Filosofia medievale. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi 9788820375911

I filosofi del Medioevo senza interpretazioni e apparati, ma in presa diretta attraverso i loro scritti e le loro parole

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Filosofia medievale. Questioni e risposte nelle parole dei filosofi
 9788820375911

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),/262),$ 0(',(9$ /( Questioni e risposte nelle parole dei filosofi a cura di Maurizio Pancaldi e Maurizio Villani

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

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ISBN 978-88-203-7591-1

Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. - Bologna Progetto editoriale: Massimo Manzoni Coordinamento editoriale e redazione: Cinzia Bisognin Progetto grafico: Caterina Manieri Impaginazione: Luciana Baldi

Copertina: mncg S.r.l., Milano

indice

Capitolo  1 

L’età barbarica e caroling ia 1 Capitolo  2 

La rinascita del XII secolo 19 Capitolo  3 

Le filosofie degli arabi e degli ebrei 51 Capitolo  4 

Il Duecento e la scolastica 67 Capitolo  5 

La tarda scolastica e la crisi del medioevo 105

Indice degli autori  139

Capitolo

1 l’età barbarica e carolingia Con la crisi e la dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente, anche il patrimonio culturale dell’antichità sembra essersi disperso irrimediabilmente. Se alcuni (Boezio, Gregorio Magno), durante l’età barbarica, cercano di raccoglierne l’eredità, è solo con il ristabilimento dell’ordine per mano di Carlo Magno che anche la ricerca filosofica riprende vita, sia pure con i pochi strumenti rimasti e nell’angusto ambito della corte e dei monasteri. Ciò non ha impedito l’emergere di una figura di grande spessore speculativo come quella di Scoto Eriugena, ma anche di personaggi di profilo inferiore che comunque hanno partecipato ai grandi dibattiti del tempo (su eucaristia, predestinazione ecc.) con contributi importanti. Inoltre che i rapporti con l’Oriente proseguissero con fecondi risultati, è documentato dal cosiddetto corpus dyonisianum, ritenuto di autorevolezza pari agli altri scritti neotestamentari, e come tale studiato e tradotto.

B, La consolazione della filosofia sE LA FORTUNA INgANNA , qUAL è IL vERO bENE? Di nobile famiglia, assurse alle più elevate cariche pubbliche sotto il re goto Teodorico: accusato di tradimento, in carcere, attendendo l’esecuzione capitale, ebbe modo di meditare sulla condizione umana, sulla precarietà e illusorietà dei beni terreni, sulla mutevolezza della fortuna, sulla vera felicità e l’autentico bene. La sua opera più celebre è la testimonianza dell’ultimo sussulto della cultura antica ormai al tramonto di cui costituisce una sorta di summa: malgrado sulla sua tomba egli venga qualificato come santo, in realtà egli chiede consolazione non alla fede ma alla filosofia. Fu dunque l’ultimo dei saggi antichi, che di fronte alla morte né si lascia intimorire né si abbandona a un irrazionale intervento della divinità, ma con supremo gesto di coraggio fa appello alla ragione investigando sulle supreme questioni teoretiche per trovare il senso della vita e delle proprie vicende.

Perché dunque, o uomini mortali, cercate al di fuori quella felicità che è posta dentro di voi? Vi confondono l’errore e l’ignoranza. E voglio mostrarvi brevemente il cardine della felicità somma. C’è qualcosa per te più pregiata di te stesso? Nulla, risponderai tu. Ordunque, se tu avrai il possesso di te, possederai ciò che né tu vorresti mai perdere né mai la fortuna potrebbe toglierti. E perché tu venga a riconoscere che la beatitudine non può consistere in queste cose fortuite, ragiona così: se la beatitudine è il sommo bene della natura procedente secondo ragione, e sommo bene non può essere ciò che in qualche modo può essere tolto, – giacché gli è superiore ciò che essere tolto non può, – riesce palese che la instabilità della fortuna non può aspirare al conseguimento della beatitudine. Inoltre, colui che è trasportato da codesta caduca felicità, o sa che essa è mutabile, ovvero non lo sa. Se non lo sa, qual sorte potrebbe essere beata in grazia della cecità di tale ignoranza? Se poi lo sa, necessariamente egli dovrà temere di perdere ciò che non dubita che perder si possa: e perciò, il continuo timore non gli permette di essere felice. Oppure egli pensa che, anche se perderà quel suo avere, la perdita sarà trascurabile? Ma in tal caso, viene ad essere un bene assai esiguo quello la cui perdita si può sopportare con serenità. E poiché tu sei quel medesimo che so persuaso e profondamente convinto, per via di molte dimostrazioni, che le anime umane non siano in alcun modo mortali, – e poiché d’altra parte è chiarissimo che la felicità dovuta al caso termina con la morte del corpo, – non si può dubitare che, se la felicità suddetta può procurare la condizione beata, tutto il genere umano piom-

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bi nell’infelicità al momento della morte. E se poi ci ricordiamo che molti hanno cercato di cogliere il frutto della beatitudine non solo affrontando la morte, ma anche col sostenere dolori e supplizi, – in qual modo, dimmi, potrebbe con la sua presenza rendere beati gli uomini quella felicità che, una volta passata, non li rende infelici? […] Poiché dunque tu hai veduto qual sia la forma del bene imperfetto, ed anche qual sia la forma del bene perfetto, ora credo si debba dimostrare dove si trovi questa perfezione di felicità. E in proposito penso che si abbia da indagare anzitutto se nella fortuna possa esistere qualche bene così fatto quale poco fa tu lo hai definito; – e ciò perché noi non restiamo ingannati, contro la verità dei fatti, da un’immagine vana. Ma che tal bene esista, e che esso sia come la fonte di tutti i beni, non si può negare. Infatti, tutto ciò che dicesti imperfetto vien considerato imperfetto perché vi si trova una diminuzione del perfetto. Onde avviene che, se in qualsiasi genere di oggetti alcunché sembra imperfetto, necessariamente ci debba essere in quel genere anche qualcosa di perfetto. Infatti, tolta la perfezione, non si può nemmeno immaginare donde sia venuto fuori quel che si considera imperfetto. [...] E se veramente, come abbiam mostrato or è poco, c’è una certa felicità imperfetta inerente ai beni fragili, non si può dubitare che ci sia una felicità salda e perfetta. – «Questa conclusione» dissi allora io «è fermissima e verissima». E lei «Considera ora dove questa felicità abiti. Che Dio, Principe di tutte le cose, sia buono, è ben provato dalla concezione comune delle menti umane. Di fatti, dato che non si può concepire nulla che sia migliore di Dio, chi potrebbe dubitare che quello di cui nulla è migliore sia buono? E d’altra parte, la ragione dimostra che Dio è buono con un’argomentazione tale da persuaderci altresì che in Lui è il bene perfetto. Infatti, se tale Egli non fosse, non potrebbe essere il Principe di tutte le cose. Invero, vi sarebbe alcunché di Lui più pregevole, che avrebbe il possesso del bene perfetto, e pertanto apparirebbe precedente e più antico rispetto a Lui. […] Perciò, per evitare che il nostro ragionamento proceda all’infinito, si deve ammettere che Iddio, sommo qual è, sia pienissimo del bene sommo e perfetto. – Ma abbiamo stabilito che il bene perfetto è beatitudine vera: dunque necessariamente ne consegue che la vera beatitudine è riposta nell’altissimo Iddio […]. È manifesto, allora, che tutte le altre cose si riferiscono al bene. Difatti, si ricerca la sufficienza onde uno basta a se stesso proprio perché la si giudica un bene; e si ricerca la potenza proprio perché si crede che sia un bene essa pure; e ciò medesimo si può congetturare circa la rispettabilità, circa la fama illustre, circa il godimento. Dunque, il bene è la somma e la causa di tutto ciò che è desiderabile. Invero, ciò che non possiede entro di sé alcun bene, né in realtà, né per una somiglianza d’aspetto, non può in nessun modo essere ricercato. E per contro, anche quelle cose che per natura non sono buone, pur tuttavia, se buone ci sembrano, vengono desiderate come se fossero buone

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veramente. Sicché a buon diritto si crede che la somma, il cardine e la causa di tutte le cose desiderabili sia giustappunto la bontà. E quello a causa del quale si ricerca una cosa, proprio quello appare come oggetto massimo del desiderio. – Come per esempio, quando uno vuol cavalcare in grazia della propria salute, non tanto desidera il moto del cavalcare, quanto l’effetto che per la sua salute ne ha da conseguire. E poiché dunque le cose tutte si ricercano in grazia del bene, non sono esse che da ognuno vengono soprattutto desiderate, ma viene piuttosto desiderato da ognuno il bene stesso. Ma ciò per causa del quale si desiderano le altre cose già abbiamo riconosciuto che è la beatitudine; e perciò, anche in tal modo si cerca la beatitudine. Dal che appare chiaramente che la sostanza del bene stesso e della beatitudine è una e identica […]. Ma noi abbiamo mostrato che Iddio e la vera beatitudine sono una sola e identica cosa […]. Dunque ci è lecito concludere con sicurezza che anche la sostanza di Dio è riposta nel bene stesso e non altrove».

 - Anicio Manlio Severino Boezio (Roma 480 ca. - Pavia 526) scrisse De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia) tra l’inverno del 523 e la primavera del 524, mentre era in carcere. Il testo riportato è tratto da: A.M.S. Boezio, La consolazione della filosofia, a cura di R. Del Re, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1977, pp. 93-95, 177187.

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D, La teologia mistica COME POssIAMO CONOsCERE DIO sE è AL DI Là DEL PENsIERO E DEL LINgUAggIO UMANO? La riflessione filosofica si è resa conto, fin dai suoi esordi, dell’impossibilità di parlare adeguatamente di Dio, che è al di là delle capacità umane di comprensione ed espressione: partendo da una critica alle raffigurazioni antropomorfe proprie del mito, essa è giunta a posizioni monoteiste e impersonali, in cui il divino è insieme principio primo del cosmo nonché fine dell’attività teoretica e pratica dell’uomo. Dunque, se Dio è sommo bene e verità, si richiede da un lato che la mente lo conosca e lo raggiunga al di là di tutte le limitazioni mondane, salvo però scoprire, dopo aver percorso tutti i gradi della realtà mondana, fisica e intelligibile, che Dio resta lo sconosciuto, che la sua essenza è inaccessibile alla ragione umana, la quale man mano che si avvicina a Lui deve spogliarsi di ogni capacità conoscitiva e linguistica, fino a entrare come in una nube, in una tenebra dove si perde e viene posseduta da “colui che è” fino alla completa identificazione.

[…] la buona causa universale è insieme di molte parole, di poche parole e addirittura muta, giacché ad essa non si possono applicare nessun discorso e nessun pensiero: essa trascende infatti in maniera sovraessenziale tutte le cose, e si rivela senza veli e veracemente solo a coloro che, dopo aver attraversato tutte le cose impure e pure, dopo essersi lasciata dietro ogni ascesa che porta alle sante vette, e dopo aver abbandonato tutte le luci, tutti i suoni e tutte le parole celesti penetrano nella tenebra dove si trova, come affermano gli oracoli, colui che è al di sopra di tutto. Non senza ragione il divino Mosè riceve innanzitutto l’ordine di purificarsi e poi quello di separarsi da coloro che non sono puri; dopo essersi del tutto purificato, sente il molteplice suono delle trombe, e vede molte luci, irradianti raggi puri e diffusi, quindi si separa dalla moltitudine, ed assieme ai sacerdoti scelti procede verso la sommità della divina ascesa. Ma anche a questo punto non si trova assieme a Dio: ciò che contempla non è Lui (Egli è incontemplabile), ma il luogo in cui si trova. A mio avviso, tutto questo significa che le cose più divine e più alte tra quelle visibili e pensabili sono soltanto parole che suggeriscono alla mente le realtà che rimangono sottoposte a colui che tutto trascende e che rivelano la sua presenza superiore ad ogni pensiero, situata al di sopra delle vette intelligibili dei suoi luoghi più santi. Allora egli si distacca da ciò che è visibile e da coloro che vedono, e penetra nella tenebra veramente mistica dell’ignoranza. Rimanendo in essa, chiude ogni percezione conoscitiva ed

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entra in colui che è del tutto intoccabile ed invisibile: [allora] appartiene veramente a colui che tutto trascende, senza essere più nessuno, né di se stesso né di altri; fatta cessare ogni conoscenza, si unisce al principio del tutto sconosciuto secondo il meglio delle sue capacità, e proprio perché non conosce nulla, conosce al di sopra dell’intelligenza. […] Quanto più alziamo lo sguardo verso l’alto, tanto più i discorsi vengono contratti dalla contemplazione delle realtà soltanto; così pure anche ora, nel momento in cui penetriamo nella tenebra superiore all’intelligenza, noi troviamo non più discorsi brevi, ma la totale assenza di parole e di pensieri. In quell’altro caso [cioè nella teologia positiva] il discorso, scendendo dall’alto verso il basso, si allargava in proporzione alla discesa; ora invece, elevandosi dal basso verso la sfera superiore, si contrae in proporzione dell’ascesa, e dopo averla compiuta diventa completamente muto, per unirsi interamente all’ineffabile. Tu mi chiederai: ma come mai, dopo aver fatto le divine affermazioni partendo dal primo principio, iniziamo [il processo delle] negazioni divine partendo dalle cose ultime? Perché nel momento in cui affermavamo ciò che si trova al di sopra di ogni affermazione, dovevamo fare queste affermazioni ipotetiche partendo da ciò che era più affine ad esso; ma nel momento in cui neghiamo ciò che si trova al di sopra di ogni negazione, dobbiamo negarlo partendo da ciò che è più lontano. Non è forse esso più vita e bontà che aria o pietra? Ed il fatto che non gozzoviglia e non va in collera non è forse più vero del fatto che non è oggetto di discorsi o di pensieri? […] Diciamo dunque che la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita, di ragione, d’intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una figura, né una forma, né una qualità, né una quantità, né un peso; non si trova in nessun luogo, non è visibile, né può essere toccata materialmente: non ha sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza, come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun’altra cosa sensibile; e non è neppure qualcuna di queste cose. […] Procedendo quindi nella nostra ascesa diciamo che [la causa universale] non è né anima, né intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola, né pensiero; che essa stessa non è né parola, né pensiero; e che non è oggetto né di discorso, né di pensiero. Non è né numero, né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza; non sta ferma, né si muove né rimane quieta, né possiede una forza, né è una forza; non è luce; non vive e non è

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vita; non è essenza, né eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intelligibile; non è né scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinità, né bontà; non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo; non è né figliolanza, né paternità, né qualcuna delle cose che possono essere conosciute da noi o da qualche altro essere; non è nessuno dei non-essere e nessuno degli esseri, né gli esseri la conoscono in quanto esiste; neppure essa conosce gli esseri in quanto esseri. A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni [a proposito delle realtà che vengono] dopo di essa, noi non l’affermiamo, né neghiamo. In effetti, la causa perfetta e unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al di sopra di tutto è superiore ad ogni negazione.

 - Dionigi Areopagita, pseudonimo di un filosofo e teologo cristiano ignoto, visse probabilmente tra il V e il VI secolo d.C. Non si conosce di conseguenza la data di composizione di questa opera breve. Il testo riportato è tratto da: Dionigi Areopagita, La teologia mistica, trad. it. di S. Lilla, Città Nuova, Roma 1986, pp. 106, 108-110.

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S E, La divisione della natura sE è DIO ALFA E OMEgA DEL TUTTO, qUAL è LA sTRUTTUR A DELLA REALTà? vissuto alla corte di Carlo il Calvo, con il suo capolavoro ha costruito un sistema metafisico del tutto nuovo in cui si interpretava l’intera realtà alla luce del messaggio cristiano. Attraverso l’impiego costante e programmatico della razionalità, viene indagata la scrittura e l’essenza divina fino a far coincidere “vera teologia e vera filosofia”: infatti dal momento che da Dio deriva ogni verità, sia quella razionale sia quella rivelata, si potranno conciliare all’interno di un quadro unitario in cui l’essenza divina costituisce il punto focale da cui intendere anche la realtà mondana, compreso l’uomo, che ne occupa la posizione centrale. se tutto deriva da Dio e tutto ritorna a Dio, non solo la natura è una grande teofania, ma l’uomo si pone al centro di questo processo circolare: da lui in particolare ha inizio il processo del ritorno e della deificazione.

Maestro: – Questa dunque, è, credo, la quadriforme divisione della natura universale di cui si diceva: in quella forma cioè – se forma può dirsi la causa prima di tutte le cose che supera ogni forma o specie pur essendo l’informe principio di tutte le forme e specie – che crea e non è creata. Principio senza forma in effetti noi chiamiamo Dio, perché non si creda che possa annoverarsi tra le forme, mentre in realtà è causa di tutte le forme. A lui infatti tende ogni cosa formata, mentre egli per sé è infinito e più che infinito: è l’infinità di tutte le infinità. Infatti ciò che non è limitato o definito da nessuna forma, in quanto non conosciuto da nessun intelletto, viene detto più razionalmente senza forma anziché forma, giacché, come spesso s’è detto, di Dio possiamo predicare qualcosa più veracemente per negazione che per affermazione. La seconda divisione è quella della forma che è creata e crea. Segue la terza, della forma che è creata e non crea. Quindi la quarta, della forma che né crea né è creata. […] La prima e la quarta sono una sola realtà, perché si intendono solo di Dio: Dio infatti è il principio di tutte le cose create, ed è fine a cui tutte tendono per riposare in lui eternamente e immutabilmente. Si dice infatti che la causa di ogni cosa crea, perché da lei, con mirabile e divina moltiplicazione, procede l’insieme delle cose che da lei e dopo di lei sono state create, in genere, specie, numeri, differenze, e tutto ciò che si considera esistente nella natura. Ma poiché tutto ciò che procede da lei, ritornerà alla medesima causa (quando perverrà al fine), per questo la causa prima si dice fine di ogni cosa, e, in quanto tale, non crea né è creata.

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Quando tutto sarà tornato a lei, appunto, nulla procederà più da lei per generazione, luogo e tempo, in generi e forme, poiché tutto in lei sarà quieto, immobile e indivisibilmente uno […]. Vedi dunque che la prima e la quarta forma della natura si riducono a una realtà sola. Discepolo: – Lo vedo e lo capisco. In Dio la prima forma non si distingue infatti dalla quarta: in Dio non sono due realtà, ma una sola; ma poiché di Dio abbiamo una nozione quando lo consideriamo come principio, e un’altra quando lo consideriamo come fine, nella nostra teoria esse appaiono come due forme, che scaturiscono dalla semplicità della natura divina per il duplice sguardo della nostra contemplazione. M.: – […] Come la prima e la quarta si conoscono nel Creatore, così la seconda e la terza si conoscono razionalmente nella creatura. La seconda, infatti, come s’è detto, è creata e crea, e si ritrova nelle cause primordiali delle cose create; la terza forma è creata e non crea, e si trova negli effetti delle cause primordiali. La seconda e la terza, dunque, sono contenute in un medesimo genere, quello della natura creata, e in esso sono una sola; le forme, infatti, nel loro genere, sono una cosa sola. Vedi, quindi, che due delle quattro forme predette, la prima e la quarta, sono ricondotte al Creatore, le altre due, la seconda e la terza, sono ricondotte alla creatura. D.: – […] Le due prime forme (la prima e la quarta) non si distinguono in Dio ma nella nostra contemplazione, e non sono forme di Dio, ma della nostra ragione, per la duplice nozione di principio e fine; né sono ricondotte a unità in Dio, ma nella nostra visione che, mentre considera il principio e il fine, crea in se stessa due forme di contemplazione che raccoglie poi in una, quando prende a trattare della semplicità divina. Principio e fine non sono infatti nomi propri della natura divina, ma della sua relazione alle cose create. Da lei infatti traggono origine, e perciò essa viene chiamata principio, e poiché a lei terminano, per finire in lei, essa ha avuto nome fine. Le altre due forme invece, cioè la seconda e la terza, sorgono non solo dalla nostra contemplazione, ma si ritrovano nella stessa natura delle cose create, nella quale le cause sono separate dagli effetti; e gli effetti si uniscono alle cause, poiché, nel loro genere, cioè nell’essere creature, esse sono una cosa sola. […] Ultimo degli esseri fu introdotto l’uomo, quasi vincolo naturale universalmente costituente, mediante le proprie parti, una medietà tra gli estremi. […] Ove estremi si chiamano la creatura invisibile e quella sensibile, che per naturale differenza distano come per lontanissimo spazio. Sono quasi due termini estremi, fra loro opposti, della realtà creata, ma l’umana natura offre loro una medietà; in essa, infatti, si congiungono, e dai molti nasce l’uno. Né v’è creatura alcuna, dal sommo al basso, che non si trovi nell’uomo. E per questo a buon diritto è chiamato fucina di tutto, in cui tutto ciò che da Dio fu creato si raccoglie, componendo un’armonia sola da diverse nature, come da suoni distanti. […] Difatti l’universale creatura si contiene

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in lui. Egli intende come angelo, ragiona come uomo, sente come animale irragionevole, vive come il germe, consiste di anima e corpo, e non è privo di alcuna cosa creata. L’uomo è stato dunque creato in tanta dignità di natura, che non v’è creatura visibile o invisibile, che in lui non si possa ritrovare. È infatti mirabilmente composto delle due parti dell’universo creato (e cioè i due estremi): il sensibile e l’intelligibile. Nulla v’è infatti di più basso del corpo, nulla di più alto dell’intelletto, secondo le parole di sant’Agostino nel libro De vera religione: «fra la nostra mente con cui intendiamo il Padre, e la verità con cui lo raggiungiamo, non è interposta creatura alcuna».

 - Giovanni Scoto Eriugena (Irlanda 810 ca. - Inghilterra 870) scrisse il suo capolavoro, De divisione naturae (La divisione della natura) o Periphiseon, tra l’862 e l’866. Il testo riportato è tratto da: G. Scoto Eriugena, Filosofia medievale: antologia di testi, a cura di N. Abbagnano, Laterza, Bari 1966, pp. 158-160, 162.

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G M, Commento morale a Giobbe LA vANITà DELLA sCIENzA MONDANA CHE REsTA MUTA DI FRONTE ALLA PRECARIETà DELL’EsIsTENzA E LA vER A sAPIENzA DELLA FEDE CHE sALvA . gregorio I (detto poi Magno) ha disegnato con la sua opera le linee in cui tutta la cultura successiva si sarebbe identificata: non solo quindi egli ha raccolto alcuni temi ereditati dalla tradizione (specialmente Agostino), ma, sullo sfondo di una visione profondamente pessimistica dell’uomo e della storia, li ha organizzati in modo che rispondessero pienamente alle esigenze del suo tempo e a quelle di una società in cui la Chiesa giocava un ruolo essenziale di guida morale e politica. Di qui il rifiuto della filosofia (incapace di dare risposte valide a un uomo sofferente e smarrito), e, all’inverso, il ruolo esclusivo riconosciuto alla fede. Il compito della ragione convertita al cristianesimo si realizzerà soprattutto sul terreno della regolamentazione etica dell’agire umano: come insegna giobbe, che sopporta tutto perché l’accettazione di ciò che Dio gli manda è sostenuta da una razionalità che si sforza di restituire all’uomo la dignità compromessa dal peccato.

Che sono, infatti, gli uomini, nati in questo mondo, se non fiori del campo? Volgiamo lo sguardo del cuore verso questa immensa distesa del mondo e la vediamo piena di tanti fiori quanti sono gli uomini. La vita nella carne è un fiore nell’erba. […] L’uomo, infatti, come il fiore spunta dall’oscurità e subito appare nel mondo; ma presto la morte lo sottrae al mondo per ricacciarlo nell’ombra. La verde freschezza della carne ci mette in mostra, ma l’aridità della polvere ci sottrae agli sguardi. Siamo apparsi come il fiore, noi che non esistevamo, e appassiamo come il fiore, noi che siamo apparsi solo per un determinato tempo. E poiché ad ogni istante, ogni giorno, l’uomo è sospinto verso la morte, è giusto aggiungere: «Fugge come l’ombra e mai si ferma» […]. [per cui] nella corsa della vita presente la stessa propria crescita sospinge verso la fine e sempre viene meno là dove crede di progredire nel corso della vita. Non possiamo, infatti, avere fissa dimora qui dove siamo di passaggio, e questo stesso nostro vivere è un quotidiano passare dalla vita. Il primo uomo non poteva conoscere questa caduta prima della colpa, perché il tempo passava ed egli rimaneva. Ma dopo che egli ha peccato, è venuto a trovarsi, per così dire, sul pendio L’ e t à b a r b a r i c a e c a r o l i n g i a

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scivoloso della temporalità; ha mangiato il frutto proibito e subito ha conosciuto il limite della sua stabilità. Coloro che si perdono ad argomentare contro le parole della Verità, si riducono spesso a ripetere luoghi comuni, pur di non darsi vinti tacendo. Così Elifaz, messo alle strette dagli argomenti del beato Giobbe, dice cose che tutti sanno. Egli dice: «Si può confrontare forse l’uomo con Dio, anche se la sua scienza fosse perfetta?» Confrontata con quella di Dio, la nostra scienza non è che ignoranza. È dalla partecipazione alla natura di Dio che deriva il nostro sapere e non da un confronto con Lui. Non fa quindi meraviglia che Elifaz, atteggiandosi a dottore, dica cose che si possono sapere anche se tacesse. […] Alcuni [sono gli stoici] considerano alta e sicura filosofia non sentire i colpi delle ferite e i dolori, se corretti da severa disciplina. Altri invece sono così sensibili ai colpi della sventura che, sconvolti da eccessivo dolore, si lasciano anche andare in escandescenze con la lingua. Ma chi si sforza di seguire la vera filosofia deve assolutamente evitare entrambi gli eccessi. L’insensibilità del cuore infatti non è la misura della vera virtù, perché sono molto malate e intorpidite le membra che non dolgono, neanche se incise. D’altra parte vien meno alla virtù chi è esageratamente sensibile al dolore per i colpi ricevuti. Quando il cuore è toccato da esagerata afflizione, si eccita fino all’impazienza e all’insulto. La prova deve servire a correggere le colpe passate, non a provocarne di nuove per aumento di malvagità. […] Il beato Giobbe, seguendo la regola della vera filosofia, rimase lontano dall’uno e dall’altro eccesso con mirabile senso della misura: non disprezzò le prove per insensibilità del dolore, né perse la testa di fronte al giudizio di Chi lo colpiva per eccessiva sensibilità al dolore. [...] Il fatto poi che “adorò” dimostra chiaramente che, immerso nel dolore, non si ribellò a Colui che lo colpiva. Così non si può affatto dire che non reagì: reagì temendo di disprezzare Dio con la sua insensibilità; né, viceversa, reagì in modo tale da peccare per eccesso di dolore. […] La nostra stessa anima, esclusa dalla sicura gioia del segreto interiore, ora è illusa dalla sua speranza, ora è vessata dalla sua paura, ora abbattuta dal dolore e ora sollevata dalla sua falsa allegrezza. Ama con pertinacia le cose transitorie e continuamente si spaventa per la loro perdita, perché cambia secondo il rapido mutar degli eventi: è soggetta alle cose mutevoli e per questo muta essa pure. Sempre alla ricerca di quello che non ha, lo accoglie ansiosa, e appena l’ha avuto si annoia per aver ottenuto quello che cercava. Spesso ama quel che disprezzava e poi disprezza quel che amava. Con fatica impara le cose eterne e subito se ne dimentica quando cessa di faticare. Cerca a lungo per trovare appena qualcosa delle cose supreme, ma appena tornata alla solita vita, non persevera neppure in quel poco che ha

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trovato. Desiderosa d’istruirsi, riesce a fatica a vincere la sua ignoranza, ma una volta istruita combatte più gravemente contro la gloria della scienza. A stento soggioga la tirannia della propria carne, eppure dentro di sé tollera ancora colpevoli fantasie di quel vizio di cui al di fuori ha vittoriosamente ridotto le azioni. Si eleva alla ricerca del suo Creatore, ma questa ricerca viene respinta e confusa nella nebbia amica delle cose corporee. Vorrebbe vedere se stessa reggere incorporea il corpo, ma non ci riesce. Mirabilmente ricerca quello di cui non sa darsi ragione e, senza conoscerlo, viene meno sotto quello che saggiamente cerca. Considerandosi grande e insieme limitata, non sa come veramente stimarsi; perché se non fosse grande non cercherebbe in questo modo di investigare e se, viceversa, non fosse limitata, troverebbe almeno quello che cerca. […] Da ogni parte è assediato da debolezze, da ogni parte è afflitto da malattie colui che, abbandonando Dio, credeva di trovare riposo in se stesso. Invece ha trovato in se stesso tale agitazione e turbamento, che cerca di fuggire se stesso appena si è trovato; ma avendo disprezzato il Creatore, non aveva dove fuggire.

 - Gregorio Magno (Roma 540-604) scrisse Moralia in Job (Commento morale a Giobbe) dopo il 590. Il testo riportato è tratto da: Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, a cura di P. Siniscalco, Città Nuova, Roma 1994, vol. I/1 pp. 187-188, 667-669; vol. I/2 pp. 247, 503.

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F  T, Il nulla e le tenebre EsIsTE IL NULLA? questo breve testo è una testimonianza esemplare della cosiddetta “rinascita carolingia”. Anche se l’intenzione fondamentale è quella di restare aderenti all’ortodossia della Chiesa, si può notare lo sforzo di affrontare il problema con le armi della cultura laica (logica, grammatica ecc.) ereditata dalla tradizione romana, di cui il sacro Romano Impero voleva essere la prosecuzione. Dunque in tale questione elementi teologici, filosofici, logici, linguistico-grammaticali si intrecciano indissolubilmente, nel presupposto che le strutture del pensiero e del linguaggio si identifichino con quelle della realtà. Il problema però è di estrema attualità (dopo Nietzsche e Heidegger): che cos’è il nulla? è qualcosa di pensabile? Oppure dobbiamo restare a Parmenide, per cui, essendo ammissibile solo l’essere, il nulla risulta solo dalla negazione di ciò che è, così come il male è “privatio boni”?

La questione è la seguente: se il nulla sia qualcosa, o non lo sia. Ora, se qualcuno rispondesse: «mi sembra che [il nulla] sia nulla», la sua stessa pretesa negazione lo costringerebbe a implicare che il nulla è qualcosa, proprio allorché dice «mi sembra che sia nulla». Infatti è come se dicesse: «mi sembra che [il nulla] sia un certo qualcosa»; in effetti, solo se fosse qualcosa potrebbe in qualche modo “sembrare”, se non lo fosse affatto non potrebbe sembrare in alcun modo. Di conseguenza si ammette che il nulla sembra essere qualcosa. Se però la risposta fosse: mi sembra che [il nulla] sia nulla e non sia qualcosa, a tale risposta si dovrà obiettare innanzitutto con la ragione, per quanto la ragione umana consente, quindi con l’autorità, non una autorità qualsiasi, ma l’autorità divina, la sola degna di questo nome, e l’unica dotata di una saldezza irremovibile. Procediamo dunque in base alla ragione. Ogni nome finito, come uomo, pietra, albero, significa qualcosa. Infatti non appena sentiamo nominare queste parole, istantaneamente comprendiamo le cose che esse significano. […] Ora dunque “nulla”, se è un nome, come asseriscono i grammatici, è un nome finito; ogni nome finito significa qualcosa. E ancora in verità è impossibile che qualcosa di finito non sia alcunché, e così come è impossibile che qualcosa di finito non sia “qualcosa”, così è impossibile che il nulla, il quale è finito, non sia alcunché. In tal modo si può dunque provare che esiste. Inoltre, “nulla” è un suono che ha un significato. Ogni significato si riferisce alla cosa che significa. Anche in quest’altro modo ecco dunque provato che il nulla non può non essere qualcosa. E così pure, in altre parole: ogni signi-

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ficazione è significazione di qualcosa di esistente; “nulla” significa qualcosa; pertanto il suo significato è qualcosa che è, e cioè una cosa esistente. Brevemente si è proceduto qui servendosi della ragione, benché innumerevoli siano gli argomenti razionali che possano addursi a dimostrare non soltanto la realtà del nulla ma anche la sua grandezza. Ora però ci è gradito ricorrere all’autorità divina, che è baluardo e sostegno della ragione. Se la Chiesa tutta, nata dal costato di Cristo, nutrita al pascolo della sua carne santissima e al calice del suo prezioso sangue e fin dalla culla resa edotta dei misteri divini, ispirata direttamente da Dio, ammette di tenere per certo con inconcussa fede che la divina potenza ha creato dal nulla la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco, e anche la luce e gli angeli, e l’anima degli uomini. Allora occorre, grazie ad un’autorità così alta, erigere una barriera della mente che nessuna ragione possa distruggere, nessun argomento possa confutare, nessuna forza possa scalzare. È essa ad insegnarci che tra le creature, le prime e le più importanti sono state create dal nulla. [Eppure] non bisognerà considerare il nulla, da cui provengono tante e così grandi cose, alcunché di grande e di importante, qualunque cosa sia. Perché neppure uno degli enti generati da lui può capire quel che è, valutarlo e definirlo. [Infatti], quale elemento della natura può misurare con esattezza la natura stessa? Chi può comprendere l’essere e la natura della luce, o delle creature angeliche, o dell’anima? Se dunque non riusciamo a comprendere con la ragione umana queste cose che ora ho detto, come capiremo quanto sia grande e come sia ciò da cui esse stesse hanno origine e fondamento? […] Non bisogna inoltre dimenticare che il Signore, quando divise la luce dalle tenebre (Gen., 1, 5), chiamò giorno la luce e notte le tenebre. Se dunque la parola “giorno” significa qualcosa, la parola “notte” non può non significare alcunché. Giorno d’altronde significa luce, e la luce in verità è qualcosa di grande, infatti il giorno esiste ed è pure qualcosa di grande. Perché dunque le tenebre non sarebbero qualcosa di significativo? E poiché ad esse il vocabolo notte è stato imposto da quello stesso creatore che alla luce impose l’appellativo “giorno”, bisognerà revocare la divina autorità. […] Il creatore stesso impresse il nome alle cose, creandole: affinché ciascuna cosa pronunciata col suo nome fosse compresa. E non creò nessuna cosa senza nome, né assegnò un nome se non a ciò a cui avesse assegnato un’esistenza. Se così fosse, sembrerebbe del tutto superfluo ciò che Dio ha fatto: cosa turpe da dirsi. E se dunque è turpe sostenere che Dio ha istituito qualcosa di superfluo, non può senz’altro essere superfluo il nome che Dio impose alle tenebre. E se non è superfluo è appropriato, e se in verità è appropriato e necessario, lo è perché per suo mezzo è impossibile individuare la cosa da lui significata. Risulta chiaro dunque che Dio appropriatamente istituì le cose e i nomi, ed essi sono reciprocamente necessari. […]

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Prendiamo dunque le parole stesse del Salvatore. «Filii, inquit, regni eiciantur in tenebras exteriores» (Mt., 8, 12). Si presti attenzione al fatto che chiama “exteriores” (esterne) le tenebre. L’espressione “extra”, da cui deriva “esterno”, indica un luogo. Per la qual cosa, dicendo esteriori le tenebre dimostra che esse sono localizzate. Infatti non esisterebbero tenebre esterne se non ne esistessero di interne. E d’altra parte qualunque cosa sia “esterno” necessariamente è in qualche luogo. Ciò che non esiste non ha luogo. Perciò non solo le tenebre sono esteriori, ma sono anche localizzate. Nella passione di Nostro Signore, l’evangelista ricorda che si fecero le tenebre dall’ora sesta alla nona (Mt., 27, 45). Se furono fatte, in quale modo si potrebbe dire che non fossero? Ciò che è stato fatto non può accadere che non sia stato fatto. Ciò che sempre è inesistente in verità non è mai fatto, né mai esiste. Dunque si fecero le tenebre: per cui non può dirsi che esse non esistano.

 - Fredegiso di Tours (770 ca. - 834) scrisse De nihilo et tenebris (Il nulla e le tenebre) attorno all’800. Il testo riportato è tratto da: Fredegiso di Tours, Il nulla e le tenebre, trad. it. di F. D’Agostini, Il nuovo Melangolo, Genova 1998, pp. 141-145, 149-153.

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P D, L’onnipotenza di Dio L’ONNIPOTENzA DI DIO PUò vIOLARE LE LEggI DELLA NATUR A E DELLA LOgICA? Pier Damiani, monaco e vescovo, sostenitore della riforma gregoriana, votato a una vita contemplativa improntata alla “sancta simplicitas”, fu ostile all’impiego degli strumenti della grammatica e della dialettica (che peraltro lui conosceva benissimo) e alle questioni teologiche da parte di maestri che li maneggiavano con imprudenza e sventatezza. In un momento in cui la cultura laica sembra riprendere vigore, la questione dell’onnipotenza di Dio serve dunque a mettere in evidenza il nascente conflitto tra le nuove esigenze di analisi e d’indagine intellettuale e le istituzioni tradizionali detentrici dei canoni della verità e della legittimità del discorso filosofico e teologico.

Ma dove vogliono arrivare tutti questi uomini vani, iniziatori di un dogma sacrilego, che, nel tendere agli altri i lacci delle proprie questioni, non si accorgono di precipitarvi essi stessi, a capofitto, per primi; e mentre gettano innanzi, a quelli che camminano con semplicità, gli inciampi della loro futile ricerca, urtano essi, piuttosto, contro la pietra che insorge? Forse che Dio, dicono, può fare in modo che non sia avvenuto ciò che è già avvenuto? Come se codesta impossibilità sembrasse affiorare soltanto per il passato, né si riscontrasse similmente per ogni tempo, sia passato che futuro. In effetti, anche per tutto ciò che adesso è, durante tutto il tempo in cui è, risponde senza dubbio alcuno a necessità il fatto che esso sia. Poiché, per tutto il tempo in cui una cosa è, non è possibile che questa non sia. Allo stesso modo è impossibile che, quando sta per accadere, non sia più sul punto di accadere. [...] Si veda dunque la cieca temerarietà di questi grossolani sapienti in cerca di cose vane, come, attribuendo precocemente a Dio siffatti giudizi che si riferiscono all’arte di enunciare, lo rendono del tutto impotente e privo di vigore non solo per ciò che concerne il passato, ma altresì il presente e il futuro. Costoro in verità, mentre non hanno ancora ben imparato gli elementi delle parole, si lasciano sfuggire il fondamento della limpida fede a cagione delle oscure caligini dei loro ragionamenti, e, ignorando ancora quel che s’apprende da fanciulli nelle scuole, portano nei divini misteri i cavilli del loro spirito religioso. E poiché non hanno acquistato alcuna perizia nell’uso dei primi rudimenti e dell’arte umana del ragionare, turbano colle nebbie della loro indiscrezione i puri insegnamenti della Chiesa. L’ e t à b a r b a r i c a e c a r o l i n g i a

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Or bene, siffatte deduzioni dei dialettici o retori non vanno applicate con leggerezza al mistero della divina potenza, e le regole che si sono trovate per formare dei sillogismi e trarre conclusioni dai nostri giudizi, si guardino bene costoro dal farle valere pertinacemente contro le leggi divine e dall’opporre alla divina virtù la necessità dei loro ragionamenti. Se non di meno avviene che s’usi della perizia dell’umana dialettica nell’esporre le Sacre Scritture, essa non deve usurpare con arroganza il diritto di maestra, ma deve secondarle con la dovuta reverenza, come ancella va dietro alla sua padrona, per non smarrirsi andando innanzi, e per non perdere l’intimo lume della virtù e il retto tramite del vero, coll’attenersi all’esteriore concatenazione delle parole. […] È manifesto pertanto che siffatta alternativa intorno alla quale è sorta la contesa, se cioè si possa credere che qualcosa sia stata e non sia stata nello stesso tempo, sia e non sia, debba e non debba accadere, in nessun modo può competere alla natura delle cose che esistono; ma riguarda soltanto le battaglie di parole che sogliono farsi circa le regole del concatenamento logico del discorso e del ragionamento. Perciò dobbiamo credere con fede incrollabile che Dio può tutto, sia ciò che fa sia ciò che non fa; poiché quello che è male, deve dirsi piuttosto un nulla che un qualche cosa; sicché non reca nessun pregiudizio all’affermare che Dio tutto può, il non poter fare il male, giacché il male, anziché incluso nel tutto, ne va tagliato fuori. È per questo che sovente la potenza divina butta all’aria i sillogismi agguerriti dei dialettici e le loro sottigliezze e mette allo sbaraglio le argomentazioni di tutti i filosofi, da loro ritenute necessarie e inevitabili […] Colui che ha creato la natura, ha potere di mutare a suo piacimento l’ordine naturale; e mentre ha stabilito che tutte le cose create soggiacessero al dominio della natura, ha riservato all’imperio del Suo potere l’obbedienza della natura a lui soggetta. A chi ben considera è chiaro come la luce del giorno che il Creatore delle cose, fin dagli inizi del mondo nascente, ha mutato l’ordine della natura come gli è piaciuto, anzi, per così dire, ha fatto la stessa natura in certo modo contro natura: non è forse contro natura che il mondo fosse tratto dal nulla, mentre è detto dagli stessi filosofi che niente si fa dal niente; che gli animali fossero prodotti non da altri animali, ma da elementi privi di senso, al solo cenno del suo comando; che l’uomo perdesse dormendo una costola e non provasse dolore; che la donna fosse tratta dal solo uomo senza concorso di donna, e che da una sola costola venissero fuori tutte le membra del corpo umano?

 - Pier Damiani (Ravenna 1007 ca. - Faenza 1072) scrisse l’epistola De onnipotentia Dei (L’onnipotenza di Dio) nel 1067. Il testo riportato è tratto da: P. Damiani, Lettere ai monaci di Montecassino, a cura di A. Granata, Jaka Book, Milano 1988, pp. 176-178, 187, 190.

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Capitolo

2 La rinascita del XII secolo In concomitanza con un assetto politico più stabile e con la ripresa demografica ed economica, anche la vita culturale decolla verso livelli precedentemente impensabili. Se i monasteri non restano insensibili alla ventata di rinnovamento (come testimonia la grande figura di Anselmo), a emergere sono soprattutto le nuove istanze provenienti dal mondo sociale delle città. Inoltre, attraverso la Spagna araba, l’Occidente entra in contatto con il patrimonio librario dell’antichità. Nonostante i tentativi della Chiesa di controllare la produzione intellettuale, le inedite esigenze emergenti dal laicato non riescono a trovare in essa adeguate risposte. Delle conseguenti tensioni e lacerazioni sono testimonianza sia il contrasto tra Abelardo e San Bernardo, sia la diffusione di nuove correnti ereticali – in particolare il catarismo –, sia infine le assai diffuse ansie apocalittiche e di palingenesi radicale cui da voce Gioacchino da Fiore.

G  C, Glosse a Platone Quali sono gli elementi stabiliti da dio all’origine del mondo? nel Xii secolo guglielmo di Conches (uno degli esponenti più notevoli e originali della scuola di Chartres) riprese il tentativo agostiniano di interpretazione delle verità di fede alla luce dell’apparato concettuale greco e, sviluppando l’idea di creazione, propose di concepire la natura come manifestazione di dio, essendo sua creatura. si tratta di uno sforzo notevole in quanto con strumenti limitati (guglielmo conosce solo una parte del 8MQIS nella traduzione di Calcidio, che in quest’opera puntualmente commenta) egli cerca di fornire una concezione generale del cosmo in cui non solo i motivi teologici si armonizzano con quelli razionali, ma soprattutto che evidenzia come esso sia un grande organismo, retto necessariamente da leggi intelligibili e regolato da rapporti armonici (come risulta anche da racconto della +IRIWM), edificato da dio come dimora per l’uomo che l’abita e governa come suo signore. nella dimensione religiosa cristiana umanesimo e naturalismo si fondono, giacché si presuppone che la razionalità del mondo dipenda da quella del suo Creatore e che le sue leggi siano il linguaggio divino impresso in esso.

Quasi tutti dicono che gli elementi, nei primi istanti della creazione, non occupavano luoghi determinati, ma che ora salivano, ora scendevano insieme. E aggiungono anche il motivo di ciò: per mettere in evidenza l’amore e la bontà del Creatore, cioè per dimostrare quanta confusione ci sarebbe stata nelle cose se la potenza e sapienza divine non le avessero ordinate. Noi diciamo che questa opinione è falsa e che l’argomentazione da loro addotta non è corretta. Prima dimostriamo che l’opinione è falsa, poi che l’argomentazione non è corretta. Di’ dunque, gli elementi erano corpi o no? Se non erano corpi, non erano materia di qualcosa: non erano dunque elementi, poiché questi sono materia dei corpi. Se invece erano corpi, essi occupavano un luogo: infatti ogni corpo è in qualche luogo e non può essere assolutamente senza luogo. Se erano in un luogo, erano o dove sono ora, o in un altro luogo; ma fuori degli elementi non vi è alcun luogo. Dunque erano dove sono ora, anche se non erano disposti come sono ora. Dei quattro elementi, uno [il fuoco] occupava il luogo più alto, un altro [la terra] il luogo più basso, i rimanenti due [l’aria e l’acqua] i luoghi di mezzo. Se dunque, come affermi, essi salivano insieme, anche quelli superiori salivano con gli altri, ma allora non avevano un luogo verso il quale salire. Allo stesso modo, se

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tutti fossero discesi insieme, quelli più bassi sarebbero discesi con gli altri, ma allora i più bassi non avrebbero avuto un luogo ove scendere. Dunque essi non potevano né salire, né scendere tutti insieme. Pertanto l’opinione di costoro è falsa. [...] La nostra opinione è che gli elementi siano stati nei primi istanti della creazione dove sono ora, e che essi abbiano avuto le stesse qualità sostanziali che hanno ora [...]. La terra completamente coperta d’acqua, non illuminata da luce alcuna, né segnata da case, né riempita dei suoi esseri animati, l’acqua e l’aria dense e oscure, la mancanza di stelle nel firmamento, tutto ciò essi chiamavano caos, cioè confusione degli elementi. […] Questo caos si dissolse così: giungendo l’acqua fino alla parte estrema dell’aria, quest’ultima era densa, e similmente lo era anche il fuoco, e in quella densità vi era qualche particella di sostanza terrea ed acquea che, coagulate e indurite dal calore e dalla secchezza del fuoco, crearono i corpi visibili e luminosi delle stelle. E che nella composizione delle stelle vi sia qualcosa degli elementi sia superiori che inferiori, anche se domina l’elemento superiore, lo si può dedurre dal fatto che esse sono visibili, luminose e mobili. [...]

[Timeo: Animam vero in meditate locavit, [Dio] pose l’anima nel mezzo del corpo] Fin qui Platone ha trattato delle cause del mondo e della sua creazione. Fatto questo, egli comincia a parlare del suo ornamento. È ornamento del mondo tutto ciò che si vede nei singoli elementi, come le stelle nel cielo, gli uccelli nell’aria, i pesci nell’acqua, gli uomini sulla terra ecc. ma poiché alcune di queste realtà sono sempre in movimento, altre crescono, altre ragionano, altre sentono, e non hanno ciò dalla natura del corpo ma dalla natura dell’anima, egli comincia a trattare di questa, cioè dell’anima del mondo. L’anima del mondo è uno spirito insito nelle cose che dà loro movimento e vita. Esso è tutto integro in tutte le cose, ma non opera in tutte in modo uguale. [...] Alcuni dicono che questo spirito è lo Spirito santo, cosa che noi non neghiamo né affermiamo. Platone tratta in questo modo dell’anima del mondo: mostrando come sia posta nel mondo, poi come sia stata realizzata con il pensiero dal Creatore, quindi a sua congiunzione col corpo, e le funzioni che in esso compie. Continuazione: Dio non soltanto ha creato il corpo visibile del mondo, “vero”, vale a dire “ma”, “locavit” l’anima del mondo – cioè l’ha posta – “in medietate”, non nel sole, come ritengono alcuni (poiché Platone stesso dice che il sole non è in mezzo, ma è stato collocato dopo la luna) ma “in medietate”, cioè in comune. “Medium” sta infatti spesso per “comune”. Una e medesima, infatti, l’anima del mondo è tutta intera nei pianeti, a cui dà il movimento, nelle erbe e negli alberi, a cui dà la vita vegetativa, negli animali, a cui dà la vita sensitiva, nell’uomo, a cui dà la ragione. Così essa opera

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nelle singole realtà secondo la loro specifica natura, ed esiste tutta intera in esse; ma non esercita in ugual modo tutte le sue potenze. [...]

[Timeo: itaque tertium animae genus excogitavit hoc pacto, pertanto [Dio] ha realizzato con il pensiero una terza specie di anima in questo modo] Poiché Dio volle che il mondo fosse un essere animato intelligente, e questo non poteva essere senza anima, realizzò con il pensiero l’anima. E a ragione dice “realizzò con il pensiero” e non “creò”, poiché l’anima del mondo è chiamato lo Spirito santo. Lo Spirito santo, infatti, non è né fatto né creato né generato da Dio, ma procede da lui. Quando volle realizzare col pensiero tale anima, la realizzò, e questo significa: “itaque Deus excogitavit tertium genus animae”, cioè l’anima, che è una specie, un certo modo della cosa. “Tertium” nell’aurea catena di Omero [che Giove fa scendere dal cielo alla terra e che simboleggia la gerarchia degli esseri]. La divina essenza è infatti tale che non è da nessuno, la divina sapienza è invece dall’essenza, l’anima del mondo è da entrambe queste due, i corpi celesti da questi tre, i terrestri dai precedenti quattro. Oppure “tertium”, cioè terzo, non riguardo all’essenza ma in relazione alla triplice potenza dell’anima, poiché questa ha la natura vegetativa, sensibile e razionale.

 - Gugliemo di Conches (Conches 1080 ca. - 1145) scrisse le Glosse a Platone in una data indeterminabile, anche se presumibilmente nella sua maturità. Il testo riportato è tratto da: Il Platonismo medioevale, a cura di B. Faes de Mottoni, Loescher, Torino 1979, pp. 100-104.

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U  S V, Esposizione sulla Gerarchia Celeste la natur a possiede un suo linguaggio Che Ci Consenta di interpretarne il senso? uno dei tratti tipici della filosofia medievale è la tendenza a concepire la natura in chiave simbolica, come fosse un’opera poetica. se questo modo di procedere era reso possibile sul piano teologico dalla visione di dio dietro la natura, sul piano filosofico si rifaceva alla tradizione neoplatonica, che riconosceva dietro gli eventi lunghe catene di derivazione dall’uno (cristianamente reinterpretato come dio). ugo di san Vittore (uno dei maggiori maestri della scuola di san Vittore, aperta nei pressi di parigi da guglielmo di Champeaux nel 1108) ha inteso tradurre la forte tensione verso la contemplazione mistica in termini umanistici e naturalistici: commentando il testo di dionigi areopagita, egli mostra che la natura possiede un linguaggio perché dio ha espresso se stesso nelle cose, così come un artefice si esprime nella sua opera. la meditazione assume un valore tanto filosofico che religioso in quanto, riflettendo sulla natura sensibile, si cerca di procedere oltre il piano orizzontale per cogliere i riflessi presenti in essa della realtà spirituale trascendente. Ciò nella convinzione che dio, attraverso la rivelazione e l’illuminazione, fornisca all’uomo delle verità che, pur eccedendo la ragione, non la contraddicano mai.

[L’immagine della natura e quella della grazia...] Due immagini erano state proposte all’uomo, nelle quali avrebbe potuto vedere le cose invisibili: l’immagine della natura e quella della grazia. L’immagine della natura era l’aspetto di questo mondo, l’immagine della grazia era invece l’umanità del Verbo. E in entrambe Dio si mostrava, ma non in entrambe si faceva comprendere, poiché la natura con il suo aspetto ha sì mostrato che esiste un artefice, ma non ha potuto illuminare gli occhi di chi la contempla. L’umanità del Salvatore fu invece la medicina mediante la quale i ciechi poterono ricevere la luce e, insieme, l’insegnamento che ha permesso loro, una volta riacquistata la vista, di riconoscere la verità. Lutum fecit ex sputo: et linivit oculos caeci, et lavit, et vidit (Giov., IX, 6-7). – E cosa poi? a lui che vedeva, ma ancora non conosceva, disse: ego sum, et qui loquitur tecum, ipse est Filius Dei. Prima, dunque, il Salvatore ha illuminato, poi ha dimostrato; invece la natura ha potuto dimostrare, ma non illuminare. E il mondo con il suo aspetto ha sì parlato del Creatore, ma

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non ha infuso l’intelligenza della verità nel cuore degli uomini. Le immagini della natura, dunque, significavano soltanto il Creatore; invece in quelle della grazia Dio si mostrava presente, poiché le prime le ha fatte per far comprendere che esiste, nelle seconde ha agito per farsi riconoscere come presente. Questa è la distanza che separa la teologia di questo mondo da quella teologia che si chiama divina. Le realtà invisibili si dimostrano soltanto attraverso quelle visibili: pertanto ogni teologia deve necessariamente avvalersi di dimostrazioni visibili. Ma la teologia mondana, come si è detto, ha assunto come oggetto le opere della creazione e gli elementi di questo mondo, creati secondo la loro specie, per dimostrare attraverso di essi il Creatore. La teologia divina, invece, ha come oggetto le opere della restaurazione, considerate in rapporto all’umanità di Gesù, e i suoi sacramenti che sono dall’inizio e, aggiunti a questi, anche i sacramenti naturali... Ora bisogna dire che cosa è la teologia, cominciando nella spiegazione di ciò dalle cose più alte. Tutta la filosofia si divide in tre parti principali: logica, etica e teorica... La prima, cioè la logica, riguarda il valore e il modo di ragionare e il giudizio circa il vero e il falso; la seconda, cioè l’etica, dispone a un retto modo di vivere e a una forma di disciplina secondo le norme della virtù; la terza, cioè la teorica, ha essa sola per oggetto lo scrutare il vero, sia in tutto ciò che è, sia in ciò che non è. Tre sono le parti della teorica: la prima è la matematica, la seconda la fisica, la terza la teologia; in esse la contemplazione della verità si eleva come per gradi fino alla sommità. La prima, cioè la matematica, esamina infatti le forme visibili delle cose visibili; la seconda, cioè la fisica, scruta le cause invisibili delle cose visibili; la terza soltanto, cioè la teologia, contempla le sostanze invisibili e le nature invisibili delle sostanze invisibili. E qui vi è una specie di progressione e promozione della mente, che si eleva a conoscere il vero. Attraverso le forme visibili delle realtà visibili si perviene infatti alle cause invisibili delle realtà visibili, e attraverso le cause invisibili delle realtà visibili si ascende alle sostanze invisibili e alla conoscenza delle loro nature. In ciò consiste la totalità della filosofia, e la perfezione della verità, della quale non esiste nulla di più alto per chi la contempli. [...] Già abbiamo detto sopra che cosa sia il simbolo: un insieme, una riunione di forme visibili destinate a dimostrare la realtà invisibile. Per esempio, quando vogliamo esprimere visibilmente le nature degli spiriti celesti, riuniamo insieme in un’unica forma composta volti umani, ali di uccello, affinché con il volto dell’uomo, che solo tra gli esseri visibili si serve della ragione, si comprenda che anche gli spiriti invisibili sono razionali e sapienti, mentre con le ali si esprime l’agilità delle loro nature e il loro veloce movimento... Entrambe [le realtà divine e quelle angeliche] vengono manifestate in modo adatto non soltanto attraverso i simboli rassomiglianti, cioè non sol-

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tanto attraverso figure e forme belle, somiglianti, convenienti e adatte alla maestà e alla purezza di quelle realtà, ma anche attraverso simboli dissomiglianti, cioè attraverso forme e raffigurazioni che appaiono del tutto aliene dall’eccellenza di quelle realtà e indegne della loro purezza... Dunque, i simboli rassomiglianti sono stati proposti in vista di questa dimostrazione che consiste nel far vedere la verità delle realtà invisibili con un’immagine che le assomiglia: i simboli dissomiglianti, invece, per dimostrare, attraverso il loro significato, che si deve passare dalla figura alla verità e che non ci si deve intrattenere su quelle realtà [sensibili] che non possono essere vere. Di conseguenza, quanto i simboli rassomiglianti eccellono per il loro aspetto, altrettanto quelli dissomiglianti eccellono per il loro significato, perché, per quanto i primi abbiano un aspetto più bello, gli altri hanno però un significato più evidente: quelli mostrano la verità, questi costringono a uscire dall’errore. Quelli significano la verità in modo tale che un animo inesperto può facilmente essere trattenuto da essi; questi non permettono che le anime che li contemplano si ingannino nel venerarli. Quelli, essendo segni della verità, possono talvolta, a causa del loro bellissimo aspetto, essere forse ritenuti verità, a meno che non siano quei segni nei quali la verità non è creduta, anche se è da essi significata. Altro è infatti la verità e altro il segno della verità, poiché il segno non è verità, anche se è segno della verità ed è veritiero. Dunque presentano una dimostrazione della verità più evidente quei segni che manifestano la verità stessa attraverso la rassomiglianza con la quale si avvicinano alla verità; e attraverso la dissomiglianza che li allontana dalla verità essi dimostrano di non essere verità, ma tuttavia di essere segni e immagini della verità.

 - Ugo di San Vittore (Sassonia 1096 ca. - Parigi 1141) compose questa Expositio in Hierarchiam Coelestem (Esposizione sulla Gerarchia Celeste) in data imprecisabile, ma certo dopo il 1125 quando assunse l’insegnamento nella scuola. Il testo riportato è tratto da: Il Platonismo medioevale, a cura di B. Faes de Mottoni, Loescher, Torino 1979, pp. 109-113.

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A ’A, Proslogion Quando Ci Chiediamo se esiste dio, Che Cosa intendiamo Con la parola “dio”? non si tratta di una mera questione linguistica. non stiamo parlando soltanto di un termine, ma di un’idea. Qualunque parola si voglia usare per esprimere l’idea di dio su cui due persone possano parlare (e su cui possano intendersi, che ne ammettano o no l’esistenza), quello che è in questione è appunto l’idea, non la parola. per secoli nella storia della filosofia, e ancora oggi, si è discusso se la definizione proposta da anselmo è corretta (si parla di un’idea, esista o meno un dio che corriponde a essa). se lo è, molti filosofi successivi hanno argomentato a favore o contro la tesi che questo implichi l’esistenza reale di dio al di fuori della mente, oppure hanno proposto varianti di questa argomentazione.

[Proemio] Dietro le preghiere insistenti di alcuni confratelli, scrissi un opuscolo come esempio di meditazione sulle ragioni della fede, in veste di uno che, ragionando tacitamente fra sé, indaga ciò che ignora; ma poi, considerando che lo scritto era costituito dalla concatenazione di molti argomenti, cominciai a chiedermi se non si potesse trovare un unico argomento che dimostrasse da solo, senza bisogno di nessun altro, che Dio esiste veramente e che è il sommo bene, che non ha bisogno di nulla e di cui tutto il resto ha bisogno per essere e per aver valore, e bastasse pure a dimostrare le altre verità che crediamo della sostanza divina. Ci pensavo spesso e con impegno, e talora mi pareva di afferrare quello che cercavo, talora l’argomento sfuggiva del tutto all’acume del mio pensiero; sicché alla fine, disperando di trovarlo, mi proposi di smettere la ricerca di una cosa che si presentava impossibile. Ma quando volli scacciare da me quel pensiero, affinché, occupando invano la mia mente, non mi distogliesse da altri argomenti nei quali potessi raggiungere qualche risultato, proprio allora cominciò ad assillarmi, sebbene non ne volessi sapere e mi difendessi da esso. Mentre, dunque, un giorno facevo ogni sforzo per resistere alla sua importunità, nello stesso conflitto di pensieri, mi balzò alla mente ciò che ormai disperavo di trovare, sì che afferrai con ogni impegno quel pensiero che prima mi sforzavo tanto di allontanare. […]

[Esortazione della mente a contemplare Dio] Orsù, omiciattolo, fuggi per un poco le tue occupazioni, sottraiti un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Liberati un momento dalle pesanti cure e lascia da

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parte le tue laboriose distrazioni. Dedicati per un poco a Dio e riposati in lui. «Entra nell’intimo» del tuo spirito, escludi da esso tutto all’infuori di Dio e di ciò che ti giova a cercarlo, e, «dopo aver chiuso l’uscio» [Matteo, 6,60] cerca lui. Di’ ora, o mio cuore tutto intero, di’ a Dio: «Io cerco il tuo volto, ricerco il tuo volto, Signore» [Salmo 26,8].

[Dio esiste veramente] Dunque, o Signore, che dai l’intelligenza della fede, concedimi di capire, per quanto sai che possa giovarmi, che tu esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi più grande. O forse non esiste una tale natura, poiché «lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste» [Salmo 13,1; 52,1]? Ma certo quel medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e cioè la frase «qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande», intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, altro è intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista quell’opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non solo l’ha nell’intelletto, ma intende pure che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poiché egli intende questa frase quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.

[Dio non può esser pensato non esistente] E questo ente esiste in modo così vero che non può neppure essere pensato non esistente. Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Onde se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà più ciò di cui non si può pensare il maggiore, il che è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste in modo così vero, che non può neppure essere pensato non esistente. E questo sei tu, o Signore Dio nostro. Dunque esisti così veramente, o Signore Dio mio, che non puoi neppure essere pensato non esistente. E a ragione. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa di meglio di te, la creatura ascenderebbe sopra il

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creatore, e giudicherebbe il creatore, il che è assurdo. Invero tutto ciò che è altro da te può essere pensato non esistente. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e quindi più di ogni altra cosa [...]. Perché dunque «lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste», quando è cosi evidente alla mente razionale che tu sei più di ogni altra cosa? Perché, se non perché è stolto e insipiente?

[Come lo stolto disse in cuor suo ciò che non può essere pensato] Ma come disse in cuor suo ciò che non poté pensare? O come non poté pensare ciò che disse in cuor suo, quando è la stessa cosa dire nel proprio cuore e pensare? E se pensò veramente, anzi poiché pensò veramente ciò che disse in cuor suo, e non disse in cuor suo poiché non poteva pensarlo, vuol dire che non c’è un modo solo di dire nel proprio cuore o di pensare. In altro modo infatti si pensa una cosa quando si pensa la parola che la significa, e in altro modo quando si pensa ciò che è la cosa. Ora, nel primo modo si può pensare che Dio non esista, nel secondo modo no. Nessuno infatti che intenda ciò che è Dio può pensare che Dio non esista, anche se dice in cuor suo queste parole, o senza dar loro significato o dando loro un significato diverso.

 - Anselmo d’Aosta (Aosta 1033 - Canterbury 1109) scrisse il Proslogion nel 10771078, quando era abate nel monastero di Bec (Normandia). Il testo riportato è tratto da: Anselmo d’Aosta, Proslogion, in Opere filosofiche, trad. it. di S. Vanni Rovighi, Laterza, Bari 1969, pp. 39 ss.

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A, Teologia cristiana Che r apporto C’è tr a r agione e Fede? può essere utile la r agione alla Fede? abelardo non è stato solo uno studioso di logica e un abile dialettico, ma ha inteso mettere queste arti al servizio della teologia, per rinnovare questa disciplina che la cultura monastica manteneva ferma all’impostazione interioristico-psicologica agostiniana. in questa prospettiva egli deve essere considerato un teologo a tutti gli effetti, dal momento che molta della sua produzione è dedicata appunto a queste tematiche. su di lui arriveranno presto le censure e le condanne ecclesiastiche, soprattutto per merito di bernardo di Chiaravalle che gli rimprovererà di aver preteso violare il mistero divino con le sue armi dialettiche, scivolando inevitabilmente nell’eresia. in realtà, come si può constatare dalle pagine che seguono, abelardo è ben consapevole dei limiti della ragione, ma non per questo ritiene che le si debba inibire la possibilità di esplorare nuove vie di indagine, nella convinzione che, se essa avrà avuto piena facoltà di estrinsecare le sue potenzialità (beninteso, sempre nel rispetto dell’autorità e della rivelazione), la fede non potrà che trarne profitto, uscendo rafforzata nei confronti dell’errore.

Tutti sappiamo che non è necessario il giudizio dell’autorità in quelle cose che possono essere discusse con la ragione. E per la ragione deve bastare che ciò che per tutti gli aspetti sta di gran lunga al di là di tutte le cose umane, superi le forze della discussione e dell’intelligenza umane, e che non sia compreso nell’animo umano ciò che non può essere contenuto in nessun luogo. […] Ma che importa mai, dicono, che qualcuno dica quella verità che egli stesso non è in grado di spiegare in modo da farla capire? Molto, rispondo. Quando, infatti, si ode di Dio ciò che non si capisce, ciò che si ode incita l’ascoltatore alla ricerca; e questo non avverrebbe, se non si fosse udito. Ma la ricerca produce facilmente la comprensione, se la devozione è presente. All’intelligenza Dio si degna di rivelarsi, e, spesso, ciò che si dice per ispirazione divina o si fa sotto l’azione divina, non si compie per coloro attraverso i quali si fa, ma viene indirizzato verso l’utilità degli altri. Altre, pertanto, sono le persone cui è concessa la grazia di dire e altre quelle cui è riservata la comprensione, nella misura che sarà necessaria secondo il piano della divina Provvidenza, e se la sincera devozione di qualcuno lo avrà meritato e con le preghiere e con le buone opere. Ma, intanto, finché la ragione rimane nascosta, basti l’autorità; e si mantenga l’importantissimo e notissimo principio della forza dell’autorità tramandata dai filosofi, nello la rinascita del Xii secolo

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stesso corpo della scienza: «Non conviene contraddire ciò che è accettato da tutti o dai più o dai dotti». È salutare perciò dover credere ciò che non può essere spiegato, soprattutto perché non si deve pensare che sia molto quello che la debolezza umana è in grado di discutere, ma non si deve credere per fede ciò che, spinti dalla ragione umana, ricaviamo dalle cose manifeste. Né si ha merito presso Dio nel credere non nel Dio che parla presso i santi, ma nel credere in Dio per le piccole ragioni umane, che spesso si ingannano e che difficilmente possono essere riconosciute, quando sono ragioni effettive. [...] Il beato Agostino e anche tutti gli altri Dottori della Chiesa considerano le arti secolari e la stessa dialettica estremamente necessarie soprattutto alla Sacra Scrittura. Nessuno infatti potrebbe dire che una scienza è cattiva, neppure quella che concerne il male, che non può mancare al giusto. Da ciò è pertanto chiaro che nessuna scienza o nessun potere sono cattivi, per cattivi che siano i loro impieghi, poiché Dio largisce ogni scienza e dispone ogni potere. Come dunque bisogna ascoltare i discorsi di coloro i quali negano che la fede debba essere rafforzata o difesa con le ragioni? Soprattutto quando gli stessi santi, ragionando anche di quelle cose che concernono la fede, con molte ragioni costituite da esempi e da similitudini, sono soliti rimbeccare e confutare i ribelli? Se, infatti, quando si cerca di persuadere a mutare credenza, non si deve assolutamente discutere con la ragione, se cioè si debba credere in questo modo o in un altro, che cosa rimane se non accettare passivamente ciò che dicono sia quelli che predicano il vero sia quelli che predicano il falso? Perché la fede non sia inutile e priva di merito, dichiarano apertamente che non si deve investigare con la ragione nulla che concerne i misteri della fede cattolica, ma tutto deve essere creduto sulla base della sola autorità, per lontana che essa sembri dalla ragione umana. Ma se si accetta questa posizione [...] troveremo un contrasto [...] con quasi tutti i santi Dottori che ci esortano [...] a cercare ragioni e a rendere ragioni della nostra fede. […] Alla fede non conduce tanto la testimonianza dell’autorità divina, quanto costringe l’argomento della ragione umana. Non si crede perché Dio lo ha detto, ma si accetta perché si è convinti che è così. Questa fede si distingue dalla fede di Abramo, che credette nella speranza contro la speranza e non badò alla possibilità della natura, ma alla verità di chi faceva la promessa. Ma, se i primordi della nostra fede non hanno merito, tuttavia non per questo essi devono essere giudicati inutili, dal momento che la fede, raggiunta poi dalla carità, ottiene ciò che le mancava. Ma ora al contrario sono moltissimi quelli che cercano un conforto alla loro imperizia, sicché quando cercano di insegnare quelle cose della fede che, sebbene possano essere comprese, tuttavia non sono in grado di discutere, raccomandano soprattutto quel fervore della fede che crede, prima di comprenderle, le cose

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che si dicono, e le accetta, e concede ad esse il suo assenso, prima di vedere che cosa sono, e di riconoscere se debbano essere accettate, o di discuterle in base alle sue capacità. Insistono su questo punto, quando predicano le cose che concernono la natura della divinità e riguardano la distinzione della santa Trinità, che dichiarano non poter essere comprese completamente in questa vita. […] Ma altro è comprendere o credere, altro conoscere o essere manifesto. Poiché la fede si definisce come valutazione delle cose che non appaiono, la conoscenza esperienza delle cose stesse attraverso la loro stessa presenza.

 - Pietro Abelardo (Nantes 1079 - Chalon-sur-Saône 1142) scrisse Theologia christiana (Teologia cristiana) tra il 1123 e il 1125. Il testo riportato è tratto da: P. Abelardo, La filosofia medievale. Antologia di testi, a cura di N. Abbagnano, Laterza, Bari 1963, pp. 215-219.

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A, Conosci te stesso se l’uomo ha natur ali pulsioni, Quando peCCa? abelardo ha impiegato gli strumenti della logica per rinnovare la teologia. in questa prospettiva va collocata anche la sua riflessione sull’etica, incentrata com’è sulla distinzione tra vizio e peccato, al fine di chiarire la natura di quest’ultimo. Così egli reagisce sia contro il rigorismo monastico che considera negativamente ogni manifestazione corporea, sia contro lo spontaneismo goliardico che, all’opposto, esalta come irresistibili le forze naturali dell’uomo: per salvare l’iniziativa spirituale del soggetto dalla pregiudiziale negativa del primo e dalla dissoluzione nel corpo del secondo era dunque necessario separare nettamente l’intenzione dall’azione esterna, togliendo a quest’ultima il ruolo centrale in ordine alla valutazione morale. ne deriva una morale dell’intenzione che, in modo estremamente moderno, tende a dare il massimo rilievo alla coscienza e alla consapevolezza del soggetto come condizione del significato etico dell’agire.

Diciamo costumi i vizi o le virtù dell’animo che ci rendono inclini alle cattive o alle buone azioni. Vi sono poi vizi o beni non solo dell’animo ma anche del corpo, come la debolezza fisica o la robustezza che chiamiamo vigore, la lentezza o la velocità, l’essere zoppi o l’essere diritti, l’essere ciechi o il vedere. Per stabilire la differenza da simili vizi o virtù, parlando da principio dei vizi, abbiamo aggiunto subito “dell’animo”. Quanto poi ai vizi dell’animo, essi sono contrari alle virtù, come l’ingiustizia alla giustizia, l’ignavia alla costanza, l’intemperanza alla temperanza. Vi sono poi anche alcuni vizi o beni dell’animo che sono separati dai costumi e non rendono la vita umana degna di biasimo o di lode, come l’ottusità della mente o la perspicuità dell’ingegno, l’essere privo o fornito di buona memoria, l’ignoranza o la scienza. Poiché tutte queste qualità si trovano ugualmente sia nei cattivi che nei buoni, non concorrono per nulla a formare i costumi, né rendono la vita turpe od onesta. Giustamente perciò quando più sopra abbiamo indicato per primi “i vizi dell’animo”, per escludere quelli ora nominati, abbiamo aggiunto “che ci rendono inclini alle cattive azioni”, cioè inclinano la nostra volontà a qualche cosa che non si deve affatto o fare o omettere. Il vizio così inteso non si identifica affatto con il peccato, né il peccato si identifica a sua volta con l’azione cattiva. Per esempio, l’essere iracondo, cioè incline o facile a lasciarsi prendere dall’ira, è vizio e inclina la mente a compiere in modo inconsulto e senza controllo della ragione qualche cosa che non deve essere fatto. Ora questo vizio ha la sua

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sede nell’anima in modo che sia facile ad adirarsi anche quando non viene mossa all’ira; così lo zoppicare, per cui un uomo appunto si dice zoppo, si trova in lui anche quando non cammina zoppicando, poiché il vizio c’è anche quando l’azione non c’è ancora. Del pari la stessa natura o la complessione fisica rende molti inclini alla lussuria, come all’ira; e tuttavia costoro non peccano per il fatto stesso che sono così come sono, anzi da ciò possono ricavare motivo di lotta, per riconquistare attraverso la virtù della temperanza la corona del trionfo su se stessi. [...] Il vizio è per tanto ciò per cui siamo resi inclinati ad acconsentire a cose illecite, siano azioni oppure omissioni. Ora questo consenso chiamiamo propriamente peccato, cioè la colpa dell’anima per cui essa merita la dannazione o viene a porsi in condizione di rea presso Dio. Che cos’è infatti questo consenso se non il disprezzo di Dio e l’offesa a lui recata? Dio infatti non può essere offeso dal danno, ma dal disprezzo. Dio è appunto quella somma potenza che non può essere sminuita da alcun danno, ma che vendica il disprezzo che si mostra di lei. Il nostro peccato è pertanto il disprezzo del Creatore e peccare è disprezzare il Creatore, cioè non fare per lui ciò che crediamo che per lui noi dovremmo fare, o non tralasciare per lui quello che crediamo che si dovrebbe tralasciare. [...] [...] [dunque] non chiamare peccato la volontà stessa o il desiderio di fare ciò che è lecito, ma piuttosto, come si è detto, il consenso alla volontà e al desiderio. Il consenso a una cosa illecita si ha poi quando non ci ritraiamo dal compierla, anzi siamo senz’altro pronti a tradurla in atto, qualora se ne presenti l’occasione. Chiunque pertanto è colto in un proposito del genere, incorre in modo completo nella colpa, mentre il sopraggiunto effetto dell’azione non aggiunge nulla che aumenti il peccato, ma davanti a Dio è già ugualmente reo colui che si sforza, per quanto può, di agire secondo quel proposito e che, per quanto sta in lui, lo porta a compimento; proprio come se fosse stato colto, come ricorda Agostino, addirittura nel compiere l’azione. Pur non essendo dunque la volontà peccato, tant’è vero che talora, come abbiamo detto, commettiamo dei peccati involontariamente, pure alcuni dicono che ogni peccato è volontario; essi trovano tuttavia una certa differenza tra peccato e volontà in quanto si dice che la volontà è una cosa e l’azione volontaria è un’altra; ossia che una cosa è la volontà e altra cosa è ciò che si commette per mezzo della volontà. […] Tutte queste considerazioni poi sono state da noi introdotte affinché qualcuno volendo sostenere che ogni diletto carnale è peccato non ci dica che lo stesso peccato è aggravato dall’azione, quando uno traduca il consenso dell’animo nell’atto concreto, così da macchiarsi non solo per il consenso al male ma anche per la bruttura dell’azione; quasi che ciò che avviene al di

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fuori, nel corpo, possa contaminare lo spirito. Un’azione qualsiasi pertanto non ha nulla a che vedere con un aumento del peccato; mentre non può in alcun modo inquinare l’anima, se non ciò che procede dall’anima, vale a dire il consenso, che solo abbiamo detto è peccato; non la volontà che lo precede o l’azione che lo segue. Infatti sebbene si voglia o si faccia ciò che è illecito, non si deve dire per questo che si pecca, dal momento che spesso azioni simili si compiono senza che ci sia peccato; come anche per contro il consenso può stare senza la volontà e senza l’azione; come in parte abbiamo già dimostrato, volontà senza consenso si riscontra in colui che è indotto a desiderare una donna che ha veduto, o dei frutti altrui, senza tuttavia lasciarsi trascinare all’assenso. [...] Io penso poi che nessuno ignori quanto spesso le azioni che non si devono compiere si fanno senza peccato; quando, per esempio, vi si sia indotti per violenza, o si commettano per ignoranza; come nel caso in cui una donna, subendo violenza, sia costretta a giacere col marito di un’altra o in cui uno, comunque ingannato, vada a letto con una donna che ritiene sua moglie; o come nel caso in cui uno uccida per errore un tale, credendo di doverlo uccidere in funzione di giudice. Non è pertanto peccato desiderare la donna d’altri o giacersi con lei, ma piuttosto acconsentire a simile desiderio o a simile azione. La legge chiama appunto desiderio questo consenso al desiderio, quando dice: “Non desiderare”. Infatti non dovette essere proibito il desiderare, cosa che non possiamo evitare e nella quale, come s’è detto, non pecchiamo; bensì di acconsentire al desiderio. [...] Se consideriamo poi diligentemente, vedremo che dovunque delle azioni sembrano essere determinate o da un comando o da una proibizione, il comando e la proibizione si devono riferire alla volontà o consenso alle azioni più che alle azioni per se stesse; altrimenti sarebbero condizionati da un comando elementi che nulla avrebbero a che vedere col merito; e tanto più simili elementi sono indegni d’essere fissati con un comando, in quanto non sono affatto in nostro potere. Molte sono di fatto le cause che ci impediscono d’agire; invece il consenso e la volontà sono sempre in nostro potere. [...] Allora, come non si deve chiamare trasgressione colui che fa ciò che è proibito, ma chi consente a ciò che risulta essere stato proibito, così anche la proibizione deve intendersi riferita non già all’azione, bensì al consenso. [...] Non importa nulla per il merito che tu faccia l’elemosina al povero; o che la carità ti renda pronto a farla e che la volontà sia pronta quando ti manchi la possibilità; o che non stia in te fare quanto puoi quando un caso qualunque te lo impedisce. Risulta infatti che un’azione che si deve o non si deve fare è compiuta ugualmente dai buoni e dai cattivi, i quali sono separati solo dall’intenzione. [...] Dio tien conto infatti non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e la lode di colui che agisce non consiste nell’azione, ma nell’intenzione. [...]

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Tentazione in generale si dice qualunque inclinazione dell’animo a fare qualcosa di illecito, sia che si tratti di volontà o di consenso. Tentazione umana si dice quella senza cui non può stare che raramente o mai la nostra infermità umana, come la concupiscenza della carne o il desiderio del cibo accompagnato da piacere, da cui chiedeva di essere liberato colui che diceva: «O Signore, toglimi dalle mie necessità» [Sal. XXIV, 17], cioè da quelle tentazioni di concupiscenza che sono divenute per noi quasi naturali e necessarie, affinché non mi spingano all’assenso; ch’io possa piuttosto essere del tutto libero da esse con la fine di questa vita piena di tentazioni. Quando dunque l’Apostolo dice: «Non vi colga tentazione se non umana», è press’a poco come se dicesse: Se l’animo è trascinato dal piacere che è, come s’è detto, la tentazione umana, esso non vi trascini fino al consenso in cui consiste il peccato. E come se uno chiedesse con quale forza si possa resistere a tale concupiscenza, risponde: «E fedele è Iddio, che non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze», come a dire: bisogna confidare in lui più che presumere di noi, perché egli promettendoci aiuto è verace come in tutte le promesse (che corrisponde a quel “E fedele è Iddio”), così che si deve aver fiducia in ciascuna di esse. Ed egli non permette che noi siamo tentati sopra le nostre forze quando con la sua misericordia attenua e modera la tentazione umana così che non ci costringa al male con maggior forza di quella che con la nostra resistenza si possa ribattere. Anzi in questo caso per di più Dio volge a nostro vantaggio la tentazione stessa e per suo mezzo ci esercita in modo che, sorprendendoci essa una seconda volta, possa essere meno violenta; così noi temiamo meno l’impeto di un nemico sul quale abbiamo altra volta trionfato e a cui altra volta abbiamo imparato a resistere. Infatti si sostiene con maggiore fatica e timore una battaglia che non abbiamo ancora sperimentato. Quando invece sarà entrata nella consuetudine attraverso alle vittorie ripetute, svaniscono ad un tempo la sua violenza ed il timore che incuteva.

 - Pietro Abelardo (Nantes 1079 - Chalon-sur-Saône 1142) scrisse Conosci te stesso (o Etica) verso il 1138. Il testo riportato è tratto da: P. Abelardo, Etica, a cura di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 4-10, 20-21, 28-33, 39-40.

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B  C, Della considerazione Che Cosa signiFiCa “Consider are”? bernardo, abate di Clairvaux, come esponente del monachesimo cistercense, fu soprattutto un maestro di vita ascetica e di esperienza mistica. in questa prospettiva egli fu contrario a ogni forma di discorso razionale (e per tale motivo a lungo polemizzò con abelardo), ritenendo inutile una ricerca non fondata esclusivamente sull’amore. a conoscere dio si giunge dunque non per mezzo della ragione, ma esclusivamente del mistico afflato, la cui condizione essenziale è l’umiltà. Questa conoscenza viene da bernardo distinta in vari gradi (cui sono dedicate altrettante opere): la considerazione, la contemplazione e, infine, l’estasi in cui dio scende nell’anima così come quest’ultima ascende a dio. Della considerazione tratta dunque del primo livello della ricerca, quello forse più vicino al piano della ragione naturale, in quanto invita a esaminare ciò che siamo, chi siamo e da dove veniamo, per stabilire come dobbiamo essere e quale sia la nostra meta finale.

Su, dunque, abbi il coraggio di professarti libero dal peso sì grave di tanto misere occupazioni, cui è illecito piegare il collo. Ché, se puoi ma non vuoi, segno è che tu sei doppiamente schiavo della tua perversa volontà. [...] E che cosa vuoi che io faccia?, mi chiederai. Questo: che tu ti conservi libero in mezzo a simili occupazioni. Forse mi risponderai che ciò è impossibile e che è più facile rinunciare al pontificato. Avresti ragione tu: ma io non ti esorto a romperla con queste occupazioni, bensì soltanto a interromperle per badare anche a te. Stammi a sentire ciò che ti rimprovero e ciò, invece, che ti esorto a fare. Io non posso approvarti quando tu ti dai tutto all’azione e niente alla considerazione. [...] Del resto, l’azione stessa ne perde se non è preceduta dalla considerazione. Vuoi farti tutto a tutti, a somiglianza dell’Apostolo? Lodo la tua dedizione, a patto però che essa sia completa. Ma come può esserlo, se tu escludi te stesso? Tu pure sei uomo: dunque, perché la tua dedizione sia completa, tu devi donarti non solo agli altri, ma anche a te stesso. Altrimenti, conforme alla sentenza del Signore, che ti gioverebbe guadagnare tutti gli altri, se poi perdessi te stesso? Dunque, oltre che degli altri sii anche di te stesso. [...] Anzitutto, nota che cosa io intendo per considerazione. Questa si distingue nettamente dalla contemplazione, la quale si riferisce alle verità conosciute con certezza, mentre la considerazione verte intorno alla ricerca della

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verità. Stando a questa definizione, la contemplazione può definirsi vera e sicura intuizione dell’anima circa una determinata cosa, ossia il tranquillo possesso della verità. La considerazione, invece, può dirsi un appassionato pensiero di ricerca, oppure un intenso protendersi dell’anima alla scoperta della verità. [...] Perché la considerazione ti riesca fruttuosa, io penso che tu la debba fare su questi quattro punti: su di te, su ciò che sta sotto di te, su quel che sta intorno a te e sulle cose che stanno al di sopra di te. La considerazione cominci anzitutto da te, perché non succeda che si estenda altrove trascurando proprio te. Che t’importa guadagnare anche tutto l’universo se poi perdi te stesso? Pur essendo tu tanto saggio, non lo saresti però se tu trascurassi te stesso. Non credi? È così. Conoscessi, tu, tutti i misteri della terra, del cielo e del mare, se non conosci te stesso somigli a chi costruisce senza porre le fondamenta e accumula rovine invece che innalzare solide costruzioni. Qualunque edificio tu voglia elevare al di fuori di te, sarà un mucchio di polvere che verrà spazzata via dal vento. Non è saggio chi non bada a se stesso, ma solo colui che al proprio fonte attinge per primo. Dunque, da te incominci e in te finisca la tua considerazione; e ogni volta che essa tenti di disperdersi, tu richiamala a te con salutare profitto. Sii per te il primo e l’ultimo: prendi esempio dal sommo Padre di tutti, che da sé genera il Verbo senza che il Verbo da lui si separi. Il tuo verbo è la tua considerazione, che, se pur parte da te, non deve da te allontanarsi: si muova essa da te, ma non si discosti da te: esca da te, ma non ti lasci. Per quanto concerne la tua salvezza eterna, nessuno ti sia più fratello del figlio unico di tua madre, che sei tu. Non pensare nulla che sia contro la tua salvezza eterna. Ho detto poco, anzi: avrei dovuto dirti di non pensare ad altro che alla tua salvezza eterna. Qualunque cosa voglia diventare oggetto della tua considerazione, ma non abbia alcun rapporto con la tua salvezza eterna, respingila. [...] Ma di ogni uomo è il più nobile colui che, compatibilmente con le esigenze dell’umana fragilità, disprezzato lo stesso uso delle cose e dei sensi, non attraverso graduali ascensioni, ma d’un balzo improvviso, ha contratto l’abitudine di volare, talvolta, alla contemplazione delle cose divine. [...] Questi, dunque, i tre gradi della considerazione quaggiù, sulla terra del pellegrino: con il proprio sforzo e con l’aiuto della grazia l’anima reprime la sua sensualità per non esserne travolta; oppure la costringe per non esserne deviata; ovvero la rifugge per non esserne imbrattata: nel primo caso l’anima si mostra più forte, nel secondo più libera, nel terzo più pura. Comunque quel volo è possibile con le ali della purezza e dell’alacrità insieme. Vuoi distinguere nominativamente queste tre specie di considerazione? Ecco, chiamiamole così: dispensativa la prima, estimativa la seconda, speculativa la terza. La definizione di ciascheduna ti darà ragione del loro nome. Dispensativa è la considerazione che raggiunge Dio usando dei sensi

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e delle cose sensibili con ordine e insieme con gli altri. Estimativa si dice la considerazione che, nella ricerca di Dio, scruta e pondera ogni cosa con prudenza e con diligenza. Speculativa si chiama infine la considerazione che, per quanto glielo consente l’aiuto divino, raccogliendosi tutta quanta in se stessa, si sottrae alle cose umane per elevarsi alla contemplazione di Dio. Credo che ti sarai senz’altro accorto che la terza specie di considerazione è il frutto delle prime due: se queste non conducono a quella, hanno solo apparenza ma niente sostanza. [...] Dunque, la prima prepara l’anima alla contemplazione, la seconda gliene fa sentire l’incanto, la terza ve l’immerge gaudiosa. D’accordo che anche le prime due conducono al gusto della contemplazione, ma molto più lentamente: con più fatica la prima, con meno ardore la seconda.

 - San Bernardo di Chiaravalle (Digione 1090 - Clairvaux 1153) compose il De Consideratione (Della considerazione) tra 1149 e il 1152 per papa Eugenio III suo ex discepolo. Il testo riportato è tratto da: San Bernardo, Della considerazione, a cura di L. Scanu, Edizioni Paoline, Alba 1966, pp. 87-89, 115-117, 223.

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I, Scivias Qual è il r apporto tr a l’uomo, il Cosmo e la storia della salVezza? ildegarda, di nobile famiglia e monaca benedettina, è una figura straordinaria per forza intellettuale e profondità spirituale: le sue opere si presentano non come prodotti della propria mente, ma come visioni mistiche che ella ha ricevuto direttamente da dio con l’ordine di trascriverle. 7GMZMEW (il titolo significa “ho conosciuto le vie” o “affinché possiate conoscere le vie del signore”) contiene le visioni che, percorrendo tutta la storia della salvezza, trattano dei rapporti tra dio e gli uomini nella creazione, nella redenzione e nella Chiesa in un quadro che comprende anche una concezione dell’universo, la struttura dell’uomo, la sua nascita, la sua morte e la natura del suo spirito. per questo motivo le sue pagine, lungi dall’essere una mera manifestazione di un profetismo irrazionalistico, sono al contrario una delle più significative espressioni della cultura medievale, frutto di una vasta dottrina e di una intelligenza attenta alle problematiche morali e politiche del suo tempo.

Dopo vidi un grandissimo oggetto rotondo e opaco, somigliante a un uovo, stretto in alto, ampio in mezzo e ristretto in basso. Nel circolo della parte esterna c’era un fuoco luminoso, che aveva sotto una pelle ombrosa. Ed in questo fuoco c’era un globo di fuoco scintillante e rosseggiante. Era così grande che illuminava interamente quell’oggetto [il sole]. Aveva sopra di sé tre piccole fiaccole volte verso l’alto [Marte, Giove, Saturno], le quali contenevano nel suo stesso fuoco il globo, affinché non si sprofondasse. Quel globo si elevò alquanto in su, e moltissimo fuoco gli andò incontro, sicché diffuse da lì, in largo, le sue fiamme. Si piegò alquanto in giù ma un gran freddo gli venne incontro per cui anche per questo avvicinò a sé le fiamme più in fretta. Da quel fuoco che aveva circondato l’oggetto, usciva un vento con i suoi turbini e anche da quella pelle, che c’era sotto, usciva un altro vento con i suoi turbini che si diffondevano qua e là nello stesso oggetto. Nella stessa pelle ardeva un fuoco tenebroso così orrendo, che non riuscii a fissarlo. Batteva tutta la pelle con la sua potenza perché era pieno di suoni, di tempeste e di acutissime pietre, più grandi e più piccole. Mentre ognuno elevava il suo suono, quel fuoco luminoso e i venti e l’aria si muovevano, sicché le folgori precedettero lo stesso tuono, perché quel fuoco sentiva in sé per primo la violenza di quel suono. la rinascita del Xii secolo

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Sotto la pelle scura c’era poi un’aria purissima. Non avendo sotto di sé alcuna pelle, vi vedevo anche un grande globo di fuoco luminoso e molto grande [la luna]. Sopra di lui aveva due fiaccole chiaramente collocate in alto, che contenevano quel globo in modo che non uscisse fuori dal suo corso [Venere e Mercurio]. E nella stessa aria erano state poste ovunque molte sfere luminose [le stelle], nelle quali lo stesso globo ogni tanto mandava la sua luce, perdendo il suo splendore. Tuttavia, dirigendosi verso il suddetto rosso igneo globo e facendo rinnovare da lui le fiamme, di nuovo aleggiò in quelle sfere. Dalla stessa aria un vento coi suoi turbini si diffondeva e si dilatava ovunque nell’oggetto anzidetto. Poi sotto la stessa aria vedevo un’aria acquosa. Aveva una pelle bianca sotto di sé [l’aria che circonda la terra] che, diffondendosi qua e là, rendeva umido tutto l’oggetto. Talvolta, questa umidità si riuniva improvvisamente ed emetteva con molto fragore una repentina pioggia. Poi, mentre si diffondeva dolcemente, faceva cadere una blanda pioggia con lieve movimento e un vento, uscendo da esso coi suoi turbini, si diffondeva ovunque nel suddetto oggetto. In mezzo a questi elementi c’era un globo arenoso [la terra] molto grande, che gli stessi elementi circondavano in modo che esso non poteva cadere in nessuna parte. Eppure ogni tanto gli stessi elementi, quando i rispettivi venti si scuotevano a vicenda, facevano vacillare alquanto lo stesso globo con la loro forza. E udii tra aquilone e oriente un altissimo monte. Aveva molte tenebre verso aquilone e verso oriente molta luce, tuttavia né quella luce poteva toccare le tenebre, né quelle tenebre la stessa luce. E udii di nuovo dal cielo una voce che mi diceva: Dio, con la sua divina volontà ha creato tutte queste cose perché venga conosciuto e onorato il suo nome divino. Con la sua creazione non solo mostra le cose visibili e temporali, ma anche quelle invisibili ed eterne. La visione che vedi, te lo indica. L’immenso oggetto, rotondo e opaco, che vedi, addita ai credenti Dio onnipotente, incomprensibile nella sua maestà, inesplorabile nei suoi misteri che sono la speranza di tutti i fedeli. [...] Il globo di fuoco rosseggiante nel suo splendore indica in Dio Padre l’Unigenito, il Figlio della Giustizia, inesprimibile nella luce dell’amore. Esiste in tanta gloria che dalla luce della sua parola viene illuminata ogni creatura. Ad un certo punto il globo si elevò in su e moltissimo fuoco gli andò incontro, ciò significa l’ora in cui l’Unigenito di Dio doveva incarnarsi secondo la volontà del Padre, per redimere e sollevare gli uomini. [...] Sotto la pelle scura c’è l’aria purissima. Proprio sotto i lacci del tentatore splende in chiara luce la fede. Nessuna incertezza, tipica dell’infedeltà, scuote la certezza della fede, perché la fede non è fondata in sé, ma dipende da Cristo. Perciò vedi nell’aria un grande globo luminoso. È simbolo della vera visione della Chiesa invincibile, la quale irradia nella fede il bianco splendore della chiara innocenza dell’alto onore. Le due fiaccole che si trovano al di sopra di essa, sono i due Testamenti [biblici], che

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innalzano la Chiesa verso i divini precetti dei misteri celesti. Il Vecchio e il Nuovo, entrambi le danno appoggio per non perdersi nella varietà delle diverse strade, e le fanno vedere la beatitudine dell’eredità celeste. Le sfere numerose, diffuse nella medesima aria, rendono visibili molte e splendide opere di pietà, compiute nella purezza della fede. Attraverso di esse, la Chiesa si allarga nella bellezza dei suoi miracoli, anche se talvolta tali opere vengono soppresse. L’umidità sotto la pelle bianca significa l’acqua del battesimo che si diffonde sotto l’aria pura, cioè sotto la fede, come ciò era vivo nei Padri antichi e nuovi della Chiesa. Come la pioggia, l’acqua del battesimo [...] dà origine al vento che con i suoi turbini si diffonde dappertutto. Ciò significa che il battesimo, che porta la salvezza ai fedeli, esce con parole di verità annunciate con prediche severe, e penetra tutto il mondo, rivelando la fede cattolica a coloro che desiderano aprirsi ad essa. [...] L’altissimo monte che vedi tra aquilone e oriente indica che la grande caduta dell’umanità (il peccato originale) s’innalza tra la cattiveria del diavolo (le tenebre del nord) e la bontà di Dio (la luce dell’oriente).

 - Ildegarda di Bingen (Bermersheim vor der Höhe 1098 - Bingen am Rhein 1179) scrisse Scivias tra il 1141 e il 1151. Il testo riportato è tratto da: Ildegarda di Bingen, Scivias, a cura di G. della Croce, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2002, pp. 71-76.

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A  L, Regole del diritto celeste Come deVe essere pensato dio? Questo maestro è stato uno dei maggiori innovatori del linguaggio teologico del Xii secolo, proponendo, specie in questa Regola del diritto celeste, una forma di teologia assiomatica tesa a far derivare l’intero corpo della dottrina cristiana da principi autoevidenti, sul modello della geometria euclidea. partendo dalla lezione di dionigi areopagita, egli giunge a concepire dio come forma semplicissima e quindi impredicabile: il linguaggio deve subire così un processo di metaforizzazione in cui le parole vengono usate in un senso diverso da quello consueto (per esempio dio viene chiamato “monade” per evidenziare l’immutabilità e la non numericità della trinità), fermo restando che solo le negazioni esprimono il senso proprio di ciò che si può dire della somma verità. in questo quadro si inserisce l’immagine di dio (che avrà una lunga fortuna fino all’ottocento) come sfera il cui centro è ovunque e in nessun luogo la circonferenza.

Dio è detto non solo uno, ma anche monade, cioè unità, per molte ragioni. È detto unità o uno a causa della semplicità o singolarità. A Dio sono infatti estranei qualsiasi numero e qualsiasi pluralità. [...] Dio infatti non presenta diversità di parti, poiché è incorporeo, non presenta diversità di proprietà perché, come dice Agostino, in lui non vi è alcun numero, né alcuna diversità. Non presenta diversità secondo molteplici effetti, poiché non è causa formale. Per questo motivo è veramente uno, anzi unità. [...] Il termine uno riferito a Dio predica l’immutabilità. È chiamato uno anche secondo un procedimento di esclusione per significare: Dio è uno, cioè non è molti. Infine è chiamato uno o unità a causa della similitudine, poiché ha una molteplice similitudine con l’unità. L’unità non deriva da nulla e ogni pluralità discende dall’unità. L’unità genera da sé l’unità, da sé produce l’eguaglianza. Così Dio non viene da nulla e qualsiasi cosa viene da lui. Così da sé genera un altro sé, cioè il figlio, da sé produce un proprio uguale, cioè lo spirito. [...] La monade genera la monade e riflette in sé il proprio ardore. Questa regola nasce dalla precedente. Si è affermato infatti che Dio è definito monade perché genera da sé Dio, e da sé produce anche lo spirito santo, come l’unità genera da sé l’unità. Dunque “la monade genera la monade”, cioè il padre genera il figlio. Da un essere semplice infatti nulla può essere generato per divisione, come avviene nella generazione naturale. È pertanto necessario che da un essere semplice o nulla venga generato, oppure si generi il sem-

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plice. Perciò Agostino dice che il padre ha trasmesso l’intera sostanza nel figlio, poiché quest’ultimo è della medesima sostanza non per divisione, ma per pienezza di natura. E poiché dal padre e dal figlio procede lo spirito santo, nella regola correttamente segue: “e riflette in sé il proprio ardore”. Lo spirito santo è detto ardore, amore, bacio, legame del padre e del figlio, poiché il padre si congiunge in modo speciale con il figlio infondendo lo spirito santo, e nei doni dello spirito santo, elargiti dal padre e dal figlio, è indicato il loro amore per noi. Dunque poiché l’effusione dello spirito santo dal padre e dal figlio è il segno certo dell’amore del padre e del figlio, cioè dell’unità di entrambi – se non convenissero in una sola natura non spirerebbero con un’unica spirazione – è chiamato ardore o amore del padre e del figlio. [...] Tutte le cose tendono all’uno come al fine supremo. La creatura irrazionale, apparentemente meno coinvolta in questa tendenza, come gli animali selvaggi, persino le creature prive di sensibilità, come le erbe e gli alberi, o quelle inanimate, come le pietre, tendono naturalmente verso l’uno e resistono, per quanto possono, alla scissione e alla divisione. [...] Ogni composizione è estranea a Dio. Non è infatti composto di parti, come un corpo, né secondo le proprietà, come uno spirito, né secondo l’attitudine alla composizione, come una qualsiasi proprietà; né secondo l’attitudine del composto, come la materia primordiale. Dio infatti è forma senza sostanza materiale e sostanza senza predicato formale. In quanto assolutamente semplice non ha principio né fine; dove non vi può essere alcuna composizione in atto o per natura, né alcuna origine o principio, non è corretto pensare a un fine. [...] Dio è la sfera intelligibile il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo. Questa regola è provata da quella in cui si dice: “Solo la monade è alfa e omega senza alfa e omega”. Dio è detto “sfera” per il fatto che manca di principio e di fine, infatti è proprio della forma sferica mancare di principio e di fine. Non è tuttavia una sfera corporea, ma una sfera intelligibile; quando infatti si dice che Dio è una sfera non è necessario lasciarsi trascinare al livello delle immagini, così da raffigurarlo come una sfera a somiglianza dei corpi, ma sotto la guida dell’intelligenza comprendere che è detto “sfera” poiché è eterno. Per questo Marziano dice che l’eternità ha un diadema, per significare che essa manca di principio e fine. In seguito dice: “il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo”. Quale grande differenza tra la sfera corporea e la sfera intelligibile. Nella sfera corporea a stento è possibile fissare in qualche luogo il centro, a causa della sua ridotta dimensione, mentre si comprende che la circonferenza occupa una pluralità di luoghi. Nella sfera intelligibile invece il centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. La creatura è detta centro: come il tempo, paragonato all’eternità, è considerato un istante, così la creatura, confrontata all’immensità di Dio, è un punto o un centro.

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L’immensità di Dio è detta invece circonferenza: ordinando tutte le cose, in certo modo le circonda e racchiude tutte nella sua immensità. Vi è ancora un’altra differenza tra la sfera corporea e quella intelligibile: nella sfera corporea il centro è immobile e la circonferenza è in movimento; nella sfera intelligibile il centro è in movimento e la circonferenza è immobile, poiché Dio, “rimanendo stabile, fa sì che tutte le altre cose si muovan”. [...] Ogni nome, nella sua istituzione originaria, è dato a partire da una proprietà o da una forma (dice infatti Boezio: «Solo l’animo umano, che dà i nomi alle cose secondo la propria volontà, è al di sopra di tutte le realtà composte di materia e forma»), ma quando viene rivolto a significare la forma divina decade dalla forma a partire dalla quale è stato dato e diviene in qualche modo privo di forma. Quando il nome significa la divina essenza, perciò, diviene prenome, perché non ne significa che la pura sostanza; e, sebbene sembri ancora significare la propria forma o qualità, non le significa realmente, ma significa la forma divina, come quando per esempio si dice che Dio è buono o giusto.

 - Alano di Lilla (Lilla 1125 ca. - Citeaux 1203) scrisse le Regulae caelestis iuris (Regole del diritto celeste) nel 1160 circa. Il testo riportato è tratto da: Alano di Lilla, Regole del diritto celeste, in Sulle tracce di Dio, a cura di M. Rossini, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 71-73, 75-77, 80-81, 84.

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A , Libro dei due principi se C’è un solo dio, Come è possibile il libero arbitrio? l’eresia catara, che imperversò nell’europa meridionale fino agli inizi del XiV, toccò anche l’italia in modo capillare, costringendo la Chiesa a un’opera di repressione molto intensa. per i suoi effetti, quasi tutti i testi della setta furono distrutti, per cui le sue dottrine erano note solo attraverso i verbali dell’inquisizione: nel 1939 furono però rinvenuti alcuni scritti di cui il Liber de duobus principiis è sicuramente il più rilevante, perché contiene l’esposizione degli insegnamenti fondamentali almeno di uno dei suoi maestri più importanti, giovanni da lugio. essi consistono in una teologia fondamentalmente dualista di derivazione iraniana, da cui consegue la negazione del libero arbitrio, in quanto l’individuo diventa strumento di una delle due divinità in lotta.

Perciò dicono che Dio ha creato fin dal principio i suoi angeli di una natura tale per cui potessero compiere il bene e il male a loro piacimento, e hanno chiamato questa facoltà libero arbitrio o, taluni altri, arbitrio: si tratterebbe di una forza libera o facoltà grazie alla quale colui che ne beneficia può compiere tanto il bene quanto il male. Per questo affermano che giustamente e con ragione Dio potrà dare loro gloria o castigo; avendo potuto peccare e non avendo peccato riceveranno la gloria, mentre avendo potuto fare il bene e non avendolo fatto riceveranno il castigo. [...] Pertanto affermano che Dio non ha potuto creare i suoi angeli perfetti, cioè di una perfezione tale per cui non fossero in alcun modo capaci di peccare o di fare il male, perché il Signore stesso, come si è detto in precedenza, non avrebbe provato alcuna gratitudine nei loro confronti per il servizio che gli avessero reso. Dicono anche che Dio non ha voluto crearli di una natura tale per cui potessero fare sempre soltanto il male e non il bene perché gli angeli a buon diritto avrebbero potuto scusarsi dicendo: «Non siamo stati capaci di fare altro che il male a causa della disposizione che ci hai assegnato fin dal principio». Perciò i nostri avversari dicono che Dio ha creato i suoi angeli fin dal principio con una disposizione tale per cui potessero fare sia il bene che il male. E così il Signore stesso potrà con piena ragione giudicare i suoi angeli, perché hanno potuto peccare e non hanno peccato, o perché hanno potuto non peccare e hanno peccato. In questo modo i nostri avversari si vantano senza discrezione contro di noi. Mi propongo di prendere in esame quanto è stato detto sopra, cioè la tesi dei nostri avversari secondo cui, se Dio avesse creato fin dal principio i la rinascita del Xii secolo

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suoi angeli di una perfezione tale per cui non fossero assolutamente capaci di peccare o di fare il male, il Signore non avrebbe avuto nei loro riguardi alcuna gratitudine per il loro servizio, giacché essi non avrebbero potuto agire altrimenti. Ora, ritengo che questa tesi ritorni a mio vantaggio. Infatti, se Dio è grato a qualcuno per il suo servizio, ne consegue necessariamente, mi pare, che qualcosa manca a lui e alla sua volontà, poiché egli vuole e desidera che avvenga qualcosa che non è o desidera avere quello che non ha. Di conseguenza, sembra che noi possiamo servire Dio compiendo ciò che manca alla sua volontà o fornendogli qualcosa di cui è privo – o per sé o per gli altri –, come suggerisce chiaramente l’autorità evangelica ricordata in precedenza: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere» [Mt., 25, 35] [...] Da ciò appare evidente che la volontà di Dio e di suo Figlio Gesù Cristo non era ancora del tutto compiuta: la qual cosa sarebbe del tutto impossibile se ci fosse un solo principio principale buono, santo, giusto e perfetto. Questa è dunque la maniera con cui possiamo servire Dio e Cristo quando compiamo la loro volontà con l’aiuto del vero Padre: allontanando la fame e le altre avversità dalle creature del buon Signore. Così il Signore stesso potrà avere gratitudine per noi quando avremo compiuto ciò che egli vuole e desidera che avvenga. E questo sembra essere affatto favorevole alla mia tesi, perché né Dio né l’uomo possono desiderare o volere alcunché se non quando si trovano nella situazione di subire ciò che non vogliono o che li opprime, o per sé o per gli altri. Il che sembra del tutto contrario alla tesi di coloro i quali affermano che vi è un solo principio principale integro e perfetto. Ciò accadrebbe solo se esso fosse diviso contro se stesso e se nocesse a sé e agli altri, cioè se facesse di per se stesso senza costrizione da parte di alcuno ciò che in futuro si rivelerà dannoso a lui e ai suoi e che lo renderà triste, afflitto e dolente. [...] E così apparirebbe chiaramente, secondo la tesi di coloro che credono vi sia un solo principio principale, che Dio stesso e suo Figlio Gesù Cristo, i quali secondo loro sono un solo e identico essere, si sono resi tristi, afflitti e dolenti, subendo afflizione da se stessi senza che vi fossero costretti da alcuno. Ma è impossibile ed empio pensare questo del vero Dio. Perciò dobbiamo ammettere necessariamente che vi è un altro principio, quello del male, il quale opera perfidamente contro il Dio vero e la sua creatura; tale principio sembra incitare Dio contro la sua creatura e la creatura contro il suo Dio: è lui a far sì che Dio voglia e desideri ciò che di per se stesso non avrebbe mai voluto. Così, a causa del turbamento provocato dal Dio malvagio, lo stesso Dio vero vuole e soffre, si pente, serve le proprie creature ed è da esse aiutato. [...] Questa è dunque la maniera in cui possiamo servire Dio: quando portiamo a compimento le sue opere o piuttosto quando Dio stesso compie per

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nostro tramite i suoi disegni. Così egli ha realizzato per mezzo del Signore Gesù la salvezza del suo popolo, benché Cristo non avesse fatto nulla di buono di per se stesso, e nemmeno per mezzo del suo libero arbitrio. [...] Da ciò risulta con sufficiente chiarezza che non possiamo servire Dio compiendo per mezzo del libero arbitrio qualche bene di cui egli ci sia grato come se lo facessimo per nostra propria virtù o capacità, cioè come se egli non fosse causa e principio di questo bene, secondo quanto si è mostrato in precedenza con la massima evidenza. Soprattutto per il fatto che, da noi stessi, non abbiamo assolutamente alcuna forza, come afferma il beato Pietro negli Atti degli Apostoli a proposito dello zoppo che fu risanato: «Uomini di Israele, perché vi meravigliate di questo o perché ci guardate come se avessimo fatto camminare quest’uomo per nostra propria virtù o capacità» [Atti, 3, 12]. Quasi dicesse: non siamo stati noi, ma è stato «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» [cfr. At., 3, 13] a fare questo. E così appare chiaramente che tutto ciò che si trova di buono nelle creature di Dio viene da lui e per suo tramite, ed è lui che lo fa essere e ne è causa, come si è mostrato in precedenza. Il male, invece, qualora se ne trovi nel popolo di Dio, non viene dallo stesso Dio vero né per suo tramite; non è lui che lo fa essere e ne è stato o ne è la causa [...]. E così si deve comprendere chiaramente che la superbia e l’iniquità o empietà, la zizzania, la profanazione del tempio santo di Dio e la devastazione della sua vigna non sarebbero in alcun modo potute derivare propriamente e principalmente dal Signore buono né dalla sua creatura buona, la quale dipende direttamente da lui in tutte le sue disposizioni. Ne consegue ancora una volta che vi è un altro principio, quello del male, il quale è origine e causa di ogni superbia e iniquità e delle contaminazioni del popolo e di tutti gli altri mali.

 - Nulla sappiamo dell’autore. Il Liber de duobus principiis (Libro dei due principi) fu composto verso il 1240 nella zona del Lago di Garda dove, a Desenzano, esisteva una delle più importanti chiese catare del Nord. Il testo riportato è tratto da: La cena segreta. Trattati e rituali catari, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 1999, pp. 153-161.

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G  F, Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento l’immagine trinitaria dell’umanità e della storia riprendendo l’insegnamento di agostino, secondo il quale nella mente divina sono presenti i modelli eterni di tutta la realtà creata, gioacchino proietta il dinamismo trinitario della vita divina nell’evoluzione della storia, che viene così a essere scandita in tre età, corrispondenti alla processione delle tre persone divine. in tal modo ne risulta un progresso qualitativo relativo al graduale manifestarsi della bontà divina nella vita e nel tempo umano, fino alla piena manifestazione, per la pienezza della grazia, del messaggio evangelico nella terza età. anche la società sarà strutturata secondo tre ordini, disposti in una scala di religiosità, che riflette la processione dell’interna vita divina e la sua esplicazione storica. Queste idee avranno una vastissima eco, non solo durante il medioevo, ma (pur con varie reinterpretazioni) anche nell’età contemporanea.

Tre dunque sono gli stati del mondo, che, come abbiamo già scritto in quest’opera, i simboli dei testi sacri ci prospettano. Il primo è quello in cui siamo vissuti sotto la legge; il secondo è quello in cui viviamo sotto la grazia; il terzo, il cui avvento è prossimo, è quello in cui vivremo in uno stato di grazia più perfetta. Dunque, il primo si è svolto sotto il dominio della scienza, il secondo trascorre sotto quello della sapienza, il terzo usufruirà della pienezza dell’intelletto. Il primo è trascorso nella schiavitù, il secondo è caratterizzato da una servitù filiale, il terzo si svolgerà sotto il segno della libertà. Il primo è contraddistinto dai flagelli, il secondo dall’azione, il terzo dalla contemplazione. Il primo è segnato dal timore, il secondo dalla fede, il terzo dalla carità. Il primo è il periodo degli schiavi, il secondo è quello dei figli, il terzo è proprio degli amici. Il primo è il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei fanciulli. Il primo è stato illuminato dalla luce delle stelle, il secondo da quella dell’aurora, nel terzo splenderà il pieno giorno. Il primo corrisponde all’inverno, il secondo all’inizio della primavera, il terzo all’estate. Il primo ha prodotto le ortiche, il secondo le rose, nel terzo fioriranno i gigli. Il primo ha dato le erbe, il secondo le spighe, il terzo darà il grano. Il primo ci ha fornito l’acqua, il secondo il vino, il terzo fornirà l’olio. Il primo riguarda il periodo di settuagesima, il secondo quello di quaresima, il terzo le feste pasquali. Il primo stato appartiene dunque al Padre, che è autore di tutte le cose; il secondo al Figlio, che si è degnato di condividere 48

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il nostro fango; il terzo allo Spirito Santo, di cui dice l’Apostolo: «Dove c’è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà». Il primo dei tre stati di cui parliamo si svolse al tempo della legge, quando il popolo del Signore, ancora relativamente infantile, viveva in condizione di schiavitù sotto gli elementi di questo mondo, non essendo in grado di conseguire la libertà dello spirito fino a quando venne Colui che disse: «Se il Figlio vi avrà liberato, sarete veramente liberi». Il secondo stato è quello incominciato sotto il Vangelo e perdura tuttora, in libertà certamente rispetto al passato, ma non in libertà rispetto al futuro. [...] Il terzo stato avrà inizio verso la fine del mondo, ormai non sotto il velo della lettera, bensì in piena libertà dello Spirito, quando, evacuato e distrutto lo pseudovangelo del figlio della perdizione e dei suoi profeti, «coloro che educheranno il popolo alla giustizia saranno come lo splendore del firmamento e brilleranno come stelle per tutta l’eternità». Il primo stato, che fiorì al tempo della legge e della circoncisione, ebbe inizio da Adamo. Il secondo, rifulgente nell’età del Vangelo, è incominciato da Ozia. Il terzo dal tempo di San Benedetto, il cui massimo splendore è da aspettarsi verso la fine, cioè nel tempo in cui si rivelerà Elia e il popolo infedele dei Giudei si convertirà al Signore. In relazione a questo tempo, lo Spirito Santo sembra gridare con la sua voce nella Scrittura: «Il Padre e il Figlio hanno operato fino ad ora; ed io pure opero». Come infatti la lettera dell’Antico Testamento per una certa attribuzione simbolica sembra appartenere al Padre, e la lettera del Nuovo Testamento al Figlio, così l’intelligenza spirituale, che scaturisce dall’una e dall’altra, appartiene allo Spirito Santo. E ancora, come l’ordine dei coniugati, che rifulse nel primo periodo, per la caratteristica della similitudine sembra appartenere al Padre, l’ordine dei predicatori, il cui splendore si è manifestato nel secondo periodo, appartiene al Figlio, così l’ordine dei monaci, al quale è stato assegnato il grande periodo finale, appartiene allo Spirito Santo. In base a ciò, il primo stato è attribuito al Padre, il secondo al Figlio, il terzo allo Spirito Santo, quantunque, considerando il problema da un’altra angolazione, lo stato del mondo debba essere detto uno, uno il popolo degli eletti, e ogni cosa sia al tempo stesso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Come gli stessi cambiamenti dei tempi e delle attività attestano che sono tre gli stati del mondo, sebbene si dica che sia uno solo tutto questo mondo presente, così sappiamo che sono tre gli ordini degli eletti, quantunque sia uno solo il popolo di Dio, e una sola la plebe, tanto in base all’autorità dei santi Padri, quanto per l’evidenza stessa delle cose. Di tali ordini il primo è dei coniugati, il secondo è dei chierici, il terzo è dei monaci. L’ordine dei coniugati fu iniziato da Adamo, e cominciò a fruttificare a partire da Abramo. L’ordine dei chierici fu iniziato da Ozia, che, essendo della tribù di Giuda, offrì l’incenso per il Signore, anche se non impunemente; prese a fruttificare poi da Cristo, che è vero re e sacerdote. L’ordine dei monaci, secondo una propria regola alla quale lo Spirito Santo ha conferito una perfetta autori-

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tà, cominciò da San Benedetto, un uomo certamente insigne per miracoli, opere e santità; la sua fruttificazione si avrà nel periodo finale. Veramente ci sono stati dei monaci, e monaci abbastanza insigni prima di lui; ma, perché in alcuni l’ordine monastico sia stato anticipato, sarà detto in seguito. Ma bisogna sapere che il medesimo ordine, che secondo la sua propria forma cominciò da San Benedetto, in un certo senso fu incominciato dal profeta Eliseo, nel cui spirito evidentemente si trasferì lo stesso San Benedetto, come attestano la somiglianza dei tempi e la perfezione di vita. È da notare che Chi fece l’uomo a sua immagine e somiglianza e creò Abramo, Isacco e Giacobbe perché formassero il tipo della Trinità divina, come dispose ancora per molti altri, volle costituire propriamente questi tre ordini perché fossero anch’essi ad immagine e somiglianza della Trinità, secondo la nota formulazione dell’Apostolo: «Finché giungiamo tutti all’unità della fede, allo stato di uomo perfetto, nella misura in cui conviene alla piena maturità di Cristo». Tutta la moltitudine dei credenti dev’essere considerata presso Dio così come se fosse un uomo solo, composto di carne, sangue e soffio vitale. Come infatti il sangue è l’elemento intermedio tra la carne e l’anima, così i chierici sono un ordine intermedio tra i coniugati e i monaci.

 - Gioacchino da Fiore (Cosenza 1130 ca. - San Giovanni in Fiore 1202) scrisse il libro Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento (una delle sue opere maggiori) durante il suo soggiorno a Calamari, tra il 1183 e il 1185. Il testo riportato è tratto da: Antologia di testi gioachimiti, a cura di F. D’Elia, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1999, pp. 50-53.

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3 Le filosofie degli arabi e degli ebrei Il medioevo non è riducibile al solo mondo cristiano occidentale; al suo interno vivono dinamiche comunità ebraiche, ma soprattutto ai suoi confini si colloca l’universo islamico con cui esso intratteneva intensi rapporti. Proprio da quest’ultimo provengono una gran quantità di testi scientifici (matematica, medicina, astronomia) e filosofici (l’intero GSVTYW aristotelico, con i commenti degli intellettuali arabi), insostituibili per la civiltà occidentale. Tuttavia gli intellettuali “infedeli” non si limitano a un’opera di conservazione e trasmissione, ma elaborano anche prospettive autonome, con tentativi fecondi derivati anche qui dall’incontro con la teoresi classica. A loro volta gli intellettuali cristiani recepiscono queste opere con estremo interesse, in alcuni casi con un entusiasmo giudicato pericoloso dalle autorità ecclesiastiche (soprattutto Averroè e alcune sue tesi inconciliabili con i dogmi cattolici).

A, Metafisica Su quali principi è opportuno Fondare l’ordine della città e della Famiglia? la filosofia greca aveva dedicato una certa attenzione alle questioni politiche, considerandole legate ai più generali problemi etici relativi alla giustizia. il tema, sin dalle prime osservazione che si trovano nei frammenti dei presocratici (anassimandro, eraclito) e poi nella 6ITYFFPMGE di platone, era stato affrontato inquadrando la filosofia politica nella cornice della visione generale del cosmo e della realtà. invece le questioni specifiche dell’ordinamento delle leggi erano state esaminate raramente sotto il profilo filosofico (lo fa platone nelle 0IKKM, sotto un profilo diverso aristotele nella 4SPMXMGE, e poco più) mentre avevano avuto molto sviluppo nelle opere dei giuristi. in ogni caso, per la tradizione greca e romana era ovvio che al filosofo spettasse il ruolo di riflessione critica sui temi politici. non è quindi fuori da questa tradizione il filosofo e medico persiano avicenna, che scrivendo di metafisica sulla scorta di aristotele dedica una non marginale attenzione agli argomenti della città e della famiglia. l’ordine delle leggi e le pratiche relative al matrimonio non possono che essere ancorate alla visione generale della natura umana, che riposa su considerazioni metafisiche.

[Sul matrimonio e sui costumi generali istituiti a questo riguardo] La prima cosa su cui è necessario legiferare è la questione del matrimonio che conduce alla riproduzione; [è necessario] invitare e incitare ad esso; in virtù del [matrimonio], infatti, [si realizza] la permanenza delle specie, e la loro permanenza è una prova che indica l’esistenza di Dio-altissimo; [si deve] ordinare [il matrimonio] in modo tale che esso abbia luogo in modo pubblico, perché non vi siano dubbi sulla progenitura e a causa di ciò [non] si abbiano problemi riguardo al passaggio delle eredità, che sono le radici delle ricchezze. La ricchezza, infatti, è indispensabile per vivere; e vi sono ricchezze che sono [come] una radice e altre che sono [come] ramificazioni. Quelle che sono la radice sono o ereditate oppure trovate oppure ricevute in dono, e la più salda di queste tre è quella che si è ereditata perché non deriva né da fortuna né da caso, ma passa al contrario per una via che è come quella naturale. A questo riguardo – e cioè nel tenere segrete le nozze – possono aversi dei problemi anche sotto altri aspetti, come il fatto che uno potrebbe dover pagare a un altro una pensione o che vi dovrebbe esser aiuto reciproco o 52

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[qualche] altro [problema che] chi è intelligente conosce, se riflette su [tale questione]. È necessario che si affermi anche la stabilità di questo legame, in modo tale che non possa esservi una separazione tutte le volte che ci si spazientisce, e che l’unione che mette insieme i figli e i genitori non si disperda e non si ripresenti così nuovamente il bisogno che ogni essere umano ha di sposarsi. In ciò risiedono molti tipi di danno perché la maggior causa del bene è l’amore e l’amore non si realizza che con la familiarità; questa si attua solo con l’abitudine e a sua volta l’abitudine non si ha che per la lunga frequentazione. E la conferma [di questo legame] da parte della donna si avrà in quanto non si lascerà la decisione di tale separazione nelle sue mani; essa infatti, in realtà, è fragile nell’intelletto ed è portata a obbedire alla passione e all’ira. È necessario, tuttavia, che vi sia una via per separarsi e che non se [ne] escluda [la possibilità] in modo assoluto, perché rifiutare totalmente le ragioni della separazione comporta molti danni e problemi, fra cui il fatto che alcuni caratteri [naturali] non possono stare insieme ad altri caratteri; così, tanto più si tenti di riunirli, tanto più fra di essi crescono l’odio e l’avversione e la vita diviene insopportabile. Fra questi vi è poi il fatto che alcuni hanno un coniuge incapace, che non ha una buona condotta nella vita familiare o che ha la natura in avversione, e questo può diventare uno stimolo a desiderarne un altro, perché il desiderio è [qualcosa] di naturale; e ciò può condurre a [diversi] tipi di corruzione; oppure potrà anche essere che i due sposi non collaborino per la prole mentre, sostituendo uno dei due, potranno collaborare; bisogna dunque che vi sia una via per separarsi, ma bisogna essere severi a riguardo. [...] La cosa migliore è lasciare un modo per la riconciliazione senza insistere in questa direzione perché non venga ad essere un’occasione di obbedienza per chi è sconsiderato. Anzi, si farà in modo che ritornare [con il coniuge] sia più duro che dare inizio [al matrimonio]. E quale saggezza vi è in ciò che ha ordinato il migliore dei legislatori, e cioè che [a un uomo] non sia concessa [una donna] dopo il terzo [ripudio] se non dopo che egli abbia ingoiato un’amarezza sopra alla quale non c’è nulla, e cioè che permetta ad un altro uomo di sposare la propria moglie – con un matrimonio valido, così che quello abbia autentici rapporti con lei! Infatti, se egli avrà una tale disgrazia davanti ai suoi occhi, non ricorrerà alla leggera alla separazione, a meno che non abbia deciso per la separazione definitiva; oppure vi sarà meschinità in lui e allora non vedrà inconvenienti nel fatto che scoppi uno scandalo, provandone piacere; ma gente simile esce fuori dal novero di coloro dei cui interessi bisogna occuparsi. La donna ha diritto a essere protetta perché [altri] possono associarsi al desiderio che se ne ha, e [perché] è molto attraente e, insieme a ciò, è più facilmente sottomissibile [dell’uomo] e meno obbediente all’intelletto; l’associazione riguardo [alla donna] dà luogo a disprezzo ed enorme vergogna

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– che sono danni ben noti – mentre l’associazione riguardo all’uomo non dà luogo a vergogna ma a invidia, e all’invidia non si [deve] fare attenzione perché essa è obbedienza al diavolo. Ora, per tutte [queste ragioni] si prescriverà per legge riguardo [alla donna] che essa sia velata e al riparo dagli sguardi, e perciò non conviene che la donna faccia parte – come l’uomo – di coloro che guadagnano e le si prescriverà per legge di essere mantenuta dall’uomo. L’uomo dunque, dovrà provvedere [alle sue spese]; e tuttavia sarà necessario che l’uomo riceva in cambio una ricompensa e cioè che egli la possieda senza che ella [possa] possederlo, così a lei non sarà concesso di sposarsi con altri. L’uomo, invece, non ha divieti a questo riguardo, benché gli sia proibito di superare un numero [di mogli] oltre il quale non gli sia possibile soddisfare le necessità di coloro che ha a carico; e in cambio di ciò vi sarà il possesso del sesso della donna. Con il possesso del sesso non intendo dire l’unione sessuale; il godimento dell’unione sessuale è infatti condiviso dai due [coniugi] e il vantaggio che vi è per lei è anche maggiore di quello che si ha per lui ed egualmente è per quanto riguarda la felicità di avere dei figli e di gioirne: [con ciò] intendo, invece, che non sia dato modo di usare di lei ad altri che al marito. Per quanto riguarda il figlio si prescriverà per legge che ognuno dei due genitori si faccia carico della sua educazione, la madre per quanto riguarda ciò che le è proprio e il padre per il mantenimento. E così anche al figlio si prescriverà per legge di servire, obbedire, rispettare e riverire ambedue [i genitori]. Ambedue infatti sono la ragione della sua esistenza e insieme a ciò hanno sopportato l’impegno [di farlo crescere, cosa] che è talmente lampante che non vi è bisogno di darne una spiegazione.

 - Avicenna, Abu Ali Ibn Sina, (Afshana 980 - Hamadan 1036) scrisse la Metafisica come quarta parte dell’enciclopedia filosofica dal titolo Il libro della guarigione, tra il 1020 e il 1027. Il testo riportato è tratto da: Avicenna, Metafisica, a cura di O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 2002, pp. 1031-1037.

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A, Trattato decisivo sull’accordo della filosofia con la religione religione e FiloSoFia Si poSSono accordare? l’islam, imponendo l’accettazione incondizionata del corano in quanto dettato direttamente da allah al profeta, sembra precludere la strada a ogni forma di ricerca razionale autonoma, nonché di studio libero degli autori antichi in quanto infedeli. in questa prospettiva averroè cerca di mostrare non solo che l’indagine razionale è autorizzata dal corano, ma che essa non può configgere con l’accoglimento obbediente della parola divina, dal momento che il Vero è uno solo: il punto è distinguere accuratamente il linguaggio in cui esso è espresso e il destinatario a cui ci si rivolge. infatti gli uomini non sono tutti uguali (ci sono gli incolti e i dotti), e le forme espressive devono adattarsi a loro. il testo sacro dunque deve essere letto a un livello inferiore, alla lettera, dal volgo ignorante che, per le sue inclinazioni e capacità, sa intendere solo figure e simboli sensibili, e a un livello superiore da parte dei filosofi che sono in grado di coglierne il senso profondo interpretandolo alla luce dei principi razionali che già i greci avevano scoperto. certo, non è possibile divulgare i risultati della loro indagine a chi non è in grado di comprenderli: ne nascerebbero solo disorientamento e reazioni negative. ma ciò non toglie nulla alla legittimazione della filosofia come “legge religiosa” a tutti gli effetti.

Da ciò è chiaro che lo studio dei libri degli antichi è obbligatorio per Legge, poiché il loro fine è identico a quello a cui ci sprona la Legge [cioè la conoscenza di Dio]. Chi proibisce a qualcuno che ne avrebbe la capacità, cioè a qualcuno che possiede intelligenza naturale unita a integrità religiosa e a virtuosa dirittura sapienziale e morale, di applicarvisi, sbarra la porta attraverso la quale la Legge chiama gli uomini alla conoscenza di Dio. E poiché si tratta della porta dello studio teoretico, l’unica che conduce a un’autentica penetrazione della verità divina, tale proibizione costituisce un atto di ignoranza e di estraniazione dall’A ltissimo. Quindi non è affatto lecito a un tale, se da parte sua erra o fallisce nell’impresa dello studio filosofico, o per carenza di capacità o per indisciplina logica o per eccesso di passionalità o per non aver trovato un maestro capace di educarlo e informarlo o per tutte queste ragioni messe insieme –, non gli è lecito, si diceva, proibire a qualcun altro che ne è in grado di adoperarsi in ciò in cui egli ha fallito. Infatti, questo fallimento (nello studio filosofico) è accidentale rispetto alle le filosofie degli arabi e degli ebrei

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cause, e non sostanziale. […] Così noi diciamo che colui il quale proibisce a chi ne ha la facoltà di studiare i libri dei filosofi con la scusa che ci sarà poi gente che lo accuserà di deviare dalla retta via, è simile a colui che impedisce a un assetato di bere dell’acqua fresca, fino a farlo morire, con la scusa che avrebbe potuto rimanerne soffocato. […] Avendo stabilito tutto ciò, ed essendoci persuasi, in quanto musulmani, che la nostra divina religione è vera, e che essa ci incita a perseguire quella massima felicità che consiste nella conoscenza di Dio Potente ed Eccelso e delle sue creature, ne deriva che per ogni musulmano, secondo il suo temperamento e la sua natura, è prescritto un particolare tipo di assenso a tali verità. Infatti, i caratteri degli uomini si diversificano qualitativamente riguardo a questo assenso, essendovi chi lo presta alla dimostrazione razionale, chi alle dispute dialettiche con la stessa intensità di chi crede alle dimostrazioni – e ciò perché la sua natura non gli consente altrimenti –, e chi lo presta ai discorsi retorici, pure con la stessa intensità di chi crede alle dimostrazioni. Quindi, poiché la nostra divina religione chiama a sé gli uomini secondo queste tre vie, l’assenso prestatovi è generalizzato, e ne resta escluso solo chi pretende ostinatamente di combatterla a parole, o chi, per sua propria negligenza, rifiuta di abbracciare la strada più adatta che porta a Dio. […] Ora, dal momento che la nostra religione è vera e incita a un’attività speculativa che culmini nella conoscenza di Dio, noi musulmani non possiamo che essere fermamente convinti del fatto che la speculazione dimostrativa non può condurre a conclusioni diverse da quelle rivelate dalla religione, poiché il Vero non può contrastare col Vero, ma anzi gli si armonizza e gli porta testimonianza. Stando così le cose, se la speculazione dimostrativa conduce alla conoscenza di qualche essere reale, non si sfugge al presupposto che tale essere reale o è menzionato o è sottaciuto dalle Scritture. Se è sottaciuto, non si presenta alcuna contraddizione (tra religione e filosofia), poiché tale caso sarebbe identico a quello del giurista che, non reperendo qualche principio legale nelle Scritture, è costretto a dedurlo per via analogica. Se invece i testi religiosi ne parlano, delle due l’una: o il senso apparente della conclusione filosofica si accorda o contrasta con quei testi. Se si accorda, nessun problema. Ma se contrasta, si presenta la necessità di un’interpretazione allegorica delle Scritture. Interpretazione allegorica significa trasporto dell’argomentazione da un piano reale a un piano metaforico – senza con ciò derogare dalle norme linguistiche arabe nell’uso della metafora –, in modo da definire qualcosa o con un sinonimo o facendo riferimento alla sua causa o al suo effetto o a qualcos’altro che gli si può porre a confronto, o insomma a tutte quelle particolarità che sono reperibili nei vari tipi di discorso metaforico. […] Di più: noi sosteniamo che di tutte le espressioni della Scrittura, il cui senso letterale contrasta con le conclusioni dimostrative, se si ha la pazienza di esaminare il Testo Sacro e di indagarlo attentamente in tutte le sue parti, si troveranno altre affermazioni parallele

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che porteranno testimonianza, proprio col loro senso letterale, alla [correttezza] dell’interpretazione allegorica, o almeno ci si avvicineranno moltissimo. Per tale ragione i musulmani sanno che non è obbligatorio intendere tutte le espressioni della Scrittura secondo il loro senso apparente, né sempre forzarle servendosi dell’interpretazione allegorica. Essi piuttosto hanno opinioni differenti riguardo quale passo rivelato sia opportuno sottoporre a interpretazione e quale no. […] La causa del fatto che nella religione siano presenti un significato essoterico e uno esoterico dipende dalla diversità delle opinioni degli uomini e dalla disposizione naturale all’assenso. E la causa del fatto che nelle Scritture esistano passi reciprocamente contraddittori è che in tal modo vengono risvegliate le capacità esegetiche degli studiosi, che possono adoperarsi a riconciliarli.

 - Averroè, Abu al-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Rushd, (Cordoba 1126 - Marrakech 1198) scrisse il Trattato decisivo sull’accordo della filosofia con la religione (da considerarsi una fatwà, cioè “un’opinione giuridica” che come magistrato egli pronunciò per rispondere al quesito se la filosofia è consentita o meno dalla legge religiosa) nel biennio 1179-1180. Il testo riportato è tratto da: Avorroè, Trattato decisivo, trad. it. di M. Campanini, Rizzoli, Milano 1994, pp. 47-49, 55-57, 63.

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A, Commento grande al De anima di Aristotele il penSiero è prodotto da un Solo intelletto? nel Commento grande al De anima di Aristotele, averroè sostenne una tesi che, una volta che fu conosciuta in occidente verso la metà del Xiii secolo, fece scalpore e suscitò ampi e accesi dibattiti: l’unicità dell’intelletto passivo (o materiale). quest’ultimo, come semplice ricettività, deve essere inteso come pura capacità di pensare comune a tutto il genere umano: e siccome il genere umano è eterno, anch’esso è eterno, non funzione del corpo e dell’individuo, ma realmente separato da esso. pensare significa dunque congiungere l’anima individuale con l’intelletto separato, immateriale ed eterno, sovra-individuale, partecipando alla sua attività trascendente in cui risiede tutto l’intelligibile: questa posizione, che sembra togliere al singolo uomo la funzione soggettiva del pensare (e perciò fu condannata come eretica), è oggi interpretata in senso informatico come connessione del singolo alla metarete, la sola veramente eterna e attiva.

Il secondo problema – come l’intelletto materiale sia uno di numero in tutti gli uomini, non generabile né corruttibile, mentre l’intelletto speculativo, che ha in sé gli intelligibili in atto esistenti al suo interno, è numerato secondo il numero di tutti gli individui, generabile e corruttibile secondo la generazione e corruzione degli individui – è estremamente difficile e ambiguo. Se infatti ammettessimo che l’intelletto materiale è moltiplicato secondo il numero dei singoli uomini, dovrebbe essere qualcosa di individuale, o corpo o facoltà in un corpo. Se fosse tale, sarebbe un’intenzione intelligibile in potenza: questa sarebbe però il soggetto che muove l’intelletto ricettivo, non il soggetto mosso. Se dunque ammettiamo che l’intelletto ricettivo sia qualcosa di individuale, ne conseguirà che una cosa riceverà se stessa: il che, come dicemmo, è assurdo. Anche se lo ammettessimo, si riceverebbe in quanto diversa. Ma così la facoltà dell’intelletto coinciderebbe con quella del senso o non vi sarebbe alcuna differenza tra l’essere della forma dentro o fuori dall’anima. La materia individuale, infatti, non riceve forme se non determinate e individuali. È uno dei casi che ci provano come Aristotele pensasse che questo intelletto non è un’intenzione individuale. Se ammettessimo poi che non si moltiplica secondo il numero degli individui, ne conseguirà che il suo rapporto con tutti gli individui esistenti nell’ultima loro perfezione nella generazione sia lo stesso, per cui se uno di loro acquisisse

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qualche intelligibile tutti gli altri lo farebbero. Se allora la congiunzione di quegli individui dipende da quella dell’intelletto materiale con essi, come la congiunzione dell’uomo con l’intenzione sensibile si realizza mediante quella della perfezione prima del senso con il sostrato che la riceve, così la congiunzione dell’intelletto materiale con tutti gli uomini esistenti in atto, in un qualsiasi tempo della loro ultima perfezione, deve essere la stessa: nulla infatti diversifica tali rapporti. Stando così le cose, inevitabilmente se tu acquisisci un qualche intelligibile anch’io lo acquisirei – il che è assurdo. Sia che l’ultima perfezione generata in qualsiasi individuo (quella mediante cui si unisce l’intelletto materiale) sia soggetta a questo intelletto e quasiforma separabile dal sostrato con il quale si congiunge, sia che la perfezione consista in qualche facoltà dell’anima o del corpo, in entrambi i casi si hanno conseguenze assurde. Pertanto bisogna ammettere che, se esistono degli esseri animati la cui prima perfezione è una sostanza separata dai suoi sostrati – come pensiamo dei corpi celesti – è impossibile che nelle loro specie si trovi più di un solo individuo. Se infatti nella medesima specie si trovasse più di un solo individuo – come in un corpo che è mosso da uno stesso motore – allora il loro essere sarebbe inutile e superfluo, giacché il loro moto sarebbe determinato da un unico fine, come è vano che un solo pilota abbia molte navi in uno stesso tempo o un operaio più strumenti della medesima specie. […] Qual è allora la via per risolvere questo difficile problema? Manifestamente l’uomo non comprende in atto se non per il congiungimento con lui dell’intelligibile in atto; del pari materia e forma si uniscono reciprocamente in modo che il risultato della loro commistione sia unico (soprattutto l’intelletto materiale e l’intenzione intelligibile in atto). Infatti il loro composto non è un terzo diverso da essi, come accade per gli altri composti di materia e forma. La congiunzione dell’intelligibile con l’uomo non può determinarsi se non per la congiunzione con lui di una delle due parti, precisamente di quella che in lui è quasi-materia e di quella che nell’intelligibile è quasi-forma. Risultando chiara dalle precedenti obiezioni l’impossibilità che l’intelligibile si congiunga con ognuno degli uomini e che sia moltiplicato per il loro numero, per la parte di esso che è quasi-materia (l’intelletto materiale), rimane solo la possibilità che la congiunzione degli intelligibili con noi uomini si compia attraverso quella dell’intenzione intelligibile (i fantasmi immaginativi), cioè per congiunzione della parte di essi che sta in noi come quasi-forma. Pertanto dire che il fanciullo intende in potenza può significare due cose: o che le forme immaginate in lui sono intelligibili in potenza o che l’intelletto materiale, atto per natura a ricevere l’intelligibile di quella forma immaginata, è ricettivo e congiunto in noi in potenza. […] Pertanto si deve ritenere – come mi parve evidente dal discorso di Aristotele – che nell’anima vi sono due parti dell’intelletto, delle quali una è

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ricettiva (e il suo essere è qui chiaro) ma l’altra è agente, grazie a cui le intenzioni che sono nella facoltà immaginativa da moventi in potenza dell’intelletto materiale divengono moventi in atto, come vedremo dopo in Aristotele constatando che le due parti non sono generabili né corruttibili e che l’agente è rispetto al paziente una quasi-forma rispetto alla materia. Per questo Temistio pensò che noi siamo intelletto agente e l’intelletto speculativo è congiunzione di agente e materiale. Ma le cose non stanno così, anzi bisogna credere che nell’anima vi siano tre parti dell’intelletto, una ricettiva, la seconda attiva e la terza prodotta. Due sono eterne – l’attiva e la ricettiva – mentre la terza è in un senso generabile e corruttibile, in un altro eterna. Visto che l’intelletto materiale è unico per tutti gli uomini e inoltre la specie umana è eterna, com’è detto altrove, ne dobbiamo concludere che l’intelletto materiale non è mai privo dei principi naturali, comuni per natura a tutta la specie umana, cioè delle prime proposizioni e dei concetti singolari comuni a tutti; poiché siffatti intelligibili sono unici in rapporto all’intelletto che li riceve e molteplici in rapporto all’intenzione recepita. In quanto unici devono essere eterni, dal momento che l’essere non si separa dal sostrato ricevuto o motore, che è l’intenzione dei fantasmi immaginativi, e non vi è alcun ostacolo da parte del sostrato ricevente. Essi sono generabili e corruttibili se non in quanto molteplici e non in quanto unici. Se pertanto rispetto a un individuo si corrompe qualcuno dei primi intelligibili, a causa della corruzione del suo sostrato per mezzo del quale è unito a noi ed è vero, quell’intelligibile sarà incorruttibile in senso assoluto ma corruttibile solo rispetto a ogni singolo individuo. In questo senso possiamo affermare che l’intelletto speculativo è uno solo per tutti gli uomini.

 - Averroè, Abu al-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Rushd, (Cordoba 1126 – Marrakech 1198) è stato conosciuto in Occidente come “colui che il gran commento feo”, cioè come commentatore delle opere di Aristotele. Quello al De anima è stato composto dopo il 1180. Il testo riportato è tratto da: Averroè e l’intelletto pubblico, a cura di A. Illuminati, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 138-142.

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M, La guida dei perplessi perché tentare di andare oltre i noStri limiti? il programma di quello che è stato definito il “secondo mosè” è stato di servirsi della filosofia (fondamentalmente di aristotele) come strumento per comprendere ciò che, nella tradizione religiosa ebraica (Bibbia, talmud, mishnah ecc.), appare oscuro in quanto espresso con un linguaggio che nasconde, dietro il significato letterale, un altro allegorico, più profondo. il razionalismo di maimonide non è però assoluto: egli non vuole sostituire alla parola di dio la conoscenza filosofica, che è pur sempre umana. anzi, si tratta di fare con la ragione un’opera di chiarimento (i perplessi di cui si corre in aiuto sono un’élite, coloro che trovano una contraddizione insanabile tra la lettera della Scrittura e le conclusioni della scienza), ma non in senso anti-religioso: il saggio riconosce quanto lo supera e accetta i suoi limiti, traendo così il massimo profitto dalla tradizione del suo popolo.

Sappi che l’intelletto umano ha percezioni alle quali arriva per sua facoltà e per sua natura; tuttavia, nella realtà vi sono enti e cose che non è nella sua natura percepire né in alcun modo né per alcun motivo: le porte della loro percezione gli restano chiuse. Infine, vi sono delle cose delle quali l’intelletto percepisce uno stato ma ignora gli altri. Infatti, il fatto che l’intelletto percepisca non comporta che percepisca tutto, come avviene per i sensi, i quali hanno sì percezioni, ma non possono averle da qualsiasi distanza – e lo stesso vale per le altre potenze del corpo: in effetti, anche se l’uomo, per esempio, ha la forza di trasportare due quintali, non per questo ha la forza di trasportarne dieci. La differente gradazione degli individui della specie umana in queste percezioni sensoriali e nelle altre potenze del corpo è chiara ed evidente a tutti, ma ha un limite: tale gradazione non si estende a qualsiasi distanza e in qualsiasi misura. La regola è la stessa per le percezioni dell’intelletto umano, nelle quali gli individui della specie umana presentano una grande differenza di gradazioni; anche questo è molto chiaro ed evidente agli uomini di scienza. Infatti, mentre un individuo scopre, mediante il proprio studio, un qualche concetto, un altro individuo non sarà mai in grado di comprenderlo, e anche se glielo si facesse capire usando ogni interpretazione e ogni esempio, nel corso di un lungo spazio di tempo, la sua mente non lo penetrerà in alcun modo, e anzi egli rinuncerà a comprenderlo. Ora, anche questa gradazione non va all’infinito; l’intelletto umano ha indubbiamente un limite al quale si ferma. Vi sono cose che, evidentemente, all’uomo è impossibile percepire, e che egli stesso non desidera le filosofie degli arabi e degli ebrei

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conoscere perché è consapevole di tale impossibilità e del fatto che non vi è una porta dalla quale entrare per raggiungere tale conoscenza. Per esempio, noi ignoriamo il numero delle stelle del cielo, e se sia pari o dispari, e ignoriamo il numero delle specie degli animali, dei minerali e delle piante, e cose simili. Vi sono poi cose che l’uomo desidera molto percepire; l’intelletto si sforza di conoscere la realtà, e lo stimolo a ricercare esiste in ogni scuola di studiosi e in ogni tempo. Su queste cose vi sono molte opinioni, sorgono divergenze tra gli studiosi, e il dubbio nasce dal fatto che l’intelletto si dedica alla percezione di queste cose, perché le desidera, ed ognuno pensa di aver trovato la via di conoscere la realtà della cosa. Ma l’intelletto umano non è in grado di arrivare a queste cose per via dimostrativa, perché su ogni cosa la cui realtà si conosce mediante dimostrazione non vi è divergenza né discussione né opposizione, e solo da parte di un ignorante si ha quell’opposizione che si chiama opposizione dimostrativa. Per esempio si trova gente che si oppone alla sfericità della terra, al fatto che la sfera celeste si muova circolarmente, et similia – ma costoro non rientrano nei nostri fini. […] Sappi, tu che studi la mia opera, che ciò che accade per le percezioni intellettuali, in quanto dipendono dalla materia, è simile a ciò che accade per le percezioni sensoriali. Infatti tu, quando guardi, percepisci ciò che la tua vista è in grado di percepire. Ma se i tuoi occhi si sforzano e il tuo sguardo resta fisso ed è intento a guardare da una grande distanza, maggiore di quella dalla quale tu saresti in grado di vedere, oppure se tu osservi una linea molto sottile o un’iscrizione minuta che non sei in grado di percepire, e la vista si sforza per coglierne la realtà, la sua vista non solo ha difficoltà a vedere ciò che non è in grado di vedere, ma anche a vedere ciò che sarebbe normalmente in grado di percepire, perché si è affaticata e non vede più ciò che, prima di essersi fissata, era in grado di percepire. Nella stessa situazione si trova qualsiasi studioso di una qualche scienza, quando riflette: egli, se si sforza nella riflessione e vi fissa tutta la sua mente, istupidisce e non capisce più neppure ciò che per sua natura avrebbe capito, perché tutte le facoltà corporee si trovano, in questo, nella stessa situazione. Qualcosa di simile ti accadrà nelle percezioni intellettuali. Infatti, se tu ti fermi ad un punto oscuro e non ti inganni nel credere di poter dimostrare qualcosa che non si può dimostrare, e non ti affretti a respingere e a ritenere decisamente falso tutto ciò di cui non è dimostrato il contrario, e non vuoi percepire ciò che non sei in grado di percepire, raggiungerai la perfezione umana e arriverai al grado di rabbi ‘Aqivà, il quale entrò in pace e uscì in pace quando studiò queste cose metafisiche. Se però aspiri a percepire qualcosa che sta al di sopra della tua capacità di percezione, o ti affretti a ritenere false le cose di cui non è stato dimostrato il contrario o che sono possibili, sia pure alla lontana, allora ti unisci a Elisha Aher. Che cosa significa? Non solo non sarai perfetto, ma avrai idee più imperfette di qualsiasi deficiente; trionfe-

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ranno su di te le fantasie e inclinerai verso le debolezze, i vizi e i mali, perché l’intelletto sarà preoccupato e la sua luce si estinguerà. Allo stesso modo, si presenteranno alla vista diverse specie di false immaginazioni quando lo spirito visivo si indebolisce, nei malati o in coloro che insistono nel guardare oggetti luminosi o troppo minuti. In questo senso si dice nella Bibbia: «Hai trovato miele? Mangiane quanto ti basta, altrimenti te ne ingozzerai e lo vomiterai»; e i sapienti applicano questa metafora a Elisha Aher. Che stupenda metafora! Assimila la conoscenza al mangiare, come abbiamo detto, e menziona il più piacevole dei cibi, il miele; e il miele, per sua natura, quando è troppo, fa vomitare. Dice dunque la Bibbia che per sua natura questa percezione, per quanto sia eccelsa, grande e perfetta, se non ci si ferma ad un certo limite e non si fa attenzione, si volge in un difetto, come accade quando si mangia il miele: se lo si mangia con misura, nutre e dà piacere, ma se si eccede, se ne va via tutto. La Bibbia, infatti, non dice: «altrimenti te ne ingozzerai e lo detesterai» ma: «e lo vomiterai». […] Però, l’intento di questi passi dei profeti e dei “sapienti” che abbiamo citato non è quello di ostruire completamente la porta della speculazione e di impedire all’intelletto di percepire ciò che può percepire, come pensano gli ignoranti e gli esitanti, che si compiacciono di interpretare la propria manchevolezza e la propria stupidità come una forma di perfezione e di sapienza, e la perfezione e la conoscenza degli altri come una forma di manchevolezza e di violazione della Legge: «Fanno della luce, buio, e del buio, luce»; tutto il fine di questi passi è affermare che gli intelletti degli uomini hanno un limite al quale si fermano.

 - Mosè Maimonide (Cordova 1138 - Il Cairo 1204) scrisse La guida dei perplessi verso la fine della sua vita, tra il 1180 e il 1190. Il testo riportato è tratto da: M. Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, Utet, Torino 2003, pp. 136-141.

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A, Sorgente di vita qual è la Struttur a materiale della realtà? Secondo avicebron al di fuori di dio esiste la materia universale, sostrato unico spirituale e corporeo, e la forma, che è il principio di differenziazione. materia e forma universali sono così i concetti utilizzati per spiegare la compresenza nel tutto dell’unità e della molteplicità. dunque, mentre in aristotele essi erano utilizzati per descrivere solo le sostanze materiali del mondo sublunare, in questo autore ebreo essi vengono estesi anche al mondo intelligibile: perciò la materia universale (o materia spirituale) è considerata comune a tutto ciò che esiste sia nel mondo sensibile sia in quello spirituale (dunque comprensivo dell’anima intellettiva e delle sostanze angeliche). questa dottrina, certamente eterodossa in quanto compromette la dualità di corpo e anima, verrà ripresa in epoca moderna, specie da giordano Bruno che non a caso parla, per l’universo, di una sostanza unica in cui forma e materia si identificano.

In definitiva, suppongo questo che dico: se la parte è del tutto, senza dubbio, le parti delle cose sono del loro tutto: quindi dato che le parti sono di materia e forma, il tutto è composto di materia e forma. Da ciò risulta chiaro allora che tutte le cose sono composte di materia e forma: questo perché il corpo, essendo disposto nell’estremità inferiore [della scala dell’essere], è composto di materia e forma. Vale a dire è una sostanza che ha le tre dimensioni. Se tutto l’essere è continuo ed esteso, dall’estremità superiore all’estremità inferiore, e l’estremità inferiore è composta di materia e forma, si spiega perché tutto l’essere, dall’estremità superiore all’estremità inferiore, è composto di materia e forma. Si supponga che ci siano tre materie: 1) una materia semplice e spirituale, non vi è materia più semplice in quanto non è rivestita di forma; 2) una composta e corporea, non c’è una più corporea; 3) una che è intermedia tra queste. La mia opinione è che la materia prima non è rivestita dalla forma perché la materia che è rivestita dalla forma è spirituale e semplice mentre è un’altra cosa la materia che non è rivestita dalla forma, come ha detto Platone. La materia corporea è la qualità che sostiene la forma della figura e del colore, non ha una forma per il corpo che sostiene, come la qualità che è la figura e il colore che è una forma per questo. Come il corpo è astratto, questo è più semplice del corpo che possiede la qualità; è una materia

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che sostiene la qualità, necessita che sia una forma per un’altra materia più sottile poiché si riversa in questa finché giunge in verità dentro la materia semplice. L’inferiore delle sostanze è una forma per il superiore di queste e il superiore di queste è una materia che sostiene l’inferiore, fino ad arrivare alla materia prima semplice veramente. Da ciò ne consegue che la materia prima che tutto sostiene è una. Inoltre, come si è dimostrato, ciò che è delle sostanze, è una materia per ciò che è inferiore e una forma per ciò che è superiore; appare evidente pertanto che ogni sostrato, qualunque siano le materie, è per un lato sostrato. Vale a dire che ciò che è più sottile tra le sostanze è un sostrato per ciò che è più spesso tra queste. Sono tutte [d’altro lato] forme sostenute dalla materia prima. Si saprà così che non è possibile per queste essere senza una materia prima che le sostiene tutte dato che sono finite e si arrestano davanti a un limite: bisogna necessariamente ammettere quindi che c’è una materia prima che le sostiene tutte. È la materia prima universale che è [oggetto della] nostra ricerca. Si spiega perciò che se vi è la diversità nelle sostanze, [questa] è evidentemente nelle forme e non nella materia, perché le forme sono molte e la materia è una. La materia prima che sostiene tutto è una, dato che riunisce tra loro le materie delle cose sensibili e le materie delle cose intelligibili finché tutto è una materia unica. Se tutto ha una sola materia ne consegue che le sue proprietà si trovano in tutto. Quando tu esamini tutte le sostanze troverai che le proprietà della materia prima e le sue impressioni si trovano in essa. Poiché tu troverai che il corpo è una sostanza che sostiene molte forme diverse, che la natura e le anime vitali [ne sostengono] di più, in quanto in esse sono impresse le forme del corpo e maggiormente [ne sostengono] l’anima razionale e l’intelletto poiché tutte le forme esistono in queste. Dirò in generale che tutte le sostanze che sono più elevate sono più consistenti, raccolgono meglio le forme e assomigliano maggiormente alla materia prima che sostiene tutte le forme delle altre sostanze che sono al di sotto di queste. Se tu rifletti su questo punto, vale a dire: «queste proprietà penetrano nelle sostanze e si riversano in esse, sussistono e si consolidano nella sostanza nella misura in cui sale dal suo grado e si avvicina all’estremità superiore», [ti] sarà allora evidente che le proprietà sono emanate e vengono dalla materia prima universale che racchiude tutte le sostanze e le circonda e rende attivo il loro nome e la loro definizione. Quando si considera ancora che tutte le cose semplici cercano di riunirsi sarà allora chiaro che la materia che sostiene tutto è una in quanto le parti molteplici non cercherebbero di unirsi se il tutto che le contiene e le racchiude non fosse uno. Inoltre tutti gli esseri sono diversi nella forma e ciò che è diverso nella forma concorda nella materia, ne consegue che la materia degli esseri è una materia unica. Bisogna paragonare la forma universale alla materia

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universale che è una [e bisogna confrontare la forma universale alla materia universale che è una e così saprai che la forma universale costituisce l’essenza della materia universale] e poiché è così ne consegue che l’essenza di ognuna è necessaria per la necessità dell’essenza dell’altra. L’essenza della materia non può trovarsi spoglia della forma, così come l’essenza della forma non può sussistere senza la materia un solo momento. Questa è una prova forte che l’essenza di ognuna è necessaria per la necessità dell’essenza dell’altra. Considera le proprietà dell’unità che tu troverai legate alla forma perché l’unità che fonda la moltitudine, la tiene e la innalza all’esistenza, la circonda e si trova in tutte le sue parti e, sostenuta dalla cosa che le è di sostrato, essa è al di sopra della cosa che le è di sostrato. Queste proprietà si trovano nella forma e poi è la forma che costituisce l’essenza della cosa che è in essa, che le dà l’esistenza, la tiene e la circonda e si trova in tutte le sue parti ed è sostenuta nella materia che le è di sostrato. Essa è al di sopra della materia e la materia è al di sotto di essa. Non è giusto dire che l’unità è la radice di tutto, in quanto che l’unità è soltanto una forma, in quanto il tutto non è soltanto forma ma forma e materia. Ma è giusto dire che il tre è la radice del tutto, l’uno corrisponde alla forma, il due corrisponde alla materia. Ti ho già spiegato che le proprietà dell’unità si trovano nella forma, questo perché la forma costituisce la materia che è per se stessa forma, la circonda, si trova in tutte le sue parti ed è sostenuta nella cosa che le è di sostrato, invece dell’esistenza della proprietà del due nella materia. Questo è ciò che voglio dire: 1) il due è sostrato sotto l’uno e l’uno è al di sopra; e così la materia è sostrato sotto la forma e la forma è al di sopra di questo; 2) ancora la forma è una e il due è una molteplicità divisibile e così la materia è molteplice e divisibile. Per questo le materie sono la causa della molteplicità delle cose e della loro divisibilità, poiché il sostrato è al livello del due.

 - Non sappiamo quando Avicebron, Shelomoh ben Iehudah ibn Gebirol, (Malaga 1020 ca. - Valencia 1057 ca.) scrisse Fons vitae (Sorgente di vita), che peraltro non ci è giunto nell’originale arabo ma in successive traduzioni in latino ed ebraico. Il testo riportato è tratto da: Avicebron, Sorgente di vita, a cura di G.C. Sonnino, Transeuropa, Ancona 1998, pp. 80-82.

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Capitolo

4 Il Duecento e la scolastica Questo secolo è considerato il vertice e il compimento della civiltà medievale, consistente soprattutto nel perfetto equilibrio stabilito tra ragione e fede. All’interno delle università (ovvero le scuole, da cui la scolastica) la sapienza cristiana derivata dalla rivelazione viene armonizzata con la scienza prodotta dalla ragione naturale. Artefice di questa operazione di sintesi è Tommaso d’Aquino che ha saputo tradurre (sulla scorta delle indicazioni di Alberto Magno) la filosofia aristotelica in termini cristiani. Tuttavia si assiste in realtà a una pluralità di iniziative speculative: non riducibile alla prospettiva aristotelica del tomismo è infatti sia l’indirizzo spiritualistico della variegata scuola francescana (Bonaventura, Olivi, Lullo) sia l’orientamento scientifico (ma non privo di esigenze religiose e apocalittiche) coltivato a Oxford (Bacone, Grossatesta).

G, La luce Che Cos’è la luCe? l’università di oxford è stato un centro di studi scientifici, promossi soprattutto dai francescani che tentano nuove e ardite vie d’indagine e ipotesi speculative innestandole sull’impianto teologico-metafisico platonizzante tipico dell’ordine. Grossatesta è certo uno dei più eminenti maestri di oxford, che riesce a esprimere una originale sintesi di platonismo e naturalismo aristotelico. Infatti la nozione di “luce”, pur derivando da una chiara matrice religiosa e metafisica, si trova al crocevia di molteplici campi del sapere (fisica, cosmologia, ottica): così nella luce è individuata la causa originaria e produttiva dell’universo, secondo la volontà divina. Cogliendo l’attimo atemporale in cui Dio crea il mondo definendone le leggi principali, Grossatesta mostra da un lato come egli ne stabilisca solo gli elementi costitutivi fondamentali, e dall’altro come le strutture matematiche costituiscano sia la causa produttiva sia l’ordine cosmico profondo.

Ritengo che la forma prima corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce. La luce infatti per sua natura si propaga in ogni direzione, così che da un punto luminoso si genera istantaneamente una sfera di luce grande senza limiti, a meno che non si frapponga un corpo opaco. La corporeità è ciò che necessariamente è prodotto dall’estendersi della materia secondo le tre dimensioni, sebbene l’una e l’altra, cioè la corporeità e la materia, siano sostanze in se stesse semplici, prive di qualsiasi dimensione. Non fu possibile, in verità, che la forma, in se stessa semplice e priva di dimensione, conferisse la dimensionalità in ogni parte alla materia, a sua volta semplice e priva di dimensione, se non moltiplicando se stessa ed estendendosi immediatamente per ogni dove, trascinando la materia nel suo estendersi, dal momento che la forma in quanto tale non si può separare dalla materia, perché non è scindibile da essa, né la materia può essere privata della forma. Ora, io ho indicato nella luce ciò che ha per natura questa capacità, cioè di moltiplicare se stessa e di propagarsi istantaneamente in ogni direzione. Quindi qualunque cosa produce questo effetto o è la luce oppure la produce in quanto partecipe della natura della luce, la quale agisce in tal modo per propria virtù. Quindi, o la corporeità è la luce stessa oppure essa agisce in quel modo e conferisce le dimensioni alla materia in quanto partecipa della natura della luce e agisce in virtù di essa. Ma, in verità, non è possibile che la forma prima conferisca le dimensioni alla materia in virtù di una forma ad essa posteriore; dunque la luce non è una forma posteriore alla corporei-

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tà, ma è la corporeità stessa. Inoltre, i filosofi ritengono che la forma prima corporea sia di maggior valore rispetto a quelle successive, che abbia un’essenza più eminente e più nobile, e che sia quella che è maggiormente simile alle forme separate, che sono le intelligenze. La luce, dunque, è la prima forma corporea. La luce, dunque, che è la prima forma della materia prima creata, moltiplicandosi da se stessa per ogni dove in un processo senza fine ed estendendosi in ugual misura in ogni direzione, al principio del tempo si diffondeva traendo con sé la materia in una quantità grande quanto la struttura dell’universo. E l’estendersi della materia non potè avvenire mediante un processo di moltiplicazione della luce che fosse finito, perché ciò che è semplice non genera il “quanto”, se replicato in una successione finita, come mostra Aristotele nel “De caelo et mundo”; mentre genera necessariamente un “quanto” finito dopo un processo di moltiplicazione all’infinito, poiché ciò che è prodotto in questo modo oltrepassa infinitamente ciò dalla cui moltiplicazione è prodotto. Ora, ciò che è semplice non può essere infinitamente oltrepassato da ciò che a sua volta è semplice, ma soltanto la quantità finita oltrepassa infinitamente ciò che è semplice; infatti il “quanto” finito moltiplicato infinite volte oltrepassa infinitamente ciò che è semplice. Necessariamente, quindi, la luce, che in sé è semplice, mediante un processo di moltiplicazione infinita, fa sì che la materia, a sua volta semplice, acquisti le dimensioni di una grandezza finita. […] […] dico che la luce, moltiplicandosi infinitamente per propria virtù in ugual misura in ogni direzione, estende parimenti in forma di sfera la materia per ogni dove, e ne segue che, in forza di questo estendersi, nelle parti più esterne della materia si verifica una espansione e una rarefazione maggiore che non nelle parti più interne, prossime al centro; cosicché, mentre le parti più esterne avranno raggiunto il massimo grado di rarefazione, quelle più interne saranno ancora suscettibili di maggiore rarefazione. Quindi la luce, estendendo la materia prima in forma di sfera nel modo predetto e rarefacendo al grado massimo le parti più esterne, nella zona periferica della sfera realizzò la potenzialità della materia, tanto da non lasciare spazio per una ulteriore spinta. E in questo modo all’estremità della sfera si è formato il primo corpo, che è chiamato firmamento, composto solo da materia prima e forma prima, e perciò è un corpo semplicissimo relativamente alle parti che costituiscono l’essenza e la quantità massima; esso non differisce dai corpi se non perché in esso la materia è determinata solamente dalla forma prima. Il tipo di corpo, infatti, che si trova in questo e negli altri corpi celesti, avendo nella sua essenza la materia prima e la forma prima, non subisce aumento di materia né diminuzione della materia mediante la forma prima. […] Il principio determinatore e la perfezione di tutti i corpi è, dunque, la luce, che nei corpi superiori, però, è più spirituale e semplice, mentre in

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quelli inferiori è più corporea e maggiormente moltiplicata. Né tutti i corpi sono della medesima specie, sebbene siano stati originati da luce semplice e moltiplicata, come neppure tutti i numeri sono della stessa specie, pur essendo stati formati con una minore o maggiore moltiplicazione a partire dall’unità. Dicendo queste cose, forse si fa palese l’intendimento di coloro i quali dicono che tutte le cose sono un’unica entità, perché originate dalla perfezione di una sola luce, e quello di coloro che sostengono che il molteplice è tale per la differente moltiplicazione della luce. Ora poiché i corpi inferiori partecipano della forma dei corpi superiori, il corpo inferiore, per la forma che condivide con il corpo superiore, riceve il moto dalla medesima forza motrice incorporea dalla quale è mosso il corpo superiore. Per la qual cosa, la forza incorporea dell’intelligenza o dell’anima, che muove la sfera prima e suprema con un moto della durata di un giorno, muove con lo stesso moto tutte le sfere celesti inferiori; ma quanto più sono inferiori, tanto più debolmente ricevono questo moto, perché quanto più è inferiore la sfera, tanto più in essa la luce prima corporea è meno pura e più debole. Sebbene, poi, gli elementi partecipino della forma del primo cielo, non sono, tuttavia, mossi con un moto diurno dal motore del primo cielo; pur partecipando della luce prima, non assecondano tuttavia la forza motrice prima, poiché essi posseggono questa luce ma impura, debole, lontana dalla purezza che ha nel primo corpo, e perché essi hanno anche la densità della materia, che è il principio della resistenza e del rifiuto. Tuttavia alcuni ritengono che la sfera del fuoco ruoti con moto diurno, e a prova di questo portano il moto circolare delle comete, e dicono pure che questo moto si trasmette fino alle acque del mare, così da causare le maree. Ma tuttavia tutti coloro che argomentano correttamente sostengono che la terra è priva di questo moto. In modo simile le sfere che vengono dopo la seconda, che comunemente secondo il calcolo fatto a partire dal basso è detta ottava, poiché partecipano della forma di quella partecipano tutte del suo moto, che hanno come proprio oltre al moto diurno. Poiché poi le sfere celesti sono compiute e non soggette a rarefazione o condensazione, in esse la luce non può provocare lo spostamento di particelle della materia dal centro, in modo da produrre rarefazione, oppure verso il centro, condensandole. E a causa di ciò le sfere celesti non sono suscettibili dei moti verso l’alto o verso il basso, ma solamente del moto circolare prodotto dalla forza motrice dell’intelligenza, la quale, riflettendo su se stessa al modo di un corpo l’intelletto, fa compiere al corpo delle sfere una rotazione circolare. Negli elementi, invece, poiché sono incompiuti e soggetti a rarefazione e condensazione, la luce che è in essi provoca uno spostamento dal centro, producendo rarefazione, o verso il centro, così da condensarli; per cui a motivo di questo essi sono per natura soggetti al moto

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verso l’alto o verso il basso. […] Da quanto s’è detto è chiaro come il dieci sia il numero perfetto dell’universo, perché ogni ente uno e compiuto ha in sé un qualcosa come la forma e l’uno, un qualcosa come la materia e il due, qualcos’altro come la composizione e il tre, e qualcosa ancora come il composto e il quattro; né d’altra parte è possibile aggiungere una quinta determinazione oltre a queste quattro, per cui ogni ente in sé uno e compiuto è rappresentabile con il numero dieci. Appare ormai manifesto, infine, che solo le cinque proporzioni rinvenute in questi quattro numeri: l’uno, il due, il tre, il quattro, si accordano alla composizione e all’armonia che costituisce ogni composto. Per la qual cosa si danno solo queste cinque proporzioni armoniche nelle modulazioni musicali, nella danza e nei tempi scanditi dal ritmo.

 - Roberto Grossatesta (Stradbrock 1170 ca. - Lincoln 1253) scrisse l’opuscolo De luce (La luce) tra il 1225 e il 1228. Il testo riportato è tratto da: R. Grossatesta, Metafisica della luce, a cura di P. Rossi, Rusconi, Milano 1986, pp. 113-115, 120-121.

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R B, Lettera a Clemente IV QualI sono I vantaGGI Della sCIenza? Discepolo e continuatore di Grossatesta, Ruggero Bacone ha concentrato il suo pensiero su una nuova concezione del sapere in senso pratico, che cioè ha valore nella misura in cui si presenta come una forza in grado di dare all’uomo il potere sulla natura e in grado di raccogliere tutti i popoli in un’unica società, pacifica e collaborativa. esso ha una struttura gerarchica e prevede l’apprendimento delle lingue e della matematica per giungere infine alla scienza sperimentale. Quest’ultima si articola in vari campi disciplinari (fisica, medicina, alchimia, ottica), culminando nella magia, scienza somma perché modifica l’essenza delle cose determinando mutazioni tanto vantaggiose quanto impreviste. Da parte sua la scienza sperimentale può cogliere l’intima struttura dei processi naturali in virtù del suo metodo che sa combinare il momento razionale-dimostrativo con quello osservativo.

Poiché, come scrive il Filosofo nel settimo libro della Fisica e nel secondo de “Il sonno e la veglia”, l’animo diventa saggio e prudente solo dopo che si sono acquietati i turbamenti, e stabilisce pure che la mente, libera dalle preoccupazioni e dagli sconvolgimenti di questo mondo, diviene particolarmente adatta alla comprensione delle verità più profonde e arcane, tutti gli uomini di Chiesa e soprattutto coloro che hanno compiti di governo devono essere sollecitati nel promuovere gli studi. Infatti, quando è stato trascurato lo studio della sapienza allora si sono trascurati anche gli atti virtuosi. Per esprimermi con le parole di Aristotele nel terzo libro su “L’anima”, l’intelletto speculativo, che è rivolto alla ricerca della verità, diviene intelletto pratico per la sua naturale inclinazione verso il bene. La conoscenza, infatti, è preliminare ad ogni atto retto di volontà e lo guida verso la salvezza. Infatti, non possiamo compiere il bene se non lo conosciamo, né possiamo evitare il male se non lo conosciamo. Finché perdura l’ignoranza non si può scoprire alcun rimedio contro il male, perché chi è avvolto nelle tenebre dell’ignoranza precipita nella colpa, come il cieco nel fosso; per tale motivo è chiaro che nessun pericolo è paragonabile a quello dell’ignoranza. Chi conosce la verità, anche se talora trascura quello che è il suo dovere, tuttavia possiede gli strumenti per rendersene conto, per pentirsi delle cattive azioni e per evitarle nel futuro. Per tale motivo non vi è attività più degna dell’amore del sapere, mediante il quale si dissipa qualsiasi tenebra derivante dall’ignoranza e si illumina 72

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la mente dell’uomo affinché scelga ciò che è bene e detesti le singole azioni malvagie. D’altra parte, coloro che si dedicano agli studi recano giovamento non solo a se stessi, ma [anche agli altri, perché] di fatto vengono scelti per governare la Chiesa nei vari gradi ecclesiastici e diventano consiglieri dei principi, guide del popolo, sono in grado di convertire gli eretici e gli altri infedeli, possono dare suggerimenti per reprimere gli ostinati e quanti sono predestinati per loro colpa all’eterna dannazione. In conclusione, il bene dell’umanità intera dipende dallo sviluppo del sapere, mentre al contrario l’intero universo ricava un gran danno dal ristagno degli studi. […] È facile per un uomo di lettere ampliare quasi all’infinito le verità comuni e di scarso rilievo, come è pure per lui facile esaltare e ingrandire le cose di poco conto, ma questa non è cosa degna di un uomo sapiente, soprattutto se ci si limita a ciò e se ne fa l’unico scopo della propria attività scientifica. Non è, infatti, segno di grandezza il diffondersi nei particolari, ma il saper ridurre ad un compendio unitario le informazioni più disparate. Inoltre, è da sciocchi spingere le piccole verità oltre il loro ambito e poi trascurare quelle grandi verità scientifiche, una sola delle quali supera di gran lunga quelle di cui tutte parlano. Il mondo è già tutto pieno di opere concernenti nozioni comuni e puerili; per conto mio non intendo raccogliere nessuna di queste nozioni, se non per quel tanto che è richiesto per conoscere i veri segreti della scienza, cioè solo perché non si possono conoscere le verità più grandi senza quelle più piccole. Io invece mi propongo di scoprire i segreti più reconditi delle scienze e non solo quelli che riguardano la ricerca scientifica, ma anche quelli che sono necessari per acquisire una vera scienza delle cose divine. Se così non fosse la nostra conoscenza non avrebbe alcun valore, come dimostrerò più avanti; infatti, non si tratta tanto di esporle secondo un metodo scolastico, ma soprattutto di renderle valide per il governo della Chiesa, per la direzione della cristianità, per la conversione degli infedeli e per la riprovazione di coloro che non possono essere convertiti, in modo che costoro vengano combattuti dalla Chiesa con tutti i mezzi forniti dalla scienza invece che con solo gli sforzi bellici, dal momento che si tratta di cose possibili e consone alla Vostra Maestà. […] A questo scopo mi propongo di mostrare l’utilità del sapere filosofico nella sua natura più profonda mediante le sette scienze, senza le quali non è possibile acquisire alcuna conoscenza scientifica, mentre per loro mezzo risulta facile ogni altra ricerca razionale. L’umano sapere è privo di vita e inutile, anzi nocivo e dannoso, se la sapienza divina non si degna di farne uso, perciò sotto molti punti di vista esso è necessario al sapere che lo domina. Per tale motivo l’utilità della filosofia, che la Vostra Beatitudine richiede, non può essere manifestata se non mostrandone Il Duecento e la scolastica

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l’applicazione alla sapienza divina. Per questo motivo metto utilmente in relazione le sette scienze di cui sto parlando con la scienza sacra di Dio e mostro come essa non possa essere conosciuta se si ignorano tali sette scienze. Dunque il sapere filosofico è utile in primo luogo per se stesso, se rivolto verso un buon fine; in secondo luogo, se è applicato alla teologia è ancora più grande; in terzo luogo esso è di una utilità quasi infinita quando è al servizio della Chiesa di Dio e delle altre tre discipline [matematica, ottica, scienza sperimentale]. Avrei in qualche modo sminuito il valore della filosofia se non avessi fatto esplicitamente menzione dei modi straordinari in cui essa può essere utile. Solo per questo motivo paragono queste sette discipline alla sapienza divina trasmessa alla Chiesa e alle altre discipline suddette [le arti del trivio e quadrivio], poiché in esse si completa l’utilità della filosofia, tanto che non si deve cercare nient’altro. Chi saprà comprendere e saprà mettere in pratica ciò che scrivo, diventerà perfetto nella sapienza per quanto può bastare ad un uomo in questa vita per sé e per il mondo intero.

 - Ruggero Bacone (Dorsetshire 1214 ca. - 1292) scrisse la Lettera a Clemente IV per bandire il suo progetto nel 1267. Il testo riportato è tratto da: R. Bacone, La scienza sperimentale, a cura di F. Bottin, Rusconi, Milano 1990, pp. 83-84, 90-91, 95-96.

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I III, Il disprezzo del mondo a Che sCopo opeRaRe e ConosCeRe In Questo monDo? proprio nel momento in cui si diffonde, a cavallo tra il XII e il XIII secolo, uno stile di vita più agiato e improntato a valori di tipo mondano ed edonistico, nonché emergono esigenze culturali ormai slegate dal vecchio modello spiritualistico, lotario di segni, che sarà papa Innocenzo III (come tale fautore di una visione teocratica del potere papale), riproporrà con forza la visione monastica del ritiro dal mondo e del pessimismo sull’uomo e sulle sue attività, comprese quelle intellettuali. Questo tema ha le sue radici bibliche (specie nel libro di Giobbe e nel Qoelet, ampiamente citati) e fu sviluppato in età patristica altomedievale, così come sarà ripreso successivamente da tutte le correnti antiumanistiche (per esempio pascal): perciò questo testo, cupo e dal tono crudamente realistico, vuole essere un’opera di carattere ascetico, rivolta non agli ecclesiastici ma ai laici perché, riconoscendo la propria miseria, abbandonino una vita fatta di sordidezze e di vane caducità.

Scrutino e investighino pure i sapienti le altezze dei cieli, l’estensione della terra e le profondità dei mari! Disputino pure su ogni cosa, considerino tutto quanto, sia che apprendano o che insegnino. Ma cosa troveranno in questa vana occupazione se non pena, dolore e afflizione dello spirito? Ciò lo sapeva bene per esperienza colui che diceva: «Ho deciso di conoscere la sapienza e la scienza, la follia e la stoltezza, ma ho compreso che ciò è pena e afflizione dello spirito, poiché in una grande sapienza sta un grande corruccio e chi accresce il sapere accresce il dolore». Infatti, studi pure lo studioso con lunghe veglie e vegli sudando! Ciò che l’uomo capirà appieno e conoscerà chiaramente è tuttavia qualcosa di così poco conto e assai facile da capire, ovvero conoscerà perfettamente, forse, solo una cosa: che nulla può essere conosciuto perfettamente; comunque sia, trarrà da ciò un’ineliminabile confusione. E perché? «Un corpo corruttibile appesantisce l’anima, e il dimorare sulla terra grava la mente con molti pensieri». Su ciò ascolta la sentenza di Salomone: «tutte le cose sono difficili da comprendere e nessuno può spiegarle con un discorso». «Quell’uomo che non chiude occhio né giorno né notte non può trovare il senso di nessuna opera di Dio e per quanto si affatichi a ricercare, ancor meno lo scoprirà». La smettano, dunque, coloro che indagano di indagare: l’uomo rivolga in alto il suo cuore, e Dio sarà esaltato. «Colui che indaga sulla maestà di Dio, sarà oppresso dalla sua gloria». Colui che comprende di più, ancora di più Il Duecento e la scolastica

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dubita, e colui che sembra sappia di più, vieppiù sragiona. Fa, dunque, parte del sapere, sapere ciò che non si sa. «Dio ha creato l’uomo senza difetti, ma questo si è confuso con mille quisquilie». I mortali corrono e vagano attraversando recinti e percorrendo sentieri, salgono monti, valicano colli, scavalcano dirupi, superano montagne, oltrepassano fossati, penetrano nelle caverne, frugano le viscere della terra, i mari abissali, i fiumi pericolosi, le selve oscure, i deserti inaccessibili, si mettono in balia dei venti e delle piogge, dei tuoni e dei fulmini, dei marosi e delle tempeste, dei precipizi e dei burroni. Battono e fondono i metalli, scolpiscono e levigano le pietre, abbattono e sgrossano il legname, ordiscono e tessono tele, tagliano e cuciono abiti, innalzano case e coltivano giardini, lavorano campi, zappano vigne, accendono forni, innalzano mulini, pescano, cacciano e uccellano. Riflettono e pensano, deliberano e comandano, si lamentano e litigano, saccheggiano e rubano, ingannano e mercanteggiano, bisticciano e guerreggiano, e fanno innumerevoli altre cose per ammassare ricchezze, per moltiplicare i profitti, per conseguire guadagni, per acquisire onori, per ostentare titoli onorifici, per estendere il loro dominio. Tutto ciò non è che pena e affanno per la mente. […] Quanta angoscia soffoca i mortali, l’inquietudine li affligge, la preoccupazione li infastidisce, la paura li atterrisce, il tremito li scuote, l’orrore li trascina via, il dolore li abbatte, la tristezza li confonde, il turbamento li rattrista. Il povero e il ricco, il servo e il padrone, il maritato e il casto, e, da ultimo, il buono e il malvagio, tutti vengono straziati con tormenti mondani e vengono torturati con mondane angustie. Credi all’esperto maestro: «Se sarò empio, guai a me, e se sarò giusto non innalzerò il capo, satollo fino alla nausea di afflizione e di miseria». […] «La vita dell’uomo sulla terra è dunque milizia». Non è forse vera milizia quando sempre e da ogni parte vari nemici ci insidiano per conquistarci, ci incalzano per annientarci, ossia il demonio e l’uomo, il mondo e la carne? Il demonio con i vizi, l’uomo con la bestialità, il mondo con la materia, la carne con i sensi. […] La morte entra per le finestre, l’occhio saccheggia l’anima. Tutti insensatamente combattono gli uni contro gli altri. Popoli contro popoli, regni contro regni e vi saranno immensi terremoti in vari luoghi, pestilenze e carestie, terrori dai cieli e tempeste. La terra produce spine e triboli, l’acqua bufere e flutti, l’aria tempeste e tuoni, il fuoco baleni e folgori. […] E mentre fummo creati per dominare i pesci del mare e gli uccelli del cielo e tutti gli animali che si muovono sulla terra, ora siamo dati in preda e in pasto ad essi. Sta scritto: «Invierò contro di loro i denti delle belve, col furore dei serpenti che strisciano sulla terra». «Me sventurato, chi mi libererà da questo corpo di morte?». Certamente colui che non vuole uscire dal corpo non vuole essere tratto dal carcere, in-

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fatti il corpo è carcere dell’anima. Per questo il salmista dice: «Trai l’anima mia dal carcere». In nessun luogo c’è quiete e tranquillità, in nessun luogo pace e sicurezza; ovunque timore e tremore, ovunque pena e dolore. Fino a quando la mia carne vivrà dolorerà e l’anima piangerà su se stessa. Chi ha mai trascorso un giorno intero indugiando nella sua gioia, senza essere mai turbato in qualche ora del giorno dal rimorso della coscienza o da un impeto d’ira o da un moto di lussuria? Senza essere mai vessato dal livore dell’invidia o dalla vampa dell’avarizia o dal gonfiarsi della superbia? Senza mai essere stato turbato da nessuna disgrazia o offesa o passione? E, infine, senza essere mai stato offeso da cose viste o udite o fatte da qualcuno? «Uccello raro sulla terra molto simile ad un cigno nero» […] Una tristezza improvvisa succede ad una mondana allegrezza e ciò che comincia in gioia termina in afflizione. La felicità mondana è senza dubbio cosparsa di molte amarezze.

 - Lotario di Segni, papa Innocenzo III, (Gavignano o Anagni 1170 ca. - Perugia 1216) compose il De contemptu mundi (Il disprezzo del mondo) attorno al 1190. Il testo riportato è tratto da: Lotario di Segni, Il disprezzo del mondo, a cura di R. D’Antiga, Pratiche, Parma 1994, pp. 49-53, 66-69.

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B  B, Itinerario dell’anima a Dio un ItIneR aRIo Che poRtI l’anIma umana a DIo è ConCRetamente peRCoRRIBIle In vIta? Bonaventura ritiene che in vita si possa compiere il cammino dell’anima a Dio, a patto che l’anima si trovi nella completezza delle sue facoltà. Il principio chiave è che risulta necessario comprendere la necessità di soffermarsi sui gradini intermedi dell’ascesa, acquisendo forza dalle caratteristiche di ciascun passaggio per salire ulteriormente. per questa ragione la sensibilità, l’immaginazione, tutte le risorse che la mente utilizza per la vita pratica non sono da scartare, ma devono essere piegate a un fine diverso. la strada, nelle linee generali, è quella tracciata dalla tradizione agostiniano-neoplatonica. la razionalità, da sola, non può farcela.

Per noi uomini, nella nostra attuale condizione, l’intera realtà costituisce una scala per ascendere a Dio. Ora, tra le cose, alcune sono vestigio di Dio, altre sua immagine; alcune sono corporee, altre spirituali; alcune sono temporali, altre sono immortali; e, pertanto, alcune sono al di fuori di noi, altre invece in noi. Di conseguenza, se vogliamo pervenire alla considerazione del primo Principio, che è puro spirito, eterno e trascendente, è necessario che passiamo prima attraverso la considerazione delle sue vestigia che sono corporee, temporali ed esterne a noi, e questo significa essere condotti sulla via di Dio. È necessario, poi, che rientriamo nella nostra anima che è immagine di Dio, immortale, spirituale ed in noi, e questo significa entrare nella verità di Dio. È necessario, infine, che ci eleviamo a ciò che è eterno, puro spirito e trascendente, fissando con attenzione lo sguardo sul primo Principio, e questo significa allietarsi nella conoscenza di Dio e nell’adorazione della sua maestà. Queste tre tappe costituiscono, quindi, il viaggio di tre giorni nella solitudine, le tre diverse luci che ci illuminano nel corso della giornata, di cui la prima è simile a quella del tramonto, la seconda a quella del mattino, la terza a quella del mezzogiorno. [...] A queste tre tappe progressive corrispondono, nella nostra anima, tre diversi modi secondo cui essa considera le cose. Il primo si svolge alle realtà corporee, esterne a noi, ed è chiamato animalità o sensibilità; con il secondo, si volge a se stessa, senza uscire da sé, ed è detto spirito; con il terzo, che

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è detto mente, l’anima si volge alle realtà che la trascendono. A partire da tutte queste cose, l’anima deve prepararsi ad ascendere a Dio [...]. È, dunque, necessario che chi vuole ascendere a Dio, dopo avere evitato di cadere nella colpa che corrompe la nostra natura, eserciti le facoltà naturali di cui prima si è parlato, per ottenere, mediante la preghiera, la grazia che riabilita; per mezzo di una retta condotta di vita, la giustizia che purifica; per mezzo della meditazione, la scienza che illumina; e, per mezzo della contemplazione, la sapienza che rende perfetti. Quindi, come nessuno può pervenire alla sapienza se non per mezzo della grazia, della giustizia e della scienza, così non si può pervenire alla contemplazione se non per mezzo di una meditazione penetrante, di una condotta di vita santa e di una preghiera devota. Come, dunque, la grazia costituisce il fondamento della rettitudine della volontà e dell’illuminazione di una ragione penetrante, così è necessario, innanzi tutto, pregare, poi vivere santamente, e infine applicarsi alla considerazione della verità e, applicandosi ad essa, ascendere gradatamente fino a pervenire «al monte eccelso, in Sion, dove vedremo il Dio degli dèi». [...] Ora, la somma potenza, la somma sapienza e la somma bontà del Creatore risplendono nelle cose create nei tre modi secondo cui i sensi del corpo rendono noto questo fatto al senso interno. Infatti, i sensi del corpo prestano il loro servizio all’intelletto sia quando indaga servendosi di tecniche argomentative, sia quando crede con una adesione di fede, sia quando contempla intellettivamente. Quando contempla, esso considera l’esistenza attuale delle cose; quando crede, considera lo svolgersi che è ad esse proprio; quando indaga, servendosi di tecniche argomentative, le considera nell’eccellere delle loro potenzialità. Dapprima, quando lo sguardo di colui che contempla considera le cose in se stesse, vede in esse peso, numero e misura; vede il peso in relazione al luogo determinato verso il quale esso le fa tendere; il numero per mezzo del quale possono essere distinte l’una dall’altra; la misura mediante la quale sono delimitate nella loro realtà concreta. In virtù di questo, vede in esse la dimensione, l’armonia e l’ordine, e altresì la sostanza, la capacità operativa e l’attività. Tutto ciò gli consente di elevarsi dalle cose, come da un vestigio, alla conoscenza dell’immensa potenza, sapienza e bontà del loro Creatore. In seguito, lo sguardo di chi osserva le cose dal punto di vista della fede quando considera questo mondo, rivolge la propria attenzione alla sua origine, al suo corso e al suo fine. Infatti, per fede crediamo che «l’universo è stato formato dal Verbo di vita»; per fede crediamo che tre leggi – cioè di natura, della Scrittura e di grazia – si succedono e si sono succedute nel tempo con ordine regolarissimo; per fede crediamo che il mondo avrà termine col giudizio finale. Possiamo scorgere, in tal modo, nell’origine del

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mondo la potenza del sommo Principio, nello svolgersi del mondo la sua provvidenza e nella fine del mondo la sua giustizia. Infine, lo sguardo di chi indaga servendosi di tecniche argomentative vede alcune realtà esistere soltanto; altre esistere e vivere; altre, poi, esistere, vivere e discernere. Le prime sono le meno elevate, le seconde occupano un posto intermedio, le terze sono le più elevate. Vede, altresì, che alcune realtà sono soltanto corporee, altre sono in parte corporee e in parte spirituali, e da ciò si rende conto che esistono realtà puramente spirituali, migliori e più elevate rispetto alle precedenti. Vede, nondimeno, che alcune realtà, come quelle terrene, sono soggette al mutamento e alla corruzione, e che altre, come quelle celesti, sono soggette al mutamento, ma non alla corruzione, e da ciò si rende conto che esistono realtà non soggette né al mutamento né alla corruzione, come quelle divine. Pertanto, tutta la realtà visibile consente all’intelletto di elevarsi alla considerazione della potenza, sapienza e bontà di Dio e di comprenderlo come esistente, vivente, intelligente, puramente spirituale, incorruttibile e immutabile.

 - Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio 1217 ca. - Lione 1274) scrisse Itinerarium mentis in Deum (Itinerario dell’anima a Dio) nel 1259 a Laverna. Il testo riportato è tratto da: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario dell’anima a Dio, a cura di L. Mauro, Rusconi, Milano 1985, pp. 118 ss.

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T ’A, Somma contro i gentili possIamo sapeRe IntuItIvamente se DIo esIste? tommaso risponde negativamente alla domanda del titolo. la ragione umana ha bisogno di procedere discorsivamente, e non intuitivamente, nella conoscenza di Dio e alla comprensione della sua esistenza: deve partire da elementi noti e ricavare da essi una argomentazione razionale. l’intuizione non è filosoficamente sufficiente, benché possa per un uomo di fede essere decisiva.

[L’opinione di chi afferma non potersi dimostrare l’esistenza di Dio, essendo una verità per sé nota] Questa indagine, con la quale alcuni cercano di dimostrare l’esistenza di Dio, può forse sembrare superflua a chi afferma essere una verità per sé nota che Dio esiste, così da non potersi pensare il contrario; e che quindi è impossibile dimostrare l’esistenza di Dio. Ed ecco gli argomenti che sembrano a ciò favorevoli: 1. Sono per sé note quelle affermazioni che sono conosciute non appena se ne afferrano i termini: conosciuto, p. es., che cosa è il tutto e che cosa è la parte, subito si capisce che il tutto è maggiore della parte. Ma ciò avviene quando si fa l’affermazione: «Dio esiste», poiché col termine Dio intendiamo la cosa di cui non si può pensare niente di più grande. Tale è il concetto che si forma in chi ascolta e comprende il termine suddetto; quindi almeno concettualmente Dio deve già esistere. Ma non può esistere solo concettualmente: perché quanto esiste e nell’intelletto e nella realtà è superiore a ciò che esiste solo nell’intelletto. Ora, nel nome stesso di Dio è incluso che non possa esserci nulla di superiore. Dunque è evidente che l’esistenza di Dio è cosa per sé nota, derivando chiaramente dallo stesso significato del termine. 2. Si può sempre pensare una cosa la quale non possa non esistere. Ma essa è evidentemente superiore a ciò che può pensarsi inesistente. Perciò si potrebbe pensare qualche cosa di superiore a Dio, se si potesse pensare che Dio non esiste. Ma questo è contro il significato del termine. Dunque rimane evidente che l’esistenza di Dio è una verità per sé nota. 3. Sono necessariamente notissime le proposizioni in cui una cosa viene predicata di se stessa, come: «L’uomo è l’uomo»; oppure quelle il cui predicato è incluso nel soggetto, come: «L’uomo è un animale». Ora, in Dio, e lo

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vedremo in seguito, a differenza delle altre cose, l’esistenza è inclusa nell’essenza, cosicché equivale per lui il problema del quid est a quello dell’an est. Perciò nell’affermazione: «Dio esiste», il predicato o s’identifica col soggetto, o per lo meno è incluso nella definizione del. soggetto. Quindi che Dio esiste è una verità per sé nota. 4. Ciò che è noto per natura è conoscibile per se stesso: poiché alla sua conoscenza non si arriva mediante una ricerca o uno studio. Ora, è noto che Dio per natura è oggetto di conoscenza; essendo Dio l’ultimo fine a cui tende per natura il desiderio dell’uomo. Dunque che Dio esiste è una verità per sé nota. Bisogna che sia per sé noto ciò che costituisce il principio per conoscere ogni altra cosa. Ebbene, Dio è precisamente codesto principio. Infatti, come la luce del sole è principio di ogni percezione visiva, così la luce di Dio è principio di ogni cognizione intellettiva: essendo egli l’essere in cui radicalmente e in sommo grado si riscontra la luce intellettuale. Quindi che Dio esiste è una cosa per sé nota. Per codesti argomenti e per altri consimili alcuni pensano essere talmente evidente per se stesso che Dio esiste, da non potersi pensare mentalmente il contrario.

[Confutazione dell’opinione suddetta e soluzione degli argomenti addotti] Codesta opinione deriva in parte dall’abitudine che hanno gli uomini di udire e d’invocare fin da principio il nome di Dio. Ora, le abitudini, e specialmente quelle della prima infanzia, acquistano forza di natura; dal che deriva che le convinzioni acquisite fin dalla fanciullezza si ritengono con tale fermezza come se fossero per natura e per sé note. E in parte l’opinione suddetta deriva dal non distinguere il per sé noto in senso assoluto, dal per sé noto rispetto a noi. Infatti in senso assoluto l’esistenza di Dio è per sé nota, poiché l’essenza di Dio coincide con la sua esistenza. Ma proprio perché noi non possiamo concepire intellettualmente l’essenza di Dio, ciò rimane ignoto rispetto a noi. [...] 1. E neppure segue necessariamente che appena compreso il significato del termine Dio, subito si abbia l’idea dell’esistenza di Dio: perché tra quegli stessi che ne ammettono l’esistenza non tutti capiscono che Dio è la cosa di cui non se ne può pensare una maggiore: infatti molti nell’antichità pensarono che Dio fosse il mondo visibile attuale. [...] Dato, inoltre, che tutti col termine Dio intendessero la cosa di cui non è possibile pensarne una più grande, non segue necessariamente che una tal cosa esista nella realtà. La realtà infatti che deriva come logica conseguenza non può esser superiore al valore del termine. Ora, per il fatto che una cosa del genere si concepisce mentalmente nel proferire il termine Dio, non segue che Dio esista, se non come dato intellettivo. Perciò l’essere di cui

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non se ne può pensare uno maggiore non può non avere l’esistenza: però nell’intelletto. Ma da ciò non segue che codesto essere esista nella realtà. [...] 2. E neppure segue, come pretendeva il secondo argomento che, ammettendo la possibilità di pensare Dio come non esistente, si possa pensare qualche cosa come superiore a Dio. Infatti la possibilità di pensarlo come non esistente non deriva dall’imperfezione, o dalla mancata certezza della sua esistenza, che in sé è evidentissima; bensì dalla debolezza del nostro intelletto, che è incapace di conoscere Dio in se stesso, ma deve farlo attraverso i suoi effetti, e giungere così a conoscerne l’esistenza mediante il ragionamento. 3. Ciò risolve anche la terza argomentazione. Poiché com’è per sé noto che il tutto è maggiore della sua parte, così a chi contempla l’essenza divina è notissimo che Dio esiste, per il fatto che in lui l’essenza s’identifica con l’esistenza. Ma non avendo noi la possibilità di vederne l’essenza, è chiaro che arriviamo a conoscerne l’esistenza non in lui stesso, bensì mediante i suoi effetti. 4. È evidente la soluzione anche della quarta argomentazione. L’uomo infatti conosce Dio per natura, come per natura lo desidera. Ebbene, egli lo desidera per natura in quanto per natura desidera la beatitudine, che è una certa somiglianza della bontà di Dio. Perciò non segue necessariamente che all’uomo sia noto per natura Dio stesso in sé considerato, ma solo in sua somiglianza. Ecco perché è necessario che l’uomo arrivi alla conoscenza di Dio mediante le somiglianze che di lui scorge nei suoi effetti, servendosi del raziocinio.

 - Tommaso d’Aquino (Roccasecca 1225 ca. - Fossanova 1274) scrisse Somma contro i gentili tra il 1259 e il 1268 (anche se probabilmente fu rivista verso la fine della sua vita). Il testo riportato è tratto da: Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, a cura di T.S. Centi, Utet, Torino 1978, pp. 62-65, 75-79.

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T ’A, Somma contro i gentili le paRole Che usIamo peR paRlaRe Delle Cose e DeGlI eventI, possono esseRe usate anChe peR paRlaRe DI DIo? la risposta tomista alla domanda rivolta sopra è: non nello stesso senso. «niente può predicarsi di Dio e delle altre cose in senso univoco». ma ovviamente non abbiamo altre parole di cui comprendiamo a fondo il significato, perché non abbiamo esperienza HMVIXXE di Dio, né sensibile né intuitiva né intellettiva, ma dobbiamo compiere un percorso per comprendere che esiste e chi sia. l’essere, lo aveva già sostenuto aristotele, si dice in molti modi. e non si dice nello stesso modo se riferito a Dio e agli enti o agli eventi. Dobbiamo quindi comprendere che cosa significhi l’essere riferito a Dio.

[Di Dio e delle altre cose niente può predicarsi in senso univoco] Da ciò risulta ben chiaro che di Dio e delle altre cose niente può predicarsi in senso univoco. Infatti: 1. Un effetto, il quale riceve la forma non secondo una specie consimile a quella con la quale lo produce la sua causa efficiente, non può ricevere secondo una predicazione univoca il nome desunto da quella forma: caldo infatti non si applica in senso univoco al sole e al fuoco da esso generato. Ora, le forme delle cose causate da Dio non raggiungono la specie della virtù divina: poiché ricevono frazionato e parzialmente ciò che in Dio si riscontra in maniera semplice ed universale. Perciò è evidente che niente può predicarsi di Dio e delle altre cose in senso univoco. 2. Se un effetto raggiunge la specie della propria causa, non consegue la predicazione univoca di un dato termine, se non riceve l’identica forma specifica secondo la medesima maniera di essere infatti non può dirsi univocamente casa quella esistente nel pensiero dell’artista e quella esistente nella materia, poiché non è identica la loro maniera di essere. Ora, pur ammettendo che le altre cose ricevono delle forme del tutto simili, non possono riceverle secondo l’identica maniera di essere: poiché in Dio non c’è nulla che non si identifichi con l’essere divino, il che non avviene nelle altre cose. Dunque è impossibile che un termine si predichi in maniera univoca di Dio e delle altre cose. [...]

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6. Ciò che viene predicato di più cose secondo un criterio di precedenza e di posteriorità, è certo che non viene predicato univocamente: poiché ciò che è prima va incluso nella definizione di ciò che è dopo; la sostanza, p. es., va inclusa nella definizione essenziale dell’accidente. Se invece ente fosse predicato in modo univoco della sostanza e dell’accidente, bisognerebbe che la sostanza rientrasse nella definizione dell’ente, che pure viene predicato della sostanza. Il che evidentemente è assurdo. Ora, di Dio e delle altre cose niente viene predicato nello stesso ordine, ma secondo criteri di priorità e posteriorità: poiché di Dio ogni cosa viene predicata in maniera essenziale, essendo Egli denominato ente come l’essere per essenza, e buono nel senso che è la stessa bontà, mentre alle altre cose i predicati si attribuiscono per partecipazione. Socrate, p. es., è detto uomo non perché è la stessa umanità, ma perché la possiede. Dunque è impossibile che un attributo si possa predicare di Dio e delle altre cose in senso univoco.

[I vocaboli usati per Dio e per le creature hanno valore analogico] Da quanto abbiamo detto [nei capitoli precedenti] si impone la conclusione che i vocaboli usati per Dio e per le altre cose non hanno valore né univoco né equivoco, ma analogico; ossia valgono in base a un ordine o a una relazione con qualcosa di unico. E ciò può avvenire in due modi. Primo, mediante il riferimento di più cose a un’unica realtà: come quando in relazione all’unica sanità [dell’animale], il termine sano si applica all’animale in quanto ne è il soggetto, alla medicina che la procura, al cibo che la conserva e all’urina che ne è un segno. Secondo, nel caso in cui l’ordine, o la relazione di due cose non si riferisce a una terza, ma a una di esse: ente, p. es., si dice della sostanza e dell’accidente in quanto quest’ultimo si dice in relazione alla sostanza, non già perché sostanza e accidente si riferiscono a una terza realtà. Ora, i nomi cui accenniamo si riferiscono analogicamente a Dio e alle altre cose non nella prima maniera, poiché nel caso bisognerebbe supporre qualche cosa di anteriore a Dio, bensì nella seconda. Ma in codesta predicazione analogica talora si ha l’identico ordine, sia rispetto al significato del vocabolo, che secondo la realtà: talora invece codesti due ordini sono diversi. Poiché l’ordine di significazione segue quello della conoscenza, essendo la parola l’espressione della intuizione intellettiva. Perciò quando ciò che è prima nell’ordine reale è prima anche nell’ordine conoscitivo, l’identica realtà è prima nello appropriarsi il significato del nome, oltre che nella realtà: la sostanza, p. es., è prima dell’accidente sia in natura, in quanto è causa dell’accidente; sia nella conoscenza, in quanto la sostanza rientra nella definizione stessa dell’accidente. Quindi ente si dice

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prima della sostanza che degli accidenti, sia secondo l’ordine di natura, che secondo l’ordine della significazione del termine. – Quando invece ciò che è prima per natura è posteriore in ordine di conoscenza, allora negli analoghi non è identico l’ordine reale e quello di significazione del termine: la virtù di risanare, p. es., che si riscontra nelle medicine, per natura è prima della sanità che si produce nell’animale, come la causa è anteriore all’effetto; ma poiché codesta virtù si conosce dall’effetto, è dall’effetto che la denominiamo. Ecco perché i mezzi sanitari sono anteriori nell’ordine reale, ma il termine sano quanto al valore semantico appartiene prima di tutto all’animale. Perciò siccome noi arriviamo alla conoscenza di Dio partendo dalle cose, il contenuto dei termini attribuiti a Dio e alle cose si trova in lui prima che nelle cose nel suo valore intrinseco, ma il loro significato si applica a Dio posteriormente. Ecco perché si dice che Dio viene denominato dai suoi effetti.

 - Tommaso d’Aquino (Roccasecca 1225 ca. - Fossanova 1274) scrisse Somma contro i gentili tra il 1259 e il 1268 (anche se probabilmente fu rivista verso la fine della sua vita). Il testo riportato è tratto da: Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, a cura di T.S. Centi, Utet, Torino 1978, pp. 133-137.

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T ’A, Il governo dei principi Come Deve esseRe oRGanIzzata , peR Il Bene Comune, la soCIetà DI uomInI lIBeRI e R azIonalI? tommaso si è occupato a fondo di questioni sociali, economiche e politiche, ma non lo ha fatto con la stessa organicità con cui si è dedicato ad altre questioni, come quelle metafisiche. piuttosto, se ne è preso cura incidentalmente, assumendo spesso posizioni originali, quando non anticonformiste (per esempio in materia economica). In coerenza con tutta l’impostazione della sua filosofia, anche sui temi politici dialoga soprattutto con aristotele, da cui riprende le tesi di fondo sulla visione dell’uomo come animale politico e sulla partizione delle forme di governo.

[L’uomo animale politico] Certo ogni uomo è naturalmente dotato del lume della ragione, per mezzo del quale può, nei suoi atti, dirigersi al fine. E invero, se all’uomo si addicesse di vivere isolato, come vivono molti animali, non avrebbe bisogno di alcun’altra guida, ma ognuno, sotto Dio re supremo, sarebbe re di se stesso; dirigendosi nelle sue azioni per mezzo del lume della ragione datogli da Dio. Sennonché è proprio della natura dell’uomo di essere animale sociale e politico, vivente in comunità, più ancora degli altri animali; come appare anche dalla necessità naturale. [...] Inoltre: negli altri animali è insito un istinto naturale per tutto ciò che è loro utile o nocivo, così come l’agnello reputa istintivamente suo nemico il lupo. Ci sono persino degli animali che per istinto naturale conoscono talune erbe medicinali e altre cose necessarie alla loro sopravvivenza. All’uomo invece la conoscenza naturale delle necessità della vita è data solo in generale, appunto perché gli è possibile per mezzo della ragione di pervenire dai principi universali alla conoscenza delle singole cose che sono necessarie al vivere umano. Ora non è possibile che un uomo solo raggiunga colla sua ragione tutte queste conoscenze. È pertanto necessario all’uomo di vivere in società, affinché l’uno aiuti l’altro, e uomini diversi si dedichino a raggiungere colla ragione conoscenze diverse, ad es., l’uno nella medicina, un altro in questo, un altro in quello. [...]

[Forme di governo] Se dunque una comunità di uomini liberi viene ordinata da un reggitore al bene comune, avremo un governo retto e giusto, quale si addice a uomini Il Duecento e la scolastica

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liberi. Se per contro il governo è ordinato non al bene comune ma al bene privato del reggitore, il governo sarà ingiusto e perverso [...]. Se il governo ingiusto è esercitato da un uomo solo, che dal governo cerchi di trarre il suo tornaconto e non il bene della comunità a lui soggetta, tale reggitore viene chiamato tiranno, nome derivato dalla forza, poiché difatti opprime colla forza anziché governare colla giustizia: perciò presso gli antichi qualunque potente si chiamava tiranno. Se invece il governo ingiusto è esercitato non da uno solo, ma da alcuni pochi, si chiama oligarchia, cioè governo di pochi, quando invero pochi opprimono la plebe colle loro ricchezze, differendo dal tiranno solo perché sono in più. Se infine il governo ingiusto è esercitato da molti, si chiama democrazia, cioè supremazia del popolo, quando invero la massa dei plebei colla potenza del numero opprime i ricchi. In questo caso l’intero popolo è per così dire un solo tiranno. Analogamente conviene distinguere i governi giusti. Se il governo viene esercitato da una maggioranza, viene chiamato in generale politia, come quando un gruppo di guerrieri domina in una città o in una regione. Se per contro viene esercitato da pochi, ma virtuosi, tale governo viene detto aristocrazia, cioè principato ottimo, o degli ottimi, che perciò vengono chiamati ottimati. Se infine il governo giusto appartiene a un uomo solo, questi viene propriamente chiamato re [...]. È nell’essenza del governo monarchico, che vi sia uno solo, che comandi, e come un pastore ricerchi il bene comune di tutti, e non il proprio tornaconto.

[La monarchia] Occorre ricercare che cosa maggiormente convenga ad un reame o ad una città; se esser governati da uno solo o da più. Ciò può esser stabilito considerando il fine stesso del reggimento politico. Lo sforzo di qualsiasi reggitore deve essere inteso ad assicurare il benessere del suo dominio. Spetta infatti al nocchiero di guidare la nave nel porto di salvezza, preservandola illesa dai pericoli del mare. Ora il bene e la salute della comunità consociata sta nella conservazione della sua unità, che si chiama pace: ove questa venga meno, cessa il vantaggio del vivere sociale, anzi la discordia lo tramuta in un peso. A questo pertanto deve massimamente mirare il reggitore di una comunità: di assicurare l’unità della pace. E sarebbe altrettanto ingiustificato che egli si chiedesse se assicurare la pace nella comunità a lui soggetta, quanto se il medico si chiedesse se deve guarire il malato che gli è stato affidato. Nessuno difatti può esitare circa il fine cui deve tendere, ma soltanto circa i mezzi migliori per raggiungerlo. Per questa ragione l’Apostolo, dopo aver lodato l’unità del popolo fedele, soggiunge (Efes. IV, 3): «Siate solleciti di conservare l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace». Quanto più dunque un governo sarà efficace a conservare l’unità della pace, tanto più sarà utile. Invero, noi diciamo che è

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più utile ciò che meglio conduce al fine. Ora è evidente che l’unità può esser assicurata meglio da ciò che di per sé già è uno, che non da una pluralità: come ciò che per sé è caldo è il mezzo più atto a riscaldare. Il governo di uno solo pertanto è più utile di quello di molti. Ancora. È evidente che molti non possono in alcun modo governare una comunità, se fra loro dissentono. È invero necessario che si attui fra i molti una certa unità, per poter in qualche modo governare: anche una nave non potrebbe esser condotta in una particolare direzione da molti, se non sono in qualche modo d’accordo. Ora l’unirsi di una pluralità significa approssimarsi all’unità. È dunque meglio che uno solo governi anziché molti sforzantisi all’unità. Ancora. Le cose che sono secondo natura si trovano nella condizione migliore: in ogni cosa invero la natura opera il meglio; ed ogni governo naturale è governo d’un solo. Difatti, le membra hanno un solo motore, il cuore; e le parti dell’anima sono dominate da una forza superiore, cioè la ragione. Anche le api hanno un solo re, e nell’intero universo vi è un Dio solo, creatore e rettore di tutte le cose. E ciò è conforme a ragione. Ogni molteplicità difatti deriva dall’unità. Per cui, se quelle cose che sono secondo l’arte, imitano quelle che sono secondo natura, e se tanto migliore è l’opera d’arte, quanto meglio ripete la somiglianza di ciò che è in natura, ne consegue di necessità che nella convivenza umana il meglio è che il governo venga esercitato da uno solo.

 - Tommaso d’Aquino (Roccasecca 1225 ca. - Fossanova 1274) scrisse De regimine principum (Il governo dei principi) attorno al 1267. L’opera, lasciata incompleta, fu terminata dal confratello Tolomeo da Lucca su materiali lasciati da Tommaso. Il testo riportato è tratto da: Tommaso d’Aquino, De regimine principum, in Scritti politici, a cura di A. Passerin d’Entreves, Zanichelli, Bologna 1946, pp. 122 ss.

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T ’A, L’ente e l’essenza Che Cos’è un ente, ossIa QualCosa Che C’è? tommaso d’aquino ha ritenuto di poter dimostrare con considerazioni esclusivamente filosofiche che l’esito della ricerca razionale sui fondamenti del reale e la rivelazione cristiana possono conciliarsi senza sostanziali difficoltà. l’apparato concettuale che tommaso utilizza per costruire la sua argomentazione è di derivazione aristotelica: è quindi su una via di ricerca sensibilmente diversa da quella seguita dai platonici e in linea con quel ritorno allo studio dei testi aristotelici che risale alla filosofia araba, che tommaso conosce, di cui si nutre e da cui si distacca su punti decisivi (per esempio a proposito della lettura che di aristotele aveva proposto averroè). In un saggio sulle nozioni di “ente” e di “essenza”, cioè su alcuni dei concetti di fondo della metafisica, tommaso si preoccupa innanzitutto di definire con cura i termini che utilizza. la derivazione aristotelica del suo pensiero risulterà chiara da questa pagina, esemplificativa dello stile tomista di pensiero e di argomentazione.

È necessario dire: 1) quale sia il significato dei termini essenza ed ente; 2) come essi si realizzino nelle diverse realtà; 3) e quale rapporto abbiano con le nozioni logiche, cioè col genere, con la specie e con la differenza. [...]

[Significato e sinonimi dell’ente e dell’essenza] 1. L’essere come copula e l’essere come reale Occorre dunque sapere che, come dice il Filosofo nel libro V della Metafisica, l’ente per sé ha una duplice accezione: 1) in una prima accezione l’ente si divide nelle dieci categorie; 2) in una seconda accezione esso indica la verità di una proposizione. La differenza tra le due accezioni suddette consiste in questo: nella seconda accezione può dirsi ente tutto ciò su cui può essere formata una proposizione affermativa, anche se questa non pone alcunché nella realtà; in tal senso si dicono enti anche le privazioni e le negazioni; diciamo infatti che l’affermazione è opposta alla negazione e che la cecità è nell’occhio. Invece, per la prima accezione, può esser detto ente solo ciò che indica qualcosa di reale. Quindi, fermandoci alla prima accezione, la cecità e simili non sono enti. Pertanto il termine essenza non viene desunto dall’ente quando questo è inteso nella seconda accezione, giacché in questo senso vien detto ente

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anche ciò che non ha un’essenza, come è il caso delle privazioni; l’essenza, quindi, viene desunta dall’ente in quanto esso è preso nella prima accezione. [...] 2. I sinonimi dell’essenza: quiddità, forma, natura Come si è detto, l’ente, preso nella prima accezione, si divide nelle dieci categorie; quindi è necessario che l’essenza significhi qualcosa di comune a tutte le nature secondo le quali i diversi enti vengono classificati nei diversi generi e nelle diverse specie; in questo senso umanità è l’essenza dell’uomo, e così via. Ebbene, ciò che costituisce una realtà nel proprio genere o nella propria specie è quel che viene espresso con la definizione, la quale mostra cosa sia una realtà; perciò i filosofi usano il termine quiddità al posto del termine essenza; e questo è pure quanto il Filosofo indica spesso con la formula «ciò che era l’essere», vale a dire ciò con cui una realtà ha di essere qualche cosa. Viene pure detta forma, in quanto con la forma viene espressa la determinatezza di ciascuna realtà, come dice Avicenna nel libro II della sua Metafisica. L’essenza viene pure detta natura, intendendo la natura nel primo dei quattro significati che fissa Boezio nell’opera Sulle due nature, cioè in quanto si dice natura tutto ciò che comunque può essere conosciuto dal pensiero. Difatti una realtà è intelligibile solo mediante la sua definizione ed essenza; in questo senso anche il Filosofo nel libro V della Metafisica dice che ogni sostanza è natura. Tuttavia il termine natura, così inteso, sembra significare l’essenza di una realtà in quanto riferita all’operare proprio di essa, giacché nessuna realtà manca di un proprio operare. Invece il termine quiddità si collega con la definizione, e il termine essenza viene usato in quanto un ente per mezzo di essa e in essa ha l’essere.

[La struttura ontologica dell’essenza nelle sostanze composte] 1. Sostanze composte e sostanze semplici Il termine ente viene usato assolutamente e primieramente per le sostanze, secondariamente e in certo senso per gli accidenti; conseguentemente l’essenza, in senso vero e proprio, si realizza nelle sostanze, mentre negli accidenti si realizza in qualche modo e in certo senso. Inoltre le sostanze si dividono in semplici e composte, ed in entrambe si realizza l’essenza; però nelle sostanze semplici essa si realizza in maniera più autentica e più nobile, giacché esse posseggono un più nobile essere; esse infatti, se non tutte almeno la sostanza prima e semplice che è Dio, sono causa delle realtà composte. D’altra parte, siccome le essenze delle sostanze semplici sono per noi più oscure, è necessario iniziare la trattazione dall’essenza delle sostanze Il Duecento e la scolastica

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composte, in modo che, partendo da quel che è più facile, lo studio risulti più metodico. 2. Struttura ilemorfica delle sostanze composte Pertanto nelle sostanze composte i princìpi costitutivi, a noi noti, sono la forma e la materia, come nell’uomo l’anima e il corpo. Non si può dire invero che l’essenza sia data da una sola di esse. Infatti, che la sola materia non costituisca l’essenza risulta chiaro dal fatto che una realtà è conoscibile e viene classificata nella specie o nel genere in funzione della sua essenza; d’altra parte, la materia non è principio di conoscenza, e neppure fornisce il criterio della classificazione di una realtà nella specie o nel genere; tale criterio è fornito invece da ciò mediante cui una realtà è in atto. Neppure la forma può esser detta essenza delle sostanze composte, benché alcuni cerchino di sostenerlo. Da quanto si è detto risulta chiaro che l’essenza è ciò che viene espresso mediante la definizione di una realtà. Inoltre la definizione delle sostanze naturali non comprende la sola forma, sebbene pure la materia; se così non fosse, le definizioni fisiche e quelle matematiche non differirebbero tra loro. Neppure può dirsi che, nella definizione di una sostanza naturale, la materia venga posta come qualcosa di aggiunto alla sua essenza o come ente estraneo alla sua essenza, giacché questa maniera di definire si verifica più propriamente nei confronti degli accidenti, i quali non posseggono un’essenza compiuta; per questo nella loro definizione dev’essere incluso il soggetto che è fuori del loro genere. È chiaro quindi che l’essenza comprende e la materia e la forma.

 - Tommaso d’Aquino (Roccasecca 1225 ca. - Fossanova 1274) scrisse De ente et essentia (L’ente e l’essenza) tra il 1254 e il 1255. Il testo riportato è tratto da: Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, a cura di G. Di Napoli, La Scuola, Brescia 1959, pp. 3-14.

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T ’A, Somma contro i gentili possono esIsteRe veRItà Della FeDe Che non sono talI peR la R aGIone? uno dei tratti tipici della filosofia tomista è la più netta negazione di questa possibilità. se ci sono verità di questo tipo, la contraddizione tra fede e ragione è solo apparente: la ragione può seguire vie inesplorate, che alla fine si rivelano impercorribili, e nel discorso si possono sempre utilizzare sofismi; ma la conclusione di un percorso di ricerca razionale non porta di fatto a verità diverse da quelle della fede. tommaso ritiene di poterlo mostrare, risolvendo tutte le difficoltà che si incontrano nel difficile cammino della ricerca. Del resto, è del tutto chiaro che la verità è una, ma è anche ovvio che i modi in cui essa si manifesta e i linguaggi in cui la si enuncia possono essere molti e non facilmente riconoscibili senza attenta analisi.

[Modi possibili di manifestare la verità divina] Ora, tra le cose che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana: come, p. es., l’unità e trinità di Dio. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale: che Dio esiste, p. es., che è uno, ed altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla luce della ragione naturale. Che tra le nozioni riguardanti Dio ce ne siano di quelle le quali superano del tutto l’ingegno dell’uomo è evidentissimo. Principio infatti di qualsiasi conoscenza di ordine razionale è l’intellezione della natura di una cosa; poiché, come Aristotele spiega, principio della dimostrazione è la quiddità. Cosicché le proprietà che noi conosciamo di una cosa dipendono dal modo di comprenderne la natura. Se quindi l’intelletto umano comprende la natura di determinate cose, p. es., della pietra o del triangolo, nessuna nozione relativa ad esse supera la capacità della ragione umana. Ma questo non avviene nella nostra conoscenza di Dio. Poiché l’intelletto umano non può arrivare a conoscerne l’essenza mediante le sue capacità naturali, essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sotto il dominio dei sensi non possono essere capite dall’intelletto umano, se non in quanto la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili. Ora, le cose sensibili non possono condurre il nostro intelletto a scorgere in esse la quiddità della natura divina: poiché si tratta di effetti Il Duecento e la scolastica

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che non adeguano la virtù della causa. Tuttavia dalle cose sensibili il nostro intelletto viene condotto a conoscere di Dio che esiste, ed altre perfezioni che si devono attribuire al primo principio. Ci sono quindi delle cose divine che la ragione umana può raggiungere, e altre che ne trascendono del tutto la capacità. La stessa conclusione si può facilmente dedurre, considerando i vari gradi dell’intelligenza. Confrontando infatti due individui, uno dei quali percepisce intellettualmente una cosa con più acutezza dell’altro, vediamo che colui il quale possiede l’intelletto più elevato conosce molte cose che l’altro è affatto incapace di capire. Ciò è evidente nel caso dell’uomo dei campi del tutto impreparato alle sottili considerazioni della filosofia. Ora, l’intelletto di un angelo supera l’intelletto umano più di quanto l’intelletto del migliore filosofo non superi l’intelletto del più rozzo ignorante: poiché quest’ultima distanza rientra nei limiti della specie umana, mentre questi sono trascesi dall’intelletto angelico. [...] L’intelletto divino poi supera quello angelico, più di quanto quello angelico non superi l’intelletto umano. Infatti l’intelletto divino adegua con la sua capacità la propria sostanza, e quindi ne conosce perfettamente l’essenza e quanto c’è in lui d’intelligibile: invece l’angelo con la propria conoscenza naturale non può conoscere l’essenza di Dio; perché la sostanza stessa dell’angelo, di cui questi si serve per arrivare a conoscere Dio, è un effetto che non adegua la virtù della causa. Perciò l’angelo con la sua conoscenza naturale non può comprendere tutto ciò che Dio conosce in se stesso: né, d’altra parte, la ragione naturale è sufficiente per capire tutto ciò che l’angelo conosce con la sua capacità naturale. Perciò come sarebbe sommamente pazzo l’ignorante il quale affermasse che son false le asserzioni dei filosofi, perché egli non è in grado di capirle, così e più ancora sarebbe sommamente stolto l’uomo, se ritenesse false le rivelazioni delle cose divine trasmesse per il ministero degli angeli, per il fatto che non è possibile investigarle con la ragione. La cosa appare anche più evidente dalle deficienze che riscontriamo ogni giorno nella nostra conoscenza. Ignoriamo infatti molte proprietà delle cose sensibili, e anche in quelle apprese dai sensi non siamo in grado di scoprire perfettamente il perché di molteplici aspetti. Perciò la ragione umana a molto maggior ragione deve ritenersi incapace con i propri concetti d’investigare quanto riguarda l’essere più sublime. [...]

[Le verità di fede non sono incompatibili con la ragione] Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti: 1. I principi così innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi. E neppure è lecito ritenere che possa esser falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, com’è

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evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei principi che la ragione conosce per natura. 2. Inoltre, le idee che l’insegnante suscita nell’anima del discepolo contengono la dottrina del maestro, se costui non ricorre alla finzione; il che sarebbe delittuoso attribuire a Dio. Ora, la conoscenza dei principi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l’autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi principi. Perciò quanto è contrario a tali principi è contrario alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina, non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale. 3. In più, ragioni contrarie legano l’intelletto nostro al punto da non poter procedere alla conoscenza della verità. Perciò se Dio ci infondesse conoscenze contrastanti, impedirebbe al nostro intelletto di conoscere la verità. Il che non si può pensare di Dio. 4. Inoltre, ciò che è naturale non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell’uomo un’opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale. [...] Ma poiché le verità di fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come ad essa contrarie; il che è impossibile. Ciò è confermato da quelle parole di s. Agostino: «Quanto viene manifestato dalla verità in nessun modo può essere in contrasto sia col Vecchio, che col Nuovo Testamento» (2 Super Gen. ad litt., c. 18). Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai principi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere.

 - Tommaso d’Aquino (Roccasecca 1225 ca. - Fossanova 1274) scrisse Somma contro i gentili tra il 1259 e il 1268 (anche se probabilmente fu rivista verso la fine della sua vita). Il testo riportato è tratto da: Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, a cura di T.S. Centi, Utet, Torino 1978, pp. 62-65, 72-73.

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L, Il libro del gentile e dei tre savi Il DIaloGo non è FoRse la vIa maestR a peR la paCe? abbandonata la vita mondana, lullo entrò nell’ordine francescano per dedicarsi alla realizzazione di un programma di rinnovamento religioso teso alla conversione degli infedeli e all’unione di tutta l’umanità nella Chiesa cattolica, da realizzarsi soltanto con un’opera di persuasione razionale. Il libro del gentile e dei tre savi, presumibilmente la prima opera dell’autore dopo la conversione, mostra bene il tratto fondamentale della sua mentalità: si tratta non solo di persuadere gli increduli (i “gentili”) alla verità religiosa, ma soprattutto di instaurare un dialogo fecondo tra le grandi religioni monoteiste (qui rappresentate dai tra savi che, a turno, espongono il loro credo e che alla fine maturano questo proposito) in modo da giungere a una concordia comune, alla pace, mostrando la sostanziale armonia di tutte le fedi come pure la ragione segreta della loro intima identità.

Mentre tornavano in città, uno dei tre Savi prese a parlare, dicendo: «Se il gentile, che pur così a lungo è rimasto immerso nell’errore, è riuscito a concepire una tale devozione e un tale fervore da sostenere che non esiterà a sopportare qualunque sofferenza, qualunque morte, per tremenda che possa essere, pur di lodare adeguatamente Iddio; noi, che da così lungo tempo siamo ormai pervenuti alla conoscenza del Signore, quale favore, quale devozione, dovremmo possedere nel donare lode al nome Suo, soprattutto considerando la grande quantità di beni e di onori ch’Egli ci ha offerti e che ci offre tutti i giorni! Noi dunque dovremmo discutere assieme per vedere chi di noi sia nella verità e chi nell’errore. In tal modo, come non abbiamo che un solo Dio, che ci è Creatore e Signore, così non potremmo non avere che una stessa fede, una stessa legge, una stessa maniera d’amare Dio e d’onorarLo. Noi potremmo allora amarci ed aiutarci l’un l’altro, perché non vi sarebbero più tra noi differenze ed opposizioni alcune di fedi e di costumi. È infatti appunto a causa di tali differenze ed opposizioni che ci poniamo ostacoli l’un l’altro, che ci combattiamo e ci uccidiamo e ci facciamo vicendevolmente prigionieri. Ora, tale guerra, tale morte, tale servitù ci impediscono di rendere a Dio la lode, la reverenza e l’onore che dovremmo invece a Lui rendere per tutti i giorni della nostra vita». Quando quel Saggio ebbe terminato il suo dire, un altro prese la parola, dicendo: «Gli uomini sono in genere talmente radicati nelle loro credenze, scelte per essi dai loro padri e dai loro avi, che risulta usualmente impossibile lo sradicarle attraverso la predicazione o la discussione, o con qualunque

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altro mezzo. Così, quando si vuole discutere con essi, quando si vuole dimostrare ad essi i loro errori, essi disprezzano tutto quello che viene loro detto, onde dichiarano piuttosto di voler perseverare e morire nella stessa fede in cui li hanno posti i loro padri ed i loro avi». L’altro Saggio interloquì allora così: «È nella natura stessa della verità l’essere radicata nell’anima più profondamente dell’errore, giacché essa concorda con l’essere e l’errore invece col non-essere. Dunque, se noi fossimo in molti a combattere con forza e costanza l’errore con la verità, essa di certo lo vincerebbe; tanto più se si considera come l’errore non benefici in alcun modo dell’aiuto di Dio, al contrario della verità che è sempre sorretta dalla virtù divina; la quale è quella stessa verità increata che ha creato la verità creata proprio per lo scopo di distruggere l’errore. Tuttavia, gli uomini troppo amano i beni temporali, mentre non amano Dio ed il loro prossimo che tepidamente e con poca devozione. Essi, dunque, non curano adeguatamente di distruggere l’errore e la falsità; temendo di morire e di dover patire malattie, sofferenza e povertà. Essi, così, non vogliono affatto rinunciare alle loro ricchezze, né ai loro beni, né vogliono abbandonare i loro paesi e le loro famiglie per liberare quanti sono nell’errore, in modo che questi possano pervenire alla gloria infinita e sfuggire invece agli infiniti tormenti dell’inferno. Noi dovremmo pertanto compiere tutto ciò, e principalmente affinché costoro lodino il nome di Dio e rendano manifesta la Sua virtù: Dio vuole infatti che questa venga palesata a tutte le genti ed attende ogni giorno che noi Lo si onori tra quanti invece Lo disonorano, Lo disprezzano e L’ignorano. Facciamo dunque tutto ciò che è in nostro potere per esaltare tra noi il glorioso nome divino; ché, se noi faremo tutto ciò che è in nostro potere per lodare Iddio, quanto più Dio farà affinché il nome suo sia lodato! Se infatti Egli non facesse ciò, risulterebbe opporsi a Se stesso ed al proprio onore, il che è impossibile, essendo contrario alle condizioni richieste dagli alberi. Noi, però, non prepariamo affatto adeguatamente noi stessi a ricevere la virtù e la benedizione di Dio, per essere i Suoi vigilanti servitori e lodatori, animati costantemente dal coraggio necessario a sopportare qualunque pena pur di esaltare il Suo nome glorioso. Ed è appunto per questo che Dio non ci concede il potere di distruggere l’errore di tutti quegli uomini che seguono il cammino dell’eterna dannazione, credendo d’essere sulla via della salvezza». Continuando a parlare così tra loro, i tre Savi giunsero nello stesso luogo del loro precedente incontro, alle porte di quella città. Essi presero congedo l’uno dall’altro assai amabilmente: ciascuno domandò agli altri di volerlo perdonare nel caso egli avesse detto alcunché di irriguardoso nei confronti della loro legge; e ciascuno perdonò. Erano ormai sul punto di separarsi, allorché uno di loro disse: «Signori, quale profitto trarremo dunque dall’avventura che ci è occorsa di vivere dianzi, nella foresta? Non potremmo forse discutere un po’, ogni giorno, facendo ricorso al metodo racchiuso nei dieci

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alberi e nelle dieci condizioni richieste dai loro fiori, e rispettando così sempre le norme che ci ha illustrate Madonna Intelligenza? Non potremmo forse discutere così sino a che tutti e tre noi giungessimo a non avere che una stessa legge ed una stessa fede? E non potremmo forse impegnarci a renderci ogni onore e servizio, al fine di giungere ancor prima ad un accordo? Sono infatti proprio la guerra, la sofferenza, la malevolenza ed il continuo infliggersi l’un l’altro onte e danni che impediscono agli uomini d’unirsi in una stessa fede». Gli altri due Savi molto si rallegrarono di quella proposta. Stabilirono così (tutti e tre assieme) il luogo e l’ora delle loro discussioni, e come pure avrebbero potuto onorarsi e servirsi tramite esse. Decisero inoltre che, quando infine si fossero accordati in una stessa fede, essi sarebbero allora andati assieme pel mondo a rendere lode e gloria al nome del nostro Signore Iddio. Ciascuno di essi si ritirò dunque presso la propria dimora, e fu in seguito fedele al patto promesso.

 - Raimondo Lullo (Palma di Maiorca 1232 ca. - 1316) scrisse Il libro del gentile e dei tre savi tra il 1270 e il 1273. Il testo riportato è tratto da: R. Lullo, Il libro del gentile e dei tre savi, trad. it. di M. Candellero, Gribaudi, Torino 1986, pp. 253-254.

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P O, La lettura dei libri dei filosofi Che seRve leGGeRe I lIBRI DeI FIlosoFI Con I loRo lImItI e la loRo stoltezza? nella seconda metà del Duecento a parigi i testi di aristotele sono fatti oggetto di un culto smodato, quasi fosse un maestro infallibile, non solo presso i maestri secolari appartenenti alla cosiddetta corrente dell’“averroismo” latino, ma anche presso alcuni teologi domenicani, in particolare san tommaso. Contro questa esagerata attribuzione di autorità reagiranno molti francescani, preoccupati di conservare, contro ogni forma di superbo intellettualismo, la semplicità spirituale tipica del loro ordine: in particolare tale preoccupazione fu coltivata dagli “spirituali” come l’olivi che, se non fu certo un fanatico nemico della cultura e del sapere, si oppose però a ogni forma di autonomia e assolutizzazione della ricerca razionale, evidenziandone i limiti e i pericoli per la dottrina cristiana.

«Dio ha reso stolta la sapienza di questo mondo» (1° Cor., 1, 20) 1. Per sapere come accostarci alla lettura dei filosofi ci soccorre questa frase dell’Apostolo che ci insegna ad essere particolarmente attenti a quattro elementi della filosofia mondana, la falsità dell’errore, la verità della ragione, la vanità della tradizione, la parzialità o pochezza della speculazione. Per la falsità dell’errore può essere giustamente detta “stolta”, per la verità della ragione può comunque essere detta “sapienza”, per la vanità della tradizione può essere detta sapienza “del mondo” o mondana o temporale piuttosto che divina e celeste, per la parzialità della speculazione deve essere detta di “questo” mondo, pronome particolare che esprime questa parzialità. 2. Né bisogna stupirsi che la filosofia mondana sia così, visto che così furono i suoi autori. Ebbero qualcosa del lume dell’intelligenza naturale e per questo poterono scrivere qualcosa di vero. Ma lo ebbero con l’ottenebrazione del peccato originale e della macchia attuale, di modo che mescolarono alla verità molte falsità; quanto ricevettero del lume dell’intelligenza naturale lo ebbero in piccola quantità e molta materialità, e così la loro speculazione poté entrare solo parzialmente nella verità; lo ebbero senza il lume della fede e della grazia o dell’amicizia divina e così servirono la vanità. E poiché in queste cose abbondavano sensibilmente, Aristotele, nel secondo libro della Metafisica, fu costretto a riconoscere che il loro occhio di fronte ai fenomeni più evidenti della natura era come l’occhio della civetta di fronte al sole; per cui, come dice nello stesso luogo, la considerazione della verità

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fu per loro nella maggior parte difficile, e così i primi filosofi dal principio trasmisero poco della verità. 3. Poiché questa filosofia è stolta, bisogna leggerla con cautela. Poiché sostenuta da qualche scintilla di verità, bisogna leggerla con discrezione. Poiché è vana, bisogna leggerla di passaggio o di corsa usandola come via, non come fine o termine. Poiché è poca e come puerile o pedagogica, bisogna leggerla da padrone e non da servo: dobbiamo essere giudici piuttosto che seguaci. [Segue una lunga citazione da Agostino, De doctr. christ., II, 39, 58.] 4. Se vuoi renderti conto di quanto sia stolta e falsa, considera che è falsa nei principi sui quali si fonda, nelle ragioni dalle quali è dedotta, nelle conclusioni che ne trae. Queste tre cose sono insieme mostrate dall’Apostolo (Col., 2, 8), quando dice: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi di questo mondo e non secondo Cristo». Poiché ha visto che essa giunge a false conclusioni dice: «Badate che nessuno vi inganni»; poiché vede le sue false ragioni dice: «con vuoti raggiri»; poiché vede i suoi principi dice: «secondo gli elementi di questo mondo»; i suoi principi sono infatti tratti dal senso e dagli elementi sensibili. La causa di queste tre carenze fu che «non» è «secondo Cristo». […] 8. Se vuoi renderti conto di cosa [la filosofia mondana] possieda di sapienza e verità, considera che ha la sapienza della ragione nella materia o soggetto e nella forma o modo e nel fine prossimo, e così possiede la sapienza quanto alle tre opere del sapiente o dell’abito sapienziale, che, come è detto nel sesto libro dell’Etica, considera ciò che è alto, ciò che è utile, ciò che è certo, e questo in modo certo e perfetto. […] 12. Bada comunque che in tutte queste cose la sapienza mondana possiede una porzione di verità e di utilità cui sono mescolati falsità e danno. Per cui l’Apostolo (1 Cor., 1, 21) dice: «Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la salvezza della predicazione»; ove dice che la sapienza mondana possiede una “sapienza” che, in quanto tale è “sapienza di Dio”, ma anche che questa sapienza nella speculazione manca al suo fine principale, che è la perfetta contemplazione di Dio, e similmente nella pratica rivolta al conseguimento dell’umana salvezza. 13. Se vuoi renderti conto della vanità della filosofia mondana, esplicitamente denunciata dall’Apostolo (Rom., 1, 21) […], considera che essi filosofarono vanamente, sia per temerarietà e presunzione, senza cioè la suprema guida del supremo maestro, sia per curiosità e superbia, perché non si rivolsero alla semplicità del discorso divino, sia con intendimento e fine sterile, anzi anche odioso, poiché non affermarono la visione di Dio, né la partecipazione della sua carità e grazia, né il debito culto, né il suo servizio, né la fuga dalla sua offesa e dalla pena [che ne deriva]; senza tutto questo non poterono portare per fine ultimo qualcosa che non fosse sterile ed odioso. […]

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17. Se vuoi renderti conto della parzialità, della pochezza della loro riflessione, considera i risultati cui sono pervenuti a proposito della natura, delle leggi dei discorsi e degli argomenti, dei costumi e della volontà. A proposito della natura vedrai che sulla natura corporea hanno ottenuto poco, meno ancora su quella razionale o umana, pochissimo poi su quella intellettuale o separata. 18. Sulla natura corporea dissero ben poco se non per qualche accidente esteriore, percepito dal senso, notato dalla molteplice esperienza. Per cui delle differenze e delle forme speciali non tramandarono nulla di particolarmente certo. […] Dei corpi e delle parti e proprietà dei corpi, del tutto nascoste per i nostri sensi, non poterono dir nulla di particolarmente certo. Su quelle cose di cui, per quanto non del tutto nascoste, ebbero un limitato e inconsistente giudizio per la loro distanza o tarda esperienza, tramandarono poco o nulla di certo. Per cui delle proprietà e azioni dei corpi superiori e delle influenze esercitate nelle regioni superiori dell’atmosfera e in altri luoghi discosti tramandarono quasi nulla per via di dimostrazione, poco per via di ragionamenti probabili. […] 19. Quanto poco seppero della natura razionale o umana quanto al principio delle anime e all’inizio vero, quanto alla verità e al numero delle sue facoltà! Chi legge i loro libri e gli errori a questo proposito si rende facilmente conto quanto poco avanzò la loro speculazione. E non c’è da stupirsi, perché non investigarono e non poterono investigare sullo stato primordiale e sull’inizio del genere umano anche secondo il suo corpo, sulla verità o vera causa della nostra naturale viziosità e su molte altre cose avvenute nel genere umano, come la divisione delle lingue, la prima abitazione delle terre e così via.

 - Pietro di Giovanni Olivi (Sérignan 1248 ca. - Narbona 1298) ha probabilmente scritto il De perlegendis philosophorum libris (La lettura dei libri dei filosofi) durante il suo soggiorno fiorentino tra il 1287 e il 1289. Il testo riportato è tratto da: Pietro di Giovanni Olivi, Scritti scelti, a cura di P. Vian, Città Nuova, Roma 1989, pp. 96-102.

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A M, Trattato sulla natura del bene Che Cos’è Il Bene? l’importanza della riflessione di alberto magno sta nell’aver recepito tra i primi, all’interno degli studi teologici (lui che era domenicano, provinciale dell’ordine e vescovo di Ratisbona) la lezione di aristotele. In questo modo, come si può notare in queste pagine giovanili, l’indagine si stacca dal piano spiritualistico, in cui l’aveva ancorata la tradizione agostiniana, per acquistare una valenza maggiormente aderente alla dimensione mondana e naturale, quale condizione di partenza che sarà poi completata (non negata) da quella trascendente. In tal modo egli aprirà la strada al suo allievo tommaso d’aquino.

«Perché mi chiamo buono? Nessuno è buono se non uno solo, Dio» (Lc., 18, 19). Da questa risposta del Figlio di Dio si capisce che buono si deve intendere in due significati, cioè come ciò che è buono per sé e sostanzialmente ed è esso stesso la sua bontà, e questo è solo Dio; in un altro significato si dice che è buono ciò che non è la sua bontà. Ora noi intendiamo trattare della differenza tra questi due beni dal punto di vista morale, invocando il Bene sostanziale, che, secondo quanto scrive Agostino nel libro sulla Trinità, è «bene di ogni bene» perché, mostrandosi Lui stesso nella ricchezza della sua bontà, scopra un tesoro di bontà da scavare, rivelando ciò che, anche secondo quelli che si occupano di morale, tutti desiderano, perché, secondo quanto dice il Filosofo nelle Etiche: «Dicono che è bene ciò a cui tutti tendono». […] Bene generico è definito da alcuni maestri ciò che genericamente è bene, che può essere fatto bene e male, ma tuttavia in sé è bene, distinguendo così fra bene in sé e bene per sé (secundum se). Infatti, come dicono, le azioni buone per sé, come per esempio le opere della carità e della fede ecc., non vengono mai compiute male, le azioni buone in sé invece, cioè le azioni buone per quanto sta in se stesse, talvolta possono essere compiute male per qualche motivo, come per esempio il fare elemosina, che è fatto male quando è fatto per procurarsi la lode degli uomini, pur rimanendo sempre un’azione buona in sé. Se poi quello che dicono questi maestri sia vero o no, è compito di altri considerarlo attentamente. Io invece preferisco definire il bene generico come ciò che è il primo bene per quel che riguarda i costumi. Bisogna dunque considerare che alcune cose dipendono da noi, altre no;

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non dipendono da noi le creature di questo mondo, dipende da noi ciò di cui noi siamo padroni, come le azioni volontarie, siano esse atti o parole. Come in natura una sola cosa è la prima, ed è il soggetto delle forme naturali, cioè la materia, ed ha talvolta una forma bella, talvolta una forma brutta, così anche nei costumi, cioè nelle opere della nostra volontà, c’è un’opera che è soggetta alle circostanze, e questo si intende per bene generico e male generico, e si riveste talvolta di circostanze buone, talvolta di circostanze cattive. Così, il bene generico è semplicemente un’azione che ha come termine una materia adeguata, come dar da mangiare a un affamato, uccidere chi deve essere ucciso e liberare chi deve essere liberato. Infatti, materia d’azione è ciò cui si applica l’azione stessa. Parimenti, male generico è un’azione che ha come termine una materia non adeguata, come dar da mangiare a un sazio o uccidere chi non deve essere ucciso. E così anche del resto. Quindi, da un lato un’azione genericamente buona può essere compiuta male, e un’azione genericamente cattiva può essere compiuta bene. Se infatti un’azione genericamente buona è compiuta in circostanze cattive, è compiuta in ogni caso male, come dar da mangiare a un affamato per poi vantarsene, o nutrire un fanfarone; e così pure uccidere chi deve essere ucciso per astio e desiderio di vendetta senza osservare l’ordine della legge. Al contrario poi, un’azione genericamente cattiva può essere compiuta bene, come dare a chi non bisogna dare, ma in nome del profeta o per fare penitenza, e uccidere chi non deve essere ucciso, perché così esigono gli allegati e le prove, che sono contro di lui; il giudice infatti è costretto a procedere secondo gli allegati e pertanto, anche se con la sua sola coscienza sa che l’accusato è innocente, tuttavia è costretto a far uccidere chi, secondo l’ordine della legge, è stato provato colpevole dagli allegati e dalle deposizioni dei testimoni. […] Dobbiamo ora considerare per quali azioni questo bene più facilmente viene meno. Ora, queste azioni sono due, cioè quando tralasciamo quello che deve essere fatto, e quando facciamo quello che non dobbiamo fare. Come infatti nel nostro corpo il bene della salute viene danneggiato in due modi, cioè quando non ci viene somministrato il necessario, e in questo caso la salute si rovina per una mancanza, e anche quando facciamo cose dannose alla salute o ingeriamo cose dannose al corpo, come un veleno: così anche il bene generico dei costumi viene distrutto in due modi, perché si consuma per inedia quando, trascurando di fare quello che dobbiamo fare, non somministriamo all’anima il necessario, e viene ucciso dal veleno del peccato, quando facciamo quel che non dobbiamo fare. Per riacquistare il bene generico c’è per l’uomo una duplice via: la prima consiste nell’adeguare sempre le sue azioni a ciò cui si applica l’azione stessa, cioè nel considerare, con previdente sollecitudine, che cosa ha a di-

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sposizione, e nel farne conto per regolare la sua azione, adeguandola. L’altra via consiste nel compiere frequentemente parecchie buone azioni, perché la frequenza è, per così dire, la madre della facilità a compiere il bene. […] E sono qui indicati i quattro frutti del compiere molte azioni buone. Innanzi tutto meriti in abbondanza, che sono il cibo dell’anima; anche se la formica è un animale piccolissimo e può trasportare solo poco per volta, tuttavia molte formiche con un andirivieni continuo riescono ad ammassare molto. […] Il secondo frutto è che l’uomo, pur essendo debole, compiendo frequentemente molte buone azioni diventa forte nel bene. Il leprotto infatti è l’uomo timido nel combattere il peccato. Tuttavia con una azione dopo l’altra sale sulla saldissima roccia dell’abitudine e lì pone il giaciglio del riposo della virtù. Per non subire gli assalti dei vizi. Il terzo frutto è che, anche se l’uomo, debole per la sua origine, non ha un re che possa curare i suoi affari e le guerre, tuttavia, spiccando (come una locusta) un salto da terra, da questo e da quel bene nasce una moltitudine, che va contro il diavolo. Per questo nel Cantico dei cantici si dice della sposa che è «terribile come un esercito schierato». Il quarto frutto è che, anche se il cielo e il regno dei cieli sono molto lontani da noi, tuttavia, strisciando continuamente come le lucertole, con le nostre azioni abiteremo in cielo «nei palazzi dei re» santi, di quei re, dico, che nella Apocalisse dicono: «Hai fatto di noi un regno per il nostro Dio». Infatti sono re tutti coloro che ricevono la corona nel regno dei cieli.

 - Alberto Magno (Launingen 1200 - Colonia 1280) compose il Trattato sulla natura del bene tra il 1236 e il 1237. Il testo riportato è tratto da: Alberto Magno, Il bene, a cura di A. Tarabochia Canavero, Rusconi, Milano 1987, pp. 85, 110-111, 113-115.

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Capitolo

5 La tarda scolastica e la crisi del medioevo L’ultimo ventennio del Duecento e la prima metà del Trecento vedono il dissolversi della grande costruzione armonica scolastica. La crisi delle istituzioni universalistiche (declino dell’impero dopo Federico II, cattività avignonese del papato), le tensioni sociali e il crollo demografico (la grande peste di metà secolo) fanno da sfondo all’emergere prepotente di istanze che mettono in discussione i termini di un accordo tra elementi che in precedenza il pensiero medievale aveva cercato di conciliare: ragione e fede, filosofia e teologia, potere laico ed ecclesiastico. L’età nuova si annuncia con una serie di conflitti che riflettono il mutamento delle realtà di riferimento: in politica emergono le strutture delle monarchie nazionali e cittadine; in campo religioso si fanno sempre più spazio i sostenitori di una pura vita spirituale vissuta interioristicamente; in filosofia la ragione rivendica un’autonomia che si traduce spesso in una lontananza inconciliabile con la fede.

D S, Ordinatio Qual è il r apporto tr a FilosoFia e teologia? il lungo dibattito circa i rapporti tra ragione e fede e tra filosofia e teologia trova con Duns scoto una nuova soluzione: tra coloro (gli averroisti) che rivendicano l’assoluta autonomia della filosofia (e quindi la perfezione della ragione) e coloro (per esempio Bonaventura) che la negano, ritenendola indebolita dal peccato e bisognosa della grazia, egli indica una via mediana, la via della distinzione. è vero che la teologia non può mostrare, in termini razionali, che l’uomo, nello stato presente, mostri l’esigenza di conoscere il soprannaturale, e tanto meno presentare tale esigenza come una verità di fede, ma può indicare quella mancanza che è presente nella natura e che costituisce un’eccedenza di cui essa può disporre per ovviare a quel vuoto. Così ciascuna può considerare il proprio oggetto e mirare al proprio fine in modo indipendente, nella comune considerazione del concetto di ente.

Si ricerca se sia necessario che all’uomo nello stato presente venga rivelata una dottrina particolare, cui l’intelletto con la sua luce naturale non possa pervenire. E che non sia necessario argomento così. Ogni facoltà che ha come primo oggetto qualcosa di comune può attingere naturalmente quanto è in esso contenuto come ciò che rientra nel suo naturale orizzonte. Lo si prova attraverso l’esempio dell’oggetto della visione e di quanto è contenuto in esso, e così induttivamente per gli altri oggetti primi e per le facoltà. Lo si prova anche per mezzo della ragione, poiché oggetto primo è detto ciò che si adegua alla facoltà. Se la natura del primo oggetto venisse riposta in qualcosa su cui non potesse avere il suo atto, la facoltà non sarebbe adeguata all’oggetto, ma questo lo trascenderebbe. Ora, l’oggetto naturale del nostro intelletto è l’essere in quanto essere; dunque, il nostro intelletto può raggiungere naturalmente qualsiasi ente, come anche qualsiasi non-ente intelligibile, poiché la negazione si conosce per mezzo dell’affermazione. In merito a questo problema sembra che non ci sia accordo tra i filosofi e i teologi. I filosofi difendono la perfezione della natura e rigettano la perfezione soprannaturale; i teologi invece conoscono la debolezza della natura, la necessità della grazia e la perfezione soprannaturale. Il filosofo dunque pensa che nessuna conoscenza soprannaturale sia necessaria nella presente condizione, perché ritiene che la conoscenza necessaria sia conseguibile mediante l’azione delle cause naturali. Ciò si conferma con la ragione: a ogni potenza naturale corrisponde un principio attivo naturale, altrimenti, se non vi fosse un principio capace di

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attuarla, la potenza naturale sarebbe vana in natura. Ora l’intelletto possibile è in potenza passiva rispetto a tutti gli intelligibili; dunque, gli corrisponde una potenza attiva naturale. L’assunto, dunque, risulta dimostrato. La minore è evidente, dal momento che l’intelletto possibile desidera naturalmente la conoscenza di qualsiasi conoscibile; e anche risulta naturalmente perfezionato attraverso qualsiasi conoscenza; dunque, è naturalmente recettivo di ogni intellezione. Inoltre, colui che è capace di conoscere naturalmente il principio può naturalmente conoscere le conclusioni incluse nel principio. Ora, conosciamo naturalmente i primi principi, nei quali sono racchiuse virtualmente tutte le conclusioni; dunque, possiamo conoscere naturalmente tutte le conclusioni conoscibili. Contro questa opinione dei filosofi si può argomentare in tre modi. In primo luogo: ad ognuno che agisce consapevolmente è necessaria una conoscenza distinta del suo fine. Lo provo, perché chiunque agisce per un fine, agisce in quanto mosso dal desiderio del fine; ora, chiunque agisce per sé, agisce per un fine; dunque, chiunque agisce per sé, desidera a suo modo il fine. Pertanto, come all’agente per forza di natura è necessario il desiderio del fine attraverso cui deve agire, così a colui che agisce consapevolmente è necessario il desiderio del fine, per il quale deve agire. La maggiore è dunque evidente. Ma l’uomo non è in grado con le sue forze naturali di conoscere in modo distinto il suo fine; dunque, in merito a ciò gli è necessaria una qualche conoscenza soprannaturale. […] In secondo luogo si argomenta così: colui che conosce e agisce per un fine è necessario che conosca come e in qual modo possa raggiungerlo; come anche è indispensabile la conoscenza di tutti i mezzi necessari per conseguirlo; e, finalmente, deve conoscere che tutti questi mezzi sono sufficienti per raggiungere quel fine. […] Ma queste tre condizioni l’uomo viatore non può conoscerle con la ragione naturale. Circa la prima, lo si prova perché la felicità viene concessa in premio per i meriti che Dio accetta come degni di tale premio, e per conseguenza tale premio non segue per necessità naturale le nostre azioni, qualunque siano, ma viene concesso volontariamente da Dio, il quale accetta, come meritorie, alcune azioni indirizzate a lui. Il che non è naturalmente conoscibile, come sembra, anche perché a tal proposito i filosofi errarono, persuasi che proceda in modo necessario quanto proviene immediatamente da Dio. Le altre due condizioni sono evidenti: non si può infatti conoscere con la ragione naturale il gradimento da parte della divina volontà, che accetta liberamente queste o quelle opere come degne della vita eterna, come anche che siano sufficienti; dipende soltanto dalla volontà divina tutto ciò a cui è in relazione contingente. Terzo argomento principale. Parimenti, in terzo luogo si trae argomento contro l’opinione dei filosofi principalmente dal VI libro della Metafisica: la

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conoscenza delle sostanze separate è la più nobile; pertanto, la conoscenza di ciò che è loro proprio è sommamente nobile e necessaria, poiché ciò che è loro proprio è più perfetto rispetto a ciò che hanno in comune con le cose sensibili. Ma ciò che è loro proprio non possiamo conoscerlo in base soltanto alle semplici forze naturali. In primo luogo, perché se tali proprietà si trovassero in qualche scienza ora possibile perché fossero trasmesse, questa scienza sarebbe la metafisica; ma questa non è alla nostra portata in modo che consegue le proprietà specifiche di queste sostanze separate, come è evidente.

 - Giovanni Duns Scoto (Duns 1265 ca. - Colonia 1308) scrisse l’Ordinatio, cioè il testo rielaborato delle sue lezioni a Oxford, tra il 1300 e il 1302. Il testo riportato è tratto da: Giovanni Duns Scoto, filosofo della libertà, a cura di O. Todisco, EMP, Padova 1996, pp. 103-115.

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D S, Ordinatio Qual è il valore Della volontà e Della liBertà? anche sul piano etico Duns scoto è un innovatore: al tradizionale intellet­ tualismo greco (ripreso anche dai teologi aristotelizzanti, come tommaso), egli, sulla scorta di agostino, rivendica (e non solo per l’uomo, ma anche per Dio) il primato della volontà e quindi della libertà. non si tratta dunque di volere ciò che l’intelletto ci fa conoscere, ma al contrario quest’ultimo si rivolge all’oggetto che viene scelto come fine di un atto volitivo, assolu­ tamente svincolato da ogni determinazione necessitante. Con questa po­ sizione (che delinea per la teologia uno scopo fondamentalmente pratico) egli anticipa molte tesi moderne e contemporanee, che insistono sui limiti del pensiero e dell’attività teoretica.

La necessità naturale non coesiste con la libertà. E lo argomento: infatti, natura e volontà sono principi attivi con un modo di agire del tutto opposto, quindi con il modo di agire della volontà non sta il modo di agire della natura; ora, la volontà vuole il fine liberamente, dunque non può volerlo per necessità naturale, né per conseguenza in alcun modo necessariamente. Si dimostra l’assunto, e cioè che la volontà vuole il fine liberamente: poiché (la volontà) è la facoltà che vuole il fine e ciò che è diretto al fine, dunque ha un medesimo modo di operare, dal momento che modi diversi di operare esigono facoltà diverse; ora, essa opera liberamente circa quelle cose che sono orientate al fine, dunque […]. Che si tratti poi della stessa facoltà in entrambi i casi è evidente, perché altrimenti sarebbe nulla la potenza dell’ente al fine voluto per se stesso; infatti, è necessario che quella sia una che emette l’atto circa entrambi gli estremi, come insegna il Filosofo in merito alla conoscenza del senso comune nel libro II Dell’Anima. Agostino nel I libro delle Ritrattazioni (cap. 9 e 22 f,g) afferma che «niente è tanto in potere della volontà quanto la stessa volontà», il che non si comprende che in rapporto all’atto elicito. Da qui due conclusioni: la prima, dunque l’atto della volontà è in potere della volontà più di qualsiasi altro atto; la seconda, dunque quell’atto è in potere della volontà non tanto in forma mediata quanto in forma immediata. Dalla prima ancora così: l’atto dell’intelletto circa il fine è in potere della volontà; quindi anche l’atto della volontà (è in potere della volontà). la tarda scolastica e la crisi del medioevo

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Dalla seconda ancora così: dunque se l’atto della volontà è in potere della volontà mediante l’atto di qualche altra facoltà, molto più è in potere della volontà in modo immediato; ma è in potere della volontà il volere o il non volere il fine mediante l’atto dell’intelletto; quindi ciò è in potere della volontà in modo immediato. La minore è evidente, dal momento che è in potere della volontà il distogliere l’intelletto dalla considerazione del fine, con il che la volontà non vorrà il fine, dal momento che non può emettere atto alcuno circa qualcosa di ignoto. Risposta: (è) sommamente in potere, perché immediatamente libera; ogni altro atto mediante un qualche atto volitivo, anche ciò che non è libero ma non in potenza di contraddizione. Si conferma questo argomento [...] infatti, ciò che non essendo impedito è necessitato ad agire rimuove di necessità, se può, ciò che impedisce l’azione; quindi, se la volontà, non essendo impedita, è necessitata dalla sua natura a volere il fine ultimo, rimuove necessariamente, se lo può, quanto impedisce tale volizione; ora ciò che impedisce questa volizione è la nonconsiderazione del fine, e questa la volontà può rimuovere, obbligando l’intelletto a permanere nella considerazione del fine; perciò la volontà costringerà l’intelletto a permanere nella considerazione del fine. La maggiore di questo argomento è evidente, dal momento che ciò che è per sé necessario ad agire giammai viene impedito se non attraverso qualcosa di ripugnante che superi la sua potenza attiva, come accade nel corpo grave: questo infatti è impedito dal cadere da qualche ostacolo che blocca la sua inclinazione, e per analoga ragione rimuove se può l’ostacolo, allontanato il quale, cade, non essendo più impedito, perché così rimuove necessariamente ciò che si oppone all’effetto così come provoca l’effetto cui quell’ostacolo si oppone. Rispondo, dunque, alla questione che null’altro dalla volontà può dirsi causa totale della volizione nella volontà. Un argomento, oltre quelli già addotti, è il seguente: qualcosa accade nelle cose in modo contingente, e dico che accade in modo contingente nel senso che accade in modo evitabile; altrimenti, se tutto accadesse in modo inevitabile, non sarebbe necessario consigliarsi, né negoziare, come rileva Aristotele in I Perihermeneias. Pertanto, ciò che accade in modo contingente donde e da quale causa è prodotto? Non da una causa determinata perché, in questo istante nel quale è determinata, l’effetto non può seguire in modo contingente; dunque, da una causa indeterminata all’uno e all’altro degli opposti; per conseguenza, o questa causa è in grado di determinare se stessa ad uno degli opposti, non potendo simultaneamente determinarsi all’uno e all’altro, come rileva Aristotele nella Metafisica 9 circa la facoltà razionale; o non può determinarsi, ma un altro la determina ad uno dei due. Se può determinare se stessa in modo contingente e non inevitabile, si raggiunge l’intento. Se è determinata da un altro ad uno degli opposti, lo è in modo necessario o in modo contingente? Se in modo necessario, l’effetto seguirà inevitabilmente; se il

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determinante la determina in modo contingente e non inevitabile a uno degli opposti, in maniera che si possa determinare all’altro, tale determinante non può essere che la volontà, dal momento che ogni causa naturale attiva è determinata a compiere un solo tipo di effetti; se la causa naturale è indeterminata non può determinare né se stessa, né un’altra. Dirai che questa indeterminazione dipende dall’intelletto che così mostra alla volontà l’oggetto, affinché venga o non venga scelto. Al contrario, l’intelletto non può determinare la volontà indifferentemente a uno dei due contraddittori, ad esempio che una scelta sia compiuta o non sia compiuta, se non dimostrando l’uno e paralogizzando o sofisticamente sillogizzando con l’altro, sicché nel concludere non può non ingannarsi; dunque, se quella contingenza, per la quale questo può accadere o non accadere, dipendesse dall’intelletto, il quale presenta in tale maniera l’oggetto a causa delle conclusioni opposte, secondo quest’indirizzo nulla potrebbe essere fatto dalla volontà di Dio, in modo contingente, perché Dio non paralogizza, né si inganna; ma ciò è falso. […] […] (Alla questione) rispondo, l’atto dell’intelletto non è la causa totale dell’atto della volontà, ma solo causa parziale, se ve ne è qualcuna, né, d’altra parte, la volontà è causa totale dell’intellezione. Quella maggiore invece è vera della causa totale effettiva equivoca; e se della parziale, questo riguarderebbe la causa di ordine superiore, e in questo modo la volontà, che comanda all’intelletto, è causa superiore rispetto al suo atto di intellezione. Mentre l’intelletto, se è causa della volizione, è causa che viene in aiuto alla volontà, in quanto nell’ordine della generazione agisce prima; il che porta a dire che l’argomento conclude probabilmente a favore del primato della volontà e non dell’intelletto.

 - Giovanni Duns Scoto (Duns 1265 ca. - Colonia 1308) scrisse l’Ordinatio, cioè il testo rielaborato delle sue lezioni a Oxford, tra il 1300 e il 1302. Il testo riportato è tratto da: Giovanni Duns Scoto, filosofo della libertà, a cura di O. Todisco, EMP, Padova 1996, pp. 173-181.

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S  B, Commento al terzo libro del De Anima l’intelletto è uniCo in tutti gli uomini? l’introduzione nell’occidente cristiano dei testi di aristotele, ma soprat­ tutto dei suoi commentatori arabi (in particolare averroè), provocò una grossa crisi tra gli intellettuali, facendo emergere una serie di posizioni del tutto eterogenee rispetto a quelle sostenute dalla fede cattolica. se infatti con sigieri si intende seguire l’insegnamento dei due maestri, uno pagano e l’altro infedele, circa la natura dell’anima e dell’intelletto, sostenendo la tesi che esiste un unico intelletto per tutti gli uomini, si determina il proble­ ma (puntualmente denunciato anche da tommaso) dell’annullamento della responsabilità personale e della salvezza e resurrezione dell’individuo. in realtà sigieri non rappresenta una posizione anticlericale (o di incredulità nei dogmi cristiani), ma sostiene l’autonomia della ragione fino alle estreme conseguenze, anche quelle in aperto contrasto con la fede, che andrà quin­ di accolta con criteri diversi da quelli della filosofia.

Chiediamoci ora in che modo l’intelletto si unisca a noi, se cioè sia unico in tutti, non determinato numericamente dalla numerazione degli uomini, oppure se sia moltiplicato e determinato numericamente secondo il numero degli uomini. Sembra che vi sia un unico intelletto in tutti gli uomini. Nessuna forma immateriale, specificamente una sola viene moltiplicata secondo il numero. L’intelletto è una forma immateriale, specificamente una sola; perciò non si moltiplica numericamente. Inoltre, l’argomento esibito dal Commentatore al riguardo è il seguente: se l’intelletto fosse numericamente determinato dalla numerazione degli uomini, esso sarebbe una potenza del corpo. L’intelletto non è una potenza del corpo; quindi non si moltiplica secondo il numero degli uomini. Tesi contraria: i motori dei cieli sono moltiplicati in corrispondenza della molteplicità delle loro sfere. Perciò accadrà qualcosa di analogo per il motore degli uomini. Per questa ragione, ecc. Inoltre, se ci fosse un unico intelletto per tutti gli uomini, quando un uomo acquisisce una scienza, tutti dovrebbero acquisirla, cosa che risulta falsa. E la conferma di questo è che i concetti non restano uniti a noi se l’intelletto non è unito a noi. Se, quindi, ci fosse un unico intelletto per tutti, tutti i concetti verrebbero a coincidere. Soluzione. Per poter stabilire

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se l’intelletto sia unico per tutti, è necessario considerare la natura separata dell’intelletto e con analogo procedimento la sua natura in quanto si unisce a noi. Dico che quella di essere moltiplicato secondo il numero è una proprietà estranea alla natura dell’intelletto. Nel settimo libro della metafisica sta scritto che un generante non genera qualcosa di molteplice per il numero e unico per la specie d’appartenenza se non in virtù della materia. Inoltre, la divisione del genere è qualitativa, ma la divisione della specie negli individui è quantitativa. Se infatti ci fossero molteplici mondi, ci sarebbero molteplici motori e se ci fossero molteplici motori, sarebbero dotati di materia. Dalle considerazioni appena svolte si conclude che, essendo l’intelletto immateriale, quella di essere moltiplicato secondo il numero è una proprietà estranea alla sua natura. Inoltre, ciò risulta anche dall’argomento desunto dalla causa finale della moltiplicazione degli individui appartenenti a un’unica specie. Siffatta moltiplicazione non si realizza se non perché l’essere della specie non è intrinsecamente in grado di conservarsi in un individuo unico secondo il numero. Perciò, nelle sostanze che sono separate dalla materia, la moltiplicazione di individui appartenenti a una medesima specie non ha alcuna ragione di darsi. Tu potresti dire che, sebbene per quel che risulta dalla natura dell’intelletto la moltiplicazione numerica non sia giustificata, dato che l’intelletto non è materiale, tuttavia l’intelletto viene creato nella condizione di dare la perfezione alla materia. Inoltre, poiché le materie soggiacenti sono molteplici, anche gli intelletti che le perfezionano sono molteplici. Questa sembra essere la posizione di Avicenna, ossia che l’intelletto viene moltiplicato dai principi del corpo. Si osservi tuttavia, come punto di partenza della soluzione, che se l’intelletto fosse perfezione del corpo mediante la sua sostanza, non ci sarebbe da chiedersi se esso viene moltiplicato secondo la moltiplicazione dei diversi individui umani. Sarebbe evidentemente così. Poiché dunque tu dici che l’intelletto viene moltiplicato in virtù delle materie delle quali si appropria, chiediamoci quale sarà la causa di tale appropriazione. Non sembra essercene alcuna, se non ponendo l’intelletto come una potenza nel corpo. Infatti, nelle sostanze separate dalla materia, che si trovano ciascuna sotto un’unica specie, non si trova il peggio e il meglio, come dice Aristotele. Se perciò tra le forme materiali, ciascuna delle quali costituisce un’unica specie, le cose stanno in modo tale per cui una non è migliore di un’altra, ciò significa che non c’è una ragione per appropriarsi di questa materia piuttosto che di quell’altra. Per questo Averroè sostiene che se l’intelletto si moltiplicasse secondo la moltiplicazione degli individui umani, sarebbe una potenza nel corpo. Perciò, si argomenta in modo diverso, ossia dicendo che l’intelletto è unico, non moltiplicato secondo la moltiplicazione degli individui umani, perché altrimenti sarebbe una potenza che si trova nel corpo dei diversi uomini; oppure si può dire anche che non è

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unico, perché sebbene lo sia nella sostanza, tuttavia attiva facoltà diverse nei diversi uomini. Ma l’intelletto non è moltiplicato né per l’uno, né per l’altro motivo. L’intelletto dei diversi individui è unico: unica infatti è la sostanza dell’intelletto e, analogamente, unica è la sua potenza. Dato che le diverse intenzioni immaginate hanno la stessa natura, è evidente che è unica la potenza dell’intelletto. Osserva quindi che l’intelletto e il senso si uniscono a noi in atto, ma secondo modalità diverse. Il senso è infatti unito a noi mediante la parte che corrisponde alla materia; l’intelletto, invece, mediante la parte che corrisponde alla forma. Perciò, dato che il senso è unito a noi, allora le rappresentazioni sensibili sono collegate a noi. Non così per l’intelletto, ma secondo la maniera opposta: non è per il fatto che l’intelletto è unito a noi che lo sono i concetti, ma è per il fatto che i concetti sono uniti a noi che lo è anche l’intelletto. [...] Da ciò che abbiamo detto già si evince la soluzione al secondo argomento. Sostenendo infatti che se l’intelletto fosse unico per tutti gli uomini, quando uno acquisisse la scienza, l’acquisirebbero tutti, dico che ciò sarebbe vero se l’intelletto si trovasse in tutti secondo la sostanza, prima delle intenzioni immaginate, ma questo è falso. Piuttosto, negli uomini si trovano prima le intenzioni immaginate che l’intelletto. E poiché esse si differenziano numericamente secondo la pluralità degli uomini, allora l’intelletto si differenzia nei diversi uomini. Siccome non è necessario che se uno coglie qualcosa con l’immaginazione, la colga anche l’altro, e se uno non la coglie, non la colga l’altro, ne consegue che non è necessario che se uno acquisisce la scienza, l’acquisisca anche l’altro. È chiaro quanto si deve dire per confermare la tesi: l’argomento infatti assume in questo caso una tesi opposta a quella fatta propria da Averroè. Quando infatti si dice che i concetti non sono uniti a noi se non per il fatto che l’intelletto è unito a noi, si dice il falso; piuttosto l’intelletto non è unito a noi se non per il fatto che lo sono i concetti. E così la questione è risolta.

 - Sigieri di Brabante (1235 ca. - 1282) scrisse le Quaestiones in tertium de anima (Commento al terzo libro del De Anima) nel 1269 a Parigi, dove era maestro nella facoltà delle arti. Il testo riportato è tratto da: Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, a cura di A. Petagine, Bompiani, Milano 2007, pp. 131-137, quaestio 9.

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G  V, Il governo della Chiesa la Chiesa è una monarChia assoluta? il lungo percorso compiuto dalla Chiesa cattolica d’occidente per assu­ mere, a partire da gregorio magno, la forma di una monarchia teocratica centrata sulla figura del papa quale unico vicario di Cristo, dopo le direttive in questo senso impresse da gregorio vii e innocenzo iii, culmina con la bolla “unam sanctam” di Bonifacio viii del 1302, nel pieno del conflitto con Filippo il Bello. l’opera di giacomo da viterbo, scritta immediatamente prima, costituisce la giustificazione teorica della posizione pontificia, cui fornisce l’indispensabile supporto teologico. Dietro il quale, però, si deve scorgere l’immediata conseguenza politica: l’universalità e unicità del pote­ re papale implica la subordinazione non solo di ogni altro potere ecclesia­ stico (Concilio compreso), ma anche temporale, specie se si tratta di un regno particolare, come quello francese.

È necessario considerare, però, in termini più approfonditi che dove esiste una gradualità dal maggiore al minore, dal superiore all’inferiore, vi dev’essere qualcosa di unico e sommo, giacché il maggiore e il minore sono così definiti in relazione ad un massimo, che si adegua a ciò che è l’uno per eccellenza: ogni gradualità rimanda, pertanto, a ciò che è unico, primo e sommo. È quindi necessario che esista un ente unico, cui si addica il governo spirituale al massimo grado e in termini assolutamente appropriati e completi: facendo riferimento a tutto questo, David istituì ventiquattro sommi sacerdoti, ponendone, tuttavia, uno soltanto a capo di tutti. Inoltre, poiché ciò che ha una certa realtà in forma primaria ed al massimo grado, è la causa di altri enti dello stesso genere, proprio come ciò che è caldo al massimo grado rende calde altre cose, così colui al quale si addice il governo spirituale in forma primaria e al massimo livello, lo conferisce ad altri con un certo grado e in misura parziale, proprio come richiedono sia l’utilità che il decoro della Chiesa. Quindi, tutti coloro che partecipano comunque al governo spirituale dipendono da quest’unico sovrano, come da chi è al di sopra di tutti i regnanti della Chiesa. Ma questo sovrano unico è Cristo. Tuttavia, poiché era necessario che Cristo si allontanasse fisicamente dalla terra, era opportuno che conferisse il governo spirituale della Chiesa ad un’unica persona che la governasse al suo posto e in vece sua. È noto, peraltro, che questa persona fu Pietro al quale Egli disse persola tarda scolastica e la crisi del medioevo

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nalmente: «Pasci le mie pecorelle». Anche quando si allontanò dai fedeli a causa della morte, Cristo volle che gli succedessero altri con potere uguale ed analogo a quello di Pietro, affinché nella Chiesa questo sommo potere fosse posseduto sempre da una sola persona, per l’eterna utilità della Chiesa […]. Perciò, quest’unica persona, che detiene il sommo potere del governo spirituale, è il successore di Pietro, cioè il romano Pontefice e Vicario di Gesù Cristo. Infatti, benché gli altri regnanti della Chiesa, che succedono agli Apostoli, siano chiamati e siano vicari di Cristo, nondimeno, egli soltanto è colui che fa le veci di Cristo in forma primaria, con semplicità e universalità. In effetti, è chiamato Vicario di Cristo sia come uomo soltanto, in quanto è sacerdote, sia come uomo e Dio, in quanto è re: a buon diritto, quindi, è definito anche Vicario di Dio. Egli è il re di tutti i re spirituali, il pastore dei pastori, il padre dei padri, il capo di tutti i fedeli e di tutti quelli che governano sui fedeli; ne deriva che pure la Chiesa che egli governa, cioè la Chiesa di Roma, è la madre e il vertice di tutte le Chiese. Egli, benché sia chiamato con termine appropriato il Pontefice romano, è tuttavia definito, con parole quanto mai più giuste ed opportune, il pontefice di tutti i cristiani, il sovrano di tutte le Chiese ed il vescovo della Città di Roma e dell’Universo. Per quanto lo aiutino anche gli altri pastori nel governo delle altre Chiese particolari, può tuttavia governare direttamente qualsiasi Chiesa. Egli è il sommo e unico sacerdote al quale tutti i fedeli debbono portare obbedienza come al Signore Gesù Cristo; è il giudice universale che giudica tutti i fedeli di qualsiasi condizione, dignità e stato sociale e che non può essere giudicato da nessuno, ma che afferma per bocca dell’Apostolo: «Chi mi giudica è il Signore». Egli è la persona alla quale Cristo ha affidato in forma assolutamente completa le chiavi della Chiesa, con le quali lega e scioglie, apre e chiude, esclude ed accoglie, stringe e allenta, sentenzia e giudica. È il sommo ordinatore del culto divino e di tutto ciò che riguarda ed è volto a tale culto. Egli è il sommo ed universale amministratore dei misteri di Dio e dei tesori di Cristo; è colui che distribuisce nelle Chiese tutte le dignità, gli uffici e i benefici ecclesiastici, ottenendo il primo e sommo potere nel conferirli e nel distribuirli; è il sommo ed universale autore dei canoni, il testimone delle leggi e di tutti i decreti santi, colui che decreta tutte le regole del diritto canonico, il garante delle istituzioni e delle elezioni, colui che risolve i dubbi e che mostra tutto ciò che i singoli debbono sapere, colui che, infine, giudica tutto ciò che accade nella Chiesa; è colui che secondo Bernardo «non ha uguali sulla terra», perché tutti gli sono sottomessi. […] Egli è, perciò, quello che ha il dovere di allevare tutti gli agnelli e le pecorelle di Cristo, e di aver cura di tutte le Chiese: se gli altri, infatti, sono stati chiamati ad assumere impegni in misura limitata, egli ha avuto pieni poteri.

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In questo modo, però, gli altri hanno un impegno soltanto parziale, perché nulla può togliere la pienezza dei poteri. Egli è il primate e il patriarca, il sommo dignitario e il monarca di tutta la Chiesa militante; a lui devono essere sottomesse di diritto tutte le anime, come alla più eccellente forma di potere, se vogliono conseguire la salvezza, così come chi rifiuta di avere quale pastore il successore di Pietro è estraneo all’unità della Chiesa e non appartiene all’ovile di Cristo. […] Chi governa una moltitudine deve giustamente tendere, quindi, all’unità e alla pace della moltitudine, cui consiste il bene e la salute di qualsiasi società. Ma, di per sé, la causa dell’unità è ciò che è naturalmente uno, ed i molti non possono unire quello che è molteplice, se non sono essi stessi in qualche modo uniti. Pertanto, ciò che di per sé è uno, è la causa dell’unità in forma più efficace e migliore di quanto non lo siano i molti uniti insieme: da questo deriva, però, che la moltitudine è governata meglio da una persona sola piuttosto che da molte, a patto che essa abbia la bontà richiesta ad un sovrano. Tutto ciò risulta chiaro anche in altro modo. In effetti, gli enti che vivono nel rispetto della propria natura, vivono un’ottima esistenza. In realtà, la natura porta a compimento nei singoli ciò che è ottimo in base alle esigenze di ciascuno di essi, giacché l’opera della natura è l’opera di Dio, le cui attività sono ottime e perfette. Ogni governo naturale proviene, però, da una sola realtà […] [dunque] anche una moltitudine di uomini deve avere un solo sovrano, se dev’essere governata ottimamente; inoltre, se una moltitudine umana (che è tenuta unita dall’inclinazione naturale) ha bisogno di un sovrano unico per essere ottimamente governata, tanto più ne avrà bisogno il governo di quella comunità che è unita anche con il dono della grazia e che è la comunità ecclesiastica. Infatti, quello che esiste secondo la grazia non è contrario a quello che esiste secondo natura, ma lo perfeziona.

 - Giacomo da Viterbo (Viterbo 1255 ca. - Napoli 1307) ha scritto il De regimine cristiano (Il governo della Chiesa) tra il 1301 e il 1302. Il testo riportato è tratto da: Giacomo da Viterbo, Il governo della Chiesa, a cura di A. Rizzacasa e G.B. Marcoaldi, Nardini, Firenze 1993, pp. 269-279.

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O, Somma di logica possono esistere sostanze Che non siano inDiviDuali? il problema degli universali era stato esaminato a fondo dai filosofi sco­ lastici, e la discussione era durata due secoli. il punto era determinare la natura delle idee, cioè dei concetti che la mente utilizza per comprendere il mondo. si tratta di libere costruzioni della mente? in questo caso la loro corrispondenza agli enti reali non ci dice che cosa gli enti siano, ma sol­ tanto come possiamo conoscerli. si tratta di costruzioni della mente che corrispondono alla vera essenza delle cose? in questo caso è assicurata la corrispondenza tra l’idea e la cosa (quindi la verità), ma va determinato che cosa significhi che un’idea che è della mente e ha una natura universale corrisponda a una cosa che è individuale. si tratta di universali, che la mente dell’uomo conosce perché sono nella mente di Dio e corrispondono alle cose? anche qui la nozione di verità è salva, ma va chiarita la natura di enti che non sono individuali, ma universali. in quest’ultimo caso: che cosa significa che un ente è universale? Che sostanza ha? ockham esclude che esistano enti di questo tipo, sulla base delle argomentazioni che adesso leggeremo e che saranno riprese dai filosofi moderni.

[Il problema degli universali] Preliminarmente tuttavia si deve esaminare questo termine comune «universale», che si predica di ogni universale, e del singolare che ad esso si oppone. «Singolare» può avere due accezioni: in una prima accezione, singolare significa tutto ciò che è una cosa sola e non è più cose. In questo senso coloro che sostengono che l’universale è una qualità della mente che può essere predicata di più cose, non in forza di se stessa, ma in forza di quella pluralità di cose da essa significate affermano che qualsiasi universale è veramente e realmente singolare. Come qualsiasi termine orale, per quanto in seguito all’istituzione sia comune a più cose, tuttavia è veramente e realmente singolare e numericamente uno, allo stesso modo un concetto mentale che significa più cose extramentali è veramente e realmente singolare e numericamente uno: è infatti una cosa sola e non più cose, anche se significa più cose. Nella seconda accezione, singolare è ciò che è una cosa sola e non più cose. [...]

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Se per universale si intende, come molti fanno, qualche cosa che non è una numericamente, dico che non esiste alcun universale, a meno che non si voglia dare al termine un significato abusivo, dicendo, per esempio, che il popolo è universale, che non è una cosa sola ma è più cose: la qual cosa sarebbe puerile. Si deve pertanto dire che qualsiasi universale è una cosa singolare, ed è universale solo riguardo al suo significato, in quanto è segno di più cose. E questo è quanto dice Avicenna nel V libro della Metafisica: «Un’unica forma presso l’intelletto è in rapporto a una moltitudine, e da questo punto di vista è qualcosa di universale, perché essa è un’intenzione nell’intelletto, che mantiene lo stesso valore in rapporto a ciascuno dei suoi significati»; e aggiunge: «Questa forma, benché in rapporto alle cose individuali sia universale, tuttavia in rapporto all’anima singolare, in cui si trova impressa, è individuale; essa infatti è una delle forme che si trovano nell’intelletto». Avicenna vuol dire che l’universale è un’intenzione singolare della stessa anima, atta a essere predicata di più cose, in modo che per il fatto che è atta a essere predicata di più cose viene detta universale, non in virtù di se stessa, ma in virtù di quella pluralità di cose. Per il fatto poi che è un’unica forma esistente realmente nell’intelletto, viene detta singolare. Perciò, «singolare» si predica dell’universale se viene preso nella prima accezione, mentre non si predica se viene preso nella seconda, come quando diciamo che il sole è causa universale, e tuttavia è veramente una causa particolare e singolare. Il sole è detto infatti causa universale perché è causa di più cose, ossia di tutte le cose generabili e corruttibili della terra, mentre si dice causa particolare, perché è un’unica causa e non più cause. Allo stesso modo il concetto mentale è detto universale perché è un segno che si predica di più cose, mentre è detto singolare in quanto è una cosa sola e non più cose. In verità si deve sapere che l’universale è duplice: c’è un universale per natura, ossia che per sua natura è un segno predicabile per più cose, allo stesso modo in cui il fumo per sua natura significa il fuoco, il lamento dell’ammalato il dolore e il riso la gioia interiore. In questo senso solo un concetto della mente può essere universale, mentre nessuna sostanza o accidente extramentali sono degli universali cosiffatti. Nella mia trattazione intenderò l’universale secondo questa accezione. Il secondo tipo di universale è quello che deriva da un’istituzione convenzionale: in questo modo un termine proferito oralmente, pur essendo una qualità numericamente una è universale, perché è un segno istituito convenzionalmente per significare più cose. Come una parola può essere detta comune, così può essere detta universale: questo non le deriva però dalla sua natura, ma dalla convenzione di coloro che l’hanno istituita.

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Siccome non basta enunciare le tesi, ma bisogna dimostrarle con l’evidenza, mi sforzerò di produrre delle dimostrazioni per le affermazioni fatte prima e di confermarle con argomenti di autorità. Che l’universale non sia una sostanza esistente fuori della mente, lo si può dimostrare apoditticamente, e, in primo luogo, argomentando così: nessun universale è una sostanza singolare numericamente una. Se si sostenesse ciò, ne seguirebbe che Socrate è un universale, perché non c’è alcuna ragione per affermare che un universale è una sostanza singolare piuttosto che un’altra. Dunque nessuna sostanza singolare è un universale, ma ogni sostanza è numericamente una e singolare: ogni sostanza infatti o è una cosa e non è più cose, oppure è più cose. Se è una cosa sola e non è più cose, è numericamente una: in ciò infatti consiste, a parere di tutti, l’essere numericamente uno. Se invece una sostanza è più cose, o è più cose singolari o è più cose universali. Se si dà il primo caso, ne deriva che una sostanza sarebbe costituita da più sostanze singolari e, conseguentemente, per la stessa ragione una sostanza avrebbe più uomini e allora l’universale si distinguerebbe sì da una cosa particolare, ma non si distinguerebbe da più cose particolari. Nel caso invece che una sostanza fosse più cose universali, prendo una qualsiasi di queste cose universali e mi domando: o è più cose, oppure è una cosa sola. Se si verifica il secondo caso, ne deriva che è singolare; se si verifica il primo, mi domando ancora: o è più cose singolari o è più cose universali. E così o ci sarà un processo all’infinito o si arriverà a concludere che nessuna sostanza è universale, intendendo per universale ciò che esclude il singolare. Con ciò è dimostrato che nessuna sostanza è universale.

 - Guglielmo di Ockham (Ockham 1290 ca. - Monaco di Baviera 1350 ca.) compose Summa logicae (Somma di logica) tra il 1321 e il 1323. Il testo riportato è tratto da: Guglielmo di Ockham, Summa logicae, in Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Nardini, Firenze 1991, pp. 110 ss.

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O, Otto questioni sul potere papale il re è sottomesso al papa Che pure lo inCorona? il conflitto politico tra il potere papale e quello temporale, dopo aver toc­ cato il suo culmine con lo scontro tra Bonifacio viii e Filippo il Bello, si trascinò anche dopo il trasferimento ad avignone della curia pontificia. ora giovanni XXii, l’ultimo papa teocratico, non solo venne in aperto contrasto con l’imperatore ludovico il Bavaro, ma anche con l’ala spiritua­ le del movimento francescano che ne contestava le pretese assolutistiche e le cadute temporali e mondane, apertamente tacciate come eretiche. ockham sostenne dunque le ragioni dell’impero (cioè la sua autonomia dalla Chiesa) non per opportunità o faziosità politica, ma per restare fedele all’autentico spirito francescano, ai valori evangelici (traditi da un papato del tutto compromesso con le logiche terrene) di povertà, libertà individuale, distacco dal mondo. si noti come questo obiettivo venga perseguito non tanto cedendo all’invettiva, ma con un’argomentazione pacata e razionale, espressione di una matura onestà intellettuale e serena libertà interiore.

Se il re deve essere sottomesso a chi lo incorona Nella sesta questione si discute se il re, che succede al trono ereditariamente, sia sottomesso in qualcosa a chi lo incorona. Su questa questione possono esserci opinioni tra loro contrarie. La prima sostiene che il re, che succede al trono ereditariamente, è sottomesso in qualcosa a chi lo incorona. A sostegno di quest’opinione si può argomentare: il re che succede al trono ereditariamente, è in qualche modo sottomesso a colui al quale spetta l’esame della persona dello stesso re, giacché tale esame non spetta ad un inferiore, né ad uno di pari autorità, ma ad un superiore. Ma l’esame della persona del re, che succede al trono ereditariamente, compete a chi l’incorona, come attesta Innocenzo III, il quale, come si legge in un canone, afferma: «Infatti, regolarmente e generalmente, ci si attiene alla norma per cui l’esame di una persona compete a colui al quale spetta l’imposizione delle mani». Dunque, poiché l’imposizione delle mani spetta a colui che incorona il re che succede al trono ereditariamente, la conseguenza è che proprio a quello spetta l’esame della persona del re, e che tale re è sottomesso in qualcosa a colui che l’incorona. Un’altra opinione sostiene che il re, che succede al trono ereditariamente, non è affatto soggetto a chi l’incorona. A sostegno di questa opinione si può così argomentare: il re che succede al trono ereditariamente non è in niente la tarda scolastica e la crisi del medioevo

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soggetto a chi non gli attribuisce alcun diritto o potere; colui che incorona non attribuisce alcun diritto o potere; dunque ecc. […] Inoltre, il re che succede al trono ereditariamente non ottiene il suo regno da chi lo incorona: e perché, non prestandogli il giuramento di omaggio, non è suo vassallo; e perché i predecessori del re che succede al trono ereditariamente, i quali in molti regni furono degli infedeli (come è evidente per il regno dei Franchi, per quello degli Angli e per molti altri), non ottenevano i loro regni da chi li incoronava; pertanto, neanche i re che succedono al trono per eredità ottengono quegli stessi regni da chi li incorona. Infatti, se così non fosse, non sarebbero veri successori dei primi re, e la condizione dei re cristiani sarebbe peggiore di quella dei re infedeli; dunque, i re, che succedono al trono ereditariamente, non sono in niente sottomessi a coloro che li incoronano. Inoltre, nessuno è sottomesso ad un uomo dal quale riceve il giuramento di sottomissione e fedeltà; ma colui che incorona il re che succede al trono ereditariamente, al pari degli altri vescovi di quello stesso regno, per quel che concerne le cose temporali, che ottiene dal re, è tenuto a prestare giuramento di sottomissione e fedeltà proprio al re; il re, dunque non è affatto sottomesso a chi l’incorona. Inoltre, l’essere incoronato non dimostra una subordinazione maggiore di quella affermata dall’unzione, dalla consacrazione e dall’ordinazione. Ma l’unzione, la consacrazione e l’ordinazione non dimostrano subordinazione. Il papa, infatti, se non è sacerdote o vescovo al momento dell’elezione, è unto, consacrato e ordinato successivamente; e tuttavia non è sottomesso in niente a chi lo consacra o l’ordina. Anche il metropolita è consacrato dai suoi suffraganei, ai quali non è sottomesso. Anche il vescovo è consacrato da altri vescovi, ai quali non è sottomesso, anche molti chierici, che ne hanno ricevuto licenza con lettera dimissoria dal loro vescovo, sono ordinati da un vescovo non della loro diocesi, al quale tuttavia non sono sottomessi. Anche i figli dei re e quelli degli altri uomini, siano essi di nobile stirpe o di umile nascita, sono battezzati e sono unti dai presbiteri, ai quali non sono sottomessi. A maggior ragione, dunque, l’incoronazione non dimostra subordinazione. Inoltre, molti imperatori furono incoronati da uomini che erano loro inferiori, ai quali non erano sottomessi; dunque, il fatto che il re, che succede al trono ereditariamente, sia incoronato da qualcuno, non può dimostrare che egli sia sottomesso a chi lo incorona. Colui che incorona, inoltre, attribuisce al re che è incoronato minor diritto e potere di quanto ne conferiscono gli elettori all’eletto e coloro che costituiscono l’imperatore o il re all’imperatore o al re. Ma sebbene l’eletto non abbia alcun diritto se non dagli elettori, tuttavia non è ad essi sottomesso, infatti, il papa, che non possiede alcun diritto se non viene canonicamente eletto, non è sottomesso a coloro che lo eleggono; il vescovo oppure un altro prelato o un’autorità secolare spesso non ha alcun diritto se non viene eletto secondo le regole, e tuttavia

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essi non sono minimamente sottomessi ai loro elettori. Anche l’imperatore, al quale il popolo trasferì il suo potere, non ebbe il diritto imperiale, se non dal popolo, e tuttavia non era sottomesso al popolo. Similmente, i primi re dei diversi regni, che furono costituiti dal popolo volontariamente, non ebbero il diritto regio se non dal popolo, e tuttavia non furono poi sottomessi ai loro popoli. Rispetto ai primi re, dunque, chi succede al trono ereditariamente, è molto meno sottomesso a chi l’incorona.

 - Guglielmo di Ockham (Ockham 1290 ca. - Monaco di Baviera 1350 ca.) compose le Octo quaestiones de protestate papae (Otto questioni sul potere papale) a Monaco, alla corte di Ludovico il Bavaro presso cui si era rifugiato, tra il 1340 e il 1342. Il testo riportato è tratto da: Guglielmo di Ockham, Il filosofo e la politica, a cura di F. Camastra, Rusconi, Milano 1999, pp. 423-427.

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M  P, Difensore della pace Qual è la Funzione Della legge? Chi è il legittimo legislatore? in questa, che è forse l’opera di filosofia politica più importante del me­ dioevo, marsilio da padova cercò di affrontare e risolvere la causa fon­ damentale dei mali della società del suo tempo: la pretesa superiorità (secondo la teoria verticistica e assolutistica definita per l’ultima volta da Bonifacio viii) della Chiesa sullo stato. sostenendo la subordinazione della prima al secondo (unico garante della pace con la sua indiscussa au­ torità), egli viene a impostare in modo nuovo l’intero corpo della dottrina politica, delineando alcune tra le più rilevanti determinazioni dottrina­ li dello stato moderno, quali il fondamento democratico del potere, la dipendenza del potere esecutivo da quello legislativo, la distinzione tra diritto (limitato alla regolamentazione degli atti esterni) e morale (quindi l’esigenza della libertà di coscienza), la svalutazione del diritto naturale e la determinazione positiva della giurisprudenza (in cui la legge è definita in termini puramente formali).

La legge può essere considerata in due modi. Nel primo, può essere considerata in sé, in quanto essa mostra soltanto quel che è giusto o ingiusto, vantaggioso o nocivo; e in quanto tale, è detta scienza o dottrina del diritto. Si può poi considerare la legge ancora in un altro modo, secondo che per la sua osservanza venga dato un precetto coattivo legato ad una punizione o a una ricompensa da attribuire in questo mondo, o secondo che venga tramandata per mezzo di un tale precetto; e solo quando è considerata in tale modo viene chiamata “legge” e lo è propriamente. Perciò non tutte le vere conoscenze delle cose giuste e civilmente benefiche sono leggi, ove non siano state emanate mediante un comando coattivo che ne imponga l’osservanza, o non siano state fatte per mezzo di un comando, anche se poi una tale vera conoscenza è certo necessaria per avere una legge perfetta. Invero, anche conoscenze false di cose giuste e benefiche diventano talvolta leggi, se viene emanato il comando di osservarle o vengono fatte per mezzo di un tale comando. Ed un esempio lo troviamo nei paesi di certi barbari, che fanno osservare come norma giusta che un omicida sia assolto dalla sua colpa o dalla punizione civile purché paghi una certa somma per tale delitto. Ora questa norma è assolutamente ingiusta e, di conseguenza, le leggi di questi barbari non sono assolutamente perfette. Sicché, nonostante che abbiano la forma propria, cioè, un comando coerci-

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tivo che impone di osservarle, mancano però di una condizione debita, ossia del debito e giusto ordinamento di giustizia. Sotto questo significato di “legge” sono comprese tutte le regole sulle cose giuste e civilmente vantaggiose che sono state stabilite dall’autorità umana, come le consuetudini, gli statuti, i plebisciti, i decretali, e tutte le altre simili che, come abbiamo detto, sono fondate sull’autorità umana. […] Si deve adesso parlare di quella causa efficiente delle leggi che può essere dimostrata; perché non intendo discutere adesso quel modo di istituire le leggi che può essere effettuato da un atto o oracolo immediato di Dio senza intervento dell’arbitrio umano, o che è già stato effettuato nel passato; come avvenne – abbiamo detto – nel caso dell’istituzione della legge mosaica, della quale però non voglio trattare neppure in quanto contiene i comandi che riguardano gli atti civili per lo stato della vita presente. Ma tratterò soltanto dell’istituzione di quelle sole leggi e governi che derivano immediatamente dall’arbitrio della mente umana. Diciamo dunque, d’accordo con la verità e l’opinione di Aristotele, nella “Politica”, libro III, capitolo VI, che il legislatore, o la causa prima ed efficiente della legge, è il popolo o l’intero corpo dei cittadini o la sua “parte prevalente” (pars valentior), mediante la sua elezione o volontà espressa con le parole nell’assemblea generale dei cittadini, che comanda che qualcosa sia fatto o non fatto nei riguardi degli atti civili umani, sotto la minaccia di una pena o punizione temporale. Con il termine “parte prevalente”, intendo prendere in considerazione non solo la quantità ma anche la qualità delle persone in quella comunità per la quale viene istituita la legge; e il suddetto corpo dei cittadini o la sua parte prevalente è appunto il legislatore, sia che faccia la legge da sé stesso direttamente o invece ne attribuisca la funzione a qualche persona o persone le quali però non né possono essere il legislatore in senso assoluto, ma lo sono invece solo in senso relativo e per un periodo di tempo particolare e secondo l’autorità del primo legislatore. E dico poi, in conseguenza di questo, che le leggi e qualsiasi altra cosa stabilita per mezzo di elezione debbono ricevere la loro necessaria approvazione da parte della stessa autorità prima e non di qualche altra, checché ne sia di certe cerimonie o solennità che non sono necessarie per l’“essere” delle cose elette, ma soltanto per il loro “essere bene”, poiché l’elezione non sarebbe certo meno valida anche se non venissero compiute queste cerimonie. Chiamo “cittadino”, secondo quanto dice Aristotele nella “Politica”, libro III, capitoli I, III e VII, colui che partecipa secondo il suo proprio rango alla comunità civile, al governo o alla funzione deliberativa o giudiziaria. Ma questa definizione esclude appunto dal novero dei cittadini i fanciulli, gli schiavi, gli stranieri e le donne, sebbene questa esclusione avvenga secondo un modo diverso. Difatti i figli dei cittadini sono anch’essi cittadini in prossima potenza, perché manca loro soltanto il requisito dell’età. La parte prevalente dei cittadini dev’essere poi valutata secondo l’onorevole costumanza delle politie […].

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Dopo aver così definito il cittadino e la parte prevalente dei cittadini, torniamo adesso al nostro proposito, e, cioè, a dimostrare che l’autorità umana di far leggi spetta soltanto a tutto il corpo dei cittadini o alla parte prevalente di essi. La nostra prima prova è la seguente: l’autorità umana assolutamente prima di fare o stabilire leggi spetta soltanto a quegli uomini dai quali possono provenire le ottime leggi. Ma costoro sono appunto gli uomini che costituiscono il corpo dei cittadini, oppure la parte prevalente di essi e che rappresenta l’intero corpo; non è infatti facile e non è possibile che tutte le persone si accordino in un’unica decisione, poiché alcuni hanno una natura deforme, che è in disaccordo con la decisione comune, per ignoranza o per malizia. Ma il vantaggio comune non dev’essere però impedito o trascurato per dei reclami irragionevoli o il contrasto con questi uomini. Sicché, l’autorità di stabilire le leggi spetta soltanto a tutto il corpo dei cittadini o alla loro parte prevalente […]. Ancora, e questa è come un’abbreviazione e un sommario delle nostre precedenti dimostrazioni: l’autorità di far le leggi o spetta soltanto a tutto il corpo dei cittadini, come abbiamo già detto, oppure spetta soltanto ad un solo uomo o a pochi uomini. Ma questa autorità non può spettare certamente ad un uomo solo […] poiché per ignoranza, malizia, o ambedue le cose, quest’uomo solo potrebbe fare una legge iniqua che mirasse più al suo vantaggio privato che a quello della comunità, e quindi la legge diventerebbe tirannica. Per la stessa ragione, l’autorità di fare le leggi non può spettare neppure a pochi uomini; poiché essi potrebbero peccare come nel caso precedente, facendo una legge che mirasse al vantaggio di pochi e non al vantaggio comune, come possiamo vedere nel caso delle oligarchie. L’autorità di fare le leggi spetta dunque a tutto il corpo dei cittadini o alla sua parte prevalente, proprio per la ragione opposta. Poiché, siccome tutti i cittadini debbono essere misurati dalla legge secondo la giusta proporzione, e nessuno consapevolmente si danneggia o desidera essere trattato ingiustamente, ne segue che tutti o la maggior parte desiderano una legge che conduca al vantaggio comune di tutti i cittadini.

 - Marsilio da Padova (Padova 1276 ca. - Monaco di Baviera 1343 ca.) compose il Defensor pacis (Difensore della pace) a Parigi nel 1324. Il brano riportato è tratto da: Marsilio da Padova, Il difensore della pace, a cura di C. Vasoli, Utet, Torino 1975, pp. 158-159, 170-176, 179-180.

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D, Il convivio Come può l’uomo essere Beato senza sapienza? in una prospettiva essenzialmente aristotelica, Dante delinea un progetto di ampio respiro culturale e umanistico, per consentire a tutti di coltivare la sapienza ed essere così felici. per aristotele infatti la conoscenza è l’at­ tività specifica dell’uomo (si noti ancora, di ogni uomo senza distinzioni), per natura “animale razionale”: la beatitudine è quindi la conseguenza della realizzazione della propria essenza. Dunque, Dante prospetta un ideale di “felicità mentale” che, distinta da quella ultraterrena, è possibile conseguire qui sulla terra, seguendo gli insegnamenti della filosofia. esso poi con De monarchia si tradurrà (come vedremo a p. 130) in un progetto politico, fon­ dato sulla ricostituzione dell’impero e sulla pace.

Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitate, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all’uomo e di fuori da esso lui rimuovono dall’abito della scienza. Dentro dall’uomo possono essere due difetti e impedimenti: l’uno dalla parte del corpo, l’altro dalla parte dell’anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e miti e loro simili. Dalla parte dell’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene vile. Di fuori dell’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una delle quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale sconvenevolmente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono. L’altro è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte di dentro e la prima dalla parte di fuori, non sono da vituperare, ma da scusare e di perdono degne; le altre due, avena che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione. la tarda scolastica e la crisi del medioevo

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Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi soni li ‘mpediti che di questo cibo sono sempre affamati. Oh beati quelli pochi che seggono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manduca! E miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito della pastura del volgo, a’ piedi di coloro che seggono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, senza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata. E ha questo convivio di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno non essere ministrata. […] E qui conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue dimostrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso. Questo piacere in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso. E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente desia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque l’altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio. […] E in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la quale, sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza dipende. […] Dove è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere, che lo ‘ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia: che certissimamente si veggiono e con tutta fede si credono essere, e pur quello che sono intender noi non potemo, se non cose negando si può apressare alla sua conoscenza, e non altrimenti.

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Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ‘l naturale desiderio sia nell’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade della cosa desiderante: altrimenti anderebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l’avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desidererebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maledetto, e non s’acorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Averebbe[lo] anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione. E così è misurato nella natura angelica e terminato, in quanto, in quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è colla bontà della natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo la dubitazione è soluta.

 - Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) compose Il convivio dopo la condanna all’esilio, tra il 1304 e il 1307. Il brano riportato è tratto da: Tutte le opere di Dante, a cura di F. Chiappelli, Mursia, Milano 1965, pp. 489-490, 576-578.

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D, La monarchia a Quali ConDizioni è possiBile la FeliCità terrena? Chi la può gar antire? in polemica con la prospettiva ierocratica di Bonifacio viii (ma anche con quella di molti teologi, tommaso compreso), Dante riconosce, in sintonia con gli aristotelici, la possibilità di una felicità terrena. Con ciò non solo si sostiene la netta divisione dei due poteri, laico ed ecclesiastico, entrambi istituiti da Dio per consentire all’uomo il raggiungimento dei due fini distin­ ti, conseguenti alla sua duplice natura, mortale (per quanto riguarda il cor­ po) e immortale (per quanto concerne l’anima), ma anche la necessità di un impero universale, unico organismo in grado di assicurare la pace e di rac­ cogliere in unità tutti gli uomini. in questo Dante è certo ancora un uomo del medioevo, in quanto non riconosce alcun ruolo allo stato nazionale che proprio in questo periodo si sta affermando in Francia e in inghilterra.

Anche se nel precedente capitolo, procedendo per assurdo, si è mostrato che l’autorità dell’Impero non promana dall’autorità del Sommo Pontefice, non è stata fornita tuttavia la prova che essa deriva immediatamente da Dio, se non come conseguenza del ragionamento: cioè, se essa non dipende dal vicario stesso di Dio, dipende da Dio. E proprio per dare compiutezza al proposito che ci siamo prefissi, dobbiamo dimostrare “positivamente” che l’Imperatore, ossia il Monarca della terra, dipende immediatamente dal Principe dell’Universo, cioè Dio. Per l’intelligenza di questo concetto giova sapere che solo l’uomo tra gli esseri occupa la posizione mediana tra le sostanze corruttibili e quelle incorruttibili; perciò correttamente dai filosofi viene assimilato all’orizzonte, che è l’elemento mediano tra i due emisferi. Infatti, se l’uomo è considerato in rapporto a entrambi i suoi costituenti essenziali, anima e corpo, è corruttibile; ma se è considerato riguardo a uno solo dei due, cioè all’anima, è incorruttibile. Per tale motivo, bene il Filosofo si esprime sull’incorruttibilità di questa, quando dice nel libro secondo dell’Anima: «E solo essa può separarsi dall’elemento corruttibile, perché immortale». Se dunque l’uomo occupa la posizione mediana tra gli esseri corruttibili e quelli incorruttibili, dal momento che ogni entità intermedia partecipa della natura degli estremi, è inevitabile che l’uomo abbia in comune l’una e l’altra natura. E poiché ciascuna natura è predisposta a un fine ultimo, consegue che nell’uomo esiste un duplice fine: cioè, partecipando egli, solo tra tutte le creature, della corruttibilità e dell’incorruttibilità, è predisposto, unico tra tutti gli esseri,

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a due fini ultimi, da una parte in quanto corruttibile e dall’altra in quanto incorruttibile. Dunque, due fini da perseguire additò all’uomo l’ineffabile Provvidenza: la beatitudine di questa vita, consistente nell’attuazione della propria virtù e figurata nel Paradiso terrestre e la beatitudine della vita eterna, quale si realizza nel godimento della visione di Dio, alla quale non si può ascendere con le proprie facoltà, se non c’è il sussidio dell’illuminazione divina, e che è significata da Paradiso celeste. Ed è necessario arrivare a queste due beatitudini che rappresentano conclusioni differenti, con mezzi diversi. Infatti perveniamo alla prima mediante gli insegnamenti della Filosofia, che vanno però seguiti operando conformemente alle virtù morali e intellettuali; alla seconda, invece, grazie agli insegnamenti spirituali che trascendono l’umana ragione, sempre che essi siano seguiti operando in conformità con le virtù teologali, cioè della fede, speranza e carità. Queste mete e i relativi mezzi ci sono stati bensì indicati, gli uni, dall’umana ragione che si dispiegò a noi totalmente per mezzo dei filosofi, gli altri, dallo Spirito Santo che rivelò la verità soprannaturale, a noi indispensabile, grazie ai profeti e agiografi, a Gesù Cristo figlio di Dio a lui costerno, e ai suoi discepoli. Tuttavia, l’umana cupidigia li porrebbe in sottordine, se gli uomini, come cavalli, vaganti nella loro bestialità, non venissero tenuti “con la briglia e con il freno” sul loro cammino. Per tale motivo fu necessaria all’uomo una duplice guida, con riguardo al suo duplice fine: da una parte, il Sommo Pontefice che guidasse alla vita eterna il genere umano, conformemente alla Rivelazione; dall’altra, l’Imperatore che lo indirizzasse alla felicità temporale in linea con gli ammaestramenti filosofici. Ma, siccome nessuno o in pochi – e questi con soverchia difficoltà – possono pervenire a questo porto, a meno che non siano sedati i flutti della carezzevole cupidigia e il genere umano viva affrancato nella serenità della pace, essa è la meta alla quale deve tendere con ogni mezzo colui che ha cura del mondo, cioè il Principe romano. Solo così si potrà vivere liberamente e pacificamente in questa aiola dei mortali. E poiché la disposizione del mondo terreno è determinata da quella inerente al movimento circolare dei cieli, è necessario, affinché gli utili insegnamenti della libertà e della pace si adattino opportunamente ai luoghi e alle circostanze, che il sovrintendente del mondo sia costituito da Colui che con il suo sguardo abbraccia simultaneamente tutta la disposizione dei cieli. Egli solo infatti la stabilì preventivamente e provvide per suo mezzo al legame intercorrente fra ciascuna creatura e il posto che a questa compete. Se dunque le cose stanno così, solo Dio sceglie, solo Egli conferma, non avendo chi sia superiore a Lui. Se ne deduce ulteriormente che non sono da definirsi “elettori” né gli attuali, né tutti gli altri che comunque siano stati definiti tali: essi piuttosto debbono essere definiti “nunzi della divina Provvidenza”. Anche se ne deriva che i beneficiari di quest’ultima dignità sono talvolta preda della discordia, o perché tutti, o perché in parte, si lasciano ottene-

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brare dalla nebbia della cupidigia e non riescono a discernere che si tratta di scelta divina. È evidente dunque che l’autorità del monarca temporale deriva, senza alcun tramite, dalla Fonte dell’autorità universale: e tale Fonte, compatta nella rocca della sua purezza, scorre in molteplici rivi per abbondanza di bontà. Ma ormai ritengo di aver toccato la meta propostami. È stata infatti messa in luce la verità inerente ai tre quesiti: se l’ufficio di Monarca sia necessario al benessere del mondo; se il popolo romano per diritto si sia attribuito l’Impero; se infine l’autorità del Monarca dipenda immediatamente da Dio o da un altro. Pertanto, la verità emersa dall’ultimo problema non deve essere accolta alla lettera, nel senso che il Principe romano non sia soggetto in qualche modo al romano Pontefice, dal momento che la felicità mortale è in un certo senso ordinata alla felicità immortale. Cesare dunque dimostri nei confronti di Pietro quella reverenza che il primogenito deve al padre: cosicché, illuminato dalla grazia della luce paterna, possa irradiare più vivida virtù sul mondo, cui è stato preposto solo da Colui che è signore di tutte le cose spirituali e temporali.

 - Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) compose il De monarchia (La monarchia) in concomitanza con la discesa di Arrigo VII in Italia, quindi attorno al 1313. Il brano riportato è tratto da: Filosofia medievale, a cura di M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo e P. Porro, Cortina, Milano 2004, pp. 336-338.

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E, I sermoni Come Devono essere inDiviDuati i veri poveri Di spirito? alla fine del Duecento, il conflitto tra ragione e fede, filosofia e teologia, riflette la crisi profonda di tutta un’epoca, in cui le inquietudini religiose dei ceti popolari esigono manifestazioni devozionali e vie nuove, rispetto a quelle codificate dalla Chiesa (quella verticistica teorizzata da Bonifacio viii), per accedere al divino e alla salvezza ultraterrena. pur essendo mem­ bro autorevole dell’ordine domenicano, meister eckhart ha saputo dare voce a queste istanze e ansie spirituali, predicando in volgare ed esprimen­ do nel modo più caldo e immediato il suo pensiero centrato sull’unione mistica dell’anima con Dio, che anche le anime più semplici potevano rea­ lizzare senza pratiche esteriori o mediazioni istituzionali, semplicemente attraverso un processo di spogliazione di ogni elemento umano e monda­ no, in una condizione perfetta di abbandono interiore e di ebbrezza divina.

La beatitudine aprì la sua bocca di saggezza e disse: «Beati sono i poveri nello spirito, loro è il regno dei cieli». Tutti gli angeli, e tutti santi, e tutto ciò che è nato, deve tacere quando parla questa eterna sapienza del Padre, perché tutta la sapienza degli angeli e di tutte le creature è un puro nulla di fronte all’abisso senza fondo della sapienza di Dio. Essa ha detto che i poveri sono beati. La povertà è di due tipi. V’è una povertà esteriore, che è buona e molto da lodare nell’uomo che la prende su di sé volontariamente, per amore di nostro Signore Gesù Cristo, perché egli stesso l’ha praticata su questa terra. Di questa povertà non voglio dire altro. C’è però un’altra povertà, una povertà interiore, che è da comprendere in quella parola di nostro Signore che dice: «Beati sono i poveri nello spirito». Ora vi prego di essere poveri in tal modo, per poter capire questo discorso, perché – ve lo dico nella eterna verità – non mi comprenderete se non vi renderete uguali a questa verità di cui ora vi vogliamo parlare. Alcune persone mi hanno chiesto cosa sia la povertà in se stessa, e cosa sia un uomo povero. Ora vogliamo rispondere. Il vescovo Alberto dice che è un uomo povero quello che non può contentarsi di tutte le cose create da Dio, e questo è ben detto. Ma noi diciamo ancora meglio e prendiamo la povertà in un significato più alto: è un uomo povero quello che niente vuole, niente sa, niente ha. Voglio parlare di questi tre punti, e vi prego per amor di Dio di comprendere, se potete, questa verità. Se poi non la comprendete,

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non vi affliggete per questo, perché io vi parlo di una verità tale che solo poche persone buone la comprenderanno. In primo luogo diciamo che è uomo povero quello che niente vuole. Alcune persone non comprendono bene questo senso, e si tratta di quelli che, nella penitenza e nell’esercizio esteriore, si tengono ben aggrappati al proprio io personale, che ritengono importante. Dio abbia misericordia, perché questa gente sa davvero poco della verità divina! Queste persone sono chiamate sante a motivo dell’apparenza esteriore, ma interiormente sono asini, giacché non comprendono il senso proprio della verità divina. Esse dicono che è uomo povero quello che niente vuole, ma lo interpretano così: che l’uomo debba vivere senza mai compiere il proprio volere, in niente, e piuttosto sforzarsi di compiere la dolcissima volontà di Dio. Tali persone sono nel giusto, perché la loro opinione è buona, e perciò vogliamo lodarle, nella sua misericordia, Dio donò loro il regno dei cieli. Ma io dico nella verità divina che questi non sono uomini poveri, né simili a poveri. Essi vengono stimati molto dalla gente che non conosce niente di meglio, ma io dico che sono degli asini, che non comprendono nulla della verità divina. Possono raggiungere il regno dei cieli per la loro buona intenzione, ma di quella povertà di cui ora voglio parlare non ne sanno nulla. Se ora uno mi chiedesse cosa dunque è un uomo povero che niente vuole, risponderei così: finché l’uomo ha questo in sé, che è suo volere voler compiere la dolcissima volontà di Dio, un tale uomo non ha la povertà di cui vogliamo parlare; infatti egli ha ancora un volere, con cui vuol soddisfare la volontà di Dio, e questa non è la vera povertà. Se l’uomo deve avere vera povertà, deve essere così vuoto della propria volontà creata come lo era quando non esisteva. Perciò io vi dico nella verità eterna: finché avete la volontà di compiere il volere di Dio, e avete il desiderio dell’eternità e di Dio, voi non siete davvero poveri. Infatti è un vero povero soltanto colui che niente vuole e niente desidera. Quando ero nella mia causa prima, non avevo alcun Dio, e là ero causa di me stesso. Nulla volevo, nulla desideravo, perché ero un puro essere, che conosceva se stesso nella gioia della verità. Allora volevo me stesso e niente altro; ciò che volevo, lo ero, e ciò che ero, lo volevo, e là stavo libero da Dio e da tutte le cose. Ma quando, per libera decisione, uscii e presi il mio essere creato, allora ebbi un Dio; infatti, prima che le creature fossero, Dio non era Dio, ma era quello che era. Quando le creature furono e ricevettero il loro essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle creature. Ora diciamo che Dio, in quanto Dio, non è il più alto fine della creatura. Infatti anche la più piccola creatura in Dio ha una altrettanto alta dignità. E se avvenisse che una mosca avesse intelletto, e potesse ricercare per mezzo di esso l’eterno abisso dell’essere divino dal quale è venuta, allora dovremmo dire che Dio, con tutto ciò che è in quanto Dio, non potrebbe dare a questa mosca compimento e soddisfazione. Perciò preghiamo Dio di diventare

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liberi da Dio, e di concepire e godere eternamente la verità là dove l’angelo più alto e la mosca e l’anima sono uguali; là dove stavo e volevo quello che ero, ed ero quel che volevo. Perciò noi diciamo: se l’uomo deve essere povero nel volere, deve volere e desiderare tanto poco come voleva e desiderava quando ancora non era. In questo modo è povero l’uomo che niente vuole. […] Noi diciamo dunque che l’uomo deve essere così povero da non avere, e non essere, alcun luogo in cui Dio possa operare. Quando l’uomo mantiene un luogo, mantiene anche una differenza. Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, in quanto noi concepiamo Dio come inizio delle creature. In quell’essere di Dio, però, in cui Egli è al di sopra di ogni essere e di ogni differenza, là ero io stesso, volevo me stesso, e conoscevo me stesso, per creare questo uomo che io sono. Perciò io sono causa originaria di me stesso secondo il mio essere, che è eterno, e non secondo il mio divenire, che è temporale. Perciò io sono non nato, e, secondo il modo del mio non esser nato, non posso mai morire. Secondo il modo del mio non esser nato, io sono stato in eterno, e sono ora, e rimarrò in eterno. Cosa invece sono secondo il mio esser nato, dovrà morire ed essere annientato, perché è mortale, e perciò deve corrompersi col tempo. Nella mia nascita eterna nacquero tutte le cose, ed io fui causa originaria di me stesso e di tutte le cose; e, se non lo avessi voluto, né io né le cose sarebbero; ma se io non fossi, neanche Dio sarebbe: io sono causa originaria dell’esser Dio da parte di Dio; se io non fossi, Dio non sarebbe Dio.

 - Meister Eckhart (Hochheim 1260 ca. - Colonia 1328) ha svolto, in qualità di membro autorevole dell’ordine domenicano, un’intensa attività di predicatore, specie nei confronti delle monache. Questa celebre predica dovrebbe essere stata tenuta nella primavera del 1327. Il testo riportato è tratto da: Meister Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline Editoriale Libri, Milano 2002, pp. 388-395.

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B, Commento al De caelo possono esistere più monDi? nel suo commento al trattato di aristotele Il cielo, Buridano giunge a con­ clusioni che mettono in crisi la cosmologia antica e medievale: procedendo in modo puramente logico, egli prospetta tesi (l’eliocentrismo, la pluralità dei mondi, una diversa spiegazione del moto – o teoria dell’impetus – ecc.) che saranno riprese nell’età moderna con Bruno e galileo. tuttavia non bisogna vedere in questo maestro francese un antesignano dello scienziato moderno: in realtà egli le presenta come pure ipotesi sostenibili con buoni argomenti, come eventualità possibili nella misura in cui logicamente non implicano contraddizione. Certo, la rivoluzione scientifica non avrebbe po­ tuto aver luogo se l’aristotelismo non fosse stato incrinato nei suoi principi basilari: in questa prospettiva l’opera di Buridano segna un tappa essenziale verso la modernità.

Se sia possibile che esistano più mondi 1. Si dimostra la tesi affermativa: il “mondo” e “questo mondo” differiscono come l’universale e il particolare; il termine “mondo” infatti è un termine comune sia per i grammatici sia per i logici; il termine comune e il termine discreto differiscono solo per il fatto che il termine comune è stato istituito per essere predicato di più soggetti. Dunque il termine “mondo” è stato istituito per essere predicato di più soggetti, il che non sarebbe vero se non potessero esistere più mondi; dunque, etc. 2. Ancora: possono esistere più dei, quindi possono esistere più mondi. La consequenzialità è evidente: infatti, per la ragione per cui un dio potrebbe creare un mondo, per la stessa ragione un altro dio potrebbe creare un altro mondo. […] 3. Ancora: se Dio ha potuto fare questo mondo, per la stessa ragione ne potrebbe fare un altro, non essendo egli di potenza inferiore alla prima. Esisterebbero così più mondi. 4. Ancora: non va negata la possibilità del meglio, se si concede quella del bene minore. Ma sarebbe meglio che esistessero numerosi mondi e anche numerosi dei piuttosto che ne esista uno solo: infatti più beni sono meglio di un bene solo, se tutte le altre condizioni restano invariate. Dunque non va negata la possibilità di più mondi o di più dei. 5. Ancora: se il mondo quest’anno o l’anno prossimo non rimane il medesimo, è chiaro che esisteranno più mondi, fra loro diversi. Ma il mondo quest’anno e l’anno prossimo non rimane lo stesso: molte sue parti infatti

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si corrompono nei corpi sublunari, e molte altre si generano, e così sarà un altro mondo, poiché il tutto non permane identico se non permangono identiche anche le parti. Aristotele sostiene il contrario. Si deve brevemente considerare che “mondo” può essere preso in molti significati. […] Ma c’è un altro significato di “mondo”, su cui ora ci soffermiamo, ed è quello di aggregato di corpi pesanti e leggeri che noi vediamo e delle sfere celesti che contengono questi corpi pesanti e leggeri; la questione verte su questa accezione di “mondo” e si domanda se è possibile che esistano più mondi siffatti. A questo proposito si deve notare che più mondi siffatti possono essere immaginati in due modi: nel primo modo si immaginano esistenti simultaneamente, come se ora fuori di questo mondo esistesse un altro mondo siffatto. In un altro modo si immaginano esistenti successivamente, ossia l’uno dopo l’altro. Circa il primo modo di immaginare, Aristotele ritiene che non è possibile l’esistenza di più mondi, perché ritiene che ciò importi contraddizione, ossia che la terra di un mondo si muoverebbe naturalmente verso il centro di un altro mondo. […] Ma per altra via egli dimostra che se ci fossero più mondi esistenti simultaneamente, seguirebbe che ci sarebbe più principi primi, ossia più dei. E ciò è assurdo, come risulta dal dodicesimo libro della Metafisica. La consequenzialità delle affermazioni è dimostrata dall’assoluta semplicità di Dio, e Aristotele ritiene che da un ente così semplice non possano derivare molteplici cose se non perché l’una diventa intermediaria per la derivazione dell’altra. Ma quei molteplici mondi, per il fatto di essere del tutto simili, non potrebbero derivare per l’intermediario dell’uno dall’altro; perciò non deriverebbero dall’unico Dio semplicissimo. Voi sapete tuttavia che questa argomentazione non regge; per fede infatti crediamo che Dio possa creare il mondo, anzi più mondi, e che li possa anche distruggere. Ma ora ci si domanda se più mondi possano esistere successivamente. Si noti che ciò può essere inteso in più modi: in un primo modo, che si succedano più mondi diversi fra loro totalmente; in un secondo modo, che siano diversi fra loro parzialmente. E tale diversità parziale può ancora essere intesa in due modi: in un primo modo, riguardo alle parti principali; in un secondo modo, riguardo alle parti meno principali. Pertanto affermo brevemente che, secondo la diversità totale, possono essere creati successivamente diversi mondi dalla potenza divina, ma non da una potenza naturale: i corpi celesti infatti non possono essere separati o corrotti da potenze naturali. Lo stesso io dico anche per la diversità parziale dei mondi quanto alle parti principali, poiché queste non sono generabili né corruttibili naturalmente: esse coincidono infatti con i corpi celesti. Ma parlando della diversità parziale dei mondi quanto alle parti meno principali, si deve dire che continuamente, giorno dopo giorno, il mondo è diverso; perché molte sue parti meno principali si corrompono e molte altre si ge-

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nerano. Il mondo pertanto non resta totalmente lo stesso, né diventa totalmente diverso, ma rimane identico nelle parti principali e maggiori, mentre diventa diverso parzialmente, riguardo alle parti minori e meno principali. Siccome la denominazione di un termine deve prevalentemente riferirsi alle parti principali, noi preferiamo dire che il mondo resta lo stesso piuttosto che dire che diventa ogni giorno diverso. Alle argomentazioni principali: 1. Alla prima si risponde facilmente dicendo che non solo il termine “mondo”, ma anche il termine “Dio” sono detti termini comuni e specifici, non perché in realtà suppongano per più enti, ma perché non ripugna a quei termini il supporre per più enti in rapporto al modo della loro significazione e imposizione, anche se ciò ripugna in rapporto alle realtà significate. Anzi, lo stesso termine “chimera” è un termine comune. 2. Alla seconda si risponde che non è in assoluto proprio di ogni ente perfetto il generare un ente simile a sé, ma ciò è vero solo in rapporto agli enti perfetti generabili e corruttibili. 3. Riguardo alla terza, concedo che Dio può creare molti altri mondi. 4. Alla quarta rispondo che non va negata la possibilità del bene e del meglio, dato che ogni bene o meglio rientra nei possibili, mentre nessuna cosa impossibile è bene o meglio. […] 5. L’ultima argomentazione arrivava ad una buona conclusione circa la pluralità dei mondi secondo la diversità spaziale. E così si è risposto alla questione.

 - Giovanni Buridano (Artois 1290 ca. - Parigi 1358 ca.) compose il commento al De caelo di Aristotele verso il 1340. Il testo riportato è tratto da: G. Buridano, Il cielo e il mondo, a cura di A. Ghisalberti, Rusconi, Milano 1983, pp. 194-199.

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Indice degli autori Abelardo, 29, 32

Gioacchino da Fiore, 48

Alano di Lilla, 42

Gregorio Magno, 11

Alberto Magno, 102

Grossatesta, 68

Anonimo cataro, 45

Guglielmo di Conches, 20

Anselmo d’Aosta, 26

Ildegarda, 39

Averroè, 55, 58

Innocenzo III, 75

Avicebron, 64 Avicenna, 52 Bernardo di Chiaravalle, 36 Boezio, 2 Bonaventura da Bagnoregio, 78

Lullo, 96 Maimonide, 61 Marsilio da Padova, 124 Ockham, 118, 121 Pier Damiani, 17

Buridano, 136

Pietro Olivi, 99

Dante, 127, 130

Ruggero Bacone, 72

Dionigi, 5

Scoto Eriugena, 8

Duns Scoto, 106, 109

Sigieri di Brabante, 112

Eckhart, 133 Fredegiso di Tours, 14

Tommaso d’Aquino, 81, 84, 87, 90, 93

Giacomo da Viterbo, 115

Ugo di San Vittore, 23

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