Folklore
 9788855292597, 9788855292603

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Indice
I Una parola per indicare la «cultura di chi non ha cultura»
Potremmo rispondere inerpicandoci in una disquisizione terminologica o ricalcare la definizione di un dizionario, ma preferiamo
Cosa si intende con
Le parole degli antichi

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TOMMASO BRACCINI

Folklore

L’eredità dei Greci e dei Romani non comprende solo le tracce materiali della loro civiltà o gli splendidi frutti della loro arte e della loro letteratura: queste culture hanno consegnato all’Occidente anche un vocabolario per descrivere il mondo, catalogare le forme della vita associata, organizzare le avventure dell’intelligenza o la percezione del corpo e della natura. Ecco perché esplorare quel vocabolario significa per un verso guardare agli antichi da un osservatorio privilegiato, in grado di restituire l’immagine di una straordinaria esperienza storica, per l’altro riconoscere loro la funzione di interlocutori dei quali non possiamo fare a meno per pensare le grandi questioni del nostro tempo.

Prossime uscite: 3. Democrazia, Stefano Ferrucci. 4. Corpo, Anna Maria Urso. 5. Utopia, Michele Napolitano.

Le parole degli antichi

Collana diretta da Mario Lentano

Le parole degli antichi 2

Tommaso Braccini

Folklore

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Le parole degli antichi ISSN: 2724-6086 n. 2 – luglio 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-259-7 ISBN – Ebook: 978-88-5529-260-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Springtime Fresco with trees, lilies flowers and swallows from palace of Minoan Settlement at Akrotiri on Santorini island, Cyclades, Greece © Zzvet – stock.adobe.com

I

Una parola per indicare la «cultura di chi non ha cultura»

1. Al di là della scuola Cosa si intende con folklore? Potremmo rispondere inerpicandoci in una disquisizione terminologica o ricalcare la definizione di un dizionario, ma preferiamo farlo, più semplicemente, con un paradosso: nelle pagine che seguono, con folklore indicheremo «la cultura di chi non ha cultura». Proviamo a spiegare questo apparente controsenso. In molte società, tanto antiche quanto moderne, con l’andare del tempo si sviluppano percorsi educativi e scolastici privilegiati, che richiedono un lungo apprendistato e che prevedono un curriculum formalizzato e standardizzato. In tali percorsi vengono trasmesse conoscenze certificate, accuratamente selezionate, spesso appiattite su un passato (più o meno idealizzato)

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considerato autorevole e fondativo, e limitate ad argomenti e forme espressive ritenute serie, di buon gusto, morali, scientifiche e razionali. E così, per fare un esempio tratto dalla realtà del nostro Paese, da secoli a scuola si studiano i grandi classici della letteratura italiana (Dante, I promessi sposi…), la poesia in forme canoniche (per esempio sonetti in endecasillabi), si acquisiscono comprovate conoscenze matematiche e scientifiche, ci si confronta con una storia evenemenziale rigorosa. Chi riceve e assimila questa cultura “alta”, soprattutto percorrendo fino in fondo il percorso dell’istruzione formalizzata, entra a far parte di una sorta di casta intellettuale che perpetua un certo tipo di conoscenze. Lo fa sia continuando a tramandare quelle già ricevute, sia creandone altre che rispettino gli stessi criteri contenutistici e formali. Si crea, insomma, una sorta di cortocircuito che, soprattutto in epoche di scarsa alfabetizzazione e limitato accesso alla scrittura (più la norma che l’eccezione, nella storia dell’umanità), produce anche un monopolio della rappresentazione e del ricordo letterario della realtà. Ciò, però, non vuol dire che al di fuori di questa dimensione non esista nulla. Anche chi non ha avuto pieno accesso a un

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percorso educativo canonico ha le sue poesie, le sue narrazioni, le proprie conoscenze scientifiche e mediche (i cosiddetti “rimedi popolari”), la propria concezione della storia, magari basata su leggende e tradizioni piuttosto che sullo studio di documenti. Questa “enciclopedia”, spesso tramandata solo oralmente, in molti casi viene vista con sufficienza o disprezzo dalle “persone che hanno studiato”, eppure costitui­ sce tutto un patrimonio che, per quanto certo molto meno ingessato e rigido dei programmi scolastici, non manca di coerenza e stabilità nel corso del tempo. Potremmo definirla «cultura popolare», con un’espressione certamente comprensibile (e in effetti ricorrerà occasionalmente anche nelle pagine che seguono), ma forse storicamente legata a una serie di implicazioni e rivendicazioni economiche e sociali che rischiano di essere fuorvianti. Per questo sembra preferibile utilizzare, collocandosi in un’amplissima tradizione di studi (anche relativi all’antichità), il termine più neutro, almeno a livello di percezione comune, di folklore. Si tratta di una parola inglese, nata nell’Ottocento, che letteralmente significa «tradizioni e conoscenze [lore] del popolo [folk]».

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2. Intrecci ed eclissi di culture Peraltro i due mondi, quello della cultura “alta” e quello del folklore, non sono compartimenti stagni. Anche chi non ha studiato può apprezzare e in qualche misura fare propria un’opera letteraria elevata, pur non avendo tutti gli strumenti per valutarla e inquadrarla: basti pensare ai contadini analfabeti o semianalfabeti che, fino a qualche decennio fa, erano in grado di recitare a memoria la Divina Commedia o la Gerusalemme liberata. Allo stesso modo, ogni scienziato o letterato, prima di intraprendere il suo percorso di formazione, è stato un bambino, immerso dunque nella dimensione tipicamente folklorica dei giochi, delle ninne nanne, delle filastrocche, delle fiabe, degli spauracchi e dei rimedi della nonna; e per tutta la vita continua ad avere interazioni con persone prive di un’educazione elevata (a partire, spesso, dagli stessi familiari). Per questo ben difficilmente gli “uomini di cultura” sono totalmente all’oscuro dei contenuti del folklore, anche se in genere lo danno a vedere solo in contesti informali o scherzosi. Un po’ come l’uso del dialetto tra le mura domestiche o nel paese di provenienza, che tuttavia lascia rigorosamente il posto all’italiano in contesti professionali o formali.

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Naturalmente, la divergenza tra cultura “alta” e cultura folklorica non è sempre costante. In alcuni ambiti e in alcune epoche, anzi, lo scarto è molto ridotto, se non quasi inesistente; man mano tuttavia che si cristallizza e si stratifica una tradizione culturale privilegiata, che non si apprende con il latte materno, per così dire, ma con un percorso formativo speciale, e che si perpetua (spesso in maniera sempre più auto­referenziale) nelle proprie forme, regole e contenuti, la distanza tra folklore e cultura scientifico-letteraria dominante si fa sempre più ampia. E d’altro canto, la collocazione di elementi culturali in questi due ambiti non è predeterminata e assoluta, ma del tutto relativa: un dato folklorico in un’epoca e in un luogo può appartenere, in altre circostanze di tempo e di spazio, alla cultura elevata. Anche tenendo conto di questi scarti e di queste fluttuazioni, in ogni caso, le conoscenze folkloriche costituiscono comunque nelle varie epoche l’enciclopedia culturale accessibile alla maggior parte della popolazione, se non alla quasi totalità – anche a coloro che le ripudiano o le censurano. Tuttavia, per una sorta di distorsione ottica, la traccia che tali conoscenze hanno finito per lasciare, soprattutto nel passato più

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lontano, è molto ridotta, e spesso consiste solo in scampoli marginali. Questo non stupisce: come si è detto, il controllo della memoria scritta è appannaggio, o perlomeno lo è stato fino in epoche molto recenti, proprio della casta dei letterati e delle persone istruite. Si parla così di «esclusione del folklore», per usare un’espressione di Alberto Vàrvaro: soprattutto quando (si pensi per esempio al medioevo) la scrittura è stata appannaggio di pochissimi, e la produzione dei libri un processo costoso e complesso, ha avuto luogo una selezione durissima che da un lato ha impedito che nella pagina scritta filtrassero ed emergessero elementi folklorici (visti come superflui, banali, inutili e non meritevoli dello sforzo richiesto), e dall’altro ha condannato alla scomparsa vari testi preesistenti che mostravano aperture in tal senso, in quanto giudicati troppo eccentrici e non corrispondenti ai gusti e all’orientamento formale, ideologico e religioso dominante. In effetti, il muro opposto dai letterati alla cultura folklorica non è sempre monolitico, e talora, magari in sordina, possono verificarsi ingressi di materiale “popolare” in opere destinate alla fruizione di quella casta intellettuale di cui si parlava prima. Si può pensare a lessici o re-

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pertori enciclopedici, dove si registrano parole e particolarità linguistiche che talora offrono piccoli spiragli di vita quotidiana, oppure alle evocazioni, più o meno idealizzate, di scenette di vita rustica o “plebea” (attestate, nel mondo antico, in particolare nell’età ellenistica). In maniera più diretta, però, il folklore erompe soprattutto da contesti comici e parodici. Qui spesso ci si fa beffe degli incolti, presupponendo tuttavia che il pubblico, composto da lettori istruiti, abbia ben presente di cosa si sta parlando – un ulteriore segnale della diffusione trasversale, per quanto spesso sotterranea, delle conoscenze folkloriche. Quest’approccio parodico ha luogo, per esempio, nel Satyricon di Petronio e in varie opere di Luciano di Samosata. 3. Una contraddizione solo apparente Ovviamente si potrebbero citare esempi di un simile approccio da tutte le epoche, ma ricordare alcuni testi greci e latini ci ha permesso di avvicinarci all’argomento di questo libro, e all’apparente contraddizione che ne è al centro. Proprio gli autori antichi, infatti, contribuiscono significativamente a costituire quello zoccolo duro di conoscenze che da secoli, se non da mil-

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lenni, costituisce il patrimonio e l’orgoglio della casta intellettuale forgiata dai sistemi d’istruzione: sono, insomma, “classici”. L’accostamento dei classici con il folklore, espressione di una “enciclopedia” altra rispetto ai sistemi di educazione privilegiata, sembra, dunque, in qualche modo ossimorico. E anche l’effetto di distorsione ottica menzionato in precedenza contribuisce a rafforzare quest’impressione. Eppure, le stesse allusioni che ci derivano dagli autori antichi ci fanno comprendere come anche in Grecia e a Roma esistesse un vero e proprio patrimonio folklorico. E dal momento che il folklore, come si è detto in precedenza, in maniera esclusiva o più marginale rientrava comunque nell’enciclopedia culturale della maggior parte della popolazione, pare evidente che, se vogliamo conoscere l’antichità per come davvero era, sia molto importante indagare anche questo aspetto. Nelle pagine che seguono si cercherà, dunque, di fare un viaggio tra le manifestazioni della “cultura popolare” degli antichi. Prima di iniziare, però, occorre porsi un’altra domanda. Folklo­ re e i suoi sinonimi, come osservato in precedenza, sono creazioni piuttosto recenti. Questo non stupisce, perché lo studio delle tradizioni popolari nasce, per l’appunto, tra Sette e Otto-

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cento. Nell’antichità, tuttavia, c’è una terminologia che ci potrebbe permettere di avvicinarci a questo concetto in termini più emici, ovvero più vicini alla cultura di riferimento? Non sono mancati, anche in anni recenti, importanti tentativi di rispondere a questa domanda, che si richiamano a espressioni greche e latine relative al “popolare”, al “rustico” e al “tradizionale”. Sono tutte categorie produttive, ma che rischiano di essere problematiche in alcune implicazioni. “Popolare” (con riferimento al greco dêmos, al latino vulgus e ai loro derivati) è forse quella più efficace, ma le istanze folkloriche nell’antichità, come si vedrà, potevano essere appannaggio anche di figure che spiccavano decisamente, a livello economico e sociale, rispetto alla massa. “Rustico”, con il suo riferimento alla campagna e alla vita agricola, tende a lasciar fuori credenze e narrazioni che coinvolgevano l’ambito cittadino; “tradizionale” (un concetto che, peraltro, in vari ambiti è visto positivamente anche dalla cultura scolastica) evidenzia l’apparente immobilità e conservatività che spesso viene attribuita alla cultura folklorica, storicamente evidenziata anche da una serie di termini che in Inghilterra avevano preceduto folklore, come popular antiquities

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e, nel Settecento, antiquitates vulgares. Non a caso, il folklo­re è stato definito, ancora in tempi non troppo lontani, «porzione di società che nel presente conserva il passato». Tuttavia queste accezioni oscurano il dinamismo della “cultura popolare”, che le deriva dall’essere svincolata da modelli cristallizzati imposti dall’alto, e che le consente di adottare innovazioni (a partire da quelle linguistiche, ma il discorso potrebbe essere esteso a narrazioni e credenze di vario genere) con più facilità della cultura elevata, spesso ingessata e preoccupata di conservare una propria purezza. Nel corso del tempo, in spazi in cui c’è circolazione e contatto tra diverse tradizioni, ha infatti inevitabilmente luogo un’osmosi delle idee che valica anche le differenze religiose o etniche. E il folklore, nonostante l’uso che spesso se ne fa a fini nazionalistici, è per sua natura estremamente pragmatico e dunque inclusivo: se una tradizione, un uso, una credenza, una storia degli “altri” sembrano rispondere efficacemente a una “nostra” esigenza (dalla voglia di svago alla ricerca di spiegazioni e soluzioni a problemi e difficoltà della vita), vengono adottati e adattati senza troppe complicazioni.

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4. La paidéia… e la sua assenza Un punto di partenza diverso potrebbe essere costituito, riallacciandoci proprio alla visione del folklore come «cultura di chi non aveva cultura», dal concetto greco di paidéia, l’«educazione», che presto si identificò con un curriculum di studi in grado di esaltare le virtù dell’uomo e di renderlo un cittadino maturo e consapevole. Gli individui “educati” in questo senso, appartenenti insomma alla casta dei letterati, erano detti pepaideuménoi, mentre coloro che si collocavano al di fuori di tale percorso erano definiti apáideutoi. Platone sottolineava come tra questi ultimi andassero annoverati anche coloro che avevano ricevuto una formazione tecnica e professionale, come si direbbe oggi (per esempio osti e armatori di navi), ma non umanistica. E in effetti è sulla categoria degli apáideutoi, di coloro che erano digiuni di un’appropriata educazione umanistico-scientifica, che occorre incentrare la nostra attenzione. Le fonti antiche ci permettono di individuare una serie di caratteristiche che venivano associate alla folla degli apáideutoi, come i gusti grossolani e la scurrilità, e ancora l’irragionevolezza e l’irrazionalità, che li portano a essere comparati a barbari e bambini. Questi ultimi, peraltro, se vanno a scuola, posso-

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no sempre trasformarsi in pepaideuménoi; ma, fino a quel momento, sono ancora preda di paure che coloro che rimangono apáideutoi si porteranno dietro fino all’età matura, come quella del buio. Quest’ultima osservazione di Galeno, un grande medico (e in generale uomo di cultura) dell’antichità, sembra rimandare implicitamente al tema delle credenze superstiziose (qui e in seguito superstizione verrà usato non come termine di valore assoluto, ma utilizzando il metro dei letterati), in particolare a quelle sulle figure della paura, che in effetti costituiscono una branca importante degli studi folklorici. Allo stesso modo, nelle parole di un altro autore antico, Strabone, «sempliciotti e ignoranti sono in un certo modo bambini e si compiacciono dei racconti», e difatti leggende, favole e fiabe (spesso ancora oggi relegate ingiustamente nell’ambito della letteratura per l’infanzia) sono un altro ambito rilevante della folkloristica. Un’altra categoria cui spesso erano identificati gli apáideutoi, oltre a barbari e ragazzi, era quella delle donne. E in effetti, proprio dai saperi “bassi” delle donne la folkloristica ha ricavato molti materiali nel corso del tempo, in particolare canti e fiabe: basti pensare alle infinite narrazioni che Giuseppe Pitrè poté ricava-

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re dalla sua informatrice prediletta, l’analfabeta palermitana Agatuzza Messia. È però importante sottolineare come gli apái­ deutoi antichi non necessariamente appartenessero a classi o categorie subalterne o economicamente svantaggiate, come talora porterebbe a pensare il ricorso al concetto moderno di “cultura popolare”. In realtà, nell’antichità poteva essere vero esattamente il contrario: basterebbe menzionare l’arricchito e volgarissimo Trimalchione del Satyricon di Petronio, ma si può ricordare che Plutarco in un suo scritto si rivolgeva A un principe ignorante, e non mancavano favole e proverbi che stigmatizzavano la parrhesía, la «libertà di parola» dei ricchi apái­ deutoi, che, confortati dal loro patrimonio, pensavano di poter mettere bocca su tutto (un fenomeno davvero senza tempo). Anzi, come lo stesso Satyricon mostra, spesso erano proprio i letterati a essere squattrinati e ai margini della società (altro elemento, purtroppo, di lunga durata). Sul lungo periodo, però, sarebbero stati questi ultimi ad avere la meglio, giacché, come si è detto, furono proprio i pepaideuménoi a gestire la memoria scritta dell’antichità, in particolare attraverso un’opera di selezione scolastica formale e contenutistica.

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Gli apáideutoi non erano nemmeno necessariamente analfabeti o privi di ogni nozione: gli “ignoranti”, anzi, potevano leggere libri e persino atteggiarsi a bibliofili (con grande stizza di Luciano, che scrive per l’appunto un pungente pamphlet Contro un bibliofilo ignorante), e non erano privi di una qualche conoscenza della mitologia. È l’ennesima prova dell’esistenza di margini di trasversalità, dal punto di vista dei contenuti, tra cultura “alta” e “popolare”. Finora abbiamo parlato degli “ignoranti”. C’era un termine, però, che avrebbe potuto in qualche modo indicare il complesso di pratiche, credenze, gusti, insomma della cultura di cui erano portatori? Forse, ispirandoci a un’espressione attestata in filosofia (v. infra, p. 100), potremmo pensare ad apáideutos bíos, «vita incolta», intendendo con bíos, in questo caso, non tanto la vita biologica, ma i costumi e le idee che caratterizzano l’esistenza umana, in questo caso quella degli “incolti”. E dunque proprio con apáideutos bíos si può intendere, per riprendere l’espressione paradossale usata in precedenza, «la cultura di chi non aveva cultura», intesa in tutti i suoi aspetti che vanno a comporre il folklore: usanze, abitudini, conoscenze pratiche, credenze, e l’intero complesso della “letteratura orale”.

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5. Le opportunità della comparazione, i rischi delle “sopravvivenze” Nelle pagine che seguono andremo in cerca di questo universo, privilegiando peraltro soprattutto le manifestazioni verbali, che ci permettono di intavolare, meglio di altre, un dialogo con gli antichi. Il percorso che andremo ad affrontare non sarà sempre agevole. Proprio perché, come si è visto, spesso la “letteratura folklorica” è stata ignorata o marginalizzata dai detentori della memoria scritta ufficiale, e questo vale particolarmente per quella greca e romana, i cui testi hanno dovuto superare anche l’ulteriore filtro del medioevo, in molti casi non riusciremo a trovare più di tracce e frammenti. Per inquadrare meglio tali scampoli, nel tentativo di ricostruir­ne contesti e significatività, un aiuto prezioso è però offerto dalla comparazione con il folklo­re moderno e contemporaneo, su cui siamo meglio documentati. Raffronti di questo tipo sono resi possibili soprattutto da quelli che si potrebbero definire gli “archivi dell’antropologia”, e in particolare dai repertori di materiali folklorici che si vanno approntando dall’Ottocento, in forme sempre più ampie e raffinate. Ovviamente non è detto che tutte le storie e le

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credenze di questo genere diffuse nell’antichità abbiano corrispettivi moderni. Tuttavia, spesso è possibile rintracciare similarità anche molto strette e sovrapposizioni, sia per fenomeni di poligenesi (risposte analoghe ma indipendenti a stimoli identici, anche sulla base del cosiddetto «principio delle possibilità limitate»), sia per autentiche continuità. Gli studi folklorici, infatti, hanno accertato come il grado di entropia che caratterizza la trasmissione delle tradizioni orali possa essere sorprendentemente basso, permettendo anzi, in circostanze favorevoli, la loro permanenza in circolazione per lunghissimo tempo. Tali circostanze consistono nella stabilità delle condizioni socio-culturali in cui un messaggio viene trasmesso. È quella che è nota come «teo­ ria del condotto»: le narrazioni e le tradizioni orali scorrono al riparo da alterazioni macroscopiche, come in un condotto, fintantoché il loro passaggio avviene in un contesto sostanzialmente corrispondente a quello nel quale sono state concepite. Se invece il «portatore attivo» di una tradizione (cioè, sostanzialmente, chi la racconta) si trova a esporla in un contesto differente (come può essere il caso di un mercante o di un viaggiatore che dialoga con persone incontrate lontano dalla sua patria), o l’ambito stesso in cui

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è diffusa una storia cambia (per esempio perché variano massicciamente le condizioni di vita, come nel passaggio da una società contadina a una industriale, o perché si introducono elementi di rottura con il passato, come una nuova religione), allora il «condotto» si interrompe e la narrazione si trova allo scoperto, esposta e vulnerabile. A questo punto possono accadere due cose: l’ambito di arrivo può non essere (più) ricettivo, perché l’elemento folklorico non risulta (più) significativo o rilevante, e dunque quest’ultimo va perduto; oppure la tradizione si adatta al mutato contesto e dà vita, quindi, a una nuova variante («ecotipo»), che può presentare adeguamenti sul fronte della lingua, degli allomotifs o equivalenti simbolici (lo sciacallo in una fiaba del Nordafrica si trasforma dunque in un volpe una volta approdato sulla sponda settentrionale del Mediterraneo), dei contenuti stessi che potranno essere più o meno alterati. L’essenziale è che il messaggio risulti ancora significativo e attuale, perché questo gli permette di ricominciare il suo percorso all’interno di un «condotto», fino al successivo cambiamento di contesto. Un fenomeno di questo tipo, come si diceva, può consentire continuità (che, è bene notare, non equivale a immutabilità) anche sul lun-

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ghissimo periodo. Questo corrisponde per molti versi a un desideratum che per lungo tempo ha accompagnato, non senza ingenuità, lo sviluppo degli studi folklorici: la volontà di individuare a tutti i costi fossili e “sopravvivenze” dell’antichità (preistorica, germanica, classica…) nelle tradizioni moderne. L’atteggiamento, oggi, dev’essere però molto più responsabile e consapevole del fatto che la cultura folklorica è un “rumore di fondo” dinamico e interconnesso, persistente ma allo stesso tempo adattabile e inclusivo, e non un cimitero degli elefanti o un museo archeologico. Lo studio delle manifestazioni del folklore nella loro complessità ha un suo valore che prescinde dalla loro relazione con un passato più o meno remoto. Nel fare comparazione tra «la cultura di chi non aveva cultura» antica e moderna, per tentare di completare e chiarire le testimonianze della prima, nel caso che siano frammentarie o carenti, o per ricostruire l’ambito nel quale erano trasmesse e risultavano significative, occorre dunque rispettare e contestualizzare entrambi i termini di riferimento. Per farlo, è importante ricordarsi anche della compresenza della tradizione letteraria (che può anch’essa, come si è detto, entrare nei «condotti») e della produtti-

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vità della dimensione “orizzontale”, ovvero gli apporti da altre culture contemporanee rispetto a quella presa in esame. E d’altro canto, infine, nella comparazione le differenze possono essere preziose tanto quanto le somiglianze o le invarianze, proprio perché ci consentono di mettere meglio a fuoco quei fenomeni di adattamento e radicamento in ambienti diversi (nel tempo e nello spazio) che caratterizzano le tradizioni viventi del folklore. Ma adesso, dopo questa lunga introduzione, è giunto il momento di cercare di immergerci in questo “rumore di fondo” dell’apáideutos bíos degli antichi. E per farlo, non c’è migliore inizio dei canti beneauguranti che gruppi di bambini intonavano all’arrivo della primavera.

II

Canti e canzoni

1. Il canto della rondine e le questue Fin dall’Ottocento, i repertori in cui gli studiosi hanno raccolto quel che resta della poe­sia lirica greca presentano piccole sezioni di car­ mina popularia, «canti popolari». In realtà, si tratta di materiali mutevoli ed eterogenei, inclusi o esclusi a seconda del parere dei curatori (la classificazione, infatti, non deriva dagli antichi, che solo in qualche caso li qualificano come demódeis, «popolari»), i quali hanno raccolto componimenti interi o singoli versi cantati in ricorrenze pubbliche e private, cerimonie civili e religiose, circostanze ludiche, durante l’esecuzione di danze e attività lavorative, talora per svago. In tempi recenti, studiosi autorevoli sono giunti persino a chiedersi provocatoriamente, di fronte all’incongruenza e all’instabilità di

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questo campionario, se la “poesia popolare” sia mai esistita nella Grecia antica, arrivando però a concludere che qualcosa in effetti, con una serie di cautele metodologiche, può essere rintracciato. Tra i canti che vengono considerati genuinamente legati a un contesto folklorico ci sono in primo luogo quelli connessi alle occasioni di questua, in cui gruppi di persone, perlopiù ragazzi, giravano per le case chiedendo doni e piccole offerte, come nel mondo contemporaneo e globalizzato avviene ancora ad Halloween. Nell’antica Grecia qualcosa del genere aveva luogo all’arrivo della primavera. Protagonista del canto dei questuanti era l’uccello che, allora come oggi, simboleggia l’arrivo della bella stagione, la rondine (chelidón). Un esempio ci viene fornito da Ateneo di Naucrati, un erudito del II secolo d.C., all’interno dei suoi Deipnosofisti, «Sapienti a banchetto», un’opera che citeremo spesso. L’autore immagina che una compagnia di eruditi, durante un simposio, si trovi a discettare di una varietà vertiginosa di tematiche più o meno legate all’occasione, e soprattutto lo faccia sommergendo i propri interlocutori con citazioni tratte da un’infinità di scrittori del passato. Alla tavola di Ateneo sfilano così brani tratti da opere notissime, ma anche altri, per

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noi particolarmente preziosi, derivati da testi che altrimenti sarebbero andati completamente perduti. Tra questi c’è un brano dell’oscurissimo Teognide di Rodi che, trattando delle usanze della sua patria, riportava il canto legato a una questua che aveva luogo nel mese primaverile di Boedromione, e che recitava così: È arrivata, è arrivata la rondine, che porta la bella stagione, che porta i bei tempi, con la pancia bianca e la schiena nera! Non ci porti un rotolo di frutta secca dalla tua casa pasciuta, una coppa di vino, e di formaggio un canestro? La rondine né grano e nemmeno il pane di legumi rifiuta: ce ne dobbiamo andare o prendiamo qualcosa? Bene se ci darai qualcosa, ma sennò, non molleremo: portiamoci via la porta, o l’architrave, o tua moglie che siede dentro: è piccola e via la porteremo facilmente! E se ci porti qualcosa, bada che sia grande! Apri, apri la porta alla rondine: non siamo mica vecchi, ma bambini!

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È interessante notare che i ragazzini che effettuavano la questua, esattamente come accade oggi per Halloween, lanciavano minacce scherzose al padrone di casa nel caso non avesse dato loro qualcosa da mangiare. Anche nelle questue che avevano tradizionalmente luogo in Italia alla vigilia della Befana, per esempio in Garfagnana, quest’elemento era ben presente: Tocca voi signora sposa metter mano ai cassettini, che sian noci o zuccarini purché a noi diate qualcosa. Tocca a voi signora sposa! Se ci date le nocelle canterem fino alle stelle, se ci date del buon vino canterem fino al mattino; e se nulla a noi ci date, pregherem per le faine che vi mangin le galline, i galletti e le pulcine!

Il caso di Halloween e quello delle cosiddette «befanate» possono essere considerati altrettanti esempi di convergenze evolutive tra usanze distinte: quando compagnie di bambini e giovani cercano di raggranellare qualcosa girando per

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le case in occasione di varie ricorrenze, da un lato si ricorre a un contesto ritualizzato e augurale (almeno nel caso greco e garfagnino) per rendere accettabile l’evento, e dall’altro, per stimolare la generosità dei propri interlocutori, si fa uso anche di minacce scherzose. Dal confronto emerge peraltro anche una differenza molto significativa: in Garfagnana si apostrofava la padrona di casa, ma a Rodi era il marito a presentarsi alla porta, mentre la moglie rimaneva all’interno, ben lontana dagli estranei. La questua della rondine, che ci è nota solo dalle pagine di qualche erudito antico, nella realtà doveva essere molto diffusa. E dato che l’arrivo della primavera è sempre rimasto un momento significativo, non stupisce che quest’usanza sia riuscita ad attraversare i secoli. I «canti della rondine» (chelidonísmata) sono attestati ancora nella Grecia moderna, talora con un verso iniziale che è l’esatto corrispondente di quello dell’antica versione rodia: «È arrivata, è arrivata la rondine!». Su YouTube, per esempio, si possono trovare vari filmati in cui i bambini si dedicano alla questua, spesso recando con sé figurine di rondini, e un cestino in cui riporre i doni. Certo, non tutto è identico, giacché ogni tradizione per rimanere viva deve incessantemente adattarsi:

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ad esempio, nelle versioni moderne si fa menzione del mese di marzo e non più di Boedromione, e, in maniera un po’ cruda, talora si auspica che con il suo arrivo la primavera faccia sparire le pulci che, durante l’inverno, avevano proliferato nella casa. Di questo non c’è traccia nella versione di Teognide di Rodi, forse edulcorata, o forse riflesso di diverse condizioni abitative. I «canti della rondine», peraltro, non erano gli unici canti di questua della Grecia antica. Esistevano anche i «canti della cornacchia» (detta koróne), che probabilmente accompagnavano una questua autunnale (la stagione associata al volatile in questione), i cui partecipanti erano chiamati koronistái, «cornacchisti». Di tali canti, però, ci resta solo la rielaborazione composta nel III secolo a.C. dal poeta Fenice di Colofone. In questo caso, l’inno dei questuanti inizia con «Nobili signori, date una manciata d’orzo alla cornacchia», ma non possiamo sapere se fosse così anche nelle versioni che circolavano tra gli apáideutoi. 2. Il ballo dei fiori È sempre Ateneo, poi, a riportare il canto che accompagnava la danza detta ánthema (proba-

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bilmente da intendere come «ballo dei fiori»), praticata dalla «gente comune» (idiôtai, un termine spesso accostato – per quanto con una valenza particolarmente spregiativa – proprio ad apáideutoi): Dove sono le mie rose, dove le mie viole, dove i miei bei sedani? Eccole qua le rose, eccole le viole, eccoli qua i bei sedani!

Se non stupisce che venga fatta menzione di rose e viole in una danza chiamata «ballo dei fiori», la comparsa del sedano risulta per noi stupefacente, stonata, quasi grottesca. Questo è uno dei casi in cui la nostra percezione è molto differente da quella degli antichi. Se oggi, infatti, facciamo fatica a immaginare per il sedano una collocazione differente dal bancone delle verdure in un supermercato, presso i Greci si attivavano invece associazioni molto differenti. Con il sedano (soprattutto nella sua varietà selvatica, più aggraziata di quella che conosciamo noi), infatti, venivano intrecciate corone per i vincitori di alcune competizioni atletiche, e con i suoi fiorellini bianchi erano adornate anche le tombe. Con sélinon, «sedano», inoltre, potevano

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essere indicati anche i genitali femminili, esattamente come con il termine «rosa» (con una metafora che in questo caso ha ampio corso anche in italiano): e ciò ha fatto pensare che il «ballo dei fiori» fosse caratterizzato da allusioni maliziose, e che i primi due versi fossero cantati dai partecipanti di sesso maschile, mentre gli altri due versi avrebbero costituito la risposta delle ragazze. L’ipotesi è attraente, in quanto potrebbe contare anche su paralleli folklorici moderni, e ci permetterebbe di ricostruire qualcosa in più del contesto di questa danza; tuttavia, in mancanza di altri riscontri, è più prudente non considerarla nulla di più di una supposizione, per quanto allettante. 3. La canzone degli amanti È ancora una volta Ateneo a fornire un ulteriore esempio di canto folklorico, che significativamente viene citato da uno dei partecipanti al Banchetto dei saggi per punzecchiare Ulpiano, un altro dei commensali. Costui viene tacciato di prediligere le composizioni «volgari», «sguaia­ te» (kapyrói) in contrapposizione a quelle più ricercate e raffinate: è il tema della rozzezza, o perlomeno della mancanza di gusto ed equi-

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librio, che è spesso imputata agli apáideutoi e alla loro estetica. Il componimento “volgare” in questione è una «locrina», un genere di canzone che prendeva il nome dalla città di Locri, in Calabria, i cui abitanti avevano fama di notevole libertà di costumi. In effetti, al centro del brano sono le parole concitate rivolte alle prime luci dell’alba da una donna al proprio amante che, verosimilmente, stava per cedere al sonno dopo una notte movimentata: Ehi, che ti succede? Non rovinarci, ti supplico: prima che arrivi quello, tirati su, se non vuoi che faccia molto male a te e a me, la sventurata! È giorno fatto, ormai: la luce non la vedi entrar dalla finestra?

L’impressione è che, al tempo di Ateneo, «locrina» fosse una denominazione generica per un tipo di canzonetta in voga, talora di contenuto piccante, che circolava un po’ dappertutto: nei Deipnosofisti, subito dopo la citazione, si ricorda infatti che «di composizioni simili era piena tutta la Fenicia». In effetti l’anonimato, la variabilità (Ateneo specifica che «alcune» delle locrine – ma non tutte – parlano di adulteri, e introduce la sua citazione con «come questa», a significa-

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re che si tratta di un esempio tra tanti), nonché la ricorrenza di generi e tipi oltre i confini più strettamente locali, risultano tutti tratti tipici dei materiali folklorici. Sono questi gli elementi che permettono di parlare di “poesia popolare” per questa canzone, insieme ai paralleli che emergono indipendentemente in altre tradizioni. Il tema dell’aube o aubade, l’arrivo dell’alba che sorprende gli innamorati o gli amanti a letto, è presente infatti anche nel medioevo, come in una celebre ballata anonima, presumibilmente in gran voga all’epoca, che un notaio bolognese aveva copiato nel 1286 negli spazi bianchi di un suo memoriale come garanzia contro le adulterazioni (come noi siamo soliti tracciare linee nei campi degli assegni bancari deputati alla scrittura delle cifre). Il componimento, che ha avuto la meglio sull’«esclusione del folklore» in questa maniera rocambolesca, inizia con: Pàrtite, amore, adeo [«addio»], ché tropo çe se’ stato: lo maitino è sonato, zorno me par che sia.

La suggestione dell’alba che sorprende una coppia di amanti e la necessità che l’uomo tol-

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ga rapidamente le tende per non farsi scoprire avevano la capacità di colpire l’immaginazione e di far circolare, per quanto in tempi e luoghi lontani, canti “popolari” dal gusto vagamente malizioso. Questi suscitavano la riprovazione dei letterati più raffinati, che li tenevano lontani dalla pagina scritta. Solo l’onnivoro collezionismo verbale di Ateneo e la necessità di un notaio bolognese di riempire uno spazio bianco con la prima cosa che gli veniva in mente ci hanno permesso di conoscere questi due componimenti che altrimenti sarebbero svaniti nel nulla, come tantissimi altri. Se si fanno paralleli con gli ambienti tradizionali, infatti, dove fino a qualche decennio fa i canti erano diffusissimi e accompagnavano la vita quotidiana (in una maniera analoga a quanto la musica – registrata e riprodotta con i dispositivi più vari, però – accompagna la nostra), si può sospettare che quel che ci è arrivato dall’antichità costituisca veramente la minima frazione di un corpus vastissimo. E infatti sappiamo che nell’antichità cantavano i viandanti, i vignaioli, coloro che pestavano l’uva nei tini, i rematori, le donne impegnate al telaio… D’altro canto, è verosimile che anche in quest’ambito non mancasse un interscambio tra la cultura dei

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letterati e quella di chi “non aveva cultura”. Nel presupposto che, anche in questo campo, possa essere stato attivo l’“effetto condotto”, oggi non mancano studi di grande interesse in cui si cercano di rintracciare motivi e temi comuni, in chiave di continuità, tra i canti greci moderni e la poesia greca antica.

III

Giochi e paure infantili

1. Filastrocche e gare di corsa a Roma Finora, peraltro, si è parlato pressoché esclusivamente di canti e poesia popolari di ambito ellenico. C’era qualcosa del genere anche a Roma? Ci sarebbe da stupirsi del contrario, ma in questo caso, purtroppo, abbiamo ancora meno materiale cui fare riferimento. Le raccolte di frammenti poetici latini riportano tradizionalmente una piccola sezione di Versiculi populares et pueriles («Piccoli versi popolari e infantili»), da cui per esempio si può ricavare una cantilena recitata dai bambini all’interno dei loro giochi, presumibilmente quando c’era da individuare un “capo” o da giudicarne l’operato: sarà re chi bene agirà, e chi così non agirà, re non sarà.

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È interessante soffermarsi su quale sia la provenienza di questo verso (tecnicamente un settenario trocaico, quello che i Romani chiamano «verso quadrato»). Lo riporta Porfirione, un antico commentatore di Orazio, che con questo riferimento ai giochi infantili spiegava un’allusione del poeta all’interno delle sue Episto­ le. Sempre dai commentatori oraziani, stavolta all’Ars poetica, sappiamo che i bambini nelle loro gare di corsa esclamavano: L’ultimo che arriva ha la scabbia!

Questa frase poteva essere gridata “a tradimento” quando gli altri compagni meno se lo aspettavano. È esattamente quello che avviene ancora oggi quando, scherzosamente, un bambino inizia a correre all’improvviso e grida ai compagni: «L’ultimo che arriva è un asino!», o qualcosa di meno simpatico. Nella versione latina colpisce peraltro la scelta del riferimento negativo: chi era affetto dalla scabbia. Ai nostri occhi questo modo di rapportarsi verso gli ammalati può sembrare irrispettoso e insensibile, ma nell’antichità non ci si ponevano molti problemi di political correctness, e, anzi, chi aveva difetti fisici, menomazioni di vario genere o

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malattie era spesso oggetto di battute e strali anche pungenti: eunuchi e malati di idropisia, per esempio, ricorrono spesso (loro malgrado, c’è da immaginarsi) nelle barzellette tramandate nella raccolta greca del Philogelos, il «Ridanciano» (v. infra, pp. 143-146). Gli stessi commentatori oraziani rivelano che la frase sulla scabbia era stata censita nientemeno che da Svetonio, il celebre biografo dei Cesari, all’interno di un’opera perduta intitolata proprio Sui giochi dei bambini. Se il medioevo l’avesse risparmiata (ma forse era troppo compromessa con pratiche giudicate poco serie per superare, anche se scritta da un autore noto, l’«esclusione del folklore»), sicuramente sapremmo molto di più sui passatempi dei piccoli romani. A uno forse accenna il Satyricon di Petronio. Tra le scene di sregolatezza che costellano la famigerata cena di Trimalchione, che ricorderemo spesso nelle pagine che seguono, a un certo punto, infatti, un ragazzino di nome Creso, il favorito del padrone di casa, salta sulle spalle di quest’ultimo e, colpendogli la schiena con la mano aperta, grida tra le risate: «Bucca bucca, quante sono queste qua?». Un gesto impudente, che sembra richiamare il «salincervo», un gioco molto diffuso in Europa, e non solo,

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fino a pochi decenni fa: si saliva a cavallo di qualcuno e, dopo averlo percosso sulla schiena, gli si chiedeva di indovinare quanto fossero le dita distese (le “corna”) della mano con cui lo si era colpito, con una filastrocca come Bicci calla calla calla quante corna ha la cavalla? Biccicù cuccù, quante corna son quassù?

2. Mosche, pentole e tartarughe in Grecia Per il mondo greco, ancora una volta, abbiamo maggiori informazioni per merito di un lessico, l’Onomasticon di Giulio Polluce, risalente alla seconda metà del II secolo d.C. L’autore, un personaggio in vista che era stato anche precettore di retorica del futuro imperatore Commodo, rifacendosi a repertori e raccolte precedenti aveva compilato un dizionario tematico, ovvero non organizzato in ordine alfabetico ma per argomento. Al suo interno compaiono e vengono spiegati termini, spesso estremamente tecnici e specifici, relativi ad attività, ambiti e concetti di ogni tipo. Tra le varie sezioni dell’Onomasticon (tutte estremamente preziose anche per la “cul-

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tura materiale”) una è dedicata ai giochi, e in più di un caso vengono riportate frasi o scambi verbali, talora metrici, che ne caratterizzavano lo svolgimento. In Grecia si praticava un’attività simile alla nostra “mosca cieca”: nella variante più semplice, chi teneva gli occhi chiusi, prima di lanciarsi all’inseguimento dei compagni, si limitava a gridare: «Attenzione!» (phyláttou!). In altri casi, un bambino veniva bendato ed esclamava: «Voglio cacciare una mosca di bronzo!» (verosimilmente un’allusione alla cetonia), mentre gli altri, che cercavano di non farsi prendere e lo percuotevano con strisce di papiro, gli rispondevano: «Andrai a caccia, ma non prenderai niente!». C’era poi una versione più complessa, chiamata «gioco della pentola» (chytrínda). In una variante, l’inseguitore doveva correre in cerchio mantenendo il contatto con una pentola (o forse tenendola in equilibrio sulla testa) e contemporaneamente cercando di colpire con il piede i compagni. Questi ultimi, a loro volta, tenendosi alla larga dai suoi calci lo percuotevano chiedendogli: «Che fa la pentola?», e lui (si può immaginare con quanta allegria, sotto una gragnuola di colpi) rispondeva: «Bolle!». Oppure la domanda poteva essere: «Chi bada

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alla pentola?», e la risposta: «Io, Mida!», forse con un riferimento, per noi ormai non più chiaro, al celebre re di Frigia, caratterizzato dalle orecchie d’asino e dal trasformare in oro tutto quel che toccava. Esisteva anche una variante femminile, meno manesca, di quest’attività: era il gioco della che­ lichelóne, la «tarti-tartaruga». Una ragazza stava seduta nel mezzo ed era detta, per l’appunto, «tartaruga». Le compagne le giravano intorno e scambiavano con lei una serie di battute rituali: – Tarti-tartaruga, che fai lì nel mezzo? – Avvolgo un filo di lana di Mileto! – E tuo figlio è morto facendo che cosa? – Da cavalle bianche balzò nel mare!

Il riferimento all’avvolgimento della lana potrebbe rimandare ai movimenti della «tartaruga», che verosimilmente si voltava intorno, pur rimanendo seduta per terra, per tentare di toccare le compagne. Secondo alcuni, la frase finale sarebbe stata seguita da un rapido movimento della stessa «tartaruga», forse un balzo in avanti per toccare una compagna. Visto il lessico abbastanza elevato di questo scambio, ci si può chiedere se questa citazione di Polluce non derivi da qualche rivisitazione letteraria del gio-

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co, come quella della raffinata poetessa Erinna (IV secolo a.C.), secondo la tradizione morta a soli diciannove anni. Nella sua Conocchia, di cui purtroppo restano solo brandelli papiracei, ricordando i passatempi infantili che aveva condiviso con un’amica recentemente e prematuramente scomparsa, pare menzionare proprio gli scambi di battute tra le ragazze che praticavano questo gioco. È sempre Polluce, poi, a riferire che quando una nuvola copriva il sole i più piccoli erano soliti battere le mani e gridare: «Esci fuori, caro sole!», in maniera simile a filastrocche che ancora oggi si usano di fronte a circostanze meteo­ rologiche particolari, come in Toscana Piove e c’è il sole, la Madonna annaffia un fiore, l’annaffia per Gesù e tra poco non piove più.

3. Attenti al lupo Tra le frasi e le espressioni ricorrenti che caratterizzavano l’infanzia, peraltro, non c’erano solo quelle più allegre, legate ai giochi. Allora come oggi (o perlomeno ieri), per tenere buoni

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i bambini si faceva infatti ricorso all’evocazione di determinati spauracchi. In alcuni casi si trattava di figure soprannaturali come la Lamia, che poteva essere protagonista di fiabe e racconti, di cui si parlerà in seguito (v. infra, pp. 155-156); spesso, però, poteva trattarsi dell’intramontabile lupo. La situazione-tipo emerge chiaramente da una favola esopica: Un lupo affamato girava cercando da mangiare. Arrivato in un posto udì il pianto di un bambino e una vecchia che gli diceva, minacciandolo: «Smetti di piangere, o ti darò subito al lupo!». Il lupo, pensando che la vecchia dicesse la verità, se ne rimase lì per un bel pezzo ad aspettare. Al calar della sera, sente nuovamente la vecchia vezzeggiare il bambino e dirgli: «Se verrà qua il lupo, lo uccideremo!». Quand’ebbe udito ciò, il lupo se ne andò esclamando: «In questa casa dicono una cosa e ne fanno un’altra!».

Anche in ambito latino le cose non dovevano essere troppo differenti. Commentando il modo di dire lupus in fabula o in sermone, che in realtà aveva un significato affine al nostro «parli del diavolo e spuntano le corna», il grammatico Donato forniva tutta una serie di possibili spiegazioni. In particolare ricordava come secondo

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alcuni il detto derivasse «dai racconti [fabulae] delle nutrici, che per scherzo terrorizzano i bambini con il lupo che a poco a poco si approssima alla soglia della stanza». Ci si è sbizzarriti nel cercare di capire a che genere di “racconti” stesse facendo riferimento Donato, che peraltro rimane sul vago, sia perché non voleva dilungarsi con una simile bagattella, sia perché presupponeva che i suoi lettori (i quali erano stati tutti bambini…) avessero ben presente a cosa stava alludendo. Alcuni studiosi, in maniera interessante, sono andati a vagliare le filastrocche e le ninne nanne utilizzate al giorno d’oggi per far addormentare i bambini, in cerca di possibili paralleli. In effetti, per quanto noi in genere associamo queste cantilene con immagini dolci e rasserenanti, in un passato anche recente capitava che il contenuto della ninna nanna potesse essere abbastanza inquietante. In molti probabilmente hanno presente la diffusissima: «Ninna nanna ninna oh, / questo bimbo a chi lo do, / lo darò all’uomo nero…», ma ci poteva essere di molto peggio. In alcune ninne nanne romagnole, per esempio, uno spauracchio generico (la strega, sovente indicata con il nome di «borda», ma anche l’orco detto «Papone» e il barbagianni) arriva fin dietro l’uscio delle case

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o delle stanze per spiare i bambini, pronto a divorarli nel caso non si comportino bene: Fe la nâna ch’e’ vén la Bôrda, dri da l’òss che la v’ascolta, dri da l’òss la v’sta ascultê’, s’a n’ durmì la v’vén a magnê’.

In ogni caso, Donato parla di fabulae, e ciò fa pensare che forse, più che a ninne nanne, stesse alludendo a narrazioni più strutturate, in cui una balia si divertiva a spaventare un bambino raccontando minuziosamente l’avvicinamento, passo dopo passo, di un essere spaventoso. Non mancherebbero, anche in questo caso, paralleli contemporanei. Nel mondo anglosassone, per esempio, sono attestati racconti infantili di paura incentrati su un’entità, spesso un fantasma, che si avvicina lentamente reclamando qualcosa che è stato sottratto al suo cadavere (l’alluce, per esempio, o un braccio d’oro, o i dollari d’argento posti sugli occhi). Lo spettro sale lentamente le scale della casa, sempre reclamando lugubremente il maltolto («Chi ha preso il mio…?»), ed entra nella camera da letto; a questo punto il narratore fa una pausa ricca di suspense e poi lanciando improvvisamente un grido («L’hai

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preso tu!») afferra il bambino (o comunque una persona dell’uditorio) per spaventarlo. Un parallelo ancora più rilevante può essere nuovamente rintracciato nelle tradizioni romagnole, dove compare una fiaba che vede una bambina, Rosina, inviata dalla mamma a chiedere in prestito la padella per le frittelle allo «Zio lupo». Il lupo acconsente, a patto che, al momento di restituirgli l’utensile, la bambina gli porti anche qualche frittella della mamma. Tuttavia Rosina è troppo golosa e quando torna a riportargli la padella non resiste: mangia lei le frittelle riservate allo «Zio» e, per giustificare il fatto di essersi presentata a mani vuote, gli dice che una folata di vento ha spazzato via tutti i dolcetti. Il lupo non si fa ingannare e dice alla piccola golosa che «stanotte verrà a mangiarla». La bambina, tornata a casa, non dice nulla alla mamma per paura di essere punita. Si fece notte, e la bambina andò a letto, con una tale paura che le tremava il mento. Dopo un po’ che era sotto le lenzuola sentì un tramestìo alla porta di casa, e poi sentì la voce di Zio lupo che diceva: – Rosina… sono sulla porta di casa che ti vengo a mangiare! – e dopo un po’:

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– Rosina… sono per le scale che ti vengo a mangiare! – e di lì a un altro po’: – Rosina… sono sul pianerottolo che ti vengo a mangiare! – Rosina… sono sulla porta della tua camera che ti vengo a mangiare! – Rosina… sono accanto al letto che ti vengo a mangiare! – Rosinaa… (ahm) ti mangio! – e si mangiò la bambina golosa e bugiarda.

C’è da immaginarsi che chi raccontava la storia alla fine si divertisse ad afferrare il bambino, mimando il lupo che si avventava sulla sua preda. Certo, non possiamo avere la certezza che le nutrici romane che aveva in mente Donato, nel IV secolo d.C., raccontassero una fabula proprio come quella che in Romagna aveva protagonista Zio lupo e le frittelle. Ma non sembra per niente improbabile che si trattasse di qualcosa di simile, e questo ci permette di lanciare un ulteriore sguardo, anche se solo per un attimo, a quel patrimonio di cultura orale che circondava gli apáideutoi per eccellenza, i bambini piccoli, che come accade oggi ne avrebbero portato con sé il ricordo anche quando fossero cresciuti.

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4. Chi ha paura di Mormò? Per far paura ai bambini, come accennato, si poteva far ricorso anche a figure soprannaturali. Una è menzionata dalla giovanissima poetessa greca Erinna, cui si è fatto cenno in precedenza. Sempre ricordando l’infanzia trascorsa insieme all’amica Baucide, prematuramente scomparsa, a un certo punto Erinna evoca l’ennesima scena domestica. Di buon mattino la madre stava preparando qualcosa insieme alla servitù, forse le pietanze per un banchetto. Purtroppo il papiro che ha tramandato il frammento è estremamente rovinato, ma sembra emergere una minaccia rivolta alle bambine che forse, elettrizzate da un’imminente celebrazione, curiosavano dove non dovevano o creavano comunque scompiglio. Se non si fossero comportate bene, sarebbero state terrorizzate da Mormò. Erinna ne forniva anche una descrizione, purtroppo andata in gran parte perduta: si capisce che quest’essere «vagava» sulle sue zampe, forse quattro, forse d’asino (un tratto che ricorre in esseri demoniaci della Grecia e del Vicino Oriente). Nell’originale si scorgono solo pochissime lettere, ma alcuni studiosi hanno ricostruito anche la menzione di grandi orecchie che avrebbero contraddistinto la testa del mostro. Sembra certo, infine, che

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Erinna ne ricordasse la capacità, peraltro frequentemente attribuita a questo genere di spauracchi, di mutare forma a piacimento. Intorno a Mormò circolavano anche storie: si diceva, per esempio, che in origine fosse una donna di Corinto, colpevole dell’orrendo crimine di avere sbranato i suoi figli. Poi, per volontà divina, aveva preso il volo trasformandosi in una sorta di demone infanticida vagante che «le donne invocano quando vogliono far paura ai loro bambini». C’erano anche più varianti del nome, tutte debitamente registrate dai lessicografi, come Mommò e Mombrò. I linguisti ritengono che simili oscillazioni dimostrino il “carattere popolare” della parola. Potrebbe trattarsi di un termine infantile tipicamente raddoppiato (come “pappa”, “mamma”, “nonno”…), dalla sonorità cupa e inquietante, usato come indictio silentii («intimazione di silenzio») o come ammonizione a comportarsi bene, e poi incarnatosi in una figura della paura. In effetti, non mancano analogie anche in altre tradizioni folkloriche, come nel sud della Sardegna, dove lo spauracchio utilizzato per far stare buoni i bambini si chiama mommói, momóti o mommóti. Piuttosto che ipotizzare discendenze dalla tradizione greca (che pure, in ambiti non lontanissimi, ha

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lasciato tracce nell’isola, come si vedrà in seguito), è più semplice pensare a una convergenza indipendente a partire dal linguaggio infantile che, com’è noto, presenta similarità in grado di valicare ogni confine linguistico. 5. Quando a temere erano anche le mamme: la strix Se, come rivelano gli stessi autori antichi, quando evocavano Mormò le madri non credevano affatto alla sua esistenza, in altri casi gli adulti erano i primi a temere le entità che si aggiravano nell’oscurità per far del male ai bambini (e non solo). E in quel caso, a livello folklorico circolavano anche scongiuri e rimedi di vario tipo per cercare di arginarne il pericolo. Si può prendere il caso della strix, la «strega», il cui nome onomatopeico rimandava al verso stridente di un malefico uccello notturno. Si pensava che questo volatile, spesso un essere umano trasformato, la notte entrasse nelle case per uccidere i bambini, succhiandone il sangue o divorandone gli organi interni. Le piccole vittime, che esternamente non presentavano ferite, agonizzavano per giorni, con un colorito cereo, prima di soccombere. La strix romana (più po-

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polarmente striga, da cui l’italiano «strega») è stata studiata in anni recenti da Laura Cherubini, che ha analizzato una serie di passi di opere latine in cui si accenna a questa diffusissima credenza, da Plauto a Ovidio. Lo stesso Plinio il Vecchio, nella sua monumentale Storia naturale (un testo cui faremo spesso riferimento anche in seguito), ricorda con qualche imbarazzo la «favolosa» diceria secondo cui gli uccelli detti striges avrebbero allattato i bambini – con un liquido velenoso, ci dicono altre testimonianze, capace di provocarne la morte. Cosa fare per difendersi da questi esseri? Una possibilità era quella di proteggere i bambini con una collana di agli, con uno dei frequenti usi protettivi che questo bulbo dall’odore pungente presenta nel folklore “pratico” di varie culture e varie epoche, fino a quello più recente, associato ai vampiri sulla scorta del Dracula di Bram Stoker. Esistevano però anche contromisure verbali. A riportarle è, ancora una volta, un lessicografo, Sesto Pompeo Festo, vissuto nel II secolo d.C. Il suo “dizionario”, intitolato De verborum signifi­ catione («Sul significato delle parole»), sarebbe stato preziosissimo per ricostruire tradizioni e credenze diffuse nel mondo romano, e non solo. L’opera però è stata molto maltrattata dal

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tempo e ci è giunta in condizioni estremamente frammentarie. In uno dei brandelli superstiti si tratta proprio delle malefiche striges, definite anche «alate» (volaticae). Per tenerle lontane, prosegue Festo, i Greci recitavano un apposito scongiuro, di cui fornisce il testo. Purtroppo i copisti medievali, di fronte alle lettere scritte in un alfabeto per essi incomprensibile, hanno prodotto un guazzabuglio che in alcuni casi è assolutamente indecifrabile, nonostante i vari tentativi di rimediare ai loro errori. Grossomodo si riesce a intuire il contenuto, che era in versi, e che recitava qualcosa come: Scaccia la strega [strinx] che stride di notte, scaccia la strega dalla gente, l’uccello del malaugurio, su navi che vanno veloci!

Come si vedrà, formule sul genere di questa, in cui si insiste sullo scacciare o il mettere in fuga il “nemico” di turno (in questo caso «su navi veloci», come a dire «il più lontano possibile»), non erano rare nell’antichità. L’esistenza di un simile scongiuro attesta nello specifico quanto la presenza della strix/strinx fosse sentita come minacciosa. L’idea, ai nostri occhi incredibile, di

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un misterioso uccello notturno che si introduceva nelle case succhiando il sangue ai bambini o sottraendone gli organi, per lasciarli pallidi ed emaciati, è infatti la spiegazione in termini folklorici delle affezioni che debilitavano i più piccoli, soprattutto i neonati, letteralmente falcidiati dalla mortalità infantile. Per rendersi conto dell’ordine di grandezza di questa strage, basti pensare che ancora nell’Ottocento, al momento dell’Unità d’Italia, quasi un quarto dei bambini nati nel nostro Paese moriva alla nascita o entro il primo anno di vita. Sono numeri sconvolgenti, che fanno comprendere quale terribile piaga si cercasse di spiegare ed esorcizzare incolpandone un’entità soprannaturale. Se così tanti infanti non riuscivano a superare i primi giorni di vita, era perché esseri malefici tramavano contro di loro, spesso per gelosia: in effetti spesso queste creature demoniache hanno i tratti di donne sterili o comunque dalla maternità frustrata. Il ricorso agli incantesimi forniva una parvenza di tranquillità alle madri e ai familiari dei bambini, e dava loro l’illusione di poter difendere in qualche modo la vita dei loro figli, costantemente minacciata da nemici invisibili. E proprio la dimensione universale di quest’angoscia, condivisa da infiniti genitori nell’arco di millenni,

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spiega anche perché tali credenze siano state così tenaci. 6. Il nemico più temibile: Gellò Nel mondo greco, tuttavia, non era la strinx (poi divenuta strigla) il pericolo principale per i neonati. Per quanto a livello folklorico non si debba insistere troppo sulle differenziazioni tassonomiche delle creature soprannaturali (sovrapposizioni e scambi sono all’ordine del giorno, esattamente come avveniva per molte specie animali), sul lungo periodo il ruolo primario di infanticida sembra infatti essere svolto da un’entità nota come Gellò, la cui “passione” nefasta per i bambini è menzionata per la prima volta dalla poetessa Saffo in un risicatissimo frammento, che recita solo: più amante dei bambini di Gellò.

Questo minuscolo brandello ci è stato tramandato, oltre che da trattati etimologici e lessicografici, da Zenobio, un autore del II secolo d.C., all’interno di una raccolta di detti proverbiali. È lo stesso Zenobio a fornirne la spiegazione: il detto sarebbe riferito «a chi muore prematura-

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mente, e a chi rovina i figli per il troppo amore. Gellò infatti era una vergine, e dopoché morì prematuramente, secondo gli abitanti di Lesbo il suo spirito [phántasma] perseguita i bambini, e le attribuiscono le morti premature». In un altro manoscritto dell’opera, si aggiunge che secondo alcuni non era una vergine, ma «sarebbe morta durante il parto». In ogni caso, Gellò rientrava tra gli áoroi, quei «morti anzitempo» che si rivelavano particolarmente pericolosi proprio perché non avevano potuto vivere appieno. E per giunta Gellò non era riuscita ad adempiere a quella che nell’antichità (e non solo) era considerata la missione di ogni donna, per non dire la giustificazione della sua esistenza, ovvero dare alla luce figli e allevarli: l’ennesimo caso di demone infanticida dalla maternità frustrata. Se ci dovessimo basare esclusivamente sulle fonti antiche, potremmo pensare che la credenza in Gellò fosse un’isolata peculiarità di Lesbo, presto dimenticata salvo che da pochi grammatici, incuriositi dalla sua rapida menzione da parte di Saffo. In realtà, il filtro imposto dai pepai­ deuménoi fornisce ancora una volta una visione distorta di quella che doveva essere la realtà. Saffo, come successivamente avrebbe fatto Erinna, si confrontava con contesti femminili e intimi, e

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questo talora le permetteva di derogare dai canoni e dalle pastoie cui soggiaceva la letteratura “alta”. Ciò le aveva consentito, in un contesto che ci sfugge, di sollevare – per un attimo – il velo su una credenza che doveva avere una circolazione decisamente più ampia, e che anche in seguito dovette continuare a perpetuarsi al di fuori dell’orizzonte dei letterati. Sappiamo che in età imperiale circolavano istruzioni per difendersi magicamente da Gellò, «colei che soffoca i neonati e tormenta le puerpere». E poi, in epoca tardoantica, probabilmente per influsso di analoghi scongiuri diffusi in area palestinese, si andarono formando e diffondendo veri e propri testi protettivi, strutturati come historiolae. Questo è il nome tecnico delle narrazioni mitiche che accompagnano e contengono scongiuri, esorcismi e incantesimi, descrivendo l’occasione fondativa in cui ebbero origine e fornendo così una garanzia della loro efficacia, come reiterazione di quell’evento iniziale. Già all’inizio dell’VIII secolo, su una lamina plumbea trovata a Cipro, compare una variante che descrive l’incontro dell’arcangelo Michele, che scende dal monte Sinai, con un’orrida entità demoniaca, nemica di puerpere e bambini. Messa alle strette, quest’ultima ammette i pro-

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pri misfatti e rivela i propri nomi segreti, la cui conoscenza permetterà a chi possiede il testo dell’historiola, insieme all’invocazione dell’arcangelo, di tenerla a bada. Il primo tra questi è proprio Gilos, e anche in seguito, all’interno della stessa lamina, si parla di esorcismo «contro le gilôdai», con una tipica moltiplicazione delle entità della paura, che da una singola figura diventano una classe intera di esseri nocivi (lo stesso rapporto c’è tra la Lamia e le lamie, tra Orco e gli orchi). Le successive attestazioni superstiti, stavolta su pergamena o su carta, risalgono a circa seicento anni dopo, nel tardo medioevo (ma chissà quante ne sono andate perdute, in precedenza). L’entità malefica è variamente chiamata Gilù, Gellù, Gìlu, Gialù… e si è visto come questa “diffrazione” onomastica sia una prova di vitalità folklorica, dal momento che l’uso linguistico non è imbrigliato, in simili casi, dai canoni ortografici riservati invece a concetti e parole accettati dai pepaideuménoi. A contrastarla sono l’arcangelo Michele o alcuni santi fratelli chiamati Sisinnio e Sinodoro. Ci sono lunghi secoli a separare la lamina cipriota (sopravvissuta solo perché tracciata su un materiale resistente) dalle versioni, davvero vicinissime, che riemergono in manoscritti

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trecenteschi e poi proseguiranno fin quasi ai nostri giorni. Nel mezzo c’è una continuità per noi invisibile, tenuta fuori dai testi “ufficiali” bizantini che rispecchiano la visione dei pepai­ deuménoi, i quali, perlopiù, ignorano completamente la credenza, così come era avvenuto nell’antichità. Ma colpisce che il testo di uno di questi «esorcismi di Gellò», come vengono chiamati (ma le autorità ecclesiastiche, almeno ufficialmente, li condannavano come superstiziosi), compaia nel XV secolo tra le carte di un celebre letterato bizantino emigrato a Messina, Costantino Lascaris, che l’aveva copiato di suo pugno. Probabilmente avrebbe avuto imbarazzo ad ammettere in pubblico di aver fatto una cosa del genere, ma il suo gesto dimostra che i dotti non erano affatto isolati da simili tradizioni “popolari” che pure, spesso, ostentavano di ignorare. La pagina scritta, a Bisanzio come nell’antichità, non è una fotografia oggettiva della realtà, e tantomeno dell’apáideutos bíos, ma è in larga misura una costruzione che, nelle sue esclusioni e inclusioni, riflette scelte ben precise da parte degli acculturati, i pepaideuménoi. Però la piaga della mortalità infantile colpiva tutti, ricchi e poveri, dotti e ignoranti. E questo spiega la lunghissima durata di questa tradizione

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folklorica, le cui attestazioni, come altrettante punte di iceberg, si susseguono da Saffo fino agli inizi del Novecento, e non sono certo limitate alla Grecia, ma si estendono a tutto l’ambito del cristianesimo orientale e della sfera d’influenza di Bisanzio, dalla Russia all’Etiopia. Qualche traccia si conserva fino a oggi anche in Sardegna, dove in alcune località è vivo il culto di san Sisinnio (si riconoscerà il nome che compare in molte varianti dell’historiola), protettore dei bambini contro le kogas, le streghe.

IV

Scongiuri, magie, “superstizioni”

1. I poteri della parola Testi e parole potevano essere usati come rimedi non solo nei confronti di presunti attacchi mortali di esseri demoniaci, ma anche per affezioni di ogni genere. L’efficacia di epodái e carmina, com’erano chiamati gli incantesimi rispettivamente in greco e in latino, era legata anche ad artifici ritmici e sonori come ripetizioni, allitterazioni, assonanze, paronomasie, che si pensava avessero un irresistibile effetto di incanto e convincimento – anche sulle stesse malattie. Un primo esempio ricorre già nell’Odissea, dove i figli di Autolico bloccano l’emorragia di Odisseo, ferito da un cinghiale, per mezzo di un bendaggio accompagnato da un incantesimo, un’epaoidè, con quella che è stata significativamente definita «una delle rare intrusioni dallo

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strato della fede e del costume popolare nel più raffinato e aristocratico mondo dell’epica». Anche in seguito le persone di cultura, non sorprendentemente, nutrirono più di una riserva su “cure” di questo tipo: lo stesso Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, a un certo punto arriva a chiedersi se verba et incantamenta carminum (che potremmo tradurre «parole magiche e incantesimi») abbiano qualche potere, e la sua conclusione è che, singolarmente, le persone più sagge non prestano loro fede e anzi li respingono, ma che globalmente la vita (ovvero la realtà quotidiana, in un senso non lontano da quello di bíos in apáideutos bíos) vi presta fede, senza nemmeno accorgersene. E in effetti, con tutte le sue riserve, Plinio nella sua opera riporta tutta una serie di elementi che ai suoi tempi molti razionalisti avrebbero visto con sospetto, a partire dai numerosissimi casi in cui si prescriveva di cogliere una pianta medicinale con una mano e con dita determinate, e soprattutto si raccomandava di pronunciare, nel momento in cui si sradicava, il nome del paziente e quello dei suoi genitori. Non mancano gli incantesimi veri e propri, come quando descrive un’erba detta reseda, che cresce nei dintorni di Rimini, ottima per guarire ascessi e infiammazioni di

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ogni genere. Tuttavia, perché avesse un effetto curativo non bastavano i suoi “principi attivi”, ma quando veniva applicata al paziente occorreva ripetere tre volte la frase: «Reseda, calma [reseda] le malattie: lo sai, lo sai quale germoglio [con riferimento all’ascesso] ha messo qui le radici? Che non abbia né capo né piedi!». E dopo aver detto questo, occorreva sputare tre volte per terra, con un gesto apotropaico che accompagna spesso questi scongiuri. Talora la cura poteva essere costituita solo dall’incantesimo, come in una formula contro il mal di piedi riportata da Varrone nel suo trattato sull’agricoltura, che andava ripetuta ventisette volte a digiuno e che si concludeva con «la terra [che il sofferente doveva pestare in quel momento] si tenga la mia malattia, e la salute rimanga qui nei miei piedi», accompagnato dal consueto sputo. Anche chi curava gli animali ricorreva a simili mezzi. Apsirto, veterinario greco che al tempo di Costantino si era occupato dei cavalli dei legionari schierati sul Danubio, riporta per esempio un testo da scrivere su un amuleto che poi andava legato agli equini per metterli al riparo dal malocchio (baskosýne, letteralmente «invidia»).

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2. Il medico che ascoltava contadini e popolani Sono molti gli autori antichi che offrono testimonianze di credenze di questo tipo, e soprattutto verso la fine dell’antichità ve ne sono alcuni che dimostrano di attingere consapevolmente anche a un livello di conoscenze distinto da quello della medicina che noi definiremmo scientifica. Si può prendere il caso di Marcello di Bordeaux, detto Empirico, un altissimo funzionario sotto gli imperatori Teodosio e Arcadio che, agli inizi del V secolo, compilò un trattato medico attingendo tanto alla letteratura tecnica precedente quanto a fonti folkloriche. Narra lui stesso nella prefazione: «ho appreso anche rimedi efficaci e semplici, comprovati dall’esperienza, da contadini e popolani [ab agrestibus et plebeis]». In effetti, nella sua opera si riscontra una quantità di cure basate su incantesimi, o comunque rafforzate da essi, che non ha eguale in precedenza, e questo ha fatto definire il suo caso «un esempio illuminante di come in uno stesso individuo – peraltro con alle spalle un percorso educativo di élite e un prestigio sociale elevatissimo – potessero convivere eredità culturali di livello e origini molto differenti». Nelle pagine del suo trattato ci si imbatte continuamente in cure che derivano dalla medici-

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na folklorica degli apáideutoi. In qualche caso si è ipotizzato che l’autore avesse attinto alla tradizione celtica della propria terra, la Gallia, come farebbero supporre alcune formule da lui riportate. Per il male a un occhio, per esempio, prescriveva di sfregare l’occhio sano ripetendo tre volte (ciascuna marcata da uno sputo) la frase in mon dercom arcos axatison, che in gallico dovrebbe significare: «Nel mio occhio la luce si riversi!». Greco e latino non erano certo le uniche due lingue parlate e scritte nell’impero, molto più variegato, anche culturalmente, di quanto in genere si tende a pensare. Le osmosi culturali erano possibili e, se c’era un ambito particolarmente inclusivo, come si è visto, era proprio quello folklorico. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i car­ mina, gli incantesimi, sono in latino. In caso di podagra, il dolore al piede provocato dalla gotta, Marcello riportava questo carmen idioti­ cum, letteralmente «incantesimo delle persone semplici». Di mattina, prima di scendere dal letto, bisognava sputarsi sulle mani e spalmare accuratamente i piedi di saliva, per poi recitare: «Fuggi, fuggi podagra, e ogni dolore di nervi, dai miei piedi e da tutte le mie membra. Il veleno è vinto dal veleno, e la saliva a digiuno

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non la vince nessuno!». Come sempre, la formula andava ripetuta tre volte e poi, dopo il consueto sputo (stavolta sulle piante dei piedi), si era pronti per iniziare la giornata. In caso di orzaiolo all’occhio destro, occorreva toccarlo con tre dita della mano destra, stando all’aperto e guardando a oriente, e ripetere per tre volte, con il consueto corollario di sputi: La mula non partorisce e la pietra non produce lana: che a questa malattia non spunti la testa o se è spuntata, che marcisca!

Per i dolori al cuore, dopo aver invocato la malattia si proseguiva con: i pastori ti trovarono, senza mani ti raccolsero, senza fuoco ti cossero senza denti ti mangiarono; tre vergini avevano collocato una tavola di marmo in mezzo al mare; due la giravano e una la rigirava. Come questo non è mai avvenuto, così quella Gaia Seia [forse il nome della destinataria dell’incantesimo, forse un modo per dire “la tal dei tali”] non conosca mai il dolore di cuore.

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Già da questi esempi si possono notare alcuni meccanismi che caratterizzano gli incantesimi medici: si può ingiungere alla malattia di fuggire, minacciandola con qualcosa che è più potente di lei; si può annullarne o fiaccarne la forza assimilandola a adýnata, «eventi impossibili», come il parto della mula; oppure si può collegare a adýnata la probabilità che una determinata affezione insorga, sostanzialmente rendendola pari a zero. In qualche caso, si cercava di allontanare da sé il male con gesti simbolici. Marcello, per esempio, ricorda che, se spuntavano pustole sulla lingua (ritenute l’effetto di una maldicenza, come anche nella tradizione folklorica germanica), occorreva toccarle con l’estremità della tunica che in quel momento si indossava e poi sputare tre volte a terra ripetendo: «Tanto sia lontano da me chi di me parla male!». In altri casi, la malattia può essere trasferita a un animale, sempre perché la trasporti lontano (si parla perciò di «formule transplantative»). In caso di mal di denti occorreva dunque prendere una rana viva, sputarle in bocca, chiederle educatamente di portarsi via il dolore e lasciarla andare, mentre per curare il mal di pancia bisognava strappare un po’ di pelo dal ventre di una lepre e poi liberarla dicendole: «Fuggi,

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fuggi leprottino, e porta con te il mal di pancia!». In altri casi, invece, si faceva riferimento a un animale che, per le caratteristiche che gli erano attribuite, sembrava naturalmente contrastare l’affezione di cui si soffriva. In presenza di mal di pancia e indigestione, bisognava sdraiarsi sul letto, massaggiarsi il ventre e ripetere tre volte: Il lupo andava per la strada e il sentiero, divorava quel che era crudo e beveva quel che era liquido.

Marcello osserva che questo rimedio (physi­ cum) era assai utile per digerire, e lo diceva de experimento, «per esperienza diretta»: bastava evocare il lupo, che con la sua voracità non aveva difficoltà a inghiottire e tracannare di tutto, per risolvere i propri problemi gastrici. L’arrivo della prima rondine, che come si è visto era un evento importante nel folklore e in un certo senso dava inizio all’anno nuovo, era invece l’occasione per dedicarsi alla prevenzione. Quando si avvistava la messaggera della primavera, infatti, occorreva recarsi in silenzio dove c’era acqua limpida, prederne un po’ in bocca e sfregarsi i denti con il medio della destra e della sinistra, pronunciando le parole: «Rondine, ti dico: come quest’acqua non ti tornerà nel becco, così i

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denti non mi facciano male tutto l’anno!». E con una non meglio specificata preghiera «a Dio», sempre all’apparizione della prima rondine, si bagnavano gli occhi in modo che «le rondini portassero via» ogni affezione oftalmica. Del resto, già il poeta greco Ipponatte, nel VI secolo a.C., parlava di un «filtro» da tracannare quando si vedeva la prima rondine, probabilmente per qualche scopo analogo. Usanze simili, peraltro, sono attestate anche in altre tradizioni folkloriche: in Germania, quando si udiva per la prima volta il canto del cuculo, si faceva una capriola per essere preservati dal mal di schiena per tutto l’anno; e l’atto curioso di «rotolarsi» davanti ai nibbi menzionato negli Uccelli di Aristofane potrebbe alludere a qualcosa di analogo, tanto più che gli antichi commentatori collegano questo gesto all’apparizione primaverile dell’uccello. Nel caso di parotite, tonsillite o infiammazioni delle ghiandole del collo, occorreva invece incantare le parti dolenti (Marcello usa il verbo carminare, da cui il francese charmer) dicendo: «Ci sono nove ghiandole, ci sono otto ghiandole, ci sono sette ghiandole, ci sono sei ghiandole, ci sono cinque ghiandole, ci sono quattro ghiandole, ci sono tre ghiandole, ci sono due ghiandole, c’è una ghiandola, non c’è nessuna ghiandola!».

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Si tratta di una formula “riduttiva” o a “scomparsa”: il male viene associato a qualcosa che, poco a per volta, viene fatto sparire verbalmente (o meglio, testualmente) e, per associazione, nella realtà. Si tratta di un meccanismo molto diffuso e noto nell’antichità, a partire dagli amuleti contro la febbre che recavano la formula «Abracadabra», oggi abusata dai prestigiatori, ma che in origine aveva questo scopo medicinale. Come ci testimonia infatti Quinto Sereno nel suo Liber medicinalis, verosimilmente risalente agli inizi del IV secolo d.C., per combattere le febbri occorreva scrivere su un cartiglio: ABRACADABRA ABRACADABR ABRACADAB ABRACADA ABRACAD ABRACA ABRAC ABRA ABR AB A

e appenderlo al collo. La malattia, esattamente come la parola arcana, sarebbe svanita nel nulla.

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3. Il folklore che piace ai pazienti Marcello di Bordeaux non fu il solo, peraltro, ad accogliere rimedi di questo tipo. Al tempo di Giustiniano visse il medico Alessandro di Tralle, figlio d’arte e fratello del celebre Antemio, l’architetto di Santa Sofia. Alessandro percorse l’impero bizantino in lungo e in largo, dall’Armenia alla Spagna, dalla Tracia alla Cirenaica, per morire a Roma in tarda età; dotato di vastissima cultura, fu un uomo di grandi letture e tuttavia, come rivelano i suoi scritti, non trascurò di parlare con la gente comune e di informarsi sulle cure da essa usate, in ossequio a un approccio “pratico” e aperto, e non teorico e dogmatico come quello di molti altri medici che l’avevano preceduto. Nei suoi libri una farmacopea molto raffinata e moderna, che contemplava l’uso di nuove spezie appena giunte dall’Oriente come i chiodi di garofano, conviveva così con l’uso di mezzi magici. Si va da amuleti più elaborati, come anelli incisi e pendenti, a rimedi molto più semplici, come una foglia d’olivo con alcune lettere tracciate «con inchiostro comune» e appesa al collo per contrastare la febbre. Non mancano consigli che ai nostri occhi appaiono ancora più sconcertanti, come quello di applicare sulle estremità doloranti per la gotta un

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panno macchiato del primo sangue mestruale di una vergine, con l’assicurazione che chi avesse fatto così «non avrebbe più sofferto di podagra». Perché mai un medico intelligente, e di cultura assolutamente scientifica, come Alessandro, prescriveva operazioni di questo genere (da lui denominate physiká, «rimedi arcani», nel senso di obbedienti alle leggi segrete della natura), per quanto in genere relegandole in fondo ai capitoli dei suoi Therapeutica? È lui stesso a fornire la risposta nella sezione in cui tratta delle coliche. Dopo aver fornito precise ricette di farmaci e prescrizioni terapeutiche e dietetiche, aggiunge: utilizzando i sistemi predetti non ci sarà bisogno di nessun altro aiuto esterno. Tuttavia, poiché molti dei pazienti, e soprattutto i ricchi, non ne vogliono sapere di bere medicine o di curarsi il ventre con clisteri, e ci costringono a placare i loro dolori con amuleti arcani, mi sono impegnato a esporvi anche questi, quelli di cui ho fatto la prova e quelli della cui efficacia mi hanno parlato amici veritieri.

Alessandro sa che basterebbe la sua medicina “scientifica” per guarire i pazienti, ma sa anche che molti di questi non gradiscono certe terapie, preferendo incantesimi e magie (che, se non altro, avevano il vantaggio di essere meno inva-

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sivi). E dunque decide di accontentarli, ricorrendo a una medicina di tipo magico e folklorico (evidentemente gradita alle persone abbienti, a ulteriore riprova che gli apáideutoi non erano necessariamente i più umili…), che pure a suo dire “funziona”. Su quest’ultima affermazione la dice lunga il fatto che, in un altro passo della sua opera, Alessandro si raccomandasse di assecondare i pazienti affetti da fissazioni melancoliche e psychikà páthe, «affezioni psichiche». L’unico modo di curarli era far vedere o sentire loro esattamente quello che volevano. E dunque racconta il caso della donna convinta di avere inghiottito un serpente che le si sarebbe annidato nello stomaco e le avrebbe causato infiniti problemi (il cosiddetto bosom serpent, attestatissimo nel folklore mondiale). Il suo medico riuscì a curarla ingannandola, ovvero facendole trovare nel suo vomito un serpentello uguale a quello che la donna era persuasa di ospitare dentro di sé. Tanta fu la gioia nel vederlo, che la paziente, convinta di averlo finalmente espulso, guarì all’istante. Com’è stato osservato, per quanto in maniera empirica, Alessandro aveva intuito l’efficacia del cosiddetto «effetto placebo», che nel suo caso equivaleva ad adeguarsi a quella che era l’“enciclopedia culturale” folklorica di moltissimi dei suoi pazienti, ricchi e poveri.

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4. Magie per tutti L’uso di incantesimi, rituali, parole magiche e amuleti di vario genere non era, naturalmente, limitato all’ambito medico. Sulla magia nel mondo antico è stato scritto moltissimo, ed è evidente che, per quanto in moltissimi credessero alla sua efficacia (come mostra per esempio la legislazione romana, che fin dai tempi delle Dodici Tavole minacciava pene pesantissime per certe “fatture”) e parecchi dei suoi beneficiari venissero dai ranghi degli apáideutoi, le varie branche di quelle note oggi come “scienze occulte” non coincidessero, salvo che per alcuni aspetti, con il patrimonio folklorico. Spesso erano richieste conoscenze tecniche approfondite (tra cui veri e propri manuali e repertori), materiali di difficile reperimento e una strumentazione particolare, certo non a disposizione di tutti; in molti casi, dunque, le pratiche magiche erano appannaggio di professionisti o perlomeno di persone esperte. Però non mancavano rituali e incantesimi più semplici, alla portata di tutti, che potrebbero essere fatti rientrare senza troppe difficoltà nel contesto del folklore. Si può pensare all’uso di versi di Omero e Virgilio (che nel medioevo avrebbe goduto fama di abilissimo mago) come altrettanti amuleti.

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Recitare un verso di Omero, o portarlo appeso al collo in un cartiglio, poteva guarire il male agli occhi, o evitare di ubriacarsi a un banchetto (purché lo si pronunciasse al momento di bere la prima coppa). Che queste pratiche fossero viste con disprezzo dai pepaideuménoi è dimostrato da Luciano che, come fa spesso con quanto ritiene irrazionale e incolto, le prende in giro nelle sue opere. In particolare nel suo Caronte è il dio Ermes a rendere magicamente più acuta la vista del protagonista, salito su un monte per contemplare le follie degli uomini. Per farlo, ricava da Omero quella che definisce esplicitamente una epodé, ovvero i due versi in cui si descrive Atena che toglie la caligine dagli occhi di Diomede; e poco prima, del resto, lo stesso Ermes aveva impilato uno sopra l’altro alcuni altissimi monti facendo ricorso, ancora una volta, alla magia dei versi omerici. A volte l’aspetto protettivo era affidato a frasi senza nessuna paternità illustre, ma molto chiare; sulle porte o le facciate degli edifici si poteva così scrivere: «Qua non entri alcun male», eventualmente invocando un protettore divino («Eracle, il vittorioso figlio di Zeus, / abita qua: che non entri alcun male!»). Di tali iscrizioni abbiamo attestazioni letterarie e archeologiche: questa

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formula è stata trovata, per esempio, a Gela, su un oscillum, un dischetto di terracotta risalente all’inizio del III secolo a.C. e destinato a essere appeso in casa, mentre a Pompei e altrove sono state trovate altre attestazioni greche e latine. Queste ultime recitano: Hic habitat Felicitas, nihil intret mali («Qui abita la Felicità, che nessun male entri!»), o varianti della stessa formula, talora accompagnate dalla raffigurazione di un fallo. In epoca tardoantica, infine, questo tipo di iscrizioni continuò a circolare, ma con la menzione di Cristo al posto di Eracle o della Felicità. Diffuso era anche l’utilizzo di parole magiche, i cosiddetti onómata barbariká, «nomi barbari», in quanto incomprensibili ma, proprio per questo, in grado di incutere soggezione e di portare con sé un’idea di arcana e misteriosa efficacia (in maniera analoga all’uso del latino, o almeno di una lingua che vagamente gli assomiglia, nelle formule magiche odierne fino ad arrivare a Harry Potter). Particolarmente diffusi, a quanto pare, erano i cosiddetti Ephésia grámmata, letteralmente «lettere efesine» (ma secondo alcuni l’aggettivo ephésia sarebbe stato travisato e in origine avrebbe significato qualcosa come «apotropaiche» o «protettive»). Si trattava di sei parole (áskion, katáskion, líx, tetráx, áision e

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damnamenéus), efficacissime sia pronunciate sia scritte su un amuleto. Si raccontava di un lottatore di Efeso giunto alle Olimpiadi che pareva imbattibile – almeno fin quando un suo avversario non si accorse che portava gli Ephésia grámmata legati intorno alla caviglia. I giudici di gara lo costrinsero a toglierseli e allora il lottatore, fino a quel momento invincibile, «fu gettato a terra trenta volte di fila». La diffusione di queste «lettere» e l’ironia con cui il fenomeno poteva essere visto dalle persone di cultura emergono dai frammenti dei commediografi del IV secolo a.C. Menandro, per esempio, parla di «un tale che fa il giro di coloro che si sposano ripetendo gli scongiuri [alexipharmaka] efesini», forse una sorta di ciarlatano che portava buona fortuna ai matrimoni. A Roma era l’arcana lingua etrusca (o presunta tale) a essere utilizzata per amuleti e incantesimi: un frammento di una commedia di Afranio (II secolo a.C.) ricorda l’usanza di scrivere arse verse (il cui senso sarebbe stato «allontana il fuoco») sull’uscio di casa come protezione contro gli incendi. Gli antichi conoscevano bene anche la magia d’amore, dai “semplici” filtri fino ad arrivare a rituali abbastanza complessi come quello de-

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scritto da Teocrito in un celebre idillio, che ne rende protagonista una donna disperata, Simeta, che cerca così di recuperare il proprio amato. In questo caso la cerimonia è svolta dalla stessa protagonista con l’aiuto di una serva; nella parodia che ne fa Luciano nei suoi Dialoghi del­ le meretrici, tuttavia, la protagonista Melitta, consigliata da un’amica, decide di rivolgersi a una professionista, una vecchia siriana che si fa pagare «una dracma e un pane», e che pretende che le sue clienti si procurino il materiale necessario per il rito. È l’amica stessa, peraltro, a rivelare a Melitta di come la vecchia, quando si è rivolta a lei, le abbia insegnato anche come agire contro una rivale in amore. Doveva cancellare le impronte della sua nemica, ponendo il proprio piede destro sull’impronta del piede sinistro dell’altra e viceversa, e contemporaneamente pronunciare la frase «Ti sono salita addosso e sono sopra di te»: un piccolo rituale, decisamente alla portata di tutte, che poteva rientrare nell’“enciclopedia culturale” degli apáideutoi. 5. Non è vero, ma ci credo In effetti, come rivela Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale, «non c’era nessuno che non

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temesse di divenire vittima di incantesimi malefici»: si è appena visto come persino le impronte potessero essere utilizzate per fare del male a chi le aveva lasciate. Si cercava così di non lasciare troppo materiale a disposizione dei maghi e degli invidiosi, che avrebbero potuto servirsene per le fatture e il malocchio. Per questo si praticava tutta una serie di gesti scaramantici: per esempio, subito dopo aver succhiato un uovo crudo o aver mangiato chiocciole, se ne rompevano o bucavano i gusci (un’usanza analoga a quella, attestata ancor oggi in varie tradizioni, di rompere i bicchieri dopo aver brindato). A credenze analoghe allude Catullo, trasfigurandole in una rêverie amorosa, quando, dopo aver invitato Lesbia a dargli … mille baci, poi cento, poi altri mille, e ancora cento, e poi di nuovo altri mille e poi cento,

alla fine la esortava, una volta che ne avessero totalizzate «molte migliaia», a «confonderli»: affinché qualche maligno non ci possa lanciare il malocchio [invidere] sapendo quanti sono tutti quei baci.

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Il personaggio del «superstizioso» (deisidái­ mon) greco, con tutte le sue manie compulsive, è ritratto nei Caratteri di Teofrasto, un discepolo di Aristotele. Tra le altre cose, apprendiamo così che chi aveva scrupoli di questo tipo si bloccava se una donnola gli attraversava la strada, aspettando che qualcuno passasse da lì prima di lui (l’alternativa era scagliare tre pietre); se invece incontrava un pazzo o un epilettico, il superstizioso si sputava in grembo per stornare il cattivo auspicio. È ancora Plinio, invece, a fornici una lunga rassegna di quelli che ritiene credenze e gesti superstiziosi (religiones) diffusi ai suoi tempi nel mondo romano, e che riguardavano davvero tutti: lo stesso Cesare, spaventatosi molto dopo essere caduto da un carro, aveva preso l’abitudine di ripetere per tre volte uno scongiuro quando saliva su un veicolo – e Plinio osserva come ai suoi tempi quest’abitudine fosse diventata diffusissima. È sempre Plinio a parlarci dell’usanza di dire: «Salute!» a chi starnutisce, e della credenza che quando ci fischiano le orecchie qualcuno stia parlando di noi. Per alcuni, se alla vista di uno scorpione si diceva «due», l’animale si bloccava e non faceva nulla di male. Ci si toglievano gli anelli quando ci si metteva a tavola, e se duran-

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te un banchetto si parlava di incendi, si versava acqua sotto la tavola stessa per stornare il cattivo augurio. Se il cibo cadeva per terra, veniva rimesso sulla mensa, e soffiarvi sopra per pulirlo portava male. Iniziare a sparecchiare quando un convitato stava ancora bevendo era di pessimo auspicio (senz’altro, osserveremmo noi, non era molto educato). Le medicine poste su una tavola da pranzo perdevano il loro potere. Di fronte a un fulmine si schioccavano le labbra. Bisognava tagliarsi i capelli il diciassettesimo e il ventinovesimo giorno del mese se si volevano prevenire calvizie e dolori di testa; le unghie invece dovevano essere tagliate in silenzio, a partire dal dito indice, nei giorni di mercato. Le donne quando camminavano non dovevano utilizzare i fusi, e nemmeno portarli in giro scoperti, perché questo avrebbe portato danno ai raccolti. 6. Donnole e gatti neri Alcune di queste credenze e usanze (e se ne potrebbero aggiungere molte altre) ci suonano immediatamente familiari. Anche in maniera un po’ inquietante, forse, perché mettono in crisi il nostro Besserwissen, la presunzione di «saperla più lunga» rispetto a uomini vissuti

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migliaia di anni prima di noi. Allo stesso modo, possono essere viste anche come eccitanti segni di continui­tà con gli antichi. In passato è stata soprattutto la Grecia a essere scandagliata da folkloristi in cerca di “sopravvivenze” del mondo antico, ma anche il nostro Paese ha visto alcuni classicisti che ne hanno vagliato con quest’obiettivo i costumi quotidiani e le “superstizioni”. Si possono per esempio ricordare il reverendo inglese John James Blunt, che aveva visitato l’Ita­ lia tra il 1818 e il 1821 e dalle sue osservazioni scrisse un’opera intitolata Vestiges of Ancient Manners and Customs, Discoverable in Modern Italy and Sicily, e in tempi più recenti la figura di Walton Brooks McDaniel, rispettato professore di latino all’Università della Pennsylvania. Di lui restano saggi dal titolo eloquente come Roman Private Life and Its Survivals (1924) e numerosi articoli su rivista, talora vere e proprie corrispondenze dall’Italia che ci fanno tra l’altro intravedere lo studioso, nella sua ansia di ritrovare i rustici dell’antica Roma, trasformarsi nel pigionale di una poverissima famiglia di contadini umbri, presso i quali dormiva in un letto sgangherato con tanto di galline appollaiate. Occasionalmente le loro osservazioni sono ancora interessanti, ma uno studio del folklore

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ridotto a caccia ai survivals rivela oggi, come si è già osservato, tutta l’insostenibilità dei suoi presupposti e dei suoi metodi. Inaccettabile, in particolare, è l’atteggiamento di tipo “atomistico” per cui, imbattendosi in tratti comuni tra la “cultura popolare” antica e quella di presunti discendenti moderni, si parla immediatamente di “eredità” (e magari, più o meno implicitamente, di eredità esclusiva), senza ampliare lo sguardo e chiedersi se, per caso, simili elementi non sia­no piuttosto un patrimonio molto più ampio ed esteso, per esempio all’intero Mediterraneo (comprese le nazioni della sponda meridionale, che avrebbero senz’altro diritto anch’esse alla loro quota di eredità del mondo antico), o alle società contadine di tutta Europa, in maniera così ampia che davvero non ha senso postulare legami privilegiati. Prendiamo, per esempio, il timore mostrato dal superstizioso nei confronti della donnola di cui parlava Teofrasto. Un lettore italiano pensa subito all’analoga credenza che nel nostro Paese riguarda i gatti neri che attraversano la strada, e se si considera che la donnola spesso era adoperata dagli antichi come animale domestico per combattere i topi, in un ruolo analogo ai nostri felini, l’“eredità” parrebbe assicurata.

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Può anche darsi che sia così. Ma non bisogna dimenticare che credenze analoghe sono attestate in tutta Europa (e forse anche nel resto del mondo), relativamente a gatti, lepri e altri animali. In qualche caso a essere temuta è proprio la donnola, come nello Yorkshire, dove c’era l’abitudine, quando l’animaletto attraversava la strada, di lasciar cadere una moneta per terra, nella convinzione che la sfortuna si sarebbe trasferita all’ignaro malcapitato che l’avesse raccolta. Si tratta di un’eredità dei Romani che avevano frequentato Eburacum, l’attuale York? È più semplice pensare in generale a una credenza ampiamente condivisa da tempo immemorabile, e che può anche essersi formata (e riformata) indipendentemente in più luoghi in riferimento a specie animali che, per qualche motivo, colpivano l’immaginazione di che se le vedeva sfrecciare davanti. Nessuno, naturalmente, nega la presenza di continuità culturali secondo il principio della Conduit Theory, ma lo studio comparato del folklore antico e di quello moderno si rivela più produttivo (e, soprattutto, valido tanto nel caso di poligenesi, quanto di monogenesi) quando, piuttosto che ad argomentare filiazioni o a rivendicare a tutti i costi un’eredità, è finalizzato

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a integrare, ricostruire e comprendere meglio contesti ed elementi culturali greci e romani che conosciamo solo parzialmente. 7. Gesti e parole augurali Uno studio di questo tipo, oltre a consentirci una visione più ampia e completa del mondo antico, ha ricadute importanti anche per l’interpretazione delle opere letterarie, nei casi in cui gli autori abbiano deciso, magari, di “strizzare l’occhio” al proprio pubblico con allusioni a pratiche diffusissime ma che, in quanto appartenenti all’apáideutos bíos, in circostanze normali erano escluse dalla produzione scritta di un certo livello. Un caso notevole riguarda Eroda, un autore di età ellenistica (quando, come si è già visto, le aperture di questo tipo si fecero più frequenti) che aveva scritto una serie di bozzetti di vita quotidiana in versi, intitolati Mimiambi. Nel primo di questi, bussano alla porta della protagonista Metriche; costei manda la serva a vedere chi è, e si sente rispondere che si tratta di una vecchietta sua conoscente, Gillide. L’anziana viene fatta immediatamente accomodare, e la padrona di casa le chiede qual buon vento l’abbia portata da lei, visto che erano ben cinque

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mesi che non la vedeva. Fin qui, tutto bene: il punto è che le parole di Metriche comprendono anche un ordine rivolto alla serva: strépson ti. Su questo, gli studiosi hanno versato fiumi di inchiostro, giacché queste due parole in greco significano letteralmente «gira qualcosa», ma non era chiaro cosa. Per alcuni la porta o il relativo paletto, e dunque la frase significherebbe «apri» o «chiudi la porta»; per altri, e questa è l’interpretazione che va per la maggiore (anche se costringe a forzare, in ogni caso, il testo greco), la serva sarebbe invece invitata a «girare sui tacchi», ad andarsene o comunque a togliersi di mezzo. In realtà la soluzione, già intuita negli anni Trenta con un riferimento (che per alcuni era troppo esotico) all’ambito folklorico bulgaro, e poi confermata in anni recenti da riscontri effettuati nell’Italia meridionale da Emanuele Lelli, è individuabile nell’usanza “popolare” di «girare, rovesciare qualcosa», il primo oggetto che capiti (un piatto, un cappello…), quando si riceve la visita inaspettata di qualcuno che non si vedeva da lungo tempo. Anche questo gesto, peraltro, è stato interpretato in senso apotropaico, quasi che nel rovesciare un oggetto a caso si annullasse la carica eversiva insita nell’arrivo di chi non ci si attendeva.

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Gli autori antichi testimoniano anche altre usanze e modi di dire augurali che accompagnavano momenti particolari. Sappiamo, per esempio, che in Grecia in occasione dei matrimoni si diceva agli sposi: «Che abbiate bambini e bambine!» (un progresso, rispetto al nostro «auguri e figli maschi»), oppure il più oscuro: «Scopa via, scopa la cornacchia!», che per alcuni avrebbe contenuto l’auspicio di una lunga vita insieme (la cornacchia sarebbe stata assimilata alla vedovanza, o comunque un uccello di cattivo augurio), mentre per altri saremmo di fronte a un salace incitamento allo sposo. A Roma, invece, quando si assaggiava per la prima volta il vino novello, si esclamava Bevo il vino vecchio e il vino nuovo, e così curo malattie vecchie e nuove!

In effetti sarebbe interessante sapere qualcosa di più sulle attività e le abitudini che accompagnavano, come questa, i banchetti delle persone comuni. Sui simposi altolocati, invece, siamo informatissimi: intere opere letterarie (come il Simposio di Platone, gli stessi Deipnosofisti di Ateneo, i Saturnali di Macrobio) sono infatti ambientate in questo contesto, dove il piacere

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(misurato) del vino si accompagnava a giochi e soprattutto a discussioni più o meno brillanti e impegnate.

V

Pillole di saggezza: indovinelli, proverbi, favole

1. Giocare con le parole: gli indovinelli A dire la verità, dall’antichità ci è arrivata (per quanto fortunosamente) anche la descrizione di un simposio tenuto da una persona sì abbiente, ma irrimediabilmente apáideutos. Il riferimento è ancora una volta al celebre banchetto di Trimalchione del Satyricon di Petronio. Certo, non bisogna pensare che la narrazione di questo convito sia una trascrizione stenografica di un evento realmente avvenuto, o sia stata redatta secondo asettici criteri di descrizione etnografica. L’elemento parodico è fortissimo, ed è chiaro l’intento di Petronio di coinvolgere e divertire il suo pubblico “letterato” facendo collidere il piano delle allusioni raffinate con la rozzezza di un manipolo di ignoranti arricchiti che, peraltro, spesso si fanno un vanto proprio della loro man-

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canza d’istruzione. In ogni caso, questo lungo brano ci offre sguardi ineguagliati sulla “cultura popolare” dei tempi. E così, a un certo punto, un tale Ermerote, uno dei buzzurri amici del padrone di casa, sentendosi deriso, apostrofa così uno dei giovani letterati squattrinati imbucatisi al banchetto: Forza, se vuoi facciamo una scommessuccia: fuori i soldi, che anch’io tiro fuori la mia parte. Adesso scoprirai che tuo padre ha buttato via quanto ha speso per farti studiare, e non serve a nulla che tu abbia appreso la retorica! Ecco qua: «Chi sono di noi? Vengo in lungo, vengo in largo, prova un po’ a risolvermi!». Ti dirò: è di noi quello che corre e non si sposta, che cresce e diventa più piccolo. Corri, sei allibito, ti affanni come un topo in trappola.

Si discute se Ermerote stia proponendo tre distinti indovinelli, o un solo enigma seguito da due indizi; in ogni caso, proporre problemi di questo tipo era effettivamente un tipico passatempo conviviale. Come tale, per esempio, viene ricordato dal già citato erudito Ateneo di Naucrati nei suoi Deipnosofisti, dove una lunga sezione, ricchissima di citazioni da commedie greche perdute, è dedicata proprio ai grîphoi,

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un termine che comprendeva indovinelli e giochi di parole. Il simposio di Ateneo era sicuramente altolocato, ma Plutarco, in un altro scritto ambientato in un convivio, ricorda come persino le «persone volgari e illetterate [aphilólogoi]» dopo i pasti si dilettassero di enigmi, indovinelli e svaghi simili. Come ha mostrato di recente Simone Beta, quello dell’indovinello era insomma un passatempo trasversale, che accomunava gli intellettuali e gli apáideutoi. I primi spesso rappresentavano se stessi come dediti a più seriosi «enigmi» (ainígmata) e a profonde questioni filosofiche, mentre tacciavano i secondi, gli ignoranti, di dedicarsi a semplici «indovinelli» e giochi di parole, più corrivi e meno carichi di valori sapienziali. Forse era davvero così, o forse questa polarizzazione è dovuta, ancora una volta, al filtro applicato dai letterati alla realtà, che non permetteva di ammettere che vi fosse un piano in cui tutti, dal filosofo al bifolco, potessero svagarsi allo stesso modo. E in questo senso il brano di Petronio citato in precedenza rispecchia perfettamente quella che era la visione dei pepaideuménoi di un banchetto di illetterati, con i suoi indovinelli volgari e scollacciati. In effetti, quale era la soluzione all’indovinello proposto dal liberto Ermerote? Secondo

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gli studiosi si tratta in realtà di un tranello, un indovinello che ha più di una risposta, in genere una oscena e l’altra più accettabile, in modo che qualunque soluzione fornisca il riddlee, il destinatario dell’enigma, possa essere dichiarata sbagliata. Del resto, il termine greco grîphos in origine indicava la «rete», proprio a segnalare il carattere di trappola che potevano assumere gli enigmi, specie se posti in maniera fuorviante. In questo caso, la risposta oscena sarebbe sempre «il pene», sia che si voglia pensare a tre indovinelli distinti, sia a un indovinello con due indizi. La soluzione “pulita”, invece, potrebbe essere «l’ombra», nel caso di un unico enigma, oppure rispettivamente «il piede», «l’occhio» e «i capelli». Probabilmente non in tutti i banchetti di apái­ deutoi si finiva a fare certe allusioni, quando ci si dedicava ai giochi di parole; ce n’erano altri senz’altro meno audaci. Ma quel che sembra certo è proprio la diffusione di un simile passatempo, anche al di fuori dei conviti. Le testimonianze etnografiche mostrano come l’importanza degli indovinelli, nelle culture folkloriche, sia amplissima. La raccolta di riferimento che censisce gli indovinelli diffusi oralmente nel mondo anglosassone in età contemporanea ne riporta

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ben 1749, molti dei quali con abbondantissimi paralleli in altre lingue. Ed è interessante notare come gli studiosi abbiano individuato una serie di circostanze in cui, pur nella varietà delle tradizioni studiate, si tende a concentrare il ricorso agli indovinelli. Sono situazioni in cui c’è necessità di confrontarsi, e talora di stabilire una gerarchia, con qualcuno che non si conosce, ma proprio per questo si intende farlo con cautela, riducendo la tensione al minimo ed evitando possibili degenerazioni, anche con la scelta di un “terreno” il più possibile neutro. Uno scambio di enigmi, in effetti, prescinde da ogni contatto fisico e comporta un basso rischio di trascendere nelle offese, giacché è giocato su un piano impersonale; e allo stesso tempo è accessibile a tutti perché le conoscenze che richiede sono (o almeno dovrebbero essere) universali. Per questo gli enigmi ricorrono durante i matrimoni (quando si trovano a doversi confrontare due diversi gruppi familiari), come probabilmente già nelle Nozze di Ceice, un poemetto attribuito a Esiodo, e in genere nei banchetti con commensali di diversa estrazione. La sfida (peraltro accentuata dalla scommessa di denaro) che il rozzo Ermerote pone nel Satyricon al suo interlocutore, il giovanissimo Gitone, sembra rientrare pienamente

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in questa casistica folklorica; ma già nella Gara tra Omero ed Esiodo, dove i due poeti si incontrano e si sfidano con domande sapienziali che non sono indovinelli, ma che gli antichi avrebbero comunque classificato come grîphoi, sembra attivo questo modulo. Gli scambi di indovinelli ricorrono poi in situazioni di corteggiamento, dove peraltro sono più spesso le donne a proporre enigmi, con uno schema che ricorre in fiabe e novelle di tutto il mondo e che è stato reso celebre dalla Turandot di Puccini. In questo modo una ragazza poteva infatti intavolare in maniera socialmente accettabile uno scambio verbale da pari a pari con uomini cui era estranea, e soprattutto con potenziali partner, mettendoli alla prova in maniera anche stuzzicante e scherzosa, ma senza compromettersi troppo, proprio per il carattere impersonale di questi “problemi” e la possibilità di celarsi dietro la loro ambiguità in presenza di tematiche più piccanti. Non è un caso che una delle più celebri “enigmiste” del mondo greco fosse una ragazza, Cleobulina, figlia (probabilmente leggendaria) del saggio Cleobulo di Lindo e protagonista di alcune commedie greche perdute, dove secondo alcuni avrebbe sfidato con enigmi proprio i suoi pretendenti.

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Peraltro, è notevole che nel Banchetto dei sette sapienti di Plutarco, in cui compare una Cleobulina intenta, come suo solito, ad ammannire indovinelli ai partecipanti a un convivio, uno di questi, un medico, alla fine si spazientisca e la zittisca, accusandola in sostanza di far perdere tempo ai commensali con ridicole sciocchezze, adatte per le donne ma indegne dell’attenzione degli uomini seri. Altri però prenderanno le sue difese: è l’ennesimo segnale della problematica condizione liminare di questo “genere”, probabilmente uno di quelli in cui la distanza tra pepaideuménoi e apáideutoi era più sottile. 2. La sapienza dei popoli: i proverbi Lo stesso vale per un altro genere che ha un contenuto sapienziale ancora più forte rispetto all’indovinello, ovvero quello dei proverbi (proverbia in latino, paroimíai in greco). Con questo termine gli antichi, come noi, intendevano brevi frasi, spesso allusive e argute, che sintetizzavano una sapienza tradizionale. Per questo suscitavano anche l’interesse dei filosofi e potevano essere adottate dai letterati. Si trattava, in ogni caso, di una sapienza spicciola e popolare, che come tale poteva essere guardata

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in qualche modo dall’alto in basso: secondo un commentatore antico, il personaggio di Callicle nel Gorgia di Platone inizia un discorso con un proverbio proprio perché «ha costumi [letteralmente, ha un bíos] da apáideutos». Ad appoggiarsi massicciamente (se non esclusivamente) ai proverbi, insomma, erano le persone che non potevano disporre di un repertorio di riferimenti più raffinati derivati da un’educazione con tutti i crismi. In qualche caso, i letterati antichi non mancavano nemmeno di notare come il “popolo” fraintendesse le stesse espressioni proverbiali e ne fornisse interpretazioni ridicole e inattendibili; basti pensare al detto, attestato a Roma: «Giù i sessantenni dal ponte!». La spiegazione ritenuta più plausibile e accettabile dai letterati romani, e con loro da molti moderni, è che dai sessant’anni non si aveva più diritto di voto, e dunque gli anziani erano allontanati dalle passerelle (pontes) utilizzate durante i comizi; la tenace opinione della gente comune, tuttavia, riecheggiata anche in qualche commedia, asseriva (riprendendo un motivo folklorico molto diffuso) che anticamente gli ultrasessantenni, in quanto bocche inutili, fossero scaraventati nel Tevere da un ponte, fintantoché Ercole non pose fine a questa barbara usanza. Non solo, in-

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somma, i proverbi erano spesso utilizzati dagli incolti, ma questi ultimi, a causa di questo rapporto stretto, si sentivano addirittura in diritto di proporne le proprie esuberanti spiegazioni, con stizza di grammatici e letterati! Si è visto come, in molti casi, questo collegamento con gli apáideutoi fosse un marchio d’infamia che comportava la marginalizzazione delle forme culturali cui era collegato. Ciò, però, non vale per le paroímiai greche. Soprattutto nel corso dell’antichità e poi del periodo bizantino, furono approntate ampie raccolte che censivano e spiegavano centinaia di forme proverbiali. E queste raccolte, talora, recavano nel titolo l’indicazione che tali proverbi erano demódeis, «popolari», proprio a indicare il carattere ruspante e genuino dei detti che riportavano. È il caso, per esempio, della celebre collezione di Diogeniano, risalente al II secolo d.C. Quale è il motivo di questo inusuale interesse da parte di eruditi e letterati? Un fattore eminentemente linguistico: la conoscenza dei proverbi, e in particolare di quelli attici, era importante per comprendere allusioni e riferimenti in autori scolastici, e poteva tornare utile ai pepaideuménoi anche per rendere il proprio eloquio più “idiomatico”, come si direbbe oggi.

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Questo fattore, dunque, ci ha permesso di conoscere moltissimi proverbi greci (per quelli romani non ci sono arrivate raccolte antiche, ma ne sono state compilate – a partire dai riferimenti letterari – dagli studiosi moderni) che costituiscono materiale di grande interesse folklo­ rico – e che, come tali, sono già stati studiati, in particolare da Emanuele Lelli. Per questo motivo, qui non è necessario dilungarsi: basterà riportare un esempio che permetta di illustrare, ancora una volta, come il folklore sia una chiave privilegiata per comprendere meglio il mondo antico e, nei casi di continuità degli schemi culturali, anche quello moderno. Si può così pensare al proverbio: «Il tesoro si è trasformato in carboni» e alle sue varianti, attestate nelle raccolte greche e poi in Luciano, Fedro e altri autori. Da dove deriva questo modo di dire? Come alcuni studiosi hanno notato, in varie tradizioni folkloriche moderne è espressamente contemplata l’idea che i tesori sepolti di cui si viene a conoscenza (magari tramite un sogno, o anche grazie a folletti, che – come l’Incubo cui si allude nel Satyricon di Petronio – per tornare in possesso dei loro berretti rivelano l’ubicazione di ricchezze nascoste) si trasformino in carboni qualora se ne parli con

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qualcuno prima di dissotterrarli, o non si segua un preciso rituale. L’idea è rimasta diffusa fino a pochi anni fa in Grecia e in moltissime parti d’Italia. Spesso il tesoro è sepolto all’interno di “pentole” o recipienti di terracotta nascosti presso antichi insediamenti o luoghi associati con apparizioni di morti. Probabilmente, tradizioni del genere circolavano già nella tarda antichità. Lo testimonia una commedia latina scritta nei primi decenni del V secolo, verosimilmente in Gallia, da un autore rimasto ignoto. L’opera è intitolata Querolus ed è una rivisitazione dell’Aulu­laria di Plauto, la «commedia della pentola», incentrata intorno a un avaro, Euclione, e alla sua pignatta piena d’oro nascosta sotto terra. Anche nel Querolus c’è un tesoro, ma stavolta Euclione l’ha sepolto nel sacrario domestico in un recipiente mascherato da urna cineraria, con tanto di iscrizione che riporta le generalità del defunto. Quando alcuni malfattori riusciranno, con un inganno, ad accedere al sacrario e a disseppellire il recipiente, vedendolo crederanno che contenga veramente i resti di una cremazione e, senza neanche prendersi la briga di aprirlo, delusi e irritati esclameranno che aurum in cinerem versum est, «l’oro si è trasformato in cenere».

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Lo scambio da oro a cenere, in questo caso, ha espressamente luogo in collegamento con un’urna cineraria sepolta, e ciò non sembra casuale. Si è visto come in varie tradizioni, in effetti, il tesoro che si muta in carbone sia collocato dentro una “pentola” trovata sotto terra, magari connessa in qualche modo con i morti. Talora le vicende sono ambientate proprio in luoghi dove gli archeologi hanno effettivamente individuato antichi sepolcreti con urne cinerarie. In altri termini, l’origine e la persistenza delle tradizioni, proverbiali e narrative, sul «tesoro divenuto carbone» o «cenere», che dall’antichità arrivano fino a oggi, potrebbero essere motivate anche da un motivo concreto: il ritrovamento di “tesoretti” monetari in pentole di terracotta (un fenomeno archeologicamente non così raro) e la possibilità parallela di imbattersi in urne funerarie sepolte, anch’esse assimilate a “pentole”, che una volta aperte rivelavano però al proprio interno solo ceneri e carbone. Più il costume dell’incinerazione era lontano e dimenticato, più la presenza di queste “pentole” sepolte doveva apparire inesplicabile se non, appunto, come contenitori di tesori. E il fatto che al loro interno celassero solo avanzi bruciacchiati era interpretato, per l’appunto, come l’esito di

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una sfortunata trasformazione. Anche in questo caso, dunque, la permanenza della tradizione folklorica tra l’antichità e oggi non è casuale né immotivata, ma si fonda sulla continua utilità di questa credenza per dare un senso a uno scenario reale ed enigmatico, quello degli strani recipienti, vestigia incomprese di un’epoca passata, che talora emergevano dal sottosuolo. 3. Istruire divertendo: la favola Nel mondo antico, come in quello contemporaneo, molti altri proverbi riguardavano gli animali. Che gli animali, come diceva Lévi-Strauss, siano «buoni da pensare» emerge però soprattutto in un genere letterario specifico, quello della favola, che i Greci chiamavano âinos o mŷthos. In italiano «favola» in genere è utilizzato come sinonimo di «fiaba», ma in realtà tra i due termini c’è una differenza: la fiaba (di cui parleremo in seguito, v. pp. 147-149) è un racconto fantastico, a contenuto magico e meraviglioso, che ha perlopiù come protagonisti uomini ed esseri fantastici; la favola invece è una breve narrazione, a contenuto morale, nella quale appaiono in genere animali parlanti (ma anche piante o altri elementi naturali), a esemplificare vari “tipi” e

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atteggiamenti. La favola, per la sua capacità di veicolare contenuti sapienziali in maniera gradevole e accessibile, facendo riferimento a paradigmi (come quelli che attribuiscono a ogni animale virtù e vizi specifici) comprensibili a tutti, è diffusissima a livello folklorico in tutto il mondo e in tutte le culture. Allo stesso tempo, proprio il suo valore morale ne ha facilitato, fin dall’origine, la comparsa nelle opere letterarie, soprattutto in quelle che cercano di veicolare insegnamenti, come nel caso della poesia didascalica. Favole compaiono dunque fin dai primordi della letteratura greca, come nel celebre apologo del falco e dell’usignolo nelle Opere e i giorni di Esiodo o in quello della volpe e dell’aquila che emerge nei frammenti di un epodo di Archiloco. Anche in seguito ricorrono molto frequentemente incastonate in opere in versi e in prosa, nonché in vere e proprie raccolte, attribuite precocemente alla figura leggendaria di Esopo, uno schiavo frigio brutto ma di mente acutissima. Intorno a lui si svilupperà anche una vera e propria saga, il Romanzo di Esopo, che ne ripercorrerà la vita e le divertenti trovate, simile ai cicli presenti nelle letterature di tutto il mondo che vedono protagonisti servi, o comunque persone di bassa condizione che

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nella loro sfrontatezza si rivelano più furbe dei signori e dei potenti. Anche a Roma il genere della favola (fabula, fabella) poté godere di un grande successo, a partire da Fedro; le riprese e le rielaborazioni si sono poi susseguite fino all’età moderna in tutte le lingue europee, come dimostrano tra l’altro le celebri Fables di Jean de La Fontaine (1621-1695). Uno dei motivi di questa diffusione, peraltro, è anche il fatto che la favola sia stata adottata nei programmi scolastici già nell’antichità, dove almeno a partire dall’età imperiale costituiva il primo genere di composizione in cui si cimentavano i bambini, proprio perché vicinissimo, come dice Quintiliano (che di mestiere, non a caso, faceva l’insegnante), alle fabulae delle nutrici. Erano soprattutto i futuri oratori a cimentarsi nella creazione di storielle che un giorno avrebbero potuto usare come paradéigma­ta, «esempi», nei loro discorsi. Il motivo era la loro “accessibilità”, che le rendeva comprensibili in maniera trasversale a un uditorio il più possibile variegato, che comprendeva pepaideuménoi e apáideutoi. Si tratta, del resto, della stessa ragione che ha sempre favorito il reingresso nella tradizione orale, a partire dai repertori scritti, di questi brevissimi racconti. La favola, insom-

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ma, compariva davvero nell’enciclopedia culturale di tutti, al punto che è lecito chiedersi se, soprattutto per quanto riguarda l’antichità, la si possa davvero includere nel folklore, vista la sua presenza anche nel percorso scolastico dei pepaideuménoi e nella “loro” letteratura. Se da un lato si può rispondere che verosimilmente le favole in circolazione oralmente non si identificavano totalmente con quelle tramandate nelle raccolte scritte, dall’altro occorre evidenziare come anche in questo caso non manchino testimonianze di un atteggiamento di sufficienza e fastidio, da parte di alcuni intellettuali e letterati, verso un genere considerato in definitiva come eccessivamente “popolare” e grossolano, troppo accessibile a bambini e ignoranti. Nelle Vespe di Aristofane l’azzimato Bdelicleone cerca di rendere presentabile l’anziano padre e gli chiede di fare «discorsi seri» (lógoi semnói), che non lo facciano sfigurare in presenza di «persone istruite (polymathêis) e intelligenti». Il vecchio, dopo essersi spremuto le meningi, inizia a raccontare: «C’erano una volta un topo e una donnola…». Bdelicleone però lo blocca subito con una reazione eloquente («Ma vuoi parlare di topi e donnole tra uomini di riguardo?»), che lascia capire come quella della

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favola fosse un genere narrativo, tutto sommato, marginale. Anche gli stessi oratori, a volte, manifestavano una certa insofferenza per questo tipo di “esempio” che, per i loro gusti, piaceva anche troppo alla massa cui si rivolgevano. Una volta il noto politico Demade, spazientito di fronte agli Ateniesi riuniti in assemblea che non badavano ai suoi discorsi, ne catalizzò immediatamente l’attenzione iniziando a raccontare. «Una volta Demetra, una rondine e un’anguilla facevano la stessa strada. Quando giunsero a un fiume, la rondine spiccò il volo e l’anguilla si tuffò in acqua». E dopo aver detto questo, si zittì. E quando gli astanti gli chiesero: «E allora cosa Demetra cosa fece?», quello rispose: «Ce l’ha con voi, che trascurate gli affari della città ma non vi fate problemi ad ascoltare le favole di Esopo!».

La favola non rientra dunque tra le forme espressive più pienamente “serie”. Può essere tollerata per instaurare una comunicazione con chi non ha ancora una vera cultura, come i ragazzi, o per chi ne ha poca o nessuna, come i popolani presenti all’assemblea, ma molti letterati non vedono l’ora di rivolgersi ad altro e di

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abbandonare un genere fin troppo apprezzato dagli apáideutoi. 4. Oltre la favola: qualche cenno agli animali nel folklore Gli animali protagonisti delle favole offrono, peraltro, anche lo spunto per fare un cenno alle credenze folkloriche relative alla fauna. Quello dei saperi antichi sul mondo animale, in effetti, è un campo assai complesso e oggi particolarmente studiato. In quest’ambito, distinguere tra “credenze popolari” ed enciclopedia culturale delle persone istruite è per noi particolarmente arduo: moltissime delle cognizioni tramandate dagli autori greci e latini finiscono ai nostri occhi per coincidere, per quanto impressionisticamente, con l’ambito del folklore, ma in realtà erano patrimonio della cultura alta. Nel corso degli ultimi anni, sono stati evidenziati una serie di punti fermi da cui partire per cercare di fare chiarezza. Tanto per cominciare, la zoologia degli antichi (compresa quella più scientifica, espressa per esempio da Aristotele) non seguiva sempre le nostre ripartizioni tassonomiche che prendono le mosse da Linneo, incentrate sull’anatomia e la fisiologia. Quelle

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degli antichi non sono «specie» nel nostro senso, ma «specie­mi», etichette sotto cui potevano sovrapporsi animali percepiti per vari motivi come affini: non solo per l’aspetto, ma anche per l’habitat o l’etologia. Questo fa sì che talora certe specie si trovino classificate dove non ci aspettiamo (come il pipistrello tra gli uccelli, anche se si sapeva che allattava i suoi piccoli), o che vengano loro ascritte caratteristiche che non collimano con quanto sappiamo noi, generando l’impressione di conoscenze imprecise e approssimative. Basti pensare alla continua sovrapposizione tra castori e lontre, con i tratti degli uni attribuite alle altre e viceversa, al punto che secondo un erudito romano il nome delle seconde (in latino lutrae) derivava dal verbo luo, «distruggo», perché avrebbero abbattuto gli alberi sulle rive dei fiumi. Più che una questione di folklore, si tratta, insomma, di una questione di organizzazione e classificazione secondo categorie non sempre corrispondenti alle nostre. Infine, tra le nozioni che circolavano in Grecia e a Roma in merito ai vari «speciemi» animali ce ne sono molte che all’epoca erano condivise da pepaideuménoi e apáideutoi, e che oggi invece sono relegate nell’ambito del folklore – ma questo non autorizza a considerarle come facenti

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parte della “cultura popolare” degli antichi, se quest’ultima era, come abbiamo postulato, la «cultura di chi non aveva cultura». Si può pensare, tra vari esempi, all’affermazione secondo cui i ricci avrebbero fatto scorta per l’inverno di mele e altri frutti – compresi i fichi stesi a seccare sui graticci – in maniera molto singolare, ovvero rotolandovisi sopra, infilzandoli con gli aculei e trasportandoli così nella loro tana. Ne parlano come di un dato di fatto Plinio il Vecchio e altri. C’era anche chi, come il rispettabilissimo personaggio di un dialogo di Plutarco, giurava di aver visto con i suoi occhi, da bambino, un riccio che camminava talmente coperto di acini d’uva da sembrare un grappolo ambulante, e la stessa scena compare in miniature medievali bizantine. In effetti, simili avvistamenti non sono del tutto impossibili, anche se, come da tempo ripetono i naturalisti, sono da imputare al caso (foglie e piccoli frutti – le mele in questione sono quelle selvatiche o simili! – ogni tanto possono effettivamente rimanere infilzati nelle “spine”) più che all’etologia dell’animale, che non fa nulla del genere volontariamente. Il riccio è infatti un insettivoro e alla frutta preferisce vermi, insetti e lumache. La facilità di fraintendimento e la tendenza a umanizzare sempre il comportamento

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degli animali spiegano però la lunghissima fortuna di questa credenza (ne parla anche Antonio Gramsci in una celebre lettera al figlio Delio) che noi, a differenza degli antichi, releghiamo senza esitazioni tra le credenze non qualificate che vanno a costituire il folklore. Talora, però, sembra emergere anche una dimensione più genuinamente folklorica. Si può ricordare il caso del geco, che gli antichi (scienziati e naturalisti compresi) erroneamente ritenevano velenoso. Si raccontava che un tempo fosse un uomo, Ascalabo, trasformato in sgradevole rettile butterato dalla dea Demetra, adirata perché ne era stata presa in giro mentre vagava in cerca della figlia Persefone: ne parlano vari poeti, tra cui Ovidio. Solo un oscuro raccoglitore di miti di età imperiale, Antonino Liberale, aggiunge un dettaglio di cui altrimenti saremmo all’oscuro: «chi lo uccide compie un gesto gradito a Demetra». Una notazione apparentemente insignificante, che tuttavia apre un mondo: l’uccisione di gechi è infatti ritenuta una benemerenza religiosa in molte culture del Vicino Oriente e del Mediterraneo, a partire dall’antica Persia per arrivare fino a oggi. Queste credenze, per quanto in maniera informale e senza l’avallo delle autorità ecclesiastiche, sono presenti oggi

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nel mondo islamico, in Grecia, dove in alcune località questi animaletti vengono accusati di avere morso la Madonna, ragion per cui eliminarne uno equivale a quaranta messe, e in alcune zone della Sicilia, dove il “premio” per l’uccisione è costituito dal condono di sette peccati. Tutto lascia intendere, insomma, che usanze del genere potessero essere diffuse anche nell’antichità. Solo in un caso, però, sono riuscite a filtrare in una pagina scritta, mentre gli altri che hanno affrontato il mito di Ascalabo e della sua trasformazione in geco non ne hanno parlato, forse ritenendo che si trattasse di qualcosa di troppo inelegante e insignificante (verrebbe da dire da apáideutoi) per soffermarvisi sopra.

VI

Divinità e figure mitologiche

1. Le orecchie di Priapo Il medesimo fenomeno di omissione potrebbe essere avvenuto per alcune figure mitologiche intorno alle quali, nel corso dei secoli, si svilupparono credenze che dovettero essere diffuse a livello folklorico, e che tuttavia affiorano ben poco negli scritti dei letterati dell’antichità. In qualche caso si tratta di particolari irriverenti o scherzosi che vengono associati a figure divine minori. Il già citato commediografo romano Afranio, per esempio, nel prologo di una delle sue opere faceva parlare il dio Priapo, protettore degli orti e giardini caratterizzato da uno spropositato membro virile. Le altre fonti letterarie ci dicono che era figlio di Dioniso o di altri dèi, ma nel frammento in questione Priapo si lagna perché «popolarmente» (vulgo) si di-

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ceva che fosse figlio di un «orecchiuto». Alcuni studiosi moderni si sono scervellati per interpretare questo cenno, postulando improbabili collegamenti con le lepri, ma è chiaro che qui c’è un’allusione all’asino, notoriamente ben dotato dal punto di vista dei genitali, che avrebbe dunque trasmesso questa caratteristica al proprio presunto figlio. Il fatto che tale genealogia non risulti attestata altrove non deve indurre a ritenere che sia necessariamente un’invenzione del commediografo. Non stupisce infatti che questo elemento, “volgare” in ogni senso, possa essere stato ignorato da grammatici e letterati, e del resto anche il frammento di Afranio ci è arrivato solo perché conteneva una parola rara (auritus, «orecchiuto») che aveva suscitato la curiosità di un erudito. 2. I morsi di Caronte e la fame di Orcus In altri casi, le tradizioni folkloriche riguardavano entità più inquietanti. Tutti, per esempio, conosciamo la figura di Caronte, il traghettatore dei morti, almeno dalla Divina Commedia e dall’Eneide, e in questa veste stereotipata compare già nell’Alcesti di Euripide e nelle Rane di Aristofane. Se per noi Caronte, però, è solo un

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pittoresco personaggio letterario, nella Grecia moderna Charos era una figura molto temuta che, in qualità di feroce demone della morte, compare in credenze e canti popolari raccolti dall’Ottocento fino ai nostri giorni. Nell’immaginario, era lui che si presentava, invisibile, nelle case dei moribondi per tagliare loro la gola e portarli con sé nell’Oltretomba. Sono diffusissimi i canti popolari che lo rappresentano come un predone a cavallo che, dopo aver fatto una scorribanda sulla terra, procede verso gli Inferi con il suo carico di anime, alcune affastellate sulla sella e altre costrette a marciare davanti o dietro il loro nuovo padrone. Ma da quando, esattamente, il traghettatore infernale ha iniziato a lasciare l’Acheronte per procacciarsi personalmente le sue anime? Probabilmente da moltissimo tempo. Il charopále­ ma, la lotta finale contro Caronte, che alla fine naturalmente ha sempre la meglio, compare già in alcuni canti che trattano delle gesta di Digenis Akritas, l’eroe di una celebre epopea bizantina. E risalendo ancora più all’indietro, tra gli epigrammi sepolcrali, dalla prima età imperiale in poi se ne trovano diversi in cui viene stigmatizzato l’insaziabile Caronte, che ha «ghermito» o «rapito» le sue vittime, soprattutto giovani nel

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fiore degli anni. Certo, anche qui vi è molto di stereotipato e non c’è nulla di così esplicito e drammatico come nei canti neogreci o nella narrazione della morte di Digenis Akritas, però si lascia intendere come nell’immaginario questa figura potesse anche trascendere dal suo ruolo canonico di barcaiolo delle anime. Non a caso, nell’antichità c’era anche chi sognava di essere inseguito a perdifiato proprio da Caronte, salvo poi riuscire fortunosamente a salvarsi barricandosi nella stanza di una locanda. Ce ne parla Artemidoro di Daldi (II-III secolo d.C.) nel suo celebre trattato Sull’interpretazione dei sogni, dove non sorprendentemente spiega questa visione onirica come il presagio di una scampata morte. Un’allusione interessante sembra emergere anche in un cenno di Luciano di Samosata, che, come si è visto, rimanda spesso a elementi folklorici nei suoi scritti. E così in un opuscolo tratteggia un anziano personaggio che, per spiegare scherzosamente l’origine delle vene varicose sulle sue gambe, dichiara: «Caronte mi ha morso», come a dire che si tratta di un male di vecchiaia, e dunque di un segno che la morte si sta avvicinando minacciosamente. Si tratta di un cenno davvero minimo, ma sufficiente a creare dubbi e scompensi a qualche studioso moder-

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no, ancorato alla visione tradizionale di Caronte come barcaiolo, e che dunque ha cercato di correggere il testo inserendo la menzione di «Cerbero». In realtà questo dettaglio, soprattutto se inserito nel contesto più ampio che abbiamo evidenziato, può essere interpretato come l’ennesimo richiamo alla concezione diffusa del Caronte “predatore”. Lo stesso Luciano, però, quando deve trattarne nelle altre sue opere, in particolare nei Dialoghi dei morti, lo rappresenta nel modo più canonico come un semplice traghettatore delle anime, divertendosi anche a ricamare su tale immagine tradizionale. Il punto è che, come è stato osservato, dovendo parlare di Caronte, i letterati antichi – tranne poche eccezioni – tendevano ad accogliere e perpetuare nelle proprie opere solo «la presentazione corretta e in voga tra le persone istruite». Accennare al demone che inseguiva le sue vittime fin dentro le osterie era di cattivo gusto, o al massimo vi si poteva alludere, ma solo per strappare un sorriso. Tuttavia, al di fuori del giardino incantato e della torre d’avorio della letteratura “alta”, gli apáideutoi si facevano minori scrupoli e portarono Charos con sé fino ai nostri giorni. Una precoce evoluzione folklorica può essere individuata anche per quanto riguarda un’altra

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figura della paura, quella di Orcus. Con questa parola i Romani indicavano tanto l’Oltretomba, quanto la divinità che su di esso signoreggiava, che poteva essere definita receptor mortium, «ricevitore dei morti», con un’immagine abbastanza statica e passiva. Anche in questo caso, però, non mancano alcuni cenni letterari che lo rappresentano rapace e spietato, in particolare in Orazio, che lo descrive come un «mietitore» implacabile di grandi e piccoli. Potrebbe trattarsi di affioramenti di un immaginario molto più diffuso, dove anche Orcus aveva assunto le fattezze di brutale demone della morte. Le testimonianze più esplicite compaiono, ancora una volta, soprattutto in passi di tono colloquiale o scherzoso. In Petronio, per esempio, si trova l’espressione gergale «forte come Orco», e nel frammento di un mimo – un genere teatrale piuttosto “popolare” – del I secolo a.C. un personaggio apostrofava così alcune donne: «Orco sicuramente vi caricherà nude in spalla!». In questo caso, il dio dell’Oltretomba, lungi dall’essere un semplice «ricevitore di morti», sembra davvero dipinto come un bruto che cattura personalmente le sue vittime. Siamo davvero sulla buona strada per passare da Orcus a… l’orco. E in effetti, dopo

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un lungo silenzio quasi ininterrotto per buona parte del medioevo, all’improvviso compaiono testimonianze che ci mostrano l’antica divinità degli Inferi già perfettamente evoluta nel suo ruolo di spauracchio infantile e protagonista di fiabe in qualità di mostro antropofago. All’inizio del XIII secolo il trovatore Guiraut de Calanson, in un componimento in cui elenca tutte le storie che devono comparire nel repertorio del perfetto giullare, oltre a celebri vicende del mito classico e della storia biblica menziona cursoriamente anche le faulas d’orc, «favole dell’orco». Alla fine dello stesso secolo il senese Jacomo de’ Tolomei, detto Granfione o Graffione, in un sonetto burlesco in cui paragona alcuni suoi avversari a personaggi fantastici, se la prende anche con un certo Ser Lici che «è orco» e «mangia li garzone», ovvero i bambini. E qualche decennio dopo sarà Giovanni Boccaccio, all’interno di una sua monumentale opera mitologica, le Genea­ logie deorum gentilium, «Genealogie degli dèi pagani», a ricordare fugacemente con commiserazione le fabellas Orci, «favolette dell’orco», che le sere d’inverno le vecchiette raccontavano alla famiglia raccolta intorno al focolare. Cos’è successo? In questi testi viene finalmente infranto il plurisecolare muro di “omertà” eretto

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dall’«esclusione del folklore», ed emerge una realtà di racconti domestici tradizionali legati alla «cultura di chi non aveva cultura». Al loro interno l’Orcus romano si era evoluto nell’orco della fiabistica moderna, destinato a essere definitivamente accolto in letteratura nel Cunto de li cunti di Basile. Non possiamo stabilire quando sia nato l’orco delle fiabe, se nel medioevo o nel corso dell’antichità. Ma sicuramente, come nel caso di Caronte, già nel mondo romano le tradizioni che circondavano questa figura dovevano essere molto più ricche di quanto non lascino trasparire i riferimenti dei letterati, e non così distanti da quelle che sarebbero affiorate, apparentemente dal nulla (ma convogliate in realtà dagli invisibili «condotti» della tradizione orale), quando il medioevo si avviava alla fine. 3. Danzare per sempre con le ninfe In altri casi, invece, ci troviamo di fronte a una sorta di doppio binario: quello che per tante persone istruite, probabilmente, non era molto di più di una convenzione letteraria, per tanti altri era invece una realtà folklorica in cui si credeva fermamente, come è possibile documentare nel corso – addirittura – dei millenni.

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Si può pensare alle ninfe, figure soprannaturali estremamente longeve (ma non immortali), legate soprattutto agli elementi naturali, come corsi e specchi d’acqua e alberi, con la cui esistenza erano intimamente legate. Noi abbiamo la tendenza ad assimilarle alle innocue e fragili fatine elaborate dall’immaginario dell’Inghilterra vittoriana, ma nell’antichità erano dipinte come decisamente più sanguigne e temibili. Vari miti, infatti, le rappresentano vendicative, gelosissime e, soprattutto, dedite a rapire uomini e donne, spesso di giovanissima età, di cui si erano invaghite. Il caso più noto è sicuramente quello di Ila, il bel ragazzo amato da Eracle che, allontanatosi da quest’ultimo per attingere acqua durante la spedizione degli Argonauti, venne ghermito dalle ninfe che popolavano uno stagno. Nel mito non mancano altri casi del genere, e questo topos emerge anche dagli epigrammi funerari. In Callimaco, ma anche in epigrafi anonime, ragazzi o bambine prematuramente scomparsi, spesso morti annegati, sono detti «rapiti» o «strappati alla vita» dalle ninfe, che rendevano «sacro» chi prendevano con sé. È verosimile che, collegando la sparizione di questi giovani alle ninfe, gli autori degli epitaffi facessero ricorso a un motivo eufemistico e

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consolatorio analogo alla frase «adesso è tra gli angeli» o «è diventato un angelo» che utilizziamo noi di fronte a morti infantili o comunque premature. Per molti, ieri e oggi, queste sono solo parole di circostanza, senza un significato concreto; per molti altri, tuttavia, forse ieri più di oggi, dietro a esse poteva esserci anche una realtà. Una serie di offerte e graffiti reperiti in grotte sacre, come quella presso Farsalo, in Tessaglia, lascia comprendere come i santuari dedicati alle ninfe fossero molto frequentati nell’antichità, fino all’epoca romana. E anche quando molte delle divinità tradizionali rimasero solo nella memoria dei letterati, tra gli apáideutoi si continuarono a temere le ninfe, per le quali venne generalizzato il nome di Nereidi, che in origine era riservato a quelle che popolavano il mare. Nel medioevo bizantino, e poi per tutta l’età moderna e contemporanea, si continua a parlare di queste temute entità, capaci di maledire chi facesse loro uno sgarbo (a esse erano attribuiti paresi e “colpi” improvvisi, per esempio), sempre pronte a irretire giovani (di cui erano gelosissime) e ad attirare bambini e bambine, con cui amavano giocare, in fondo ai pozzi o nelle foreste e nei prati solitari in cui solevano intrecciare le loro danze. E del resto,

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fino a pochi decenni fa, anche gli abitanti dei remoti paesini dell’Aspromonte in cui si parlava greco temevano le naráde o nadáre, dipinte come esseri demoniaci dalle zampe d’asina che giungevano la notte per insidiare le persone e rapire i bambini scambiandoli con i propri. Varie vicende trattate dai poeti, insomma, potevano essere rielaborazioni raffinate, e indirizzate agli acculturati, delle “pittoresche” credenze che circolavano tra gli apáideutoi. Si può pensare, per esempio, a una storia come quella di Driope, che a quanto pare era stata trattata in epoca ellenistica dal sofisticato Nicandro nelle sue Alterazioni, un poema dedicato alle metamorfosi cui si ispirò anche Ovidio. Ce ne resta un riassunto, da cui si apprende che la protagonista, una figlia unica, recandosi a pascolare le greggi del padre aveva finito per diventare compagna di giochi delle ninfe, che le avevano insegnato a danzare. Dopo una serie di complicate vicende che la portarono lontano, quando alla fine Driope si trovò a passare nuovamente dai luoghi della propria infanzia, le ninfe la rapirono e la «fecero sparire nella foresta». Questo, però, non fu un atto ostile, ma anzi un gesto di benevolenza, giacché alla fine «Driope si trasformò e da donna mortale diventò una ninfa».

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Racconti del genere hanno continuato a circolare a livello folklorico, verosimilmente senza soluzione di continuità, anche molto dopo la fine dell’antichità. Le credenze però non viaggiano da un’epoca all’altra come monoliti inalterabili, e quel che anticamente poteva essere visto, tutto sommato, come una benedizione e un superamento della condizione mortale, in un contesto cristiano suscita reazioni ben diverse. Lo testimonia un celebre episodio riferito da un viaggiatore tedesco, Ludwig Ross, che nel 1833 si trovò a passare da Chalandri, un villaggio dell’Attica. Vedendo la moglie del prete locale in lutto, le chiese cosa le fosse successo e si sentì raccontare questa storia, fonte di angoscia e turbamento per la donna e la sua famiglia: Avevo una figlia, una ragazza di 12-13 anni, dal carattere molto particolare. Sebbene la trattassimo tutti gentilmente, era sempre di umore triste e, ogni volta che poteva, scappava dal villaggio sui pendii boscosi della montagna [il Vrilessos]. Lì vagava solitaria per giorni, la mattina presto come la sera tardi; a volte si toglieva il vestito e rimaneva in sottoveste per essere meno ostacolata nelle corse e nei salti. Non osavamo contrastarla, perché ci eravamo resi conto che le Nereidi l’avevano ammaliata, ma eravamo profondamente rat-

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tristati. Invano mio marito spesso la conduceva in chiesa e leggeva preghiere sopra di lei; la Panagia non poteva più aiutarla. Dopo che questa situazione è andata avanti per un po’, è caduta in una profonda malinconia e alla fine, poco tempo fa, è morta. Al momento del funerale, i vicini ci hanno detto: «Non vi stupite della sua morte, giacché le Nereidi la volevano, e già due giorni fa l’abbiamo vista danzare con loro».

4. Un eroe per amico Soprattutto per quanto riguarda l’ambito religioso, nel corso dell’età imperiale si assiste peraltro all’avvicinamento di alcuni letterati a posizioni che ad altri pepaideuménoi sarebbero apparse ridicole e irrazionali, e che in realtà dovevano sempre essere state molto diffuse, nonostante la sufficienza, se non addirittura l’aperta irrisione, con cui in genere erano viste da chi, come Luciano, ostentava il proprio buon gusto e la propria formazione razionalista. Un esponente di questo nuovo atteggiamento è Filostrato, vissuto nei primi decenni del III secolo e strettamente legato alla misticheggiante dinastia imperiale dei Severi. Nel suo dialogo intitolato Eroico, ambientato a Eleunte sui Dardanelli, il personaggio del Vi-

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gnaiolo (un pepaideuménos poi convertitosi alla vita bucolica) parla del rapporto speciale e personale che lo lega a Protesilao, antico eroe della guerra di Troia, e al suo tumulo, effettivamente oggetto di venerazione e meta di pellegrinaggio. Direttamente accanto a questo sepolcro, adiacente ai suoi terreni, il Vignaiolo narra al proprio interlocutore, un viaggiatore fenicio che alla fine si convertirà totalmente alla sua causa, delle sue conversazioni con l’eroe (da lui descritto per filo e per segno) e di come lo abbracci e lo baci per salutarlo, ricevendone aiuto materiale e consigli. Protesilao è in grado di dispensare profezie e guarire malattie, e si rivela benevolo verso chi gli rivolge le sue preghiere, purché lo faccia con intento puro: odia infatti malfattori e fedifraghi. E lo stesso avveniva altrove, prosegue il Vignaiolo, per altri eroi connessi alla saga troiana, come Reso, Aiace, Ettore, Achille. Non è questa, naturalmente, la sede per affrontare la tematica del culto degli eroi nel suo complesso, né i molteplici problemi sollevati dall’Eroico. Però ci si può limitare a notare come quest’atteggiamento di sorprendente familiarità, fisica e verbale, di un “custode” con il personaggio taumaturgico, a metà tra divino e umano, di cui frequenta e cura il sepolcro, sia

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documentabile continuativamente nell’Oriente mediterraneo. Agli inizi del VI secolo, per esempio, si narrava che Costantino, il custode (paramonários) della veneratissima tomba di Giovanni Battista a Sebaste, in Palestina, ogni notte vedesse il santo seduto su un trono appositamente ubicato vicino al suo sepolcro; e quando, in seguito, l’uomo ebbe bisogno di un consiglio, il santo glielo fornì con franchezza: tra i due, infatti, c’era parrhesía, «libertà di parola». La testimonianza forse più impressionante, anche perché viene dai giorni nostri, è però quella dello storico e viaggiatore inglese William Dalrymple, che nel settembre del 1994 si recò presso l’antica città di Cirro, non lontano da Aleppo. Oggi è completamente distrutta e disabitata, eccezion fatta per un mausoleo esagonale di età tardoantica, che svetta in una delle antiche necropoli. Accanto a questo edificio sorgono una moschea e un alloggio per i pellegrini. Questi arrivano numerosi, soprattutto nei venerdì primaverili, implorando qualche grazia dal misterioso personaggio che si dice essere sepolto nell’antica struttura. Per alcuni si tratterebbe di un santo sceicco di nome Khoros; per altri nientemeno che di Nebi Uri, Uria l’Itti­ta, un personaggio biblico fatto ingiustamente mo-

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rire da Davide. È a lui che vengono attribuite le guarigioni miracolose dei malati (non solo musulmani) che la notte rimangono a dormire nel santuario, secondo un’usanza che ha anch’essa una storia lunghissima (basti pensare all’incubazione sacra che veniva anticamente praticata nei santuari di Asclepio). Il pellegrinaggio islamico a «Nebi Uri» è attestato almeno dal XII secolo, e una serie di graffiti lascia intendere che anche in precedenza il mausoleo, forse identificato con una tomba di Giovanni Battista, fosse frequentato da cristiani. Giunto in questo luogo, Dalrymple cominciò a parlare con l’anziano sheikh che fungeva da custode, il quale gli raccontò di come, poco tempo prima, alcuni ladri avessero portato via tappeti e altoparlanti dall’adiacente moschea; addirittura, avevano scavato nei pressi del cenotafio del «santo», credendo di trovare un tesoro. Dopo avere scoperto il fattaccio, il custode stizzito aveva colpito più volte la tomba con il suo bastone, dicendo al suo titolare che doveva avere maggior cura di se stesso. Quando il viaggiatore inglese, perplesso, gli domandò: «Lei parla col santo?», «Naturalmente!» disse lo sheikh, ridendo con indulgenza, come se stessi chiedendogli una cosa

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tanto ovvia che solo uno straniero poteva ignorare. «Ogni giorno». «Come?» «Lui viene da me in sogno» rispose lo sheikh. «Mi dà consigli e istruzioni: “Non abbandonare il mio santuario, sorveglialo, rendilo bello”». «Che aspetto ha?» «Ha una faccia rotonda, una folta barba nera…» «E i suoi abiti?» «Non so: vedo solo la sua faccia» disse lo sheikh. «Da venti anni sono sheikh qui. E prima di me mio padre, e prima di lui suo padre».

Testimonianze come questa aiutano a inquadrare meglio quello che riferisce Filostrato nel­ l’Eroico. Certo, tratteggiando il personaggio del Vignaiolo non fornisce una registrazione etnografica, ma la sua non è nemmeno una pura fantasia, l’ennesima “realtà virtuale” all’interno di un cortocircuito esclusivamente inter­testuale e letterario. Riflette, invece, le storie che circolavano intorno ai sepolcri degli eroi (poi dei santi) e ai loro custodi, che spesso erano i primi ad alimentarle. Arrivando a propagandare questi aspetti, come si è detto, Filostrato si pone in rottura con le tendenze di equilibrio e razionalismo che andavano per la maggiore in precedenza. Ma tra II e III secolo si nota un’accondiscenden-

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za sempre più ampia, da parte degli intellettuali, verso posizioni di questo tipo, che peraltro erano state fatte proprie dal cristianesimo. Cos’era successo? Un cambiamento di mentalità da parte di alcuni pepaideuménoi, che ammettono nella propria “enciclopedia”, e fanno trapelare nelle loro opere, anche concezioni che prima, invece, erano appannaggio della “cultura popolare” e dunque risultavano invisibili, avvolte da un contegnoso silenzio o, al massimo, oggetto di qualche frecciata beffarda.

VII

Racconti per grandi e piccini

1. Fate, Moire e lupi mannari: belief tales Altrettanto viva, e non certo limitata all’ambito letterario, doveva essere anche la credenza nelle divinità del destino, in genere tre e di sesso femminile, che comparivano alla nascita di un bambino, o poco dopo, per decretarne la sorte. In Occidente le Parche latine, dette anche Tria Fata («Tre Destini»), sono diventate le fate, che in questo ruolo, peraltro, compaiono soprattutto nelle fiabe. Le antiche Moire greche sono invece ben riconoscibili nelle Móires del folklore ellenico moderno. Fino a qualche decennio fa c’era la convinzione che, tre o sette giorni dopo la nascita, queste entità venissero a far visita ai neonati per decretarne la sorte. I segni che comparivano sul corpo o sul volto dei piccoli (voglie, esantemi, bolle, altre particolarità della

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pelle) erano considerati la scrittura delle Moire, che ne preannunciava e fissava il futuro; e una simile interpretazione era anche data della sutura tra le ossa del cranio, con i suoi caratteristici ghirigori. Le madri lasciavano piccole offerte (bevande e dolci) per le Moire nella notte fatale, e ogni tanto qualcuna cercava di udire cosa dicevano, anche se ciò in genere aveva effetti nefasti. Nell’antichità c’era un personaggio associato con una tradizione di questo tipo: si trattava di Meleagro, che sarebbe divenuto uno dei protagonisti della caccia al cinghiale calidonio. Secondo alcune varianti della sua storia, già nota nel V secolo a.C. e poi raccontata per esteso dai mitografi di età imperiale, pochi giorni dopo la sua nascita erano giunte le tre Moire a decretarne il destino. Una aveva detto che sarebbe stato magnanimo, l’altra coraggioso, e l’ultima rivelò che sarebbe vissuto fintantoché un tizzone, che in quel momento ardeva nel fuoco, non fosse stato consumato. A quel punto le Moire scomparvero, e la madre Altea, che aveva sentito tutto, fu svelta a spengere il tizzone e a metterlo da parte. Meleagro crebbe e diventò così praticamente invulnerabile (quello delle Moire, infatti, era un dono)… fino al momento in cui la madre, adirata con lui che aveva ucciso un suo

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zio, gettò il pezzo di legno nel fuoco e fece così morire il figlio in un istante. Piuttosto che cercare di individuare, com’è stato fatto, precise relazioni genetiche tra questo notissimo mito e le storie greche moderne sulle Moire (alcune delle quali molto vicine, forse troppo, al racconto di Meleagro) sembra più produttivo pensare a una matrice comune, un patrimonio di credenze ampiamente condivise nel corso del tempo (anche perché legate al momento critico della nascita) e produttive dal punto di vista narrativo. Le narrazioni moderne sulle madri che cercano di spiare le Moire, e ne vengono spaventate, e quella (certo, infinitamente più elaborata) di Meleagro potrebbero così rientrare nella categoria dei belief tales o stories. Si tratta di storie spacciate come vere che, pur non condividendo una trama identica, sono imbastite autonomamente a partire dalle medesime credenze tradizionali (di cui spesso sviluppano o “esplorano” i presupposti), che anzi contribuiscono a riconfermare. Vari racconti di incontri con creature soprannaturali rientrano in questa tipologia. Si può pensare alle vicende di ninfe o di eroi citate in precedenza, oppure a figure più decisamen-

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te orrorifiche. La storia più nota che ci viene dall’antichità, ancora una volta dalla cena di Trimalchione del Satyricon di Petronio, è quella del versipellis, il lupo mannaro. Uno dei commensali, Nicerote, racconta di come anni prima avesse intrapreso un viaggio notturno insieme a un conoscente, un soldato. I due, che procedevano alla luce della luna piena, giunsero a un sepolcreto. A quel punto il soldato, sotto lo sguardo esterrefatto del compagno di strada, si spogliò completamente, orinò intorno ai propri vestiti ammucchiati per terra e si trasformò in lupo, per poi fuggire via ululando. Nicerote, sconvolto, raggiunse la fattoria dov’era diretto, che trovò in gran subbuglio. Gli raccontarono, infatti, che poco prima era comparso dal nulla un lupo che aveva attaccato il bestiame; uno schiavo, però, era riuscito a ferirlo al collo con un colpo di lancia e l’aveva messo in fuga. L’indomani, il narratore era tornato a casa e lì aveva trovato… proprio il soldato della sera prima, che giaceva a letto con una ferita al collo. «In quel momento capii che era un lupo mannaro», conclude Nicerote con una costatazione che, allora come oggi, provoca un brivido lungo la schiena degli ascoltatori.

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Una narrazione di questo tipo è basata su una credenza diffusa, quella nell’esistenza dei licantropi, e comprende il motivo (censito come tale nei repertori folklorici), necessario per comprovare la veridicità dell’identificazione, della ferita inferta al mostro che ricorre nella medesima posizione nell’essere umano. Storie analoghe, basate esattamente su questo meccanismo, sono diffusissime in tutti i luoghi e in tutte le epoche, e non riguardano solo i licantropi, ma anche, per esempio, le streghe trasformate in gatti. La trama, tranne che per lo snodo del riconoscimento tramite la ferita, è mutevole e varia moltissimo nell’ambientazione, nelle circostanze e nell’identità dei protagonisti; pur nella loro variegatezza, tuttavia, tutti questi belief tales asseveravano la veridicità delle “aspettative culturali” degli ambienti in cui circolavano, ovvero, nei casi in specie, che vi fossero persone in grado di trasformarsi in animali per fare del male. 2. Leggende contemporanee… di duemila an­ ni fa Un’altra categoria folkloricamente molto rilevante, anche se con una trama generalmente

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meno variabile, è quella delle presunte “storie vere” note come «leggende contemporanee», o anche (più impropriamente) «urbane» o «metropolitane». Si tratta di narrazioni che circolano nel tempo e nello spazio ancorandosi a luoghi e personalità precise, come fanno molte leggende (in particolare quelle definite migratory leg­ ends), ma che non ne hanno il valore fondativo. Riguardano, invece, eventi e situazioni contemporanee, per l’appunto, ai narratori, e danno voce a inquietudini, frustrazioni, sospetti relativi al “nuovo”, al “diverso” o al “moderno”, oppure a eventi ritenuti inauditi, misteriosi, inaccettabili. Spesso alimentano il complottismo, prendendosela con i potenti e le loro trame, oppure con le minoranze, tacciate di crimini e pratiche abominevoli. Altre volte, queste narrazioni mettono in luce una presunta degenerazione dei costumi e i rischi a essa connessi. In genere, le persone istruite prendono le distanze da racconti di questo tipo, che pure sono diffusissimi nella vita reale e non mancano di convinti fautori (basti pensare al proliferare odierno di fake news e bufale varie su internet). A partire dagli anni Ottanta, ci si è resi conto che paralleli piuttosto precisi con alcune leggende contemporanee attuali erano rintracciabili

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già nell’antichità. In qualche circostanza, si può postulare una continuità nella loro circolazione (è il caso, per esempio, dei racconti sulla «morta innamorata», che nel Novecento ha assunto i connotati dell’«autostoppista fantasma» e, in questa veste, continua a spopolare come “storia vera” anche su YouTube). In altre occorrenze, è più semplice pensare a una poligenesi, un riattivarsi di narrazioni analoghe in presenza di condizioni culturali, sociali ed economiche simili. Si può ricordare la diffusissima leggenda sugli alligatori che infesterebbero le fognature di New York e di altre grandi città, messa in collegamento con la vicenda attestata in epoca romana di una piovra mostruosa che, risalendo dal mare, avrebbe percorso le fognature di Pozzuoli fino a sbucare in un’abitazione e a minacciarne addirittura gli abitanti. La presenza di reti di scarico “moderne”, ampie e complesse, e l’inquietudine verso questo labirinto sporco, sotterraneo e oscuro, a diretto contatto con le nostre dimore, sembra essere la molla che fa popolare le fogne, nel nostro immaginario e in quello degli antichi, di animali pericolosi. Allo stesso modo, alla base di molte narrazioni complottiste c’è una fiducia ingenua nelle capacità del progresso tecnologico, e una diffidenza

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verso i potenti, che per biechi motivi di tornaconto economico impedirebbero la diffusione di geniali ritrovati in grado di cambiare la vita dei comuni cittadini. Oggi si parla di fantomatici motori ad acqua e dei loro inventori, messi a tacere con le buone o con le cattive dalle compagnie petrolifere. Nell’antichità si sussurrava che l’imperatore Tiberio avesse fatto eliminare il geniale inventore del “vetro flessibile”, un ritrovato economico, leggero e infrangibile (una sorta di plastica ante litteram) che avrebbe rischiato di mandare in soffitta per sempre i recipienti di metallo. L’uomo si era portato nella tomba il segreto della sua scoperta, e così non c’era stato nessun crollo del valore dei metalli preziosi, con cui erano realizzati il vasellame e le stoviglie di maggior pregio. Questa voce, legata all’esplosione della produzione “industriale” del vetro nel I secolo d.C., viene ricordata dal solito Petronio, che la ridicolizza, e da Plinio il Vecchio, che ne prende le distanze. Però continuava a circolare, e alla fine fu ritenuta plausibile da un pepaideuménos, lo storico Cassio Dione, attivo agli inizi del III secolo. Come il suo contemporaneo Filostrato, Cassio Dione (peraltro un senatore che aveva avuto anche incarichi di altissimo prestigio) mostra un atteggiamento

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molto aperto nei confronti di visioni, apparizioni, prodigi, voci incontrollate, presunti eventi inesplicabili di ogni tipo. Proprio dalla sua Storia romana, in effetti, emerge un cenno a un’altra possibile «leggenda contemporanea» dell’antichità, stavolta senza paralleli particolarmente stretti nel mondo attuale, ma che possiamo comunque riconoscere per i suoi contenuti inquietanti e allarmistici, la ricorsività nel tempo e l’indeterminatezza delle sue fonti. Trattando del regno di Domiziano (81-96 d.C.), Cassio Dione ricorda (o meglio, lo fa il riassunto bizantino che ci ha trasmesso questa parte della sua opera) come a un certo punto «alcuni», per motivi non chiariti, avessero iniziato a pungere persone a caso con spilli intrisi di veleno. La maggior parte delle vittime neppure se ne accorgeva, ma moriva poco dopo. Alcuni di questi avvelenatori furono denunciati e puniti, e questo avvenne «non solo a Roma, ma in tutto il mondo». La stessa voce si sarebbe diffusa anche al tempo di Commodo, intorno al 189, in concomitanza con una gravissima pestilenza che colpì l’impero. Anche in questo caso, della moria vennero incolpati alcuni malfattori che, al soldo non si sa bene di chi, avrebbero punto con piccoli spilli

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avvelenati i malcapitati in cui si imbattevano. Quella delle punture misteriose è, evidentemente, una leggenda contemporanea che circolava e riemergeva con il diffondersi di morie di vario genere, per le quali si individua una causa ben precisa, quella di personalità malevole (i nemici dello Stato?) che avrebbero organizzato una subdola strage per mezzo di agenti prezzolati. Significativamente, Cassio Dione è l’unico a riferire la notizia: se da un lato questo può dipendere dalla scarsità (che però non significa totale assenza) di fonti per i periodi in esame, dall’altro sembra lasciar intendere che altri storici avessero preferito non riferire voci che evidentemente giudicavano infondate e, verosimilmente, degne di apáideutoi. Il ragionamento che ne era alla base, in effetti, è lo stesso che nel Seicento avrebbe scatenato la caccia agli «untori» e che ancora oggi – come purtroppo ci ha insegnato, per l’ennesima volta, la pandemia scatenata dal coronavirus (ma prima era successo per l’AIDS e, in alcuni paesi africani, per l’Ebola) – individua un bieco movente umano dietro la diffusione di gravi malattie, quasi come se si avesse paura ad ammettere, allora come oggi, che non riusciamo a controllare tutto e che la natura ha in sé la forza per

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annientarci senza preavviso. E dunque, allora come oggi, si diffondono «leggende contemporanee» per spiegare l’inspiegabile e offrire una valvola di sfogo all’angoscia, individuando capri espiatori spesso destinati a diventare vittime (talora purtroppo letteralmente) di queste psicosi da cospirazione. 3. Studiare fa male: le barzellette del Philogelos Altri tipi di narrazioni folkloriche, fortunatamente, sono meno carichi di recriminazione e timore. Si può pensare al genere delle barzellette. Gli autori antichi ci hanno tramandato numerosi esempi di aneddoti umoristici, in genere culminanti in una battuta, che vedono protagonisti personaggi famosi o risultano collocati in contesti ben precisi. Sono molte le attestazioni in ambito oratorio, dove la capacità di rispondere in maniera pepata a un avversario, o di ridicolizzarlo efficacemente, era una virtù molto importante e apprezzata (non a caso, ai cosiddetti ridicula dedicano spazio, nelle rispettive opere teoriche, Cicerone e Quintiliano). Per quanto però riguarda le barzellette vere e proprie, popolate da personaggi stereotipati e perlopiù anonimi, abbiamo solo una raccolta

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greca che ci arriva dall’antichità, il Philogelos, letteralmente «Ridanciano». Si tratta di una collezione messa insieme in età imperiale e poi ulteriormente rielaborata nel periodo bizantino, quando ne circolavano più versioni. Il greco in cui è scritto presenta moltissimi elementi tardi, soprattutto nel lessico, che avrebbero fatto inorridire un purista, ed è indicativo che, in genere, nei manoscritti compaia insieme alle Favole di Esopo – un genere, come si è visto, in posizione liminare tra pepaideuménoi e apáideutoi. In qualche caso, le barzellette del Philogelos sembrano derivare da aneddoti letterari, resi opportunamente “anonimi” e pienamente comprensibili anche a chi non avesse un bagaglio culturale particolarmente articolato; altre volte, invece, si può sospettare che nella raccolta siano state elaborate facezie che, in origine, potevano circolare proprio negli ambienti degli apáideu­ toi. Si è visto in precedenza, in uno dei riferimenti alla cena di Trimalchione nel Satyricon di Petronio (v. pp. 93 ss.), come chi non aveva potuto fruire di un’educazione completa e formale potesse essere critico e aggressivo nei confronti di chi era istruito, accusandolo di darsi arie di superiorità (un fenomeno che non ci è ignoto e al quale i social danno, anzi, ampia

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cassa di risonanza ai nostri giorni). Forse non è un caso, dunque, che gli “sciocchi” per antonomasia all’interno del Philogelos siano detti scholastikói, «scolastici»; e se in qualche caso la denominazione è totalmente stereotipata, in altri si capisce chiaramente che il bersaglio sono proprio persone «che hanno studiato» (questo è il senso letterale della parola) e, ciononostante, sono completamente inette nella “vita reale”. Lo stesso giovane Cicerone, racconta Plutarco, una volta tornato dall’Asia Minore e da Rodi, dove si era procurato un’istruzione di altissimo livello, ebbe difficoltà ad affermarsi a Roma dove «i più volgari» (banausótatoi), «secondo il loro solito», lo tacciavano, tra l’altro, proprio di essere uno scholastikós. Così, nel Philogelos, uno scolastico domanda a suo padre, che indubbiamente in quel momento comprende di aver buttato via i soldi spesi per far studiare il figlio, se la luna che in quel momento brillava nel cielo fosse uguale alle lune che c’erano nelle altre città; un altro, informato che una scala ha venti gradini a salire, chiede se ne abbia altrettanti anche a scendere, e così via a comporre un quadro di totale dabbenaggine. Vi sono anche altri autori dell’età imperiale che accennano all’universale diffusione di fa-

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cezie sugli scolastici, che per questo sono stati assimilati ai carabinieri stereotipati delle barzellette italiane; e se sicuramente nell’Arma non mancano persone spiritose che raccontano storielle sulla propria categoria, è verosimile che la maggiore diffusione, e anche l’origine, di questa prassi umoristica sia da individuare piuttosto tra i civili. C’è da credere, insomma, che allo stesso modo proprio la massa degli apáideutoi abbia avuto un ruolo nella nascita e nella diffusione delle battute sugli scolastici. Che le facezie del Philogelos non abbiano avuto solo un’esistenza puramente libresca, peraltro, sembra indicato anche dal fatto che, per alcune di esse, sono stati individuati precisi paralleli nel Vicino Oriente, diffusi oralmente o presenti in raccolte che non hanno alcun legame diretto con quelle greche. Potremmo essere di fronte, insomma, a casi di continuità. Per tutti questi motivi, forse, si può considerare la raccolta del Philogelos, l’unica collezione di vere e proprie barzellette a esserci giunta dall’antichità, come una sorta di “cerniera” che si colloca a metà tra l’umorismo delle persone istruite e quello degli incolti e che, dunque, ha una sua importanza per ricostruire questo aspetto del folklore degli antichi.

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4. C’era una volta: la fiaba Tra le narrazioni folkloriche, tuttavia, quelle che per la nostra percezione risultano più rilevanti, e che a partire dagli inizi dell’Ottocento, quando i fratelli Grimm approntarono la loro raccolta, vengono considerate una sorta di “bandiera” degli studi sulla cultura popolare (e come tali risultano analizzate e catalogate), sono sicuramente le fiabe, storie fantastiche di avventura e magia, popolate da eroi, principesse e mostri. La letteratura greca e latina, però, ha trasmesso pochissimo di questo genere, al punto che, periodicamente, c’è chi nega che gli antichi avessero le loro fiabe. Per alcuni, che evidentemente si immaginavano un mondo classico popolato solo da seriosi filosofi e oratori in toga, Greci e Romani sarebbero stati privi della necessaria «semplicità infantile»; per altri, avevano già «i miti» e dunque non necessitavano di ulteriori intrattenimenti. Si tratta di posizioni, in realtà, molto miopi e approssimative, e che soprattutto ignorano quel che ci dicono gli antichi stessi. Perché se è vero che, per la consueta «esclusione del folklore», le fiabe vengono perlopiù ignorate e marginalizzate dai letterati, che le ritengono in genere narrazioni sciocche e

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dequalificate degne di donnette e bambini (insomma, di apáideutoi), d’altro canto non mancano cenni – perlopiù sbrigativi e sprezzanti, ma nondimeno significativi – a questo tipo di racconti, che dunque esistevano. E non bisogna scordare che, per quanto massicciamente (e magnificamente) elaborata in senso letterario, ci è arrivata almeno una fabella antica, espressamente presentata come tale, e narrata, non a caso, da una vecchietta a una ragazza impaurita. Il riferimento è alla celeberrima storia di Amore e Psiche che costituisce il cuore delle Meta­ morfosi di Apuleio, sulla quale sono stati versati fiumi d’inchiostro e che è impossibile discutere in dettaglio in queste pagine. Dai cenni degli antichi, però, emergono altri indizi sui protagonisti e le trame di queste storie, che si è tentato di recuperare, almeno in parte, tramite la comparazione con fiabe attestate in epoca moderna. Una vicenda di principi azzurri, in effetti, pare emergere dagli strali di un Padre della Chiesa, Giovanni Cristostomo, che agli inizi del V secolo auspicava che ai bambini si raccontassero storie edificanti, come quella di Caino e Abele, piuttosto che i «racconti di vecchiette» (graódeis mŷthoi) dove «il tale baciò il talaltro» e «il figlio

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del re e la figlia più piccola fecero questo». E ancora prima è Orazio, in un passo celeberrimo dell’Ars poetica, a raccomandare di non scrivere trame troppo inverosimili, a non far sì, insomma, che «il bambino venga tirato fuori vivo dalla pancia della Lamia che se l’è mangiato». Per noi è immediata l’associazione con Cap­ puccetto Rosso, che tuttavia nella versione più antica, quella di Perrault, non contemplava il salvataggio della protagonista, introdotto solo in seguito per edulcorare il finale. A un esame più attento sono quindi altre le narrazioni folklo­ riche, come Il lupo e i capretti, che potrebbero avvicinarsi maggiormente al cenno del poeta. Il fatto che questo cenno vi sia ci dice, a ogni modo, due cose: che racconti di questo genere circolavano, e che Orazio si aspettava che il suo pubblico capisse immediatamente a cosa stava facendo riferimento. Perché, come si accennava, tutti in fondo erano stati apáideutoi, e il ricordo delle narrazioni udite da bambini, prima di diventare pepaideuménoi, accompagnava anche i letterati che poi, spesso, avrebbero fatto finta di essersene scordati o le avrebbero citate solo per deriderle.

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5. Sulle tracce della Lamia C’è anche un terzo elemento che può essere ricavato dal verso dell’Ars poetica, ed è l’importanza della Lamia nell’immaginario degli antichi, con un ruolo analogo a quello che nella nostra cultura è appannaggio dell’orco. In effetti, il mestiere della Lamia era innanzitutto quello di spauracchio, e «per questo le nutrici, quando vogliono far paura ai bambini, dicono che chiameranno la Lamia perché li venga a prendere». D’altro canto, come riferiscono altri autori antichi, la Lamia fungeva altrettanto egregiamente da protagonista di Warnmärchen, «racconti di ammonimento» che avevano il fine di distogliere i bambini dal fare qualche cosa: nel caso di Cappuccetto Rosso, per esempio, dare confidenza agli sconosciuti. Tanto era stretta l’associazione tra questo essere e le narrazioni infantili che quando il re Demetrio Poliorcete (337-283 a.C.) iniziò a frequentare una cortigiana chiamata Lamia (forse come allusione alla sua capacità di depredare e “mangiare vivo” chi la frequentava…), i suoi sudditi cominciarono a chiamarlo Mŷthos, «Fiaba», proprio perché i due termini erano visti come indissolubili. Sarebbe interessante sapere qualcosa di più su queste fiabe e sulle malefatte della Lamia.

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Purtroppo, per i motivi che abbiamo visto, gli autori antichi sono estremamente avari di testimonianze su una tradizione che veniva vista come insignificante e adatta ai più ignoranti, e che pure doveva essere molto vitale, tanto che la Lamia e le lamie compaiono ancora nel folklore della Grecia moderna. Tra le varie caratteristiche che le erano associate nel mondo antico, c’era quella di potersi togliere e reinserire gli occhi a piacimento. Un altro tratto, molto più familiare per noi, può essere ricavato in filigrana a partire dalla testimonianza del filosofo bizantino Michele Psello, vissuto nell’XI secolo. Psello, una personalità molto curiosa che in più di un caso si era interessato alle “credenze popolari”, conosceva bene le «fiabe della spaventevole Lamia» diffuse ai suoi tempi, anche se è lui stesso a dirci che sua madre, in ossequio alle raccomandazioni di Giovanni Crisostomo, al loro posto gli aveva gli ammannito storie edificanti come quelle di Isacco, Giacobbe e dello stesso Gesù. In una lettera, dal tono significativamente scherzoso, indirizzata a un proprio illustre corrispondente che aveva la passione della caccia, dopo averlo invitato ad abbattere tutta una serie di animali molto apprezzati dai buongustai, come oche, pernici e cinghiali, il filosofo conclude

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con un’ultima esortazione, quella a «saziare le Lamie» (forse un’allusione a qualche familiare goloso, o all’appetito di chi scrive?) che, avendo fiutato a distanza le prede, si sono già lanciate fuori «dalla sua casetta». Anche in questo caso, sembra vi sia un’allusione a credenze che, di norma, non filtrano nella letteratura dei pepai­ deuménoi. La prontissima reazione di queste Lamie all’odore della selvaggina pare infatti un rimando a uno dei motivi più diffusi nella fiabistica in relazione ai mostri antropofagi, quello dell’odorato prodigioso. Tutti conosciamo la filastrocca: «Ucci ucci sento odor di cristianucci», e l’olfatto sopraffino dell’orco, in effetti, è un motivo che appare già sviluppato alla fine del XV secolo nelle prime narrazioni letterarie che lo vedono protagonista, come nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. Non ci sarebbe nulla di strano che questo tratto fosse attribuito anche alla Lamia, che per molti versi può essere considerata un equivalente funzionale dell’orco. Il cenno di Psello pare lasciarlo intendere, e in effetti c’è anche un passo della letteratura antica che sembra andare in questa direzione. In uno dei frammenti delle Chreiai, un poema incentrato su aneddoti salaci e piccanti che era stato imbastito nel III secolo a.C.

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da un commediografo di nome Macone, compaiono proprio il già citato re Demetrio (soprannominato «Fiaba») e la sua amante Lamia. Di fronte alla sufficienza con cui la donna accoglieva i vari, pregiatissimi unguenti che le venivano mostrati durante un banchetto, il sovrano pensò bene di farle uno scherzo volgare. Prese del nardo scadente e, dopo esserselo spalmato sui genitali, invitò Lamia ad annusare quello, perché l’avrebbe trovato superiore a tutti gli altri. Macone riferisce lo scambio di battute salaci che ne seguì, ma quel che più conta è che la grossolana trovata di Demetrio si rivela molto più pregnante se si suppone che già all’epoca la Lamia, da cui la sua amante prendeva il nome, fosse nota per le eccezionali capacità olfattive. Anche l’odorato finissimo, insomma, poteva far parte dei tratti associati alla Lamia nell’immaginario degli apáideutoi, che ancora una volta riemergerebbe in filigrana in un contesto burlesco e scherzoso. 6. Raperonzolo per sempre Come congedo dalla «cultura di chi non aveva cultura», si può fare un ultimo cenno proprio a un’antica fiaba della Lamia di cui, ricorrendo

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alla comparazione e non senza un inevitabile margine di ipoteticità, sembra possibile intui­ re la trama. A farvi riferimento, agli inizi del III secolo, è un altro autore cristiano, il severo Tertulliano. È lui che, come esempio di fabula nel senso di narrazione assurda e totalmente fittizia, rimanda i suoi lettori alle storie che udivano nell’infanzia dalla balia quando li metteva a letto, storie che riguardavano «le torri della Lamia e i pettini del Sole». È un cenno davvero risicato, ma significativo. In una delle fiabe più diffuse nel mondo mediterraneo, e non solo, Prezzemolina (che compare già nel Cunto de li cunti di Basile come Petrosinella), una donna incinta, sorpresa nell’orto dell’orchessa a rubare il prezzemolo di cui ha un’irrefrenabile voglia, si salva promettendo al mostro che le cederà la bambina che porta in grembo. Quest’ultima in effetti verrà allevata dall’orchessa, che la chiude in un’altissima torre, per entrare e uscire dalla quale occorre salire e scendere aiutandosi con le trecce della ragazza, affacciata all’unica finestrella. Un giorno la bella Prezzemolina da lì vedrà passare un affascinante principe. Tra i due, naturalmente, sboccerà l’amore. Lui cerca di convincerla a fuggire, ma lei ha paura, conoscendo la natura feroce e implacabile della

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“madre” orchessa; alla fine la ragazza troverà il coraggio grazie a una serie di oggetti magici che aiuteranno lei e il suo innamorato durante la fuga. In varie versioni si tratta di suppellettili tipiche di un corredo femminile, tra le quali spesso ha un ruolo centrale proprio un pettine, che quando viene gettato per terra si trasforma, ad esempio, in un fitto bosco che rallenta la mostruosa inseguitrice. E quello dei doni magici ricevuti dai corpi celesti, specie il Sole e la Luna (ai quali peraltro è plausibile che si rivolgesse, dalla sua finestrella, la ragazza segregata nella torre), è un tema ricorrente nella narrativa popolare. Si potrebbe supporre, insomma, che anche nella fiaba cui accenna Tertulliano la ragazza e il suo amato riuscissero a seminare la terribile Lamia grazie ai doni ricevuti dal Sole, tra cui il pettine, e vivessero per sempre felici e contenti. Non è difficile comprendere l’appeal di questa fiaba, che presenta un’evasione dalla “prigione” domestica, lasciandosi alle spalle un’occhiuta e soffocante figura materna (con i tratti mostruosi di una strega, un’orchessa o una lamia), per fuggire magicamente insieme al proprio principe azzurro. Non a caso, la storia è popolarissima anche oggi soprattutto a partire dalla Raperon­ zolo dei fratelli Grimm, da cui sono state tratte

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di recente varie versioni a cartoni animati (una con protagonista Barbie) e una serie televisiva. La presenza di questa ininterrotta significatività, presupposto indispensabile perché il materiale folklorico possa perpetuarsi all’interno dei «condotti» postulati da Linda Dégh, ci autorizza insomma a pensare che qualcosa dell’esecrato racconto delle antiche balie, probabilmente uno dei pezzi forti del folklore degli antichi, sia arrivato, di bocca in bocca, fino all’epoca moderna.

VIII

Conclusione

E adesso cosa porteremo con noi, al termine di questo percorso? Innanzitutto, la consapevolezza che anche Greci e Romani avevano il loro folklore. Certo, il filtro deformante e per molti versi esclusivo della tradizione educativa “alta” non ha permesso che ci giungesse una documentazione ricca, né tantomeno esaustiva. Ma qualcosa, comunque, ci è arrivato, e una serie di cenni, frammenti, scampoli e allusioni permette di ricostruire molte manifestazioni della «cultura di chi non aveva cultura». Il ricorso a una comparazione responsabile ci ha aiutato a contestualizzare meglio alcune di queste testimonianze, e la speranza, in definitiva, è quella di aver fornito nuovi spunti per conoscere e comprendere meglio la cultura e la vita degli antichi, concentrandosi in questo caso sull’apáideutos bíos, che come si è visto era forse l’“enciclopedia” più

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diffusa e nota a tutti, anche ai grandi autori che, pur senza magari accennarvi esplicitamente, vivevano costantemente immersi in tale “rumore di fondo”. Questo piccolo libro ha cercato di fornire esempi relativi ai diversi generi folklorici presenti nell’antichità, in modo da permettere di orientarsi in questa dimensione che può essere poco familiare anche a chi, per studio o per passione, frequenta spesso Greci e Romani. Del resto, pure a livello accademico il folklore dell’antichità, pur avendo una storia ultracentenaria, è divenuto oggetto di un insegnamento specifico solo in anni recenti all’estero, e recentissimi in Italia – dov’è stato attivato un corso, per esempio, presso l’Università di Siena. Nella bibliografia ragionata che segue, e che naturalmente non ha pretese di esaustività, sono stati dunque indicati saggi, articoli e repertori per approfondire e per inoltrarsi ancora di più, se lo si vorrà, in questa dimensione – sia che si desideri farlo immergendosi nei cataloghi, in continua evoluzione e accrescimento, approntati dai folkloristi moderni (ma in genere poco noti al di fuori della cerchia ristrettissima degli addetti ai lavori), sia invece che si vogliano prendere le mosse dagli autori antichi. I passi citati sono, infatti, solo

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una frazione dei tanti che potrebbero andare ad arricchire il dossier. Proprio l’evocazione delle fonti classiche, peraltro, suscita un altro interrogativo. Nel nostro Paese, ritengo per fortuna, lo studio dell’antichità e delle sue letterature è ancora un “lusso” accessibile a molti, a partire dalle scuole superiori che prevedono il greco e/o il latino nel loro curriculum. La “scoperta” del folklore degli antichi potrebbe avere delle ricadute anche in quest’ambito, continuamente attraversato da istanze di riforma e modernizzazione dell’insegnamento e dei suoi contenuti? Inaugurando, nel 1911, il corso di Demopsicologia (un altro dei tentativi di italianizzare il termine «folklore») all’Università di Palermo, lo stesso Giuseppe Pitrè auspicava che questo tipo di studio, all’epoca nuovo, potesse rinnovare il modo di presentare l’antichità ai «giovani moderni». «Con i passi greci e latini alla mano», evidenziando i tratti in comune tra le usanze del passato e quelle attuali, gli studenti avrebbero potuto, nelle sue parole, comprendere meglio e forse amare di più i classici. Si tratta di un auspicio che, a oltre cent’anni di distanza, è rimasto quasi totalmente inascoltato, forse anche perché ha finito per emergere l’idea che questo, come altri approcci innovativi ai testi greci e latini, sia

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alternativo o addirittura contrapposto al più tradizionale studio di stampo storico-letterario, o richieda di privilegiare una scelta di autori marginali e minori a tutto discapito dei veri “classici”. In realtà, le cose non stanno affatto così. Lo studio liceale del greco e del latino – che deve fare i conti con scelte drastiche imposte da un orario contingentato e da programmi ministeriali precisi – si fonda necessariamente sulle grandi (e spesso bellissime) opere canonizzate, non a caso, da millenni di tradizione scolastica, fondamentali per comprendere la cultura moderna e indispensabili per capire quello che gli antichi volevano dire di se stessi. I richiami al folklore, però, come si è visto, possono emergere anche in autori molto noti (talora, anzi, sono cruciali per comprenderli), e da questi si può prendere spunto. Discutere dell’apáideutos bíos di Greci e Romani serve poi a fare luce anche su ciò che i letterati antichi non volevano dire del proprio mondo, benché ne costituisse una parte fondamentale. Può essere insomma utile per far capire che, da sempre, ciò che viene consegnato alla scrittura (che sia un rotolo di papiro o un post sui social) non è la realtà, ma una sua rappresentazione orientata. Questo è il punto di partenza per una riflessione,

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oggi quanto mai essenziale, sull’approccio critico e autenticamente filologico necessario di fronte a qualsiasi tipo di testo o messaggio. Inoltre, e qui le considerazioni di Pitrè sono davvero attualissime, parlando del folklore degli antichi è facile coinvolgere gli studenti, stimolandoli a prendere contatto con un passato vicinissimo, ma che per loro è sempre più remoto ed estraneo, quello dei “testi” folklorici dei propri nonni e bisnonni, fruibili in qualche caso fortunato ancora dal vivo, oppure nelle raccolte e nei repertori approntati a partire dall’Ottocento. I punti di contatto, e ve ne sono molti, tra l’apáideutos bíos degli antichi e quello dei moderni suscitano grandissimo interesse e curiosità, e davvero, come diceva il grande folklorista siciliano, annullano l’«abisso» che altrimenti sembra separarci da Greci e Romani. L’essenziale è che un approccio di questo tipo tenga conto delle consapevolezze maturate nel tempo, evitando la ricerca di “sopravvivenze” a tutti i costi, e mostrando invece come anche le differenze (e ve ne sono molte tra noi e gli antichi!) siano sempre molto eloquenti e permettano di capire, e capirci, meglio. L’esperienza insegna che un percorso di questo tipo, che sia affrontato per un approfondimento personale oppure proposto agli studenti,

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appassiona, coinvolge, sorprende, arricchisce. Basta solo sapere che esiste e intraprenderlo, e l’auspicio è che, al termine di questo libro, ci si accorga di aver già mosso i primi passi nella giusta direzione.

Fonti e percorsi

1. Una parola per indicare la «cultura di chi non ha cultura» 1. Sull’origine del termine folklore e la relativa problematica, anche in relazione allo studio dell’antichità, si vedano almeno M. Bettini, s.v. Folclore, in Enciclopedia oraziana, vol. II, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 175-176; G. Anderson, Greek and Roman Folklore. A handbook, Greenwood Press, Westport-London 2006; E. Lelli, Folklore antico e moderno. Una proposta di ricerca sulla cultu­ ra popolare greca e romana, Serra, Pisa-Roma 2014, pp. 20-22. 2. Per il concetto di «esclusione del folklore» si veda A. Vàrvaro, Apparizioni fantastiche. Tra­ dizioni folcloriche e letteratura nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1994, p. 11.

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3. Per una riflessione sui termini greci e latini che potrebbero denotare “emicamente” il materiale folklorico, si veda E. Lelli, Folklore antico e moderno, cit., pp. 19-24, anche per la citazione virgolettata da G. Pepe. Per la terminologia precedente a folklore ricordo H. Bourne, Antiqui­ tates vulgares, or the Antiquities of the Common People, J. White, Newcastle 1725. 4. Per rintracciare le considerazioni che circolavano nell’antichità in merito agli apáideutoi, sono stati tenuti presenti, nell’ordine, Platone, Leggi, 643d-e; Plutarco, Epitome della compa­ razione tra Aristofane e Menandro, 853B; Id., Galba, 1, 3; Galeno, Sulle opinioni di Ippocrate e Platone, 3, 3, 6; Aristotele, Divisioni, 49, 13; Galeno, Sulla conoscenza e la cura dei difetti nell’anima di ciascuno, 5, 71, 17-21; Id., Sulla melancolia, 6, 9, 62-65; Strabone, Geografia, 1, 2, 8; Platone, Teeteto, 175d; Esopo, Favole, 199 (ed. Hausrath-Hunger); Diogeniano, Pro­ verbi popolari, 2, 93; Galeno, Sulla bile nera, 5, 132, 11-16. 5. Per il principio delle «possibilità limitate» elaborato da A. Goldenweiser, si veda M. Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Einaudi, Torino 20182, pp. 206-207. Per la «teoria del condotto» si può rimandare almeno

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a L. Dégh, s.v. Conduit Theory/Multiconduit Theory, in Th.A. Green (ed.), Folklore. An En­ cyclopedia of Beliefs, Customs, Tales, Music and Art, ABC-Clio, Santa Barbara-Denver-Oxford 1997, pp. 142-144. 2. Canti e canzoni 1. Sui cosiddetti carmina popularia, raccolti da D.L. Page in Poetae melici Graeci (= PMG), Clarendon Press, Oxford 1962, nn. 847-883, si sono tenuti costantemente presenti C. Neri, Sot­ to la politica. Una lettura dei carmina popularia melici, in «Lexis», n. 21, 2003, pp. 193-260; R. Palmisciano, È mai esistita la poesia popo­ lare nella Grecia antica?, in R. Nicolai (a cura di), Ῥυσµός. Studi di poesia, metrica e musica greca offerti dagli allievi a L.E. Rossi per i suoi settant’anni, Quasar, Roma 2003, pp. 151-171; M. Magnani, Carmina popularia: origine e svi­ luppo della raccolta, in «Paideia», LXVIII, 2013, pp. 543-573. Per il testo di Ateneo si rimanda (anche per l’apparato di note che lo correda) ad Ateneo, I deipnosofisti. I dotti a banchetto, su progetto di L. Canfora, 4 voll., Salerno Editrice, Roma 2001. Nell’esposizione si accenna ad Ateneo 8, 360b-d (corrispondente a Teognide di Ro-

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di, in Brill’s New Jacoby, 526 F1; ho seguito il testo e alcune proposte interpretative di B.M. Palumbo Stracca, I canti di questua nella Grecia antica (I): il Canto della rondine (PMG 848), in «Rivista di cultura classica e medioevale», LVI, n. 1, 2014, pp. 57-78); La gente garfagnina di­ cea… così. Raccolta di proverbi, detti, creden­ ze, conte e giochi, filastrocche, stornelli, ninne nanne, befanate e preghiere della tradizione po­ polare garfagnina, a cura dei ragazzi dell’Istituto Comprensivo di Camporgiano e del gruppo folclorico La Muffrina di Camporgiano, Pacini Fazzi, Lucca 2005, p. 68; per i chelidonismata moderni a E. Karagiannis-­Moser, Le bestiaire de la chanson populaire grecque moderne, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, Paris 1997, pp. 122-123; Fenice di Colofone, fr. 2 Diehl (ho seguito il testo di C. De Stefani, Fenice di Co­ lofone fr. 2 Diehl3. Introduzione, testo critico, commento, in «Studi classici e orientali», XLVII, n. 2, 2000, pp. 81-121). 2. Si rimanda ad Ateneo, 14, 629e (PMG 852). 3. Si rimanda ancora una volta ad Ateneo, 15, 697b (PMG 853); per la ballata bolognese si veda S. Orlando (a cura di), Rime due e trecen­ tesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, ed. critica, consulenza archivistica di G. Mar-

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con, Commissione per i testi di lingua, Bologna 2005, pp. 31-33 (il collegamento con la locrina citata da Ateneo è già evocato da C. Neri, op. cit., p. 211); si veda inoltre l’ampia rassegna di aubades in A.T. Hatto (a cura di), Eos. An Enquiry into the Theme of Lovers’ Meetings and Partings at Dawn in Poetry, Mouton, The Hague 1965, spec. p. 403, per questo esempio bolognese, e pp. 359-370, per i numerosi esempi provenzali. Per la diffusione dei canti si rimanda a Giovanni Crisostomo, Omelie sui Salmi, Patrologia graeca, 55, 156, e alle considerazioni di J.C.B. Petropoulos, The Church Father as Social Informant. St. John Chrysostom on Folk-Songs, in Studia patristica XXII, a cura di E.A. Livingstone, Peeters, Leuven 1989, pp. 159-164. Per tentativi di mettere in parallelo la poesia antica e i canti popolari moderni, si vedano almeno J.C.B. Petropoulos, Eroticism in Ancient and Medieval Greek Poetry, Duckworth, London 2003, e A. Nicolosi, I Canti popolari greci di Niccolò Tommaseo: echi della poesia greca arcaica nella tradizione popolare moderna, in «Eikasmos», XXXI, 2020, pp. 361-376.

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3. Giochi e paure infantili 1. Per i cosiddetti versiculi populares si rimanda a J. Blänsdorf (a cura di), Fragmenta poe­ tarum Latinorum epicorum et lyricorum prae­ter Enni Annales et Ciceronis Germanicique Aratea, de Gruyter, Berlin-New York 2011, pp. 413-414 (in particolare i frr. 10 e 11). Nel testo si fa riferimento a Orazio, Epistole, 1, 59-60 e Ars poe­ tica, 417. Su quest’ultimo, si veda in particolare T. Braccini, La farfalla e la scabbia. Una nota sul versiculus puerilis 11 Blänsdorf, in «Studi italiani di filologia classica», XXVIII, n. 1, 2021, pp. 101-114. Il passo del Satyricon corrisponde a 64, 12; per il collegamento con il gioco moderno, si veda G. Anderson, Greek and Roman Folklore, cit., p. 46. La filastrocca è riportata da Giovanni Cinelli in Il Malmantile racquistato di Perlone Zipoli (Lorenzo Lippi), note di P. Lamoni et al., Nestenus-Moücke, Firenze 1731, pp. XII-XIII. 3. Sui giochi in Polluce, si rimanda a S. Costanza, Giulio Polluce, Onomasticon: excerpta de ludis. Materiali per la storia del gioco nel mondo greco-romano, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2019. I brani citati provengono da Ono­ masticon, 9, 113, 123, 125 (si veda anche PMG 875-876, e C. Neri, op. cit.). Per il frammento di Erinna si veda C. Neri, Erinna. Testimonianze e

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frammenti, Pàtron, Bologna 2003, pp. 154-157 (fr. 4, corrispondente a Supplementum Helle­ nisticum 401, vv. 5-17), con l’ampio commento. Per l’ipotesi sul “balzo” della tartaruga, si veda W.R. Halliday, Folklore Studies. Ancient and Modern, Methuen and Co., London 1924, pp. 112-113. 3. La favola esopica citata è la 163, 2 (ed. Hausrath-Hunger). Sul detto lupus in fabula, si veda R. Tosi (a cura di), Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, Milano 20172, pp. 816817, n. 1152. Il passo di Donato deriva dal commento agli Adelphoe, 537; sulla questione delle sue attinenze folkloriche, si veda T. Braccini, Ancora sul lupus in fabula di Donato, in «Bollettino di studi latini», L, n. 2, 2020, pp. 723-730. I riferimenti romagnoli sono ricavati rispettivamente da L. Ercolani, Mamme e bambini nelle tradizioni popolari romagnole, Edizioni del Girasole, Ravenna 1975, p. 132, e Id., Gli animali nella superstizione e nel folklore di Romagna, a cura di A. Mengozzi e R. Papetti, Longo, Ravenna 2014, pp. 82-83. Sulle ninne-nanne in generale, si veda T. Saffioti (a cura di), Le ninne nanne italiane, Besa, Nardò 20133. 4. Mormò è citata da Erinna ai vv. 22-27 del fr. 4 Neri, citato in precedenza (si veda anche il

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commento ad loc.); su questa figura si vedano anche C. Pisano, Da spauracchio per i bambini a indictio silentii. I “mostri dell’infanzia” nell’an­ tica Grecia, in I. Baglioni (a cura di), Monstra. Costruzione e percezione delle entità ibride e mostruose nel Mediterraneo antico, vol. II, L’An­ tichità classica, Quasar, Roma 2013, pp. 69-78, e M. Patera, Figures grecques de l’épouvante de l’antiquité au présent: peurs enfantines et adultes, Brill, Leiden-Boston 2015, pp. 106-144. Per gli spauracchi e altre declinazioni folkloriche della paura in età imperiale, si veda adesso anche C. Asplund Ingemark - D. Ingemark, Representations of Fear. Verbalising Emotion in Ancient Roman Folk Narrative, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 2020. Numerosi dettagli su Mormò si trovano negli Scolii al Panatenaico di Elio Aristide, 102, 5 (da cui è ricavata la citazione virgolettata); denominazioni alternative compaiono in Esichio, Lessico μ 98 e 100. Per il «carattere popolare» della parola, si veda almeno R. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, Brill, Leiden-Boston 2010, p. 967. Su momóti si vedano almeno E. Delitala, Fiabe e leggende nelle tradizioni popolari della Sardegna, Delfino, Sassari 2000, pp. 277-278, e M.L. Wagner,

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Dizionario etimologico sardo, a cura di G. Paulis, Ilisso, Nuoro 2008, vol. I, p. 534. 5. Sulla strix è indispensabile L. Cherubini, Strix. La strega nella cultura romana, UTET, Torino 2010. Nel testo si fa riferimento a Plauto, Pseudolo, 820-821; Ovidio, Fasti, 6, 101-130; Plinio il Vecchio, Storia naturale, 11, 232; Titinio, fr. inc. fab. 23 Guardì = v. 181 Daviault, da Quinto Sereno Sammonico, Libro medicinale, 1035-1038; Sesto Pompeo Festo, Sul significato delle parole, p. 414 Lindsay (corrispondente a PMG 859). Le informazioni sulla mortalità infantile all’indomani dell’unificazione dell’Italia sono ricavate da Sistema statistico nazionaleIstituto nazionale di statistica, L’Italia in 150 an­ ni. Sommario di statistiche storiche 1861-2010, ISTAT, Roma 2011, p. 209, tav. 4.8. 6. Su Gellò si vedano M. Patera, op. cit., pp. 145-248 e, per una rassegna aggiornata delle varianti greche, T. Braccini, Revisiting the “Exor­ cism of Gello”. A New Text from a Vatican Manu­ script, with a Typological Analysis of the Known Variants, in «Medioevo greco», XXI, 2021, i.c.s. Il frammento di Saffo è il 168A Voigt; si fa poi riferimento a Zenobio, Epitome, 3, 3, e alle Ci­ ranidi, 2, 40, 35-48 Kaimakis. Per le tradizio-

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ni su san Sisinnio, si veda T. Braccini, Sisinnio e le streghe. Sul culto di un santo orientale in Sardegna, in «Orientalia christiana periodica», LXXXIV, n. 2, 2018, pp. 489-507. 4. Scongiuri, magie, “superstizioni” 1. Il classico repertorio degli incantesimi del­ l’antichità è costituito da R. Heim (a cura di), Incantamenta magica Graeca Latina, Teubner, Leipzig 1892 («Jahrbücher für classische Philologie», a cura di A. Fleckeisen, neunzehnter Supplementband, 1), pp. 465-576; quelli latini in versi si trovano raccolti come Praecepta rustica et medica in J. Blänsdorf, op. cit., pp. 416-419 (nn. 16-24); per quelli latini tardoantichi e medievali, si veda M. Barbato (a cura di), Incantamenta latina et romanica. Scongiuri e formule magiche dei secoli V-XV, Salerno Editrice, Roma 2019. Si è inoltre tenuto presente A.M. Addabbo, Per una tassonomia delle for­ mule magico-­mediche latine, in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», LIV, 1989, pp. 67-125. Sull’efficacia sonora degli incantesimi, si veda almeno D. Frankfurter, Spell and Speech Act: The Magic of the Spoken Word, in Id. (a cura di), Guide to

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the Study of Ancient Magic, Brill, Leiden-­Boston 2019, pp. 608-625, qui pp. 613-614; il concetto ricorre già in Gorgia, Elena, 10. Alla miscellanea di Frankfurter si rimanda anche come introduzione generale alla magia in Grecia e a Roma, insieme al classico F. Graf, La magia nel mondo antico, tr. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 1995, e ai più recenti G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, il Mulino, Bologna 2015, e R.G. Edmonds III, Drawing Down the Moon. Magic in the Ancient Greco-Roman World, Princeton University Press, Princeton-­Oxford 2019. Nel testo si fa riferimento, nell’ordine, a Odissea, 19, 455-460 (il commento virgolettato è ricavato da Omero, Odissea, vol. V, Libri XVII-XX, a cura di J. Russo, tr. it. di G.A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Roma-Milano 19912, p. 250); Plinio il Vecchio, Storia naturale, 28, 1, 3; 27.131; Varrone, Sull’agricoltura, 1, 2, 27; Apsirto, dal Corpus hippiatricorum Graeco­ rum, ed. E. Oder - C. Hoppe, vol. II, Teubner, Stutgardiae 1971, p. 94, n. 979. 2. Per l’atteggiamento dei medici antichi rispetto ai rimedi folklorici, si veda D. Fausti, Far­ maci ed amuleti. Ai confini del razionale nella medicina antica, in «I Quaderni del Ramo d’Oro

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on-line», n. 7, 2015, pp. 30-51; su Marcello di Bordeaux, si veda in ultimo S. De Luca, La que­ stione degli elementi culturali celtici nell’opera di Marcello Empirico, in «ὅρμος – Ricerche di storia antica», n. 8, 2016, pp. 66-101 (da cui, p. 70, è tratta la citazione virgolettata). I passi citati dal Libro dei medicamenti sono nell’ordine 8, 170; 36, 70; 8, 191; 21, 3; 11, 25; 12, 24; 29, 35 (= 72 Heim); 20, 78; 12, 46; 8, 30. Si rimanda poi a Ipponatte, fr. 147 Degani, e agli Uccelli di Aristofane, vv. 500-501 (si è tenuto presente il commento di G. Zanetto nell’edizione Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Roma-Milano 1987, p. 225), e poi di nuovo a Marcello di Bordeaux, Libro dei medicamenti, 15, 102 (= 96 Heim), e a Quinto Sereno, Libro medicinale, 932-940. 3. Su Alessandro di Tralle, si vedano almeno A. Guardasole, in Medici bizantini, a cura di A. Garzya et al., UTET, Torino 2006, pp. 557570; F. Ragni, s.v. Alessandro di Tralle, in P. Radici Colace et al. (a cura di), Dizionario delle scien­ ze e delle tecniche di Grecia e Roma, vol. I, Serra, Pisa-Roma 2010, p. 78. Si rimanda, nell’ordine, al Sulle febbri, 6, p. 407 Puschmann; Terapeutica, 12, p. 581 P.; 8, 2, p. 375 P.; 1, 17, pp. 605-607 P. Sulle tradizioni relative al cosiddetto bosom ser­

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pent, si veda almeno D. Ermacora, Pre-Modern Bosom Serpents and Hippocrates’ Epidemiae 5:86: a Comparative and Contextual Folklore Approach, in «Journal of Ethnology and Folklori­ stics», IX, n. 2, 2015, pp. 75-115; per l’intuizione dell’effetto placebo da parte di Alessandro di Tralle, si veda F.M. Galassi - F. Rühli - H. Ashrafian, Alexander of Tralles and the First Portrayal of a Placebo by Illusion in the 6th Century AD, in «Clinical Trials», XIII, n. 4, 2016, p. 450. 4. Sulla fama postuma di Virgilio come mago, si veda D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, a cura di G. Pasquali, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1981. Per l’uso di versi omerici per affezioni agli occhi, si rimanda a Marcello Empirico, Libro dei medicamenti, 8, 58 (il verso corrisponde a Iliade, 3, 277 = Odissea, 11, 109; 12, 323), contro l’ebbrezza, a Geoponica, 7, 31, 2 (Iliade, 8, 170), e in generale a R. Heim, op. cit., pp. 516520. Si fa poi riferimento, nell’ordine, a Luciano, Caronte, 7 (i versi in questione corrispondono a Iliade, 5, 127-128) e 4; per le frasi sulle porte o le facciate si veda Diogene Laerzio, 6, 39, e 50, e per le attestazioni epigrafiche si rimanda al Corpus inscriptionum Latinarum, III, 5561, 7287; IV, 1454; e a M. Guarducci, Epigrafia gre­ ca, 4 voll., Istituto poligrafico e zecca dello Sta-

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to, Roma 1967-1978, vol. III, pp. 326-329, e IV, pp. 438-439. Per le testimonianze antiche sulle «lettere efesine», si rimanda a Esichio, Lessi­ co ε 7401; Fozio, Lessico ε 2403 Theodoridis; Eustazio, Commentari all’Odissea 2, 201-202 Stallbaum; Menandro, fr. 274 Kassel-Austin; il frammento di Afranio corrisponde al v. 416 Daviault = 415 Ribbeck; si rimanda infine a Teocrito, Idillio, 2; Luciano, Dialoghi delle meretrici, 4. 5. La rassegna delle “superstizioni” in Plinio si trova nella Storia naturale, 28, 4-5 (sul concetto si veda anche E. Lelli, Folklore antico e moderno, cit., pp. 41-54); si rimanda poi a Catullo, Poesie, 5; Teofrasto, Caratteri, 16. 6. Per i rischi legati al survivalism e all’atomismo, con particolare attenzione al caso greco, si veda T. Braccini, L’autobus non ferma più a Eleusi: miti di survival e fortuna dell’antico, in «Classica Vox», n. 2, 2020, pp. 127-148, spec. pp. 129-132 e 140. Sulla credenza relativa alle donnole nello Yorkshire, si veda W.R. Halliday, “The Superstitious Man” of Theophrastus, in «Folklore», XLI, n. 2, 1930, pp. 121-153, qui pp. 132-133. 7. Per l’interpretazione folklorica del passo di Eroda, si rimanda a E. Lelli, Folklore antico e moderno, cit., pp. 110-112. Per gli auguri greci

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agli sposi si fa riferimento a PMG 881 (si veda anche il commento di C. Neri, op. cit., p. 251; W.R. Halliday, Folklore Studies, cit., p. 116); l’augurio che accompagnava il consumo del vino novello a Roma compare in Varrone, Sulla lingua latina, 6, 21 (= 17, p. 417 Blänsdorf). 5. Pillole di saggezza: indovinelli, proverbi, favole 1. Sugli indovinelli nell’antichità, si rimanda a S. Beta, Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica, Einaudi, Torino 2016; per l’ambito greco, adesso si veda anche L. Schneider, Untersuchungen zu anti­ ken griechischen Rätseln, 2 voll., de Gruyter, Berlin-Boston 2020. Nel testo si fa riferimento, nell’ordine, a Petronio, Satyricon, 58, 8-9; Ateneo, I deipnosofisti, 10, 448b-459b; Plutarco, Questioni conviviali, 5, 673A. Si rimanda poi al repertorio di A. Taylor, English riddles from oral tradition, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1951, e a C. Goldberg, Turandot’s Sisters. A Study of the Folktale AT 851, Garland, New York-London 1993, spec. pp. 157-170 per le occasioni tradizionali in cui si ricorre agli indovinelli. A Cleobulina erano dedicate le Cleobuline di Cratino, frr. 92-101

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Kassel-Austin, e la Cleobulina di Alessi, fr. 109 Kassel-Austin (si vedano anche le riflessioni in Th. Zielinski, Die Märchenkomödie in Athen, Akademie der Wissenschaften, St. Petersburg 1885, pp. 19 e 56-57); si rimanda inoltre a Plutarco, Banchetto dei sette sapienti, 154A-C. 2. Per i proverbi greci, si vedano E. Lelli (a cura di), I proverbi greci. Le raccolte di Zeno­ bio e Diogeniano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; Id., Proverbi antichi e moderni. La com­ parazione folklorica nell’interpretazione dei pro­ verbi e dei motivi proverbiali greci, in «Quaderni urbinati di filologia classica», LXXXIX, n. 2, 2008, pp. 125-141; per l’ambito, latino ancora utile A. Otto, Die Sprichwörter und sprichwört­ lichen Redensarten der Römer, Teubner, Leipzig 1890. Il commentatore al Gorgia è Olimpiodoro il Giovane (1, 3); per il proverbio romano sui sessantenni, si vedano A. Otto, op. cit., pp. 320-321, n. 1638; Afranio, v. 301 Daviault = 297 Ribbeck; T.G. Parkin, Old Age in the Roman World. A Cultural and Social History, Routledge, Baltimore-London 2003, pp. 265-272. Per il proverbio sul tesoro trasformato in carboni, gli autori antichi cui si fa riferimento sono, nell’ordine, Zenobio, Epitome, 2, 1; Diogeniano, Proverbi popolari, 1, 90; Luciano, Philopseudes, 32, e

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Zeusi, 2; Fedro, 5, 6, 6; Petronio, Satyricon, 38, 8 (per il quale cfr. anche V. Tandoi, Sul folklore come sussidio all’interpretazione dei testi (Catul­ lo, Petronio), in Id., Scritti di filologia e di storia della cultura classica, a cura di F.E. Consolino et al., Giardini, Pisa 1992, vol. II, pp. 1238-1251, qui pp. 1243-1245); Querolus, sc. X, p. 54 Jacquemard-Le Saos. Si vedano anche R. Tosi, op. cit., p. 769, n. 1086; per i paralleli neogreci, T. Braccini, Credenze popolari di Cos e Lero dalle carte inedite di Iakovos Zarraftis, in «Erytheia», n. 40, 2019, pp. 307-336, qui pp. 315, 319 e 331-332, e infine, per il collegamento con la presenza di urne cinerarie, A. Cherici, Appunti per una lettura ‘archeologica’ di motivi novelli­ stici e leggendari toscani, in «Lares», LVI, n. 1, 1990, pp. 43-56, qui pp. 44-45. 3. Per i proverbi antichi sugli animali, si veda C.S. Köhler, Das Tierleben im Sprichwort der Griechen und Römer, Fernau, Leipzig 1881. Per il corpus favolistico dell’antichità, si veda B.E. Perry (a cura di), Aesopica. A Series of Texts Relating to Aesop or Ascribed to Him or Closely Connected with the Literary Tradition the Bears His Name, University of Illinois Press, Urbana 1952, e per le loro riprese G.-J. van Dijk, «Aesopica posteriora». Medieval and Modern

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Versions of Greek and Latin Fables, 2 voll., Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia sezione D.AR.FI.CL.ET., Genova 2015. Nel testo si fa riferimento, nell’ordine, alle seguenti fonti antiche: Esiodo, Opere e giorni, 202-212; Archiloco, frr. 172-181 West; Quintiliano, La for­ mazione dell’ora­tore, 1, 9, 2; Aristofane, Vespe, 1181-1185; Esopo, Favole, 63 (nell’edizione di Hausrath-Hunger; per un aneddoto simile che vede protagonista Demostene, si veda PseudoPlutarco, Vite dei dieci oratori, 848A-B). 4. Per gli animali nell’antichità, si vedano almeno C. Franco, Animali, in M. Bettini - W.M. Short (a cura di), Con i Romani: un’antropologia della cultura antica, il Mulino, Bologna 2014, pp. 249-267; P. Li Causi, Gli animali nel mondo antico, il Mulino, Bologna 2018. Per la classificazione del pipistrello, si rimanda a Plinio il Vecchio, Storia naturale, 10, 81; per la sovrapposizione tra lontra e castoro, a Varrone, Sulla lingua latina, 5, 79 (sul quale si veda M. Vespa, Ierocle stoico, i castori e l’Egitto. L’etnozoolo­ gia e la ricerca filologica: un caso di studio, in «Studi italiani di filologia classica», CXII, n. 2, 2019, pp. 273-294, spec. p. 287). Per le tradizioni sui ricci si rimanda a Plinio il Vecchio, Storia naturale, 8, 56; Eliano, La natura degli anima­

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li, 3, 10; Antologia Palatina, 6, 169; Plutarco, La solerzia degli animali, 971F-972A. Per le raffigurazioni miniate, si veda I. Spatharakis, The Illustrations of the Cynegetica in Venice. Codex Marcianus Graecus Z 139, Alexandros Press, Leiden 2004, fig. 76 e pp. 112-113, e per la valutazione di uno zoologo moderno K. Herter, Gli insettivori, in B. Grzimek (a cura di), Vita degli animali. Moderna enciclopedia del regno animale, ed. it., Bramante, Milano 1974, vol. X, pp. 177-247, qui p. 216; la lettera di Antonio Gramsci al figlio Delio risale al 22 febbraio 1932. Per le credenze sui gechi si rimanda ad Aristotele, Storia degli animali, 607a 26-27; Plinio il Vecchio, Storia naturale, 8, 111; Ovidio, Metamorfosi, 5, 446-461; Antonino Liberale, Metamorfosi, 24 (nell’edizione commentata da T. Braccini e S. Macrì, Adelphi, Milano 2018). Si veda anche T. Braccini, Lupus in fabula, cit., pp. 68-69. 6. Divinità e figure mitologiche 1. Il frammento di Afranio corrisponde ai vv. 404-405 Daviault (si veda anche il commento in Comoedia togata. Fragments, Les Belles

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Lettres, Paris 20022, pp. 245-246) = 403-404 Ribbeck. 2. Per l’immagine convenzionale di Caronte, si vedano almeno Virgilio, Eneide, 6, 298-304; Euripide, Alcesti, 252-257, 438-440; Aristofane, Rane, 137-142. Per i canti popolari greci, si rimanda a M. Bzinkowski, Masks of Charos in Modern Greek Demotic Songs. Sources, Rep­ resentations and Contexts, Jagiellonian University Press, Kraków 2017, e, per il periodo medievale, ad A. Zimbone, La morte di Digenìs e la tradizione popolare greca, in T. Creazzo et al. (a cura di), Studi bizantini in onore di Maria Dora Spadaro, Bonanno, Acireale-Roma 2016, pp. 443-463. Per gli epitaffi antichi, si rimanda ad Antologia Palatina, 7, 603 e 671; 16, 385, nonché alle epigrafi metriche 1071, 1587, 1588, 1919, 1976 Peek (si veda Epitaffi greci. La Spoon River ellenica di W. Peek, tr. it. di F. Mosino, a cura di E. Lelli, Bompiani, Milano 2019). Il passo di Artemidoro corrisponde a Sull’interpretazio­ ne dei sogni, 1, 4; il cenno lucianeo si trova in Demonatte, 45 (si veda anche C.P. Jones, Cul­ ture and Society in Lucian, Harvard University Press, Cambridge [MA]-London 1986, p. 97). La citazione virgolettata è tratta da J.C. Lawson, Modern Greek Folklore and Ancient Greek Reli­

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gion. A Study in Survivals, Cambridge University Press, Cambridge 1910, pp. 105-106. Su Orcus e la sua evoluzione nell’orco, si veda T. Braccini, Indagine sull’orco. Miti e storie del divoratore di bambini, il Mulino, Bologna 2013. La definizione di receptor mortium deriva da Agostino, La città di Dio, 7, 3; si fa poi riferimento, nell’ordine, a Orazio, Odi, 2, 3, 24; Epistole, 2, 2, 178; Petronio, Satyricon, 62, 2; Decimo Laberio, fr. 59 Panayotakis; Guiraut de Calanson, Fadet jo­ glar, XII, 70 Pirot; Jacomo de’ Tolomei da Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Rizzoli, Milano 1956, p. 299; G. Boccaccio, Ge­ nealogie deorum gentilium, 14, 10, 7. 3. Per le ninfe dell’antichità, si può fare riferimento a J. Larson, Greek Nymphs. Myth, Cult and Lore, Oxford University Press, Oxford 2001; per il loro culto fino all’epoca imperiale, si veda R.S. Wagman, The Cave of the Nymphs at Pharsalus. Studies on a Thessalian Country Shrine, Brill, Leiden-Boston 2016. Per Ila si rimanda a Teocrito, Idillio, 13; Apollonio Rodio, Argonautiche, 1, 1207-1239; per il caso simile di Bormo, si veda Ateneo, I deipnosofisti, 14, 619f620a; per gli epitaffi, si vedano Callimaco, Epi­ grammi, 22 Pfeiffer, e le epigrafi metriche 952 e 1595 Peek. Per le Nereidi nel folklore greco

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moderno, si veda T. Braccini, La fata dai piedi di mula. Licantropi, streghe e vampiri nell’Oriente greco, Encyclomedia, Milano 2012, pp. 51-57; per le nadare dell’Aspromonte, si può rimandare anche a E. Guggino, Fate, sibille e altre stra­ ne donne, Sellerio, Palermo 2006, pp. 123-130. La storia di Driope compare in Antonino Liberale, Metamorfosi, 32; la storia ottocentesca di Chalandri è testimoniata da L. Ross, Reisen auf den griechischen Inseln des ägäischen Meeres, vol. III, J.G. Cotta, Stuttgart-Tübingen 1845, pp. 181-182. 4. L’Eroico di Filostrato è accessibile al lettore italiano nell’edizione curata da V. Rossi (Marsilio, Venezia 1997). Sugli eroi nell’antichità, in prospettiva comparativa, si veda almeno M. Fumagalli Beonio Brocchieri - G. Guidorizzi, Cor­ pi gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, Laterza, Roma-Bari 2012. Per il caso del paramonarios di Sebaste, si rimanda a Giovanni Rufo di Maiuma, Pleroforie, 29 e 91 (si veda anche J. Wortley, The Repertoire of Byzantine “Spiritually Ben­ eficial Tales”, in «Scripta & e-Scripta», n. 8-9, 2010, pp. 93-306, n. 806). Su Cirro e il mausoleo di “Uria” (figura menzionata in 2Sam 11), si vedano E. Frézouls, Cyrrhus et la Cyrrhestique jusqu’à la fin du Haut-Empire, in H. Temporini -

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W. Haase (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. II, Principat, t. VIII, de Gruyter, Berlin-New York 1977, pp. 164-197, qui p. 196; I. Peña, Lieux de pèlerinage en Syrie, Éditions de la Custodie de T.S., Jerusalem-­Milano 2000, p. 121; la testimonianza contemporanea è ricavata da W. Dalrymple, Dalla montagna sacra: un viaggio all’ombra di Bisanzio, ed. it., Rizzoli, Milano 1998, p. 136. 7. Racconti per grandi e piccini 1. Per le Moire del folklore greco moderno, la trattazione più aggiornata è D.V. Ikonomidis, I mira ke i Mires stin Ellinikí laikí paradosi, in «Laographia», XL, 2006, pp. 37-79; si veda anche R. Blum - E. Blum, Dangerous Hour. Lore and Culture of Crisis and Mystery in Rural Greece, Chatto & Windus, New York 1970, p. 100. Per la storia di Meleagro, nella variante che contempla il tizzone fatale, si vedano Pseudo-­Apollodoro, Biblioteca, 1, 65, 71-73, e Igino, Miti, 171, nonché Pausania, Periegesi della Grecia, 10, 31, 4; si veda anche T. Braccini, Lupus in fabula, cit., pp. 33-44. Sui belief tales, si veda G. Bennett, “Belief Stories”: The forgotten genre, in «Western Folklore», XLVIII, n. 4, 1989, pp. 289-311,

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qui p. 291. Per la vicenda del lupo mannaro in Petronio (Satyricon, 61-64), si veda ancora T. Braccini, Lupus in fabula, cit., pp. 106-107. 2. Sulle leggende contemporanee, con indicazione dei principali repertori moderni e degli studi che ne indagano la presenza nel mondo antico, si veda T. Braccini, Miti vaganti. Leggende metropolitane tra gli antichi e noi, il Mulino, Bologna 2021. L’episodio della piovra nelle fogne è riferito da Eliano, La natura degli animali, 13, 6, mentre la storia del «vetro flessibile» compare in Petronio, Satyricon, 51; Plinio il Vecchio, Storia naturale, 36, 195; Cassio Dione, Storia romana, 57, 21, 5-7; per la storia degli avvelenatori (sono debitore di questa segnalazione a Sofia Lincos e Davide Ermacora, che qui ringrazio), si veda ivi, 67, 11, 6, e 73, 14, 4 (con il commento di C.L. Murison, Rebellion and Reconstruction. Galba to Domitian. An Historical Commentary on Cas­ sius Dio’s Roman History, Books 64-67 (A.D. 6896), Scholars Press, Atlanta 1999, pp. 249-250). Per le dicerie, dall’antichità a oggi, relative a “untori” ed epidemie, si veda in generale anche P. Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1987. 3. Per una traduzione italiana annotata del Philogelos, si rimanda a T. Braccini (a cura di),

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Come ridevano gli antichi (Philogelos), il melangolo, Genova 2008; si tengano presenti anche M. Andreassi, Le facezie del Philogelos. Barzel­ lette antiche e umorismo moderno, Pensa Multimedia, Lecce 2004; M. Beard, Ridere nell’antica Roma, tr. it. di A.M. Paci, Carocci, Roma 2016, pp. 203-220; T. Braccini, Lupus in fabula, cit., pp. 181-193. Nel testo si fa riferimento, nell’ordine, a Plutarco, Cicerone, 5; Philogelos, 49 e 93; e per la diffusione dell’umorismo a spese degli scolastici, a Epitteto, Dissertazioni, 1, 11, 39, e Galeno, Sul metodo di curare, 10, p. 111 Kühn. 4. Il repertorio di riferimento della narrativa folklorica mondiale è costituito da H.-J. Uther, The Types of International Folktales. A Classi­ fication and Bibliography, 3 voll., Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 2004, da integrare con le voci contenute nei quindici volumi della En­ zyklopädie des Märchens, fondata da K. Ranke (de Gruyter, Berlin-Boston 1977-2015). Per la fiabistica italiana, oltre a cataloghi regionali, occorre citare R. Aprile, Indice delle fiabe po­ polari italiane di magia, vol. I, Olschki, Firenze 2000, purtroppo incompleto. Per i rapporti con l’antichità, si vedano almeno W.F. Hansen, Ar­ iadne’s Thread. A Guide to International Tales Found in Classical Literature, Cornell Univer-

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sity Press, Ithaca-London 2002; Id., The Book of Greek and Roman Folktales, Legends and Myths, Princeton University Press, PrincetonOxford 2017; G. Anderson, Ancient Fairy and Folk Tales. An Anthology, Routledge, LondonNew York 2020, e T. Braccini, Lupus in fabula, cit., pp. 151-180 (nonché pp. 22 e 133 per le posizioni “negazioniste”, e pp. 127-149 per la fabella di Amore e Psiche), anche per i riferimenti alla bibliografia precedente. Nel testo si fa riferimento, nell’ordine, a Giovanni Crisostomo, La vanagloria e l’educazione dei figli, rr. 475-478 Malingrey, e Orazio, Ars poetica, 340 (su cui si veda anche Braccini, Lupus in fabula, cit., pp. 167-176). 5. I passi di opere antiche relativi alla Lamia (sulla quale, in generale, si veda M. Patera, op. cit., pp. 1-105) cui si fa riferimento sono, nell’ordine, Scolii alla Pace di Aristofane, v. 758; Strabone, Geografia, 1, 2, 8; Plutarco, Demetrio, 27. Sulla questione dell’olfatto del mostro accennata in Psello (Epistole, 54, ed. Papaioannou), e della probabile allusione in Macone (fr. 13 Gow), si veda T. Braccini, Appunti su Lamia: per il ri­ tratto di un mostro, in «aut aut», n. 380, 2018, pp. 51-64. Per le prime attestazioni moderne in riferimento all’orco, si rimanda a M.M. Boiar-

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do, Orlando innamorato, 3, 22-60, e G. Basile, Cunto de li cunti, 1, 5. 6. Il cenno di Tertulliano compare in Contro i Valentiniani, 3, 3; la versione di Prezzemolina di Basile compare nel Cunto de li cunti, 2, 1; per la ricostruzione sulla base della fiabistica moderna, cfr. almeno T. Braccini, Lupus in fa­ bula, cit., pp. 176-180. 8. Conclusione Per un’esperienza di insegnamento universitario del folklore dell’antichità in ambito scandinavo, si veda D. Ingemark - C. Asplund Ingemark, Teaching ancient folklore, in «The Classical Journal», CII, n. 3. 2007, pp. 279-289. Per le considerazioni di Pitrè, si rimanda a Per la inaugurazione del corso di demopsicologia nella R. Università di Palermo, prelezione del prof. G. Pitrè, Stabilimento tipo-litogr. dell’impr. gen. d’affiss. e pubblicità, Palermo 1911, p. 9.

Indice

I. Una parola per indicare la «cultura di chi non ha cultura» 1.  Al di là della scuola 2.  Intrecci ed eclissi di culture 3.  Una contraddizione solo apparente 4. La paidéia… e la sua assenza 5.  Le opportunità della comparazione, i rischi delle “sopravvivenze” II. Canti e canzoni 1.  Il canto della rondine e le questue 2.  Il ballo dei fiori 3.  La canzone degli amanti III. Giochi e paure infantili 1.  Filastrocche e gare di corsa a Roma 2.  Mosche, pentole e tartarughe in Grecia 3.  Attenti al lupo 4.  Chi ha paura di Mormò?

p. 9 p. 12 p. 15 p. 19 p. 23 p. 29 p. 34 p. 36 p. 41 p. 44 p. 47 p. 53

5.  Quando a temere erano anche le mamme: la strix 6.  Il nemico più temibile: Gellò IV. Scongiuri, magie, “superstizioni” 1.  I poteri della parola 2.  Il medico che ascoltava contadini e popolani 3.  Il folklore che piace ai pazienti 4.  Magie per tutti 5.  Non è vero, ma ci credo 6.  Donnole e gatti neri 7.  Gesti e parole augurali V. Pillole di saggezza: indovinelli, pro­ verbi, favole 1.  Giocare con le parole: gli indovinelli 2.  La sapienza dei popoli: i proverbi 3.  Istruire divertendo: la favola 4.  Oltre la favola: qualche cenno agli animali nel folklore VI. Divinità e figure mitologiche 1.  Le orecchie di Priapo 2.  I morsi di Caronte e la fame di Orcus

p. 55 p. 59 p. 65 p. 68 p. 75 p. 78 p. 82 p. 85 p. 89

p. 93 p. 99 p. 105 p. 110 p. 115 p. 116

3.  Danzare per sempre con le ninfe 4.  Un eroe per amico VII. Racconti per grandi e piccini 1.  Fate, Moire e lupi mannari: be­ lief tales 2.  Leggende contemporanee… di duemila anni fa 3.  Studiare fa male: le barzellette del Philogelos 4.  C’era una volta: la fiaba 5.  Sulle tracce della Lamia 6.  Raperonzolo per sempre

p. 122 p. 127

p. 133 p. 137 p. 143 p. 147 p. 150 p. 153

VIII. Conclusione

p. 157

Fonti e percorsi

p. 163

Le parole degli antichi Collana diretta da Mario Lentano

1. Mario Lentano, Straniero. 2. Tommaso Braccini, Folklore.

Tommaso Braccini insegna Filologia Classica e Lingua e Letteratura Greca presso l’Università di Siena. Si occupa del patrimonio folklorico dell’antichità e del medioevo bizantino, e dei testi che lo tramandano; tra le sue pubblicazioni, Prima di Dracula: archeologia del vampiro (2011); Indagine sull’orco: miti e storie del divoratore di bambini (2013); Antonino Liberale, Le metamorfosi (2018, con S. Macrì); Lupus in fabula: fiabe, leggende e barzellette in Grecia e a Roma (2018); Bisanzio prima di Bisanzio: miti e fondazioni della Nuova Roma (2019); Il povero Leone. Ptocholeon (2020).

Le parole degli antichi | 2 Collana diretta da Mario Lentano

Folklore, le “conoscenze del popolo”: una parola inglese, moderna, che descrive un fenomeno dalla storia lunghissima. Già gli antichi, infatti, avevano tutto un patrimonio di canti, giochi, indovinelli, scongiuri e magie, favole e spauracchi, proverbi, leggende e fiabe. Era la forma di cultura più accessibile: per molti l’unica, per tutti la prima, quella che in un certo senso ogni bambino apprendeva con il latte materno. E anche se la letteratura elevata tendeva a marginalizzare e ignorare questa dimensione, abbiamo numerose allusioni e frammenti che gettano luce su questo aspetto inedito della Grecia e di Roma. La comparazione con il folklore moderno e contemporaneo, evidenziando i punti di contatto ma anche le differenze, permette di contestualizzarlo e comprenderlo meglio.

ISBN ebook 9788855292603

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