Follia, potere e istituzione. Genesi del pensiero di Franco Basaglia 8861786340, 9788861786349

Lo scopo dell'opera vuole essere quello di rintracciare e ricostruire la linea teorica e pratica dell'evoluzio

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Follia, potere e istituzione. Genesi del pensiero di Franco Basaglia
 8861786340, 9788861786349

Table of contents :
Introduzione
Franco Basaglia: uno psichiatra filosofo
1) La vita e le opere
2) L’importanza della filosofia
3) Considerazioni sulla salute
4) Psichiatria o antipsichiatria?
5) Un grande bioeticista
6) Un nome inflazionato
Jaspers e la fenomenologia
1) Sulla fenomenologia
2) Karl Jaspers e la psicologia comprensiva
3) Basaglia e la critica al soggettivismo di Jaspers
4) La malattia fra parentesi e il superamento della fenomenologia
Husserl e l’epoché fenomenologica
1) Husserl un allievo di Brentano: esperienze vissute e leggi ideali
2) Fenomenologia e il concetto di epoché
3) Basaglia e lo spostamento dell’epoché dal piano teorico alla pratica
Binswanger e la Daseinsanalyse
1) Binswanger e il superamento del dualismo cartesiano
2) La Daseinsanalyse
3) La Daseinsanalyse come fonte principale della messa fra parentesi della malattia mentale
Sartre, la libertà e il buon malato
1) Basaglia e il rapporto con l’esistenzialismo francese
2) Sartre e la riforma della psicologia
3) La libertà secondo Sartre
4) Basaglia, la considerazione del concetto di liberta sartriana e il buon malato
Merleau-Ponty e il corpo
1) Merleau-Ponty e il concetto di percezione
2) Il corpo come fonte del rapporto originario con il mondo
3) Basaglia: dal corpo alla critica dell’istituzione manicomiale
Foucault e la cessazione del sapere assoluto
1) Foucault e la filosofia storica
2) Follia e malattia mentale
3) Il potere psichiatrico
4) Basaglia, il ’68 e l’istituzione di potere e violenza
Goffman e le istituzioni totali
1) Goffman, la sociologia della vita quotidiana e il teatro della vita
2) L’istituzione totale
3) Basaglia e il passaggio al metodo sociologico
Fanon e l’alienazione creata dalla dominazione
1) Fanon e i dannati della terra
2) L’alienazione dell’uomo nel colonialismo
3) Basaglia e l’importanza della parola nell’azione antiistituzionale
Laing e l’incontro con l’altro
1) Laing e il valore delle parole nell’incontro con l’altro
2) La famiglia e l’incontro autentico
3) Basaglia e l’avvicinamento alla comunità terapeutica
Maxwell Jones e il superamento del manicomio
1) Maxwell Jones e le origini delle comunità terapeutiche
2) L’esperienza del Digelton Hospital e la psichiatria sociale
3) Basaglia e le comunità terapeutiche
La rivoluzione basagliana
1) I centri di assistenza
2) Sicurezza sociale
3) Tempo e spazio vissuti
4) La responsabilità di Basaglia e l’assunzione di responsabilità come fonte terapeutica
5) La legge 180
Indice delle opere citate
Indice delle opere consultate

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Francesco Codato

FOLLIA, POTERE E ISTITUZIONE: GENESI DEL PENSIERO DI FRANCO BASAGLIA

Collana “Orizzonti” 32

Francesco Codato Follia, potere e istituzione: genesi del pensiero di Franco Basaglia Copyright © 2014 Tangram Edizioni Scientifiche Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizioni-tangram.it – [email protected] Collana “Orizzonti” – NIC 32 Prima edizione: dicembre 2010, UNI Service Seconda edizione: agosto 2014, Printed in EU ISBN 978-88-6458-119-4 In copertina: 1979 – BasagliaFoto800 di Harald Bischoff (www.mad.ag) – Opera propria. Con licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 tramite Wikimedia Commons.

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A Matteo

Introduzione

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Franco Basaglia: uno psichiatra filosofo

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Jaspers e la fenomenologia

51 51 52 55 59

Husserl e l’epoché fenomenologica

63 63 66

1) 2) 3) 4) 5) 6)

1) 2) 3) 4)

La vita e le opere L’importanza della filosofia Considerazioni sulla salute Psichiatria o antipsichiatria? Un grande bioeticista Un nome inflazionato

Sulla fenomenologia Karl Jaspers e la psicologia comprensiva Basaglia e la critica al soggettivismo di Jaspers La malattia fra parentesi e il superamento della fenomenologia

1) Husserl un allievo di Brentano: esperienze vissute e leggi ideali 2) Fenomenologia e il concetto di epoché 3) Basaglia e lo spostamento dell’epoché dal piano teorico alla pratica

Binswanger e la Daseinsanalyse

1) Binswanger e il superamento del dualismo cartesiano 2) La Daseinsanalyse 3) La Daseinsanalyse come fonte principale della messa fra parentesi della malattia mentale

Sartre, la libertà e il buon malato 1) 2) 3) 4)

Basaglia e il rapporto con l’esistenzialismo francese Sartre e la riforma della psicologia La libertà secondo Sartre Basaglia, la considerazione del concetto di liberta sartriana e il buon malato

Merleau-Ponty e il corpo

1) Merleau-Ponty e il concetto di percezione 2) Il corpo come fonte del rapporto originario con il mondo 3) Basaglia: dal corpo alla critica dell’istituzione manicomiale

68 73 73 75 79 85 85 87 89 93 99 99 103 106

Foucault e la cessazione del sapere assoluto 1) 2) 3) 4)

Foucault e la filosofia storica Follia e malattia mentale Il potere psichiatrico Basaglia, il ’68 e l’istituzione di potere e violenza

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Goffman e le istituzioni totali

125 1) Goffman, la sociologia della vita quotidiana e il teatro della vita 125 2) L’istituzione totale 128 131 3) Basaglia e il passaggio al metodo sociologico

Fanon e l’alienazione creata dalla dominazione

137 1) Fanon e i dannati della terra 137 2) L’alienazione dell’uomo nel colonialismo 142 3) Basaglia e l’importanza della parola nell’azione antiistituzionale 146

Laing e l’incontro con l’altro

151 151 155 159

Maxwell Jones e il superamento del manicomio

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La rivoluzione basagliana

175 175 179 185

1) Laing e il valore delle parole nell’incontro con l’altro 2) La famiglia e l’incontro autentico 3) Basaglia e l’avvicinamento alla comunità terapeutica 1) Maxwell Jones e le origini delle comunità terapeutiche 2) L’esperienza del Digelton Hospital e la psichiatria sociale 3) Basaglia e le comunità terapeutiche 1) 2) 3) 4)

I centri di assistenza Sicurezza sociale Tempo e spazio vissuti La responsabilità di Basaglia e l’assunzione di responsabilità come fonte terapeutica 5) La legge 180

Indice delle opere citate Indice delle opere consultate

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FOLLIA, POTERE E ISTITUZIONE: GENESI DEL PENSIERO DI FRANCO BASAGLIA

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Introduzione La persona totalmente folle non è più tale nel momento in cui ha un rapporto con l’altro, diviene cioè una persona “che conta”. F. Basaglia, La nave che affonda (p. 22)

Un viaggio filosofico, un percorso dentro l’ignoto, nella forma più nascosta di sofferenza. Un tentativo di capire l’incomprensibile, senza avere la pretesa di trovare la pozione magica che possa frettolosamente avere la pretesa di “far guarire”. Un lavoro clinico, pratico, teorico, saggistico, intellettuale e politico che ha permesso di dare luce a chi viveva nell’oscurità di una prigione terapeutica. Un insieme d’interrogativi di difficile soluzione, che lasciano spazio ad un’unica certezza: il malato mentale è prima di tutto un uomo, una persona, che nella sua temporanea o cronica debolezza conserva come ogni altro individuo la piena dignità umana. Questo è il lavoro dello psichiatra Italiano Franco Basaglia, padre della famosa legge 180, che nel 1978 rese l’Italia il primo paese al mondo a sperimentare la chiusura dei manicomi. Limitare a questa legge l’operato di uno dei più importanti pensatori italiani del ventesimo secolo sarebbe, tuttavia, come sminuire la ricerca di una vita intera, volta alla realizzazione di un sogno: creare un luogo dove si annullino le differenze tra

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Introduzione

medico, infermiere e malato. Vivendo ognuno la propria ritrovata autenticità nel tentativo di ripensare la diversità per affermare l’unicità umana, dando vita al racconto di una speranza per chi ha vissuto troppo tempo senza averne una. In questo lavoro vorrei mettere in luce le tappe fondamentali che hanno influenzato il pensiero del medico che ha dato “dignità ai matti”, facendo risaltare il ruolo attivo che la riflessione filosofica riveste nel suo operato, atto ad indagare e a cambiare i poteri che fanno sì che il malato non possa concepirsi come uomo, suddividendole in tre grandi aree di influenza. Incomincerò con il trattare “l’area tedesca”, ossia l’incontro con la fenomenologia e in particolare con la psicologia comprensiva di Jaspers che fornirà lo spunto per l’inizio della critica alla psichiatria positivistica, con il conseguente avvicinamento alla fenomenologia e in seguito il superamento della fenomenologia stessa. Analizzerò nell’incontro con Husserl il nuovo concetto di epoché che Basaglia propone, in seguito porrò l’accento sulla vicinanza alla Daseinsanalyse di Binswanger. Passerò inoltre ad analizzare la seconda grande area, quella francese, quindi l’incontro con due grandi filosofi dell’esistenzialismo Sartre e Merleau-Ponty. Rifletterò sulla vicinanza del concetto di libertà in Sartre e Basaglia, lo stesso autore, inoltre, mi darà modo di analizzare il passaggio dal cattivo malato al buon malato. La vicinanza al pensiero di Merleau-Ponty viene invece da una rivalutazione del tema del corpo. Successivamente mi occuperò della terza area e precisamente del rapporto con Foucault, incentrato sulla critica al potere derivante da una scienza dogmatica e sulle analisi delle istituzioni chiuse di Goffman. Mostrerò come il pensiero di Fanon sia stato fondamentale per riconoscere il ruolo di reclusi e di colonizzati dei malati mentali e prenderò in considerazione il rapporto con uno dei padri dell’antipsichiatria Robert Laing. Metterò inoltre in luce

Introduzione

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il contatto con Maxwell Jones nella creazione delle comunità terapeutiche. La ricerca comincerà con un capitolo introduttivo, “Franco Basaglia: Uno psichiatra filosofo”, che darà modo di incontrare l’uomo, di legarlo al suo tempo e di analizzare il contributo attivo che ha dato con il suo operato alla bioetica. Rifletterò inoltre su alcuni luoghi comuni, quali la sua presunta adesione, che si rivelerà un falso, alla corrente antipsichiatrica e l’abuso che viene fatto del suo nome nei media. Concluderò il mio lavoro con una riflessione “La rivoluzione basagliana” che metterà in luce i risultati degli sforzi dello psichiatra veneziano, soffermandosi in particolar modo sui concetti di spazio-tempo vissuti, e responsabilità.

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Franco Basaglia: uno psichiatra filosofo Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità. F. Basaglia, Conferenze Brasiliane (p. 10)

1) La vita e le opere Franco Basaglia nasce a Venezia l’11Marzo 1924. Secondogenito di tre figli, trascorre l’infanzia nel sestiere di San Polo, nel 1943 conclude gli studi classici e si iscrive alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova. Qui entra in contatto con un gruppo di coetanei antifascisti che lo portano ad operare la sua prima scelta di carattere politico in opposizione alla dittatura fascista ed aderendo successivamente alla Resistenza. Denunciati da un compagno finiscono tutti nella prigione di Santa Maria Maggiore. Franco trascorrerà quasi sei mesi in questo luogo, l’ultimo mese lo trascorre in ospedale dove viene ricoverato grazie alla diagnosi compiacente di un amico del padre. Questo evento segna molto il giovane Basaglia e come lui stesso scriverà, la detenzione carceraria farà nascere la sua ostilità nei confronti delle istituzioni chiuse. “Quando sono entrato per la prima volta in un carcere ero studente di medicina. Lottavo contro il fascismo e sono stato incarcerato […] C’era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di

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Franco Basaglia: uno psichiatra filosofo

aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia mentre si dissezionavano i cadaveri. Tredici anni dopo la laurea sono entrato in un manicomio e quando vi sono entrato per la prima volta ho avuto quella stessa sensazione. […] Ho avuto la certezza che quella era un’ istituzione completamente assurda, che serviva solo allo psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese”1. Nel 1949 si laurea in Medicina e chirurgia con una tesi in neurobiologia pediatrica e comincia a frequentare la clinica di malattie nervose e mentali di Padova, nello stesso tempo coltiva la propria passione per la politica aderendo al Partito Socialista Italiano. Questi sono gli anni in cui approfondisce il suo amore per la filosofia, ciò lo porta ad approfondire la fenomenologia e l’esistenzialismo. Comincia così a riflettere sull’approccio tradizionale della psichiatria che, a suo parere, considera l’individuo malato come oggetto da trattare, smarrendo quindi il rapporto autentico con l’uomo. Direttore della clinica è il professor Giovanni Battista Belloni, accademico di formazione neurologica e organicista, che era seguace della corrente scientifica che diagnosticava come origine della malattia mentale una lesione anatomica, ovvero un’alterazione biochimica del cervello. Come si può ben intuire l’orientamento scientifico-filosofico di Basaglia comincia presto a divergere da quello del direttore della clinica che, dopo avergli consegnato nel 1952 la specializzazione in Malattie nervose e mentali, gli consiglia di non intraprendere la carriera universitaria, poiché non avrebbe avuto, a causa delle sue idee, alcuna possibilità di successo. L’anno successivo Franco si sposa con Franca Ongaro, dalla quale avrà due figli. La moglie sarà una collaboratrice importantissima con cui condividerà tutte le sue lotte, con cui scriverà la maggior parte delle F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 49. 1

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sue opere e a cui affida la traduzione di un testo fondamentale per la riforma psichiatrica Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza di Erving Goffman. Nel 1958 consegue la libera docenza in psichiatria. Durante gli anni della sua formazione non entrerà mai in contatto con la realtà manicomiale, poiché clinica universitaria e manicomio restano mondi separati, profondamente differenti per rispettabilità scientifica, per funzione terapeutica e per tipologia di pazienti riguardo a malattia e classe sociale di appartenenza. In Italia, la psichiatria manicomiale chiamata “grande psichiatria” veniva riservata solo agli psichiatri di minor importanza, cioè a coloro che non erano riusciti a trovare un altro luogo di lavoro, invece i più famosi psichiatri rimanevano nell’ambito della “piccola psichiatria” ovvero nell’università. Nel 1961 Basaglia assume l’incarico di direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, si trattava di una sorta di declassamento, di un taglio definitivo alle speranze di diventare un grande professore della “piccola psichiatria”. Franco commenta nel saggio la Nave che Affonda la sua entrata nell’ospedale psichiatrico affermando che non ne poteva più della “sindrome universitaria”, che portava gli psichiatri a concepire la loro intera esistenza solo in vista della carriera accademica. Entrato nel manicomio si accorge subito dello scollamento tra ciò che aveva studiato e ciò che si trovava di fronte: un uomo con tutti i suoi problemi. “A Gorizia c’era un ospedale di cinquecento letti diretto in maniera tradizionale, dove erano usuali insulina ed elettroshock, un ospedale dominato in primo luogo dalla miseria, la stessa che incontriamo in tutti i manicomi. Nel momento in cui entrammo dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla miseria”2. Da qui inizia una grande rivoluzione che lo impegnerà in un lavoro di radicale trasformazione istituzionale, “avevamo già F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 10. 2

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capito che un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno, questa è stata la nostra scoperta”3. La rivalutazione del malato spinge lo psichiatra veneziano a guardare alla comunità terapeutica di Maxwell Jones a Dingleton, in Scozia, dove, attraverso visite e colloqui con Jones, realizza un nuovo modo di intendere la degenza nel manicomio e a rifiutare le torture fisiche e le terapie di shock, comincia così a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni e soprattutto crea un nuovo modo di dialogare all’interno del manicomio. “Quando noi diciamo che viene presa in considerazione la voce del malato, non in senso paternalistico ma reale, cioè la voce storicamente vera dell’ internato, io credo che effettivamente ci sia la possibilità di qualcosa di diverso, tenendo presente che ciò che si esprime è anche il sapere di tutti coloro che sono oppressi […] Quando l’ internato esce dalla sua crisalide e si esprime, il suo dire qualche cosa ha un enorme valore perché viene inventata una nuova lingua. Se prima il medico o il delegato aveva il potere del codice, e quindi un sapere totalmente suo, l’oppressione dell’ internato era dovuta proprio al fatto di non partecipare al sapere del tecnico”4. Cade la differenza coatta fra uomini e donne degenti, si aprono spazi di aggregazione sociale, vengono organizzate assemblee di reparto, si aprono le porte dei padiglioni e i cancelli dell’ospedale ma, cosa più importante, si dà il via alla costruIvi, p. 11. F. Basaglia, F. Ongaro, A. Pirella, S. taverna, La nave che affonda, Raffaello Cortina Editori, Milano 2008, p. 109.

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zione di un luogo in cui tutti potessero essere riconosciuti come persone sia che fossero medici, infermieri o malati. Si poneva così fine al rapporto terapeutico di esclusione permanente, in cui il medico è il soggetto di questa procedura violenta e il paziente l’oggetto aproblematico e adialettico, estraneo e lontano. “La situazione in cui ci si è trovati di fronte alla nostra istituzione si presentava altamente istituzionalizzata in tutti i suoi settori: malati, infermieri, medici. Si cercò quindi di provocare una situazione di rottura che potesse far uscire i tre poli dalla vita ospedaliera dai loro ruoli cristallizzati, ponendoli in un gioco di tensione e contro tensione in cui tutti si sarebbero trovati coinvolti e responsabili”5. In questi anni Basaglia si impegnerà per proseguire la sua attività scientifica e intellettuale, partecipando attivamente a molti congressi in varie parti del mondo e nel 1964 presenterà a Londra, al congresso di psichiatria sociale, la relazione La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione nella quale prefigura il lavoro che poi sarà realizzato nell’ospedale di Gorizia e poi in quello di Trieste. Nel 1967 cura il volume Che cos’ è la psichiatria?, ma è nell’anno successivo con l’opera L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico che l’esperienza goriziana viene conosciuta in tutto il mondo, il testo diviene un best seller in Italia e in Europa, sancendo l’inizio del discorso antistituzionale. Questo lavoro approfondisce le ragioni dell’impegno nell’opposizione alle varie forme di potere che, con motivazioni diverse, finiscono sempre con il prevaricare ed assoggettare il più debole, mostrando che lo stesso manicomio non è altro che un posto dove finiscono i sofferenti poveri, cioè coloro che non possono pagarsi delle case di cura private e vengono così escluF. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in L’ istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Baldini e Castoldi, Milano 1998, p. 131.

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si, abbandonati da tutti, diventando delle persone senza diritti, nei confronti delle quali tutto è possibile. “Per questo noi neghiamo, il nostro mandato sociale che ci richiederebbe di considerare il malato come un non-uomo e, negandolo, neghiamo il malato come non-uomo. Sul piano pratico noi neghiamo la disumanizzazione del malato come risultato ultimo della malattia, imputandone il livello di distruzione alla violenza dell’asilo, delle istituzioni, delle sue mortificazioni […] Tutto questo è potuto avvenire perché la scienza – sempre al servizio della classe dominante – aveva deciso che il malato mentale era un malato incomprensibile e, come tale, pericoloso e imprevedibile, lasciandogli come unica possibilità la morte civile”6. Nel 1969, con sua moglie Franca Ongaro, cura Morire di classe e presenta due testi importantissimi per cui lui stesso si batte per la loro diffusione, tuttora in commercio con la sua prefazione, che sono Asylums di Goffman e Ideologia e pratica della psichiatria sociale di Maxwel Jones. Stanco delle resistenze dell’amministrazione locale che lo spronava a tornare ad una psichiatria classica, lascia Gorizia e diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di Colorno. Anche qui, seppur fortemente voluto dalla giunta di sinistra del comune di Parma, non troverà l’appoggio sperato per il definitivo superamento del manicomio. Nel 1971 esce un nuovo libro La maggioranza deviante. Ideologia del controllo sociale totale. Nello stesso anno ritorna all’università, incaricato dell’insegnamento di Igiene mentale presso l’università di Parma. Sembrerebbe un ritorno nel mondo accademico che lo ha sempre rifiutato, in realtà si tratta di un posto di poco valore, come lo stesso Basaglia ammetterà. “Penso che la nostra struttura universitaria sia una delle più reazionaF. Basaglia, N. Vascon Introduzione documentaria, in L’ istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Baldini e Castoldi, Milano 1998, p. 33.

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rie. È molto difficile entrare nell’università chiusa com’ è […] La società italiana di psichiatria, che è nelle mani degli universitari, è una delle più reazionarie d’Europa, e cerca una situazione di cambiamento con metodi manipolatori e con il riciclaggio di vecchie idee […] Sull’onda della ribellione del Sessantotto, fui incaricato dell’ insegnamento di Igiene mentale all’università di Parma, incarico che ho esercitato per otto anni, durante i quali sono stato isolato come un appestato”7. Tenterà per la terza volta l’entrata nel mondo accademico vincendo il concorso per professore ordinario, ma anche qui gli fu proposto un incarico con la chiara volontà di emarginarlo. Nel 1971 vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove gli viene anche garantita la possibilità di fare tutte le scelte che ritiene più giuste. Continua così la sua opera di liberazione per rendere meno opprimente la vita dei malati nel manicomio. Organizza alcune ristrutturazioni materiali affinché i pazienti non debbano continuare a sentirsi trattati da reclusi in una casa di pena, come primo atto concreto decide di rimuovere le reti dalle terrazze dei padiglioni, che servivano agli infermieriguardiani per scongiurare tentativi di fuga o di gesti estremi. Saranno proprio gli infermieri a non accettare questa nuova realtà e, temendo per il loro lavoro, organizzarono proteste e scioperi che furono sospesi solo quando si ebbe una garanzia che la nuova costituzione dei manicomi avrebbe riservato ancora un posto per loro. A Trieste Basaglia non assumerà più una cura diretta delle malattie, ma si dedicherà agli aspetti organizzativi e soprattutto a difendere quel luogo che continuerà ad essere un bersaglio di dure campagne da parte di coloro che vedono nell’evoluzione terapeutica avviata al San Giovani di F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 155.

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Trieste un attentato all’ordine pubblico e alla sicurezza delle persone. Nelle pagine del quotidiano “Il Piccolo” come in altri giornali locali, verrà duramente criticata l’apertura dei reparti del manicomio e verranno sottolineati i gravi pericoli per la pubblica moralità come conseguenza della promiscuità e della libertà di cui i malati godono8. Dispute e controversie vengono però ridotte in silenzio nel 1973 dall’O. M. S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) che, dopo una serie di visite e relazioni di funzionari ed esperti, dichiara Trieste “zona pilota” dell’organizzazione stessa per la psichiatria e la salute mentale. Trieste diviene così meta di tantissimi studiosi che vogliono confrontarsi con la nuova realtà e Basaglia può effettuare la sua rivoluzione, sinora solo accennata. Inizia così un processo che porta i primi “anormali” a tornare nelle famiglie, dopo che le stesse sono state sensibilizzate alla nuova convivenza. Inoltre vengono avviate per tutti le pratiche amministrative per ottenere la certificazione di invalidità civile, con il conseguente sostegno finanziario da parte dello stato sotto forma di pensione sociale, ciò segnerà un progresso enorme anche dal punto di vista terapeutico, poiché porterà ad una certa autonomia economica degli ex-internati. Sempre nel ’73 ottiene riconoscimento giuridico la Cooperativa lavoratori uniti, che rappresenta la prima esperienza di organizzazione lavorativa che coinvolge i degenti dell’ospedale psichiatrico. Nel 1974 viene fondato il movimento “Psichiatria democratica”, movimento nel quale si confrontano diverse esperienze di psichiatria alternativa che stanno nascendo in Italia. Il primo convegno che si terrà a Gorizia dal nome “La pratica della follia” segna la collaborazione fra movimento antistituVedi F. Parmegiani e Michele Zanetti, Basaglia una biografia, Lint Editotiale srl, Trieste 2007, p. 87. 8

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zionale, forze politiche e sindacali di sinistra. L’anno successivo vede la luce Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, un libro che racchiude le riflessioni sul ruolo della funzione terapeutica della psichiatria e del manicomio in generale, realizzate da Basaglia e da altri grandissimi pensatori quali Foucault, Castel, Laing e Goffman. Nello stesso periodo si aprono i primi centri di salute mentale sul territorio, che portano nel 1977 all’annuncio, in una conferenza stampa, della chiusura dell’ospedale psichiatrico entro l’anno stesso. “Risultato importante per noi è che i Centri territoriali, non esorcizzando il livello talora precario delle loro pratiche, diventano sempre di più dei luoghi di incontro di ex-internati, nuova utenza e di cittadini altri: figure che, se non hanno d’acchito un comune codice di riferimento, scoprono progressivamente il terreno della loro alleanza sostanziale, nell’emergere di bisogni e di oppressioni comuni”9. Una delle esperienze più significative di questo periodo è l’iniziativa finanziata dall’Alitalia, che Basaglia riesce a realizzare portando i suoi pazienti a fare un giro fra le nuvole, con un aereo che partì da Ronchi dei Legionari, fece un paio di giri sopra l’aeroporto di Venezia e ritornò a Ronchi. Il ’78 diviene un anno importantissimo, una sorta di pietra miliare della psichiatria italiana, poiché il 13 maggio il parlamento approva, anche al fine di evitare un confronto referendario promosso dai radicali di Marco Pannella, la legge 180. Questo fu il primo passo ufficiale verso la fine dell’istituzione manicomiale. Come scrivono Parmegiani e Zanetti va ricordato che lo scontro in aula fu talmente duro che il provvedimento fu investito dal maggior numero di emendamenti mai proposto in precedenza su un’unica legge e che, dopo la 9

Estratto dall’annuncio della chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste.

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sua approvazione, la legge stessa fu oggetto di un gran numero di progetti legislativi di riforma, proposti anche da governi successivamente in carica. Attraverso le sue azioni svolte tra Gorizia, Parma e soprattutto Trieste, Franco Basaglia ha dato un contributo fondamentale alla preparazione ideologica e ai contenuti etico sociali della legge 180. Il punto centrale della riforma per lo psichiatra veneziano doveva essere la simultanea chiusura dei manicomi e l’apertura dei Centri di salute mentale sparsi su tutto il territorio nazionale. Purtroppo le sue aspettative furono deluse e la chiusura dei manicomi non coincise con l’apertura diffusa di questi centri. Da allora, infatti, non pochi continuano a ritenere questa legge inopportuna e fallimentare, poiché gli “anormali” sono stati liberati, ma non hanno saputo più dove andare. A questo proposito viene pubblicato La nave che affonda lungo dibattito tra Franco e Franca Basaglia, Agostino Pirella e Salvatore Taverna. Nel 1979 Basaglia tiene una serie di conferenze in Brasile davanti ad un numerosissimo pubblico di varia estrazione sociale, esse vengono raccolte nel volume Conferenze brasiliane. Nello stesso anno decide di lasciare Trieste per recarsi a Roma, qui si rende conto che il mondo universitario tuttora non l’accetta. A Roma vengono presentate interrogazioni parlamentari sull’attività di Basaglia a Gorizia e Trieste, viene così fatto oggetto di speculazione e calunnie. L’opinione pubblica si scinde dando vita a correnti di pensiero diverse che ancora oggi accompagnano la figura di Basaglia, quella che vede in lui il grande medico salvatore della diversità e chi, come il deputato triestino Renzo De Vidovich vede nel suo operato solo una minaccia atta a liberare i matti, che diventano una sorta di mina vagante nella società. Verrà anche accusato, dal gruppo dei suoi detrattori, di far parte di un nucleo terroristico europeo. Basaglia non si abbatte per i continui attacchi e mette in piedi tre programmi di deistituzionalizazione, i quali non saranno

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portati a compimento a causa di un tumore al cervello, che lo condurrà alla morte il 29 agosto 1980.

2) L’importanza della filosofia Aristotele nell’Etica Nicomachea asserisce che un solo bene si vuole per sé e non per altro: la felicità. Da ciò ne segue che tutti gli uomini tendono per natura al raggiungimento di essa. La felicità, per porsi, richiede il benessere esteriore, poiché non può essere felice chi non ha figli, amici e beni per sostenersi. Quindi ponendo che tutti gli uomini tendano alla felicità, bisognerà necessariamente riconoscere che i malati mentali, essendo uomini, tenderanno a ciò, ma, venendo inseriti in una situazione in cui la loro umanità viene messa fra parentesi, viene loro negata fin dal principio ogni possibilità di avere un’amicizia, un rapporto amoroso e dei soldi per la loro sopravvivenza, distruggendo così le basi per la ricerca della felicità. Assistiamo in questo modo ad un passaggio dall’uomo che entra, affetto da una malattia, in manicomio ad un degente che porta un numero di riconoscimento, poiché in questa struttura ha perso la propria personalità. Questa è una chiara riflessione di carattere filosofico e certamente non può avere alcun valore scientifico, ma è proprio su ciò che Basaglia riflette, poiché identifica come problema principale della psichiatria e della psicologia, il rinchiudersi in una presunta realtà oggettiva che si dimostra incapace di affrontare l’enigma che sta alla loro base: la soggettività umana. “Per questo psicologia e psichiatria vanno alla ricerca del loro significato nella filosofia, la sola in grado di far comprendere alla radice l’uomo, i problemi del senso e del non-senso della sua esistenza, il suo modo di porsi di fronte al mondo, il suo modo di costruire il suo Dasein, la sua possibilità

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di essere autentico o di non essere autentico, di scegliere o di non scegliere”10. La vicinanza al discorso filosofico assume un valore particolare nella vita e nella carriera di Franco Basaglia, che può essere definita come un vero e proprio viaggio filosofico. Nel 1949, quando frequentava la clinica di Malattie nervose e mentali di Padova, si guadagna dal professor Giovanni Battista Belloni l’appellativo di filosofo, per il suo amore per la filosofia e le sue molte letture di carattere fenomenologico e esistenzialista. In tutta la propria attività cercherà una conciliazione tra psicopatologia tradizionale e psichiatria antropofenomenologica, che gli costerà l’esilio dalla carriera universitaria nell’attività pratica del manicomio. Qui l’impatto sarà terribile, ma troverà grandi energie intellettuali al di fuori dei condizionamenti accademici, che gli permetteranno di interrogarsi sulle funzione terapeutica del manicomio e sul ruolo dello psichiatra. Che la sua fosse una preparazione filosofica a tutto tondo, lo si può ben vedere dai condizionamenti che i grandi autori hanno esercitato nella creazione del suo pensiero. La riflessione hegeliana, ad esempio, la quale afferma che il sé è tale solo in quanto risultato di un processo, nel quale l’altro è condizione dello stesso sé, sta alla base della sua teoria sul rapporto con l’altro. Hegel identifica la libertà nell’essere nel mondo presso sé e nel realizzare se stesso negli altri e con gli altri. Richiamandosi ad Aristotele pone la comunità come principio della stessa identità, in quanto non è l’uomo che crea il popolo, ma è il popolo che precede l’individualità e dona realtà all’uomo. Prospetta, inoltre, un’esistenza in cui l’uomo deve riconoscere l’altro come un altro se stesso. Questo concetto esprime la piena dignità dell’uomo, in quanto lo designa come persona e F. Basaglia, Ansia e malafede, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, pp. 227-228. 10

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pone nel riconoscimento il fondamento della propria umanità. Hegel descrive una filosofia che si rinchiude nella solitudine dell’uomo isolato e che quindi non tende a promuovere il perfezionamento dell’intera umanità, come vuota e non degna di stima. Inoltre identifica nella scissione, nel non concepirsi come totalità, un errore, che porta ad una sorta di ottica di dominio. Questa fa prevalere un tipo di relazione che mira solo alla reciproca usabilità, che non fa riconosce un orizzonte umano globale. Ci si riconosce solo nella propria soggettività, negando quella degli altri, trasformandosi così in “totalità escludenti”. L’analisi Hegeliana calza a pennello per la realtà manicomiale, che adotta una filosofia di reclusione nella solitudine e di riconoscimento negato. Queste realtà terapeutiche diventano una sorta di non-luogo dove si tenta di oggettivare l’irrazionale, cioè di razionalizzare un modo di vivere e di riuscire così con un’unica facoltà, la ragione, a comprendere un uomo. “La ragione comincia a separare ciò che le somiglia da ciò che non riconosce o che accetta di riconoscere come proprio solo nel momento che lo circoscrive e lo domina. A questo punto la follia cessa di essere accettata come una delle possibilità dell’umano”11. Ponendo la questione in termini hegeliani, l’uomo viene separato dalle proprie facoltà e dominato da una di esse, “il manicomio ha qui la sua ragione d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’ irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato”12 . F. Basaglia, F. Ongaro, Follia/delirio, in enciclopedia, Einaudi, vol.6, Torino 1979, p. 264. 12 F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 34. 11

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Questo porta all’incomprensione più totale, poiché, come sostiene Basaglia: “la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla”13. Con il suo operato Basaglia tenta di riportare la malattia in un terreno di comunità umana, in cui il malato come ogni altro uomo è essenza e momento della comunità stessa. Il tentativo è quello di tenere fermo sia l’orizzonte soggettivo che la sfera del comune che assorbe la stessa soggettività, mantenendo quindi tutte le diversità. Ciò darà modo di porre le basi per fornire il riconoscimento dell’altro che è fondamento di ogni legame sociale, soverchiando così la falsità di un rapporto di dominio dettato dall’inconciliabilità dei due opposti, medico-paziente. La riflessione hegeliana serve allo psichiatra veneziano per concepire l’incomprensibilità dell’altro come l’incapacità di vedere nel diverso un altro sé, che come tale fa parte di una società comune. Basaglia si propone quindi di interrompere questa scissione fra malato e società, volendo riportare chi soffre nell’armonia della comunità umana. Per fare ciò, invoca l’aiuto della filosofia e si interroga sulla possibilità di utilizzare le nozioni filosofiche al di fuori del contesto accademico e in particolare in un contesto difficile come quello della sofferenza umana. Il ruolo prospettato alla filosofia non sarà più quello di rendere colte le teorie psichiatriche, ma verrà utilizzata per cercare una verità sull’uomo, “è legittimo che lo psichiatra si domandi come si situi l’uomo nel mondo, quali siano i suoi rapporti con se stesso, per conoscere quali siano i rapporti con l’altro e vedere se, da una condizione ordinaria di inautenticità e di angoscia, sia possibile realizzare per l’uomo la propria responsabilità, il proprio valore. 13

Ibidem.

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Se sia cioè possibile all’uomo attuare la propria autenticità in una scelta”14 . Basaglia, quindi asserisce che la psicologia e la psichiatria non possono fare a meno della filosofia se vogliono cogliere l’uomo nel suo momento più difficile, cioè nella conquista della individualità. Ne segue che queste discipline non possono limitarsi alla definizione di una diagnosi, o di una terapia, ma devono consentire un’analisi delle problematiche esistenziali dell’individuo. Come sostiene Pierangelo Di Vittorio, a Basaglia non interessa una psichiatria di pura speculazione filosofica né una filosofia per psichiatri, ma è affascinato da un pensiero impegnato nelle cose del mondo, che possa aiutare l’uomo nella sua pratica di esistere. L’affermazione di Pierre Hadot: “la philosophie est essentiellement un effort pour prendre con science de nousmême, de notre être-au-monde, de notre être-avec-autrui, un effort aussi pour rapprendre à voir le monde, comme disait Merleau-Ponty, pour atteindre aussi à une vision universelle, grâce à laquelle nous pourrons nous mettre à la place des autres et dépasser notre propre partialité”15 corrisponde perfettamente all’idea di introspezione e allo stesso tempo di riflessione sull’altro che Basaglia ha in mente, poiché lo sforzo dello psichiatra deve essere quello di capire il paziente prima di tutto come uomo. Questo può farlo, solo dopo essersi considerato lui stesso un uomo, che condivide gli stessi oneri e doveri di tutti gli altri appartenenti alla comunità dei viventi e quindi anche degli “anormali” che ha in cura, superando la parzialità del proprio punto di vista e cercando la comprensione di ciò che è più difficile capire, la diversità che risiede in noi stessi e che riflette F. Basaglia, Ansia e malafede, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 229. 15 Pierre Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995, p. 415. 14

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quindi anche l’altro, poiché l’altro non può essere che un altro sé, con differenti modalità di approccio al reale. La concezione della filosofia che emerge dall’analisi del pensiero di Basaglia si avvicina molto al pensiero di Gadamer, per il quale: “la filosofia implica voler capire ciò che non si comprende e accogliere le grandi domande dell’umanità […] essa abbraccia i misteri dell’ inizio e della fine, dell’essere e del nulla, della nascita e della morte e soprattutto del bene e del male, domande enigmatiche a cui non sembra possibile fornire delle risposte sulla base di un sapere. Lo psichiatra riconoscerà immediatamente l’affinità di tali questioni incomprensibili, con quanto gli capita di incontrare nelle malattie mentali e psichiche di cui egli si occupa abitualmente”16 . Ciò che è importante sottolineare in questa trattazione è che in quanto umani nulla è scontato e le rigide impalcature create da noi stessi non sempre possono riuscire a cogliere il mistero che si cela in ciò che esiste di più vicino a noi, l’altro in tutte le sue manifestazioni.

3) Considerazioni sulla salute La passione per la filosofia porta Basaglia ad interrogarsi sul tema della salute, facendolo riflettere su che cosa effettivamente essa sia e su come venga concepita. Risulta evidente che chiunque può dare una definizione di malattia ma, quando ci si avventura nel terreno della salute, di ciò che è lo stato normale del nostro esistere, ecco che nessuno riesce a definire tale stato in maniera semplice e diretta, senza cadere nel riduzionismo biologico. Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 175. 16

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Esso è ben rappresentato da Boorse, per il quale una persona è sana solo se il suo corpo funziona con efficienza specie-tipica e si soffre di malattia se le funzioni dell’organismo sono depresse sotto i livelli specie-tipici. La salute potrebbe essere definita come fa Gadamer17, un equilibrio, anche se esso risulta molto precario da ottenere e la perdita dell’equilibrio non è certo facile da recuperare, poiché ogni trattamento può portare ad un ulteriore scompensamento, comportando così una sorta di impossibilità di oggettivare la cura. Questa teoria pone l’accento sul rapporto fra singolo e malattia, analizzando il modo dell’individuo di vivere la malattia, ma non dando, quindi, una definizione univoca di salute. Canguilhem18 sostiene che il confine tra il normale e il patologico è molto labile e ciò che sembra normale per una persona può essere patologico per l’altra. Questo ragionamento, come lui stesso sottolinea, potrebbe far pensare che non esista un confine tra i due opposti, ma che essi siano la stessa cosa, portando alle affermazioni estreme che reinterpreterebbero il concetto di Leibniz, per il quale non esistono due viventi simili. Per farlo giungere sino alle estreme conseguenze di modello per l’abolizione della malattia stessa, reinterpretandola solo come un altro modo di vivere la propria umanità, sprofondando in un altra forma di riduzionismo che potremo definire riduzionismo umanista. Canguilhem stesso avverte che ciò non è possibile, affermando che il concetto di patologico non è il contraddittorio logico del concetto di normale, poiché per lui la vita non è “l’assenza di norme ma, la presenza di altre norme”19. In questa maniera, considera la malatVedi Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, capitolo 3,4,5, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994. 18 Vedi George Canguilhem, La Conoscenza della vita, capitolo 6, Il mulino, Bologna 1976. 19 George Canguilhem, La Conoscenza della vita, Il mulino, Bologna 1976, p. 234. 17

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tia non come la perdita di una norma, ma come l’adattamento della vita regolato da norme vitalmente inferiori. Dalla considerazione di Canguilhem sui modi di vita inferiori, possiamo trarre la conclusione che la malattia possa essere identificata come un modo di vita estraneo al normale funzionamento delle dinamiche produttive e quindi sociali. Basaglia nella propria considerazione sulla salute parte da questa esposizione e asserisce che salute e malattia non rappresentano stati naturali, definibili in base a caratteristiche soggettive, e insieme obiettive e non sono neppure autonome, poiché esse sono riferite ad una norma che è definita in termini di partecipazione alla vita produttiva. Basaglia evidenza il rapporto che intercorre tra salute e lavoro, facendo notare come le “condotte anormali” non siano degli opposti assoluti della normalità, poiché l’anormalità presa in sé, cioè separata dalla norma e dai significati che si trova ad assumere nella vita, non esprime più la contraddizione che essa rappresenta in rapporto a ciò che devia. Quindi se noi assumiamo la normalità come la capacità di produrre, l’incapacità di fare ciò sarà un comportamento da isolare e da considerare malato. Per riuscire a riportare l’anormale nel terreno della norma, usiamo la scienza, che diviene un insieme di codificazioni e tecniche che possano essere funzionali alla tutela della norma neutralizzando l’anormalità e rendendo assoluto il contrario, cioè la capacità di produrre, che diviene la norma e quindi la salute. Basaglia vorrebbe creare una situazione in cui si mettano in relazione i due poli opposti e afferma che non vorrebbe che la medicina parta da razionalizzazioni scientifiche per prendere in esame i concetti di salute e malattia che si risolvono in maniera scientifica, cioè riducendosi alla possibilità di trasformare l’anormale in normale. “Quando si parla di salute e di malattia si è culturalmente determinati ad accettare un’ovvia, netta separazione fra questi opposti,

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con la stessa naturalezza con cui si dice piove o c’ è il sole […] L’assolutizzazione degli opposti impedisce ogni segno di relazione fra l’uno e l’altro, negando quindi un rapporto dialettico che faccia diventare la salute un momento di coscienza dell’appropriazione del corpo come superamento dell’esperienza della malattia, e la malattia una fase della vita, un’occasione di appropriazione di sé, del proprio corpo, delle proprie esperienze e quindi della salute”20. Ciò che Basaglia vuole è che salute e malattia siano fenomeni umani in contemporaneo rapporto di antagonismo e di unità e la medicina divenga il medio che, pur affrontando la malattia, non cada nella contraddizione di assolutizzare uno dei due poli. La critica alla medicina si instaura nel momento in cui essa distrugge il malato, poiché la salute viene assunta come valore assoluto, riducendo la malattia a un accidente, come se il nostro essere uomini, quindi la norma, non comprendesse la salute e la malattia. In questo modo la medicina fa vivere la malattia come uno spezzarsi del continuum della vita, rendendo il tempo della vita stessa frammentato e non unitario. Lo psichiatra veneziano afferma che quando si è malati si viene defraudati dalla scienza del rapporto personale con la malattia e del tempo della vita, che può essere solo individuale. Nell’ottica dell’efficienza produttiva che detta la norma, ciò che non diventa subito guarigione, diventa morte, poiché non verrà più accettato nella vita, creando così due luoghi, uno in cui si amministra la malattia e uno in cui si vive la vita. “Il terreno minato e insieme rassicurante in cui ci si continua a muoversi, è dunque quello della netta separazione degli opposti: bene e male, salute e malattia, bello e brutto, vero e falso, normale e anormale. Ciascuno con la propria sfera ideologica e istituzionale separata, essi acquistano un valore assoluto (positivo o negativo) sì F. Basaglia, Condotte perturbate, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, pp. 277-279. 20

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che l’uno non possa mai interferire in un rapporto dialettico con l’altro”21. La riflessione sulla salute, sulla normalità, quindi, non può prescindere da una riflessione sulla società, Basaglia infatti identifica una classe egemone e una subordinata, la prima sarà quella che definisce la norma, gli atteggiamenti del vivere civile in comunità, che dovranno rispondere ai bisogni di riconoscimento di tutti. I bisogni saranno diversi a seconda della classe a cui si appartiene e, come un affamato non bada al modo in cui mangia, ma si preoccuperà di saziare la sua fame, così la classe subordinata farà fatica a riconoscersi in una società creata da altri e non fatta per rispondere ai suoi bisogni. Basaglia si avvicina molto all’analisi di Marx e sostiene che la necessità di conferma dell’umanità viene distorta, facendo sì che lo stesso lavoro non possa più essere la risposta ad un bisogno di creazione di sé e della cosa, ma si riduca alla fabbricazione di bisogni artificiali, non dettati dal reale bisogno. “Un individuo è dunque normale finché accetta le norme che vengono definite come le regole della convivenza civile e che, in realtà, corrispondono alle regole che stabiliscono la distanza fra chi ha il potere di determinare la legge e chi ha il dovere di subirla. La classe che ha il potere si identifica con queste regole perché sono connaturate alle sue esigenze. […] Anormale è quindi chi mette in discussione queste regole, trasgredendole perché non rispondono ai suoi bisogni”22. Basaglia afferma così che tutto il nostro mondo è formato su un dualismo manicheo, la religione ha avuto la funzione di manipolazione e di controllo sull’uomo attraverso la divisone fra bene e male, premio e castigo, e le scienze umane, nate per F. Basaglia, Condotte perturbate, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 281. 22 Ivi, pp. 286-87. 21

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liberare l’uomo, si sono specializzate nella distinzione tra normale e anormale. Come direbbe Hegel si è perso la dimensione del totale, per approdare ad una separazione delle facoltà facendoci dominare da una di esse, producendo un’idea di uomo, di normalità e quindi di salute che non può appartenere a tutti gli individui presenti nella stessa società. Inoltre questo isolamento e assolutizzazione dei fenomeni fa sì, che una persona venga identificata nello stesso fenomeno antisociale, cioè si assiste allo spostamento di ogni problematica dal piano sociale in cui si manifesta all’individuo che la incarna, non vedendo che ogni comportamento è l’espressione di un rapporto, che ha le radici nella storia, nell’ambiente, nei valori e nelle stesse relazioni in cui ogni individuo sociale è immesso. Le scienze naturali, non vedendo il rapporto che sottostà al gesto, creano una frattura fra comportamento e realtà soggettiva che rende incomprensibile il comportamento anomalo agli occhi dei normali. Così l’ideologia scientifica fissa in maniera assoluta gli elementi di sua competenza, dimenticando il rapporto con la realtà. Il mondo sociale, le aspettative, le speranze e i condizionamenti restano così esclusi, come se non avessero alcuna rilevanza, riducendo il diverso ad un mero oggetto da eliminare dalla comunità, per tutelare la sanità e la sicurezza. Ciò che si attua scientificamente è quindi la parcellizzazione dell’uomo, in cui vengono isolate le diversità ed esasperate le differenze. In tal maniera non si riesce a dar vita ad un reale recupero dell’uomo, e tutto ciò lo si poteva facilmente riscontrare nei manicomi, nei quali difficilmente il degente veniva aiutato a reintegrarsi nella comunità, ma anzi veniva isolato come fosse un qualcosa da nascondere. Proprio dalla riconsiderazione dei manicomi, Basaglia dà forza alla propria tesi sul legame di tutti i comportamenti sociali alla realtà contingente, affermando che un malato “borghese” non avrà difficoltà a reinserirsi, poiché nella vita di queste persone c’è spazio per il recupero,

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ed esso è dato dalla classe d’appartenenza e dalla possibilità di usufruire della propria ricchezza per rendersi nuovamente parte attiva del lavoro sociale. Ciò vuol dire che l’anormalità in una persona ricca, viene intesa come il bisogno di risposte diverse, contrariamente in una persona povera come il male da estirpare, comportando così il ricorso a risposte tecniche, che possano riportare alla salute, cioè alla normalizzazione legata ai valori culturali espressi dall’organizzazione sociale in cui le diverse discipline esercitano il loro mandato, di riadattamento alla norma. Con conseguente accettazione da parte dell’anormale, dello stereotipo proposto dal condizionamento sociale. Viene così data vita concettuale agli istituti di segregazione ed emarginazione, creati per rispondere ai bisogni di sicurezza della società sana, che impone la propria esistenza a tutti gli internati senza offrire loro nessuna alternativa, all’identificazione a regole che non rispondono ai loro bisogni. La critica di Basaglia non vuole asserire che la malattia non esista, o che non sia data da alterazioni fisiche e biologiche, ma che essa debba essere considerata in un terreno che abbracci l’intera esistenza dell’umano, senza cancellare l’aspetto sociale e cercando di riflettere sulle condizioni in cui deve porsi l’umanità e quindi la salute, senza far coincidere ad un aumento della devianza solo un maggior numero di guardiani e psichiatri.

4) Psichiatria o antipsichiatria? La difficoltà di trovare una definizione unitaria del concetto di salute, si può riportare anche alla difficoltà di definire unanimemente che cosa sia la psichiatria. Michel Foucault con la

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propria tesi di dottorato Histoire de la folie à l’ âge classique23 ci dona una ricostruzione storica e culturale della follia, che mette in luce come l’evoluzione del concetto di psichiatria e della formazione della stessa sia lunga e tortuosa. L’analisi comincia con il sottolineare come nel medioevo seppur la follia era inserita nella contrapposizione tra bene e male, il folle non veniva escluso dalla società, ma veniva considerato come parte di essa poiché in questo periodo l’arte e i saperi misteriosi affascinano l’uomo che vede nel folle un’espressione dell’oscuro dell’ignoto. Con le riflessioni di Cartesio e Montaigne, l’orizzonte dell’interpretazione allegorica, tipica del Medioevo, cambia, per lasciare il posto all’autorità della ragione e la follia si allontana dalla comunità, incomincia, così, una nuova era in cui si identifica il folle come persona non utile e pericolosa. Nel 1656 vede la nascita L’Hopital general di Parigi, che costituisce il primo luogo dove vengono internati i folli, esso non ha niente a che fare con la medicina poiché è una entità dotata di poteri autonomi, che ha il diritto di giudicare senza appello. Questa istituzione taglia definitivamente le relazioni con la sensibilità verso il folle legata a trascendenze immaginaria del Medioevo. Ora l’anormale viene giudicato secondo l’etica dell’ozio, ed in virtù della sua inutilità sociale, venendo così condannato ed escluso, insieme ai poveri, ai malati ed ai criminali. All’interno di queste strutture, si trovava qualunque persona che non andava bene alla società, dal libertino, all’omosessuale, dal criminale al pazzo, quindi non era presente alcun aiuto medico specifico che potesse giustificare l’internamento dei malati mentali. In questa età, chiamata da Foucault, Età classica, l’internamento si configura come una punizione etica e nell’orizzonte etico si pone tutto il problema della follia, poi23

M. Foucault, Gallimard, Paris 1972.

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ché ciò che si vuole fare è punire il cedimento della volontà che sta alla base della malattia mentale. Nel diciottesimo secolo affiora il concetto di patologia mentale, poiché il folle comincia a costituirsi come un malato che ha bisogno di assistenza. Alla fine dello stesso secolo, grazie all’opera di Tuke e Pinel nasce il manicomio e la psichiatria. L’idea fondatrice di questa scienza fu che i “matti” non dovessero stare rinchiusi in carcere, con i comuni delinquenti, ma che essi dovessero essere messi all’interno di altri istituti che potessero aiutarli e soprattutto che garantissero la sicurezza sociale. “È importante nell’ interesse dell’umanità, cercare di impostare lo studio della medicina seguendo i principi metodologici delle scienze naturali, così avanzate e progredite; e tentare inoltre di acquisire una maggior padronanza con lo studio approfondito della medicina antica e moderna […] è necessario anche compiere osservazioni assidue per anni e descrivere il decorso e la fenomenologia della malattia. Il mio proposito è offrire un esempio in questo Traitè sull’alienazione mentale”24 . In questo modo Pinel decreta l’inizio di una nuova branca della medicina, la psichiatria, che si presenta come scienza della liberazione dell’uomo. In seguito nel ventesimo secolo vengono introdotti gli elettroshock e negli anni ’50 anche gli psicofarmaci, che hanno come effetto di attenuare i sintomi della malattia e di rendere più governabili le crisi. Emil Kraeplin, uno dei fondatori della psichiatria contemporanea, afferma che le malattie mentali sono caratterizzate da una causa specifica, quindi da una particolare patologia cerebrale con un conseguente quadro clinico ed una specifica terapia. Questa affermazione può essere definita soddisfacente dal punto di vista puramente metodologico, ma non soddisfacente dal punto di P. Pinel, Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, ETS editrice, Pisa 1985, p. 55. 24

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vista umano, poiché trascura ciò che Basaglia, richiamandosi ad Aristotele ed Hegel, definisce la parte della relazione, che sta a fondamento di ogni individuo. La critica di Basaglia è possibile poiché, a differenza di altre pratiche mediche, la psichiatria si presta a numerose interpretazioni, che pongono l’accento su aspetti diversi che costituiscono lo stesso orizzonte. Il primo modo di intendere l’anormalità è quello biologico, per il quale le malattie mentali al pari di quelle somatiche, possono essere descritte e analizzate secondo il concetto biologico di malattia, cioè secondo il modello meccanico. Si assume quindi che i disturbi mentali o comportamentali siano determinati da anomalie fisiologiche o biochimiche al livello del sistema nervoso centrale. La popolarità della psichiatria biologica raggiunse l’apice negli anni ’50, poiché venne introdotta la cloropromazina 25 per la terapia delle psicosi e i pazienti vennero dimessi indiscriminatamente dagli ospedali psichiatrici. Purtroppo, la terapia farmacologica non ottenne gli effetti voluti e le patologie non scomparirono creando gravi problemi ai malati, con conseguente internamento nei manicomi. Il modello sociale che viene proposto dalla psichiatria biologica è la segregazione in case di cura per tutelare la società. Il secondo modo di affrontare la malattia mentale è il cosiddetto approccio antipsichiatrico, che prende il via dalla critica radicale alla psichiatria, vista come scienza ma, soprattutto, come istituzione sociale che detiene i malati, che essa stessa crea. Szasz, che assieme a Laing e Cooper (il quale si assunse, in una risposta a Jervis all’interno della rivista Aut-aut, la coniazione del nome antipsichiatria), fu uno dei principali esponenti della corrente antispsichiatrica si espresse sulla psichiatrica in questo modo: Vedi H. Wulff, S. A. Pedersen, R. Rosenberg, Filosofia della medicina, capitolo 8, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995. 25

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“La psichiatria viene di solito definita come una specializzazione medica che si occupa dello studio, della diagnosi e del trattamento di malattie mentali. Si tratta di una definizione priva di valore, oltre che fuorviante. La malattia mentale è un mito; gli psichiatri non si occupano di malattie mentali e del loro trattamento ma, nella prassi effettiva, hanno a che fare con difficoltà di carattere personale, sociale ed etico”26. Essi, quindi, annullano quasi del tutto il concetto di malattia e imputano alla società la colpa della creazione della malattia stessa, sostenendo che l’anormalità sia il modo più semplice per escludere i dissidenti dalla comunità, nel caso in cui le loro idee e comportamenti costituiscano una minaccia all’ordine sociale. Questi psichiatri giungono sino alle conseguenze estreme nel ritenere la malattia una risposta sana ad una società malata. Asseriscono, inoltre, che i manicomi, possono diventare uno dei migliori strumenti per l’instaurazione di un regime politico, poiché in manicomio, attraverso la perizia di medici compiacenti, possono essere internati avversari politici e oppositori. Il modello sociale proposto dall’antipsichiatria è l’assimilazione, poiché si elimina il confine tra malattia e sanità. Franco Basaglia propose un terzo modo di intendere la malattia mentale, che non si basa né sulla segregazione né sull’assimilazione, ma sulla reintegrazione del malato in società. Il suo merito fu quello di coniugare le due modalità della psichiatria, proponendo una critica sociale al potere insito nei manicomi, ma non trascurando mai la dimensione fisica e biologica che nella psichiatria classica si affermava con la somministrazione degli psicofarmaci. Coniugando tutto ciò ad una rivalutazione relazionale e soggettiva della malattia mentale. Come scrive Umberto Galimberti, Basaglia dall’antipsichiatria prese l’idea: “che ragione e follia sono entrambe espressioni della condizione 26

Szasz, Il mito della malattia mentale, Il saggiatore, Milano 1980, p. 395.

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umana che, a seconda delle possibilità di cui dispone, dà parola ai proprio bisogni e ai propri desideri, ora con il linguaggio della ragione condivisa, ora con il linguaggio dell’ irrazionalità […] a partire da queste considerazioni Basaglia denuncia il carattere ideologico, quando non politico, della psichiatria classica e soprattutto il suo indirizzo medico-biologico che, anche se da più parti confutate nella sua formulazione teorica, viene recuperato nella clinica attraverso la terapia farmacologica, divenuta struttura portante di ogni trattamento”27. Basaglia quindi si schiera contro la riduzione della malattia ad un puro accidente biologico, da curare solo con i farmaci ma non dimentica nemmeno che ciò che ha davanti è una malattia, poiché negandone l’esistenza non si fa altro che cadere nello stesso errore del meccanicismo biologico, quindi non mi sembrano corrette tutte le interpretazioni degli studiosi che vedono in Basaglia un appartenente alla corrente antipsichiatrica, poiché come lui stesso afferma: “Cancro e malattia mentale esistono come fatti concreti, ma si trascende questo fatto concreto e se ne fa un’ ideologia, perché ciò che importa è che la malattia sia gestita e controllata in modo che non esprima anche qualcosa che vada oltre il semplice fatto bruto del sintomo”28. Vorrei sottolineare che lo psichiatra veneziano non ha mai negato l’esistenza della malattia mentale, nella sua realtà organica, radicata nella materia che ci costituisce, respingendo così l’antipsichiatra, quando essa riduce la malattia a mero effetto dell’emarginazione sociale, pur non dimenticandosi che l’esclusione e la repressione sociale cooperano alla sofferenza U. Galimberti, Psichiatria e Fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 239-240. 28 F. Basaglia, Ideologia e pratica in tema di salute mentale, in Scritti volume 2, Torino 1982, p. 359. 27

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psichica e allo sviluppo dell’uomo. Quindi si può affermare che il ricorso di un’azione riformatrice passa dai bisogni più profondi di ogni persona, che va compresa e accettata per quella che è, e non in base ad una norma astratta. Tenta, in questa maniera, l’unificazione, dell’orizzonte separato della psichiatria riconducendolo a ciò che si riteneva essere solo l’oggetto di questa scienze, l’uomo. “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana, nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità”29. Da questa frase di Primo Levi, più volte ripresa è analizzata negli scritti di Basaglia, possiamo capire come una persona, per dirsi tale, ha bisogno di risposte ai propri bisogni, è una norma di utilità non può risolverne l’intera umanità, senza dar vita ai mostri condannanti da tutti nel corso della storia umana. Per questa ragione Basaglia afferma che la psichiatria debba risolvere i reali bisogni dell’uomo, poiché se essa avesse solo a cuore la tutela dell’ordine pubblico, quindi il ristabilimento di una norma e non la risposta ai bisogni espressi dalla malattia, non servirebbe a nulla e sarebbe più utile delegare questo lavoro al questore e non allo psichiatra. La sola finalità di ogni trattamento, provvedimento e azione deve essere l’uomo con i suoi bisogni e il valore dell’uomo sano o malato deve andare oltre la normalità e anormalità stabilita dalla norma, facendo in modo di non scordare che il concetto di uomo viene prima dell’attributo normale. 29

P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 2003, p. 23.

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5) Un grande bioeticista La tecnica e la medicina moderna rappresentano un’incognita nella vita dell’uomo, poiché seppur si siano fatti numerosi passi avanti nella ricerca per migliorare il tenore di vita, gli stessi passi prodotti dalla tecnica, sembrano costituire un orizzonte totalizzante dell’intera esistenza dell’uomo. Come sostiene Hans Jonas: “la tecnica è entrata oggigiorno a far parte di quasi tutto ciò che riguarda l’uomo – vivere e morire, pensare e sentire, agire e patire, ambiente e cose, desideri e destino, presente e futuro – in breve, è divenuta un problema centrale e pressante per l’ intera esistenza dell’uomo sulla terra”30. Oggi si ha la coscienza che ogni passo della tecnica moderna, non è un passo verso la saturazione della scienza per raggiungere un equilibrio ma è solo un passo, verso un orizzonte più ampio che, inglobando tutta la sfera dell’umana presenza, non sapremo mai fino a dove può condurci. Come abbiamo visto sino ad ora, la vita di Franco Basaglia è stato un viaggio filosofico per ripensare e cercare di comprendere a pieno il significato dell’umano. Fabrizio Turoldo, all’interno della sua riflessione sul metodo della bioetica scrive: “La scienza e la tecnica ci forniscono il mezzo, ma non ci spiegano in che direzione dobbiamo condurlo”31. Possiamo così affermare che il bisogno della filosofia e più in generale della riflessione nasce dall’immensa possibilità che abbiamo di utilizzare la tecnica, che tal volta può portare persino al superamento della nostra umanità. L’operazione che compie Basaglia è ripensare e rivedere la propria scienza e tecnica, la psichiatria, in modo che essa non comH. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, prassi del principio di responsabilità, Einaudi, Torino 2006, p. 6. 31 F. Turoldo, Bioetica e reciprocità, Città nuova editrice, Roma 2003, p. 29. 30

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pia definitivamente il salto fatale di diventare una pratica non finalizzata alla salvaguardia della dignità della persona. Per fare ciò ha bisogno prima di tutto di riflettere sul concetto di uomo e quindi sul concetto di dignità umana. Il Belmont Report del 1978 rappresenta il documento che sancisce la nascita della bioetica e porta in essa l’utilizzazione di tre principi, l’autonomia, la beneficenza e la dignità. L’autonomia è definita da Turoldo come una scoperta tipica della modernità, in quanto nell’antichità non poteva esistere, poiché l’individualità e l’autonomia stessa era vista come un vizio, come puro egoismo. Essa è fondamentale per rendere parte attiva il malato, infatti in alcuni paesi quali Scandinavia e Inghilterra, molti pazienti considerano oggi il medico come un consigliere più che un tutore e vogliono prendere parte attiva nel processo di decisione. Sicuramente, nel caso della malattia mentale è molto difficile riuscire a dare l’autonomia al paziente, eppure Basaglia a Trieste ha dimostrato che se lo si responsabilizza, se lo si tratta come un uomo, se lo si rende libero di camminare lungo l’ospedale, se gli si dà la possibilità di mantenersi e di vivere una vita il più possibile vicino a persone che gli vogliono bene, ecco che esso diventerà un abile collaboratore, poiché capirà di essere trattato come un uomo e non di essere uno scarto della società industriale che vede in lui un mostro da tenere lontano dagli occhi. “L’ individualità – che non è che la mia scelta – è un bene da conquistare. L’uomo che tende ad individualizzarsi è dunque un uomo che sceglie se stesso nella lotta per il proprio progetto”32 . La beneficenza è ciò che fa passare il rapporto tra medico e paziente, da univoco a biunivoco, ciò coincide con la F. Basaglia, Ansia e malafede, in l’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 5 .

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valorizzazione dell’individuo. Uno dei capisaldi del pensiero basagliano è la possibilità di ritrovare la propria autenticità di medico, infermiere e malato nella relazione reciproca, negando del tutto l’orizzonte di dominio che si instaura nella visione classica tra medico e malato. Poiché Basaglia rifiuta la presunta neutralità del medico e soprattutto rifiuta il paternalismo terapeutico, ossia una verità che discende dal medico al paziente, rifiuta anche una guarigione imposta e passivamente accettata. “La reciprocità dei ruoli tende a negare ogni gerarchia, allora avviare un tale tipo di rapporto con il malato, significa minare il principio autoritario-gerarchico su cui l’ intera organizzazione ospedaliera si fonda, per tendere ad un organismo in cui ogni polo della realtà cerchi, attraverso l’altro, il proprio significato”33. Umberto Galimberti, a proposito del concetto di biunivocità in Basaglia, si esprime in questa maniera: “Basaglia, prima a Gorizia e poi a Trieste, accetta questa condizione di parità tra medico e paziente e scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventava un uomo con cui si poteva entrare in relazione”34 . La dignità è il principio che riassume in sé gli altri due, poiché per riconoscere dignità ad una persona bisogna metterla in un rapporto biunivoco e lasciare spazio alla sua autonomia. Basaglia pensa che il rispetto della dignità, consista da parte della medicina, nel non defraudare il malato dalla propria malattia e poter farla vivere, così, nella propria singolarità. “La diagnosi ha ormai assunto il valore di un etichettamento che codifica una passività data come irreversibile”35. F. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, pp. 20-21. 34 U. Galimberti, Il sogno di Basaglia, Repubblica, 29 agosto 2005, p. 29. 35 F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in l’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 152. 33

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Il rispetto della dignità consiste, quindi, nell’incontro con la persona malata, nel non definire la psichiatria come un mero atto di classificazione, che non tiene conto della diversità di ogni persona. Basaglia nell’esperienza del manicomio incontra un malato, che non sa nemmeno di esserlo, che deve convivere con un mondo che non lo vuole e perciò si lascia fare tutto, senza ribellarsi, poiché non è a conoscenza che anche lui è un umano e non tutto quello che si fa su di lui è lecito. La tradizione dei diritti umani risale al settecento, per quanto riguarda la pratica medica nel 1964 la dichiarazione di Helsinki dichiara che in qualsiasi studio medico, ad ogni paziente, deve essere garantito il metodo diagnostico e terapeutico che sia stato dimostrato il migliore possibile. Il merito di Basaglia è quello di avere esteso questa dichiarazione anche all’interno dei manicomi, poiché prima della sua riforma, valutata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la migliore formulata in Occidente, i manicomi venivano considerati terra di nessuno. Infatti, non venivano utilizzate le cure migliori e chiunque entrava in un manicomio abbandonava ogni diritto, poiché si veniva internati in quanto pericolosi per gli altri. Nel 1904 in Italia viene formulata la prima legge nazionale sull’assistenza psichiatrica, in essa si parla più di ordine pubblico che di assistenza sanitaria, mettendo al primo posto la protezione sociale rispetto alle esigenze di cura della malattia. La figura del paziente psichiatrico diviene simile a quella del detenuto, poiché il ricovero coatto nei manicomi viene stabilito con un provvedimento del magistrato o del questore, inoltre il direttore del manicomio diviene responsabile penale e civile del paziente dimesso. Per queste ragioni, la detenzione si protrae, per molte persone, per tutta la vita, non focalizzandosi più quindi sul tempo della malattia. Nel 1968 viene approvata la legge Mariotti, che ha tra i suoi capisaldi l’istituzione di un servizio di assistenza psichiatrica territoriale attraverso i Centri

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d’Igiene Mentale e l’abolizione dell’obbligo di annotare i ricoveri negli Ospedali Psichiatrici sul casellario giudiziario. L’orizzonte cambia drasticamente nel 1971, quando Franco Basaglia inizia a lavorare come direttore dell’ospedale di Gorizia e da quell’esperienza comincerà la sua lotta che porterà a guardare l’anormale sotto altri occhi e darà modo alla società di concepire il malato mentale pericoloso più per se stesso che per gli altri. Ciò darà il via ad un ripensamento radicale della psichiatria, della sua funzioni sociali, delle sue pratiche, delle sue tecniche di gestione e dei suoi saperi per sostituirli con un nuovo approccio che potesse mettere in rilievo l’autonomia, la dignità e l’alterità del degente. Il passo centrale di questa rivalutazione è lo spostamento dell’attenzione dalla pericolosità sociale della malattia all’esistenza che diviene sofferenza del paziente e al suo rapporto con il sociale. Le principali innovazioni apportate da Basaglia saranno la fine della considerazione cronica della malattia e la conseguente abolizione di un tempo della patologia distinto dal tempo della vita, in quanto essa viene considerata una crisi che può venire superata, ma che non è mai slegata dalla propria esistenza. Inoltre riporta i degenti alla vita, assegnandogli nuovamente i propri diritti e doveri ma, soprattutto, li rende di nuovo padroni del proprio corpo, poiché era consuetudine che quando morivano in manicomio il loro corpo divenisse proprietà delle università e degli uomini di scienza oppure ancora in vita sottoposti a trial terapeutici, senza la loro adesione. In un unico punto si potrebbe accusare la riforma di Basaglia, forse, di non aver del tutto considerato il rapporto con la realtà. Il clinico ha sempre tre grandi doveri, che sono fare il meglio per il paziente, considerare gli interessi della società e rispettare l’autonomia del paziente. Nel secondo di questi doveri è incluso il tenere in conto la considerazione economica in cui versa lo stato, che è respon-

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sabile del servizio sanitario. Forse Basaglia ha trascurato che lo stato Italiano non era pronto a prendersi carico i costi della creazione di una serie di centri di assistenza diffusi sul territorio, come lui pretendeva. È anche vero che, i motivi dell’impossibilità dell’attuazione a tutto tondo della legge 180 si potrebbero trovare nella cattiva politica o in qualcosa di puramente burocratico, senza così dover accusare lo psichiatra veneziano di scarsa lucidità e di eccessivo slancio utopico. Questo però è solo uno spunto, una semplice riflessione, per cercare di dare una ragione al motivo per cui una delle più grandi riforme della salute sia stata applicata così male e venga criticata aspramente da chi, versando in condizioni difficili, vede in Basaglia non un liberatore, che ha dato dignità ai malati mentali, ma colui che ha ricondotto la sofferenza psichica nelle case.

6) Un nome inflazionato Ci sono molti modi di vedere e interpretare la figura di Franco Basaglia e il suo operato, ma nessuno di questi può prescindere dal vedere in lui il principale artefice di una importante riflessione sulla malattia mentale, che porta, anche, alla chiusura dei manicomi. Morendo presto, Basaglia non ha fatto in tempo a legare il suo nome a qualcosa di diverso e forse non avrebbe nemmeno voluto, poiché tutto ciò che ha compiuto in vita era finalizzato unicamente alla assistenza medica psichiatrica. Oggi si assiste ad una serie di libri, film e articoli sui mass-media che possono farci pensare ad un’inflazione del suo nome e soprattutto ad una estesa conoscenza del suo pensiero. Eppure non è sempre stato così. Pier Aldo Rovatti, in un articolo di Repubblica del 1995, scrive: “Chi oggi ha vent’anni

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(e magari anche trenta) non sa più niente di Basaglia, non ha letto neppure una pagina: per lui Basaglia è un nome vuoto. È giusto che sia così? Sono davvero così frenetici i tempi che stiamo vivendo, e perché nomi, intelligenze ed esperienze si bruciano in maniera tanto rapida?”36 . Il contesto del 1995 sembra completamente diverso da quello attuale, dove compaiono addirittura fiction sullo psichiatra veneziano, ma una così larga esposizione mediatica coincide anche con l’utilizzo della sua figura, nei contesti più disparati, facendogli dire ciò che non ha mai pensato e facendogli combattere battaglie non sue. Visti i contesti in cui si parla di Basaglia e i riferimenti fatti alla sua persona, oggi si potrebbe pensare che più che una vera e propria rivalutazione e riconsiderazione dell’impegno etico, sociologico, filosofico e tecnico, il suo nome sia diventato solo una moda, la maniera più facile per giustificare i troppi buonismi che si susseguono in molti campi dell’agire umano. Rendendo più esplicito il mio pensiero, penso che la critica e le domande che Rovatti si poneva nel 1995 sono le stesse che ci potremmo porre noi ora, poiché ritengo che seppur il nome di Basaglia sia oggi più conosciuto, in pochi tuttora hanno realmente letto qualche pagina e sanno ciò che veramente ha fatto, che non può ridursi alla chiusura dei manicomi. Quindi identificare Basaglia solo con questo gesto, ed esasperare lo stesso fino a fargli significare le cose più disparate, consiste comunque nell’avere un nome vuoto in testa e l’avvento dirompente dei mass-media ha portato solo ad una vaga fama, che lo psichiatra veneziano non avrebbe mai voluto avere. Come sostiene Galimberti: “La chiusura dei manicomi non era, infatti, lo scopo finale dell’ operazione basagliana, ma il mezzo attraverso cui la società poteva fare i conti con le figure 36

P. A. Rovatti, Torniamo a Basaglia, Repubblica, 31 Maggio 1995, p. 29.

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del disagio che la attraversano quali la miseria, l’ indigenza, la tossicodipendenza, l’emarginazione e persino la delinquenza a cui la follia non di rado si imparenta. E come un tempo la clinica aveva messo il suo sapere al servizio di una società che non voleva occuparsi dei suoi disagi, Basaglia tenta l’ operazione opposta, l’ accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia”37. Ne segue che rispetto al 1995, oggi non c’è stata una vera e propria riconsiderazione del suo pensiero e, per concludere, vorrei far riflettere sul fatto che Basaglia si è sempre battuto contro i dogmatismi della propria scienza, poiché con le verità assolute non si capiscono le persone, quindi trovo insensato estrapolare il suo pensiero per ridurre anch’esso a dogma da utilizzare a piacimento.

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U. Galimberti, Il sogno di Basaglia, Repubblica, 29 agosto 2005, p. 29.

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Jaspers e la fenomenologia Jaspers definisce la fenomenologia lo studio dei fenomeni psichici coscienti, tali quali il malato li presenta. […] L’ indagine fenomenologica si compie attraverso la percezione interna e non attraverso un processo di introspezione. F. Basaglia, Scritti v.2 (p. 3)

1) Sulla fenomenologia La riconsiderazione dell’uomo e la documentazione sull’evoluzione della malattia portano Basaglia ad avvicinarsi alla fenomenologia, cioè all’esame e alla valutazione del modo e del contesto in cui si presenta e si manifesta una realtà. Ciò che lo psichiatra veneziano dice di apprezzare dell’indagine fenomenologica è la possibilità di partire dalle descrizioni soggettive delle esperienze del malato per classificarle grazie ad un metodo di percezione interna, cioè tramite un’immedesimazione nella vita del malato stesso. “L’analisi fenomenologica si ottiene infatti dalla descrizione, la più fedele possibile, delle esperienze soggettive del malato e dalla loro classificazione, una volta che l’esaminatore abbia presentato dette esperienze al suo spirito, immedesimandosi nella vita del malato stesso”38. F. Basaglia, Il mondo dell’ incomprensibile schizzofrenico attraverso la Daseinsanalyse, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 3.

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In tal maniera lo psichiatra non potrà più limitarsi ad osservare dall’esterno il paziente, ma dovrà mettersi dalla sua parte, prestargli ascolto e dovrà quindi cercare di cogliere il modo con il quale si manifesta il fenomeno psicopatologico piuttosto che il fenomeno in quanto tale39. Quindi la fenomenologia istituisce un nuovo modo di procedere, considerando la natura soggettiva delle esperienze prese in esame, poiché il soggetto non è un qualcosa che sta al di fuori del mondo, ma è profondamente legato alle sue esperienze, tanto è vero che bisogna coglierne la connessione vivente che lega la persona a questi fatti. In tal modo il fenomeno non viene più osservato come esterno alla coscienza, ma deriva dall’Erlebnis, cioè dall’esperienza vissuta, in cui l’atto del conoscere non è diverso dall’oggetto conosciuto.

2) Karl Jaspers e la psicologia comprensiva Karl Jaspers nacque il 23 febbraio 1883 ad Oldenburg, si laureò nel 1908 in medicina e cominciò subito a lavorare presso l’ospedale di Heidelberg, dove aveva lavorato anche Kraepelin, in seguito nel 1919 divenne docente di filosofia e non fece più ritorno all’attività di terapeuta. Il suo contributo alla filosofia e alla medicina venne dato in particolar modo dall’opera Psicopatologia generale. All’interno di essa vengono presi in esame in vari punti di vista esistenti nell’ambito della ricerca psicopatologica, analizzandoli nelle loro possibilità di conoscenza dei fenomeni psichici.

M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori editore, Milano 2001, p. 21. 39

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In tal modo Jaspers mette in luce il limite costitutivo dell’attività dello psicopatologo, poiché esso non può risolve il singolo individuo in concetti psicologici e proprio il riconoscimento di questo limite, spinge la psicopatologia verso il pluralismo metodologico. Solo attraverso metodi diversi e molteplici punti di vista, si può guardare l’infinità del singolo individuo e superare così la dogmaticità dei sistemi teorici. Si concepisce in questi termini il compito della fenomenologia che diviene il modo per attualizzare i singoli stati psichici realmente esperiti dai soggetti e di rappresentarli secondo le loro relazioni e nominandoli in maniera differente. In questa maniera ogni vissuto, anche quello dell’anormale, è sempre coscienza di qualcosa, esperienza soggettiva di un senso che si presenta alla coscienza. Nella costruzione teorizzata da Jaspers, risulta fondamentale la distinzione tra spiegazione e comprensione, poiché la prima viene intesa con una modalità causale, ossia si afferma che nelle scienze naturali le regole vengono espresse in modo matematico con espressioni causali che vengono raccolte tramite l’osservazione e la sperimentazione. Quindi si tratta di un’operazione di oggettivazione del fenomeno osservato come esterno alla coscienza, messo cioè a distanza, quindi ridotto solo ai suoi nessi causali. In psicopatologia si presenta un altro genere di relazioni che non sono confrontabili tra loro meccanicamente in virtù del nesso causa ed effetto, ma sorgono dall’interiore di ogni individualità secondo un nesso comprensibile tramite rapporti di senso. Da ciò nasce il bisogno della comprensione, che si configura come un atto proprio dell’analisi fenomenologica tendente a cogliere il come del fenomeno, attraverso l’intuizione della sua essenza. Quindi la comprensione non si basa su una modalità causale, ma ci permette di accedere ai fenomeni psichici in quanto eventi di vita da cogliere.

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“A evitare ambiguità e fraintendimenti impieghiamo l’espressione comprendere (verstehen) per la visione intuitiva di qualcosa dal di dentro, mentre non chiameremo mai comprendere, ma spiegare (erklären) la conoscenza dei nessi causali oggettivi che sono sempre visti dal di fuori. Comprendere e spiegare hanno dunque un significato diverso. Infatti è possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo”40. Come già Dilthey aveva affermato, passando da una psicologia esplicativa che si basava sul metodo scientifico e mirava all’individuazione del perché di un fenomeno, alla psicologia descrittiva che si potesse avvicinare all’esperienza del vivente nei suoi stessi termini, così Jaspers propone una psicologia comprensiva, che non mobiliti solo l’intelletto, ma tutte le capacità intuitive del nostro animo per penetrare l’intima essenza, senza ridurla a ipotesi causali. L’obiettivo ultimo del lavoro psichiatrico si configura così come la comprensione e la cura dell’uomo come singolo individuo, non riducibile ad un caso particolare di una classificazione scientifica. Jaspers condanna così tutte le pretese di assoluta generalizzazione e la nuova psicologia comprensiva deve basarsi sul presupposto che non tutto è riducibile in termini scientifici. Anche il concetto di malattia mentale deve essere ripensato, in considerazione dell’impossibilità di irrigidire in uno schema o in una formula la pienezza inesauribile di ogni singolo individuo. Questo richiamo alla soggettività pura mette in luce la difficoltà di definire stabilmente ciò che è sano e ciò che è malato, infatti all’interno dell’opera Psicologia delle visioni del mondo introduce l’idea che la salute in sé non esiste e che la definizione di essa derivi dalla media dei comportamenti umani, malgrado la difficoltà della stessa nozione generale di media e K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma 2000, p. 30.

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l’impossibilità di rapportare le occasioni, poiché in situazioni diverse ciò che appare normale può apparire invece anormale e viceversa.

3) Basaglia e la critica al soggettivismo di Jaspers Non è difficile capire come mai Basaglia sia stato attirato dalla psicologia comprensiva di Jaspers, che offre la possibilità di sottrarsi al metodo scientifico positivista attraverso un indagine che non si fonda sulla riduzione del malato a un insieme di sintomi da classificare con un etichetta di malattia, ma sulla globalità delle descrizioni delle esperienze soggettive, attraverso un’intesa fondata sull’immedesimazione nella sua vita. “Jaspers afferma infatti che non basta la descrizione del sintomo, ma tale descrizione dovrà suscitare nell’esaminatore le sue esperienze, qualche cosa di vissuto: solo così egli potrà vivere interamente e intensamente la descrizione di questo sintomo”41. Basaglia vede nella psicologia comprensiva l’inizio del proprio percorso verso la riconoscenza della dignità del malato psichico e valuta in maniera positiva il bisogno di mettersi gioco, non tornando più al ruolo dogmatico del medico che produce l’incomunicabilità di una relazione basata solo sulla ricerca delle cause della malattia e nel determinare i conseguenti effetti. “Le relazioni di causalità non potranno essere considerate come facenti parte del metodo fenomenologico al quale invece partecipa attivamente solo la relazione di comprensibilità: in senso psicologico infatti la causalità non può cadere sotto il controllo F. Basaglia, Il mondo dell’ incomprensibile schizzofrenico attraverso la Daseinsanalyse, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 4.

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soggettivo dell’esaminatore, la comprensibilità ne è una diretta emanazione”42. Però la psicologia comprensiva non soddisfa pienamente i bisogni di ripensamento della psichiatria di Basaglia, che nutre dei dubbi nella costruzione dei concetti di comprensibilità e di soggettivismo, in quanto per lui il soggettivismo jaspersiano ha il demerito di escludere del tutto il paziente schizofrenico. Infatti per Jaspers la relazione di comprensibilità come modalità di approccio al mondo del malato può essere applicata in tutti i casi fuorché nella psicosi, che resta inaccessibile al senso. “Nella concezione di Jaspers si resta interamente nel soggettivo e, anche quando tale soggettività viene oggettivata, il medico, pur penetrando il più possibile gli elementi indicativi, ne rimane staccato”43. In questa maniera, come sottolineano Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio44, si può determinare solo il confine tra delirio che si ha di fronte, cioè il limite esistente fra ciò che è comprensibile e ciò che è incomprensibile, ma non lo si può varcare con un’interpretazione, pena l’invasione dell’altrui soggettività. Il malato così non viene più ridotto ad una sterile diagnosi, ma viene comunque abbandonato nel terreno dell’incomprensibilità. L’incomprensibilità della psicosi garantisce così lo psichiatra nel ruolo di detentore della ragione chiudendo lo schizofrenico in un mondo senza uscite. I due autori sostengono anche che Basaglia appare condizionato in questa sua analisi dalla lettura dell’opera di Jaspers centrata solo sulla Psicopatologia generale, non tenendo conto delle opere successive, quale Psicologia delle visioni del mondo, in cui Ibidem. F. Basaglia, Il mondo dell’ incomprensibile schizzofrenico attraverso la Daseinsanalyse, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 4. 44 M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori editore, Milano 2001. 42 43

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il medico tedesco aveva cercato di superare la semplice nozione di comprensione dei vissuti e di giungere ad una descrizione delle modalità essenziali nelle quali un’esistenza si progetta nel mondo. Ciò non toglie che Basaglia su Jaspers scriverà: “nel 1911 Jaspers aveva aperto, con la sua Allgemeine Psychopathologie un nuovo indirizzo scientifico – la psichiatria comprensiva – […] Il concetto di comprensibilità era stato accolto dal pensiero scientifico tradizionale, come un principio rivoluzionario, nella misura in cui si imponeva di avvicinare e di comprendere il malato […] Tuttavia, esso manteneva il medesimo tipo di distanza fra l’ incomprensibile e il sano, continuando a sancire quest’ultimo come unico valore di riferimento”45. In questa maniera Basaglia sottolinea che Jaspers ha effettivamente iniziato a porre in modalità diversa, cercando l’umanizzazione, il problema della comprensione della malattia mentale, ma non è riuscito con il suo operato a rendere effettivamente umana la pratica della psichiatria. Poiché la sua concezione si basava ancora su una norma a cui ricondursi, in quanto si poteva fare una analisi del delirio solo quando era evidente l’incomprensibilità del malato. Ma ciò più che basarsi sulla comprensione, sembra ancora fare affidamento sul nesso causa effetto, non riuscendo così a staccarsi dalla disumanizzazione delle scienze naturali. Quindi il metodo jaspersiano finisce per chiudersi in un soggettivismo senza via di uscita, non meno angusto dell’oggettivismo dei positivisti. Basaglia, in uno scritto del 1967, La soluzione finale, prende le distanze da Karl Jaspers, anche come uomo, poiché egli aveva dichiarato, in un numero di Die Spiegel, che sarebbe stata auspicabile un’alleanza fra russi e americani al fine di distruggere la Cina maoista. Questa dichiarazione, secondo lo psichiatra F. Basaglia, La soluzione finale, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 138. 45

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veneziano, aveva avuto il potere di smascherare la malafede che sottostava all’impostazione filosofica del suo pensiero, in quanto Jaspers, proponendo di sacrificare i cinesi, poiché non c’erano altre soluzioni alla situazione problematica contemporanea, riconosceva i cinesi come altri da lui, quindi incomprensibili e per questa ragione da poter tranquillamente sacrificare. Questa riflessione trasferita al concetto di comprensibile e incomprensibile nella malattia mentale, aveva come effetto che la sua teoria si sarebbe arenata in un concetto razzista e classista. “Quando il governatore dell’Alabama divide la popolazione del suo stato in bianchi e neri non fa che applicare il principio jaspersiano della divisione fra chi è come lui e chi non lo è”46 . In questa maniera Basaglia vede nell’opera di Jaspers niente altro che la trasposizione, in forma migliore, della totalità escludente della società, che esclude dei gruppi in modo da rendere la vita aproblematica e acontraddittoria e la stessa psichiatria non progredisce, ma rimane sempre in quel limbo fondato da Pinel, in cui si liberano i folli dalle prigioni per rinchiuderli in altre, che hanno solo la sembianza di luoghi che tutelano l’umanità del singolo. Il malato mentale rimane così una persona di troppo, che finisce in manicomio come capro espiatorio per tutelare la società. Inoltre, seguendo il ragionamento di Jaspers, il medico acquista un potere assolutamente soggettivo, quindi smisurato, nel poter definire l’anormale con i significati psicopatologici che più gli piacciono, giustificando così ogni sua aggressione con la necessità di un controllo terapeutico. In conclusione, si può affermare che Jaspers, per Basaglia, costituisca solo un mezzo per rendersi conto che un ripensamento della psichiatria è possibile, ma non lo si può attuare nell’eccessivo soggettivismo, che porta solo all’accentuarsi dell’incomprensione fra i diversi. 46

Ivi, p. 139.

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4) La malattia fra parentesi e il superamento della fenomenologia Lo studio del pensiero di Jaspers con la conseguente vicinanza agli aspetti di riforma della psichiatria, ma anche la condanna aspra all’incomprensibilità dettata dall’eccessivo soggettivismo derivante dalla sua teoria, permettono a Basaglia di ragionare più ampiamente sulla fenomenologia. In greco “phainomenon” significa “ciò che appare”, quindi una disciplina chiamata “fenomenologia” costituirà una scienza delle apparenze che prenderà in esame l’apparire inteso come mostrarsi, quindi come manifestazione dell’altro. La fenomenologia perciò costituisce una scienza del manifestarsi, una disciplina epistemologica che analizza come conosciamo gli oggetti tramite il loro rappresentarsi a noi. Kant utilizza il termine fenomenologia per indicare la dottrina dei limiti della percezione sensoriale, indicando l’opposizione del “fenomeno” come mera apparenza dell’oggetto e del “noumeno” come oggetto ideale in sé, poiché per lui il significato dell’essere cosa non può esaurirsi nel solo aspetto fisico conoscitivo. Tuttavia i due mondi, quello del fenomeno e noumeno, sono inconciliabili e le categorie dell’uno non vanno bene per l’altro. Noi possiamo avere solo coscienza della fisicità delle cose, poiché l’in sé degli oggetti è inconoscibile per natura e il dogmatico è colui che scambia i fenomeni per cose in sé, quindi le cose per fenomeni oggettivi. Hegel in contrapposizione con la teoria kantiana dell’inconoscibile oggetto in sé, propone la propria versione della fenomenologia, che diventa una dottrina dell’esperienza e della coscienza, proponendo così il modo della coscienza di esperire se stessa e di manifestarsi a se stessa come un caso in cui la conoscenza dell’oggetto in sé diviene possibile. In seguito il concetto di fenomenologia fu ripreso da Franz Brentano che divenne il maestro di Edmund Husserl, il fonda-

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tore del movimento fenomenologico che condizionò Jaspers e anche Basaglia. Seppur con accezioni diverse tutti i filosofi che si ispirano alla corrente fenomenologica, mirano a rispondere al quesito di cosa sia l’ente nella sua totalità. La proposta fenomenologica ha il merito, per Basaglia, di coniugare l’attenzione per la persona, colta nell’interezza e nella singolarità del suo rapporto con il mondo, con un indagine non schiava del pregiudizio naturalistico di matrice positivista. Inoltre, grazie alla fenomenologia, lo psichiatra veneziano scopre che se si resta confinati in una visione positivistica della malattia mentale diventa impossibile l’incontro con il malato di mente. Bisogna, quindi, rompere la sicurezza dettata dal dogma delle teorie scientifiche, per riuscire a capire il momento originale in cui si costituisce la sua esperienza. In questa maniera si afferma prepotentemente l’inutilità di una diagnosi che non tenga conto di tutti i fattori che costituiscono l’uomo, poiché l’orizzonte umano non potrà mai essere diviso dall’ambiente in cui è immesso e dalla comprensione che si ha di esso. Ciò porta Basaglia a concepire una comunità terapeutica votata a principi liberali e democratici, che avrà il merito di mettere in luce che l’anormale, oltre ad essere un malato è anche un escluso sociale e questo fattore non deve essere trascurato. “Lo psichiatra si trova ad affrontare il malato mentale; costretto quindi a mettere fra parentesi la malattia, la diagnosi, la sindrome in cui è stato etichettato, se vuole riuscire a comprenderlo e soprattutto ad agire su di lui, dato che risulta distrutto, più che dalla malattia, da ciò che la malattia è stata ritenuta e dalle misure di sicurezza che una tale interpretazione ha imposto”47. L’esperienza di Gorizia ha il merito di mettere in luce che non solo la psichiatria positivista, ma anche quella fenomenoF. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, p. 22. 47

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logica non permettono un vero incontro con il malato, ma lasciano al loro destino gli internati, donando solo un’illusione di trattamento più umano. In questo contesto prenderà il via il movimento antistituzionale e soprattutto Basaglia affermerà il bisogno di mettere tra parentesi la malattia mentale. Tutti i detrattori e molti critici vedono in questa fase la vicinanza dello psichiatra veneziano al movimento antipsichiatrico. Ma, ciò che intendeva Basaglia era che l’incontro con il malato di mente è possibile solo se egli è libero e se tutti i membri della comunità si incontrano su un piano di libertà e responsabilità. La riflessione e il superamento della fenomenologia vengono dalla realtà dei fatti di un incontro impossibile in una società che esilia il matto in una struttura repressiva, il manicomio, togliendogli ogni diritto. Basaglia, con quella frase vuole chiedersi come è possibile incontrare il malato, se prima non si sospende la logica istituzionale che continua a seppellirlo sotto una malattia che l’istituzione stessa accentua. Quindi la fenomenologia, intesa come sospensione critica delle verità della malattia mentale, viene recuperata solo dopo essere riusciti a ridare la dignità di persona ai malati. Poiché la fenomenologia da sola non riesce a ridare questa dignità, anche essa fallisce nel proprio tentativo. Quindi per rispondere alla domanda sulla natura dell’alienazione mentale, non basta più un incontro intersoggettivo fra medico e paziente, ma è necessaria una messa fra parentesi storica e sociale della malattia mentale, da perseguire attraverso un lavoro pratico di alternativa al manicomio. Per fare ciò, gli psichiatri dovranno lottare al fianco degli internati, poiché essi sono i testimoni dell’esperienza di desoggettivazione. Colucci e Di Vittorio definiscono il superamento della fenomenologia e l’esperienza antistituzionale in questo modo: “La particolarità e l’ interesse dell’esperienza antistituzionale italiana consiste nel fatto che l’oltrepassamento della fenomenolo-

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gia, pur essendo un’estremizzazione della ricerca di verità, perviene al tempo stesso a “sfondare” dall’ interno la volontà di sapere, e a “ dissipare” la carica di violenza teorica racchiusa nel gesto antifilosofico e antiscientifico che questo oltrepassamento porta con se”48. Quindi il movimento antistituzionale deve essere inteso come fondato sulla riflessione fenomenologica e votato alla rifondazione fenomenologica della psichiatria e della scienza, ma deve essere considerato anche come un oltrepassamento della fenomenologia in vista di un movimento pratico legato indissolubilmente alla politica. Poiché la riflessione sulla totalità dell’ente, con Basaglia, abbraccerà la lotta politica volta a rimettere in discussione il sistema psichiatrico. Eppure il superamento della fenomenologia non deve essere solo inteso come il semplice abbandono della teoria a favore di un impegno pratico-politico, ma deve essere pensato come un modo diverso di intendere l’epoché fenomenologica.

M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori editore, Milano 2001, p. 92.

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Husserl e l’epoché fenomenologica L’ intersoggettività universale in cui si risolve tutta l’obiettività, tutto ciò che è in generale, non può essere che l’umanità, la quale, a sua volta, è innegabilmente una parte del modo. E. Husserl, La crisi delle scienze europee (p. 206)

1) Husserl un allievo di Brentano: esperienze vissute e leggi ideali Edmund Husserl (Prossnitz, Moravia 1859 – Friburgo 1938) studiò matematica e fisica nelle università di Lipsia e Berlino, laureandosi in matematica nel 1883. Nel 1884 si recò a Vienna per seguire le lezioni di Franz Brentano. La prima opera di Husserl, Filosofia dell’aritmetica è dedicata proprio a Brentano, dal quale riprende il concetto di intenzionalità come carattere costitutivo degli atti psichici che tendono sempre necessariamente verso il loro oggetto. In questo testo emergono due temi che diverranno costitutivi del lavoro filosofico di Husserl: i concetti di psicologico e intenzionale. Per Brentano il carattere specifico dei fenomeni psichici è nella loro intenzionalità, cioè nella loro direzione verso l’oggetto, ossia verso un qualcosa di reale, avente un’assoluta autonomia rispetto alle rappresentazioni.

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Quindi il carattere specifico di un fenomeno psichico è costituito dal suo essere, come rappresentazione, diretto verso un oggetto, per tale motivo ogni fenomeno psichico deve essere definito come coscienza di qualcosa. Su questa base, Husserl considera la genesi del concetto di numero, esso, a suo avviso, deriva da un atto unitario della mente, che dirige intenzionalmente la sua attenzione sulla molteplicità degli oggetti riuniti in un aggregato. Partendo da ciò procede a ricavare per astrazione il concetto generale di aggregato, concepito come collegamento collettivo delle unità costitutive di una molteplicità. In ciò si rivela il distacco da Brentano, poiché l’oggetto dell’intenzionalità brentaniana si presentava con i caratteri dell’oggetto empiricamente reale e quindi l’atto dell’intenzionalità veniva delimitato dai limiti spazio-temporali. Per Husserl invece, l’oggetto matematico ha una struttura necessaria e immutabile che si ripercuote nell’atto della coscienza unificante, in questo modo Husserl afferma che le condizioni psicologiche o formali non bastano più per spiegare il collegamento collettivo che costituisce l’aggregato. Tempo e spazio diventano così condizioni psicologiche del formarsi di un aggregato, ma non divengono più la causa come in Brentano, cioè le si potrebbe definire condizioni necessarie, ma non sufficienti. Gottlob Frege darà alla luce una critica severa di queste prime posizioni di Husserl, accusando il matematico di psicologismo. Le critiche di Frege portano Husserl a mutare la sua opinione, in quanto sosterrà che le formazioni logico-matematiche sono delle costruzioni ideali, che si pongono su posizioni aprioristiche rispetto alla realtà. Ciò lo porta a svolgere una critica allo psicologismo nel suo secondo scritto Ricerche logiche. La critica scaturisce dall’esigenza di sottrarre le proposizioni e le leggi logiche alle interpretazioni relativistiche delle leggi naturali. In questa maniera si ricava che le leggi logiche sono leggi ideali e come tali sono sottratte alla

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contingenza delle leggi reali. Infatti le norme che descrivono i processi psicologici vengono definite come generalizzazioni che partono dall’esperienza e pertanto non hanno validità necessaria, ma sono modificabili o correggibili in base all’accertamento di fatti empirici. I principi logici e matematici, invece, sono necessariamente veri e la verità stessa é atemporale, cosicché il rapporto fra premesse e conclusione nei ragionamenti non é riducibile all’accertamento empirico di relazioni di coesistenza o di successione di atti psichici. Husserl, quindi, afferma la totale indipendenza del significato logico delle formazioni logico-matematiche rispetto al carattere relativo degli atti soggettivi che colgono o pensano le verità logico-matematiche. Nel secondo volume delle Ricerche logiche, Husserl dichiara che il linguaggio costituisce la tappa fondamentale per la costruzione della logica pura. Questo esame linguistico deve aver ad oggetto non i singoli atti linguistici storicamente determinati, ma l’essenza generale dell’atto linguistico, perciò esso deve rientrare in una fenomenologia pura delle esperienze vissute dal pensiero e dalla conoscenza. In questo senso la fenomenologia diverrà utile alla psicologia, poiché da un lato studia le esperienze vissute e dall’altro lato sarà utile nel rivelare le fonti da cui derivano i concetti fondamentali e le leggi ideali della logica pura. Husserl, in seguito alle ricerche logiche, prende una netta distanza dal maestro Brentano, ravvedendo nella sua teoria una divisione troppo netta tra i fenomeni psichici e fisici. Husserl invece non riconosce alcuna differenza tra i fenomeni psichici (definiti con il termine “vissuto intenzionale”, cioè il movimento del tendere della nostra coscienza con l’esperienza dei nostri sensi) e i fenomeni fisici, che corrispondono all’oggetto intenzionato. Quindi, per Husserl, è l’intenzione che dà la vera essenza dell’oggetto e non cambia nulla se questo oggetto abbia consistenza psichica o fisica.

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2) Fenomenologia e il concetto di epoché Il percorso che inizia con la ripresa di Brentano, seguito dalla critica di Frege e dalla pubblicazione delle Ricerche logiche porta Husserl a riconsiderare ogni apriorismo idealistico e ogni forma riduttiva di empirismo, come non utili alla causa della ricerca dell’intenzione, ponendo, in questa maniera, le basi della ricerca fenomenologica. Essa pretende di essere un ritorno alle cose, un tentativo di lasciar parlare le cose, cogliendo gli aspetti che più interessano la coscienza umana quali i valori e le essenze. Husserl afferma che la filosofia non deve assumere nulla come ovvio e indiscutibile, ma deve raggiungere criticamente un fondamento di evidenza assoluta. Per far fronte a questo requisito non può basarsi sulle scienze naturali, poiché esse analizzano il mondo in maniera acritica, accettandolo come esistente e limitandosi ad accumulare il sapere. In tal maniera, come scriverà nel testo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il pensiero scientifico perde ogni legame con la realtà, trascurando l’infinita variabilità dell’esperienza delle cose, che non può essere ridotta ad uno schema oggettivato. Ne segue che se la scienza non rappresenta il modo corretto di guardare ai fenomeni e di creare una teoria della conoscenza, bisogna quindi liberarsi da essa, liberandosi, così, da ogni presupposto che vada dalle grandi teorie a quelle più comuni. Per tal ragione si introduce il tema fondamentale dell’epoché, che letteralmente vuol dire “sospensione del giudizio”, mettendo così tra parentesi, sospendendo e interrompendo i pregiudizi che rendono impossibile l’autentica esperienza dell’uomo nel mondo. “L’epoché non è affatto un’astensione abituale e irrilevante, bensì grazie ad essa lo sguardo del filosofo si rende veramente libero, libero specialmente dai vincoli più forti e più universali, in sé assolutamente

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conclusa e assolutamente autonoma, di mondo e di coscienza del mondo”49. In tal maniera l’epoché dischiude al filosofo un nuovo modo di pensare, in cui viene liberato dal porre domande sull’essere, sulla validità, sul valore e sull’utilità, poiché tutti gli interessi naturali sono posti al di fuori. Ciò potrebbe far pensare ad una perdita del proprio essere, ma il mondo che era valido attraverso i modi soggettivi non scompare, ma durante l’epoché esso rimane il correlato della soggettività che gli conferisce il suo senso d’essere. L’epoché, per essere capito, non deve essere considerato come una interpretazione appiccicata al mondo, ma mediante essa il filosofo sta sopra al mondo, facendo diventare lo stesso mondo un fenomeno in senso peculiare. “Operando l’epoché, noi diventiamo osservatori completamente disinteressati del mondo in quanto puramente soggettivo-relativo […], e gettiamo su di esso un primo sguardo ingenuo, che non tende a indagare l’essere e l’essere-così, bensì a considerare ciò che da sempre vale e che continua a valere per noi in quanto essente e in quanto esentecosì, a considerarlo dal punto di vista del suo modo soggettivo di valere, dei suoi aspetti”50. In tal maniera con il concetto di epoché si propone anche un ripensamento del concetto della scienza positivistica del nostro tempo, poiché la scienza viene ridotta solo all’idea di una catalogazione dei fatti. Husserl, quindi, vuole che la scienza torni al mondo-della-vita, che deve costituire il terreno di base da cui possa prendere il via ogni ricerca scientifica, eliminando qualsiasi nozione derivante dal processo di idealizzazione della scienza. Per tale ragione, compito della filosofia è di indagare scientificamente il modo in cui il mondo-della-vita funge da E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 179. 50 Ivi, p. 184. 49

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fondamento per le validità prelogiche rispetto alle verità logicoteoretiche. Per tal motivo Husserl denuncia una situazione di crisi che investe le scienze europee e come scrive Umberto Galimberti: “Questa crisi è dovuta al fatto che la scienza, dopo essersi costruita sul mondo-della-vita (lebens-welt), di cui è l’espressione seconda, persegue le esigenze del mondo-in-sé da essa elaborato, non consentendo più all’uomo di auto comprendersi nel proprio mondo, che non è un mondo-in-sé, ma un mondo-per-lui”51. La scienza, quindi, si riconosce tale quando, trascurando l’indagine materiale del mondo, si preoccupa solo delle forme astratte. Husserl sostiene così che ad una prima epoché, con la quale ci si sottrae al terreno di validità di tutte le scienze obiettive per isolare le strutture generali del mondo-della-vita, segue una seconda epoché che pone fuori gioco tutta la vita naturale orientata sulle realtà del mondo. Questo orientamento conduce alla scoperta della funzione costitutiva dell’io, che non viene più disperso nell’orizzonte del mondo fra gli altri oggetti, facendo così nascere una nuova scienza che investe la soggettività e che ci fa liberare dal “già-dato” nel mondo. L’epoché, quindi, fa sì che il mondo divenga il correlato della soggettività che gli conferisce il suo senso d’essere.

3) Basaglia e lo spostamento dell’epoché dal piano teorico alla pratica Come ho già riportato nel capitolo precedente, Franco Basaglia viene attirato dalla fenomenologia e vede nelle riflessione fenomenologiche il modo per cominciare una seria riflessione sulla 51

U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2009, p. 83.

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dignità del malato mentale e soprattutto sulla propria scienza. Il concetto di epoché, proposto da Husserl, sta nell’interruzione e nella neutralizzazione dei pregiudizi che non premettono un ritorno autentico del soggetto alle cose stesse, facendo divenire impossibile un’autentica esperienza dell’uomo, nel suo spazio vivente, cioè nel mondo. In Basaglia l’epoché consiste nel voler abolire la chiusura specialistica della psichiatria universitaria, per ritrovare l’autenticità del malato mentale, considerato nella globalità del suo vivere. Grazie alla fenomenologia capisce che se si resta confinati in una visione positivistica dell’ alienazione mentale è impossibile un incontro con il malato di mente, che può avvenire solo attuando l’epoché, che in questo momento vuol dire spogliarsi da ogni certezza medico-scientifica, per tentare il difficile compito di considerare l’alterità e di cogliere con l’altro il momento originale in cui si costituisce la sua esperienza. Ciò che viene ricercato non sono dei sintomi che devono corrispondere il più possibile ad una malattia già catalogata, ma si ricerca una nuova scienza che possa produrre senso e verità di ogni personalità. In questa maniera il concetto di epoché proposto da Basaglia non rimane su un piano filosofico, teorico, ma nasce da una pratica di trasformazione istituzionale che Pierangelo Di Vittorio identifica come una “lotta politica locale” all’interno e contro un determinato sistema di saperepotere, che darà vita ad un nuovo modo di approcciarsi all’assistenza psichiatrica, che vedrà Basaglia come il condottiero di una lotta volta all’emancipazione dei malati di mente. Si può affermare che il concetto di epoché in Basaglia consta di due momenti di rottura, che Pirella52 definisce “rottura epistemologica” e “rottura pratico-politica”. Si tratta di due modalità A. Pirella, Il Giovane Basaglia e la critica della scienza, in Aa. Vv., Manicomio, società e politica, Bfs, Pisa, 2005.

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diverse del gesto antiscientifico, la prima viene rappresentata dall’apertura alla psichiatria fenomenologica ed esistenziale, la seconda, vincolata alla prima, darà il via ad una discussione sulla malattia mentale come verità. Le due rotture portano il concetto di epoché dall’aspetto teorico conoscitivo a quello etico e politico, determinato dal tema, trattato nel capitolo precedente, della messa fra parentesi della malattia, che viene concepita dal gesto dell’epoché stesso, cioè dalla trasfigurazione della volontà di sapere più radicale in un impegno pratico, civile e politico. Da ciò prende il via la lotta contro l’istituzione manicomiale, che affermerà che solo con l’abolizione del manicomio si potrà tornare a ragionare su cosa sia la follia. Non bisogna però cadere nell’errore di considerare l’epoché fenomenologica come la dissoluzione definitiva della domanda su come si possono aiutare i malati, o più gravemente ancora come la scomparsa della malattia stessa. Basaglia non smetterà mai di domandarsi cosa sia la malattia mentale, ed è solo per restare fedele all’appello fenomenologico di andare verso le cose stesse, e nello stesso tempo dare un fondamento scientifico alla malattia mentale, che metterà tra parentesi la malattia, come codificazione di comportamenti incomprensibili. L’analisi della stessa non potrà prescindere dal distinguere quanto appartiene alla malattia stessa e quanto, invece, è dovuto agli effetti dell’internamento. L’utilizzo dell’epoché, che porta con sé la messa tra parentesi della malattia (che sarà attuata nello specifico attraverso un sistema di ospedale aperto) non soltanto isolerà ciò che, nella malattia, è direttamente imputabile al processo di istituzionalizzazione del malato, ma darà modo di capire che lo scopo perseguito non è più quello di dare fondamento scientifico alla psichiatria, ma di lottare politicamente affinché il sistema psichiatrico venga rimesso in discussione. Quindi, per Basaglia, l’atto dell’epoché è un processo di neutralizzazione del manicomio, per smantel-

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lare i suoi effetti e poter così ritrovare l’autenticità del malato di mente. “La malattia non è il solo elemento che porta alla totale disintegrazione dell’uomo, l’ indagine di ciò che è l’azione dell’ istituto sul malato e del potere del giudizio esclusorio di chi lo circonda, potrebbe mettere a nudo quello che sarebbe la malattia se non fosse già precedentemente fissata in un giudizio irreversibile, dato una volta per tutte”53. Nello stesso periodo in cui Basaglia afferma ciò, vengono pubblicati i libri di Foucault e Goffman, che aggiungono all’epoché basagliana la dimensione critica, analizzando l’arbitrarietà storica e sociale della malattia mentale come verità della follia e contribuendo a problematizzare il legame fra scienze umane e potere, portando alla vista il malato di mente non solo come un effetto dell’organizzazione manicomiale ma, anche, come un prodotto storico e sociale della razionalità moderna. Posso quindi concludere che il movimento antistituzionale nasce dall’atto dell’epoché, attraverso la sospensione “pratica” del manicomio e da una sospensione “critica” della verità della malattia mentale, che permetterà di ritrovare l’autenticità del paziente il quale è sempre e comunque un uomo.

F. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, p. 271.

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Binswanger e la Daseinsanalyse La psichiatria puramente clinica diventa costituzionalmente incapace di comprendere i veri e propri problemi umani, come il problema della religione e della filosofia, della morale e dell’arte, della storia e dell’educazione, della genialità e della libertà L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica (p. 91)

1) Binswanger e il superamento del dualismo cartesiano Ludwig Binswanger (Kreuzlingen 1881 – Kreuzlingen 1966) discende da una famiglia di medici. Molto conosciuto era il nonno, di cui porta il nome, il quale, come il padre Robert e lo zio Otto, era psichiatra. Così, sin da giovane, ebbe modo di familiarizzare con alcuni aspetti caratteristici della malattia mentale. Dopo la maturità classica e la laurea in medicina conseguita a Zurigo nel 1906, intraprese la carriera in campo psichiatrico diventando dapprima allievo di E. Bleuler (1857-1939) e poi discepolo di C. G. Jung (1875-1961). Nel 1946 l’Università di Basilea gli conferisce la laurea honoris causa in filosofia. Nel 1956, in occasio-

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ne del suo settantacinquesimo compleanno fu insignito del Premio Kraepelin, ossia il massimo riconoscimento internazionale in campo psichiatrico. Binswanger rappresenta una fonte di profonda inspirazione per Franco Basaglia, poiché egli mette al centro della propria ricerca la persona e come essa si declina corporalmente nel mondo. Per fare ciò riflette sulla psichiatria, la quale a suo parere deve sempre risalire ai presupposti filosofici che stanno alle sue spalle, derivanti dallo schema proposto da Descartes, che verte sulla differenza tra “res cogitans” e “res extensa”. Questa teoria risulta feconda per molte scienze quali la matematica, ma lacera l’unità propria dell’uomo, costituendo una dualità tra corpo e mente che per Binswanger costituisce il cancro di ogni psicologia. La preminenza della possibilità di un’analisi fisica, attraverso la scienza, radicalizza la divisione proposta da Descartes, poiché la scienza è consapevole di poter estendere il proprio campo unicamente nell’ordine quantitativo e misurabile della “res extensa”, riducendo così lo psichico ad un apparato da spiegare come qualsiasi altro fenomeno della natura. In questa maniera l’uomo viene ridotto ad oggetto, fra gli altri oggetti, perdendo così l’originalità dell’umano, tema molto caro a Basaglia. Quindi Binswanger pone come fondamento della propria dottrina il superamento del dualismo di Descartes e l’analisi fenomenologica, che da lui prende il via, si baserà sulla presenza umana Dasein nel suo essere-nelmondo, senza creare distinzioni tra sano e malato di mente, poiché sia l’uno che l’altro appartengono allo stesso mondo. In questa maniera si afferma la possibilità per ognuno di vivere la propria soggettività, in quanto il malato di mente differisce dal sano per il proprio modo di approcciarsi alla realtà, che testimonia il tentativo di diventare comunque se stesso.

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“L’alienato non è più colui che vive fuori dal mondo, ma colui che nell’alienazione ha trovato l’unico modo per lui possibile di essere-nel-mondo”54 . In questa maniera si schiera anch’esso come Husserl e Jaspers contro quella visione della scienza che ci impedisce di ritrovare il vero valore dell’umano e che ci condanna a guardare ogni avvenimento con gli occhi della scienza, quasi essa non sia un’invenzione dell’uomo, ma un assoluto che ha soppiantato l’uomo per dominarci. Ciò costituisce la vera alienazione per Binswanger, ossia che la scienza ci domini in ogni aspetto della vita, e come scrive Umberto Galimberti: “Che l’uomo appartenga alla scienza più di quanto la scienza non appartenga all’uomo; che, da metodo escogitato dall’uomo per l’ interpretazione della natura, la scienza assurga al livello di indiscusso a priori esistenziale in grado di decidere il modo umano di vivere”55.

2) La Daseinsanalyse La Daseinsanalyse, nata come reazione al positivismo fiorente anche nel campo della salute mentale, gode del massimo splendore intorno agli anni ’60. Essa grazie agli influssi della fenomenologia e dello sviluppo esistenzialistico propone un modo nuovo di guardare al malato e ai fenomeni psichici. Binswanger ne fu il massimo interprete e la sua analisi esistenziale si basava sulla possibilità di comprendere tanto l’alienato, quanto il sano, poiché essi appartengono allo stesso mondo, anche se i loro modelli di comportamento e di espresU. Galimberti, Introduzione all’opera di Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 2007, p. X. 55 Ivi, p. XII. 54

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sione sono diversi. La critica verso la scienza positivistica viene dall’impossibilità di conoscere l’uomo mediante l’applicazione di un metodo naturalistico, poiché l’uomo è un insieme di Erlebnisse, un continuum di fatti vissuti, dove sensazioni, comportamenti e sentimenti, si confondono in mutamenti unici ed irripetibili. Essi costituiscono l’intera globalità dell’essere umano, ne consegue che una psichiatria orientata fenomenologicamente, dovrà ricercare la reale comprensione degli Erlebnisse, rifiutando l’oggettivazione del soggetto malato. In questa maniera la fenomenologia trascendentale diventa la base fondamentale per costruire la Daseinsanalyse, anche se Binswanger avverte la necessità di un superamento della relazione intenzionale tra soggetto e oggetto, all’interno della quale la fenomenologia trascendentale rimaneva saldamente vincolata. La possibilità di superamento viene dal recupero del pensiero di Heidegger, il quale pone il fondamento dell’intenzionalità nella presenza come essere-nel-mondo (Dasein). Secondo Heidegger, l’uomo nel suo esser-ci è in movimento sia verso se stesso sia verso il mondo. Da ciò deriva il concetto di “comprensione” (Verstehen), fondamentale per Binswanger, il quale afferma che nell’incontro con le altre cose del mondo, l’esistenza ha una sua specifica modalità comprensiva che si rivela nel modo di rendere significanti le cose, poiché l’uomo non incontra le cose nel significato oggettivo attribuito ad esse dalle scienze. In questo contesto assume importanza anche il concetto di progetto (Entwurf ), che consiste nel comportamento dell’uomo, che può scegliere la propria esistenza o il proprio modo di essere in una situazione data. Ogni uomo ha sia la possibilità di realizzare, come di mancare il proprio progetto, poiché Heidegger enuncia con il termine deiezione (Verfallen), la possibilità della caduta al livello delle cose del mondo.

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Poiché ogni progetto è circoscritto nel mondo degli oggetti, in quanto riguarda cose di cui ha bisogno, cose di cui deve prendersi cura e dalle quali può venire assorbito in un’esistenza anonima. Questa esistenza anonima non viene descritta come un male, poiché l’analitica esistenziale non condanna nessuna forma di vivere e l’esistenza anonima fa parte della struttura esistenziale dell’uomo, cioè costituisce un suo poter-essere. In questa maniera Binswanger tenta di rintracciare attraverso le varie possibilità di esistenza, in cui si rivela la presenza, il senso dei fenomeni morbosi, con l’intento di poterli ricondurre sul piano dell’umano e del vissuto, cercando di risalire alle strutture portanti che condizionano il mondo del malato mentale. In questa maniera l’intento dello psichiatra diventa non l’assoggettare il malato ad una concetto base di salute noseologicamente determinato, ma esplicitare il significato a cui il fatto morboso rimanda. Situandolo non verso una normalità data, ma verso una normatività propria di ogni modalità di esistenza, con le organizzazioni proprie che la sottendono. Evitando, quindi, di sovraccaricare l’esistenza di strutture teoriche, si lascia che essa si ponga così com’è, facendo cadere i concetti di sano e malato, poiché ciò che appare è solo il modo di essere di ognuno. Ciò che Binswanger effettua attraverso la Daseinsanalyse è l’abbandono di ogni schema precodificato dell’esistenza, lasciandola manifestare e non potendo quindi più parlare di carenze o disfunzioni, in quanto anch’esse non sono altro che modi di manifestarsi nel mondo. Il linguaggio assume la forma dell’espressione in cui si attuano tutte le presenze, in tal maniera Binswanger vede in esso il costitutivo di una relazione, ed i neologismi rappresentano un tentativo di articolare l’irruzione delle esperienze psichiche estranee, di tentare la comprensione di queste esperienze e di stabilire così un ponte con l’altro.

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Il linguaggio indagato, anche dalla psicoanalisi e dalla psichiatria classica, assume una rilevanza diversa, in quanto viene lasciato essere perciò che dice, potendo così dare un’immagine del progetto con cui l’esistenza si rapporta al mondo. L’alienato mentale, quindi, non è altro che un essere-nel-mondo, che ha smarrito il suo significato, la relazione con l’orizzonte spaziotemporale e con gli altri che lo circondano. In questa maniera, il malato, avendo perso il codice linguistico della comunicazione con gli altri, tenta comunque un rapporto con essi, che però sarà fondato sul proprio corpo, più che sul linguaggio. Binswanger assume come fondamentale l’unità di uomo e mondo e la presenza nel mondo si realizza con la formazione di un orizzonte sempre concreto e storico, proprio di ogni individuo. Quindi il medico deve sempre e comunque cercare e sforzarsi di cogliere il modo d’essere del suo paziente, poiché si tratta sempre di un’esperienza vissuta, di un progetto inserito in una storia, poiché ognuno si ritaglia un proprio mondo. Quindi la psichiatria comincia quando comprende l’esistenza umana, esaminando la peculiarità del mondo dei malati mentali nel loro costituirsi e coglie l’originaria presenza come l’essere-nel-mondo. L’analisi di Binswanger non cerca, come avviene nella psichiatria classica, le cause della malattia mentale, ma ricerca ciò che nell’individuo rende possibile che queste cause agiscano. L’enigma della malattia mentale si aggira attorno alla ricerca dell’apriori esistenziale che dischiude una certa visione del mondo, che non potrà mai essere uguale in soggettività diverse. L’analisi propostaci da Binswanger non vuole così essere un metodo terapeutico, ma vuole essere un tentativo di analisi in termini umani della stessa esistenza umana, cercando di proporre un’alternativa al modello psico-fisiologico che domina la spiegazione psichica.

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3) La Daseinsanalyse come fonte principale della messa fra parentesi della malattia mentale Come si è visto sinora, Basaglia attribuisce alla proposta fenomenologica il merito di coniugare una rinnovata attenzione alla persona. Egli vede come fondamentale per la comprensione dell’alienazione mentale lo spostamento dello sguardo dal mondo a come il mondo si presenta alla coscienza, cioè a come la coscienza si protende al mondo. La fenomenologia risponde a ciò, interessandosi non alla descrizione dell’oggetto, ma alla descrizione del puro vissuto della coscienza, che si dirige verso l’oggetto, quindi all’essenza dell’atto intenzionale. Basaglia ritiene che il tentativo più riuscito di assumere concretamente nella riflessione psichiatrica la fenomenologia derivante da Jaspers, Husserl e Heidegger sia stata compiuta dalla Daseinsanalyse di Binswanger. Essa, per Basaglia, ha il merito di superare la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, tramite una descrizione dell’esserci dell’uomo nel suo esserenel-mondo. In tal maniera l’opposizione tra soggetto e oggetto non diventa più assoluta, in quanto il soggetto esiste solo nella misura in cui è nel mondo. Scrive a proposito Basaglia: “È solo nel cogliere la proiezione dell’essere nel mondo di un individuo, il suo progetto, la maniera nella quale egli si apre al mondo, che potremo avere una visione del perché egli c’ è: così il progetto del mondo e il progetto di sé vengono a coincidere”56 . Ciò che più piace a Basaglia della teoria di Binswanger è la possibilità di abolire la distinzione tra malattia mentale e essere sano, poiché lo psichiatra veneziano sostiene fin dal suo primo incarico a Gorizia che la malattia mentale è una crisi, ma non è una uscita dal mondo. Gli stessi folli hanno dei bisogni continF. Basaglia, Il mondo dell’ incomprensibile schizzofrenico attraverso la Daseinsanalyse, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 5. 56

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genti quanto tutte le altre persone, poiché essi vogliono vivere e relazionarsi con gli altri, anche se non riescono a trovare la chiave interpretativa per farlo, trovandosi spesso segregati da una norma che non gli permette di capire la loro umanità e quella degli altri. La comprensione proposta da Jaspers appare a Basaglia limitante nell’affermazione del soggettivismo esasperato dell’incontro duale per immedesimazione che avviene in assenza del mondo reale, invece la Daseinsanalyse si annuncia come il superamento di questa immedesimazione, grazie ad un’analisi volta si a considerare le particolarità di ogni singolarità, ma sempre considerate nel loro rapporto con il mondo. “La Daseinsanalyse di Binswanger, pur mantenendosi nel campo fenomenologico, non dirige esclusivamente la sua attenzione verso il fenomeno in quanto tale, né verso la sua descrizione soggettiva. Possiamo dire che l’analisi esistenziale sia un’ investigazione antropologica, e come tale scientifica, diretta verso la totalità dell’essere umano e, a differenza di quella fenomenologica, verso la vita particolare dell’uomo, tale quale esso è posto nel mondo”57. Inoltre, Basaglia concorda con lo psichiatra svizzero riguardo alla nozione di norma, poiché la psichiatria classica è andata frammentando la vita psichica del malato in funzioni mentali, andando così alla ricerca delle alterazioni dovute all’allontanamento da una norma, con la conseguente problematizzazione della definizione della stessa norma, dovuta al controllo degli stereotipi da parte di una classe egemone e dalla difficoltà delle classi meno abbienti di veder corrispondere ai propri bisogni alla suddetta norma. In tal maniera la medicina si colora di una serie di immagini e di categorie precostituite, che devono definire socialmente e culturalmente il malato. Il quale si trova in una situazione in cui la propria soggettività viene annullata, in relazione al crescente numero di dia57

Ibidem.

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gnosi, appiccicate all’uomo, oppure etichette da poter staccare e attaccare a piacimento dello psichiatra di turno. “L. Binswanger, aveva già puntualizzato il pericolo cui va incontro un metodo di approccio scientifico che, allontanandosi da noi stessi, porta ad una concezione teorica, alla osservazione, all’esame, allo smembramento dell’uomo reale, allo scopo di costruirne scientificamente un’ immagine”58 . In tal maniera Basaglia giustifica e prende spunto una volta in più, per quel fenomeno descritto nei capitoli precedenti che prende il nome di messa fra parentesi della malattia, che la comprensione della malattia mentale non può essere staccata dal proprio contesto di riferimento e non può essere esclusa dall’universo della ragione perché incomprensibile, ma bisogna rintracciare la sua ragione e la chiave per accedervi. Quindi la Daseinsanalyse ha il merito di interrogarsi su che cosa sia la malattia mentale prima di sentenziare diagnosi e trova il senso della stessa malattia solo nel contesto del mondodella-vita, permettendo così ad ogni essere di cogliere il suo essere-nel-mondo, il suo Dasein, quindi la sua individualità. In questo contesto presenza ed espressione diventano i fondamenti dell’indagine antropofenomenologica, che si possono cogliere unicamente nell’incontro. Questo metodo potrebbe sembrare non scientifico, ma lo stesso Basaglia rifiuta questa critica affermando che la Daseinsanalyse fa una disamina dei sintomi della malattia al loro comparire, non come necessaria conseguenza dell’uno sull’altro, ma come manifestazioni di un individuo al di fuori delle leggi comuni della psicologia normale, affermando anche: “abbiamo dovuto dunque penetrare la sua psicologia e leggi particolari che la governano”59. F. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, p. 22. 59 F. Basaglia, Il mondo dell’ incomprensibile schizofrenico attraverso la Daseinsanalyse, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 29. 58

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In questa maniera la concezione jaspersiana viene superata del tutto, perché essa potrebbe costituire una forma di normalizzazione delle espressioni del malato, impedendo di vedere il funzionamento dell’individuo nella singolarità del suo mondo. Nella grossa stima che Basaglia nutre per Binswanger non può mancare una grande considerazione della tematica del linguaggio, definita da Basaglia fondamentale nell’incontro con il malato e con le sue storie di vita, tanto che solo con l’abolizione del dominino del medico sul paziente e con la ritrovata possibilità di parlare tra pari, cioè tra uomini, si potrà davvero eseguire un dialogo costruttivo, che metta in luce la reale presenza di ogni partecipante alla discussione, che crei la possibilità ad ognuno di ritrovare la propria autenticità. “Nella Daseinsanalyse viene data grande importanza all’esame del linguaggio […] usato come mezzo di accessibilità di una struttura esistenziale”60. Il linguaggio costituirà, quindi, un indizio per cogliere il mondo del malato, i contenuti delle sue espressioni consentiranno di scoprire come egli concepisce il mondo e come esso si schiude al mondo. Inoltre, Basaglia sosterrà in tutta la propria carriera che il linguaggio sarà il fondamento per restituire concretezza al rapporto tra medico e paziente, consentendo così di agganciare la pratica della Daseinsanalyse alle pratiche della quotidianità e alle esigenze cliniche. Tramite l’utilizzo di alcuni test psicologici quali il test del disegno o il test di associazione verbale di Rapaport, Basaglia sottopose i pazienti alla libera possibilità di esprimersi, in modo da poter desumere dall’interpretazione di essi la loro particolare visione del mondo, cioè come i vari individui, posti d’innanzi a situazioni, pensano, agiscono e si rapportano, prima di definirli malati. Inoltre Basaglia pensò che l’intervento psicoterapeutico fosse 60

Ivi, p. 9.

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adatto a fornire un aiuto concreto, senza restare immobili nella sola definizione di una malattia. La psicoterapia potrà essere utile perché prende il via dall’incontro relazionale fra medico e malato: “Ogni incontro infatti si realizza attraverso un dialogo, espressione di una reciprocità di rapporto; infiniti elementi che lo compongono: il gesto, la mimica, la parola, il silenzio, ognuno di questi atteggiamenti manifesta qualche cosa di veramente intimo del soggetto che stiamo esaminando”61. In questa maniera, grazie ad un’espressione, un gesto o ad una frase del paziente è possibile penetrare nell’interiorità del soggetto con una precisione che nessun altro metodo di conoscenza razionale può offrire. L’analisi di Binswanger permette a Basaglia di capire che non ci si può fermare sull’analisi del contenuto di un conflitto, colto come atto unico, ma bisogna guardare alla situazione di vita di un individuo nel suo complesso. Il fine della cura psichica consisterà, quindi, nel rendere consapevole l’individuo del meccanismo di formazione dei suoi disturbi e di aiutarlo nel riesaminare il rapporto io-mondo, che sta alla base di ogni relazione sociale, al fine di, come sostiene nel testo dedicato alla modernità psicoterapeutica: “trovare gli elementi atti ad aiutarci a riportare alla vita sociale un individuo che da essa è stato rifiutato”62 . Si può così determinare l’elemento cardine del lavoro psichiatrico-intellettuale di Franco Basaglia, che non consiste solo nell’affrontare le patologie mentali, ma consiste nel ricercare ogni possibilità che possa consentire alla persona malata un ritorno all’interno dell’ambiente sociale da cui era stata esclusa.

F. Basaglia, Alcuni aspetti della modernità psicoterapeutica, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 38. 62 Ivi, p. 53. 61

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Sartre, la libertà e il buon malato Nous voulons la liberté pour la liberté et à travers chaque circonstance particulière. Et en voulant la liberté, nous découvrons qu’elle dépend entièrement de la liberté des autres, et que la liberté des autres dépend de la nôtre. J. P. Sartre, L’existentialisme est un Humanisme (p. 70)

1) Basaglia e il rapporto con l’esistenzialismo francese La psichiatria italiana si contraddistingue per la scelta di volgere il proprio sguardo verso la cultura tedesca. Basaglia asseconda volentieri questa scelta, soprattutto quando l’approccio al pensiero fenomenologico-esistenziale riesce a costituirsi come riflessione critica e innovativa. Il merito dello psichiatra veneziano, però è quello di non restare fermo alla sola cultura tedesca e di saper cogliere le innovazioni provenienti da Parigi, che nel dopoguerra si costituisce come il nuovo centro per eccellenza della cultura europea. In questo periodo l’esistenzialismo fomenta le coscienze degli intellettuali della “Ville lumiére”, che si interrogano sul significato dell’esistenza umana e tentano di proporre nuove soluzioni che ridiano all’uomo la fiducia in se stesso e la dignità miseramente naufragata nel periodo della

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grande guerra. “La première démarche de l’existentialisme est de mettre tout homme en possession de ce qu’ il est et de faire reposer sur lui la responsabilité totale de son existence”63. Questo movimento filosofico trova le proprie basi nella ricerca accurata con cui la fenomenologia di Husserl approfondisce i fenomeni della coscienza, ma si differenzia da essa per un aderenza più spiccata alla realtà e per il rifiuto delle astrazioni concettuali della fenomenologia stessa. L’esistenzialismo si configura quindi come una filosofia della crisi, che rispecchia il disorientamento e il turbamento derivanti dai due conflitti mondiali, poiché essi contribuiscono a creare un clima politico e sociale dominato dall’instabilità, mettendo in pericolo l’idea di umanità e di libertà. L’uomo diviene così il centro della riflessione filosofica esistenziale, che vede in esso una singolarità e un modo di essere finito che non potrà mai essere un’essenza, ma si costituirà sempre perciò che ha deciso di essere. In tal maniera si prende in esame la sua esistenza concreta fatta di dubbi, scelte, angosce, senso e non senso. Nel suo procedere l’esistenzialismo si contrapporrà all’idealismo, che concepisce la storia dell’uomo come l’affermarsi progressivo della Ragione, mentre la corrente filosofica dilagante alla fine della guerra vede l’instabilità e l’incertezza come le caratteristiche peculiari nel cammino dell’uomo. Infatti l’individuo prova un profondo senso di vuoto e di angoscia da cui cerca di riscattarsi, sforzandosi di vivere un’esistenza genuina e autentica, fuori dalla banalità della vita comune e impersonale. Pertanto al centro del pensiero esistenzialistico si troverà il concetto di uomo preso nella propria singolarità e di libertà, intesa come impegno e rischio concreto. Le opere di Sartre e Merleau-Ponty, oltre ad essere tra le più note di questo periodo costituiranno una fonte continua d’ispirazione per Basaglia che non finirà mai, nella sua incessan63

J. P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Gallimard, Paris 1996, p. 31.

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te opera intellettuale, di citare i due autori. In particolare Sartre costituirà un maestro per lo psichiatra veneziano, che riuscirà a entrare in contatto con lui e a pubblicare nell’inverno del 1972 una loro conversazione nell’opera “Crimini di pace”, sul tema dell’intellettuale e del tecnico del sapere pratico. Lo stesso Sartre omaggerà Basaglia citandolo nell’aprile del 1969 sulla rivista Les Temps Modernes all’interno dell’articolo L’ homme au magnétophone64, una sorta di trascrizione di un dialogo psicoanalitico, nel quale sottopone la psicoanalisi a una violenta critica, accusandola di reificare il paziente all’interno del rapporto terapeutico. Asserisce, inoltre, che in Inghilterra e in Italia il paziente può trovare molti interlocutori validi, concludendo l’articolo consigliando agli analisti di stretta osservanza l’approccio esistenziale ai malati mentali quale quello praticato proprio da Basaglia.

2) Sartre e la riforma della psicologia Jean-Paul Sartre (Parigi 1905 – Parigi 1980) studiò filosofia e psicologia all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, dove trovò compagni che lo stimolarono nella sua ricerca quali P. Nizan, Marleau-Ponty e la sua futura moglie Simone De Beauvoir. Durante questo periodo di studi nacque il suo forte interesse verso Husserl e Heidegger, che lo portò a usufruire nel 1933 di una borsa di studio presso l’Istituto francese di Berlino, dove intraprese lo studio della fenomenologia di Husserl, e sotto l’influenza di essa e dell’esistenzialismo di Heidegger scrisse le sue prime opere L’ imagination (1936), Esquisse d’une théorie des èmotions (1938), L’ imaginaire (1940) e il romanzo filosofico, La nausée (1938). Queste prime opere erano pensate per far parte 64

Articolo contenuto in Les temps modernes, Paris avril 1969, n. 274.

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di un trattato sistematico di psicologia fenomenologica (che avrebbe dovuto chiamarsi La psyché) che non venne mai pubblicato, anche se i singoli saggi che videro la luce permisero di capire la psicologia anti-positivistica che Sartre ebbe in mente. Essa era un tentativo di rottura nei confronti delle scienze psicologiche insegnate nelle università francesi, accusate di essere ancora troppo ancorate nella psicofisiologia e di rifiutare ogni tentativo di incorporare la psicoanalisi o la Gestaltpsychologie. Le scienze psicologiche, inoltre, erano ree di inseguire un ideale di scientificità mutuato dalle discipline naturali, che portò alla riduzione dell’evento psichico a fatto fisico, banalizzando e deformando i fatti della coscienza. In tal maniera Sartre mise in luce che i problemi della psicologia erano relativi all’essenza del proprio oggetto di ricerca e ai compiti della propria indagine, poiché il ricercatore riteneva che i fatti concreti contenessero in sé i significati, che diventavano univoci ed auto-evidenti. Per tal motivo essi avrebbero dovuto semplicemente essere raccolti insieme, secondo procedure empirico induttive per giungere ad individuare i sensi e le leggi universali-oggettive. Di contro a questo riduzionismo si pone la fenomenologia che ha il merito per Sartre di rivendicare l’assoluta autonomia metodologica e tematica della psicologia rispetto alle scienze naturali. In questo modo essa rifiuta ogni equiparazione dei fenomeni psichici ai fatti fisico-naturali. Nell’opera Esquisse d’une teorie des emotions Sartre dimostra come i fenomeni non sono altro che reazioni dell’uomo al mondo. “La conscience émotionnelle est d’abord conscience du monde […] il est évident, en effet, que l’ homme qui a peur, a peur de quelle chose”65. I fenomeni non possono quindi acquisire un senso reale, se non sono esplicitate prima di tutto le relazioni fra uomo e mondo. Quindi Sartre mette in luce l’impossibilità di esami65

J. P. Sartre, Esquisse d’une théorie des émotions, Hermann, Paris 1995, p. 70.

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nare i fenomeni psichici senza un esame relativo alla coscienza dell’individuo e al suo rapportarsi alle cose esistenti. In questo modo il compito della psicologia non è più quello di analizzare i fatti, ma diviene quello di cogliere e di interpretare i significati, affermando che la vecchia psicologia positivista non cercava un’interpretazione che potesse comprendere il soggetto al fine di arricchire lo stesso nella comprensione di sé, ma cercava solo di riempire sterili tabelle di classificazione. Sartre afferma così che il modo coretto per guardare ai fenomeni psichici e leggerli come tipi organizzati di coscienza e la loro interpretazione dovrà cogliere l’essenza e la struttura particolare che soggiace alle leggi di apparizione, per determinare il senso dell’esistenza, in un determinato soggetto, del fenomeno in quanto tale. In questo modo si potrà anche cogliere ciò che viene rivelato della coscienza di quel determinato soggetto. “L’ émotion n’est un accident, c’est un mode d’existence de la conscience, une des façon dont elle comprend son être-dans-lemonde”66 .

3) La libertà secondo Sartre Per l’esistenzialismo il tema della libertà rappresenta uno dei cardini della ricerca filosofica e umana. Sartre nelle due opere L’ être et le néant (1943) e L’existentialisme est un humanisme (1945) mette al centro proprio la tematica della libertà. Queste due opere saranno la fonte principale d’ispirazione per Basaglia nel suo lavoro teorico e pratico di riconsiderazione della libertà umana. Esse si configurano come lo sviluppo e la sistemazione delle tesi che avevano guidato le ricerche psicologiche e 66

Ivi, p. 116.

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filosofiche precedenti, quali la centralità della coscienza, la sua natura irriflessiva, tutta esteriorizzata e risolta nelle relazioni con le cose appartenerti alla realtà. Sartre nell’opera L’ être et le néant intende prendere in esame la relazione soggetto-oggetto e coscienza-mondo, per fare ciò stabilisce che l’oggetto è un fenomeno di coscienza e successivamente cerca di indagare se questa sua fenomenicità dipende dalla coscienza stessa. Stabilendo che la coscienza è essenzialmente coscienza di qualcosa, cercando così di capire se l’essere di questa coscienza possa stare tutto nell’atto intenzionale. La risposta fornita da Sartre a questo interrogativo sarà di tipo negativo, poiché se l’essere del fenomeno oggettivo fosse a sua volta dipendente dalla coscienza, si cadrebbe nell’idealismo e nel creazionismo, come se l’essere della coscienza dipendesse invece solo dall’oggetto cadremmo nel puro realismo. Ne segue che l’essere del fenomeno debba essere irriducibile al suo principio fenomenico e che l’essere della coscienza si configuri come la capacità costitutiva di trascendimento del fenomeno. Sartre fin dalle prime battute della sua opera presenta una descrizione ontologicamente diversa dell’essere del fenomeno e dell’essere della coscienza. L’essere della coscienza viene definito il per-sé caratterizzato dall’intenzionalità, poiché la coscienza é sempre coscienza di qualcosa. L’essere del fenomeno è l’in-sé, viene presentato in una prospettiva anti-idealistica come qualcosa d’increato, di autonomo, al di là dell’attività e della passività, ma che è un qualcosa di massiccio e di opaco, quindi alieno a ogni rapporto e caratterizzato dalla sua semplice presenza. Diversamente da quel che dicono le filosofie idealistiche, l’essere dei fenomeni è irriducibile alla coscienza, ma anche la coscienza, in quanto capacità di trascendere le cose e le situazioni, e irriducibile all’in-sé. La coscienza, quindi, non s’identifica mai con l’in-sé, ma è esistenza fuori di sé, caratterizzata da un’azione e un movimento protesi in avanti, senza

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che essi coincidano mai con la propria essenza. In questo senso la coscienza si configura sempre come incompiutezza che è alla ricerca del proprio completamento. A questo punto entra in gioco “il nulla”, che diviene la condizione necessaria e assoluta del per-sé, poiché esso si delinea come un’esperienza di non-essere radicale che il soggetto compie nel suo stesso essere e agire concreto. Poiché ogni risposta che il soggetto fornisce alle proprie domande è sempre una limitazione, un annullamento rispetto all’indeterminata totalità del reale che è. Il nulla é dunque intrinsecamente legato all’essere, pur non essendo da esso generato, poiché esso è generato dal soggetto che si pone la questione del nulla del suo essere. Sartre continua l’opera asserendo che per essere ciò attraverso cui il nulla viene al mondo, l’uomo deve essere libero, poiché altrimenti farebbe parte del determinismo peculiare dell’essere in-sé, non potendo così manifestare quel non-essere che è il nulla. Perciò l’atto originario in cui la libertà si cala é la scelta. Essa non è tipica solo degli atti riflessivi, ma di tutti gli atti, dal momento che non è determinata solo dalla ragione, ma anche da pulsioni e intenzioni che esulano dalla riflessione, con la conseguenza che persino la ragione stessa non é altro che una scelta possibile. L’uomo scopre così l’indeterminatezza come una caratteristica che gli appartiene, che è insita in lui e che porta con sé l’angoscia dinanzi al tutto, che diviene il possibile. L’individuo si scopre così condannato a esistere sempre al di là della propria essenza, ossia si trova condannato alla libertà. Su questa base s’innesta la tendenza dell’uomo a fuggire da se stesso, a fuggire dalla propria interna e angosciante apertura al non-essere, creandosi un’immagine di sé e della propria condizione, che in realtà non-è, condannandosi così a recitare una parte. Questa parte consiste nel mentire a se stessi, anche se non costituisce una menzogna deliberata, dato che il “me” che viene ingannato fa parte dello stesso io che inganna, creando

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così una scissione che genera infelicità. La coscienza incontra l’essere non solo nella realtà massiccia e opaca delle cose, ma anche nell’altra coscienza e mediante essa si presenta la speranza di poter evadere dal proprio stato di mancanza. Essa dura solo il tempo di accorgersi che anche l’essenza dell’altro è prima di tutto negazione, poiché si configura come l’io che non è me. Ne segue che anche il rapporto con l’altro è segnato da una netta negatività. L’esperienza originaria tramite la quale s’istituisce questo rapporto è data dallo sguardo, nel quale l’altro mi appare in un primo tempo come una cosa, poi come una cosa che ha un rapporto con altre cose e, infine, come l’altro che mi guarda. Col suo sguardo l’altro conosce me meglio di quanto io possa conoscermi, dato che io non posso mai oggettivarmi e distanziarmi come un oggetto da me stesso. In tal maniera il rapporto con l’altro assume le sembianze della cooperazione nell’essere insieme del gruppo o della classe sociale, ma anche in questi casi l’altro rimane inafferrabile e il rapporto tra le coscienze continua a configurarsi come conflittuale. Quindi nemmeno nel rapporto con l’altro si può fuggire all’indeterminatezza, che condiziona anche gli oggetti del desiderio umano, poiché essi si collocano sempre al di là del suo essere. L’uomo nell’atto di desiderare dona l’essere e quindi crea valore, anche se esso non potrà avere un’esistenza in-sé, ma si configurerà come un per-sé, cioè potrà emergere solo con l’emergere stesso dell’uomo. Ne segue che solo all’uomo è dato, quindi, di poter scegliere e di poter sentire la pressione dei valori, poiché l’in-sé non può scegliere né agire, perché è identico e immutabile a quello che è. L’individuo invece non è identico a se stesso, ma il suo essere è aperto a un non-essere non determinato in modo necessario, facendo vivere l’uomo nella dimensione del possibile. Questo vuol dire che l’uomo, per sua natura, è caratterizzato da una mancanza costruttiva, per la quale non raggiunge mai la piena identità con se stesso, non

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riuscendo quindi nel tentativo di conciliazione del per-sé con l’in-sé. Vivendo sempre nel possibile che lo porta a scegliere e ad agire in base ai valori, che vengono realizzati nel tempo, progettandosi e trascendendo incessantemente verso un’altra situazione. “L’ homme n’est rien d’autre que ce qu’ il se fait […] l’ homme est d’abord ce qui se jette vers un avenir, et ce qui est conscient de se projeter dans l’avenir”67. Sartre afferma così, la libertà umana, che si esprime nella dottrina secondo cui l’uomo è un essere sottratto a ogni rigido determinismo esterno, integralmente responsabile di tutte le sue azioni. Quest’asserzione di libertà, non significa conferire potere all’umanità di agire a caso, ma l’individuo è libero nel senso che vive nell’ambito del possibile e non del necessario e che può liberamente scegliere il proprio comportamento e i propri valori, elaborando i propri progetti e assumendo così un atteggiamento nei confronti del proprio futuro, presente e passato.

4) Basaglia, la considerazione del concetto di liberta sartriana e il buon malato Come si è potuto capire Sartre concepisce l’errore di fondo del determinismo psicologico nel voler ricercare una causa preesistente e univoca per ogni atto umano, trascurando l’esistenza della coscienza critico-intenzionale dell’uomo e la sua capacità di agire in modo libero e proprio, rispetto alla fatticità dell’esistere. Basaglia nello scritto Ansia e malafede scrive che l’uomo J. P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Gallimard, Paris 1996, p. 30. 67

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nel lasciarsi determinare da tutto ciò che lo circonda, rinuncia alla sua individuale partecipazione, alla sua esistenza, oggettivandosi nei prodotti delle scienze. Questa perdita di soggettività comporta la perdita della propria libertà di scegliere e costruire se stessi e il proprio mondo. “L’uomo, determinato dalle cose, privato della propria libertà, oggettivato, alienato è pronto a cadere nell’oggettivazione malata. La psichiatria, come studio della patologia della libertà, si trova dunque davanti un’umanità malata prima ancora di ammalarsi68“ Quindi le malattie mentali diventano una sorta di maschera, che permette come direbbe Sartre di fuggire da se stessi, non scegliendo l’individualità, quindi non scegliendo se stessi nella lotta per il proprio progetto. Il malato mentale vive in tal maniera in uno stato d’inautenticità, poiché non si sceglie nella propria contingenza e proietta se stesso non nella propria soggettività, ma come oggetto. “Egli non ha fatto suo il mondo, non è nel mondo, ma è un oggetto del mondo”69. Basaglia concepisce come Sartre il momento della scelta, come l’istante determinante per l’uomo che vuole fare sua la propria esistenza, poiché quando egli diviene cosciente del suo mondo, delle relazioni che lo legano ad esso, del suo tempo, sia passato che presente, sceglie se stesso attuando la sua personale libertà e responsabilità. Proprio come il filosofo francese, Basaglia asserisce che di fronte alla scelta, l’uomo può realizzare o mancare il proprio progetto e da ciò sorge l’ansia che lo assale ogni qual volta ci sia una scelta interiore. Perciò così come Sartre propone una nuova psicologia che rifiuta di ridurre la coscienza a puro in-sé per concepirla invece come per-sé, ontologicamente mancante e desiderante, così Basaglia asserisce che nell’analisi dei F. Basaglia, Ansia e malafede, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 227. 69 Ivi, p. 230. 68

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vari modi di porsi di fronte all’ansia che deriva da ogni scelta, si possono evidenziare i diversi comportamenti dell’uomo di fronte alla sua responsabilità, quindi di fronte al suo progetto. Questi comportamenti non devono essere intesi dalla psichiatria come la risposta a una data situazione, ma come scelte umane possibili dinanzi all’angoscia suscitata dalla responsabilità del nostro essere-qui, mostrando come l’individuo di volta in volta scelga se stesso in vista del suo Dasein o si rifiuti di farlo. Nello scegliersi l’uomo trova se stesso, trova il completo significato del suo progetto nel superamento del contingente in vista di un fine e in questo progetto rivendica il diritto alla propria libertà in quanto come dice Basaglia: “Tutto ciò che accade è suo perché scelto ed integrato alla sua azione”70. L’individuo potrà vivere solo accettando l’ansia che trova nella scelta, come parte della sua situazione, che lo accompagna come una spinta verso il suo progetto, realizzando così in essa la sua condizione umana. Questa concezione della libertà porta lo psichiatra veneziano a riflettere su come poter proporre un aiuto terapeutico che non influisca in maniera negativa sul malato, facendogli accettare unicamente una soluzione imposta dall’esterno senza che esso riesca quindi a realizzare il suo progetto. Per ovviare a questo problema, Basaglia propone l’incontro psicoterapeutico, poiché in un contatto diretto con la persona malata, essa viene messa dinnanzi alla sua responsabilità e alla sua scelta, chiamando in causa anche la figura del medico stesso. In quanto il malato entra in relazione e suscita una crisi nell’essere uomo del medico, più che nel puro essere scienziato, comportando così la cessazione di imporre la propria personale soluzione e cercando di aiutare il malato ad entrare nel proprio mondo, affinché questi divenga intenzionalmente cosciente della sua responsabilità e sia in grado di scegliere liberamente 70

Ivi, p. 233.

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il suo modo di essere. Per tale motivo Basaglia afferma che per essere liberi all’interno del manicomio, bisogna prima di tutto che ognuno ritrovi la propria autenticità, sia che sia il malato, il medico, l’infermiere o l’inserviente. “Perché libertà – come dice Sartre – non significa raggiungere ciò che si vuole (non è dunque né il successo in sé, né il consenso esterno) bensì determinarsi a volere mediante se stessi”71. Ciò vuol dire che per una cura terapeutica dell’alienazione mentale bisogna per forza partire dal malato mentale, dal ricoverato come unica realtà. Basaglia sottolinea, però, come sia facile passare dall’eccessivo grado di spersonalizzazione che era proprio della psichiatria positivistica, alla considerazione del malato in modo puramente emotivo. “Capovolgendo, in un’ immagine positiva, il negativo del sistema coercitivo-autoritario del vecchio manicomio, si rischia di saturare il nostro senso di colpa nei confronti dei malati in un impulso umanitario, capace soltanto di confondere nuovamente i termini del problema”72 . In tal maniera il cattivo malato, la cui tutela doveva essere affidata ad un sistema carcerario, rischia di diventare il buon malato che si cerca di reintegrare in società, conservandone però i privilegi, le paure e i pregiudizi che lo caratterizzano. Basaglia per porre rimedio a questa situazione, prende ad esempio le parole di Sartre che all’interno dell’opera Qu’est-ce que la littérature? (1948) e successivamente nell’articolo “Sartre répond”73, sostiene che fra un’azione contingente, come può essere la fame di un bambino e un libro che parla di essa la distanza è incommensurabile. Quindi la sola emozione che assale alla vista del bambino e che si riversa in fiumi di righe su un quaderno non Ivi, p. 240. F. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, p. 22. 73 Artico contenuto in “L’Arc”, n. 30 del 1966. 71

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può bastare, ma per lottare veramente contro la fame, bisogna cambiare il sistema politico ed economico e la letteratura gioca in questa lotta un ruolo secondario, di propaganda e di denuncia, anche se non potrà mai del tutto essere nullo. Basaglia sostiene che queste parole possono essere trasferite al discorso psichiatrico, poiché il malato mentale può essere paragonato al bambino affamato e la psichiatria può essere paragonata alla letteratura. Quindi la sola emozione che si prova davanti al malato, che spinge a considerarlo in maniera troppo buonista non servirà a colmare il vuoto che lo separa dalla psichiatria. Ne segue un rifiuto deciso verso la sterile letteratura psichiatrica che si basa solo su un rapporto umanitario, risvegliando così nelle coscienze l’esigenza di una psichiatria che voglia davvero un incontro con il reale. Come per Sartre il ruolo della letteratura nella lotta contro la fame è subordinato alla lotta politica, così per Basaglia per lottare contro la psichiatria che si confina in un modo o nell’altro sempre nel terreno dell’ideologia, bisogna cambiare il sistema che la sorregge. Quindi, per prestare soccorso ad un malato mentale bisogna sempre tenere presente la duplice realtà con cui la sua malattia viene vista e tener bene a mente che per poter interagire in una comunità terapeutica, ognuno deve conquistare la propria libertà, senza che essa sia ancorata a giudizi troppo accondiscendenti che possono minare la reale scelta interiore di ogni uomo.

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Merleau-Ponty e il corpo De même que je saisis le temps à travers mon présent et en étant présent, je perçois autrui à travers ma vie singulière, dans la tension d’une expérience qui la dépasse. M. Merleau-Ponty, Le primat de la perception (p. 71)

1) Merleau-Ponty e il concetto di percezione Maurice Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer 1908 – Parigi 1961) studio all’Ecole Normale Supérieure di Parigi e grazie ai suoi brillanti successi accademici riuscì a conseguire il titolo di dottore di ricerca nel 1933. All’interno del suo progetto di dottorato non compare alcun riferimento alla fenomenologia, che invece costituirà il fulcro di tutta l’indagine filosofica ed esistenziale della sua vita che lo porterà alla stesura della sua opera più importante Phénoménologie de la Perception (1944). Per sviluppare il tema della percezione, che è strettamente legato alla fenomenologia, si dedica allo studio assiduo dei più recenti esiti sia metodici sia sperimentali della psicologia, rivolgendosi in primo luogo alla Gestaltheorie, ma anche al behaviorismo, alla psicoanalisi e ad alcuni studi di neurologia e psicopatologia. Il compito filosofico che si propone è quello di arrivare a una comprensione di tali risultati scientifici, nella loro connessione

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e nel loro senso profondo. Grazie ai suoi lavori sulla percezione fu nominato professore all’università di Lione e nel 1950 all’università Sorbona di Parigi. Per Merleau-Ponty il punto di partenza è l’abbandono del dualismo cartesiano tra anima e corpo, tra coscienza e mondo, in quanto influenzato dagli scritti di Husserl, scopre la rilevanza dei concetti d’intenzionalità e di mondo-della-vita, i quali consentono di sfuggire alla falsa alternativa tra idealismo e realismo, che insistono unilateralmente sulla priorità del soggetto o dell’oggetto, dell’io o del mondo. Allo stesso modo rifiuta la teoria sartriana che è rea di radicalizzare la contrapposizione tra per sé e in sé che riconduce inevitabilmente al dualismo cartesiano, invece di dar vita ad una teoria del soggetto e dell’oggetto che si costituiscono come rapporto d’implicazione reciproca e di non contrapposizione. Il tentativo di superare il dualismo insito in tutte le filosofie moderne culmina proprio nella stesura della Phénoménologie de la Perception, nella quale l’opposizione tra soggetto e oggetto, direttamente derivante dalla contrapposizione tra essenza ed esistenza si colloca dentro una prospettiva esistenziale, intraprendendo una terza via, che si pone come alternativa al razionalismo e all’idealismo, capace di chiarire il senso filosofico della percezione sulla base dell’esperienza percettiva in quanto tale. Infatti, lo studio della percezione articolato dal filosofo in quest’opera è orientato in modo specifico alla comprensione della percezione quale modalità originaria della coscienza, poiché il nostro essere-al-mondo svela come primaria la nostra esperienza percettiva che avviene grazie all’intersezione dell’io e del mondo. Merleau-Ponty opera quindi una sospensione delle assunzioni soggettivistiche e oggettivistiche e ritorna, seguendo il motivo husserliano, alle cose stesse, cioè a quel mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza stessa parla sempre e nei confronti del quale ogni determinazione scientifi-

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ca diviene astratta, escludendo così sia il procedimento dell’analisi riflessiva che quello della spiegazione scientifica. Nella conferenza tenuta nel novembre del 1946 dinanzi alla Société Française de Philosophie, raccolta nel libro Le primat de la perception, il filosofo francese si trova a presentare le conclusioni essenziali della sua filosofia della percezione. Per fare ciò comincia la descrizione fenomenologica, trattando la percezione di oggetti comuni quali una lampada e un cubo, dimostrando che prendendo in considerazione la percezione di questi oggetti è indubbio che essi vengano colti secondo il decorso dei loro aspetti parziali. “Si, par exemple, je regarde un cube, connaissant la structure du cube telle que le géomètre la définit, je puis anticiper les perceptions que ce cube me donnerait pendant que je tournerais autour de lui”74 . In questa maniera si potrà conoscere il lato non visto dell’oggetto come una conseguenza di una certa legge di sviluppo della mia percezione, determinata dal fatto di poter allungare la mano e prendere la lampada, oppure girare il cubo e vedere le altre facce che potevo solo immaginare. Tutto ciò vuol dire che la percezione è compresa come un riferirsi ad un tutto che per principio non è conoscibile, se non attraverso alcune delle sue parti. Quindi la cosa percepita non è un’unità ideale che possiamo imparare e possedere nella nostra intelligenza, ma si presenta come una totalità aperta ad un numero indefinito di possibilità prospettiche che si configurano secondo un certo stile, che designa l’oggetto stesso che stiamo percependo. “La perception est donc un paradoxe, et la chose perçue elle-même est paradoxale. Elle n’existe qu’en tant que quelqu’un peut l’apercevoir. Je ne puis même pour un instant imaginer un objet en soi”75. M. Merleau-Ponty, Le primat de la perception, Edition Verdier Lagrasse, Paris 1996, p. 45. 75 Ivi, p. 49. 74

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Le cose si configurano così come cose per me, nel senso che trascendono il loro senso sensibile, creando un paradosso “de l’immanence” e uno “de la trascendance”. “De l’immanence”, nel senso che la percezione non potrà mai essere estranea a colui che percepisce e “de la trascendance” nel senso che la percezione, comporta sempre un andare al di là della pura cosa contingente a cui fa riferimento. Lo stesso mondo non deve essere inteso come una verità assoluta, percepibile in ugual maniera da tutti e perciò immodificabile, come lo potrebbero intendere la fisica o la matematica, ma come lo stile universale di tutte le percezioni possibili. Queste considerazioni sul mondo vengono esplicitate da Mereleau-Ponty grazie al famoso esempio dell`impossibilità di raccontare come io conosco il rosso o come vivo e vedo un determinato paesaggio ad un’altra persona. “Si nous sommes, un ami et moi, devant un paysage, et si j’essaie de montrer à mon ami quelque chose que je vois et qu’ il ne voit pas encore, nous ne pouvons pas rendre compte de la situation en disant que je vois quelque chose dans mon monde à moi, et que j’essaie par messages verbaux de susciter dans le monde de mon amie un perception analogue […] la chose s’ impose non pas comme vraie pour toute intelligence, mais comme réelle pour tout sujet qui partage ma situation. Je ne saurai jamais comment vous voyez le rouge et vous ne saurez jamais comment je le vois”76 . Le riflessioni sul mondo e sulla percezione portano il filosofo francese a ripensare la soggettività che non si costituirà più come principio primo, come teorizzato dall’idealismo, ma essa rimanderà ad una struttura esistenziale e temporale anteriore alla distinzione tra soggettivo e oggettivo. Il mondo che ci viene rivelato dalla struttura della percezione si configura come un mondo ambiguo ed incompiuto che la scienza vede come 76

Ivi, pp. 50-52.

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compiuto e privo di aperture al possibile e quindi razionalmente definito. L’esperienza percettiva dei fenomeni, viceversa, si colloca e ci colloca nella terra pre-oggettiva, anteriore alle operazioni predicative e presupposto di esse, che si configura come il luogo costitutivo della nostra coesistenza con le cose, là dove non sono ancora intervenute le distinzioni dell’intelletto, soggetto-oggetto e io, altro. Quindi la percezione si configura come comunione e coesistenza, facendo sì che il soggetto della percezione non si possa costituire come un pensatore che annota una qualità né come un oggetto inerte che potrebbe essere passivamente colpito o modificato da essa, bensì si determinerà come una potenza che co-nasce in un certo contesto di esistenza. Quindi il soggetto della percezione si costituisce come anonimo e per tal motivo la presenza di esso nel mondo e nello stesso tempo del mondo in esso costituisce la chiave per la presa di coscienza dell’essere-nel-mondo, che significa essere in comunicazione interna con il mondo stesso prima di qualsiasi atto riflessivo. Da ciò nasce l’importanza del corpo che diviene il nodo vivente d’interiorità ed esteriorità, che supporta e realizza lo scambio del soggettivo e dell`oggettivo.

2) Il corpo come fonte del rapporto originario con il mondo Per Merleau-Ponty il rapporto originario con il mondo si costruisce attraverso il corpo, la cui dimensione fondamentale è data dall’esperienza vissuta dalla percezione. Il mondo diviene ciò che percepiamo e la fenomenologia si configura essenzialmente come descrizione delle modalità di percezione. Quindi il corpo è anteriore e irriducibile alla contrapposizione, costruita a posteriori dalla riflessione e dalle scienze fisiologiche, tra sog-

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getto e oggetto, esso diviene infatti l’unità indistinta e naturale dei due poli. “La permanence du corps propre, si la psychologie classique l’avait analysée, pouvait la conduire au corps non plus comme objet du monde, mais comme moyen de notre communication avec lui, au monde non plus comme somme objets déterminés, mais comme horizon latent de notre expérience, présent sans cesse, lui aussi, avant toute pensée déterminante”77. Il soggetto del sentire è al tempo stesso oggetto sentito e viceversa, da ciò nasce l’ambiguità originaria dell’esperienza, che si mostra nella percezione attraverso il corpo. “Mon corps, disait-on, se reconnaît à ce qu’ il me donne des sensation doubles: quand je touche ma main droite avec ma main gauche, l’objet main droite a cette singulière propriété de sentir, lui aussi”78 . Per tal maniera la coscienza diviene l’inerire alla cosa tramite il corpo e inerendo alle cose del mondo, il corpo si conosce come quell’insieme di possibilità che le cose del mondo costantemente verificano. Perciò il primo senso delle cose del mondo nasce contemporaneamente alla verifica delle possibilità del corpo stesso. A questo proposito il professor Umberto Galimberti si esprime nella seguente maniera: “Soggetto di questa esperienza non è l’ intelletto puro, ma quell’ intelletto incorporato che abita il tempo e lo spazio dei corpi, e che interviene nel mondo non come io penso, ma come io spingo, io trascino, io sollevo le cose del mondo. Tra questo intelletto e il mondo non c’ è distanza come tra soggetto e oggetto, ma c’ è un’originaria correlazione”79. La correlazione di cui Galimberti parla si trova nel corpo, senza il quale non può esistere, né l’intelletto né un anima che possa intendere qualcosa del mondo. Quindi il corpo per MeM. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 120. 78 Ivi, p. 122. 79 U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 118-119. 77

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releau-Ponty non si configura come una semplice cosa, che diviene un oggetto di studio della scienza, ma si configura come la condizione necessaria dell’esperienza, che costituisce l’apertura percettiva al mondo. La percezione diviene così il filo conduttore che apre il nostro esserci all’alterità, divenendo il luogo originario entro cui accade il mondo, in quanto ogni esperienza è il riflettersi del mondo nell’io e il modificarsi dell’io per effetto del suo rapporto col mondo. Il corpo si configura come un fuori di sé, cioè come un’apertura al mondo e un protendersi verso le cose, che svolgono la funzione di rendere l’individuo consapevole delle potenzialità del proprio corpo. “Rien ne me détermine du dehors, non que ne me sollicite, mais au contraire parce que je suis d’emblée hors de moi et ouvert au monde”80. Quest’apertura alle cose permette di avere la posizione degli oggetti tramite il mio corpo, poiché lo spazio non si configura solo come l’ambito in cui sono disposte le cose, ma come il mezzo grazie al quale la posizione delle cose diviene possibile. Lo spazio, infatti, pur essendo anteriore all’individuo singolare e alle cose che lo attorniano, persiste solo grazie al soggetto che lo percepisce. “Le mot «ici» appliqué à mon corps ne désigne pas une position déterminée par rapport à d’autres positions ou par rapport à des coordonnées extérieures, mais l’ installation des premières coordonnées, l’ancrage du corps actif dans un objet, la situation du corps en face de ses tâches”81. In questa maniera Mereleau-Ponty afferma che il corpo dell’uomo e il corpo del mondo non sono due realtà separate, ma intrecciate l’una sull’altra, in un rapporto che non potrà essere di subordinazione o di precedenza, ma di reciproca trasgressione e sopravanzamento. Ne segue che per giungere alla M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 520. 81 Ivi, p. 130. 80

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relazione originaria tra io e mondo è necessario entrare in un universo di promiscuità di scambi tra anima e corpo, io e altro, che si fondano sul fatto che io inerisco a me inerendo al mondo. Per tal motivo l’io penso deve scoprirmi nello spessore corporeo, senza il quale non posso apparire all’altro e l’altro non può apparire a me.

3) Basaglia: dal corpo alla critica dell’istituzione manicomiale La riflessione di Merleau-Ponty sul corpo segna profondamente Basaglia, che trova in essa il completamento dell’analisi di Heidegger, il quale analizzando il Dasein trascura le questioni intorno alla corporeità e alla percezione. Lo stesso Basaglia si rende conto di come la nozione di corpo vissuto possa consentire di superare il dualismo che da Descartes in poi ha condizionato ogni prassi psichiatrica, trasformando il corpo in un mero oggetto fisico e mai in un corpo vivente quale può essere colto nell’orizzonte fenomenologico dell’umana presenza. Si tratta quindi di ridare dignità al Körper nel tentativo di un ritorno alla fisicità propria di esso, quale immediatamente esperita, contro i metodi della scienza che consentono solo di incontrare un sacco di organi, ossia un corpo oggettivato, escludendo così dalla conoscenza il corpo come vissuto dall’individuo. Merleau-Ponty rigetta la lettura positivista delle scienze naturali, teorizzando un corpo che situa l’uomo nel mondo e grazie al quale per l’individuo esiste il mondo, descrivendolo come una sorta di punto di riferimento assoluto che orienta verso ogni altro luogo e che è intimamente legato alla capacità di trascendimento, ovvero ad un’apertura originale alle cose. Tutto ciò rende il corpo non più immobilizzato in una sorta

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di prigione del soggetto, ma lo erge a fondamento della nostra umanità e del nostro essere-qui. In Corpo, sguardo e silenzio pubblicato nel 1965 sulla rivista L’Évolution Psychiatrique, Basaglia affronta l’enigma della soggettività partendo proprio dalla riflessione sul corpo. “La soggettività umana è l’enigma centrale di ogni scienza, lo studio delle relazioni dell’ io col proprio corpo, del corpo come corpo proprio col corpo d’altri sarà il centro di ogni indagine psichiatrica perché il corpo – nella sua ambigua bipolarità di soggetto-oggetto – gioca un ruolo centrale nel determinismo delle modificazioni strutturali cui si assiste nella patologia mentale”82 . Per lo psichiatra veneziano quindi il corpo non è solo il puramente complementare alla soggettività dell’io, ma rappresenta, come per Merleau-Ponty, l’esperienza più profonda ed insieme più ambigua della percezione, poiché non si può parlare dell’uomo senza essere rimandati alla sua corporeità, né si può avvicinare il fatto corporeo senza implicare l’intero complesso dell’uomo nel suo essere umano. Il Körper si configura quindi come la condizione necessaria per l’azione umana, infatti, solo esso da la possibilità di agire e di tendere verso la realizzazione del possibile. Per tal motivo ognuno deve accettare la propria corporeità e farla sua, in quanto il proprio ingresso nel mondo si attua nel momento dell’apparire come corporeità e ogni atteggiamento con cui l’uomo si dà e coglie il mondo si configura sempre come corpo. Infatti, in tutti gli individui è presente un’enigmatica qualità per cui la materia, costitutiva di essi stessi è contemporaneamente una modalità del corpo di esperire la materia. “La materia, la contingenza viene ad assumere su di sé la propria spazio-temporalità ed il corpo – nel suo essere materia – esperimenta, in quanto centro di orientamenF. Basaglia, Corpo, sguardo, silenzio, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 28. 82

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to fungente, la sua stessa materialità, vivendone la proprietà di appartenenza”83. Il riconoscersi come corpo diviene fondamentale nella relazione con l’altro, che si configura come una sorta di riflesso di me stesso, poiché posso riconosce nell’essere là dell’altro un’esperienza coesistente al mio essere qui, ciò vuol dire che, su un’esperienza corporea comune, si costituiscono due diverse modalità di esistenza che creano due esseri distinti. Perciò nell’essere al mondo bisogna tener presente che il comportamento particolare di un corpo che vuole fare un’esperienza non creerà uno stato psichico orientato solo su sé stesso, ma dovrà tener presente una condotta riferita al mondo, anche per l’esperienza dell’altro. Basaglia afferma che è proprio in questa esperienza che è alla base della costruzione della persona, che il corpo proprio diventa vulnerabile e si disperde in mezzo agli altri e alle cose. Quindi è necessario accettare la propria fatticità e scegliersi come corpo per uscire dalla molteplicità e farsi uno. Ciò comporta una presa di distanza dagli altri in modo che la vicinanza con il non-io non invada il mio spazio proprio, per tal motivo il corpo di ogni individuo deve conservare la propria unicità, che si configura come una presa di coscienza della distanza che lo separa dall’altro. Se un individuo si rifiuta di riconoscere questa singolarità e quindi non riesce a porre una distanza fra il proprio corpo e quello dell’altro, l’alterità viene annullata, con conseguente rifugio nell’alienazione. L’esperienza della corporeità vissuta è quindi determinante non solo per comprendere il problema della soggettività, ma anche quello dell’alterità, poiché per vivere con gli altri è necessario preservare una distanza che sia sufficiente a distinguere il proprio dall’altrui, cogliendo così la propria diversità. Dunque il corpo perché sia vissuto 83

Ivi, p. 29.

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deve porsi in una particolare distanza dagli altri, infatti, noi desideriamo che la nostra corporeità sia rispettata e per tal motivo creiamo una gerarchia della vicinanza, in quanto il più vicino al nostro corpo sarà la persona più familiare e viceversa le persone più ostili saranno tenute a lunga distanza. Quando la persona non riesce a creare le suddette distanze, l’ostile e il lontano s’impossesseranno del suo corpo, creando la situazione alienante che affligge i malati di mente, che assistono impotenti al passaggio dell’intruso nel loro corpo. Ciò comporta la mancata difesa della propria intimità, che prelude alla mancata riflessione su di sé che permette di declinarsi come corpo, cioè come oggetto e parte vivente dell’organizzazione del mondo. Basaglia riconosce che oltre all’alienazione causata dalla malattia mentale, ne esiste una ben peggiore che viene creata dalla realtà manicomiale, che riesce ad annientare l’uomo, svuotandolo e facendogli perdere definitivamente se stesso. Infatti, la psichiatria non realizza un incontro reale, dove un soggetto oggettivizza l’altro nel momento stesso in cui viene da lui oggettivato, ma si tratta di un incontro fra un soggetto ed un corpo a cui non viene data altra alternativa che quella di essere oggetto agli occhi di chi lo esamina. “È proprio questo intervallo che il malato mentale ha perduto, l’ intervallo dove poter appropriarsi del suo stesso corpo, abbandonato in una promiscuità in cui l’altro lo urge senza tregua, da tutti i lati lo invade. È in questa condizione che entra in un istituto, la cui finalità risulta l’ invasione sistematica di quello spazio già ristretto dalla regressione malata”84 . Quindi la modalità passiva nella quale l’istituzione manicomiale riduce il malato di mente, non consente di vivere gli avvenimenti secondo una dialettica interna, non offrendo così F. Basaglia, Corpo e istituzione, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 110.

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l’opportunità di vivere con gli altri, opportunità che sola consente di difendersi e salvaguardarsi dall’estraneo. Basaglia vede nella cessazione del paternalismo terapeutico l’unica possibilità per riuscire a riportare il corpo del malato da un oggetto che viene spostato da reparto in reparto, ad un corpo che possa invece dialettalizzare il mondo ed avere quindi una nuova coscienza di sé e della propria libertà. Per questo lotta affinché possa cambiare l’idea secondo la quale siano il medico e l’infermiere a donare al malato una libertà che è in loro possesso, cosa che non è assolutamente possibile e porta solo a mancare il proprio compito di uomo che deve darsi un progetto. Essi devono invece attraverso il malato trovare la propria libertà, come il malato dovrà trovarla in loro e in un’istituzione che sia davvero terapeutica e non oppressiva. Perciò solo attraverso la critica all’istituzione manicomiale intesa come organizzazione di potere coercitivo e la lotta per la cessazione di essa, che prevede anche la messa fra parentesi della malattia, l’alienato può esser messo dinanzi ad una situazione che gli permetta a pieno il recupero del Körper, che si configura come elemento essenziale per la partecipazione attiva al mondo.

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Foucault e la cessazione del sapere assoluto Il y a une bonne raison pour que la psychologie jamais ne puisse maîtriser la folie; c’est que la psychologie n’a été possible dans notre monde qu’une fois la folie maîtrisée, et exclue déjà du drame. M. Foucault, Maladie mentale et psychologie (p. 104)

1) Foucault e la filosofia storica Michel Foucault (Poitiers 1926 – Parigi 1984) è uno dei più grandi intellettuali dell’ultimo secolo, studiò all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, dove ebbe la possibilità di ascoltare gli insegnamenti di Maurice Merleau-Ponty. Nel 1948 ottenne la laurea in filosofia e due anni dopo quella in psicologia, la sua carriera accademica e intellettuale si realizza attorno al progetto storico-genealogico propugnato da Nietzsche che segnalava la mancanza di una storia della follia, del crimine e della sessualità. Per questo motivo pubblica nel 1954 il suo primo libro Maladie mentale et psychologie che costituirà uno studio decisivo nell’avvicinamento alla sua tesi di dottorato del 1961 intitolata Folie et Déraison. Histoire de la folie à l’ âge classique, che diverrà uno dei testi fondamentali per la riforma psichia-

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trica operata da Basaglia e più in generale per lo sviluppo del movimento antipsichiatrico. L’interesse per la medicina e per la filosofia delle scienze gli permette di scrivere Naissance de la clinique: une archéologie du savoir médical (1963) e negli anni successivi pubblica numerose altre opere fra cui Les Mots et les Chose. Une archéologie des sciences humaines (1966) e L’Archéologie du savoir (1969) divenendo famoso in tutto il mondo, tanto da meritarsi la cattedra al Collège de France che rappresenta la più prestigiosa istituzione accademica francese fondata principalmente sulla ricerca. Infatti, tutti gli accademici del Collège de France hanno l’obbligo di impartire solo 26 ore di insegnamento all’anno, spendendo il resto del tempo nella ricerca, che deve portare alla redazione di una tesi su argomenti originali. Ciò consente a Foucault di cominciare i propri studi sulla condizione del recluso e delle carceri che lo conducono alla creazione dell’opera Surveiller et punir. Naissance de la prison (1975). Sempre in questo periodo tiene delle lezioni sul concetto di “biopolitique”, ovvero su una forma di potere derivante dalla diffusione del capitalismo che influisce direttamente sulle persone coniugando sfera politica e area della vita, che lo portano a scrivere i testi Il faut deféndre la sociète (1975) e Naissance de la biopolitique (1979). In quegli anni vede la luce anche il primo dei tre volumi sulla storia della sessualità, progetto che accompagnerà gli ultimi anni della vita del filosofo francese. La vastità e la diversità degli argomenti trattati nell’operato di Foucault si riunisce sotto l’unità dell’aspetto metodico, ovvero sotto l’utilizzo del metodo genealogico, che è volto ad indagare da dove provengono e come emergono i discorsi e le pratiche che, intrecciandosi, producono la cultura moderna. Il filosofo francese parte dal presupposto che tutto è divenuto e che non esistono verità assolute, quindi indaga la verità della follia, della sessualità o della reclusione partendo dalle coordinate spazio temporali, che sono le basi ineliminabili per la verità.

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Indagare la realtà in questa maniera produce l’effetto di avanzare nel limite storico, che muove dall’ipotesi che sia possibile produrre altri effetti di verità. Foucault in questo modo rifiuta fortemente l’idea che la malattia mentale sia la verità della follia e preferisce così, analizzare gli effetti storici di verità della psicologia e della psichiatria, mettendo in discussione l’origine e la conseguente evoluzione storica di ogni accadimento sociale e portando la stessa storicità nel tema del dibattito presente. Concretamente ciò si realizza nella possibilità di sperimentare come possa emergere una nuova esperienza sociale e culturale che possa produrre un’altra verità sulla follia e sulla malattia mentale, determinando così un altro nesso di potere e di sapere che possa creare un altro rapporto di forza. Il grande merito di Foucault è l’aver smascherato come la produzione di discorsi a cui si è attribuito un valore di verità sia legata inesorabilmente ai vari meccanismi ed istituzioni di potere. La filosofia che ne nasce è dunque una filosofia storica, nel senso che prende l’avvio da un’interrogazione sulle condizioni storiche e culturali che fanno essere e divenire l’umanità. Questo lavoro critico-storico libera dalla contingenza il possibile, rendendo il presente un immenso interrogativo che non può trovare le proprie risposte nella dogmaticità di un fondamento storico assoluto. Quindi come scrive giustamente Pierangelo Di Vittorio: “Per Foucault, la genealogia è un analisi storico-critica che si sviluppa su due versanti: quello tecnologico, che analizza le forme di razionalità che organizzano le pratiche sociali; e quello strategico, che analizza invece come gli uomini agiscono all’ interno di tali insiemi pratici, modificando in qualche modo le regole del gioco, cioè mettendo in gioco la loro libertà”85. P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia, Ombre corte edizioni, Verona 1999, p. 28. 85

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2) Follia e malattia mentale La critica genealogica smaschera le vere origini della psichiatria e della psicologia, che non nascono dalla conquista di un atteggiamento medico-scientifico nei confronti della follia, ma dall’esclusione di essa conseguente all’istituzione degli Hôpitaux généraux. Ciò strappa a questa scienza la pretesa di custodire la piena consapevolezza della soluzione dei problemi mentali, liberando la possibilità d’insorgere contro la normalizzazione psichiatrica. Nell’opera Folie et Déraison. Histoire de la folie à l’ âge classique Foucault vede chiaramente cosa si cela dietro la presunta filantropia di Pinel, il padre dei manicomi, ovvero la creazione del concetto di malattia mentale, che comporta la trasformazione della follia in un oggetto della conoscenza medica e psicologica. In questi termini si colloca l’atteggiamento di critica verso la ricerca psicologica, rea di condurre le indagini nel terreno della scientificità senza curarsi di comprendere quali siano i nessi interiori cui la malattia mentale rinvia. “La psychologie du XIX siècle a hérité de l’Aufklaroung le souci de s’aligner sur les sciences de la nature et de retrouver en l’ homme le prolongement des lois qui régissent les phénomènes naturels”86. Foucault invece propone una considerazione della malattia mentale e della follia come esperienze del vissuto individuale, in altre parole come modalità specifiche dell’esistenza e quindi della nostra presenza nel mondo. Lo scritto che più di ogni altro riflette questa sua presa di posizione è Maladie mentale e psycologie, esso fu più volte rivisto e corretto, tanto è che venne pubblicato per la prima volta nel 1954 con il titolo Maladie mentale et Personnalité. Foucault stesso si oppose alla ristampa di questo testo e solo dopo aver eliminato nel 1962 ogni rife86

M. Foucault, Dits et écrits 1, 1954-1975, Gallimard Paris 2001, p. 148.

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rimento alla riflessione biologica di Pavlov e di conseguenza a tutta una corrente psichiatrica e psicologica di stampo positivista orientata verso un’interpretazione puramente organicista della patologia mentale, esso vede nuovamente la luce con il titolo conosciuto da noi oggi. In questo testo ci viene proposta una lettura della malattia mentale molto vicina alla posizione di Binswanger, poiché essa viene considerata all’interno dell’orizzonte esistenziale dell’individuo divenendo così una forma di esistenza che non potrà mai essere concepita in termini puramente negativi. Infatti, Foucault rifiuta l’interpretazione della patologia come deficit o come regressione e prendendo spunto dagli studi Canguilhem definisce alienante la comprensione di essa attraverso la distinzione rigorosa tra normale e patologico. Per tal motivo descrive l’impossibilità che la malattia possa essere trattata come un fenomeno fisico o quantificabile e quindi riducibile alle leggi della causalità. “La maladie concernerait en tout cas la situation globale de l’ individu dans le monde; au lieu d’ être une essence physiologique ou psychologique, elle est une réaction générale de l’ individu pris dans sa totalité psychologique et physiologique”87. La malattia deve quindi essere compresa dalla presenza globale, dal vissuto e dalle emozioni individuali del malato preso nella sua modalità di abitare il mondo. Quest’approccio si configura contrario all’osservazione distaccata e speculativa del medico che riduce il malato a puro oggetto da analizzare. Foucault in questo modo critica apertamente la concezione che vede nel fenomeno patologico una sorta di ritorno regressivo a fasi anteriori dell’evoluzione psichica, cioè a uno stato in cui le funzioni più complesse e recenti vengono cancellate per intraprendere un percorso a ritroso che procede verso gli stadi più elementari dello sviluppo della mente. Quindi se 87

M. Foucault, Maladie mentale et psycologie, Puf, Paris 2008, p. 11.

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la malattia si configurasse davvero solo come un ritorno agli stadi più semplici, essa non diverrebbe altro che il processo evolutivo inverso dello stato normale. L’analisi di Freud e di conseguenza la psicoanalisi e la psicologia seguono questa impostazione, infatti, ogni stadio libidico costituisce una struttura patologica virtuale, la quale, man mano che si sviluppa, procede nel distruggere in maniera del tutto lineare e standardizzata la trama della personalità e dell’individualità del malato. Per tal motivo le discipline psicologiche non tengono conto del carattere assolutamente originale della patologia e nemmeno prendono in considerazione la struttura della personalità del malato, il suo essere globale come un’unità psico-fisica e in continuo scambio col mondo, trasformando così la patologia in un puro deficit del normale standard di conduzione della vita. “La maladie n’est donc pas un déficit qui frappe aveuglément telle faculté ou telle autre; il y a dans l’absurdité du morbide una logique qu’ il faut savoir lire; c’est la logique meme de l’evolution normale. La maladie n’est pas une essence contro nature, elle est la nature elle-meme, mais dans un processus inversé; l’ histoire naturelle de la maladie n’a qu’ à remonter le courant de l’ histoire naturelle de l’organisme sain”88. Bisogna quindi partire dall’individuo e dal suo presente, solo così si scoprirà che la malattia parte da un’impossibilità per l’uomo di conformarsi a questo presente e la regressione non sarà la situazione standard dell’evoluzione patologica, ma solo uno dei tanti meccanismi di difesa che il soggetto mette in atto per proteggersi e per reagire alle difficoltà insite nel suo vivere nel presente del mondo. Il patologico ha dunque un significato attuale e difensivo, che riguarda tutto l’individuo, nel suo sforzo di adattamento a una situazione problematica di angoscia. 88

Ivi, p. 22.

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3) Il potere psichiatrico Partire dall’individuo vuol dire riattribuirgli dignità e soprattutto significa attribuire nuovamente i poteri singolari che costituiscono la base della coesistenza in società. Foucault con il proprio metodo genealogico non è interessato unicamente a ricreare gli stadi che dal diciassettesimo secolo in poi hanno portato alla costruzione e decostruzione dell’ospedale psichiatrico, ma partendo dall’individuo è interessato a smascherare il potere insito nell’atteggiamento terapeutico. Esso deriva solo da una presa in consegna dell’autorità e da una riduzione dell’altro a un organismo malato e quindi culturalmente inferiore che si trova a vivere in una situazione in cui necessita della pratica socialmente utile della medicina, che si configura come unico modo per ritornare alla propria vita politicamente e convenzionalmente definita normale. Infatti, la critica che egli rivolge alla psicologia è alla psichiatria e quella di volersi definire come scienza e quindi di aderire a quel discorso di base che prelude ad ogni atteggiamento scientifico che si situa nel cercare la verità. Questo è il preludio che nel diciottesimo secolo creò le condizioni necessarie per l’esplosione della verità del male. Giacché il malato, lasciato allo stato libero, non poteva che essere affetto da una malattia complessa e confusa, il compito dell’ospedale divenne quello di portare a galla la verità di essa, ossia di riunire i vari sintomi in una diagnosi che potesse esser risolta con una terapia codificata. Prima del diciottesimo secolo, la follia non era sistematicamente internata, ma era immessa nel campo dell’illusione o dell’errore, ancor prima nell’età classica essa era vista come appartenente alle chimere del mondo. Con lo scoppio delle condizioni che permisero il primato del sapere riguardante la salute agli ospedali, anche la follia trovò in essi i luoghi privilegiati in cui poter esprimere la propria verità.

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Iniziò così l’era della pratica dell’internamento della follia in relazione ad una norma, che stabiliva il giusto modo di comportarsi, di volere e di provare le passioni. La lotta che da lì in poi è stata ingaggiata dovrà portare alla vittoria della retta volontà, alla sottomissione e alla rinuncia della volontà turbata. Lo psichiatra diverrà, così, il solo che potrà esprimersi sulla malattia mentale, in virtù del sapere che ha su di essa e nello stesso tempo sarà il solo che potrà realizzare la malattia nella sua verità e sottometterla nella sua stessa realtà, in virtù del potere che la sua volontà esercita sul malato stesso. Questo comporta che la produzione di verità sarà vincolata alla figura del medico, in quanto esso è competente nel conoscere le malattie e nel detenere il sapere scientifico che è garante della validità del suo agire. In questa maniera Foucault risale al momento storico che attribuisce alla psichiatria e al medico il potere derivante dall’oggettività scientifica, smascherando così la genesi di esso che deriva solo attraverso la costruzione dell’istituzione asilare. Inoltre mette in questione lo stesso potere che deriva dal mito della liberazione dei matti di Pinel, che si erge a garanzia scientifica e umanistica della psichiatria positivistica. Pinel, infatti, liberando il folle dalla promiscuità del grande internamento, in cui condivideva lo spazio con criminali, dona vita alla figura dell’alienazione mentale che verrà vista come l’umanità malata e priva per un determinato periodo della ragione, stabilendo una norma che possa definire cosa sia la ragione stessa. Per Foucault, questo avvenimento non può garantire le basi della scientificità del metodo psichiatrico, poiché Pinel ha solo imprigionato la follia nel mondo morale, assoggettandola al potere assoluto del medico-giudice. Per tale ragione i manicomi non si configurano come delle creazioni terapeutiche, ma come una sorta di spazio giudiziario dove si è giudicati e condannati. Quindi l’istituzione asilare costituisce il proprio potere attorno alla verità dell’interpretazione della

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follia, che viene sancita da una ragione di natura morale, in conformità a una norma socialmente riconosciuta e prodotta attraverso l’isolamento del malato e l’instaurazione, da parte del medico, di uno specifico rapporto di potere con il paziente, in vista della realizzazione di una società ideale. Per tal motivo tutte le riforme del pensiero e della prassi psichiatrica si situano sempre in questa relazione di potere, che trova la propria garanzia in una verità assoluta data dalla propria storia, ma non confermata dalla contingenza stessa di essa.

4) Basaglia, il ’68 e l’istituzione di potere e violenza La voglia di affermare che l’operato di Basaglia e Foucault si assomigli è molto forte in chiunque si accinga a leggere i testi dei due intellettuali, infatti la concezione che hanno della patologia mentale e principalmente del malato è tendenzialmente simile, poiché tutti e due partono dal presupposto che la follia non sia un qualcosa di estraniante dal normale ciclo della vita, ma sia un modo di vivere con qualche disagio il proprio presente. Questi disagi possono essere superati solo partendo dal presupposto che ogni uomo è singolare, quindi una professione di fede, quale la tecnica psichiatrica mirante alla ricerca della verità immutabile sulla malattia mentale, non può veramente comprendere le problematiche esistenziali e personali cui la stessa patologia rinvia. Tuttavia una ricerca che miri a trovare una completa equivalenza fra i due intellettuali non è corretta, perché seppur partendo da argomenti comuni, gli intenti e le stesse professioni praticate dai due sono diverse e non possono essere equiparate. L’intento di Foucault è smascherare i poteri forti che si celano dietro le istituzioni moderne e una di queste è l’istituzione

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manicomiale. Basaglia, invece, si spende in maniera pratica per cambiare il modo di essere escludente della società, per soverchiare il potere che imprigiona l’uomo in un’etichetta sterile di malato. Da questa premessa si può ben capire come gli intenti, sebbene in alcuni momenti si assomiglino, non sono equivalenti e il punto di contatto tra i due si può trovare non sulla base di un’opera intellettuale filosofica condivisa, ma in una critica alle scienze umane, alla razionalità illuministica e all’umanesimo che esse portano con sé e che in realtà assolutizza la separazione fra il normale e l’abnorme, il sano e il malato. Foucault ha il merito di insistere sul processo di esclusione e sulla produzione scientifica istituzionale del malato mentale, mettendo in evidenza le tecniche disciplinari atte a rendere il corpo del paziente utile e docile per la scienza, individuando inoltre nella critica morale dell’uomo malato l’orizzonte totalizzante della vita asilare. Questa scoperta storica-genealogica permette la messa in questione della psichiatria, poiché si scopre che essa non si basa su una verità assoluta, ma su una storia contingente, consentendo così la messa in questione del potere insito nella psichiatria stessa e quindi dell’istituto manicomiale, che sarà la base su cui Basaglia costruisce il suo operato che condurrà alla chiusura del manicomio. Per tal motivo come dice giustamente Rovatti: “Michel Foucault con la sua storia della filosofia ci sembra ancora un utile spartiacque: un inizio per capire cosa è successo nelle pratiche ma anche di quale problema deve caricarsi la riflessione filosofica, il pensiero della e sulla follia”89. Proprio in questa maniera Foucault viene letto da Basaglia, che vede nel libro Folie et Déraison. Histoire de la folie à l’ âge classique, una giustificazione storica al lavoro che stava svolgendo nel tentativo di cambiare l’istituzione per dare nuovamente la possibilità di vivere la malattia come forma di vita. 89

Articolo contenuto nella rivista “Aut Aut”, n. 285-286, 1998, p. 3.

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Con il suo libro Foucault pone quindi le basi per lo sviluppo di un pensiero critico nell’ambito delle scienze umane, donando la possibilità concreta per il lavoro dello psichiatra veneziano, tanto è che lo stesso Foucault a proposito dice: “J’ai écrit autrefois un livre sur l’ histoire de la folie. Il a été assez mal reçu, sauf par quelques-uns come Blanchot ou Barthes. Encore récemment, dans les universités, quand on parlait de ce livre aux étudiants, on fasait remarquer qu’ il n’avait pas été écrit par un médecin et que par conséquent il fallait s’en méfier comme de la peste. Or une chose m’a frappé: depuis quelques années s’est développé en Italie, autour de Basaglia, et en Angleterre un mouvement qu’on appelle l’antipsychiatrie. Ces gens-là ont, bien sûr, développé leur mouvement à partir de leurs propres idées et de leurs propres expériences de psychiatres, mais ils ont vu dans le livre que j’avais écrit une espèce de justification historique et ils l’ont en quelque sorte réassumé, repris en compte, ils s’y sont, jusqu’ à un certain point, retrouvés, et voilà que ce livre historique est en train d’avoir une sorte d’aboutissement pratique”90. Per tale motivo si può affermare che la somiglianza tra i due derivi da un incontro frutto del tempo, che s’instaura nella sensibilità post-Sessantotto, che permette a Basaglia di trovare nell’operato di Foucault le basi storiche del suo processo di deistituzionalizzazione e a Foucault di vedere l’esito pratico delle proprie idee. Infatti, il filosofo francese è persuaso che il potere si manifesta come tale, nel momento in cui le lotte e le critiche specifiche riappaiono come saperi locali e particolari che impongono un taglio, una delimitazione al potere centralizzato legato alle istituzioni. Solo in questo modo vengono messe a nudo le determinazioni e le contingenze storiche da cui le istituzioni e i discorsi scientifici provengono. Questo si conM. Foucault, Dits et écrits 1, 1954-1975, Gallimard Paris 2001, pp. 10761077. 90

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figura come genealogia storica e come una lotta che Basaglia ha saputo condurre, partendo dal presupposto che il discorso psichiatrico non sia il frutto di un progresso, di un’evoluzione democratica, ma il risultato storico e culturale di un rapporto di forza, da cui emerge un vincitore, ossia un potere forte. Questo potere è ciò che produce la rete storica dei saperi che imprigionano la malattia mentale nel terreno fittizio dell’ospedale manicomiale, dove vengono rinchiusi gli uomini che sono colpevoli solo di vivere e di soffrire in maniera diversa e che necessitano di un vero aiuto concreto per rimpadronirsi del loro presente. Codesto aiuto, però, deve essere un ausilio concreto alla loro umanità che non può trovare forma in uno spazio angusto e artificiale, quindi dentro ciò che Basaglia chiama l’istituzione della violenza che viene da lui definita in questo modo: “La violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube”91. Lo psichiatra veneziano è convinto che ciò che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Ne segue che la suddivisone dei ruoli sociali divenga il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere, del non potere. Basaglia, dimostra, così, la propria convinzione sul ruolo di forza che il medico riveste, in quanto il paternalismo che da esso deriva decide la vita di un altro essere umano che si trova ridotto in oggetto da un’istituzione di potere, creata da una verità derivante dal passato. La negazione di questa costruzione sociale può partire solo dalla messa in questione di quella verità storica, che Foucault ha smascherato e Basaglia ha rovesciato, mettendo in crisi una sorta di volontà di sapere sull’uomo che F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in L’ istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Baldini e Castoldi, Milano 1998, p. 115. 91

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va oltre lo stesso, riducendolo con la forza a puro organismo malato. Tutto ciò avviene dopo una data simbolica, il Sessantotto, dove la genealogia del potere si manifesta in tutta la sua complessità e dove il fervore culturale permette quella contingenza di avvenimenti particolari che portano la possibilità di una comprensione dei libri di Foucault e ad un insieme di insurrezioni e proteste che si specializzano nei vari settori il suo messaggio. Lo stesso Basaglia, in una conferenza tenuta a San Paolo, in Brasile, dice: “C’ è stato un fatto molto importante in Italia e in Europa in questi ultimi anni: la presa di coscienza dei lavoratori sulla propria oppressione nel mondo del lavoro. È accaduto durante la grande rivolta del 68 […] Voi sapete bene quali sono stati i temi del 68 la lotta contro l’autoritarismo, contro l’oppressione, contro il mondo delle istituzioni […] Si voleva la trasformazione, il rovesciamento della logica del potere, ma in realtà era una lotta contro le istituzioni, dalla famiglia al carcere”92 . Per tal motivo sia Foucault che Basaglia vedono nel sessantotto il momento d’inizio per cui le ricerche storiche del filosofo francese sono entrate in contatto con i movimenti di base, producendo le insurrezioni antistituzionali che hanno portato ad un ripensamento della società e alla possibilità concreta della lotta basagliana contro il potere psichiatrico e istituzionale come forma di assoggettamento del più debole al più forte93.

F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 79-80. 93 Vedi P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia, Ombre corte edizioni, Verona 1999. 92

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Goffman e le istituzioni totali La follia o il comportamento malato attribuito al paziente è, in gran parte, prodotto dalla distanza sociale fra chi giudica e la situazione in cui il paziente si trova e non, principalmente dalla malattia mentale. E. Goffman, Asylums (p. 155)

1) Goffman, la sociologia della vita quotidiana e il teatro della vita Erving Goffman (Mannville 1922 – Philadelphia 1982) conseguì la laurea di primo livello in sociologia nel 1945, presso l’università di Toronto, e la laurea specialistica in sociologia e antropologia sociale nel 1949 all’università di Chicago. In seguito, nel 1953, ottenne il dottorato in filosofia con la tesi dal titolo La vita quotidiana come rappresentazione. Nel 1958 divenne membro della facoltà di studi sociologici dell’università californiana di Berkeley, dove venne promosso a professore ordinario nel 1962. All’interno della sua prestigiosa carriera ebbe anche la possibilità di rivestire il ruolo di presidente dell’American Sociological Association, successivamente negli anni Settanta, dopo aver assunto il ruolo di osservatore scienti-

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fico all’Istituto nazionale di salute mentale a Bethesda, ed aver preso parte ad un comitato per lo studio sulla detenzione, avviò le ricerche che lo portarono alla stesura della sua opera più importante e universalmente riconosciuta Asylum le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961). L’opera costituisce uno dei capisaldi assieme a Folie et Déraison. Histoire de la folie à l’ âge classique di Foucault, per la riforma antistituzionale di Basaglia, che si prese cura della diffusione in Italia del testo, affidano a Franca Ongaro la traduzione e curando lui stesso l’introduzione. Goffman si distinse nella conduzione della propria vita accademica per un comportamento inusuale, infatti non volle mai né scuole né allievi, tanto da essere definito per questo motivo un outsider della sociologia. Nonostante ciò, venne riconosciuto dal mondo universitario come uno dei più acuti osservatori del sociale, capace di addentrarsi nella complessità e nei gesti delle situazioni tipiche della vita quotidiana. Al centro della sua riflessione si colloca l’individuo, che viene indagato nella propria rete sociale fatta di cerimonie, riti e relazioni con gli altri. Scrive su di lui Pier Paolo Giglioli: “Tutta la sociologia di Goffman è un minuzioso tentativo di individuare i rituali che nella società contemporanea affermano la sacralità dell’ individuo”94 . Goffman per queste ragioni diviene il più grande rappresentante di un settore dello studio umano che possiamo definire sociologia della vita quotidiana, cioè di un metodo d’indagine che s’interroga su come si comportino due persone che entrano in relazione, indipendentemente da chi siano o dal motivo per il quale entrano in contatto. Il presupposto fondamentale che sorregge la teoria del sociologo canadese è che gli uomini comunichino continuamente con gli altri non solo a parole o a gesti, ma anche P. P. Giglioli, Introduzione all’edizione italiana, in: E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il mulino, Bologna 1997, p. XV. 94

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col modo in cui si pongono verso l’alterità e in base a come si vestono e scelgono gli oggetti che utilizzano. Per spiegare la propria concezione sul tema della relazione, Goffman fa ricorso alla metafora del teatro, in quanto come l’attore è sempre intento a porre se stesso in scena sul palco teatrale così l’individuo è sempre intento a porsi sul palco della società. Per tal motivo la vita relazionale diviene una rappresentazione che gli attori sociali mettono in scena di fronte ad un pubblico costituito da altri attori sociali. Ciò mette in luce che le persone all’interno della società devono porsi in una determinata maniera e quindi non si rappresenteranno all’altro, nella propria singolarità assoluta, ma nella singolarità mediata dal comportamento socialmente utile. La vita relazionale si divide, così, in spazi chiamati “di palcoscenico” dove bisogna tenere un preciso atteggiamento, derivante da accordi sociali che impongono una precisa rappresentazione e da spazi nominati “di retroscena” cioè momenti privati, in cui gli individui non recitano e si mostrano per quello che effettivamente sono. Secondo Goffman, quindi, la vita con gli altri si fonda sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena, che riducono l’interazione sociale ad un dramma teatrale che si svolge su una scena, dove gli attori-individui cercano di controllare le idee che gli altri si fanno di loro, per presentarsi nella miglior luce possibile e in un modo che sia credibile. Per questo motivo l’io non può essere concepito come un elemento immutabile, poiché esso verrà stabilito dalla situazione contingente che ci si trova a vivere. Gli individui stessi per poter comprendere la situazione contingente che hanno dinanzi e poter così adeguarsi alla situazione, devono utilizzare schemi interpretativi al fine di inquadrare ciò che avviene intorno a loro. Ciò mostra che la vita in comunità si realizza attraverso un uso rigoroso delle categorie e degli schemi prestabiliti che offrono la sicurezza di un’adeguatezza formale al mondo.

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2) L’istituzione totale Goffman avendo teorizzato i due aspetti del comportamento umano che si realizzano uno nello spazio della società ufficiale e l’altro nello spazio della vita privata, fatta di poche persone intime e condividenti spesso la stessa sorte, sceglie di vivere a contatto con i degenti dell’ospedale St. Elisabeths a Washington, evitando contatti con lo staff medico. Compì questo gesto per seguire la convinzione che chiunque si trovi a vivere assieme ad altri in una situazione stabilita quale quella dei detenuti o dei malati mentali, sviluppi una vita densa di significati che può essere colta soltanto se si è presenti sul posto e si condividono le medesime giornate. Questa esperienza d’internamento fece nascere l’opera Asylmus, che divenne famosa per aver dato alla luce l’idea d’istituzione totale, cioè di un luogo dove vivono e lavorano gruppi di persone che condividono l’esperienza di essere tagliati fuori dal mondo normale, trascorrendo il proprio tempo in spazi ristretti e regolati da rigide normative amministrative. “Ogni istituzione si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante […] Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’ impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’ istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzione io le chiamo istituzioni totali”95. Tutte queste istituzioni condividono il carattere di sottomissione dell’attività lavorativa, della sfera privata e delle relazioni E. Goffman, Asylums le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 2003, pp. 33-34.

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sociali in un medesimo luogo e sotto la guida di una medesima autorità, costringendo i degenti a vivere in gruppi più o meno numerosi. Essi vengono creati sulla base di tratti comuni da poter condividere al fine di aiutare lo staff medico, che per tal motivo non dovrà preoccuparsi della disparità di trattamento, ma potrà concentrare sotto un’unica etichetta classificatoria una serie di comportamenti istituzionali. Questi atteggiamenti determinano la regola base di ogni istituzione totale, che consiste nel far presiedere ad un unico piano razionale tutte le attività svolte, in modo che convergano verso le finalità dell’istituzione, che vengono costantemente garantite dallo staff. Goffman mette in luce la situazione spersonalizzante di chi viene costretto ad entrare in un’istituzione totale, quale l’ospedale psichiatrico. Infatti, egli come prima cosa viene a perdere del tutto la dimensione relazionale dello spazio “di retroscena”, poiché perde la cultura quotidiana, che si esprime nel linguaggio, nei vestiti, nei punti di riferimento personali, spaziali e temporali a favore di un nuovo ambiente che crea come unico modo di relazionarsi lo spazio fittizio “di palcoscenico”. Successiva alla perdita di contatto con lo spazio familiare e al primo traumatico contatto con lo spazio istituzionale, si colloca la serie di procedure d’ammissione che segnano la prima pagina di quella che il sociologo canadese chiama carriera morale del malato mentale, che viene rappresentata dalla perdita della propria libertà di espressione e di relazione. La quale si realizza nell’impossibilità di scegliere le persone con cui si vuole entrare in contatto, dovendo quindi sottostare a degli obblighi d’incontro con maschere sociali rappresentate dal medico e dall’infermiere. Per tal motivo subito dopo l’ingresso in queste istituzioni si perde la propria singolarità per essere immessi nel ruolo di malato che rappresenterà la parte sociale da recitare per il resto della vita. “I malati mentali che si ricoverano negli ospedali psichiatrici variano fra di loro nel tipo di malattia, nel

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grado di gravità […] una volta immessi in questa dimensione, si trovano ad affrontare circostanze del tutto analoghe, cui reagiscono in maniera del tutto analoga. Siccome però queste analogie non derivano dalla malattia mentale, si potrebbe dire che si verifichino suo malgrado”96 . Ciò rende coscienti del potere delle forze sociali, infatti la condizione uniforme del malato mentale, determinata dall’istituzione stessa, diviene il fondamento su cui basare il destino di un gruppo di persone, riconosciute uguali nel loro ruolo di non desiderati in società. Questo ruolo porta al completo assoggettamento dell’individuo all’istituzione, che si rende responsabile di violare continuamente l’autonomia dell’azione degli internati, stretti tra regole, orari, intromissioni e internazione costrittiva, proclamando guardiani della sicurezza i membri dello staff medico che non svolgono altra funzione che quella di controllo e sanzione. “Uno dei modi più espliciti di rompere l’economia d’azione di un individuo, è obbligarlo a chiedere il permesso o a domandare aiuto per attività minori, che fuori dall’ istituzione, potrebbe portare a termine da solo […] il dover chiedere non soltanto mette l’ individuo nel ruolo, innaturale per un adulto, di essere sempre sottomesso e supplice, ma mette anche le sue azioni in balia del personale curante”97. In questo modo, all’interno di un’istituzione totale, il diritto ad essere persone viene menomato a fini organizzativi e gerarchici, di controllo e forzata identificazione a regole e meccanismi determinati rigidamente da qualcun’altro. Per tal motivo il degente perde la proprietà del tempo, che viene riempito da attività estranee alla propria personalità e decise arbitrariamente dalla direzione. Così lo scopo primario dell’istituzione manicomiale, che si costituisce attorno alla ricostruzione degli 96 97

Ivi, pp. 154-155. Ivi, p. 69.

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aspetti regolatori del sé, alterati al momento del ricovero, viene alienato da un metodo che mira unicamente ad un’introiezione dei valori dell’istituto da parte del ricoverato. Questa situazione comporta l’impossibilità, una volta tornati nel mondo esterno, della riuscita del processo di riambientamento, poiché esso verrà ostacolato dalla distanza tra i valori dei due ambienti vissuti prima e dopo. Infatti, il cambiamento richiesto all’ex degente per adattarsi ad un nuovo tipo di legge, cioè quella della comunità esterna, avviene proprio nel momento di massima fragilità dell’individuo che si era faticosamente adattato ad una realtà artificiale quale quella ospedaliera facendone propri i valori. Questa uscita comporta, quindi, un nuovo isolamento dentro la sterilità di norme che non appartengono alla vita condivisa dalle relazioni sociali, aggravando la situazione di chi all’uscita dell’ospedale psichiatrico rimane indelebilmente segnato da uno stigma negativo, impresso nell’animo e nella cartella penale, che deve per forza essere celato allo sguardo altrui, ben sapendo che ciò non sarà possibile e rimanendo così confinati nello stereotipo, determinato dall’opinione pubblica, di pazzi socialmente pericolosi. In questo modo Goffman ci presenta la malattia mentale come una struttura di riferimento sociale, condizionata dalle istituzioni che da essa trovano l’esistenza, riferendoci anche del profondo stato di fragilità che circonda il mondo del paziente sempre alla ricerca di un proprio posto nel mondo.

3) Basaglia e il passaggio al metodo sociologico Il merito di Goffman è quello di aver smascherato l’ideologia che sottende alle istituzioni totali, chiarendo la loro natura esclusoria e mettendo in rilievo l’assenza di un’obiettività

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concreta all’interno delle stesse istituzioni nei confronti della realtà della malattia mentale. Sottolineando così lo stretto legame con l’elemento soggettivo e interpretativo di chi definisce e interpreta la malattia. Basaglia è il primo a riconoscere al sociologo canadese questo grande merito e considera il suo lavoro di ricerca un elemento utile per capire come lui stesso afferma che: “Il malato mentale – uno degli out della nostra società – è quasi dovunque segregato e soggetto, in istituzioni che non consentono il minimo contatto con gli in e che sono, appunto, deputate ad impedirlo. Le descrizioni minuziose di Goffman dei modi di sopravvivenza degli internati in queste istituzioni, mettono esplicitamente a nudo le responsabilità delle organizzazioni sociali, deputate a gestire le aree di devianza”98 . Per questo motivo lo studio condotto da Goffman spalanca le porte delle istituzioni totali, portando alla luce l’ideologia scientifica che copre la realtà violenta comune ad ogni manicomio. Questa indagine, non essendo condotta da uno psichiatra, si può dire libera da ogni pregiudizio medico, riuscendo così a trovare il significato razionale e individuale della malattia mentale, il cui senso viene sistematicamente distrutto, all’interno dell’istituzione deputata alla gestione dell’irrazionale e del disumano. Il pregio più grande del lavoro del sociologo canadese è l’aver trovato i caratteri comuni ad ogni istituzione totale, dal carcere, alla caserma al manicomio, facendo così cadere uno dei capisaldi della cultura scientifica sull’alienato mentale. Infatti, esso non può essere affetto da una malattia che distrugge l’intera umanità, se mostra gli analoghi meccanismi di sopravvivenza in istituzioni di chi con la malattia mentale non ha niente a che fare. Per tal motivo viene a cadere F. Basaglia, Postfazione all’edizione italiana: in E. Goffman, Asylums le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 2003, p. 403.

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l’esclusione dalla società dell’alienato per motivi terapeutici e si mette in luce la connotazione puramente economica e politica di tale ritiro. Il pensiero di Goffman riesce così ad aver un riferimento esplicito nel discorso di Basaglia, poiché apre il passaggio dalla fenomenologia alla ricerca sociologica, infatti essa si mostra per lo psichiatra veneziano, l’unica possibilità per far cambiare lato definitivamente alla ricerca della comprensione della follia, che si dovrà instaurare reintroducendo l’esercizio radicale dell’epoché. Per tal motivo Basaglia propone una sospensione radicale e pratica degli effetti dell’istituzione sul malato, esigendo la messa fra parentesi della fede in qualsiasi approccio di tipo specialistico, a cominciare da quello fenomenologico ed esistenziale. “La limitazione del problema alla sola prospettiva sociologica è ciò che può rivelare il ruolo relativo giocato dalla malattia nel processo di istituzionalizzazione del malato mentale […] questo tipo di prospettiva presenta il vantaggio di consentire di avvicinare il problema senza preconcetti o etichettamenti che ne possano falsare il significato”99. Goffman diventa quindi un riferimento essenziale, poiché consente di allargare il problema del malato di mente alla dimensione socio-politica, non rimanendo imbrigliati nel terreno arido della comprensione della malattia da un solo punto di vista medico. Per tal motivo Basaglia propone costantemente un paragone fra il malato mentale e altri esclusi, non dimenticando mai di ringraziare le ricerche del sociologo canadese, che hanno portato alla luce un mondo sommerso senza possibilità di parola. Quest’allargamento pone le basi essenziali per iniziare il lavoro di chiusura dei manicomi, infatti Basaglia prende sempre F. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, pp. 270-271.

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più coscienza che gli psichiatri rappresentino un’incarnazione del potere di esercitare una funzione subalterna di controllo su una forma specifica di devianza dalla norma, cioè dalla normalità psichica. L’unica possibilità per cambiare questa situazione è che i medici prendano coscienza della distanza fra l’ideologia che vede nell’ospedale un puro istituto di cura e la pratica che invece ha ridotto l’ospedale ad un luogo di segregazione e violenza. Questa presa di coscienza segna il punto definitivo di allontanamento dall’ospedale ridotto a puro organismo con cui controllare la devianza dalla norma prestabilita. “Agire in queste istituzioni della violenza, rifiutando la delega di semplici funzionari dell’ordine pubblico, implicita nel nostro ruolo di tecnici, significa svelarne praticamente la logica, dando – a chi vive al loro interno come oggetti contenuti o soggetti contenenti – la possibilità di una presa di coscienza pratica del meccanismo su cui si fondano”100. Con la messa in crisi del manicomio, inizia un lavoro politico di svelamento di una posizione di potere, che parte dalla denuncia della violenza istituzionale fatta a Gorizia e permette allo psichiatra veneziano di mobilitarsi per la difesa della persona e per il fondamento di una nuova istituzione che possa rispondere ai bisogni e ai diritti delle persone in difficoltà. Tramite ciò si è arrivati a svelare il significato puramente ideologico, cioè funzionale a una determinata organizzazione sociale, dell’intera scienza psichiatrica. “L’ indignazione emotiva contro la violenza delle nostre istituzioni repressive dovrebbe portare all’esigenza di una loro trasformazione che risulti adeguata ai bisogni che malattia e devianza esprimono”101. Nasce così l’innovazione del gesto basagliano che si focalizza su una critica teorico pratica della scienza in quanto ideologia, 100 101

F. Basaglia, Crimini di pace, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, p. 92. Ibidem.

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che in termini concreti si realizza attraverso la sovversione del metodo scientifico. Infatti, ciò che la chiusura dei manicomi e il movimento antistituzionale si propone, non è l’osservazione di un malato in un contesto ritenuto ininfluente, ma il far diventare il degente protagonista nella propria cura. Questa situazione può divenire reale solo rimettendo il malato nella propria storia personale e riattribuendogli nuovamente le proprie caratteristiche di essere umano, in modo da consentirgli la possibilità di rivendicare i propri bisogni e denunciare la sua condizione di escluso e stigmatizzato dalla società. Poiché la società affina il proprio potere imponendo un’ideologia che si rappresenta sotto forma di sapere scientifico non contestabile. In conclusione l’indagine di Foucault permette di trovare una ragione storica che possa permettere una critica alle fondamenta delle basi scientifiche della psichiatria e l’indagine di Goffman permette di trovare una ragione politica e sociale alla critica dell’istituzione psichiatrica. Le due critiche messe insieme smascherano il potere insito in un trattamento terapeutico delegato ad un’istituzione dominata da un potere forte e centralizzato, permettendo così le componenti teoriche essenziali alla rivolta pratica conto l’istituzione totalizzante della scienza psichiatrica, che Basaglia opera aprendo la porta dei manicomi.

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Fanon e l’alienazione creata dalla dominazione Quand je cherche l’ homme dans la technique et dans le style européens. Je vois une succession de négations de l’ homme, une avalanche de meurtres. La condition humaine, les projets de l’ homme, la collaboration entre les hommes pur des tâches qui augmentent la totalité de l’ homme sont des problèmes neufs qui exigent de véritables inventions. F. Fanon, Les damnés de la terre (p. 302)

1) Fanon e i dannati della terra Frantz Fanon (Fort de France 1925 – Washington 1961) è un uomo di colore, discendente dagli antichi schiavi trasportati dall’Africa nelle Antille. La situazione di queste persone, malgrado la discriminazione razziale, è ben diversa da quella delle popolazioni delle colonie africane, infatti, nelle Antille si era già sviluppata una borghesia di pelle nera, la quale aspirava più all’assimilazione che all’indipendenza nazionale. La famiglia di Fanon apparteneva a questo nascente ceto borghese, per tal motivo frequentò il liceo e dopo aver preso parte alla seconda guerra mondiale combattendo tra le fila della resistenza britannica prima e poi con quella francese, si iscrisse alla facoltà di medicina a Lione, dove si laureò nel 1951 con una tesi su

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Un caso di morbo di Friedreich. L’anno successivo iniziò a lavorare come psichiatra, prima a Saint-Alban102 assieme all’emigrato spagnolo Français Tosquelles, uno psichiatra al quale Fanon deve molto per l’elaborazione delle proprie teorie sulla terapia sociale. Infatti, Tosquelles sperimentò le prime forme di deistituzionalizzazione e propose una definizione meno rigida della malattia mentale, che tenesse conto del ruolo sociale attribuito al malato e che sarà successivamente rielaborata ed ampliata dallo stesso Fanon. “Saint-Alban grâce à Tosquelles, est un haute lieu de recherche thérapeutique en psychiatrie, alliant aux méthodes somatiques de traitement alors en vigueur la psychothérapie institutionnelle. Il ne s’agit pas de museler la folie mais de la questionner, de l’ écouter pour favoriser une reconstruction. L’ hypothèse à Saint-Alban, très nouvelle pour l’ époque, suppose le vivre ensemble d’ êtres humains, fous et pas fous […] L’espace de la folie est interrogé dans son rapport étroit avec l’aliénation sociale, culturelle aussi”103. Successivamente lo psichiatra di Fort de France si trasferì in Algeria, precisamente ottenne un lavoro nel manicomio di Blida, che era la più importante clinica psichiatrica nel territorio africano. Qui gli venne assegnata la direzione di un intero reparto comprendente 165 donne europee e 220 donne mussulmane. In questo contesto cercò di sviluppare e ampliare le teorie elaborate a Saint-Alban, instituendo fra gli ammalati nuove F. Basaglia si espresse sull’ospedale di Saint-Alban nell’articolo Psychiatrie et politique, diffuso da France-Culture, Paris 7 novembre1978, e contenuto anche nell’opera Dialogues Franco Italiens, Institut culturel italien, 1979 Paris, p. 163, “La lutte contre la psychiatrie et l’asile a commencé en France beaucoup plus tôt qu’en Italie, où elle date des années qui ont suivi la Résistance. Pour moi, l’ épisode marquant en France, auquel tu as participé, c’est l’ hôpital de Saint-Alban, le premier hôpital libéré en Europe, qui a été longtemps un symbole, un emblème de libération pour tous le psychiatres d’Europe”. 103 A. Cherki, Frantz Fanon portrait, Éditions du Seuil, Paris 2000, pp. 36-37. 102

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forme democratiche di convivenza, con l’intento di avviare nei pazienti dei processi di socializzazione che potessero aiutarli ad orientarsi nuovamente nella società. In questa nuova cura sociale, l’accento viene messo nel tentativo di stabilire uno stretto legame fra psicoterapia e educazione politica, essa riscosse molto successo nella cura delle persone europee, ma quando venne applicata ai degenti arabi non ebbe i medesimi risultati. Fanon nell’interagire con queste persone si trovò davanti ostacoli insormontabili, poiché nel quadro del trattamento terapeutico venivano a mancare, per ragioni storiche, le condizioni sociali democratiche in cui i pazienti europei sono abituati a vivere. Per tal ragione inizia un attento studio sulle drammatiche conseguenze dell’oppressione coloniale, che teneva sotto scacco la dimensione sociale e politica di queste persone, e mise così in rilievo le violenze e le torture, che questo sistema recava sulle persone in generale, e principalmente sui pazienti psichiatrici. “La folie est l’un des moyen qu’a l’ homme de perdre sa liberté. Et je puis dire, que placé á cette intersection, j’ai mesuré avec effroi l’ampleur de l’aliénation des habitants de ce pays. Si la psychiatrie est la technique médicale qui se propose de permettre á l’ home de ne plus être étranger à son environnement, je me dois d’affirmer que l’Arabe, aliéné permanent dans son pays, vit dans un état de dépersonnalisation absolue”104 . Dopo tre anni di attente riflessioni sul mondo sommerso dei colonizzati, decide di dimettersi dall’ospedale, dichiarando l’impossibilità di conciliare gli scopi terapeutici della sua professione con il ruolo sociale e politico che, come dipendente dell’amministrazione coloniale, si trovava a ricoprire. Con questo gesto Fanon inizia a confrontarsi direttamente con quella che avverte essere un’urgente necessità di agire, di scegliere conF. Fanon, Pour la révolution africaine, écrits politique, La Découverte, Paris 2001, p. 60. 104

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cretamente e di prendere posizione, rischiando in prima persona. Nel 1956, scoppiata la guerra d’Algeria, entra nel Fronte Nazionale di Liberazione partecipando attivamente alla lotta. Questa scelta gli costa l’espulsione dal paese da parte delle autorità francesi, ma non ne ferma l’impegno politico e l’insegnamento “sul campo” della medicina di guerra. Si stabilisce così a Tunisi riprendendo immediatamente la sua attività lavorativa nella clinica psichiatrica di Manouba e entrando a far parte della redazione di Résistance Algérienne. Organe de l’Armée et du front de Libération Nationale. In questo periodo tenne numerose conferenze nelle università tunisine e finita la guerra, diventò ambasciatore del governo provvisorio della Repubblica Algerina, svolgendo importanti missioni in alcuni stati africani. Per questa sua scelta non ebbe vita facile e riuscì a sopravvivere a numerosi attentati, ma nel 1960 gli fu diagnosticata la leucemia che in un anno lo condusse alla morte. Fanon accorgendosi di non avere molto tempo davanti a sé scrisse la sua opera più famosa Les damnés de la terre, che può essere considerata come una sorta di testamento intellettuale di un pensatore rivoluzionario. L’introduzione del libro fu curata da Sartre, autore stimatissimo da Fanon, ma che rappresentava, a suo avviso, anche il male della Francia, incarnando le vesti di quell’intellettuale pronto a scrivere ed esprimersi, ma non a lottare per le ingiustizie che la sua patria commetteva in terra straniera. Di contro Sartre riteneva che Fanon non solo fosse un abile rivoluzionario, ma sapesse cogliere e descrivere con precisione e accuratezza la realtà sociale e per tal motivo scrisse su di lui: “Quand Fanon, dit de l’Europe qu’elle court à sa perte, loin de pousser un cri d’alarme, il propose un diagnostic. Ce médecin ne prétend ni la condamner sans recours – on a vu des miracles – ni lui donner les moyens de guérir: il constate qu’elle agonise. Du dehors, en se basant sur le symptômes qu’ il a pu recueillir. Quant

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à la soigner, non: il a d’autres soucis en tête; qu’elle crève ou qu’elle survive, il s’en moque. Par cette raison son livre est scandaleux. Et si vous murmurez, rigolards et gênés: «Qu’este-ce qu’ il nous met!», la vraie nature du scandale vous échappe: car Fanon ne vous met rien de tout; son ouvrage – si brûlant pour d’autres – reste pour vous glacé; on y parle de vous souvent, à vous jamais”105. Nell’opera Les damnés de la terre, Fanon analizza le dinamiche inerenti al pregiudizio razziale nei sistemi socioculturali e le conseguenze più drammatiche che esse comportano sia sul piano psichico che su quello relazionale, smascherando una serie di rapporti artificiali, basati sulla forza che animano la vita quotidiana di queste persone. “Les rapports colon-colonisé sont des rapports de masse. Au nombre, le colon oppose sa force. Le colon est un exhibitionniste. Son souci de sécurité l’amène à rappeler à haute voix au colonisé que «Le maître, ici, ce moi»”106 . Quest’opera ha il grande merito inoltre di mettere in rilievo lo strutturarsi del complesso d’inferiorità nel colonizzato e nell’immigrato, che si trovano, loro malgrado, ad interiorizzare il modello del dominatore. Per riuscire in ciò combattono con se stessi, creando delle situazioni al limite della schizofrenia, che provocano alienazione, lacerazione e conducono inesorabilmente alla destabilizzazione del proprio sé e della propria cultura. Questo processo di allontanamento dal proprio sé, si esplicita in un rapporto di dipendenza mentale e di allontanamento dal proprio sé, si esplicita in un rapporto di dipendenza mentale e psicologica, per il quale il nero vuole diventare bianco e l’immigrato vuole assomigliare all’europeo, facendo insorgere un doppio legame che produce il disagio psichico ed esistenziale che mina l’identità profonda del soggetto. J. P. Sartre introduzione all’edizione francese in: F. Fanon, Les damnés de la terre, La Découverte, Paris 2002, p. 19. 106 F. Fanon, Les damnés de la terre, La Découverte, Paris 2002, p. 55. 105

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2) L’alienazione dell’uomo nel colonialismo Fanon si pone come l’autore di una ricerca attiva sulla discriminazione razziale, promossa da tutte le istituzioni della società coloniale, che a suo parere determina il comportamento individuale e sociale del colonizzato tanto nella convivenza con gli altri colonizzati quanto nel rapporto con i padroni coloniali. Le ragioni di ciò sono da ravvisare da una parte nell’effettiva dicotomia del mondo coloniale, caratterizzata da dominio e sfruttamento, dall’altra nell’imposizione della cultura e della civiltà straniera, che sempre si accompagna all’oppressione. “La mise en question du monde colonial par le colonisé n’est pas une confrontation rationnelle des point de vue. Elle n’est pas un discours sur l’universel, mais l’affirmation échevelée d’une originalité posée come absolue. Le monde colonial est un monde manichéiste. Il ne suffit pas au colon de limiter physiquement, c’est-à-dire à l’aide de sa police et de sa gendarmerie, l’espace du colonisé. Comme pour illustrer le caractère totalitaire de l’exploitation coloniale, le colon fait du colonisé une sorte de quintessence du mal […] L’ indigène est déclaré imperméable à l’ éthique, absence de valeurs, mais aussi négation des valeurs. Il est, osons l’avouer, l’ennemi des valeurs. En ce sens, il est le mal absolu. Élément corrosif, détruisant tout ce qui l’approche, élément déformant, défigurant tout ce qui a trait à l’esthétique ou à la morale, dépositaire de forces maléfiques, instrument inconscient et irrécupérable de force aveugles […] Les coutumes du colonisé, ses traditions, ses mythes, surtout ses mythes, sont la marque même de cette indigence, de cette dépravation constitutionnelle”107. Per tale ragione il singolo individuo si trova in conflitto con i propri valori, determinati dalla propria famiglia tradizionale, dalla sua religione, dall’appartenenza ad un determinato grup107

Ivi, pp. 45-46.

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po, che mal si conciliano con i valori che la nuova società straniera pone come obbligatori, instaurando l’insicurezza di comportamento nel singolo. Renate Zahar asserisce giustamente l’importanza del pensiero di Fanon nel chiarire e mettere in luce il disagio psichico dell’emarginato, quindi di colui che é stato dichiarato diverso dalla tendenza normalizzante della società, esprimendosi in questo modo: “l’uomo di colore accoglie largamente le norme straniere suggerite dalla scuola, dai giornali, dai libri, dalla radio, dal cinematografo, dalla pubblicità, e nella campagne anche dalle missioni cristiane. E con ciò fa proprio anche lo stereotipo razzista del colonizzato. A questo dilemma reagisce con iperadattamento, compensazione e infine odio di sé”108 . Da ciò si può capire il rapporto alienante che l’individuo si trova a vivere al cospetto di una società che lo esilia, solo per il fatto di essere se stesso. Infatti, esso non viene considerato più un uomo con i propri diritti, ma diventa una sorta di pedina, da piegare alla volontà di un gioco di potere, atto ad instaurare una norma creata da persone diverse e con problemi differenti. Per tal motivo i sintomi del comportamento alienato si riconoscono anzitutto nel rapporto del colonizzato con le istituzioni e le norme della società coloniale, infatti, esse vengono svuotate da ogni significato e vengono presidiate e messe sotto controllo dalle autorità coloniali, distruggendo così ogni possibilità d’identificazione con il proprio mondo. Un altro importante fattore di emarginazione e di diffusione della norma, viene dai mezzi di comunicazione che minacciano di far dimenticare la storia del paese colonizzato, mirando a far conoscere solo la storia che si svolge in Europa, trasportando quindi anche tutti i valori culturali europei. Si costituisce così una nuova società che esclude del tutto chi non riesce ad adeguarsi e porta alla R. Zahar, Il pensiero di Frantz Fanon e la teoria dei rapporti tra colonialismo e alienazione, Feltrinelli, Milano 1970, p. 56.

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completa alienazione le persone, che si trovano costrette a violentare la propria indole culturale per obbedire a norme che creano solo uno stereotipo del comportamento. Spesso queste persone escluse e emarginate dal mondo ufficiale, si rifugiano in un loro mondo, che nel caso del colonizzato è costituito dal mondo tradizionale pre-colonizzazione. La base comune di questa realtà parallela è costituita da un rifiuto della civiltà coloniale in toto, accompagnata da un’avversione verso tutto ciò che da essa deriva, quindi anche il progresso tecnico. Infatti, per i colonizzati diviene impossibile distinguere fra istituzioni direttamente repressive e istituzioni progressive, poiché ogni misura parzialmente progressiva significa sempre, un effettivo sfruttamento economico delle forze di lavoro locali e si accompagna sistematicamente al razzismo e all’oppressione. In questo quadro si possono leggere le resistenze della popolazione indigena verso i colonizzatori, che non portano un nuovo mondo e delle nuove speranze, ma cercano solo di instaurare con la forza l’idea del loro mondo. Chi non riesce ad adattarsi ad un luogo d’esistenza che non è il proprio, ma viene imposto da altri, diventa l’individuo socialmente pericoloso e degno di essere emarginato e recluso. Le istituzioni, prima fra tutte la medicina psichiatrica, assolvono questo compito, legittimando l’atto di esclusione dalla società. Per tal motivo si può spiegare come in tutti i paesi colonizzati emerga una netta resistenza alla medicina moderna, poiché essa rappresenta l’incarnazione della struttura di potere che vuole l’allontanamento dal sé, al fine di una maggior sicurezza sociale. Inoltre, nelle società tradizionali l’esercizio della medicina come magia s’identifica con l’esercizio del potere pubblico, quindi soverchiare le usanze mediche locali con l’imposizione di ospedali, vuol dire instituire un nuovo polo di potere. Per tal motivo gli psichiatri e tutti i medici non potranno essere considerati come dei guaritori, ma solo come dei funzionari delle

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istituzioni del nuovo mondo. Fanon all’interno delle sue opere mostra così il carattere politico e di potere che la psichiatria riveste, poiché essa viene investita nei paesi occidentali, del compito di escludere ed emarginare gli individui, che non si piegano alle loro norme. Le stesse norme, divengono il carattere fondamentale dell’alienazione totale verso il proprio io, che non riesce a formarsi come pura soggettività, ma deve piegarsi verso un’individualità stereotipata e imposta dal potere dominante. Per questo motivo Fanon interpreta l’atteggiamento antiprogressista dei colonizzati, come l’inconsapevole reazione di difesa dell’individuo, che rifiuta in blocco il colonialismo, e teme, facendo qualche sporadica concessione, di manifestare un tacito consenso all’oppositore. Questa costruzione sociale di lotta e contro lotta per l’appropriazione di se, determina un gran numero di malattie psicosomatiche, infatti, è stato provato dallo stesso Fanon che le persone che vivono sotto il dominio delle imposizioni esterne, lamentano spesso dolori vaghi e non ben localizzati, che spesso vengono attribuiti alla regione epigastrica, ma che non spariscono nemmeno dopo una cura adeguata. Questa situazione dimostra la profonda crisi dell’uomo, nel dover interiorizzare norme di vita, non dettate da se stesso e che sono per lui incomprensibili e inconciliabili con il proprio mondo. Si può quindi, ben vedere come gli sforzi intellettuali di Fanon mirino ad evidenziare e comprendere le zone d’ombra del potere coloniale, così come si possono rintracciare da un lato nei luoghi della cura e conseguentemente nel linguaggio che le istituzioni, e quindi anche la psichiatria utilizzano. Questo linguaggio, non diviene fonte di libertà, ma solo di oppressione, instaurando conseguentemente il complesso d’inadeguatezza nell’uomo nero, verso l’uomo bianco, che spesso porta al rifiuto di sé. La psichiatria diventa quindi una sorta di tirannia che mira unicamente a immettere le norme imposte nella testa di quelle persone che non sono riuscite a farlo da sole.

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3) Basaglia e l’importanza della parola nell’azione antiistituzionale L’operato di Fanon costituisce un importantissimo riferimento per Basaglia, poiché lo psichiatra delle Antille si pone come uno dei principali critici della psichiatria manicomiale europea, che gli appare nient’altro che uno strumento d’istituzionalizzazione del colonizzato, del tutto funzionale all’ordine coloniale. Per tal motivo per guardare al degente ricoverato nel manicomio, bisogna prima di tutto abolire la pretesa totalizzante dell’istituzione e capire il reale problema dell’alienazione, che il dominio del medico crea sul malato. Infatti, all’interno degli ospedali psichiatrici, il paziente si trova ad essere un puro emarginato e il suo problema mentale può solo risentirne di questa situazione. Fanon individua quindi nell’istituzione psichiatrica il male della prassi terapeutica, costituita su un forte potere escludente e si batte perché le persone emarginate possano ottenere il diritto della parola. Per tal motivo per Basaglia, Fanon diventa il modello dell’anticarriera istituzionale dello psichiatra, ossia della sua autodistruzione come soggetto della conoscenza e della sua ricostruzione come testimone della condizione di escluso, oppresso e di colonizzato del malato mentale. “La carriera di Frantz Fanon sembra indicarsi una via che egli ha concluso, concretamente, con la sua partecipazione alla “rivoluzione africana”. Frantz Fanon ha seguito, nella sua breve vita tutto l’ iter istituzionale che il sistema gli consentiva: da brillante psichiatra impegnato nel centro di Saint-Alban, a psichiatra di colore con malati di colore ad Algeri, nel periodo della guerra di liberazione. È qui che, evidentemente, Fanon chiarisce la sua posizione di psichiatra politicizzato, realizzando che il rapporto fra medico e malato (così come il rapporto fra bianco e negro, quindi fra chi ha il potere e che non ne ha) era sempre

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un rapporto istituzionale in cui i ruoli erano stati definiti dal sistema”109. Basaglia, quindi, concorda pienamente con Fanon nel definire l’atto terapeutico classico, come un fatto di accettazione silenziosa del sistema istituzionale, e vede nella scelta della via rivoluzionaria l’unico modo per poter agire al di fuori delle istituzioni. Per questo motivo lo psichiatra deve abolire se stesso, se vuole davvero fare lo psichiatra, diventando il testimone dell’esperienza degli internati. Sempre per tale ragione deve lottare al loro fianco per far insorgere il loro sapere contro la gerarchia imposta dall’astratta globalità dei discorsi scientifici. In questa maniera lo psichiatra veneziano asserisce ancora una volta che la scienza non può essere la soluzione finale e totalizzante ai problemi psichici e quindi deve essere messa da parte. Ciò non vuol dire cancellare la dimensione terapeutica, ma metterla fra parentesi come risposta di tipo specialistico, che non coglie la vita individuale delle persone. Tale atteggiamento, tiene, però sempre aperta la domanda se sia davvero possibile rompere il cerchio dell’istituzione e mettere in rilievo il limite della norma attraverso il rovesciamento di una scienza che non sia, esplicitamente una scienza di classe. Infatti Basaglia comincia un’impasse teorica e pratica che non ha niente a che fare con le dissertazioni scientifiche a cui la psichiatria ci ha abituati, ma diviene il tentativo di capire in che modo un’azione antistituzionale può concretamente incidere sulla struttura, e soprattutto fino a che punto essa possa realmente soverchiarla e creare qualcosa di nuovo. Ciò che Basaglia vuole capire è se davvero il movimento antistituzionale può essere la risposta ad una scienza, quale la psichiatria, che dimostra un carattere totalizzante e che non rispecchia il mondo della vita psichica, o F. Basaglia, Il problema della gestione, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, pp. 172-173.

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se essa sia solo una nuova utopia del terapeuta, che gli consente di sopportare maggiorante il mondo manicomiale, ma senza poter intervenire concretamente. Per effettuare questo ragionamento parte dalla considerazione che la carriera istituzionale è ciò che chiude ciascuno nel cerchio della propria competenza, imprigionando irrimediabilmente chiunque tenta di uscirne, poiché viene inserito automaticamente in un’altra istituzione. Dal ragionamento dello psichiatra veneziano sembra che le istituzioni assorbano l’intero mondo del reale e qualunque tentativo di evasione da esse possa essere un atto senza speranze, poiché ogni movimento è in qualche modo regolato da un tipo d’istituzione. L’operato di Fanon viene lodato da Basaglia, proprio per la possibilità di evasione dalla norma che ha offerto, infatti scrive: “Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione. Noi, per evidenti ragioni obiettive, ne siamo impediti. La nostra realtà è ancora continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’ istituzione che neghiamo, facendo un atto terapeutico che rifiutiamo, negando che la nostra istituzione – diventata per la nostra stessa azione un’ istituzione della violenza sottile e mascherata – non continui ad essere solo funzionale al sistema; tentando di resistere alle lusinghe delle sempre nuove ideologie scientifiche in cui si tende a soffocare le contraddizioni che è nostro compito rendere sempre più esplicite; consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler fare esistere dei valori mentre il non-diritto, l’ ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo sono eretti a principi legislativi”110. In tal maniera il discorso politico di Fanon acquista una valenza fondamentale, perché permette di rimetter in gioco il sistema, di credere nella possibilità di costruire un luogo davvero terapeutico, che possa porre al centro della propria struttura la 110

Ivi, p. 174.

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comprensione dell’altro, nella propria singolarità inalienabile. Per questo motivo Basaglia asserisce che l’atteggiamento antistituzionale deve essere il fondamento per la costruzione di una nuova psichiatria, che deve porsi come propria base fondante il rifiuto del mandato sociale, cioè deve come lui stesso scrive: “rifiutare l’atto terapeutico qualora tenda solo a mitigare le relazioni dell’escluso nei confronti dell’escludente”111. L’unico modo di realizzare l’incontro con il malato è di giungervi disarmati, senza strumenti, senza difese, avendo operato il vuoto di ogni sapere, vecchio o nuovo, tradizionale o innovativo. In questo modo si potrà sfruttare l’occasione fornita da questo vuoto ideologico e istituzionale, per comprendere realmente l’altro e vivere pienamente il momento felice della sospensione e dell’incertezza dinanzi alla persona malata, che solo può regalare la possibilità di confronto con la realtà individuale. La parola costituirà così l’elemento fondamentale per poter realmente interagire con il paziente, che dovrà esser valutato perciò che dice e non perciò che non dice. Per tal ragione la comunicazione diventa il modo per evadere dalla realtà precostituita dell’istituzione, assumendo così rilevanza fondamentale nel rapporto con il malato, consentendo di aggirare la norma e rendendo finalmente giustizia alle diverse identità che mai dovranno cessare di essere diverse.

F. Basaglia, Le istituzioni della violenza, in L’ istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Baldini e Castoldi editori, Milano 1998, p. 117. 111

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Laing e l’incontro con l’altro È estremamente facile per la psichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello: un metodo per produrre, mediante torture preferibilmente non dolorose, degli esseri dalla condotta ben adatta. R. Laing, L’ io diviso (p. XXVIII)

1) Laing e il valore delle parole nell’incontro con l’altro Foucault, Goffman e Fanon hanno il merito di condurre Basaglia verso la comprensione del ruolo di escluso ed emarginato che il malato mentale svolge nella società. Tramite questi riferimenti l’analisi basagliana può mettere l’accento sul ruolo dello psichiatra, dell’istituzione e del condizionamento derivante dalla struttura di ricovero, potendo così trovare il vero insieme che muta e condiziona la patologia mentale. Per tal motivo le ricerche condotte dallo psichiatra veneziano hanno il merito di non essere più un’indagine ingenua, ma porranno sempre riguardo alla sfera sociale, economica e politica. Si compirebbe un errore nel ritenere che ciò a cui miravano tali sforzi intellettuali e pratici fosse unicamente un riforma politica; non

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bisogna mai dimenticarsi, infatti, che Basaglia prima di tutto era un medico e come tale mirava ad una possibile comprensione dell’altro, al fine di aiutarlo nel momento di fragilità data dall’immersione nello stato psicotico. La politica, non diviene così il fine, ma il mezzo, che può aiutare a creare l’occasione per rendere possibile l’incontro con i degenti, per tal motivo guarda con piacere alle opere di Ronald Laing. Egli era uno psichiatra scozzese nato a Glasgow nel 1927 e morto a Saint-Tropez nel 1989, iniziò i suoi studi medici dopo il secondo conflitto mondiale, sviluppando da subito un forte interesse verso la psicoanalisi e l’analisi esistenziale, tanto che lui stesso descrive le sue prime opere come trattati di psichiatria esistenziale. Gli autori che maggiormente lo ispirarono furono Sartre, Merleau-Ponty, Binswanger e Jaspers con il quale intrattenne un fitto dialogo epistolare. Nel 1953 lavorò all’ospedale di Glasgow, in seguito lavorò alla Tavistock Clinic e nello stesso tempo assunse le competenze necessarie per esercitare la professione di psicoanalista oltre che quella di psichiatra. Nel 1965 fondò assieme a David Cooper e ad Aaron Esterson la Philadelphia Association, che aveva come scopo la creazione dei luoghi di accoglienza per i pazienti schizofrenici. Il suo lavoro partì dalla convinzione che è possibile capire gli psicotici, e lo si può fare solo mettendo in crisi i dogmi del discorso psicopatologico, come quello dell’incomprensibilità schizofrenica. Affidandosi così all’indagine fenomenologica-esistenziale, che sola poteva permettere la rifondazione di un sapere che potesse rendere comprensibile la pazzia e i processi stessi che a essa conducono. Il problema fondamentale della psicopatologia descritta da Laing sono le premesse deformanti, quali la necessità di ricondurre tutto ad una psiche, confermando il dualismo tra psiche e corpo, riducendo così l’umano ad un puro oggetto di cura. Laing si schiera contro un tipo di psichiatria come quella organicista che crea dei dialoghi impossibili tra ragione medi-

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ca e follia. Per tal motivo afferma che non ci potrà mai essere dialogo tra uno psichiatra e un paziente, quando lo psichiatra si porrà solo in maniera scientifica, cercando nel linguaggio del malato, unicamente i segni di devianza, senza cogliere la sua situazione esistenziale. Da ciò, nasce la sua critica alla nozione d’incomprensibilità schizofrenica tramandata dalla psichiatria classica, che porterà quella che sembra essere un’inaccessibilità al mondo del paziente ad essere unicamente un’incapacità dello psichiatra di entrare in contatto con lui. Ne segue che l’incomprensibilità schizofrenica diventa una conseguenza di un approccio medico di tipo puramente clinico, che coglie le ragioni esistenziali di un determinato atteggiamento. Laing non asserisce nulla di nuovo o completamente rivoluzionario, ma dona la possibilità pratica di entrare in contatto con l’altro, sospendendo i dogmi medici della psichiatria. Infatti, l’altro dovrà sempre essere posto prima di tutto nel suo essere uomo, poiché questo stato non abbandonerà mai l’individualità, neppure se essa è affetta da malattia mentale. Si capisce così l’importanza che lo psichiatra scozzese riveste nel mondo della cura alla malattia mentale, poiché non si ferma a teorizzare la possibilità di un incontro, ma si cimenta nella possibilità concreta della relazione, scoprendo in materia di salute mentale, la situazione inalienabile e fondamentale di collaborazione fra malato e medico. Laing pone così il problema dell’alienazione mentale sotto un nuovo punto di vista, riducendo molti dei suoi esiti ad un puro problema di comunicazione e relazione. Smascherando il valore normativo che si cela dietro le parole, infatti scrive all’interno dell’opera L’ io diviso: “Nel contesto della follia che attualmente ci circonda, e che chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri sistemi di rifermento sono destinati a restare ambigui ed equivoci. Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale; ma uno che dice di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice che gli uomini sono mac-

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chine può essere un grande scienziato, ma uno che dice lui stesso di esser una macchina è, nel gergo psichiatrico lui stesso spersonalizzato. Un uomo che dice che i negri sono una razza inferiore può ottenere stima o rispetto; ma uno che dice che la bianchezza della sua pelle è una forma di cancro perde i diritti civili”112 . In questo modo trova la falla insita nel mondo della pratica psichiatrica, portando alla luce il valore primario, conferito alle parole per decidere sulla normalità della mente umana e criticando apertamente il successivo ruolo di secondaria importanza attribuito ad esse nella prassi terapeutica. Ne segue, che il vero contatto umano, creato su un dialogo libero che dia importanza a tutte le parole, sarà l’unica base su cui fondare una reale procedura, che miri al ripristino del regolare funzionamento della psiche turbata. Per tal ragione nel capitolo intitolato Le basi per la conoscenza della psicosi all’interno dell’opera L’ io diviso, riporta la descrizione fatta da Kraepelin nel 1905, della presentazione in aula, davanti a un pubblico di studenti, di un giovane paziente e conclude: “Questo ragazzo pare tormentato e disperato. Che cosa vuole parlando e agendo in questo modo? Protesta perché lo misurano e lo visitano. Protesta perché vorrebbe, invece, che lo ascoltassero”113. Laing smaschera così il ruolo di non-terapeuta dello psichiatra che non si cura di risolvere il problema che affligge il paziente, ma cerca di capire come ridurlo alla norma che è determinata socialmente, senza preoccuparsi di entrare in contatto con lui e di dare un giusto peso alle parole. In questa maniera le analisi sociologiche di Goffman, trovano un riscontro pratico da parte di un medico, che sottolinea come il suo lavoro sia finalizzato solo al cogliere la miglior maschera sociale da imporre con la forza ad una persona che chiede solo di essere ascoltata. 112 113

R. Laing, L’ io diviso, Einaudi, Torino 2001, p. XXVIII. Ivi, p. 21.

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2) La famiglia e l’incontro autentico Laing ha il merito di portare alla luce il rapporto dialettico inesistente all’interno della relazione istituzionale tra medico e malato, in questa maniera mette in crisi uno dei capi saldi della società. Infatti, chiunque si presenti dal medico, maggiormente se esso si occupa di malattie particolari come possono essere quelle mentali, richiede di essere ascoltato e solo dopo quest’azione, richiede al terapeuta di porre rimedio in qualche maniera alla sua disfunzione. Per tal motivo per tutte le persone, in casi particolari come quello psichiatrico, la comprensione viene prima di ogni intervento puramente clinico. Laing, dopo aver messo in questione il ruolo del medico, decide di condurre delle analisi sul ruolo della famiglia, poiché è convinto che l’individuo non possa essere realmente capito, se non si analizzano i rapporti primari d’interazione con i componenti familiari e quindi con il proprio mondo. La famiglia rappresenta il primo contatto con la realtà di ogni uomo e spesso diviene la fonte d’interazione fondamentale all’interno della propria vita. Così lo psichiatra scozzese nel 1969 dà alla luce l’opera La politica della famiglia. Il punto di partenza di quest’analisi è la presunzione da parte delle persone di conoscere bene questa realtà, poiché ogni individuo vive in una famiglia e da grande ne forma un’altra. In realtà, per Laing la famiglia è una sorta di fantasma, un sistema spazio-temporale che viene interiorizzato reciprocamente in base all’educazione e a quelli che Freud chiamerebbe i fattori di civiltà che aiutano a orientarsi nel sistema mondo, ma che tengono sotto controllo fantasia, libertà, spontaneità e alcune delle strade per raggiungere la soddisfazione interiore e la felicità. Nel momento in cui nasce un figlio, esso si trova immesso in una struttura formata da persone adulte, che hanno già un percorso di vita e che creano un microcosmo partecipativo, che

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porterà il bambino a percepire e interiorizzare l’atmosfera, i suoni, i colori e i rumori in un determinato modo. Per tal motivo l’individuo subisce diverse metamorfosi, a seconda degli ambienti in cui si trova a vivere. “Ne segue che la preservazione della famiglia è assimilata alla preservazione dell’ io e del mondo, e che la dissoluzione della famiglia all’ interno di un altro è assimilata alla morte dell’ io e al crollo del mondo […] in un modo o nell’altro l’ombra della famiglia oscura la visone del singolo. Fino a che non si riesce a vedere la famiglia in se stessi, non si riesce a vedere né se stessi né alcuna famiglia con chiarezza”114 . Dunque, se si vuole considerare realisticamente la situazione esistente di ogni individuo, occorre anzitutto prendere atto che non è mai una cellula indipendente, ma è inserito all’interno di un meccanismo intercellulare, dotato di sistemi di autodifesa, organizzati e coesi, che influenza profondamente i propri componenti, fino a far parte di essi. Per tal motivo l’io e la famiglia sono collegati automaticamente dalla nascita, così non comprendendo questo sfondo, non si comprende l’individuo. Si tratta in altri termini dell’orizzonte inevitabile, non mero accadimento, ma fonte nutritiva delle funzioni esistenziali dell’individuo che arriverà solo in un secondo momento a costituirsi come tale, proprio quando sarà riuscito a guardarsi in faccia e a capire la presenza in se stesso delle ramificazioni interiorizzate dal sistema famiglia. Per tal motivo, lo psichiatra scozzese afferma che in ogni relazione clinica, si deve scoprire, capire e non farsi trascinare dai pregiudizi, quindi se non si collega il paziente alla famiglia di provenienza, si rinuncia ad analizzare uno dei fattori assolutamente determinante per comprendere il caso clinico. R. Laing, La politica della famiglia. Le dinamiche del gruppo familiare nella nostra società, Einaudi, Torino 1973, p. 18. 114

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L’istituzione manicomiale non s’interessa delle dinamiche e ai reali problemi di una persona, ma fa in modo di stereotiparle, incollando delle etichette, che spesso possono pregiudicare la guarigione di un soggetto. Si può prendere ad esempio il caso di un ragazzino minorenne, che non potrà rivelare nulla di sensato, se non si prendono in esame le relazioni con i genitori, e si cerca di individuare la reale visione del mondo che essi hanno contribuito in maniera importante a formare nel bambino. Solitamente la psichiatria classica non si cura di queste relazioni e si limita a definirlo paziente affetto da schizofrenia, ciò crea la possibilità che a lungo termine il ragazzino s’identifichi nella patologia che gli è stata diagnosticata e si autoconvinca di soffrirne interiorizzando inconsciamente i sintomi. Laing sottolinea la necessità e il dovere di ascoltare tutti i componenti della famiglia, prima di iniziare una psicoterapia con il paziente, perché le parole contano più di ogni sintomo fisico e la comprensione di esse può avvenire solo quando si capiscono le connessioni che creano il mondo proprio. Inoltre la diagnosi di patologia mentale, comporta sempre un trauma che va al di là della sfera del singolo, coinvolgendo la famiglia intera. Per tal ragione lo psichiatra non può svolgere solo una funzione medica, ma dovrà saper mediare socialmente, diventando una sorta di relatore sociale, nel senso che dovrà tenere sempre in considerazione il peso delle parole che pronuncia al paziente e soprattutto gli effetti che esse comportano alla famiglia del malato. “Supponiamo che la nostra diagnosi di una situazione sia: questa è una crisi sociale dovuta al fatto che questo ragazzo si è ammalato di schizofrenia. Noi dobbiamo curare la schizofrenia del ragazzo, e l’assistente sociale deve aiutare i parenti ad affrontare un caso di malattia mentale e così via. Questa non è semplicemente una diagnosi medica: è una prescrizione sociale”115. 115

Ivi, p. 47.

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Laing lamenta così una scarsa preparazione degli psichiatri, che non si rendono realmente conto di quello che riescono a provocare ad un intero nucleo familiare, ritenendo di non dover imparare più di quello che c’è scritto nei loro libri sulla malattia come deformazione biologica. Viene così proposta una sorta di lavoro di liberazione del paziente, poiché se esso non verrà capito nei propri contesti esistenziali, primo fra tutti quello familiare, non si riusciranno mai a capire le sue parole e quello che esse ci rivelano sulla malattia, rendendo la patologia una sorta di camicia di forza che non consente di vedere la realtà degli accadimenti psichici. Da ciò nasce la critica radicale alla psichiatria classica che pone Laing all’interno del mondo antipsichiatrico, che prende vita dal presupposto che gli interventi praticati non fanno altro che stringere la camicia somministrando elettroshock, letto di contenzione, coma insulinico e farmaci. Ne segue che per lo psichiatra di Glasgow gli psichiatri, gli psicologi, gli infermieri e gli operatori sociali considerano, curano e osservano i loro pazienti in una situazione che si può definire di cattività, etichettandoli come malati e ottenendo la cronicizzazione anziché l’inizio della guarigione. Infatti, scrive nel saggio Considerazioni sulla psichiatria116: “Psichiatria. La parola significa cura della psiche. Quando si pensa alla psichiatria si può scegliere tra pensare a ciò che è realmente la cura della psiche, oppure a ciò che fanno le persone che noi chiamiamo psichiatri oggi. Francamente non penso che ci siano molti psichiatri che siano psichiatri – nel senso originale del termine. Non credo di poter chiamare realmente psichiatria la maggior parte di ciò che passa oggi sotto il nome di psichiatria o di trattamento psichiatrico”117. Saggio contenuto nell’opera Crimini di Pace, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009. 117 Ivi, p. 316. 116

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Per Laing la psichiatria, come tutte le componenti della cultura e del sapere, deve assumere un’impostazione reale, di confronto con persone e problemi, liberandosi così dai blocchi intellettualistici, che la tengono irrimediabilmente lontana dalla quotidianità, rendendola incapace di comprendere il mondo della vita. In questa prospettiva, la parola risulta il metodo più efficace per entrare dentro questo rapporto, perciò la psicoanalisi viene colta da Laing come l’esperienza autentica che mira ad eliminare tutte le resistenze, le maschere e le difese per consentire di vivere un incontro autentico con un altro essere umano, esperienza di cui tutti, compreso l’alienato mentale, sentono il profondo bisogno, in quanto persone. Da tale discussione sull’importanza dell’incontro con l’altro, emerge il grande contributo che le teorie di Goffman, sempre presenti nelle riflessioni di Laing, hanno portato all’individuo sofferente, inserito in un determinato ambiente che rappresenta, a sua volta, la luce con la quale analizzare la malattia per scoprirne l’autenticità o meno. In tal maniera ciò che risulta incomprensibile da una lettura tradizionale, diventa chiaro grazie all’adozione di strumenti non meramente medici, ma allargati alle diverse situazioni vissute nella quotidianità delle persone che si ritengono portatrici di un disturbo mentale, e la parola sarà la chiave fondamentale per comprendere l’altro nella profondità delle sue sfaccettature.

3) Basaglia e l’avvicinamento alla comunità terapeutica Il discorso di Laing ha il merito di far riflettere Basaglia sul tema dell’incontro con l’altro, che rappresenta la tematica fondamentale per la comprensione della diversità. Lo psichiatra

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scozzese ha il merito di intuire che prima di ogni altra cosa il paziente è un uomo, e come tale ha bisogno di essere capito. Per comprendere l’altro bisogna, quindi entrare in rapporto attraverso la condivisione di un dialogo, che deve sembrare il più soddisfacente possibile, per chi deve confidare le origini del proprio male. Basaglia concorda con le posizioni di Laing e sostiene che l’intervento psichiatrico non può fermarsi al contenuto di un conflitto, colto come atto unico, ma deve considerare la forma e la situazione di vita nel suo complesso, cioè deve guardare al conflitto protratto nel tempo che logora la struttura esistenziale dell’individuo e la sua sfera affettiva. Per tal motivo, la psicoterapia, intesa come il parlare con il paziente e renderlo uomo all’interno dell’istituzione, costituisce l’elemento essenziale nell’interazione psichiatrica. Ne segue che l’intervento psicoterapeutico sia la via prediletta da Basaglia, poiché consente di prendere coscienza della situazione esistenziale del malato, senza rinnegare quei diritti primari, che gli devono essere riconosciuti in quanto uomo. La famiglia e l’amore si costituiscono come la seconda tappa fondamentale per ogni entità che voglia sentirsi accettata. Per tal motivo, lo psichiatra deve superare lo scoglio dell’incomprensibile, approfondendo il rapporto con l’alterità e con le relazioni che legano essa alla sua esistenza familiare e affettiva. Infatti, l’altro dovrà essere inteso non solo come l’alterità sociale, ma anche come l’altro che noi rappresentiamo per noi stessi, cioè l’altro che noi siamo. Di conseguenza, il pericolo che colpisce la psichiatria è la possibilità di non riuscire a creare una situazione terapeutica che si possa adeguare al reale della persona, con conseguente mancata accessibilità ad un incontro che riesca a mantenere la dimensione concreta di libera espressione dell’esistenza. L’incontro autentico potrà avvenire solo quando l’individualità dei partecipanti all’incontro verrà liberamente messa in gioco, costituendo così la possibilità di

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una dimensione realmente calata nei problemi che pressano l’esistenza. “Per reale, come abbiamo brevemente accennato all’ inizio, non s’ intende l’ insieme delle percezioni quotidiane che costituiscono una realtà comune a tutti gli individui, bensì il modo in cui questo mondo percettivo viene organizzato, come è vissuto e colorito e come da impersonale diventa personale, mio, in quanto adatto e inserito nel vissuto. Mentre quando si parla di realtà, ci si riferisce soltanto ad una realtà percettiva e non ad una realtà di sentimento, così che ci si limita ad un solo aspetto del reale. La mancata conversione della realtà percettiva in realtà di sentimento caratterizzerebbe, dunque, il disturbo fondamentale dello schizofrenico”118 . Per tal ragione l’unico modo di curare realmente il malato è ricostruire la sua storia di vita, poiché solo essa potrà permettere di toccare il paziente sul punto dolente del suo fallimento esistenziale e riuscirà, così, a creare le possibilità di un suo inserimento nel mondo della vita. La famiglia diventa quindi il punto di partenza e di ritorno, perché il degente dell’ospedale non deve essere tenuto lontano da tutti i suoi cari, ma deve essere a contatto con loro, per aver la possibilità di reinserirsi nel sistema famiglia, che si pone come difesa e garanzia verso le angherie cha la società può portare. Per tal ragione Basaglia utilizza le indagini di Laing, per avvicinarsi all’idea che l’uomo può essere aiutato, solo se si presta una totale attenzione al suo campo reale di vita e quindi, il nucleo famigliare deve essere il fondamento di questa nuova relazione. Lo psichiatra veneziano comincia, così, ad avvicinarsi alle idee di Maxwell Jones, che riteneva che un malato potesse essere aiutato più da chi come lui condivideva la stessa sofferenza, F. Basaglia, In tema di pensiero dereistico, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, pp. 130-131.

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che da mille medici. Per tale ragione si fa largo nella mente di Basaglia la possibilità di non trattenere il paziente nelle anonime mura di un ospedale, ma di lasciarlo all’interno della sua casa, che gli può fornire l’amore e la comprensione di persone che lui stesso ha scelto e che non sono imposte da nessuna autorità. In questo ragionamento, che da il via alla chiusura dei manicomi, si vedono le profonde influenze di Goffman, che ha il merito di aver mostrato l’importanza del luogo in un processo di cura psichiatrica, mettendo in luce come lo stesso luogo possa aiutare a produrre la patologia mentale. La riflessione di Goffman, viene da Basaglia incorporata all’azione pratica e ideologica di Fanon, che mostra il carattere d’alienazione che l’emarginazione comporta e da quella di Laing, che pone le basi di quello che deve essere il nuovo ospedale. Laing ha il grande merito di focalizzare la propria attenzione sul ruolo che la parola riveste nel tentativo di un incontro reale, dando dignità alla psicanalisi come strumento di cura. Basaglia, nel proprio processo di riforma umana dell’istituzione manicomiale, apprende il carattere escludente della stessa, da tutti questi grandi pensatori e comincia così la sua crociata verso la costruzione di un ospedale che si basi su fondamenta umane, in cui le differenze di ruolo non giochino un’importanza assoluta nella cura psichiatrica. Questo spazio terapeutico non deve, quindi, trasformarsi in un luogo discriminatorio o di allontanamento dalla vita sociale e deve permettere un incontro autentico con il paziente. Prende vita così, l’idea di guardare verso le nuove forme di ospedalizzazione, che Maxwell Jones ha realizzato in Inghilterra. Esse sembrano la risposta ad un fallimento della psichiatria classica e il tentativo meglio riuscito di rinnovamento terapeutico, per poter dar vita ad un luogo che possa permettere una vera cura della malattia mentale.

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Maxwell Jones e il superamento del manicomio L’accento posto sulla libera comunicazione sia all’ interno dei gruppi sia fra i gruppi di pazienti e lo staff, nonché sugli atteggiamenti permissivi che incoraggiano la libera espressione dei sentimenti, implica un’organizzazione sociale democratica, egalitaria piuttosto che una tradizione gerarchica. M. Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale (p. 80)

1) Maxwell Jones e le origini delle comunità terapeutiche La nozione di comunità terapeutica apparve per la prima volta nel 1946, quando Tom F. Main utilizzò questo termine in un numero del Bullettin of the Menninger Clinic, dedicato ai progressi della psichiatria postbellica realizzati al Northfield Hospital da Wilfred R. Bion che nel 1943 aveva organizzato in modo comunitario un gruppo di soldati affetti da nevrosi. Nel 1959 Maxwell Jones, uno psichiatra inglese, divenne direttore del Digelton Hospital a Melrose in Scozia, ciò gli permise di lavorare e rivisitare il concetto di comunità terapeutica creato da Wilfred e sperimentato in età giovanile da lui stesso, diventando così il padre fondante di un nuovo approccio alla malattia mentale.

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Jones fu uno psichiatra di formazione medica tradizionale, con interessi per la medicina psicosomatica e il suo punto forte furono delle ricerche di fisiologia del dolore connesse all’ansia. Egli si trovò durante gli anni della guerra a lavorare alla Mill Hill School, dove alcuni pazienti del Maudsley erano stati evacuati sotto l’incalzare dei bombardamenti tedeschi. Si trattava prevalentemente di soggetti giovani, in maggioranza uomini, affetti da quella che, ai tempi, si definiva “sindrome da sforzo” che aveva provocato un certo numero di vittime durante la prima guerra mondiale. Jones si rese conto ben presto che i pazienti, più che dal suo approccio scientifico, apprendevano molto della propria situazione, se venivano completamente coinvolti in un’interazione reciproca e in discussioni con lo staff. Per tal motivo istituì per la prima volta nel campo della medicina psichiatrica delle riunioni in cui i degenti potessero confrontarsi. “Le riunioni quotidiane della comunità creano, sia nei pazienti sia nello staff, una crescente consapevolezza circa la natura del comportamento anomalo e dei fattori che lo predispongono”119. L’intento era quello di sollecitare i pazienti ad una partecipazione responsabile che, secondo Jones, aumentava la stima di sé e consentiva a ciascun membro del gruppo di apprendere le percezioni e i sentimenti che stavano dietro i comportamenti di ciascuno. Ciò permise ad essi di aiutarsi a vicenda, spronandosi e consigliandosi sugli andamenti da tenere per sopportare la situazione che li aveva colti. Ogni riunione era seguita, subito dopo, dall’incontro di tutto lo staff medico per discutere le interazioni che si erano verificate, non trascurando quindi la dimensione dell’intervento puramente clinico. Questo nuovo approccio permetteva così un recupero della dimensione umana, la cessazione del paternalismo medico-paziente, senza M. Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale, Etas libri, Milano 1981, p. 83.

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lasciare i degenti in balia di se stessi. I risultati di tali incontri furono sorprendenti, tanto che si calcola che nei soli anni di guerra transitarono da Mill Hill circa 2000 pazienti. Questi furono gli albori dell’esperienza comunitaria di Maxwell Jones, che andò strutturandosi meglio nell’immediato dopoguerra quando ricevette l’incarico di occuparsi della riabilitazione di alcuni reduci ed ex prigionieri Inglesi. In seguito, divenne direttore dell’Henderson Hospital di Londra e vi rimase fino al 1959, occupandosi fin dall’inizio del recupero di soggetti con gravi problemi di disadattamento sociale, cioè rei di crimini, violenze e aberrazioni sessuali o di persone affette dal vizio della droga o dell’alcol. In questa seconda fase dell’evoluzione delle comunità terapeutiche, il concetto di riunione divenne ancora più radicale, infatti, Jones instaura una sorta di mutuo aiuto, che non si realizza più nemmeno nelle assemblee, ma in un contatto diretto fra i pari lungo l’arco di tutta la giornata. “Nel corso delle riunioni di comunità le distorsioni della percezione in un malato o in un gruppo di malati possono essere sottoposte a un esame di realtà. Nel caso di uno schizofrenico questo viene spesso effettuato con maggiore efficacia da parte dei compagni del malato più che da parte dello staff ”120. Prima di andare a dormire si creano dei community meeting e si domanda chi dei degenti si senta in bisogno di ricevere un aiuto, dopo di che si cerca uno o più suoi pari per seguirlo e dargli quell’aiuto umano, che come direbbe Goffman solo chi condivide la stessa situazione può dare. Solamente nell’eventualità che questo tipo di sostegno non dovesse essere sufficiente e se i problemi mentali raggiungono la situazione critica di alterare il confine sonno-veglia e di impedire così la propria sicurezza fisica, allora i pari con un moto di assoluta respon120

Ivi, p. 92.

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sabilità, chiamano l’operatore medico di turno. Egli convoca straordinariamente tutta la comunità, anche di notte, in modo da avere un incontro straordinario che possa trovare il modo di risolvere il problema del sofferente. Questa situazione eccessiva ha la capacità di dare importanza e responsabilità ad ogni malato, poiché nessuno vuole scomodare ad ore tarde le altre persone, quindi difficilmente si chiamerà l’operatore di turno se non c’è davvero un problema molto grave. Inoltre avendo la responsabilità di se stessi e degli altri, si potrà avere una visuale, che non è alienata da uno spazio fittizio atto solo alla reclusione, ma si potrà vivere una sorta di esperienza guidata, atta a far provare la responsabilità e i problemi che una volta fuori dalla comunità saranno propri di tutti. Jones, con l’istituzione del concilio dei pari, vuole anche sottolineare che il problema di una persona è il problema di tutti quelli che vivono con lui e perciò trascurarlo porterebbe solo ad una falsità dei rapporti, lanciando così un forte messaggio alla società esterna, che spera solo di ridurre il diverso in silenzio e di renderlo meno inopportuno, dentro prigioni con sembianze mediche. L’autogestione diventa quindi uno strumento terapeutico che consente di recuperare l’umanità di un maggior numero di persone, che l’esclusione istituzionale aveva reso ingovernabili e prive di speranze future.

2) L’esperienza del Digelton Hospital e la psichiatria sociale Maxwell Jones vede nel concetto di comunità terapeutica l’ultimo grido possibile della psichiatria, nel cui seno dovrebbero trovar risoluzione le contraddizioni che assalgono la stessa psichiatria istituzionale, continuamente incerta tra la propria

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vocazione terapeutica e la proclamata necessità sociale di esclusione e di controllo degli individui che prestano un comportamento patologico. Questa nuova forma d’aiuto trova la propria legittimazione nel 1953, a conclusione di uno studio sulle organizzazioni psichiatriche degli stati aderenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Lo studio affermò che l’ospedale psichiatrico doveva costituirsi nella sua totalità come una comunità terapeutica, poiché doveva avere alla base i principi di tutela e conservazione dell’individualità del paziente. Doveva, inoltre, costituirsi attorno alla convinzione che i degenti sono degni di fiducia e detengono le capacità di assumere responsabilità e iniziativa. Maxwell Jones trova così lo spunto necessario al suo operato che, dopo la fase di sperimentazione giovanile, trova il coronamento nel Digelton Hospital, dove la comunità terapeutica trova la sua prima essenza nello sfruttamento di tutte le risorse dell’istituzione a fini terapeutici. Lo psichiatra inglese, per tal motivo, muta radicalmente il modo di guardare all’istituzione, concependola come un insieme organico e non gerarchizzato di medici, pazienti e personale. Alcuni studiosi vedono nel tentativo operato nell’ospedale scozzese, la nascita di un nuovo approccio comunemente chiamato socioterapia. Essa si sviluppa come un insieme eterogeneo d’interventi basati sull’interazione tra più persone o gruppi ritenuti in difficoltà, senza che essi siano costretti in istituzioni totali. Ciò comporta una presa di coscienza definitiva sulla nocività della permanenza prolungata in luoghi di cura, poiché essi producono una vera e propria identificazione con il sistema, impedendo una qualsiasi forma di recupero soggettivo e individuale. Jones ha anche il merito di coniare il termine psichiatria sociale, che si basa su una nuova apertura al sociale che implica l’abbattimento delle frontiere della malattia e delle sue istituzioni, con la compromissione dell’esterno nella sua gestione.

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Come punto fondamentale della nuova psichiatria, si pone l’accettazione da parte del medico della messa in discussione del suo ruolo onnipotente e depositario della salute del malato, per accettare l’idea della salute come un bene collettivo, nella cui gestione ciascun membro della società deve essere coinvolto. Quindi, Jones riconosce che la malattia mentale non può essere considerata unicamente come un insieme di sintomi, ma è da vedersi in una prospettiva più ampia, come ultima risorsa per un individuo che manca di un adeguato sostegno sociale. In questa maniera percepisce la componente istituzionale di un’azione pratica di smantellamento delle strutture manicomiali e della definizione classica di malattia, attraverso il coinvolgimento dell’ambiente sociale, come parte in causa dell’instaurarsi e del cristallizzarsi insieme dello stato morboso. Quindi, l’ambiente sociale, che è stato individuato come corresponsabile nell’insorgere della malattia, diviene un mezzo per influire positivamente sul degente. “Se si presenta sufficientemente attenzione alle persone e alle situazioni con cui il paziente è a contatto, gli si può offrire la possibilità di assumere dei ruoli sociali che possano aumentare la sua capacità di star bene”121. Al Digelton Hospital prese il via il modello di comunità terapeutica ufficiale, che verrà esportata in tutto il mondo, essa prevedeva sei punti cardine. Il primo consisteva nella diminuzione di persone in un unico reparto e nell’intero ospedale, creando una serie di mini ospedali sparsi sul territorio, poiché Jones sostiene: “Gli amministratori medici dei grandi ospedali spesso perdono il contatto con i problemi quotidiani […] il decentramento può fornire un rimedio efficace”122 . Il secondo punto si basa sulla libertà di comunicazione, in quanto deve essere compiuto ogni sforzo al fine di rendere possibile la comunica121 122

Ivi, p. 23. Ivi, p. 69.

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zione a tutti i livelli e in tutti i sensi, quindi non solo nel senso discendente della piramide gerarchica come avviene nelle istituzioni tradizionali. Il terzo si costituisce sull’analisi di tutto ciò che accade nella comunità in termini di dinamica individuale e interpersonale. Il quarto prende l’avvio dalla tendenza alla distruzione del tradizionale rapporto di autorità, con un appiattimento della scala gerarchica che schiera il paziente all’ultimo grado. Ciò implica una necessaria suddivisione del potere decisionale, comportando forse la maggior innovazione di tutta la comunità. Il quinto punto prevede la possibilità di godere di occasioni di riapprendimento sociale, quali balli, proiezioni cinematografiche, rappresentazioni teatrali e uscite in gruppo o individuali. L’ultimo punto è dedicato alle riunioni giornaliere di tutta la comunità e dell’affidamento ad un gruppo di pari per la cura giornaliera. Il sociologo Rapoport, indagò all’interno della propria ricerca Community as Doctor l’esperienza dell’ospedale scozzese e trasse così quattro temi ideologici fondamentali della comunità terapeutica inaugurata da Maxwell Jones. Il primo tema, che costituisce anche l’ideologia fondamentale è la democratizzazione, ossia il prendere in considerazione l’opinione di tutti i membri della comunità. Ciò comporta l’accesso diretto alla seconda ideologia, la permissività, in quanto tutti all’interno del Digelton mostravano un alto grado di tolleranza, che si estendeva anche alle azioni più difficili da comprendere, quali quelle compiute dai pazienti più gravi. Si può ben capire così la terza idea fondamentale, che è costituita dalla comunitarietà d’intenti e di scopi, che produce la possibilità di un confronto con la realtà, che diviene il quarto tema evidenziato da Rapoport, alla quale tutti i degenti dovevano essere ricondotti. Jones propone così un nuovo modo di vivere la permanenza in ospedale psichiatrico, ponendo le basi per la costruzione di un luogo votato veramente alla cura e alla prassi terapeutica.

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3) Basaglia e le comunità terapeutiche Franco Basaglia nel 1961 visitò la comunità terapeutica di Maxwell Jones e rimase affascinato dal nuovo modo di porsi verso i pazienti e verso una realtà inglobante come quella manicomiale. Più di ogni altra cosa era rimasto colpito dal fatto che l’alienato mentale era diventato un malato informale uguale a qualunque altro. Finalmente il suo modo di intendere il rapporto con il malato trovava un riscontro pratico in un’istituzione che cominciava a funzionare. Basaglia trovò in Jones uno psichiatra che non si mascherava dietro il proprio ruolo di potere, ma un medico che capiva i reali bisogni relazionali dell’ammalato. Lo psichiatra veneziano in una conferenza a Rio De Janeiro si espresse in questo modo sulla comunità terapeutica: “Una comunità diventa terapeutica perché funziona su principi condivisi, che non appartengono solo al vertice dell’ istituzione e che portano tutti a lavorare insieme: in questo modo il gruppo riesce a curare se stesso e la malattia perde alcune sue caratteristiche essenziali perché persino il malato più grave, il più delirante, comincia a essere parte attiva della comunità”123. La situazione viene migliorata ancora dalla possibilità concreta nel dopoguerra di trovare un lavoro a tutti gli ex degenti, infatti, in Inghilterra il boom economico richiese molte braccia nell’industria che potevano essere trovate anche fra chi era stato in comunità. La situazione di questa nuova esperienza terapeutica si mostra favorevole dal punto di vista clinico e di inserimento nella vita quotidiana, cambiando radicalmente il modo di affrontare le contraddizioni sociali. Gli ospedali inglesi cominciarono a seguire l’esempio di Jones e iniziarono F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 107.

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così ad aprirsi, facendo mutare anche la disponibilità del medico verso l’istituzione stessa. Purtroppo per i malati, questo processo ebbe breve durata, poiché finì la sovrabbondanza di lavoro e i primi tagli sul personale furono fatti a carico degli ex ricoverati, che finirono così nuovamente all’interno dell’istituzione manicomiale. Il gran numero d’internati ridusse l’utilizzo della comunità terapeutica in pochissimi luoghi, scegliendo la via del ritorno al manicomio classico, anche se con sfumature più umane e tolleranti. L’evoluzione storica della comunità terapeutica, legata alla presenza o meno dei posti di lavoro, porta Basaglia a vedere in essa la prima tappa del processo di rinnovamento manicomiale, che ha il merito di accentuare l’aspetto sociale, ma non la soluzione definitiva al problema del malato mentale. Infatti, nel saggio Che cos’ è la psichiatria? si esprime in questa maniera: “Se quello della comunità terapeutica può essere, dunque, considerato un passo necessario nell’evoluzione dell’ospedale psichiatrico non può però considerarsi la meta finale verso cui tendere, quanto piuttosto una fase transitoria in attesa che la situazione stessa si evolva in modo da fornirci nuovi elementi di chiarificazione”124 . Infatti, l’analisi approfondita della storia della comunità terapeutica porta lo psichiatra veneziano alla conclusione che essa non sia altro che il riciclaggio della vecchia gestione manicomiale, poiché quando l’organizzazione sociale non ha più bisogno delle persone riabilitate le rimanda in manicomio. Per tal motivo afferma che la gestione comunitaria non sia nient’altro che una gestione morbida della precedente istituzione, infatti, lo stesso Jones riferisce più volte di aver riscontrato miglioramenti in pazienti inseriti in attività lavorative a stretto contatto con lavoratori normali, come se non esistesse altro che l’adattaF. Basaglia, Che cos’ è la psichiatria?, Baldini e Castoldi editori, Milano 1997, p. 26. 124

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mento alla norma. Perciò l’analisi dello psichiatra inglese trascura il punto focale della questione psichiatrica-integrativa, cioè il rapporto normale con l’altro al di fuori della comunità, focalizzandosi invece su un puro adattamento alla norma, determinato da rapporti di produttività. Ponendo la questione in questi termini, sembra che la comunità terapeutica si ponga come una sorta di aiuto per ristabilire l’unica cosa che la società rivuole dall’uomo malato, ossia la produttività. In poche parole seguendo questa teoria il rapporto dentro l’istituzione terapeutica non cambia davvero, ma segue solo una logica diversa, atta ad una maggior distribuzione fra psichiatri e operatori sociali. I quali rendono migliore il corso della vita contingente nel manicomio, ma il cui compito rimane sempre quello di mantenere la validità della definizione della norma, che resta fissata al di là dei confini tecnico specialistici delle loro discipline. La comunità terapeutica nasce come il tentativo di liberazione della realtà manicomiale e come lo strumento di esplicazione delle contraddizioni fra luogo di elaborazione teorica e terreno di lavoro pratico, trovando il proprio senso nella critica alla scienza che si è fatta dogmatica e perdendo ogni possibile relazione con il suo oggetto di ricerca. Essa si fonda sulla vitalità del processo dialettico, che facendo partecipare attivamente tutti i componenti della comunità, mantiene un margine di libertà e d’invenzione pratica che tiene vivo un processo di trasformazione continua, che deve condurre verso una cura realmente umana della malattia mentale. Basaglia, però, sottolinea come le stesse comunità una volta divenute popolari e sparse sul territorio, si strutturano anch’esse come scienza organica, instaurando nuovi dogmi e miti che pongono fine a quel processo di rinnovamento continuo. In questo modo il margine di libertà necessario al processo di trasformazione viene a mancare, esigendo da parte del malato un’identificazione con la nuova definizione di malattia,

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implicita nella nozione di comunità terapeutica. “Maxwell Jones ha tentato di rompere l’ inconscia complicità fra malato e terapeuta nella loro comune distruzione all’ interno dell’ istituzione, offrendo ad entrambi la possibilità di un ruolo attivo che, proprio in quanto tale, sarebbe risultato reciprocamente terapeutico. Tuttavia in questo gioco di tensioni e contro tensioni che il terapeuta dovrebbe aiutare a rendere sempre più esplicite – sfruttando il conflitto come terreno di manipolazione – il cerchio istituzionale non viene rotto, ma semplicemente reso più elastico dalla riduzione della rigida gerarchizzazione dei rapporti”125. Basaglia dimostra così i limiti di un’azione puramente tecnica come quella attuata da Jones, che difficilmente potranno portare ad un risultato favorevole su un terreno determinato da una struttura socio-economica ben definita, poiché il bisogno economico di assorbire nella produzione le minoranze emarginate resterebbe l’unico motivo che può spingere la società ad investire sulla prassi terapeutica. Questa situazione rimane però inattuabile sul piano pratico, in quanto la conformazione della società stessa non richiede sempre un gran numero di persone impiegate nel lavoro, legittimando così periodi d’internamento tramite la norma derivante da motivi economici. In definitiva Maxwell Jones ha contribuito in maniera importante a concepire una nuova realtà per l’alienato mentale, ma l’analisi basagliana ha permesso di evidenziare che l’approccio unicamente medico del suo lavoro non ha permesso che esso si trasferisca in una riforma del sociale, che sola può garantire la sicurezza di un miglior trattamento e reinserimento del malato. Basaglia afferma anche che la psichiatria non diventa sociale grazie a Jones, ma lo è sempre stata, poiché essa si è sempre basata sull’esterno, ponendosi come garante della sicurezza ecoF. Basaglia, Prefazione a Maxwell Jones, in Scritti volume 2, Einaudi, Torino 1982, p. 111. 125

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nomica e comunitaria, quindi la nuova ondata sociale è solo un capovolgimento positivo di un’ideologia sociale già esistente, ma vissuta solo in negativo. Per tali motivi Basaglia riconosce che Jones riesce a concepire in maniera brillante la possibilità di sfruttare positivamente l’ambiente sociale a favore dell’individuo, ma non tiene conto della natura propria che costituisce la società, cadendo nella contraddizione di costruire una nuova realtà artificiosa, migliore della prima, ma sempre inadeguata ai bisogni d’inserimento del malato mentale.

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La rivoluzione basagliana La realtà della psichiatria è ancora l’escluso, l’oggetto di violenza e non sono serviti finora né le denunce dei complessi di Edipo, né le attestazioni del nostro essere-con-nella-minaccia per toglierla dalla passività della sua condizione. Per questo, continuo a sostenere che la psichiatria ha veramente mancato il suo incontro con il reale. F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica (p. 124)

1) I centri di assistenza All’interno di questo excursus attraverso gli autori che più hanno influito sull’evoluzione e sullo sviluppo del pensiero di Franco Basaglia, ho voluto mettere in rilievo come l’operato dello psichiatra veneziano sia stato atto a riconsiderare la propria scienza, al fine di farla diventare più umana. Nel senso che essa possa davvero prendersi cura delle persone che si trovano in una situazione di disagio psichico, senza emarginarle e stigmatizzarle. Questa possibilità si realizza attraverso un percorso di riappropriazione del proprio corpo e della propria volontà di reinserirsi nel proprio progetto di vita da parte del malato. In definitiva ciò che Basaglia propone non è una critica alla scienza e all’istituzione che ne legittima l’esistenza, poiché sono mostruosità totalmente sbagliate, ma rifiuta le loro vel-

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leità di invadere la vita e di risolvere il problema dell’esistenza, assolutizzando le proprie, singole specifiche premesse a tutto il campo della conoscenza. “Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché noi siamo le istituzioni, la regola, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni su cui su cui si fonda il corpus psichiatrico – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi; la crisi cioè di una scienza che ha presunto di guarire una malattia senza sapere cosa fosse”126 . Questo è il momento che deve essere superato, in quanto la scienza diventa pura ideologia, sfuggendo agli sforzi di una sintesi interdisciplinare e alla necessità di costruire una visione reale, cioè globalmente umana, del malato mentale nel suo esistere. In questo modo ciò che viene proposto è un superamento della dimensione puramente psichiatrica o psicologica della malattia, prendendo in considerazione tutte le relazioni che accomunano la realtà quotidiana delle persone, quali affetti, soldi, lavoro, istituzioni, potere, relazioni sociali e tutto ciò che possa contare nella costruzione di un individuo. Quest’atteggiamento porta al bisogno di uscire dalla rigidità dell’istituzione totale, che non permette la comprensione dell’uomo, ma vuole solo il controllo su di esso, per tentare di tenere in vita il patto sociale, che come dice Rousseau: “Si donc on écarte du pacte social ce qui n’est pas de son essence, on trouvera qu’ il se réduit aux termes suivant. Chacun de nous met en commun sa personne et toute sa puissance sous la suprême direction de la volonté générale; et nous recevons en corps chaque membre comme F. Basaglia, Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?, in L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 124. 126

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partie indivisible du tout”127. Ne segue che tutti dobbiamo essere uguali, conformarci ad una realtà istituzionale che è data per immutabile e per logicamente definita su parametri decisi da chi detiene il potere. Il contributo di Basaglia è di riflettere e di trovare le chiavi filosofico-psichiatriche e interpretative per capire la difficoltà insita nello sforzarsi di essere uguali, poiché questo provoca ansia, nevrosi, psicosi e paranoie. Essere uguali vuol dire forzare la natura, cioè andare contro quelle leggi che non hanno creato nulla di uguale, e tanto meno hanno creato persone uguali. Per questo motivo bisogna rompere completamente il legame fra cura e istituzione per riportare il soggetto al centro del proprio processo terapeutico. Il malato deve dunque liberarsi dalla sua condizione di dipendenza dall’istituzione, dal medico, dai reparti, dai farmaci, deve quindi essere prima di ogni altra cosa un “normale” cittadino. La sua presenza dovrà essere all’interno del terreno della vita sociale e non nella fittizia realtà parallela del manicomio, per tal motivo bisogna superare persino la comunità terapeutica, creando dei centri di assistenza, aiuto e ascolto, psichiatri a domicilio, strutture terapeutiche aperte, luoghi di lavoro nei quali socializzare e produrre, sentendosi così trattati come ogni altra persona. La società deve quindi farsi carico concretamente del problema del malato di mente, facendosi carico così anche delle spese per la costruzione di strutture terapeutiche incentrate sui bisogni di un soggetto libero e non di un oggetto messo sotto custodia. Lo psichiatra dovrà perciò ergersi a promotore della voce di queste persone e non dovrà, come predicava l’antipsichiatria, uscire dall’istituzione, perché se si cerca di uscire da essa e di costruire delle strutture quali sono state il Kingsley Hall di Laing, o il Villa 21 di Cooper, ci s’illude solo di cambiare la realtà, che invece viene lasciata nelle mani del potere. 127

J. J. Rousseau, Du contrat social, Flammarion, Paris 2001, p. 57.

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Per questo motivo lo psichiatra deve rimanere dentro l’istituzione in cui lavora, al fine di conoscerla in ogni suo dettaglio, per poterla smontare nella sua realtà e nei suoi simboli, e poterla così cambiare. Basaglia asserisce così che fino a quando la società si rifiuterà di considerare il malato come lo specchio che riflette l’immagine deformata dell’altra faccia della razionalità, dominerà sovrana la paura di potersi identificare nel folle. Ciò che Basaglia vuole non è mettere in discussione l’esistenza della patologia mentale, ma sconfiggere definitivamente la malattia istituzionale, che occulta quella mentale. Per fare ciò propone la creazione di centri di assistenza (DSM), che devono essere radicati nel territorio e devono offrire la garanzia, il coordinamento e la programmazione degli interventi integrati di prevenzione, cura e riabilitazione della sofferenza psichica nella popolazione. “A Trieste abbiamo organizzato un’ équipe che chiamiamo d’emergenza, che lavora ventiquattro ore al giorno e viene chiamata dove è necessario nella città. Questa équipe ha vari modi di rispondere alla crisi: uno è l’ internamento, un altro è risolvere la crisi, ridare alla società quello che lei ha rifiutato, aiutandola a reintegrare la persona […] questo tipo di intervento sulla crisi fa in modo che la soluzione venga trovata insieme con la famiglia e col malato”128 . I dipartimenti di salute mentale dovranno quindi, operare per rimuovere qualsiasi forma di discriminazione, stigmatizzazione, esclusione nei confronti delle persone portatrici di disagio e disturbo mentale e dovranno partecipare attivamente nella promozione dei pieni e completi diritti di cittadinanza. Essi dovranno così garantire che i servizi e i presidi per la salute mentale costituiscano un complesso organizzato, unico e coerente, avendo attenzione di evitare qualsiasi forma di framF. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 193-194. 128

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mentarietà e carenza di azioni, assicurando lo stretto raccordo con tutti i servizi, le comunità e le sue istituzioni. Inoltre dovrà essere garantita l’assistenza psichiatrica alla popolazione di riferimento territoriale, salvaguardando la continuità terapeutica, al fine di fornire interventi specialistici, ambulatoriali, domiciliari, con l’adozione di piani assistenziali, psico-sociali e riabilitativi, modulati secondo i bisogni individuali della persona in cura. Per tal motivo dovrà essere costituita un’unità pratica di servizio immediato il CSM, che fornirà consulenze specialistiche, prestazioni in day-hospital, assistenza durante il ricovero e consulenza telefonica.

2) Sicurezza sociale Il primo punto della “rivoluzione basagliana” è la possibilità e il bisogno di rifondare l’idea di una struttura ospedaliera votata al controllo della sicurezza sociale mediante l’esclusione e l’emarginazione di coloro che possono minare la stabilità della quiete cittadina. “Ciò che nella psichiatria è malato è infatti tutto ciò che l’organizzazione sociale definisce di volta in volta pericoloso per il suo equilibrio. Curare la malattia significa perciò incidere, devitalizzare, asportare tutto ciò che mette in pericolo il benessere del corpo sociale. Salute e guarigione sono perciò, nella psichiatria, la salute e la guarigione del corpo sociale: il singolo corpo malato diventa puro germe, luogo di infezione, veicolo di contagio, che va riconosciuto, selezionato e sterilizzato nel vuoto sociale del manicomio”129.

F. Basaglia, Legge e psichiatria, in Scritti volume 2, Einaudi, Torino 1982, p. 448.

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Per lo psichiatra veneziano il manicomio consta di alcuni punti comuni, che devono essere assolutamente rifiutati e cambiati per poter creare una realtà terapeutica e non finalizzata unicamente alla detenzione del diverso. Innanzitutto, Basaglia dichiara che la struttura ospedaliera è stata costruita a difesa e tutela del sano dalla follia, per tale motivo l’apertura dei manicomi verso la realtà esterna può costituire la soluzione che potrebbe permettere alla società di prendere coscienza che la malattia mentale è una patologia come tutte le altre e può essere risolta senza l’impiego di metodi coercitivi. Quindi la convivenza all’interno della città può servire a capire che il malato mentale non è pericoloso per gli altri, ma può essere pericoloso solo per se stesso. Ne segue che se un individuo è accettato, inserito in una rete di amicizie e affetti, impegnato in un lavoro, difficilmente diventerà più pericoloso per gli altri cittadini, di ogni altra persona considerata “normale”. In questo modo anche il secondo punto in comune degli ospedali psichiatrici, cioè la costruzione in periferia dello stesso, al fine di non turbare con la sua presenza l’equilibrio dei sani, viene a cadere. Infatti, la pericolosità sociale del malato mentale non costituisce alcuna fonte di problema, se lo stesso viene inserito in reti relazionali e la costruzione di centri di assistenza sparsi in tutto il territorio, anche nel centro cittadino, permetterebbe così, in caso di crisi, il rapido superamento di ogni situazione critica che possa recare disturbo alla sicurezza personale del malato. Perciò diviene senza senso anche il terzo punto comune, ossia la costruzione di un mondo chiuso senza il minimo rapporto con l’esterno, infatti, come si è visto dalle indagini di Goffman e Fanon, la ghettizzazione dei malati produce solo nuove forme di alienazione e d’insicurezza. “Un paziente che va in un bar e chiede un aperitivo e paga per averlo esercita un potere contrattuale che gli dà la possibilità di entrare in rapporto con l’altro, si sappia o meno che era internato da vent’anni in mani-

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comio. Quando questo avviene scompare il problema della messa in scena, del fantasma della follia di cui si opera una riduzione inserendola nella vita di tutti i giorni. La persona totalmente folle non è più tale nel momento in cui ha un rapporto con l’altro, diviene cioè una persona che conta”130. Questa posizione, che mira ad una serena convivenza, può apparire a prima vista utopica, ma se si guarda nella realtà storica dell’evoluzione umana, essa può essere paragonata a tutti gli altri casi di segregazione. Basti pensare alla discriminazione razziale, dove le persone con la pelle nera erano discriminate e confinate in alcuni quartieri perché ritenute diverse e pericolose, ma oggi, grazie a persone che come Basaglia hanno condotto una lotta per far riconoscere il carattere comune delle diverse etnie, questa situazione è cambiata. Carattere comune di tutti questi uomini è l’essere stati vittima di attacchi durissimi, come nel caso di Mandela, o essere stati considerati puri sognatori utopici. Eppure grazie a loro la società è cambiata, si è riusciti a capire la stupidità di quell’esclusione razziale, religiosa o politica, poiché il colore della pelle o la fede religiosa non determina il carattere aggressivo delle persone, ma le situazioni di esilio e di vita comune nei ghetti portano alla pericolosità sociale. Quindi, la stessa società, che vuole tutelarsi in ogni modo dalle situazioni problematiche, crea con le proprie difese gli stessi meccanismi d’insicurezza che le fanno paura. Il sociologo Robert Castel nella sua opera L’ insécurité sociale asserisce che noi viviamo una delle società più sicure della storia, questa sicurezza ci accompagna dal momento della nascita al momento della morte e interviene a tutti i livelli. Questa situazione però, non è sempre esistita, infatti, la società della protezione si può F. Basaglia, F. Ongaro, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Raffaello Cortina Editori, Milano 2008, pp. 21-22. 130

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collocare principalmente tra gli anni ’50 e ’70 del 900. Eppure negli stessi anni si assiste anche ad una crescita del sentimento d’insicurezza personale, quest’avvenimento è dovuto secondo Castel all’indebolimento delle protezioni classiche e alla comparsa di nuovi rischi industriali, sanitari, ecologici, naturali per l’umanità. Ciò crea negli individui una sorta di frustrazione che porta a distorcere la realtà e a inquinare, accrescendola a dismisura, la domanda di sicurezza sociale. “Le caractère à la fois irréaliste et bien réel du sentiment contemporain d’ insécurité peut ainsi être compris comme un effet vécu au quotidien de cette contradiction entre une demande absolue de protection et un légalisme dont on observe aujourd’ hui le développement sous les formes exacerbées d’un recours au droit dans toutes le sphères de l’existence, jusqu’aux plus privées. L’ homme moderne […] voudrait absolument que sa sécurité soit assurée dans le détails de son existence quotidienne, ce qui cette fois ouvre la voie à l’omniprésence des policiers”131. Castel asserisce che una maggior sicurezza è possibile solo nell’ambito di politiche pubbliche e collettive, pena l’accentuazione delle disuguaglianze e della marginalità, che quando investono figure sociali già a rischio di esclusione danno luogo al riemergere delle classi pericolose e con essi alle paure e all’intolleranza dell’opinione pubblica e quindi, politicamente, allo slittamento della questione sicurezza dal piano sociale a quello dell’ordine pubblico. Basaglia perciò mira ad evitare questa situazione di ulteriore disagio, quindi ad integrare il malato mentale nella società, senza che i partecipanti ad essa lo escludano e lo considerino un fattore di pericolo. Cambiare la mentalità della gente non è sicuramente cosa facile, tanto meno in un momento storico in cui, come sottolinea Castel, l’uomo esige sempre una maggiore sicurezza sociale. 131

R. Castel, L’ insécurité sociale, Éditions du Seuil, Paris 2003, p. 23.

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Eppure Basaglia è persuaso dall’idea che l’abitudine e il trascorrere del tempo senza problemi di sicurezza pubblica dettati dalla “liberazione” dei matti, forniranno il giusto bagaglio di esperienza, per accettare il diverso nella nostra società. Lasciare percorrere le strade pubbliche ai malati mentali, qualche volta rinchiusi per molti anni nei manicomi, però non basta, bisogna, infatti, far cadere anche il quarto e quinto punto in comune di questa istituzione. Poiché essa si costruisce attorno ad una comunità basata unicamente su un rapporto di autorità, di prevaricazione e di forza che si esplica in uno spazio, la cui efficacia dell’organizzazione amministrativa deriva unicamente dall’efficienza con cui si sottomette alla norma. Diverrà quindi essenziale far riabituare gradualmente le persone alla propria possibilità di scegliere, ad utilizzare la propria volontà e libertà e a sapere di essere seguiti e capiti come persone, da medici a cui non interessa più essere dei semplici guardiani, ma che vogliono trovare il modo per farli stare bene con loro stessi. Basaglia vuole così porre fine al dominio dello sguardo medico che è atto unicamente ad escludere e catalogare, come asserisce anche Michel Foucault: “L’exercice de la discipline suppose un dispositif qui contraigne par le jeu du regard; un appareil où les techniques qui permettent de voir induisent des effets de pouvoir, et où, en retour, les moyen de coercition rendent clairement visibles ceux sur qui ils s’appliquent”132 . In questo modo, rifiuta ogni possibilità che possa mettere in una condizione di non scelta il paziente, o che lo possa far sentire unicamente un oggetto nelle mani del medico, poiché il carattere principale per determinare la sicurezza sociale e personale del malato è la possibilità di stimolare la sua capacità di giudizio e la sua capacità di espressione. Ciò porta al fine di comunicare la situazione che lo preoccupa e lo assale, in 132

M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 2006, p. 201.

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modo che questa condizione non possa costituire un’aggravante all’interno della propria malattia. Inoltre, in questo modo il malato riuscirà a fidarsi delle persone che lo circondano, non vedendo più in loro solo degli oppressori che minacciano la sua possibilità di felicità. Basaglia ha il grande merito di capire che l’esame operato dagli psichiatri per codificare la malattia non è altro che una forma di espressione e di potere e che non potrà mai portare ad una reale comprensione dell’alterità. Foucault nella sua opera Surveiller et punir già aveva anticipato il carattere puramente istituzionale dell’atto dell’esame che si configura come una sorta di azione di forza con cui il medico dichiara la sua potenza. “L’examen, c’est la technique par laquelle le pouvoir au lieu d’ émettre les signes de sa puissance, au lieu d’ imposer sa marque à ses sujets, capte ceux-ci dans un mécanisme d’objectivation. Dans l’espace qu’ il domine, le pouvoir disciplinaire manifeste, pour l’essentiel, sa puissance en aménageant des objets. L’examen vaut comme la cérémonie de cette objectivation”133. Per tale motivo, bisogna rifiutare la pura catalogazione delle malattie frutto di un esame, che mira unicamente a mettere sotto il profilo razionale ciò che sfugge all’interpretazione logica che richiederebbe un’interpretazione prettamente umana. Così lo psichiatra veneziano esclude totalmente tutte le etichette nosologiche che mirano solo alla creazione di una norma da seguire. Il primo fra tutti i paletti istituzionali a cadere è la separazione all’interno dell’ospedale tra uomini e donne. Infatti, la vita in comune dona la possibilità di abituarsi all’altro sesso, che sarà una condizione indispensabile per la vita all’esterno dell’istituzione. S’instaura in questo modo un modello di cura umana, che mira unicamente alla protezione dell’individuo, alla salvaguardia della sua individualità e trova il proprio mo133

Ivi, p. 220.

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mento fondante nel tentativo di assicurare la possibilità di reinserimento di queste persone nella società garantendo loro la sicurezza fondamentale alla conduzione della vita. Inoltre questo processo terapeutico mira anche a fornire gli elementi pedagogici essenziali per cambiare la condizione del malato in società e assicurare la sicurezza pubblica.

3) Tempo e spazio vissuti Il secondo punto della “rivoluzione basagliana” consiste nella riconsiderazione dello spazio e del tempo vissuti dal malato, al fine di renderli nuovamente propri, senza che divengano stereotipati all’interno d’istituzioni, che come abbiamo visto mirano unicamente alla coercizione dentro un luogo chiuso e rendono il tempo trascorso in essa uguale per ogni degente. Per tal motivo ciò cui punta Basaglia è il ripensamento di essi, al fine di farli colorare delle sfaccettature più diverse che possano così corrispondere alla varietà dei progetti di vita. Ritorna in questo modo, come caratteristica principale nella cura della patologia mentale, il recupero del proprio progetto di vita, che mira a far avere un senso ed uno scopo alle persone che troppo a lungo si sono sentite unicamente emarginate in spazi che non gli appartenevano. La chiave per questa riconsiderazione arriva dalle opere di Bergson e Minkowski. Il primo è stato uno dei più importanti filosofi francesi, che ha collocato al centro della sua ricerca filosofica il concetto di durata reale e ha posto all’interno della sua tesi di dottorato Essai sur les donne immédiates de la conscience una radicale distinzione tra due diverse concezioni possibili di tempo. “Il y a en effet […] deux conceptions possibles de la durée, l’une pure de tout mélange, l’autre où intervient subrepticement l’ idée d’espace. La durée tout pure est la forme que prend la suc-

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cession de nos états de conscience quand notre moi se laisse vivre, quand il s’abstient d’ établir une séparation entre l’ état présent et les états antérieurs” 134 . La prima nozione di tempo si determina a partire dalla realtà geometrica, poiché consiste nel proiettare il tempo nello spazio, esprimendo così la durata in estensione. Questa definizione assume le caratteristiche del tempo scientifico o meccanico, cioè del tempo fisico-matematico, che diviene un’unita di misura puramente quantitativa e calcolabile. La conseguenza è che questo modo di intendere il vissuto porta alla costruzione di un tempo schematizzato, spazializzato in una sequenza di elementi o stati immobili, distinti, ma sempre uguali. Per tal motivo questa concezione secondo Bergson deve essere rifiutata, poiché si configura come totalmente inadeguata, in quanto ciò che viene misurato non è l’intervallo di tempo in sé, ma solo una porzione di spazio. Per questo propone la seconda maniera di intendere il tempo che si basa sul vissuto della coscienza, per essa, infatti, il tempo diviene un elemento qualitativo, eterogeneo, non misurabile ed irreversibile. Perciò Bergson asserisce la profonda distinzione tra esperienza esteriore e mondo interiore, affermando che i dati sensibili si prestano ad un’organizzazione spaziale, divenendo numerabili e misurabili, poiché poggiano su un’identica trama materiale. Ben diverso, invece è lo scenario della vita interiore, nel quale le passioni, gli stati d’animo e i pensieri possiedono un profilo proprio, ma ognuno di essi si contraddistingue per il fatto di fondersi con il precedente, arricchendo così il successivo e creando una sorta di continuum emozionale. In tal maniera l’organizzazione dei gradi della coscienza viene operata dal tempo, che diviene anche la forma della successione degli staH. Bergson, Essai sur les donne immédiates de la conscience, Puf, Paris 2007, pp. 74-75 .

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ti della coscienza. Nel modello fisico-matematico, quindi, il tempo viene pensato come una serie di segmenti che si succedono secondo il prima e il poi, conservando ognuno la propria identità, invece nella sfera del tempo della coscienza, lo stesso viene pensato come un continuo e ininterrotto. “Si je veux me préparer un verre d’eau sucrée, j’ai beau faire, je dois attendre que le sucre fonde. Ce petit fait est gros d’enseignements. Car le temps que j’ai à attendre n’est plus ce temps mathématique qui s’appliquerait aussi bien le long de l’ histoire entière du monde matériel, lors même qu’elle serait étalée tout d’un coup dans l’espace. Il coïncide avec mon impatience, c’est-à-dire avec une certaine portion de ma durée à moi, qui n’est pas allongeable ni rétrécissable à volonté. Ce n’est plus du pensé, c’est du vécu”135. Le idee di Bergson permettono a Basaglia di vedere il carattere oppressivo di un’istituzione che non permette di vivere il proprio tempo in maniera compatta, senza creare un prima e un dopo l’internamento, ma comporta solo l’interiorizzazione di un nuovo dramma che spezza la già fragile situazione del malato. Infatti, i manicomi non offrono una cura diversificata che possa seguire i tempi propri determinati dalla coscienza dei pazienti, ma danno un unico lasso di tempo che deve essere vissuto in un medesimo luogo, determinando così l’ideale di una cura scientifica che si pone come uguale per ogni persona. Ne segue che non ci potranno essere dei tempi più lunghi o più corti per uscire da una crisi, ma ci sarà solo un periodo per imparare a relazionarsi ad una norma, pena la fuoriuscita definitiva dalla società “normale”. Basaglia propone così una riconsiderazione totale del vissuto interiore del paziente, perché in accordo con Laing, mostra come solo il guardare a tutta la sfera della vita, che comprenderà anche un modo proprio di darsi il tempo, possa effettivamente portare ad un migliora135

H. Bergson, L’ évolution créatrice, Puf, Paris 1959, p. 18.

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mento. Ciò vuol dire che non è possibile determinare a priori le azioni mediche da compiere per riabilitare una persona, ma solo nell’interazione con lui, che porta all’incontro autentico, si può decidere quale situazione può effettivamente aver un riscontro emozionale tale, da non destabilizzare il suo continuum temporale e quale luogo sia il più adatto per fargli vivere questa prassi terapeutica. Lo psichiatra veneziano, però, sostiene che dietro alla singolarità dell’individuo, che determina la diversità dello spazio e del tempo della vita e quindi della cura, il medico deve sempre rintracciare un filo comune, ma nel fare ciò deve rifiutare la pratica dell’esame. Per tal motivo tiene in grande considerazione l’operato di Eugène Minkowski, il quale rintraccia nella nozione d’intuizione dei dati immediati della coscienza il metodo che permette di superare il semplice piano dell’immedesimazione e della descrizione dei vissuti, puntando direttamente alla visione dei caratteri essenziali dei fenomeni. Infatti, l’affiorare di un gesto, di una frase del paziente, può offrire la possibilità di penetrare l’interiorità del soggetto, attraverso una coincidenza tra noi stessi e ciò che c’è di unico nella sua presenza al mondo. Basaglia è affascinato da questo metodo, perché permette di superare il punto di vista dell’esaminatore e cercare dietro l’esperienza soggettiva un punto centrale che possa costruire l’oggetto di una descrizione. “Minkowski […] afferma che ciascun fenomeno fondamentale e costitutivo della vita possiede un indice spazialetemporale indissolubilmente unito nella sua concezione di tempospazio vissuti: ogni atto umano possiede di conseguenza un aspetto temporo-spaziale circa il passato, il presente ed il futuro”136 . Ciò di cui Minkowski parla è una maniera anormale di essere al mondo, dirigendosi verso un’interpretazione delle alteraF. Basaglia, Il mondo dell’ incomprensibile schizofrenico, in Scritti volume 1, Einaudi, Torino 1982, p. 5. 136

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zioni della vita psichica di un individuo, non verso un disturbo della sua natura, ma verso un anormale maniera di porsi nel mondo. Se Bergson si pone come riferimento fondamentale per la concezione del tempo vissuto, Minkowski fa altrettanto sviluppando l’idea di uno spazio vissuto. “Esiste uno spazio vissuto, come esiste un tempo vissuto. Lo spazio non si riduce per noi a rapporti geometrici, rapporti che stabiliamo come se, ridotti noi stessi al semplice ruolo di spettatori curiosi o di scienziati, ci troviamo fuori dallo spazio. Noi viviamo e agiamo nello spazio, ed è nello spazio che si svolge sia la nostra vita personale che la vita collettiva dell’umanità. La vita si estende nello spazio, senza per questo avere estensione geometrica propriamente detta. Per vivere, abbiamo bisogno di estensione, di prospettiva. Lo spazio è altrettanto indispensabile del tempo all’espansione della vita”137. Egli ha osservato che lo spazio abitativo costituisce un tutto indivisibile in cui la distanza ha un significato ben diverso rispetto alla giustapposizione di punti, che costituisce la riduzione meccanica dell’estensione vitale. Per tal ragione nemmeno lo spazio potrà essere inteso in maniera qualitativa, cioè nella maniera geometrica che lo vede come unico, uniforme e abitato da tutti, ma bisognerà prendere come punto di riferimento il soggetto. Sarà lui, infatti, a determinare le distanze e la propria progettualità, proprio in quello spazio che è vissuto dalla comunità, ma che avrà entità diversa per ogni persona. “La nostra vita si svolge nello spazio e per questo fatto resta una; lo spazio contribuisce dunque a fare di noi una collettività, ma tra di noi resta sempre spazio libero, distanza vissuta, carica di possibilità individuali, ciò che permette a ciascuno di vivere in questo spazio la propria vita”138 .

137 138

E. Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino 1971, p. 407. Ivi, p. 414.

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Da questa considerazione prende il via la lotta di Basaglia per la riconquista dei diritti sul tempo e sullo spazio che l’istituzione psichiatrica toglie ai malati. Quindi, sempre ispirato da Minkowski, asserisce che la vera cura consta nel far riesaminare al paziente le modalità del rapporto io-mondo, che non possono prescindere dalla sua interpretazione del tempo e dello spazio. Per tal ragione Basaglia dichiarerà esplicitamente che il metodo di Mikowski, che prende il via dalle ricerche di Bergson, è il modo migliore per riportare ogni persona verso il proprio progetto vitale, poiché esso non potendo prescindere dall’analisi spazio temporale, osserva l’individuo nella sua globalità e considera la cura come un tentativo di ricondurre le persone alle loro piene possibilità esistenziali. Quindi, per un effettivo passaggio ad una terapia più umana, non è possibile fare a meno di riattribuire al paziente la possibilità di vivere una vita secondo i propri tempi e nei propri luoghi.

4) La responsabilità di Basaglia e l’assunzione di responsabilità come fonte terapeutica L’operato di Basaglia e la rivoluzione che da lui prende il via nel campo dell’assistenza psichiatrica, mirante alla creazione di una psichiatria più efficiente sotto l’aspetto terapeutico, non si pone come un semplice atto di liberazione, che non prevede alcuna responsabilità, ma si fa profondamente carico di essa, donandone gran parte anche agli stessi pazienti. Infatti, la responsabilità gioca un ruolo importante, lungo tutto il cammino della rivoluzione, poiché lo psichiatra veneziano sembra perennemente alla ricerca sociale di una garanzia verso ciò che sta compiendo, non volendo instaurare ciò che lui stesso leg-

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gendo le opere di Fanon, aveva definito come un nuovo modo più umano di colonizzare l’alienato. Per tal motivo acquista una rilevanza particolare la discussione che tenne con Sartre sul ruolo dell’intellettuale, che venne riportata nel libro Crimini di Pace. In particolare le seguenti parole di Sartre, offrono l’occasione a Basaglia di riflettere sulla valenza dell’atto che sta compiendo: “Per me l’ intellettuale non è semplicemente un tecnico. Per esempio uno studioso americano che si occupi della bomba atomica non è un intellettuale, bensì ciò che io chiamo un tecnico del sapere pratico: diventa un intellettuale nel momento stesso in cui comincia a interrogarsi sull’ importanza della bomba atomica e finisce col contestare il lavoro che fa; vale a dire nel momento in cui constata la propria contraddizione, che è quella di servirsi di tecniche che fondano sull’universale per fini particolari, appartenenti a un gruppo particolare”139. Ciò che Sartre mette in luce è la possibilità di effettuare un atto tecnico di grande importanza, senza che l’esecutore materiale di tale atto s’interroghi su ciò che sta realizzando e quindi senza porsi la domanda sulle conseguenze generali che un’azione particolare può comportare. Nel caso di Basaglia porsi la domanda sulla responsabilità delle proprie azioni verso l’altro, costituisce il problema fondamentale per legittimare il proprio lavoro, poiché ciò che lui crea a Gorizia e poi a Trieste, costituisce un’azione tecnico-terapeutica che riguarda un piccolo settore della società, ma che assume una valenza universale, in quanto in maniera indiretta investe l’intero insieme comunitario. Quindi, una nuova prestazione terapeutica, che mira ad una possibile guarigione dall’alienazione mentale, porta con sé delle innovazioni e un cambiamento sociale, che deve essere ben Intervento di J. P. Sartre, contenuto nell’opera Crimini di Pace, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, p. 42.

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preparato e pensato, al fine di non creare situazioni di pericolo e di disagio maggiore, per tutti coloro che ne vengono investiti. Bisogna, quindi, pensare al bene dei protagonisti dell’innovazione, i malati mentali, ma anche di coloro che nel futuro saranno inevitabilmente coinvolti in questo cambiamento, cioè i cittadini “normali”. Perciò ogni qualvolta si vuole intraprendere un azione, non si può prescindere dalla responsabilità, verso gli altri, che essa porta con se, come giustamente scrive Bauman nell’opera Le sfide dell’etica: “Ciò che noi e gli altri facciamo produce “effetti collaterali”, “conseguenze inattese”, che possono neutralizzare qualsiasi buona intenzione e provocare disastri e sofferenze che né noi né altri abbiamo desiderato e previsto. Inoltre può colpire persone che noi, per quanto possiamo viaggiare lontano e vivere a lungo, non vedremo mai in volto. Possiamo far loro del male (o loro possono farlo a noi) senza volerlo, per ignoranza piuttosto che deliberatamente, senza che qualcuno in particolare lo desideri, agisca con cattiveria e si comporti comunque in maniera moralmente riprovevole”140. L’intento di Basaglia è quello di agire direttamente all’interno dell’istituzione, per comprendere quali siano le reali richieste dei degenti che si trovano all’interno di essa, costruendo così un luogo che possa rispondere ai loro bisogni e che parta proprio da essi, cioè da coloro che divengono oggetto di oppressione e di manipolazione. Il tentativo è quello di donare loro la possibilità di una vita conforme alle proprie aspettative esistenziali e che possa avvenire al di fuori di un luogo deputato al controllo repressivo. Per attuare tale provvedimento, che riguarda la sfera d’influenza della sanità pubblica, dovrà fare appello ad ogni fattore che possa e potrà diventare rilevante per l’esistenza degli altri, impegnandosi come teorizza Max Weber ad agire secondo un’etica della responsabilità, che 140

Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996, p. 24.

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punti non solo a prevedere e valutare le conseguenze delle proprie azioni, ma anche al non cadere nell’errore di giudicarle buone o cattive solo in base all’intenzione. “Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media degli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto […] di dare per scontata la loro bontà e perfezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguenze del suo proprio agire, per lo meno fin dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato”141. Lo psichiatra veneziano si trova così in una sorta di terreno minato, dove ogni azione può rivoltarsi all’intento originario, per divenire un nuovo strumento di oppressione o di destabilizzazione della società. La quale potrebbe in un futuro portare nuovamente alla scelta della chiusura istituzionale del malato nei manicomi, con l’aggravante di non poter più instaurare un dialogo, poiché il credito concesso ad un’azione di apertura societaria si sarà esaurito. Fabrizio Turoldo all’interno dell’opera Bioetica ed etica della responsabilità, si esprime nel seguente modo sul tema della sanità pubblica: “Nel campo della sanità pubblica si è responsabili tanto perciò che è già accaduto, quanto che per quello che potrebbe succedere, se tutte le possibili misure preventive non venissero messe in campo. Nel settore della sanità pubblica la responsabilità è intesa non più solo come responsabilità conseguente (come nel diritto penale), ma anche (e soprattutto) come responsabilità antecedente. La responsabilità antecedente è associata all’ idea di una condizione o di uno stato, come quando si dice che i genitori sono responsabili per i danni che i loro figli potrebbero causare”142 . M. Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2006, p. 122. F. Turoldo, Bioetica ed etica della responsabilità, dai fondamenti teorici alle applicazioni pratiche, Cittadella Editrice, Assisi 2009, p. 79-80. 141

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Tale definizione ben si sposa con ciò che Basaglia si trova a compiere, dando alla luce un nuovo modo di pensare e di agire sulla patologia mentale, i cui esiti saranno inevitabilmente legati alla sua figura. Eppure Basaglia era sicuro di ciò che faceva, ed era sicuro che la chiusura dei manicomi potesse costituire “l’arma” decisiva per la creazione di luoghi interamente terapeutici, e si avvalse della memoria storica, la quale insegna che l’integrazione del diverso è già stata possibile. Per tale maniera dinanzi ad una scelta etica, che poteva cambiare il corso della scienza psichiatrica, decise di correre il rischio, valutando tutte le possibilità e sapendo, come asserisce Hans Jonas, che: “La speranza è una condizione di ogni agire, poiché questo presuppone di potere conseguire qualcosa facendo affidamento sulla possibilità di ottenerlo in quel caso determinato. Per chi sa il fatto suo (e anche per chi è favorito dalla fortuna), potrà trattarsi non solo di speranza, ma anche di sicurezza sé. […] Non permettere che la paura distolga dell’agire, ma piuttosto sentirsi responsabili in anticipo per l’ ignoto costituisce, davanti all’ incertezza finale della speranza, proprio una condizione della responsabilità dell’ agire: appunto quel che si definisce il coraggio della responsabilità”143. Basaglia ha fatto suo ciò che Jonas ha definito il coraggio della responsabilità, poiché ha scelto, ha calcolato il rischio e ha avuto il coraggio di agire, ritenendo che la propria azione di cambiamento non minasse la sicurezza sociale e non comportasse in un prossimo futuro alcuna situazione ulteriore di disagio per i malati mentali. Lo psichiatra veneziano si pone così come esempio di un atteggiamento di critica costruttiva, che mira alla creazione di un qualcosa di nuovo, assumendosi la responsabilità di ciò che si attua e sapendo calcolare pienamente i rischi. Tuttavia pensare che Basaglia fosse l’unico che in questa situazione dovesse assumersi delle responsabilità corrisponde143

H. Jonas, Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990, p. 285.

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rebbe ad un errore, infatti, lui stesso ammette che la maggioranza di coloro che si trovano negli ospedali psichiatrici, anche se entrati in questo luogo contro la loro volontà, finiscono per trovarsi bene per quanto riguarda il poter usufruire di una scappatoia dalle responsabilità della vita quotidiana. Perciò il compito principale che il movimento di deistituzionalizzazione si prefissa è il far maturare il coraggio della responsabilità, in tutti coloro che si accingono a vivere nuovamente nello spazio vitale condiviso con le altre persone. L’assunzione di responsabilità assume così una rilevanza terapeutica per gli alienati mentali, che possono vivere ed agire al di fuori dell’istituzione totale, assumendosi però in prima persona i rischi e le responsabilità delle loro scelte, che s’inseriranno nuovamente in un contesto più ampio, che darà alla luce il proprio progetto di vita. A tal proposito Fabrizio Turoldo scrive: “il rispetto indica il semplice lasciare essere, la responsabilità, al contrario, ha una valenza attiva ed indica l’ impegno cui siamo chiamati per preservare la vita”144 . In tal maniera la responsabilità diventa la condizione fondamentale per riappropriarsi di se stessi e della propria vita.

5) La legge 180 La riflessione sulla condizione degli internati nei manicomi, che si basa su una rivalutazione dello spazio, del tempo, della responsabilità e della sicurezza, quindi su tutto il lavoro pratico e intellettuale, operato da Franco Basaglia, porta alla creazione della legge “180”. Essa, dal 13 maggio 1978, dichiara chiusa F. Turoldo, Bioetica ed etica della responsabilità, dai fondamenti teorici alle applicazioni pratiche, Cittadella Editrice, Assisi 2009, p. 106. 144

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l’esperienza dei manicomi e decreta la fine di una psichiatria mirante all’esercizio autoritario della forza. Il potere opprimente dell’istituzione viene così eliminato, con conseguente trasformazione di essa in un luogo atto ad ospitare e prendersi cura di quelle persone che soffrono in silenzio. “Vogliamo chiudere il manicomio perché questo calpesta i diritti umani del cittadino, e chiediamo di creare una rete assistenziale nuova, una rete che sia vicina ai bisogni della persona che sta male, una rete che sia vicina alla casa di chi sta male. La possibilità di avere, nel luogo dove vivo, qualcuno che mi aiuti, non un medico con la logica del medico, non un medico che medicalizzi il mio disturbo, non un medico che mi sfrutti ma una persona che risponda ai miei bisogni, che prevenga la mia malattia, che mi tenga in salute: questo pretendo da uno Stato che vuol dirsi democratico. E allora direi che l’alternativa è quella di creare, a spese dello stato, una rete assistenziale che risponda a questi bisogni”145. Nasce così una riforma che nessun altro paese nell’occidente ha conosciuto e che ancora oggi viene studiata e analizzata con cura, infatti, Gilberto Corbellini nell’introduzione al libro La razionalità negata scrive: “l’Italia è l’unico Paese occidentale ad avere in pratica identificato la riforma dell’assistenza psichiatrica con la decisione di abolire gli ospedali psichiatrici. È quindi pienamente giustificato l’ interesse perciò che avvenne dopo il 1978, per l’evoluzione dell’epidemiologia, nonché delle pratiche di assistenza e di prevenzione delle malattie mentali nelle condizioni create dalla legge 180”146 . Con la creazione della legge 180 ci si trova dinanzi ad un avvenimento storico importantissimo, ma nonostante le inF. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 223-224. 146 G. Corbellini in introduzione all’opera di Corbellini e Jervis, La razionalità negata, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 9. 145

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novazioni fondamentali per la cura della malattia mentale che la legge portava in dote, essa presentava alcune lacune. Esse erano dovute al fatto che la legge fosse stata approvata con molta fretta, per scongiurare un confronto referendario promosso dai radicali di Marco Pannella. Infatti, la legge, seppur fondata sulle idee dello psichiatra veneziano, non prevedeva all’interno dei suoi undici articoli alcun accenno all’istituzione dell’organizzazione dei servizi che avrebbero dovuto sostituire l’ospedale psichiatrico, condizione invece ritenuta indispensabile dallo stesso Basaglia per poter costituire una prassi terapeutica. Essa s’impegnava unicamente nell’attivare il processo di abolizione e superamento del manicomio come istituzione deputata alla cura della malattia mentale, limitandosi quindi a cancellare la possibilità d’internamento, vietando nuovi ingressi coercitivi e proibendo la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici. La legge si pose così solo come l’avvio ideologico della situazione cui Basaglia mirava, che avrebbe richiesto parecchio tempo per essere attuata. Basti pensare che la stessa legge si proponeva di abolire in tempi brevi i manicomi, ma gli atti legislativi che permisero di applicarla pienamente arrivarono solo nel 1996, e lungo tutto questo periodo furono proposti quaranta diversi disegni di legge per sottoporla a revisione. Inoltre, il fatto più importante di tutta la rivoluzione basagliana, ossia la costituzione dei centri di assistenza, venne demandato a momenti legislativi successivi, il primo dei quali è rappresentato dalla legge 833 del 23 dicembre 1978 che instituiva il Servizio Sanitario Nazionale. Per questo motivo non si può affermare che essa rappresenti il coronamento della volontà di Basaglia, ma potrà sicuramente costituire un punto d’inizio sul quale costruire ciò per cui egli si è battuto, ossia per cambiare la coscienza della propria disciplina che deve sempre andare alla ricerca dei propri criteri di esistenza.

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La legge rappresenta quindi, solo una tappa, seppur importantissima, del lungo cammino che la psichiatria deve intraprendere per riflettere e rivedere il proprio atteggiamento verso i malati che tiene in cura. Nonostante ciò il riconoscimento di questa legge e dell’operato di Basaglia non può essere messo in discussione, ne è garante la Francia, che seppur sia sta la prima con Pinel a creare i manicomi e sia stata la prima a Saint-Alban a provare la deistituzionalizzazione, il 6 aprile del 2001 nelle vesti del ministro Bernard Kouchner ha giudicato buona la legge Basaglia e si è disposto ad attuarla nel proprio stato, come riportato nell’articolo di Repubblica da Umberto Galimberti: “Non sempre in Europa siamo gli ultimi. Ieri il ministro francese Bernard Kouchner ha giudicato buona la legge Basaglia che vent’ anni fa chiudeva in Italia i manicomi e apriva i centri di assistenza sul territorio, e ora si dispone ad attuarla a sua volta in Francia, visti i buoni esiti che ha dato nel nostro paese dopo vent’ anni di sperimentazione”147. Sicuramente senza questa legge oggi avremmo meno possibilità di cura in ambito psichiatrico e forse saremo ancora confinati in una visione positivistica della malattia mentale, ma non si deve commettere l’errore di pensare che Basaglia sia stato un profeta, che ha dato vita alla definizione finale e assoluta dell’assistenza psichiatrica. Infatti, essa come tutto ciò che ruota attorno all’esistenza dell’uomo deve sempre rinnovarsi e indagare sulle proprie possibilità di esistere. Ciò non toglie che dobbiamo riconoscere allo psichiatra veneziano il grande merito di aver instaurato la presa di coscienza dei limiti contingenti dell’azione psichiatrica, smascherando l’ideologia scientifica che opera una manipolazione della realtà, poiché per essa non esistono né contraddizioni, né bisogni reali. Infatti, U. Galimberti, La Francia adotta Basaglia, Repubblica, 7 aprile 2001, p. 1.

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esiste unicamente l’organizzazione delle contraddizioni e dei bisogni, cioè l’organizzazione di un doppio, fittizio e ideologico, che ha la funzione di occultare l’esperienza. Per tal motivo non inscrive la malattia nel terreno della sofferenza, ma si limita alla razionalizzazione di essa mediante un’ideologia medica che s’incarica di occultarla. In questo modo l’intervento di Basaglia cambia radicalmente il mondo istituzionale-psichiatrico, in quanto riporta la malattia nel vissuto soggettivo proprio di ogni individualità. Quest’azione, però, non deve essere intesa come un elogio dell’irrazionalismo, né come una distruzione della ragione, ma deve essere percepita come una critica all’uso che ne viene fatto da parte degli psichiatri. Poiché nelle situazioni di non sapere che animano ogni persona dinanzi alla follia, essi pretendono di detenere la verità assoluta. Ciò che compie Basaglia, quindi, è una sospensione di tutte le nozioni assolute sulla malattia mentale, per tornare ad interrogarsi su di essa, affermando che per capire la follia bisogna approcciarla con la responsabilità che la filosofia socratica insegna da sempre nel motto: so di non sapere148 . Infatti, solo partendo da questa condizione sarà possibile tornare verso un’interrogazione pura della follia, che possa guardare ad essa con la lucidità e la libertà, che solo la distruzione di ogni preconcetto istituzionale può donare. Il gesto basagliano si connota così come un gesto critico, profondamente radicato in un’analisi storico politica, che interroga la ragione intorno alle sue mistificazioni ideologiche totalizzanti. Per concludere, quello che ci insegna Basaglia è che siamo uomini, e per capire le azioni che compiamo nel mondo dobbiamo avvicinarci al noi che c’è nell’altro, solo così avremmo la L’impegno prioritario di Socrate è volto allo smascheramento di ogni presunzione di verità, di ogni acquisizione superficiale del sapere, di ogni atteggiamento acritico e dogmatico. 148

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possibilità di capire che non tutto quello che creiamo, anche burocraticamente, può effettivamente avere un valore universale e totalizzante, poiché la diversità è un valore da salvaguardare e con essa l’umanità che spesso si perde nelle proprie innovazioni tecniche.

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