alluse. Once more-Encore (1988) è la storia di un uomo che segue le proprie scelte e le proprie

48 Nel racconto evangelico — non sono il primo a notarlo — vi sono gli archetipi di molte figure melodrammatiche: il sacrificio disinteressato, la morte dell’innocente, il pentimento salvifico in punto di morte (mi riferisco in questo caso, ovviamente, all’episodio del buon ladrone).

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passioni fino alla morte, nello sprezzo delle convenzioni: racconta­ to così, sembra trattarsi di un tipico mèlo, non fosse che per il lieve sconcerto di veder attribuito al protagonista maschile un comporta­ mento che la tradizione assegna di preferenza alle donne (il primo titolo che viene in mente, a questo proposito, è La signora di tutti, 1934, di Ophùls, da Salvator Gotta). Se però si specifica che l’eroe di Once more è omosessuale, il modello intertestuale risulta violentemente contaminato e stravolto. A differenza che in certi melo di Rosa Von Prauheim (Horror vacui, 1984), in Once more l’omosessualità viene enfatizzata ed eroicizzata. Nel film, il fatto che questa passione possa portare alla morte, ha il significato di una legittimazione cercata col supporto delie sceneggiature intertestuali'*9 tradizionali sugli amori eroici e infelici. Meno percepibile è l’apparato retorico di un film come A strange love affair (1985) di Eric De Kuyper e Paul Verstraten, mèlo gay a lieto fine, senza esiti tragici o violenti. Vale la pena di ricordarlo in questa sede per la citazione che vi viene fatta di Johnny Guitar: in una lunga scena in cui Ì due protagonisti si contemplano e, presumibilmente, si innamorano, se ne sentono i dialoghi provenire da un videoregistratore fuori campo. Il melodramma del passato è ridotto a oggetto (una videocassetta), mentre il presente sembra avere perso ogni aura eroica: nel film gli intrecci passionali vengono risolti con 1’understatement, del mèlo resta solo la vena estetizzante e lo stile flamboyant (splendida la fotografia di Henry Alekan). e Non sembrano pensarla allo stesso modo i due protagonisti di Matador (1986) di Pedro Almodovar, che dalla visione in un cinema di Duello al sole traggono conferma per le loro scelte estreme di amore e di morte. Per quanto il tema del film sia preso sul serio, il fatto di mostrare le immagini del film di King Vidor sembra insinuare che anche la storia-cornice è fittizia ed esagerata

49 La nozione è utilizzata da Umberto Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.

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come il film nel film, tanto più che i due eroi (un uomo e una donna) prendono ispirazione da quest’ultimo. Di più, Almodóvar accumula allusioni e citazioni da altri generi bassi (l’horror di Mario Bava50 e di Hershell Gordon Lewis), costruendo un film che richiede (anche) una lettura di secondo grado: un film sull’immaginario melodrammatico (sul suo lato hard, vedi L'impero dei sensi) più che un film che crea immaginario. Elementi melodrammatici sono frequenti negli altri film di questo autore: la love story mancata di Entre tinieblas (1983), che si chiude con l’urlo di disperazione della madre superiora; il tentato suicidio di Gloria e quello, riuscito, di Ingrid in jQué he hecho yo para merecer esto! (1984); per tacere di La ley del deseo (1987), definito dal suo autore «un melodrama que desnaturaliza el genero»: un film fatto «di lacrime, di sangue, di violenza, di odio, di mone e di amore», ma senza buoni o cattivi51. Il melodramma di Almodóvar è sempre in bilico tra la serietà e la riflessione metalinguistica. Emblematica, in questo senso, la se­ quenza di Mujeres al horde de un ataque de nervios (1988) dove Pepa sviene mentre si sta doppiando in un film che la vede nel ruolo dell’amante di chi, nella realtà, non lo è più. La passione, in questa scena, esplode proprio in quanto recitata, messa in scena: Pepa cede per l’ultima volta a sentimenti bigger than life perché immagina di vivere in un film, perché di fronte allo schermo realtà e sogno (il film nel film) cortocircuitano. E dunque lecito vedere in Pepa un’allegoria — e una mise en ahimè dall’effetto metanarrativo — dello spettatore (modello?). Spesso, in questi film, l’effetto straniante è conseguito in modo meccanico, grazie alla semplice giustapposizione di episodi farse­ 50 La prima scena di omicidio che Diego guarda in televisione è tratta da Sei donne per l’assassino (1966) di Mano Bava. 51 Nuria Vidal, El cine de Pedro Almodóvar, Madrid, Instituto de la Cinematografia y les Artes Audiovisuales, 1988, pp. 179-80 (anche sulla distanza da un autore come Fassbinder).

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schi alle scene a tonalità calda e drammatica. Tranne forse che in La ley del deseo, il rapporto di Almodovar coi modelli non sa rinunciare alla componente ludica: se non si arriva alla parodia e alla caricatura, si tratta almeno di pastiche52. Ampio spazio andrebbe dedicato a Manoel De Oliveira, per il suo rapporto sia col romance ottocentesco (sia Amor de perdigao, 1978, che Francisca, 1981, sono tratti da romanzi) che con l’opera lirica (Os canibais, 1988). La scena del cuore nel reliquiario, in Francisca, è il climax verso cui il film scorre, e non a caso De Oliveira la enfatizza con la ripetizione secondo un’ocularizzazione differente. Os canibais, almeno prima dell’impensata svolta grotte­ sca, è un melodramma sull’impossibilità di amare, e il visconte non è altro che un avatar dell’impotente Torlato-Favrini di The barefoot contessa. Metamorfosi stilistiche, manipolazione metanarrativa, ri­ cerca di situazioni eccessive: i materiali di partenza di Os Canibais sono gli stessi di Pandora o di La Paloma. Caratteristico di De Oliveira è un umorismo talmente sui generis che sarebbe limitativo classificare come pastiche o parodia: anche perché il lato melodram­ matico non viene cancellato neanche alla fine (tutti risorgono, infatti, tranne il visconte5'). Caso raro di melodramma che declina inequivocabilmente (?) l’appartenenza al genere fin dal titolo è Mèlo (1986) di Alain Resnais, tratto dalla pièce omonima di Henry Bernstein54. Dichia­ rare fin dal titolo che si tratta di un melodramma significa perdere, in certo senso, l’innocenza della rappresentazione, sfoggiando una consapevolezza metalinguistica. Il film, tuttavia, si mantiene lonta­ no dall’ironia: Resnais si limita a una messa in scena di precisione

M Per queste categorie, cfr. Gerard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, 1982. M Una risurrezione finale straniante, che invalida la componente melo­ drammatica, si trova in Goto, Pile d'amour (1968) di Walerian Borowczyk. M Un altro esempio è Le demier mèlo (1978) di Georges Franju, che però non conosco.

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maniacale, dando estrema importanza alla materia della finzione: recitazione, scenografie, giochi di luce. L’effetto straniarne è provo­ cato dal ritmo teatrale, con lunghi dialoghi e piani-sequenza infiniti. Così viene respinta una fruizione ingenua: lo spettatore di Sirk è abituato a ben altra densità di avvenimenti. Come melodramma è più interessante il predente film di Resnais, L'amour à mortS5 (1984), dove la ricerca del sublime e lo sprezzo del ridicolo sono prossimi allo spirito dei film più kitsch di Sirk. In questo film il melos è circoscritto alle sequenze “astratte” con le particelle che cadono. Solo in un caso l’arcigna musica di Hans Werner Henze non è associata alle scene delle particelle, ma commenta le immagini del racconto: forse la musica è la morte, l’aldilà che a Elisabeth, almeno nel film, non è dato conoscere. Non posso parlare delle forme che il melodramma assume in tradizioni cinematografiche lontane dalla nostra56. Un film esplici­ tamente metacinematografico che riflette sul melodramma e su una tradizione a noi sconosciuta, quella turca, è Hayallerim, askim vesem (/ miei sogni, il mio amore e tu, 1987) di Atif Yilmaz. iQon solo vi si parla di cinema (protagonista è un aspirante sceneggiatore innamorato di una star), ma anche del consumo di cinema, dei ss La stessa coppia antinomica evocata da un titolo di Sirk, A tinte to love and a tinte to aie. 56 Ogni cinematografia, peraltro, ha una tradizione melodrammatica. Non ho parlato nemmeno di autori molto diversi tra loro come Matarazzo, Freda, Germi, De Santis. In testi stranieri Europa 5/ di Rossellini è trattato come un melodramma, senza alcuna connotazione spregiativa. Molto De Sica è melodrammatico: terribili sono i mèlo formato esportazione dell’ulti­ mo periodo, come Amanti (1968) e II viaggio (1974), entrambi sulla malattia delreroina. Forse nel cinema italiano è più netta la distinzione tra mèlo popolari (da / figli di nessuno, 1951, di Raffaello Matarazzo a L'ultima neve di primavera, 1973, di Raimondo Del Balzo) e mèlo d’autore (De Sica, Bolognini, Montaldo). Si intende che a questi ultimi è riservata una certa indulgenza critica. Nel cinema americano la distanza tra un Henry King e un Pollack, tra un Minnelli e un Huston non è così grande come quella tra Matarazzo e De Sica, anche a causa di strutture produttive simili.

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“sogni che il denaro può comprare”. Yilmaz mostra con intenzione satirica frammenti di mèlo stereotipati girati ad hoc (è la categoria della charge di Genette), ma neanche la storia-cornice risparmia situazioni esasperate e inverosimili. I film che nutrono le fantasie del giovane sceneggiatore sono identici al film di cui è protagonista: volontariamente o no, finzione e svelamento di finzione vanno in corto circuito. 6. Del melodramma si potrebbe dire che è «serieux comme le plaisir» (Jacques Rigaut), che il suo è «un modello di sviluppo che esclude un qualunque taglio ‘comico’ di trattazione»57: il connubio di farsa e di patetico in Almodóvar sarebbe dunque una tipica degenerazione postmoderna, impensabile in un cinema classico. La Polla accenna però a un «metodo di trattazione “comico” di componenti melodrammatiche nel cinema americano»58, di cui sono esempio molti film di Billy Wilder, come Arianna o The Apartment. Si può pensare anche al tentativo di suicidio di Sabrina nel film anonimo, e paragonarlo alla sequenza di Leave Her to Heaven in cui Ellen si butta dalle scale. In Sabrina il comico è dato, oltre che dall’ingenuità del personaggio, dal numero spropositato di automobili rinchiuse nel garage: il capitalismo, sembra motteggiare Wilder, rende agevole il suicidio. In Leave Her to Heaven il taglio metonimico delle inquadrature (il volto, il piede che inciampa nel tappeto) è funzionale alla rappresentazione di un’azione così enorme e snaturata che occorre parcellizzarne la visione. Da qualunque parte si prenda, il melodramma sfugge, c’è sempre qualche film che dimostra come ogni tesi sia parziale e limitativa. Si ha melodramma ogni volta che Vimitazione della vita diventa più grande della vita: quotidianità ed eccesso sono i poli, antitetici e complementari, entro cui si rappresentano storie d’amore e di

57 La Polla, Sogno e realtà, p. 182. 58 Ibidem.

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morte. Divisa tra serietà e ironia, verosimiglianza ed eccesso, pathos e riflessione metanarrativa, trasgressione e restaurazione dell’ordine — l’essenza del melodramma sembra essere la contrad­ dizione.

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L’intensificazione espressiva Edoardo Bruno

In un certo senso parlare di cinema-melodramma significa parla­ re di cinema, di tutto il cinema, attraverso la sua funzione eccessiva, i dati pressanti della fascinazione sublime. Il cinema ama le situazioni al limite, le possibilità di estremizzare i fatti, questo servirsi di ‘personaggi simbolo’, che possano divenire tipici nella loro presenzialità. Così il melodramma non è tanto un particolare genere da mettere a fuoco, un genere con delle precise caratteristi­ che da cogliere ed evidenziare attraverso una ricognizione topica, che una volta acquisita permetta una classificazione, quanto, piut­ tosto, la parte per il tutto, i lati accentuati di una scrittura complessa, l’insieme dei procedimenti epici e drammatici che sottolineano il percorso di una nostra emozione. Se si limita il discorso al genere, ‘melodramma’ vorrà intendere un particolare aspetto della produzione filmica, in senso stretto i film trasposti da melodramma (il film-opera) e solo per estensione il film musicale. Ma prendendo il termine nella sua eccezione di peripezie, intreccio, affabulazione di sentimenti e di emozioni, allora tutto il cinema narrativo costruisce attorno a se stesso, al suo infittirsi, una significazione melodrammatica, e c’est du melo coincide con c'est du cinéma, senza pertanto voler annullare una distinzione che riguarda il suo eccesso. E questo sovrappiù che qui interessa, infatti il senso sovraccarico costringe ad una intensificazione dei tratti 33

retorici e predomina in una scrittura disseminata; è questa abbon­ danza che trasferisce la significazione dentro i margini complessivi dove si attua la sostanza del racconto. In questo luogo della ‘scena’ dove si rappresenta il raffronto in abyme di più codici, il ‘più’ di significato costituisce l’espressione alta di una pulsione universale. Limitandoci a questo ‘più’, i percorsi melodrammatici si colorano di intensità emozionali, si inabissano nelle correnti più intricate, per accogliere il delirio delle emozioni. La finzione si assolutizza sino a coincidere con tutta la ‘realtà’ rappresentata, in una esasperazione espressiva. I segni trasferiscono in un ‘codice’ tutto esplicitato i lati segreti di una struttura narrativa ravvolta su se stessa, elementare e complessa nello stesso tempo. La ridondanza maschera la verità, induce in errore per ritardare lo svelamento dell’opera. L’impiego del colore nel cinema melodrammatico carica di sensi l’assetto della narrazione, in una iperbole di effetti. Douglas Sirk in All that heaven allows riscalda attraverso l’enfasi cromatica la forma di irrealtà, sia quando mette a contrasto i colori dell’autunno, all’inizio del film, con il blu del cielo, metafora della differenza di età dei due protagonisti, sia quando accentua l’atmosfera multicolo­ re della stanza della figlia, per sottolineare il rifiuto di Kay al matrimonio della madre. E questo un esempio, tra i tanti, del modo di accentuazione dei tratti sopradiegetici, attraverso procedimenti che si muovono su piani diversi e che sottolineano comunque una scelta di intensificazione espressiva. Il procedimento di intensificazione dell’effetto melodrammatico non sembra porsi in diretta conseguenzialità con il semplice crescendo della costruzione musicale. Paradossalmente il filmmelodramma non fa un uso specifico dell’elemento melico. E la luce piuttosto a sottolineare un incremento di senso, un accumulo di sensazioni complesse che accentuano, spostandola, la soglia del climax e intensificano il valore drammatico. La luce calda, avvol­ gente, ricca di folgorazioni metonimiche, flusso duplicativo, che sospinge continuamente il limite dell’espressione. Come in The garden of Allah di Boleslavski dove tutte le scene del deserto

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ottengono, nella patina della luce del crepuscolo, un effetto più intenso di ‘passione’ e ‘rinuncia’. L’ascesi, l’astinenza, la rivelazione di un amore impossibile (il protagonista è un prete che ha abbando­ nato il convento e che ritorna a Dio attraverso la tentazione) traggono da questa saturazione cromatica tra il grigio e il rosa, una malinconia e una disperazione crudeli. O la luce fredda, distaccata, glaciale con implicazioni metaforiche, che raggelano il campo dell’espressione. Come in Leave her to heaven di John M. Stahl, melodramma ‘freddo’, visto attraverso l’azzurro del lago e degli occhi gelati di Gene Tierney. Ma il discorso su questa scrittura in eccesso, sublima il campo dell’irreale in una forma assoluta che si afferma e si nega come genere, riconoscendosi piuttosto in una funzione stilistica. La seduzione del percorso melodrammatico si insinua nelle pieghe dei generi, si ritrova come tono nei film western o nei film di guerra, nei film in costume o nei film di fantascienza. Il melodramma diviene una forma delirante, un universo dove le passioni si dilatano ai confini del possibile, tra colpevolezza e innocenza. Forse è più l’innocenza a determinare il campo delle scelte, a raccogliere il senso moltiplicatore delle peripezie. Ma ‘innocente’ o ‘colpevole’ pertengono ancora al campo dell’intreccio e il melodramma, che oltrepassa l’intreccio, è piuttosto, come si è visto, un atteggiamento formale, la mappa semantica dove si ritrovano i procedimenti di una scrittura ricca di soluzioni figurative, di sguardi, di rotture, di effetti ottici e sonori, di pause, di ripetizioni e di ellissi. Un percorso tutto punteggiato da effetti di scena, da ‘colpi’ filmici, da situazioni al limite; una esposizione scandita da effetti ‘cantati’, da presenze deliranti, da suggestioni dove tutto diventa possibile, dove la rappresentazione di sentimenti, passione, amore e morte si trasforma in convenzioni definite come concetti linguistici. Nina di Vincente Minelli e Fedora di Billy Wilder sono la esaltazione sublime dell’amore e della morte, il melodramma simbolico di una ricerca perduta, tragedia e commedia (ma non era stato Victor Hugo a scrivere: «Le drame tient de la tragedie par la

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peinture des passions, et de la comédie par la peinture des caractères?»). (n. 339-340, 1983)

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Identificazione di una donna Sergio Grmek Germani

Nel percorso invisibile che la passione stabilisce tra un soggetto e un oggetto l’immagine non può che incaricarsi di trattenere e certificare. Là dove la memoria, la certezza che scelta e destino coincidono viene a mancare, nasce il bisogno di un’immagine: in cui vedere, vedersi, o piuttosto sentire che il desiderio è diventato un occhio che garantisce la propria realizzazione, il proprio permanere. L’immagine è, da sempre, ciò che rimane: non può che rimanere. Il dramma inizia quando questo resto incontra un occhio estraneo, che si sente escluso: è il sentiero pornografico dell’immagine. Se questa paura di esclusione, anziché sopravvenire come supplemen­ to di passione che come tale può rimettersi in gioco, si anticipa dal di dentro, quando la passione ‘si’ vive, è il melodramma. Dovrebbe esserci un sentimento che consenta di incontrare la necessità dell’immagine come un dono del flusso del tempo: non sarebbe più melodrammatica. Il punto in cui l’immagine e la cosa coincidono, in una sorta di sindone del desiderio, potrebbe consen­ tire di vivere anche chiudendo gli occhi. Le immagini in cui l’esperienza ci getta (anche quella ‘marginale’ del cinema) prolifera­ no con se stesse anche Ì dubbi: della loro angoscia si potrebbe morire se non ci catturassero in un’immagine di vita. Se un’immagi­ ne ci coinvolge nella certezza di viverne le storie possibili, siamo

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alla felicità che altri generi del cinema possono echeggiare: forse il western più di altri. Se le storie possibili di un’immagine ce ne tengono fuori, il melodramma ci condanna. Ma è di melodramma che qui dobbiamo (e vogliamo) scrivere. E allora l’oggetto del nostro desiderio non è con noi, e non a caso. E altrove rispetto al mondo che ci ingoia. Tutto il sociologismo e il determinismo storico del melodramma, lungi dall’essere dei supple­ menti culturali, ne sono invece un sintomo: il più banale dei fatti sociali può decidere della sorte di un amore perché il suo spazio si ritagliava melodrammaticamente (fuori ma) dentro lo spazio socia­ le. La certezza che un corpo non sia l’immagine di un altro, ma che il destino di sentirci dentro (l’unico destino e l’unico dentro possibili, forse) non lasci fuori nulla, tantomeno un nulla, qui non c’è. Campo e fuoricampo non iscrivono la nobiltà del desiderio, ma il suo mortale arrestarsi: solo un ‘dopo’ può spostarlo, poiché nello spazio del melodramma il tempo non si lascia giocare. E la geniale coniugazione col comico che consente a An Affair to Remember (Un amore splendido) di McCarey di sfidare il tempo di un incontro: certo, mai come nel mèlo i personaggi si allontanano ‘per’ tornare e ritrovarsi, ma questo ‘per’ sfugge alla loro scelta, a differenza del film in cui l’immagine più erotica è un bacio oltre i margini del campo. La fatalità melo dell’incidente che interrompe la comunicazione riesce alfine a spostarla a un superiore livello di certezza: ‘comicamente’ dentro la menomazione fisica; Henry King forse la sposterebbe oltre la morte, Rossellini eluderebbe la stessa necessità di immagini... ma finché abbiamo un corpo, anzi finché i corpi sono due è col comico che dobbiamo fare i conti. Le storie: ma com’è che il melodramma ha perso la fiducia nel suo melos? se è per esso che si soffre il dramma perché non è esso a saperne attendere l’esito? oppure è ancor esso ad attenderlo senza svelarsi? Se il corpo sente la sua voce come un doppio non potrà che perderla, sarà essa il più irrecuperabile dei fuori-campi; anziché un doppio (magari perso in un universo antonioniano di suoni) dovrebbe sentirsi come il luogo da cui ritorna la verità del desiderio 38

insoddisfatto di sé e sospeso sugli eventi. L’inarrestabile scorrere di questi attraverso l’infinità del ripetersi può allora sottrarsi alla necessità della scelta tra fermo di fotogramma e aborto. (n. 339-340, 1983)

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Lineamenti per una filmografia del melodramma nel cinema americano Lucilla Albano Tutte le famiglie felici si somiglia­ no; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo. L. Tolstoi, Anna Karenina

Borges ricorda di aver visto una volta «una dimora circolare in cui le pareti e le porte erano specchi, di modo che chiunque entrasse in questa casa si trovava al centro di un labirinto davvero senza fine», e infatti «bastano due specchi contrapposti per ottenere un labirinto»'. Questo ricordo di Borges, mi fa venire in mente, per assonanza, una strana frase pronunciata da un cowboy in un western di Edward Dmytryk, Warlock: «E un po’ come guardarsi dentro due specchi uno di fronte all’altro». Strana frase veramente per un film western, in più pronunciata da un qualunque cowboy di passaggio; e curioso inizio, citando labirinti, specchi e cinema western, per introdurre il discorso sul melodramma, se proprio il melodramma, nella sua specificità cinematografica, non fosse un ‘genere’ che fa da specchio e attraversa tutti gli altri generi — ad esempio il western, anche un western come Warlock — e, come in un labirinto, non si perdessero le tracce della sua evoluzione sia rispetto ai film, sia rispetto alla storia di un concetto quanto mai 1 J.L. Borges, Sette notti, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 39.

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sfuggente e molteplice. E i cui testi cambiano e si diversificano a seconda dei periodi, dei modi di produzione e degli 'autori’ attraverso i quali la ‘forma melodrammatica’ si è espressa. Come scrive Elsaesser1 2, tutti hanno, più o meno, un’idea di che cosa sia il melodramma, ma è anche vero che, parafransando Sant’Agostino, alla domanda: «che cos’è il melodramma?», forse si dovrebbe rispondere «se non me lo domando, lo so; se me lo domandano, non lo so più». L’elaborazione critica e analitica rischia sempre di definire e designare sotto lo stesso marchio oggetti delicati, frutto di intenso lavoro, talento individuale, passioni segrete, audacie narrative e invenzioni irripetibili. E quello che succede quando si parla di un corpus di film non tanto all’interno della poetica e dello stile di un autore o di un periodo, ma all’interno della categoria di genere, a volte fuorviarne o superficiale, ma che nel cinema hollywoodiano ha raggiunto la sua massima espressione ed efficacia. Si prendono dei «puledri selvaggi» direbbe Arnheim, e si pretende di infilarli dentro delle gabbie, di dividerli e catalogarli secondo schemi e leggi. Il fatto è che il film americani del periodo classico — un periodo classico qui molto dilatato, dal cinema muto della fine degli anni dieci fino agli inizi degli anni sessanta — non sono quasi mai dei «puledri selvaggi», ma appartengono a un sistema di produzione che marcava a fuoco, nel bene e nel male, i film che realizzava. Tutti i film americani del periodo classico, salvo le eccezioni (come Chaplin o Welles), sia che dichiarassero la loro appartenenza a un genere, come faceva John Ford quando diceva I make westerns, sia che non lo dichiarassero, di fatto appartenevano a un cinema in cui ogni volta si compiva un rito nello stesso tempo di trasgressione e di convenzione, di spostamento e di inserimento in un sistema, che è stato grande proprio perché ha saputo assimilare tutte le lezioni e

1 T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury, in «Monogram», 4,1972 [trad, in questo volume].

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tutti i film. Al contrario però che per il western, il film noir, il gangster movie, il musical, la science fiction o l’horror — dove l’identità e la materialità spazio-temporale o la ripetitività di uno schema narrativo ne permettono un immediato riconoscimento — il melodramma non è un genere forte, non offre identificazioni precise, se non quella della «commozione», trattandosi più di una «dimensiorie», di una «forma» o, come scrive Peter Brooks, di un «campo di forza semantico»3. Tentare quindi una tipologia filmografica che colga differenze, cambiamenti ed evoluzioni del melo­ dramma, significa dichiarare fin da subito che essa non può che essere incompleta, parziale e soprattutto soggettiva. Soggettività che in questo caso non appartiene soltanto al gusto e alla conoscen­ za,più o meno ampia dei film, che, per chi studia cinema in Italia, è lasciata un po’ al caso e alle programmazioni televisive, ma riguarda anche qualcosa che ha a che fare — come accennavo prima — con la ‘natura’ stessa del melodramma nel cinema americano. Il melo­ dramma infatti mette in scena qualcosa che appartiene un po’ a tutti i generi e a tutte le storie che ogni genere racconta: una storia d’amore e la ricomposizione finale intorno alla coppia tradizionale, a quella che può fondare una famiglia e avere dei figli; oppure, al contrario, la tragica conclusione di un amore impossibile, che però lascia anch’esso lo spazio a un’altra coppia futura. E proprio questo universale narrativo, con tutte le possibili varianti, a essere presente in tutti i generi hollywoodiani, tanto che Raymond Bellour ne ha parlato come del modello costante che organizza e costituisce il cinema classico americano, che deriva a sua volta dalla grande letteratura europea del XIX secolo4. Come scrive Leslie Fiedler, cogliendo contemporaneamente due «vocazioni», quella del ro-s s P. Brooks, L'immaginazione melodrammatica, tr. dall’inglese, Parma, Pratiche, 1985, (prima edizione: 1976). 4 In una lunga intervista rilasciata a Janet Bergstrom, Alternation, Segmentation, Hypnosis: Interview with Raymond oellour, in «Camera obscura», 3-4, 1979.

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manzo europeo e quella del suo epigono, il cinema americano: «Il tema per eccellenza del romanzo è l’amore o, più precisamente, almeno agli inizi, la seduzione e il matrimonio; e in Francia, in Italia, in Germania, infine in Inghilterra, spiritualmente così vicina all’America, l’amore sotto l’uno o l’altro aspetto, è rimasto l’argo­ mento centrale del romanzo, necessario e indispensabile come le battaglie in Omero o la vendetta nel dramma rinascimentale*5. Più precisamente si può affermare che quando la caratteristica melodrammatica della storia d’amore si ritrova in altri generi e assume una funzione preminente rispetto al genere in cui si inscrive, il melodramma trionfa, ad esempio, sul noir o sul western. Se, al contrario, come accade spesso negli altri generi, l’intreccio amoroso non costituisce il plot fondamentale o non possiede la carica passionale e affettiva del melodramma, esso tuttavia assume un’importanza simbolica notevole nella composizione finale della coppia — happy end presente in tutti i generi del cinema classico americano — perché rappresenta un sistema di valori attraverso cui ricomporre i conflitti. La specificità del melodramma, allora, consiste forse nella perfetta sintesi e identificazione tra la storia d’amore come valore simbolico, come superamento dei conflitti di valore, e la storia d’amore come costituzione dell’intreccio. L“effetto melodrammatico’ lascia tracce di sé in tutto il cinema americano, si insinua nelle storie d’amore, e non solo: «In un certo senso ogni film di Hollywood potrebbe essere descritto come ‘melodrammatico’. Nella più precisa definizione del termine, melo­ dramma si riferisce a quelle forme narrative che uniscono la musica (melos) con il dramma. L’uso hollywoodiano del background musicale per fornire una dimensione formale e una sottolineatura emozionale ai suoi drammi si estende all’indietro fino all’era del5

5 L. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, trad, dall’inglese, Milano, Longanesi, 1983, p. 23.

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cinema muto»6. Ma la ragione forse più indicativa grazie a cui si può affermare che il melodramma informa tutti i generi, ha a che fare con una tendenza narrativa del linguaggio cinematografico, cioè con la ‘propensione melodrammatica’ dei primi registi, in particolare di Griffith, ma anche di Stroheim, De Mille, King, Borzage, Sternberg. Questo è stato capito e sottolineato, in partico­ lare, ma due studiosi americani, David Morse e Michael Walker, che parlano di una «appropriazione del melodramma» da parte dei registi del muto e soprattutto di Griffith: «il cinema ha dimostrato di essere mirabilmente adatto alle richieste del melodramma: era l’ideale per l’azione e lo spettacolo; il montaggio ha creato nuove forme di suspense: l’invenzione di Griffith del primo piano ha posto la star su un livello privilegiato e ha creato un forte senso di coinvolgimento del pubblico. Il cinema muto è stato l’apogeo del melodramma, creando un mondo onorico di fantasia e di desiderio [...]. Molto di ciò a cui noi oggi diamo valore nel cinema americano proviene da questa tradizione del melodramma in generale e dalla sua specifica traduzione nel mezzo cinematografico da parte di Griffith»7. La tradizione melodrammatica, letteraria e teatrale, da cui il cinema ha pescato abbondamentemente — fatta di seduzioni, abbandoni, rivelazioni, agnizioni e che procede per blocchi dram­ matici, scene madri, climax e anticlimax, che emozionano e nello stesso tempo ‘cullano’ lo spettatore — è chiaramente descritta da Peter Brooks: «l’indulgenza verso ogni tipo di sentimento violento; la polarizzazione e la schematizzazione dei conflitti morali; modi d’essere, situazioni, azioni sempre tese all’estremo; malvagità espli­ cita, persecuzione della bontà, e trionfo finale della virtù; tecniche espressive enfatiche o stravaganti; suspense, mene oscure e peripe­

6 T. Schatz, Hollywood Genres: Formulas, Filmmaking and the Studio System, New York, Rondom House, 1981, p. 221. 7 D. Morse, Aspects of Melodrama, in «Monogram», 4, 1972.

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zie che mozzano il fiato»8. Tutto ciò è diventato il materiale e le modalità espressive preferite attraverso cui si è fatto cinema nel periodo muto e che, come scrive giustamente Edgar Morin, porta­ no lo spettatore cinematografico a un rapimento quasi «fisico». Il sistema estetico e figurativo hollywoodiano ha creato degli archetipi il cui punto di partenza non è la realtà, ma un’altra mitologia, quella creata dai romanzi. «Il romanziere non cerca tanto di creare ‘gente reale’ quanto figure stilizzate che si estendono fino a diventare archetipi psicologici» scrive Northrop Frye. Ciò sarà ancora più evidente nei melodrammi che verranno dopo il periodo del muto, soprattutto nei melodrammi degli anni cinquan­ ta, in cui appare chiaro che non esiste nessuna preoccupazione di credibilità su un piano di referenza storica, sociale o psicologica, ma ci si riferisce alla tradizione di un sistema estetico chiuso in se stesso: al cinema, al grande cinema, interessa solo fare cinema. E gli archetipi cinematografici che Griffith e altri hanno inventa­ to, sono molto vicini alla struttura ideologica e narrativa del melodramma. I personaggi dei film di Griffith, ad esempio, agisco­ no e soffrono secondo moduli fissi a cui corrisponde cinematografi­ camente un tipo di scrittura che è diventata ‘convenzione melo­ drammatica’: il salvataggio all’ultimo minuto in montaggio alterna­ to, la violenza verso l’eroina (come ha osservato Walker’, Griffith tratta ogni tipo di violenza verso l’eroina come se fosse una violenza carnale), il flash-back, la dissolvenza, l’uso del primo piano, la suspense, il montaggio per ellissi, la retorica degli sguardi, l’enfatizzazione della colpa, il ricorso al gesto muto. Come quello, splendido, di Lilian Gish, in Broken Blossoms, ottenuto attraverso un movimento delle dita che atteggiano la bocca a un sorriso, mentre gli occhi rimangono tristi, gesto che sintetizza e rivela,

* P. Brooks, L'immaginazione melodrammatica, p. 28. ’ M. Walker, Melodrama and the American Cinema, in «Movie», 29/30, 1982.

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paradigmaticamente, tutta la situazione di dolore, repressione, solitudine e miseria dell’eroina; il cinema muto insomma è la forma estetica contemporanea che più si è avvicinata al melodramma, e che ha dato luogo a una vera e propria retorica dell’espressione. Nel cinema muto «ci si accorge — scrive Walker — che il modo in cui le strutture, le sequenze e i momenti*melodrammatici sono tradotti in cinema, è investito da una intensità e un potere tali da renderli dei paradigmi per i registi futuri. Ciò non significa che i registi successivi abbiano visto e copiato i grandi momenti dei pionieri, ma piuttosto che questi registi avevano una tale presa sul potenziale melodrammatico che, per acquisire effetti analoghi, gli altri registi hanno necessariamente seguito linee simili»10. Provando quindi a fare un elenco di questi primi film non tanto per l’appartenenza vera e propria a un genere, ma rispetto a questa propensione ‘melodrammatica’ dei registi, ecco alcuni titoli: Hearts of the World {Cuori del mondo, 1918), Broken Blossoms {Giglio infranto, 1919), True Heart Susie, 1919, Way Down East {Agonia sui ghiacci, 1920), Dream Street, 1921, Orphans of the Storm {Le due orfanelle, 1921) tutti di David W. Griffith; Merry Go-Round {Donne viennesi, 1922), The Wedding March {Sinfonia nuziale, 1926) e Queen Kelly, 1928 di Erich von Stroheim, La Bohème, 1926 di King Vidor, Sunrise {Aurora, 1927) di Frederich W. Murnau, The Godless Girl {La donna pagana, 1928) di Cecil B. De Mille, Seventh heaven {Settimo cielo, 1927), Street Angel {L'angelo della strada, 1928) e Song of My Heart {Il canto del mio cuore, 1930) di Frank Borzage. E inoltre, come scrive Pascal Merigeau «esistono soggetti più melodrammatici di quelli di Morocco {Morocco, 1930), di Dishonored {Disonorata, 1931), di Blonde Venus {Venere bionda, 1932)?... Dei melodrammi i film di Sternberg, tutti i film di Sternberg, lo sono senza equivoco. Ma questi schemi stereotipati li ha saputi sublimare, prima di tutto, rispettandoli, non stabilendo

10 M. Walker, ibid.

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con essi dei rapporti d’ironia, amando profondamente i suoi personaggi e assumendo attraverso il delirio della macchina da presa tutto l’eccesso della situazione»". Precisazione questa che vale, non certo di meno, anche per i film e i registi citati prima, soprattutto per Stroheim, il cui crudo realismo ma anche la trasfigurante visionarietà vanno ben al di là di una semplice connotazione melodrammatica. In Griffith, in Stroheim, in Borzage o in Sternberg una vicenda o uno spunto da romanzo d’appendice o da melodramma popolare si trasforma in cinema d’autore, tanto libero nel calcare l’esito melodrammatico quanto nel piegare il luogo comune dell’intreccio in invenzione originale, in cimema puro che fonda la drammaticità e l’efficacia del nuovo linguaggio. E esattamente il contrario di quello che avviene invece con la ‘melodrammatizzazione’ che Hollywood compie nei confronti di grandi romanzi e pièces teatrali. «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo». E \’incipit di un grande romanzo, VAnna Karenina di Tolstoi, che potrebbe fornire una delle tante, possibili definizioni di ordine tematico per il melodramma, essendo diventato lo stesso romanzo un ‘melodramma’, nella riduzione hollywoodiana del 1927, Love di Edmund Goulding e in quella del 1935 con la regia di Clarence Brown, entrambi con Greta Garbo; così come sono diventati dei melodrammi altri famosi romanzi come Wuthering Heights di Emily Bronte, diventato film nel 1939 {La voce nella tempesta), con la regia di William Wyler, e Madame Bovary di Flaubert, trasformato in film nel 1949 da Vincente Minelli. Ma si possono anche trovare film come Anna Christie, 1930 sempre della coppia Garbo-Brown e As You. Desire Me {Come tu mi vuoi, 1930) di George Fitzmaurice, anche questo con la Garbo, entrambi tratti da due drammi teatrali, il primo di Eugene 11 P. Merigeau, Un cinema de perversion, in «La Revue du Cinema», 336, 1979.

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O’Neil e il secondo di Pirandello, che Hollywood ha epurato delle raffinatezze letterarie, riducendone la storia all’osso e facendone due melodrammi a uso e gloria della Divina. Procedendo in questa sorta di tipologia incontriamo molti film che privilegiano, del patrimonio melodrammatico, il tema del sacrificio materno e di cui ha parlato ampiamente Christian Viviani in un suo articolo dal titolo sintomatico, Q«z est sans péchéT2. La maggior parte di questi film, alcuni rifatti più volte — un’altra caratteristica del melodramma cinematografico è quella di amare i remake — si basano su delle ipotetiche o reali colpe materne, sul desiderio di redenzione, su figli contesi, abbandonati o perduti, temi che ricoprono l’arco del cinema americano classico e oltre, e che partono dal primo Madame X di Frank Lloyd del 1920 fino al suo ultimo remake, del 1966, di David Lowell Rich e passano attraverso: Stella Dallas, 1925 di Henry King, My Son, 1925 di Edwin Carewe, Appaluse, 1929 di Rouben Mamoulian, Sarah and Son, 1930 di Dorothy Arzner, So Big, 1932 di William Wellman, Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1934) di John M. Stahl, Stella Dallas (Amore sublime, 1937), di King Vidor, The Old Maid (Il grande amore, 1939) di Edmund Goulding, Blossoms in the Dust (Fiori nella polvere, 1939) di Mervyn Le Roy, The great Lie (La grande menzogna, 1941) di Edmund Goulding, The White Cliffs of Dover (Le bianche scogliere di Dover, 1944) di Clarence Brown, To Each His Own (A ciascuno il suo destino, 1946) di Mitchell Leisen, My Reputation (Quella di cui si mormora, 1946) di Curtis Bern­ hardt, Johnny Belinda, 1948 di Jean Negulesco, My Son John (L'amore più grande, 1952) di Leo McCarey. I melodrammi si assomigliano, i temi si rincorrono secondo costanti, corrispondenze e «figures imposées»IJ, ma soprattutto, si

12 In «Les Cahiers de la Cinematheque», 28, 1979. ” Come il titolo di Michel Lebrun, Les «figure imposées» du mèlo, in «Les Cahiers de la Cinematheque», 28, 1979.

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è detto, il melodramma, ancora pia di altri generi, ma e utilizza il remake, quasi un ‘filone aurifero’ interno al genere e di sicuro successo. Può essere utile allora riportare, indicativamente, una piccola mappa di questa coazione al rifacimento, testimonianza inconfutabile che il plot melodrammatico e strappalacrime funzio­ na sempre e ripetitivamente: si può iniziare proprio con due classici della letteratura melodrammatica, fatti e rifatti dal cinema di tutto il mondo come Le due orfanelle di Cormon e Dennery e La signora delle camelie di Alexandre Dumas. Madame X, dopo la versione del 1920, ha avuto ben tre remake: il primo del 1929, di Lionel Barrymore il secondo del 1937, di Sam Wood e l’ultimo nel 1966, già citato, con Lana Turner (e nel 1981 sbarca in TV); Stella Dallas ha un remake nel 1937 con la regia di King Vidor; The Dark Angel {L'angelo delle tenebre, 1925) di George Fitzmaurice ha un remake nel 1935 per la regia di Sidney Franklin; Way Down East di Griffith ha avuto un remake nel 1935 con la regia di Henry King; One Way Passage {Amanti senza domani, 1932) di Tay Garnett è diventato Till We Meet Again {Trovarsi ancora) di Edmund Goulding nel 1940; So big del 1932 è stato rifatto nel 1953 da Robert Wise; Seventh Heaven di Borzage è stato rifatto nel 1937 da Henry King; Rain, 1932 di Lewis Milestone con Joan Crawford, nel 1953 è diventato un film con Rita Hayworth, Miss Sadie Thompson {Pioggia) di Curtis Bernhardt; A Farewell to Arms {Addio alle armi, 1933) di Frank Borzage è diventato un film di Charles Vidor nel 1957; A Star is Born del 1937 di William Wellman ha avuto due remake: nel 1954, il più famoso, di George Cukor con Judy Garland, e nel 1976 con Barbra Streisand; A Stolen Life del 1939 di Paul Czinner è diventato un film con Bette Davis nel 1946, con la regia di Curtis Bernhardt; Leo McCarey ha rifatto Love Affair {Un grande amore, 1939) nel 1957, con il titolo An Affair to remember (Un amore splendido) con Cary Grant al posto di Charles Boyer e Deborah Kerr al posto di Irene Dunne. Waterloo Bridge ha tre versioni: quella del 1931, di James Whale, quella del 1940 di Mervin Le Roy, la più famosa, con Vivien Leigh e Robert Taylor, e quella 50

del 1956, Gabie, di Curtis Bernhardt. There's Always Tomorrow (Quella che avrei dovuto sposare) di Douglas Sirk del 1956, è il remake di un film di Edward Sloman del 1934, dallo stesso titolo (tradotto in italiano con C'è sempre un domani). This Love of Ours (Questo nostro amore) del 1945 di William Dieterle, diventa Never Say Goodbye (Come prima meglio di prima) nel 1956 con la firma di Jerry Hopper (ma in realtà girato, almeno in parte, da Douglas Sirk); The Rains of Ranchipur (Le pioggie di Ranchipur) del 1955 di Jean Negulesco è il remake di The Rains Came (La grande pioggia, 1939) di Clarence Bròwn. Red Dust (Lo schiaffo) di Victor Fleming del 1932, diventa Mogambo di John Ford nel 1953, entrambi con Clark Gable; An American Tragedy, 1931 di Sternberg, diventa, nel 1951, A Place in the Sun (Un posto al sole) di George Stevens. Per non parlare dei numerosi remake dei film di John M. Stahl: Back Street del 1932 è rifatto da Robert Stevenson nel 1941 con Margaret Sullivan e nel 1961 da David Miller con Susan Hayworth; ma soprattutto gli splendidi remake con la regia di Douglas Sirk: Imitation of Life del 1934 è rifatto da Sirk nel 1959; Magnificent obsession (Al di là delle tenebre) del 1935, con Irene Dunne e Robert Taylor, nel 1953 diventa un film con Jane Wyman e Rock Hudson; e infine When Tomorrow Comes (Vigilia d'amore) del 1939, diventa, con Sirk, Interlude nel 1957. Dopo le grandi invenzioni degli anni dieci e venti, l’evoluzione del melodramma negli anni trenta e in parte negli anni quaranta, si rifa in modo tradizionale ai suoi modelli classici e non inventa nulla, non si evolve. «La tradizione teatrale è troppo pesante perché questi- film siano altra cosa che l’inscatolare senza immaginazione delle sceneggiature stereotipate, al servizio di attori senza sorprese» scrive Merigeau. Tra un film come Common Clay (Il romanzo di Elena Nil) di Victor Fleming del 1930, ad esempio, dall’impianto molto tradizionale, con cameriere sedotte e abbandonate, ricchi seduttori, figli non riconosciuti e agnizione finale, e The Constant Nimph (Il fiore che non colsi) di Edmund Goulding, del 1943 — melodramma anche in senso letterale, dove i momenti musicali del

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film, il protagonista è un compositore (Charles Boyer), sottolinea­ no l’infelicità e l’impossibilità dell’amore della protagonista, una giovanissima Joan Fontaine — non vi è sostanzialmente alcuna differenza o cambiamento di stile e di contenuto (anche se le trame sono diverse). Quello che viene evidenziato in questo periodo, per la maggior parte dei melodrammi, è soprattutto un sistema di produzione, e a parte alcuni film firmati da ‘autori’ quali Borzage, Stahl o Vidor (o Sternberg che nel 1941 gira The Shanghai Gesture, I misteri di Shanghai) il genere sale di tono quando ad interpretarlo è qualche grande attrice come Joan Crawford o Bette Davis, che continuano la tradizione precedente della Garbo e della Dietrich. Ed è indub­ biamente vero che un certo tipo di melodramma è segnato dalla presenza particolare e distintiva di queste grandi attrici, che porta­ no di per sé un’impronta ‘melodrammatica’: accade per film noir come The Letter (Ombre malesi, 1940) di William Wyler con Bette Davis, o Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, 1945) di Michael Curtiz con Joan Crawford, ma anche in Gilda di Charles Vidor, del 1946 con Rita Hayworth. Scrive Yann Tobin: «Nel melodramma hollywoodiano sono rappresentate schematicamente due grandi categorie d’eroine: da una parte le “sensitive”, donne dall’apparen­ za fragile e indecisa, pronte tuttavia ad accettare il loro destino con stoicismo [...] (tra il 1930 e il 1945 Loretta Young, Sylvia Sidney, Irene Dunne, Margharet Sullivan, Ginger Rogers). L’altro tipo sono le ‘furie’: volitive, orgogliose della propria indipendenza, esse si mostreranno alla fine le più vulnerabili una volta che la maschera è caduta, immancabilmente punite dalla logica dei cliché del genere (Bette Davis, Joan Crawford, Katharine Hepburn, Barbara Stanwyck)»14. Quello che hanno di straordinario e trasgressivo i ruoli di queste attrici, parlo delle ‘furie’, è che il loro personaggiotipo assume in sé contemporaneamente le caratteristiche della vamp, della femme fatale e dell’eroina; da qui la grande carica H Y. Tobin, John M. Stahl, in «Positif», 220-221, 1979.

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erotica ed emozionale dei loro personaggi e la forza dei loro caratteri, che mettono decisamente in ombra quelli dei loro part­ ners. Ritornando indietro, alla Garbo femme fatale, modello archetipo di tutte le successive interpretazioni, possiamo citare: The Temp­ tress (La tentatrice, 1926) di Fred Niblo, The Flesh and the Devii (La carne e il diavolo, 1927) di Clarence Brown, A Woman of Affairs (Destino, 1929) dello stesso, Susan Lennox, Her Fall and Rise (Cortigiana, 1931) di Robert Z. Leonard; ma anche la Dietrich di The Garden of Allah (Il giardino di Allah, 1936) di Richard Boleslawski e di Seven sinners (La taverna dei sette peccati, 1940) di Tay Garnett. Una gamma quanto mai varia di interpretazioni, sentimentali, romantiche, tragiche, drammatiche, ma sempre ‘mèlo’ per la grande Bette Davis, come in Dangerous (Paura d'amare, 1935) di Alfred E. Green, That certain woman (Vivo per il mio amore, 1937) di Edmund Goulding, All This and Geaven Too (Paradiso proibito, 1940) di Anatole Litvak, A Stolen Life (L'anima e il volto, 1946) di Curtis Bernhardt, Beyond the Forest (Peccato, 1949) di King Vidor. Da eroina a donna perduta per Joan Craw­ ford, da Possessed (L'amante, 1931) di Clarence Brown, a Flamingo Road (Viale Flamingo, 1949) di Michael Curtiz, o incatenata a triangoli e adulteri in Chained (Incatenata, 1934) di Clarence Brown e in Daisy Kenyon (L'amante immortale, 1947) di Otto Preminger. Rita Hayworth nuovamente femme fatale in Blood and Sand (Sangue e arena, 1941) di Rouben Mamoulian, e fallen woman in Miss Sadie Thompson (Pioggia, 1953) di Curtis Bern­ hardt. Figure tragiche di donne, donne sole, donne abbandonate, donne che devono affrontare la violenza degli uomini, come Jane Wyman in Johnny Belinda-, donne disperate che camminano di notte lungo i marciapiedi accompagnate da altre donne simili a loro, come accade in Marked Woman (Le cinque schiave, 1937) di Lloyd Bacon, o da altre schiave, come la guardiana della prigione nel finale di Flamin­ go Road; donne che muoiono sole in ospedale alla fine di un amore

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impossibile come in Letter From an Unknown Woman (Lettera da una sconosciuta, 1948) di Max Ophiils. Donne sole col proprio rimorso come Bette Davis in Mrs Skeffington (La signora Skeffing­ ton, 1945) e Joan Crawford in Harriet Craig (Sola col suo rimorso, 1950), entrambi di Vincent Sherman. La centralità della figura femminile è evidente nel melodramma, non solo quando la protagonista è un’eroina letteraria come Camille (Margherita Gauthier, 1937) di George Cukor con la Garbo, ma anche quando appartiene alla storia come The Scarlet Empress (L'imperatrice Caterina, 1934) di Sternberg con la Die­ trich, come Queen Christina (La regina Cristina, 1933) di Mamoulian, o Marie Walewska, 1937 di Brown, sempre con la Garbo. Ma indubbiamente i plots melodrammatici più popolari e appari­ scenti sono quelli dell’amore infelice e ostacolato, degli intrecci amorosi, dei ‘triangoli’, degli amici divisi dall’amore per la stessa donna, della colpa e del peccato, che ricade quasi sempre sulla donna, con le conseguenze tragiche — anche fino alla morte — della separazione e dell’abbandono, situazione determinante per il funzionamento del melodramma. Moltissimi sono i melodrammi di questo tipo, qui di seguito elenco i più famosi: Back Street (La donna proibita, 1932) di John M. Shahl, One Way Passage (Amanti senza domani, 1932) di Tay Garnett, Forbidden (Proibito, 1932) di Frank Capra, Only Yester­ day (Solo una notte, 1933) di Stahl, A Farewell to Arms (Addio alle armi, 1933) e A Man's Castle (Vicino alle stelle, 1933) di Frank Borzage, Manhattan Melodrama (Le due strade, 1934) di W.S. Van Dyke, Peter Ibbetson (Sogno di prigioniero, 1935) di Henry Hathaway, Way Down East (Cuori incatenati, 1935) di Henry King, Three Comrades, 1938, Mannequin (La donna che voglio, 1938) tutti e tre di Borzage, Comet Over Broadway, 1938 di Busby Berkeley, Grand Hotel, 1938 di Edmund Goulding, Love Affair (Un grande amore, 1939) di Leo McCarey, When Tomorrow Comes (Vigilia d'amore, 1939) di Stahl, Waterloo Bridge (Il ponte di Waterloo, 1940) di Mervyn Le Roy, Now Voyager (Perdutamen­

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te tua, 1942) di Irving Rapper, The Clock, 1945 di Vincente Minnelli, The Love of Ours (Questo nostro amore, 1945) di William Dieterle, Humoresque (Perdutamente, 1946) di Jean Negulesco, Letter From an Unknown Woman, 1948 di Max Ophuls, Shock­ proof (Fiori nel fango, 1948) di Douglas Sirk, The Walls of Jericho (Le mura di Gerico, 1948) di Stahl, Caught (Presi nella morsa, 1949) di Ophiils, Fountainhead (La fonte meravigliosa, 1949) di King Vidor, Not Wanted (Non abbandonarmi!, 1949), Never Fear o The Young Lovers, 1950 e Outrage (La preda della belva, 1950) tutti e tre di Ida Lupino, September Affair (Accadde in settembre, 1950) di Dieterle, Payment on Demand (L'ambiziosa, 1951) di Curtis Bernhardt, A Place in the Sun (Un posto al sole, 1951) di George Stevens, Ruby Gentry (Ruby, il fiore selvaggio, 1952) di Vidor, The Bad and the Beautiful (Il bruto e la bella, 1953) di Minnelli, Love is a Many Splendored Thing (L'amore è una cosa meravigliosa, 1954) di Henry King, Magnificent Obsession (Magnifica ossessione, 1955) di Negulesco, Summertime (Tempo d'estate, 1955) di David Lean, The Man in the Gray Flannel Suit (L'uomo dal vestito grigio, 1956) di Nunnaly Johnson, An Affair to Remember (Un amore splendido, 1957) di Leo McCarey, Interlude (Interludio, 1957) di Sirk, Gift of Love (Dono d'amore, 1958) di Negulesco, China Doli (La bambola cinese, 1958) di Borzage, A Stranger in My Arms, 1959 di Helmut Kautncr, Butterfield 8 (Venere in visone, 1960) di Daniel Mann, The Bramble Bush (Il letto di spine, 1960) di Daniel Petrie, Strangers When We Meet (Noi due sconosciuti, 1960) di Richard Quine. Nell’articolo su John M. Stahl, Tobin sostiene che «il melodram­ ma in realtà, dopo la guerra, non è più un genere rosa, si è appropriato dell’universo corrotto e violento del film noir. 1945, anno di transizione: se Mildred Pierce è un soggetto da melodram­ ma che Curtiz tratta come un film noir, Leave Her to Heaven è un soggetto da film noir che Stahl tratta come un puro melodramma». E che negli anni quaranta vi sia una forte contaminazione del melodramma con altri generi è testimoniato anche da uno storico

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del cinema come Jean Mitry, che nella sua monumentale Histoire du cinéma cita, tra i capolavori del melodramma degli anni quaranta, un film come Casablanca, 1942 di Michael Curtiz, perfetto esempio di amalgama tra melodramma (la storia d’amore impossibile tra Ingrid Bergman e Humphrey Bogart), spy story, war propaganda e noir. Il concetto di melodramma assume poi connotazioni completamente diverse, si rifa cioè più al genere drammatico-avventuroso del teatro inglese che al mèlo francese, nel libro di Higham e Greenberg, Hollywood in the forties, dove film che di solito vengono considerati dei detective stories, o delle hard-boiled stories come The Maltese Falcon (Il falcone maltese, 1941) di John Huston, dal racconto di Hammet, o The Big Sleep (Il grande sonno, 1946) di Howard Hawks, dal racconto di Chandler, vengono invece inseriti dentro il capitolo intitolato Melodrama. Ma verso la metà degli anni quaranta si può notare un’altra evoluzione nel melodramma, che inizia a utilizzare diffusamente (e lo farà ancora di più negli anni cinquanta) alcuni portati della cultura psicoanalitica. E lo fa a due livelli: un primo livello, più superficiale, attiene strettamente all’evidenza della fabula e dei dialoghi, dove riscontriamo una disinvolta, a volte grossolana eccedenza di ‘senso’ psicoanalitico, esibito là dove l’occasione tematica lo permette. Il secondo livello di incidenza della psicoana­ lisi riguarda la struttura profonda del melodramma: Hollywood crea un sistema di convenzioni cinematografiche che, attraverso una sorta di traduzione simultanea, mette in scena i meccanismi dell’inconscio. Ma questo sistema di convenzione è fittizio e artificiale, non pretende credibilità scientifica quanto invece impo­ ne un’adesione alla macchina cinema, alle sue figure e alle sue autonome leggi. E così, come ha già scritto Sandro Bernardi, la scena si annulla nella scenografia, la favola assorbe la storia, il trasparente cancella i paesaggi dal vero15. Al primo livello, sul piano

15 S. Bernardi, Il cinema come insiemi infiniti, in «Filmcritica», 322,1982.

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del contenuto, temi melodrammatici come la malattia fisica, l’infer­ mità, la cecità, l’incidente (da Dangerous a Magnificient Obsession, da Suspicious Wives a Dark Victory e Night Song)'6, diventano malattia morale e psichica, a volte usata come effetto nell’intreccio. Oppure il genere assume le sembianze del thriller, come in The Reckless Moment (Sgomento, 1949) di Max Ophuls, o del mistery melodrama, come in Undercurrent (Tragico segreto, 1946) di Lewis Milestone, in The Strange Love of Martha Ivers (Lo strano amore di Marta Ivers, 1949) di Nicholas Ray, in No Man of Her Own (Non voglio perderti, 1950) di Mitchell Leisen. L’amnesia, per esempio, diventa un affascinante e inquietante tema melodrammatico in Random Harvest (Prigionieri del passato, 1943) di Le Roy, o in Love Letters (Gli amanti del sogno, 1945) di Dieterle e in High Wall (La muraglia delle tenebre, 1947) di Bernhardt. SÌ parla di ‘psychological melodrama’ per Guest in the House (Veleno in paradiso, 1944) di John Brahm, per Leave Her to Heaven (Femmina folle, 1945) di Stahl, The Locket (Il segreto del medaglione, 1947) di Brahm e per Possessed (Anime in delirio, 1947) di Bernhardt, in cui i personaggi femminili soffrono di psicosi. Non dimentichiamo che è proprio negli anni quaranta che vengono girati i primi film in cui i personaggi soffrono di disagi psichici ed è messa in scena la figura dello psicoanalista, come in Lady in the Dark (Le schiave della città, 1944) di Leisen, Spellbound (Io ti salverò, 1945) di Hitchcock, Nightmare Alley, 1947 di Goulding, Caught già citato, e Whirpool (Il segreto di una donna, 1949) di Preminger. Più tardi, negli anni cinquanta, anche l’alcoolismo, sintomo di disagio psichico e sociale, sarà tradotto in melodramma, ad esempio in Something To Live For (Perdonami se ho peccato, 1952) di Stevens, in TU Cry Tomorrow (Piangerò domani, 1955) di Daniel

16 Souspicious wives è un film di John M. Stahl del 1921, Dark Victory (Tramonto, 1939) è di Edmund Goulding, Night song (L'amore senza volto, 1947) è di John Cromwell.

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Mann e in The Days of Wine and Roses (I giorni del vino e delle rose, 1962) di Blake Edwards. La clinica psichiatrica e «l’impossibi­ lità di essere normali» saranno il soggetto di melodrammi come The Cobweb (La tela del ragno, 1955) di Minnelli, Autumn Leaves (Foglie d'autunno, 1956) di Aldrich, Bigger than Life (Dietro lo specchio, 1956) di Nicholas Ray, Tea and sympathy (Te e simpatia, 1956) di Minnelli e Suddenly, Last Summer (Improvvisamente l'estate scorsa, 1959) di Joseph L. Mankiewicz. Un film particolarmente emblematico degli anni quaranta è il già citato Leave Her to Heaven di Stahl. Affrancato dal genere rosa, dalla soap opera, legato ancora al noir, va verso quella che sarà la tematica privilegiata dei melodrammi degli anni cinquanta: il family melodrama, dominato dalla nevrosi, dal disagio, dalla ribellione. Ma è soprattutto per il suo stile, per il colore acceso e caldo, per l’eccesso della recitazione e della mise-en-scène, che Leave her to heaven anticipa i grandi melodrammi successivi. La scena si apre agli esterni, sul deserto del New Mexico, i cactus, le colline, le montagne rocciose e il cielo azzurro macchiato di bianco come in un western di Ford. Poi il film si richiude negli interni e la profondità di campo fa vivere questi interni domestici dilatandoli, rimandando alla profondità dei rapporti e dei legami familiari, così che il dècor assume, prepotentemente, il ruolo di secondo protagonista insieme ai primi piani della bellissima Hellen (Gene Tierney). I colori, il décor e il paesaggio sono infatti così fortemente visualizzati che irrompono sulla scena dei sentimenti e dei meccanismi psicologici producendo senso accanto ai personag­ gi. Dalla tappezzeria alla carta da parati, dalle piante ai vestiti, tutto si dilata, assume importanza, gli spazi interni rimandano a senti­ menti interiori repressi, che si esprimono con fatica e dolore, fino ad arrivare al grido di pazzia dell’ultimo atto: il suicidio di Hellen come messa in scena di un omicidio e di un’accusa. Con Since You Went Away (Da quando te ne andasti, 1944) di John Cromwell, i temi melodrammatici si spostano decisamente verso la descrizione di quel ‘simulacro’ dell’immaginario che è il

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romanzo familiare, verso l’ambientazione sociale, la critica alle leggi ipocrite e repressive, l’unità e l’armonia della famiglia in contrapposizione alla libertà delle proprie scelte, l’autorità contro il desiderio. Se Since You Went Away è la ricomposizione perfetta dell’unità familiare, come unico valore esistente, in altri film la rappresentazione, a volte esemplare — come in Sirk, in Ray, in Minnelli e in Kazan — degli intrecci familiari e dei rapporti tra le generazioni, si colora di inquietudini e di ribellioni. E queste inquietudini sono sempre la rappresentazione di una sorta di ‘psicopatologia della vita quotidiana’, cioè di qualcosa che ha a che fare con la messa in scena dei meccanismi dell’inconscio, che obbedisce, come già si è detto, solo a convenzioni cinematogra­ fiche, cioè a una struttura di effetti formali che è referenziale a se stessa e che richiude il testo nella sua scrittura. «Il modello psicoanalitico — osserva Walker — è qui impiegato come un mezzo per cercare di spiegare l’efficacia di certi motivi e strutture melodrammatiche, con l’assunto che molto del potere che essi hanno si trova nel modo in cui drammatizzano, per quanto inconsciamente, processi psicoanalitici chiave, quali il complesso edipico e il ritorno del rimosso»17. Ed è proprio rispetto al loro modello psicoanalitico che sono così simili, pur nella loro diversità, alcuni melodrammi degli anni cinquanta — dagli americani vengono definiti family/small town melodramas — come Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956) di Sirk, The Long Hot Summer (La lunga estate calsa, 1958) di Martin Ritt, This Earth Is Mine (La mi$ terra, 1960) di Minnelli. Nelle grandi mansion bianche stile coloniale si consuma infatti il rapporto tra una figura paterna/patriarcale e una figura filiale ‘bastarda’. Tutti questi figli e nipoti, adottati, naturali, illegittimi o elettivi, sono in qualche modo in competizione con i figli legittimi: esplicitamente in The Long Hot Summer, sotterraneamente in

17 M. Walker, Melodramma and the american cinema.

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Written on the Wind, oppure se ne prendono cura, come in Home From the Hill> e alla fine ne sposano le ‘donne’. Tutti questi ‘figli’ bastardi infatti amano, ricambiati — il che provoca naturalmente conflitti e tensioni — le nipoti o le figlie o le nuore, cioè una figura filiale femminile imparentata, più o meno strettamente, con la figura paterna/patriarcale o la figura filiale legittima. La diabolica perversa catena edipica è dispiegata in tutte le sue più incredibili combinazioni. E la passione, flagellata e tempestata dalla nevrosi e dall’impor­ tanza, che muove il plot melodrammatico degli anni cinquanta. Passioni che non finiscono mai, rapporti e legami familiari che non si possono rompere, che non possono essere mai negati, perché niente si perde nel melodramma, fondo oscuro dove tutto è conservato, simile alla memoria dell’inconscio. Come in Home from the Hill non si può negare il rapporto di padre e figlio tra Wade Hunnicutt, il Capitano (Robert Mitchum) e Rate, il figlio non riconosciuto (George Peppard); come non si dimentica il rapporto tra Wade e la madre di Rafe, anche se è stato solo per una notte «in un fienile»; così come non si può negare il rapporto fraterno tra Theron (George Hamilton) il figlio legittimo e ricono­ sciuto, e Rafe, il bastardo; come non può rimanere senza seguito il rapporto tra Libby (Luana Patten) e Theron, da cui nascerà quel figlio che assomiglia tanto al nonno, Wade, e che avrà come ‘padre’ Rafe, che sposerà Libby, e come ‘nonna’ Hannah (Eleonor Parker), la madre di Theron, continuando così la catena delle colpe edipiche. Come non si rompe, soprattutto (se non con la morte), il matrimo­ nio tra Wade e Hannah, anche se da molti anni ormai non vivono più come marito e moglie; anche se il desiderio che li ha uniti una volta, e che è sempre presente, è sopito e represso sotto una coltre di incomprensione e di odio; anche se Wade si è «distratto» vivendo da «uomo», ubriacandosi, cacciando e andando a «puttane»; anche se Wade non ha mai provato a buttare giù quella porta chiusa che si frapponeva fra lui e Hannah e che invece altri (molto simili al personaggio di Wade), ad esempio Rhett Butler (Clark Gable) in 60

Gone with the Wind e Stephen Fox (Rex Harrison) in The Foxes of Harrow, avevano almeno tentato di aprire a calci e a spallate. Home from the Hill, melodramma del Sud, è la continuazione di questi due altri splendidi south melodramas, Gone with the Wind (Via col vento, 1939) di Victor Fleming e The Foxes of Harrow (Superba creola, 1947) di John M. Stahl: tra Wade e Hannah vi è lo stesso rapporto erotico che tra Scarlett O’Hara (Vivien Leigh) e Rhett Butler, e tra Odalie (Maureen O’Hara) e Stephen Fox. Rapporto impossibile, rimandato, irrisolto, in cui il desiderio, potente e irresistibile, si interseca e si incrocia senza che l’uomo possa mai incontrare quello dell’altro. Un grande sistema di passioni è infatti il fulcro di questi melodrammi del Sud, tra cui anche Jezebel (La figlia del vento, 1938) di William Wyler, Kuby Gentry, 1952 di Vidor, The Sun Shines Bright (Il sole splende alto, 1953) di John Ford, The Raintree County (L’albero della vita, 1957) di Edward Dmytryk, Baby doll, 1956 di Elia Kazan e The Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta, 1958) di Richard Brooks. Con il family melodrama degli anni cinquanta — che possiamo far iniziare da Since You Went Away per arrivare fino a Splendor in the Grass (Splendore nell’erba, 1961) di Elia Kazan — il cinema americano esprime, forse, dopo i melodrammi del muto, la sua fórma più compiuta e originale, un corpus di film con una forte identità e riconoscibilità nello stile e nel contenuto. Tra questi due film, tra la ricomposizione di Since You Went Away e la violenta lacerazione del film di Kazan, c’è tutta la possibile gamma delle immagini familiari e delle ‘storie d’amore’, attraverso (per citare solo i più famosi) The Best Years of Our Lives (I migliori anni della nostra vita, 1946) di Wyler, All I Desire (Desiderio di donna, 1953) di D. Sirk, East of Eden (La valle dell’Eden, 1955) di Kazan, Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, 1955) di Ray, All That Heaven Allows (Secondo amore, 1956) di Sirk, Giant (Il gigante, 1956) di Stevens, Hilda Crane (Paura d’amare, 1956) di Philip Dunne, Picnic, 1956 di Joshua Logan, There’s Always Tomorrow 61

(Quella che avrei dovuto sposare, 1956) di Sirk, No Down Payment (Un urlo nella notte, 1957) di Martin Ritt, Peyton Place (Peccatori di provincia, 1957) di Mark Robson, Some Came Running (Qual­ cuno verrà, 1958) di Minnelli, Imitation of Life, 1959 di Sirk, A Summer Place (Scandalo al sole, 1959) di Delmer Daves, Dark at the Top of the Stairs (Il buio in cima alle scale, 1960) di Delbert Mann, Parrish (Vento caldo, 1961) di Daves. Il melodramma tende verso il realismo e la critica sociale, i sentimenti e i desideri trasgressivi si scontrano con le convenzioni, l’amore si contrappone alla carriera, al successo, alla ricchezza: è la tematica su cui si basano altri melodrammi, come Executive Suite (La sete del potere, 1955) di Robert Wise, Lucy Gallant, 1955 di Henry Koster, Ten North Frederick (Un pugno di polvere 1958) di Dunne, The Young Philadelphians (I segreti di Filadelfia, 1959) di Vincent Sherman e From the Terrace (Dalla terrazza, 1960) di Robson. In questi melodrammi degli anni cinquanta — lo aveva già anticipato Leave Her to Heaven — vi è una presa di possesso degli spazi che, come nella sophisticated comedy, privilegiano la “scena” degli interni borghesi e domestici, spazi chiusi ma infiniti, dove si realizzano i destini affettivi e familiari dei personaggi che li abitano e li custodiscono. E che possono custodirli molto male, come in Baby Doli', oppure con opulenza ed eleganza old fashion, come in Giant, in The Cat on a Hot Tin Roof o in Written on the wind', può essere un interno modesto e piccolo-borghese, come in Rebel Without a Cause o Bigger Than Life', oppure fastoso, chiuso e soffocante come in Caught, in Ten North Frederick o in Hilda Crane. Tutte queste mansion, questi interni arredati, questi studi, salotti, camere da letto, ma anche ristoranti, come quelli di Imitation of life di Stahl, di Mildred Pierce e di Flamingo Road, o negozi come quelli di Lucy Gallant e di Peyton Place, o cliniche come quelle di Magnificent Obsession e di The Cobweb, tutte queste stanze riempiono lo spazio del melodramma, sono veri e propri ‘luoghi

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della passione’ che ‘recitano’, tanto quanto gli attori, e dove le passioni sono raccolte, custodite e improvvisamente esplodono, con l’evidenza del desiderio tragico e travolgente o la verità di amori assoluti e innocenti. Come ci ricorda la frase che dice Madge (Kim Novak) alla madre in Picnic: «Non si ama qualcuno perché è perfetto», che la porterà dritta tra le braccia dell’inconcludente, scapestrato, bellissimo Hai (William Holden); come dichiara, nella sua ingenuità di angelo travestito da sgualdrina, Ginny (Shirley MacLaine.), al distratto e affascinante Dave (Frank Sinastra): «lo ti amo, anche se non ti capisco» in Some Came Running: oppure come dice tristemente Jiggs (Jack Carson), l’innamorato respinto di The Tarnished Angels parlando della dolente Laverne (Dorothy Malone): «Che cosa posso fare? Io so solo amarla». Frasi che definiscono il melodramma come il luogo in cui l’uomo e la donna si attraggono secondo strutture definite, monumentali, assolute, al contrario della promiscuità, dell’ambiguità e del gioco sessuale della sophisticated comedy, dove tutto è relativo, incerto, traballante. Frasi che sottolineano come l’amore sia tutto e contenga tutto. Ciò è evidente ancora di più quando il melodramma informa la struttura profonda di altri generi, come in western quali Duel in the Sun (Duello al sole, 1946) di Vidor, The Sea of Grass (Mare d'erba, 1947) di Kazan, Johnny Guitar, 1954 di Ray e The Big Country (Il grande paese, 1958) di Wyler. In questi film infatti ciò che conta veramente non è il conflitto tra cowboy e agricoltori, tra proprietari terrieri e nuovi coloni, tra il passaggio della ferrovia e il pascolo per il bestiame, ma la passione tra Lewt (Gregory Peck) e Pearl (Jennifer Jones) in Duel in the Sun: tra il Colonnello (Spencer Tracy) e Lutie (Katharine Hepburn) in The Sea of Grass; tra Johnny (Sterling Hayden) e Vienna (Joan Crawford) in Johnny Guitar; tra Jim (Gregory Peck) e Julie (Jean Simmons) in The Big Country. Allora il melodramma deborda dal Western e piega il genere di superficie, come in The Big Country, dove i conflitti si snodano in mezzo a un territorio immenso e deserto, questo big 63

country dove nulla sembra possa accadere e invece tutto accade: l’avventura delle passioni, del potere, dell’autorità. Il grande respiro del tema musicale si coniuga con la grande apertura del paesaggio e segna i passaggi in cui il melodramma succhia il western, e i conflitti familiari, le rivalità edipiche e le passioni amorose — ad esempio quella di Steve (Charlton Heston) per Pat (Carrol Baker) — divorano anche la rivalità per il possesso della terra, dell’acqua e del bestiame. Mentre sullo sfondo, si gioca, all’ultimo sangue, tra i due grandi vecchi, il Maggiore Terrill (Charles Bickford) e Rufus Hannassey (Burl Ives), il potere patriarcale, l’autorità. In un mondo dove lo spazio, anche se immenso, ormai può contenere solo Jim e Julie, così come può contenere solo Jesse (Joseph Cotten) ed Helen (Joan Tetzle) in Duel in the Sun, le nuove coppie che si formano dopo la morte dei padri. Qualcuno deve sempre morire perché qualcosa di nuovo possa nascere. E infatti la caratteristica profonda del melodramma basarsi sempre su un doppio registro, in cui una cosa lascia il posto o si oppone a un’altra sopravvivendovi però oscuramente, secondo la ‘logica’ dell’unità degli opposti. E così che il vecchio lascia il posto al nuovo: l’incontro porta alla separazione, il matrimonio conduce all’adulterio, la verità si trasforma in menzogna, l’avventura si oppone alla monotonia, la tranquillità alla violenza, la nascita alla morte; l’odio nasconde l’amore, l’indiffe­ renza cela il desiderio e infine la manipolazione rivela la verità. Come sapevano i grandi registi dei melodrammi hollywoodiani, a volte la manipolazione «è il modo, per l’artista, di rivelare la verità»18.

’• P. Lloyd, Some affairs to remember: the style of Leo McCarey, in «Monogram», 4, 1972.

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Storie di rumore e furore. Osservazioni sul melodramma familiare Thomas Elsaesser

A una domanda sul colore di Written on the Wind, Douglas Sirk ha risposto: «Per quasi tutto il film ho usato lenti defocus (sfocanti) che hanno l’effetto di dare rigore, ruvidità all’oggetto e ai colori una specie di superfice smaltata, dura. Ho voluto fare così per tirar fuori la violenza interiore, l’energia che è nascosta dentro i personaggi e può scoppiare». Sarebbe difficile trovare un modo migliore per descrivere l’argomento di cui si occupa questo film in particolare e la maggior parte dei migliori melodrammi degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta. Oppure per spiegare quanto, nei film di alto livello, lo stile e la tecnica siano strettamente connessi con il tema. Le presenti annotazioni intendono seguire un argomento elusivo in due direzioni: indicare lo sviluppo di ciò che si potrebbe chiamare l’immaginazione melodrammatica, attraverso forme arti­ stiche e epoche differenti e, secondariamente, seguire la tentazione proocata dall’osservazione di Sirk, che spinge a cercare costanti strutturali e stilistiche in un medium durante un periodo particolare (il melodramma familiare hollywoodiano all’incirca tra il 1940 e il 1960) e a riflettere sul contesto culturale e psicologico che questa forma di melodramma rispecchiava e contribuiva a delineare. Tuttavia questo non è uno studio storico in senso stretto, né un ‘catalogo ragionato’ di nomi e titoli, per motivi che dipendono sia dal mio metodo generale sia dalle ovvie limitazioni di una ricerca

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condotta senza poter contare sulla disponibilità della maggior parte dei film, e mi devo appoggiare piuttosto pesantemente su una mezza dozzina di film, soprattutto su Written on the Wind., per sviluppare le mie idee. Detto questo, non vedo come si potrebbe rendere la discussione più fedele facendo riferimento ad altri venti film, dato che quello che vorrei dire, a questo punto, va preso per venir provocato, piuttosto che provato. Tenendo conto che tutti hanno una certa idea di che cosa si intende per ‘melodrammatico’ (nonostante gli scrupoli su un’esatta definizione), qualsiasi discussione sul melodramma come modulo espressivo cinematografico specifico deve partire dai suoi antece­ denti — il romanzo e certi tipi di teatro ‘spettacolare’ — da cui sceneggiatori e registi hanno derivato i propri modelli. La prima cosa che si nota è che le forme letterarie e di massa che hanno rappresentato situazioni melodrammatiche sono cambiate considerevolmente nel corso della storia, e che, inoltre, sono diverse da paese a paese: in Inghilterra, i motivi melodrammatici continuano ad affiorare soprattutto nel romanzo e nella letteratura gotica (benché il teatro vittoriano, specialmente negli anni ottata c novanta del secolo scorso, avesse assistito a una moda senza precedenti dei melodrammi di R. Buchanan e G.R. Sims, opere in cui «un ponticello sopra un torrente si spezza sotto i passi del malvagio, un pezzo di muro gli casca addosso, una caldaia scoppia e lo riduce in briciole»1); in Francia è il dramma in costume e il romanzo storico; in Germania, è il teatro di alto livello e la ballata,1

1 A. Filon, The English Stage, London, 1897. Filon offre anche una interessante definizione del melodramma: «Occupandomi in Irving, posi la questione spesso discussa se andiamo a teatro per vedere una rappresenta­ zione della vita o per dimenticare la vita e cercare sollievo uà essa. Il melodramma risolve il problema e dimostra che entrambe le teorie sono giuste, nel soddisfare tutti e due i desideri, in questo esso offre il massimo del realismo nelle scene e nel linguaggio insieme con i sentimenti e gli avvenimenti più inconsueti».

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e anche le forme più popolari come la Moritat (racconto di cantastorie); infine, in Italia il grado più sofisticato nella manipola­ zione di situazioni melodrammatiche fu raggiunto dall’opera piut­ tosto che dal romanzo. La genealogia è divisa in due correnti. Una di esse deriva dalla morality play del tardo medioevo, dalle gestes popolari e da altre forme di narrazione orale e di teatro, come le fiabe e le canzoni popolari all’epoca del loro revival romantico e il culto del pittore­ sco in Scott, Byron, Heine e Victor Hugo, che trova una rozza eco nelle canzoni da organetto, nel music-hall e in ciò che in Germania si chiama Bànkellied, che ha raggiunto una tarda dignità letteraria attraverso le canzoni di Brecht e le sue opere musicali come L'opera da tre soldi e Mahagonny. Gli elementi caratteristici che ci interes­ sano in questa tradizione non sono tanto le tattiche emozionali per produrre shock e l’evidente giuoco sulle simpatie e le antipatie del pubblico, ma piuttosto il concetto non psicologico di dramatis personae, che appaiono meno come individui autonomi che non per trasmettere l’azione e collegare i diversi luoghi all’interno di una costellazione totale. Sotto questo aspetto i melodrammi hanno una funzione mitizzante in quanto la loro importanza sta nella struttura e nell’articolazione dell’azione, non in una qualsiasi corrispondenza psicologicamente motivata con l’esperienza individuale. Tuttavia, ciò che contraddistingue la ballata o il Bànkellied, cioè le narrazioni accompagnate da musica, è che l’esempio più morali­ stico che fornisce il contenuto primario (crimini passionali vendica­ ti col sangue, assassini impazziti e tormentati dalla colpa che si lasciano annegare, cattivi che rapiscono i bambini e madri poco amorose, servi che uccidono i loro ingiusti padroni) è soffocato non solo da una proliferazione di ‘realistici’ dettagli familiari, ma è anche ‘parodiato’ o relativizzato dalla forma in versi pesantemente ripetitiva o dai ritmi meccanici dell’organetto, ai quali la voce dello stesso cantore si adatta (più o meno coscientemente), in modo da produrre un parallelismo vocale che ha un effetto distanziante o ironico, al punto di intersecare spesso la morale della storia con

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un’enfasi ‘falsa’, ossia non sintattica. Il melodramma tedesco di Sirk che ha riscosso maggior successo, Zw neuen Ufem, fa un ottimo uso della ballata da cantastorie per dar rilievo alla tragica ironia della scena nella sala d’udienza, e il tono assunto da Walter Brennan nel suonare l’armonica in Ruby Gentry di King Vidor funziona in modo molto simile. Una variante a ciò è l’uso di scene di fiere e di giostre in film come Some Came Running e Tarnished Angels, oppure, più consapevolmente, in Hitchcock (Strangers on a Train, Stage Fright) e Welles (Lady from Shanghai e The Stranger) per sottolineare l’azione principale e allo stesso tempo ‘attenuare’ l’impatto melodrammatico fornendo un parallelo ironico. Sirk usa ripetutamente un motivo, si veda anche Scandal in Paris e Take Me to Town. Quel che dimostrano tali espedienti è che nel melodram­ ma il ritmo dell’esperienza si pone spesso contro il suo valore (morale, intellettuale). Forse la corrente che conduce più direttamente al sofisticato melodramma familiare degli anni quaranta e cinquanta deriva tuttavia dal teatro romantico che ebbe il periodo di massimo splendore dopo la rivoluzione francese e fornì in seguito molte trame per opera, ma che è anch’esso impensabile senza il romanzo sentimentale del XVIII secolo e l’enfasi posta sui sentimenti privati e i codici interiori (puritani, pietisti) di moralità e coscienza. Storicamente, un fatto interessante di questa tradizione è che la sua massima popolarità sembra coincidere con periodi di intensa crisi sociale e ideologica (e ciò rimane vero per tutto il XIX secolo). Il romanzo sentimentale pre-rivoluzionario — Clarissa di Richardson o La nouvelle Héloise di Rousseau, per esempio — compie alcune deviazioni per dar luogo a forme estreme di comportamento e di sentimento mostrando molto esplicitamente certe costrizioni e pressioni esterne che gravano sui personaggi e mettendo in luce la violenza quasi totalitaria perpetrata dal (l’agente del) ‘sistema’ (Lovelace che fa di tutto per indurre la famiglia di Clarissa ad assumere mezzane, prostitute e rapitori di bambini per convincere la ragazza a diventare sua moglie con l’unico risultato di doverla poi 68

violentare). Lo stesso modello si può ritrovare nelle tragedie borghesi di Lessing (Emilia Galotti, 1768) e nel primo Schiller (Kabale und Liebe, 1776), che derivano entrambe la propria forza drammatica dal conflitto fra una forma estrema e assai individuale di idealismo morale del protagonista (di nuovo non psicologica a livello della motivazione) e una classe sociale totalmente corrotta seppure apparentemente onnipotente (costituita da principi feudali e insignificanti funzionari di stato). Gli elementi melodrammatici sono chiaramente evidenti nelle trame, che si svolgono attorno a relazioni familiari, innamorati con corrisposti e matrimoni forzati. I malvagi (spesso nobili), dimostrano invariabilmente la superiorità del loro potere politico e economico con aggressioni sessuali e tentati rapimenti, lasciando all’eroina l’unica alternativa del suicidio e di avvelenarsi insieme all’amante. Il ‘messaggio’ ideologico di tali tragedie, come nel caso di Clarissa, è trasparente: esse registrano la lotta di una coscienza borghese moralmente e emotivamente eman­ cipata contro i resti del feudalismo; pongono il problema in termini politici e si concentrano sulla complessa interpolazione di princìpi etnici, polarità religioso-metafisiche e aspirazioni idealistiche della borghesia nella sua fase militante, quando il protagonista viene a trovarsi in un labirinto di necessità economiche, di Realpolitik, di diritti di famiglia, a causa dell’abuso di privilegi aristocratici da parte di un’autorità assolutista ancora consacrata da Dio e per questo doppiamente depravata. Benché queste tragedie e questi romanzi, per l’uso di una trama melodrammatico-emozionale solo al livello più elementare appar­ tengono alle forme melodrammatiche minori, l’elemento dell’inte­ riorizzazione e personalizzazione dei conflitti che sono in primo luogo ideologici, insieme alla interpretazione metaforica del con­ flitto di classe come sfruttamento e violenza sessuale è importante in tutte le forme successive del melodramma, incluse quella cinema­ tografica (quest’ultima in America, naturalmente, è un repertorio di romanzi e film ambientati negli stati del Sud). Paradossalmente, la rivoluzione francese non riuscì a produrre 69

una nuova forma di dramma sociale. Il teatro della restaurazione (quando a Parigi i teatri avevano autorizzazioni particolari per mettere in scena ‘melodrammi’) rese banale questa forma facendo uso di trame melodrammatiche in ambientazioni esotiche e offren­ do spettacoli di evasione di poca rilevanza sociale. I palcoscenici rappresentavano il motivo riccorente della narrativa e della dram­ maturgia francese del XVIII secolo, quello dell’innocenza persegui­ tata e della virtù salvata e le convenzioni del melodramma funzio­ navano nella loro forma più arida di meccanismo di semplice suspense; non diversamente oggi film come Blind Terror di Flei­ scher segnano il declino del giallo psicologico verso un’owietà totale. Quello che prima della rivoluzione era servito a evidenziare la sofferenza e la vittima — le rivendicazioni dell’individuo in una società assolutista — venne ridotto a schegge di vetro nella minestra, fazzoletti avvelenati e salvataggi all’ultimo minuto da un colpo di pugnale. I rovesci improvvisi del destino, l’introduzione del caso e della coincidenza volevano inizialmente mostrare il modo arbitrario in cui le istituzioni feudali potevano rovinare l’individuo non protetto da diritti e libertà civili. Il sistema veniva accusato di avidità, ostinazione e arbitrarietà, dalle sofferenze della pura vergi­ ne simile a Cristo e dall’eroismo disinteressato del giusto, al centro degli intrighi di corte e di un’indifferenza coriacea. Adesso, con il trionfo della borghesia, questa forma teatrale perdeva la sua carica sovversiva e assumeva la funzione di consolidamento di una posizione ideologica fino ad allora debole e incoerente. Mentre i melodrammi pre-rivoluzionari finivano spesso tragicamente, quelli della restaurazione erano a lieto fine, riconciliavano chi soffriva con il proprio ruolo sociale, dando riconoscimento a una società ‘aperta’, dove tutto era possibile. Sempre più la vittoria del ‘buon’ cittadino sui ‘cattivi’ aristocratici, sui viscidi uomini di chiesa e ancor più sui malvagi venuti dal proletariato degli straccioni, era riproposta in una visione sentimentale piena di lacrime e di elevati toni morali. Complessi processi sociali erano semplificati accusan­

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do la cattiva disposizione degli individui oppure manipolando l’intreccio e costruendo coincidenze e altri dei ex machina, come l’istantanea conversione del malvagio, commosso dalla condizione della sua vittima, o colpito improvvisamente dalla grazia divina sui gradini di Nótre Dame. Dal momento che è del tutto evidente la strategia ‘apertamente’ conformista di tale drammaturgia, ciò che interessa non è certo la struttura dell’intreccio, ma se le convenzioni autorizzassero l’auto­ re a rappresentare nei suoi episodi le contraddizioni effettive della società e veri e propri conflitti di interesse tra i personaggi. Già durante la rivoluzione, opere come Les victimes clóitrées di Monvel o L'ami des lois di Laya, pur costruite su intrecci molto stereotipati, esprimevano ben definite simpatie politiche (la seconda, per esem­ pio, spalleggiava i girondisti moderati nel processo di Luigi XVI contro i giacobini) e come tali venivano recepite dal pubblico2. Per quanto la forma potesse funzionare per ribadire atteggiamen­ ti di sottomissione, nondimeno l’effettiva elaborazione delle scene riusciva a rappresentare fondamentali mali sociali. Molte opere lusingavano addirittura le platee dando al cattivo le battute più divertenti, proprio come il cast vittoriano di Drury Lane era spesso ravvivato da parodie all’apertura del sipario e da farse durante gli intervalli. Tutto questo per dire che il melodramma sembra affetto da una ambiguità radicale, che è ancor più evidente nel melodramma cinematografico. A seconda che l’enfasi sia posta sull’odissea di sofferenze o sul lieto fine, e secondo dove e in quale contesto avvenga il cambiamento repentino (la conversione morale del malvagio, l’inaspettata apparizione del benevolo monaco cappucci­ no che si libera del suo camuffamento da mezzano), cioè, a seconda della distanza raggiunta prima della fine dei pericoli che l’eroina ha

2 Si veda J. Dauvignaud, Sociologie du theatre, Paris, 1965, IV, 3 «Theatre sans revolution, revolution sans theatre».

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corso (e basta pensare alla Justine di Sade per capire che cosa poteva venir fuori dall’innocenza priva di protezione...) il melodramma sembra funzionare o come sovversione o come fuga — categorie che sono sempre relative a un dato contesto storico e sociale. Nel cinema, Griffith è un buon esempio. Adoperando gli stessi espedienti drammatici e tecniche cinematografiche, egli seppe crea­ re, con Intolerance, Way Down East o Broken Blossoms, melo­ drammi, se non precisamente sovversivi, comunque illuminati e socialmente impegnati, mentre Birth of a Nation e Orphans of the Storm sono classici esempi di come gli effetti melodrammatici possano far slittare temi esplicitamente politici su livelli personaliz­ zati. In entrambi i casi, Griffith ha rivestito conflitti ideologici della carica emotiva di situazioni familiari. La continuità del melodramma potrebbe indicare in che modo la cultura popolare non soltanto ha preso nota delle crisi sociali e del fatto che non sempre i perdenti meritano di esserlo, ma ha anche rifiutato risolutamente di percepire il cambiamento sociale in contesti che non fossero privati ed emotivi. In questo c’è ovviamen­ te una sana sfiducia nell’intellettualizzazione e nella teoria sociale astratta — che ribadisce che le altre strutture dell’esperienza (quelle della sofferenza, ad esempio) sono più aderenti alla realtà. Ma ciò ha anche significato una deplorevole ignoranza delle vere dimensio­ ni sociali e politiche di tali cambiamenti e delle loro cause, e di conseguenza ha sempre più incoraggiato forme d’evasione di intrattenimento di massa. Comunque, questa ambivalenza circa le «strutture» dell’espe­ rienza, innate nel melodramma, è servita agli artisti per tutto il XIX secolo a descrivere una varietà di temi e di fenomeni sociali pur rimanendo nella sfera idiomatica popolare. L’industrializzazione, l’urbanizzazione e il nascente capitalismo imprenditoriale hanno trovato la loro più eloquente incarnazione in un tipo di romanzi che doveva molto al melodramma, e i liberali nazionali in Italia, per esempio, durante il Risorgimento, sembravano vedere le proprie aspirazioni politiche nelle opere di Verdi (si veda l’inizio di Senso di

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Visconti). In Inghilterra, Dickens, Collins e Reade si basarono molto su intrecci melodrammatici per acutizzare i conflitti sociali e ritrarre un ambiente urbano in cui gli incontri casuali, le coinciden­ ze e la coesistenza di estremi contrasti sociali e morali erano il prodotto naturale delle condizioni di vita stesse — case operaie affollate, vicoli addossati al migliore quartiere residenziale e altri fenomeni di demografia urbana del tempo. In particolare Dickens usa l’elemento del caso: l’alternarsi di sogno e veglia, orrore e felicità di Oliver Twist e di Tale of two Cities, spinge in parte a rintracciare il suo percorso verso un ritratto dell’insicurezza esi­ stenziale e dell’angoscia morale mai tracciato dalla narrativa prima di allora, ma anche a esplorare fenomeni della psicologia del profondo, per i quali il melodramma — come Freud avrebbe più tardi confermato — ha fornito i motivi dinamici ed emozionali. Quel che mi sembra importante in questa forma di melodramma (e si arriva a concezione simile nei sofisticati melodrammi hollywoo­ diani) è l’accento posto da Dickens sulla discontinuità, sull’eviden­ za di stabilizzazioni e strappi nel tessuto dell’esperienza, e l’appello a una realtà della psiche, a cui le nozioni di cambiamento repentino, rovesciamento e eccesso conferiscono una plausibilità simbolica. In Francia sono le opere di Sue, Hugo e Balzac a riflettere più da vicino la relazione tra melodramma e agitazioni sociali. Sue, per esempio, fa uso di logori trabocchetti da teatro di cappa e spada per un giornalismo esplicitamente sensazionalista, eppure impegnato. In forma popolare, e reso gradevole dal trattamento narrativo, il suo Mystères de Paris voleva combattere su temi come la salute pubblica, la prostituzione, il sovraffollamento e gli slum, la corru­ zione negli ambienti di governo, l’oppio e il gioco. Sue sfruttò una forma ‘reazionaria’ per scopi riformisti e il suo successo che fu sia letterario che pratico provò che aveva ragione. Trent’anni dopo Victor Hugo, che aveva imparato tanto da Sue quanto Sue aveva saputo trarre da Nò tre Dame de Paris, con Les Misérables creò un spettacolare supermelodramma che è da considerarsi come il coro­ namento di tale genere di romanzo. La carriera di Jean Valjean, da 73

forzato e galeotto a industriale e capitalista, la sua caduta e il suo riemergere letteralmente dalle fogne di Parigi per diventare un attivista in certo modo involontario della rivoluzione del ’48, è messa in scena avvalendosi di false identità, di orfani che scoprono improvvisamente la loro nobile nascita, l’inopportuna apparizione di persone credute morte da tempo, fughe e salvataggi per miracolo, travestimenti multipli, sofferenti personaggi femminili che muoio­ no di consunzione o vagano per giorni alla ricerca del loro bambino — eppure, con tutto questo Hugo esprime una visione allucinante dell’ansia, della* confusione morale, delle esigenze emotive, in breve, la metafisica del cambiamento sociale e della vita urbana tra Waterloo e il 1848. Evidentemente Hugo voleva raccogliere in una forma popolare le esperienze di crisi soggettiva, ma sulla traccia delle grandi linee della storia francese, ed egli riuscì singolarmente bene a riprodurre i modi in cui individui di diversa provenienza sociale e con differenti livelli di consapevolezza e immaginazione,

J Circa la funzione ideologica dei melodramma vittoriano del XIX secolo, si veda M.W. Disher: «persino nei varietà di infimo ordine e nei saloon, il melodramma insisteva talmente sul riguardo da usare con chi osservava la legge, che adesso i sociologi vi ravvisano un piano machiavellico per mantenere la democrazia servile alla Chiesa e allo Stato [...]. Non c’è divisione tra le due correnti, morale e politica, nella raffigurazione delle masse del XIX secolo. La democrazia determinò i propri spettacoli in un periodo in cui la moda della Virtù Trionfante era all’apice e i modelli furono tratti da lì Ecco gli errori che seguono la Virtù Trionfante: confusione tra sacro e profano, tra progresso mondano e spirituale, tra interesse e sacrificio» (Blood and Thunder, London, 1949, pp. 13-4). In ogni caso si dovrebbe ricordare che esistono tradizioni melodrammatiche al di fuori della concezione puritano-democratica: paesi cattolici, come la Spagna, il Messico (cfr. i film messicani di Bunuel) hanno una grande eredità melodrammatica, basata sui temi dell’espiazione e della redenzione. I melodrammi giapponesi sono stati ‘superiori’ fin dalle storie di Monogatari del XVI secolo, e nei film di Mizoguchi (O Haru, Shinheike Monogatari) essi raggiungono una sublimazione stilistica che ha per rivali soltanto i migliori melodrammi hollywoodiani.

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rispondono ai cambiamenti oggettivi nel tessuto sociale delle loro esistenze. Per far questo il melodramma, con i suoi cambiamenti di umore, i suoi differenti tempi e la commistione di livelli stilistici è l’ideale: Les Misérables, ancor più dei romanzi di Dickens, si apre a una dimensione simbolica della realtà psichica, dove il personaggio rappresenta di volta in volta con molta fedeltà l’es, il super-io e infine l’ego sacrificato di una società paranoica e repressa. Balzac, dall’altro lato, usa gli intrecci melodrammatici a fini piuttosto diversi. Moki dei suoi romanzi si occupano della dinami­ ca dell’economia neocapitalista. La dicotomia bene/male è quasi scomparsa, e i conflitti manichei si sono spostati dalle questioni morali ai paradossi della psicologia e dell’economia. Egli ci mostra una battaglia schopenaueriana della volontà e la crudeltà di impren­ ditori e banchieri, la visione di un’aristocrazia sradicata e ‘decaden­ te’ che conserva ancora un terribile potere politico, gli improvvisi mutamenti della fortuna con parassiti buoni a nulla che diventano milionari da un giorno all’altro (o viceversa) con la speculazione e il gioco in borsa, le stramberie di parassiti, parvenu e cinici intellet­ tuali-artisti, la potenza demonica, affascinante del denaro e del capitale, i contrasti tra una povertà abissale e una incredibile dovizia e sperpero che hanno caratterizzato la fase ‘anarchica’ dell’indu­ strializzazione e dell’alta finanza, tra le altre cose che Balzac sentiva come vitali e insieme melodrammatiche. La sua opera riflette tutto ciò più nello stile e nell’intreccio che nel commento. Per riassumere: tutti questi scrittori concepivano il melodramma come una forma portatrice dei propri stessi valori che già di per sé costituiva un contenuto significativo, serviva come equivalenza letterario di un particolare modo di vivere l'esperienza., condiziona­ to sia socialmente che storicamente. Benché le situazioni e i sentimenti non corrispondessero a alcuna categoria di verosimiglianza e differissero totalmente dalla vita reale, la struttura possedeva vita e verità proprie, che un artista poteva adoperare. Ciò significava che chi adottava consapevolmen­ te tecniche’ melodrammatiche di rappresentazione non necessaria­

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mente era competente, né si poneva a una distanza cinica, ma, nell’introdurre un insieme di tecniche all’interno di un principio psicologico che aveva gli inconfondibili toni di una crisi spirituale, riusciva à toccare con mano il tessuto della propria materia sociale e umana, pur rimanendo libero di dare a tale materia qualsiasi forma scegliesse. Infatti non c’è dubbio che tutta la visione della vita nell’Europa e nell’Inghilterra del XIX secolo, e soprattutto i problemi spirituali dell’epoca fossero concepiti spesso sotto catego­ rie che noi oggi chiameremmo melodrammatiche — lo si può vedere nella pittura, nell’architettura, negli ornamenti degli acces­ sori e dei mobili, nella messinscena pubblica e domestica in particolari eventi e occasioni, nell’oratoria parlamentare, nella retorica religiosa come nelle manifestazioni di fede più private. Allo stesso modo i temi immortali continuamente proposti da Dostoev­ skij nei suoi romanzi — colpa, redenzione, giustizia, innocenza, libertà — sono resi specifici e storicamente reali, tra l’altro, perché egli fu un grande scrittore di scene e incontri melodrammatici che definiscono più d’ogni altra cosa la potente e irrazionale logica presente nella motivazione e nella prospettiva morale di Raskolni­ kov, per esempio, Ivan Karamazov o di Kirilov. Infine, quanto sarebbero diversi i romanzi di Kafka se non contenessero quelle melodrammatiche situazioni di famiglia, spinte fino al punto in cui rivelano una dimensione tragica e assurda allo stesso tempo — forse la forza trainante esistenziale di ogni vero melodramma.

Il «melos» nel «drama»

In senso letterale, il melodramma è una forma narrativa in cui l’accompagnamento musicale sottolinea i momenti di emozione. Questa forse rimane ancora la definizione più utile, perché permet­ te di vedere gli elementi melodrammatici come parti costituenti di un sistema di interpunzione che dà intensità espressiva e contrasto cromatico alla storia, orchestrando gli alti e bassi emotivi dell’in­ 76

treccio. Il vantaggio di questo approccio è che esso formula i problemi del melodramma come problemi di stile e articolazione. La musica nel melodramma, per esempio, come uno dei tanti espedienti per rendere drammatica una certa narrazione, è soggetti­ va, a programma, *à la Debussy’. Ma siccome è anche una forma di punteggiatura nel senso esposto poc’anzi, essa è sia funzionale (cioè ha un’importanza strutturale) sia tematica (cioè appartiene al contesto espressivo) perché è usata per formulare certi stati d’animo — dispiacere, violenza, terrore, tensione, felicità.La funzione sin­ tattica della musica, si sa, è rimasta nel film sonoro, e gli esperimen­ ti condotti da Hanns Eisler e Theodor W. Adorno sono molto illuminanti su questo aspetto4. Una dimostrazione più pratica del problema si può averee dal resoconto quasi farsesco dato da Lilian Ross su come Gottfried Reinhard e il suo compositore confabulano su Red Badge of Courage di John Huston per dare al film un aspetto dolcemente drammatico, con aggiunte e crescondo che si alternavano con ordine, il che era esattamente quello che Huston aveva voluto evitare quando girò il film5. Che lo statuto di parole e sintassi della musica o del suono naturale possa essere usato nel discorso cinematografico a fini non melodrammatici è provato dal cinema europeo (per quanto io escluderei Eisenstein il cui impiego della musica tende a essere melodrammatico); le tecniche di Sjòstrom e Dreyer hanno condot­ to, via Bresson, a Godard, Straub e altri che hanno sistematicamen­ te esplorato la possibilità di una dialettica suono/immagine. Fino a che punto, comunque, i loro film si possano ancora definire drammatici, è un’altra questione. La stessa ambiguità, di essere cioè parte sia della forma che del contenuto, si può trovare in un altro sistema di punteggiatura melodrammatica primitiva (spesso non riconosciuta come tale),

4 H. Eisler, Composing for Film, London, 1951. 5 L. Ross, Picture, London, 1958.

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precisamente nella descrizione morale in bianco e nero dei perso­ naggi — il malvagio, l’eroe, l’innocente abbandonata, il falso amico, il padre dispotico. Soltanto se si insiste a cercare individui psicolo­ gicamente motivati secondo un criterio estetico dominante essi sembrano semplicistici. Gran parte della letteratura mondiale, da Omero e Boccaccio a Rabelais e Molière è semplicista in questo senso. Ma può darsi che quel che rifiutiamo come crudo moralismo non sia esclusivamente tematico e appaia più eloquente se si considera in termini di opposizioni strutturali e variazioni ritmiche. Già in Griffith e Stroheim i semplici dualismi dei contrasti morali sono spesso minati sottilmente da paralleli strutturali. Per esempio, le metafore gatto-uccello in Greed appaiono alquanto complesse nel loro intersecare l’opposizione tra Trina e McTeague, e c’è un’inquadratura in cui Trina strizza sbadatamente lo straccio da cucina e poi riassorbe l’acqua rapidamente, appena sa cheMcTeague ha perso la propria licenza di dentista, il che corrisponde a una metafora dialettica della sua personalità: impulsiva sotto la sua docilità, ipocrita nella sua avidità. Dopo avr prosciugato del tutto McTeague, vuole avere per sé ogni cosa. Forse queste tecniche si possono generalizzare: se si vedono l’eroe e il malvagio, ad esempio, compiere azioni banali di questo genere (lavarsi le mani, mangiare un uovo fritto) il confronto apparentemente insignificante (visivo) aiuterà a modificare il conte­ sto importantissimo (morale). Un parallelismo a livello dell’intrec­ cio manifesto o della suspense (un’azione ripetuta a un punto enfaticamente drammatico — l’eroe e il malvagio che se ne vanno sbattendo entrambi la porta, o che oltrepassano lo stesso angolo della strada inseguendo affannosamente l’eroina) tenderà, d’altra parte, a rinforzare il contrasto morale. Griffith fa uso del montag­ gio incrociato in tutti e due i sensi. Ciò illustra un principio che si potrebbe chiamare contrappunto cinematografico: nell’ultimo esempio i mezzi stilistici, cioè il registro minimo di punteggiatura (montaggio parallelo, incrociato, ripetizione, accompagnamento musicale), servono a intensificare la

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linea melodica del registro superiore (la storia, l’intreccio); nel caso precedente, le stesse tecniche sono usate per costruire una diversa linea ‘controcorrente’ che, se viene ampiamente sviluppata, si può costituire essa stessa come tema, a buon diritto. La differenza è nello stile, nell’enfasi o nel ‘tocco morbido dei pedali’, nel modo di raccontare. E uno dei sistemi con cui i film americani hanno sempre saputo ‘contraddire’ o sovvertire il pro­ prio intento morale manifesto o la loro inclinazione ideologica. Questo è particolarmente importante quando si parla del melo­ dramma a lieto fine, perché la controcorrente stilistica è spesso talmente forte da rendere la storia e la sua soluzione stridenti fra loro, per mezzo di una sorta di insita resistenza al loro ottimismo — se si guarda più attentamente. Tutto il cinema drammatico, per il fatto di doversi basare sull’accompagnamento del pianoforte, è ‘melodrammatico’, da True Heart Susie a Foolish Wives a The Lodger. I registi dovevano sviluppare un linguaggio formale estremamente sottile seppure preciso (per quanto riguardava la recitazione, l’illuminazione, le scenografie, i primi piani, il montaggio e i movimenti di macchina), perché cercavano deliberatamente il modo di sostituire l’espressivi­ tà, la varietà di inflessioni e tonalità, l’accento ritmico e la tensione normalmente presenti nel discorso orale. Dovendo compensare la mancanza di quella parte del linguaggio che è fenomeno sonoro capace di modulazioni quasi illimitate con valori pittorici e dinami­ ci insiti nel mezzo cinematografico, registi come Murnau, Hitch­ cock, Renoir, Mizoguchi, Hawks, Lang, Sternberg, hanno ragginto nei loro film un alto livello (che fu subito riconosciuto) di plasticità nell’alternanza di piani ottici e quantità di spazio che Panofsky ha giustamente identificato con una «dinamizzazione dello spazio». Tra i registi meno dotati, questa sensibilità per lo sviluppo dei mezzi espressivi fu in parte perduta con l’avvento del sonoro, poiché non sembrava più necessaria in senso strettamente tecnico: i film ‘agivano’ sul pubblico attraverso il dialogo, e la forza semanti­ ca del linguaggio (di nuovo unita in langue e parole) sommergeva e

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oscurava i più sofisticati effetti pittorici e valori architettonici. Questo forse aiuta a spiegare il declino del melodramma in favore di film d’azione e di commedie (con la notevole eccezione di Borzage) e anche perché alcune tra le più importanti innovazioni tecniche come il colore, il grandangolo, la messa a fuoco in profondità, il carrello e il dolly, abbiano di fatto incoraggiato una nuova forma di melodramma sofisticato con registi (in buona parte importati dalla Germania negli anni trenta e altri chiaramente influenzati dall’espressionismo tedesco e dalle tecniche registiche di Max Reinhardt) che mostravano un tipo di educazione visiva simile a quello dei maestri del cinema drammatico muto: Ophiils, Lubitsch, Sirk, Preminger, Welles, Losey, Ray, Minnelli, Cukor. Come codice espressivo il melodramma potrebbe dunque venire descritto come una particolare forma di mise-en-scène drammatica, caratterizzata da un uso dinamico delle categorie spaziali e musicali, opposte a quelle intellettuali o letterarie. Alle situazioni drammati­ che è data un’orchestrazione che permetta l’entrata in complesse strutture estetiche: in effetti, l’orchestrazione è fondamentale per tutto il cinema americano (che è essenzialmente un cinema dram­ matico, spettacolare e basato su un vasto richiamo) perché ha portato alle conseguenze estetiche tali che il parlato risulta più come dimensione ‘melodica’ addizionale che come discorso seman­ tico autonomo. Che sia musicale o verbale, il suono agisce innanzi­ tutto per dare l’illusione della profondità dell’immagine in movi­ mento e, contribuendo a creare la terza dimensione dello spettaco­ lo, il dialogo diviene un elemento scenico, assieme agli altri mezzi registici più direttamente visivi. Chiunque abbia avuto la sfortuna di vedere un film americano doppiato saprà quanto è importante la dizione per la resa emozionale e la continuità drammatica. Il doppiaggio fa sì che il film migliore sembri visivamente piatto e fuori sincrono: distrugge il flusso su cui è costruito lo spettacolo illusionistico. Si sa che la plasticità della voce umana è usata deliberatamente dai registi per fini che sono spesso inerenti al tema: Hawks fece

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esercitare Lauren Bacall in modo che la sua voce avesse tratti maschili in To Have and Have Not, un effetto anticipato da Sternberg che ebbe gran cura di educare la dizione di Marlene Dietrich, ed è difficile dimenticare il significato psicoanalitico della voce di Robert Stack in Written on the Wind, dove sembrava che ogni parola dovesse essere pompata dal fondo di uno dei suoi pozzi di petrolio. Se è vero che nel cinema americano la langue perde in parte la propria importanza semantica (raramente trasmette idee) in favore dei suoi aspetti sonori, allora viceversa l’illuminazione, il montag­ gio, la scenografia ecc. (in altri contesti gli elementi più decorativi) contribuiscono maggiormente dal punto di vista sintattico e seman­ tico all’effetto estetico. Essi diventano parte del contenuto e della struttura, cioè diventano elementi integranti del significato. Questa è, naturalmente, la giustificazione per dare importanza primaria alla mise en scène piuttosto che al contenuto intellettuale o al valore del racconto. E anche il motivo per cui il melodramma domestico a colori e sul grande schermo, come apparve negli anni quaranta e cinquanta, è forse, nei migliori casi, la più elaborata, complessa tecnica di espressione cinematografica che il cinema americano abbia mai prodotto, a causa del ristretto campo d’azione esterna determinata dal soggetto, e perché tutto, come ha detto Sirk, accade «dentro». Alla ‘sublimazione’ dei film d’azione e del musical di Bubsy Berkeley e Lloyd Bacon in melodramma domestico e familiare corrispondeva una sublimazione dei valori drammatici nelle scene, nel colore, nella gestualità e nella composizione dell’in­ quadratura, che nei migliori melodrammi è perfettamente tematiz­ zata in termini di condizioni emotive e psicologiche dei personaggi. Per esempio, quando nel linguaggio comune chiamiamo qualcosa ‘melodrammatico’, intendiamo un esagerato fenomeno di ascesa e caduta nelle azioni umane e nelle reazioni emotive, un movimento dal sublime al ridicolo, un’abbreviazione del tempo vissuto in favore dell’intensità — il che dà luogo a un grafico con grandi escursioni, con curve da una estremità all’altra molto più veloci di 81

quelle che si considerano naturali, realistiche o conformi a standard letterari di verosimiglianza; sorseggiamo lentamente i piaceri che ci offre un romanzo piuttosto che trangugiarli, ma se si guarda, poniamo, a Minnelli, che ha adattato alcuni dei suoi melodrammi migliori (The Cobweb, Some Came Running, Home From the Hill, Two Weeks in Another Town, The Four Horsemen of the Apocalyp­ se) da romanzi popolari generalmente assai lunghi, pieni di dettagli (di James Jones, Irving Shaw e altri), è facile vedere come, nel procedimento con cui si deve ridurre un materiale di lettura che dura dalle 7 alle 9 ore a 90 minuti scarsi, viene inevitabilmente a prodursi un tale ‘grafico’ melodrammatico più violento, a meno che il tutto non diventi completamente incoerente. Mentre nel roman­ zo, specialmente quando si tratta di grossi polpettoni, il ripieno ha un preciso valore estetico e emozionale, i valori speciali del cinema (come nella poesia e nel teatro) risiedono più nelle sue metafore visive concentrate e nelle accelerazioni drammatiche che nelle tecniche narrative di dilazione. La necessità commerciale della compressione (che è anche formale) è accolta da Minnelli all’interno dei film stessi e sviluppata come tema — quello della penetrante pressione psicologica sui personaggi, un senso acuto di claustrofo­ bia nell’arredamento e negli ambienti oppure quello che si traduce in una energia continua ma oppressa che affiora sporadicamente nelle azioni e nel comportamento dei protagonisti — tema che fa già parte del soggetto di un film come Two Weeks in another town, con isterismi che ribollono per tutto il tempo appena al di sotto della superficie. Dunque, la sensazione che ci sia sempre da raccontare più di quanto si possa dire induce il regista a impiegare una narrazione del tutto consapevolmente ellittica, spesso conden­ sando visivamente la motivazione del personaggio in sequenze di immagini non essenziali (non diegetiche), un metodo che in poesia o nella narrativa moderna avrebbe il proprio equivalente nella metafora o nella metonimia. La ripresa della fonta di Trevi alla fine della complessa scena in cui Kirk Douglas sta prendendo una decisione in Two weeks è una metonimia di questo tipo, e lo stesso

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vale per la silenziosa sequenza che consiste interamente di elementi che potrebbero apparire dissolvenze meramente impressionistiche, in The Four Horsemen., quando Glenn Ford e Ingrid Thulin partono a cavallo per Varsailles ma che di fatto predice l’intera traiettoria del loro rapporto. Anche Sirk costruisce spesso i suoi film così: l’irrequietezza di Written on the Wind non è estranea al fatto che il regista quasi sempre taglia e passa al movimento, e le sue metonimie meritereb­ bero veramente un capitolo a parte: una macchina sportiva gialla che sale per il sentiero ghiaioso per fermarsi di fronte a un paio di splendenti colonne doriche all’esterno di casa Hadley non rappre­ senta soltanto un efficace esempio di iconografia americana, spe­ cialmente quando è ripresa con un’inquadratura ad angolo spioven­ te, ma le associazioni contrarie di splendore imperiale e materiali volgari (cromatura lucida e intonaco a stucco) creano una tensione di corrispondenze e divergenze nella stessa immagine che cristalliz­ za perfettamente l’opulenza decadente e la melancolica energia che danno al film il suo strano fascino. Sirk ha un occhio particolar­ mente esercitato per le qualità emozionalmente contrastanti dei testi e dei materiali e li combina in effetti molto forti, soprattutto quando ricorrono in una sequenza non diegetica: ancora in Written on the Wind, dopo il funerale di Hadley Sr., si vede un cameriere negro che toglie una ghirlanda di oleandro dal cancello d’entrata. Si stacca un nastro di seta nera ed è portato via dal vento lungo il sentiero di cemento. La macchina segue il movimento, dissolve e arriva con il dolly a una finestra dove Lauren Bacall, in abito verde oleandro, sta scomparendo dietro le tende. La scena non ha alcuna importanza per l’intreccio, ma i paralleli di colore nero/nero, verde/verde, cemento bianco/tende di pizzo bianco forniscono una fortissima risonanza emozionale in cui il contrasto tra la seta leggera spinta lungo il duro cemento è sentito soprattutto come inquietante associazione visiva. La desolazione della scena si trasfe­ risce nel personaggio della Bacali, e la tradizionale associazione del vento come fato ci rammenta la futilità implicata nel titolo del film.

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Tali effetti, ovviamente, richiedono un artista con un alto livello di consapevolezza, ma non sono affatto tanto rari quanto i miti costruiti su Hollywood farebbero credere. Il fatto che necessità commerciali, censura politica e i vari codici morali abbiano limitato i registi nella scelta dell’argomento ha dato luogo a una concezione diversa di ciò che costituisce un argomento adatto, a una svolta nell’orientamento che fosse più d’ogni altra cosa ha reso beneficio a) melodramma. Non soltanto ha fornito un preciso perimetro tematico, ma ha incoraggiato un uso consapevole della formacome-contenuto, che è un segno di ciò che si potrebbe considerare la condizione stessa dell’arte moderna. Per trarre ancora un esem­ pio da Minnelli, il suo tema ricorrente del personaggio che tenta di costruire un mondo a immagine di se stesso, solamente per scoprire che questo mondo è divenuto inabitabile perché è paurosamente soffocante e intollerabilmente solitario (The Long, Long Trailer, The Cobweb) è una versione trasformata e intellettualmente appro­ fondita del consueto tema melodrammatico della donna che torna al suo paesino nella speranza di trovare finalmente il proprio posto, cosa che non è riuscita a fare nella grande città, ma è avvilita dalla mediocrità della gente e dal bigottismo e quindi soffocata dal semplice peso del suo non troppo glorioso passato, ancora fresco nella memoria (vedi anche Hilda Crane di Philip Dunne, Beyond the Forest di King Vidor)6. Ma in Minnelli tutto cià diviene l’opportunità di esplorare in circostanze concrete i problemi, ancor più filosofici, della libertà e della determinazione, soprattutto quando viene toccata la questione estetica di come si debba descrivere un personaggio che non si rivela costantemente nell’a­ zione, senza intrappolarlo d’altra parte in un insieme di simbolismi pronti per l’uso. Allo stesso modo, quando Robert Stack mostra Lauren Bacall nel suo appartamento d’hotel in Written on the wind, dove tutto è al 6 L’impatto di Madame Bovary via Willa Cather sul cinema americano e sulla fantasia popolare meriterebbero uno sguardo più attento. 84

proprio posto, dai fiori, ai quadri appesi alle pareti, fino alla biancheria, smalto per unghie, e borsetta, Sirk non è solo interessa­ to al tema dell’uomo ricco che vuole avere la donna che desidera con tutto se stesso, o alla natura oppressiva di un dono non voluto, egli fa anche un commento diretto alla tecnica hollywoodiana di ‘creare’ un personaggio dagli elementi della scena, e di preferire attori con la più vuota espressione sulla faccia e la minima personalità possibile — il che è già forse di per se stesso un segno di una società i cui valori morali e emozionali hanno subito un sistematico processo di reificazione. Tutti coloro che hanno riflettuto sull’estetica di Hollywood insistono nel sottolineare una delle sue qualità particolari: quella del coinvolgimento emotivo diretto, che si definisca ‘dare risonanza alle situazioni drammatiche’ o ‘far risaltare il cliché’ o che, più astrattamente, si parli in termini di modelli di identificazione, empatia o catarsi. Poiché il cinema americano, determinato com’è da un’ideologia dello spettacolo e dello spettacolare, è essenzial­ mente drammatico (nel senso che si oppone a ‘lirico’, cioè allo stato d’animo o all’interiorità) e non concettuale (non si occupa delle idee e delle strutture cognitive e percettive), la creazione e la messa in atto di situazioni in cui lo spettatore possa identificarsi e ricono­ scersi (se questo riconoscimento avvenga a livello conscio o incon­ scio è un’altra questione) dipende in larga misura da quanto l’iconografia sia adeguata (‘visualizzazione’) e dalla qualità (com­ plessità, sottigliezza, ambiguità) e dall’orchestrazione di quelle che sono le esperienze e le trame trans-individuali, popolari, mitologi­ che (e che in genere sono considerate culturalmente ‘poco evolute’). In altre parole, le qualità estetiche di questo tipo di cinema dipendono dai modi in cui si dà ‘melos’ al ‘drama’ attraverso il montaggio, le luci, il ritmo delle immagini, l’ambientazione, lo stile di recitazione, la musica — cioè dei modi usati dalla regia per tradurre il personaggio in azione (non diversamente dal romanzo prima di James) e l’azione in gesto e in spazio dinamico (similmente all’opera e al balletto del XIX secolo). Non ci sono princìpi di

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‘originalità’ o ‘unicità’ in senso letterario, ecco perché gli occasiona­ li rimorsi della nobile coscienza di Parker Tyler (per non dire della schizofrenia di Pauline Kael) sono non soltanto inutili ma anche fondamentalmente fuori luogo. Registi come un gusto per il ‘dramma’ nella sua accezione più convenzionalmente teatrale ma non nel senso di mise en scène, come Mankiewicz, Curtiz, Lumet e Zinnemann si trovano, per quanto è stato detto fino ad ora, alla periferia dello stile hollywoo­ diano (e godono altrettanto bassa considerazione tra gli studiosi attenti del cinema americano), perché appaiono più come europei, nel senso che si rivolgono solitamente e soprattutto a un pubblico colto e letterario, la cui idea di godimento estetico del cinema è condizionata dai canoni del buon gusto e dello spettacolo civile. Questa idea del cinema da classe media è generalmente ostile al melodramma e annoiata dai suoi meccanismi di sollecitazione emotiva. Film come Casablanca, The Barefoot Contessa o High Noon hanno un certo grado di sofisticazione (blandamente) intel­ lettuale, ma non possiedono niente in termini di elaborazione visiva per compensare il loro difetto di chiarezza verbale e niente sul piano emozionale per recuperare la dignità letteraria del racconto e del simbolismo. Da questo punto di vista essi sono sfavoriti nel confronto con gli altri film più rozzi, amorali (per quanto questi ultimi non siano assolutamente volgari non-intellettuali) come The Maltese Falcon, To Have and Have Not, The Bad and the Beautiful o Rio Bravo. Inoltre la preferenza per questi ultimi film (o per le qualità della regia in generale) può essere dovuta semplicemente a una abitudine persistente e probabilmente di vecchia data; la differenza non è rilevante per la discussione, in quanto una definizione del melo­ dramma americano in senso descrittivo dovrebbe render conto delle tecniche con le quali i registi fanno largo uso della capacità che il cinema ha di risvegliare forti reazioni estetico-emotive e di strutturarle in sistemi complessi, un potenziale di precedenti film avevano lasciato inesplorato. 86

Non tutto il cinema americano, comunque, si basa sullo stesso coinvolgimento emotivoassoluto cui ho accennato, e non tutto nella stessa maniera. Innanzitutto, è difficile stabilire come vengano fatte scattare le reazioni emotive e di che tipo esse siano, e la risposta può essere diversa da una persona all’altra. In secondo luogo, poiché qualsiasi identificazione deve in qualche misura dipendere dal riconoscimento, dobbiamo ancora distinguere se noi riconosciamo ciò a cui l’immagine si riferisce come qualcosa che potrebbe accadere/è accaduto nella sfera della nostra esperienza personale o se lo riconosciamo come parte della nostra esperienza cinematografica, cioè se ci ricorda altri film. Non c’è dubbio che i film western funzionino molto bene con i riconoscimenti del secondo tipo, e a questo proposito si può ben dire che tutte le nostre reazioni incominciano a diventare utili ad un’analisi estetica solo quando siamo capaci di distinguere le reazioni di secondo grado — quello che sappiamo del cinema — dalle reazioni a quello che sappiamo sulla vita. Ammesso tutto ciò, c’è forse un altro problema di una certa importanza nella questione del melodramma: per quanto le tecni­ che di orientamento verso il pubblico e la possibilità di proiezione psichica da parte dello spettatore sono evidenziate tanto in un melodramma come Home from the Hill o Splendor in the Grass quanto in un film western o d’avventura, tuttavia la diversità di scena e ambientazione si riflette notevolmente sulla dinamica dell’azione. Specialmente nel western supporre un mondo ‘aperto’ è praticamente assiomatico; questa è effettivamente una delle costanti che rendono questa formula perennemente attraente per un pubblico che è soprattutto urbano, e tale apertura appare anche in film che trattano temi potenzialmente melodrammatici e di situa­ zioni familiari. Le complesse relazioni padre/figlio in The LeftHanded Gun, i temi Caino-Abele dei western di Mann (Winchester 73, Bend of the river), il conflitto tra virilità e fissazione sulla madre in alcuni western di Tourneur (Great Day in the Morning, Wichita) o la ricerca della (terra-)madre in Run of the Arrow di Fuller, sono

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tematiche chiarite perché l’eroe può agire positivamente, moral­ mente libero, nelle situazioni cagianti in cui esse si prestano. Persino nei film d’avventura di Raoul Walsh, come ha mostrato Peter Lloyd7, l’identità arriva con un procedimento spesso parados­ sile di autoconferma e sopravvalutazione — ma sempre attraverso l’azione diretta, mentre l’impeto generato dai conflitti spinge i protagonisti in avanti verso un cammino irrefrenabilmente lineare. Il melodramma familiare, invece, pur trattando largamente gli stessi temi edipici dell’identità morale ed emozionale, registra spesso il fallimento del protagonista ad agire in una maniera che possa dar forma agli eventi e influenzare la situazione emotiva e cambiare l’opprimente ambiente sociale. Il mondo è chiuso e i personaggi subiscono le azioni. Il melodramma conferisce loro un’identità negativa attraverso la sofferenza, e la progressiva auto­ immolazione e delusione finiscono spesso nella rassegnazione: si delineano come esseri umani inferiori perché sono divenuti saggi e docili ai casi della vita. La differenza può essere espressa in un altro modo. In un caso, il dramma si muove verso la propria soluzione esternando e proiet­ tando alternativamente i conflitti centrali all’interno dell’azione diretta. Un’irruzione in una prigione, una rapina alla banca, un inseguimento western o una carica di cavalleria, e persino un’inda­ gine su un crimine (oltre a creare un caratteristico modello da seguire), si prestano tutti alla rappresentazione psicologizzata e tematizzata dei dilemmi interiori del protagonista e spesso si presentano come tali (White Heat o They Died With Their Boots On di Walsh, The Criminal di Losey, Where Sidewalk Ends di Preminger). Lo stesso vale per il melodramma di tradizione noir, in cui l’eroe è avviato o ricattato dalla femme fatale — l’odore di caprifoglio e di morte in Double Indemnity, Out of the Past o Detour — a compiere una serie di azioni che continuano a spingerlo

7 Brighton Film Review, 14, 15, 21.

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verso la stessa direzione, aprendo uno stretto cunicolo che conduce a conseguenze parimenti inevitabili, che di solito inducono il protagonista ad augurarsi la morte come ultimo atto liberatorio, mentre invece il meccanismo del fato gli permette alla fine di esprimere la propria rivolta esistenziale con un comportamento duro e molto antisociale. Nel melodramma domestico non è così: le pressioni sociali sono tali, il limite della rispettabilità è così nettamente definito che la gamma di azioni ‘dure’ è minima. Il gesto impotente, la gaffe sociale, la crisi isterica prendono il posto di qualsiasi altra azione direttamente liberatoria o annichilente, e la violenza catartica di una sparatoria o di un inseguimento diventa una violenza interiore che spesso i personaggi rivolgono contro se stessi. La configurazione drammatica e la struttura del racconto li costringono a guardare costantemente dentro gli altri e dentro se stessi, senza che i tentativi di liberazione abbiano alcuna importanza. I personaggi sono, per così dire, gli unici punti di riferimento reciproci, non c’è un mondo esterno su cui agire, non si può definire o presupporre alcuna realtà senza cadere nell’ambiguità. In Sirk, naturalmente, i personaggi sono rinchiusi in un universo di specchi reali e metaforici, ma quello che è tipico nella generalità di questa forma di melodramma è che il comportamento dei protagonisti è spesso pateticamente discordante rispetto ai reali obiettivi che essi vogliono raggiungere. Una sequenza di azioni sostitutive crea una specie di circolo vizioso in cui il nesso intrinseco di causa-effetto è in certo modo interrotto e — in un senso spesso chiaramente freudiano — rimosso. James Dean in East of Eden escogita un metodo per il congelamento della lattuga, coltiva fagioli da vendere all’esercito, s’innamora di Julie Harris, non per fare un mucchio di soldi e vivere felice con una bella moglie, ma per conquistarsi l’amore del padre e del fratello — che non ottiene. Per quanto sia ancora molto a livello superficiale nella tematica del film di Kazan (con i personaggi chiamati vera­ mente — se ben ricordo — Caine e Abele) questa è una connessione di etica puritana capitalista e di psicanalisi che è sufficientemente

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pertinente al melodramma americano da rimanere esemplare. I migliori melodrammi, comunque, — quelli di Ray, Sirk o Minnelli — non trattano questa rimozione per sostituzione direttamente, ma per mezzo di quello che si potrebbe dire una simbolizza­ zione di azioni quotidiane, la sublimazione di gesti comuni e l’uso di ambientazione e decor fatto in modo da riflettere le fissazioni feticistiche dei personaggi stessi. Sensazioni violente trovano sfogo su oggetti ‘sovradeterminati’ (James Dean che dà un calcio al ritratto del padre quando lui si precipita fuori dalla casa in Rebel Without a Cause) e l’aggressività è esercitata per procura. In questi film la trama propende in modo notevole a formare una struttura circolare, che in Ray comprende una variazione quasi geometrica del triangolo nel cerchio e viceversa8, mentre Sirk (nomen est omen) nei suoi cerchi spesso suggerisce la possibilità di una tangente che si stacca — la costruzione a cerchio completo di Written on the wind con la sua coda lineare della relazione Hudson-Bacall alla fine, o, ancor più evidente come immagine, la corsa circolare attorno ai piloni in Tarnished Angels interrotta quando l’areo di Dorothy Malone nell’ultima immagine può librarsi oltre il fatale pilone, in un cielo infinito. Forse non è troppo fantasioso suggerire che i cambiamenti strutturali da uffa azione esterna lineare a una sublimazione di valori drammatici in forme più complesse di simboli, e che io considero come la caratteristica centrale della tradizione melodram­ matica nel cinema americano, possono essere individuati a un livello più generale dove essi riflettono un cambiamento nella storia delle forme drammatiche e l’articolazione di forze nell’intero cinema americano. Come ho cercato di dimostrare in un precedente articolo («Mo­ nogram», 1) una delle caratteristiche tipiche del classico film hollywoodiano è che il protagonista viene definito in modo dinami­

8 Ibidem, 19, 20.

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co, come il centro di un movimento continuo, spesso sia da sequenza a sequenza che all’interno della singola scena. E un fatto ottico che, per orientarsi, l’occhio metta a fuoco quasi automaticamente qualsiasi cosa si muova, e il movimento, insieme al suono, completa l’illusione di realtà, liberando l’immagine filmica dal limbo di riflessi d’ombre dove aveva tentato di confinarlo la prima estetica cinematografica. Fu sulla base del semplice movimento fisico, per sempio, che i musical degli anni trenta (42nd Street di Lloyd Bacon ne è forse l’esempio più spettacolare), il film di gangster e i gialli di serie B degli anni quaranta e dei primi anni cinquanta riuscirono a reggersi sulle trame più inconsistenti, su un’assenza quasi totale di caratterizzazione individuale e raramente su qualche grande attore. Queste deficienze erano causate dal fissare esageratamente l’attenzione sul moto, l’ossessione, l’idea fissa, cioè dalla concentrazione sugli elementi puramente meccanico-cinetici della motivazione umana. Questo modulo è evidente soprattutto nel genere poliziesco, dove alla ricerca del solo denaro e potere segue la perentoria ricerca della semplice sopravvivenza fisica, che termina nell’apoteosi del protagonista in una morte violenta. Questa curva di ascesa e caduta — un modello completa.mente stilizzato e esteriore che assume significato morale ed esemplare — si può vedere in film come Underworld, Little Caesar, The Roaring Twenties, Legs Diamond e dipende al suo livello più basso dalla verve e dal vigore del ritmo narrativo, benché a un livello un po’ superiore permetta interessanti variazioni e complica­ zioni, come in Underworld USA di Fuller. I registi più raffinati, come Hawks, hanno usato la velocità e la pulsante rapidità dell’azione per ottenere effetti comici (20th century) e l’hanno fatto anche in film la cui struttura drammatica non richiedeva tale trattamento (si veda His Girl Friday). In effetti, quello che si reputa stoicismo in Hawks, se osservato attentamente, è poco più che un espediente drammatico, in cui il sentimentalismo e il cinismo sono così vicini e agiscono così velocemente che ne risulta una doccia emozionale caldo-fredda adatta a intorpidire la sensibilità dello 91

spettatore perché avverta una continua carica morale, mentre c’è più spesso semplicemente una manipolazione molto abile di un quadro degli interlocutori dello stesso voltaggio (penso in partico­ lare a film come Only Angels Have Wings). Questa costante combustione interna di energia fisica e psichica, genericamente esemplificata con lo scoppiettio dell’aggressività dei duri della commedia da svitati, ma che Walsh diagnosticò nei suoi personaggi interpretati da Cagney come dinamite psicotica (White Heat) e come veicolo di un estremismo repubblicano contadino (A Lion in the Streets) mostra i segni di una decadenza definitiva negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, quando l’aspra vitalità e l’istintuale ‘voglia di vivere’ si approfondiscono psicologicamente in nevrosi intime e in disadattamenti adolescenziali e non tanto adolescenziali di ampio significato sociale, e dove l’iniziativa indivi­ duale è percepita come una problematica in termini esplicitamente politici (All the King's Men), dopo essere stata, in precedenza, soltanto stoicamente e eroicamente anti sociale, come nel cinema noir. Il mondo esterno è sempre più sisseminato di ostacoli che si oppongono all’ambizione individuale e non vengono superati semplicemente dalla libido del braccio o della mente del protagoni­ sta. Nei western di Mann la pazzia che è al centro del personaggio di James Stewart affiora solo occasionalmente su una superficie altrimenti calma e controllata, come una forte corrente che appare improvvisamente sulla terra, come un’inumana eppure poeticamen­ te felice sete di vendetta e primitiva giustizia biblica, dove la volontà di sopravvivere è legata a certi valori culturali e morali fuori moda di dignità, valore e rispetto. E la ritroviamo nei film di Sirk, dove un’energia non compromessa, fondamentalmente innocente viene distolta gradatamente dalla semplice e diretta soddisfazione dall’emergere di una coscienza, un senso di colpa e responsabilità o dalla consapevolezza di una maggiore complessità, come in Magnificent obsession, Sign of the Pagan, All That Heaven Allows e anche in Interlude — un tema che in Sirk è sempre interpretato in termini di decadenza culturale.

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Dove Freud

lasciò il suo

Marx

NELLA CASA AMERICANA

Non c’è dubbio che la popolarità che il melodramma familiare riscosse a Hollywood nel dopoguerra fosse in parte connessa con il fatto che in quegli anni l’America aveva scoperto Freud. Non è questo il luogo per analizzare i motivi per cui gli Stati Uniti fossero divenuti il paese dove le sue teorie trovarono ovunque la più entusiasta delle accoglienze, o perché esse esercitassero una influen­ za così decisiva nella cultura americana, ma le connessioni tra Freud e il melodramma sono tanto complesse quanto innegabili. Un fatto interessante, per esempio, è che Hollywood trattò i temi freudiani in un modo particolarmente ‘romantico’ o gotico, in un ciclo di film iniziato probabilmente dal primo grande successo americano di Hitchcock, Rebecca. Riconducendo il suo vittorianesimo allo ( women's picture' del tipo Crawford-Stanwyck-Davis, che per ovvie ragioni divenne un grosso affare per gli studi cinematografici durante la guerra e ebbe la propria apoteosi in film come Since You Went Away di Cromwell (al fronte, s’intende), Hitchcock infuse nei suoi film, e in molti altri, un indiretto accenno alla frigidità femminile, producendo strane fantasie di persecuzione, di violenza e di morte — sogni masochisti e incubi, che confinano il marito al ruolo di sadico assassino. Questa proiezione di angoscia sessuale e i suoi mecanismi di rimozione e transfert si traducono in tutta una serie di film che comprendono l’ipnosi e il gioco sull’ambiguità e l’incertezza se siano soltanto immaginazioni della moglie o se il marito progetti effettivamente di assassinarla: Notorious e Suspicion di Hitchcock, Undercurrent di Minnelli, Gaslight di Cukor, Sleep My Love di Sirk, Experiment Perilous di Tourneur, Secret Beyond the Door di Lang, appartengono tutti a questa categoria, e anche Whirlpool di Preminger e, in un senso più ampio, Woman on the Beach di Renoir. Quello che ci colpisce di questa lista è non soltanto l’alto numero di emigrati europei cui venivano affidati i progetti dei film, ma che praticamente tutti i maggiori registi di

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melodrammi di famiglia degli anni cinquanta (tranne Ray) ebbero a che fare (non sempre con successo) con il melodramma femminista freudiano negli anni quaranta9. Ancor più provocante e difficile da provarsi è la considerazione che certi modelli stilistici e strutturali del melodramma dramma raffinato possono implicare princìpi di simbolizzazione e codificazione concettualizzati da Freud nella sua analisi dei sogni e applicati più tardi nella sua Psicopatologia della vita quotidiana. Non mi riferisco in particolare alla prevalenza di quel che Freud chiamò «’Symptomhandlungen» o «Fehlhandlungen», che indicano il commettere inconsciamente degli errori oppure il proiettare il proprio stato interiore in un comportamento chiaramente interpretabile. Questo è un modo di simbolizzare e evidenziare gli atteggiamenti che è comune nel cinema americano praticamente in ogni genere e attribuibile più direttamente all’uso metonimico del dettaglio nel romanzo realista, più che a un’in­ fluenza freudiana — inoltre Freud stesso lo ha tratto dal romanzo, come egli ripetutamente ha ammesso. Comunque tutto ciò subisce nel melodramma un certo raffinamento — divenendo parte della composizione della struttura, trasmessa allo spetttore per via più subliminale e riservata. Quando i personaggi di Minnelli si trovano in una situazione emotivamente precaria o contraddittoria, ciò spesso influenza l’equilibrio della composizione visiva — bicchieri di vino, un oggetto di porcellana o un vassoio di bibite enfatizza la fragilità della loro situazione — per esempio, la colazione di Judy Garland in The Clock, la giustificazione di Richard Widmark con Gloria Grahame in The Cobweb, o il tentativo di Gregory Peck di far capire alla sua ragazza perché lui ha sposato un’altra in Designing Woman. Quando, in Written on the Wind, Robert Stack, in piedi davanti alla finestra che ha appena aperta per far entrare un 9 Non ho visto A Woman's Secret (1949) né Bom to be Bad (1950), i quali potrebbero includere Ray in questa categoria, e il personaggio di Ida Lupino in On Dangerous Ground (1952) — cieca, abita con il fratello omicida — ricorda chiaramente questo filone masochista del femminismo hollywoodiano.

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po’ d’aria fresca in un’atmosfera familiare estremamente pesante, viene a sapere che Lauren Bacall aspetta un bambino, la cosa più eloquente sul suo tormento è il modo in cui si stringe nel riquadro della finestra aperta a metà, perché ogni parola che sua moglie dice aggiunge dolore alla sua anima lacerata e al suo corpo torturato. Su questa stessa linea, viene ih mente il tipo di ‘condensazione’ della motivazione in immagini o sequenze di immagini metaforiche menzionate in precedenza, la relazione che esiste nell’opera di Freud sui sogni tra il materiale onirico manifesto e il contenuto onirico latente. Proprio come nei sogni, certi gesti e avvenimenti significano qualcosa per mezzo della loro struttura e sequenza, piuttosto che attraverso ciò che rappresentano alla lettera; il melodramma spesso agisce, come ho cercato di dimostrare, attra­ verso un’enfasi rimossa, atti sostitutivi, situazioni parallele e con­ nessioni metaforiche — cioè attraverso espedienti poeticodrammatici al servizio di modelli subliminali. Sappiamo che nei sogni si ha la tendenza a usare come materiale onirico casi e circostanze dell’esperienza di veglia del giorno precedente, per ‘codificarli’ mantenendo al tempo stesso una specie di logica emotiva e persino condensando le loro immagini in quella che, almeno durante il sogno, sembra una sequenza inevitabile. I melodrammi migliori spesso usano la classe media americana, la sua iconografia e l’esperienza familiare proprio come il loro materiale manifesto, ma lo rimuovono in strutture completamente differenti, giustapponendo situazioni stereotipate in strane configurazioni, provocando crolli e rotture che non soltanto rendono possibili accumulate dalle tensioni e dalla suspense, abbattono le barriere emotive e lasciano fluire l’energia libidinale nata dall’osservazione, in direzioni così diverse da risultare inquietanti. I film americani, per esempio, spesso manipolano astutamente situazioni estremamente imbarazzanti (un blocco di energia emozionale) e azioni o gesti di violenza (liberazione diretta o indiretta) al fine di creare modelli esteticamente significativi che soltanto un vocabolario musicale sarebbe in grado di descrivere accuratamente, e sui quali 95

uno psicologo o un antropologo potrebbe dare qualche spiega­ zione. Uno dei princìpi più strettamente estetici coinvolti è quello della continuità e discontinuità. Aprendo qui una parentesi, sembrerebbe che ci fossero tre tipi fondamentali di continuità nel discorso filmico, che possono essere messi in gioco l’uno contro l’altro e che spesso lo sono. La continuità nella narrazione della storia è accompagnata dall discontinuità visiva (cambiamenti di angolazio­ ne, campo lungo, primo piano, controcampo, travelling ecc. : anche un cattivo regista avrà imparato come variare la ripresa il più possibile per interrompere una scena statica, per esempio in un dialogo). Più difficile da manipolarsi è la discontinuità a livello della trama (ellissi), che è spesso collegata a una continuità visiva, più o meno ovvia o sottile, per esempio un movimento di macchina seguito da una ripresa in profondità, da una dissolvenza o da qualsiasi altra tecnica di montaggio capace di creare catene di associazione metonimica. Infine ci sono continuità e discontinuità strutturali e dinamiche (che Sirk ha chiamato «ritmo dell’intrec­ cio») che si definiscono meno facilmente, e che nondimeno sono ciò che rende un film compatto e gli dà, in ultima analisi, forma estetica e coerenza tematica. Mi sembra che siano particolarmente complesse e variate nel melodramma sofisticato, e ne descriverò soltanto uno degli aspetti più ovvi. Una situazione tipica nel melodramma americano si ha quando la narrazione si spinge fino a una collisione evidentemente catastrofica di sentimenti opposti, ma dispone tali sentimenti in modo da ottenere il più forte effetto possibile dal loro scontrarsi. In The Bad and the Beautiful di Minnelli, Lana Turner interpreta un’attrice alcolizzata che è stata ‘salvata’ dal produttore Kirk Douglas, che l’ha riportata nel mondo del cinema. Dopo la prima, eccitata per il successo, fiduciosa in se stessa per la prima volta dopo anni, e in felice attesa di festeggiare con Douglas, del quale si è innamorata, corre in auto a casa di lui con una bottiglia di champagne. Però noi già sappiamo che Douglas non è emotivamente interessato a lei («Ho bisogno di un’attrice,

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non di una moglie» le dice più tardi) e che sta passando la serata a letto con una donna. Lana Turner, che non sospetta niente, incontra Douglas in fondo alle scale e, troppo compresa in se stessa per notare la freddezza di lui, resta di stucco quando vede apparire improvvisamente l’altra ragazza in cima alle scale con la vestaglia di Douglas. Segue la scena della crisi di nervi in auto, con i fari che illuminano il suo parabrezza come una barriera di luci della ribalta e di riflettori. Questo modo di lasciar crescere le emozioni e poi annientarle improvvisamente con un colpo è un esempio estremo di disconti­ nuità drammatica, e simili diminuzioni vertiginose delle temperatu­ ra emotiva si trovano in molti melodrammi — quasi invariabilmen­ te messe in scena contro l’asse verticale di una scalinata’0. In una delle sequenze più parossistiche del cinema americano, costruita come se dovesse illustrare l’arte del contrappunto musicale, Sirk fa ballare Dorothy Malone da sola in Written on the Wind, come una dea posseduta di un mistero dionisiaco, mentre suo padre sta morendo sulle scale per un attacco di cuore. E ancora, in Imitation of Life, John Gavin viene bruscamente respinto da Lana Turner mentre scendendo insieme le scale e in Al I Desire Barbara Stanwyck deve deludere la figlia dicendole che non la porterà a New York perché diventi un’attrice, dopo che la ragazza è corsa giù per le scale ad annunciare la bella notizia a suo padre. Famoso e 10 Come principio di regia, l’uso delle scale ricorda la famosa Jessnertreppe del teatro tedesco. La connessione tematica della famiglia e il simbolismo di altezza/bassezza sono ben descritti da Max Tessier: «le héros ou l’hèroine sont ballotés dans un veritable scenic-railway social, où les classes sont rigorousement compartimentées. Leur ambition est de quiter à jamais un milieu moralement dépravé, phisiquement éprouvant, pour accèder au Nirvana de la grande bourgeoisie. [...] Pas de famille, pas de mèlo! Pour qu’il y ait melo, il faut avant tout qu’il y ait faute, péché, transgession sociale. Or, quel est le milieu idéal pour que se développe cette fjangrène, sinon cette cellule familiale, liée à une conception hiérarcnique de a société? [Le mélodrame, genre ou vision du monde?, in “Cinema 71 ,150, p. 46.

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ancor più spettacolare è l’uso che Ray fa della scalinata per simili effetti emozionali in Bigger Than Life, ma per portare l’esempio di un regista più convenzionale, Henry King, dovrei citare una scena di Margie, un film che ricalca abbastanza fedelmente Meet Me in St. Louis di Minnelli, dove la protagonista, Jeanne Crain, che ha appuntamento con uno sconosciuto che la porterà al ballo di laurea (noi sappiamo che è suo padre), poiché il suo fedele e occhialuto innamoratine ha preso il raffreddore, scende impetuosamente dalla propria camera quando sente entrare l’insegnante di francese, per il quale ha una cotta. Il poveretto, un po’ imbarazzato, deve spiegare che accompagnerà qualcun’altra al ballo, che è venuto soltanto per restituire delle carte a Margie, mortificata, umiliata e piangente per la vergogna, ha appena il tempo di tornare di sopra prima di sciogliersi completamente in lacrime. Può darsi che tutto questo non sembri tanto profondo sulla carta, ma l’orchestrazione di una scena come quella descritta può produr­ re effetti emozionali piuttosto forti e la strategia di costruire un clima in modo tale da soffocarlo il più bruscamente possibile è un tecnica di rovesciamento drammatico con la quale Hollywood ha coerentemente criticato la vena incurabilmente ingenua di moralità e di idealismo sentimentale della psiche americana, dimostrando innanzitutto che spesso non si può distinguere questo atteggiamen­ to dalla più grossolana illusione e delusione e in secondo luogo obbligando a un confronto estremamente contraddittorio e pene­ trante. I due poli emozionali sono resi in maniera tale da rilevare una loro dialettica interna, e l’innegabile energia psichica contenuta in questo sentimentalismo apparentemente così vulnerabile è utiliz­ zata per fornire un antidoto a se stessa, per far capire le discontinui­ tà nelle strutture dell’esperienza emotiva che vanno a costituire un genere di realismo e di brutalità rari, se non imprensabili, nel cinema europeo. Ciò che rende queste discontinuità esteticamente così efficaci è che esse appaiono, sembra, sotto pressione. Nonostante il cinema americano tenda generalmente a creare la pressione e a manipolarla

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(come suspense, per esempio), per certi aspetti il melodramma rappresenta un caso speciale. Nel western o nel giallo, la suspense è generata dalla semplice organizzazione della trama e dell’azione, insieme alla ‘pressione* che lo spettatore conferisce al film per mezzo di anticipazioni e di attese a priori di ciò che egli spera di vedere; il melodramma, tuttavia, deve adattare il secondo tipo di pressione, come si è indicato, a un mondo che in fin dei conti risulta relativamente ‘chiuso*. Ciò è sottolineato dalla funzione dell’arredamento e dal simboli­ smo degli oggetti: l’ambientazione del melodramma familiare è quasi per definizione la casa della classe media, piena di oggetti che in un film come Hilda Crane di Philip Dunne, tipico del genere a questo riguardo, circondano la protagonista in una gerarchia di ordine apparente che diventa sempre più soffocante. Dalla poltrona di papà nel soggiorno al lavoro ai ferri di mamma, alla camera da letto al piano superiore, dove, dopo cinque anni di assenza, bambole e orsacchiotti sono ancora allineati sulla sponda del letto, la casa non soltanto sommerge Hilda con immagini di oppressione familiare e con un passato represso (che provocano indirettamente i suoi sfoghi esplosivi che sorreggono l’azione), ma rivela anche il tentativo del nucleo borghese di fermare il tempo, immobilizzare la vita e fissare per sempre le relazioni di proprietà domestica come modello di vita sociale e come baluardo contro i più inquietanti aspetti della natura umana. Il tema è particolarmente importante nei numerosi film sulla vittimizzazione e la forzata passività delle donne — donne che aspettano a casa, stando alla finestra, imprigio­ nate in un mondo di oggetti in cui ci si aspetta che debbano investire i loro sentimenti. Il film di Cromwell citato precedentemente, Since You Went Away., ha una sequenza eloquente in cui Claudette Colbert, che ha appena accompagnato alla stazione il marito che parte per la guerra, torna a casa per rimettere in ordine dopo la confusione del mattino. Qualsiasi cosa lei tocchi, la vestaglia, la pipa, la foto del matrimonio, la tazza della colazione, le pantofole, il pennello da barba, il cane, le ricorda il marito, finché

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non ce la fa più e si butta sul letto singhiozzando. La banalità degli oggetti combinata con le ansie represse e le emozioni costringono a un contrasto che fa della scena quasi un’epitome della relazione tra arredamento e persone nel melodramma: più la scena si riempie di oggetti cui l’intreccio conferisce un significato simbolico, più i personaggi sono confinati in situazioni apparentemente ineluttabili. La pressione è generata dalle cose che si affollano attorno ai personaggi, la vita diviene sempre più complicata perché è ingom­ brata da ostacoli e oggetti che invadono la personalità dei protago­ nisti, li sostituiscono, li rappresentano, diventano più reali delle relazioni umane e delle emozioni che dovevano simboleggiare. Ma anche questa è una prerogativa degli espedienti stilistici hollywoodiani che sostengono gli argomenti o che si commentano l’un l’altro se vengono usati da un regista esperto. Il melodramma, iconograficamente, è fissato dall’atmosfera di claustrofobia della casa borghese e/o dell’ambientazione nella cittadina; il suo modello emozionale è quello del panico e dell’isteria latente, stilisticamente rinforzata da un complesso uso dello spazio negli interni (in questo Sirk, Ray e L$sey sono particolarmente bravi), e c’è una tematizzazione degli oggetti che sviluppano l’antitesi esistenzialista dell’indi­ viduo in una società chiusa fino al punto più direttamente filosofico di un mondo completamente predeterminato e pervaso di ‘signifi­ cato’ e di segni interpretabili. Forse questo rende più plausibile un’altra caratteristica ricorren­ te, cui si è già accennato, quella del desiderio diretto verso un oggetto irraggiungibile, cioè il meccanismo della rimozione e del transfert: infatti adesso si può capire come, in un limitato campo di pressione, tali meccanismi diano luogo a un ciclo estremamente dinamico, ma discontinuo, di insoddisfazione, in cui la discontinui­ tà rinforza la fissazione, fino a creare un universo di stimoli e risposte forti dal punto di vista emotivo, — ma collegati indiretta­ mente. Nel melodramma, quando vengono adoperati consapevol­ mente, la violenza, l’azione forte, il movimento dinamico, l’artico­ lazione completa e le emozioni improvvise — così caratteristici nel 100

cinema americano — diventano i segni veri e propri dell’alienazione dei personaggi, e servono così a formulare una critica fondamentale all’ideologia che nè è alla base. Minnelli e Sirk, sotto questo aspetto,/sono registi eccezionali perché riescono a trattare storie con quattro, cinque, a volte sei personaggi tutti raccolti in una singola configurazione, pur confe­ rendo a ciascuno di essi una costante enfasi tematica e una diversa prospettiva. Una tale abilità implica una dote particolarmente ‘musicale’. Richiede una struttura formale altamente organizzata e una concezione drammatica del sonoro, ma anche molta sensibilità e consapevolezza del potenziale di armonia contenuto in un materiale contrastante e delle implicazioni tematiche dei motivi di personaggi diversi. Film come Home From the Hill, The Cobweb, Tarnished Angels o Written on the wind ci colpiscono come film ‘oggettivi’, poiché non hanno un eroe centrale (anche se può esserci una spinta gravitazionale verso uno dei protagonisti) e non di meno essi sono coerenti, soprattutto perché le situazioni di ciascun personaggio sono rese plausibili in termini di riferimento ai proble­ mi degli altri. I film sono costruiti architettonicamente, con una combinazione di tensioni nella struttura e di parti articolate, e il disegno complessivo appare soltanto in retrospettiva, quando con la ‘coda’ finale di appagamento l’edificio è terminato e lo spettatore può osservane le linee di distanza. Ma, specialmente in Minelli, c’è anche una dimensione del tutto soggettiva: I film (poiché le parti sono così strettamente organizzate attorno al tema o al dilemma centrale) possono essere interpretati come emanazione di un’unica coscienza, che sta saggiando e sperimentando in forma drammatica le varie opzioni e possibilità che sgorgano dalle contraddizioni morali o esistenziali delineate all’inizio. In The Cobweb John Kerr vuole sia esprimere completamente se stesso, sia una ben definita struttura umana in cui questa libertà assuma pieno significato, e George Hamilton vuole assumersi responsabilità da adulto mentre al tempo stesso rifiuta i modelli adulti implicati nella mascolinità aggressiva di suo padre. Nel secondo caso il dramma termina con 101

una soluzione freudiana: l’eliminazione del padre nel momento stesso in cui si è rassegnato a perdere la propria supremazia, ma questa soluzione è sostenuta da un’altra di carattere biblico, che fonde il mito di Caino e Abele con quello di Adamo che benedice il suo primo nato. L’intrecciarsi dei motivi è raggiunto da una serie di similitudini e contrasti. Ambientata nel Sud, la storia rigurda le relazioni di un cocco di mamma (George Hamilton) con il padre inflessibile, impersonato da Robert Mitchum, la cui moglie (Eleanore Parker) è talmente risentita per il fatto che lui abbia un figlio bastardo (George Peppard) da rifiutarsi di dividere ancora il letto con lui. La narrazióne prosegue attraverso tutte le permuta­ zioni possibili della situazione di base: figlio legittimo/figlio natu­ rale, George Hamilton sensibile/madre ipocondriaca, George Pep­ pard inflessibile/inflessibile Robert Mitchum, i due ragazzi deside­ rano la stessa ragazza, Hamilton la mette incinta, Peppard la sposa, il padre della ragazza se la prende con il figlio legittimo a.causa della nota condotta sessuale di Mitchum, ecc. Comunque, siccome la narrazione è strutturata in una serie di riflessioni a specchio sul tema padri e figli,' legami di sangue e affinità naturali, Minnelli riesce a darci ciò che corrisponde a un ritratto analitico dell’adole­ scenza sensibile — ma situato in un preciso contesto psicologico e sociale. Ci fa capire che la coscienza del ragazzo nasce da forze e circostanze esterne, il suo dilemma risulta dalla sua posizione sociale di erede dell’azienda del padre, indesiderato, perché si sente che non merita tutto ciò e inoltre deliberatamente sfruttato dalla madre che vuole rifarsi con suo padre, la cui posizione di proprieta­ rio terriero texano e di pezzo gròsso del luogo lo obbliga a compensare la frigidità della moglie provando la propria virilità con altre donne. Qui il melodramma diviene mezzo per la diagnosi di un singolo individuo in termini ideologici e in categorie oggettive, mentre il dramma emotivo, colpo dopo colpo, crea il secondo livello, dove l’aspetto soggettivo (l’esperienza immediata e necessa­ riamente impulsiva dei personaggi) è lasciato intatto. L’identità del protagonista, d’altronde, emerge come una sorta di puzzle dalle

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della azione drammatica. Home From the Hill è anche un perfetto esempio del principio delle azioni sostitutive, di cui si è parlato in precedenza, che rappresentano il modo hollywoodiano di raffigurare le dinamiche dell’alienazione. L’intero andamento della storia è accompagnato da una pressione che viene applicata indirettamente e da desideri che tendono sempre verso mete irraggiungibili: Mitchum spinge George Hamilton a diventare un uomo nonostante egli sia per temperamento un cocco di mamma, mentre il ‘vero’ figlio di Mitchum, per atteggiamenti e carattere, è George Peppard, che lui non può riconoscere per motivi sociali. Allo stesso modo, Eleanore Parker preme sul figlio per arrivare a Mitchum e Everett Sloane (il padre della ragazza) rivolge contro George Peppard la ripugnanza che sente contro il comportamento sessuale di Mitchum. Infine, quando sua figlia è incinta, va a trovare Mitchum per spingerlo a obbligare il figlio a sposare la figlia, per poi crollare quando Mitchum rovescia la frittata e lo accusa di ricatto. Questo è un modello che ricorre in forma anche più pura in Written on the Wind: Dorothy Malone vuole Rock Hudson che vuole Lauren Bacall che vuole Robert Stack che vuole solo morire. Il girotondo all’americana. Il fatto è che il dinamismo melodrammatico di queste situazioni, tanto in Sirk che in Minnelli, è usato per trasferire l’emozione nelle sequenze di immagini apparentemente neutrali e molto attenuate che tanto spesso completano una scena e che. al tempo stesso hanno una forte qualità metaforica. Una delle caratteristiche del melodramma in generale è che si concentra sul punto di vista della vittima: i film appena citati sono un’eccezione perché riescono a presentare in modo convincente tutti i personaggi come vittime. La critica — la questione del male, della responsabilità — è posta saldamente sul piano sociale e esistenziale, lontano dalla logica arbitraria e, in definitiva, ottusa dei Motivi privati e della psicologia individuale, che nell’arte il più delle volte conduce a un arido naturalismo. Ecco perché, nel suo momento più perfetto, appare capace di riprodurre più direttamen­

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te di altri generi, gli elementi di dominio e di sfruttamento di una data società, specialmente le relazioni tra psicologia, moralità e coscienza di classe, enfatizzando chiaramente una dinamica emo­ zionale che ha per correlativo sociale una rete di forze esterne oppressivamente dirette verso l’interno, e con le quali gli stessi personaggi interagiscono inconsapevolmente per divenire i loro agenti. In Minnelli, Sirk, Ray, Cukor e in altri, l’alienazione è riconosciuta come condizione fondamentale dell’uomo, il destino è secolarizzato nella prigione della conformità sociale e della nevrosi psicologica, e la traiettoria lineare della realizzazione personale, tanto potente nell’ideologia americana, si avvolge nella spirale discendente di un impulso all’autodistruzione che sembra possede­ re un’intera classe sociale. Questo masochismo tipico del melodramma, con i suoi incessan­ ti atti di intima violazione, i suoi meccanismi di frustrazione e di ultra-compensazione, viene forse più che mai allo scoperto nei personaggi che hanno il problema del bere (cfr. Written on the Wind, Hilda Crane, Days of Wine and Roses'). Nonostante l’alcoli­ smo sia un elemento troppo comune nei film e troppo tipico della classe media americana per meritare una ravvicinata analisi temati­ ca, il bere diventa effettivamente interessante nei film che sviluppa­ no il suo significato dinamico e riconoscono le sue qualità di metafora visiva: dovunque si vedano i personaggi ingoiare a grandi sorsi i loro liquori come se stessero ingoiando le proprie umiliazio­ ni insieme all’orgoglio, la vitalità e l’energia diventano distruttive in modo tangibile, e una libido fittizia si trasforma in vera e propria ansia. Written on the Wind è forse il film più coerentemente costruito sulle possibilità metaforiche dell’alcool (liquidità, poten­ za, la forma fallica delle bottiglie). Non soltanto il tema in sé procura una sete emotiva che non può essere placata da nessuna qualità di alcool, né di petrolio pompato da argani o dalla benzina di veloci automobili o aerei, ma riesce anche a compensare la importanza sessuale di Robert Stack e i suoi sensi di colpa infantili, basta solo che lui si attacchi a una bottiglia di puro malto quando gli 104

viene voglia di suicidarsi, provvedendo poi a scaraventarla con disgusto contro la dimora paterna. Nello stesso film, Stack compie gesti inconfondibili in direzione della moglie con una bottiglia vuota di Martini, e si sottolinea visivamente un’unione non consu­ mata con i due bicchieri traboccanti che restano infatti sul tavolo, quando Dorothy Malone fa del suo meglio per sedurre un insensi­ bile Rock Hudson alla festa in famiglia, dopo aver versato il proprio whiskey nel vaso di fiori della rivale, Lauren Bacall. Spesso il melodramma viene usato per descrivere una tragedia che non emerge: o perché i personaggi sono troppo coscienti della loro tragicità o perché la situazione è resa troppo evidente a livello dell’intreccio per comunicare quel tipo di convinzione che di solito si definisce ‘necessità interna’. In alcuni film melodrammatici americani l’inadeguatezza delle reazioni dei personaggi alle loro situazioni diventa essa stessa parte dell’argomento. In The Chap­ man Report di Cukor e in The Cobweb di Minnelli — due film che trattano esplicitamente l’impatto di nozioni freudiane nella società americana — l’autocoscienza dei protagonisti, come anche i tentati­ vi di analisi e di terapia dei dottori si mostrano, per motivi tragici o comici, inadeguati alle situazioni con cui si suppone che i personag­ gi abbiano a che vedere nella vita quotidiana. Eroi ed eroine tascabili lottat a ciecamente contro un destino abbastanza reale da provocare un’intensa angoscia umana, che, come lo spettatore può notare, nasce da pregiudizi sociali, ignoranza, insensibilità oltre che dalla falsa pretesa di obiettività scientifica dei dottori. La ninfoma­ nia di Claire Bloom e la frigidità di Jane Fond? nei film di Cukor sono viste come due reazioni diverse ma ugualmente isteriche alla pressione fortemente ideologica che la società americana esercita sulle relazioni tra i sessi. The Chapman Report, nonostante il fatto di essere stato a quanto pare, ridotto a brandelli da Daryl F. Zanuck Jr., resta un film estremamente importante, in parte perché tratta il proprio tema sia in modo tragico che comico, senza separazioni, sottolineando così le ambigue sorgenti della discrepanza tra la messa in atto di intensi sentimenti e le circostanze per le quali sono

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inadeguati — di solito un motivo comico ma tragico nelle implica­ zioni emozionali. Sia Cukor che Minnelli, comunque, si concentrano sul modo in cui le contraddizioni ideologiche si riflettono nel comportamento apparentemente spontaneo dei personaggi — su come la commise­ razione e l’odio di se stessi si alternano con un violento impulso verso qualche forma di azione liberatoria, che inevitabilmente non riesce a risolvere il conflitto. I personaggi avvertono come un vergognoso marchio personale ciò che lo spettatore (a causa del confronto tra i diversi episodi di The Chapman Report, e delle analogie nei destini dei sette principali protagonisti di The Cobweb) è obbligato a riconoscere come più ampio problema sociale. La povertà di risorse intellettuali di alcuni personaggi è in forte contrasto con un’abbondanza inversamente proporzionale di risor­ se emotive, e quando li si vede lottare senza un appiglio dentro le loro prigioni di emozioni, senza alcuna speranza di capire fino a che punto siano vittime della loro stessa società, allora si comprende chiaramente come un certo individualismo rinforzi l’alienazione sociale e emotiva e che l’economia della psiche è suscettibile di manipolazione e sfruttamento quanto la fatica di una persona. Di fatto questa inadeguatezza stessa ha un nome, importante per la forma melodrammatica: ironia o pathos, che tanto nella tragedia che nel melodramma sono la risposta al raggiungimento di diversi livelli di consapevolezza. L’ironia (o pathos) privilegia lo spettatore di fronte ai protagonisti, perché quello si rence conto che la differenza è un affetto estetico fin d? Aristotele, tradotto ni modo alquanto deviante con il termine ‘pietà’. Il pathos risulta dal! non-comunicazione o dal silenzio resi eloquenti — dialoghi pieni di fraintendimenti (Robert Stack e Lauren Bacall che gli dice di essere incinta in Written on the Wind). Una madre che sorveglia il matrimonio della figlia da lontano (Barbara Stanwyck in Stella Dallas) o una donna che osserva dalla finestra la sua famiglia senza essere notata (di nuovo Barbara Stanwyck in All I Desire) — e dove situazioni di alta tensione emotiva sono recitate con poca enfasi per 106

presentare una ironica discontinuità, visualizzata di solito in termi­ ni di distanza nello spazio e di separazione. Tali situazioni melodrammatiche archetipiche rendono molto attiva la partecipazione del pubblico, perché subentra il desiderio di sopperire alla deficienza emotiva, di rilevare la conoscenza diversa, che in altri generi cinematografici è sistematicamente frustato per produrre la suspense: il desiderio istintivo di avvertire l’eroina dei pericoli che incombono visibilmente su di lei nell’ombra del cattivo. Ma nei melodrammi più raffinati il pathos è prodotto più sottilmente attraverso una regia ‘liberale’ che equilibra punti di vista diversi, in modo che io spettatore si trova nella posizione di capire e valutare atteggiamenti contrastanti all’interno di una data struttura tematica — una struttura che risulta dalla configurazione totale e che è perciò inaccessibile ai protagonisti. Lo spettatore, per esempio in Daisy Kenyon di Preminger o in un film di Ray, è reso consapevole della minima discrepanza qualitativa di ogni rapporto ed è anche sensibilizzato alle tragiche implicazioni che potrebbero nascere da un’incompressione di fondo o da un concetto erroneo delle cause, anche quando tutto ciò non è reso in termini di un finale tragico. Se il pathos è il risultato di un’enfasi emotiva abilmente rimossa, è spesso usato nel melodramma per esplorare la rimozione psicolo­ gica attraverso la repressione, di solito in connessione con il tema dell’inferiorità; nel cinema americano l’inadeguatezza della reazio­ ne ha spesso una decodificazione esplicitamente sessuale: impoten­ za maschile e frigidità femminile — un argomento che può essere tematizzato in varie direzioni: non soltanto per indicare i tipi di ansia psicologica e di pressioni sociali che di solito rendono le persone sessualmente incapaci, ma come metafora di mancanza di libertà in un senso più filosofico (le eroine frigide di Hitchcock), o per interpretare il meccanismo di sovracompensazione come un ‘superamento’ quasi metafisico (come in Bigger Than Life di Ray). In Sirk, per il quale il tema ha una funzione esemplare, ciò è trattato come un problema di decadenza sessuale, sociale, morale — dove 107

l’intenzione, la consapevolezza, lo struggimento, vanno oltre la rappresentazione. Dal personaggio di Willi Birgel di Z« neuen Ufern in poi, i caratteri più interessanti di Sirk non sono mai all’altezza delle esigenze della loro vita, benché alcuni siano abba­ stanza sensibili, vivaci e intelligenti per sentire e conoscere questa inadeguatezza tra azione e reazione. Questo conferisce al loro pathos una circolarità tragica, perché accettano coscientemente la sofferenza e l’angoscia morale, come giusto prezzo per aver intravisto un modo migliore e non essere riusciti a viverlo. Si fa appello alla consapevolezza tragica per compensare la spontaneità e l’energia perduta e in film come All I Desire o There’s Always Tomorrow., dove, come spesso accade, l’ironia fondamentale sta nei titoli stessi, questo tema che ha tormentato l’immaginazione euro­ pea almeno fin dai tempi di Nietzsche è riassorbito nell’atmosfera di città di provincia, spesso ruotando intorno a questioni di dignità e responsabilità, e su come arrendersi, come cedere quando ci si confronta con la vera vitalità e il vero talento — in breve, ruotando attorno a quelle qualità che la dignità è chiamata a sostituire. Nel melodramma hollywoodiano, personaggi da operetta recita­ no le tragedie dell’umanità (o per lo meno della civiltà americana). Non c’è da meravigliarsi se sono continuamente confusi e stupiti, come Lana Turner in Imitation of Life, di ciò che accade intorno a loro. La contraddizione tra sembrare e essere, tra intenzione e risultato, dipinge una frustrazione perplessa e una lacuna sempre più ampia si apre tra le emozioni e le realtà che essi tentano di raggiungere. Il vero pathos che colpisce è la profonda mediocrità del materiale umano, tanto esigente con se stesso, che cerca di vivere seguendo una visione esaltata dell’uomo, ma vive invece le contraddizioni insolubili che hanno fatto del sogno americano un proverbiale incubo, perché troppo spesso ha toccato l’orlo dell’ipo­ crisia, dell’isterismo o della pura stupidità. Ciò rende i migliori melodrammi americani degli anni cinquanta non solo documenti di critica sociale, ma reali tragedie, nonostante, o meglio a causa del loro lieto fine: essi esprimono certe angoscie che hanno accompa­

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gnato il decesso della ‘cultura affermativa’ generata dall’idealismo liberale, proclamando con aperta, consapevole ironia che la cura adottata è la stessa nella maggior parte dei casi. Ma anche senza i disastri nazionali che hanno sopraffatto l’Ame­ rica negli ultimi anni, questa stessa ironia sembra quasi appartenere a un’altra epoca. (Traduzione di Fabiana Bassani) (n. 339-340, 1983; il saggio è del 1972)

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Il cinema come insiemi infiniti Sandro Bernardi

A coloro che amano l’avventura, l’opera di Matte Bianco (L'in­ conscio come insiemi infiniti, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi.-Logic) darà veramente la sensazione di scendere alla scoperta di nuovf territori, illuminati dalla coppia di fari psicoanali­ si e matematica; ma anche l’idea che questi luoghi sconosciuti non possano essere inseriti in alcuna topografia, non siano caratterizzati da alcuna articolazione suscettibile di assumere un senso. E forse, fra questi infiniti set (insiemi, scene) che menziona Matte Bianco potremo trovare anche le tracce del set primitivo (un insieme infinito, una scena infinita?) che genera le innumerevoli storie del cinema; sappiamo le molte implicanze della parola scena in psicoa­ nalisi, sappiamo che il cinema nutre un particolare, ambiguo e fecondo rapporto con l’inconscio, specialmente per quanto attiene ai suoi aspetti emozionali, alla sua scrittura tendenzialmente portata all’eccesso, al suo ricco simbolismo e alle sue pratiche di sottrazione del senso, che sono fenomeni fraloro correlativi. L’inconscio appare a Matte Bianco come una profondità che si allarga a dismisura verso l’assenza progressiva del pensiero, verso l’indistinzione del soggetto dall’oggetto, dell’essere dalla cosa, quello che viene definito appunto come l’essere simmetrico, o che potremmo chiamare l’essere tout court, in cui la realtà è vissuta come una totalità omogenea ed indivisibile, in cui vedere sentire ed essere

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sono la stessa cosa, non esistendo la coscienza non esistono avvenimenti: una nozione abbastanza vicina alla metafisica di Heidegger, dove appunto l’essere non è concepibile altrimenti che come «radura». Questa concezione a strati della profondità dell’inconscio Matte Bianco ce la illustra fin dall’inizio: il livello dei pensieri inconsci, dei desideri proibiti, delle invidie sconosciute non è che un livello superficiale dell’inconscio; a un livello più profondo «la distinzione fra persone o fra oggetti comincia a perdere senso nella stessa proporzione in cui cominciano a dissolversi le nozioni spazio­ temporali. Corrispondentemente il concetto di aggressività, dopo essere passato attraverso livelli di infinita grandezza, comincia a recedere sullo sfondo. La fondamentale unità di soggetto e oggetto si fa sempre più sentire, fino al momento in cui parlare di identificazione proiettiva non ha più alcun senso». Ma come si determina questa successiva stratificazione della psiche? Attraverso una vertiginosa diffusione del principio di simmetria, che a differenza della logica classica, asimmetrica, caratterizzata dalla presenza di relazioni irreversibili e dal principio di non contraddizione, tratta invece tutte le relazioni come se fossero reversibili e le proprietà come se fossero non contradditto­ rie: come aveva già osservato Freud, l’inconscio non conosce la contraddizione. Nell’inconscio non solo il tempo, come sapeva anche Freud, non esiste, ma nemmeno lo spazio ha un senso; inoltre tutti gli oggetti membri di una stessa classe (cioè aventi un elemento comune) sono trattati come identici fra loro e identici alla stessa classe (la condensazione), ovvero la parte è intercambiabile con il tutto, e vi possono essere oggetti che possiedono proprietà contraddittorie, come quella dei morti che sono anche vivi, e così via: la simmetria che regna nell’inconscio è connessa al fatto che, a differenza della coscienza che opera sempre prendendo in conside­ razione classi di oggetti finite, l’inconscio opera utilizzando insieme infiniti, addirittura insiemi che hanno la potenza del continuo oltre a quella del numerabile, ovvero infiniti di infiniti, insiemi le cui

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parti sono anch’esse infinite. Anche le emozioni ad un ceno livello di profondità nell’inconscio, sono suscettibili di assumere valori infiniti; l’energia che possono mobilitare nonè più misurabile; poi scendendo ulteriormente, a livello della simmetria assoluta, scom­ paiono. Questo problema delle emozioni ad esempio è importantissimo al cinema, in particolare nel caso del melodramma che è tutto basato sull’accentuazione dei valori emotivi e che ha trovato nel cinema la forma linguistica della sua esaltazione: il cinema infatti è capace di inglobare tutte le forme precedenti del melodramma, letterarie, musicali, teatrali, e di condensarle tutte insieme. E se lo spettatore si commuove un poco coscientemente per la sorte dei personaggi, a un livello inconscio lo troviamo maggiormente coinvolto, in comunicazione con tutte le situazioni analoghe che egli raccoglie in una classe unica, con le scene analoghe che condensa in un’unica scena. A un livello più profondo lo ritrovia­ mo intento a condensare, mentre considera ogni classe o insieme di scene come elemento di una sola scena più ampia, e così via di classe in classe, fino alla classe infinita di tutte le scene, di tutti gli atti. Gli amanti traditi sono tutti gli amanti traditi, poi tutti i traditi, con i traditori, poi solo il bene e il male; la lotta dei due fratelli (un altro classico del melodramma) il buono e il cattivo, diventa la lotta di due principi; la donna bionda e la donna nera diventano due istanze universali della sessualità, che confluiscono poi nel bene e nel male. Ad ogni livello di condensazione corrisponde una emo­ zione più intensa e quando si arriva alle classi caratterizzate in misura minore, ci troviamo di fronte ad emozioni infinite per un oggetto infinito, ovvero per niente: alla infinità della emozione corrisponde in 'sede teorica la perdita dell’oggetto relativo ad essa. Questa messa in abisso è legata naturalmente alla capacità che ha il testo melodrammatico di spalancarci sull’eccesso, poiché la perdita del rapporto con il referente è caratteristica della scrittura come eccesso. E legata alla possibilità che ha il testo cinematografi­ co di costituirsi volta a volta come sottrazione di senso, alla

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possibilità che ha la scrittura cinematografica di perdere ogni consistenza per diventare «insistenza», come direbbe Roland Bart­ hes: «Via via che lo stile si assorbe in scrittura il sistema si disfa in sistematica, il romanzo in romanzesco»; la scrittura come eccesso arriva nel momento in cui si produce uno «scaglionamento dei significati, tale che non si può reperire alcun contenuto di linguag­ gio». La scena diventa scenografia, completa esaltazione del signifi­ cante cinematografico, indifferente alla credibilità o meno del modello o del singolo caso, come la lunga camminata di Robert Ryan e Ida Lupino, cieca, sulla neve, dopo la morte del fratello omicida, in Neve Rossa. (On Dangerous Ground, Nicholas Ray, 1951) con quegli incredibili trasparenti che si succedono in dissol­ venza incrociata a significare tutto il tempo che passa; come la morte di Joan Crawford in Perdutamente (Humoresque, Negulesco, 1946) con la donna che si inoltre nel mare, fino alla perdita di identità, ovvero di luminosità (imitata poi tante volte nella storia del cinema); o l’altrettanto irreale casa di Bette Davis in Peccato (Beyond the Forest, King Vidor 1949) con quella incredibile fornace sullo sfondo, sempre in trasparenza, del resto, che vomita fuoco e fiamme di giorno e di notte, impedendo alla inquieta protagonista di dormire. Sono tutte scene di cui, nell’abbandono agli eccessi più esaltanti, quasi sempre caratterizzati dai trasparenti (che sono la figura classica della scenografia eccessiva, insieme con i modellini) il cinema tende a produrre dei significanti universali, ovvero ad esprimere tutto e nulla. E vale la pena di osservare come la traduzione italiana nel titolo una volta tanto abbia colto l’essenza molto meglio degli originali americani. Gary Cooper che crolla dall’alto delle scale nell’incendio della vecchia mansion in Foglie d'oro (Bright Leavers, Curtiz) o il grande scoppio della casa, da San Francisco di Van Dyke (1936) a, perché no, Zabriskie Point, sempre inscenato a Frisco, del resto, nel 1969, sono ancora immagini di pura scenografia; addirittura pura lumino­ sità in Antonioni. O anche quando Bette Davis muore nel tentativo delirante di prendere il treno alla fine di Peccato, vediamo il cinema

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ritornare a se stesso, ripetendo nel movimento del treno con i finestrini illuminati che passano veloci sullo schermo, il movimento stesso della pellicola che scorre. E la scena infatti che genera sempre nei casi più riusciti il modello melodrammatico, la scena che crea e assorbe tutta la storia, come la ritroviamo anche nel gran finale di Duello al sole, dove è il paesaggio che produce, come polluzioni, i suoi personaggi, e li riassorbe poi dentro di sé, nella sua luminosità, nel suo fuoco, come anche nel somigliatissimo La montagna (Dmytryk, 1957) dove la natura sempre nascosta dietro gli immancabili trasparenti funziona come modello, con i suoi abissi e le sue altezze vertiginose, per il conflitto universale tra il bene e il male, incarnati sempre nei due fratelli — Spencer Tracy e Robert Wagner — e la scenografia, non che ripetere il conflitto, lo sostituisce: montagne indomabili, grandi ghiacciai, ponti di neve, rocce a strapiombo da chiodare, faglie da risalire, aerei schiantati sulla vetta e i due tesori, uno buono e uno cattivo: la lotta dei due fratelli sul ghiacciaio non è più il prodotto di quella immaginazione, ma ne è la cifra intellettuale, il modello astratto. Ma un testo che ha saputo cogliere con maggiore intensità questa idea del melodramma come vuoto scenografico, ovvero come scene infinite, è Strategia del ragno (Bernardo Bertolucci 1969), in cui anche sul piano tematico le relazioni si rivelano tutte reversibili e Athos è padre di se stesso, il buono è il cattivo, il traditore è l’eroe, la storia imita il teatro. C’è una scena in particolare verso il finale in cui Athos figlio pronunciando un discorso di inaugurazione final­ mente si smarrisce nelle parole, e mentre gli escono di bocca filastrocche senza nesso, internamente lo vediamo ripercorrere il cammino che conduce alle scaturigini, allo schema iniziale, da cui deriva anche il suo statuto di personaggio: rievocando la scena del complotto dentro la vecchia corriera abbandonata, comprende finalmente lo schema da cui si dipartono tutte le varianti: Un ballo in maschera, Rigoletto, Macbeth, Giulio Cesare, lui stesso e il padre: «un attentato, gli attentatori» dice, ricostruendo la base della

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scena verdiana da cui è generato, un palcoscenico da abitare, delle parti d recitare. Coniugando l’unione dei contrari, la reversibilità delle relazioni, la sottrazione del tempo e dello spazio, il film ripropone la scena melodrammatica come modello universale, il melodramma come insieme infinito in cui il futuro è identico al passato e al presente, in cui ogni elemento è identico all’insieme e all’intera classe, fino alla esperienza della perdita del senso nella contemplazione ottusa del paesaggio, o nella inquadratura finale in cui il dettaglio incompren­ sibile dell’erba diventa, come direbbe Eugen Fink, simbolo del mondo. La scena melodrammatica infatti si propone anche come modello universale della vita: Imitation of Life (Lo specchio della vita) è il titolo di un bel Sirk con Lana Turner (ancora l’importanza del titolo nel melodramma allude alla relazione della parte che deve contenere il tutto, come anche All That Heaven Allows e Written on the Wind). La neve che cade alla finestra della modesta casa di Lana Turner o le foglie che cadono nel giardino di Jane Wyman sono le immagini della vita stessa, con il suo eterno ‘fuori’, l’altrove simboleggiato dal cervo che si accosta così irrealmente alla grande vetrata di Rock Hudson, in All That Heaven Allows. In tutti i casi l’esistenza di un diaframma protettivo/privativo non è soltanto l’emblema della storia (che sarebbe ancora una simbologia ristretta), è un modello che contiene la raffigurazione stessa del cinema (la m.d.p. che non riesce ad entrare nella realtà), ed è la condizione generale da cui parte anche l’atto narrativo: accanto al fuoco, in casa, dietro la finestra, il narratore, la voce dell’enunciazione. E questo non attiene soltanto alla potenzialità simbolica del cinema, il cui significante, l’immagine tende ad estendersi a dismi­ sura, prevalendo sul significato e annullandolo; non solo a una caratteristica del cinema di tutti i tempi, ma soprattutto contempo­ raneo, che è l’iscrizione del procedimento nel testo, la citazione del cinema nel film. E che con le sue scene traboccanti sul lato 116

significante, con la sua scrittura eccessiva, il testo melodrammatico abolisce il referente: tende a proporsi come modello della vita, ma nello stesso tempo non conosce altro della vita che la scena cinematografica, ovvero la sua assenza (Sirk), la sua irraggiungibili­ tà (Vidor, Curtiz), la sua teatralità (Bertolucci). Solo a questa condizione, di proporre come inesistente una vita che si risolve nell’atto stesso del raccontare, perché non esiste altrimenti, il melodramma può proporre una scena universale e senza nome. Del resto, lo sapeva anche Murnau, che i protagonisti del grande melodramma non possono avere nome. Rileggiamo insieme la didascalia di Sunrise: «This song of the man and his wife is of no place and every place, you might hear it anywhere at any time. For wherever the sun rises and sets, in the city’s turmoil or under the open sky of the farm, life is much the same, sometimes bitter sometimes sweet». La funzione evidente di questa premessa, nonostante le ripetute affermazioni, è soprattutto quella di mettere in atto un sistema di negazioni che sottraggono alla storia ogni qualificazione, alia scena ogni collocazione, ai personaggi ogni attribuzione. Il procedimento è ancora una volta, come potrebbe ricordarci Matte Bianco, quello dell’accostamento dei contrari e della loro coesistenza nella frase: no place/every place, rises/sets, city/farm, bitter/sweet. Il risultato è la perdita del referente, e infatti gli elementi di Sunrise con le acque, il cielo, il sole, l’uomo, la donna e ancor più a fondo, cioè in superficie la luce e le tenebre sullo schermo, il bianco e il nero, il bene e il male. La scena del melodramma è una e infinita. Il libro di Matte bianco è edito da Einaudi nel 1981 e non contiene riferimenti al cinema, le citazioni di Barthes sono tratte da Sade Fourier Loyola, mentre ho ricavato la citazione di Eugen Fink da E.F., // gioco come simbolo del mondo, Lerici.

(n. 322, 1982)

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Quando una (diva) si abbandona Stefano Socci

Nel melodramma, molto spesso, non d’amore si muore, bensì di mancanza d’amore. I film che celebrano Hollywood non fanno eccezione: a partire da Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950), di Billy Wilder, più il declino della diva è struggente e più si viene coinvolti. Questo tipo di melodramma testimonia inoltre di aprirsi a sollecitazioni provenienti dai generi e tra questi, non ultimo, il noir. Si può aggiungere che la parabola discendente della star tende a identificarsi con un altro tema, quello del viaggio agli inferi: una follia consolatoria per Norma Desmond (Gloria Swan­ son), alcool, stupefacenti e un tentativo di suicidio per Emily Ann (Kim Stanley), protagonista di The Goddess (La divina, 1958), di John Cromwell. Quest’ultima, figlia illegittima, bambina e adole­ scente traumatizzata, poi attrice famosa di Hollywood, acquista, nella sceneggiatura di Paddy Chayfesky, valore di simbolo dell’in­ soddisfazione che provoca il successo e alcune connotazioni tragi­ che: negli angoli poco illuminati del set possiamo trovare depres­ sione, infelicità, rivelazioni improvvise di una realtà sordida e amara. Sunset Boulevard e The goddess introducono il problema del male che si nasconde a Hollywood utilizzando, in modo diverso, una stessa forma melodrammatica. Nel primo il cameriere-autista della diva (Erich von Stroheim) — in realtà suo ex marito ed ex grande regista Max von Mayerling — può permettersi di rievocare l’aureo periodo del muto: 119

«È stata la più grande di tutte. Lei non può saperlo. È troppo giovane. Riceveva diassettemila lettere alla settimana. Gli uomini corrompevano il suo parrucchiere per avere una ciocca di capelli. Ci fu un maharajah che venne apposta dall’india per avere una delle sue calze di seta. Più tardi, con quella, si strangolò»1.

Joe Gills (William Holden), a cui sono rivolte queste parole, sceneggiatore in crisi e, per interesse, amante di Norma, verrà sacrificato da quest’ultima, in nome della gelosia, nella grande villa-mausoleo sul Sunset Boulevard. I tre colpi di pistoia che raggiungono il giovane sceneggiatore provengono da un altro mondo, da una dimensione esotico-decadente suggerita dagli atteg­ giamenti e dai gusti dell’ormai anziana interprete di un immaginario Salomè. Si tratta quindi un inferno di cartapesta, micidiale, ma inevitabilmente artificioso, dove la figura del Maligno — o, meglio, della Diva — adombra le strutture di Hollywood con nostalgia e anche con un pizzico di stregoneria, visto che il cinema muto può, per una volta ancora, uccidere il sonoro. Con The Goddess., invece, incensi e veleni in sospensione sul sarcofago della mummia-diva rientrano nella sfera del ‘male’ quoti­ diano sotto forma di alcolici e droghe. A quattro anni da questo film il suicidio di Marilyn Monroe crea una contaminazione definitiva tra vita privata delle star e ruoli interpretati sullo schermo. In Suddenly Last Summer (Improvvisamente Testate scorsa, 1959), di Joseph L. Mankiewicz, tuttavia, la protagonista non è una diva del cinema, bensì una madre: l’archetipo della madre cattiva. Katherine Hepbum, comunque, dal punto di vista dello spettatore è effettivamente una star e ha quindi alcune possibilità di scelta. Così, grazie anche al testo di Tennessee Williams, in luogo dell’Isotta Fraschini di Norma Desmond, tappezzata in pelle di leopardo, può usufruire di un ornatissimo ascensore, molto simile a un trono, che la porta da un piano all’altro della sua ricca, ambigua 1 B. Wilder, Sunset Boulevard, traduzione di F. Di Giammatteo, Roma, Bianco e Nero Editore, 1952, p. 37.

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dimora. Nel film di Mankiewicz — autore, tra l’altro, di All About Eve (Eva contro Eva, 1950), descrizione del tramonto di una grande attrice di teatro che vede affermarsi una rivale più giovane e intraprendente — il destino della madre possessiva è segnato. Per nascondere l’omosessualità del figlio Sebastian, che è stato ucciso in Spagna da un gruppo di efebi impazziti, vorrebbe che la cugina di quest’ultimo, Catherine Holly (Elizabeth Taylor), ancora in stato di shock per aver assistito alla tragica vicenda, fosse rinchiusa in manicomio e sottoposta a lobotomia: teme che la ragazza, riprendendosi, riveli le componenti segrete della personali­ tà di Sebastian. Un giovane medico (Montgomery Clift), conoscen­ do i rischi di un’operazione al cervello, con un opportuno tratta­ mento psichico aiuta Catherine a ritrovare la memoria e il proprio equilibrio. Viene così a sapere che il cugino le aveva chiesto di accompagnarlo in Spagna non perché fosse innamorato di lei, quanto per servirsi della sua bellezza come di un’esca per attirare gli uomini: identica funzione aveva avuto la madre prima di perdere fascino e avvenenza. Questa ultima non resiste alla verità e impaz­ zisce. Recitazione intensa e uso sapiente degli ingredienti melodram­ matici sono l’origine di una sequenza memorabile. Ricoverata in manicomio Catherine, per caso, apre una porta che dovrebbe restare chiusa trovandosi in un corridoio sospeso che attraversa l’ampia stanza in cui sono rinchiusi i malati: dal basso decine di braccia si tendono per afferrarla e la ragazza, terrorizzata, oscilla pericolosamente verso il vuoto, da fossa, la follia. Il tempestivo intervento di alcuni infermieri ristabilisce l’ordine: l’edificio, tutta­ via, diviene automaticamente simbolo dei labirinti della Psiche2. 2 In The Music Lovers (L'altra faccia dell’amore, 1971), di Ken Russell, Nina (Glenda Jackson), moglie sventurata di Ciaikoyski, viene ricoverata in manicomio. In una sequenza di follia erotica braccia e mani spuntano dal basso, attraverso le grate che dividono gli uomini dalle donne, per avvolger­ la come i tentacoli di una piovra gigantesca, facendo pensare a un sottosuolo brulicante di mostri generati da un eccesso di immaginazione.

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Suddenly Last Summer, accesso inquietante alla perdita di identi­ tà, introduce melodrammi più recenti, tra cui Sophie's Choice (La scelta di Sophie, 1982), di Alan J. Pakula. Nell’estate del 1947, a Brooklyn, Sophie Zawistowska (Meryl Streep), un’affascinante polacca soprawisuta ad Auschwitz, si innamora di un giovane ebreo, Nathan Landau (Kevin Kline). Abitano in uno strano palazzo dipinto di rosa, dove vive anche Stingo (Peter MacNichol), scrittore al suo primo romanzo, che viene colto da un’infatuazione, non corrisposta, per Sophie. Fra i tre nasce un’amicizia profonda; in una serie di flashback la donna fornisce a Stingo elementi sufficienti a ricostruire il suo passato: la vita a Cracovia e l’odio per il padre (un professore universitario ferocemente antisemita, tuttavia fucilato dai nazisti), il matrimonio con Casimir Zawistowski, l’arresto e la deportazione, la selezione mostruosa impostale da un ufficiale medico delle SS (giunta al campo ha dovuto scegliere tra i due figli, dei quali uno soltanto è autorizzato a vivere), la collaborazione forzata con Rodulf Hòss, comandante ad Auschwitz. Minata dal senso di colpa ereditato durante questa stagione all’interno, Sophie si lega morbosamente a Nathan, uno schizofrenico paranoide che si droga; dopo una crisi più violenta delle altre Stingo la convince a staccarsi da Nathan e a seguirlo in Virginia, dove ha ereditato una casa e una piccola piantagione, quindi le propone il matrimonio. Sophie gli si concede e poi lo abbandona per tornare da Nathan, insieme al quale morirà suicida. Tratto dall’omonimo romanzo di William Styron, in parte autobiografico, Sophie's Choice è un melodramma perfetto, dove il classico triangolo (Tei, lui e l’amante frustato) si inserisce in un contesto melodrammatico divergente: i riferimenti al passato, all’esperienza allucinante del campo di concentramento. Il male, «quello generalmente ritratto nei romanzi, nei drammi e nei film» — scrive Styron — «è mediocre se non spurio, un meccanismo dozzinale composto di solito di violenza, fantasia, terrore nevrotico e melodramma. Questo ‘male immaginario’ [...] è romantico e

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vario, mentre il male reale è tetro, monotono, scialbo e noioso»34 . Il primo incontro fra Nathan e Sophie è, anche nel romanzo, tipicamente cinematografico, avviene «nel modo delizioso e fortui­ to di quei romantici estranei delle fantasie hollywoodiane»"*. Sty­ ron, inoltre, paragona Sophie a una star del cinema d’altri tempi — Clara Bow, Gloria Swanson o Fay Wray — e Nathan a John Garfield. Il melodramma per le dive e sulle dive si intreccia quindi agli elementi di sicuro effetto emotivo contenuti nei film che descrivono la condizione dei reclusi nei campi di sterminio del Reich; tale qualità melodrammatica è anche all’origine di alcuni serial televisivi in cui l’Olocausto diviene spettacolo, argomento che garantisce un successo immediato5. Questo perché componente essenziale di ogni melodramma resta pur sempre il concetto di sacrificio, che, attraverso la triste esperienza del nazismo, sembra acquistare un’eco universale. Droga, follia e sacrificio appartengono a Sophie's Choice, ma anche a Veronika Voss (Id., 1982), di Rainer Werner Fassbinder, in cui la protagonista è una star del periodo nazista, ormai dimenticata e dedita alla morfina. Robert (Hilmar Thate), giornalista sportivo, vorrebbe salvarla da una dottoressa malvagia che l’ha resa tossicodi­ pendente e la tiene chiusa in un ambiente asettico, completamente bianco, allo scopo di impadronirsi dei suoi beni. Fallisce e Veronika (Rosel Zech) viene trovata morta, vittima dei sonniferi. Questo film

3 W. Styron, La scelta di Sophie, traduzione di E. Capriolo, Milano, Mondadori, 1980, p. 157. 4 W. Styron, La scelta di Sophie, p. 105. 5 Da Holocaust (1978), dove compare anche Meryl Streep, a film per la televisione come Playing for Time (1979-80), sceneggiatura di Arthur Miller, in cui Vanessa Redgrave è Fania Fenelon, una cantante di cabaret deportata ad Auschwitz; e oa feuilleton più o meno riusciti — tra i quali The Odessa File (Dossier Odessa, 1974), di Ronald Neame, Marathon Man (Il maratoneta, 1976), di John Schlesinger, e The Boys from Brazil (1 ragazzi venuti dal Brasile, 1978), di Franklin J. Schaffner — a Julia (Giulia, 1977), di Fred Zinnemann, ancora con Vanessa Redgrave.

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di Fassbinder, quasi un remake, con finale rovesciato, di Sunset Boulevard*, riconduce a Hollywood, alla storia vera di una diva degli anni trenta. Con Frances (Id., 1982), di Graeme Clifford, il melodramma ritorna ai motivi di Suddenly Last Summer, al tema della madre diabolica e possessiva. Frances Farmer (Jessica Lange) ha in comu­ ne con la protagonista di Sophie's Choice fascino e sregolatezza sessuale, l’amore per il nuoto e una latente follia associata a un pesante senso di colpa; all’odio per il padre tuttavia sostituisce quello, altrettanto significativo, per una tradizionale madre ameri­ cana. Ruolo che, nel film, viene sostenuto da Kim Stanley, l’attrice che vent’anni prima aveva interpretato il personaggio di una star quasi suicida in The Goddess di John Cromwell. Semplice coinci­ denza o ironia della sorte nel film di Clifford tiranneggia una giovane diva in ascesa, sua figlia Frances, bionda, sensuale e piena di talento. La ragazza ottiene i primi successi in teatro — l’ambiente di All About Eve — e ben presto di lei si accorgono Clifford Odets (Jeffrey DeMunn) e il «Groupe Theatre» di New York. Nel ’35 è una star della Paramount, protagonista di Come and Get It (Ambizione, 1936) di Howard Hawks. Subito dopo inizia il declino, accelerato dall’insofferenza alle regole di vita a cui sono sottoposti i divi delle grandi case di produzione, dall’instabilità di carattere e dall’influenza nociva della madre. Inizia a bere, poi si droga, viene coinvolta in una rissa e arrestata dalla polizia: l’avvoca­ to riesce a mutare la sentenza in un periodo di ‘riposo’ a Meadow Wood, una casa di cura in cui la sottopongono a shock insulinico. Fugge con l’aiuto di Harry York (Sam Shepard), al quale è legata da un affetto incostante, ma la madre viene riconosciuta suo tutore legale e, accortasi che Frances non ha alcuna intenzione di tornare a Hollywood, riesce a farla ricoverare in manicomio, dove subisce l’elettroshok. Dimessa per intervento di Harry, si sottrae nuova6 Lo stesso Wilder, nel 1978, con Fedora, aveva anticipato il remake di Fassbinder.

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mente alle ambizioni materne e, rinchiusa per la terza volta, esce soltanto dopo un’operazione al cervello. I genitori sono morti e in un programma televisivo, Questa è la tua vita, un’intervista la riabilita ufficialmente. La madre della star, anche diva-madre, unica dispensatrice di gioie e innumerevoli dolori —Joan Crawford (Faye Danaway) in Mommie Dearest {Mammina cara, 1982) di Frank Perry, — è stata, a sua volta, figlia (diva) senza amore o diva (madre) insoddisfatta. Simbolo di un ciclo che unisce passato e presente — e li chiude in un reticolato — questa figura amministra l’universo oscuro in cui alcune eroine del melodramma hanno trascorso buona parte della loro esistenza; è una metafora di Hollywood, dove Ì sopravvissuti al successo si aggirano in una folla di peccatrici senza volto. (n. 339-340, 1983)

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Il melodramma di Matarazzo: meccanismi di funzionamento Teo Mora

1 — Se si analizza anche solo superficialmente la trama dei film più ‘matarazziani’ di Matarazzo (Tormento, Catene, Vortice, L'ul­ tima violenza), si nota un’esemplare ripetitività di temi, situazioni e personaggi: vita familiare idilliaca, intromissione di un personaggio esterno che, giocando sugli scrupoli della protagonista e sulla sua ostinazione al silenzio, riesce a distruggere il suo focolare e a rovinarla completamente, fino ad un lieto fine provocato spesso da un personaggio di ‘testimone’. Trama elementare e allo stesso tempo estremamente diffusa, dalle narrazioni del folklore (Cenerentola, Biancaneve, Amore e Psiche, ma anche Barbablù) alla Justine sadiana, al racconto gotico, al romanzo d’appendice. Ma non sono ì riferimenti culturali (o sottoculturali) — del resto presenti con evidenza: la matrigna di Tormento è la matrigna di Cenerentola e la Venere di Amore e Psiche, il marito di Vortice è Barbablù, La nave delle donne maledette non è Sade ma la sua ispirazione è senz’altro sadista — ma le connotazioni che il tema assume nella versione matarazziana sono quello che qui ci interessa. Osserviamo innanzitutto due cose: nella maggioranza dei film, la struttura in cui si inseriscono i rapporti dei personaggi è quella del triangolo borghese (più raramente, come ne\V Ultima violenza o nella Risaia è il triangolo epidico, con connotazioni vivaci all’ince­

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sto), un triangolo perverso dove non c’è colpa, ma dove la colpa è vissuta ugualmente e anzi con maggior intensità dalla protagonista; dei personaggi, l’unico dotato di una qualche psicologia è la donna, non il marito, figura sempre scialba, né l’amante’ che la situazione paradossale di una colpa inesistente ma vissuta come reale costringe in un ruolo di villain astratto. Sono questi due aspetti a caratterizza­ re il melodramma matarazziano. Un unico personaggio dotato di una psicologia, un unico perso­ naggio quindi con cui sia possibile l’identificazione, anzi con cui essa è richiesta (l’eroina matarazziana è Yvonne Sanson, questa antidiva dai lienamenti un po’ sfatti da casalinga), quello femminile della ‘madre e sposa’ (attraverso la cui psicologia la storia viene detta e interpretata), catapultata in un triangolo fantasmatico ma sentito come reale, dilaniata da un senso di colpa per qualcosa che non è se non il peccato originale, rovinata non dalle circostanze ma dalla sua reazione, impostale (dalla sua ideologia) dal senso di colpa originario in cui vive, spinta da un’espiazione che non è solo fatica e umiliazione, confessione della colpa non commessa (Catene), è soprattutto negazione della sua realtà di donna (si sciupa, invecchia, e la macchina da presa registra con crudeltà le sue rughe) e sublimazione del suo ruolo. Cinema sulle donne e per le donne: si favoleggia infatti dei fiumi di lacrime versati da milioni di madri e massaie sui tristi casi della Sanson, degli assedi ai cinema perché le copie non ripartissero; non ci interessa — sia chiaro — una spiegazione storica ipotetica di tutto ciò e nelle righe seguenti non tenteremo di darne una; ci limiteremo a partire dalla descrizione di questi oggetti (i film di Matarazzo) di suggerire un loro modo di funzionamento; è proba­ bile che sia quello storicamente avvenuto, ma è anche possibile che la somiglianza tra le relazioni storiche e quelle immediatamente implicate dal nostro ipotetico funzionamento sia ‘puramente ca­ suale’. La concezione della donna nella nostra civiltà e soprattutto nel pensiero cattolico vive sotto il segno della contraddizione: veicolo 128

de! peccato e oggetto del demonio (è lei la prima responsabile del peccato originale, è sotto le sue spoglie che lo spiritxs fomicationis appare ad Adamo, e poi Alcina la maga, la principessa Brambilla e tutte le variazioni occidentali sul tema della vagina dentata), colpevole e minacciosa, ma esaltata e glorificata nel suo ruolo di madre. Ma naturalmente il modello culturale a cui la donna dovrebbe adeguarsi, quello della Madonna, che madre senza pecca­ to libera il mondo dalla colpa di Èva e di Lilith, è contraddittorio: non si può essere vergini e madri contemporaneamente. Di qui il complesso di colpa legato all’essere donna, di qui la molla che fa scattare il meccanismo di funzionamento del film, che opera appunto a partire dalla contraddizione del ruolo femminile (contraddizione ideologica ma reale proprio per questo) portandola all’estremo nel corso di una fantasia paranoica che libera e scatena il complesso di colpa, costruendosi nello sprofondamento in un abisso di punizioni e umiliazioni, prodotte dal complesso di colpa che a loro volta rafforzano, fino a raggiungere il fondo, il limite (della sopportabilità, non certo della contraddizione che resta inconciliabile, oltre che celata proprio dalla fantasia che scatena) e a risolversi allora attraverso il lieto fine, il riaccendersi delle luci, il riaffiorare della coscienza alla realtà. Fantasia catartica ed esorciz­ zante, che ben lungi da far esplodere la contraddizione, dal portarla alla coscienza, la nasconde ancor di più: attraverso il rito di questa sofferenza simulata e controllata (in un luogo deputato, come dei compagni di rito, con la certezza soprattutto che l’incubo avrà un termine; e il lieto fine non è importante, si giustifica per altri costumi culturali, qui potrebbe non esserci, anzi molte volte non c’è, perché il finale è sotto il segno della follia e della morte — Tormento, Vortice — l’importante è la sicurezza che nel momento in cui la fantasia diventa insopportabile il meccanismo scatta e la fantasia finisce) si esorcizza il rischio di una sofferenza reale; avendo vissuto intensamente nella fantasia l’intollerabilità del pro­ prio ruolo, esso diventa facilmente tollerabile nella realtà.

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2 — Merita certo un approfondimento la lettura alternativa realizzata dalla cultura ufficiale e dominante, negli anni della popolarità di Matarazzo, che è stato per lungo tempo l’unico tentativo di sistemazione e di valutazione critica. L’analisi si mantiene a livello superficiale, estrapola dai film una presunta ideologia ‘matarazziana’ (scelbista, di appoggio al regime, cattolico-integralista); davanti alla popolarità di questi film è incapace di trovare una risposta e casca subito nel vizio principe dell’intellettuale italiano, il razzismo culturale nei confronti delle masse, di cui tuttavia si resta ‘compagni di strada’. Merita qui di riportare per esteso alcune citazioni: «il successo si spiega anche col fatto che certi film rappresentavano [...] il punto di vista di determinate zone della popolazione piccolo-borghese [...]: sono le abitudini italiane, il difetto strapaesano che sta alla base di quei sentimenti e di quelle istituzioni» (Baldelli); «il neorealismo popolare rientra insomma nel vasto paragrafo del genere larmoyante... l’antica tendenza nazionale a piangere su se stessi, e piangendo assolversi di ogni errore, consolarsi di ogni inettitudine, ha trovato una nuova, massiccia manifestazione» (Spinazzola). Insomma l’ideologia reazionaria di Matarazzo, grazie all’incapa­ cità di decifrare il meccanismo dei film, si riduce a quella di un malo educatore contrapposta ad un’operazione progressista di ‘buona’ educazione (ed è significativo che Baldelli accusi Matarazzo di considerare lo spettatore «sempre minorenne o un buon selvaggio, da proteggere e da educare» e si dilunghi poco sotto a consigli su come educare le masse — mature sì ma ineducate — ad uso di animatori e circoli del cinema) e sfugge così la sua effettiva pericolosità. 3 — In apparenza più ottusa è la reazione dell’intellighentsia cinematografica cattolica, impegnata a condannare freneticamente un dopo l’altro tutti i film di Matarazzo per le immoralità gratuite e le continue deviazioni da una sana morale, responsabile inoltre della grottesca versione tagliata di Tormento.

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In realtà essa aveva visto giusto: sia pure con il lodevole scopo di rafforzare l’ideologia dominante, di catartizzare le contraddizioni, i film matarazziani erano costretti a metterle in luce, a farle esplodere (sotto questo aspetto è esemplare probabilmente il pezzo tagliato dell’urto tra la suora e la madre in Tormento, e tutto il trattamento dell’aborto — «prevale però la tesi sana», CCC — in Guai ai vinti). Il punto di rottura deve essere raggiunto,e allora può anche darsi che l’operazione fallisca, che non si possa ripercorrere il cammino: anche dal viaggio paranoico, come da quello schizofrenico, può anche esserci ritorno.

4 — A volte è soltanto una leggera smagliatura, la qualità fantasmatica e allucinatoria (immagini flou e ondeggianti, il senso della vertigine) di lieti fini che assomigliano troppo ad un delirio (Tormento, Vortice): è il rischio che si presenta sempre al punto di rottura, l’eventualità che gli animali del bosco abbiano divorato le briciole di pane sparse d Pollicino a segnare la strada e che il ritorno sia divenuto impossibile. A volte invece la smagliatura è più estesa, corrode tutto il tessuto del film, il meccanismo si inceppa, inizia a funzionare alla rovescia, a vanificare e a far saltare il suo assunto ideologico. L’esempio più calzante è La nave delle donne maledette: l’acco­ rato appello morale (istico) del vecchio prete spretato, l’interventoconversione della più politicizzata delle galeotte, il riscatto dei protagonisti, la loro riabilitazione, il loro reingresso nella civiltà dovrebbero costituire il ‘percorso di ritorno’, il procedimento catartico di ri-assicurazione; ma questa volta il gioco è stato spinto troppo oltre, l’esasperato fumettismo; la caricaturizzazione dei personaggi, soprattutto l’estrema fisicità dell’orgia, tolgono ogni spazio ad un recupero ideologico; i personaggi sono troppo Dolmancè perché Consuelo non sia Justine, perché il finale non sia appiccicaticcio ed ipocrita sberleffo: La nave delle donne maledette è la folgorante utopia di una società basata sul delirio e sul trionfo dell’es, o forse una riflessione moralistica e disperata su quella nave 131

dei folli che è la civiltà, ma non c’è assolutamente più spazio per il recupero di alcun valore, né quelli borghesi a cui aspira Ettore Manni, né quelli cristiani del prete, né quelli del riscatto politico intravisto da Rosario. La nave delle donne maledette indica con evidenza la strada da seguire per scoprire il meccanismo segreto dell’opera di Matarazzo: la metricità dei dialoghi e delle immagini che si strutturano autonomamente, rigettando e coagulando in superficie il messaggio ideologico, lo vanificano e lo svuotano nella costruzione delirante di un cinema fantastico e perverso. L'angelo bianco che dovrebbe trovare il suo supporto ideologico nel dramma della madre-suora ‘perseguitata’ dall’ex-amante che trova la sua angoscia e il suo sacrificio, la sua frustrazione e il suo appagamento di madre nella dedizione del figlio dell’‘altra’ costrui­ sce una perversa variazione sul tema del doppio — con Yvonne Sanson suora e puttana, con Amedeo Nazzari che insegue la sua abiezione c il fantasma del suo amore — che non ha nulla da invidiare all’Hoffmann più diabolico. Guai ai vinti, in apparenza una lacrimosa narrazione sui ‘figli del nemico’ e sull’intolleranza, sulla falsariga di un romanzo della Vivami, è l’unico film ad affrontare in pieno il più mostruoso dei temi del fantastico, il concepimento del figlio diabolico e alieno: il primo tempo incentrato intorno alla figura della Padovani e alla sua decisione di abortire non lascia adito a dubbi: il feto è «un cancro mostruoso che la divora» e da cui deve assolutamente liberarsi e né la scienza né la religione né la pietà possono far niente per lei; ma è nel secondo tempo che il tema viene sviluppato audacemente fino alle estreme conseguenze (oltre ad essere uno dei più maturi esempi del cinema fantastico, nella completa aderenza e nel rinnovamento interno dei canoni del gotico e del feuilleton nella sequenza della tempesta): Anna Maria Ferrero decide di tenere il bimbo mostruo­ so e muore per proteggerlo, aggredita da una folla come bestiale quella che l’aveva violentata; ma il bimbo che ha partorito è sacro (non solo «compie il miracolo» che ridà la voce alla piccola muta,

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ma la sequenza del presepe non lascia dubbi al proposito): il figlio del nemico è figlio del peccato che viene a riscattarci dal peccato; per la Vergine madre ci sarà l’Ascensione: per lei, l’unica tra le madri dell’opera matarazziana, le sbarre chiuse che scandiscono la fine, il ricomporsi della frattura catartica, della normalità familiare, restano spezzate; lei sola ha trovato la liberazione. L’indagine potrebbe appoggiarsi su altri testi, decifrare altri frammenti del meccanismo matarazziano; ci sembra sufficiente analizzare il modo in cui, nella Risaia, la stessa costruzione ideologica del film opera la propria contestazione e il proprio smantellamento. A differenza di Riso amaro (che nonostante la velleità del titolo e le interpretazioni della critica sfugge completamente ai temi sociali e si rifugia nelle ossessioni vitalistiche di De Santis in una narrazio­ ne che trasuda odore di sesso e sudore di sangue), La risaia investe in pieno i temi sociali, sia il rapporto padroni-lavortori (natural­ mente visto in un’ottica da ‘padrone delle ferriere’ o da romanzo di Cronin: la politica è sempre assente nell’opera di Matarazzo (con l’eccezione forse di Rosario nella Nave delle donne maledette, dove la politica appare comunque in una dimostrazione per assurdo della sua inutilità), sia soprattutto il nucleo ideologico fondante della civiltà borghese, la famiglia. Il film indaga le due impossibili triangolazioni familiari di Folco Lulli, quella della sua famiglia (dove il figlio diventa nipote — figura stereotipatamente idiota e perversa — e la madre, moglie sterile e quindi malvagia: la razionalizzazione ideologica ha le sue esigenze) e quella della famiglia che ha rifiutato e che ora lo rifiuta. A livello di superficie non ci sono problemi: la famiglia malvagia, come nelle fiabe, viene punita e Lulli, attraverso l’assunzione della sua colpa e il rimorso, si redime e tutti vivono felici e contenti. Ma l’operazione anche stavolta non può esimersi dall’ambiguità: l’inevitabile sovrapposizione del triangolo matarazziano porta ad un deplacement degli altri personaggi: la madre deve essere elimina­ ta appena richiamata in scena (attraverso il dialogo di riconosci­

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mento soffocato dal crescendo della musica); su Lulli possono così trasferirsi entrambi i poli del triangolo: l’amante perverso e la madre pentita; questo richiede un nuovo sdoppiamento e il trasferi­ mento del suo lato negativo sul figlio: la risultante è un triangolo edipico in cui, a differenza del mito freudiano, è il padre ad uccidere il figlio e a fondere le regole esogamiche (cfr. L'ultima violenza)-, la famiglia borghese rinasce e trionfa ma dalle ceneri della sua dissoluzione e di un fallimento totale. La riassicurazione e la restaurazione ideologica è illosoria; lo spazio del cinema di Matarazzo non è lo spazio dell’ideologia, è quello di un mito che ne costituisce la perversione e il limite contraddittorio.

5 — Qualcuno potrà dire che la massa ha gusti deteriori, che la massa non va seguita, ma educata. D'accordo. Ma a nessuno viene il dubbio che la deteriorità dei gusti della massa possa essere forse nella forma ma mai nella sostanza? Che per la sua educazione la massa preferisca scegliersi da sola i suoi testi e non farseli imporre dall'alto, da chi tavolta non sa parlare neppure lo stesso semplice umano linguaggio? Raffaello Matarazzo, «L’Unità», 18 dicembre 1955. Sin dalla prima riga [...] non entriamo se non in codesto spazio della lettura, non incontriamo altra finzione se non quella che poniamo, che costituiamo in quanto lettore [...] né limiti che non siano i nostri [...]. Marcelin Pleynet, Lautréamont. (n. 312, 1981)

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Il viso di Pandora Stefano Socci

Lisci selciati, portici d’ombre, cieli antichi, volumi netti, statue solitarie e/...] ogni forma di vita, o che ricordi la vita, è come sospesa, avvolta in un velo impalpabile che la separa dal resto del mondo. M. De Micheli

A Esperanza, un villaggio sulla costa mediterranea della Spagna, una rete di pescatori ha portato in superficie due cadaveri. L’ar­ cheologo Geoffrey Fielding (Harold Warrender) identifica i corpi di Pandora Reynolds (Ava Gardner) e Hendrick Van Der Zee (James Mason); sulla sabbia, poco lontano, si nota un libro apeto su una lirica di Omar Khayyàm’. Ritroviamo Geoffrey nel suo studio, mentre accosta i pezzi di un vaso antico, e la sua voce — fuori campo — apre quel lungo flashback di altri flashback che è Pandora and the Flying Dutchman (Pandora, 1950) di Albert Lewin. L’archeologo-narratore-regista prosegue evocando una magica ' «The Moving Finger writes: / and, having writ, / Moves on: nor all thy Piety / nor Wit / Shall lure it back to cancel / naif a Line, / Nor all thy Tears wash out / a Word of it». Dal Rubaiyat', i caratteri appaiono in sovrimpres­ sione, all’inizio, sull’inquadratura della risacca. Contemporaneamente la voce fuori campo traduce: «La mano avanza e scrive; e, quando, ha scritto, procede: né tutta la tua pietà, né il tuo ingegno la indurranno a tornare indietro e cancellare un solo mezzo rigo, né tutte le tue lacrime ne laveranno via una sola parola».

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notte di primavera, nel corso della quale aveva iniziato la lettura di un manoscritto originale del XVII secolo, trovato per caso: la confessione dell’olandese Volante. La luna piena e un canto di gitani proveniente dall’osteria «Las dos tortugas» tuttavia lo di­ straggono; grazie a una dissolvenza l’azione si sposta nel locale, dove — contemporaneamente all’esibizione di tre ballerini di flamenco — assistiamo a quella della cantante americana Pandora Reynolds, oggetto di culto per le comunità anglosassone residente a Esperanza, Geoffrey compreso. Quella notte Reginald Demarest (Marius Goring) si suiciderà per lei; Stephen Cameron (Nigel Patrick) la chiederà in sposa e verrà corrisposto (anche se in cambio dovrà gettare la sua auto da corsa in mare); quindi la ragazza — scorgendo nella rada uno yacht candido e solitario — lo raggiunge­ rà a nuoto, incontrandovi Hendrick Van Der Zee, uomo del destino. Un’altra leggenda narra di un tesoro sepolto in mare al largo di Esperanza, dove si sono incrociate le rotte del mondo per duemila anni: greci, romani, mori e celti hanno lasciato tracce della loro cultura. Anche Van Der Zee si ferma nel villaggio, aiutando Geoffrey a tradurre il manoscritto che racconta la storia della nave fantasma; sulle parole di Hendrick che legge anche ad alta voce passiamo, in dissolvenza, a un episodio in costume, dove l’Olandese — colpevole di aver ucciso la moglie innocente in un impeto di gelosia — viene condannato a errare sui mari fino al giorno del Giudizio2*. Ogni sette anni, per sei mesi, potrà cercare a terra una donna — «fedele e onesta» — che gli restituisca il senso dell’amore e la mortalità negata. In paese, nel frattempo, è arrivato Juan Montalvo (Mario. Cabré), un torero famoso, innamorato di Pandora. Quest’ultimo sa che la 2 Secondo le fonti originali il capitano olandese subì questa condanna per essersi ostinato a doppiare il Capo di Buona Speranza malgrado la proibizione divina. Nel flashback in abiti seicenteschi il viso della moglie, «bianco e freddo come il marmo», è identico a quello di Pandora Reynolds.

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ragazza sposerà un inglese, ma comprende che il vero ostacolo è Hendrick — e una sera lo pugnala a morte. 11 giorno dopo, rivedendolo fra gli spettatori della corrida, si distrae inorridito e viene ucciso dal toro. Alla vigilia delle nozze con Stephen, Pandora chiede a Geoffrey chi sia quell’olandese che la affascinava intima­ mente; scorre la traduzione del manoscritto, raggiunge Van Der Zee sullo yacht e si inabissa con lui in un quadro di tempesta. Ogni film che trascriva Der Fliegende Hollander di Richard Wagner seguendo la tradizione non può escludere dalla scenografia il ritratto del protagonista (un uomo pallido con barba nera e costume alla spagnola), di fronte al quale — all’inizio del secondo atto — troviamo Senta in contemplazione sognante. L’icona del­ l’uomo fatale diviene in Pandora and the Flying Dutchman la riproduzione pittorica di Miss Reynolds, «dea segreta che nel loro cuore tutti gli uomini desiderano». Curiosamente l’autore della tela è proprio l’Olandese, Van Der Zee. Quest’ultimo vede apparire la ragazza — avvolta in un sacco bianco per le vele, quindi statuaria — mentre sta lavorando con pennelli e colori, ispirandosi a un’altra Pandora, l’Èva nella mitologia greca, la favorita degli dei. Il volto è quello della cantante, benché Hendrick si sia affidato alla miniatura ovale che ritrae sua moglie, assassinata trecento anni prima. In questa scena dell’inizio, ambientata nella cabina dello yacht, di notte, pare che Lewin stesso abbia voluto- suggerire una chiave di lettura del film: in un gioco in specchi e citazioni. Pandora-SentaDesdemona Reynolds di Indianapolis si fa psicanalizzare a buon mercato dal comandante del vascello fantasma Otello-Van Der Zee5. Entrambi tuttavia discutono sull’opportunità di modificare il quadro, nel quale una donna in tunica bianca reca una urna, mentre 5 Pandora (osservando il ritratto): «Non mi somiglia affatto. Mi piace­ rebbe essere così; perché io non sono così?». Hendrick: «Forse perché è insoddisfatta di non aver trovato quello che vuole, forse nemmeno sa quello che vuole; e quindi è scontenta: è l’insoddisfazione che lei compensa con la furia e la distruzione».

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alle sue spalle si stagliano templi e rovine antiche, architetture nette, ombre allungate in prospettiva. Sembra la copia di una delle Piazze d'Italia dipinte da Giorgio De Chirico; Pandora cancella il volto sulla tela, così che Hendrick, illuminato, gli sostituisce una forma astratta, «l’uovo originale e genetico, da cui possiamo immaginare che sia derivata la razza umana». Ancora una suggestione dalla pittura metafisica: Miss Reynolds è adesso una musa inquietante4. Questa breve lezione di storia dell’arte — offerta da un personag­ gio leggendario a un’eroina mitologica — costituisce di per sé un altro quadro, che si inserisce nella tela più ampia eseguita dal regista: non soltanto De Chirico, ma riferimenti a Max Ernst o Eluard — affiancati alla ripetizione ossessiva della lirica di Khayyàm — contribuiscono alla creazione di un realismo magico che tende costantemente al surrealismo. Il litorale di Esperanza infatti è caratterizzato da una qualità di statue di marmo, bassorilie­ vi, monumenti di pietra, che sono comparse e attori, rimulacri e presenze, creature del sogno e tangibili reperti archeologici — al limite dell’ambiguità, sottilmente mostruosi. Nel clima di una lucidissima, statica irrealtà (i protagonisti agiscono d’impulso, è vero, ma appaiono congelati dalla voce del narratore) si concretizza l’operazione di Lewin, il quale assimila Pandora, la prima donna, alla diva Gardner e non esita a inserire nella sceneggiatura una collezione di souvenir, passando con disinvoltura dagli ambienti esotico-mediterranei desunti da Fitzgerald, Hemingway o Tennes­ see Williams al simbolo dell’albatro della Ballata di Coleridge, ai paesaggi allucinanti del Gordon Pym di Poe, al repertorio teatrale operistico {Fidelio, Carmen) e di prosa (l’Otello shakespeariano), persino al folclore spagnolo. Una tela, comunque, ha bisogno della cornice, che in questo caso è un mascherino: la lente del cannocchiale di Geoffrey racchiude e

4 Nel finale, quando la protagonista raggiunge Van Der Zee sullo yacht, il volto del ritratto ha riacquistato le fattezze originali.

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fissa per sempre, nel finale, il quadro di genere, la scena dell’anne­ gamento degli innamorati — come all’inizio, dalla terrazza, aveva anticipato la soluzione romantica della storia. Una pittura inoltre richiede il giudizio di un critico; Geoffrey, delegato dal regista a esporre l’enigma di Pandora, è anche archeologo e collezionista appassionato. Sua è la funzione critico-analitica, quella dello stu­ dioso, onnipresente grazie alla voce fuori campo; private eye dilettante di trame sentimentali, narra quasi sempre il passato, come Marlowe, ma preferisce l’investigazione scientifica (il terzo occhio, la lente del canocchiale — una metafora della macchina da presa) e l’osservazione a distanza, il necessario distacco dalla vicenda. Fielding possiede inoltre le qualità medianiche di chi — essendo la controfigura dell’autore — sa già come andranno a finire le cose. Voyeur, cronista, amante frustrato, questi sigilla con un’istantanea il sepolcro degli amanti impossibili, ricomponendo i frammenti dell’urna, i lineamenti del viso di Pandora. Quali sono le ragioni del fascino che — al pari del quadro dell’olandese agli occhi della protagonista — il film di Lewin esercita ancora sull’immaginazione dello spettatore? La sceneggia­ tura è appesantita da tumori e compiacimenti letterari, l’azione ha il ritmo lento e filosofeggiante della voce fuori campo, i personaggi impallidiscono nel ruolo di zombie-ripetitori. Il profilo greco di Ava Gardner, statua perfetta modellata dai numi di Hollywood, invece, è ovunque. Forse questa caratteristica di inventario del sogno collettivo — di sintesi creativa del rapporto fra sogno e rappresentazione — fa lievitare Pandora and the Flying Dutchman, antologia di favole, pastiche surrealista, melodramma poliziesco, feuilleton metafisico. (n. 368, 1986)

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Il melodramma di Vincente Minnelli: la frenesia e l’estasi Giuseppe Turroni

•Non sarà la paura della follia a costringerci a lasciare a mezz'asta la bandiera dell'immaginazione» (A. Breton).

Una attenta rilettura di una buona parte dell’opera di Vincente Minnelli ha permesso di tentare un discorso critico, che in Italia esiste allo stato frammentario e che altrove passa da stati di esaltazione entusiastica ad litri di abbandono e di memoria scaduta o ridotta. Così, accanto a certe rapide illuminazioni, a certe impressioni del sottoscritto, soltanto Edoardo Bruno' ha penetrato lo spirito di una 1 A parte diversi scritti dedicati da Bruno all’opera di Minnelli, esiste nel volume Tendenze del cinema contemporaneo (Roma, Samonà e Savelli, 1965), una precisa evidenziazione della parabola critica e intellettuale di Minnelli, una netta linea di tendenza che io unisce (tanto scandalosamente, per tanti pigri di casa nostra!) a ‘intoccabili* della regia e del mito (p. 15: «il cinema ai vicenda può comprendere esperienze di linguaggio vecchie, tradizionali — Visconti, Minnelli — ecc.») e che comunque lo inquadra in una posizione precisa: quella del melodramma (p. 14: «per non riuscire a rimuovere il luogo comune si finisce con il creare assurde barriere di comodo escludendo certi autori, o ignorando certe affinità stilistiche, come ad esempio per Visconti e Minnelli, che almeno nel tratto figurativo, rilevano una comune derivazione dal melodramma»), e quella di una struttura filmica che rappresenta un oltre alla stessa imposizione tematica o

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ricerca da noi ancora riservata a pochi. Il luogo comune ci consiglia di vedere Minnelli in una luce di musical leggiadro, in una dimensione di ‘mago’ amabile, capace di intrattenere grandi e piccoli in spettacoli di varietà che recano l’impronta inconfondibile del mestierante tuttofare. E chiaro che si tratta di uno schema critico tra i più banali, ristretti e ottusi che siano stati adottati, nel corso della storia del cinema, per un autore di talento e di genio. In quanto all’abilità tecnica e formale di Minnelli, essa — come tutte le espressioni — è pagata a duro prezzo. Minnelli fa fatica a fare un film; dopo un film con lui, tutti escono logorati, attori, operatori, ecc. Joseph Ruttenberg — un grande direttore della fotografia2 — così racconta (in «Positif», 142) le sue esperienze di lavoro con Minnelli: «E eccellente, ma trovo che perda troppo tempo in certi dettagli. Dopo un film con lui, tutti sono molto stanchi. Sovente gli attori non l’amano affatto a causa di questa meticolosità: Gene Kelly e Minnelli erano spesso in disaccordo; erano grandi amici, perché Minnelli è veramente un uomo squisito, ma durante il tournage si scontravano spesso. «Brigadoon fu il primo film che feci con lui... Mi piacque il fatto che si lavorasse interamente negli studios, con quell’immenso décor: ma questo non fu molto facile perché Minnelli ama muovere molto la cinepresa e noi dovevamo ripetere dei movimenti per ore e ore: tutto ciò richiedeva delle illuminazioni eccessive: per una panora-

di gusto (pp. 32-33: «La tradizione di un cinema melodrammatico cui alludiamo e da ricercarsi altrove; è la risposta del film western, ad esempio... Sono certi film di Minnelli (/ quattro cavalieri dell’Afocalisse, Due settima­ ne in un’altra città), dove la ricerca esteriore dei sentimenti conclude, in un gioco melodrammatico, gli stessi accenni di un realismo fugace. In questo senso la ricerca figurativa si giustifica come richiamo ad un gusto tutto gesti, eroico, come simbolo di un’indagine attorno a personaggi tipici, fortemente caratterizzati dagli attori». 2 Tre Oscar, un classico della fotografia americana nel cinema: tra gli altri, Il grande valzer (1938, di Julien Duvivier) e La signora Miniver (1942, di William Wyler).

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mica di 180°, era necessario che tutta la scenografia fosse illuminata con la stessa intensità di luce... Brigadoon fu anche il mio primo film a schermo panoramico. Minnelli era molto esigente per il colore. Esso era già perfetto a quel tempo e i còlori erano già coordinati nella scenografia, in modo che non dovevo intensificare artificialmente o modificarli dopo il toumage... Gigi fu girato quasi tutto a Parigi. Il toumage delle scene da Maxim’s fu particolarmen­ te difficile: avevamo comparse importanti, poco spazio, e un dolly, e giocavamo a nascondino con gli specchi che decorano le pareti. Minnelli aveva immaginato un movimento di camera che seguiva Maurice Chevalier dalla sua comparsa e per tutto il suo percorso all’interno del ristorante; le luci furono meticolosamente preparate; cionostante, seguendo Chevalier, mi dicevo sempre: “Speriamo che non ci siano riflessi”. Le scene di spiaggia furono girate ih California. La scena tra Chevalier e la Gingold era prevista in studio. Mentre noi finivamo di girare sulla spiaggia, sopraggiunse una bellissima nube e il sole stava per tramontare. Gridai: “Minnel­ li, presto! Se non filmiamo adesso, la cosa non si ripeterà più”. Filmammo in gran fretta, e ci servimmo poi della scena per il trasparente... Le luci in studio erano state studiate in modo che si avesse sempre quest’impressione di nuvola che passa davanti al sole che sta tramontando. Nella scena di inizio al Bois de Boulogne, tutto era stato preparato un giorno prima, i binari del carrello erano già stati installati e il percorso era lungo... Ma durante la notte Minnelli cambiò idea e volle che i binari fossero spostati in due piedi verso destra. Così passammo ore a ricostruire il percorso del carrello, e perdemmo un giorno intero, dato che questa scena doveva essere girata al mattino. Ma, dal punto di vista di Minnelli, penso che il cambiamento fosse legittimo...». Del resto, basta leggere una sua qualsiasi biografia1: ma, la J Fermiamoci a quella pubblicata dal Filmlexicon degli autori e delle opere (Roma, Bianco e Nero, pp. 816-818) per renderci conto di questa sua lunga vocazione alla tecnica, alla precisione, alla puntigliosità. Citiamo qualche

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puntigliosità nella tecnica, quel voler lavorare con una sicurezza che deriva da un sofferto tirocinio, non costituiscono forse, soprattutto per Minnelli, l’altra faccia della sua invenzione? Nel 1936 Minnelli era andato a Hollywood4. Il debutto vero e proprio lo vede con un certo impaccio. Minnelli deve lavorare con estrema libertà, con un agio infinito. Egli deve appoggiarsi à un dato concreto, a una misura reale e pratica. Non essendo un temperamento realista5,

brano: «Nel 1932 Grace Moore gli chiese di disegnare scene e costumi per l’operetta da lei interpretata The Du Barry... - fu il primo grande successo di Minnelli, la cui piacevolezza di linee e dì colori convinse anche critici severi come Jean Nathan e Brooks Atkinson. Oramai famoso egli fu scritturato come scenografo dall’appena costruita Radio City Music Hall in Rockfeller Center, il piu grande teatro del mondo: essa attraversò tra il 1933 e il 1935 la sua epoca d’oro, merito anche dell’attività di Minnelli, la cui abilità nell’impiegare molteplici scenarii e squadre di ballerini e ballerine fu poi messa a punto definitivamente nei suoi film». 4 Vedi anche il già citato Filmlexikon (pag. 816): «Tornò a Broadway aggiungendo alla sua qualifica di scenografo, quella ai regista per due granai riviste musicali, At Home Abroad (1935) e The Show is Un (1936), la prima delle quali arrivò anche ad Hollywood, invitata dalla Paramount. Era il periodo fortunato delle riviste cinematografiche della Casa, che sfornava Murder at the Vanities, The Big Broadway, Artist and Models, con ogni grandiosità possibile e decine di attori famosi. Minnelli rimase nella città del cinema otto mesi, ma poi fece ritorno a Broadway, scontento dei troppi impacci che i metodi di lavorazione ponevano al suo estro creativo. Dopo alcuni successi teatrali, tra cui Very Warm for May (1939), accolto caldamente dalla critica, il regista si lasciò convincere da Arthur Freed, producer della Metro-Goldwyn-Mayer, a tornare al cinema. Esordìportando di peso sullo schermo un ‘classico’ del teatro musicale negro, Uabin in the Sky., e lo affidò ad interpreti esclusivamente negri, con procedimento audace e controcorrente seguito in pochissimi altri film americani. Era una favola ingenua sulla concezione primitiva che i negri hanno delle religione, condotta con brio e splenditamente recitata da Eadie “Rochester” Ander­ son, da Ethel Waters, che già aveva lavorato in teatro con Minnelli, da Armstrong, e dall’esordiente Lena Horne, nei panni della vamp Georgia Brown. Si avvertiva tuttavia nell’insieme un certo impaccio del regista a servizi del mezzo cinematografico con quella scioltezza che avrebbe dimostrato in seguito». 5 E nato sotto il segno dei Pesci, a Chicago, il 25 febbraio 1902 da famiglia di origine italiana.

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cerca una realtà definitiva, da cui poter alzarsi, da cui poter sviluppare il suo sogno di un cinema d’eccezione. Del resto, sceglie sempre — o quasi — canovacci destinati a sicuro successo. Questo, perché egli vuole essere certo di quel che fa, non vuole correre rischi, dato che di rischi ne corre fin troppi, nella stessa scena (non dal punto di vista tecnico), in cui ogni immagine esalta e nega l’altra in un gioco frenetico e dolce di assuefazione e insieme di distru­ zione. Cabin in the Sky apparentemente non correva sui binari tranquil­ li. Un film interpretato da soli negri, nel 1943 (ma non bisogna dimenticare Hallelujah! di King Vidor e The Green Pastures* di William Keighley e Marc Connelly) poteva sembrare, appunto, controcorrente. Ma il teatro era già arrivato alla divulgazione, alla moda del mondo dei negri (Verdipascoli è del 1936 ed era stato un grande successo a Broadway): il cinema non poteva correre grossi rischi. Minnelli in Cabin in the Sky non aveva mostrato il folklore come Connelly e Keighley, e l’estetica astratta frenesia vidoriana, applicata a questo universo, era assai lontana dalla sua sensibilità, anche se poi nel melodramma, in questo gusto sontuoso del racconto per volute ed ellissi, Vidor e Minnelli saranno in certi momenti compagni di strada, senza incontri duraturi con un modo analogo di vedere paesaggio, volti, di rendere in segni ambigui la prepotenza e l’indecenza di una realtà sognata e finita. Il film di Minnelli sui negri non è opera gaia, ci mostra i negri come devono cantare, devono fingere di essere brillanti, e, dunque, gai, per riuscire a vivere e per sopravvivere. Esiste già nell’opera prima di Minnelli — tenera e sfarzosa — il 6 Di Allelujah! (1929) scrive Georges Sadoul in II Cinema (Firenze, Sansoni, 1968, p. 14): «Alleluia non è affatto... così ‘avanzato’ come si è ritenuto nella visione dei negri, che sono anche qui come nei soliti film hollywoodiani superstiziosi e attaccabrighe, violenti e infantili, e l’universo del bud,... non è diverso dalla pittura tradizionale d’un mondo patriarcale e arretrato. Vi comparivano pero le miserie dei negri, e in molte sequenze il dolore dei negri; e questo era autentico e commovente».

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senso del sacrificio del teatro, per il teatro: nello spettacolo, per lo spettacolo. La dura spina del sacrificio, della costanza tecnica, del tirocinio, della gavetta, resta sempre in Minnelli. Il teatro è per lui un mondo per cui bisogna sempre e comunque sacrificarsi, per cui vie la pena di sacrificarsi. La gente di teatro si ama (Spettacolo di varietà, 1953); quella di cinema, molto meno (Due settimane in un'altra città, 1962). Nel teatro, un accenno a un passo di danza fa sì che, anche per strada, in un parco di New York, Fred Astaire, vecchio, possa far pace con Cyd Charisse, giovane e bella, che lo guarda con sospetto perché lui è vecchio, è un mito, e forse sa ballare meglio di lei: ma basta un segno, perché i due si incontrino nella danza. Il cinema per Minnelli è crudele (Il bruto e la bella, Due settimane in un'altra città): è fatto di gente avida, corrotta, senza scrupoli, che mira soltanto al guadagno. Nel melos minnelliano esiste un rapporto ambivalente di amore-odio per Hollywood (i due già citati film), il cinema di Hollywood (Castelli di sabbia), il cinema dello spettacolo (Spettacolo di varietà), lo spettacolo del cinema (Jolanda e il re della samba, Un americano a Parigi), il cinema nello spettacolo (Kismet, I quattro cavalieri dell'Apocalisse). E non basta: Minnelli sa, razionalmente, che la sua chiusura nell’ambito hollywoodiano (cui, come abbiamo visto, è arrivato dopo non poche reticenze, dopo slanci e abbandoni improvvisi), costituisce un'apertura. Se Minnelli si fosse aperto, liberato dal cinema-spettacolo di Hollywood si sarebbe chiuso per sempre, non si sarebbe salvato dalla paura della realtà. In questa debolezza è la sua forza. La chiusura-apertura, l’apertura-chiusura nella storia nell’invenzione nel tempo, dell’arte sofferta e sperimentata, non sono vuoti segni, ma pratico dolore (forse che Paul Gauguin non ha drammaticamen­ te percepito nell’isola del Pacifico la stessa chiusura sofferta nel suo ufficio di borghese frustrato? Solo che, a Noa Noa, la chiusura è imposta, voluta, per un dovere morale, per un fatto creativo. E Conrad, sul mare, non era chiuso come nella sua stanzetta di contabile?). 146

Questo romantico, salvatosi dalle acque della paura e della disperazione, aspira all’oceano misterioso, infinito, della frenesia e dell’estasi. In esso, annullamento e salvezza sembrano la stessa cosa. Davan­ ti a un film di Minnelli a volte si prova questa impressione: egli getta un ponte nell’oltre, significa sempre qualcosa di più di quel che rappresenta. A un certo punto, eglLspezza questo ponte. Lo spettatore, che si trova in una parte di esso, non sa più tornare indietro, né osa gettarsi nel precipizio. Minnelli sconsiglia entrambi i gesti. Lo spettatore resta sconcertato; si troverà, molto più tardi, ricco di un’esperienza, che viene dal risveglio da questo incubo dolce. L’amica delle 5 e IH — il suo ultimo film7 — ci dà questa malizia e questa malia di Minnelli, a differenza dell’ultimo di Cukor, che è senza dubbio più casto, ingenuo, meno polisenso. Cukor rifà se stesso, Minnelli rifà se stesso nell’ambito di una cinematografia (di una invenzione nel cinema) che è crudele e.che nello stesso tempo dà la salvezza, proprio la salvezza materiale, vegetativa addirittura. Nella misura del buon gusto, Minnelli è davvero esemplare, specie se paragonato a quei registi che vivono agiatamente nel sistema pur dando a vedere di condannarlo apertamente: è un gioco che al sistema piace parecchio: è l’ipocrisia che viene dalla debolez­ za, dalla paura; quella paura che Minnelli ha chiuso in un duro sforzo morale. Di conseguenza, da questo sforzo, deriva il piacere esotico della mise en scène, e del tournage, assolutamente ineccepibili. Lo sfarzo melodrammatico di Minnelli, le sue volute sontuose (mai volgari, neppure in Kismet} rivelano se stesse per quel che sono e non per ciò che vogliono valere: l’apparenza in Minnelli è sostanza; nello spettacolo che si fa, che si costruisce poco a poco, con dolore,

1 Dopo la data di questo articolo Minnelli ha diretto Nina nel 1976 (n.d.c.).

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tenacia, sforzi, crisi, rotture e riappacifamenti, l’autore di Brigadoon e di The Band Wagon, non nasconde nulla di se stesso, si rivela per quel che è, un uomo di spettacolo, che vive nello spettacolo, oltre lo spettacolo stesso, che continuerà sempre ad esistere. In questa forma religiosa dello spettacolo, il cinema non rientra: subentra invece la testardaggine di Minnelli nell’inserire lo spettacolo nel cinema, il teatro e anzi il sogno del teatro nelle più codificate strutture filmiche. Il melodramma di Minnelli è lo scoppio per saturazione, lo sfarzo che diviene follia e frenesia dei segni. La gabbia hollywoo­ diana non può più sottolineare la dizione stoica della poesia e della tecnica, non può più contenere i gesti meticolosi di personaggisegni che si muovono come uccelli di latta. Lo spettacolo della finzione non soltanto diviene finzione dello spettacolo e nello spettacolo (del resto in Minnelli questa polivalenza esiste sempre, in ogni suo film), ma la stessa, per dirla coi surrealisti, beauté convulsive del décor si sposa alla follia dei personaggi, che si tolgono dallo stereotipo, e impazziscono, non come li farebbe impazzire il ‘colosso’ King Vidor (che è totalmente americano), non come li farebbe impazzire l’armeno Mamoulian (La bella di Mosca) che ha paura del sistema e vive in esso apparentemente decoroso e diligente, ma come solo Minnelli può concepire la follia: la liberazione nella liberazione stessa, la fuga nel sogno, nell’irreal­ tà; il voler vedere, sempre e nell’eternità, la linea della fuga e soltanto questa. Il segno della liberazione nella liberazione contro la liberazione in Minnelli è lo spazio (un minuto, un’eternità) che esiste, che si sente, tra un’onda e l’altri dell’oceano infinito. L’homo demens minnelliano non vuole costruire; vuole soltanto realizzarsi, concretarsi e annullarsi nella liberazione. In uno dei più bei melodrammi firmati da Minnelli, Castelli di sabbia (The Sandpiper, 1965), il prete Richard Burton (da vedere in una luce ambigua, sfaccettata, polivalente: egli ama se stesso, la moglie, l’amante, Dio, e nessuno) alla fine se ne va lasciando tutto in sospeso, lasciando la mogli in attesa e l’amante per sempre

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trafitta e legata (due carrelli, rapidi e stupendi, tra i più belli della storia del cinema, avvicinano dall’alto della rupe Burton e la Taylor, e la Taylor dal basso della spiaggia a Burton). Minnelli ci tocca con la vertiginosa ala del talento che sa ingigantire ciò che è minimo e sa rendere enorme ciò che sembra trascurabile: mentre la musica facile e sentimentale invade il grande schermo a colori e dopo i due carrelli che si incontrano, ecco il segno della promessa taciuta tra i due: la cassetta delle lettere. Qualcosa legherà i due amanti. Non lettere, forse, vere, ma — ciò che conta in Minnelli — la possibilità di uno spazio vitale, di un tempo immaginario, di una tensione oltre che possa esistere e morire dappertutto, un giorno dopo l’altro. Si noti come con questo melodramma vistoso eppure fatto di minime sfumature, Minnelli butti per aria (faccia insomma scoppiare) tutta una storia di cinema hollywoodiano sentimentale: Frank Borzage sembra davvero molto ingenuo, Leo McCarey infantile. E in una incertezza della tregedia, nelle sfumature del melodram­ ma più o meno esteriorizzato, che Minnelli conduce il dato naturalista fino alle soglie della irrealtà più sognata e sfrenata8. La sua paura della realtà è anche paura del naturalismo meno rigoroso. Per tale ragione Minnelli si adatta apparentemente a uno schema rigido, a una forza-struttura portante. Le libertà sono innanzitutto enormi rivoluzioni interne che Minnelli esterna con esercizi stilistici di un rigore estremo, di una classicità sofferta.

8 Philippe Demonsablon scrive sui «Cahiers du cinema», 97, 1959, recensendo Qualcuno verrà (Some Came Running): «Come vivono gli americani, quale immagine si danno di loro stessi, che cosa fanno, e che cosa pensano? Some Came Running gira intorno a questi problemi piuttosto che dar loro una risposta... Come questa cronaca di un’epoca si situa fuori del tempo, così questo film naturalista sbocca finalmente nell’irreale. Alla lista delle azioni assurde e belle, ormai bisogna aggiungere quella di Dave che sposa Ginny, perché ella lo ama e non lo capisce, come ella ama il suo romanzo e non lo capisce. Sacha Guitry diceva infatti che non si può capire contemporanemante le donne e amarle... La poesia non significa forse giocare sulle apparenze per rivelare altre cose, in fin dei conti?».

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Da una sua lontana intervista9 possiamo intanto vedere i suoi metodi di lavoro tutt’altro che facili-. «Bisogna resistere ad ogni tipo di influenza perché ogni cosa ne fa ricordare un’altra, un altro stile si sovrappone a quello che si ha già in testa. E pericoloso: bisogna saper attendere finché si è sicuri di essere giunti all’essenziale: lo stile voluto. Si può anche mancare di ogni dettaglio... ma non importa: si sente questa forma, questo stile. Ciò che mi interessa è fare un film che non assomigli mai a nessuno dei precedenti... Sì, il colore, gli ambienti, lo stile dei costumi mi interessano enormemente: ero disegnatore di costumi agli inizi, sapete. Per ogni film, il problema del colore si pone in modo differente. Per esempio, volevamo girare Brigadoon in Scozia, ma non era possibile a causa delle condizioni atmosferiche dell’epoca in cui dovevamo fare il film. Abbiamo quindi tentato di ritrovare in studio l’aspetto particolare dei paesaggi scozzesi, quella specie di nebbia... quei colori squillanti, tendenti al giallo... Il mio impiego del colore in Brigadoon deriva in buona parte dai pittori inglesi che rappresentano paesaggi scozzesi che ho potuto studiare: in tutti questi quadri si ritrovano appunto quei colori tendenti al giallo, un aspetto particolare del giallo, una certa atmosfera... Per Madame Bovary, devo molto a Robert Planck10: ricordate la scena in cui Emma Bovary è nella stanza di un piccolo albergo di Rouen? Ho girato questa scena una prima volta, ma le inquadrature erano troppo luminose. D’accordo con Planck, e a dispetto delle angoscie del produttore, decisi di ricominciare il tutto con una tonalità più debole... A parte Ruttenberg, John Alton e Harry Stradling mi sembrano i direttori della fotografia più dotati, ciascuno con qualità ’ Intervista eseguita da Charles Bitsch e Jean Domarchi e pubblicata sui «Cahiers du cinema», 74, 1957. 10 Robert Planck, direttore della fotografia raffinato e ricco di talento. Tra i suoi film più importanti: Nostro pane quotidiano (1934) di King Vidor, Peccatrici folli (òusan and God, 1940) ai George Cukor, Volto ai donna (A Woman’s Face, 1941) di George Cukor, Il covo dei contrabban­ dieri [Moonfleet, 1955) di Fritz Lang.

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totalmente opposte. Alton è molto flessibile: non ha pregiudizi ed è capace di modificare il suo stile seguendo le indicazioni del regista. Stradling invece ha dei punti fissi, ma è geniale: ricordate The Pi.ra.tel Scoprii Alton girando An American in Paris. Avevo iniziato il film con Alfred Gilks ma mi interruppi perché si mettesse a punto il balletto finale. Nel frattempo girai Father's Little Dividend, con Alton. Allorché ripresi An American in Paris, Alton sostituì Gilks e rimpiansi subito il fatto di non avere avuto subito Alton per l’intero film... «Sono un pittore della domenica, ma non sono mai stato un collezionista. Credo di avere amato di volta in volta tutte le scuole: attualmente mi interesso particolarmente a Boldini ed ai pittori del primo ’900... Qualunque cosa si ammiri si può sempre tornare agli Impressionisti e scoprire in essi qualcosa di nuovo: restano eterna­ mente stupefacenti. E forse la scuola più ricca... «Orson Welles: è uno dei due o tre più grandi cineasti di tutti i tempi...John Huston: in Moby Dick mi piace solo l’inizio del film, quelle praterie verdi, l’arrivo e la presentazione dei personaggi. Dopo, allorché il film è centrato nella figura del capitano Achab, mancano idee visive... Mankiewicz mi ha molto deluso con Guy and Dolls...: nel film, ogni incanto è scomparso... Stevens, credo, è il nostro regista più dotato per la commedia. Ray ha un grande talento. Anthony Mann mi piace: le sue inquadrature sono firmate. Tra i giovani, ammiro enormemente Samuel Fuller... Hitchcock è incomparabile. Pochi registi hanno tanta personalità, quell’humour sofisticato. Ed è divertente di avere come punto di vista sul mondo il fatto che chiunque può essere un criminale. Mi dimenticavo di Cukor: ha molto tatto, un tocco delicato: che cos’è High Society in confronto a Philadelphia Story... Amavo molto Wyler a quel tempo: trovo che i suoi primi film non sono assolutamente invecchiati. «Lubitsch? Di lui non avevo mai visto nulla prima di andare a Hollywood: soltanto là ho potuto vedere alcuni dei suoi film, e mi piacciono molto. No, sapete, penso piuttosto d’essere stato influen151

zito da altri registi europei. Ho sempre ammirato enormemente Cocteau: cerco di non perdere mai nessuno dei suoi film. Uno dei miei preferiti è Orphée'. l’ho visto diverse volte e ogni visione è per me un prodigioso arricchimento; ma Le sang d’un poète era già un capolavoro. Amo anche Renoir: La grande illusion è uno dei migliori film che abbia mai visto... Max Ophiils è formidabile; ho visto ad Hollywood tutti i suoi film e bisogna che trovi assolutamente il momento per vedere Lola Montes durante il mio soggiorno a Parigi: adoro il suo stile, questa specie di perpetua farandola. E poi, avevo voglia di fare un San Francesco d'Assisi ma quando ho visto quello di Rossellini, benché non sapessi bene che cosa pensare, ho rinunciato al mio progetto. Ciononostante, più pensa­ vo ad esso, più mi convincevo phe è un film straordinario. «Sono sempre andato d’accordo coi produttori insieme ai quali ho lavorato: Arthur Freed, Pandro Berman, John Houseman... Ho sempre avuto fortuna in questo campo. Non ho voglia di diventare produttore, dato che ho l’impressione di avere una sufficiente libertà... «Tra i miei film amo molto The Clock. E la storia di un soldato che trascorre una giornata a New York e incontra una ragazza: s’innamorano l’uno dell’altra, ecc. Adoro questo genere di comme­ die in cui le persone non parlano se non tramite dei cliché, ma vogliono dire tutt’altra cosa. Ho girato questo film senza prepara­ zione, facendo appello ai miei ricordi dell’epoca in cui vivevo a New York. Sì, credo che sia il mio film preferito. «Madame Bovary... lo amo molto, ne sono molto soddisfatto. E un personaggio che mi ha affascinato. Emma Bovary è d’altronde il personaggio più controverso della letteratura: almeno quindici scrittori hanno fatto degli studi su di esso. E non ce n’è due che siano d’accordo... Credo che si potrebbero fare dieci film su Emma Bovary, e tutti differenti... Renoir ha fatto un film su Madame Bovary? Oh, non lo sapevo affatto. Conosco bene Renoir, ma non me ne ha mai parlato». Davanti a dichiarazioni così semplici e nello stesso tempo così

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sfumate e complesse cade la figura-cliché del tipico regista holly­ woodiano (ma esiste un tipico regista hollywoodiano?) bravo a tutto fare, mestierante, incolto, scarsamente raffinato e via dicendo. Uomo schivo, forte lavoratore, temperamento geniale, cineasta innamorato, teatrante appassionato, Minnelli è l’autore della ambi­ guità totale, dell’accadimento-cedimento dolcissimo e invisibile. Se in questo ambito noi amiamo molto The Sandpiper come film del melodramma infinito come il mare e come il mare mai uguale a se stesso, ecco che ad una visione ulteriore dei suoi film (mai uno uguale all’altro, neppure nello stile, proprio nello stile, anzi) scopriamo, accanto al Minnelli autore del film sullo spettacolo nello spettacolo, il Minnelli biografo, narratore realista. La sua sorpresa davanti al San Francesco di Rossellini è anche angoscia. A un certo punto Minnelli pensa al film di Rossellini e trova che si tratta di un’opera eccezionale. Dopo aver visto questo film, dirigerà dopo poco tempo Brama di vivere (Lust for Life) che è la vita di Vincent Van Gogh. Il film è chiuso, sembra costretto da paure, timori del Minnelli amanti della pittura, nei confronti di un genio della pittura, ma è anche di un polisenso irreale, tenace e delicato. Pensiamo alle biografie di grandi artisti realizzate in questi ultimi anni dal regista inglese Ken Russell e prese in grande considerazio­ ne da una critica — specie italiana — che di fronte a Minnelli non soltanto è sprezzante ma dà prova di una grande e vera ignoranza, dato che Minnelli non è autore di un solo film e re-inventore di un solo genere ma autore e inventore in senso assoluto10. Ammirando " Del resto Russell non deve essere estraneo al fascino filmico esercitato dall’opera di Minnelli. L'altra faccia dell'amore (la biografia di Ciaikovski) La perdizione (biografia di Gustav Mahler) e anche II boyfriend sono film con qualcosa di minnelliano. Si pensi ne La perdizione all’unica sequenzavisione esistente nel film, quella in cui la moglie di Mahler (Georgina Hale) fa tacere tutte le voci della natura, che infastidiscono il compositore che crea, perché egli si possa liberare in quell’estro, che esplode nei finale della

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Russell si lascia per strada Minnelli (si ignora anche che Demy deve moltissimo a Minnelli e così pure Stanley Donen, cui del resto Demy deve tanto). In questo senso del teatro-melodramma Minnelli è il tempo che inventa se stesso, senza impedimenti di sorta, laddove Mankiewicz, non amato come abbiamo visto da Minnelli in Bulli e pupe, è il teatro nel suo spazio meccanico, stereotipato, finto. «Tutto è teatro», dice una battuta di Spettacolo di varietà. Ma teatro ha funzione di sogno, di segno che scopre se stesso nell’incanto di un’illusione eterna che eternamente si rinnova. Quando Fred Astaire balla con Cyd Charisse, è la vita continua, come continua in The Sandpiper, come continua nell’opera di Van Gogh, o in quello che è l’ambiguità estrema, il mistero di Emma Bovary. Emma che balla davanti agli specchi, ecco una intuizione di questo sogno di teatro, di illusione, di fede nella finzione, nella realtà del sogno autentico. L'amica delle 5 e 1/2 è il film della fede nell’illusione: un film tenace, duro, in cui lo spazio è ebbro di sé, felice nella lentezza stessa sequenza, allorché una banda di campagna esegue una trionfante sinfonia mahleriana. Qui il segno è sogno, e viceversa. Il procedimento è di Minnelli: lo troviamo nei film sul teatro (mirabile Spettacolo di varietà) e nella bella biografia di Van Gogh. Tuttavia Russell (che non per niente arriva dopo Anthony Asquith, oltre che dopo Powell-Pressburger) è arido, meccanico, intellettualistico, in questo trionfo dell’invenzione, dell’irreale e dell’immaginazione. Viene in mente quel tema da primo della classe che è The Boy Friend. Il regista De Million impersonato nel film è soltanto il De Mille dei musical del muto, o potrebbe anche essere Minnelli? Qui le carte si mescolano. De Million quando assiste alla recita della compagnia in The boy friend è supponente come il regista di uno dei capolavori di Minnelh, Spettacolo ai varietà. Ma Minnelli ha fantasia, mentre Russell ha soltanto cervello. Minnelli ha cuore paura sensibilità, dove Russell si limita a rivedere, sia pure con molto affetto e con una certa tenerezza, ciò che è stato fatto di meglio prima di lui. Quel che colpisce soprattutto è il fatto che molta critica sia cieca. Sorda, no: perché Russell è buon interprete della grande musica del passato e sa renderla visivamente. Ma cieca senza dubbio: la fantasia visiva di Minnelli è uno dei dati fondamentali in una storia del cinema ovviamente da riscrivere.

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di piani-sequenza tra i più testardi e dolci della storia del cinema. Brama di vivere è il teatro della fede: contro tutti, davanti a una platea ostile Van Gogh recita la parte dell’uomo di genio. In Castelli di sabbia il teatro è il mare, l’oceano, il fluire dei sentimen­ ti, veri o falsi non importa, la certezza di un punto in cui due carrelli potranno incontrarsi: è il niente, il tutto, la follia (per la ragione de finti savi), la ragione (per la follia degli ignoranti i fatti veri della vita). Quando Lust for Life, non si dice da noi ma in Francia, fu giudicato piuttosto manchevole12, ciò accadde perché 12 Jean Demarchi nei «Cahiers du cinema», 68,1957, dopo aver parlato del cinema pittorico di Minnelli («Minnelli ha potuto invece sviluppare a piacere il progetto che si era fissato da tempo — del quale si ritrovano chiari segni in Un americano a Parigi, Brigadoon, ecc. — e che è quello di creare un cinema pittorico. In questo senso e solo in questo senso Minnelli è un autore di film, tanto quanto per esempio Orson Welles e Robert Aldrich») si sofferma sulla carenza psicologica del film: «questo delirio cosmico, questa volontà forsennata ai captare i segreti della natura, di riprodurre col colore soltanto, il mondo dei sentimenti e delle passioni, questa certezza di accedere al vero (in contrasto con tutti), questo parossismo lucido (la certezza che rende folli, diceva Nietzsche), ...niente di tutto ciò compare nel film. Si attendeva una messa in scena demenziale e invece si trova solo un esercizio di stile compassato e preciso... Questo partito preso di decenza non solo si ritrova nella narrazione, ma anche nei movimenti di macchia e nell’impiego del colore. La messa in scena è in effetti rigorosa: non ci sono movimenti di macchina complicati, non ci sono effetti inutili. Non si cerca di impossessarsi degli spettatori con astuzia, ma di iniziarli progressivamen­ te ad un’opera diffìcile, e perciò si evita tutto ciò che potrebbe distrarre l’attenzione... Ora diventa forse più facile evitare a’Minnelli il rimprovero di aver fatto un film anticinematografico. Senza dubbio Renoir avrebbe Proceduto in modo differente, lui che per un momento aveva considerato idea di fare un film sulla storia del pittore folle. Senza dubbio la sua sceneggiatura sarebbe stata migliore, la sua regia decisamente obiettiva, eseguita dal punto di vista stesso del protagonista. Ciò non toglie però che, malgrado un partito preso d’illustrazione, il suo rifiuto d’ogni frenesia visuale, ci sia in Lust for Life qualche inquadratura che fa onore alla storia del cinema... Minnelli è molto più a suo agio nella descrizione della vita moderna e mi permetto di consigliare a coloro che vedranno Lust for Life, questo film ineguale e timoroso di espandersi, The Long Long Trailer-

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Minnelli non da ieri è sempre considerato un autore (il minore tra i più grandi di Hollywood?) a una sola dimensione, mentre Minnelli è la luce e l’ombra, il dire e il non dire, l’ambiguità e la certezza totale. Il minore tra i grandi? O non piuttosto una grande in senso pieno? E non soltanto Hollywood, ma la critica di Hollywood nel pieno del sistema? Un film come Brama dì vivere, così dimesso, così gridato nel furioso silenzio dei colori (rossi, gialli), non può non essere visto come una dimostrazione del talento critico di Minnelli, il quale non si fa certo prendere dal delirio dell’invenzione pseudo-fantastica ma cerca di trovare lo stile migliore per ogni opera, il suo significato strutturale autentico. Quando Van Gogh entra nella misera stanza (con le sedie che poi dipingerà) si ‘odono’ i rossi e i gialli ma anche e soprattutto il canto notturno del grillo: Van Gogh non è solo, è nella natura, è nel suo delirio ma anche nella sua segreta saggezza. Questo è Minnelli. Il suo melodramma è il vento che si conduce su un mare che può essere in tempesta o calmo ma è pur sempre un infinito. «Per la critica francese minnelliana l’insieme dell’opera di Min­ nelli» — scrivono J.P. Torok e J. Quincey — «è riducibile a un tema generale, la dialettica realtà-sogno, vissuta da un personaggio centrale — l’artista — attraverso il proprio inadattamento alla vita. Noi non contraddiremo questa opinione nella misura in cui essa è abbastanza vaga da essere in linea generale applicabile all’opera di Minnelli. Indicheremo soltanto che essa ci sembra discendere un po’ troppo da un luogo comune scontato, e che i due termini della

dodici metri di amore meraviglioso di decisioni e di tensioni, tutto in vivi colori (non si dimenticherà mai il giallo della gigantesca roulotte) assai vicina a Chaplin in certe scene ferocemente allegre». ° In «Positif», 50-51-52, 1963. Il brano e la relativa traduzione sono stati ricavati da Cinema I (Padova, Centro Universitario Cinematografico, 1974).

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opposizione sogno-realtà sono facilmente reversibili: per il pensie­ ro romantico, ciò che il volgo chiama la realtà non è che l’irrealtà, cioè la caricatura che la ragione e i sensi ci danno dell’autentica realtà. Minnelli è costantemente romantico nella sua visione del mondo, che non si esprime né nella scelta dei soggetti, né nella verità della ricostruzione, ma nel modo di sentirli. La realtà è per lui sempre immaginaria, vale a dire uscita dall’immaginazione dell’arti­ sta. Si può dire di Minnelli che egli tende nella sua opera a giustapporre o a opporre due o più piani dell’immaginazione, a chiarire i rapporti che si stabiliscono tra essi e a mostrare la modificazione di ciascuno d’essi sotto l’influenza degli altri». Francois Truchaud, nel suo volume fondamentale su Minnelli (Paris, Editions Universitaires, 1966) tenta un esame astrologico dell’opera minnelliana: (pag. 42) «il personaggio minnelliano vuole un impossibile accordo tra i suoi sogni (in segno d’acqua, ‘come un torrente’)14. La prova, la rivelazione (in segno di fuoco, l’accendersi delle passioni si tinge di rosso, colore presente nel momento di ogni crisi) compiono la inevitabile divisione nel dramma... Per la prima volta, senza dubbio The Sandpiper riunisce i segni di aria e di acqua attraverso la rinuncia finale che porta una certa serenità ai protago­ nisti, uccisi ma non distrutti»15. In effetti Torok e Quincey ripetono la giustapposizione generale della critica minnelliana, quella tra realtà e sogno, proprio perché in

14 Non dimentichiamo che il titolo in francese di Some Came Running (Qualcuno verrà, 1959), è Gomme un torrent. 15 Se il lettore italiano, a volte più serioso che serio, non giudica troppo frivola questa parentesi astrologica dirò infatti che il film su Van Gogh, uno dei più straordinari di Minnelli (in cui la storia della lotta romantica individuale diviene immagine della storia collettiva, e la cui struttura prepara quella de 1 quattro cavalieri dell'Apocalisse), ha una dominante stilistica e formale in rosso, che è colore appunto della passione, della crisi e del segno di Fuoco, l’Ariete, al quale Van Gogh appartiene. Gauguin invece è segno di aria (Gemelli), e Minnelli, è il segno d’acqua più complesso sulla scala astrologica, i Pesci (Bunuel, Walsh).

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Minnelli questa è ben visibile. Ovviamente essa non è il piano dell’opera. Questi piani, ripetiamo, sono come le onde dell’oceano. Si susseguono senza sosta, anche quando la struttura sembra volutamente banalizzata, piatta e crudele (Due settimane in un'altra città). La realtà può essere la famigliola media americana (la serie dei film con Spencer Tracy e la Taylor, che sono, secondo Truchaud e altri critici, i meno riusciti nella parabola di Minnelli), può essere la roulotte in quel capolavoro che è The Long, Long Trailer16, è il cinema, i suoi sogni e le sue illusioni17, è la provincia per Madame Bovary, è il canto, la danza, la musica18, il trascorrere delle atmosfere in quel film poco noto che è The Clock19, eccetera: 16 Truchaud, pp. 122-123: «Questo film, in una atmosfera molto bizzar­ ra... oscilla senza sosta tra dramma e commedia. Esso denota una mancanza di complicità da parte di Minnelli ed una mancanza di simpatia per i suoi personaggi... Storia lineare raccontata con sadismo... Ma Minnelli non può parlare di gente mediocre: la sofisticazione è per lui un male necessario». 17 Truchaud, p. 146: «Tutta l’opera di Minnelli è una riflessione sul cinema, ma ci parlano direttamente sul cinema e sulle sue illusioni The Bad and the Beatiful e Two Weeks in Another Town. Hollywood parla di Hollywood, il cinema si interroga sul cinema. Questi due film sono film nel film, il secondo vivendo dei frammenti del primo, di cui prolunga l’incante­ simo e l’artificio, mostrando anche tutta l’evoluzione del cinema americano, attraverso l’evoluzione stessa di Minnelli, passando dal romanzesco degli anni cinquanta ai tragico più recente. Per Minnelli il cinema è un gioco di specchi cne stabilisce definitivamente il proprio universo: dove l’apparenza (l’immagine, il film) è la sola realtà possibile». Ricordiamo che Due settimane cita una sequenza de II bruto e ìa bella, quella in cui Kirk Douglas prende in braccio Lana Turner e la getta nella piscina proprio nel momento ’romantico’, in cui ella crede di essere baciata. 18 In Undercurrent (Tragico segreto, 1946), uno dei meno noti e più raffinati melodrammi minnelliani, la storia di due fratelli rivali in amore e perciò nemici, si verifica ancora una volta lo scontro tra realtà e sogno, essendo il sogno espresso dalla figura del fratello artista. Di questi, come avverte Truchaud (p. 139) Minnelli esprime la «malinconia elegante» col tema del terzo movimento della Seconda Sinfonia di Brahms. ” Truchaud, pp. 61-63, a proposito di Meet Me in St. Louis e di The clock: *Le stagioni si alternano come i sentimenti: la gioia dell’estate si trasforma nella dolce malinconia dell’inverno, visto attraverso una tristezza

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in Minnelli i piani realtà-sogno a poco a poco si mescolano, e si fondono, fluttuano l’uno verso l’altro col moto e col ritmo proprio delle onde. Per Minnelli la poesia non è né un grido né un soffio né un’invettiva. Essa è soprattutto una interrogazione: sulla vita, sul cinema, sul teatro, sullo spettacolo, che sembra essere la sublima­ zione delle nostre giustificazioni volgari o romantiche. Nello spettacolo, che è sogno sognato, si placano le rivalità, gli egoismi, le cattiverie. Lo spettacolo è la vita. La realtà la morte. Per questa ragione nei film di Minnelli non ci sono mai morti, non si vedono mai, non ci sono uccisioni, delitti. Basta la realtà-vita a farci scontare tutto quanto. La struttura di Minnelli è quella del mare. Ma anche il mare ha limiti, un’orizzonte. L’orizzonte di Minnelli — al quale egli è giunto con sofferenza, dopo Kismet, Van Gogh, La tela del ragno, I quattro cavalieri dell’Apocalisse20, Castelli di in giallo e blu... Ester sa che questo tempoo non tornerà più e che lei lo vide per l’ultima volta... La storia di un incontro di due persone nella Pennsylva­ nia Station è esattamente il contrario di quella di Meet Me in St. Louis: la commedia musicale, vista dall’esterno, nella sua manifestazione esterna (lo spettacolo), è qui presente in una maniera interna. Questo film, inedito in Francia, è il contrario; l’assenza della commedia musicale. Tutti i personaggi tendono verso la commedia musicale o la commedia, costantemente succubi del film, ma mai dichiarati e liberati; un po’ come i personaggi di Une femme est une femme di Godard, essi si provano a ricercare l’universo magico della commedia musicale, di ritrovare ad esprimere la sua appa­ renza». 20 Truchaud, pp. 152 e segg.: «Ne / quattro cavalieri dell'Apocalisse il personaggio è confrontato di continuo alla storia collettiva. Sono i fatti della guerra, reali e priori, ma che diventano fantastici, in seguito all’apparizione dei quattro cavalieri. Madariaga vede che il sogno del Paradiso Terrestre, è stato distrutto dal serpente, il sogno del nazismo. Egli lancia la sua invocazione ai quattro cavalieri che appaiono nel cielo. Il film diviene allora storia collettiva, individuale e fantastica... Il film è costruito su più piani, interno, esterno, fantastico, i quali si mescolano e si confondono... La malinconia e la tristezza del film sono il riflesso della lenta e inevitabile distruzione dei sogni, della morte delle sue creature». Lo sfrenato Kismet così è visto daTruchaud: «Quest’universo dell’incan­ tesimo non si può comprendere se non nella festa. Il corteo finale partecipa

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sabbia — è quello della concretezza storica della funzione morale del cinema. Questi film scoprono un’intelligenza morale, dove in altri è solo una grande sensibilità. Minnelli è riuscito a fare storia del melodramma, a dare una dimensione critica e dialettica al suo essere a farsi cinema, nel teatro, nello spettacolo, nel décor, cosa che da noi ad esempio Visconti — per tornare all’accostamento di Bruno, tra Visconti e Minnelli — ha attuato solo in parte (Senso). Ma già il décor minnelliano, fin dagli inizi, scopre un segno che non è la piatta illustrazione della realtà, volgare, borghese e materialista (Emma Bovary impazzisce per questa volgarità, lei intrisa di luoghi comuni odiati-amati da Flaubert — la rivelazione in segno di fuoco — e da Minnelli — l’illusione in segno di acqua). ' The Cobweb non aveva già superato la linea greve del décor) Ricordiamo che nei film tutto nasce dallo scontro di più individui, in una clinica psichiatrica, sul modo di cambiare dei tendaggi nell’ambiente. Scrive Jean Demarchi in «Cahiers du cinéma», 87, 1958: «Si indovina facilmente ciò che ha potuto sedurre Minnelli in un soggetto così sconcertante. Egli poteva, meglio che negli altri suoi film, fondere due motivi senza cadere nella gratuità o nella preziosità: il motivo decorativo dei tendaggi e il motivo psicologico del non-adattamento. Che persone particolarmente sensibili non possano legarsi al mondo insensibile e deterministico delle persone «normali» e che questo disadattamento acquisisca le forme più futili (almeno in apparenza), agli occhi di coloro che convenzionalmente si definiscono persone sane, ecco un problema che non ha mai smesso di preoccupare Minnelli lungo tutta la sua carriera. Lo si trova trattato in Lust for Life, in Designing Woman e anche nel film che segue The Cobweb, Tea and Simpathy, Minnelli quindi mette a questa magia dell’immagine... il corteo avanza lentamente (in campo lungo); una linea d’acqua, in primo piano, riflette la sua immagine. Lo spettacolo unisce l’immobilità della linea d’acqua e il movimento del corteo, lo straniamento e la partecipazione, per creare questa bellezza irreale, nata dalle apparenze».

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in causa con insistenza (e questo a partire da The Bad and the Beautiful) uno stile di vita, una visione del mondo intollerante e meschina, che è la visione stessa della classe media, della borghesia di tutti i tempi e di tutti i paesi. Tema profondamente serio e trattato magistralmente in The Cobweb perché Minnelli parte da un pretesto insignificante e molto particolare per innalzarsi ad un punto di vista universale. Questa sceneggiatura gli permette di evidenziare sia i suoi doni di psicologo e ‘decoratore’ sia di affermarsi interamente come autore... Minnelli, lo ripeto, non è soltanto un regista ma è qualcuno che ha qualcosa da dire. L’eleganza discreta della facciata non ci deve sviare. Minnelli è troppo bene educato per mettersi a gridare. Egli si limita a suggerire. In The Cobweb egli dà prova di un tatto che Marcel Proust, il quale nulla temeva quanto l’avvento di un mondo diretto dai medici, avrebbe certamente approvato». Come in Proust, il tempo della struttura individuale {Home from the Hill) diviene a poco a poco (Some Came Running, Lust for Life) il tempo della storia come memoria universale (The Four Horsemen of the Apocalypse). (n. 253, 1975)

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Palcoscenico di Douglas Sirk Sandro Bernardi

Certe volte l’amore sembra troppo grande per una vita sola; altre volte invece la vita sembra troppo lunga per un solo amore. K. Wojtyla Attraverso la violenza del superamento, ho afferrato nel disordine delle mie risate e dei miei singhiozzi, nell’eccesso dei trasporti che mi spezzano, la somiglianza dell’orrore e di una voluttà che mi eccede, del dolore finale e di una insopportabile gioia. G. Bataille

Il melodramma auspica, predispone e persegue con assoluta indistruttibile tenacia, con una costanza che ha della più completa mancanza di volontà, la confusione del teatro e della vita, del vero con il falso, del tutto con il nulla. In breve, l’unificazione degli opposti, la fine ed il trionfo delle passioni e la riduzione di tutto alla più pura, torbida essenza: l’impatto con la vita, la caduta o la discesa nel vortice che la travolge. Il melodramma non sa niente della vita, ma sa tutto del teatro, che poi è la stessa cosa. Il melodramma è come un fanciullo, un giovane inconsapevole, pieno di soldi e di energia, dallo sguardo ancora limpido e il fisico alto e snello, come Jean Paul Beimondo, il giovane Louis Mahé, in una vecchia storia di Truffaut, nato e cresciuto fra le belle palme dell’isola della Riunione, del tutto ignaro dell’occidente, in attesa della donna della sua vita, della sua droga di nome Julie, che non ha 163

mai visto ma ha amato da sempre; e la vita che gli viene incontro è una bellissima, enigmatica Catherine Deneuve, che si è sostituita all’ultimo momento, sulla nave, alla vera Julie, una scialba, onesta ragazza. La vita è una recita che lo uccide, fino a trascinarlo in una capanna, nella neve, a morire avvelenato, come nei disegni di Biancaneve: «Ti prego, fai presto ad uccidermi, soffro tanto...», per poi scoprire che non è mica successo nulla, e che può scappare ancora una volta con lei, avere tutto il mondo fra le sue braccia ed un sacco di poliziotti alle calcagna. Il melodramma però confonde anche la musica con la vita: è un giovane di grandi speranze, che ti ama Perdutamente, ma forse ti identifica con il suo violino, e vive solo per te, poco prima di scoprire che ti ha già dimenticata. Cara, miope, Joan Crawford, in Humoresque, di Negulesco! Il melodramma è una magnifica ossessione, nello specchio della vita e ci trascina come le foglie al vento, in un volo disperato. E tutto in una immagine, tutto in un titolo. Il melodramma infine, non ha per contenuto altro che delle parole, è pronto in ogni momento a dissolversi nella sfilata del proprio apparato significante, è la strategia di un linguaggio che, come direbbe Lucilla Albano, ci lascia con le mani vuote proprio quando credevamo di averlo afferrato: la strategia di un ragno che dopo averci dato l’illusione delle grandi verità, ci lascia istupiti e sgomenti davanti allo specchio; dopo le travolgenti passioni del Rigoletto, ci abbandona senza senso, in una stazione magrittiana a guardare un binario morto. Povero Giulio Brogi, spettatore/attore di una storia che si ripete, incastrato fra le spiagge di una Tara drogata dal ricordo del cinema americano! Nell’opera di Sirk, il melodramma determina la dialettica di teatro e cinema in una accezione della vita che è realtà e rappresen­ tazione insieme. Fin dalle prime immagini, dalla prima scena di qualunque film, si avverte un’aura di sublime, di straordinario: una particolare luminosità pur nella luce diurna, vera o falsa, e anche una certa anomala fissità nei volti e nelle cose ci avvertono che ciò

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cui stiamo assistendo non è un evento comune, ma è l'evento stesso, l’unico ed irripetibile, l’essenza di tutto ciò che può accadere nella vita e sulla scena. Del resto il melodramma non ha una scena, può essere rappre­ sentato dovunque. Ha solo una scenografia, uno stile, una esalta­ zione della scrittura come eccesso dei valori figurativi e simbolici, una perfetta identificazione fra la scena ed i suoi personaggi, che sono quasi una emanazione del luogo, dello spazio che li circonda. Non c’è alcuna differenza: questi fanno parte di quella e viceversa, quella è in loro, è il loro locus, eterno ed immutabile. Questo è un altro elemento che il melodramma ha in comune con il teatro, dove la continuità temporale della scenografia permette, meglio che al cinema, di cogliere questa simbiosi, identità, compe­ netrazione. I bastioni del castello di Elsinore, o la terrazza di Giulietta e Romeo, sono talmente integrati con la storia, con i dialoghi dei personaggi, che, anche se non li vediamo, poco importa, ce li immaginiamo da soli, sulla scorta del testo scritto e parlato. Al contrario, nel cinema, nel melodramma hollywoodiano, questa reciproca dipendenza si esprime nel modo opposto, attraverso una totale dipendenza dei personaggi dallo scenario elaborato, senza il quale, essi non avrebbero consistenza alcuna, non avrebbero spes­ sore, né significato. Opposizione radicale di due linguaggi, cinema e teatro, ma anche e soprattutto di due stili, di un certo teatro che può completamente fare a meno del suo elemento principale, il palcoscenico, e di un certo cinema che invece trova nello spazio scenico la sua principale caratteristica. Cosicché, se il teatro d’avanguardia di Grotowski e di Barba, e di molti altri poi, si dilettava sovente negli anni sessanta ad inscenare le proprie rappresentazioni in uno spazio vuoto, non dubitando che sarebbe stata l’azione ad evocare la scena, niente di nuovo era, poiché la letteratura americana, da Scott Fitzgerald a Nathanael West, a Normal Mailer, a Ray Bradbury, parlando del cinema, si 165

dilettava già da tempo ad inserire silhouette inconcludenti entro i grandi scenari hollywoodiani degli studio e dei depositi, non dubitando che sarebbe accaduto appunto l’inverso: che lo scenario avrebbe da solo evocato i personaggi e le storie nella mente vagabonda del lettore. Poco importa, anzi molto importa che nel cinema di Sirk (imparentato come ben sappiamo con il teatro di Brecht) i perso­ naggi siano sempre gli stessi, e gli attori anche, fino alla maschera immutabile di Rock Hudson, quando la storia è una, e la scena una anch’essa. La ricca abitazione degli Hadley in Written on the Wind (Come le foglie al vento) non è forse pari per elegante lussuoso squallore, alla casa di Bob Merrick in Magnificent Obsession (Magnifica Ossessione), o alla ricca antica villa di Tonio Fischer (Rossano Brazzi) in Interlude, e alla villa di Lora Meredith, ormai diva di successo (Lana Turner) in Imitation of Life (Lo specchio della vita). Come la grande villa antica distrutta dalle bombe in A Time to Love and a Time to Die dove Elisabeth ed Ernest potranno ritrovare fra le rovine le dolcezze e la gioia dell’attimo indimenticabile? In tutti i casi una ricca ed ampia dimora fa da contrappunto ad un piccolo rifugio, ma è questo, sempre, il secondo che conta: tutto il resto non è altro che scenografia possente, maestosa, inutile e vuota, espressione dello spreco di tempo e di spazio. Eppure è da questo spreco che sorgono, nascono, germogliano i personaggi innumerevoli, senza di cui il vuoto non avrebbe il senso di vuoto, lo spreco il senso di spreco. 1 personaggi sono emanazioni dirette della scenografia che si annulla in essi. E se in A Time to Love and a Time to Die assistiamo alla distruzione materiale della scenografia, in altri film la ricca dimora rimane in piedi fino alla fine, rimane lì a ripetere la propria assenza, vuota ed abbandonata, come la casa degli Hadley, perché ciò che si vanifica è il percorso falso della vita, ciò che si perde è solo la durata degli anni, che non sono nulla, che passano in un soffio di fronte alla eternità di un attimo. Rovesciamento comune dei rapporti spazio-temporali, di cui il

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melodramma è ben maestro, cosciente realizzatore di una logica simmetrica, che riconduce tutto al suo contrario. E del resto lo sapeva anche Truffaut, maestro del mèlo, quando metteva in scena, tanti anni dopo, la stessa immutata Catherine Deneuve, con le stesse parole d’amore già dette un tempo, questa volta però recitare sul palchetto di un teatro in crisi, nella Francia occupata, tutte le sere, prima che passasse l'ultimo mètro. Le stesse parole, quindi gli stessi sentimenti, prima recitati con Beimondo, ora con Depardieu, ma che differenza fa: le persone invecchiano e muoiono, ma le sirene forse si accorgono degli anni di una vita mortale? Anche Sirk, del resto, è ben consapevole di raccontarci sempre la stessa cosa, una storia dove la vita comincia quando il tempo a disposizione è già terminato, quando tutto è già consumato, accaduto. Una storia che spesso finisce quando ancora non è cominciata. Non assistiamo infatti, in molte scene iniziali, a quella che è già una conclusione metaforica o effettiva della storia? Nella scena iniziale, e finale di Written on the Wind, Kyle, interpretato magistralmente da Robert Stack, lo stesso eroe dispera­ to votato all’autodistruzione di Tarnished Angels, corre in auto, arriva a casa ubriaco e dopo una breve scena di violenza con sua moglie, viene cacciato da Rock Hudson. Lo vediamo di nuovo fuori, correre sulla sua gialla fuoriserie, fino al bar di quando era ragazzo, via a fare il pieno di angoscia e di pessimo whisky, poi tornare a casa, per uscire una terza volta, infine, con la pancia piena di piombo e l’anima gonfia di ricordi. Esce con una azione teatrale, se alcuna mai lo fu, ripreso dal basso, mentre la tempesta è entrata definitivamente nella casa a sconvolgere tutto quello che ancora vi rimaneva. Che valore avrebbe questa ripetizione della stessa scena, se non di sottolineare i moduli ricorrenti del destino, e la necessità, che fa lo statuto di ogni personaggio teatrale? Kyle appare all’inizio anonimo, il suo volto infatti rimane fuori quadro, e solo alla fine conosceremo la sua identità. Ma che importa. Lui se ne va a cercare il rifugio sul fiume di cui parla sempre così insistentemente, il 167

‘piccolo mondo antico’, Vhortus conclusus, l’unità mistica della grande infanzia, l’unico posto che non potrà mai raggiungere perché è troppo vicino, sepolto nel labirinto della memoria, lontano solo qualche centinaio di anni luce nelle volute tenebrose del cervello, della mente. Gli opposti interno-esterno si scambiano senza difficoltà alcuna, poiché niente è maggiormente teatrale di quella tempesta con gli alberi che frustano i muri della casa, di quella pazza corsa in auto di Kyle, che beve alla bottiglia, rovesciato indietro, senza vedere più niente: retorica del gesto, della luce, dello spazio. E la storia di un altro film, Imitation of Life, 1958 non è forse già conclusa all’inizio, in quella sequenza che ci mostra Lora (Lana Turner) e Steve, il fotografo (John Gavin), sconosciuti l’uno all’altra, con le bambine, scambiati per marito e moglie da un grasso signore steso al sole? Nella confusione della folla in una giornata di festa a Coney Island, la macchina da presa inquadra prima di tutto solo un paio di gambe belle e anonime, che solo in seguito sapremo attribuire. Come, nella prima sequenza del film precedente, Robert Stack era inquadrato con il volto tagliato dallo schermo, anche qui assistiamo alla presentazione di un personaggio senza identità, anonimo. Sarà la storia ad identificarli, ma la loro storia è poi sempre la stessa, di anonimi eroi che hanno perduto ciò che la vita offriva loro, e che non potevano fare a meno di respingere. Anche la prima sequenza di Imitation of Life delinea già una microstoria, che ha con il film lo stesso rapporto dell’ouverture musicale: lo smarrimento di Susie, la figlia di Lora, sta per quello della madre, e definisce già il nucleo familiare: le due bambine con i genitori, Steve e Lora, la stessa composizione che ritornerà alla chiusura del film. Il quale dunque non è altro che la storia del quadro familiare, ipotizzato all’inizio, poi rinviato per il breve spazio di una vita, realizzato solo alla fine. Con la stessa linearità, come se non fosse mai stata minacciata, la famiglia si ricompone quietamente: con la stessa costanza di un voto nell’acqua agitata dalla mano.

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L’elemento di disturbo è costituito dalla madre nera, Annie, il doppio di Lora. Anche Lora ad un certo punto rischia di essere ridotta allo stesso ruolo di schiava dall’amore protettivo di Steve. La storia del film è, apparentemente, una emancipazione, un confronto fra due donne, quella sfruttata e quella libera. Ma il teatro viene ancora una volta a sconvolgere i temi, a rovesciarli, perché se il teatro è la via della emancipazione per Lana Turner, non è forse anche la via della rinuncia, del differimento della vita? Non è appunto il teatro l’imitazione della vita di cui si parla? E non è il teatro che anche Sarah Jane la figlia di Annie, nera di razza, bianca di carnagione, insegue, nel desiderio di liberarsi dall’incubo della madre di colore? Qui ancora non si rivela come il melodramma sia bugiardo, eterno ingannatore: ci ha proposto dei problemi sociali, due concezioni della vita, e ci lascia con una manciata di immagini, due stili, due diverse concezioni del teatro. Poiché se il teatro dove Lora impera sembra il grande teatro americano (all’inizio, quando lei è ancora piena di speranze si fa il nome di Tennessee Williams, ma poi si sente solo parlare di «commedie a base di sesso e grandi toilette») il teatro in cui invece si cimenta Sarah Jane è certamente quello più vivo dell’America, non solo nel pezzo di blues (Empty arms) che lei canta da Harry’s, ma anche e soprattutto nelle belle scene di violenza con il suo ragazzo bianco in quel vicolo di cartone a luci viola che ci riconduce direttamente a West side story e al musical con i suoi pezzi immortali, che è l’altra grande faccia di Broadway, l’opposto del realismo di breve stagione. Ma la sintesi dei due stili, delle due Broadway, sarà appunto il compito della morte di Annie, la colombina, la madre nera: che cosa di più teatrale infatti di quel suo addio al capezzale, con una lunghissima, interminabile confessione e il grido finale di Lana Turner? Chi non ricorda l’altro interminabile addio di Withering Heights, Cime tempestose, fra Olivier, e la bella Merle Oberon; o la grande, triste arlecchinata in Limelights di Chaplin, con Calvero che non sa dove andare, dove mettersi?

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Che cosa di più spettacolare poi del funerale, con lo splendido Trouble of the World, cantato da Mahalia Jackson? Sfilano i membri della congregazione, i cavalli bianchi, la banda, mentre il cerimoniere tenta di tenere lontana la figlia perché non disturbi lo spettacolo. Una riconciliazione che esiste solo sul piano dello stile, in cui la mor­ te non è più né vera né finta, ma l’uno e l’altro insieme, e il teatro di tradizione drammatica, con la scena al capezzale, si confonde con l’altro di tradizione blues, con il musical, con lo spiritual. Anche qui la scenografia partecipa vivamente al melodramma, tanto da divenirne addirittura il principio generativo, in una ciclicità stagionale che se ci mostra la pioggia e la neve nel tempo dell’affanno, non trascura la primavera e i picnic nel tempo degli amori, né l’estate ed il mare e il sole nel tempo dell’unione, cioè al principio e alla fine. Sì, perché da ultimo il melodramma è anche e soprattutto un fatto di stagioni: di esse riprende la ciclicità, che si ispira al tempo sacro, dell’eterno ritorno. Riprendiamo un altro film Secondo amore (All that Heaven Allows, 1955). E subito chiaro fin dalla prima sequenza, che esistono due opposte concezioni del tempo, legate alle due diverse società, frequentate da Ketty (Jane Wyman) e da Ron (Rock Hudson): quella borghese, del flusso irreversibile, legato alla concezione del denaro, e quella arcaica, contadina, rappresentata dal libro di Thoreau, il Walden, che Jane Wyman trova in casa di Mec e Alida, e di cui legge un passo ove si parla appunto delle diverse andature che hanno gli uomini, dei diversi ritmi della vita. Del resto Rock Hudson appare fin dall’inizio vecchio, o almeno senza età: da tre anni cura gli alberi del giardino, senza che lei se ne sia accorta, ed è subentrato, naturalmente, a suo padre. E presenta­ to come un elemento della natura: legato agli alberi e alla loro ciclica vita: ritorna ogni primavera ed ogni autunno. Laconico, con lo sguardo assente, Ron entra in campo dallo sfondo solo per aiutare Jane Wyman a portare una cassa, accetta il caffè e risponde

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solo a monosillabi, per rianimarsi solo quando parla dell’albero cinese chiamato «la pioggia d’oro». Esce di campo improvvisamen­ te per riprendere il lavoro, mentre la mdp rimane fissa su Jane Wyman con il ramoscello in mano. Poi l’immagine dissolve, incrociata con lo stesso ramoscello che riappare, questa volta in casa, nel vaso accanto allo specchio: una bella metafora, per indicare l’ingresso di Ron nella vita di lei. Il loro incontro è uno scambio di codici culturali: il caffè in cambio di un ramo fiorito, e le due feste poi giungeranno molto bene a contrapporre i due mondi. Ma soprattutto, come dicevamo, il collegamento fra Ron e la natura è realizzato in forma metaforica, con la serie di passaggi da una sequenza all’altra in dissolvenza incrociata sempre sul tema della pianta: dopo il primo incontro e la prima dissolvenza sul ramoscello, la cosa si ripete al ritorno dalla festa borghese, la sera, quando Jane Wyman si accosta alla finestra e al ramo nel vaso, su cui l’immagine dissolve ancora, per aprirsi in mattinata, sulla macchina di Ron che arriva. I movimenti di macchina che in entrambi i casi seguono e precedono la dissolvenza servono ad unire Ketty al ramo, a mostrare l’accostamento progressivo; ma sarà soprattutto la terza, splendida dissolvenza incrociata, sull’albe­ ro completo, dopo che si sono baciati al vecchio mulino, a mostrare la continuità nel passaggio della stagione: dall’albero cinese con le ultime foglie, allo stesso, definitivamente spoglio. A questo punto possiamo tranquillamente dire che l’eterno stagionale Ron, senza patria e senza età, non è altro che un grande albero del bel giardino di Ketty. Effetti di rima, effetti di simmetria quasi impercettibile, che fanno di queste prime tre sequenze, altrettante ‘stanze’ poetiche, introduttive alla rappresentazione propriamente detta; una ouver­ ture di cui possiamo godere i ritmi e le modulazioni, soprattutto nel rapporto fra interni ed esterni, come specchi delle due anime, dei due temi concorrenziali: la natura, sacra, eterna e la cultura, borghese e domestica. L’animo chiuso di Ketty che si rispecchia nel

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culto della casa e il suo desiderio di uscire nella luce limpida dell’autunno. Non a caso infatti all’inizio si parla della tradizione egizia di seppellire la moglie ancora viva insieme con il marito morto; tutto il desiderio di Ketty appare traducibile piuttosto che in termini sessuali, come bisogno di un po’ di luce e di aria limpida. Ma il melodramma è anche beffardo, e non sa arrestarsi sulle sue de­ licate conquiste poetiche, senza ritornare sui propri passi e ripesca­ re una vena di disperato sarcasmo, di tenue angoscia soffocante. Ha bisogno di passare per la moltiplicazione degli effetti e dei contra­ sti scenici, di sprofondare negli abissi del sentimento, dove il con­ flitto non è più storia, ma destino; irrevocabile, insaziabile destino. E così che alla fine non troveremo poi nulla di mutato, e sempre la solita Jane Wyman che guarda dalla vetrata, chiusa in un’altra casa questa volta, non più la sua ma lo splendido chalet che Ron ha costruito per lei, per racchiuderla. Ma nel frattempo possiamo godere di tutto l’eccesso che è consentito alla scrittura cinematografica di grande tradizione: la scena diventa scenografia, produzione di immagini assolute, di universali, di essenze sovraccariche. Possiamo godere fino in fondo della scena nel vecchio mulino restaurato, un nuovo incontro fra Ketty e Ron, incorniciato fra le due immagini del cervo, sogno e mito di una natura vicina-irraggiungibile. E appunto la stessa natura concepita in Walden, vagheggiata da un letterato che se ne sta chiuso fra le pareti domestiche; una natura che ci appare attraverso quella luminosa vetrata costruita da Ron, attraverso cui filtra la luce dei monti e dei boschi innevati, riflettendosi sul caminetto. Orgia di luci, ancora una vita, di filtri azzurri di fuochi allegri nel caminetto, la vecchia costruzione si avvia a diventare l’interno di una villa ricchissima; orgia di simboli assoluti e flagranti: la porcellana che si spacca per la seconda volta, la porta che si apre per lasciare irrompere la neve nel salone riscaldato. Siamo ancora in teatro, sulla vera scena melodrammatica, centrale: Ketty lascia Ron, per sempre, e lo riprende un minuto dopo, gli amanti sono tutto il mondo, il fuoco si consuma rimanendo sempre

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identico, come una metafora della narrazione, che brucia sempre diversa raccontando la stessa storia, le stesse storie sempre uguali. La vetrata diviene simbolo del teatro stesso, il particolare scenico che contiene l’idea di una natura vicina e intoccabile, un arco­ scenico di vetro che ci separa dalla vita e dal mondo, per sempre. Analogamente la scena del film There's Always Tomorrow (Quella che avrei dovuto sposare) girato l’anno successivo, ci mostra l’addio fra Barbara Stanwyck e Fred MacMurray. La macchina da presa si nasconde dietro i gradini di una scala a chiocciola e al termine lascerà lui di spalle rivolto verso una grande vetrata chiusa. Lo riprenderà poco dopo, al suo arrivo in casa, nel finale, mentre va ad affacciarsi alla finestra, giusto in tempo per vedere passare l’aereo su cui lei è partita per sempre. Un breve inserto ci mostra lei, Stanwick, mentre guarda affaccia­ ta all’oblò, ipoteticamente verso la sua casa, praticamente nel vuoto: poiché il campo-controcampo è mediato ormai da una distanza insormontabile, che impedisce agli sguardi di incontrarsi. Poi di nuovo la finestra si chiude su Fred MacMurray, lasciandolo all’interno di una casa buia, dove giunge la moglie a raccoglierlo e ad accompagnarlo fuori di scena. Ultima immagine, ancora una vetrata dietro la quale i bambini, affacciati, osservano i genitori, che «fanno proprio una bella coppia»: sono i probabili spettatori, i destinatari di una rappresen­ tazione familiare che, convalidata dal loro occhio sapiente ed esigente, cessa di essere una finzione assurda, per acquistare tutta la forza e il potere della verità. Ancora il teatro (la rappresentazione familiare), si rivela più vero e più importante della realtà. Gli sguardi degli amanti che non si incontrano, il fuori campo finale dei genitori, che esistono solo perché visti dai bambini, le finestre che si chiudono sul cielo dei desideri sono tutti gli elementi di un’altra rappresentazione, che include quella più piccola. E un teatro nel teatro, il teatro della vita su cui alla fine cala il sipario con la progressiva uscita dei personaggi, lasciando alla fine

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solo il gruppetto infantile degli spettatori, gli ultimi, irriducibili, che stanno vivendo in modo indolore quell’incontro effimero fra il reale e l’immaginario, chiamato amore, che i grandi hanno appena recitato per noi e di cui ora i piccoli fanno la sapiente parodia: «credi che potrò amare per tutta la vita un campione di baseball?» chiede al fratello la piccola ‘principessa’ Ellen. La brevità della storia vera, di Fred MacMurray, coincide con la durata immaginaria di una vita, di cui parlano i bambini, poiché entrambe sono dominio del non reale; l’infanzia e la vita, quella vera e quella immaginaria, il bene ed il male sono poi la stessa cosa, rappresentazione di una rappresentazione. Sono funzioni, come direbbe Propp, sulla scena. Ruoli che attendono un interprete. E la psicoanalisi, con l’inconscio che si presenta ovunque scritto come un destino, secondo quanto osserva Paul Ricoeur, cioè come un testo conosciuto, già interpretato o da interpretare, diviene il codice di questa teatralità. Una teatralità che non intende tanto raccontarci delle storie, quanto illustrare, con immagini, dei destini, anzi un unico destino, dopo tutto, ripetuto all’infinito: che, con Ì suoi aspetti di eternità, ineluttabilità, identità è l’unica tipologia in grado di metterci in comunicazione con l’inconscio, quel piccolo palcoscenico con le luci ancora spente. La citazione di papa Wojtyla proviene dalla sua commedia La bottega dell'orefice e mi sembra particolarmente adatta per indicare questo rovescia­ mento simmetrico tipico del melodramma: un attimo una vita; come anche quella di Bataille sulla coincidenza del dolore e della gioia, che proviene da Le lacrime di Eros. Il saggio di Ricoeur su Freud è stato tradotto in italiano nel volume intitolato Della interpretazione che raccoglie saggi suoi di varie date. Per quanto riguarda il film di Bertolucci Strategia del ragno, rimando alla lettura che ne ha fatto Lucilla Albano nel suo Strategia di un linguaggio, pubblicato su «Cinema Sessanta», 132, 1980. Infine, per Come le foglie al vento, ho fatto riferimento al mio articolo già apparso su “Cult Movie”, 13-14 del 1983 che conteneva una analisi più dettagliata di questo solo film. (n. 339-340, 1983)

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Limitazione ‘specchio’ della vita Roberto Vaccino

Stranezze della critica. Recentemente1, presentando i film della settimana, il recensore d’un noto settimanale invitava il lettore a cautelarsi con una certa vigilanza (molto ‘critica’ e pochissimo ‘erotica’) nei confronti dei due film sirkiani trasmessi dalla televi­ sione italiana (Imitation of life e A time to love and a time to die), ironizzando con perplessità sull’inevitabile prossimo recupero del loro autore. Qualche tempo prima, commentando sfavorevolmente un saggio di Andrew Britton, Franco La Polla ci avevano proposto questa definizione, lievemente tautologica, dell’opera di Sirk: «un magnifi­ co esempio di perfezione linguistica all’interno di un genere, tutto sommato, codificato». E più oltre, ma altrettanto sveltamente: «il rigore linguistico di Sirk era contestualmente rigore ideologico (di una spregevole ideologia, d’accordo), e i suoi film rientravano nel costume del conservatorismo hollywoodiano nel momento in cui si ponevano come strutture espressive autonome e ammirevolmente funzionali nell’economia del messaggio». Ora, ha senz’altro ragione La Polla quando parla di «un magnifi­ co esempio di perfezione linguistica» : basterebbe rammentare, per riferirsi ad Imitation, la preziosità dei titoli di testa, la sperimenta• Si veda la data del saggio (n.d.c.).

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zione coloristica di Russell Metty, la strepitosa sequenza di chiusu­ ra. E ancora, per citare sparsamente, le immagini della breve sequenza notturna (molto striking), in cui Sarah Jane viene colpita violentemente dal boy (velocemente riflesse nella vetrina), l’uso calcolatissimo del décor ed il lavoro del regista sugli interpreti che inscrive limitazione’ della vita nella gestualità stessa degli attori, utilizzando il contrasto tra la ‘cattiva’ recitazione dei protagonisti ‘apparenti’ (Lana Turner e John Gavin) e la performance dell’esor­ diente Susan Kohner («the better acting part»). Ciò che invece lascia perplessi è l’affermazione successiva di La Polla, secondo la quale il rigore stilistico si caricherebbe di un analogo rigore ideologico, spregevolmente reazionario. Affermazione sorprendente perché se c’è un genere del cinema americano (o comunque un tono, un’atmosfera), suscettibile di non essere immediatamente liquidato in maniera generica, questo è proprio il melo. Nessun altro tipo di testualità riporta alla luce i conflitti socio-familialistici esaltandoli (ed esaltandone la violazio­ ne) sino al punto del delirio, isterizzandosi sul corpo stesso dell’attore e del film, spinti ad un eccesso rovinoso. Nessun altro genere insomma investe la scena americana dei conflitti rimossi facendone il luogo di una battaglia, concreto esempio di testualità non omogenea, dove si trascrivono e si lasciano decifrare la molteplicità e la pluralità di istanze che producono il testo e che il testo riproduce. Che poi la chiusa del mèlo pratichi la conciliazione, se non la guarigione delle ferite, e che i personaggi deiì'happy end non vogliano ‘sapere’ del loro culmine, evitando accuratamente di stabilire linee di collegamento tra i deliri personali e le macchine molari che li circondano, questo va da sé, come appunto in Imitation of Life. Ma il film di Sirk è solo apparentemente rappresentativo della catena ideologica alla quale sembra assogget­ tato e di questa catena opera uno smontaggio dall’interno (un’autodesignazione alterante), venendo ad esibire l’immagine (il riflesso, limitazione’, appunto) che l’ideologia si dà. 176

Imitation, dice Sirk, appartiene ai «weepies»: proprio per questo si trattava di agire duramente («fighting») contro di esso, «knowing also it coldn’t be removed from the plot without the whole thing collapsing», sapendo perfettamente, cioè, che non si poteva toglie­ re, semplicemente, il conflitto e l’accecamento che esso produce. È in questo modo, ponendo e attraversando la fase tetica, che si determina un décalage (una rottura, una distorsione) «entre les conditions d’apparition (le projet idéologique réconciliateur — voire franchement réactionnaire — ou faiblement critique) et le produit terminal: l’idéologie n’étant pas trasposéee telle quelle (...) mais rencontrant des obstacles, devant dévier, tourner court, se voyant exhibée, montrée, dénoncée par la trame filmique où elle est prise et qui joue contre elle» (Narboni-Comolli). Imitation of Life trova nella Famiglia il suo solo set di riferimen­ to, lo schema in base al quale misurare, dolorosamente, ogni possibile squilibrazione, ogni incongruenza o dissonanza. La fami­ glia, qui, ‘funziona’ come la macchina molare sulla quale si innestano le formazioni significanti dei soggetti, le loro produzioni di desiderio, gli investimenti affettivi e fantasmatici. Delle cinque storie familiari del film, tre (Annie, Steve, Susie) si riferiscono ‘sempre’ alla triangolazione edipica, ne patiscono la mancanza, ne cercano la solidità e il calore. Due, al contrario, sono storie del ‘rifiuto’, linee (cieche) di fuga, sommovimenti testuali. Pensiamo a Lora, e al suo oscillare tra chance del teatro e la possibilità d’un altro marito (Steve) e d’una nuova famiglia. Rin­ viando continuamente la seconda, avvertita come meschina e insoddisfacente, Lora raggiunge senza volerlo (senza saperlo) un’al­ tra fuga: il tentativo di Sarah Jane di ‘guarigione’ dall’orribile differenza razziale, il suo desiderio di poter nascondere e cancellare una volta per tutte l’alterità scritta sulla propria stessa pelle. Entrambe, poste dinanzi a quel set, si rivelano a loro modo scandalosamente, acutamente incongrue, e ‘devono’, in quel set, provocare le conseguenze più disastrose. Sarah diviene colpevole dell’infinita sofferenza della madre, sino a causarne (letteralmente) 177

la morte stessa. Steve attende inutilmente una decisione di Lora, perennemente rinviata ad ogni nuovo loro incontro. Susie, infine, si innamora di Steve come del padre mancante, scorge in ogni uomo una sua debole traccia e gli delega totalmente quella domanda fusionale che verrà del tutto frustrata dall’angosciosa osservazione, dall’alto della finestra della propria camera, della scena primaria. La lettera del testo sirkiano divora avidamente i cliché, abbraccia (come suggeriva David Will) le convenzioni della cultura di massa al suo livello più isterico, ricopia il “Reader’s Digest”, utilizza sfrontatamente la volgarità del ricatto. Ma, ribadendo apparente­ mente il significato familialistico e mettendo fuori gioco ogni possibile avventura laterale, Sirk si confronta frontalmente e dura­ mente con i blocchi ideologici e i grandi mitemi. Imitation svela l’orrore atroce d’un ‘valore’ fittiziamente naturalizzato (la non necessità del massacro compiuto) e rivela che se menzogna vi è essa è di tutti, perché tutte e cinque le storie sono percorse di accecamento e di imitazione, pedine manovrate e scritte dal significante primario e dal socius che lo accoglie e lo modella. Così in Lora, che sacrifica qualsiasi altra meta pulsionale ad una sola domanda (il desiderio di essere riconosciuta), a partire dalla ferita narcisistica. Il successo le si propone come il solo Ersatz in grado di ricomporre la sicurezza e togliere l’angoscia, poiché «ogni specie di conquista, indubbiamente, è opera di un uomo che fugge una minaccia» (Bataille): «non sono mai stata tanto sicura», dice, guandando dall’alto il panorama della city. Ma la sicurezza non può essere posseduta e i lineamenti del desiderio non rimangono a lungo soddisfatti: ogni volta che si ripresenta la possibilità di aderire discretamente all’amore di Steve (al quale ha originariamente rinunciato) Lora ritrova ancora la stessa inquietudine e rilancia, ad ogni stazione del desiderio, il percorso metonimico. Inoltre (il film inizia con una serie di anonimi campi medi su di un’anonima spiaggia), la meta di Lora, nel contesto contempora­ neo, non può essere che il feticcio dell’unità perduta e non la

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gioiosa accettazione dell’effimero. In un regime di libera concor­ renza il soggetto metropolitano, sperduto tra la folla solitaria, nomina il successo come suo solo ed irrinunciabile Ersastz, mo­ strando così come la metonomia lacaniana, hegelismo truccato, sia rafforzata dalla sua iscrizione sociale. Se la fuga di Lora, dunque, è fuga d’un femminile coniugato al maschile che non tenta né riesce ad essere positionless, Steve (per converso), posto di fronte alla medesima meta e scelta, vi rinuncia sminuendosi da artista a semplice pubblicitario. E tuttavia, certo, non per illuminazione zen o per non sapere, ma per semplice debolezza ed incapacità di guardare la morte in faccia e trarne vantaggio. Là dove la madre accetta le multiple segregazioni (negra, casalin­ ga, serva) nel nome di Dio, Sarah Jane, invece, vive nella differenza razziale («the picture is a piece of social criticism»), figura di quella ‘femminile’: «lei non sa cosa vuol dire sentirsi diversa»... Ma anche per lei (come per Lora) non c’è possibilità di salvezza in quel contesto. Le chances sono minime: o la lucida ‘esibizione’ (subor­ dinata) della propria minoranza (cfr. la scena in cui compare provocatoriamente con il vassoio sul capo) o il tentativo di cassare la differenza, in un farsi-bianca (gli episodi della bambola, della scuola, del boy, del lavoro che conduce alla fuga vera e propria da casa e all’ingresso nel circuito della menzogna). Come l’Adele H di Truffaut Sarah Jane si dà falsi nomi, mentre spudoratamente, cerca di fuggire un’identità ed un ruolo predispo­ stole: «se dovessi incontrarmi per strada fa finta di non conoscer­ mi». Buttandosi con orrore e con disperazione su ogni gioia della madre per strozzarla, Sarah Jane, come Amleto, ‘deve’ essere crudele per poter essere pietosa. Gli ultimi sguardi di Annie morente vanno alla fotografia della figlia sul tavolino da notte. E Sarah Jane ad averne causato la rovina estrema, la morte medesima. Ed è Sarah Jane a venire riedipizzata da quel blocco del desiderio che è la foto di famiglia: «io non volevo, io non volevo. Per favore perdonami. Devi perdonarmi. 179

Sono stata io, sono stata io a ucciderla...». Il melo raggiunge finalmente il suo culmine nella grande scena finale che inizia con la morte di Annie, prosegue con la cerimonia in chiesa (mentre Mahalia Jackson lacera l’erotismo dei cuori e fa tremare i vetri) e termina sulla lenta partenza del corteo funebre. Sarah ritorna in lacrime e si adagia sulle ginocchia di Lora, riaccolta, all’interno dell’automobile, nel seno d’una famiglia che si ritrova lei stessa e si è ritrovata soltanto grazie alla rovina più totale, al ‘male’ più assoluto. Ma il progetto riconciliativo del coming home, la sutura reazio­ naria, sono solo apparenti. Appartengono al livello della lettera. Sirk scrive l’ideologia e i suoi conflitti, ricopia la naturalezza degli accecamenti (Lora che si stupisce in continuazione nella parte finale del film, come ha scritto meravigliosamente Fassbinder) poiché all’interno del Capitale «you can’t reach, or touch, the real. You just see reflections». Certo, alla fine tutto è come prima, la ronde edipica si è richiusa, si è riannellata soffocante e claustrofobica: «the circle will be closed... everything seems to be OK». «But you well know it isn’t... the point is you don’t have to do this. And if you did, you would get a picture that the studio would have abhorred». Uhappy end, allora, è solo il moderno e borghese deus ex machina, puro trucco del plot e dell’ideologia, semplice effetto di testo, dove l’ironia continua: «to the few it makes the aporia more transparent». Apparente film sul disastro della fuga da casa, Imitation of life è in realtà un film sul disastro che è la famiglia (e l’ideologia): un’imitazione a sua volta, una velina del familialismo. Non per nulla la sua lettura ridotta lo distribuisce come film per famiglia. Imitation of life è un grande film manierista, consapevole di esserlo, un film dell’orrore, lucidamente cosciente di se stesso. (n. 293, 1979)

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Bibliografia sul melodramma cinematografico

Bibliografia sul melodramma cinematografico La presente bibliografia, che non ha pretese di esaustività, riprende e integra quella pubblicata da Lucilla Albano in «Filmcritica», 339-340, 1983. Per informazioni più complete sui singoli registi, si rimanda alle monografie citate.

a) Numeri monografici di riviste e cataloghi dedicati al melodramma

«Monogram», 4, 1972 (comprende: T. Elsaesser, Tales of sound and fury [trad. it. in questo volume]; D. Morse, Aspects of melodrama; P. Lloyd, Some affairs to remember: the style of Leo McCarty;]. Belton, Souls made great by love and adversity: Frank Borzage; J.L. Bourget, Seventh heaven; J. Halliday, All that heaven allows). «Positif», 183-184, 1976, Le mélodrame (comprende: P. Milne, Quelques mots de Frank Borzage; J.L. Bourget, Au ciel j'irai la voir un jour (à propos de Seventh Heaven de Frank Borzage); M. Henry, Le Fra Angelico du mélodrame; J. Segond, De Cendrillon à Ophélie; C. Viviani, Margaret Sullivan: un visage dans la foule).

«Screen», XVIII, 2, 1977, Dossier on melodrama (comprende: G. Pollock, Report on the weekend school; G. Nowell-Smith, Minnelli and melodrama; S. Heath, G. Nowell-Smith, A note on family romance’; P. Rosen, Difference and displacement in Seventh Heaven). «Bright lights», II, 2, 1977, The cinema of Douglas Sirk (comprende: J.L. Bourget, Sirk and the critics; R.E. Smith, Love affairs that always

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fade; J. Basinger, The lure of the gilded cage; S. Handzo, Intimations of lifelessness: Sirk’s ironic tear-jerker; J.L. Bourget, God is dead, or through a glass darkly; J. Stern, Two weeks in another town; M. Stern, Interview with Douglas Sirk),

«The australian journal of screen theory», 4, 1978 (comprende: B. Creed, The position of women in Hollywood melodramas; S. Rhodie, Semiotic constraints in Now, voyager; C. Robinson, Dark victory; L. Stern, Oedipal opera: the restless years). «Ecran», 75, 1978, Mèlo quand tu nous tiens... (comprende: C. Beylie, Ce vice impuni, le mèlo; M. Tessier, Le visage du péché; G. Langlois, Celle par qui le scandale arrive; P. Ariotti, Les mélo-dames). «La revue du cinema», 336, 1979 (comprende: G. Allombert, Une vision politique de notre société; P. Méngeau, Un cinéma de perver­ sion; R. Lefèvre, Le mèlo qui ose dire son nom; R. Grelier; D’un détoumement toujours possible au bonheur impossible). «Les cahiers de la cinémathèque», 28, 1979, Pour une histoire du mélodrame au cinéma (comprende: M. Roelens, Mélodrame, cinéma, histoire; C. Beylie, Propositions sur le mèlo; B. Amengual, Propos pédants sur le mélodrame d’hier et le faux mèlo d'aujourd’hui; J. Goimard, Le mélodrame: le mot et la chose; R. Chirat, La ‘sainte Russie' dans les studios parisiens; P. Cadars, Le mèlo au garde à vous; C. Viviani, Qui est sans péché. Le mèlo matemel dans le cinéma américain 1930-1939; C. Beylie, Guirlande pour le mèlo; M. Lebrun, Les figures imposées du mèlo; P. Sefani, Les gens du voyage; P. Pitiot, Les 'structures orphelines’; F. de la Breteque, La structure double dans le mélodrame; M. Roelens, La mise à mort; I. Siclier, Le cinéma féminin d’Ida Lupino; O. Eyquem, Biofilmographie d’Ida Lupino;].?. Bleys, John Cromwell ou la mélodie du mélodrame; M. Oms, Les enfants du paradis ou la mutation cinématographique du mélodrame; A. Abet, Tout ce que le del permet; J. Baldizzone, Le calvaire d’un cortisane ou le mèlo mis à nu; F. de la Breteque, Le jardin d’Allah; W. Burzlaff, Le lacaux chimères: le film et son modèle; J. Baldizzone, Mensonges: un mèlo libérél; C. Beyhe, Le confessioni di una donna; O. Eyquem, Un mèlo familial des années dnquante: There’s always tomorrow; M. Roelens, Maddalena et Comet over Broadway, ‘Baroque’ et ‘Lumières’; A. Apra, Le mélodrame chez Matarazzo; R. Borde, Retrouvailles; R. kart, Le mélodrame dans le dnéma muet frangais; M. Roelens, «Mon dné» (1922-1924) et le mélodrame; P. Roura, Filmographie).

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«Wide angle», IV, 2, 1980 (comprende: C. Viviani, WAo is without sin?; S. Fhtterman, Guest in the house: rupture and reconstitution of the bourgeois nuclear family, C. Orr, Closure and containment, Marylee Hadley in Written in the wind; F. Kriitnik, The Shangai gesture, the exotic and the melodrama; B. Crow, The cinematic and the melodramatic in A woman of affairs', R. Matarazzo, 37 millions de spectateurs ont vu mes films', L. Codelli, Vivan las cadenas (notes sur Catene de Raffaello Matarazzo; B. Eisenschitz, Entretien avec Raffaello Matarazzo; J. Segond, Le baiser du vampire; R.W. Fassbin­ der, Sur six films de Douglas Sirk). «Cinema e cinema», 37, 1983, Le forme del sentimento: il melodramma nel cinema americano (comprende: L. Fiedler, Via col vento: applausi e lacrime; G. Fink, Gli occhi degli angeli; E. Martini, La luce verde; R. Campari, Vidor, Sirk, Minnelli; S. bocci, Storie del vecchio Sud; F. La Polla, Non è più tempo d'eroi, ovvero: su alcuni limiti della macchina da presa, oggi; F. Mitiganti, Dettagli d'un melodramma terminale).

«Filmcritica», 339-340, 1983 (in questo volume).

«Segnocinema», 30, 1987 (comprende: G. Canova, Un fazzoletto pieno di forza; G. Bottiroli, Critica della ragion patetica; A. Abruzzese, Le lacrime e lo sperma; P. Taggi, Lacrime vere, lacrime false; M. Porro, Cinema, valle di lacrime; C. Marabello, Le lacrime e la forma).

Acerca del melodrama, Valencia, Generalità! valenciana, Conselleria de cultura, educació i ciència, 1987 (comprende: V. Ponce, Avatares del rostro; M. Marias, La melodia del drama o melodrama sin fronteras; J.M. Company, Dulces prenda* por mi mal halladas. El objeto en el melodrama cinematografico; ].L. Téllez, Melo/Drama;]. Pérez Perucha, Pero... j bacia donde?; J. Gonzalez Requena, Escenografia de la herida. Algunas consideraciones sabre el tejido del film melodramàtico).

b) Libri e articoli di carattere generale sul melodramma C. Beylie, Le mélodrame, splendeur du faux, in «Cinema 71», 1971. J.A. Bizet, Notes sur le melodrame filmique, in «La pensée», 167 D. Bordwell, in Narration in the fiction film, London, Methuen, 1985. J.L. Bourget, Aspects du mélodrame, in «Positif», 131, 1971. —, Le melodrame hollywoodien, Paris, Stock, 1985.

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Indice

Introduzione: le metamorfosi del melodramma di Alberto Pezzetta Pag. L'intensificazione espressiva di Edoardo Bruno » Identificazione di una donna di Sergio Grmek Ger­ » mani Appunti per una filmografia del melodramma nel cinema americano di Lucilla Albano » Storie di rumore e di furore. Osservazioni sul melo­ dramma familiare di Thomas Elsaesser » Il cinema come insiemi infiniti di Sandro Bernardi » Quando una (diva) si abbandona di Stefano Socci » Il melodramma di Matarazzo: meccanismi di funzio­ namento di Teo Mora » Il viso di Pandora di Stefano Socci » Il melodramma di Vincente Minnelli: la frenesia e Vestasi di Giuseppe Turroni » Palcoscenico di Douglas Sirk di Sandro Bernardi » L'imitazione ‘specchio' della vita di Roberto Vaccino » Bibliografia sul melodramma cinematografico

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