Filosofie critiche della storia. Ricerca, spiegazione, scrittura 9788849133691

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Filosofie critiche della storia. Ricerca, spiegazione, scrittura
 9788849133691

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21-07-2010

15:41

Pagina 3

Paul Ricœur

Filosofie critiche della storia Ricerca, spiegazione, scrittura Traduzione e cura di

Luca M. Possati

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19-07-2010

14:39

Pagina 4

© 2010 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Titolo originale: Philosophies critiques de l’histoire in Philosophical Problems Today, pp. 139-201. © 1994, Kluwer Academic Publishers, The Netherlands as a part of Springer Science+Business Media

Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

Ricœur, Paul Filosofie critiche della storia. Ricerca, spiegazione, scrittura. / Paul Ricœur. Traduzione e cura di Luca M. Possati. – Bologna : CLUEB, 2010 98 p. ; 21 cm (hi-storytelling) ISBN 978-88-491-3369-1

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di luglio 2010

Indice

Introduzione

7

Filosofie critiche della storia

25

1. La ricerca e la prova documentaria

27

2. La spiegazione storica: spiegare e comprendere

33

2.1 Comprensione vs. spiegazione

35

2.2 La spiegazione in storia e l’unità della scienza

39

2.3 La dimensione «narrativa»:

tra comprensione e spiegazione

45

3. La scrittura della storia

61

4. Le aporie della rappresentazione del passato

72

4.1 L’ironia della storia

72

4.2 La logica narrativa e l’effetto di realtà

75

4.3 Il passato o «l’assente della storia»

84

Introduzione

Nell’intera opera di Paul Ricœur il problema dello statuto del tempo storico ha avuto una lunga e complessa elaborazione. Il saggio Filosofie critiche della storia ne rappresenta una tappa fondamentale. Collocato cronologicamente fra le due opere maggiori – Tempo e racconto (1983-85) e La memoria, la storia, l’oblio (2000)1, esso offre una testimonianza eccezionale delle difficoltà affrontate nel passaggio dall’una all’altra. È come un laboratorio di concetti in trasformazione, di cui riflette indecisioni, ripensamenti, riletture, svolte e conferme. Nove anni dopo la summa di Tempo e racconto, Ricœur sente che l’ultima parola sulla storia non è stata ancora detta. In un percorso che affronta tutte le contemporanee filosofie critiche della storia di differente matrice, il suo sforzo è trovare un modello unitario, una sintesi dialettica in cui è in gioco il senso della stessa distinzione fondatrice tra il passato e il futuro. Il che in certa misura richiama, come vedremo, l’indagine di Koselleck sul nuovo concetto ontologico di storia2. Il titolo fa eco a La filosofia critica della storia di Raymond Aron, tesi complementare alla Introduzione alla filosofia della storia (dissertazione dottorale del 1935-38)3. Ma il plurale è la spia di 1

P. Ricœur, Temps et récit I-III, Seuil, Paris 1983-85; trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto I-III, Jaca Book, Milano 1986-88; La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; ed. it. a cura di D. Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003. 2 R. Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno, a cura di R. Lista, Clueb, Bologna 2009. Traduzione italiana di R. Koselleck, «Geschichte. Historie», in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Bd. 2, Klett-Cotta, Stuttgart 1974, pp. 593-717. 3 R. Aron, Philosophie critique de l’histoire. Essai sur une théorie allemande

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una presa di distanza, in cui è il senso stesso dell’aggettivo «critica» a trasformarsi. Per Aron, che si confrontava direttamente con modelli tedeschi quali Dilthey, Simmel, Rickert e Weber, l’orizzonte era definito dalla critica della ragione storica di matrice neokantiana e dalla conseguente polemica verso sia le correnti hegelo-marxiste, che l’epistemologia positivista della scienza storica. L’orizzonte di Ricœur è molto diverso, proprio perché dopo Weber e Aron la filosofia della storia non può che essere critica. Non c’è più nessuno spazio per le grandi visioni globali. La teoria deve fare un passo indietro e interrogarsi sui limiti del Verstehen, che fonda il legame intersoggettivo, il mondo sociale e il sapere storico. Rinunciando a Hegel ma nello stesso tempo combattendo contro il “neopositivismo” strutturalista dominante negli anni Sessanta e Settanta, Ricœur si è trovato in una posizione difficile, che ha condotto a un’esplosione del concetto di comprensione e di quello ad esso correlato di comunicazione storica. La questione della storia non è più assimilabile al tema tradizionale del Verstehen o delle frontières du domaine qui relève de la sociologie compréhensive, secondo la formula di Aron. Come testimonia il sottotitolo di Filosofie critiche della storia, Ricœur introduce un programma triangolare che ingloba e supera i precedenti punti di vista: ricerca, spiegazione, scrittura. Questa scansione in tre tempi appare ispirata dall’opera di Michel de Certeau4.

de l’histoire, Vrin, Paris 1938; Introduction à la philosophie de l’histoire, nouvelle édition revue et annotée par S. Mesure, Vrin, Paris 1986 (19381). Cfr. anche H.-I. Marrou, De la connaissance historique, Seuil, Paris 1954; trad. it. di A. Mozzillo, La conoscenza storica, Il Mulino, Bologna 1997. 4 L’ammissione esplicita si trova in La memoria, la storia, l’oblio, cit., pp. 193-195. Sul tema cfr. F. Dosse, Paul Ricœur, Michel De Certeau. L’Histoire entre le dire et le faire, L’Herne, Paris 2006. Su Certeau cfr. B. Maj, R. Lista (a cura di), Sulla ‘traccia’ di Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi, «Discipline filosofiche», XVIII, 1, 2008.

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1. Ricerca La filosofia critica della storia deve prendere le mosse dal gesto con cui inizia il mestiere dello storico: l’osservazione, come direbbe Marc Bloch, la ricerca e il vaglio delle fonti. Come scrive Certeau, lo storico è colui che si reca all’archivio e che in esso cerca il falso, l’impostura e la falsificazione: mette alla prova la traccia. In questa fase del suo lavoro, lo storico veste i panni del tecnico, dell’erudito esperto di filologia, di paleontologia, di demografia, di biblioteconomia, ecc. Qui entra in gioco la fondamentale distinzione fra traccia e documento: se ogni residuo del passato può dirsi una traccia, qualcosa che rinvia a una fase temporale anteriore perché causato da essa, tuttavia non ogni traccia è documento. Diventa documento soltanto la traccia «animata» da un’interrogazione, formulata sulla base di un progetto di ricerca. Lo storico giustifica le proprie affermazioni rinviando alla fonte, al documento che le sostiene in forza di un’autenticità garantita da quella che Certeau chiama une pratique, perché «faire de l’histoire» c’est une pratique 5. Ma che cosa viene provato in questo modo? Qual è l’oggetto trattato? Un «fatto», dice Ricœur, non un «evento»; non quel che è realmente accaduto – il noumeno della conoscenza storica –, ma il contenuto di un enunciato che mira a esserne la rappresentazione fedele. Lo storico in quanto tale si limita a formulare giudizi sul passato, servendosi di procedure di controllo assicurate da un’istituzione che si definisce scientifica. Ma nel distacco dal documento e dall’archivio si svolge la partita più delicata: la costruzione dell’intreccio. L’idea che lo storico si rechi all’archivio in maniera del tutto neutrale e asettica è illusoria. La fase della ricerca va di pari passo con la fase della spiegazione. Un’ipotesi esplicativa contiene già in sé una prefigurazione del documento e uno schema di scrittura. La 5

M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975, pp. 100-101; trad. it. a cura di S. Facioni, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006, p. 79.

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spiegazione pone problemi specifici che non si possono ignorare, questioni classiche come lo statuto scientifico della storia e l’unità della scienza. Qui Ricœur cerca di oltrepassare l’alternativa diltheyana tra spiegazione e comprensione, per aprire le porte a un modello epistemologico più inclusivo. Le due prospettive sono pensate come momenti distinti di un’unica «dialettica fine», in base alla quale «spiegazione e comprensione non costituirebbero i poli di un rapporto di esclusione, ma i momenti relativi di un complesso processo che possiamo chiamare interpretazione»6. 2. Spiegazione La necessità di coordinare spiegazione e comprensione è figlia della lettura di Weber, come attesta anche la centralità conferita in alcune dense pagine di Filosofie critiche all’imputazione causale singolare. Questo tipo di argomentazione – di matrice weberiana ma ripresa anche da Aron – rappresenta una mediazione tra la spiegazione nomologica e l’analisi motivazionale. Per determinare il peso causale di un evento, l’imputazione si domanda che cosa sarebbe potuto accadere in mancanza di esso. Viene così prodotta una costruzione immaginaria, un corso alternativo di eventi dal quale l’evento in questione è escluso. Se, valutando le conseguenze dell’omissione, lo storico può affermare che, con molta probabilità, le cose sarebbero andate diversamente, allora quell’evento riceve il titolo di causa. Si tratta di un’esplorazione delle concatenazioni probabili e necessarie, che si serve dell’immaginazione concettuale come di uno strumento euristico. Il modello weberiano è il filo conduttore del dibattito con i neopositivisti e con i narrativisti. Pensare la storia come una scienza rigorosa simile alle scienze naturali o all’opposto assimilarla al genere narrativo – a un Literary Artifact privo di ambizioni co6

Cfr. P. Ricœur, Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986, p. 180; trad. it. di G. Grampa, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989, p. 156.

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noscitive7 – produce aporie. Il classico modello prescrittivo di Hempel, basato sulla tesi per cui le leggi generali hanno la medesima funzione in storia e nelle scienze sperimentali, si risolve in un torto alla realtà del mestiere storiografico. Hempel e soprattutto i suoi discepoli si sono resi conto di ciò, cercando perciò di ammorbidire il modello per assicurarne la plausibilità. In Gardiner e Frankel la rigida conformazione sillogistica del Covering Law Model è stemperata attraverso l’inserimento di un momento interpretativo, che ha per oggetto la dimensione simbolica, motivazionale e valoriale del singolo agente e del contesto sociale. In Dray e von Wright il processo di indebolimento del modello si trasforma alla fine nel suo sovvertimento, in cui si salva ben poco delle posizioni hempeliane. L’intento di garantire l’ambizione scientifica della storia non riesce a colmare il canonico divario tra spiegazione e comprensione. Muovendo da interessi diversi rispetto ai neopositivisti, gli storici delle Annales hanno approfondito la frattura, in particolare con Braudel, che ha attaccato il nesso tra storia politica e histoire événementielle. Al di sotto della singolarità non ripetibile dell’evento – il tempo breve dell’azione individuale –, si svolge la storia lentamente ritmata di gruppi sociali, tradizioni, mentalità e luoghi. Si fa largo così una storia strutturale che usa metodi esatti, quantitativi, ripresi da discipline come economia, demografia, meteorologia, psicanalisi, antropologia, ecc. Il giudizio di Ricœur non è entusiasta: le Annales hanno fatto compiere un passo in avanti alla disciplina, in termini di rigore metodologico e di «allungamento del questionario», per usare un’espressione di Veyne. Ma alla lunga questo progresso è costato troppo caro. Agli annalisti è mancata una seria e approfondita riflessione sulla dimensione 7

Cfr. H. White, «The Historical Text as Literary Artifact», in H. White,

Tropics of Discourse. Essays in Cultural Criticism, The Johns Hopkins U. P., Baltimore-London 1978, pp. 88-100; trad. it. a cura di E. Tortarolo, «Il testo storico come artefatto letterario», in H. White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, Carocci, Roma 2006, pp. 15-35.

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narrativa. Con l’evento e la centralità dell’umano è stato cancellato in toto anche il ruolo della narratività, la valutazione delle risorse messe a disposizione dall’intelligenza narrativa. Il confronto con i filosofi analitici, in particolare con Danto e Mink, aiuta a ricomporre la rottura tra storia e racconto. La narrazione è un’attività intellettuale autonoma e originale, che sorge da un atto configurante; una «sintesi dell’eterogeneo» (Mink), che unisce la linearità del racconto – il procedere da un inizio verso una conclusione, attraverso una serie di trasformazioni calcolate – e la circolarità della storia come insieme complesso dotato di un’identità propria. La comprensione narrativa, la nostra elementare capacità di seguire la storia dall’inizio alla fine, è identica alla spiegazione: spiegare perché quel fatto è accaduto significa descriverlo e collocarlo nel fluire della storia. Ma, paradossalmente, la novità di questa impostazione è anche il suo limite: la tendenza a cancellare l’ambizione scientifica della storia, dimenticando quel lavoro critico sulle fonti che la caratterizza come ricerca. Per Ricœur si tratta di una distinzione imprescindibile: una cosa è spiegare raccontando, un’altra scindere la spiegazione da tutto il resto per sottoporla alla discussione. Sostenendo che la storia ha una critica e una topica ma non un metodo, lo stesso Veyne (il più avanzato fra i narrativisti) non l’ha colta8. 3. Dalla spiegazione alla scrittura: la hyle narrativa della storia Spiegazione o comprensione? Scienza o racconto? Nelle pagine centrali del saggio, Ricœur considera un’evidenza: lo storico non fa ricorso a un solo tipo di spiegazione, di oggetto o di temporalità. Ogni testo storiografico è un discorso equivoco, composto da elementi eterogenei e ripresi da altri discipline. Il paradosso è che, malgrado la sua eterogeneità strutturale, questo discorso pre8

Cfr. P. Veyne, Comment on écrit l’histoire. Essai d’épistémologie, Seuil, Paris 19711; trad. it. di G. Ferrara, Come si scrive la storia, Laterza, Roma-Bari 1973.

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senta un senso unitario che si definisce appunto come «storico», designando così un’unità diversa da quella di un’analisi sociologica, una ricerca demografica, una previsione economica o un’indagine statistica. La frattura epistemologica chiede di essere colmata. Al riguardo la tesi di Ricœur è la seguente: un testo storico possiede un senso unitario per il fatto che tutti i suoi componenti sono costruiti sulla, e rinviano alla comprensione narrativa9, preliminare sintesi dell’eterogeneo che opera a livello trascendentale e si basa a sua volta sulla comprensione pratica, che presuppone la nostra familiarità pre-teorica con l’azione. L’unità del senso è garantita dalla presupposizione di un’unità narrativa. La mise en intrigue rende produttive le stesse equivocità constatate. Ma, se le cose stanno così, come pensare insieme la frattura e l’esigenza della sua composizione? A questo proposito va citato un passo fondamentale di Tempo e racconto: La soluzione del problema dipende da quello che possiamo chiamare un metodo di interrogazione a ritroso. Questo metodo, praticato da Husserl nella Krisis, mette capo ad una una fenomenologia genetica, nel senso non già di una genesi psicologica, quanto piuttosto di una genesi di senso. I problemi che Husserl si poneva a proposito della scienza galileiana e newtoniana, noi ce li poniamo a proposito delle scienze storiche. Ci interroghiamo, a nostra volta, su quella che io chiamerò ormai l’intenzionalità della conoscenza storica o, più sinteticamente, l’intenzionalità storica. Intendo con questa formula il senso dell’intenzione poetica che costituisce la qualità storica della storia e la preserva dal dissolversi nei diversi saperi ai quali la storiografia si congiunge, sposandosi, per interesse, all’economia, alla geografia, alla demografia, all’etnologia, alla sociologia delle mentalità e delle ideologie10.

C’è qui uno spostamento essenziale: se a livello epistemologico la storia resta un discorso molto diverso dal semplice racconto, a li9

Cfr. La «comprensione narrativa». Storia e narrazione in Paul Ricœur, Discipline filosofiche 1/2010, a cura di B. Maj e R. Lista, Quodlibet, Macerata 2010 (volume di imminente pubblicazione). 10 P. Ricœur, Tempo e racconto I, cit., p. 269.

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vello fenomenologico, cioè dell’intenzionalità del discorso storico, essa presenta delle affinità non con una sorta di originario racconto incompleto o cronaca primitiva, ma con la comprensione narrativa. In questo senso, Ricœur parla di una filiazione indiretta della storia dal racconto. Ci sono relais – legami appunto –, tracce di una filiazione che restano nel sotto-testo del discorso storico, come aspetti da ritrovare e portare alla luce con l’analisi intenzionale. Alla derivazione dal racconto corrisponde un suo occultamento, che però non si realizza fino in fondo11. Che cos’è questo fondo narrativo da cui il discorso storico sorge ma da cui prende le distanze nell’atto stesso di venire alla luce? Con un’intenzionale forzatura, Ricœur ha scomposto e trasformato il concetto aristotelico di mimesis. Il racconto è un’imitazione creativa di azioni, un processo composto da tre fasi. La configurazione narrativa – mimesis II – corrisponde all’innovazione semantica, all’invenzione della trama: è la dimensione testuale, la costruzione dell’oggetto linguistico. Prima e dopo di essa si trovano mimesis I e mimesis III, che rappresentano rispettivamente l’«a monte» e l’«a valle» della configurazione: la precomprensione della vita pratica – mimesis I, ossia la nostra elementare capacità di riconoscere e pensare un’azione distinguendola dagli altri eventi – e la dimensione degli effetti dell’opera sul lettore (mimesis III ). La mediazione tra il tempo e il racconto non si limita solo a mimesis III ma percorre tutti i livelli rafforzandosi via via. Così dalla prassi si torna alla prassi attraverso la sua sospensione, ovvero la sua trasfigurazione nell’opera12. Nell’intermezzo aperto dal tempo mimetico, nel decorso dei tre livelli, il tempo narrativo si costituisce fenomenologicamente. Su questa hyle dinamica s’innestano le costruzioni temporali del narratore. Tra narratività e temporalità esiste una correlazione, «che non è puramente accidentale, ma presenta una forma di necessità trans11 12

Ivi, p. 270. Ivi, pp. 91-139.

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culturale»13. Il tempo «diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo narrativo, e [...] il racconto rag-

giunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell’esistenza temporale»14. I due poli si costruiscono reciprocamente: «La mia prima ipotesi di lavoro è che narratività e temporalità siano strettamente legate, così strettamente come possono esserlo, secondo Wittgenstein, un gioco di linguaggio e una forma di vita»15. La narrazione s’intromette tra il soggetto e il tempo, costringendo a ripensare in una prospettiva fenomenologica la riflessione della coscienza su se stessa e sul suo agire nel mondo. Il racconto ha la capacità di modellare la nostra esperienza temporale – la nostra fondamentale storicità –, svelandocene aspetti irraggiungibili sul piano di una teoresi semplice. Ricœur si spinge ancora più avanti su questa linea. Nella sua lunga storia la filosofia del tempo non ha fatto altro che produrre dicotomie insuperabili: tempo del mondo o tempo dell’anima; istante puntuale o presente vivente; tempo intuibile o tempo condizione a priori di ogni genere d’intuizione e dunque per principio non intuibile. Anche se può diventare oggetto di analisi filosofica, l’esperienza temporale resta analizzabile sempre solo «fino al punto che il prezzo da pagare in termini di aporie si ingrandisce con la penetrazione dello sguardo»16. È questo il senso di una delle tesi centrali di Tempo e racconto: «non esiste in Agostino una fenomenologia pura del tempo. Forse non la troveremo mai neppure dopo di lui»17. Per «fenomenologia pura del tempo», s’intende «un’apprensione intuitiva della struttura del tempo che, non solo possa essere rispetto alle procedure di argomentazione 13 14 15

Ivi, p. 91.

Ibid. P. Ricœur, «La fonction narrative et l’expérience humaine du temps»,

Archivio di filosofia, 1, 1980, p. 343. 16 P. Ricœur, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit, Paris 1995, p. 67; trad. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998, p. 82. 17 P. Ricœur, Tempo e racconto I, cit., p. 21.

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con le quali la fenomenologia si impegna a risolvere le aporie ereditate da una tradizione precedente, ma anche che non paghi le sue scoperte al prezzo di nuove aporie sempre più gravi»18. 4. La scrittura In Filosofie critiche della storia Ricœur tratta il tema della scrittura partendo da Barthes che, nei confronti della storia, si comporta come un maestro del sospetto: la sua analisi corrosiva, scrive Ricœur, affonda le radici nel primo postulato della narratologia strutturalista, cioè che i codici narrativi presentano una stretta parentela con le proprietà generali della langue distinta dalla parole, seguendo la classica impostazione della linguistica saussuriana. In Il discorso della storia Barthes taglia fuori ogni dimensione extralinguistica: a contare davvero è soltanto la combinazione binaria significante-significato, autosufficiente come le due facce di un unico foglio di carta. La storia invece illude il lettore, introducendo surrettiziamente il referente, la credenza in un supporto esterno fondante – le res gestae – a spese del significato. Quando dice: «è accaduto», lo storico ipostatizza il referente, facendoci credere di afferrare la materia che vuole rappresentare, mentre il suo è soltanto «un discorso performativo truccato, nel quale il constatativo (il descrittivo) apparente è, in realtà, solo il significante dell’atto di parola come atto di autorità»19. Come ciò sia possibile è spiegato da Barthes nel saggio L’effetto di reale: come le notazioni nel romanzo realista, nella storia narrativa sono i particolari, i dettagli superflui, a fare la differenza, innescando la resistenza al senso che è presupposto dell’illusione referenziale. Un’impostazione molto simile in abito anglosassone è quella seguita da Hayden White nel suo capolavoro Metahistory 20, un 18 19

Ivi, p. 134. R. Barthes, Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984; trad. it. di B. Bellotto, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988, p. 148. 20 H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Centu-

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testo che nasce dall’intersezione tra la teoria generale della struttura dell’opera storica e l’interpretazione del periodo che va dalla crisi dell’Illuminismo alla filosofia di Benedetto Croce. Racconto storico e racconto di finzione sono assimilati fin dall’inizio a una sola e medesima classe di discorso: le finzioni verbali. La spiegazione storica è l’effetto di una strategia retorica priva di qualsiasi fondamento scientifico e critico, e dipendente solo da una scelta preliminare di carattere etico o estetico. Le modalità di spiegazione sono tre: secondo l’intreccio (emplotment), l’argomento formale e l’implicazione ideologica. Ogni discorso storico presenta una combinazione di questi tre modi esplicativi. Ciascuno di essi, tuttavia, presuppone una scelta tra quattro diverse configurazioni tropologiche di derivazione vichiana: metafora, metonimia, sineddoche, ironia. White e Barthes rappresentano per Ricœur due forme simmetriche di estremizzazione del narrativismo, le cui conseguenze per una filosofia critica della storia sono molto pesanti. La messa in questione dell’ambizione cognitiva del racconto, ancora difesa da Mink, conduce alla problematizzazione del concetto di realtà del passato. Il passato è ciò che permette la conoscenza storica ma inesorabilmente ne resta fuori. È il mistero di un’assenza che agisce. L’aporia non può non essere affrontata senza fare riferimento a Language and Historical Representation, testo chiave di Hans Kellner nella discussione delle tesi di White21. Ricœur se ne serve per radicalizzarla. Kellner abbatte due convinzioni: che esista una storia là fuori in attesa di un narratore e che tale «storia esterna» possa dirsi in maniera diretta. La storia sorge con la ricerca e con l’atto della scrittura. Il linguaggio e la retorica non si aggiungono semplicemente alle fonti studiate, bensì apportano qualcosa di nuovo: non l’ordine ma l’ironia, che ne è

ry Europe, The Jonhs Hopkins U. P., Baltimore-London 1973; trad. it. di P. Vituliano, Retorica e storia, Guida, Napoli 1978. 21 H. Kellner, Language and Historical Representation. Getting the Story Crooked, The University of Wisconsin Press, Madison 1989.

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il sovvertimento. Lo storico istituzionalizza l’ordine, lo impone. Ma è un ordine in sé fittizio, impossibile. Per Ricœur la conseguenza è devastante: la narrazione non ha in sé le risorse per rispondere all’aporia del passato. Ankersmit sceglie una strada ancora più estrema. In Narrative Logic. A Semantic Analysis of the Historian’s Language sostituisce il modello metastorico di White con quello di una logica narrativa basata su narratios o sostanze narrative: grandi unità come il Rinascimento, la Rivoluzione francese o la Guerra fredda, che non si riferiscono a eventi passati, perché sono distinte dagli enunciati che compongono il discorso storico, gli unici a essere falsificabili per via documentaria, e anche perché il passato in sé non presenta una struttura narrativa22. È una forma di idealismo radicale: la Guerra fredda, per esempio, è una «sostanza narrativa», un nucleo di senso a sé stante, e tutto quel che di essa si dice è già contenuto in questa sostanza, che lo storico non fa altro che esplicitare. Ma al di là dei costrutti retorici e concettuali, c’è qualcosa che il testo storico assolutamente non può creare: l’essere stato e il non essere più del passato. 5. L’assente della storia «[…] la scrittura mette in scena una popolazione di morti – personaggi, mentalità o prezzi»23. Certeau è stato il primo a porsi la questione della realtà del passato come absent de l’histoire, correlato specifico della intentionnalité de la connaissance historique di cui parla Ricœur. La storia è un discorso che organizza una presenza mancante ma a sua volta subisce l’ordine da essa dettato. Il morto non c’è più, anche se è stato, ma c’è la morte in quanto 22

F. R. Ankersmit, Narrative Logic. A Semantic Analysis of the Historian’s Language, M. Nijhoff, La Haye-Boston-London 1983. Cfr. anche Historical Representation, Standford U. P., Palo Alto 2001 e F. R. Ankersmit, H. Kellner, A New Philosophy of History, University of Chicago Press, Chicago 1995. 23 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 117.

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tale, con tutto l’insieme di ritualità che essa comporta. E così come seppelliamo un morto per dargli l’estremo saluto e congedarci da esso, facciamo storia per seppellire il passato e definire le nostre possibilità di vita. La scrittura svolge «il ruolo di un rito di sepoltura; esorcizza la morte introducendola nel discorso»; essa «ha una funzione simbolizzatrice; permette a una società di situarsi dandosi nel linguaggio un passato, e apre così al presente un proprio spazio»24. La storia svolge una funzione archeologica, «rappresenta dei morti lungo un itinerario narrativo», e una funzione teleologica, perché «“contrassegnare” un passato significa fare un posto al morto, ma anche ridistribuire lo spazio dei possibili, determinare negativamente quello che c’è da fare, e dunque utilizzare la narratività [narrativité]che seppellisce i morti come mezzo per fissare un posto ai vivi»25. Sul terreno dell’absent de l’histoire, grazie anche a un diverso atteggiamento nei confronti dell’opera di Certeau rispetto a Tempo e racconto, Ricœur costruisce le tesi che concludono Filosofie critiche riformulando i termini del problema del «realismo spontaneo» dello storico, che cerca sempre una relazione di corrispondenza tra il testo scritto e una presunta realtà passata. Oggetto finale del discorso storico sono sempre uomini che hanno agito e patito in circostanze che non hanno prodotto e con risultati voluti o non voluti. Tra noi autori o lettori della ricerca e questi uomini che non sono più, ma sono stati, esiste un legame analogico, che resiste alla distanza temporale: apparteniamo a un mondo comune, siamo tutti uomini. Misto di identità e differenza, tale legame fonda la nostra capacità di comprensione dell’assente. La presupposizione dell’analogia si esprime anzitutto nel tempocalendario. Perché possa dirsi «storico», infatti, un evento deve essere datato, cioè inscritto formalmente in un tempo che accomuna noi, osservatori nell’attualità, e i morti. Il calendario stabilisce l’appartenenza a uno stesso schema spazio-temporale. Il tem24 25

Ivi, p. 118. Ivi, pp. 118-119.

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po-calendario, qui Ricœur segue Benveniste, è un terzo tempo a metà tra quello fenomenologico – il presente vivente di una coscienza tesa tra il ricordo e l’attesa – e quello cosmico, dove esistono solo istanti puntuali disposti in una serie continua. Il tempo-calendario sorge dalla posizione del momento assiale di un evento fondatore, rispetto al quale tutti gli altri eventi sono ordinati secondo il prima e il dopo. Ma il momento assiale in sé produce anche un senso non solo numerico, conferendo un valore agli eventi e prospettando una «chiusura» della storia: non è un punto neutrale sospeso nel vuoto. Con la categoria di dette o debito, l’analogia cessa di essere un principio formale, come con la datazione. Tra il «fare della storia» degli storici e il «fare la storia» degli esseri umani che hanno agito e patito nel passato esiste una continuità materiale, che si esprime nella tradizione ereditata dalle generazioni anteriori e nel sentimento di un debito di memoria. Ricœur è di nuovo sulle tracce di Certeau. Lo rivela la lunga nota alla fine del capitolo «La realtà del passato storico» di Tempo e racconto III 26, che si riferisce a La finzione della storia. La scrittura di “Mosè e il monoteismo”, saggio fra i più intensi di Certeau, la cui questione centrale è la scrittura o, meglio, il rapporto tra scrittura, ricordo e finzione. Al centro sta la tensione posta da Freud nel celebre romance-storico Mosè e il monoteismo fra lingua madre (il tedesco), terra madre (Israele) e tradizione nutrice (le Scritture) – e come questa tensione si trasformi nella, e grazie alla scrittura. Il linguaggio, infatti, «non è la casa dell’essere (Heidegger), ma il luogo di un’alterazione itinerante»27. È il dilemma di uno scrittore alle prese con l’ebraicità da cui vuole fuggire e la necessità di collocarla in un presente storico determinato. È il rapporto tra una partenza e un debito, una perdita e un obbligo. La fondazione definitiva della storia in Filosofie critiche avviene sul terreno ontologico. Sia il «fare della storia» che il «fare la 26 27

P. Ricœur, Tempo e racconto III, cit., pp. 213-240. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 331.

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storia» poggiano su una condizione esistenziale più profonda: la «condizione storica». Il termine è tecnico e sostituisce quello di «coscienza storica» usato in Tempo e racconto. La variazione allude a un’indagine di tipo nuovo. In La memoria, la storia, l’oblio, Ricœur preciserà che per condizione si deve intendere, da una parte, una situazione in cui ciascuno si trova ogni volta implicato e, dall’altra, una condizione di possibilità in senso kantiano. Noi facciamo della storia e facciamo la storia perché siamo storici. Questa condizione di storicità in senso ontologico è descritta nei termini della relazione dinamica tra le due meta-categorie di spazio dell’esperienza e orizzonte dell’attesa introdotte da Koselleck. 6. Epilogo. Die Geschichte Selber Ciò conferma che la chiave di lettura del saggio di Ricœur è nel plurale del titolo, che va interpretato non solo come (ovvia) presa di distanza dalla tradizione speculativa, ma anche come il segno di una interrogazione sul senso profondo della modernità, intesa come l’epoca marcata dalla formazione del concetto di Geschichte (storia) come singolare collettivo. Filosofie critiche della storia vuol dire che ci sono filosofie che riflettono criticamente sulla storia e c’è, poi, la storia. Si percepiscono qui un’asimmetria e una tensione latente che nel termine francese histoire non emergono. In La memoria, la storia, l’oblio Ricœur torna al singolare, intitolando «Filosofia critica della storia» la prima sezione della terza parte dell’opera. Ma ciò non significa che l’asimmetria sia stata ricomposta: le pagine centrali sono occupate da un lungo paragrafo di commento alla citata voce «Geschichte» di Koselleck28. Ricœur gli dà un titolo in tedesco: «Die Geschichte Selber»29. In Futuro Passato Koselleck sostiene che tre fenomeni 28 29

Cfr. retro n. 2. Ricœur ammette di aver compiuto un’interpretazione troppo parziale di Koselleck in Tempo e racconto. Scrive in La memoria, la storia, l’oblio: «Certamente avevo dato conto in Tempo e racconto III del famoso saggio Spazio di

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hanno contribuito al dispiegamento di un nuovo orizzonte di attesa, trasformando l’esperienza storica del tempo: la credenza che l’epoca presente apra una prospettiva di novità senza precedenti; l’opinione che il cambiamento verso il meglio si acceleri; l’idea, infine, che gli uomini possano fare la loro storia (die Machbarkeit der Geschichte)30. L’espressione Neuzeit s’è imposta a partire dal Rinascimento e dalla Riforma. Il tempo presente è nuovo perché in contrasto con il Medioevo – un passato tenebroso da rifiutare –, ma lo è anche perché esso apre un progresso indefinito. Con Lutero, Zwingli e Calvino una rivoluzione dirompente attraversa l’Europa cristiana: si è rotta l’unità, postulata dalla Chiesa di Roma, tra il tempo del mondo e quello della fede. Con l’indebolimento delle attese per la fine del mondo, si allunga a dismisura l’orizzonte di attesa e accelera il ritmo temporale verso il futuro. A ciò si aggiunge l’idea che la storia sia da fare e possa essere fatta: il progresso può essere accelerato, il futuro è aperto. Questi tre elementi compongono ciò che Koselleck chiama «la temporalizzazione della storia», connessa con la svolta radicale in virtù della quale il termine Geschichte, indicando un’unica sostanza storica, assorbe l’area semantica del lemma Historie: indagine, conoscenza, racconto storico. La storia è il vero soggetto della rivoluzione: essa diventa sostanza e soggetto, in un rapporto di autoriflessione assoluta che include qualsiasi rapporto umano col tempo. La novità dell’esperienza che segna il XVIII secolo come Sattelzeit (Koselleck), scrive Ricœur, «è proprio quella dell’autodesignazione di un nuovo soggetto di attribuzione, chiamato storia»31. La nascita del concetto di Geschichte come singolare esperienza e orizzonte di attesa: due categorie storiche, ripreso in Futuro Passato; ma non avevo percepito il legame fra questo saggio e l’insieme delle ricerche che dipendono da un genere di discorso gerarchicamente superiore a quello dell’epistemologia dell’operazione storiografica». 30 R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a/M. 1979; trad. it. di A. Marietti Solmi, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, (nuova ed.) Clueb, Bologna 2007. 31 P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 433.

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collettivo al di sotto del quale si raccoglie l’insieme delle storie particolari, «segna la conquista del massimo scarto concepibile fra la storia in quanto una, la molteplicità illimitata delle memorie individuali e la pluralità delle memorie collettive, sottolineata da Halbwachs»32. Producendosi, la storia articola il proprio discorso: il testo hegeliano La razionalità della storia è il vertice di questa epopea concettuale, «sotto l’egida della dialettica dello spirito oggettivo si suggella il patto fra il razionale e il reale, di cui viene detto che esso esprime la più alta idea della filosofia»33. Superato sul piano filosofico ed epistemologico, questo sfondo consente tuttavia di comprendere meglio perché il saggio Filosofie critiche della storia, nel discutere una forma di «realismo critico» concluda sul tema ancora aperto della realtà ontologica del passato. Luca M. Possati

32 33

Ibid. Ivi, p. 435.

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In questi ultimi anni la filosofia della storia ha smesso di identificarsi con la filosofia speculativa di Hegel, Marx, Spengler o Toynbee. Più che aggiungere alla storia necessariamente frammentaria, come quella scritta dagli storici di professione, una storia filosofica che dovrebbe enunciare il senso universale e la verità sovrastorica del corso totale degli eventi realmente accaduti, l’attuale filosofia della storia si propone più modestamente di riflettere sul mestiere dello storico, allo scopo di metterne in luce gli scopi e i mezzi, gli obblighi e le ambizioni. A differenza delle filosofie speculative della storia, le filosofie di cui daremo conto possono essere definite critiche, senza conferire a questo aggettivo qualificativo il senso strettamente kantiano di riflessione trascendentale sulle condizioni di possibilità della conoscenza storica, come se l’oggettività fosse la sola posta in gioco della critica. Tre diversi programmi possono esser collocati sotto questo titolo. Il primo riguarda la storia in quanto conoscenza che dipende da «fonti» e mira a una certa «evidenza documentaria», di cui si tratta di misurare il grado di affidabilità. Il secondo si rivolge alla pretesa esplicativa della storia e, su questa base, intende determinare il tipo di scientificità proprio della storia. Tale programma è quello che si avvicina di più a una critica nel senso kantiano prima richiamato. Il terzo si concentra sul fenomeno della scrittura – il tema della «écriture de l’histoire», secondo l’espressione di alcuni autori –, che colloca la storia nel campo della letteratura e gli assegna il titolo preciso di storiografia. Questi tre programmi critici possono essere posti rispettivamente sotto l’egida dei tre

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termini che compaiono nel sottotitolo del presente saggio: ricerca, spiegazione, scrittura1. Saranno sviluppati in successione. Prima di intraprendere questo percorso, vorrei mettere in guardia contro un errore di interpretazione, cui potrebbe indurre l’ordine qui seguito. In effetti potrebbe sembrare che, dopo aver introdotto per prima la storia nel campo scientifico, la critica documentaria venga soppiantata dalla discussione sul modo esplicativo che la caratterizza, cioè sul posto preciso che la storia occupa nel campo scientifico, cui la critica documentaria l’ha fatta accedere. In maniera ancora più sorprendente, i recenti lavori sulla storiografia in quanto scrittura della storia potrebbero indurre a credere che l’approccio letterario abbia a sua volta sostituito quello epistemologico. Ciò che può dare credito a tale interpretazione è innanzitutto il fatto innegabile che i lavori prodotti secondo il primo approccio sono i più vecchi, mentre quelli prodotti secondo il terzo sono i più recenti, sicché il punto focale della discussione si è spostato dalla prima alla seconda e infine alla terza problematica. C’è poi il fatto che le ricerche del terzo genere hanno provocato un riordinamento retrospettivo della dimensione epistemologica, inducendo gradualmente a un nuovo modo di riflettere sulle nozioni di documento, archivi e traccia. Se questi due fatti sono incontestabili, non giustificano tuttavia la tesi per cui il secondo programma della filosofia critica della storia avrebbe abolito il primo e il terzo si sarebbe sostituito ai due precedenti. Tale interpretazione finirebbe stranamente col reintrodurre una filosofia della storia che non confessa i suoi presupposti. L’ambizione del presente saggio è piuttosto quella di mostrare che ogni nuova problematica esercita sulle precedenti una doppia influenza. Da una parte, le arricchisce: in effetti, definendo il modo esplicativo della storia, si determina in modo più preciso il ruolo della 1 In La mémoire, l’histoire, l’oubli questa triade subisce una trasformazione diventando: phase documentaire, explication/compréhension, représentation historienne [N. d. T.].

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prova documentaria, mentre riflettendo sulla scrittura misuriamo l’impatto della retorica sugli strumenti della prova in campo storico. Dall’altra, aggiungendosi al precedente, ogni nuovo approccio ne aumenta il carattere problematico; così la nozione di prova documentaria che, considerata al suo livello, non sembra sollevare difficoltà, rivela il suo carattere fondamentalmente aporetico solo attraverso il contraccolpo che i problemi epistemologici legati alla spiegazione in storia e soprattutto i problemi retorici collegati con la dimensione letteraria della storiografia esercitano su di essa. È a causa di questo doppio effetto di arricchimento e di problematizzazione crescente che il nostro saggio assumerà una forma circolare, nel senso che solo alla fine del percorso potrà essere presa in considerazione una nozione scomoda come quella di realtà del passato, sebbene essa sia implicitamente legata fin dall’inizio al concetto di documento in quanto traccia del passato. A questa dedicheremo la quarta sezione di questo saggio. 1. La ricerca e la prova documentaria Il primo compito di una filosofia critica della storia consiste nel rendere conto del gesto primario con il quale la storia si afferma come una critica, ossia la critica delle «fonti». In questo caso, critica non significa riflessione sulle condizioni di possibilità della conoscenza storica, come sarà invece al livello della spiegazione, ma l’atto con cui si passano al vaglio le testimonianze sul passato. Nell’Apologia della storia Marc Bloch definisce espressamente la storia come «conoscenza per tracce»2. Questo vincolo dipende dal fatto che, secondo lui, la storia è per eccellenza una «scienza degli uomini nel tempo»3. Più precisamente, una scienza rivolta a 2 M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, A. Colin, Paris 1974 (19491), p. 56 (l’espressione è ripresa da F. Simiand); trad. it. di G. Gouthier, Apologia della storia, o il Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998. 3 Ivi, p. 36.

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situazioni del passato di cui non restano altro che tracce. Ma le tracce su cui si fonda una scienza degli uomini nel tempo sono i «resoconti dei testimoni». Di conseguenza, «l’osservazione storica» (titolo del capitolo secondo dell’Apologia) e «la critica» (titolo del capitolo terzo) sono sostanzialmente dedicate alla tipologia e criteriologia della testimonianza. La critica consiste in sostanza, se non esclusivamente, in una prova di veridicità, vale a dire in una caccia all’impostura, alle falsificazioni – si tratti di inganno sull’autore e sulla data o sui fatti riportati, di plagio, fabulazione, rimaneggiamento o colportage, di pregiudizi e voci. La parentela fra traccia e testimonianza risulta tanto stretta che ai fenomeni storici può essere assegnato un carattere psichico, nel senso lato di ciò che è stato vissuto nel passato da uomini e da donne abbastanza simili a noi, perché ci si possa proporre di comprenderli sulla base di testimonianze volontarie e involontarie lasciate dai contemporanei. Come vedremo più avanti, l’interesse per la spiegazione storica e per la scrittura della storia non ha l’effetto di abolire il problema posto dalla nozione di conoscenza per tracce, ma quello di estenderne il campo di applicazione, prima ancora di coglierne il carattere problematico. Volgiamo le nostre prime analisi proprio a questa estensione, che consiste fondamentalmente nell’allargamento della nozione di documento molto al di là della testimonianza scritta. I primi documenti ai quali si sono interessati gli storici sono quelli che sono stati raccolti intenzionalmente negli archivi, per volontà del potere politico o di qualsiasi istituzione interessata a conservare la traccia della sua attività pregressa. Per gli storici contemporanei tutto può diventare documento: mercuriali, curve dei prezzi, registri parrocchiali, testamenti, banche dati, statistiche ecc. Diventa documento tutto ciò che può essere interrogato da uno storico nell’intento di trovarvi un’informazione sul passato. In tal senso, i concetti blochiani di «osservazione storica» e di «critica» restano validi ma al prezzo di una singolare estensione. Questa permanenza del carattere primario e in tal senso fondatore della critica

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delle fonti è attestata anche da Arnaldo Momigliano che, nei suoi Studies in Historiography, non esita a scrivere: «L’intero metodo moderno della ricerca storica è fondato sulla distinzione tra fonti originali e fonti secondarie»4. Sotto questo profilo, la storia contemporanea è l’erede dei metodi eruditi forgiati da Richard Simon, dai Bollandisti e dai Benedettini. Ma l’allargamento della caccia ai documenti provoca l’insorgere di alcune difficoltà, che riguardano da vicino la nozione di prova documentaria. In una concezione della ricerca storica che si può definire positivista, la critica delle fonti – intesa essenzialmente come critica della veridicità – rimane parallela all’osservazione praticata nelle scienze sperimentali della natura. Marc Bloch caratterizzava ancora la ricerca storica come un’osservazione indiretta del passato. Abbiamo anticipato una prima difficoltà, notando che qualsiasi residuo del passato può diventare un documento, se uno storico lo interroga allo scopo di ottenere un’informazione. Paul Veyne giunge così a caratterizzare la moderna ricerca storiografica come un «allungamento del questionario»5. Ma che cosa regola un tale «allungamento del questionario»? È la formazione di ipotesi riguardanti la collocazione del fenomeno interrogato all’interno delle concatenazioni, la cui natura sarà indagata nella prossima sezione. Così lo stadio della ricerca va di pari passo con quello della spiegazione. È nella cornice di un processo di spiegazione che il fenomeno considerato nell’indagine documentaria riceve lo statuto di explicandum. Ciò che presiede all’allungamento del questionario, dunque, è un’ipotesi esplicativa. Tale interdipendenza tra ricerca e spiegazione si rivela ancora più evidente se prestiamo at4

A. Momigliano, Studies in Historiography, Weidenfeld and Nicolson, Oxford 1966, p. 2. Dello stesso autore, Essays in Ancient and Modern Historiography, Wesleyan U. P., Middleton, Conn. 1977. 5 P. Veyne, Comment on écrit l’histoire. Essai d’épistémologie, Seuil, Paris 19711, p. 253; trad. it. di G. Ferrara, Come si scrive la storia, Laterza, RomaBari 1973.

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tenzione al fatto che il primo effetto dell’allungamento del questionario è quello di operare una rigorosa selezione tra tutti i resti 6 suscettibili di essere promossi al rango di documenti. Estensione del campo documentario e lavoro di selezione procedono di pari passo. In tal senso, nulla è in quanto tale un documento, anche se qualsiasi residuo del passato è potenzialmente una traccia. Ricerca e spiegazione appaiono di conseguenza operazioni simultanee. Più avanti a ciò occorrerà aggiungere che un’ipotesi esplicativa è anche un possibile schema di scrittura e così alla scoperta e alla selezione delle fonti presiedono congiuntamente spiegazione e scrittura. Una seconda difficoltà concerne la nozione di fatto storico. Qui ancora una volta a essere messo alla prova è il positivismo tipico degli studi storici dell’inizio del Novecento. Una concezione critica della storia mette in guardia contro l’illusione di credere che quel che chiamiamo «fatto» coincida con «ciò che è realmente accaduto», come se i fatti dormissero nei documenti, fino a che non arrivano gli storici a estrarli da essi. Tale illusione ha alimentato a lungo la convinzione che il fatto storico non differisca fondamentalmente dal fatto empirico nelle ricerche sperimentali sulla natura. L’osservazione sarebbe un po’ meno diretta in storia che in fisica, mentre la testimonianza occuperebbe il posto della strumentazione sperimentale. Come, quando più avanti tratteremo della spiegazione e della scrittura della storia, occorre resistere alla tentazione di dissolvere il fatto storico nella narrazione e questa in una composizione letteraria indistinguibile dalla finzione, così fin dall’inizio si deve rifiutare la confusione tra fatto storico ed evento reale. Il fatto non è l’evento in se stesso ma il contenuto di un enunciato che mira a rappresentarlo. In questo senso occorrerebbe sempre scrivere: il fatto che (questo o quello) è accaduto. Tale carattere enunciativo e proposizionale del fatto storico 6 les restes. Questa espressione generale risale alla Historik di Johann Gustav Droysen [N. d. T.].

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non va perso di vista. Se lo si intende così, è possibile dire che il fatto è costruito dalla procedura che lo libera da quei documenti che a loro volta lo instaurano. La reciprocità fra costruzione (attraverso la complessa procedura documentaria) e instaurazione del fatto (sulla base del documento) esprime l’instabile statuto epistemologico del fatto storico. L’instabilità di questo statuto non può consentirci di negare qualsiasi autonomia al fatto nell’interpretazione, che funziona prima come spiegazione e poi come scrittura. La narrazione, quindi, costituisce precisamente un livello distinto di organizzazione degli enunciati riguardanti i fatti – enunciati che possiamo dire veri o falsi, anche se la narrazione che compone una storia, una e completa, non può più essere detta vera o falsa. In breve, si può opporre un punto di vista sulla storia, in cui non ci sono altro che dettagli, a una storia in cui conta soltanto la visione d’insieme proposta dal singolo storico. La storia dei dettagli non è ancora degna di essere chiamata storia ma costituisce almeno una tappa – quella delle schede, per così dire –, in cui lo storico ancora non ha altro che un’ipotesi sulla narrazione finale ma dispone di una collezione di proposizioni che enunciano dei fatti, nel senso di «il fatto che…». E questi possono essere veri o falsi. È vero o falso che ad Auschwitz sono state utilizzate camere a gas per bruciare milioni di ebrei, di polacchi o di zingari? Per quanto riguarda la «Soluzione finale», essa è un’entità storica inglobante, che può essere trattata in due maniere diverse: sia come il fatto che la decisione di applicarla sia stata presa in questa o in quella data, in questo o in quel luogo, sia come il nome dato a una certa concatenazione storica all’interno di qualcosa come «la politica del Terzo Reich», inclusa a sua volta nella «storia della Seconda Guerra Mondiale». Man mano che saliamo in questa gerarchia di temi concatenati tra loro, avanziamo verso l’unica cosa che forse merita di essere chiamata storia nel senso di storiografia, di scrittura della storia. Si passa a un livello nel quale l’interpretazione narrativa sfugge progressivamente all’alternativa del vero e del falso, per lo meno nel senso

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di quel che è verificabile attraverso il documento. Ma, anche se le cose stanno così, l’affermazione dell’autonomia del livello configurazionale della narrazione rafforza la pretesa di verità degli enunciati isolati concernenti i dettagli della storia. La difficoltà, che qui mettiamo in rilievo, può essere riassunta nei seguenti termini: il fatto ha un doppio statuto epistemologico; da una parte, dipende da enunciati riguardanti i dettagli, che possono essere verificati o falsificati attraverso documenti; dall’altra, esso figura all’interno di totalità esplicative e narrative, all’interno delle quali passa da fatto verificabile a fatto interpretato. Tale doppio statuto epistemologico del fatto storico costituisce una delle grandi difficoltà che la pratica storica pone alla filosofia critica della storia. Una terza difficoltà concerne di più la filosofia della storia che lo storico di professione, ragione per cui verrà trattata in tutta la sua ampiezza solo alla fine dell’esposizione. Già adesso possiamo però dirne qualcosa. Se il fatto storico non coincide con l’evento passato, che cosa significa il termine «passato», tutte le volte che esso compare nel discorso dello storico, mentre questo continua a prodursi? La cosa sorprendente è che lo storico non sembra avere alcuno scrupolo a impiegarlo. Per lui va da sé che i fatti rendono conto di eventi, stati di cose o sviluppi passati; questa convinzione sembra decisamente far parte di ciò che si potrebbe definire l’intenzionalità della conoscenza storica7. Questa impone di definire la storia come una scienza del passato o degli uomini nel passato. Senza alcuna discussione in proposito, il passato è concepito come ciò che è stato e che non è più. Invece di costituire un problema, la nozione stessa di traccia serve allora da «concetto tappabuchi». Tracce di cosa? Di quel che è accaduto. Va da sé che Giovanni senza Terra è passato di qua: la traccia dei suoi passi 7 P. Ricœur, Temps et récit, Seuil, Paris 1983, p. 247; trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto I, Jaca Book, Milano 1986 [l’espressione intentionnalité de la connaissance historique è centrale in Temps et récit e ritorna con un senso un po’ diverso anche in La mémoire, l’histoire, l’oubli, N. d. T.].

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lo attesta. Malgrado questa falsa evidenza, lo statuto ontologico di «ciò-che-è-stato-e-non-è-più» è tuttavia difficile da circoscrivere. Il legame fra tracce e testimonianze merita a questo proposito di essere messo in questione. Nel suo senso ovvio, la nozione di testimonianza implica che qualcuno abbia visto e qualcun altro creda alla parola di colui che dice di aver visto. E tuttavia, qualsiasi documento può essere ricondotto a questa struttura di visione vicaria che, con il favore della mediazione fiduciaria, trasmette per onde successive la presunta veridicità della testimonianza oculare? Prima obiezione: la testimonianza oculare non è che una forma particolare di testimonianza. In effetti i fatti storici non appartengono tutti all’ordine della visione; nella storia delle mentalità per esempio i fatti appartengono all’ordine del significato o a quello della credenza, mentre l’elemento visuale dipende al massimo dal piano dell’espressione. Seconda obiezione: le testimonianze – ammesso che esse costituiscano il modello del documento – sono affidate ai documenti che ne costituiscono la traccia; in altre parole: le testimonianze sono racconti riportati, inscritti, registrati. Ecco perché alla fine porremo la questione se la nozione di passato storico non richieda l’elaborazione di forme più sottili di relazione referenziale, che non si lasciano influenzare da una teoria realista della corrispondenza. 2. La spiegazione storica: spiegare e comprendere Se la questione critica posta dalla ricerca documentaria può considerarsi la più antica, anzi contemporanea alla nascita stessa della storia moderna, la discussione sullo statuto epistemologico della storia nell’ambito delle varie scienze risale allo sviluppo delle scienze sperimentali della natura nel XIX secolo e al successo del positivismo in filosofia. Il problema che veniva posto all’epoca era il seguente: se si ammette che la storia è una disciplina cognitiva – con tutte le difficoltà connesse con la nozione di conoscenza per tracce –, essa non può pretendere di conoscere il passato se non 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

spiegando certi fatti attraverso altri fatti, stabiliti mediante la critica documentaria. Ora, esiste un’altra maniera di spiegare, oltre a quella che ha trionfato nelle scienze della natura? La posta in gioco della questione era duplice: da una parte, il livello di scientificità della storia e in generale delle scienze umane; dall’altra, l’unità della scienza. In effetti, i due punti erano legati, dato che si poteva partire sia dall’uno che dall’altro polo: dall’unità presunta della scienza, per esigenze derivanti dall’idea stessa di scientificità, oppure dalla parentela constatata nella pratica storica tra la conoscenza storica e le altre modalità della conoscenza scientifica. A questo livello dell’indagine, la nozione di filosofia critica della storia ha un significato più vicino al senso che il termine critica ha assunto nella filosofia kantiana, vale a dire quello di indagine sulle condizioni di possibilità che la storia deve soddisfare, per costituire un campo di oggettività paragonabile a quello delle scienze della natura. Malgrado la sicura affinità tra l’andamento critico assunto dalla filosofia della storia e la critica in senso kantiano, la realizzazione di questo programma non ha tuttavia smesso di produrre stili così diversi di filosofia critica della storia, che la loro unità si riduce molto spesso solo alla comune ostilità nei confronti delle filosofie speculative della storia. In comune in effetti essi non hanno altro che il proposito di dissociare, nell’uso del termine storia, da un lato il resoconto delle cose passate, dall’altro il corso sostantivo delle cose passate8 – ossia le res gestae. In ciò, ma solo in ciò, tutte le filosofie critiche della storia riproducono la mossa kantiana di limitare l’indagine ai fenomeni escludendo le cose in sé, nella fattispecie le res gestae, talvolta ridotte allo statuto di presupposto ultimo, esterno alla cerchia dei fenomeni –: è necessario che qualcosa sia affinché qualcosa appaia –, talvolta e8 le cours substantif des choses passées. La trasformazione della nozione di Geschichte in un concetto sostanziale è uno dei punti fondamentali della ricostruzione di Reinhart Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno, a cura di R. Lista, Clueb, Bologna 2009 [N. d. T.].

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splicitamente escluse dal discorso filosofico, classificate come residuo dogmatico e ipotesi inutile, anzi dannosa. Questa esitazione riguardante la sorte finale riservata alla cosa in sé non mancherà di avere un’eco nel campo storico; se il passato è in un certo senso la cosa in sé dello storico, la questione è allora quella di sapere come si possa escluderla dal campo della conoscenza e al contempo mantenerla come un presupposto di questa stessa conoscenza. È questa ambiguità, anzi questa aporia, che alla fine di questo percorso porterà a chiedersi se il passato sia una cosa in sé paragonabile alla cosa in sé kantiana. Teniamo in sospeso questa domanda fino al termine della nostra indagine sulle varie filosofie critiche della storia. Prima di rendere conto dei lavori più recenti, riepiloghiamo in breve le fasi più antiche del dibattito, prima in Germania, poi nei paesi anglosassoni, infine in Francia. 2.1 Comprensione vs. spiegazione La contestazione della tesi dell’unità della scienza ha trovato la sua espressione più risoluta nell’opposizione istituita da Wilhelm Windelband tra «metodo idiografico» e «metodo nomotetico»9. In Wilhelm Dilthey, Heinrich Rickert, Georg Simmel e Max Weber a questa opposizione si collega quella tra comprensione (verstehen) e spiegazione (erklären)10. Riassumiamo le linee principali dell’argomentazione di Dilthey, che è stata per molti decenni il punto focale del dibattito epistemologico11. In primo 9 W. Windelband, «Geschichte

und Naturwissenschaft» (1894), in Präludien. Aufsätze und Reden zur Philosophie und ihrer Geschichte, Bd. 2, J.C.B. Mohr, Tübingen 1921, pp. 136-160. 10 Cfr. R. Aron, La philosophie critique de l’histoire: Dilthey, Rickert, Simmel, Weber, Vrin, Paris 1969 (19381); G. G. Iggers, New Directions in European Historiography, Wesleyan U. P., Middletown, Conn. 1975. 11 W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Bd. 1: Die Geistige Welt: «Die Entstehung der Hermeneutik» (1900), Stuttgart-Göttingen 1982; Bd. 7: Der

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luogo, non sono tratti caratteristici della storia che impongono la distinzione tra spiegare e comprendere, ma caratteristiche che valgono per l’intero dominio delle scienze dello spirito, in cui si ritiene vada classificata anche la storia. Mentre la distinzione tra metodo idiografico e metodo nomotetico si fondava sul carattere unico e non ripetibile dell’evento storico, considerato in senso lato – non c’è che un solo Rinascimento italiano, una sola Rivoluzione francese –, e dunque sull’intento individualizzante della spiegazione storica, la distinzione tra comprendere e spiegare si basa su tre tratti fondamentali: la relazione significante tra il vissuto e la sua espressione esterna; il nesso motivazionale e non causale tra i segni; la capacità di trasferirsi in uno psichismo estraneo. La comprensione si definisce allora come un movimento di risalita da un insieme di segni espressivi al dinamismo interiore che li produce. L’interpretazione è una specificazione della comprensione, legata all’inscrizione dei segni in un supporto esteriore sul modello della scrittura. Dall’inscrizione dipende l’autonomia semantica del testo, che lo apre alle discipline esegetiche e filologiche e alle codificazioni ermeneutiche stabilite da Schleiermacher. Anche se l’opposizione tra comprensione e spiegazione tende ad assumere un significato ontologico, nella misura in cui si applica a due ordini di fenomeni distinti, cioè Geist e Natur, la coppia comprensione/interpretazione definisce la condizione di possibilità, nel senso kantiano del termine, dell’oggettività propria delle

Geisteswissenschaften. Come si inscrive la storia in questa cerchia delle scienze umane? Tutti i tratti della comprensione le sono propri: le tracce del passato sono segni, più precisamente segni scritti, archiviati. Inoltre, Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (1910), StuttgartGöttingen 1979. Cfr. R. Aron, La philosophie critique de l’histoire, cit.; M. Ermath, Wilhelm Dilthey: The Critique of Historical Reason, The University of Chicago Press, Chicago-London 1978; E. W. Orth (Hg.), Dilthey und die Philosophie der Gegenwart, K. Alber, Freiburg-München 1985.

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l’oggetto della comprensione è ogni volta una concatenazione singolare dei vissuti degli uomini del passato, i quali hanno agito e patito come noi; trasferendoci in questi vissuti estranei, infine, li comprendiamo nella loro alterità. La transizione dalla comprensione all’interpretazione è assicurata dallo statuto testuale delle fonti. La differenza principale con le altre scienze umane è allora la seguente: in storia lo straniamento12 instaurato dalla scrittura accoglie la distanza temporale che separa gli eventi e gli stati di cose passati dal presente della scrittura. Quanto a ciò che costituisce la specificità della distanza temporale, esso non dipende più da una riflessione sulla comprensione, in quanto distinta dalla spiegazione, ma da una fenomenologia della coscienza temporale e da un’ermeneutica della storicità fondamentale della condizione umana. Non vorrei abbandonare il territorio del Verstehen senza aver richiamato la posizione di Weber, più attenta a coordinare che a opporre comprensione e spiegazione. Tale attenzione presiede all’organizzazione generale del grande libro Economia e società13. La cosa è ancora più evidente nel saggio in cui è discussa l’opera di Edouard Meyer Sulla teoria e la metodologia della storia14, in 12

Il termine francese per esprimere il concetto di straniamento è distanciation, evidentemente apparentato con distance. Di qui la possibilità di avvalersi di una duplicità semantica interdetta all’italiano [N. d. T.]. 13 Wirtschaft und Gesellschaft (1921), in id., Studienausgabe, J.C.B. Mohr, Tübingen 1972, I, I, «Soziologische Grundbegriffe». Qui la sociologia è definita «eine Wissenschaft, welche soziales Handeln deutend verstehen und dadurch in seinem Ablauf und seinen Wirkungen ursächlisch eklären will», ivi, §1 p. 1 [cors. di Ricœur]; ed. it. a c. di P. Rossi, Economia e società, Comunità, Milano 1980. 14 Lo studio critico dedicato da Max Weber all’opera di Edouard Meyer, «Zur Theorie und Methodik der Geschichte», Halle 1901, si legge in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, XXII, ripreso in Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, J.C.B. Mohr, Tübingen 19856 (19221) [cfr. Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura, in M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, ed. it. a c. di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958, pp. 143-237. Ricœur fa riferimento alla traduzione francese di J. Freund: Essais sur la théorie de la science, Plon, Paris 1965, pp. 215-323, N. d. T.].

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cui Weber espone la sua concezione dell’imputazione causale singolare (se ne trova un’eco nella critica che William H. Dray oppone al modello della pura spiegazione attraverso leggi). Questa logica consiste sostanzialmente nella costruzione mediante l’immaginazione di un corso differente di eventi, quindi nella misurazione delle conseguenze possibili di questi eventi irreali e infine nella comparazione di tali conseguenze con il corso reale degli eventi: «Per chiarire le relazioni causali reali ne costruiamo altre di irreali»15. A ciò Raymond Aron16 farà eco trent’anni più tardi: «Per spiegare quel che è stato, ogni storico si domanda che cosa sarebbe potuto accadere»17. In un certo senso, quando la spiegazione mira a ricostruire un dato corso motivazionale, il circolo del Verstehen non viene abbandonato. Tuttavia, all’interno di questo circolo, ci avviciniamo singolarmente al modello nomologico «debole» che, come vedremo più avanti, risulta dalla critica del Covering Law Model (CLM). In effetti, non si potrebbe prendere in considerazione un corso alternativo di azione, senza in primo luogo isolare mentalmente il fattore di cui si intende supporre l’assenza e senza in secondo luogo considerare le conseguenze che ci si deve attendere dalla supposta soppressione di un fattore. Ora, come considerare tali conseguenze senza ricorrere a ciò che Weber definisce «regole dell’esperienza», cioè le regole «che riguardano il modo in cui gli uomini hanno l’abitudine di reagire a situazione date»? In terzo luogo, Weber tenta di corroborare il carattere scientifico di questa ricostruzione, applicando alla valutazione comparata degli 15 16

M.Weber, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, cit., p. 287 [N.d.T.]. R. Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire: essai sur les limites de l’objectivité historique, Gallimard, Paris 1986 (19381). 17 Ivi, p. 202. La differenza di accento tra Aron e Weber riguarda la differenza dei loro progetti filosofici, nel caso di Aron esplicitamente rivolto contro l’illusione di fatalità creata dalla retrospezione storica: «Il senso dell’indagine causale dello storico consiste più nel conservare o restituire al passato l’incertezza dell’avvenire che nel delineare i grandi tratti del rilievo storico» (ivi, pp. 181-182).

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effetti la teoria della possibilità oggettiva, che egli riprende dal fisiologista Johannes von Kries. Un indice di probabilità relativa potrebbe così essere apposto ai diversi fattori di causalità, secondo una scala che va dalla causalità accidentale (come nel lancio dei dadi) fino alla causalità adeguata (come nella spiegazione proposta circa la decisione di Bismarck di cominciare la guerra contro l’impero austroungarico). Quest’ultimo esempio potrebbe indurre a ritenere che l’imputazione causale singolare valga solo nel caso dell’azione razionale individuale. Non è così. Un ragionamento analogo ricorre anche nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo18: la connessione proposta fra certi aspetti dell’etica protestante e certi aspetti del capitalismo costituisce una concatenazione causale singolare, sebbene essa non riguardi singoli individui, bensì ruoli, mentalità e istituzioni. Inoltre, la connessione causale struttura un processo unico – la nascita del capitalismo – e questo fa sì che la tesi sostenuta in quest’opera costituisca un caso notevole di imputazione causale singolare. L’argomentazione di Weber, ripresa da Raymond Aron, lascia intravedere che il fossato fra la tradizione del Verstehen e quella dell’Erklären non è affatto insuperabile e che possono essere gettati ponti fra le due scuole in apparenza inconciliabili. 2.2 La spiegazione in storia e l’unità della scienza Ciò che i teorici del Verstehen mettevano in discussione era innanzi tutto il postulato dell’unità della scienza formulato dal Circolo di Vienna. Dalla difesa dell’unità della scienza, molto più che dalla riflessione sull’argomentazione effettivamente praticata 18

M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus in Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, J.C.B. Mohr, Tübingen1934, pp. 19-236; L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1987 [Ricœur fa riferimento alla traduzione francese di J. Chavy, L’éthique protestante et l’ésprit du capitalisme, Plon, Paris 1964, N. d. T.].

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dagli storici di professione, a partire dagli anni ’40 del secolo scorso è sorto il Covering Law Model (CLM), da cui dipende gran parte della riflessione epistemologica sulla storia in lingua inglese, soprattutto a partire dal fondamentale articolo di Carl G. Hempel19. La tesi centrale di questo articolo era che «le leggi generali hanno funzioni del tutto uguali in storia e nelle scienze naturali». Hempel non ignorava l’interesse della storia per gli eventi particolari del passato: al contrario, la sua tesi concerneva precisamente lo statuto dell’evento. Ma l’evento storico non ha, secondo lui, nulla di specifico. Esso dipende da un concetto generale di evento che include gli eventi fisici e ogni occorrenza degna di nota, come la rottura di un serbatoio, un cataclisma geologico, un cambiamento di stato fisico. Una volta posta tale concezione omogenea di ciò che è considerato evento, l’argomento si svolge come segue: l’occorrenza di un evento di tipo specifico può essere dedotta da due premesse. La prima descrive le condizioni iniziali: eventi anteriori, condizioni generali, ecc. La seconda enuncia una qualsiasi regolarità, ossia un’ipotesi in forma universale che, se verificata, merita di essere chiamata legge. Se queste due premesse possono essere correttamente stabilite, si può dire che l’occorrenza dell’evento considerato sia stata logicamente dedotta e dunque ch’essa sia stata spiegata. Se questa è la struttura universale delle spiegazioni applicata agli eventi, la questione consiste nel sapere se la storia soddisfa o meno tali condizioni. Come è evidente, il modello è molto prescrittivo: dice ciò che deve essere una spiegazione ben costruita. L’autore non pensava di fare torto alla storia. Al contrario, assegnandogli un ideale così elevato, riconosceva l’ambizione della storia di essere considerata come una scienza e non come un’arte. Ma il fatto è che la storia non è ancora una scienza pienamente sviluppata, principalmente perché le 19 C. G. Hempel, «The Function of General Laws in History», The Journal of Philosophy, 39 (1942), pp. 35-48, ripreso in Patrick Gardiner, Theories of History, The Free Press, New York 1959, pp. 344-356.

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proposizioni generali che fondano la sua ambizione di spiegare non meritano il titolo di regolarità. La sola concessione che Hempel accordava alla sua tesi senza compromessi era che, nel migliore dei casi, la storia non offre che un «abbozzo di spiegazione» (explanation sketch), poggiando su regolarità che, non essendo leggi esplicite e verificate, nondimeno puntano nella direzione in cui potrebbero essere scoperte regolarità esplicite. Al di fuori di questa unica concessione, l’autore rifiuta con forza di accordare un valore propriamente epistemologico a procedimenti che potrebbero basarsi sull’empatia, sulla comprensione o sull’interpretazione, e che farebbero riferimento a sedicenti tratti distintivi dell’oggetto storico. Seguendo Hempel, i sostenitori del CLM si sono impegnati a ridurre lo scarto tra il modello «forte» e i tratti specifici della conoscenza storica. Il prezzo da pagare è stato quello di «indebolire» il modello per assicurarne la plausibilità20. Oltre a concedere che la storia non stabilisce le leggi che figurano nella premessa maggiore della deduzione hempeliana ma si limita a impiegarle, è stato osservato che la storia ha fatto ricorso a regolarità il cui livello di universalità è molto eterogeneo, dato che il ventaglio delle risposte accettabili alla domanda sul «perché» si rivela molto aperto. Sempre allo scopo di indebolire il modello senza abbandonarlo, si è insistito sul ruolo delle procedure di selezione in storia: selezione del campo di studio, delle ipotesi di interpretazione, dello spa20 L’iniziatore di tutta la discussione sulla spiegazione in storia è stato Maurice Mandelbaum, The Problem of Historical Knowledge, Gevericht, New York 1938. Torneremo più tardi sulla sua seconda grande opera, The Anatomy of Historical Knowledge, The Johns Hopkins U. P., Baltimore-London 1977. V. anche: Patrick L. Gardiner, The Nature of Historical Explanation, Clarendon U. P., London 1961 (19521); Ernest Nagel, «Some Issues in the Logic of Historical Analysis», The Scientific Monthly, 1952, pp. 162-169, ripreso in P. Gardiner, Theories of History, cit., pp. 373-386; Charles Frankel, «Explanation and Interpretation in History», Philosophy of Sciences, n. 24, 1957, pp. 137-155, ripreso in P. Gardiner, Theories of History, cit., pp. 408-427.

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zio documentario, nello sforzo di preservare così l’affinità tra la ricerca in storia e la logica della ricerca nel resto delle scienze. Anche la «valutazione» dei livelli di rilevanza assegnati a questa o quella causa in storia dipenderebbe da una logica delle «garanzie», che non deve nulla a ciò che in altra sede viene chiamato comprensione. Ma una versione «debole» del CLM rende davvero conto del lavoro effettivo della spiegazione in storia? La tendenza a «indebolire» il modello nomologico può essere seguita fino al punto in cui raggiunge le forme anch’esse indebolite del modello basato sulla comprensione. Il punto di svolta è rappresentato dall’inserimento di un momento interpretativo nel corso della spiegazione storica: considerato dal lato del soggetto conoscente, sul versante dell’oggetto della conoscenza questo momento ha come correlato la dimensione simbolica dell’oggetto storico stesso. Con ciò intendiamo non solo i motivi e le ragioni dell’azione individuale, ma anche i significati, i valori, le norme immanenti ai costumi, alle pratiche, alle istituzioni; nella misura in cui questa costituzione simbolica non è dogmaticamente ridotta a nient’altro che una sovrastruttura aggiunta a una supposta infrastruttura dal valore neutrale, anch’essa può venire considerata come un’infrastruttura. In questo senso Claude Lévi-Strauss può dire che il simbolismo non è un effetto della società, ma la società un effetto del simbolismo. Tali sono le considerazioni che hanno portato a mettere in discussione il CLM, senza tuttavia rinunciare allo statuto scientifico della conoscenza storica. È qui che William Dray tenta di stabilire che la storia spiega senza fare ricorso all’idea di legge21. L’analisi causale, secondo lui, è irriducibile alla sussunzione a una generalità che «copre». Egli aggiunge inoltre che le spiegazioni che si trovano nelle opere storiche formano un insieme logicamente disordinato. Il termine 21 W. Dray, Laws and Explanation in History, Oxford U. P., London-New York 1957; trad. it. di R. Albertini e L. Calabi, Leggi e spiegazione in storia, Il Saggiatore, Milano 1974.

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«poiché» non implica alcuna struttura logica determinata. Il CLM non è neanche un modello tra altri. La ragione è che il corso degli eventi spiegati è unico, nel senso che non esiste nulla di esattamente simile al caso considerato. La spiegazione delle differenze è simile all’operazione discriminante in cui si impegna un giudice, quando valuta degli argomenti contrari e prende la sua decisione22. Questa maniera di giudicare sui casi particolari non consiste nel collocare un caso sotto una legge, ma nel raccogliere dei fattori sparsi e nel valutarne la rispettiva importanza nella produzione del risultato finale. Va notato che con ciò Dray non rinuncia affatto al linguaggio della causalità. Adducendo come pretesto la polisemia del termine causa, egli fa posto all’idea di connessione causale singolare, la cui forza esplicativa non dipende da una legge: l’analisi causale è allora un’analisi essenzialmente selettiva, che mira a verificare i titoli di questo o quel candidato a occupare il posto del «poiché» nella risposta alla domanda «perché». Nella loro forma negativa –: se X non avesse avuto luogo, Y che ha avuto effettivamente luogo non sarebbe accaduto –, le prove richiamate ricordano l’argomento immaginario di Weber ripreso da Aron. Costituzione di una serie continua di eventi, procedura di eliminazione dei candidati alla causalità singolare ed esercizio del giudizio: ecco altrettanti tratti che sottraggono l’analisi causale al CLM. Questa indagine dedicata al dibattito sulla relazione spiegare/comprendere va completata richiamando il tentativo di sintesi proposto da Georg Henrik von Wright, in un’opera che s’intitola precisamente Explanation and Understanding 23. È importante che l’autore, molto conosciuto per i suoi lavori di logica deontica, 22

Per le nozioni di claim, rebuttal, warrant, cfr. Stephen Toulmin, The Uses of Arguments, Cambridge U. P., Cambridge 1958; trad. it. di G. Bertoldi, Gli usi dell’argomentazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1975. 23 G. H. von Wright, Explanation and Understanding, Routledge and Keagan Paul, London 1971; trad. it. di G. Di Bernardo, Spiegazione e comprensione, Il Mulino, Bologna 1977.

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all’inizio della sua impresa riconosca la dualità delle tradizioni che hanno presieduto alla formazione delle teorie nelle discipline «umanistiche e sociali». La prima, che risale a Galileo, anzi a Platone, esige l’unità del metodo scientifico; la seconda, che risale ad Aristotele, difende invece un pluralismo metodologico. Mentre il modello nomologico era costretto a negare ogni valore esplicativo alla comprensione, senza riuscire a rendere conto delle operazioni intellettuali realmente all’opera nelle scienze umane, von Wright propone un modello che, attraverso una serie di estensioni successive del linguaggio iniziale della logica proposizionale classica, è sufficientemente potente da raggiungere il campo della comprensione storica, cui non cessa di riconoscere una capacità originaria di apprensione rispetto al senso dell’azione umana. Questa estensione costituisce la struttura di accoglienza per la riformulazione logica di tutta la problematica della comprensione. Questa ricostruzione comincia con l’elaborazione del concetto di intervento, che implica la congiunzione tra il poter-fare, di cui l’agente ha una comprensione immediata, e il momento iniziale di un sistema di cui assicura la chiusura. In questa prospettiva, la teoria della storia può essere considerata come una modalità della teoria dell’azione in quanto intervento: sulla base della connessione tra un «io posso» compreso e una concatenazione causale che dipende dalla spiegazione, è possibile congiungere su scala storica la spiegazione teleologica che riguarda intenzioni e la spiegazione causale che riguarda stati di sistema, in un modello misto, che articola gli uni sugli altri segmenti di tipo teleologico e segmenti di tipo causale. Ci si può chiedere tuttavia se ciò che assicura l’unità fra i segmenti nomici e i segmenti teleologici all’interno di questo modello misto non sia forse di ordine essenzialmente narrativo. Questo nuovo fattore d’integrazione temporale non solo orienta in una nuova direzione il dibattito tra spiegare e comprendere ma prepara anche la transizione dal piano epistemologico a quello preso in considerazione più di recente: la scrittura della storia.

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2.3 La dimensione «narrativa»: tra comprensione e spiegazione I protagonisti della discussione precedente, come ricorda von Wright all’inizio della sua opera, erano gli eredi sia di Aristotele, difensore di un pluralismo epistemologico regolato sulla pluralità dei campi di oggetti, sia di Galileo, precursore dell’idea dell’unità della scienza basata sul modello matematico-fisico. Un altro laboratorio della discussione è stato aperto dai sostenitori di un’interpretazione narrativista della conoscenza storica, che a suo modo rimette in discussione i termini stessi del problema, cioè l’alternativa tra spiegazione e comprensione. Abbiamo visto che i sostenitori di una e dell’altra scuola fanno appello alla categoria dell’evento; gli uni pretendono di spiegarlo sussumendolo a regolarità, gli altri di comprenderlo collocandolo all’interno di una connessione unica, ordinata causalmente o teleologicamente. Ma non è stata fatta fin qui menzione del fatto che, prima di diventare oggetto della conoscenza storica di tipo scientifico, l’evento è oggetto di racconto24. In particolare, i racconti dei contemporanei occupano un posto di riguardo tra le fonti documentarie. Dunque è importante capire se la conoscenza storica, derivante dalla critica di questi racconti di primo grado, anche nelle sue forme più scientifiche presenti ancora tratti che la fanno assomigliare a un qualsiasi tipo di racconto prodotto dall’arte di raccontare; in sintesi, se la dimensione narrativa sia consustanziale alla conoscenza storica anche nella sua fase critica. 24

Ho tradotto il termine récit sia con con «racconto» che con «narrazione». Il primo indica il prodotto finale del processo narrativo: l’opera scritta strutturata, dotata di una forma e di uno stile proprio e che, in virtù dell’autonomia semantica acquisita, si apre al gioco infinito delle interpretazioni. Il secondo designa invece il processo narrativo in quanto tale, che nel lessico ricœuriano è mise en intrigue o «costruzione dell’intreccio»: sintesi dell’eterogeneo schematizzata dall’immaginazione produttrice. Va tenuta presente anche l’espressione fonction narrative, che riassume le due precedenti e indica il processo mimetico in quanto tale, secondo i tre livelli discussi in Temps et récit [N. d. T.].

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Per molto tempo l’interesse del dibattito è stato oscurato da due considerazioni convergenti. Da una parte, in particolare nella Scuola francese delle Annales, si è fatta largo una concezione talmente restrittiva dell’evento che il racconto, identificato come suo veicolo, è stato ritenuto una componente minore, quasi marginale, della conoscenza storica: il processo alla narrazione coincide così con il processo all’evento25. Dall’altra, prima degli sviluppi della narratologia, il racconto appariva come una forma di discorso insieme troppo legata alla tradizione, alla leggenda, al folklore e infine al mito, e troppo poco elaborata per essere degna di superare il test della prova documentaria che, come si è detto nella prima sezione, segna la frattura epistemologica tra la moderna concezione della storia e il racconto in senso tradizionale. A dire il vero, i due ordini di considerazione vanno di pari passo: a un concetto povero dell’evento corrisponde un concetto povero della narrazione e viceversa. Tuttavia si può dire che, nel caso della Scuola francese delle Annales, si è scelto di prestare così poca attenzione al racconto, perché il processo all’evento rendeva superfluo svolgere un processo distinto alla narrazione. 2.3.1 a) La reputazione della Scuola francese delle Annales è legata alla critica della histoire événementielle. Senza dubbio, il pro25 Fernand Braudel, La Méditerranée et le Monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, A. Colin, Paris 1979 (19491); trad. it. di C. Pischedda, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 2 voll., Einaudi, Torino 2002. F. Braudel, Écrits sur l’Histoire, Flammarion, Paris 1969; trad. it. di L. Baruffi, A. Caizzi, A. Salsano, M. Terni, Scritti sulla storia, Bompiani, Milano 2003. Michel

Vovelle, «L’histoire de la longue durée», in Jacques Le Goff, Roger Chartier, Jacques Revel (ed.), La Nouvelle Histoire, Retz-CEPL, Paris 1978, pp. 316343; trad. it. di T. Capra, «Storia e lunga durata», in J. Le Goff, R. Chartier, J. Revel (ed.), La nuova storia, Mondadori, Milano 1990, pp. 47-80, ripreso in Idéologies et mentalités, La Découverte, Paris 1985, pp. 205-235. François Furet, «De l’histoire-récit à l’histoire-problème», in L’Atelier de l’Histoire, Flammarion, Paris 1982, pp. 73-90.

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cesso a questo tipo di storia ha dei lontani precedenti. Krzysztof Pomian ricorda la critica che Mabillon e Voltaire hanno rivolto a una storia che, secondo loro, insegna solo eventi che riempiono la memoria ma impediscono di arrivare alle cause e ai principi e di far conoscere la natura profonda del genere umano26. Se per una critica elaborata della histoire événementielle si è dovuto tuttavia attendere il secondo trentennio del XX secolo, la ragione è che nel frattempo la storia politica aveva assunto un ruolo dominante. Ranke e Michelet restano i maestri senza pari di questo stile di storia, in cui l’evento è sinonimo di singolarità non ripetibile. La Scuola delle Annales attacca direttamente proprio questo nesso tra il primato della storia politica e il pregiudizio a favore dell’evento unico, non ripetibile. A un tale carattere di singolarità non reiterabile Braudel ha poi aggiunto la brevità, il che gli ha consentito di opporre alla histoire événementielle la «lunga durata». La fugacità dell’evento, secondo lui, caratterizza l’azione individuale, in particolare quella dei politici che prendono decisioni. Al di sotto di questa storia e del suo tempo individuale, si svolge «una storia ritmata lentamente» con la sua «lunga durata». È la storia sociale, quella dei gruppi e delle tendenze profonde – la storia che l’economista insegna allo storico. Ma la lunga durata rappresenta anche il tempo delle istituzioni politiche e delle mentalità. E, nascosta più in profondità, alla fine regna «una storia quasi immobile, quella dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente che lo circonda». Per essa si deve parlare di un «tempo geografico». Con Braudel la storia diventa una geo-storia, in cui l’eroe è il Mediterraneo e il mondo mediterraneo, prima che con Huguette e Pierre Chaunu subentri l’Atlantico tra Siviglia e il Nuovo Mondo27. In ultima analisi, i due caratteri della singolarità e della brevità dell’evento dipendono dal presupposto fondamenta26 27

K. Pomian, L’ordre du Temps, Gallimard, Paris 1984. H. e P. Chaunu, Séville et l’Atlantique (1504-1650), SEPVEN, Paris 1955-1960.

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le della cosiddetta storia événementielle, cioè che l’individuo è il protagonista finale del cambiamento storico. Quanto alla storiaracconto, essa è considerata come un semplice sinonimo della histoire événementielle. Ne deriva così che lo statuto narrativo della storia non è oggetto di una discussione specifica. Seguendo Braudel l’intera Scuola delle Annales si è inserita nella breccia aperta dalla lunga durata. Al riguardo merita di essere menzionato uno sviluppo molto significativo della storiografia francese contemporanea, cioè la massiccia introduzione in storia dei procedimenti quantitativi presi a prestito dall’economia ed estesi alla storia demografica, sociale, culturale e perfino spirituale. Con questo sviluppo, viene messo in questione il principale presupposto concernente la natura dell’evento storico, ovvero il fatto che esso è unico e come tale non ripetibile. La storia quantitativa, infatti, è fondamentalmente una «storia seriale», secondo l’espressione resa classica da Chaunu28. Essa si fonda sulla costituzione di serie omogenee di items, dunque di fatti ripetibili, eventualmente trattabili con il computer. Tutte le principali categorie del tempo storico possono essere ridefinite passo dopo passo su una base «seriale». Così la congiuntura passa dalla storia economica alla storia sociale e quindi alla storia generale, poiché quest’ultima può essere concepita come metodo per integrare in un determinato momento il maggior numero possibile di correlazioni tra le serie lontane; anche il concetto della struttura, nel senso di architettura stabile di un insieme dato, è applicato dallo storico alle zone d’intersezione di molte variabili che prevedono tutte una messa in serie29. La conquista della lunga durata è continuata con la storia

28

P. Chaunu, Histoire quantitative, Histoire sérielle, A. Colin, Paris 1978; F. Furet, «Le quantitatif en histoire», Annales ESC, 1, 1971, pp. 63-75, ripreso in L’Atelier de l’Histoire, cit., pp. 53-72. 29 J. Le Goff, Pour un autre Moyen Age. Temps, Travail et Culture en Occident, Gallimard, Paris 1977.

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delle mentalità30, giungendo così a un terzo livello, dopo l’estensione dall’economico al sociale. In questo campo la storia riprende i suoi modelli dall’antropologia, dalla sociologia delle ideologie, dalla psicanalisi, dalla semantica e dalla retorica del discorso. Viene così trasferito sulla distanza storica il senso di disorientamento prodotto dalla distanza geografica o dall’immersione nella cultura popolare e nell’immaginario collettivo. Di recente Pomian ha sottoposto l’evento a una critica orientata diversamente31, secondo la quale non sono più solo la singolarità e la brevità dell’evento a renderlo sospetto ma anche la sua dipendenza iniziale da una testimonianza oculare, quindi da una percezione: l’evento sarebbe un cambiamento anzitutto percepito e quindi chiuso nella sfera della visibilità. Ora, la storia del passato prossimo, e a maggior ragione quella del passato remoto, rientra nell’ambito dell’invisibile e questo fa sì che il discorso sul passato abbia bisogno di essere giustificato. Al contempo, «il centro di gravità del lavoro dello storico si sposta dalla narrazione alla ricerca». Questa considerazione colpisce certamente i racconti che fanno parte delle fonti dello storico. La prova documentaria appare allora a giusto titolo come la nemica della fonte narrativa grezza. Resta tuttavia in piedi l’intera questione di sapere se la spiegazione dei fatti scoperti dalla critica documentaria possa o meno affrancarsi dalla forma narrativa. A questo livello di elaborazione, il destino dell’evento ha smesso di essere «indissolubilmente legato a quello della percezione», e la distinzione fra il visibile e l’invisibile perde molto della sua pertinenza. Saremmo anche tentati di dire che nel discorso il racconto segna la prima rottura con la percezione. Considerato da un punto di vista narrativo, è evento tutto ciò che contribuisce alla progressione di un racconto, tutto ciò che in 30 M. Vovelle, Idéologies et Mentalités, cit.; Piété baroque et déchristianisation en Provence au XVIIIe siècle: les attitudes devant la mort d’après les clauses des testaments, Seuil, Paris 1979. 31 K. Pomian, L’ordre du temps, cit.

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esso costituisce peripezia. Trattato così, come variabile all’interno di un racconto, l’evento è pronto per la trasformazione che si può osservare negli scritti più recenti della Scuola delle Annales. In essi l’evento diventa un termine complementare a quelli già menzionati di struttura e di congiuntura32. L’evento è quindi definito «come una discontinuità constatata in un modello». Ci si può dunque chiedere se possa ancora essere mantenuto un legame significativo tra la nozione dell’evento come percezione dei testimoni oculari e l’evento come terzo termine della sequenza struttura-congiuntura-evento, se tra questi due estremi non viene inserito il concetto fondamentale di evento narrativo, di occorrenza resa intelligibile dal suo posto all’interno di una configurazione narrativa. Lo verificheremo trattando la coppia evento-racconto dal lato del racconto. 2.3.2 b) Come è stato già detto, negli storici della Scuola delle

Annales la critica della storia-racconto è implicitamente contenuta nella critica alla histoire événementielle. Ora, in contemporanea con questa critica, nel campo della critica letteraria sorgeva la nuova disciplina della narratologia. Ispirata dalla linguistica strutturale, essa faceva emergere al di sotto della superficie degli abbondanti, innumerevoli, casuali e caotici sviluppi che riempiono i racconti mitici, folkloristici, romanzeschi e di altro tipo, strutture profonde rette da regole di trasformazione calcolabili. Di conseguenza, il racconto si delineava come una forma di discorso meno semplicistica di quanto non apparisse in precedenza; al di là delle sue innumerevoli incarnazioni, esso si rivelava soggiacente a una logica di sviluppo, che da una tappa iniziale procede verso una finale attraverso trasformazioni regolate33. Nonostante ciò, 32

Edgar Morin, «Le retour de l’événement», Communications 18. L’événe-

ment, Seuil, Paris 1972, pp. 6-20. 33 Roland Barthes, «Introduction à l’analyse structurale des récits», Communications 8. Recherches sémiologiques: l’analyse structurale du récit, Seuil,

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fino agli anni Settanta e soprattutto agli Ottanta del secolo scorso, la teoria della storia non si è interessata molto ai cambiamenti di paradigma che hanno influenzato la critica letteraria. Restava ferma la regola del confronto sia con le scienze naturali, che con le scienze sociali che avevano superato il test della scientificità matematica – l’economia, la demografia, la stessa linguistica. Solo in una fase successiva, quando la storiografia sarà considerata anche letteratura – sia come ricerca che come conoscenza –, la sua dimensione narrativa passerà in primo piano, insieme a quella testuale. In ogni caso, sul piano epistemologico – che seguiremo in questa seconda parte – un tale spostamento dell’interesse dalla dimensione cognitiva a quella letteraria della storiografia è stato preparato da tutta una scuola di pensiero, che si è sviluppata ai margini della filosofia di lingua inglese e che si può designare con il termine di «narrativista». In questa scuola l’accostamento fra storia e racconto è sorto dalla congiunzione fra due movimenti di pensiero. All’indebolimento e all’esplosione del modello nomologico ha corrisposto una rivalutazione delle risorse di intelligibilità del racconto, la quale deve poco alla narratologia e alla sua pretesa di ricostruire gli effetti di superficie del racconto, a partire dalle sue strutture profonde. I lavori della scuola «narrativista» si sviluppano piuttosto nel solco delle ricerche dedicate al linguaggio ordinario, alla sua grammatica e alla sua logica, così come esse funzionano nelle lingue naturali. In tal modo il carattere configurante del racconto è stato messo in primo piano rispetto al carattere episodico, l’unico che gli storici delle Annales prendevano in considerazione. Circa il conflitto tra comprensione e spiegazione, le interpretazioni narrativiste tendono a rifiutare la pertinenza di tale distinParis, 1966, pp. 1-27. Testo ripreso in Poétique du récit, Seuil, Paris 1977; trad. it. di L. Del Grosso, P. Fabbri, R. Barthes (a cura di), L’analisi del rac-

conto. Le strutture della narratività nella prospettiva semiologica che riprende le classiche ricerche di Propp, Bompiani, Milano 2002.

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zione, nella misura in cui comprendere un racconto significa anche spiegare gli eventi che esso integra e i fatti che riporta. La questione allora è quella di capire fino a che punto l’interpretazione narrativista renda conto della frattura epistemologica tra le storie che si raccontano (story) e la storia che si scrive su una base documentaria (history). A spianare la strada era stata l’Analytical Philosophy of History di Arthur C. Danto, in cui era delineata la cornice concettuale che regge l’uso di un certo tipo di frasi definibili come narrative34. Un carattere importante degli enunciati inseriti in queste frasi è la ridescrizione degli eventi passati alla luce di eventi successivi sconosciuti agli autori. Tale significato può essere conferito agli eventi solo nel contesto di una storia raccontata (story) e più precisamente in una storia raccontata nel passato, escludendo tutte le proiezioni verso il futuro. Inoltre, il discorso narrativo appare intrinsecamente incompleto, poiché la frase narrativa è soggetta alla revisione di uno storico successivo. Gli enunciati veicolati dalle frasi narrative, infine, costituiscono una descrizione dell’azione umana, quella di un evento passato in funzione di altri eventi ugualmente passati ma successivi al primo, come quando affermiamo che l’autore del Neveu de Rameau è nato nel 1717. Si coglie qui l’eco dell’osservazione di Aron, che Danto sicuramente non conosceva, sul carattere retrospettivo della causalità storica. Per parte sua Danto parla di un «riallineamento retrospettivo del passato». Deriva da ciò un corollario importante: non c’è storia del presente, poiché si tratterebbe solo di un’anticipazione di ciò che gli storici futuri potrebbero scrivere su di noi. Ci si può chiedere fino a che punto l’analisi della frase narrativa chiarisca il problema dei rapporti tra la comprensione narrativa e la spiegazione storica. Non è detto da nessuna parte che un testo sto34 A. C. Danto, Analytical Philosophy of History, Cambridge U. P., Cambridge 1973; trad. it. di P. A. Rovatti, Filosofia analitica della storia, Il Mulino, Bologna 1971.

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rico si riduca a una sequenza di frasi narrative. I vincoli legati all’uso della frase narrativa non costituiscono al riguardo altro che una «caratterizzazione minimale dell’attività storica», a partire da enunciati che vertono sugli eventi presi uno ad uno. Alla spiegazione attraverso leggi si chiede solo di tenere conto del fatto che un evento può essere coperto da una legge generale soltanto alla condizione che esso sia già inscritto in una frase narrativa. Di conseguenza, si può parlare di concezione «narrativista» della storia esclusivamente quando il legame tra le frasi narrative è a sua volta considerato come un fenomeno narrativo, in altre parole quando la forma narrativa stessa è oggetto di un atto di comprensione originale35. A questo proposito un posto del tutto speciale deve essere riservato all’opera di Louis O. Mink. Il titolo Historical Understanding, che riassume bene il proposito centrale della sua opera, non tragga in inganno36. Non si tratta assolutamente di contrapporre la comprensione alla spiegazione. Esattamente al contrario, si tratta di caratterizzare la spiegazione storica come un «afferrare insieme», compiuto con un atto configurante, sinottico e sintetico, dotato dello stesso tipo di intelligibilità del giudizio descritto dalla critica kantiana della facoltà di giudizio. Non sono così messi in rilievo i tratti di intersoggettività del Verstehen ma la funzione di «colligation» – espressione che proviene da William Whewell attraverso William Henry Walsh37 – esercitata dal racconto, preso come un tutto, rispetto agli eventi riportati. Con Mink la discussione epistemologica esce deliberatamente al di fuori dal quadro fissato da Hempel. L’idea che la forma del racconto sia in quanto tale uno «strumento cognitivo» s’impone al termine di una serie di approcci sempre più precisi, per la verità al prezzo 35 Walter

Bryce Gallie, Philosophy and the Historical Understanding, Schoken Books, New York 1964. 36 L. O. Mink, Historical Understanding, Cornell U. P., Ithaca-London 1987. 37 W. H. Walsh, An Introduction to Philosophy of History, Harper, New York 1967 (19511).

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della scoperta di aporie che solo l’interpretazione narrativista poteva mettere in luce. Tutto parte dal concetto di «modo di comprensione», il cui campo di applicazione è più vasto della conoscenza storica. Esso consiste nel «tenere insieme» in un’unica immagine tante esperienze diverse, che ci giungono seriatim nel tempo. Il racconto non è altro che uno di questi modi, accanto ad altri: il teorico – rapporto fra fatto e legge – e il categoriale – rapporto fra esempio e classe. L’atto configurante opera quando possiamo vedere una serie di eventi accaduti uno dopo l’altro come una sequenza unica o un insieme complesso, dotato di un’identità propria. Un indizio di questo carattere totalizzante dell’atto configurante è il fatto che le conclusioni di un argomento storico non possono essere separate dalla struttura narrativa di cui costituiscono un elemento. Anche se Mink non si è interessato alle strutture narrative in quanto tali, egli ha posto però un problema che sarà al centro della nostra successiva riflessione, cioè l’affinità che si stabilisce tra storia e finzione, a partire dal tipo di comprensione che esse hanno in comune. Si pone così il problema che tormenterà tutta la filosofia letteraria della storia: qual è la differenza che distingue la storia e la finzione, se sia l’una che l’altra «raccontano»? La risposta classica, secondo la quale solo la storia descrive ciò che è effettivamente accaduto, non sembra contenuta nell’idea che la forma narrativa in quanto tale abbia una funzione cognitiva. L’aporia – che può definirsi anche l’aporia della verità nella storia – è resa più acuta dal fatto che gli storici costruiscono spesso racconti diversi e opposti intorno agli stessi eventi. Si deve allora dire che l’uno omette degli eventi e delle considerazioni che l’altro invece sottolinea? L’aporia sembrerebbe scongiurata, se si potesse sommare le versioni rivali, a costo di sottomettere i racconti a correzioni appropriate. Ma è proprio l’impossibilità di costruire per addizione tali super-storie che conferisce all’aporia tutta la sua serietà. Un racconto non ne completa un altro ma lo sposta. Ogni storia è la revisione di un’altra storia.

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Mink mette quindi alla prova una serie di ipotesi che appaiono tutte fragili. Si può dire che attribuiamo una qualche forza di verità alla forma del racconto in quanto tale, perché si presume che la vita abbia la forma di una storia? Ma la vita è vissuta e la storia raccontata. Solo in una storia la vita riceve la forma di un racconto. Cercheremo di salvare l’idea di storia universale, oggi screditata, nella forma di un’idea regolatrice? Ma la presupposizione di una «storia universale in quanto vissuta» non fornisce nessun mezzo per legare tutti i racconti l’uno con l’altro. Ecco il dilemma: «le storie narrative dovrebbero aggregarsi in un unico insieme nella misura in cui esse sono tutte storie; ma non possono farlo nella misura in cui sono anche dei racconti». Esso non colpisce solo il racconto al suo livello configurante, ma anche il concetto di evento. Ci si può in effetti chiedere se abbia un qualche senso affermare che due storici producono racconti diversi sugli stessi eventi. L’evento, se è un frammento del racconto, ne segue il destino e non esiste un evento basico che possa sfuggire alla narrativizzazione. E non possiamo quindi abbandonare la nozione di «un medesimo evento» per confrontare due racconti che trattano, come si dice, del medesimo soggetto. Ma che cos’è un evento liberato da tutte le connessioni narrative? Dobbiamo identificarlo con una circostanza nel senso fisico del termine? Tra l’evento e il racconto si apre allora un nuovo abisso, paragonabile a quello che separa la storiografia dalla storia realmente accaduta. Se Mink ha voluto preservare la credenza comune, secondo la quale la storia differisce dalla finzione in forza della sua pretesa di verità, sembra tuttavia non avere abbandonato l’idea della conoscenza storica. Narrative Form as a Cognitive Instrument, il suo ultimo saggio, riassume le perplessità in cui era avviluppato l’autore quando la sua opera è stata interrotta dalla morte. Nella sua ultima trattazione sulla differenza tra la finzione e la storia, Mink si limita a considerare disastrosa l’eventualità per cui il senso comune possa perdere la sua posizione privilegiata. Se il contrasto tra la storia e la finzione scomparisse, l’una e l’altra perderebbero

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la loro marca differenziale, cioè la pretesa della verità da parte della storia e la «sospensione volontaria della diffidenza» dal lato della finzione. L’autore però non dice in che modo la distinzione potrebbe essere mantenuta. Nella parte seguente di questo saggio dovremo partire proprio da questa perplessità. 2.3.3 c) Prima di chiudere questa sezione, può essere utile fare il punto sulla relazione tra comprensione narrativa e spiegazione storica. Al riguardo ci si può chiedere che cosa sia rimasto della diffidenza degli storici della Scuola delle Annales circa la storia narrativa, intesa come sinonimo di histoire événementielle. Su questo punto credo di poter proporre due affermazioni complementari. Da un lato, gli avversari della storia narrativa sembrano avere pesantemente sottovalutato le risorse di organizzazione strutturale del racconto, di cui la narratologia nella stessa epoca metteva in risalto l’estrema complessità. A questo proposito l’opera di Paul Veyne Comment on écrit l’histoire rappresenta un’eccezione nel panorama della storiografia francese38. Veyne è pressoché l’unico ad adottare la nozione di intreccio – ripresa dalla Poetica di Aristotele – come filo conduttore della conoscenza storica. Egli sostiene che l’intreccio differisce dal racconto che farebbero i protagonisti abbandonati alla confusione e all’opacità del loro presente. Il racconto storico è costruito per mezzo dell’intreccio. Gli eventi sono i componenti dell’intreccio: «i fatti esistono solo negli e attraverso gli intrecci, dove assumono l’importanza relativa imposta dalla logica umana del dramma». Un evento storico non è solo quello che succede ma ciò che può essere raccontato o che è già stato raccontato dalle cronache. Un intreccio è un «misto molto umano e molto poco scientifico delle cause materiali, dei fini e delle casualità». Fino a quando 38 P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, cit.; «L’histoire conceptualisante», in J. Le Goff e P. Nora (éd.), Faire de l’histoire, Gallimard, Paris 1974, vol. I, pp. 62-92.

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si può individuare questa combinazione eterogenea, c’è intreccio. In tal senso, le serie non cronologiche, le serie di items degli storici quantitativi, restano nel campo della storia in virtù dei loro sia pur sottili legami con l’intreccio. Così compresa ed estesa alla storia quantitativa, la nozione di intreccio si allontana da ogni apologia della storia concepita come scienza del concreto. Introdurre un evento in un intreccio significa esprimere qualcosa di intelligibile. Tale intelligibilità però non ci riconduce al CLM. L’unica logica compatibile con la nozione di intreccio è una logica del probabile, il cui regno coincide, secondo il lessico aristotelico, con il piano «sublunare». E poiché il probabile è la caratteristica dell’intreccio stesso, non si può distinguere tra racconto, comprensione e spiegazione: «da parte di uno storico, spiegazione significa mostrare lo sviluppo dell’intreccio, farlo comprendere». In questo senso, «spiegare di più significa raccontare meglio». Dall’altro lato, se l’operazione configurante del racconto tende a cancellare la differenza tra spiegazione e comprensione, la frattura epistemologica rappresentata dalla storia scientifica rispetto al racconto tradizionale non è presa in considerazione dalle concezioni narrativiste della storia. Questa frattura impone una riarticolazione più sofisticata della coppia spiegazione-comprensione, piuttosto che l’abolizione pura e semplice della differenza tra questi due livelli epistemologici. In Temps et Récit I ho sostenuto la tesi secondo la quale la storiografia moderna mantiene con la competenza narrativa, particolarmente presente nelle fonti narrative dei nostri archivi, un rapporto complesso di distanza critica, che non abolisce la filiazione indiretta, senza la quale la storia smetterebbe di fare sentire una voce distinta nell’ambito delle varie scienze sociali. I due aspetti di questa derivazione devono essere valutati con uguale serietà: non solo il carattere indiretto, ma anche l’insuperabilità della filiazione narrativa della storia39. 39 Cfr. P. Ricœur, Temps et récit I, cit., capitolo terzo: «L’intenzionalità storica», pp. 247-313.

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Contro l’idea troppo semplice, secondo cui la storia sarebbe una specie del genere story in virtù del carattere «auto-esplicativo» del racconto, occorre insistere da una parte sul lavoro di giustificazione inaugurato dalla critica documentaria e attuato dalla riflessione critica sulle diverse modalità di spiegazione messe in moto dalla storia-ricerca. Con la storia-ricerca, qui opposta alla storia-racconto40, la forma esplicativa diviene autonoma. Diventa la posta in gioco distinta di un processo di autentificazione e di giustificazione. In questo caso, lo storico si ritrova nella stessa posizione del giudice, in una situazione reale o potenziale di contestazione, e cerca di provare che questa spiegazione vale più di quell’altra. Egli cerca quindi «garanzie», tra cui in primo luogo la prova documentaria. Una cosa è spiegare raccontando, altra cosa è discutere della spiegazione stessa per sottoporla alla discussione e al giudizio di un auditorio, se non universale, almeno considerato competente, composto quindi da altri storici. Tale autonomizzazione della spiegazione storica presenta molteplici aspetti: si tratti del lavoro della concettualizzazione applicata ai concetti universali costruiti dalla storia – schiavitù, rivoluzione industriale, Stato, classi e gruppi sociali, ecc. – o della caccia ai pregiudizi, alle implicazioni ideologiche, che assicura l’oggettività della conoscenza storica, o ancora dell’analisi precisa dei livelli di spiegazione – economico, sociale, politico, culturale, ecc. – e della loro relativa priorità in contesti differenti, o infine della pluralizzazione dei tempi della storia (di cui la distinzione braudeliana tra breve durata, lunga durata e tempo quasi immobile rappresenta una delle migliori illustrazioni). In tutte queste maniere si stabilisce uno scarto tra la spiegazione narrativa non critica e la spiegazione storica congiunta con la prova documentaria. Eppure, malgrado le molteplici implicazioni di questa frattura epistemologica, con il racconto la storia mantiene comunque ciò 40 Su questo punto c’è una coincidenza di posizioni fra K. Pomian, L’ordre du temps, cit., p. 21 e F. Furet «De l’histoire-récit à l’histoire-problème», cit.

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che ho appena chiamato un rapporto di filiazione indiretta, che si esprime anch’esso in molteplici modi: innanzi tutto l’imputazione causale singolare, teorizzata da Weber e Aron, mi sembra costituire una mediazione appropriata tra la comprensione narrativa di cui parlano gli autori narrativisti e la spiegazione attraverso leggi, diciamo tra la spiegazione attraverso la costruzione dell’intreccio e la spiegazione nomologica. In forza di una tale mediazione, la nozione di intreccio può essere estesa analogicamente a concatenazioni molto astratte. In secondo luogo, a questa derivazione a livello delle procedure corrisponde una derivazione a livello delle entità, cui fa ricorso il discorso storico: la storia, infatti, riferisce i cambiamenti che s’impegna a spiegare a delle entità costruite, come strutture e congiunture economico-sociali, istituzioni culturali e politiche, correnti di pensiero, mentalità, ecc. Alla filosofia critica della storia spetta il compito di istituire una gerarchia fra tali entità. Al riguardo, la distinzione proposta da Maurice Mandelbaum tra le entità della «storia generale» e quelle delle «storie speciali» è molto chiarificatrice41. La storia generale, secondo lui, si occupa delle singole società, come i popoli e le nazioni la cui esistenza è continua. Le storie speciali s’interessano agli aspetti astratti della cultura, come la tecnologia, l’arte, la scienza, la religione, che, per la mancanza di una continua esistenza propria, sono legati tra loro solo attraverso l’azione dello storico, responsabile della definizione di ciò che conta come arte, scienza, religione, ecc.; queste società particolari, considerate come entità la cui esistenza è continua, possono essere considerate come quasi-personaggi, a metà strada tra i personaggi di un racconto e le entità astratte delle storie speciali. È l’imputazione causale singolare, di cui abbiamo ricordato l’affinità con la costruzione dell’intreccio, a giustificare che a questo proposito si parli di quasi-intreccio. Per questa 41

M. Mandelbaum, The Anatomy of Historical Knowledge, cit.

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via la nozione della società nel senso di Mandelbaum offre un collegamento significativo per derivare entità storiche a partire dai personaggi del racconto. In terzo luogo, il tempo storico, evocato per la prima volta alla fine della nostra ricerca sul livello documentario, resta in un rapporto di filiazione indiretta rispetto alla temporalità delle configurazioni narrative. A dire il vero, non si dovrebbe parlare del tempo della storia ma dei tempi della storia, a seconda che si ponga l’accento sull’incastro delle durate o sui ritmi e le ricorrenze cicliche, sulle permanenze e sulle fluttuazioni – strutture e congiunture. La distanza più grande tra la storia scientifica e il racconto tradizionale si esprime infine nel trattamento dell’evento come discontinuità constatata all’interno di un modello. Sembra, quindi, che non sia rimasto più niente della peripeteia, correlata con l’intreccio nella Poetica di Aristotele. Detto questo, la storia rimarrebbe se stessa se non raccogliesse gli eventi che segnano la discontinuità delle strutture in un racconto inglobante che, nel complesso, conduce da una situazione iniziale a una situazione terminale attraverso trasformazioni regolate? Così, nella grande opera di Braudel, non è solo la pura storia degli eventi, trattata nella terza parte, che s’inscrive nelle strutture narrative, ma è anche la disposizione in tre livelli che produce ciò che possiamo chiamare un quasi-intreccio, il cui personaggio principale è il Mediterraneo, di cui si «raccontano» la grandezza e il declino sulla grande scena del mondo. In tali intrecci si articolano strutture, congiunture, eventi. All’interno di tali strutture narrative complesse, l’evento non è certo più la breve scossa che Braudel tiene a distanza. Tuttavia, in quanto discontinuità constatata nelle strutture, esso non smette di influenzare gli uomini che agiscono o patiscono, facendosi veicolo attivo dei cambiamenti della loro sorte. Tale è il senso derivato in cui si può dire che la storia la meno evenemenziale, e la più diffidente circa le sue fonti narrative, si costruisce ancora nel modo configurante della narrazione.

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3. La scrittura della storia Considerando la struttura narrativa della storia, abbiamo aperto la strada a un terzo tipo di filosofia critica centrata sulla sua dimensione letteraria, come suggerisce il termine storiografia, nel senso preciso e forte di scrittura della storia. Per le due modalità precedenti di filosofia critica, la scrittura sembra semplicemente aggiungersi al vero lavoro dello storico, alla ricerca intesa come somma della critica documentaria e della spiegazione. Non si pensa che la scrittura possa contribuire al valore cognitivo della storia. Si suppone che la spiegazione sia completa, prima di essere comunicata a un pubblico con lo scritto. Nel quadro dell’epistemologia della storia, l’interesse per la forma narrativa crea invece una situazione nuova, in cui sembra non sia più possibile distinguere tra il pensiero e il linguaggio. La forma narrativa è inscindibilmente atto intellettuale e atto linguistico. Ma ciò che più di ogni altra cosa ha contribuito ad abbattere il tradizionale muro tra la ricerca e la scrittura, è stato l’accostamento tra il racconto storico e il racconto di finzione, malgrado la cura messa nel preservare la dimensione cognitiva della forma narrativa stessa, come abbiamo visto in Mink. Le difficoltà incontrate da questo autore nel distinguere la storia dalla finzione testimoniano il fascino esercitato sulla teoria della storia da una critica letteraria legata alla forma narrativa in se stessa, scissa dalla pretesa di verità che dovrebbe opporre la storia alla finzione. Così, negli anni ’70 si è costituita una terza forma di filosofia critica, nella cui prospettiva la scrittura ha smesso di essere un fenomeno aggiunto alla conoscenza storica, al punto di diventare un fattore costitutivo della rappresentazione del passato. Il termine di riferimento per la storia, allora, non è più la scienza ma la letteratura, più precisamente la parte della letteratura rivolta alle opere di finzione in prosa; i criteri della scientificità cedono il passo a quelli della letterarietà. Come si può già anticipare, il prezzo da pagare per questo cambiamento dell’orizzonte di riferimento è pesante, poiché esso fa diventare

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più difficile rendere conto della pretesa alla verità che lo storico lega spontaneamente all’idea della rappresentazione del passato. Il trattamento della storia come artefatto letterario è comparso contemporaneamente in ambito anglosassone e francese, sebbene in forza di ragioni molto differenti. Nell’ambito francese, la critica della storiografia fa parte di una strategia generale di sospetto diretta contro l’insieme delle pratiche rappresentative, di cui la storia è la punta di diamante e la narratività il canale privilegiato. Il sospetto è solo una manifestazione dell’anti-umanesimo comune a tutti quei pensatori che nell’area anglosassone si è soliti collocare sotto l’etichetta di post-strutturalisti – da Jacques Lacan e Louis Althusser a Michel Foucault, da Roland Barthes a Jacques Derrida e Julia Kristeva. È in quanto pratica, infatti, che la storia diventa bersaglio del sospetto, nella misura in cui essa contribuisce a produrre un soggetto umano inserito in un sistema di potere che gli dà l’illusione di dominare se stesso, la natura e la storia. Ciò che ora occorre precisare è proprio questo: la storia è accusata di esercitare questa funzione ideologica appunto in quanto pratica rappresentativa. Il Discours de l’histoire di Roland Barthes costituisce un esempio forte di questo genere di critica del sospetto42. Una corrosiva analisi è qui condotta con le armi della linguistica, cioè da un lato la distinzione tra l’enunciazione e l’enunciato e, dall’altro, per quanto riguarda l’enunciato, la triade significante-significato-referente. Ora, in una concezione saussuriana, l’unica coppia pertinente è quella significante-significato, mentre il referente è considerato come un elemento extralinguistico. La questione è allora quella di sapere se sia legittimo un discorso come quello della storia, dove l’enunciato sembra regolarsi e fondarsi sull’extralin42 R. Barthes, «Le discours de l’histoire», Social Science Information, 6, 1967, pp. 63-75, ripreso in Le bruissement du langage, Seuil, Paris 1984; trad. it. di B. Belletto, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988, pp. 137-149.

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guistico per eccellenza: il passato. Un primo motivo di diffidenza è dovuto al fatto che, nel discorso di uno storico, l’enunciante vuole assentarsi dal suo discorso, al punto che la storia sembra raccontarsi da sola. Tale «mancanza di segni dell’enunciante» ha per contropartita l’illusione referenziale comune al romanzo realista e alla storia narrativa. Essa consiste nel fatto che il referente, che si suppone esterno e con ruolo di fondamento, cioè il tempo delle res gestae, è ipostatizzato a spese del significato, ovvero del senso che lo storico attribuisce ai fatti riportati; si produce così un cortocircuito tra il referente e il significante, e il «discorso incaricato soltanto di esprimere il reale crede di fare economia del termine fondamentale delle strutture immaginarie, che è il significato». Tale fusione del referente e del significato a favore del referente produce l’effetto di realtà, in virtù del quale il referente, trasformato surrettiziamente in un significato «che si vergogna», è rivestito dal privilegio della formula: «è accaduto». La storia fornisce quindi l’illusione di trovare il reale che rappresenta. In verità, il suo discorso è solo «un discorso performativo truccato, in cui il costatato, ossia il descrittivo (apparente), è solo il significante dell’atto di parola come atto d’autorità». Alla fine del suo articolo, Barthes plaude al declino della storia narrativa e al successo della storia strutturale; ai suoi occhi, si tratta di una trasformazione ideologica, più che di un cambiamento di scuola: «la narrazione storica muore perché il segno della storia è ormai più l’intelligibile che il reale». Alla base di questa critica si possono distinguere due moventi, che s’incrociano in questa fase dell’opera di Barthes. Da un lato, la semiologia è mobilitata in favore della critica ideologica: se la storia può contribuire a produrre una certa immagine dell’uomo, di carattere reazionario e repressivo, questo può avvenire perché essa dà l’illusione di trovare il reale che rappresenta, mentre al contrario lo costituisce. Attraverso tale sotterfugio, la storia, che lo voglia o meno, inizia a diffondere l’immagine dell’uomo privilegiata dalla sua rappresentazione storica. Dall’altro, la strategia linguistica punta alla glorificazione del

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linguaggio in se stesso, contro ogni presa del reale su di esso. Il reale storico è solo una sfaccettatura del reale, dichiarato nemico mortale dell’onnipotente linguaggio. Restava da precisare il meccanismo di questa evizione del significato, estromesso dal presunto referente. A questo tema è dedicato il secondo saggio, intitolato precisamente L’effet de réel 43. La chiave dell’enigma viene cercata dal lato del ruolo esercitato dalle notazioni nel romanzo realista e nella storia a esso contemporanea, ovvero i dettagli «superflui», che in nessuna maniera contribuiscono alla struttura semiotica del racconto, alla sua freccia di senso, che, all’interno dello stesso discorso retrospettivo, funziona in maniera predittiva: le notazioni non sono giustificate da nessuna finalità di azione o di comunicazione; sono «zone insignificanti», in rapporto al senso imposto al corso del racconto. Da tale insignificanza si deve partire per rendere conto dell’effetto di realtà. Prima del romanzo realista, le notazioni contribuivano a una verosimiglianza di natura puramente estetica e per nulla referenziale; l’illusione referenziale consiste nel trasformare la «resistenza al senso» della notazione in resistenza «di un supposto reale»: per questo c’è una rottura tra il verosimile antico e il realismo moderno. Ma così nasce anche una nuova verosimiglianza, che è precisamente il realismo, ovvero «ogni discorso che accetta delle enunciazioni accreditate da un solo referente». Proprio questo succede nella storia, dove «l’essere-stato-là delle cose è un principio sufficiente della parola». Sostenere un tale argomento equivale a trasferire un tratto importante del romanzo realista del XIX secolo nel racconto storico. Viene qui compiuto un passo che nessuno aveva mai osato compiere, a costo di lasciare, come Louis O. Mink, allo stato di enigma non risolto la differenza tra la storia e il romanzo. Possiamo chiederci tuttavia se l’esclusione di prin43 R. Barthes, «L’effet de réel», Communications 11. Recherches sémiologiques, le vraisemblable, 1968, pp. 84-89, ripreso in Le bruissement du langage, cit., pp. 153-174; trad. it. in Il brusio della lingua, cit., pp. 151-159.

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cipio della referenza in una teoria generale del linguaggio di origine saussuriana, che conosce solo la distinzione interna al segno tra il significante e il significato, non faccia violenza a un tratto fondamentale della storia, ossia al fatto che la forma narrativa è costruita su enunciati individuali che riguardano fatti isolati e occupano il posto delle notazioni nel romanzo naturalista. L’apparato critico che li accompagna, li sostiene e ha l’aspetto testuale dell’annotazione, resta – mi sembra – l’indiscutibile difensore della pretesa alla verità della storia, almeno a livello degli enunciati individuali sul passato. A questo riguardo, la classificazione di certi romanzi come realisti non dovrebbe essere usata al di fuori della letteratura di finzione. Il fatto che certe finzioni producano «un effetto di realtà», nella maniera sottilmente analizzata da Barthes, non ci aiuta a capire come nella storia si articolino in maniera originale la prova documentaria, la spiegazione (causale-finale) e la messa in forma narrativa. Questa triplice ossatura rimane il segreto della conoscenza storica. In ambito anglosassone il fattore decisivo è stato la comparsa nel 1973 dell’opera di Hayden White Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, seguita da Tropics of Discourse nel 1978 e da The Content and the Form nel 198744. La prima conseguenza dello spostamento della storiogra44 H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, The Jonhs Hopkins U. P., Baltimore-London 1973; trad. it. di P. Vituliano, Retorica e storia, Guida, Napoli 1978; Tropics of Discourse. Essays in Cultural Criticism, The Jonhs Hopkins U. P., Baltimore-London 1978; The Content of the Form: Narrative Discourse and Historical Representation, The

Jonhs Hopkins U. P., Baltimore-London 1987. Una veduta d’insieme e un esame dettagliato del dibattito sulla storiografia nel mondo anglosassone sono offerti dalle collezioni «Supplements» della rivista History and Theory (Wesleyan University): Beiheft 6, «History and the Concept of Time»; Beiheft 14, «Essays on Historicism»; Beiheft 16, «The Constitution of the Historical Past»; Beiheft 19, «Metahistory: Six Critiques»; Beiheft 25, «Knowing and Telling History: The Anglo-saxon Debate»; Beiheft 26, «The Representation of Historical Events».

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fia dal campo epistemologico al campo letterario è un abbassamento della barriera tra la filosofia speculativa della storia e la storia degli storici. Tra gli otto autori che Metahistory considera come i rappresentanti della coscienza storica del XIX secolo, quattro sono storici – Michelet, Ranke, Tocqueville, Burckhardt – e quattro sono filosofi della storia – Hegel, Marx, Nietzsche e Croce. Tale raggruppamento rimette in dubbio quella separazione tra filosofia speculativa e filosofia critica della storia, che è stata il presupposto comune agli autori considerati nelle due sezioni precedenti. Dal punto di vista della scrittura, la principale frattura passa tra da un lato le monografie e i documenti degli archivi, dall’altro l’elaborazione di una struttura verbale di grado superiore che mira a rappresentare il passato. I paradigmi che presiedono a tale elaborazione sono comuni agli storici e ai filosofi citati in precedenza. White chiama meta-storico questo nuovo approccio, poiché esso tratta delle strategie interpretative che, tanto secondo i filosofi quanto secondo gli storici, presiedono all’organizzazione del campo storico. Per quanto riguarda questa prima proposizione, si deve ammettere che i quattro storici considerati non sono per niente rappresentativi di quello che è diventata la storia nel XX secolo; sotto l’egida del positivismo o sotto la pressione della storia economica e sociale, essa mirava più alla spiegazione di un segmento delimitato del passato – dal punto di vista dell’interconnessione tra livelli o strati multipli all’interno di una stessa parte della storia –, che al senso della storia universale. Nelle grandi opere storiche di Michelet, Ranke, Tocqueville e Burckhardt possiamo cogliere una visione dell’insieme del mondo storico, fondata su uno sguardo che penetra fino a energie nascoste che loro stessi o i loro lettori potevano ritenere universalmente valide. Più che la scelta degli autori menzionati, è stata comunque l’affinità tra i paradigmi che organizzano il campo storico e quelli che presiedono alla composizione delle finzioni letterarie a provocare il declassamento della storia come conoscenza di ambizione scientifica e la sua riclassificazione come artefatto letterario e a

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causare come corollario l’indebolimento dei criteri epistemologici per distinguere la storia propriamente detta dalla filosofia della storia. La ricerca di tali paradigmi sarà quindi esplicitamente formalista, nella misura in cui la distinzione tra la finzione letteraria e la storiografia è considerata poco pertinente, alla stessa stregua della distinzione tra la storiografia e la filosofia speculativa della storia. White comincia con l’ordinare i livelli di concettualizzazione presenti in ogni opera storica in una scala ascendente, supponendo che al di qua del primo livello ci sia solo «the unprocessed historical record», in altre parole un dato libero da ogni ordine, prima che la storia vi abbia impresso il proprio in funzione dei paradigmi di cui ora diremo. Al grado più basso, la «cronaca» introduce un ordine temporale di pura successione. A questo ordine puramente sequenziale, la «story» impone poi l’inizio, il contenuto e la fine. In seguito l’emplotment – la messa in intrigo – colloca la storia raccontata in una classe di racconti, indipendentemente dagli eventi narrati. White riprende da Northrop Frye la tipologia della costruzione dell’intreccio: romanzesco, tragico, comico, satirico – ove l’ultimo si oppone globalmente ai tre precedenti, in quanto questi con il loro epilogo annunciano una riconciliazione degli uomini con il loro destino. La spiegazione per «argomento» si presta a sua volta a una nuova tipologia, corrispondente ai quattro grandi paradigmi, la cui definizione White prende in prestito da World Hypotheses di Stephen Pepper45: formista, organicista, meccanicista, contestualista. Al vertice di questa scala Metahistory colloca la spiegazione attraverso «l’implicazione ideologica», che fa prevalere le prese di posizione etiche che legano la spiegazione dei fatti passati alla pratica presente; seguendo Ideologia e utopia di Karl Mannheim, White postula quattro posizioni ideologiche di base: anarchismo, conservatorismo, radicalismo, liberalismo. 45 S. C. Pepper, World Hypotheses. A Study in Evidence, University of California Press, Berkeley 1942 [N. d. T.].

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Se ci si attenesse agli ultimi tre livelli – costruzione dell’intreccio, argomentazione, ideologia – si potrebbe ancora assimilare Metahistory alla corrente narrativista, secondo la quale il racconto è un modo esplicativo, che fa quindi capo all’interesse epistemologico altrettanto, se non di più, che a quello letterario. Ma l’ultima serie di quattro paradigmi fa definitivamente pendere la teoria della storia dal lato della letteratura, piuttosto che da quello di qualche protoscienza. Questi paradigmi, che nessuna teoria della scienza ha mai preso in considerazione prima di White, dipendono dalla parte della retorica chiamata tropologia. Si tratta dei quattro tropi considerati da Giambattista Vico: metafora, metonimia, sineddoche, ironia. Qui il modo di narrazione ha la meglio sulla relazione tra gli eventi raccontati, poiché le tre strategie considerate più in alto si trovano alla fine incluse nella stessa matrice formale dei quattro tropi di base. Questo mette in rilievo retroattivamente la natura linguistica di tutti i paradigmi considerati. Ci possiamo chiedere anche se, per esempio, i modi di argomentazione e i modi di orientamento ideologico non siano privi della loro rispettiva forza di spiegazione e di implicazione a furia di essere allineati sulla struttura linguistica dei tropi. Per quale ragione attribuire un tale primato alla tropologia? La riposta va cercata nella difficoltà residuale che una teoria narrativista come quella di Mink ha contribuito a portare alla luce, senza riuscire a risolverla in maniera convincente: come risponde la tropologia all’ambizione, che distingue la storia dalla finzione, di fare della struttura narrativa un modello, un’icona del passato capace di rappresentarlo? Risposta: prima che un dato campo possa essere interpretato, è necessario che esso sia costruito alla stessa maniera di un terreno abitato da figure distinguibili. Allo scopo di figurare «ciò che è veramente accaduto» nel passato, lo storico deve prima prefigurare l’insieme degli eventi riportati nei documenti. La funzione di tale operazione poetica è quella di disegnare nel «campo storico» degli itinerari possibili e stabilire così una prima definizione di possibili oggetti di conoscenza. L’intenzione

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è certamente orientata verso ciò che è veramente accaduto nel passato. Ma il paradosso è che non possiamo designare questo stato anteriore a qualsivoglia racconto se non prefigurandolo. Ci si può chiedere tuttavia se il ricorso alla tropologia non abbia un effetto opposto a quello inizialmente ricercato, cioè quello di rendere conto della pretesa della storia di rappresentare il passato reale. In quanto prefigurazione del campo storico, la messa in forma tropologica priva di ogni senso autonomo l’idea di un passato effettivo, dotato di una propria struttura. Prima della prefigurazione, non c’è niente di già organizzato che potrebbe essere rappresentato. L’autore ne conviene: «È attraverso la figurazione che la storia costituisce il vero soggetto del discorso». La nozione di icona, quindi, si allontana molto da quella del modello, nella misura in cui, come vedremo più avanti, non c’è più un originale dato con cui confrontare il modello. Ciò che continua a rendere enigmatica la nozione di passato – del passato che è stato reale –, è il fatto che esso non è dato da nessuna altra parte, se non nelle tracce e nei documenti che lascia dietro di sé. White non può essere censurato per il fatto che mostra il passato storico come un enigma. Né lo si può accusare di avere ricondotto in toto la storia alla finzione; al contrario, egli è particolarmente cosciente di tale pericolo. La vera risposta di White all’accusa di avere reso finzionale la storia sembra consistere nel replicare che, essendo artifici verbali, il romanzo e la storia aspirano entrambi a offrire un’immagine verbale della realtà. Piuttosto, poiché White non mostra assolutamente ciò che è realistico in ogni finzione, a essere messo in evidenza è solo il lato finzionale della rappresentazione considerata realistica. Al contempo prevale l’idea secondo la quale «ciò che dà struttura a un’opera storica non è il risultato di un’accurata ricostruzione del passato ma un atto poetico creatore». Quest’ultima considerazione va molto lontano: nonostante l’insistenza di White sulla questione della rappresentazione del passato, non è la fedeltà di tale rappresentazione che gli interessa, ma la libertà delle scelte strategiche che dominano l’organizzazione del

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campo storico. Al riguardo il sottotitolo di Metahistory non dovrebbe essere perso di vista: L’immaginazione storica nell’Europa del XIX secolo. La gloria dell’immaginazione è in fin dei conti il potere dell’innovazione. In tal senso, Hans Kellner, di cui parleremo più avanti, non ha torto nel collocare White nella linea dei grandi umanisti del Rinascimento che, da Lorenzo Valla passando per Ramus e fino a Vico, hanno sostituito la logica con la retorica. Si capisce allora che la tropologia abbia la meglio sulla spiegazione attraverso l’argomentazione, che nella tropologia l’ironia abbia la meglio sulla metafora e che l’intera Metahistory si possa presentare come un esercizio d’ironia. Ma allora diventa difficile scegliere tra due letture del sistema dei paradigmi che reggono l’immaginazione storica; si tratta di un sistema stabile e chiuso, come talvolta si dice, o di una guida per un gioco dalle combinazioni illimitate tra quattro quaterne, un gioco che apre a un processo di decostruzione sotto il segno dell’ironia? E, in entrambi i casi, il lavoro dello storico è ancora preso in considerazione? Se ci si chiede che cosa possano avere in comune l’approccio dei post-strutturalisti francesi, pronti a denunciare l’ideologia «umanista» considerata oppressiva, che si nasconde sotto «l’effetto di realtà», e la scoperta compiuta da White e dai suoi successori dei paradigmi della narratività che operano silenziosamente all’insaputa degli storici e dei loro lettori, non c’è una risposta semplice, tanto risulta difficile fare il bilancio delle convergenze e delle divergenze. Per cominciare da queste ultime, non si può rimanere insensibili al contrasto tra l’atteggiamento di sospetto della critica ideologica di Barthes e dei suoi successori – critica fondamentalmente orientata verso la decostruzione – e, dal lato di White, l’accoglienza positiva, perfino apologetica, riservata alle risorse costruttive dell’immaginazione storica. Si potrebbe parlare dell’antiumanesimo dei primi e dell’umanesimo dei secondi. Ma questa certo non trascurabile opposizione riguarda più l’orientamento generale degli autori considerati che il loro modo specifico di trattare la storiografia. La storia stessa sembra persa di vista in una

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critica globale della rappresentazione, in cui questa perde la sua identità, diventando una forma di rappresentazione narrativa fra altre. Circa il contributo di queste due scuole di pensiero allo studio specifico della storia, le convergenze sono più importanti delle divergenze. In termini negativi, in primo luogo, le considerazioni sulla codificazione, sia dell’ideologia che dell’immaginazione, restano completamente estranee alla cosiddetta nouvelle histoire degli anni ’60 e ’70, alla sua tendenza anti-narrativista, alla sua diffidenza verso gli eventi, alla sua costruzione di modelli sincronici e se possibile quantitativi, al suo interesse per i fenomeni sociali e le tendenze pesanti della storia anonima. Rispetto alla Scuola delle Annales, ai suoi eredi e ai suoi avversari, le due scuole di pensiero di cui abbiamo appena delineato le tesi, considerano come un dato acquisito il carattere fondamentalmente narrativo di ogni storia. Con ciò si vuole dire non solo che la cronologia è inevitabile, anche se essa non serve da filo conduttore, ma anche che ogni storia conduce da una situazione iniziale a una situazione finale, attraverso una catena di trasformazioni che toccano le azioni, le loro circostanze non scelte e i loro effetti, voluti o meno. Tale narratività è ciò che da ultimo fa la differenza tra la storia e il resto delle altre scienze. Questo è il presupposto più fondamentale condiviso dai critici anti-umanisti dell’ideologia storica e dagli apologeti umanisti dell’immaginazione storica. Che lo vogliano o meno, sotto questo profilo essi fanno parte del prolungamento della scuola «narrativista». Merita di essere sottolineato un altro accordo tacito tra gli umanisti e gli anti-umanisti, che alla fine potrebbe opporli globalmente ai «narrativisti». Entrambi considerano la scrittura una forma non aggiunta ma costitutiva della conoscenza storica. L’accostamento tra storia e letteratura diventa così proporzionale all’allontanamento della storia dalla scienza. La rottura con i difensori dell’unità della scienza diventa così più radicale di quanto non lo fosse all’epoca in cui Dilthey e i suoi successori opponevano la comprensione alla spiegazione, poiché al-

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lora si trattava ancora di una scienza o delle scienze – le scienze dello spirito – che essi opponevano alle scienze naturali. Porre l’accento sulla letteratura equivale ormai a mettere in dubbio il progetto di scientificità legata alla dimensione narrativa del discorso storico. Un sottile disaccordo emerge rispetto alla scuola «narrativista», i cui legami con la filosofia analitica anglosassone non debbono essere dimenticati. Come abbiamo già visto, Mink difendeva l’ambizione cognitiva legata alla forma narrativa in quanto tale. Ma questa finisce con il mettere in questione l’ambizione di verità, che diviene sempre più problematica, pur senza essere chiaramente negata. O meglio, per dire la stessa cosa in altro modo, a diventare fondamentalmente problematica è la nozione di realtà del passato. Mink si era reso conto di ciò che chiamava dilemma o perplessità e che io chiamo l’aporia del passato. Ricordiamo il suo imbarazzo: anche se è difficile per la filosofia fornire un criterio sicuro della verità della rappresentazione del passato e la correlativa realtà di questo passato, non si può abbandonare il progetto di trovarlo, pena non poter nemmeno definire la finzione senza poterla opporre alla non-finzione, cioè al racconto vero. Le nostre ultime riflessioni sono dedicate a questa aporia. 4. Le aporie della rappresentazione del passato Propongo di raggruppare sotto tre titoli i lavori che riguardano direttamente le aporie della rappresentazione del passato, la cui posta in gioco è il concetto stesso di realtà del passato. 4.1 L’ironia della storia Un primo modo di discuterne è quello di scavare l’aporia senza avere smania di trovarle una risposta che interrompa artificialmente l’ansioso lavoro del pensatore che ha di fronte l’abisso del non sapere. Questo coraggio dell’ansietà è l’atteggiamento dominante dell’opera di Hans Kellner Language and Historical Representa72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tion: Getting the Story Crooked 46. L’obiettivo dell’attacco è duplice e riguarda la tradizione erudita, la quale «presuppone a) che c’è una storia dove c’è qualcosa che attende di essere detto e b) che questa storia può essere detta in maniera corretta (straight) da uno storico onesto, industrioso e che usa il metodo giusto (right)»47. Contro il primo presupposto, l’autore non ha problemi a riaffermare, dopo tanti altri, che la storia non esiste prima di essere prodotta e scritta. La cosa più originale è l’affermazione che il linguaggio e la sua retorica costituiscono «un’altra fonte», accanto agli archivi e ai dati informatici, e che essa apporta qualcosa d’altro rispetto all’ordine dell’invenzione della storia. In questo caso, ad essere attaccato frontalmente è un assioma della teoria narrativista: la costruzione dell’intreccio non è di diritto una messa in ordine; le idee di forma completa, coerenza e chiusura sono esse stesse pretese sospette, che si difendono solo in ragione dell’ansietà suscitata dall’idea del disordine. C’è qualcosa di volontario e alla fine di repressivo – come si legge anche in Michel Foucault – nell’imposizione dell’ordine. La perorazione contraria in favore della discontinuità comincia dalla considerazione del documento, con l’aureola conferitagli dal prestigio degli archivi. I resti del passato sono sparsi, così come le testimonianze di questo passato; la disciplina documentaria aggiunge i suoi effetti di distruzione selettiva a tutte le modalità di perdita d’informazione che mutilano la cosiddetta «evidenza» documentaria. Così la reto46 H. Kellner, Language and Historical Representation. Getting the Story Crooked, The University of Wisconsin Press, Madison 1989; cfr. anche S. Bann, The Clothing of Clio. A Study of The Representation of History in XIXth Century Britain and France, Cambridge U. P., Cambridge 1984; cfr. anche L.

Gossman, «History and Literature: Reproduction or Signification», in R. Canary and H. Kosicki (ed.), The Writing of History. Literary Form and Historical Understanding, The University of Wisconsion Press, Madison 1978; Dominick La Capra, Rethinking Intellectual History: Texts, Contexts, Language, Cornell U. P., Ithaca-London 1987 (19831). 47 H. Kellner, Language and Historical Representation, cit., p.VII.

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rica non si aggiunge alla documentazione: la travolge già dalla fonte! Si vorrebbe allora che il racconto attenuasse l’ansietà suscitata dalle lacune dell’evidenza documentaria. Ma esso genera a sua volta nuove ansietà, legate ad altre discontinuità. Qui ha inizio il dibattito con la tropologia introdotta da White. La lettura tropologica, si dice, è qualcosa che disturba – e dunque è una nuova fonte di ansietà –, solo se sulla base dei quattro tropi di White viene costruito un nuovo sistema. Il cosiddetto «bedrock of order»48 deve essere considerato come un gioco allegorico, in cui l’ironia viene riconosciuta come il tropo dominante all’interno del sistema e al contempo come un punto di vista su di esso. Alla fine ogni tropologia è ironica, destinata a mille «giri» che permettono alle strutture linguistiche di creare delle ambiguità. Sospettiamo che White si sia fermato davanti a ciò che, con un misto di simpatia e... di ansietà, alla fine di Tropics of Discourse, lui stesso chiama the «absurdist moment»49. La messa in forma sistematica della tropologia equivale a un trattamento sineddotico (tuttoparte) dell’ironia stessa, che dovrebbe rimanere un tropo in eccesso. Mentre la retorica doveva inizialmente destabilizzare la logica, alla fine si ottiene «una retorica volontaristica che tiene a freno un’anti-logica decostruttiva». Se invece ci si abbandona a tale antilogica, non sembra che si debba porre dei limiti alla progressione divorante dell’inflazione tropologica: anche la tavola dei principi dell’intelletto di Kant si presta a una lettura tropologica. Per quanto riguarda la critica dell’illusione trascendentale, niente impedisce di vedervi il trionfo dell’ironia. Possiamo chiederci, tuttavia, se la tropologia non perda ogni pertinenza, nel momento in cui le figure del discorso diventano 48

Ivi, p. 227: «La scelta di White della tropologia come un “bedrock of order” (fondamento dell’ordine) piuttosto che come mise en abîme è una nostra affinità elettiva. Sarà interessante vedere chi lo seguirà in questo e come riuscirà a farlo». 49 Cfr. H. White, Tropics of Discourse, cit., pp. 261-282 [N. d. T.].

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figure del pensiero. Ma soprattutto ci si può chiedere cosa possano imparare gli storici da un’impresa critica nella quale non è questa o quella maniera di scrivere la storia che è accusata di dissimulare il caos sotto l’apparenza dell’ordine, ma è proprio il mestiere dello storico, in quanto disciplina istituzionalizzata, che figura come una resistenza voluta e organizzata al fine di «getting the story crooked». La perorazione della retorica si trova paradossalmente in una situazione paragonabile a quella della difesa del CLM: mentre questo indicava allo storico come doveva scrivere la storia, il primo gli dice come non la può più scrivere. Se a questo punto la filosofia della storia si allontana dal campo di lavoro dello storico, non sarà perché la retorica, occupando tutto lo spazio, ha coinvolto in tale vertigine anche le fasi della ricerca documentaria e della spiegazione? Quando tutto diventa retorica, la questione della verità scompare, così come quella della realtà storica con essa correlata. Si crede di avere risolto la situazione attribuendo all’avversario la tesi banale secondo cui il passato in quanto tale, per essere reale, dovrebbe avere la forma di una story che attende di essere raccontata. Il problema che pongo alla fine di questo studio è quello di suggerire una nozione della realtà del passato in cui ciò che è accaduto non abbia già una forma di racconto. È la posizione corretta di tale problema, se non la sua soluzione, che ci avvicina all’opera di Franklin Rudolf Ankersmit. 4.2 La logica narrativa e l’effetto di realtà In Narrative Logic. A Semantic Analysis of the Historian’s Language, Ankersmit considera come un dato acquisito, da una parte, che il centro di gravità della filosofia della storia si è definitivamente spostato dal piano della ricerca – CLM, ruolo dei valori nella storia, teoria ermeneutica – a quello della scrittura, dall’altra, che le indagini sulla scrittura e sulla sua dimensione narrativa si

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sovrappongono50. Ma allora questa indagine non va affidata a una retorica ma a una «logica filosofica», nel senso di Peter Frederick Strawson. Essa si applica essenzialmente alle grandi unità narrative, spesso designate da un nome proprio o da un suo equivalente (descrizioni definite), come per esempio il Rinascimento italiano, la Rivoluzione francese e la Guerra fredda. La questione filosofica che queste entità significative pongono è precisamente il senso e la legittimità della pretesa, che lo storico conferisce loro, di rappresentare qualcosa del passato. L’autore non pensa che Braudel e la Scuola delle Annales abbiano rifiutato il carattere narrativo della storiografia. Al contrario, proprio allontanandosi dalla histoire événementielle e operando un’intersezione tra vari strati – economico, sociale, politico, culturale –, essi hanno fatto emergere queste autentiche entità narrative, oggetto di una logica filosofica: la Méditerranée di Braudel è una di queste entità narrativa. Ankersmit ha scelto di chiamare narratios – o «sostanze narrative» – le costruzioni storiche dello stesso genere di quelle che abbiamo appena enumerato51. La logica filosofica li tratta come soggetti logici identificati con il loro nome (o con quello che ne tiene il luogo) all’interno di proposizioni che enunciano le caratteristiche essenziali di queste sostanze: la Guerra fredda è..., consiste in..., ecc. Si fa così largo una prima tesi: la storia è fatta essenzialmente di enunciati singolari. C’è solo un Rinascimento italiano, una Rivoluzione francese, una Guerra fredda. C’è sempre solo un racconto prodotto da uno storico concreto. È dunque vana la battaglia sull’evento, considerato come qualcosa di non-ripetibile; ciò 50

F. R. Ankersmit, Narrative Logic. A Semantic Analysis of the Historian’s Language, M. Nijhoff, La Haye-Boston-London 1983. 51

Ivi, p. 28: «le dichiarazioni che esprimono fatti saranno le proprietà delle

sostanze narrative. Le sostanze narrative sono le collezioni di tali dichiarazioni in una narratio che contiene […] il messagio cognitivo della narratio»; p. 70: «Un racconto è come una parola che è pronunciata una sola volta».

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che non è ripetibile è la narratio, ossia il racconto proposto da uno storico che tratta di una sostanza narrativa singolare. La seconda tesi riguarda la questione della verità: se il livello pertinente è quello del racconto globale, la questione della verità differisce, a seconda che si considerino degli enunciati parziali, anzi puntuali, sottoposti alla verifica documentaria, o degli enunciati che riguardano entità inglobanti. I primi possono essere veri o falsi, i secondi no. Eppure sono questi a determinare il destino della conoscenza storica, non gli enunciati frammentari. Al riguardo, Ankersmit cerca di dimostrare che nessuna teoria disponibile della verità conviene al livello della narratio; soprattutto non la teoria della verità come corrispondenza: non si può paragonare una narratio a qualcosa che si possa mostrare. Si può paragonare una narratio solo con un’altra narratio che tratta dello stesso tema, e argomentare a favore della superiorità di una sull’altra. Quanto alla singolarità della narratio, anch’essa esclude la teoria della verità come coerenza, se con essa si intende la coerenza della narratio completa con altri enunciati che siamo pronti d’altro canto ad accettare. La terza tesi è decisiva per quanto concerne la questione della realtà del passato. L’opera di Ankersmit consiste in una energica perorazione a favore dell’idealismo narrativo contro il realismo. Le narratios non si riferiscono a cose o ad aspetti del passato, in quanto esse sono autonome rispetto agli enunciati parziali o puntuali, gli unici a essere falsificati per via documentaria. A questo proposito, è significativo che il realismo narrativo venga quasi completamente identificato con l’adozione dell’una o dell’altra variante della picture-theory – si tratti di proiezione nel senso cartografico, di traduzione (che supporrebbe la somiglianza strutturale fra i due testi), di ritratto o di pittura di paesaggio. Va parimenti respinto il suggerimento di Mink, secondo cui il passato è una «storia non raccontata»: «il passato, in quanto tale, non ha strutture narrative. Le strutture narrative compaiono solo nella narratio». Eppure Ankersmit non elimina dal suo discorso la parola passato,

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se non nel momento in cui afferma che i nostri racconti non gli assomigliano, o che «il passato stesso non impone i modi in cui lo si dovrebbe rappresentare». La persistenza del termine rappresentazione, e anche di «immagine» (seppure tra virgolette) è qualcosa che disturba52. Ci si può chiedere se presa globalmente la narratio sia così interamente indipendente dagli enunciati singolari, da non mantenere più attraverso essi alcun punto di ancoraggio nei fatti verificabili, anche ammettendo che questi fatti assumono una nuova funzione, prendendo posto nel racconto singolo di un dato storico. L’idealismo professato al livello della narratio riesce a eliminare la portata referenziale degli enunciati parziali sui quali si innalza? La questione si pone in modo acuto per i nomi propri o le descrizioni identificanti, che compaiono nei due registri proposizionali. L’entrata nella narrazione, se possiamo chiamarla così, che per esempio rende Napoleone un personaggio in un certo racconto – Napoleone secondo lo storico N –, abolisce forse il valore referenziale del personaggio storico attestato dai documenti? La stessa questione ritorna quando la storia riprende concetti delle scienze sociali, come il prodotto nazionale, il reddito medio, che sembrano riferirsi a cose empiriche e prestarsi a regole di traduzione. L’idealismo narrativo obbliga a costruire un muro tra le entità storiche e i fatti sociali incorporati nella narrazione. Nuova tesi: una volta stabilito l’idealismo narrativo, Ankersmit può mettere in campo il dispositivo leibnizniano della proposizione che ha annunciato la scelta del termine sostanza nell’espressione sostanza narrativa. A partire da Aristotele, la sostanza è ciò che non è predicabile di un altro soggetto e il predicato è ciò che di essa viene detto. Con Leibniz si va più lontano: in certo modo il predicato è contenuto nel soggetto, che non fa altro che svilupparlo. Proprio questo è ciò che deve dirsi della narratio: tutto ciò che si dice della Guerra fredda non fa altro che esplicitare ciò 52 Si faccia caso alla frequenza dell’espressione «rappresentazione narrativa del passato», per es., pp. 93, 124.

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che è significato dall’espressione «Guerra fredda». Tale chiusura su se stessa della narratio, concentrata nella sostanza narrativa e sviluppata nei predicati che la esplicitano, è il coronamento dell’idealismo narrativo, il quale si arricchisce allo stesso tempo di tutto ciò che il monadismo leibniziano permette di salvare dello storicismo della fine del XIX secolo. Questo aveva introdotto nozioni dinamiche come historische Ideen, Zeitgeist (idee storiche, spirito del tempo), che rendevano il cambiamento qualcosa di costitutivo dell’individualità. Qui entrano in gioco entità storiche come le persone, la cui identità si confonde con la loro propria storia. La narratio individualizza la sostanza narrativa. Bisogna salvare questa visione dinamica dalla sua compromissione con il realismo storico53. L’idealismo narrativo è ora completo. Resta solo da trarne la conseguenza più radicale: «La “nozione completa” di Ns (Narrative susbtance) contiene tutti i suoi predicati in una relazione di necessità [...] La tesi che tutte le dichiarazioni che esprimono le proprietà di Nss (Narrative susbtances) sono analitiche è, forse, il teorema più fondamentale nella logica narrativa»54. Più di ogni altra cosa che è stata detta in precedenza, ai miei occhi questo radicalismo rende totalmente enigmatica l’affermazione secondo cui le sostanze narrative sono «visioni del passato». Cui va aggiunta quest’altra: «sebbene i punti di vista sul passato proposti dalla narratio siano parzialmente determinati dalla natura della realtà stessa, essa non si riferisce alla realtà storica». Anche se si dice che il punto di vista non rinvia alla realtà, persino nell’idealismo leibniziano della nozione completa, si riserva alla realtà un posto che assomiglia molto alla cosa in sé kantiana, senza la quale non ci sarebbe niente che appare. La difficoltà culmina negli ultimi capitoli dell’opera, dedicati all’idea del punto di vista e al va53 F. R. Ankersmit, Narrative Logic, cit., p. 124: «Tutto ciò che dobbiamo fare è trasformare lo storicismo tradizionale da teoria sugli oggetti storici in una teoria della scrittura storica». 54 Ivi, p. 137.

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lore metaforico della narratio. Si può ammettere che il punto di vista sia costruito, ma in che cosa rappresenta una maniera di guardare il passato storico, se esso viene privato di ogni portata referenziale? Il punto di vista di un dato storico non rimane un punto di vista su...? Se non fosse così, esso sarebbe ancora un rapporto con il passato? Ankersmit pensa di poter eliminare la difficoltà limitando la funzione descrittiva – che il «vedere come» ha in comune con la metafora – alla funzione d’individuazione: la narratio individualizza, invitando a vedere il passato in maniera particolare. Ci si serve qui della conoscenza descrittiva ma senza dichiararlo. Il disagio aumenta quando all’idea del punto di vista si aggiunge quella di portata (scope), inteso come lo sguardo che abbraccia uno spettacolo molto vasto, come quello che si può ammirare dalla cima di un belvedere. Questo concetto di scope è così fondamentale nella logica narrativa dell’autore che alla fine determina i criteri di accettazione che consentono di preferire una narratio all’altra: in ultima istanza è preferibile la narratio che massimizza la portata della prospettiva offerta su una parte del passato. Sia pure. In tale regola di massimizzazione della portata si coglie certamente l’inizio di un’importante criteriologia e ammettiamo volentieri che nella perorazione a favore di tale narratio la portata gioca un ruolo più decisivo della coerenza interna55. Ma circa la questione della realtà del passato, l’idea della portata non fa che aggravare l’aporia. Che cosa può significare il termine realtà nella dichiarazione seguente: «I modi di guardare la realtà non sono parte della costituzione della realtà stessa»56? La proposizione è enunciata in forma negativa ma questa non ci dispensa dal parlare della costituzione della realtà in se stessa. E quando del valore esplicativo della narratio si fa un corollario della massimizzazione della sua portata, non si può evitare di chiamare il passato 55 Ivi, p. 233: «L’explanandum (parte del passato) è spiegato attraverso quel che definisce le possibilità della narratio (le affermazioni contenute in una Ns)». 56 Ivi, p. 243. Inoltre: «Il passato stesso non è una narratio».

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come la cosa da spiegare. Presentiamo la difficoltà in altro modo: se, in virtù dello scope-criterion, possiamo dire che una narratio può essere giudicata come più ampia o di più ampia portata rispetto a un’altra che tratta lo stesso soggetto, resta la questione di sapere che cosa significhi che esse riguardano lo stesso soggetto. Tale identità va cercata al livello degli enunciati di dettaglio? Si può crederlo, dato che essi possono essere detti veri o falsi. Non sono essi però a trattare lo stesso soggetto ma l’interpretazione narrativa globale57. Si tratta allora di una somiglianza di famiglia tra le narratios? Ma esse sono state definite come incommensurabili. Per essere imparziali, bisogna dire che tutte le teorie narrative esaminate – da Mink e White fino a Ankersmit – incorrono nella stessa difficoltà, che non sembra però segnalare un difetto della teoria considerata, quanto appartenere alla problematica stessa della storia. A dire il vero, non si è mai sicuri che due storie parlino della stessa cosa, al di là della cronologia e di ciò che si può chiamare cronaca-scheletro, che sta sotto l’interpretazione e assicura la congiunzione tra il livello degli enunciati singolari e quello dell’interpretazione globale. A questo si dovrebbe forse aggiungere un effetto di sconfinamento tra narratios, create al livello della cultura comune, dunque della ricezione e dell’accettazione da parte del pubblico, piuttosto che al livello della scrittura. Non bisogna dimenticare, infatti, che la teoria della scrittura è incompleta senza l’integrazione di una teoria della lettura: è da questo lato che, in una tradizione di lettura, si educa la competenza a giudicare non solo la portata di una narratio ma anche la sua eventuale intersezione con altre narratios. Dire questo equivale a una seria correzione della tesi della incommensurabilità delle narratios. Vero è che questa intersezione, e l’effetto di sconfinamento che ne risulta, non equivale a includere in un unico genere due racconti che si ritiene trattino lo stesso soggetto. Si tratta comun57 Ibid.: «L’idealismo narrativo separa il livello delle affermazioni sul passato e il livello dell’interpretazione narrative del passato».

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que di un correttivo, soprattutto se si considera il fatto che raramente uno storico è il primo a trattare di un dato periodo o di una data corrente di pensiero. Il suo intento è piuttosto quello di correggere ciò che i suoi predecessori hanno scritto sullo stesso soggetto. Si può concedere che si tratta di un’identità sfumata e dire senza paradosso che la Rivoluzione francese secondo Furet ha poche cose in comune con la Rivoluzione francese secondo Michelet. Eppure sono proprio queste poche cose a salvare l’identità sfumata indicata dalla denominazione. Al riguardo Ankersmit non si è sbagliato sugli aspetti insoliti della storiografia che, in quanto tali, richiedono identità sfumate e definizioni vaghe. In un saggio posteriore a Narrative Logic, Ankermit affronta direttamente la difficoltà che l’opera del 1983 aveva, se non escluso, trattato in maniera marginale, seguendo in ciò la tendenza della filosofia critica della storia preoccupata soltanto di difendere l’aspetto costruttivista della conoscenza storica58. Come indica il titolo del saggio, è con la nozione di «effetto di realtà» introdotta da Barthes che occorre infine misurarsi. Ankersmit non è affatto convinto del presunto paralellismo tra la storia e il romanzo realista del XIX secolo, e ancora meno del meccanismo immaginato da Barthes per spiegare la produzione di tale effetto, ovvero l’uso della notazione, cioè un’accumulazione di dettagli a scopo de58 F. R. Ankersmit, The Reality Effects in the Writing of History. The Dinamics of Historiographical Topology, Koninklikje Nederlandse Akademie

van Wetenschappn, Amsterdam 1989. Il testo non ritorna sulla critica della verità come corrispondenza; nessun originale è disponibile per la comparazione con il testo storico. La questione è piuttosto quella di sapere ciò che va «considerato come» (regarded as), per es.: «La Rivoluzione Francese». Costruendo l’oggetto storico, il testo storico crea la realtà del passato. Al riguardo Ankersmit può appoggiarsi a Ernst Gombrich –: «nella pittura non crediamo più al mito dell’occhio innocente» – e al Nelson Goodman di The Language of Art e Ways of World-Making –: ci sono tante maniere di «fare il mondo» quante strategie per rappresentarlo, senza che ci sia il mondo come una realtà distinta da queste strade.

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scrittivo, spezzando il movimento predittivo che conduce la storia nel suo insieme e le conferisce un significato. La coppia notazione-senso sembra piuttosto appartenere al romanzo storico in quanto imitazione della storia. Nella storia gli enunciati isolati che trattano i fatti attestati nella documentazione occupano il posto della notazione nel romanzo storico. Lo spostamento della discussione dal modello romanzesco al modello pittorico – ritratto, paesaggio – non cambia per nulla la questione. Mette piuttosto in rilievo la debolezza di ogni impresa che non prenda in considerazione il fatto che la realtà che si presume di rappresentare riguarda il carattere propriamente temporale del passato, cioè il suo essere stato e non esistere più. Se c’è qualcosa che il testo storico non può creare, è proprio il fatto che il passato è esistito e non esiste più. La nozione di paesaggio non implica nessuna referenza al passato. È indifferente a ogni posizione nel tempo. Tuttavia l’introduzione del concetto di «quadro» (frame), sulla scorta di Meyer Shapiro59, mette sulla strada del terzo approccio alla questione della realtà del passato che propongo di prendere in considerazione. Ankersmit nota in effetti che l’analogo del frame

consiste precisamente nella differenza tra la realtà del passato e il presente60. Non resta che fare di questo «tacit frame» il tema di una distinta riflessione.

59

M. Shapiro, «On Some Problems in the Semiotics of Visual Art, Field and Vehicle in Image-signs», Semiotica, I, 1969, pp. 224-225. 60 F. R. Ankersmit, The Reality Effects in the Writing of History, cit., p. 27: «La struttura è la transizione tra passato e presente, il confine tra i due, e quindi consiste di ciò che non è sottoposto all’indagine storica». Ivi, p. 26: «Se possiamo dire che […] conosciamo la realtà del passato soltanto in e attraverso rappresentazioni del passato, e se l’assunzione di una differenza tra la realtà del passato e il presente è inoltre una condizione per qualsivoglia scrittura storica, allora ogni scrittura storica deve essere racchiusa in una tale struttura».

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4.3 Il passato o «l’assente della storia» Può sembrare sorprendente che abbiamo potuto spingere le nostre considerazioni sulla storiografia fino a questo stadio, senza menzionare la dimensione temporale presupposta da espressioni in apparenza innocenti come rappresentazione del passato, immagine di una parte del passato, ecc. Abbiamo quindi lasciato senza commento la definizione della storia di Marc Bloch: «La storia è la scienza degli uomini nel tempo». I sostenitori della scuola narrativista si sono talmente impegnati nel rifiutare l’idea secondo la quale il passato consisterebbe in una storia non raccontata e nell’esorcizzare l’idea correlata della verità come corrispondenza, che hanno dimenticato di notare che la storia ha a che fare con ciò che una volta fu presente e che oggi non lo è più. Ma sembra evidente che tale rapporto con l’«essere stato-non essere più» del passato fa parte dell’intenzionalità della coscienza storica. In virtù di questo rapporto – che rappresenta a sua volta un problema –, le costruzioni dello storico intendono essere ricostruzioni più o meno vicine a ciò che un giorno fu reale. È come se lo storico sapesse di avere contratto un debito verso gli uomini di una volta, verso i morti. Compito della riflessione filosofica è portare alla luce le presupposizioni di questo realismo tacito, che non riesce ad abolire il costruttivismo comune alla tendenza epistemologica e alla tendenza narrativista delle filosofie critiche della storia. Senza questo legame di dipendenza verso ciò che un giorno fu e oggi non è più, non si potrebbe comprendere perché i filosofi della storia più «idealisti» non mostrano nessuna fretta di sbarazzarsi del vocabolario della rappresentazione e anche dell’«immagine», con o senza virgolette. Una maniera a prima vista paradossale di riconoscere la costituzione temporale della conoscenza storica è stata quella di assegnarle il compito di abolire la distanza storica. L’operazione storica è apparsa quindi come un de-straniamento, un’identificazione con ciò che un tempo fu. Una tale concezione non è priva di

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punti d’appoggio nella pratica storica. La traccia in quanto tale non è essa stessa qualcosa di presente? Risalire alla traccia non significa rendere contemporanei alle loro proprie tracce gli eventi passati a cui essa conduce? In quanto lettori di storia, non diventiamo noi stessi contemporanei agli eventi passati, grazie a una ricostruzione vivente della loro concatenazione? In breve, è possibile concepire il passato in altro modo che come qualcosa che persiste nel presente? Questa concezione identitaria è stata esposta in modo assai brillante dalla teoria di Robin George Collingwood, che considera la storia come una nuova recita o riattualizzazione (reenactement) del passato61. Lo storico non deve riattualizzare l’evento ma ciò che è interno all’evento, cioè il «pensiero» degli agenti storici. Certo, l’immaginazione costituisce una tappa necessaria della «riattualizzazione del passato nel pensiero presente dello storico». Il che consente a Rex Martin di sottolineare la parentela tra riattualizzazione e inferenza pratica. Ma la riattualizzazione che corona il lavoro dell’immaginazione equivale a esorcizzare il tempo piuttosto che ad attraversarlo. Secondo Collingwood, i pensieri sono in un certo senso eventi che accadono nel tempo ma, in altro senso – il che permette l’atto di ripensare –, essi non sono affatto nel tempo. La storia allora ha senso, solo se l’atto che lo storico riattualizza non è il suo. Tutta la teoria di Collingwood andava così in frantumi, per l’impossibilità di passare dal pensiero del passato come mio al pensiero del passato come altro, mentre era proprio questa alterità del passato che la tesi della riattualizzazione voleva annullare. Il che è una maniera indiretta di riconoscerla come l’ostacolo da superare. E così venivano di colpo cancellate le riflessioni che della distanza temporale facevano una distanza attraversata – e in questo modo preservata –, che si tratti della sopravvivenza del passato nelle trac61 R. G. Collingwood, The Idea of History, Oxford U. P., Oxford 1956; trad. it. di D. Pesce, Il concetto della storia, Fabbri, Milano 1966. R. Martin, Historical Explanation: Reenactment and Practical Inference, Cornell U. P., Ithaca-London 1977.

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ce che ha lasciato o delle tradizioni che ne trasmettono l’energia, rendendocene gli eredi. Questo esorcismo mancato della distanza temporale conferisce tutto il suo valore al tentativo di Michel de Certeau di fare dell’assenza la marca essenziale dell’essere-passato del passato. È significativo che, all’epoca di L’absent de l’histoire, a indurre inizialmente Certeau a meditare su questa categoria dell’assenza siano stati i suoi stessi lavori di storico sui grandi mistici cristiani62. Così come Dio è l’assente nel discorso mistico, il passato è l’assente nel discorso dello storico. Si deve ripensare la traccia in rapporto all’assenza. La traccia è traccia di qualcosa che c’è stato e non c’è più. La storia è allora questa scrittura, che mette in scena l’operazione che confronta l’intelligibilità del racconto con tale perdita: «Si produce così un discorso che organizza una presenza mancante». «Come il mistico, lo storico – e non solo lo storico della mistica – s’impegna a “fare parlare i silenzi”». Perché Certeau non rinuncia al discorso. Tutto al contrario, poiché l’assenza non è subita, essa è in qualche modo il frutto di un processo di straniamento. In un’epoca in cui regna lo strutturalismo, il testo storico è visto come un legame tra struttura e assenza; grazie a un tale procedimento, «diventa possibile tenere un discorso sull’assente»; o, per dire la stessa cosa, lo scarto in rapporto al passato è «l’atto stesso di costituirsi come esistente e pensante oggi». Tramite la scrittura, il discorso storico circoscrive il posto di un presente come qualcosa di distinto da ciò che rispetto a esso diventa passato. Si tratta di una scissione attiva «tramite la quale una società si defini62

M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Paris 1973; L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; «L’opération historique», in Faire de l’histoire, vol. 1, cit., pp. 3-41, ripreso con il titolo «L’opération historiographique» in L’écriture de l’histoire, pp. 73-120; trad. it. di S. Facioni, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006 [L’interesse di Certeau per la mistica è stato una costante, dall’edizione della Guide spirituel pour la perfection di Jean-Jospeh Surin e dalla Possession de Loudun alla Fable mystique: XVIe et XVIIe siècle, N. d. T.].

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sce distinguendosi dal suo altro, dal passato». Ma ciò che rende non del tutto trasparente questa operazione è il fatto che la storia tende a negare un tale scarto con tutti i mezzi retorici della messa in scena. Per questa via Certeau raggiunge le tesi di Barthes sull’effetto di realtà. Ma, a differenza di questi, nelle operazioni retoriche che tendono a dissimulare lo scarto egli vede la controparte di una vera assenza e anche il complemento di una ricerca di intelligibilità. In Écriture de l’Histoire Certeau riprende la tesi dello scarto, partendo da una riflessione più approfondita sull’operazione da cui procede la messa a distanza del passato. Anche se qualcosa del passato è ricevuto sotto la forma non solo di tracce presenti ma anche di tradizioni mescolate al presente vissuto, è soprattutto con un atto deliberato di esclusione che la tradizione viene costituita in passato. Ma esclusione di che cosa? Proprio a questo punto è proposta una riflessione sullo statuto della pratica degli storici nel suo presente vivo come premessa alla riflessione sullo scarto, sulla differenza e sull’assenza. La storia è una pratica, come Certeau ha sostenuto nel saggio del 1970 «Faire de l’histoire », poi incluso in Écriture de l’Histoire. La storia è un fare che produce un discorso. Si tratta dunque per prima cosa di interrogare la prassi presente della storia, il che porta la filosofia della storia ai confini della sociologia della «Opération historiographique » – titolo di un secondo saggio del 1974, pure incluso in Écriture de l’Histoire. Addentrarsi nel problema attraverso una riflessione sulla pratica presente crea la premessa di un approccio duplice alla nozione di reale passato: da una parte, infatti, esso è il conosciuto, in quanto risultato di un’attività cognitiva; dall’altra, esso è però anche ciò che ossessiona l’operazione scientifica stessa, in quanto pregiudizio non riconosciuto. Sotto questo profilo, esso è invero lo sconosciuto – ciò che viene obliato piuttosto che ciò che è abolito. Messo a distanza come oggetto, il passato ritorna nella pratica stessa: «il morto risorge all’interno del lavoro che ha postulato la sua scomparsa e la possibilità di analizzarlo come oggetto». Per un’altra strada si ritrova la stessa idea evocata poco prima di

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un’assenza posta e negata. Il doppio statuto del reale passato è precisato con una riflessione ulteriore sulla produzione e i luoghi di produzione della pratica storica, assai inconsueta fra gli storici di professione. Con essa Certeau si avvicina molto al Foucault della Archéologie du savoir e al primo Habermas di Erkenntnis und Interesse (1968, Conoscenza e interesse). La storia è il prodotto di luoghi che non si conoscono – istituzioni, biblioteche, rivalità di gruppi, ecc...; in questi luoghi si dispiega una pratica, che resta anch’essa poco chiara: così la tappa documentaria è preceduta da una messa in ordine dei fondi di archivi, che equivale a un’autentica ridistribuzione dello spazio. Le «fonti» della storia sono esse stesse il risultato di un’azione che istituisce, di una pratica che trasforma e che l’intervento del computer rende visibile63. Per ciò che riguarda l’evento reale, esso si ritira nel campo dello sconosciuto: è ciò che bisogna presupporre per rendere possibile un’organizzazione di documenti. L’evento è davvero il non-detto, il punto cieco che la prassi non include (qui va notata la prudenza di Certeau rispetto a Barthes e al suo famoso effetto di realtà). La prassi apre lo spazio di un rapporto paragonabile alla tappa esplicativa, cui Certeau presta maggiore attenzione e accorda più autonomia rispetto ai sostenitori del narrativismo anglosassone. La produzione è qui quella di modelli esplicativi di tutti i generi, quanto al loro statuto epistemologico. Si apre con ciò lo spazio per introdurre l’idea capitale di struttura. È in relazione con questi modelli che è possibile dare una nuova definizione dello scarto, cioè quella «di scarti relativi a modelli». Come si vede, non tutto è ricondotto alla retorica e agli stratagemmi della rappresentazione. Questa in particolare suscita certo una quasi-presenza ma solo come contropartita della pratica dello scarto che dipende dal momento esplicativo. In tal senso, la storia appare come una disciplina mista che, senza confonderle, 63 Cfr. F. Furet, «Le quantitatif en histoire», in Faire de l’histoire, vol. 1, cit., pp. 42-61.

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unisce semantizzazione e narrativizzazione, dunque verificabilità e affidabilità; in altre parole: convalida il sapere e la verosimiglianza di un racconto. La credibilità referenziale della storia è appunto un misto di questo genere: la produzione dell’illusione realista, tramite l’uso dei deittici – nomi propri, descrizioni, «notazioni» di Barthes –, non è altro che il complemento dell’esplorazione concettuale dei limiti della strutturazione. A questo primo paradosso se ne aggiunge un altro, che riguarda il fatto prodotto e l’evento presupposto: se la spiegazione storica domina alcuni fatti perché li crea, l’evento resta il supporto ipotetico della messa in ordine dei fatti sull’asse del tempo. Spetta perciò alla scrittura il compito di mettere in rapporto un’organizzazione del senso –: dei «fatti» – e il suo limite –: «l’evento». Tale rapporto paradossale tra il fatto (prodotto) e l’evento (presupposto) è forse la migliore illustrazione dell’idea del passato come assente della storia. Questo deve accontentarsi di essere la traccia sempre permanente di un inizio che è impossibile sia ritrovare che dimenticare. Si può dire la stessa cosa nel linguaggio della morte – e questo è il terzo paradosso, il più enigmatico per la filosofia della storia –: anche il rapporto con la morte, o piuttosto con i morti, si sdoppia. Il discorso storico li elimina nello stesso istante in cui li onora. Seppellendo i morti, da un lato la storia fa spazio ai viventi ma dall’altro «rappresenta i morti nel nome di un itinerario narrativo» e così eleva loro una «tomba». Da tali paradossi a catena risulta l’idea che il passato stesso ammette due posizioni: come scarto nella tecnica della ricerca – come quasi-presenza nella rappresentazione testuale. * *

*

In conclusione di questo saggio propongo alcune considerazioni personali, sollecitate dal realismo spontaneo dello storico, che appare come tacita implicazione in ciò che più volte ho chiamato l’intenzionalità della coscienza storica. La strategia del sospetto, comune ai sostenitori «dell’effetto del reale» e agli autori preoccupati di getting the story crooked, equivale a fare dello storico in quanto 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tale un creatore di illusioni, anzi un naufrago preso dal panico all’idea che possa mancargli la terraferma sotto i piedi. Ciò che si cerca qui è invece ciò che potrebbe legittimare la tendenza dello storico a considerare le sue costruzioni come ricostruzioni di quello che un giorno c’è stato e oggi non c’è più. 4.3.1. 1) Vorrei innanzi tutto rifiutare quella sorta di alternativa in cui gli avversari del realismo storico cercano di rinchiudere gli storici, quando essi dicono che il passato è una «untold story», cioè che prima del racconto non esiste altro che un caos informe. Il realismo qui presunto è della specie più grossolana, che consiste nell’asserire una relazione di corrispondenza tra il passato e la sua rappresentazione, la quale è a sua volta assimilata nel peggiore dei casi a un’immagine-copia e nel migliore a una proiezione del genere cartografico, soggiacente a regole di trasposizione a dire il vero introvabili. A mio modo di vedere, il problema è quello di riformulare in maniera più sottile il realismo spontaneo dello storico, tenendo conto del rifiuto completamente giustificato della tesi della verità come corrispondenza applicata alla rappresentazione del passato. Tra la untold story e l’informe esiste una terza soluzione, che mi sembra spontaneamente presunta dall’intenzionalità storica. Si tratta della presupposizione che lo storico ha come oggetto finale uomini come noi, che agiscono e patiscono nelle circostanze che essi non hanno prodotto, e con risultati voluti e non voluti. Tale presupposizione lega la teoria della storia alla teoria dell’azione. Versione inversa della stessa presupposizione: l’agire umano è tale che per comprendere se stesso richiede il racconto che ne restituisca le articolazioni fondamentali. Si può così ammettere con Hannah Arendt che spetta alla story di dire il chi dell’azione64 o più ampiamente con Paul Veyne che la storia 64 H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958; ed. it. a cura di S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2000.

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dice l’intreccio dell’azione, coordinando intenzioni, cause e accidenti. Il cammino che unisce la storia all’azione può dunque essere percorso nei due sensi: dal racconto verso l’azione – nella misura in cui il racconto, secondo l’espressione di Aristotele, è una mimesis praxeos – o dall’azione verso il racconto, poiché in un modo o nell’altro l’azione è richiesta di racconto. Questa prima tesi ha un corollario importante che ritornerà più tardi sotto altre forme. Dire che la storia tratta dell’agire e patire degli uomini di altri tempi significa ammettere che tra quest’ultimi e noi c’è un legame analogico: come noi, anche loro hanno agito e patito tra la nascita e la morte. Da qui il corollario: nella misura in cui l’analogo esprime in maniera generale l’unione del medesimo e dell’altro, tra l’agire e patire degli uomini del passato e il nostro esiste un doppio legame di somiglianza e di differenza. Da un lato, la storia ha a che fare con altri uomini, altre istituzioni e altre visioni del mondo. Dall’altro, l’alterità così accolta non è tale che non possiamo capire gli uomini di una volta, cioè paradossalmente riattualizzare la loro maniera di agire, pensare e sentire, in quanto loro e non nostre. Non siamo affatto sprovvisti di modelli per pensare questa dialettica del medesimo e dell’altro. Il tipo di comunicazione che la storia istituisce tra loro e noi ha come modello ciò che succede a livello di linguaggio, quando si traduce un’opera da una lingua all’altra. Il presupposto della traduzione non è solo il fatto che gli uomini parlano, dunque portano al linguaggio il loro agire e patire – e questo in un’innumerevole diversità di lingue naturali – ma anche il fatto che ogni lingua straniera può per principio essere tradotta nella nostra. Resta da precisare il rapporto che, in quanto storici che scrivono oggi sul passato, abbiamo con il carattere passato dell’agire e patire di esseri umani che hanno agito e patito come noi. 4.3.2. 2) Può essere formulata una risposta che a questo stadio della discussione resta ancora formale. Si può dire che lo storico appartiene allo stesso schema spazio-temporale dell’oggetto del suo

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studio. Forse questo punto non è stato sottolineato abbastanza: la storia è una delle rare conoscenze in cui il soggetto e l’oggetto appartengono non solo allo stesso campo pratico, come abbiamo detto, ma anche allo stesso campo temporale. Limitiamoci qui a considerare solo l’aspetto cronologico della storiografia. Perché un evento sia considerato come storico, resta imprescindibile la condizione che esso possa essere datato. Ora la datazione implica che la distanza temporale che separa il presente dello storico dagli eventi passati appartenga allo stesso tempo della distanza temporale che separa due eventi passati. Qualunque cosa sia il carattere costruito o ricostruito della concatenazione degli eventi nel corso di un periodo particolare, a includere i tre eventi che rappresentano l’inizio del periodo considerato, la sua fine o conclusione e il presente dello storico – più precisamente dell’enunciazione storica –, è sempre lo stesso unico sistema di datazione. Grazie a questo sistema unico di datazione, si suppone che gli eventi passati e l’evento consistente nel riferirli accadano nello stesso universo delle occorrenze di cui si occupano le scienze naturali. Questa convinzione implicita è una componente importante del realismo dello storico. È vero che tale sistema di datazione si riferisce solo all’aspetto formale degli eventi, cioè alle coincidenze e ai lassi di tempo – le durate nel senso quantitativo del termine – e che esso non dice niente delle azioni osservabili nel loro tempo dai contemporanei e dei significati legati a tali azioni da parte degli agenti storici. Malgrado ciò, la datazione non è un’operazione semplicemente formale, poiché essa mette in gioco un’attività particolare investita nella costruzione dei calendari. Sulla base di questa istituzione, diventa possibile inserire tutte le azioni passate, presenti e future in ciò che si può chiamare il tempo-calendario 65, che è una 65 Sul tempo-calendario e l’istituzione del calendario, cfr. Emile Benveniste, «Le langage et l’expérience humaine», in Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966. In L’ordre du temps, cit., Pomian sottolinea l’estrema diversità dei calendari e i rapporti complessi tra la cronologia e una diversità di

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specie di terzo tempo collocato tra il tempo vissuto da ogni coscienza – con il suo presente vivente legato al passato tramite la memoria e al futuro attraverso l’attesa – e il tempo cosmologico, che ignora il presente vivente e comporta solo momenti qualsiasi determinati da una scissione operata nella continuità dei movimenti e dei cambiamenti fisici. Questo carattere misto del tempo-calendario appare chiaramente quando, tra tutte le componenti comuni a tutti i calendari, si considera la determinazione di un momento assiale, a partire dal quale tutti gli eventi sono datati; si tratta dell’evento fondatore, ossia quello che apre una nuova era, come la nascita di Cristo o di Buddha, l’inizio di un regno, ecc. È innanzi tutto nell’evento fondatore che produce il momento assiale, che i due aspetti – cosmologico e fenomenologico – del tempo-calendario si uniscono: il primo aspetto radica il tempo storico in quello fisico, il secondo lo lega all’attività degli uomini, capaci di assegnare il valore di origine a un evento ricordato e celebrato della propria storia. L’energia di tale origine, coincidente con il momento assiale del calendario, si estende dal passato storico fino al nostro presente in modo tale che tutti gli eventi, incluso quello che costituisce l’enunciazione del discorso storico, acquistano una posizione nel tempo, che è definita dalla loro distanza dal momento assiale o da tutti gli altri momenti, la cui distanza dal momento assiale è conosciuta. Così il tempocalendario non si riduce alla forma vuota del tempo ma esprime un’attività che istituisce, provenendo da un passato lontano e che prosegue fino a noi.

cronologie, per arrivare all’irriducibile «pluralité de temps» (p. 354). Il privilegio qui accordato al tempo-calendario non contraddice questa constatazione, nella misura in cui la frattura epistemologica in virtù della quale la storia-problema, per esprimerci con Furet, emerge dalla storia-racconto, è contemporanea alla dissociazione tra il tempo quantitativo della cronologia e il tempo qualitativo della cronosofia.

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4.3.3. 3) Facciamo un passo ulteriore in direzione di ciò che si potrebbe chiamare realismo critico della conoscenza storica, osservando che la storia stessa, come hanno suggerito vari autori, è una prassi. È il caso di Certeau, che parla di operazione storica per delineare l’attività che consiste nel «fare della storia». Ora questa attività presente ha un rapporto complesso con quella degli uomini del passato, che consiste appunto nel «fare la storia». Oltre all’appartenenza formale allo stesso schema spazio-temporale, si può parlare di un’appartenenza materiale allo stesso campo della prassi, che si manifesta con la dipendenza del «fare» dello storico dal «fare» degli agenti storici. Tale dipendenza assume molte forme: infiltrazione nella prassi storica di ideologie inconfessate, continuazione del passato nelle tradizioni ricevute e, più in generale, relazione di debito degli uomini di oggi con quelli viventi un tempo. In effetti, gli storici si pongono come eredi rispetto al passato, prima di porsi come maestri-artigiani del racconto. Questa nozione di eredità si presta alla stessa dialettica del medesimo e dell’altro, del continuo e del discontinuo, dell’attività e della passività, dell’analogia dell’agire e patire da cui abbiamo iniziato. Da un lato, attribuisco un grande valore alla tesi di Certeau, secondo la quale è tramite un atto di decisione che il passato è rigettato fuori dal presente e considerato come trascorso. Questa frattura segna il confine tra la memoria, grazie a cui il passato continua ad aderire al presente, e la storia, che non è più un ricordo e si appoggia sui documenti. È una rottura spesso vissuta male quando, in rapporto a un passato distante trenta o quaranta anni, le testimonianze dei sopravissuti si confrontano con delle interpretazioni basate sulle sole tracce scritte. L’attrito spesso osservato tra la memoria e il documento mostra che è all’opera la rottura tra ciò che appartiene ancora al presente e ciò che è dichiarato passato. Ma questa frattura presuppone che in certa maniera il passato persista nel presente e così lo influenzi. È proprio questa dimensione passiva dell’eredità ricevuta che è espressa con maggiore precisione dall’idea del debito. Ancora prima di aver formato il progetto di

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rappresentare il loro passato, noi abbiamo contratto un debito nei confronti degli uomini di una volta, che hanno contribuito a fare di noi ciò che siamo. L’essere-affetti dal passato precede la rappresentazione. Hans-Georg Gadamer ha formulato questo primato con l’espressione «Wirkungsgeschichtliches Bewusstsein», che si può parafrasare con «coscienza affetta dall’efficacia della storia»66. Si spiega così il fatto che il passato possa essere considerato come l’assente della storia e come il suo stimolo. Se ci impegniamo a separarlo dal presente, è innanzi tutto perché esso ossessiona il nostro presente, sollecitando le nostre interpretazioni. 4.3.4. 4) Grazie a questo rapporto di dipendenza rispetto al passato espresso dall’idea di debito, l’attività dello storico, ovvero il «fare della storia» dà l’accesso a quel che fu l’attività degli uomini del passato consistente nel «fare la storia». Entrambe condividono gli stessi caratteri ontologici di ciò che costituisce la condizione storica. Le categorie elaborate al riguardo da Reinhart Koselleck in Vergangene Zukunft sono di grande utilità, proprio perché sono comuni a quelli che fanno la storia e a quelli che fanno della storia67. Si tratta delle categorie di «spazio dell’esperienza» e «orizzonte dell’attesa». Lo spazio dell’esperienza è il passato incorporato nel presente; l’orizzonte dell’attesa è il futuro reso presente. Un tale assemblaggio e un tale dispiegamento non sono riducibili l’uno all’altro: «lo spazio dell’esperienza non basta mai a determinare un orizzonte dell’attesa». Ancora: «Si tratta di una struttura temporale dell’esperienza che non può essere assemblata senza attesa retroattiva». Queste due categorie concorrono a ciò che Ko-

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H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, J. C. B. Mohr, Tübingen 1960, II, 1; trad. it. di G.Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983. 67 R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a/M. 1979; trad. it. di A. Marietti Solmi, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, (nuova ed.) Clueb, Bologna 2007.

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selleck chiama la temporalizzazione della storia68. Il progetto di circoscrivere gli universali della costituzione storica non è indebolito dal fatto che la pretesa di fare la storia, unita alla proclamazione di nuovi tempi e all’affermazione dell’accelerazione della storia, costituiscano tre topoi storicamente datati, legati precisamente alla filosofia dell’Illuminismo. Sullo sfondo della dialettica tra lo spazio dell’esperienza e l’orizzonte dell’attesa si può comprendere l’ascesa di questi tre topoi e il loro declino alla fine del XX secolo. Paradossalmente è grazie al loro declino che comprendiamo meglio la permanenza di questa struttura dialettica: l’ambizione a diventare padroni o signori della storia incontra il suo limite proprio nella condizione di essere affetti dalla storia. A questo titolo, lo statuto meta-storico delle categorie di orizzonte dell’attesa e spazio dell’esperienza è pienamente riconosciuto: esse regolano tutte le modalità con cui gli uomini di ogni tempo hanno riflettuto sulla loro esistenza in termini di storia – di storia fatta o di storia detta (o scritta). La «temporalità della storia» nel senso di Koselleck assume allora una piega esistenziale, che supera il carattere ancora formale della datazione compiuta mediante il tempo-calendario. Si tratta dell’impegno comune di «fare la storia» e di «fare della storia» nella condizione storica di cui non sono padroni o signori né gli agenti della storia né i loro storici69. 4.3.5. 5) È possibile in fine ritornare alla nozione di traccia, da cui siamo partiti nella cornice della nostra riflessione sulla prova documentaria. È in essa che si concentrano tutte le difficoltà le68

Va ricordato in proposito anche R. Koselleck, Storia. Formazione del concetto moderno, cit., ove – come scrive la curatrice nell’Introduzione – si tratta di storicizzazione del tempo e temporalizzazione della storia [N. d. T.]. 69 R. Koselleck, W. D. Stempel, Geschichte-Ereignis und Erzählung, Wilhelm Fink, München 1973. In particolare: W. D. Stempel, «Erzählung, Beschreibung und der historiche Diskurs», pp. 325-346; K. Stierle, «Geschichte als Exemplum – Exemplum als Geschichte», pp. 347-375. Cfr. inoltre la discussione a pp. 519589.

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gate alla rappresentazione del passato. Che cos’è in effetti una traccia? In termini molto generali, la si può definire il vestigio che un animale o un uomo ha lasciato sul luogo dove è passato. Due idee sono qui implicite: da un lato, l’idea che una marca è stata lasciata dal passaggio di qualche essere, dall’altro, che questa marca è il segno «che vale per» il passaggio. Questa significanza della traccia combina una relazione di causalità, tra la cosa che marca e la cosa marcata, con una relazione di significazione tra il vestigio e il passaggio. La traccia ha il valore di effetto-segno. Il doppio legame della traccia con una relazione di causalità e una relazione di significazione riflette il legame tra il tempo-calendario e il suo momento assiale. Da una parte, nel tempo-calendario, in quanto derivato del tempo cosmologico, l’attività passata degli uomini ha lasciato delle tracce che la storia oggi decifra. Dall’altra, la relazione tra il vestigio e il passaggio è un aspetto delle relazioni di significato tra l’attività umana passata e l’attività presente, da cui proviene l’operazione storica. Che «la traccia significhi senza mostrare», secondo un’espressione di Emmanuel Levinas (il quale la usa in un contesto molto differente70), suggerisce che anche la nozione stessa di rappresentazione del passato, che gli avversari del realismo storico hanno conservato, deve essere rimessa in questione. Non si tratta di una corrispondenza del genere della copia o della proiezione ma di una funzione di «luogotenenza», che la lingua tedesca è in grado di esprimere con la distinzione fra Vertretung (rappresentanza) e Vorstellung (rappresentazione). Vorstellung è l’immagine mentale che un soggetto si dà di una cosa esterna assente, come dice il verbo sich vorstellen (rappresentarsi/immaginarsi). Vertretung è la relazione in virtù della quale un rappresentante tiene il luogo di colui che in sua assenza egli rappresenta. Questo è il caso della traccia. In quanto lasciata dal pas70 E. Levinas, «La trace», in Humanisme de l’autre Homme, Fata Morgana, Montpellier 1972; trad. it. di A. Moscato, L’umanesimo dell’altro uomo, Il Nuovo Melangolo, Genova 1998.

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sato, essa esercita una funzione vicaria per esso. Sta per il passato ed esercita per esso una funzione di rappresentanza-luogotenenza. Questa funzione caratterizza la referenza indiretta propria di una conoscenza per tracce, distinguendo così da tutti gli altri il modo di riferirsi della storia al passato. In questo modo può argomentare un realismo critico che non ha più niente in comune con il realismo ingenuo troppo spesso attribuito agli storici, in mancanza di un’analisi approfondita di ciò che costituisce l’intenzionalità del discorso storico.

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