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MORITZ SCHLICK FORMA E CONTENUTO

INTRODUZIONE DI PAOLO PARRINI

BORINGHIERI

Prima edizione marzo 1987

©

1987 Editore Boringhieri SpA, Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla tipografia Capretto e Macco di Torino ISBN 88-339-5398-X CL 74-9244-8

©

1979 Albert M. Schlick e Barbara F. B. van de Velde- Schlick

TTaduzione di Paolo PaTTini e Simonetta Ciolli PaTTini

INDICE

Titoli originali

7

Introduzione di Paolo Parrini

9

Forma e contenuto: una introduzione al pensare filosofico

45

Seconda lezione: La Prima lezione: La natura dell'espressione, 47 natura della conoscenza, 80 Terza lezione: La validità della co­ noscenza, I 15

Interpretazione criticistica o empiristica della nuova fisica?

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Esiste un a priori materiale?

167

Indice dei nomi

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TITOLI ORIGINALI

Forma e contenuto: una introduzione al pensare filosofico Scritte in inglese e intitolate Form and Contento An Introduction to Philosophical Thinking, queste lezioni sono state dapprima pubblicate

in M. Schlick, Gesammelte Aufsiitze 1926-1936, a cura di F. Waismann (Gerold, Vienna 1938; rist. anastatica G. Olms Verlag, Hildesheim 1969) pp. 151-249; ne

è poi comparsa un'edizione rivista sull'originale

in M. Schlick, Philosophical Papers, a cura di H. L. Mulder e B. F. B. van de Velde-Schlick,

"Vienna Circle Collection" , 2 volI.

(Reidel,

Dordrecht 1979); il primo volume comprende saggi degli anni 1909-22, il secondo quelli degli anni 1925-36,

con le lezioni londinesi alle

pp. 285-369. Recentemente sono state pubblicate in traduzione tedesca nella raccolta di saggi di M. Schlick, Philosophische Logik, a cura di B. Philippi (Suhrkamp, Francoforte 1986) pp. 110-222. Interpretazione criticistica o empiristica della nuova fisica? Kritizistische oder empiristische Deutung der neuen Physik? Bemerkun­ gen zu Ernst Cassirers Buch "Zur Einsteinschen Relativitiitstheorie",

Kantstudien, voI. 26, 96-111 (1921). Esiste un a priori materiale? Gibt es ein materiales Apriori? (1930), in "Wissenschaftlicher Jahresbe­

richt der Philosophischen Gesellschaft an der Universitat zu Wien. Ortsgruppe Wien der Kant-Gesellschaft fiir das Vereinsjahr 1931/32 (Vienna 1932) pp. 55-65.

INTRODUZIONE DI PAOLO PARRINI

o. Soprattutto come reazione all'immagine di comodo dell'em­ pirismo logico divulgata (e criticata) dai maggiori rappresentanti della cosiddetta .. nuova filosofia della scienza ", nell'ultimo decennio sono comparsi diversi studi sui Circoli di Vienna e di Berlino varia­ mente rivolti a correggere alcuni dei più radicati luoghi comuni storiografici circa la nascita e lo sviluppo di questo complesso e va­ riegato movimento. Da tale processo di revisione, il neoempirista che sembra essersi più avvantaggiato è certamente il fisicalista Neu­ rath che, da figura in qualche modo secondaria rispetto ai viennesi Schlick e Carnap e al berlinese Reichenbach, è assurto al rango di esponente di primissimo piano della .. Associazione Ernst Mach " e di geniale anticipatore della filosofia della scienza postneopositivista. A parte lo scarso rigore epistemologico con cui in alcuni casi è stata condotta, la valorizzazione della figura di Neurath appare ampia­ mente giustificata e condivisibile. Purtroppo, però, essa è stata non di rado effettuata all'interno di una visione per il resto del tutto tradizionale e inadeguata dell'opera globale svolta dagli empiristi log ici E a questo si è anche accompagnata la tendenza a sottova­ lutare ciò che di importante e positivo hanno rappresentato, pur con tutti i limiti oggi ripetutamente denunciati, sia i contributi episte­ mologici di un Carnap e di un Reichenbach, sia il lavoro più spe­ cificatamente filosofico compiuto da uno Schlick per giustificare c integrare in una visione unitaria alcuni capisaldi teorici (tauto­ logicit:ì della logica, principio di verificazione, critica alla meta­ fisica ccc.) di quella concezione s c ie ntific a del mondo di cui anche q.di fII \1 1 1 convilllo asse rtore, pur no n condivide ndo in tutto e pe r .

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PARRINI

tutto la versione offertane da Carnap, Hahn e Neurath nel famoso opuscolo-manifesto del 1 929, intitolato appunto La concezione scientifica del mondo: il Circolo di Vienna. Proprio di questo spessore teorico-filosofico della concezione neo­ positivista, di questa sua capacità di servirsi anche di strumenti e di problematiche per molti aspetti tradizionali per attaccare la filosofia tradizionale contrapponendosi a orientamenti filosofici quali il bergsonismo, il neokantismo e la fenomenologia husserliana che al­ lora occupavano una posizione di tutto rispetto nel panorama filo­ sofico europeo, costituiscono una testimonianza quanto mai valida ed efficace le tre lezioni tenute da Schlick a Londra nel 1 93 2 qui presentate.! Sono lezioni che forse ancor oggi possono rivestire un interesse non puramente storico se è vero, come è vero, che non molto tempo fa, nei primi anni settanta, uno studioso le ha definite " una discussione che rappresenta tutt'ora ( . . ) la cosa migliore sul­ l'argomento nella letteratura della filosofia analitica ". 2 Certo è, co­ munque, che in forma pianamente discorsiva e argomentata, ben lontana dagli oracolari pronunciamenti del Tractatus wittgenstei­ niano, esse hanno il merito di farci comprendere, forse meglio di qualsiasi altro testo neopositivista, il significato profondo della " svolta linguistica " della filosofia. Queste lezioni hanno inoltre il pregio non indifferente di costi­ tuire l'unica opera sistematica di una certa generalità scritta da Schlick in campo strettamente teoretico nella fase viennese del suo pensiero. Se prescindiamo dalle lezioni deI semestre invernale 1 93 3 1 3 4 solo di recente pubblicate (Die Probleme der Philosophie i n ihrem Zusammenhang, Francoforte 1 986), che del resto non hanno la stessa pregnanza e incisività argomentative di Forma e contenuto, in questi anni non vi è nulla di analogo alla grossa e fondamentale opera sulla teoria generale della conoscenza apparsa in prima edizione a Berlino neI 1 9 1 8 e ivi ristampata in seconda edizione rivista nel 1 92 5 . Appunto per questo, e per la forte affinità degli argomenti, il naturale termine di confronto delle lezioni londinesi sembrano essere proprio alcune tesi sostenute nell'Allgemeine Erkenntnislehre sul tema del rapporto tra scienza e filosofia e su quello della natura c validità della conoscenza scientifica. Da questo confronto e dal­ l'individuazione del ruolo svolto da alcune idee di Schlick ne l processo di formazione e di sviluppo dell'empirismo logico do­ vrebbe ancora una volta emergere la grande complessità del movi.

INTRODUZIONE

II

mento e la varietà di orientamenti di pensiero che in esso con­ fluirono. lo Tanto in Forma e contenuto quanto nell' A ligem eine Erkennt­ nislehre - una delle maggiori espressioni della cultura filosofica te­ desca dei primi decenni del nostro secolo, paragonabile a Substanz­ begriff und Funktionsbegriff di Cassirer e alle Ideen di Husserl Schlick cita con piena approvazione la tesi di Jevons che " la scienza nasce dalla scoperta dell'identità nella diversità ". A suo parere, in­ fatti, il conoscere (erkennen, to know), di cui il sapere scientifico rappresenta l'espressione più compiuta, consiste nel riconoscere (wiedererkennen, to recognize) qualcosa come qualcos'altro. Ca­ ratteristica essenziale dell'atto conoscitivo - si dice nell'opera del 1 9 1 8, nel quadro di una concezione designativa della conoscenza che non passerà del tutto immutata in Forma e contenuto - è che " qualcosa viene riconosciuto, che qualcosa di vecchio viene risco­ perto in qualcosa di nuovo " e può quindi essere " designato (be­ zeichnet) con un nome familiare " : " conoscere è riconoscere o riscoprire. E riscoprire è uguagliare ciò che è conosciuto a ciò come il quale esso è conosciuto ", dandogli il nome corretto (AE, pp. 7, 1 4)· Così, per esempio, quando accertiamo che Aristotele " ha scritto l'opera sulla costituzione degli Ateniesi - e si tratta quindi di una conoscenza di tipo storico - ( .. . ) l'autore di tale scritto viene identificato con il filosofo che ci è ben noto altrimenti. Questo viene quindi conosciuto (erkennt) in quello " (AE, p. IO) . A questa concezione della natura della conoscenza si collega uno degli aspetti più importanti dell'A llgemeine Erkenntnislehre: la po­ lemica contro il tentativo di fare dell'intuizione una forma, e una forma privilegiata, di conoscenza rispetto al sapere concettuale­ di sc orsivo tipico dell'indagine scientifica. Gli obiettivi polemici esplicitamente dichiarati sono soprattutto l' '' antintellettualismo '' di Bergson, secondo il quale " filosofare consiste nel porsi all'interno dell'oggetto mediante l'esercizio dell'intuizione ", e la fenomenologia husse rliana, con la sua pretesa di costruire una " filosofia come sci enza r i g o r o s a " sulla base di un"' intuizione filosofica " (la Wesens­ Jt"lJ(f7l) c a p a ce di portarci in un regno di verità auto evidenti apo ­ dilli C:Ullcnte ce rte , dando luogo a " una scienza che, senza metodi �ill1holi zzanti e matclllati zzant i, senza un apparato di inferenze e di dil1l1lSI ra/.i oni " ri cscc nondimeno a c o n seguire " un a gran de quantità

di conosn'11Ic rigorosissimc c dcci si ve per ogni

u l teri ore fi l osofia ".3

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PARRINI

A parere di Schlick, entrambe queste concezioni sono profonda­ mente errate perché l'intuizione (Anschauung) e la conoscenza con­ cettuale " non tendono affatto allo stesso fine, ma si muovono in direzioni opposte " : nel caso del conoscere, " vi sono sempre due termini: qualcosa che è conosciuto e ciò come il quale esso è cono­ sciuto "; nel caso dell'intuizione, invece, " non poniamo due oggetti in relazione l'uno con l'altro, siamo di fronte a un solo oggetto, quello intuito. Si tratta di un processo essenzialmente differente; l'intuizione non presenta similarità alcuna con la conoscenza " (AE, p. 76). Il " grande errore " commesso dalle filosofie dell'intuizione è la " confusione " fra kennen (ossia l'aver noto, l'avere esperienza) ed erkennen (ossia conoscere, anche nel senso di ri-conoscere) :4 " Le cose ci divengono note attraverso l'intuizione, perché ogni cosa che ci è data dal mondo ci è data nell'intuizione; ma veniamo a c onoscere le cose solo attraverso il pensiero, perché l'ordinamento e il coordinamento necessari per la conoscenza sono precisamente ciò che designamo come pensiero. La scienza non ci rende noti gli oggetti; essa ci insegna soltanto a comprendere (verstehen), a capire (begreifen) ciò che ci è già noto, e questo significa appunto cono­ scere. " Una " conoscenza intuitiva è una contradictio in adjecto " . " Chiunque si accosti alle cose e partecipi dei loro modi di attuazione e di funzionamento è impegnato a vivere, non a conoscere ; a lui le cose manifestano il loro valore, non la loro natura " (AE, pp. 74, 77)' Non solo, dunque, l'intuizione non è una forma privilegiata di conoscenza priva dei difetti e delle limitazioni imputate alla cono­ scenza intellettuale dai filosofi dell'intuizione; essa non può neppure essere considerata una forma di conoscenza: esperiamo le cose, le " viviamo " attraverso la sensazione e l'intuizione, ma possiamo co­ noscerle solo attraverso la concettualizzazione e il pensiero, ossia attraverso un processo di comparazione, classificazione, astrazione e ordinamento. Per questo la maggiore espressione dello sforzo cono­ scitivo si ha proprio con il sapere scientifico, il quale non pu ò procurarci la " fusione conoscitiva ", 1''' immedesimazione " con le cose e neppure lo pretende, ma si preoccupa di farci comprendere ciò di cui abbiamo già esperienza mediante la costruzione di un complesso insieme di concetti e di giudizi, variamente correlati, che in via puramente ipotetica cercano di ricondurre il maggior numero possibile di fenomeni al minor numero possibile di concetti e di princìpi fondamentali: " Conoscere ( ... ) significa designare i fatti

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mediante giudizi, ma in modo tale da ottenere una coordinazione univoca (eindeutige Zuordnung) servendosi del minor numero pos­ sibile di concetti " (AE, p. 1 5 7). La scienza viene così a configurarsi come una struttura interconnessa di concetti e di giudizi; e proprio in questa interconnessione viene fatta consistere " l'essenza della conoscenza " (AE, p. 44). Sulla base di alcuni passaggi dell'A llge m eine Erkenntnislehre è possibile paragonare tale struttura concettuale della scienza alla co­ struzione di una rete (Netz) di concetti e di giudizi nella quale i primi sono rappresentati dai nodi e i secondi dai fili di connessione. " Ogni concetto - scrive per esempio Schlick (AE, P . 42) costi­ tuisce, per così dire, un punto in cui una serie di giudizi si incon­ trano, vale a dire tutti quelli in cui il concetto ricorre; esso è come un giunto che li tiene tutti insieme. I nostri sistemi scientifici for­ mano una rete in cui i concetti rappresentano i nodi e i giudizi i fili che li connettono. Nel pensiero effettivo, il senso dei concetti con­ siste interamente nel loro essere centri di relazioni di giudizi. Solo come punti di congiunzione dei giudizi e nei giudizi essi conducono una vita entro il pensiero vivente. " I giudizi che connettono fra loro i concetti vengono distinti da Schlick in due tipi fondamentali: quelli che valgono come definizioni dei concetti stessi e quelli che hanno carattere empirico e genuina­ mente conoscitivo. A loro volta i primi, le definizioni, vengono distinti in quattro categorie fondamentali : le definizioni ordinarie, le definizioni implicite, le definizioni concrete e infine certe parti­ colari convenzioni che in seguito, nella letteratura epistemologica, verranno perlopiù chiamate definizioni coordinative (Zuordnung­ definitionen). Le definizioni ordinarie rappresentano il modo più IIsuale di caratterizzare un concetto, consistente nello specifi­ care le note caratteristiche (Merkmale) che ne danno l'intensione mediante l'uso di altri concetti; ciò avviene, per esempio, quando si definisce il concetto di gatto indicando i requisiti che un oggetto deve soddisfare per essere sussunto sotto tale concetto. Ma defi­ nendo alcuni concetti mediante altri, a un certo punto si arriva a Ilote caratteristiche " che semplicemente non sono suscettibili di essere u lteriormente definite " nel modo usuale. E allora il processo ddinitorio si arresta pervenendo, da un lato, alle definizioni impli­ cill', d a l l 'altro a l l e definizioni concrete (od ostensive). Queste ultime rig-lIanla n o le note caratteristiche designate da parole il cui signifi­ clio " PII'" esse re m ostrato solo attraverso l'intuizione o l'imme-

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diata esperienza vissuta " : non possiamo apprendere che cosa siano il " blu " o il " piacere " attraverso una definizione ordinaria, " ma solo mediante l'opportunità di intuire qualcosa di blu o di fare l'esperienza vissuta del piacere " (AE, p. 2 7 )' Tuttavia, siccome l'intuizione e l'esperienza sono per loro natura vaghe e incerte, le definizioni concrete che su di esse si basano non possono fornirci quei concetti certi e precisi che soli consentono la formulazione dei giudizi altrettanto certi e precisi richiesti dalla conoscenza scientifica e di cui si hanno esempi chiarissimi nelle matematiche. Rifacendosi alla famosa opera di Hilbert sui fon­ damenti della geometria, tanto in Forma e contenuto quanto nel­ l'Allgemeine Erkenntnislehre Schlick sostiene che concetti primitivi perfettamente chiari e definiti possono essere ottenuti solo ricor­ rendo al metodo delle definizioni implicite. Il problema è quello di " introdurre i concetti fondamentali, che sono indefinibili nel senso usuale, in modo tale che la validità degli assiomi che trattano di questi sia rigorosamente garantita ". La soluzione adottata da Hilbert nel caso della geometria consiste semplicemente nello stabilire che " i concetti fondamentali risultino definiti proprio dal fatto di soddi­ sfare gli assiomi ". In questo modo, un sistema " di verità creato mediante l'ausilio di definizioni implicite non poggia in alcun punto sul fondamento della realtà. Al contrario, esso per così dire fluttua liberamente (schwebt trei), portando entro sé stesso, come il sistema solare, la garanzia della propria stabilità. Nessuno dei concetti de­ signa nella teoria qualcosa di reale; piuttosto, essi si designano l'un l'altro in modo che il significato di un concetto consiste in una particolare costellazione di un certo numero dei rimanenti concetti " (AE, pp. 3 I, 3 5)· 2. Oltre ai tipi di definizione appena discussi, nell' Allgemeine Erkenntnislehre Schlick prende in considerazione anche certe pecu­ liari convenzioni introdotte nella filosofia delle scienze naturali da Poincaré. La loro natura e funzione viene illustrata con l'ausilio di alcuni esempi tratti dalla filosofia dello spazio e del tempo. Qui basti dire che il loro scopo è quello di consentire l'applicazione alla realtà di un sistema di concetti definiti mediante definizioni implicite e usuali. In questo senso, esse svolgono una funzione ana­ loga alle stipulazioni che costituiscono le definizioni concrete, diffe­ rendone però perché non consistono semplicemente nel convenire l'uso di una certa parola, per esempio " blu ", per indicare un qual-

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cosa che è dato nell'esperienza. Esse intervengono quando, avendo un concetto scientifico astratto implicitamente definito di grande importanza sistematica (per esempio quello di linea retta), lo si vuole coordinare, far corrispondere, a un oggetto o a un processo concreto (per esempio, il percorso di un raggio luminoso in certe circostanze fisiche) nella consapevolezza del fatto che sono possibili coordinazioni alternative e che la scelta va effettuata in modo da consentire la formulazione più semplice possibile delle leggi di natura. Sebbene gli argomenti delle presenti lezioni non permettano a Schlick di tornare in maniera articolata su questa questione che, come si vedrà, ha avuto un'importanza decisiva per il successivo sviluppo dell'epistemologia neopositivista, ciò non significa che nel periodo viennese egli abbia messo da parte l'idea delle convenzioni coordinative. In vari scritti degli anni trenta ribadirà invece a più riprese il ruolo svolto dalle convenzioni " nel senso di Poincaré " entro la conoscenza scientifica. E quando nel saggio Sind die Natur­ gesetze Konventionen? (1935) (trad. it. in RN, pp. 157-67), criticherà la tesi del carattere convenzionale delle leggi di natura, la sua posi­ zione non sarà sostanzialmente diversa da quella assunta a suo tempo dallo stesso Poincaré in difesa del valore oggettivo della scienza di contro al " convenzionalismo estremo " o " nominalismo " di Le Roy. Gli obiettivi polemici di Schlick saranno alcune affermazioni, espli­ citamente citate, di Eddington e di Driesch, nonché certe for­ mulazioni carnapiane della Logische Syntax der Sprache giudicate fuorvianti e pericolose. La difesa del proprio punto di vista verrà effettuata non negando la presenza di componenti convenzionali nel discorso scientifico, ma sostenendo, come sempre, il loro valore linguistico-definitorio, senza smentire, quindi, l'affermazione conte­ nuta in Die Kausalitiit in der gegenwiirtigen Physik (1931) (trad. it. in RN, pp. 37-78) che " da Poincaré abbiamo imparato a far attenzione al fatto che nella descrizione della natura si insinuano surrcttiziamente certe proposizioni generali, non passibili né di conferma, né di confutazione ", le quali costituiscono delle " con­ venzioni", ossia " una specie di definizioni " equiparabili a " tauto­ l ogi c " (p. 60). Questo tipo di convenzioni sono importanti poiché consentono a Schlick di rispondere all'eterno problema filosofico (un'altra " barba di Platonc") del rapporto fra " concetti e intuizione, fra pensiero e realt:ì", prohlcma che gli si fa particolarmente acuto nel momento

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in cui, ricorrendo alle definizioni implicite " per determinare i con­ cetti completamente e raggiungere così la rigorosa precisione nel pensiero ", egli opera una completa separazione logica fra il piano della concettualizzazione e quello sempre impreciso e incerto del­ l'intuizione empirica. Mediante le definizioni concrete e quelle coordinative è possibile ricucire quello strappo, in quanto le prime offrono una caratterizzazione empirica di certi concetti e le seconde fanno corrispondere entità e processi empirici concreti a concetti definiti in modo puramente astratto attraverso le definizioni impli­ cite e concettuali. l'n questo modo le teorie delle scienze fattuali vengono a configurarsi come strutture concettuali astratte aggan­ ciate all'esperienza mediante le definizioni concrete e le convenzioni coordinative. Tutto ciò viene espresso da Schlick ricorrendo ancora una volta all'immagine della rete: " Il sistema delle scienze reali costituisce una rete di giudizi le cui singole maglie sono coordinate a singoli fatti. Questa coordinazione è ottenuta per mezzo di defi­ nizioni e conoscenze ( . . . ) Il sistema di definizioni e di giudizi co­ gnitivi che rappresenta ogni scienza reale viene fatto combaciare direttamente in punti singoli con il sistema della realtà, e la cosa è effettuata in modo tale che automaticamente tutti gli altri punti vengono a combaciare " (AE, pp. 64> 72). Nell'Allgemeine Erkenntnislehre la caratterizzazione delle teorie scientifiche risulta connessa a una concezione generale di stampo al tempo stesso realistico ed empiristico. Criticando le " filosofie dell'immanenza ", Schlick prende posizione contro la " dissoluzione positivista di un corpo " in un complesso di sensazioni (colori, suoni, odori ecc.). A suo parere va considerato reale " tutto ciò che deve essere pensato come sussistente in un tempo definito ", quindi non soltanto gli elementi sensibili qualitativi ammessi da Mach, ma anche gli oggetti introdotti dalle scienze della natura (campi, forze, atomi ecc.), oggetti che, in quanto non immediatamente dati, pos­ sono venir chiamati cose in sé. L'ammissione di tali entità e processi deve essere limitata solo dal rispetto del principio metodologico " ispirato alla filosofia empiristica ", secondo il quale " differenze nel reale " possono " venir assunte solo là ove " compaiono " differenze entro ciò che è di principio esperibile " ; si tratta di un principio ben illustrato dalla critica di Mach ai concetti di tempo, spazio e moto assoluti e di cui Schlick si avvarrà per rivendicare contro Cassirer il significato empiristico anziché critico-trascendentale della t eoria einsteiniana della relatività (vedi oltre, p. 1 6 2).

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Ma, una volta introdotta questa impostazione realistica, in che cosa si potrà far consistere la verità e la falsità delle strutture teo­ riche costruite dalla scienza empirica? Secondo Schlick, un sistema scientifico può dirsi giusto o vero quando il complesso dei giudizi designa in maniera univoca l'insieme dei fatti; esso sarà invece falso se conduce a una designazione o coordinazione ambigua. Ciò si accorda alla perfezione con il procedimento di verifica delle ipotesi comunemente seguìto nella scienza. Prendiamo per esempio " il giu­ dizio falso 'Un raggio di luce consiste di un flusso di pani celle che si muovono rapidamente' (questa asserzione, come sappiamo, cor­ risponde alla teoria newtoniana dell'emissione della luce). Esami­ nando tutti i fatti insegnatici dalla ricerca fisica, ci accorgeremmo presto che tale giudizio non rende possibile una designazione uni­ voca dei fatti stessi. Vale a dire, troveremmo che due differenti classi di fatti sarebbero coordinate agli stessi giudizi e si avrebbe perciò la presenza di un'ambiguità. Da una parte avremmo i fatti che effettivamente comportano dei corpuscoli in movimento come si ha nel caso di raggi catodici; dall'altra, i fatti della propagazione della luce, designati dagli stessi simboli. Inoltre, segni differenti sa­ rebbero al tempo stesso coordinati a due identiche serie di fatti, vale a dire, quelli della propagazione della luce, da un lato, e quelli della propagazione ondulatoria, dall'altro " (AE, p. 57). In questo esempio (che Schlick ha tratto dall'ottica, la disciplina di cui a suo tempo si era occupato per conseguire il dottorato sotto la guida di Planck) " l'univocità andrebbe perduta e la prova di ciò è la prova della falsità di quel giudizio ". Nella scienza empirica, infatti, un controllo si svolge nel modo seguente : " dai nostri giudizi deriviamo nuovi giudizi che designano eventi futuri (e sono perciò predizioni); e se invece dei fatti attesi se ne verificano nella realtà di diversi, tali quindi da dover essere designati da giudizi diversi da q u e lli dedotti, allora si hanno contraddizione e ambiguità e chia­ miamo falsi i giudizi da cui siamo partiti. Se dovessimo permettere alla nostra predizione, la quale è un segno per il fatto atteso antici­ pato nell'immaginazione, di essere un segno anche per il fatto effet­ tivamente presentatosi, allora il medesimo giudizio significherebbe d u e eventi differenti, e se dovessimo sentirlo pronunciare in seguito, lIon sa premmo q u a l e sarebbe l'evento inteso " (AE, pp. 57 sg.). In t ermini diversi, usati sempre da Schlick nella piccola monografia N/lm/l und Ze;t in der gcgenwiirtigen Psysik (Berlino 1917): solo se esiste u n a corrispond e nza univoca " fra i con c e t ti c la realtà, si può,

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con l'ausilio dell'insieme dei giudizi della teoria, derivare il corso dei fenomeni della natura, e quindi, per esempio, predire eventi futuri; e il verificarsi di tali predizioni, la concordanza tra calcolo e osservazione, è notoriamente l'unica pietra di paragone per la verità di una teoria ".s 3. Nonostante le molte critiche rivolte dall'epistemologia post­ neopositivista (soprattutto da Hanson) all'idea delle teorie scienti­ fiche come sistemi formali non interpretati che ricevono un signi­ ficato empirico dalle definizioni ostensive e da quelle coordinative, non si può negare che la concezione di Schlick costituisca uno sforzo teorico notevole, e storicamente assai importante, per dare conto del processo di sempre maggiore astrazione, matematizzazione e formalizzazione della scienza fisica dai tempi di Galileo e Newton all'istituzione delle prime cattedre di fisica teorica e alla nascita della teoria relativistica. Basta pensare a come Hertz aveva presentato nel 1 894 la sua ricostruzione assiomatica della meccanica per rendersi conto di quanto la teoria della scienza e della verità elaborata nel­ l'A llgemeine Erkenntnislehre rispecchiasse aspetti del sapere scien­ tifico già largamente avvertiti prima della costruzione di una teoria ancor più generale e astratta come la fisica relativistica.6 Non per niente essa verrà prontamente accolta da Einstein nella celebre con­ ferenza del 1 92 I Geometrie und Erfahrung. E non per niente l'idea di coordinazione eserciterà una profonda influenza sull'epistemologia neopositivista, aumentando di importanza man mano che, con il processo di liberalizzazione, l'empirismo logico verrà progressiva­ mente ad affrancarsi dalle pastoie dell'impostazione riduzionistica del rapporto teoria/esperienza stabilita nell' Aufbau carnapiano. Impostazione riduzionistica - sia detto per inciso - da imputare in primo luogo all'influsso di certe idee di Russell e del Tractatus wittgensteiniano, ma alla quale non è estranea, forse, neppure la tendenza della stessa A llgemeine Erkenntnislehre a descrivere la costruzione di un sistema scientifico come un processo che, mo­ vendo da alcuni " giudizi fondamentali " basati " direttamente su fatti reali ", costruisce il resto dell'edificio " passo dopo passo " con l'ag­ giunta di " blocchi individuali ottenuti mediante un procedimento puramente logico, deduttivo " (AE, p. 7 2) . L'idea delle convenzioni coordinative verrà subito parzialmente utilizzata da Reichenbach nel saggio Relativitiitstheorie und Er­ kenntnis a priori (Berlino 1 9 20), dedicato a una critica della teoria

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kantiana dei giudizi sintetici a priori sulla base della nuova fisica relativistica. Tuttavia in questo testo, ancora fortemente intriso di kantismo e condizionato dall'insegnamento di Cassirer (uno dei mae­ stri di Reichenbach), le coordinazioni vengono interpretate non come convenzioni definitorie, ma come peculiari assiomi o presup­ posti i quali, al pari dei princìpi sintetici a priori di Kant, hanno la proprietà di essere costitutivi di oggetti, anche se, a differenza di quest'ultimi, non godono della proprietà di essere apodittica­ mente certi e quindi validi in modo universale e necessario. " La realtà delle cose - scrive Reichenbach - deve essere tenuta distinta dalla realtà dei concetti i quali, nella misura in cui si vuole dirli reali, hanno solo un'esistenza psicologica. Ma rimane una singolare relazione fra la cosa reale e il concetto, perché solo attraverso la coordinazione del concetto viene definito ciò che nel ' continuo' della realtà è una singola cosa, e perché inoltre solo la connessione concettuale decide sulla base delle percezioni se una singola cosa pensata 'esiste nella realtà' ( . ) Proprio per questo i princìpi della coordinazione rivestono per il processo conoscitivo un significato assai più profondo che per ogni altra coordinazione. Infatti, poiché sono questi princìpi a determinare la coordinazione, solo attraverso essi vengono definiti i singoli elementi della realtà, e in questo senso sono costitutivi dell'oggetto reale; nelle parole di Kant: ' poiché solo per mezzo di essi in generale un oggetto dell'esperienza può essere pensato'. " 7 Nell'importante saggio del 1921 riportato più avanti (vedi pp. 151-68), Interpretazione criticistica o empiristica della nuova fisica?, Schlick criticherà non soltanto il " neokantismo liberalizzato " difeso da Cassirer in Zur Einstein'schen Relativitiitstheorie (1920), ma anche la meno impegnativa concezione dell'a priori e dei princìpi costitutivi elaborata da Reichenbach nello scritto appena citato. E ciò facendo ribadirà il carattere di ipotesi o di convenzioni di quei princ ìpi assai generali che, sia pure in un diverso atteggiamento di fondo nei confronti del kantismo, tanto Cassirer quanto Reichen­ hach volevano considerare presupposti di natura costitutiva. Negli anni successivi la posizione di Schlick sarebbe stata fatta propria allche da Reichenbach, il quale avrebbe finito per parlare di tali assulli'.ioni come di definizioni coordinative. Ciò risulta soprattutto chi aro dalla sua Philosophie der Raum-Zeit-Lehre (Lipsia 1928), in parti colare dalla co nce zione della geometria, della quale viene sì alrl'rlllato il carattere e mp i ri co, in oppo sizione al convenzionalismo .

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geometrico di Poincaré, ma solo relativamente a una definizione coordinativa di congruenza previamente fissata. II che consente a Reichenbach, come già a Schlick, di sostenere un punto di vista empiristico senza trascurare " il problema della concettualizzazione ", ossia senza oscurare il ruolo della soggettività nella conoscenza scien­ tifica: " La descrizione della natura non viene spogliata della sua arbitrarietà da un assolutismo ingenuo, ma dal riconoscimento e dalla formulazione dei punti di arbitrarietà. L'unica via per giungere a una conoscenza oggettiva passa attraverso la consapevolezza co­ sciente del ruolo che la soggettività ha nei nostri metodi di ri­ cerca. "8 Anzi, uno dei compiti più importanti assegnati tanto da Reichenbach quanto da Schlick all'analisi epistemologica sarà pro­ prio la chiarificazione della natura e del ruolo " delle varie conven­ zioni che si trovano nella scienza della natura " (AE, p. 66). Come lo stesso Carnap ha ripetutamente ricordato, il ricorso alle regole di coordinazione avrà una funzione essenziale nella sua con­ cezione delle teorie scientifiche degli anni successivi a Der 10gische Aufbau der Welt (Berlino 1928), quando egli elaborerà un metodo per l'introduzione dei concetti teorici non più imperniato su definizioni contestuali-estensionali di tipo esplicito (un procedi­ mento peraltro non sempre seguìto nella stessa opera del 1928), ma basato invece su " postulati teorici e regole di coordinazione " : " Le regole di coordinazione collegano i termini teorici a quelli che si riferiscono aIl'osservabile. In questo modo, i termini teorici rice­ vono un'interpretazione, che però è sempre incompleta. In ciò consiste la differenza essenziale tra termini teorici e termini espli­ citamente definiti. " 9 Infine negli anni cinquanta, quasi al termine del processo di libe­ ralizzazione dell'empirismo, molti risultati dell'analisi carnapiana, unitarnente ad alcune idee di Campbell, confluiranno nella conce­ zione hempeliana della formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica. In questa concezione torna a comparire la meta­ fora della rete affrancata ormai da ogni ipoteca riduzionistica, in quanto non si richiede che tutti i termini e le proposizioni costi­ tuenti la teoria debbano avere un'interpretazione empirica diretta: " Una teoria scientifica - scrive Hempel in Fundamentals of Con'­ cepts Formation in Empirical Science (Chicago 1952) è parago­ nabilc a una complessa rete sospesa nello spazio. I suoi termini sono rappresentati da nodi, mentre i fili colleganti questi corrispondono, -

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in parte, alle definizioni e, in parte, alle ipotesi fondamentali e deri­ vative della teoria. L'intero sistema fluttua (floats), per così dire, sul piano dell'osservazione, cui è ancorato mediante le regole inter­ pretative. Queste possono venir concepite come fili non apparte­ nenti alla rete, ma tali che ne connettono alcuni punti con deter­ minate zone del piano di osservazione. Grazie a siffatte connessioni interpretative, la rete risulta utilizzabile come teoria scientifica: da certi dati empirici è possibile risalire, mediante un filo interpre­ tativo, a qualche punto della rete teorica, e di qui procedere, attra­ verso definizioni e ipotesi, ad altri punti, dai quali, per mezzo di un altro filo interpretativo, si può infine ridiscendere al piano del­ l'osservazione. " lO 4. Questa metafora - che con scopi diversi, ben espressi dalle

parole di Novalis " .. . Ie teorie sono reti, solo chi le getta pesca", ricorre anche nel falsificazionismo popperiano e nella giustificazione reichenbachiana dell'induzione - può tuttavia risultare utile non soltanto, come si è visto, per una sommaria indicazione del filo che collega lo sviluppo della filosofia della scienza neopositivista a idee di Schlick antecedenti al suo incontro con le posizioni di Russell e di Wittgenstein. Essa può anche servire per un chiarimento della posizione schlickiana sull'altro aspetto di teoria generale della cono­ scenza indicato all'inizio, quello concernente il tipo di validità da riconoscere alla rete e ai fili che la compongono. E se quando parla della natura della conoscenza Schlick si preoccupa di rifiutare certe filosofie dell'intuizione, discutendo questa seconda questione mira soprattutto a prendere le distanze tanto dalla concezione kantiana e neokantiana quanto dagli aspetti sensistici del pensiero di Mach, già criticati per quel che riguarda la realtà delle entità teoriche. Come ho altrove più volte cercato di mostrare, per questo partico­ lare aspetto del pensiero di Schlick è fondamentale rifarsi ai suoi studi sul significato filosofico della fisica relativistica (Die philoso­ phische Bedeutung des Relativitiitsprinzips, 1 915 e Raum und Zeit in der gegenwiirtigen Physik), e in particolar modo alla valutazione critica del tentativo compiuto da Cassirer di riconciliare la teoria einsteiniana della relatività con la gnoseologia trascendentale. Nel s agg i o Interpretazione criticistica o empiristica della nuova fisica? Schlick torna a esporre i capisaldi della sua interpretazione IItlla fisica rclat i vi stica a cominciare dalla distinzione fra spazio e

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tempo fisici oggettivi e spazio e tempo psicologici soggettivi. Inoltre, prendendo in considerazione la critica di Cassirer al sensismo ma­ chiano, egli sostiene che questi ha sì mostrato l'insostenibilità del tentativo talvolta compiuto da Mach di ricavare perfino le leggi analitico-matematiche dall'esperienza immediata, ma che ciò costi­ tuisce una confutazione della posizione sensistica, non una dimostra­ zione dell' '' idealismo logico " di derivazione kantiana. Per conse­ guire realmente questo ulteriore scopo sarebbe necessario mostrare non soltanto che nella conoscenza scientifica sono presenti princìpi di natura costitutiva non derivabili dall'esperienza, ma anche che tali princìpi, al pari dei giudizi sintetici a priori di Kant, sono apo­ ditticamente certi, e quindi universalmente e necessariamente validi degli oggetti di esperienza. In mancanza di ciò tra le due posizioni estreme del sensismo e dell'idealismo logico viene a porsi come vin­ cente la concezione empiristica, secondo la quale non esistono presupposti sintetici a priori nel senso di Kant, e i prinGìpi costi­ tutivi di cui Cassirer parla sono da considerare o ipotesi o conven­ zioni: nel primo caso non sono a priori, perché manca loro l'apo­ ditticità; nel secondo non sono sintetici, perché privi di genuino valore cognitivo. A quanto sostenuto da Schlick si potrebbe essere tentati di obiet­ tare che la scienza non si compone di sole ipotesi o convenzioni, ma fa uso anche di princìpi non giustificabili né sul piano logico né su quello empirico; per esempio i princìpi di causalità e d'induzione, oppure, come gli fece notare Cassirer in una comunicazione perso­ nale, il presupposto dell' " 'unità della natura', ossia della conformità a leggi dell'esperienza o forse, più in breve, dell'univocità della coordinazione " (vedi oltre, p. 156). La risposta di Schlick (come già quella di Reichenbach nel saggio del 1920 sopra citato) è stata la disarmante precisazione che la caratteristica dell'empirista è non già di non credere a simili presupposti, ma di sostenere semplicemente che la loro validità e necessità oggettive " non possono essere dimo­ strate attraverso una deduzione trascendentale o in qualche altro modo. Su questo punto il criticista non può fare appello ad alcuna teoria fisica, perché ogni teoria con la sua verifica empirica dimo­ stra solo la validità di fatto e non quella necessaria del principio dell'unità della natura " (vedi oltre, p. 157). Del resto già nell'All­ gemeine Erkenntnislebre Schlick aveva sostenuto l'impossibilità di " a nd are o l t re il punto di vista di Hume, rassegnandosi a conside­ rare pri ncìpi cOllie que l l i di causalità e induzione non giudizi di "

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natura teorico-cognitiva suscettibili di verità o falsità, bensì postu­ lati, requisiti o esigenze di carattere pragmatico da valutare sulla base della loro efficacia pratico-vitale : " L'elemento corretto nell'idea kantiana che la validità delle proposizioni generali può essere di­ mostrata a partire dalla possibilità dell'esperienza viene preservata se prendendo il concetto di esperienza nel senso sufficientemente generale di attività pratica, intendiamo per dimostrazione non una deduzione logica ma una giustificazione vitale " (AE, pp. 3 66 sg.). l 1 Da qui la già ricordata classificazione dei giudizi dalla quale risultava appunto l'esclusione dei princìpi sintetici a priori. Infatti, i soli giu­ dizi contemplati sono quelli esprimenti delle connessioni definitorio­ concettuali (corrispondenti grosso modo ai giudizi analitici di Kant) e i " giudizi conoscitivi " veri e propri, corrispondenti ai giudizi sin­ tetici a posteriori della Critica della ragion pura. Questi ultimi vengono poi ulteriormente suddivisi in " giudizi storici ", i quali "designano fatti osservati sulla base di atti di riconoscimento ", e in " ipotesi ", che invece pretendono di " valere anche per fatti non osservati " (AE, p. 67). Ma riguardo a quest'ultima distinzione Schlick si preoccupa subito di precisare che in linea di principio essa " non può essere mantenuta in maniera rigorosa e assoluta. Infatti la classe dei giudizi storici si riduce a nulla se consideriamo che, rigorosa­ mente parlando, essa può abbracciare solo quei fatti di cui si ha immediatamente esperienza vissuta al momento presente. Pronun­ ciati un momento dopo, tali giudizi contengono già un elemento i potetico ( .. ) [ Concludiamo] così che tutti i giudizi della scienza sono definizioni o ipotesi " (AE, p. 68). Sarebbe tuttavia errato intendere questa precisazione come se con essa Schlick anticipasse la celebre tesi di Neurath (discussa nella polemica sui protocolli che divise il Circolo di Vienna) se­ condo la quale nella scienza non vi sarebbero punti fermi costituenti un fondamento assoluto del conoscere. Se prescindiamo dal modo in cui sono formulati, i " giudizi storici " sono piuttosto analoghi agli enunciati protocollari di Neurath; e per questo tipo di asserti anche Schlick sosterrà che sono ipotetici e rivedibili. Essi apparten­ gono alla scienza, e nella scienza non si danno, per Schlick, asserti assolutamente indubitabili. La sua opposizione alla concezione neu­ rathiana si tradurrà piuttosto nella negazione della intrascendibilità dcI linguaggio e in quello che Neurath chiamerà ironicamente il " l i risl1lo " delle costatazioni (Konstatierungen). Per Schlick, cioè, non soltanto è possibile con frontare le nostre asserzioni con una realtà .

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extralinguistica (vedi, per esempio, pp. 124 sg.), ma anche si danno " punti di contatto assolutamente fermi " fra la conoscenza e la realtà capaci di farci scartare i sistemi di ipotesi che, pur essendo interna­ mente coerenti, non possono essere considerati in accordo con il mondo dei fatti. Questi punti di contatto sono appunto le costata­ zioni, dei peculiari enunciati sintetici (se così si può dire) che, a differenza di tutti gli altri, sono assolutamente certi perché nel loro caso, come in quello delle asserzioni analitiche, " la determinazione del senso e l'accertamento della verità " sono processi perfettamente coincidenti. Le costatazioni vanno concepite come delle descrizioni istantanee di ciò che viene esperito, delle occasioni che producono gli enun­ ciati protocollari ma che a differenza di questi ultimi, cui pure danno origine, non si situano all'interno della scienza e non vanno quindi soggette all'interpretazione e alla revisione. Sono da considerare non il punto di partenza della conoscenza scientifica, ma il culmine asso­ luto del procedimento di controllo delle nostre ipotesi; in quanto tali, sono caratterizzate dal senso di soddisfacimento e di conten­ tezza che proviamo quando risultano conformi alle nostre previ­ sioni. f: dunque vero che nella concezione di Schlick del periodo viennese vi è posto per una sorta di proposizioni sintetiche (le costa­ tazioni) che non hanno valore di ipotesi. f: altrettanto vero, però, che queste costituiscono non la base della scienza, bensì qualcosa cui " la conoscenza perviene come una fiamma, attingendole per un attimo e subito consumandole. E nuovamente nutrita e alimentata guizza di nuovo verso l'esperienza futura ",12 Ad ogni modo, problema dei " giudizi storici " e delle costatazioni a parte, la classificazione dei giudizi presentata nell'Allgemeine Erkenntnislehre passerà sostanzialmente immutata nei saggi della fase viennese, a cominciare da Forma e contenuto. Anche in questi scritti si tornerà a parlare di negazione del sintetico a priori kan­ tiano, identificando l'analitico con l'a priori e il necessario, e il sintetico con l'a posteriori e il contingente. Gli aspetti nuovi saranno piuttosto la presentazione in termini linguistici di tale classificazione (si parlerà di enunciati, asserzioni, significati, anziché di concetti e giudizi) e l'uso degli strumenti offerti dalla concezione wittgen­ steiniana del carattere tautologico delle verità logiche, del loro es­ sere prive di contenuto fattuale in quanto compatibili con ogni possibile stato di cose. Opportunamente rielaborata, tale idea darà luogo alla tesi del fondamento linguistico delle verità logiche in

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e di quelle a priori in generale - una tesi che Schlick utilizzerà e svilupperà non soltanto per criticare le concezioni psi­ cologistiche ed empiristiche della logica e della matematica, ma anche per approfondire la critica (già iniziata nell' A l lgeme ine I�rkenntnislehre) della concezione husserliana della Wesensschau e del l'esistenza di un " a priori materiale " considerato, tanto nello scritto Esiste un a priori materiale? del 1930 (vedilo alle pp. 169-79) quanto in Forma e contenuto, qualcosa di molto analogo al sintetico a priori kantiano (ma a questo proposito ci sarebbero da aggiungere :lltre precisazioni a quelle fatte dallo stesso Schlick). Queste sono, però, tesi troppo note perché metta conto soffer­ llIarvisi. Ciò che converrà sottolineare è piuttosto un'altra cosa. Con osservazioni espresse sia nell' Allgeme ine Erkenntnislehre, sia in Forma e contenuto (p. 98), e che anticipano alcuni argomenti utilizzati da Quine fin da Truth by Convention (1935-36) per cri­ I icare il convenzionalismo logico e la dicotomia analitico/sintetico, Schlick si pronuncia con chiarezza per il carattere pragmatico­ relativo e non assoluto della distinzione fra giudizi cognitivi e de­ finizioni, fra assiomi e leggi di natura. " In un sistema scientifico del lutto in sé conchiuso, deduttivamente connesso, - si legge per esempio nell'opera del 1918 - [i veri e propri giudizi] possono essere distinti dalle [definizioni] solo da un punto di vista pratico e psico­ logico, non dal punto di vista puramente logico-gnoseologico ( ... ) Ouando una scienza si è sviluppata in una struttura ben rifinita pressoché con chiusa, ciò che nell'esposizione sistematica di essa vale come definizione e ciò che vale come conoscenza non è più determinabile dalla sequenza accidentale delle esperienze umane. Verranno piuttosto assunti come definizioni quei giudizi che ri­ solvono un concetto nelle note caratteristiche mediante le quali si possono costruire il maggior numero possibile di concetti della scienza data (magari tutti) nel modo più semplice possibile. È chia­ ramente questo il procedimento che meglio si confà agli scopi nltimi della conoscenza, perché cosÌ i concetti di tutti gli oggetti dci mondo possono più facilmente essere ridotti al più piccolo nu­ Illero possibile di concetti elementari " (AE, pp. 43, 46). Schlick sottolinea anche che la definizione del concetto di un "mcdesimo oggetto" può cambiare con il progredire della conoscenza l�lllpirica. Ma tutto ciò non significa che intenda contestare (come poi farà Quine) la distinzione fra giudizi che esprimono semplici COlllll'ssioni concettuali e giudizi che hanno un contenuto empiri co particolare

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fattuale. Al contrario tanto nell' Aligemeine Erkenntnislehre quanto nei saggi della fase viennese egli argomenta a favore di tale distin­ zione, ribadendo il carattere conoscitivamente vacuo e quindi ana ­ litico dell'inferenza deduttiva (AE, § 15) e negando esplicitamente che la distinzione analitico/sintetico possa essere una semplice que­ stione di grado (la tesi in seguito tenacemente difesa da White, Goodman e Quine). Anzi, nelle lezioni londinesi del 1932 viene cri­ ticato proprio uno degli argomenti poi utilizzati da Quine contro la " dottrina linguistica della verità logica " e in favore del suo " em­ pirismo senza dogmi ". Si tratta dell'argomento che il fallimento di una previsione empirica (un' " esperienza recalcitrante " nel gergo quineano) potrebbe essere di principio spiegato " in due modi: I ) dall'inadeguatezza delle ipotesi e 2) dall'inadeguatezza della lo­ gica ". Secondo Schlick la seconda spiegazione "è impossibile. Si basa sul fondamentale errore che il calcolo in quanto tale aggiunga qualcosa alle ipotesi, e che il risultato del calcolo sia il prodotto di due fattori: le assunzioni iniziali e la deduzione logica " (p. 122). Nessun fatto può però " dimostrare la validità o la non-validità dei princìpi logici, per la semplice ragione che essi non asseriscono alcun fatto e sono pertanto compatibili con qualunque osserva­ zione " (p. 121). 5. Oltre alle tesi riguardanti la validità della conoscenza (nega­ zione del sintetico a priori, carattere ipotetico o convenzionale delle varie componenti di un sistema teorico ecc.) passano dall A ligemeine Erkenntnislehre agli scritti della fase viennese, e in particolar modo a Forma e contenuto, anche la caratterizzazione del conoscere come ri-conoscere e la conseguente polemica con le filosofie dell'in­ tuizione, soprattutto con l'antintellettualismo bergsoniano. Adesso, però, esse vengono a inserirsi in un contesto per certi aspetti di­ verso, nel quale svolgono un ruolo essenziale non soltanto la tesi della tautologicità della logica e del fondamento linguistico dell'a priori, ma anche altre due idee, d'importanza fondamentale, legate all'insegnamento wittgensteiniano, o almeno a una certa interpre­ tazione di esso. Intendo riferirmi naturalmente alla concezione raf­ figurativa del linguaggio e al principio di verificazione qualificato da Schlick come " il fondamentale principio del filosofare " (pp. 76 e 138) e poi criticamente esaminato nel saggio del 1936 Meaning and Verification (trad. it. in RN, pp. 187-2 I8). '

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Uno dei più importanti mutamenti prodotti dal principio di veri­ ficazione si ha nella questione del realismo. Come risulta dal saggio Positivismus und Realismus ( 1 93 2) (trad. it. in RN, pp. 8 1 - 1 1 I ), le cui conclusioni compaiono anche in Forma e contenuto (pp. 1 43 sgg.), in questa fase del suo pensiero Schlick continua a criticare la meta­ fisica veteropositivista del dato di esperienza, l'idea che solo i con­ tenuti della percezione sensibile siano reali. Ma la critica viene ora a inquadrarsi in una più generale opposizione alla metafisica che lo porta a distinguere fra realismo empirico e realismo metafisico, in accordo con quanto sostenuto da Carnap nell'A u fbau e in Scheine Probleme der Philosophie ( 1 9 2 8). Schlick chiarisce come il prin­ cipio di verificazione fatto proprio dal Circolo di Vienna (" il senso ù i ogni proposizione si fonda senza residui nella sua verificazione in base a dati di fatto ") non significhi né implichi " che solo il dato di fatto sia reale " ; e ciò per il semplice motivo che, dal punto di vista l\clla filosofia viennese, un'asserzione del genere va considerata u n enunciato meta fisico condannato all'insensatezza, al pari degli altri dello stesso tipo, proprio dal principio in questione. Per Schlick, il nuovo empirismo, o empirismo critico, si limita a contestare, sem­ pre come prive di senso, tanto la metafisica realista quanto quella iùealista in quanto fondate, rispettivamente, sull'affermazione o ne­ gazione di una realtà trascendente. Tale empirismo, infatti, " non nega l'esistenza di un mondo esterno ", ma " rimanda semplicemente al significato empirico di quest'affermazione ", della quale entra a far parte anche la tesi kantiana (ma non solo kantiana) che l'esi­ stenza è non un " predicato reale " (come la stessa teoria logica della quantificazione ha poi codificato), bensì una categoria mediante cui si afferma (o si nega) che un qualcosa sia " inserito in un nesso per­ cettivo secondo una o più leggi di natura " : " Quando di un qual­ siasi evento od oggetto (da indicare mediante descrizione) affer­ miamo che è reale, ciò significa che sussiste un nesso specifico fra determinate percezioni e altre esperienze, ossia che, ricorrendo certe ci rcostanze, seguono particolari dati di fatto " (RN, pp. 97 -99).13 Oltre che nella questione del realismo, il principio di verifica­ zione svolge un ruolo essenziale nell'argomentazione con cui nella p rima parte di Forma e contenuto si cerca di provare l'inesprimi­ h i l ità dci contenuto. Ma queste pagine portano in primo piano, anzi­ l l l tto, la concezione raffigurativa del linguaggio. La centralità di tale concez i o n e nello Schlick degli anni del Circolo di Vienna risulta c h i a ra dal saggi o-m a n i festo Die Wende der Philosophie dcI 1 9 3 0

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(trad. it. in RN, pp. 27-34), apparso nel primo fascicolo di " Er­ kenntnis " subito dopo l'Introduzione generale di Reichenbach (uno dei due direttori, insieme a Carnap) al nuovo organo ufficiale del movimento neopositivista. Qui Schlick presenta una " svolta defini­ tiva " destinata a soppiantare il modo consueto di praticare l'inda­ gine filosofica e a far " considerare chiusa ", in quanto " essenzialmente vacua ", la tradizionale " polemica sui sistemi ". Gli strumenti per conseguire un simile risultato - equivalente alla " liberazione da ogni difficoltà filosofica ", alla soluzione, almeno in linea di principio, di " tutte le ricorrenti questioni della filosofia " - proverrebbero dalla logica matematica così come questa è stata dapprima intravista da Leibniz e in seguito sviluppata da Frege, da Russell e, soprattutto, da Wittgenstein. A parere di Schlick, infatti, tali sviluppi avrebbero condotto, oltreché a una serie di importanti acquisizioni tecniche, anche a qualcosa di ben più importante per tutta la ricerca filo­ sofica, ossia alla " comprensione della natura della logica stessa " (RN, p. 29). Con quest'ultima osservazione egli intende riferirsi non tanto alla tradizionale affermazione del carattere formale della logica, quanto piuttosto a tre tesi di natura più profonda e generale che un paio d'anni dopo verranno sistematicamente illustrate e sviluppate pro­ prio in Forma e contenuto. Queste tesi possono venir cosÌ sinte­ tizzate: r ) La conoscenza " è espressione, rappresentazione (Darstellung), ossia esprime un fatto conosciuto ". Come si chiarisce in Forma e contenuto (vedi oltre, p. 8 3), la caratteristica essenziale dell'espres­ sione e del linguaggio è quella di rendere possibile la rappresenta­ zione e la comunicazione di " un fatto mediante una combinazione di vecchi simboli ". Ma conoscere una cosa significa appunto " ri­ durla mentalmente a qualche altra cosa o cose di cui abbiamo già esperienza, e questa 'riduzione' è semplicemente una descrizione del nuovo oggetto per mezzo degli stessi segni che descrivevano i vecchi oggetti ". La conoscenza " consiste nel dare una descrizione di qualcosa in termini di qualcos'altro, ossia una descrizione che è formata da una combinazione di vecchi segni ". Si può quindi con­ cludere che " ogni genuina Conoscenza è Espressione ". 2) Vi sono molti modi di esprimere la medesima conoscenza, " con linguaggi diversi, con sistemi di segni scelti arbitrariamente; tutte queste differenti specie di possibili rappresentazioni, se dav­ vero esprimono in modi diversi la medesima conoscenza, devono

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avere qualcosa in comune: questo qualcosa è la loro forma logica ( ... ) Solo la forma importa nella conoscenza; tutto il resto non è che contingente sussidio materiale dell'espressione, come, per esempio, l'inchiostro con cui scriviamo una frase " (RN, p. 29). In Forma e contenuto, in perfetta sintonia con l'insegnamento della teoria rus­ selliana delle descrizioni definite, ripreso e ampliato nel Tractatus wittgensteiniano, si precisa che la forma logica di una conoscenza non va confusa con la " struttura linguistica grammaticale dell'enun­ ciato " tramite il quale si formula una proposizione conoscitiva. La forma logica è piuttosto ciò che otterremmo se rimpiazzassimo tutte le parole dell'enunciato con le loro definizioni, i termini che ricorrono nelle definizioni con le sottodefinizioni e così via, fino a raggiungere il confine del comune linguaggio verbale ove esso termina in gesti o prescrizioni per eseguire certi atti (vedi oltre, P· 1 2 5) · 3) Sebbene ogni conoscenza sia " tale solo in virtù della propria forma " e rappresenti " attraverso di essa gli stati di cose conosciuti ", la forma " non può a sua volta venir rappresentata " (RN, p. 29). È, questa, una delle principali tesi del Tractatus, illustrata in Forma e contenuto ricorrendo alla tradizionale distinzione fra relazioni esterne e interne e al classico esempio delle parole indicanti co­ lore. Tutte le asserzioni che possiamo fare in qualunque linguaggio sul colore di una foglia verde " parlano soltanto delle sue proprietà e relazioni esterne. Ci dicono dove trovarlo ( ...) come si distingue dal colore di altri oggetti, in quali circostanze può essere prodotto, e così via " ; ma nessuna asserzione può esprimere la " struttura interna " del verde, ossia quel complesso di proprietà e relazioni in­ terne che sole fanno sì che il verde sia il verde e non un altro colore. Questa struttura interna - la forma logica della parola " verde " può solo essere mostrata; ed essa " mostra sé stessa nelle varie possi­ bilità di usare la parola 'verde', è rivelata dalla sua grammatica " (vedi oltre, p. 58). 6. L'assimilazione della conoscenza a una forma di espressione - certamente uno degli aspetti di maggior novità rispetto all'Allge1Ileine Erkenntnislehre 14 - conduce SchIick a una concezione del rapporto fra giudizio (o proposizione) conoscitivo e realtà assai d iversa da quella presente nel volume del 1 9 1 8. Come si ricorderà, in quel momento la verità o la falsità dei giudizi o del sistema dei gi udizi venivano caratterizzate in termini, rispettivamente, di uni-



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vocità e ambiguità della designazione o coordinazione. Questa con­ cezione trova un preciso riscontro nel modo in cui, nella stessa opera, vengono concepiti anche i concetti e i giudizi. Schlick nega ai concetti ogni tipo di realtà, paragonandoli, con un'immagine effi­ cace, al " reticolo delle coordinate geografiche che percorrendo il globo terrestre ci consente di individuare in maniera non ambigua qualsiasi posizione sulla superficie di esso " (AE, p. 25). A esistere sono non i concetti, ma una funzione concettuale (begriffiiche Function) che " consiste precisamente nel designare ( ... ) Dire che gli oggetti cadono sotto un ceno concetto è dire soltanto che li abbiamo coordinati con questo concetto " (AE, p. 22). In altri ter­ mini, per Schlick un concetto non ha altro ruolo che quello di essere " un segno per tutti quegli oggetti fra le cui proprietà si trovano tutte le note caratteristiche di quel concetto " (AE, p. 19). Come i concetti sono segni per gli oggetti, i giudizi sono segni che intendono designare l'esistenza di certe relazioni fra gli oggetti, ossia il fatto che una certa relazione vige fra essi. Così, per esempio, il giudizio " La neve è fredda " designa la coesistenza di certe carat­ teristiche di cui ci serviamo per riconoscere qualcosa come neve con la proprietà dell'essere freddo (e ovviamente il giudizio sarà analitico o sintetico a seconda che l'essere freddo appartenga o non appanenga alle note caratteristiche costituenti l'intensione del con­ cetto della neve). In breve, si può dire che " i giudizi sono segni per i fatti. Ogni volta che emettiamo un giudizio, ciò che intendiamo è designare un dato di fatto ( Tatbestand). I fatti possono essere reali o concettuali, perché si devono intendere per dati di fatto non sol­ tanto le relazioni fra oggetti reali, ma anche l'esistenza di relazioni fra concetti. :t un fatto che la neve è fredda, ma è anche un fatto che 2 X 2 è uguale a 4 " (AE, P. 39). Nell' Allgemeine Erkenntnislehre, Schlick dice con chiarezza che si può stabilire quale fatto sia coordinato a un dato giudizio solo se il giudizio contiene " segni specifici per gli elementi distinti nel dato di fatto e per le relazioni fra questi elementi " (AE, p. 4 1 ). Inoltre, si mostra pienamente consapevole di alcuni problemi relativi alle proprietà formali del giudizio e di possibili discrepanze tra la formulazione verbale di un giudizio e ciò che esso asserisce (AE, pp. 41 sg.). Egli tiene comunque a ribadire come punto essenziale della questione che " un giudizio come un tutto è coordinato a un fatto come un tutto " (AE, p. 42). E il senso di questa osservazione sem­ bra connettersi a quanto da lui sostenuto nel corso di un confronto

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tra la sua concezione della verità come coordinazione o designazione univoca e la definizione tradizionale di verità come accordo o ade­ guazione tra il pensiero e la realtà. Egli osserva che si cade in con­ cezioni superate e insostenibili se si considera tale accordo una raffigurazione più o meno fedele del mondo dei fatti da parte di un sistema di giudizi. La definizione tradizionale può essere considerata corretta solo nel caso che alla parola " accordo " non si attribuisca altro significato che quello di coordinazione o designazione univoca: " Dobbiamo toglierci dalla testa che un giudizio possa essere qual­ cosa di più che un segno in relazione a un dato di fatto, che la connessione fra i due possa consistere in qualcosa di più intimo che nella mera coordinazione, che un giudizio sia in qualche modo nella posizione di descrivere, esprimere o riprodurre (abbilden) in ma­ niera adeguata un dato di fatto. Non si ha nulla del genere. Un giudizio raffigura (bildet) la natura di ciò che è giudicato tanto poco quanto una nota musicale raffigura un tono, o il nome di un uomo la sua personalità. " Tutte le " teorie ingenue secondo le quali i nostri giudizi e concetti potrebbero in qualche modo 'riprodurre ' la realtà risultano completamente demolite " (AE, p. 57).15 Negli anni del Circolo di Vienna, sotto l'influsso di Wittgenstein e della sua " teoria pittoriale del significato ", Schlick si orienterà in­ vece verso una caratterizzazione della verità e della proposizione in termini di raffigurazione (picture) e di isomorfismo strutturale tra fatti e proposizioni. Come si dice ripetutamente in Forma e conte­ nuto, " ogni proposizione esprime un fatto raffigurandone la strut­ tura " (vedi oltre, p. 1 44) ; e la corrispondenza che c'è nel giudizio vero tra il giudizio stesso " e ciò che è giudicato ( ..) è semplice­ mente l'identità di struttura " (p. 1 2 3). Qual è la ragione di questo passaggio da una concezione segnica o designativa a una concezione raffigurativa del giudizio o, in termini linguistici, della proposizione ? Come risulta con molta chiarezza proprio da Forma e contenuto, essa è legata alla considerazione di un problema che nell' A llgemeine I�rkenntnislehre era stato messo da parte come non essenziale dal punto di vista della teoria generale della conoscenza. "f: necessario distinguere - diceva allora Schlick riferendosi alle analisi semantiche svolte da Husserl nelle Logische Untersuchungen - fra designare nell'accezione semplicemente di 'indicazione' (Anzeige) e designare n e l l e accezioni di espressione, rappresentanza (Stellvertretung), si­ g-ni ficato, senso e forse altre ancora; e a ognuno di questi differenti sig-ni fi cati possono corrispondere differenti 'atti', differenti modi .

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di coscienza. Comunque, essi hanno tutti In comune il fatto di comportare una coordinazione, e soltanto ciò è essenziale per la teoria della conoscenza. Quelle differenze, si potrebbe anche dire, sono principalmente di carattere solo psicologico. La loro irrile­ vanza per la teoria della conoscenza è mostrata dal fatto che solo l'aspetto della coordinazione - il quale non è in alcun modo toccato da tali differenze è da prendere in considerazione per la soluzione della questione circa l'essenza del conoscere " (AE, p. 22) . In seguito all'incontro con la nuova logica matematica e con l'in­ terpretazione filosofica offertane da Russell e da Wittgenstein, Schlick si convincerà della fondamentale importanza di una consi­ derazione del linguaggio per la soluzione dei tradizionali problemi filosofici: " L'intera storia della filosofia - si legge proprio nel primo paragrafo di Forma e contenuto avrebbe potuto prendere un corso ben diverso se le menti dei grandi pensatori avessero appro­ fondito quel fatto straordinario che è l'esistenza stessa di un qualcosa come il linguaggio " (vedi oltre, p. 48). Ed è appunto la riflessione sul problema del linguaggio, condotta sotto l'influsso di alcune tesi del Tractatus wittgensteiniano, che lo porta a prendere piena co­ scienza dell'importanza della distinzione fra espressione e rappre­ sentazione (representation) e quindi dei limiti (almeno secondo il suo nuovo modo di vedere) della nozione di corrispondenza o coordinazione ai fini di una spiegazione del fenomeno linguistico e, subordinatamente, di quello conoscitivo, per la già ricordata equi­ parazione della conoscenza a una forma di espressione. Tutto ciò lo condurrà ad abbracciare l'idea dell'isomorfismo strutturale fra lin­ guaggio, conoscenza e realtà.16 Si può ben cogliere il procedimento argomentativo seguìto da Schlick nei paragrafi iniziali di Forma e contenuto che costituiscono certamente le pagine migliori da lui scritte sull'argomento. Si parte dalla costatazione (in seguito sottolineata anche da Chomsky nel­ l'elaborazione della linguistica generativa 17) che caratteristica essen­ ziale del linguaggio è il far uso di un numero limitato, finito, di simboli e di costruzioni grammaticali per esprimere i fatti, e non solo i fatti rispetto ai quali è stato originariamente appreso l'uso delle varie componenti linguistiche, ma anche fatti nuovi, fatti mai incontrati in precedenza, fatti che forse non verranno incontrati mai, in una parola tutti i fatti possibili. Ciò significa che il linguaggio ha un potere espressivo, non semplicemente rappresentativo. E Schlick ritiene che per spiegare tale potere sia necessario ricorrere -

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a l concetto d i ordine logico: " . . . è l a disposizione, il peculiare ordine o combinazione di segni a costituire l'essenza del linguaggio. :t a causa del fatto che un limitato numero di simboli può essere di­ sposto in un numero illimitato di modi differenti che qualunque insieme di simboli può essere usato per esprimere qualunque fatto ( .) Il medesimo insieme di segni, che è stato usato per descrivere un certo stato di cose, con una ridisposizione può essere usato per descrivere uno stato di cose completamente differente in modo tale che noi conosciamo il significato della nuova combinazione senza che ci sia stato spiegato " (vedi oltre, pp. 5 I sg.). L'aspetto essenziale dell'espressione è dunque l'ordine, e precisa­ mente un ordine puramente logico (non quello spaziale della scrit­ tura, per esempio, o quello temporale del parlare). Schlick chiama tale ordine anche struttura e conclude che per comprendere i l potere espressivo del linguaggio non è sufficiente ricorrere al sem­ plice fatto della rappresentazione, intendendosi per quest'ultima " una sorta di corrispondenza fra due cose che noi stabiliamo arbi­ trariamente convenendo che l'una starà per l'altra, che la sostituirà in un dato contesto, che servirà come segno o simbolo per l'altra, ovvero, in breve, che significherà l'altra " (p. 49)· Condizione es­ senziale perché si abbia l'espressione e con essa il linguaggio è che vi sia isomorfismo strutturale tra l'espressione e ciò che viene espresso: " L'espressione implica due fatti: uno che esprime e uno che è espresso. Il primo è una specie di raffigurazione (picture) del secondo, di cui riproduce la struttura in un materiale differente " (p. 65). E siccome la conoscenza è equiparabile a una forma di espressione, quanto detto per il potere espressivo del linguaggio può essere esteso anche ad essa. Un giudizio o una proposizione vera saranno quindi qualcosa di più di una semplice designazione univoca di un fatto; saranno raffigurazioni corrette del fatto, entità che hanno la stessa struttura del fatto raffigurato: " n mondo con­ siste di fatti, i fatti hanno una struttura e le nostre proposizioni raffigureranno i fatti correttamente, saranno vere, se avranno la medesima struttura ( . . ) Una proposizione sarà verificata, ne verrà stabilita la verità, se la struttura dell'enunciato sarà la stessa di quella del fatto che essa cerca di esprimere " (pp. 1 2 3 e 1 2 5). ..

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7. All'interno del Circolo di Vienna, le idee di Schlick sulle co­ statazioni, sulla trascendibilità del linguaggio, sulla verità come cor­ rispondenza e sul rapporto raffigurativo tra fatti e proposizioni non

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verranno generalmente accettate. In particolare, esse incontreranno l'intransigente e tenace opposizione del fisicalista Neurath che nelle discussioni fra i membri del Circolo si mostrava assai critico nei confronti del " dualismo wittgensteiniano di asserzione e fatto ", giudicando " pura metafisica " che " un fatto dovesse essere riflesso nella struttura di una proposizione ".18 Per Neurath (le cui idee sono certamente all'origine di molte precisazioni contenute in Forma e contenuto anche se il suo nome non viene fatto mai) " le asserzioni sono sempre confrontate con altre asserzioni, certame n te non con qualche 'realtà', né con ' cose', come anche il Circolo di Vienna ha pensato finora " (testi dell'intrascendibilità del linguaggio). Se " si fa un'asserzione, essa va confrontata con la totalità delle asserzioni esi­ stenti. Se si accorda con queste ultime, essa viene loro aggiunta; se non si accorda, viene chiamata 'non vera' e respinta; oppure i l com­ plesso esistente delle asserzioni della scienza viene modificato in modo da rendere possibile l'inserimento della nuova as s e r z i one ; questa seconda decisione viene perlopiù presa con esitazione. Non può esservi altro concetto di verità per la scienza " (G PMS , pp. 4 1 8 sg.). Comunque si voglia giudicare il contrasto fra Sch l i ck e Neurath (il quale riuscirà a portare dalla sua parte anche Ca rnap e Hempel) e ferma restando la fondamentale importanza dell'idea delle conven­ zioni coordinative come elemento di connessione fra il convenzio­ nalismo di Poincaré e l'epistemologia neopositivista, non si può certamente trascurare il fatto che le nuove prospettive teoriche sviluppate dall'autore dell'Allgemeine Erkenntnislehre consentivano a quest'ultimo di soddisfare una delle esigenze p i ù sentite dai membri del cosiddetto gruppo viennese originario (Frank, Hahn, lo stesso Neurath ecc.). Come ha ricordato Frank, tra le preoccupazioni fon­ damentali di questo gruppo di giovani studiosi che fin dal 1 907 sole­ vano incontrarsi in un caffè della vecchia Vienna per discutere di scienza, filosofia, politica e religione, vi era quello di contrastare la rinascita delle tendenze antiscientifiche e irrazionalistiche provocata dalla crisi della fisica meccanicistica, crisi presentata da alcuni come la " bancarotta " della scienza, come la sconfitta delle pretese del metodo scientifico di fornire una conoscenza vera dell'universo. In una tale situazione, ampiamente illustrata e discussa nel fortunato libro di Abel Rey, La théorie de physique chez les physiciens con­ temporains (Parigi 1 907), uno dei principali obiettivi postisi da quel gruppo di giovani scienziati e filosofi fu appunto il mostrare - uti-

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lizzando in primo luogo gli strumenti offeni dal pensiero machiano che il superamento della concezione meccanicistica, indebitamente elevata a teoria provvista di un " indiscutibile valore ontologico " e costituente la " vera conoscenza dell'universo materiale ", non com­ portava la rinuncia alla wissenschaftliche Weltauffassung, ossia il ricorso a strumenti diversi dal metodo scientifico (ricerca metafisica, fede religiosa, esperienza mistica, fusione intuitiva con le cose) per conseguire una valida conoscenza della realtà. Le tesi sostenute da Schlick nelle lezioni londinesi deI 1 9 3 2 ven­ gono anche incontro a esigenze di questo tipo. Ciò vale sia per la vecchia concezione del conoscere come ri-conoscere, sia per la nuova affermazione dell'esprimibilità, e quindi della conoscibilità, dei soli rapporti strutturali, non del contenuto. Quest'ultima tesi costituisce una delle idee portanti dell'A ufbau carnapiano e viene ripetutamente affermata anche da Neurath. Essa ha una lunga storia nell'epistemologia tardottocentesca e protonovecentesca e la si può rintracciare anche in un autore come Eddington. Schlick ne dà una prima e incisiva formulazione già in un importante saggio del 1 92 6 (Erleben Erkennen Metaphysik) quando già era venuto a conoscenza delle idee di Carnap. Opponendosi al " grande nihilista " Gorgia, secondo il quale anche se vi fosse conoscenza noi non potremmo co­ municarla, egli sostiene invece che appartiene all'essenza del cono­ scere l'essere comunicabile ( " ogni conoscenza è comunicabile, ogni comunicabile è conoscenza "), aggiungendo che unico oggetto della conoscenza e della comunicazione sono i rapporti formali, struttu­ rali che vigono fra i contenuti di coscienza, non i contenuti stessi. Quest'ultimi sono puramente soggettivi; in quanto tali, sono espe­ ribili, ma non conoscibili e comunicabili: " Se guardo una superficie rossa, non posso dire a nessuno come è costituita l'esperienza vis­ suta (Erlebnis) del rosso ( . .) [Tutte ] le qualità che compaiono come contenuti del flusso di coscienza ( ... ) ci sono note solo attraverso l'immediata esperienza vissuta ( . . .) Soltanto le relazioni formali ( ...) sono accessibili alla conoscenza, al giudizio nel senso puramente lo­ gico della parola " (GA, pp. 2, 8). Con l'ausilio di queste tesi, Schlick può tornare a negare che l'in­ tuizione bergsoniana sia una forma di conoscenza, esaltando al tempo stesso il supremo valore conoscitivo dell'indagine scientifica. Come si ripete vibratamente in Forma e contenuto, " il più alto grado di conoscenza di una cosa è la più completa, la più perfetta descrizione di essa, e non la cosa stessa " cosÌ quale ci è data nell'intuizione: il .

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" contenuto deve esserci prima che possa essere studiata la strut­ tura " ; quindi, " l'intuizione bergsoniana, lungi dall'essere il fine e il più alto grado di ogni conoscenza, non ne costituisce neppure l'ini­ zio; essa deve precedere tutti i tentativi di conoscere qualcosa " (p. 89). D'altro canto, se è vero che la sola struttura è conoscibile, al sapere scientifico non si può neppure rimproverare di essere una forma limitata di conoscenza perché guarderebbe solo ai rapponi strutturali fra le cose, e non al contenuto delle cose stesse. Il conte­ nuto, la natura intima delle cose, la loro essenza qualitativa, è qual­ cosa che va al di là di ogni possibile conoscenza ed espressione (in realtà va considerato privo di significato ogni discorso che tenti di farci conoscere il contenuto).19 Penanto, la conoscenza e l'espres­ sione del contenuto rappresentano un obiettivo irraggiungibile " per il linguaggio quotidiano, per rane, per la religione " proprio come lo sono per l'indagine scientifica. " Così la scienza, sotto questo profilo, non è inferiore a nient'altro; essa, al contrario, si avvale al massimo grado di tutte le possibilità di quell'un genere di conoscenza che è il solo genere. " Chiunque sostenga il contrario, commette - secondo Schlick - una grave confusione fra il " godimento " del contenuto e la conoscenza di esso : " La vita e l'arte sono incentrate sul 'godi­ mento' (enjoyment, Erlebnis) del contenuto, per esse l'espressione non è il fine ultimo, ma solo un mezzo, e di conseguenza ha valore soltanto nella misura in cui pona alla produzione (non alla comu­ nicazione) di ceni contenuti. L'espressione in quanto tale è senza paragone meno perfetta in tutti gli altri campi che nella scienza, e la scienza non ha mai preteso di sostituire l'arte o la vita " (pp. I 1 2 sg.). Inoltre, l'idea della conoscenza come forma di espressione viene invocata da Schlick per mettere da parte l'impostazione tradizionale del problema gnoseologico e alcune difficoltà ad essa connesse. Come si dice in Die Wende der Philosophie, al posto " dell'indagine sui 'poteri conoscitivi' dell'uomo, nella misura in cui questi non sono oggetto della psicologia, subentra la riflessione circa la natura del­ l'espressione, della rappresentazione, cioè di ogni possibile 'linguag­ gio' nel senso più generale del termine. Cadono, quindi, le questioni sulla 'validità e i limiti della conoscenza'. Conoscibile risulta tutto quello che si può esprimere, e questo coincide con ciò su cui sensa­ tamente si possono formulare quesiti " (RN, p. 3 0). Penanto (come si mostra specificatamente nel saggio del 1 9 3 5, UnaS'Werable Questions) " non esiste alcun interrogativo al quale non sia per principio possi-

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bile rispondere, alcun problema per principio insolubile " (RN, p. 3 0). Possiamo essere ceni che il senso di un quesito è chiaro " se, e solo se, siamo in grado di descrivere con esattezza le condizioni, nelle quali si potrebbe rispondervi con un sì, oppure, rispettivamente, le circostanze nelle quali si dovrebbe rispondervi con un no " (RN, p. 86). Ma ciò significa che non possono darsi quesiti genuini cui per principio, non per ragioni tecniche o pratiche, non possa essere data una risposta sensata. 8. L'insieme di tesi fin qui discusse, incluso il principio di verifi­ cazione e la concezione della tautologicità della logica, consentono a Schlick di completare la critica alla metafisica e di proporre una concezione alternativa della filosofia. Egli può adesso sostenere che " l'aspirazione dei metafisici è sempre stata rivolta all'assurdo scopo di esprimere il contenuto puramente qualitativo (l"essenza' delle cose) mediante asseni conoscitivi, ossia di dire l'indicibile " (RN, p. 3 I ) . In tal modo, essi non sono riusciti a formulare - come pure pretendevano - un insieme più o meno sistematico di domande e di risposte sensate che andassero al di là del discorso scientifico. Con le loro costruzioni pseudoteoriche, i metafisici hanno certamente recato un contributo all'arricchimento della vita, dei contenuti del­ l'esperienza vitale, conseguendo uno scopo paragonabile a quello dell'arte, della musica e della poesia, e forse anche più imponante dei risultati raggiunti dal sapere scientifico ( Siamo tutti poeti man­ cati ! ", sembra solesse ripetere Schlick). Essi non possono però pre­ tendere di aver conseguito una forma di sapere capace di farci conoscere ciò che i procedimenti empirico-induttivi e ipotetico­ deduttivi della scienza non sarebbero in grado di darci: " I sistemi dei metafisici contengono talvolta scienza, talvolta poesia, ma non contengono mai metafisica " (GA, p. 1 7 ). Come puntualizzerà Feigl commemorando il suo maestro sulle pagine di " Erkenntnis " nel 1 93 8, la pretesa conoscenza metafisica " non è soltanto impossibile perché oltrepasserebbe i limiti della ragione umana, ma perché il suo scopo riposa su un fraintendimento del concetto di conoscenza. La meta­ fisica intuitiva è impossibile, perché l'intuizione non è conoscenza; la metafisica deduttiva (o dialettica) è sbagliata perché, frainten­ dendo la natura della deduzione, si illude sulle proprie capacità di pe rvenire a conclusioni non logicamente contenute nelle premesse. La metafisica induttiva non è invece logicamente impossibile, nella m i sura in cui il metodo induttivo conduce ad affermazioni fonda"

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mentalmente controllabili. Ma se è così, vi è continuità con la scienza, e il pericolo sta semplicemente nel fatto che vengono avan­ zate ipotesi assai rischiose, fantastiche o infruttuose " (p. 40 I ) . U n a volta negato che s i possa parlare d i asserti significanti oltre quelli analitici (che, non dicendo nulla sul mondo, sono asserzioni sui generis) e quelli sintetici delle scienze fattuali il cui significato è dato dal metodo della loro verificazione empirica, non si potrà più neppure parlare di un campo di specifiche verità filosofiche, caso mai concependo il rapporto fra scienza e filosofia come un edificio di asserzioni scientifiche " coronato da una cupola di proposizioni filosofiche " (RN, p. 3 I ) . Ma il fatto che la filosofia non sia un sistema di asserzioni, e quindi una scienza, non significa che essa sia un puro nulla. Di nuovo sotto l'influsso di alcune celebri tesi del Tractatus wittgensteiniano, la filosofia viene ricondotta da Schlick a un' atti­ vità di chiarificazione e di determinazione del senso degli enunciati : attività, perché la completa esplicitazione del significato delle espres­ sioni non può essere ottenuta soltanto mediante l'uso definitorio di altre espressioni, senza far ricorso alla fine all' " esibizione concreta di ciò che si intende " : solo questi atti di ostensione " non sono su­ scettibili, né bisognosi di ulteriori applicazioni. La determinazione finale del significato avviene sempre mediante azioni le quali costi­ tuiscono l'attività filosofica " (RN, p. 3 1 ). 20 Come si dice nel manifesto del Circolo di Vienna, il " metodo dell'analisi logica è ciò che distingue essenzialmente il nuovo empi­ rismo e positivismo da quello anteriore, che era orientato in senso più biologico-psicologico ". 2 1 Ma sul significato da attribuire all'ana­ lisi non c'era uniformità di vedute all'interno del Circolo stesso. E in effetti la concezione di Schlick troverà di nuovo un avversario particolarmente accanito in Neurath, per il quale obiettivo del mo­ vimento neopositivista doveva essere l'elaborazione di una coerente concezione scientifica del mondo (wissenschaftliche Weltauffassung) sulla base dell'unificazione delle scienze. A suo parere, la filosofia come un sistema indipendente di dottrine è obsoleta. Nell'ambito dell'attività teorica vi è ormai spazio solo " per la scienza e per la chiarificazione dei metodi scientifici " : " questa chiarificazione è tutto ciò che rimane dell'antiquato ' filosofare ' " (GPMS, p. 4 1 4). Scopo di quest'opera di chiarimento deve essere la purificazione della scienza da ogni incrostazione metafisica senza peraltro perdere la consape­ volezza dell'impossibilità di una ricostruzione puramente formale l' assolutam ente precisa del discorso scientifico. Da qui la sua con-

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testazione non soltanto (come avviene in Schlick) di una disciplina composta da specifiche asserzioni filosofiche, ma anche di una qual­ siasi attività filosofica in qualche modo autonoma: " Tutti i membri del Circolo di Vienna - scrive Neurath - sono d'accordo sul fatto che non c'è alcuna 'filosofia' con asserzioni sue proprie. Alcuni, tut­ tavia, desiderano ancora separare la discussione sui fondamenti con­ cettuali delle scienze dal campo scientifico e consentirne la continua­ zione come 'filosofia'. Considerazioni più stringenti mostrano che neppure questa separazione è praticabile, e che la definizione dei concetti è parte integrante del lavoro della scienza unificata" (GPMS, pp. 41 7 sg.). 22 Il riferimento alla posizione di Schlick era assai trasparente, e negli anni successivi alla polemica sui protocolli, questi scriverà un saggio (L'Ecole de Vienne et la philosophie traditionelle, 1 93 6) in cui si difende con forza il Circolo di Vienna dall'accusa di essere composto " non da filosofi, bensì da nemici della filosofia ", che mi­ rano non al progresso ma alla dissoluzione della ricerca filosofica. 2 3 Egli è disposto ad ammettere, pur senza citare Neurath, che un tale rimprovero " sembra trovare conferma in numerose dichiarazioni " di alcuni membri del Circolo, i quali, proclamandosi " esponenti della ricerca scientifica ", vorrebbero bandire la parola " filosofia " sostituendola con il termine " scienza unificata ", qualificando tutta la speculazione filosofica tradizionale come una raccolta di " pseudo­ problemi " (un'espressione tipicamente carnapiana) e " stabilendo addirittura un lndex verborum prohibitorum ". A suo parere, però, non tutta la filosofia tradizionale può essere così criticata. In essa, accanto alle costruzioni metafisiche giustamente respinte come in­ sensate dagli empiristi logici, compaiono anche moltissimi contributi all'analisi dei concetti che possono e debbono essere considerati un solido antecedente storico della stessa filosofia neoempirista. In realtà, una volta ammesso che sul piano logico bisogna distinguere tra ri­ cerca filosofica, intesa come " spiegazione del significato ", e scienza, intesa come " ricerca della verità ", bisogna ammettere che il " vero padre " della filosofia neopositivista è Socrate, il primo a insegnare ai suoi discepoli a porsi come compito la ricerca " del significato delle proposizioni, con particolare riferimento a quelle mediante cui gli uomini giudicano reciprocamente la loro condotta morale " (GA, pp. 3 90 sgg.). Questa concezione della filosofia e dei rapponi scienza-filosofia c o n la quale Schlick intende opporsi anche alla riduzione carna-



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piana dell'analisi filosofica alla sola " logica della scienza " - è pre­ sente anche nelle lezioni londinesi del 1 932, ove si mostra inoltre molto apprezzamento per la dichiarazione kantiana (ripresa nel sot­ totitolo delle lezioni stesse) che sia possibile insegnare a filosofare, non già la filosofia. Ed è importante notare che nel sostenere questo Schlick si mostra tutt'altro che ignaro della possibilità che l'analisi dei concetti scientifici faccia pane della ricerca della scienza stessa. Già in Die Wende der Philosophie si fa l'esempio dell'analisi einsteiniana della simultaneità per sottolineare come l'opera di chia­ rificazione del significato assegnata alla filosofia costituisca talvolta un momento interno allo stesso sviluppo scientifico, almeno nei suoi risultati " realmente decisivi ( .. ) quelli che fanno epoca " : " Siffatte acquisizioni risultano attingibili solo da pane di coloro che sono inclini all'attività filosofica; ma ciò significa che il grande scienziato è sempre anche un filosofo " (RN, pp. 32 sg.). Emerge qui un altro fondamentale aspetto della concezione schlickiana della filosofia: l'idea che, sebbene questa non sia una scienza, rimanga nondimeno qualcosa che si colloca al culmine della stessa attività scientifica, " qualcosa di cosÌ significativo e grande, da meritare, d'ora in poi, esattamente come un tempo, il titolo di regina delle scienze " (RN, pp. 30 sg.). E anche in quest'idea dello Schlick viennese non è difficile avvenire l'eco di tesi già avanzate nel­ l'Aligemeine Erkenrrtnislehre. Lì si citava con grande approvazione la frase di Helmholtz che ogni problema scientifico, se esaminato abbastanza a fondo, conduce alla filosofia; e pur rinunciando a ogni pretesa normativa da parte della teoria della conoscenza rispetto al normale procedere scientifico, la si collocava nondimeno al venice di una gerarchia composta dalle varie scienze panicolari: le " scienze formano, per cosÌ dire, un sistema di contenitori inseriti l'uno nel­ l'altro, in cui quello più generale contiene sempre il più panicolare e gli fornisce un fondamento ( ... ) E il dominio ultimo, il più gene­ rale, in cui ogni processo di sempre progressiva spiegazione deve sfociare, è il regno della filosofia, della teoria della conoscenza. Infatti, i concetti basilari ultimi delle scienze più generali - si pensi, per esempio, al concetto di coscienza in psicologia, di assioma e di numero in matematica, di spazio e tempo in fisica - consentono alla fine soltanto una chiarificazione filosofica e gnoseologica " (AE, p. 3 ). .

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NOTE I.

Nel seguito di questa Introduzione con l'abbreviazione GA si farà riferi­ mento alla raccolta curata da Waismann in cui le tre lezioni sono state pub­ blicate (vedi le indicazioni bibliografiche complete a p. 7, nei Titoli originali) ; verranno inoltre utilizzate le seguenti abbreviazioni: AE = M. Schlick, Allge­ meine Erkenntnislehre (Springer, Berlino, la ed. rivo I91 5, e a questa edizione si riferiscono i rimandi di pagina; la prima edizione era apparsa nel 19 1 8 presso lo stesso editore; dell'opera è ora disponibile la traduzione italiana di Ernesto Palombi, Teoria generale della conoscenza, Angeli, Milano 1986) ; RN = M. Schlick, Tra realismo e neo-positivismo, trad. it. di alcuni scritti di M. Schlick (Il Mulino, Bologna 1974) ; GPMS = O. Neurath, Gesammelte philosophische und meth odologische Schriften, a cura di R. Haller e H. Rutte, I voll. (Holder­ Pichler-Tempsky, Vienna 198 1 ) . I.

B. Harrison, Form and Content (Blackwell, Oxford 1 97 3 ) P. 3 .

3 . Vedi H. Bergson, Introduzione alla metafisica ( 1 90 3 ) , trad. it. (Laterza, Bari 195 7 ) p. 65 ; e la conclusione del celebre saggio di E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa ( 1 9 1 O - 1 I ) , trad. it. (Paravia, Torino 1958) .

4. Nelle lezioni londinesi, Schlick si avvarrà della coppia di espressioni to be acquainted e to know. Nella traduzione si è resa la seconda espressione con " conoscere" e la prima in alcuni casi con " aver noto" e in altri con " avere esperienza" in relazione al contesto ("esperire" lo si è lasciato per to experience corrispondente al tedesco erfahren) . Per rendere il sostantivo acquaintance è in uso ricorrere talvolta a " conoscenza personale " ; ma nel caso di Schlick questa scelta risulta impossibile, perché uno dei suoi scopi (vedi p. 87) è criticare la famosa distinzione russelliana fra knowledge by acquaintance e knowledge by description, mostrando che la prima non può essere considerata una forma di conoscenza, mentre - ove si rendesse acquaintance con " cono­ scenza personale" - si avrebbe che la conoscenza per conoscenza personale non è propriamente conoscenza.

5. M. Schlick, Spazio e tempo nella fisica c ontemporanea ( 4a ed. 1 92 2 ) , trad. it. (Bibliopolis, Napoli 198 3) p. 93. Schlick compie un'interessante analisi della struttura logica del controllo empirico nel paragrafo I l , intitolato " Die Verifi­ kation", dell'A ligemeine Erkenntnislehre ; non mostra però di conoscere il con­ tributo di Duhem divenuto in seguito assai famoso. Per !'importanza dell'univo­ cità e per il rapporto di coordinazione o designazione fra giudizi e fatti, si veda AE, pp. 55 sg., ove si dice che i giudizi stanno ai fatti che essi designano come le segnature del catalogo di una biblioteca stanno alla collocazione dei volumi sugli scaffali (ed è chiaro che un catalogo contenente segnature ambigue non potrebbe servire allo scopo) .

6. Nonostante che il brano di Hertz sia largamente noto, converrà ugualmente riportarlo: "La prima esigenza e, in un certo senso, la più importante, nello studio razionale dei fenomeni della natura, è di poter prevedere i risultati delle esperienze e di regolare la nostra attività presente secondo tali previsioni ( ... ) Ora il procedimento a cui ricorriamo sempre, per dedurre il futuro dal passato e ottenere così la desiderata previsione, è il seguente: Noi ci formiamo delle raffigurazioni soggettive (innere Scheinbilder) , o simboli, degli oggetti esterni, e precisamente in modo tale che le conseguenze logiche delle raffigurazioni ( BUder) siano a loro volta le raffigurazioni delle conseguenze necessarie in na­ tura degli oggetti riprodotti (abgebildeten) (. .. ) Se una volta siamo riusciti a ricavare, dalle esperienze passate, raffigurazioni della qualità desiderata, pos­ siamo in breve tempo sviluppare su di esse, come su dei modelli, le conseguenze che si presenterebbero nel mondo esterno solo dopo un lungo periodo di tempo

PARRINI o in seguito al nostro proprio intervento C . . ) Le raffigurazioni di cui parliamo sono le nostre rappresentazioni ( Vorstellungen ) delle cose ; esse hanno con le cose una corrispondenza ( Obereinstimmung) essenziale, che consiste nell'adem­ pimento dell'esigenza che abbiamo menzionato; e, per tale scopo, non sono ne­ cessarie altre corrispondenze con le cose. Effettivamente noi non sappiamo se le nostre rappresentazioni delle cose corrispondano alle stesse per qualche altra proprietà, oltre a quella fondamentale che abbiamo menzionato, e non abbiamo alcun mezzo per sincerarsene " ( H . Hertz, Vie Prinzipien der Mechanik in neuem Zusammenhange dargestellt, in Gesammelte Werke, a cura di P. Lenard e J . A. Barth, Meiner, Lipsia 1 894, voI. 3 , pp. I sg. ; per la versione in italiano, vedi E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, trad. it., Einaudi, Torino 1 963 , voI. 4, pp. 1 67 sg. ) . � dunque vero che Hertz parla di Scheinbilder e di Bilder come poi farà anche Schlick sotto l 'influsso del Tractatus wittgensteiniano ( vedi nel presente volume, pp. 3 1 , I Z 5, 1 44) ; è altrettanto vero, però, che l'unica corrispondenza richiesta tra le raffigurazioni e gli oggetti è quella connessa alla prevedibilità degli eventi futuri da quelli passati. 7. H. Reichenbach, Relatività e conoscenza a priori, trad. it. ( Laterza, Bari 1 984) pp. 1 0 3 e 105 ; vedi anche pp. 9 1 - 96. 8.

H . Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo, trad. it. ( Feltrinelli, Milano 1 977 ) pp. 62 sg.

9. R. Carnap, La costruzione logica del mondo, trad. it. (F.lli Fabbri, Milano I g66) , Prefazione alla 2a ed. tedesca del 1 96 1 , p. 75. I O. C. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empi­ rica, trad. it. ( Feltrinelli, Milano 1 96 1 ) pp. 46 sg. I I . E si noti che in Forma e contenuto Schlick segue Hume anche nel soste­ nere la tesi, tanto spesso ripetuta da Popper in funzione antineopositivista, che l'induzione non può fondare neppure la probabilità delle ipotesi ( vedi oltre, p. 1 3 1 ) . Per la posizione schlickiana sulla probabilità è fondamentale il saggio Gesetz und Wahrscheinlichkeit ( 1 93 5 ) , in GA, pp. 3 2 3- 36, trad. it. in RN, pp. 1 7 1 -8 3 . I Z . Le citazioni sono tratte da Ober das Fundament der Erkenntnis (Er­ kenntnis, 1 934 ; trad. it. in RN, pp. 1 48 sgg. ) , il più importante intervento di Schlick nella polemica sui protocolli. Di esso esistono ben due traduzioni ita­ liane, mentre non sono stati tradotti i successivi interventi di Schlick: Facts and Propositions, Analysis ( 1 93 5 ) - una risposta rivolta soprattutto a Hempel - e le aggiunte contenute nell'edizione francese dei due saggi appena citati, Sur le fondement de la connaissance ( Hermann, Parigi 1 9 3 5 ) . 1 3 . I n Forma e contenuto (p. 1 2 2 ) , l e leggi d i natura vengono caratterizzate come modi abbreviati "di asserire un numero inde finito di proposizioni " . Questa concezione sembra essere conforme alle vedute di Schlick s u causalità, induzione e principio di verificazione. Mantenendosi fedele all'affermazione dell'A llgemeine Erkenntnislehre circa la sostanziale impossibilità di andare oltre il punto di vista di Hume, anche negli scritti del periodo viennese dedicati all'interpretazione filosofica della fisica quantistica e al problema del nesso cau­ sale, egli sostiene che il principio di causalità non può essere considerato né una tautologia priva di contenuto empirico-fattuale ( come invece Frank cer­ cava di mostrare ) , né un asserto empiricamente verificabile o falsificabile . Esso viene considerato, piuttosto, "un postulato, un'esigenza di risalire alle cause ", ossia un " invito, una prescrizione per la ricerca di uniformità, per descrivere eventi mediante leggi ". Il principio è così una sorta di istruzione che " non è né vera né falsa, ma solo buona o cattiva, utile o dannosa". Come si intende mostrare in Vie Kausalitiit in der gegenwiirtigen Physik ( 1 93 1 ) , ciò che ci viene insegnato dalla stessa teoria dei quanti non è la falsità di un simile requisito, ma l'inutilità e l'insoddisfacibilità di esso " all'interno dei limiti esattamente stabiliti dalla relazione di indeterminatezza " ( RN, pp. 59, 62 ) . Analogo il discorso fatto per il principio induttivo. E tutto ciò, unito alla banale costatazione dell'inveri-

INTRODUZIONE

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ficabilità empirica degli enunciati universali esprimenti leggi di natura, conduce Schlick a interpretare quest'ultime come regole per orientarsi nel mondo del­ l'esperienza: "Le leggi generali non sono ( nel linguaggio dei logici ) 'implica­ zioni universali', perché non possono essere verificate per tutti i casi, trattandosi piuttosto di prescrizioni, di massime di comportamento, su come gli scienziati devono comportarsi nella realtà, sulla maniera di trovare enunciati veri, sul tipo di eventi che ci si deve attendere. Questa aspettativa, questa condotta pratica, è stata indicata da Hume col termine 'abitudine' o ' belief' (. .. ) Le relazioni che si stabiliscono fra noi e la realtà si formulano in espressioni linguistiche che hanno la forma grammaticale di proposizioni enunciative (Aussagensiitzen ) , ma i l cui senso effettivo è quello d i istruzioni per possibili operazioni " ( RN, p. 64) . Quest'ultima affermazione è all'apparenza in contrasto con la conclu­ sione della già ricordata critica alla concezione convenzionalistica delle leggi di natura cond otta in Sind die Naturgesetze Konventionen? ( 1 935 ) . Lì, infatti, si finisce per dire che convenzionali sono i modi di espressione delle leggi di natura, non queste leggi stesse che "come tutte le genuine proposizioni ( e chten Aussagen) ( ... ) sono sempre qualcosa di obiettivo, d'invariante nei confronti della maniera di esprimersi, e non dipendono in nessun modo da convenzioni di sorta " ( RN, p. 1 66, corsivo aggiunto ) . Forse la caratterizzazione delle leggi di natura riportata all'inizio della nota può aiutare a rimuovere questa apparente contraddizione : le leggi di natura sono non proposizioni enunciative genuine ma regole per la scoperta di asserzioni vere ; esse però hanno un valore obiet­ tivo in quanto danno luogo ad asserzioni singolari che sono proposizioni enun­ ciative genuine, ossia espressioni linguistiche provviste di un significato deter­ minato che in quanto tali sono empiricamente verificabili. 1 4. L'opera del 1 9 1 8 comincia con una parte intitolata " Das Wesen der Er­ kenntnis " e termina con una sezione sulla validità della conoscenza ; le lezioni londinesi del 1 9 3 2 iniziano invece con "La natura dell'espression e " per prose­ guire con "La natura della conoscenza" e concludersi con "La validità della conoscenza ". 1 5. Si tenga presente anche il paragone con il catalogo di una biblioteca ( vedi sopra, nota 5 ) . 1 6. Comunque l a s i voglia giudicare, l a " svolta linguistica" della filosofia sem­ bra essere stata qualcosa di più ampio e complesso di quella banalità che Popper ha inteso criticare citando le parole di Kant: " ... ogni volta che una disputa è infuriata per un qualche tempo, specialmente in filosofia, il problema che stava alla sua base non era mai un problema di pure e semplici parole, ma un autentico problema intorno a cose " ( K. Popper, Logica della scoperta scientifica, 1 934, trad. it., Einaudi, Torino 1 970, p. XVII ) . La " svolta linguistica" è stata e ha inteso essere anche " un autentico problema intorno a cose ". 1 7. Ma Schlick non viene mai citato in N. Chornsky, Linguistica cartesiana: un capitolo di storia del pensiero razionalistico ( 1 966 ) , trad. it. in Saggi lingui­ stici, voI. 3 ( Boringhieri, Torino, 2a ed. 1 977 ) . 1 8. Vedi l a testimonianza d i Heinrich Neider i n O . Neurath, Empiricism and Sociology, a cura di Marie Neurath e R. S. Cohen, " Vienna Circle Collection " ( Reidel, Dordrecht 1 97 3 ) .

1 9. L e argomentazioni portate d a Schlick i n queste lezioni contro l'esprimibi. lità e la conoscibilità del contenuto sembrano procedere secondo la famosa metafora wittgensteiniana della scala da gettare via dopo che ci si è saliti : sono condotte presupponendo, o, meglio, alludendo alla nozione intuitiva di conte­ nuto, ma il loro scopo è quello non di pervenire a un chiarimento di tale no­ zione, bensì di mostrarne la vacuità e l'inutilità. Analogo sarà il procedimento argomentativo seguìto da Quine in Word and Object per rifiutare il significato e le altre nozioni intensionali. 20.

L'aforisma 99 tuttavia non riconosce un carattere privilegiato alle defini­

zioni ostl'flsivc aprendo così " rivoluzionarie " prospettive sul problema dci si-

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PARRINI

gnificato: " Apprendo il significato di alcune parole per mezzo di definizioni ostensive ( c oncrete ) . Ciò è abbastanza semplice - ma come so che un gesto ostensivo unito a un suono può essere l'indicazione del nome di un oggetto? Si dice : lo indovino. Giustissimo, ma qual è il criterio per cui posso dire d'averlo indovinato esattamente? In fondo solo questo, che faccio buon uso del voca­ bolo. Ciò vale anche per le parole che non posso spiegare con una definizione ostensiva ( se, ma, forse, potere ) ecc. La definizione ostensiva non ha dunque una particolare rilevanza; non è vero che la comprensione e l'uso di una lingua le siano connessi in modo speciale " ( M . Schlick, Problemi di etica. Aforismi, trad. it., Pàtron, Bologna 1 970, P. 204) . 2 1 . R. Carnap, H. Hahn e O. Neurath, La concezione scientifica del mondo: il Circolo di Vienna ( 1 929) , trad. it. (Laterza, Bari 1 979) pp. 75 sg. 2 2 . A questo riguardo non si può non citare anche la testimonianza di Frank: "Il nostro gruppo viennese originale, specialmente Neurath, non si acconten­ tava di proporre al nostro nuovo gruppo filosofico obiettivi precipuamente cri­ tici e analitici. Eravamo ben consapevoli che l'uomo anela a una filosofia d'in­ tegrazione ( ... ) Questo obiettivo ci riporta in certo modo al fine classico della filosofia, quale venne definito da Aristotele. In realtà Auguste Comte, il padre del positivismo, scrisse nel 1 829: 'lo uso la parola « filosofia » nel senso a essa dato da Aristotele, a denotare il sistema generale delle concezioni umane.' Il nostro gruppo non voleva mettere in risalto il lavoro di analisi in contrappo­ sizione alla creazione di una sintesi. Noi non considerammo mai la logica e l'analisi della scienza un fine in sé, ma eravamo fermamente persuasi che quel­ l'analisi è una parte necessaria per ottenere una visione della vita scevra da pregiudizi " (P. Frank, La scienza moderna e la sua filosofia, 1 949, trad. it., Il Mulino, Bologna 1 97 3 , pp. 51 sg. ) . 2 3 . Schlick affronterà invece i n modo più esteso l a questione del fisicalismo nel saggio del 1 9 3 5 De la relation entre les notions psy chologiques et les notions physiques ( Revue de Synthèse, VOl. IO) riesaminando il problema mente-corpo, ridiscutendo la tesi dell'inesprimibilità del contenuto, e sostenendo il carattere di ipotesi empirica, non di concezione filosofica, della tesi fisicalista.

FORMA E CONTENUTO UNA INTRODUZIONE AL PENSARE FILOSOFICO ( 1 93 2)

PRIMA LEZIONE LA NATURA DELL'ESPRESSIONE

I.

Il linguaggio

La civiltà umana si basa interamente sulla possibilità di comunica­ zione del pensiero. Non esisterebbe cooperazione fra gli esseri umani se l'uomo non potesse scambiare idee con i suoi simili; non esisterebbero arti né scienza se non fosse possibile trasmettere la conoscenza da una generazione alla successiva. La comunicazione ha bisogno di un qualche veicolo che porti il messaggio attraverso lo spazio e il tempo. Il più comune consiste in determinati suoni articolati detti Parola; ma per molti scopi le parole parlate non servirebbero a causa del loro carattere transitorio; uti­ lizziamo allora determinate impronte permanenti fatte con l'inchio­ stro, con la matita o con il gesso, iscrizioni sulla pietra o sull'ottone o simili. Chiameremo Scrittura qualunque sistema di impronte du­ revoli che siano utili per comunicare. La Parola e la Scrittura sono due specie differenti di Linguaggio. È possibile che esse non siano del tutto distinte l'una dall'altra e che la loro differenza sia più di grado che di essenza, ma per i nostri scopi attuali non è questa differenza ciò che interessa né qualsiasi differenza che sussista fra le varie specie di parola o di scrittura; a noi interessano esclusivamente quelle caratteristiche che sono co­ muni a tutti i diversi metodi di comunicazione e che costituiscono le proprietà essenziali del Linguaggio. Esistono innumerevoli metodi di comunica7ione del pensiero, di fatto quasi ogni cosa nel mondo può essere usata come veicolo di comunicazione e la tecnica mo­ l\c rn a ha c o n t r i b u ito a sviluppare alcune di tali possibilità: corrente c1ett rica, d ischi di grammofono, onde r a di o e così via.

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Tutti questi possibili sistemi devono avere in comune certe pro­ prietà (altrimenti non servirebbero a uno scopo comune) e sono appunto tali proprietà a costituire la natura del linguaggio. Faremo costante uso della parola " linguaggio " nel suo senso più ampio, se­ condo cui essa denota ogni sistema di cose, procedimenti o eventi considerato come mezzo di comunicazione del pensiero. Nella vita quotidiana non troviamo niente di misterioso nel fatto che esiste il linguaggio; ma pur essendo vero che in esso non vi è niente di misterioso, sembra nondimeno strano che i filosofi non vi abbiano posto un po' più di attenzione e che non abbiano mostrato un po' più di curiosità (come sarebbe del resto compito del filosofo) per questo fenomeno, semplice all'apparenza, che tutti noi accet­ tiamo come parte della nostra vita al pari del camminare, del man­ giare o del dormire, ma che non pare sia stato mai adeguatamente compreso. L'intera storia della filosofia avrebbe potuto prendere un corso ben diverso se le menti dei grandi pensatori avessero appro­ fondito quel fatto straordinario che è l'esistenza stessa di un qualcosa come il linguaggio. 2 . Espressione di un fatto con un altro fatto

Non è stupefacente che udendo certi suoni emessi dalla bocca di una persona o guardando qualche impronta nera su un pezzo di carta io possa venire a conoscenza del fatto che su un'isola lontana c'è stata l'eruzione di un vulcano o che il signor Tal dei Tali è stato eletto presidente della tal repubblica? Le impronte sul pezzo di carta e l'eruzione del vulcano sono due fatti del tutto distinti e differenti, all'apparenza senza alcuna somiglianza tra essi, e tuttavia la conoscenza dell'uno mi comunica la conoscenza dell'altro. Come è possibile ciò? Quale particolare relazione sussiste fra i due? Noi diciamo che l'un fatto (il modo in cui sono disposte certe piccole impronte nere) esprime l'altro (l'eruzione del vulcano) e cosÌ la particolare relazione fra essi si chiama Espressione. Per giungere alla comprensione del linguaggio, è necessario studiare la natura dell'Espressione. Come possono certi fatti " parlare di " altri fatti? Qui sta il nostro problema. Non credo si tratti di un problema difficile; ma perfino la più semplice delle questioni merita di essere presa sul serio: sembra invece che la maggioranza dei filosofi abbiano ritenuto questa un po' troppo facile, abbiano dato la risposta avventatamente e non

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siano quindi riusciti a giungere a un'intuizione che, come spero di mostrare, avrebbe potuto impedire la maggior pane della miseria della filosofia tradizionale. 3 . Rappresentazione per mezzo di simboli

Come è possibile che, percependo una cosa, noi acqUisIamo la consapevolezza di un'altra, la quale non è, chiaramente, presente in alcun modo nella prima? La prima risposta che si è tentati di dare a questo interrogativo è la seguente o qualcosa del genere: per comprendere l'Espressione, si potrebbe dire, è sufficiente rimandare al semplice fatto della rap­ presentazione, ossia a una sona di corrispondenza fra due cose che noi stabiliamo arbitrariamente convenendo che l'una starà per l'altra, che la sostituirà in un dato contesto, che servirà come segno o sim­ bolo per l'altra, ovvero, in breve, che significherà l'altra. Come per un bambino che gioca un pezzo di legno può signifi­ care una nave, o per un generale impegnato in una battaglia una coppia di tratti sulla carta può rappresentare un esercito in movi­ mento, così le nostre parole e tutti i segni che per esse impieghiamo sono simboli che, in pane per arbitrario accordo in pane per uso accidentale, stanno per le cose delle quali sono simboli. Non è natu­ rale supporre che, allo stesso modo, i nostri enunciati o le nostre proposizioni stiano per i fatti che essi esprimono? A un bambino che impara a parlare si deve insegnare questa pre­ ordinata corrispondenza fra parole e mondo: ciò sembra costituire tutto quanto è necessario per metterlo in grado di usare quel sim­ bolismo che si chiama la sua lingua madre. Egli diventa capace di esprimere i suoi pensieri e, d'altro canto, la sua espressione può venir intesa perché sia il bimbo sia coloro cui egli parla conoscono a memoria qual è la cosa particolare rappresentata da ogni panico­ lare simbolo. In tal modo la possibilità di rappresentare cose per mezzo di segni sembra dar conto della possibilità del linguaggio, e pare che non occorra nient'altro per spiegare la natura dell'espressione. Ma una disamina appena più accurata del problema ci convincerà facilmente che si tratta di una spiegazione ben lungi dall'essere soddisfacente. Da e ssa non ci deriva alcun aiuto alla comprensione di quella pani­ colare proprietà se n z a la quale un simbolismo non può essere un l i n g l l aggi o che " es p ri m a " effettivamente qualunque cosa.

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4. L'espressione contrapposta alla rappresentazione

Se vogliamo studiare una lingua, cominceremo certamente dal­ l'apprenderne iI vocabolario, ossia ciò che le sue parole significano. Questo è necessario, ma non sufficiente. Dobbiamo infatti studiarne anche la grcrmmatica. Ma non impariamo forse la grammatica pro­ prio nello stesso modo in cui impariamo il vocabolario, e cioè ap­ prendendo quale particolare costruzione corrisponda a un panico­ lare fatto? In un certo senso potrebbe essere così, ma prima di trarre ulteriori conclusioni, faremo bene a osservare che un'indagine psico­ logica del modo in cui si apprende una lingua non può esserci di alcun aiuto per comprendere la natura del linguaggio in generale. Al filosofo interessa esclusivamente l'essenza o la possibilità del­ l'espressione, mentre lo psicologo deve assumere come data tale possibilità e mostrare semplicemente come se ne avvale un bambino che sta imparando. In realtà l'Espressione è completamente diversa dalla mera Rap­ presentazione, è molto di più e non può essere da questa derivata. Il vero e proprio parlare è qualcosa di completamente nuovo ri­ spetto alla semplice ripetizione di segni di cui è stato mandato a memoria il significato. Un pappagallo emette enunciati significanti, ma non " parla " effettivamente, nel senso vero e proprio della parola. f: vero, naturalmente, che il linguaggio è composto di parole e che le parole sono simboli nel senso che abbiamo precisato, ma ciò non spiega la possibilità dell'espressione. Se il linguaggio non fosse che un sistema di segni aventi una significazione fissa, non potrebbe mai essere in grado di comunicare fatti nuovi. Se la sua funzione consistesse esclusivamente nel rappresentare pensieri o fatti per mezzo di simboli, esso potrebbe rappresentare soltanto quei pensieri o fatti cui è stato assegnato un segno in precedenza; un fatto nuovo sarebbe quello cui nessun simbolo è stato assegnato, sarebbe perciò impossibile comunicarlo. Si dovrebbero avere tanti segni (nomi) quanti sono i fatti; se un fatto nuovo si verificasse, esso non po­ trebbe essere menzionato perché non esisterebbe un nome con cui chiamarlo. Questa situazione è chiarita assai bene dal cosiddetto " linguag­ gio " di ceni animali, come le api e le formiche. I loro mezzi di comunicazione non sono assolutamente un linguaggio nel nostro

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senso della parola, ma costituiscono solo un certo numero di segni o segnali, ognuno dei quali sta per una particolare classe di fatti, come per esempio " C'è del miele ", " C'è un pericolo ", e così via. Nel caso del pappagallo ci troviamo di fronte, il più delle volte, persino a qualcosa di meno, essendo di norma le sue parole mere ripetizioni meccaniche di suoni. I segnali delle api e delle formiche rappresentano o indicano certi accadimenti, non li esprimono: sono limitati semplicemente a questi particolari generi di eventi e non possono rappresentare nient'altro. AI contrario, la caratteristica essenziale del linguaggio consiste nella sua capacità di esprimere fatti, il che comporta la capacità di esprimere nuovi fatti, ossia, in realtà, qualsiasi fatto. Uno scolaro apre la sua copia dell'Anabasi di Senofonte e, dalla lettura del primo enunciato del libro, apprende il fatto per lui, poniamo, del tutto nu o vo che il re Dario aveva due figli. Lo scolaro sa quale fatto particolare sia espresso da quel particolare enunciato, sebbene egli non si sia mai imbattuto in quell'enunciato in precedenza e certo non sia stato prima a conoscenza del fatto. Pertanto egli non può aver appreso che l'uno corrisponde all'altro. Se ne conclude di neces­ sità che la proposizione e il fatto che essa esprime debbono corri­ spondere l'una all'altro in modo naturale o essenziale, essi devono avere qualcosa in comune. Ora è proprio questo tratto in comune che noi dobbiamo scoprire. Pressoché ogni giorno della nostra vita noi apprendiamo i fatti più importanti guardando file di piccole impronte nere di una va­ rietà di sagome assai limitata, e questa può ancora essere ridotta a una stupefacente semplicità: l'alfabeto Morse; esso riesce a espri­ mere qualsiasi pensiero che si sia formato o che mai si formerà nella mente umana per mezzo dei più semplici fra i segni: un punto e una linea. Come può avvenire tutto ciò? che cosa rende possibile l'espres­ sione? Una prima risposta sembra presentarsi senza troppa difficoltà: evidentemente è la disposizione il peculiare ordine o combinazione di segni a costituire l'essenza del linguaggio. � a causa del fatto che un limitato numero di simboli può essere disposto in un numero illimitato di modi differenti che qualunque insieme di simboli può essere usato per esprimere qualunque fatto. lo potrei usare, per esempio, una sedia nella mia stanza come mezzo per dire qualunque cosa volessi . Non dovrei che sce gl ie re un certo numero di posizioni

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differenti della sedia nella stanza e convenire che ognuna di esse corrisponda a una lettera dell'alfabeto. In virtù di tale accordo, io avrò costruito un nuovo linguaggio che consisterà nel mutare la posizione della sedia; spostandola nella stanza, io sarò in grado di esprimere tutte le opere teatrali di Shakespeare con la stessa perfe­ zione della migliore delle edizioni a stampa. Il medesimo insieme di segni che è stato usato per descrivere u n certo stato d i cose, con una ridisposizione può essere usato per de­ scrivere uno stato di cose completamente differente in modo tale che noi conosciamo il significato della nuova combinazione senza che ci sia stato spiegato. Quest'ultima proprietà è il punto impor­ tante che distingue l'Espressione dalla mera Rappresentazione : l'unico punto essenziale. Se la nuova disposizione dei vecchi segni non fosse che un nuovo simbolo, essa non significherebbe niente prima che le venisse attri­ buita una nuova significazione per mezzo di una speciale definizione; un'espressione, invece, esprime il suo proprio significato, non le può essere attribuito un significato post festum. Chiariamo con un esem­ pio questa differenza. Se io so che il segno M sta per un certo suono, ciò costituisce una mera rappresentazione, e pertanto il medesimo segno rovesciato W non avrà alcuna significazione fintantoché qual­ cuno non ci abbia spiegato che, grazie a una convenzione arbitraria, questo W rappresenta un certo altro suono ( v doppio); cosÌ in questo caso abbiamo semplicemente formato un nuovo segno da uno preesistente. Facciamo adesso l'esempio di una vera e propria Espressione. Se comprendiamo il significato della proposizione " l'anello sta sopra il libro ", e ne ridisponiamo le parti cosÌ da formare l'enunciato " il libro sta sopra l'anello ", noi comprendiamo il significato della se­ conda proposizione immediatamente, senza alcuna spiegazione. Non è necessario attendere che le venga assegnato un significato, essendo l'enunciato stesso a determinare il significato. Se conosciamo la situazione descritta dalla prima proposizione, conosciamo necessa­ riamente anche il fatto descritto dalla seconda; nessun dubbio o ambiguità sono possibili. Ripetiamo: la significazione di un simbolo semplice (un nome) deve ricevere una spiegazione separata, il significato di un'espressione (una proposizione) si spiega da sé, basta che si conoscano il voca­ bolario e la grammatica del linguaggio.

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5 . Struttura e materiale

Fin qui abbiamo trovato che la possibilità dell'espressione sembra dipendere dalla possibilità di disporre i segni in modi diversi, ossia, in altre parole, che il tratto essenziale dell'espressione è l'Ordine. II parlare si basa su un ordine temporale dei segni, lo scrivere su un ordine spaziale. Quando leggiamo ad alta voce un enunciato scritto, l'ordine spaziale di questo viene tradotto nell'ordine temporale del­ l'enunciato parlato. La possibilità di una tale traduzione sta a dimo­ strare che il particolare carattere spaziale o temporale di linguaggi differenti non è rilevante per l'espressione ; l'ordine che è per essa essenziale deve essere di una specie più generale e astratta, deve essere un qualcosa che è proprio sia del parlare sia dello scrivere, sia invero di ogni altro genere di linguaggio. A essere necessario non· è l'ordine spazi aIe, né quello temporale, né qualsiasi altro ordine particolare, bensì proprio l'Ordine in generale. E poiché è il genere di cose di cui si occupa la Logica, possiamo chiamarlo Ordine Logico o semplicemente Struttura. Vn unico e medesimo fatto può essere espresso in mille linguaggi differenti, e le mille differenti proposizioni avranno tutte la mede­ sima struttura, e il fatto che esse esprimono avrà, pure, la medesima struttura, perché è appunto per questa ragione che tutte quelle pro­ posizioni esprimono questo particolare fatto. In linea di principio, un linguaggio deve essere in grado di esprimere qualunque fatto con le sue proposizioni, qualunque cosa possa avvenire deve poter essere espressa dal linguaggio. Per descrivere il mondo dobbiamo essere in grado di parlare di tutti i fatti possibili, compresi quelli che non esistono affatto dato che il linguaggio deve essere in grado di negare la loro esistenza. Si potrebbe pensare che dicendo ciò stiamo facendo sul mondo asserzioni a priori alquanto audaci. Infatti ciò che si è detto non implica forse che tutte le cose o eventi possibili del mondo debbono conformarsi a certe condizioni, debbono possedere un certo genere di ordine che ci consentirà di coglierli per mezzo delle nostre espres ­ sioni? E questo non equivarrebbe a una presupposizione di carattere metafisico che non potrebbe mai venir giustificata? È della massima importanza comprendere che, nel sostenere che tutti i fatti debbono avere una struttura, noi non presupponiamo niente a loro riguardo, diciamo solo che i fatti sono fatti, il che,

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come sarà probabilmente ammesso, è dir niente su di essi. Alcuni filosofi hanno discusso la possibilità che il mondo sia " irrazionale ", ciò che probabilmente significa che non potremmo averne cono­ scenz.a, che non potremmo formare su di esso alcuna proposizione vera. Tali filosofi potrebbero obiettare al punto di vista da me espresso: Come sai che ogni cosa ha una struttura logica? Non è possibile che il mondo, o parte di esso, sia del tutto privo di ordine? A ciò rispondo che questa domanda nasce da un fraintendimento. L'ordine di cui parlo io è di natura cosÌ generale che sarebbe privo di significato parlare di qualcosa che non lo possieda. Dire che un fatto ha una struttura equivale a non asserire niente su di esso ; è una mera asserzione tautologica. Ciò diverrà più chiaro andando avanti; ma credo sia ammissibile fin dall'inizio che la possibilità di descrivere o esprimere un fatto non sia da considerare un'autentica " proprietà " che esso può possedere o no. Sembra impossibile parlare di Forma e di Struttura senza impli­ care l'esistenza di qualcosa che abbia struttura o forma. Sembra naturale chiedere : Che cos'è il Materiale che possiede una certa struttura? Che cos'è il Contenuto che corrisponde alla Forma? Molto presto cominceremo a nutrire qualche apprensione sul fatto che abbia senso una domanda di tal sorta, ma per il momento rimande­ remo questi dubbi a più tardi e cercheremo di capire la Struttura tentando di distinguerla da ciò che ha una struttura. Una distin­ zione del genere appare non solo plausibile, ma persino necessaria dato che i nostri esempi sembrano mostrare che il medesimo mate­ riale possa assumere molte strutture differenti, o persino qualsiasi struttura; e che la medesima struttura possa appartenere a qualsiasi materiale, o perlomeno a un numero qualsiasi di differenti materiali. Una pagina di musica con le sue parole e le sue note è quanto di più differente si possa immaginare dall'incisione su di un disco di grammofono, ed è pure differente dai movimenti della laringe di chi canta o da quelli delle dita di un pianista; e nondimeno tutte queste cose possono essere espressione perfetta di una e medesima canzone, il che significa che la struttura della melodia (e di quanto altro costituisce la " canzone ") deve, in qualche modo, essere conte­ nuta in esse. D'altro canto, va da sé che, per esempio, un disco di grammofono può essere considerato un materiale in grado di espri­ mere qualunque cosa possa essere espressa e cioè in grado di assu­ mere qualunque possibile struttura. La differenza fra struttura e materiale, fra forma e contenuto è,

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approssimativamente, la differenza fra ciò che può essere espresso e ciò che non può essere espresso. Non si sottolineerà mai abba­ stanza la fondamentale importanza che ha per la filosofia ciò che si indica vagamente con questa distinzione. Eviteremo tutti i tipici errori della filosofia tradizionale se ci imprimeremo nella mente che l'inesprimibile non può essere espresso, neppure dal filosofo. 6. Comunicabilità della struttura

Abbiamo visto che l'Espressione serve come strumento per la Comunicazione e che quest'ultima è resa possibile dalla prima. Indub­ biamente, un pensiero non può essere comunicato senza che prima sia stato espresso; possiamo perciò considerare la comunicabilità come un criterio dell'esprimibilità, ossia della struttura, e gettare un po'. di luce sulla distinzione tra forma e contenuto esaminando qual­ che caso particolare di comunicazione. Ecco una foglia verde sulla mia scrivania. Le mie dita la toccano, i miei occhi la vedono, ho consapevolezza della sua sagoma, del suo colore, del suo peso approssimativo e cosÌ via. Voi, che non vi trovate nella mia stanza, non siete consapevoli di nessuna di queste proprietà, ma mi è possibile comunicarvele descrivendovi la foglia. La descrizione esprime le sue proprietà; com'è che ciò avviene? ci sono limiti alla descrizione ? Da quanto è stato detto in precedenza, potremmo essere indotti a pensare che debbano esistere due generi di proprietà: quelle che possono essere descritte e comunicate, e quelle che non lo possono; le prime costituirebbero la struttura della foglia, le altre il suo materiale o contenuto. Ma ciò sarebbe errato perché, in un certo senso, di tutte le proprietà della foglia è possibile fornire una descrizione completa, e non sarà quindi in questo semplice modo che arriveremo a distinguere tra forma e contenuto. Si descriveranno le dimensioni della foglia fornendo le sue varie misure, espresse, per esempio, in centimetri; si comunicheranno in­ formazioni sulla sagoma menzionandone le somiglianze con la sa­ goma di qualche oggetto ben conosciuto (" a forma di cuore " ecc.), oppure disegnandone i contorni , il che, se si parla in termini teorici, p o t re bbe essere sostituito dall'equazione matematica che rappre­ senta la curva del contorno. In modo analogo, sarà possibile descri­ verne i l col ore s er v e n do s i di certe combinazioni di parole come " un vcn\c scu ro gi a l l ognol o ", " un po' più scuro dell'abito verde della

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tal Madonna di Raffaello " e così via; e se ciò non sembrasse suffi­ cientemente chiaro e preciso, potrei specificare le esatte circostanze fisiche nelle quali si produce una luce di quel panicolare verde ; oppure, infine, potrei mandarvi un pezzo di cana con una macchia verde scrivendo sotto: " Questo colore è esattamente come quello della foglia che si trova sulla mia scrivania. " In tal modo potrei andare avanti e rispondere a tutte le domande che mi si potrebbero rivolgere sulla foglia, nessuna esclusa. Tutte le mie risposte, tutte le mie descrizioni della foglia sono proposizioni con cui mi è possibile comunicare tutto ciò che cono­ sco sulla foglia. La mia conoscenza è conoscenza di un ceno insieme di fatti e, se le nostre precedenti argomentazioni non erano errate, le mie proposizioni esprimono tali fatti in quanto ve ne comunicano la struttura logica e nient'altro che questo. La maggior parte delle persone troveranno difficile comprendere che così stanno le cose; saranno inclini piuttosto a ritenere che le mie descrizioni contengano informazioni sul " materiale " non meno che sulla struttura dei fatti che esse esprimono. Perfino le asserzioni concernenti la sagoma e le dimensioni della foglia non sembrano essere puramente formali nel senso spiegato, perché, sebbene lo " spazio " possa essere a buon diritto considerato come una " forma " delle cose naturali o eventi, la struttura spaziale non è essa stessa una struttura logica; e infatti come potrebbe essere " spaziale " se non in vinù del suo contenuto? Se si descrivesse la sagoma della foglia con l'equazione della sua curva di contorno, si ammetterebbe probabilmente che la mera equazione, in quanto tale, non contiene niente di intrinsecamente spaziale e che non può penanto informare che sulle proprietà logiche della curva. Ma, d'altro canto, l'equa­ zione in sé non comunica in ogni caso niente; essa raffigura le linee di contorno della foglia solo se ci si riferisce a, e ci si serve di, una spiegazione dei termini che compongono la formula; i termini devono essere interpretati come significanti delle quantità spaziali (coordinate), ed è per tale via che il contenuto " spazio " sembra entrare nella descrizione : in modo indiretto, ma non meno essen­ ziale di quanto appaia avvenire quando effettivamente ne riprodu­ ciamo il contorno in un disegno a matita. Date queste circostanze, sembra difficile comprendere e dimostrare la nostra affermazione che è possibile comunicare soltanto la struttura e che il contenuto è inesprimibile; ciò non sembra vero neppure per la forma spazi aie della nostra foglia, com'è possibile che sia vero per il suo colore ?

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Poiché avremo occasione più avanti di parlare di forma spa­ zia le, possiamo rimandare la considerazione di questo punto e limi­ tarci all'analisi di espressioni che vertono sulla " qualità ", cioè, nel nostro caso, sulla verdità della foglia. Com'è che queste espressioni comunicano il colore e in che senso è vero che esse non ne comu­ nicano che la struttura? che cosa intendiamo per " struttura " di una qualità? 7 . Struttura e relazioni interne

Esaminiamo anzitutto le espressioni verbali del nostro linguaggio ordinario, cioè gli enunciati e le parole che li compongono me­ diante i quali io fornisco una descrizione del nostro particolare co­ lore verde. È facile scoprire un tratto essenziale comune a tutti quanti: essi assegnano al " verde " un certo posto entro un ampio sistema di sfumature, ne parlano in quanto appartenente a un certo ordine di colori. Per esempio asseriscono che è un verde brillante, o un verde smagliante o un verde tendente al blu, oppure che è simile a questo, o meno simile a quello, o scuro come quello, e via discorrendo; in altre parole, essi tentano di descrivere il verde comparandolo ad altri colori. Fa parte, evidentemente, dell'intrinseca natura del nostro verde occupare una posizione definita in una gamma di colori e in una gradazione di luminosità, nonché il fatto che tale posizione sia determinata da relazioni di somiglianza e dissomiglianza rispetto ad altri elementi (sfumature) di tutto il sistema. Le relazioni che vigo no fra gli elementi del sistema dei colori sono, ovviamente, relazioni interne, poiché si usa chiamare interna una relazione quando questa mette in relazione due (o più) termini in modo che questi non possono esistere senza la relazione che inter­ corre tra essi; ossia, in altre parole, se la relazione è implicata neces­ sariamente dalla natura stessa dei termini. Così, tutte le relazioni tra numeri sono interne : è nella natura del sei e del dodici che l'uno sia la metà dell'altro e non avrebbe senso supporre che possa trovarsi qualche caso in cui il dodici non sia due volte il sei. In modo ana­ log o , non è una proprietà accidentale del verde quella di disporsi tra il gi a l l o e il blu; al contrario, per esso è essenziale essere in relazione con il blu e con il giallo in questa particolare maniera, e un colore che non fosse in questa stessa relazione con essi non potrebbe essere d e tt o v e rde, a m e n o che decidessimo di dare a questa parola un signi ficati) dcI tutto n u ovo. In tal modo o g n i qualità (per esempio

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quelle legate alle sensazioni: non soltanto il colore, ma anche i l suono, l'odore, i l calore ecc.) è interconnessa c o n tutte le altre per mezzo di relazioni interne che ne determinano il posto entro il sistema delle qualità. È solo questa circostanza che intendo indicare quando dico che la qualità ha una certa definita struttura logica. Servirà a chiarire meglio la questione spendere qualche parola sulle relazioni " esterne ". La relazione che vige tra la foglia e la scrivania è di tipo " esterno " perché per la foglia non è in alcun modo essenziale stare lì sopra, così come non fa parte della natura della scrivania aver sopra di sé la foglia. La superficie della scri­ vania potrebbe benissimo essere vuota, e la foglia potrebbe trovarsi da qualche altra parte. Se avviene che la foglia sia del medesimo colore di un tampone di carta assorbente che le sta vicino, tale somiglianza di colore fra i due oggetti è una relazione esterna, poi­ ché la carta assorbente potrebbe benissimo essere stata tinta di un colore differente. Noterete questa importante differenza: la rela­ zione di somiglianza fra i due oggetti colorati è esterna, ma la rela­ zione di somiglianza fra i particolari colori in quanto tali è interna. È chiaro che nel parlare di colori o di altre " qualità " è possibile riferirei ad essi solo come proprietà esterne di qualcosa: dobbiamo definire un certo sapore come la dolcezza dello zucchero, un certo colore come il verde di un prato, un certo suono come il suono prodotto da un diapason avente certe caratteristiche e così via. Diviene evidente, in questo modo, che le proposizioni esprimono fatti del mondo parlando di oggetti e delle loro proprietà e rela­ zioni esterne. E sarebbe un grave fraintendimento delle nostre asser­ zioni se si ritenesse che le proposizioni possano parlare di strutture logiche o esprimerle nel medesimo senso in cui noi parliamo di oggetti ed esprimiamo fatti. A rigor di termini, nessuno dei nostri enunciati sulla foglia verde esprime la struttura interna del verde; nondimeno questa, in certo modo, è rivelata dagli enunciati o - per usare un termine di Wittgenstein è mostrata da essi. La struttura del " verde " mostra sé stessa nelle varie possibilità di usare la parola " verde ", è rivelata dalla sua grammatica. Un linguaggio non esprime ovviamente la sua grammatica, ma nell'uso del linguaggio essa mo­ stra sé stessa. Tutte le asserzioni che possono essere fatte in qualunque lin­ guaggio sul colore della nostra foglia parlano soltanto delle sue proprietà e relazioni esterne. Ci dicono dove trovarlo (ossia, quale posizione esso occupa rispetto ad altre cose), come si disti ngue dal -

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colore di altri oggetti, in quali circostanze può essere prodotto, e cosÌ via - in altre parole, esprimono certi fatti entro i quali il verde della foglia entra come parte o elemento. E il modo in cui la parola " verde " ricorre in questi enunciati rivela la struttura interna di quella parte o elemento. 8. lnesprimibilità del contenuto

Se è vero che gli enunciati verbali, le proposizioni del nostro linguaggio parlato, non possono comunicare null'altro che la strut­ tura logica del colore verde, sembra allora che non siano in grado di esprimere la cosa più importante, e cioè quella ineffabile qualità di verdità che pare costituire proprio la sua natura, la sua essenza vera, in breve, il suo Contenuto. Tale contenuto, ovviamente, è ac­ cessibile solo a esseri provvisti di capacità visiva e del potere di percepire i colori; esso non potrebbe in alcun modo venir comu­ nicato a chi è cieco dalla nascita. Concluderemo forse che costui non può comprendere alcuna delle nostre asserzioni sul colore della foglia, e che dunque esse sono per lui affatto prive di significato dato che egli non potrà mai possedere il contenuto la cui struttura le asserzioni stesse rivelano? Una conclusione del genere non sarebbe giustificata. Al contrario, le proposizioni che descrivono la verdità possono comunicare al cieco tutto quel che comunicano a chi vede, e precisamente: che vi è qualcosa che possiede una certa struttura o che appartiene a un certo sistema di relazioni interne. Siccome il Contenuto è essenzial­ mente incomunicabile per mezzo del linguaggio, esso non può essere comunicato a un uomo che vede né più né meglio che a un cieco. Voi direte che, ciò nonostante, c'è un'enorme differenza fra i due : colui che vede comprenderà le proposizioni relative al colore in un modo in cui il cieco non è in grado di comprenderle ; e aggiungerete che il primo modo è l'unico corretto e che il cieco non potrà mai cogliere il " vero significato " di quelle proposizioni. Nessuno può negare la differenza fra i due casi, ma esaminiamone attentamente la reale natura. La differenza non è dovuta a un'im­ possibilità di comunicare all'uno qualcosa che potrebbe essere co1I1l1nicato all'altro, bensÌ è dovuta al fatto che si ha nei due casi una d i (fe rente interpretazione. Ciò che chiamate la " comprensione del v e ro sign i ficato " è un atto di interpretazione che potrebbe essere d escri tto c o m e il riem pimento di una cornice vuota: la struttu ra

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comunicata è riempita di contenuto dall'individuo che comprende. Il materiale viene fornito dall'individuo stesso, derivato dalla sua esperienza. Chi vede riempie con un materiale che proviene dalla sua esperienza visiva, ossia, un materiale che ha acquisito con l'uso degli occhi, mentre il cieco riempirà la cornice con qualche altro " contenuto ", ossia con un materiale che è stato acquisito per mezzo di qualche altro organo di senso, come l'orecchio o certi organi di senso cutanei. (Sono possibili interpretazioni differenti perché, come abbiamo fatto notare prima, qualsiasi materiale può assumere qualsiasi strut­ tura. È risaputo che psicologi e fisiologi cercano di rappresentare il sistema dei colori con una raffigurazione spaziale, per esempio un doppio cono: ciascun punto del cono corrisponde a una particolare sfumatura di colore, e le relazioni di somiglianza fra i colori sono rappresentate da relazioni di vicinanza spaziale fra i punti. Tutto lo schema consiste semplicemente nella costruzione di un sistema di punti le cui relazioni spaziali hanno la medesima struttura delle relazioni interne fra i colori. Sappiamo che un cieco ha una per­ fetta familiarità con la struttura dello " spazio " che è per lui un certo ordine di sensazioni tattili o cinestetiche. Aiutandosi con que­ sto materiale, egli è in grado di costruire qualsiasi struttura spaziale, e perciò anche la struttura del sistema dei colori, perché la si può rappresentare con una raffigurazione spaziale come quella del doppio cono o altri simili espedienti.) La descrizione di un oggetto colorato non comunica contenuto a nessuno, che sia cieco o vedente, ma lascia a questi il compito di provvedersene traendolo dalla propria scorta personale. Voi proba­ bilmente direte che solo colui che vede potrà procurarsi effetti­ vamente il " colore ", laddove un cieco si procurerà qualche altro contenuto, e asserirete che costui, per quanto pensi di comprendere perfettamente bene la descrizione, se ne troverà in realtà assai lon­ tano perché la " vera " interpretazione deve essere data in termini di " colori " e niente di diverso può prenderne il posto. A ciò rispondo che avete perfettamente ragione se con " colore " intendete qualcosa che ha a che fare con la visione, e cioè comporta l'uso di certi particolari organi di senso, ossia degli " occhi ". Voi avete la facoltà di dire, in virtù di una definizione, che un'interpre­ tazione sarà ammessa come corretta solo nel caso che una persona sia capace di usare i propri occhi in modo normale. Ciò sarebbe del tutto legittimo. Se vi chiedessi se il signor X è in grado di compren-

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dere propriamente la descrizione, poniamo, di un dipinto a colori oppure no, voi potreste sottoporlo a certi esperimenti (consistenti nell'osservare le sue reazioni ai colori presentati davanti ai suoi occhi) e i risultati di tali esperimenti vi consentirebbero di rispon­ dere alla mia domanda con un sì o con un no (in quest'ultimo caso dichiarereste che il signor X è cieco oppure daltonico). Non c'è niente da dire contro una procedura del genere che, come sappiamo, è realmente usata in alcuni test, ma se voi pensate che essa si basi su qualcosa di più di una definizione arbitraria, seppure molto plausibile, non posso essere d'accordo con voi. So­ spetto che abbiate una certa inclinazione a ragionare più o meno nel modo seguente: " Se osservo un uomo che si serve degli occhi allo stesso modo in cui io uso i miei, sono giustificato nel ritenere che egli esperisca nella sua coscienza esattamente lo stesso tipo di sen­ sazioni che esperisco io quando ho sotto gli occhi i medesimi og­ getti, per modo che egli sarà in grado di riempire una struttura data con il medesimo contenuto che io ho in mente quando cerco di comunicargli ciò che ho visto. Debbo necessariamente conside­ dare la sua interpretazione come l'unica corretta, perché lui soltanto può usare il contenuto giusto per essa. " Secondo questa argomentazione, le sensazioni visive sono non soltanto qualcosa che ha cene relazioni con gli organi di senso (ov­ vero, ciò che sarebbe lo stesso, con certi centri cerebrali) ma qual­ cosa che è costituito di contenuto, e questo contenuto è, evidente­ mente, considerato l'intrinseca natura di certi " stati di coscienza". Vedremo poi che tutto questo ragionamento in effetti è privo di si­ gnificato; ma prima di passare a mostrare ciò, resteremo per un po' su un piano di discorso in cui frasi di questa sorta sembrano avere qualche senso. Ciò comporterà, da pane nostra, l'uso di un linguaggio scorretto ma, per amore di chiarezza, non ce ne faremo spaventare, aggiungendo poi a tempo debito le necessarie correzioni. L'argomentazione di cui sopra, o qualcosa di simile, compare in molte discussioni metafisiche e dovremo spiegare, più avanti, che essa è da considerare come l'argomentazione tipica della metafisica. I meta fisici che se ne servono le attribuiscono il carattere di un'infe­ renza per analogia e sono pertanto disposti ad ammettere che la conclusione non è assolutamente certa. Dicono che è solo " alta­ mente probabile " che le percezioni visive di due individui abbiano praticamente il medesimo contenuto quando questi guardano un me­ d l' s i m o ogge tto e posse ggono entrambi occhi, nervi ottici e centri

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cerebrali in buone condizioni. Quanto a noi, ci dichiariamo soddi­ sfatti di questa ammissione e richiamiamo l'attenzione del nostro filosofo sul fatto che, stando a lui, esiste una pur debole possibilità che il contenuto della percezione visiva di una persona sia nondi­ meno differente da quello di un'altra. Egli dovrebbe ammettere che il contenuto che si presenta nella mente del primo individuo quando questi guarda qualcosa potrebbe essere simile al, o addirittura lo stesso del, contenuto delle percezioni che sorgono nella mente del secondo individuo mentre questi ascolta qualcosa. In altri termini: ciò che la prima persona chiama " colore " sarebbe chiamato " suono " dalla seconda, se questa potesse esperire il contenuto della prima. Se la seconda potesse entrare all'improvviso nella mente della prima persona, esclamerebbe: " Oh, in questo momento sto ascoltando con gli occhi e vedendo con gli orecchi ! " (Il lettore ricorderà che sto parlando come se avesse realmente un significato la prima argo­ mentazione del metafisico.) Ora, dato che un tale scambio di personalità non può in alcun modo verificarsi (e questa impossibilità non è solo empirica o pra­ tica, ma, come comprenderemo più avanti, anche logica, ossia l'as­ sunzione non ha senso), la supposta differenza di contenuto non potrebbe mai venire alla luce finché assumessimo che l'ordine e la struttura di tutte le percezioni restano gli stessi. Questa assunzione significa, infatti, che tutte le reazioni con cui si potrebbero control­ lare le facoltà percettive (emissioni di discorso incluse) sarebbero èsattamente le stesse per i due individui. Entrambi direbbero di star vedendo con gli occhi e ascoltando con gli orecchi, chiamerebbero gli oggetti e le loro qualità con i medesimi nomi, i loro giudizi su tutte le somiglianze e differenze di suoni, colori, dimensioni ecc. si accorderebbero sotto ogni rispetto, in breve, essi si intenderebbero tra loro perfettamente. E tuttavia, nonostante tutto ciò, il contenuto di ogni loro esperienza e di ogni loro pensiero sarebbe assoluta­ mente e incomparabilmente differente (sto sempre usando il lin­ guaggio del metafisico), essi starebbero vivendo, quanto al conte­ nuto, in due mondi completamente differenti. Vediamo dunque che può esservi comprensione completa tra individui perfino quando non vi è somiglianza fra i contenuti delle loro menti, e ne concludiamo che comprensione e significato sono del tutto indipendenti dal Contenuto e non hanno niente a che fare con esso.

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Questo risultato resta valido (per quanto dovrebbe essere for­ mulato in linguaggio più corretto) ; vediamo che ovunque, nei nostri enunciati, compaiono parole come " colore ", " suono ", " sentimento " ecc., queste non possono mai stare per il Contenuto. Esse hanno significato solo nella misura in cui stanno per certe strutture. Le strutture corrispondenti alla parola " colore " ricorrono, come sap­ piamo dall'esperienza, in concomitanza con l'uso degli organi chia­ mati " occhi ". Le persone prive di questi organi o che non hanno la capacità di servirsene nel modo usuale sono dette " cieche " o " daltoniche " ecc. E se noi, per esempio, affermiamo che i daltonici non sono in grado di comprendere bene una proposizione sui colori, affermiamo semplicemente che certe strutture non compaiono nella loro esperienza - un fatto, questo, rivelato dall'insieme delle loro risposte -, ma non affermiamo alcunché circa la loro incapacità a riempire strutture con il " giusto contenuto ". Un cieco, nella misura in cui è realmente capace di costruire strutture identiche a quelle del sistema dei colori, comprende le comunicazioni relative alle cose colorate, e in questa misura è in possesso della forma logica dei colori. Egli non è in grado di far uso della sua conoscenza nello stesso modo di una per­ sona normale - egli non può, per esempio, essere un pittore ma ciò non dipende dalla mancanza di qualche contenuto partico­ lare, bensì dal fatto che le differenti strutture che svolgono parti importanti nella sua vita non hanno tra loro le medesime connes­ sioni e relazioni che esistono nella persona che vede. Non dobbiamo cadere nell'errore di dire che le cose stanno così perché l'apparato ottico del cieco (occhi e centri ottici) non funziona a dovere; in­ fatti, in realtà, l'asserzione che nelle sue facoltà percettive vi sia qualcosa che non va è identica all'asserzione che le strutture le quali determinano il carattere generale della sua vita cosciente siano con­ nesse o non lo siano in una maniera che differisce distintamente dalla vita degli esseri umani normali. Quest'ultima asserzione po­ trebbe essere formulata più brevemente dicendo che la struttura de l mondo dell'esperienza rivela, nei due casi, una tipica e ben di­ stint a differenza. Tutti questi asserti, nonostante le parole differenti con cui vengono formulati, hanno esattamente lo stesso significato. In tal modo ci troviamo sempre di fronte al medesimo risultato: ovunquc possa sembrare sulle prime necessario o possibile parlare di cont e n u to, u n a disamina più accurata mostra che invece è im­ possi h i l e e non necessa ri o. Qua l u n quc cosa possiamo dire e ancor -

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più - qualunque cosa possiamo voler dire, la diciamo sempre senza far menzione del contenuto. Il contenuto non può essere menzio­ nato, è inesprimibile. Se obiettate che in questo stesso enunciato e in tutte le spiega­ zioni date in queste pagine io stesso ho continuamente cercato di dire qualcosa sul contenuto, potrei ricordarvi che adesso ho usato deliberatamente un linguaggio scorretto sperando di convincervi, alla fine, che non sono colpevole di una contraddizione cosÌ grossolana. Non avrebbe senso considerare l'inesprimibilità del contenuto come una meravigliosa scoperta o una nuova e profonda intuizione. Sono convinto, al contrario, che nessuno è seriamente disposto a negarla. Ciò può anche non essere dichiarato expressis verbis, m a è rivelato dalle nostre azioni quotidiane. Perfino l'uomo della strada non cercherebbe di spiegare a un cieco l'essenza del colore. L'uomo della strada sa che il contenuto che, per esempio, egli ritiene la parola " paura " indichi non si può comunicare, ma si deve apprendere con l'esperienza di essere spaventati (una delle favole dei Grimm tratta dell'argomento), e cosÌ via. È importante notare che egli sa che comunicare o esprimere il contenuto della parola " paura " è impossibile non già perché abbia provato a farlo in vari modi fallendo ogni volta, ma perché non può neppure tentare; egli non riesce a vedere alcun modo possibile di farlo; egli si trova nelle condizioni di un uomo cui è stato chiesto di tradurre un enunciato in una lingua della quale non ha esperienza: non si tratta di un'impossibilità empirica, bensÌ logica. 9. Perché il Conterruto è inesprimibile?

Non mi è difficile immaginare che dei principianti (ma a ben pensarci, in filosofia si può essere qualcosa di più che principianti? ) possano ancora nutrire dubbì riguardo alle nostre affermazioni, e sarebbe naturale che chiedessero : " Tu fai delle asserzioni molto ca­ tegoriche, ma devono essere proprio vere? Come fai a sapere che, dopo tutto, il contenuto non possa essere espresso quando ci si accosti al problema nella maniera appropriata? Perché non si po­ trebbero scoprire in futuro i mezzi idonei? Seppure impossibile per gli esseri umani, la cosa non potrebbe riuscire a esseri dotati di un più alto potere intellettuale ? Forse è tutto un errore; non po­ trebbe un miglior filosofo portarci a una diversa convinzione ? Dov'è insomma la tua dimostrazione definitiva? "

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A ciò rispondo che non c'è bisogno di nessuna dimostrazione, dato che io non ho asserito niente che possa essere creduto o messo in dub­ bio. La nostra " affermazione " relativa all'esprimibilità del Contenuto è un semplice truismo, può essere considerata una tautologia; e una tau­ tologia, a rigor di termini, non asserisce alcunché. Non trasmette conoscenza alcuna. Di fatto, io non pretendo di comunicarvi alcuna conoscenza quando dico che il contenuto non può essere espresso; sto semplicemente tentando di accordarmi con voi sul modo in cui usiamo i nostri termini, specialmente la stessa discutibile parola " contenuto ". Si tratta, se vi piace metterla così, di una questione di definizione. L'inesprimibilità non è una proprietà accidentale del contenuto che, con nostra sorpresa, scopriamo che esso possiede dopo un po' che ne abbiamo esperienza; ci è addirittura impossibile averne esperienza senza sapere al contempo che questa proprietà a p partiene proprio alla sua natura. Tutti i risultati ottenuti finora sono stati conseguiti semplice­ mente grazie a un'accurata considerazione di ciò che intendiamo quando usiamo il termine " espressione ". L'espressione implica due fatti: uno che esprime e uno che è espresso. Il primo è una specie di raffigurazione del secondo, di cui riproduce la struttura in un materiale differente. Una raffigurazione deve differire in qualche modo dall'originale, altrimenti non sarebbe nemmeno una raffigura­ zione, ma semplicemente l'originale stesso o magari un suo esatto duplicato. Ora, si danno casi in cui la raffigurazione serve come so­ stituto dell'originale ; noi preferiremmo avere l'originale, ma poiché questo, per una ragione o per l'altra, è irraggiungibile, dobbiamo contentarci di una raffigurazione (come quando un innamorato ba­ cia il ritratto della sua amata durante l'assenza di lei) ; ma si danno anche altri casi nei quali dell'originale non ci importa affatto - esso può addirittura essere in nostro possesso - ma vogliamo la raffigu­ razione per sé stessa; tutto il nostro interesse è volto all'espressione e distolto invece da ciò che è espresso. Sono i casi di questo secondo tipo quelli di cui ci occupiamo nella presente analisi: non siamo interessati ai fatti, ma al modo in cui i fatti possono essere espressi. Ciò significa che non abbiamo nulla a che fare con il contenuto. Esprimere è lasciare il contenuto fuori di considerazione. t a causa del suo contenuto che l'originale si d i st i n g u e da ogni sua possibile raffigurazione, riproduzione o rap­ p rese ntazione. Se volessimo usare termini filosofici antiquati, po­ t IT I l I I l I O pa ragona r l o all'haecceitas degli scolastici o parlarne come

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dci principium individuationis. La raffigurazione non potrebbe avere

il medesimo contenuto dell'originale (il lettore deve di nuovo scusare il mio linguaggio scorretto) senza essere l'originale stesso, essa non sarebbe più un'espressione di quello. Ed è sulla natura dell'espres­ sione che stiamo qui conducendo la nostra indagine. I O.

Trasporto ed espressione

Vi è un ulteriore modo di formulare il risultato cui siamo giunti. Nella vita quotidiana è possibile distinguere fra comunicazione per trasporto e comunicazione per espressione. La prima consiste sem­ plicemente nel prendere la cosa o il fatto in questione e porlo in presenza della persona cui deve essere comunicato; la seconda con­ siste nel descriverglielo mandando una fotografia o disegnandolo oppure parlandone in qualche modo. Questa distinzione può ben essere fatta nella vita di ogni giorno, ma si rivelerebbe fuorviante allorché tentassimo di applicarla al sottile problema di cui ci stiamo occupando. Se prendo dalla mia scrivania la foglia verde e la mando a un amico, egli vedrà e toc­ cherà la medesima foglia che io ho visto e toccato in precedenza, la foglia " stessa " sarà stata trasportata fino a lui. E tuttavia non si tratterà in tutto e per tutto della medesima foglia, perché questa nel frattempo avrà certamente subìto alcuni cambiamenti e, quan­ d'anche non fosse mutata, non vi sarebbe identità nel senso logico perché alcuni enunciati relativi alla foglia che erano proposizioni vere quando questa si trovava sulla mia scrivania non saranno più tali dopo che essa sarà nelle mani del mio amico (per esempio, le proposizioni riferentisi alla sua posizione). Nel senso più rigoroso, non sussiste trasporto di un'entità " che resta identicamente sé stessa ". Perfino il movimento di un corpo fisico nello spazio non è che la trasmissione di una struttura comparativamente costante, o, più correttamente ancora, è una serie continua di eventi che hanno ap­ prossimativamente le medesime strutture. Se (per esprimerci nel linguaggio della metafisica tradizionale) io potessi prendere dalla mia coscienza la verdità di un colore che sto esperendo e metterla nella coscienza di qualcun altro, questi si tro­ verebbe ad avere il verde stesso, e non un'espressione di esso. Noi non usiamo la parola " espressione " a meno che vi sia qualche altro mate riale che, per così dire, porta il significato dell'espressione, e q l l esto " a ltro " esclude il contenuto originale. L'espressione com-

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porta un qualche mezzo di comunicazione il quale (se anche fosse possibile) non afferra il fatto o l'oggetto stesso, non fa niente ad esso ma lo lascia del tutto com'è e dov'è, comunicandoci solo quelli dei suoi tratti che può condividere con altri materiali. Sarei tentato di dire : ebbene, questi tratti sono la struttura, e il resto ( che sia chia­ mato " materiale " o in altro modo) è il Contenuto; ma un tal modo di parlare sarebbe del tutto fuorviante, in quanto sembrerebbe for­ nire una descrizione indiretta del contenuto - ciò che, sappiamo, è impossibile. E potrei essere tentato di dire che il contenuto non può essere espresso dal linguaggio perché la natura del linguaggio è l'espressione, non il trasporto; ma di nuovo ciò darebbe l'errata impressione che vi sia un qualche senso nel parlare di trasporto del contenuto, mentre sappiamo che non ve n' è. Possiamo dire che esprimiamo un fatto per mezzo di un altro fatto (un enunciato, un gesto ecc.), ma parlare di esprimere il conte­ nuto è una contraddizione in sé, al pari del far musica senza suoni o del dipingere senza colori. Cose del genere non si possono fare, non già perché siano troppo difficili e al di là delle facoltà umane, ma perché non esistono; gli enunciati con i quali sembriamo par­ lame sono privi di significato nello stesso senso in cui è privo di significato parlare di un " quadrato rotondo ". (Non ho bisogno di ricordare al lettore che l'enunciato " non esiste un quadrato rotondo " non può essere interpretato come un enunciato che asserisca la non­ esistenza di una certa cosa chiamata un quadrato rotondo, ma deve essere inteso come un enunciato che dice che la combinazione di parole " quadrato rotondo " non ha alcun senso.) I I.

Non vi è scampo dal linguaggio?

Finora abbiamo discusso la natura dell'espressione con riguardo, principalmente, al nostro linguaggio ordinario fatto di parole, o al­ meno abbiamo tratto da esso la maggior parte dei nostri esempi. Tuttavia le nostre argomentazioni sono state di natura così generale da valere per ogni sorta di linguaggio, includendo ogni genere possibile di espressione. Ritengo che ciò verrà ammesso prontamente né vi sarebbe ragione di insistere su questo punto se non esistesse la necessi tà di cautelarci da certi fraintendimenti che potrebbero so rge re dal non essere riusciti a cogliere la vera funzione del­ l 'esp ressione. Si potrebbe esse re tentati di dire : Qual è, dopo tutto, l o scopo

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finale del linguaggio e dell'espressione ? Non è forse quello di ren­ dere noto a chi ascolta o a chi legge il fatto che deve essergli comunicato ? E il linguaggio non è solo un modo indiretto e tortuoso di far questo? Non sarebbe possibile raggiungere il medesimo scopo in modo più diretto, evitando il linguaggio e portando l'ascoltatore o l'osservatore a contatto immediato con il fatto? Così si potrebbe pensare (e vedremo, nella seconda lezione, che la maggior parte dei filosofi l'hanno pensato) che l'espressione non sia che un mezzo per uno scopo che potrebbe anche essere con­ seguito in qualche altro modo. Se, per esempio, invece di descrivere la nostra foglia verde e di parlarne tanto a lungo, noi esibissimo la foglia stessa, un atto del genere non soddisfarebbe il medesimo scopo al pari di qualsiasi espressione, con l'unica differenza di una perfezione molto maggiore ? Non ci procurerebbe, tale atto, il contenuto stesso (per esempio, il verde della foglia) che, come ab­ biamo dovuto ammettere, non può essere colto da nessuna espres­ sione? In tal modo l'unico effetto di tutte le nostre argomentazioni contro l'incomunicabilità del contenuto potrebbe essere il desiderio di fare a meno del linguaggio e di sostituirlo con concreti atti di presentazione che avrebbero il vantaggio di renderci noti sia il con­ tenuto sia la forma. Voi osserverete che l'atto di far percepire direttamente a una persona un certo oggetto o di renderla testimone di un certo fatto non è altro che ciò che poc'anzi chiamavamo " trasporto ". E noi abbiamo trattato tale caso come essenzialmente non dissimile da quello di una descrizione verbale . .t importante rendersi conto che facendo così avevamo ragione. Non può esserci dubbio alcuno sul fatto che per molti scopi il procedimento di presentare l'oggetto stesso è di gran lunga il modo migliore di comunicazione, ma dob­ biamo insistere sul fatto che dal nostro punto di vista è anche una sorta di linguaggio o parte di un linguaggio. O ha tutte le proprietà dell'espressione (pregi e difetti) o non è comunicazione affatto. Se un mattino la posta vi portasse una lettera contenente una foglia verde, non sareste in grado di ricavarne niente ; potreste regi­ strarlo come un semplice fatto, che però non " significherebbe " niente per voi. D'altro canto, la stessa curiosa evenienù avrebbe il carattere di una comunicazione, sarebbe un effettivo messaggio, se la foglia fosse accompagnata da qualche spiegazione o se voi aveste ricevuto qualche istruzione in proposito. Potrebbe essere una foglia che qualcuno ha promesso di inviarvi dal suo giardino, o potrebbe

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esserci un biglietto che dice " l'ho trovata sulla mia scrivania", op­ pure " ti prego di osservare il colore di questa foglia ", o anche " ecco il colore di cui ti ho parlato ieri " ecc. In tutti questi casi l'oggetto stesso entra nel linguaggio come parte di esso, ha esattamente la stessa funzione che avrebbe una raffigurazione o una descrizione o un qualunque altro segno: è esso stesso un simbolo entro il simboli­ smo chiamato " linguaggio ". L'unica peculiarità di questo caso è che il simbolo ha la maggiore somiglianza possibile con l'oggetto significato. Niente può impedirci di rendere i segni con i quali costruiamo il nostro linguaggio tanto simili agli oggetti significati quanto desi­ deriamo; questo è anzi il procedimento più naturale e all'inizio, quando la mente umana incominciò a inventare la scrittura, questa consistette di piccole raffigurazioni (geroglifici, caratteri cinesi). A poco a poco ci si rese conto che la somiglianza fra oggetto e sim­ bolo era del tutto superflua e che la comodità e l'utilità pratica sono le sole cose che contano. Se per denotare una certa sfumatura di verde usiamo una piccola macchia di colore insieme con le no­ stre parole scritte, seguiamo il medesimo metodo di quelle antiche scritture: ci avvaliamo della somiglianza di colore nello stesso modo in cui essi si avvalevano della somiglianza di sagomatura. Sarebbe un errore pensare che usando dei campioni come simboli nel modo appena descritto si sia riusciti a comunicare il contenuto e si sia evitato il metodo indiretto di espressione. Di ciò ci si può rendere conto facendo riferimento alle argomentazioni del para­ grafo 8; se concordate con esse, ammetterete che non c'è possibilità di dire che il lettore della " scrittura con campioni " avrà in mente " il medesimo contenuto " di colui che l'ha scritta. Sebbene il " sim­ bolismo dei campioni " sia molto utile per certi scopi, non lo si può dire il linguaggio più perfetto sotto tutti gli aspetti; esso non sod­ disfa alla sua funzione con maggior correttezza di quella possibile a un linguaggo verbale. Non può esservi dubbio, per esempio, che la descrizione scientifica di un colore che si avvale di termini come lu ng h ez za d'onda e altri dati di carattere fisico (incluso, magari, lo stato fisiologico di chi percepisce) debba essere considerata sempre molto pi ù sicura e accurata della presentazione di un campione o d e ll oggetto colorato stesso, poiché quest'ultimo può avere subìto ogni genere di c am biam e nti mentre non stavamo guardando (anzi, :I l h l i rittu ra mentre stavamo guardando), e la condizione fisio­ logiCI di colui che p e rc e pi s c e può non essere affatto quella che l' i aSpell aV:l l l l o . Il lingu aggio dei colori i m pe rn ia to sui cam'

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pioni pUÒ essere compreso solo da persone dotate di una vista normale, esso produrrà nelle loro menti una certa percezione di co­ lore, ma non " comunicherà " ad esse alcun " contenuto di colore " . Possiamo cosÌ dire, concludendo, che abbiamo bisogno del lin­ guaggio per comunicare, che non vi è scampo da esso né esiste, di conseguenza, alcuna possibilità di " comunicare il contenuto ". Pos­ siamo introdurre nel nostro linguaggio dei campioni, e per esempio parlare di colori con i colori, di suoni con i suoni ecc., ma il Conte­ nuto si rifiuta di entrare in esso. Un campione, nella misura in cui può comunicare qualcosa, non lo fa in virtù del suo contenuto, ma per il fatto di essere usato come simbolo (ossia, come un qualcosa di cui si deve indicare la significazione) e funziona esattamente come tutti i simboli. I segni restano segni comunque se ne fissino i significati. Possiamo mettere in relazione il simbolo con l'oggetto che vogliamo che esso simbolizzi indicandoli entrambi simultanea­ mente, oppure convenendo che il segno mostri una somiglianza ben definita con il suo oggetto (come nel caso dei " campioni ), o in qualche altro modo: in ogni caso, è una pura questione di accordo arbitrario. Nessun fatto può essere un' " espressione " se non per accordo. Niente esprime qualcosa di per sé stesso. Nessuna serie di segni, sia che consista di suoni umani, sia di impronte su carta, sia di qualsiasi altro elemento naturale o artificiale, è una " proposizione " sempli­ cemente per sua stessa natura, se con questa parola denotiamo qual­ cosa che " dice " un qualcosa o che ha un " significato ". Una serie di impronte può divenire una proposizione solo in virtù di un qualche accordo che assegni una significazione ai singoli segni e una gram­ matica al modo in cui essi sono combinati. "

1 2 . Sulla 'medesimezza di qualità'

Varie volte nel corso delle precedenti considerazioni ho dovuto avvertire il lettore che non mi stavo esprimendo correttamente e ho dovuto scusarmene. Esamineremo adesso uno dei casi più impor­ tanti in cui il nostro linguaggio era imperfetto e vedremo poi, in generale, come sia possibile guardarsi dal cadere in errore a causa di tali imperfezioni. Abbiamo parlato continuamente di " contenuto " (sebbene spesso con qualche esitazione) e abbiamo discusso la possibilità che due menti separate esperiscano il " medesimo " contenuto. È comune­ mente a m m esso sulla base d i argomentazioni come quelle presen-

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tate nel paragrafo 8 che sia sempre impossibile scoprire se due persone hanno in mente i medesimi " dati di coscienza " ; al tempo stesso, si ritiene generalmente che due dati in menti differenti deb­ bano o essere uguali o essere diversi e che la domanda concernente la loro medesimezza abbia un significato definito, anche se, pur­ troppo, non si possa dare una risposta con assoluta certezza. Si aggiunge, di solito, che la risposta può avere soltanto un alto grado di probabilità perché la medesimezza o diversità di stati mentali tra individui differenti " non può essere osservata direttamente ma deve essere inferita per analogia ". Che cosa pensare di queste opinioni correnti? Mi sembrano espresse in maniera molto ambigua ed è necessario mettere perfet­ tamente in chiaro il significato che la locuzione " medesimezza di qualità " può avere in queste affermazioni. Penso che sia perfetta­ mente legittimo dire che due individui esperiscono i " medesimi " o " differenti " sentimenti o qualità di sensazione fintantoché si può effet­ tivamente controllare la verità o la falsità di tali asserzioni. Controlli del genere sono effettuati dal fisiologo che può esaminare e confron­ tare le capacità di percezione di individui differenti. Egli scopre, per esempio, che la maggior parte delle persone presenta una differenza nelle risposte (per esempio sul piano delle emissioni verbali) quando viene messa a confronto con due differenti gradazioni di colore, ma che non è possibile indurre una certa percentuale di individui a reagire in modo differente nei due casi. Quest'ultime persone sono dette " daltoniche " dal fisiologo, il quale afferma che la qualità della loro percezione sensoriale non è la medesima di quella di per­ sone con la vista normale. Egli ha perfettamente ragione affermando ciò e la sua asserzione non è affatto basata su un'inferenza per ana­ logia; si tratta di un giudizio empirico avente il medesimo genere d i validità di qualsiasi proposizione della chimica o della fisica. Esso asserisce l'esistenza di certe strutture nella personalità degli i ndividui in questione : vi è una differenza quanto a molteplicità di reazioni fra un daltonico e una persona normale; nella percezione di un individuo normale sussiste una maggiore varietà e questa è, o vv i a m e nte una proprietà puramente formale. Ecco tutto quanto pu ò essere detto, e la proposizione " la qualità delle sensazioni nei d u e casi d i ffe risce neI tale e tal altro modo " non dice altro. Il sistema d c i colori è più complesso in una persona normale che in un dal­ I o n i c o le re lazioni i nt e rne sono meno semplici, e si tratta di una -

,

,

d i f l"l' I'l' nza di struttu ra .

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Così le affermazioni del fisiologo sono comuni asserzioni fattuali contenenti tutto ciò che può essere detto sulle qualità. Se non si possono fare asserzioni con certezza assoluta ma solo con un grado maggiore o minore di probabilità, ciò avviene non perché le qualità " non possono essere osservate direttamente ma debbono essere infe­ rite per analogia "; bensì perché queste asserzioni condividono il de­ stino di tutte le affermazioni empiriche: le osservazioni su cui si basano sono sempre incomplete e soggette a errore ; si possono cor­ reggere con ulteriori e magari più accurate ricerche sulle reazioni dei medesimi individui. Queste reazioni rivelano la struttura delle percezioni sensoriali, e tutto ciò che è possibile dire circa le loro qualità lo si può dire basandosi su quelle risposte. Non appena tentate di dire qualcosa di più, non appena pensate che vi è qualcosa di più da dire, e cioè per quanto concerne il " contenuto " delle qualità, le vostre afferma­ zioni non diverranno meno probabili o più ipotetiche, ma cesseranno affatto di essere delle affermazioni, la parola " qualità " sarà semplice­ mente divenuta priva di significato, voi non ne starete facendo un uso intelligibile. La ragione di ciò sta nel fatto che nessuna serie di parole formerà effettivamente una proposizione, avrà un effettivo significato, finché non sia possibile indicare un modo di controllarne la verità, al­ meno in linea di principio. Ciò verrà spiegato in seguito (§ 1 4); per il momento ci limitiamo a dire che le asserzioni relative alla Medesimezza o Diversità delle Qualità non si devono in alcun modo interpretare come vertenti sul Contenuto. Alla pari di tutte le altre proposizioni, esse esprimono i fatti che comunicano mostrandone la struttura; il Contenuto non viene comunque toccato. La causa di tutto ciò non risiede nel fatto che il contenuto sia troppo difficile da afferrare, o che non sia stato ancora trovato il modo corretto di studiarlo, ma semplicemente che non vi è alcun senso a porsi domande al riguardo. Non esiste, né può esistere, al­ cuna proposizione sul contenuto. In altre parole: la cosa migliore sarebbe non usare affatto la parola " contenuto ", non ve n'è alcun bisogno e la mia sola scusante per averlo fatto (perfino nel titolo di queste lezioni) è che questa strada proibita mi è sembrata la via più facile per portare il lettore a un punto che gli permetta di arrivare a un primo colpo d'occhio sulla terra che gli sta di fronte. Egli sarà adesso in grado di tornare indietro e trovare la strada giusta che lo condurrà effettivamente alla terra promessa. Conti­ n u e rù ogni tanto a usare il te rmine " contenuto " per comodità, ma

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il lettore capirà che un enunciato in cui ricorre questa parola non deve essere considerato una proposizione su qualcosa chiamato " contenuto ", ma una specie di abbreviazione di un enunciato più complesso in cui la parola non ricorre. 1 3 . Comunicazione con sé stessi

Non mi illudo di aver rimosso tutti i dubbi che riguardano la correttezza del nostro modo di trattare il " Contenuto ". Posso im­ maginare che ammettiate la validità delle mie argomentazioni e tuttavia conserviate l'idea che si diano casi nei quali " la medesi­ mezza di qualità " debba significare " medesimezza di contenuto " . Voi domanderete : e che dire del confronto d i qualità percepite d a una e medesima persona? L e nostre precedenti considerazioni non sembrano valere in questo caso. Se affermo che la foglia che vedo oggi è del medesimo colore di una che ho visto ieri, o magari, addi­ rittura, del medesimo colore di una che le sta accanto in questo stesso momento, non sto allora trattando di qualità in un senso più profondo e intimo di quello della " mera " struttura? Rispondo che vi è, indubbiamente, una grande differenza nel si­ gnificato della parola " medesimo " quando la si usa facendo riferi­ mento a " dati in due menti " e quando la si usa facendo riferimento a " dati in un'unica mente ", ma che non si può descrivere questa differenza dicendo che la parola denota nel primo caso uguaglianza di struttura e nel secondo uguaglianza di contenuto. Le proposizioni, nei due casi, vengono verificate in modo differente, esprimono dif­ ferenti generi di fatti, ma la seconda è tanto lontana dall'esprimere i I " contenuto " quanto la prima - anzi, infinitamente lontana. Ciò diviene chiaro non appena ci rendiamo conto che il punto fondamentale del nostro ragionamento (consistente nel considerare l'incomunicabilità come il criterio dell'inesprimibilità) resta applica­ hi l e persino se ci limitiamo alla considerazione di una singola mente. Sarebbe errato supporre che non si possa parlare affatto di co­ l l I u nicazione se non siano in gioco perlomeno due individui e una q u a lche sorta di connessione causale fra essi attraverso la quale sia possi b i l e trasmettere un messaggio. Se cosÌ fosse, tutta la nostra a rgomentazione presupporrebbe certi fatti empirici tipo l'esistenza di d i ffe re nti persone e di particolari relazioni fra esse j ma noi, in dre t t i , n o n facciamo assunzioni di alcun generej il nostro ragiona­ I l I l' n l o non ri posa su a l c u n presu pposto circa il mondo reale, Ogni

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autentica filosofia ( come mostrerò più avanti) si muove interamente entro il regno delle possibilità - possibilità che, naturalmente, sa­ ranno sempre suggerite dalla realtà, ma che possono essere consi­ derate del tutto indipendenti dalla loro realizzazione. Nel nostro caso quanto abbiamo detto circa la possibilità di espressione resta perfettamente valido in un universo che non con­ tenga alcun essere umano oltre me stesso (non ci domanderemo se un tale universo sarebbe l'ideale di un filosofo " solipsista "); posso esprimere dei fatti a me stesso e comunicare con me stesso - anzi, è questo che faccio ogniqualvolta prendo nota sul mio taccuino o affido qualcosa alla mia memoria. Nel leggere la nota o nel richia­ mare alla mente il fatto ricordato, il me stesso attuale riceve una comunicazione dal me stesso precedente. Il mio taccuino e la mia " memoria " sono veicoli che trasportano la descrizione di un fatto nel tempo; la descrizione consiste in una serie di impronte il cui significato deve essere compreso, ed esiste una possibilità di frainten­ dimento o di errata trasmissione. La nota scritta nel mio taccuino può essere stata cambiata, la mia memoria può ingannarmi. Osserverete che per l'essenza della comunicazione non fa alcuna differenza che il taccuino sia ciò che un metafisico chiamerebbe " un mero sogno ", o possieda ciò che egli potrebbe chiamare " realtà oggettiva ". Le impronte su di esso, che siano " reali " o " immaginarie " (qualsiasi cosa ciò significhi), esprimono qualcosa, correttamente o no. Non appena tentiamo di accertare se una proposizione che è stata così trasmessa da un precedente sé stesso a un sé stesso successivo è vera o falsa, troviamo che i metodi da noi impiegati allo scopo consistono nella comparazione di strutture e che il contenuto non può affatto essere menzionato. Quando tengo a mente il colore di un oggetto verde e il giorno dopo mi si mostra un altro oggetto e mi si chiede se è del " medesimo " colore del primo, la mia me­ moria darà una risposta più o meno definita. La domanda ha certa­ mente il suo bravo significato, ma si può dire che si riferisca a una " medesimezza di contenuto "? Certamente no! Ciò consegue dal modo in cui la risposta data a memoria viene controllata. Infatti, in un certo senso, dobbiamo ammettere che la nostra memoria può " ingannarci ". Quando diciamo che essa lo ha fatto? Se esistono metodi per controllare il suo giudizio, e se tutti questi metodi falli­ scono nel verificarlo. I metodi sono: I ) tornare a guardare l'oggetto in questione e prendere in considerazione, su basi empiriche, la pro­ hahi lità che il suo colore sia cambiato neI frattempo; 2) comparare

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il mio giudizio attuale con una descrizione che ho messo per scritto nel corso della prima osservazione; 3) compararlo con le descrizioni fornite da altre persone. Il criterio della verità del giudizio è l'accordo di tutte queste differenti proposizioni; c se diciamo che il colore è veramente il medesimo, che la mia memoria non mi ha ingannato, ciò che inten­ diamo è solo il fatto che sussiste questo accordo formale fra le descrizioni basate sulla memoria e sull'osservazione. Tutto ciò è una pura questione di strutture ; non possiamo parlare di una ripetizione o di una comparazione di " contenuto ". Se siamo a conoscenza di un caso in cui non vi è nient'altro con cui il giudizio della nostra memoria possa essere comparato, do­ vremmo, in questo caso, dichiarare impossibile far distinzione fra una memoria affidabile e una ingannevole ; pertanto, non potremmo neppure sollevare la questione se essa ci abbia ingannato: non vi sarebbe alcun senso nel parlare di un " errore " della nostra memoria. Ne segue che un filosofo starebbe ponendo una domanda priva di significato se chiedesse : " N on è possibile che il colore che sto ve­ dendo adesso mi appaia verde, mentre in effetti è rosso "? L'enun­ ciato " Sto vedendo verde " non significa nient'altro che " ecco un colore del quale ricordo che è sempre stato chiamato verde ". Que­ sto ricordo, questo dato della mia memoria, è l'unico e solo criterio della verità della mia asserzione. lo lo ricordo così, e tanto basta; nel caso da noi supposto io non posso proseguire chiedendo: Ri­ cordo in maniera corretta? Infatti non potrei spiegare che cosa in­ tendo dire con una tale domanda. Vediamo dunque che la domanda " il verde che vedo oggi è il medesimo colore del verde che ho visto ieri? " si riferisce solo alla struttura delle nostre espressioni e non a un qualche contenuto " verde " che si suppone stia al di là. La medesimezza, l'uguaglianza n o n può essere predicata del contenuto più di quanto non possa esserlo qualsiasi altra cosa; e non costituisce eccezione il caso di " due dati di coscienza nella medesima mente in tempi differenti " . ' 4.

Significato e verificazione

Ne l l e p re cede n ti argomentazioni abbiamo spesso fatto uso del p ri nci p i o s ec on d o cui non si può fornire il significato di un'asser­ , i one se non i n d i c a n d o il modo in cui la verità dell'asserzione viene dm/ rolla/a. Q u a l è l a gi usti ficazione d i questo principio? Nella

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filosofia moderna sono sorte polemiche su questa questione e non vi è dubbio che essa meriti tutta la nostra attenzione perché, se non vado errato, costituisce il fondamentale principio del filosofare e il trascurarla genera tutti i gravi problemi della metafisica. Scopo di ogni proposizione è esprimere un fatto. Sembra, allora, che per stabilire il significato della proposizione sia necessario indi­ care il fatto che essa esprime. Ma che stranezza ! Il fatto in questione non è già indicato dalla proposizione stessa? Difatti, noi siamo già da molto convinti (vedi sopra, pp. 52 sg.) che una proposizione esprime il suo proprio significato, che essa non necessita di una spiegazione. Una spiegazione che dicesse più della proposizione stessa non ne costituirebbe una corretta spiegazione, e se dicesse la stessa cosa della proposizione sarebbe superflua. In realtà, quando udiamo qualcuno fare un'asserzione e gli chiediamo " Che cosa in­ tendi con essa? ", di solito otteniamo e ci aspettiamo in risposta una mera ripetizione della prima asserzione, solo con parole differenti, e molto spesso siamo effettivamente soddisfatti di questo procedi­ mento che è semplicemente una traduzione da un linguaggio in un altro. Perché siamo soddisfatti? Evidentemente perché non abbiamo compreso la prima espressione, mentre comprendiamo la seconda. Quest'ultima osservazione ci fornisce l'indizio per risolvere il paradosso. Possiamo chiedere un significato solo finché non abbiamo compreso un'asserzione. E finché non abbiamo compreso un enun­ ciato esso non è altro, in effetti, che una serie di parole ; sarebbe fuorviante chiamarlo una proposizione. Una serie di parole (o di altri segni) deve essere considerata una proposizione soltanto allor­ ché è compresa, allorché ne viene capito il significato. Se ci tro­ viamo d'accordo nell'usare i termini in questo modo non avrà senso che ci chiediamo quale sia il significato di una proposizione, mentre possiamo benissimo ricercare (e questo era il nostro problema ef­ fettivo) il significato di un enunciato o di un qualsiasi complesso di segni che supponiamo esprimano qualcosa. Ora, non c'è nulla di misterioso nel processo con cui viene dato significato a un enunciato o un enunciato è trasformato in una pro­ posizione : si tratta di definire l'uso dei simboli che ricorrono nel­ l'enunciato. E ciò si fa sempre indicando le precise circostanze in cui si dovrebbero usare le parole secondo le regole del particolare linguaggio considerato. Queste regole debbono essere insegnate attra v e rso la loro concreta applicazione in situazioni definite, vale a d i re, debhono esse re concretamente mostrate l e circostanze alle

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quali esse si adattano. È ovviamente possibile fornire una descrizione verbale di qualsiasi situazione, ma è impossibile comprendere la descrizione a meno che non sia stata stabilita in precedenza una qualche sorta di connessione fra le parole e il resto del mondo. E questo può farsi solo per mezzo di certi atti, come per esempio gesti, grazie ai quali le nostre parole ed espressioni sono messe In correlazione con certe esperienze. Così, se io proferisco un enunciato e voi mi chiedete che cosa ho inteso dire con esso (magari alzando le spalle o guardandomi con sguardo vacuo), io dovrò rispondervi traducendo l'enunciato in un linguaggio che comprendete, oppure, nel caso che ancora non com­ prendiate alcun linguaggio, dovrò insegnarvene uno; il che com­ porta certi atti da parte nostra, io debbo sottoporvi a certe espe­ rienze. Ogni vostra futura comprensione sarà frutto di queste esperienze. In questo modo ogni significato è essenzialmente riferito all'esperienza. Deve essere chiaro a questo punto che vi è solo un modo di dar significato a un enunciato, di renderlo una proposizione : dobbiamo indicare le regole per il suo uso, in altre parole : dobbiamo descri­ vere i fatti che renderanno " vera " la proposizione, ed essere in grado di distinguerli dai fatti che la renderanno " falsa ". In parole ancora diverse : Il Significato di una Proposizione è il Metodo della sua Verificazione. La domanda: " Che significa questo enunciato? " è identica alla domanda (e comporta la medesima risposta) : " Come è verificata questa proposizione? " È uno dei più seri errori filosofici quello di pensare che una pro­ posizione possieda un significato indipendentemente dai possibili modi della sua verificazione. Si è caduti in una confusione senza speranza perché si è creduto di conoscere il significato di una frase e tuttavia ci si è dichiarati incapaci, in linea di principio, di definire le circostanze nelle quali essa sarebbe stata vera. Finché mi è logi­ camente impossibile indicare un metodo per accertare la verità o la fa lsità di una proposizione, debbo confessare di non conoscere che cosa effettivamente asserisca la proposizione. Quando tutto ciò vi sarà chiaro, non capirete nemmeno più come sia p o ss i h i l e un'opinione differente: riconoscerete l'impossibilità per­ t i n o d i formulare un'opinione senza ammettere la verità delle osser­ \':ll'.ioni precedenti. È b e n vero che la concezione contenuta in « ( u l'ste osse rvazioni h a t rovato molti oppositori, ma il nome stesso ( " 1 1 1 1 cu i v i l' n e per sol i to c h i a m at a rivela come non sia stata c o r retta -

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mente intesa. Essa è nota come la " teoria sperimentale del signi­ ficato ". E invece non è una teoria ; nessuna " teoria " del significato può esistere. Una teoria è un insieme di ipotesi che possono essere vere o false e debbono essere controllate dall'esperienza. Sul signi­ ficato non è necessario fare delle ipotesi; comunque giungerebbero troppo tardi perché il significato deve essere presupposto al fine di formulare qualunque ipotesi. Noi non abbiamo fatto alcuna assun­ zione; abbiamo solo formulato le regole che chiunque segue sempre quando tenta di spiegare il proprio significato e quando vuole com­ prendere il significato altrui, regole che effettivamente non viola mai, se non quando comincia a filosofare. Stabilendo l'identità tra significato e modo di verificazione non scopriamo proprio niente di straordinario, ma rileviamo un mero truismo. Stiamo semplicemente sostenendo che una proposizione, per noi, ha un significato solo se per noi fa qualche differenza che essa sia vera o falsa, e che il suo significato sta tutto in questa differenza. Nessuno ha mai spiegato il significato di un enunciato in altro modo se non spiegando che cosa sarebbe differente, nel mondo, se la proposizione fosse falsa anziché vera (o viceversa). Sono certo che ciò non può essere negato. Ma la grande obie­ zione sollevata di solito contro il punto di vista da me difeso con­ siste nel sostenere che la " differenza nel mondo " espressa dalla proposizione può non essere osservabile né scopribile in alcun modo. In altre parole : perché un enunciato abbia per noi un significato dobbiamo conoscere, ovviamente, quale fatto esso esprime, ma può essere per noi del tutto impossibile scoprire se il fatto sussiste real­ mente. In questo caso la proposizione non potrebbe esser mai veri­ ficata, ma non sarebbe priva di significato. Di conseguenza, con­ cludono i nostri avversari, il significato è distinto dalla verificabilità, e non è da essa dipendente. Si tratta di un'argomentazione difettosa per un'ambiguità pre­ sente nella parola " verificabilità ". In primo luogo, uno potrebbe chiamare verificabile una proposizione se i fatti reali sono tali da permetterci di scoprirne la verità o la falsità ogniqualvolta siamo disposti a farlo. In questo senso, mi sarebbe impossibile verificare l'asserzione: " Sotto terra, a trecento metri di profondità sotto la mia casa deve esserci dell'oro ", perché esistono varie circostanze empiriche che assolutamente mi impediscono di scoprirne la verità; e tuttavia l'asserto non era certamente insensato. Oppure prendete l'asse rzi one : " Sull'altra faccia della Luna esistono montagne alte

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tremila metri. " È probabile che nessun essere umano sarà mai in grado di verificarla o di falsificarla, ma quale filosofo avrebbe tanta audacia da dichiararla priva di significato? Credo che debba essere chiaro che non abbiamo niente a che fare con un simile uso del termine " verificabilità ", e che dovevamo avere qualcos'altro in mente quando abbiamo detto che il Significato di una Proposizione è il suo Metodo di Verificazione. Di fatto, noi diciamo verificabile una proposizione quando siamo in grado di descrivere un modo di verificarla, indipendentemente dal fatto che la verificazione possa essere effettivamente eseguita o no. È sufficiente essere in grado di dire che cosa si deve fare, anche se nessuno mai si troverà nella condizione di farlo.

SECONDA LEZIONE LA NATURA DELLA CONOSCENZA

Qual è la natura della conoscenza? Nel porre questa domanda, usiamo la parola " conoscenza " in quel particolare senso in cui essa significa l'oggetto e lo scopo di ogni nostro sforzo scientifico. Di che cosa veramente siamo in cerca nell'indagine scientifica disinte­ ressata? Il modo di pensare scientifico non è essenzialmente differente dal modo di pensare comune, ne costituisce solo uno stadio più alto. La conoscenza scientifica è una continuazione di quella pratica, di cui gli esseri umani hanno bisogno per esistere e vivere bene. Essi non possono vivere senza la conoscenza e il pensiero, perché sono privi della sicura guida degli istinti che in modo relativamente scevro da pericoli conducono gli animali attraverso le difficoltà della vita. La natura ha invece dotato l'uomo della ragione, e la ragione è uno strumento e una guida assai migliore dell'istinto, e infinitamente più adattabile e flessibile. L'istinto è rigido, si adatta solo a un partico­ lare tipo di situazione, mentre la ragione compie essa stessa l'adat­ tamento ed è perciò in grado di prescrivere le azioni più appropriate (ossia più utili) per ogni situazione. Si vede subito come ciò sia possi­ bile analizzando la natura della conoscenza. Che cosa occorre perché un essere vivente ottenga il migliore adattamento possibile al suo ambiente? Ovviamente, è necessario che tutte le sue attività si adattino alle circostanze in continuo muta­ mento. Ogni situazione sarà un po' diversa da tutte le situazioni precedenti e accadrà, talvolta, che l'organismo debba affrontare cir­ costanze del tutto nuove che non sembrano avere rassomiglianza a l c u n a con e s pe r i e n z e precedenti. Un organismo perfettamente ben a d a tt a l o d e v e esse re pronto a tutto, ma l'istinto può preparare sol o

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a un numero limitato d i casi tipici, essendo plasmato da circostanze che si presentano di continuo per molte generazioni. Come fa la ragione umana a preparare l'uomo per l'imprevisto ? Come può prevedere che cosa si deve fare in un caso di cui in precedenza non ha mai avuto esperienza? Certo, non con l'aiuto di un qualche miracoloso potere divinatorio. Vi è un'unica possibilità: avvalersi di esperienze precedenti. Ma a che cosa possono servire vecchie esperienze in una situazione nuova, che è completamente differente? Senza dubbio, se non vi fosse assolutamente alcuna ras­ somiglianza fra il vecchio e il nuovo, la ragione ne resterebbe scossa, sorpresa e incapace di dare consigli; ma un caso del genere non ca­ pita quasi mai. La funzione della ragione consiste proprio nello scoprire somiglianze fra il nuovo e il vecchio, fra un oggetto e l'al­ tro. Per quanto diversi due cose o eventi possano essere, l'analisi di solito verrà a scoprire che entrambi sono costituiti da elementi si­ mili, solo differentemente combinati. Supponiamo che un uomo sia portato all'improvviso in un paese straniero, con clima, piante e animali dei tutto differenti da quelli cui è abituato : non necessariamente egli soccombe, come capiterebbe probabilmente a un animale, ma, comparando le nuove circostanze alle vecchie, troverebbe i mezzi per sostentarsi e proteggersi, di­ stinguerebbe fra amici e nemici, fra piante utili e piante dannose, e non sarebbe vinto dal freddo invernale quand'anche, in precedenza, mai ne avesse fatto esperienze di pari intensità. La ragione mette l'uomo in grado di trovare la propria strada nei mondo, anzitutto impedendogli di essere colto del tutto di sorpresa e di rimanere sconcertato: egli conoscerà il comportamento delle nuove cose in quanto le riconoscerà come combinazioni di cose conosciute; e in secondo luogo aiutandolo a fare delle invenzioni, ossia a creare intenzionalmente nuove combinazioni di vecchi elementi per produrre effetti altrimenti inottenibili. In ogni caso il fine pratico della conoscenza è la previsione e abbiamo buone ragioni per considerare caratteristiche definitorie della conoscenza appunto quelle sue proprietà che rendono possi,. bile la previsione. " Savoir pour prévoir. " La previsione richiede l'anticipazione mentale di eventi futuri, un compendio di combi­ nazioni p ossibi l i di elementi dati. E non si può ottenere questo ri­ su ltato pre n dend o gli elementi reali e disponendoli secondo ordini d i ve rsi : c i ò sa rehbe provare e non prevedere; quel che vogliamo è e s p ri m e re u n g i u l l i z i o c i rca possih ili comhinazioni prima che esse

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siano venute realmente a esistere. È necessario, pertanto, rimpiazzare gli oggetti reali con qualcos'altro che possa rappresentarli nel gioco delle combinazioni, ossia con simboli che sia possibile maneggiare con facilità. Il ruolo di segni di tal fatta è svolto o da raffigurazioni mentali che possiamo disporre e ridisporre nell'immaginazione (e questo, principalmente, è il processo psicologico del " pensare ") op­ pure - in casi più complessi - usiamo segni scritti : figure e numeri in disegni e calcoli, o magari perfino piccoli modelli, specie nel caso delle invenzioni tecniche. Come quasi ovunque, le parole svol­ gono, qui, un ruolo molto importante ; sono segni utili tanto nel­ l'acquisire conoscenza quanto nel comunicarla. Ecco dunque ciò che avviene quando acquisiamo conoscenza o prendiamo cognizione di una cosa : la riduciamo mentalmente a qualche altra cosa o a cose di cui abbiamo già esperienza, e questa " ri­ duzione " è semplicemente una descrizione del nuovo oggetto per mezzo degli stessi segni che descrivevano i vecchi oggetti. In tal modo lo " sconosciuto " è reso " conosciuto ". Con questo in mente, conside­ riamo alcuni esempi di come la parola " conoscere " è usata nella vita d'ogni giorno. " Sai che cosa si sta movendo laggiù? " " Sì, è un uomo. " Questa affermazione riposa sulla scoperta che la sagoma in movimento pre­ senta forti somiglianze con le sagome di esseri umani di sesso ma­ schile che l'osservatore, nell'infanzia, ha imparato a chiamare con la parola " uomini ". " Sai chi è? " " Sì, è James Miller. " Qui la scoperta della somiglianza è stata portata assai oltre, tanto che l'oggetto in questione può essere chiamato con ciò che, sul piano della vita quo­ tidiana, svolge il ruolo di un nome individuale; esso è identificato. Se, in una tribù di primitivi, un bambino chiede al padre : " Sai com'è fatto il fuoco? ", si sentirà spiegare il misterioso fenomeno in termini a lui perfettamente familiari: " Prendi un pezzo di legno duro e un pezzo di legno morbido e strofinali insieme i n questo modo "; e così via. Qualunque altro caso vogliamo esaminare, ovunque si tratti di genuina conoscenza troveremo come tratto comune atti di rico gni­ zione che ci mettono in grado di descrivere l'oggetto di essa per mezzo di segni che sono usati anche in altre occasioni. Ora, questa attività consistente nel trovare somiglianze fra cose che a prima vista non sembrano avere niente in comune è gradual­ mente divenuta un piacere in sé. Il processo di acquisire conoscenza, d a p p r i m a n i e nt ' a ltro che un mezzo indispensabile al fine di padro­ neggi a re cose e situazi o n i per gli scopi della vita, ha avuto lo stesso

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destino toccato ad altre attività utili: come il camminare si è svilup­ pato nella danza, e il parlare nel canto, cosÌ il perseguimento della conoscenza ha portato alla scienza. La mente umana prova piacere nel ridurre le cose l'una all'altra, l'uomo gusta questo gioco, indi­ pendentemente dal fatto di poter derivarne o no un vantaggio pra­ tico. Stanley Jevons comincia il suo famoso libro l con questa frase d'apertura : " La scienza nasce dalla scoperta dell'identità nella diversità. " Ogni progresso della conoscenza scientifica consiste nella sco­ perta di una nuova descrizione di una cosa o di un processo, una descrizione in termini di qualche altra cosa. Il chimico descrive l'acqua come un particolare composto di ossigeno e idrogeno; egli non ha più bisogno della parola " acqua ", e può sempre scrivere al suo posto la combinazione di segni H 20. Il fisico scopre, tra tutti i differenti " elementi " chimici, certe somiglianze che lo mettono in grado di descriverli come combinazioni di " protoni " e di " elet­ troni ", riducendo in tal modo da 92 a 2 il numero dei simboli ne­ cessari; egli descrive tutte le proprietà della luce, del calore radiante, dei raggi R6ntgen e delle onde radio in termini di proprietà elettro­ magnetiche dei " fotoni ". Non si deve supporre che questo schema sia limitato alle scienze nel senso più ristretto della parola; lo storico, il linguista, colui che lavora nel campo delle scienze sociali, tutti costoro seguono, entro il proprio campo, il medesimo metodo. Lo storico che scopre da chi fu ucciso Cesare trova che la nuova descrizione " uccisore di Ce­ sare " può essere applicata a Bruto (e a qualcun altro) ; il linguista che risale all'etimologia di un certo termine scopre che una certa altra parola può essere descritta come " la radice di quel termine ", e cosÌ via. Ovunque si abbia un reale progresso della conoscenza, questo ha sempre il medesimo carattere : consiste nel fornire una descrizione di qualcosa in termini di qualche altra cosa, ossia una descrizione formata da una nuova combinazione di vecchi segni. È tempo, adesso, di ricordare che, in quanto abbiamo avuto modo di d i re a proposito del linguaggio e dell'espressione, era inclusa la possibilità di rappresentare e di comunicare un fatto mediante 1 1 1 1 :\ nllova combinazione di vecchi simboli. Così concludiamo: ogni gC1luina Conoscenza è Espressione. Non si tratta, ovviamente, di una I.

\v . s.

J l: vons, "J'be " rillciJ>lcs or Scicnce ( Londra 1 8 74 ) .

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mera coincidenza, di un fatto interessante e basta, ma della vera e propria essenza della conoscenza sia scientifica sia comune. Ciò è della massima importanza. Penso si possa dire - e spero ne resterete convinti alla fine della lezione - che tutta la miseria della metafisica è causata dal non aver saputo veder chiaro su questo punto. La Conoscenza è Espressione; non esiste, di conseguenza, una conoscenza inesprimibile. Non potete venire a dirci: " Ah, ho sco­ peno cos'è questa cosa, ma mi è impossibile dirlo. " L'effettiva co­ noscenza è ricognizione, così, se ci dite che conoscete effettivamente una cosa, dovete essere in grado di rispondere alla domanda: " Bene, e come che cosa l'avete riconosciuta? " Prima di trarre ulteriori conclusioni da questa idea dovremmo ve­ dere se vi sia identità completa fra conoscenza ed espressione doman­ dandoci: se ogni pezzo della conoscenza è espressione, è anche vero che ogni espressione è eo ipso conoscenza? Per rispondere basta consi­ derare le espressioni del nostro linguaggio verbale ordinario, in cui può essere tradotta ogni altra cosa; vale a dire, ci limitiamo a proposizioni nella forma usuale. Ogni proposizione comunica conoscenza? Dobbiamo subito escludere le mere proposizioni tautologiche che non dicono nulla e dovrebbero forse addirittura non essere consi­ derate propriamente proposizioni; di esse dovremo parlare in se­ guito. Messe da parte queste, rimangono quelle che, nella termino­ logia di Kant, sarebbero state chiamate giudizi sintetici, e non può esservi dubbio che tutte queste comunicano una qualche specie di conoscenza. Quando ascolto una proposizione non tautologica mi viene effettivamente detto qualcosa che sarà nuovo per me (a meno che non mi sia capitato di conoscerlo prima) e la proposizione mi risparmierà di scoprirlo da me. (Assumiamo che la proposizione sia vera; se è falsa, non esprimerà conoscenza, ma errore.) Il semplice enunciato " l'anello è sopra il libro " comunica certamente una qual­ che sorta di conoscenza proprio come la proposizione scientifica " l'atomo di elio puro contiene due elettroni liberi ". Tuttavia, fra i due casi sussiste naturalmente una differenza essen­ ziale. Il primo è costituito da un'asserzione relativa a un singolo fatto che non rende più semplice la nostra raffigurazione del mondo; il secondo ha il carattere di una spiegazione. Per qualche scopo par­ ticolare può essere della massima importanza sapere che l'anello stava sul libro, e certamente ciò costituisce una conoscenza poiché p resu ppone perlomeno tre atti di ricognizione : I ) di un oggetto c o m c a nc l l o ; 2) di un altro oggetto come libro ; e 3) della relazione

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spaziale fra i due, trovandosi il primo oggetto sopra il secondo. E tuttavia sentiamo che di per sé questa conoscenza rimane al più basso livello, mentre l'asserzione sull'atomo di elio appartiene a un'assai alta sfera di pensiero. La seconda asserzione è di un ordine di " interesse " di gran lunga più elevato del primo. Penserete subito che ciò sia dovuto a differenti livelli di genera­ lità: la proposizione sull'anello verte su un fatto solo, piccolo e insi­ gnificante, mentre quella sull'elio è applicabile a tutti gli innumere­ voli atomi di elio del mondo. In ciò vi è qualcosa di vero, ma non è tutto. In primo luogo, è possibile che fatti singoli e irripetibili abbiano un alto grado di importanza; in tal caso, sono chiamati " fatti storici ". Ma nel caso della storia dell'umanità, si vedrà che l'interesse non è di carattere scientifico, ma umano (esso esercita un richiamo più sul sentimento che sull'intelletto). In secondo luogo, la conoscenza di un oggetto singolo o di un singolo evento può talora essere annoverata tra i grandi progressi della scienza, ad esem­ pio nel caso della scoperta di una stella o della spiegazione, in geo­ logia, di un'eruzione vulcanica. CosÌ la differenza di generalità non è sufficiente a dar conto della distinzione fra conoscenza come cono­ scenza di un fatto e conoscenza come spiegazione. La differenza reale sembra essere questa: ci troviamo in presenza di una mera asserzione di fatto se gli atti di conoscenza su cui la proposizione si basa consistono nel riconoscere qualche entità diret­ tamente data come qualcosa che mi è già familiare e a cui posso perciò applicare un nome o una descrizione. Vedo - o sento - una cosa rotonda e dico : " Questo è un anello " ; vedo una cosa piatta e d ico: " Questo è un libro "; vedo una cosa verde e dico: " Questa è IIna foglia "; vedo un oggetto di cui non conosco il nome o l'uso, ma dico: " Questo è qualcosa che ho visto nell'Africa Centrale. " Oppure posso dire : " Questo è sopra quello ", " Questo è più scuro di quello ", c cosÌ via. Il tratto comune a tutte le proposizioni citate è che co ntengono le parole " questo " o " quello ". In tutti questi casi, gli atti di ricognizione conducono solo al risultato che un'entità, indi­ l'ata da principio unicamente con la parola " questo ", è adesso deno­ l a l a dalla parola che è sempre usata per essa (o per ogni individuo di IIna classe di cose simili). Per giungere alla proposizione " l'anello i: sopra il l ibro " non abbiamo che da chiamare ogni cosa con il suo sl' m pl ice nome usuale e mettere le parole nel giusto ordine : una p ro pos i zio n e del genere non farà che esprimere l'esistenza di un f: l l l o n e l mondo senza spiegarlo.

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Nel caso della conoscenza esplicativa, come possiamo chiamarla, la situazione è diversa. Qui la proposizione parla della cosa o del­ l'evento per mezzo del suo nome usuale, ossia, della semplice parola che è usata sempre come simbolo di essa, e p o i dà ad esso un nuovo nome che è una nuova combinazione di altri simboli. In futuro, se fosse conveniente, si potrebbe usare sempre la nuova combinazione, eliminando con ciò del tutto il simbolo semplice. In tal modo, la spiegazione porta a una riduzione del numero dei simboli necessari per la descrizione del mondo, ed è questa la vera natura ed essenza della spiegazione. Alcuni dei più grandi progressi nella spiegazione dell'universo sono contrassegnati dalle scoperte che hanno messo in grado i fisici di eliminare completamente i simboli speciali per i fenomeni del calore, del suono e della luce e di descrivere tutto esclusivamente con simboli elettrodinamici e meccanici. l' due generi di conoscenza, sebbene in ultima analisi riposino entrambi su una stessa base di atti di ricognizione, sono così diffe­ renti quanto a importanza che sarebbe meglio non chiamarli con lo stesso nome. Una volta pensavo che forse il termine " cognizione " avrebbe potuto essere usato per la conoscenza esplicativa, ma sa ­ rebbe invece poco opportuno in quanto renderebbe la cognizione dipendente da una ricognizione precedente. Esiste, naturalmente, il termine " spiegazione ", ma non si usa impiegare tale parola a questo proposito; alla maggior parte delle persone suonerebbe strano par­ lare dell' epistemologia come " teoria della spiegazione ", invece che come " teoria della conoscenza ".2 Tuttavia, dopo aver fatto la di­ stinzione, penso che per noi non vi siano pericoli di confusione; e ogniqualvolta vorremo sottolineare che non stiamo parlando di una mera conoscenza di fatti, potremo sempre usare il termine " spie­ gazione ". Ma disgraziatamente vi è un altro e assai comune uso della pa­ rola " conoscenza " che dovremo evitare accuratamente, perché ha dato origine, a mio avviso, agli errori più tremendi - potrei perfino dire alrerrore fondamentale della filosofia di tutti i tempi. Il cattivo uso di cui sto parlando si ha quando la parola " conoscenza " viene applicata a ciò che è spesso chiamato " consapevolezza immediata " 2. [È proprio questo il significato del termine inglese epistemology, che corri­ sponde a l tedesco Erkenntnistheorie e all'italiano " gnoseologia". Nella termi­ nologia filosofica italiana il termine "epistemologia" viene invece perlopiù usato per indica re la filosofia della scienza, o almeno quelle parti della filosofia della scil" l lz:I chc si occupano dci problema della validità delle asserzioni scientifiche. l

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o anche - e questo è il termine tecnico più famoso - " intuizione ". Quando odo un suono o vedo un colore, diciamo spesso che proprio con questi atti di udire o di vedere io vengo a " conoscere " che cosa è un suono o che cosa è un colore - oppure, come sarebbe più prudente dire : vengo a conoscenza di quel particolare suono che mi capita di stare udendo, o di quel particolare colore che ho sotto gli occhi; infatti, come probabilmente sapete, la questione del passaggio da questi colori e suoni particolari al " colore " e " suono " universali ha dato molto da pensare. Quel particolare colore o suono o sentimento presente " nella mia mente " in un particolare momento è esattamente ciò che nella prima lezione abbiamo chiamato " contenuto ", e potete indovinare facil­ mente il rapporto che sussiste fra il tema di cui ci occupiamo adesso e il nostro argomento principale. Quando guardiamo la nostra foglia d'acero, abbiamo un'esperienza immediata di una particolare qualità di " verde ". Vi è qualche ragione o giustificazione per par­ lare di questo avere esperienza come di una sorta di " conoscenza "? L'uso delle nostre parole, ossia le nostre definizioni, dovrebbero venir interamente determinate dal punto di vista pratico, e noi non dovremmo impiegare la stessa parola per due cose che non hanno niente in comune quanto a natura e scopo. Bertrand Russell distin­ gue fra " conoscenza in base all'avere esperienza " (knowledge by acquaintance) e " conoscenza per descrizione " (knowledge by description), ma per quale motivo la prima dovrebbe comunque es­ sere detta " conoscenza "? A me sembrano sufficienti le sole parole " avere esperienza " e così possiamo sottolineare la distinzione fra avere esperienza e conoscenza. Non vi è, fra le due, alcuna somi­ glianza di significato. Siccome l'avere esperienza ha a che fare con il contenuto, siamo destinati a incespicare ogniqualvolta proviamo a parlarne. Dicendo che " conosciamo " il contenuto per averne esperienza o per in­ t u i zione trattiamo il contenuto come l'oggetto di un'attività, come q u alcosa che è " colto " dalla " mente ", tracciato all'interno di essa, reso parte di essa, o, peggio di tutto, da essa percepito. Si dà così l i m p r e ssione che la mente si procacci " conoscenza " di contenuto a p p ro pria n d osene in qualche modo. Ciò è estremamente fuorviante. I l co nt e nu t o è i l contenuto; ad esso non si può far niente, esso sem­ p l i cemente c'è (e ciò non può neppure essere " espresso "), ecco tutto. Posso pe rce pi re u n a foglia verde ; dico che la percepisco se (fra le alITe cose) il conte n u t o " verd e " c'è, ma sarebbe insensato dire che '

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percepisco questo contenuto. E non debbo dire, naturalmente, che il contenuto è " nella mente " perché, a prescindere da altre serie difficoltà legate all'uso del termine " mente ", ciò avrebbe senso solo se il contenuto potesse anche non essere nella mente (magari prima che essa lo " colga "), poiché una proposizione non ha significato a meno che sia possibile per essa essere falsa oltre che vera (sebbene naturalmente una sola delle due possibilità sia realtà). Ma se non vi è senso nella domanda: " Può il medesimo con­ tenuto essere in due menti? " - come abbiamo visto nella prima lezione - non vi è certamente alcun significato in quest'altra: " Può un contenuto essere nella mente come pure fuori di essa? " Per " conoscenza " intendiamo sempre un atto o piuttosto il ri­ sultato di un atto (di comparazione, di ricognizione, di denomina­ zione), ma il contenuto, semplicemente, è presente; non è necessario alcun atto di intuizione, di averne esperienza, per portarlo dinanzi alla mente o dentro di essa: tutte queste frasi non sono che futili tentativi di esprimere il suo semplice esserci; non dovremmo dire mai che il contenuto è " conosciuto " o che potrebbe esser co­ nosciuto. Se insistiamo a usare un verbo che prenda come proprio oggetto il " contenuto ", e come proprio soggetto l' '' io " o la " mente ", è la parola " godere " che ci si fa avanti. È l'equivalente più vicino al tedesco erleben, ma presenta alcuni svantaggi; dovremmo dire, per esempio, che la mente " gode il dolore ". Ma, come sappiamo, non v'è modo, qui, di parlare correttamente ; ci dobbiamo accontentare di bandire da queste frasi la parola " conoscenza ". La parola " intuizione " è un termine ottimo per denotare certi atti mentali - precisamente quelli di azzeccare le proposizioni vere prima che si sia dimostrato che lo sono, e questi sono davvero atti di acquisizione di conoscenza - ma non vi è alcuna giustificazione per usare il termine come fa Bergson, poiché egli ne parla come se fosse un atto con cui si coglie il contenuto. L'intuizione di Bergson non ha assolutamente nulla a che fare con la conoscenza nel senso che questa parola ha tanto nella scienza quanto nella vita quotidiana. Nondimeno, la " conoscenza intuitiva " di Bergson non è che una formulazione particolarmente enfatica di un'idea molto antica che pervade quasi tutti i sistemi filosofici tra­ dizionali. Si tratta dell'idea che vi sono gradi diversi di conoscenza (il che è perfettamente vero) e che il grado di conoscenza dipende da quanto intimo è il contatto fra conoscente e cosa conosciuta (il

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che è assolutamente falso). Si riteneva che ogni conoscenza espli­ cativa, comune e scientifica, che descrive la cosa conosciuta in ter­ mini di qualcos'altro, dovesse, proprio per questa ragione, rimanere superficiale, meramente descrittiva, e che non potesse mai giungere al livello più alto, poiché pareva che ciò che veramente si voleva conoscere fosse la cosa stessa, e non una mera descrizione di essa. La conoscenza scientifica, pertanto, sembrava essere solo un'intro­ duzione al genere più alto di conoscenza (o un suo sostituto), consi­ stente nella consapevolezza immediata dell'oggetto stesso. Da quanto si è già detto, dovrebbe risultare con chiarezza quale spaventosa confusione si sia fatta in questo ragionamento. È in­ sensato contrapporre l'una all'altra la conoscenza della cosa e la conoscenza della sua descrizione. Abbiamo visto che la vera e pro­ pria conoscenza delle cose consiste nella loro descrizione (in termini di altre cose). Di conseguenza, il più alto grado di conoscenza di una cosa è la più completa, la più perfetta descrizione di essa, e non la cosa stessa. La cosa non è la più perfetta delle sue descrizioni, ma qualcosa di completamente differente. Chi voglia conoscere un oggetto il più completamente possibile ne vuole una spiegazione, non vuole l'oggetto stesso. Non è possibile che lo voglia, perché già lo ha; se infatti non lo avesse, se non ne avesse già esperienza (nel senso in cui si suppone che l'intuizione produca l'avere espe­ rienza), come potrebbe desiderare una spiegazione? Se avete il desiderio di conoscere qualcosa, dovete certo essere consapevoli di questo qualcosa prima che il desiderio possa nascere. Così, l'intui­ zi one bergsoniana, lungi dall'essere il fine e il più alto grado di ogni LOnoscenza, non ne costituisce neppure l'inizio; essa deve precedere tu tt i i tentativi di conoscere qualcosa. Il contenuto deve esserci p r i m a che possa essere studiata la struttura. Spero che nessuno obietterà, a questo punto, che il desiderio di " conoscere " una cosa è spesso stimolato da una descrizione e sod­ d isfatto solo dalla sua presenza effettiva; se, per esempio, abbiamo sl" ntito parlare molto delle piramidi egiziane, può accendersi in noi I I n vivo desiderio di averne esperienza di persona; ed è possibile che non troviamo pace finché non facciamo un viaggio in Egitto e pos i a m o effettivamente gli occhi su di esse. Ma in un caso di questo I ipo è o vv i o che ciò di cui andiamo in cerca non è affatto cono­ '.n' l l I.a (sebbene il risultato della nostra esperienza venga da noi . ks n i n o con l e p arole " Finalmente adesso conosco le piramidi! ") I ,('nsì .f!:odilllc11Io. Ciò che vogl iamo è un ce rto brivido, che è qual,

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cosa di completamente diverso da una vera e propria conoscenza esplicativa. L'autentica conoscenza delle piramidi consiste in propo­ sizioni sulla loro natura e la loro storia, e per ottenere queste pro­ posizioni (le quali anche ci darebbero un brivido, ma di genere diverso) non è affatto necessario andare a vedere le piramidi, pos­ siamo leggere notizie su di esse o, se vogliamo scoprire sull'argo­ mento fatti che non si trovano descritti in nessun libro, possiamo mandare un'altra persona in Egitto, farle compiere le necessarie osservazioni e farcele comunicare. Ma il godimento che proviamo quando guardiamo le piramidi non si può comunicare e non vi è niente che possa sostituirlo. E resta vero che esso non è il più alto livello di conoscenza e neppure quello più basso, bensì semplice­ mente l'indescrivibile che precede ogni altra cosa. Se l'intuizione fosse la specie più perfetta di conoscenza non sarebbe necessaria - né invero potrebbe esistere - alcuna scienza psicologica, perlomeno se si suppone che l'oggetto della psicologia sia la conoscenza dei " dati o processi di coscienza ". Infatti, qual­ siasi cosa questa locuzione possa significare, si intende certo che essa stia per tutto quello di cui abbiamo più intima esperienza: i données immédiates de la conscience, che, secondo Bergson, sono le sole cose forniteci dall'intuizione. Se cose del genere fossero ciò che è meglio e più completamente " conosciuto ", in che consisterebbe l'utilità della psicologia? La cognizione intuiti va psicologica sarebbe l'ideale di ogni conoscenza, il suo sviluppo e la sua sistematizzazione scien­ tifici sarebbero impossibili e del tutto superflui, il socratico " Conosci te stesso " sarebbe un'esortazione ridicola, dal momento che sarebbe impossibile non conoscere completamente sé stessi. In realtà, una scienza della psicologia esiste ed è una scienza assai necessaria se vogliamo davvero conoscere il funzionamento della " coscienza ", ma è anche una delle scienze più imperfette dal momento che sembra molto difficile conoscere sé stessi e le leggi della coscienza. Essa sembra richiedere i metodi scientifici dell'esperimento, dell'osserva­ zione e della comparazione, mentre la semplice intuizione, se fa qualcosa, fornisce giusto i dati che devono essere conosciuti, ma non la loro conoscenza. La ragione principale per cui così generalmente si riteneva che ogni reale conoscenza dovesse in qualche modo culminare nell'avere esperienza immediata o nell'intuizione sta nel fatto che esse sem­ bravano indicare il punto cui dobbiamo guardare per il significato ultimo di tutte le nostre parole e d i tutti i nostri simbol i . Una defi-

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nizione dà il significato di un termine per mezzo di altre parole, queste possono a loro volta essere definite aneora per mezzo di altre parole, e così via finché non giungiamo a termini che non consen­ tono più una definizione verbale; il significato di questi ultimi deve essere dato dall'avere diretta esperienza: si può apprendere il signi­ ficato delle parole " gioia " o " verde " solo essendo gioiosi o vedendo il verde. Così, la comprensione e l'interpretazione definitiva di una proposizione sembrano essere raggiunte solo in quegli atti di in­ tuizione : non è dunque tramite essi che in definitiva si consegue la conoscenza reale espressa dalla proposizione? Le considerazioni formulate nella nostra prima lezione ci hanno già fatto capire fino a che punto queste osservazioni siano vere. Abbiamo visto che il linguaggio verbale comune deve essere inte­ grato dall'indicazione di oggetti e dalla loro presentazione per rendere le nostre parole e i nostri enunciati utili mezzi di comuni­ cazione, ma al tempo stesso abbiamo visto che in questo modo noi stavamo solo spiegando il nostro linguaggio di parole con un lin­ guaggio di gesti e che sarebbe un errore pensare che con questo l 1 letodo le nostre parole vengano realmente agganciate al contenuto che si suppone l'intuizione ci fornisca. Abbiamo mostrato che il significato delle nostre parole era interamente incluso nella struttura dci contenuto intuitivo. Così, non è vero che quest'ultimo (l'ine­ s primibile verdità del verde) - che solo l'intuizione può fornire i n tervenga effettivamente nella comprensione della conoscenza: è i n lpossibile che lo faccia. l noltre - e quest'osservazione risolve la questione, a prescindere da « 'g"ni altra considerazione - il fatto che l'intuizione, la consapevolezza i l l l l l lediata o, come dovremmo piuttosto dire, la pura e semplice pre­ ',l'nza dei contenuto sia indispensabile per ogni conoscenza non ha : ! l n l lla importanza, perché è indispensabile per ogni cosa; è l'inef­ Ll hilc e sempre presente fondamento di tutto il resto, anche della c o n oscenza, ma ciò non significa che sia esso stesso conoscenza. Q u a n d o guardo il cielo azzurro e mi perdo interamente nella ' , 1 1 : 1 co ntemplazione, senza pensare, io sto allora godendo il blu, 1 1 1 1 t ro v o in uno stato di pura intuizione, il blu riempie compIeta1 I I l ' n t e l a m i a mente, questa e il blu sono divenuti una sola cosa; è I l gl' nl' r e di fusi o ne che il mistico sogna. L'intuizione di Bergson i, L . ("(}'/I ("c':::ùm c mistica della conoscenza Diremo dunque che attra1 , ' 1\ 0 l o sta to di pura consapevolezza che ho appena descritto noi 1 � l I l 1 1 g i ;l I l 1 o a ( " 0 1/0,l'CCTC che cosa è rea l m e nt e il " bl u " ? Assoluta-

.

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mente no ! Per dare un nome al colore che sto vedendo devo andare al di là dell'immediatezza della pura intuizione, devo pensare, pel quanto poco. Devo riconoscere il colore come quel particolare colore che ho imparato a chiamare " blu ". Ciò comporta un atto di comparazione, o di associazione ; chiamare una cosa con il suo nome appropriato è un atto intellettuale - per quanto il più sem­ plice degli atti dell'intelletto - e il risultato di ciò è la conoscenza reale nel senso appropriato in cui usiamo la parola. L'enunciato " questo è blu " esprime una reale conoscenza, una conoscenza non di carattere esplicativo ma fattuale. La semplice conoscenza descrittiva " questo è blu " dà origine a una spiegazione quando si sostituisca il termine " blu " con un com­ plesso di altri termini: un compito, questo, alquanto difficile a cui si sobbarca la fisica (o la fisiologia) e che conduce a una proposi­ zione della forma: " Questo blu è luce della tale intensità, della lunghezza d'onda tale " e così via (oppure, " Questo blu corrisponde a un processo cosÌ e cosÌ di un sistema nervoso così e cosÌ ") Tutto ciò conferma la nostra asserzione che la conoscenza non richiede una reale intimità fra il conoscente e il conosciuto e che la conoscenza più perfetta non consiste in una fusione di entrambi. Al contrario, ogni conoscenza sembra divenire sempre più completa via via che ci allontaniamo dall'oggetto. Pensate a quanto è perfetta oggi la nostra conoscenza della natura della materia - perlomeno se la si paragona a quella di altri tempi - e quanto profondamente lontana è da quel che la gente pensava di sapere sulla materia per intuizione ! Se chiediamo allo scienziato qual è la natura dell'acqua, egli ci dice che essa consiste di molecole composte di due atomi di idrogeno e di un atomo di ossigeno, e che questi atomi consistono di protoni ed elettroni in numero e disposizioni ben definiti, e che i protoni e gli elettroni non sono che un certo modo di parlare di frequenze di vibrazioni, di probabilità e così via, sostituendo in tal modo alla parola " acqua " altri termini con significati assai strani, molto, molto lontani da qualunque cosa di cui abbiamo esperienza diretta e senza alcuna somiglianza con le intuizioni che sorgono quando ci troviamo a stretto contatto con l'acqua (ad esempio, quando la beviamo o facciamo il bagno). Lo scienziato arriva ai suoi risultati in modo estremamente tortuoso e noi li accettiamo come la vera risposta alla nostra domanda sulla reale natura dell'acqua. Potremmo anche accettare la risposta del metafisico? Egli ci dice che il risultato dello scienziato non lo soddisfa, poiché dà una .

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descrizione dell'acqua in termini di qualche altra cosa, contemplan­ dola semplicemente dall'esterno e falsificando in questo modo la nostra cono:.cenza, mentre l'unico vero metodo per scoprire che cosa è in effetti l'acqua consisterebbe nell'identificarsi con essa. Schopenhauer riteneva che se egli avesse fatto questo avrebbe sco­ perto che l'acqua non è che Will, e Bergson ci assicura che essa ci si rivelerebbe come élan vital. Possiamo accettare asserzioni di que­ sto tipo? Se noi in effetti ci trasformassimo in acqua, noi saremmo acqua, ma a me sembra che ciò non significherebbe che conosce­ remmo che cosa l'acqua sia. Forse che l'oro conosce la natura dell'oro? E la luce conosce la natura della luce ? L'intuizione, l'identificazione della mente con un oggetto, non è conoscenza dell'oggetto né contribuisce ad essa, poiché non sod­ disfa allo scopo dal quale la conoscenza è definita: trovare la nostra strada attraverso gli oggetti, prevederne il comportamento; e ciò si raggiunge scoprendone l'ordine, assegnando ad ogni oggetto il suo posto appropriato entro la struttura del mondo. L'identificazione con una cosa non ci aiuta a trovarne l'ordine, ma ci impedisce di farlo. L'intuizione è godimento, il godimento è vita, non conoscenza. E se voi direte che essa è infinitamente più importante della cono­ scenza, io non vi contraddirò, ma in ciò sta forse una ragione in p i ù per non confonderla con la conoscenza (la quale ha una sua propria importanza). Abbiamo scoperto il tratto più essenziale della conoscenza nel fatto che essa richiede due termini : uno che è conosciuto e uno che è c i ò come il quale esso è conosciuto. Ma nell'intuizione abbiamo solo un termine: quando ci perdiamo nel godimento del cielo blu, c'è il " blu " e nient'altro. Questa è anche la ragione per cui il con­ t enuto dell'intuizione non può essere espresso, laddove l'esprimibi­ l i d è una proprietà essenziale e non accidentale della conoscenza. I l mistico il quale sostiene che l'intuizione è la forma più alta del conoscere è condannato al silenzio assoluto; egli non può comuni­ ca re la sua visione, si contraddirebbe se nei suoi libri o nei suoi slTmoni tentasse di descrivere la sua " conoscenza ", sebbene egli I Il I ss a certamente spiegare in quale condizione e in quali circostanze s i t rovava al lo rch é l'intuizione gli giunse e che cosa fece per porsi 1 1 1 t a le condizione. Se ricapitoliamo nel modo più breve possibile i punti principali d i c o n t rasto fra intuizione e conoscenza reale otteniamo il seguente l , n ,Spl· t t O :

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Intuizione

Conoscenza

solo un termine godibile vivente presentazione avere esperienza inesprimibile ciò che è ordinato contenuto

due termini utile pensante spiegazione descrizione espressione ordine forma

Il risultato principale di questa nostra analisi è l'aver sgombrato il campo da tutti i pregiudizi contro la conoscenza scientifica e il suo metodo. Non è più possibile credere che la filosofia possieda un più alto genere di conoscenza che ci darebbe una visione pro­ fonda e definitiva della natura delle cose alla quale la scienza an­ drebbe sempre avvicinandosi senza mai riuscire a raggiungerla, poiché dovrebbe fermarsi all'improvviso a certi punti che segnano il confine ultimo di ogni conoscenza discorsiva, scientifica. Un tal confine non esiste, non esiste nessuna conoscenza intuitiva che la filosofia possa rivendicare come suo proprio metodo specifico. È solo in tempi recenti che la conoscenza scientifica e quella filo­ sofica sono state messe a confronto in questo modo disorientante. Ciò è stato fatto, nel modo più deciso, da Schopenhauer e da Bergson i quali dichiarano entrambi che la scienza guarda al mondo solo dal di fuori, mentre la filosofia, grazie all'intuizione, guarda ad esso dal di dentro. Il pensiero che traspare dalle parole di questi due pensatori è l'idea fondamentale non soltanto della loro stessa filosofia, ma della metafisica di tutti i tempi. La metafisica, nel senso più rigoroso del termine, ha sempre mirato " alla natura più intima delle cose in sé " e ciò che realmente veniva inteso con questa o con qualche simile locuzione non era altro che il contenuto, nonostante che tale ter­ mine possa non essere stato mai usato; e la sua concezione della conoscenza, sebbene spesso non lo si dichiarasse esplicitamente, è stata sempre quella mistica dell'intuizione, dell'avere intima espe­ rienza. Tutti i metafisici hanno cercato di dirci com'era il contenuto del mondo: essi tentavano di dare espressione all'inesprimibile. Per questo hanno fallito. Un esame accurato della storia della filosofia mostrerebbe facil­ mente che ogni metafisica è consistita, in effetti, nel disperato ten­ tativo di esprimere il contenuto; qui dovremmo contentarci di

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prendere in considerazione uno o due esempi che ci chiariscano la situazione. I maggiori sistemi di metafisica e quelli che hanno avuto il mag­ gior numero di sostenitori sono i sistemi " idealistici ". In che con­ siste la dottrina dell'idealismo metafisico e perché esercita sui filosofi un fascino cosÌ grande? Essa asserisce che la vera essenza di tutte le cose è dello stesso genere di quella che esperiamo nella nostra stessa coscienza; e poiché i dati della coscienza hanno il carattere di " idee ", questa concezione è detta idealismo. lo credo che sia assai semplice capire come si debbano interpretare queste frasi. Esse ri­ velano il desiderio del filosofo di poter avere di tutte le cose un'espe­ rienza di carattere cosÌ intimo quale è quella che egli ha con i contenuti della sua stessa coscienza. La coscienza è l'unico luogo in cui il sé coincide con la realtà, in cui il conoscente è identico al conosciuto. E, continua ad argomentare il filosofo, se in questo luogo unico vengo a scoprire che la realtà è " mentale " (ossia con­ siste di quella stessa materia prima di cui son fatte le idee) io sono autorizzato a inferire per analogia che la stessa cosa sarà vera anche di tutte le altre parti della realtà con le quali non mi capita di avere un'altrettanto intima esperienza. Dopo quanto abbiamo detto sulla natura della conoscenzà, do­ vrebbe risultare chiara la logica davvero penosa di questo ragiona­ mento. Non è, ovviamente, che troveremmo da ridire sull'inferenza per analogia, se inferenza vi fosse, ma in realtà non ve n'è alcuna, essendo tutti questi enunciati privi di significato. Notiamo gli sforzi disperati per dire qualcosa circa il contenuto : si dichiara che ciò di cui abbiamo un'esperienza di carattere immediato è " mentale ". Che significa? Niente, perché chiaramente " contenuti di coscienza ", " ciò di cui abbiamo un' esperienza di carattere immediato " e " men­ tale " sono, in questo contesto, termini assolutamente equivalenti, c a l l orché li predichiamo l'uno dell'altro non diciamo niente. E I Igualmente non diciamo niente quando predichiamo uno di essi o dc I l ' '' e�senza reale " o della " natura più intima " di una cosa. In­ f:lni, con queste ultime locuzioni il metafisico desidera indicare la cosa come ci sarebbe data nell'intuizione se potessimo penetrare in essa, se la nostra mente, o la nostra coscienza, potesse diventare i d e mica ad essa; così, sostituendo questo significato nell'asserzione . I d 1 1 1etafisico i deal ista troviamo che egli asserisce che tutte le cose, � l · pot esse ro entrare completamente nella nostra coscienza, sareb­ l Ino 1 1 1cllt a l i , ossia contenuti de l l a n ostra mente il che sarebbe di -

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nuovo nient'altro che una penosa tautologia, quand'anche la parte ipotetica dell'enunciato avesse un significato. Ma essa non ha senso affatto, perché è insensato parlare di cose che " entrano nella mente " e tuttavia restano ciò che erano prima di entrarvi. È davvero troppo primitivo paragonare la coscienza a una scatola in cui gli oggetti potrebbero essere messi e levati. Ci siamo già convinti pochi minuti fa che uno non può mai dire che il medesimo contenuto è qua e là, " nella " mente e " fuori " di essa, poiché, qualunque cosa diciamo, questa esprimerà soltanto la struttura. Tra l'altro, le parole " co­ scienza " e " mente " sono cosÌ infide che in pratica tutti gli enunciati filosofici in cui compaiono sono privi di senso. Sarei tentato di spingermi più in là fino a dire che questi termini hanno un signi­ ficato buono, onesto, definibile solo nell'uso comune del linguaggio ordinario come quando dico " Egli ha una mente acuta " oppure " Ella ha perduto coscienza ", Comunque sia, credo che adesso sia divenuta chiara la ragione per cui l'idealismo è la forma di metafisica preferita: il metafisico va a caccia del contenuto (chiamandolo " l'essenza reale dell'essere " o " la natura intrinseca delle cose " ecc.) ; egli lo trova soltanto nelle sue proprie percezioni, sentimenti, idee (che chiama mentali), e cosÌ tutto trionfante proclama il principio fondamentale dell'idealismo: " L'interna natura di ogni cosa è mentale " - che è, come abbiamo appena visto, una concatenazione di parole priva di significato. Forse non è necessario aggiungere che altri sistemi metafisici, come il dualismo o il materialismo, non sono migliori. È facile ren­ dersi conto dalle argomentazioni pro e contro queste concezioni (delle quali sono pieni i nostri manuali di filosofia) che tanto i mate­ rialisti quanto i dualisti (quanto qualunque altra specie di metafisico possa esserci) credono di dirci qualcosa circa il contenuto. Non è affatto agevole vedere in che modo la parola " materia " (che signi­ fica sostanza fisica) potrebbe essere considerata come denotante il contenuto - e questa è la ragione per cui la metafisica materialista ha goduto in generale di un minor favore dell'idealismo - ma non vi è dubbio che essa sia stata intesa in questo modo dai tempi di Democrito in poi. La caratteristica essenziale dei suoi atomi mate­ riali era che essi occupavano spazio, e poiché allora, naturalmente, la distinzione fra spazio fisico e spazio intuitivo non poteva essere fatta, il riempimento dello spazio era considerato come il conte­ nuto del quale avevamo direttamente esperienza.

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Ma non occorre, per i nostri scopi, portare ancora avanti la cri­ tica dei sistemi metafisici e il tentativo di comprenderne gli errori; è tempo di trarre le importanti conclusioni, in positivo, che scatu­ riscono dal nostro risultato che ogni conoscenza è espressione e che ogni espressione è una resa della struttura non del contenuto. Nello sviluppo della scienza avutosi nel corso degli ultimi due o tre decenni la possibilità e la necessità di una netta distinzione tra forma e contenuto sono divenute sempre più chiare, e si è sempre più pienamente riconosciuta tutta l'importanza della struttura. Il graduale apparire di questa verità - che non è ancora arrivata a risplendere con luce piena - mi sembra la maggiore conquista dell'epistemologia moderna. La separazione tra Forma e Contenuto ha una storia lunga molti secoli; dapprima essa assunse un aspetto metafisico nella filosofia di Aristotele ; da allora la linea di confine fra Struttura e Materia si è spostata continuamente verso una dire­ zione, finché adesso le ultime tracce del contenuto, per così dire, sono state eliminate e la pura Forma si è rivelata come il pura­ mente Logico. La scienza non è una raccolta di conoscenza fattuale (asserzioni di fatti) ma un sistema di conoscenza esplicativa (descrizione per mezzo di leggi). Tanto più essa si perfeziona, ossia tanto più le sue proposizioni divengono logicamente connesse, tanto più chiara­ mente diviene evidente, anche per l'occhio non addestrato, il carat­ tere formale della conoscenza: la scienza si riveste di panni mate­ matici. Sebbene questo abbigliamento sia guardato, talvolta, con un misto di timore e disprezzo persino dai filosofi, i pensatori davvero grandi di tutti i tempi, da Platone e Democrito a Leibniz e Kant, sono sempre stati ben consapevoli del fatto che non vi è speranza per l'analisi filosofica se essa non muove da una comprensione della conoscenza nella sua veste più rigorosa, ossia in quella matematica. La conoscenza ha raggiunto il suo stadio più avanzato con la fi­ sica teorica ed è ad essa che dobbiamo rivolgerci per comprendere la scienza. Non possiamo rivolgerci alla matematica pura perché - ciò può sembrare strano, ma è una conseguenza necessaria della t e rminologia che adottiamo - questa non contiene alcuna cono­ sn: nza in senso proprio. Non è una scienza, ma uno strumento della � ( " i cn/.a, usato per formulare verità scientifiche e per rappresentarne in maniera appropriata le relative connessioni. Non esprime niente d i pe r sé, ma costituisce il metodo puramente analitico o la tecnica pn t rasfo rmare espressioni equivalenti.

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La fisica teorica, se non la consideriamo nel suo processo di for­ mazione (sebbene, certamente, essa sia sempre in formazione) ma come un sistema compiuto, consiste in un numero indefinito di proposizioni chiamate Leggi di Natura. Queste sono logicamente interconnesse, ossia ognuna può essere dedotta da (è logicamente contenuta in) certe altre. È possibile trascegliere un gruppo di pro­ posizioni in modo che si possano derivare da esse tutte le altre proposizioni del sistema. Le leggi di natura che formano questo gruppo sono chiamate assiomi. La scelta degli assiomi, entro certi limiti definiti, è arbitraria, il che significa che esistono molti modi di scegliere un insieme di assiomi dal quale si possano dedurre tutte le altre proposizioni; vi sono, di conseguenza, molte forme diffe­ renti in cui si può rappresentare il sistema; una legge di natura che svolge il ruolo di un assioma in una di queste forme appare come una proposizione derivata in un'altra. Queste diverse forme diffe­ riscono solo nell'apparenza esterna, non nella loro natura essenziale, poiché sono tutte espressioni dei medesimi fatti del mondo. È una questione di convenienza, economia e last but not least di bellezza rendere l'insieme di assiomi il più piccolo e semplice possi­ bile, il che significa che di solito, fra tutte le possibilità di scelta, si preferisce quella che fa consistere l'insieme di assiomi nel numero minimo di proposizioni semplici. I due postulati della semplicità e del numero più piccolo, fra l'altro, non sono sempre compatibili, ma qui non ci occupiamo di questioni del genere, che sono talvolta considerate costituire l'argomento di una particolare disciplina lo­ gica detta " assiomatica ". È importante però tener presente che la parola " assioma " è usata in modo relativo, non assoluto. Nei vecchi sistemi filosofici, per esempio in quello di Spinoza, " assioma " signi­ ficava un principio autoevidente costituente il fondamento naturale e necessario di tutte le altre proposizioni, ma noi non annettiamo più alla parola tale dignità filosofica; che una certa legge di natura svolga il ruolo di assioma o sia considerata come derivata da un insieme di assiomi è, in linea di principio, una questione di scelta arbitraria. L'unica cosa che conta è la mutua relazione logica fra le proposizioni del sistema, la possibilità di derivare ognuna da un insieme di altre. Esternamente le proposizioni appaiono come enunciati composti di certe parole o come formule composte di cifre e di lettere che rappresentano quantità misurate. Ora tutto il lavoro del fisico teo­ rico si svolge interamente sulla carta; tutti i suoi calcoli sono fatti -

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buttando giù lunghe file di simboli e cambiando loro di posto se­ condo le regole della matematica. Finché egli sta solo calcolando, ossia considerando le relazioni logiche fra le proposizioni entro il sistema, è ovvio che non debba pensare affatto al significato dei suoi simboli; per i suoi calcoli, non fa la minima differenza quel che essi significano, egli se ne occupa solo in quanto soddisfano gli assiomi del sistema o, per esprimerci nel suo linguaggio matematico, in quanto valgano tra loro determinate equazioni. Questo è, in senso assoluto, tutto ciò che egli deve sapere e nient'altro può entrare nel sistema della fisica teorica, come appare in ogni manuale o articolo scientifico. Questa situazione è stata riconosciuta per la prima volta con chiarezza in riferimento alla Geometria, se intendiamo con questa parola la scienza dello Spazio, esprimente certe verità su punti, piani, linee rette ecc. nello spazio fisico, la quale non è una branca della matematica pura, ma fa parte della fisica. Ciò era già stato visto da Newton; a suo giudizio essa costituiva " la parte più gene­ rale della meccanica ". La prima rappresentazione della geometria come sistema coerente è dovuta a Euclide che già le aveva dato la forma classica di un insieme di assiomi dai quali sono derivate tutte le altre proposizioni geometriche. La derivazione di una proposi­ zione dagli assiomi è detta la dimostrazione della proposizione. Da una disamina più approfondita delle dimostrazioni di Euclide risulta subito il fatto che esse non sono per nulla derivazioni puramente l ogiche, ma consistono in una mescolanza di deduzioni logiche e richiami ai disegni o all'osservazione del comportamento di regoli e compassi. Disegni, regoli e compassi sono oggetti fisici, e un ri­ chiamo all'osservazione di essi è in effetti un richiamo all'esperienza. I fi losofi i quali non desideravano che le verità geometriche fossero hasate sui fatti bruti di esperienza l'hanno negato e hanno affermato che disegni ecc. non sono in effetti la fonte della conoscenza geo­ mctrica, ma solo rappresentazioni artificiali di una qualche origi­ n a ri a " intuizione pura " che precede ogni esperienza ed è indipen­ dc nte da essa. È una dottrina (avanzata con il massimo vigore da K ant) che va incontro a difficoltà insormontabili, ma non è questa la sede per criticarla; essa, in ogni caso, non ha fatto che tentare di sa l vaguardare e giustificare una situazione che a Euclide, se ne fosse st a to pienamente consapevole, sarebbe sembrata assai deplorevole l' hi s o gn o s a di correzione : e cioè che le dimostrazioni delle sue pro­ po�i/.i()ni n on erano di natura puramente logica. I matematici (che

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sono sempre stati i più ardenti e scrupolosi logici del mondo), assai preoccupati e scontenti, cominciarono a lavorare per epurare tutte le dimostrazioni geometriche di quanto non fosse puramente lo­ gico, ossia di ogni richiamo al significato delle parole che compaiono nelle proposizioni, indipendentemente dal fatto che il significato provenisse dall'esperienza o dalla misteriosa " intuizione pura " di Kant. Una dimostrazione è puramente logica se è valida in virtù della sua sola forma, indipendentemente dal significato dei suoi termini. (Come esempio più semplice potete prendere il vecchio modo in Barbara : se tutti gli M sono P, e se tutti gli S sono M, allora tutti gli S sono P, qualunque possa essere il significato dei termini M, S e P.) Ora, che cosa è divenuta la geometria dopo che è stata depurata da tutti gli elementi non logici? Poiché tutte le sue deduzioni o dimostrazioni possono adesso essere effettuate da colui cui non è affatto noto il significato dei simboli, si può prendere in considera­ zione l'intero sistema in quanto tale, facendo riferimento soltanto alla sua coerenza interna e senza alcun riguardo per la sua significa­ zione. La geometria allora non sarà più una scienza fisica (poiché in una scienza fisica tutti i simboli debbono stare per cose o eventi fisici, debbono significare qualcosa), ma è divenuta geometria " pura ", qualcosa che interessa soltanto al matematico puro che prova pia­ cere a trasformare le espressioni senza curarsi di ciò che queste esprimono; essa non ci dice più alcunché sullo spazio, quand'anche la parola " spazio " vi comparisse continuamente; ha perduto ogni contatto con la realtà; è una cornice che non incornicia nulla; è una mera struttura priva di contenuto. Se non si ha interesse per l'appli­ cazione della struttura, il particolare insieme di assiomi del sistema perde importanza e il matematico può divertirsi a introdurre in esso cambiamenti arbitrari. Ciò ha condotto all'invenzione delle geo­ metrie " non euclidee ", che all'inizio potevano essere considerate come vuote creazioni della mente umana finché per alcune di esse non è capitato che si trovassero applicazioni fisiche, per esempio nel caso della teoria della relatività. Era a questa geometria pura, naturalmente, che Bertrand Russell pensava allorché dette la sua definizione della Matematica come la Scienza in cui non sappiamo di che cosa parliamo né se ciò che diciamo sia vero. In effetti, se non si considera il significato dei no­ stri simboli, non si sta parlando, evidentemente, di qualcosa in parti­ colare, e prima che si dia loro un significato non si può porre la

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questione se si sta dicendo il vero o il falso. Non credo che Russell si manterrebbe fedele, adesso, alla sua definizione; gli sarebbe diffi­ cile renderla adeguata per l'aritmetica come lui la concepisce, e inoltre essa dà l'impressione, errata, che la matematica sia in realtà una scienza consistente di proposizioni che potrebbero effettiva­ mente essere vere - solo che non importa se lo siano o no. Ma per quanto riguarda la nostra " geometria pura " ciò non è esatto. Enun­ ciati o formule nelle quali le parole o i simboli non hanno un signi­ ficato definito non sono, naturalmente, proposizioni affatto ; sono " funzioni proposizionali ", ossia forme vuote che diverranno propo­ sizioni non appena certe definite significazioni saranno assegnate ai simboli dei quali si compongono. Fintantoché non sia assegnata alcuna significazione, i simboli in realtà non sono altro che semplici impronte poste a indicare spazi vuoti che debbono essere riempiti col significato per ottenere una proposizione. Vi è, certo, la condi­ zione che ovunque compaia il medesimo segno ad esso deve essere dato il medesimo significato. I segni che indicano spazi vuoti per simboli significanti sono chiamati variabili, e i simboli significanti dai quali essi sono rimpiazzati vengono detti concetti. Ciò che è stato fatto nel caso della geometria può essere fatto per qualsiasi altra scienza nella misura in cui essa è veramente scien­ tifica, ossia consiste in proposizioni logicamente connesse : trascu­ rando il significato dei simboli, possiamo cambiare i concetti in variabili e il risultato è un sistema di funzioni proposizionali che rappresentano la struttura pura della scienza, lasciando fuori il suo contenuto, separandola del tutto dalla realtà. Quando parliamo di scienza, per le ragioni indicate sopra avremo sempre in mente la fisica teorica, almeno per il momento. Un sistema puramente deduttivo del genere descritto è stato chiamato sistema ipotetico-deduttivo (fu Pieri, credo, a usare per primo il termine). È detto " ipotetico " in riferimento al suo possibile liSO nella scienza. Esso, evidentemente, sarà utile in tutti quei casi in cui troviamo in natura delle entità le quali, se sostituite alle varia­ h i l i del sistema, ne cambiano tutte le funzioni proposizionali in p ro pos i zioni vere. (Non dovrei forse dire che le entità stesse po­ I rchbero esse re sostituite alle variabili; ciò che intendo dire, natu­ ra l m c nte, è che le variabili sono sostituite da simboli i quali signi­ /Ù"'111O q llelle entità.) Questo si può esprimere dicendo: Se i simboli dd nost ro sistc m a s ta n n o al posto di entità per le quali valgono gli : I S i Ol l l i , all(ml tullc Ic proposizi oni dci s i st e m a saranno vere di quelle

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entità. Oppure, in parole diverse: se possono trovarsi entità che soddisfano gli assiomi del sistema, allora il sistema sarà la scienza di queste entità. Proprio per quel " se " posto all'inizio di questi enunciati, il sistema deduttivo è detto " ipotetico ". È possibile che un solo e medesimo sistema trovi molte applica­ zioni alla realtà. È possibile che vengano scoperti molti insiemi di entità tali che gli assiomi, e di conseguenza l'intero sistema, saranno veri di ciascun insieme. Tutti questi insiemi avranno in comune quelle proprietà che sono espresse dagli assiomi, ma in tutte le loro altre proprietà possono essere, ovviamente, del tutto differenti l'uno dall'altro, differenti al punto da poter appartenere (se mi è permesso usare questa antiquata terminologia filosofica) a regni dell'essere completamente differenti: uno può essere un insieme di colori, un altro un insieme di punti nello spazio, un altro ancora un insieme di valori economici e cosÌ via, e ciò nonostante ciascun insieme può adattarsi alla stessa cornice, le relazioni puramente formali tra gli elementi possono essere le stesse all'interno di ogni insieme per modo che saranno tutte interpretazioni dello stesso sistema ipotetico­ deduttivo. Tutto ciò è ben noto a chiunque abbia studiato l'argomento e generalmente si riconosce che la scienza nei suoi aspetti logici abbia il carattere che ho tentato di descrivere. Ma per i nostri scopi attuali dobbiamo concentrare tutto il nostro interesse sulla domanda: " In che modo la struttura vuota di un sistema ipotetico-deduttivo può venire concretamente riempita di significato? " Quale materia prima deve essere aggiunta alla vuota cornice per fare di essa una scienza? Sembra esistere un'unica risposta possibile : " La struttura pura­ mente formale deve essere riempita con il contenuto : non può trat­ tarsi di nient'altro, poiché non vi è nient'altro. " E, in effetti, non abbiamo detto proprio noi che ogni struttura doveva essere la strut­ tura di un qualche contenuto, e che il contenuto non era nient'altro che ciò che aveva una certa struttura? Per avere concetti al posto di mere variabili, per avere autentiche proposizioni invece di sem­ plici forme vuote, per avere una scienza relativa a un qualche do­ minio del reale invece di un mero sistema ipotetico-deduttivo, i simboli che impieghiamo devono stare per il contenuto reale ; se essi infatti stessero per la mera struttura, dovremmo nuovamente, alla fine, restare senza significato, poiché di nuovo vi sarebbe la possibilità di m o l te d i ffe re nti interpretazioni. Ma la scienza effettiva si occupa d e l l a rea l tà , che è una, e non solo delle possibilità, che sono molte.

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Se è questa la risposta giusta, deve sembrare difficile metterla in accordo con la nostra precedente idea che il contenuto non entri mai nelle nostre proposizioni e che ogni espressione sia fatta esclu­ sivamente mediante la pura struttura. E tuttavia è proprio questa la risposta giusta e l'accordo può essere trovato, solo che lo si intenda correttamente. È necessario fare grande attenzione, poiché un fraintendimento su questo punto è molto facile e molto pericoloso. Non si può mettere in dubbio o negare che in un certo senso i nostri simboli debbano indicare il contenuto, poiché le nostre pro­ posizione parlano del mondo reale e il contenuto è la realtà. (Si deve ricordare che i miei enunciati non hanno l'ambizione di essere essi stessi proposizioni; il loro scopo è di dare una certa direzione all'at­ tenzione del lettore.) Ma ciò non può significare che le nostre pro­ posizioni dicano realmente qualcosa sul contenuto, poiché le ragioni da noi fornite per spiegare tale impossibilità sono perfettamente valide e non possono venir demolite da analisi sulla natura della scienza. E le medesime ragioni devono indicarci la strada per giun­ gere alla soluzione del problema. Iniziamo considerando un esempio tratto dalla fisica nel quale la stessa struttura viene usata per descrivere molti processi fisici essen­ zialmente differenti. Esiste una certa equazione differenziale, la cosiddetta equazione d'onda, che si applica alla propagazione di onde di ogni tipo, per esempio al suono, alle onde radio, ai raggi Rontgen. Quale differenza sussiste tra queste varie cose che obbe­ discono alla medesima legge formale? Nel caso del suono le onde sono formate da vibrazioni meccaniche di particelle materiali, mole­ cole d'aria, per esempio; nel caso delle onde radio e dei raggi Rtintgen abbiamo a che fare con oscillazioni di forze elastiche e magnetiche (se usiamo il linguaggio della teoria di Maxwell, la­ sciando da parte gli sviluppi più recenti). Ora, le molecole d'aria e le forze elettriche sono totalmente differenti quanto alla loro natura fisica; sebbene entrambe possano mostrare un certo compor­ tamento che è espresso dalla stessa equazione d'onda, esistono innu­ m e re v o l i altre formule che sono vere per le une e non per le altre, i l che significa che esse differiscono completamente quanto a strut­ t ma. Vediamo cosÌ che a questo punto non abbiamo alcun bisogno di far ricorso al contenuto; i segni sostituiti alle variabili che com­ p a i o n o n e l l 'equazione d'onda stanno per varie strutture, non per il c on t e n u to . M a v o i direte: se si tratta di questo, i nuovi segni saranno

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a loro volta solo delle variabili; la parola " forza elettrica ", per esem­ pio, non avrà un significato definito, ma significherà qualunque entità che soddisfi certi assiomi (questi assiomi, nella teoria classica, saranno le equazioni fondamentali di Maxwell), e possono esservi innumerevoli entità di tale tipo; quale di esse si intende effettiva­ mente? Finché non si sia data risposta a tale domanda, il nostro sistema formale non sarà messo in connessione con la realtà; non sarà una scienza, ma solo una cornice possibile per una scienza. Ciò è perfettamente vero ed è chiaro che, introducendo dei sim­ boli per le strutture al posto delle variabili originarie, noi non ab­ biamo dato ai simboli un significato definito, ma soltanto procra­ stinato la decisione relativa al significato. Sarebbe assurdo supporre di poter dare una significazione al nostro sistema tramite l'intro­ duzione di nuovi e più complicati segni, specie sapendo tutti benis­ simo in che modo lo scienziato effettivamente dà l'interpretazione di un sistema formale: attraverso l'osservazione. Nel caso del fisico, l'osservazione prende sempre la forma rigo­ rosa che è detta misurazione. Il complesso di relazioni fra ciò che è effettivamente osservato o misurato e le quantità che appaiono alla fine nelle equazioni esprimenti le leggi di natura è estremamente complicato, ma non è di questo che dobbi amo occuparci. È suffi­ ciente notare che tutto il processo porta a stabilire una relazione biunivoca fra un particolare valore di una certa quantità fisica e un particolare fatto d'osservazione. In altre parole: viene stipulato - in definitiva tramite un accordo di carattere arbitrario - che la propo­ sizione " Date le tali e tali circostanze (e qui si devono descrivere con esattezza sia l'apparato sia l'intero procedimento) si osserva il tal fatto " verrà a essere equivalente alla proposizione: " La tal quan­ tità ha il tal valore. " Questa non è che la definizione della quantità; è il modo in cui il segno denotante la quantità è messo in connes­ sione con la realtà. L'osservazione coinvolge il contenuto (i " dati di coscienza " nel comune e discutibile modo di esprimersi), e proprio per questo può collegare i nostri simboli al mondo reale - o dovrei piuttosto dire: le due locuzioni " che coinvolge il contenuto " e " che collega alla realtà " sono, come uso, equivalenti. Adesso, perlomeno, siamo pronti a vedere con perfetta chiarezza la parte svolta dal contenuto quando cerchiamo di determinare il significato dei nostri simboli e delle nostre proposizioni: il conte­ nuto, come abbiamo visto in precedenza, è lasciato del tutto fuori dal nostro linguaggio e dalle nostre espressioni.

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Prendiamo infatti in considerazione che cosa aVVIene in una " osservazione ". Supponiamo si tratti di un'osservazione visiva, fatta per esempio guardando con un telescopio e osservando una linea spettrale blu che coincide con una tacca nera entro il campo visivo. Se non ci fossero i contenuti " blu " e " nero " unitamente alle loro qualità spaziali intuitive, ovviamente non vi sarebbe alcuna osser­ vazione; il contenuto, così, svolge un ruolo assolutamente essen­ ziale. Adesso l'osservatore formula il fatto osservato pronunciando (o scrivendo) la proposizione " la linea blu coincide con la tacca nera ". Egli può pensare che le parole " blu ", " nero ", " coincide " ecc . stiano per i contenuti entro il suo campo visivo, ma dopo quanto si è detto nella prima lezione sappiamo che le sue parole e la pro­ posizione non esprimono niente del contenuto. L'asserzione esprime la struttura del fatto osservato nel modo che abbiamo precedente­ mente descritto facendo riferimento a qualche altro esempio, ma non comunica il contenuto " blu ", né nessun altro. Un secondo scien­ ziato che ascolti o legga l'asserzione deve immediatamente riempire la struttura comunicata con un qualche contenuto suo proprio; o piuttosto, addirittura la comunicazione della struttura può avvenire solo se nella sua mente nasce un qualche contenuto avente quella struttura. Nella sua immaginazione nasceranno dei contenuti che egli chiamerà " una linea blu " ecc.; ma, come già da molto ci siamo convinti, non possiamo asserire che il suo contenuto sia affatto si­ mile a quello del primo osservatore: un'asserzione del genere sarebbe non falsa, ma priva di significato. Se avviene che il secondo scien­ ziato sia cieco e sordo, sarà nondimeno in grado di comprendere l'asserzione del primo osservatore, sempre che abbia ricevuto un addestramento appropriato (Helen Keller), poiché sarà in grado di immaginare un qualche contenuto di tipo tattile della struttura ri­ chiesta. Se l'asserzione del nostro osservatore inducesse un altro scienziato a ripetere l'esperimento per suo conto, usando la mede­ sima apparecchiatura, guardando con il medesimo telescopio nelle medesime condizioni, e se poi questi confermasse l'asserzione di­ cendo: " Sì, la linea blu coincide con la tacca nera " - perfino allora sa rebbe insensato dire che egli aveva il medesimo contenuto del primo osservatore, sebbene si debba affermare, con la massima cer­ t