Filosofia e Popular music. Da Zappa ai Beach Boys, dai Doors agli U2 8857513858, 9788857513850

La popular music - espressione che abbraccia il vasto territorio comprendente rock, pop, folk, hip hop e altri fenomeni

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Filosofia e Popular music. Da Zappa ai Beach Boys, dai Doors agli U2
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Il caffè dei filosofi n. 45 Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

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COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università dell’Insubria, Varese) Claudio Bonvecchio (Università dell’Insubria, Varese) Antimo Cesaro (Università degli Studi di Napoli Federico II) Pierre Dalla Vigna (Università dell’Insubria, Varese) Bernardo Nante (Universidad del Salvador, Buenos Aires, Argentina) Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste) Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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FILOSOFIA E POPULAR MUSIC

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Da Zappa ai Beach Boys, dai Doors agli U2 a cura di Donato Ferdori Stefano Marino

MIMESIS Il caffè dei filosofi

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana, Il caffè dei filosofi n. 45 Isbn: 9788857513850 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

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INTRODUZIONE di Donato Ferdori e Stefano Marino

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LA MUSICA COME FORMA DI CONOSCENZA Considerazioni sull’estetica musicale di Theodor W. Adorno e l’opera di Frank Zappa di Stefano Marino

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IL KITSCH APOLLINEO L’estetica dei Beach Boys di Andrea Mecacci

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JIM MORRISON, JANIS JOPLIN E MICHEL FOUCAULT Vita, morte ed estetica dell’esistenza di Adele Ricciotti

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CUORE E ANIMA Il conflitto tra eros e agape nei testi di Joy Division e U2 di Donato Ferdori

81

FINIRE IL LAVORO La Second Summer of Love (1988-90) di Massimo Palma

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THE DANCE OF ETERNITY Breve ‘improvvisazione’ su musica assoluta e progressive metal di Marco Jacobsson

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PROFILO DEGLI AUTORI

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BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

“Filosofia e popular music”: un binomio che, a prima vista, potrebbe apparire inusuale, improbabile, bizzarro, e persino destare qualche perplessità. Secondo un modo di vedere abbastanza consolidato, infatti, oggetto precipuo della riflessione filosofica sarebbero questioni della massima ‘profondità’, laddove si è soliti associare alla popular music, invece, un’impressione di ‘superficialità’. Inoltre, va anche detto che quando i filosofi hanno rivolto la propria attenzione ai fenomeni artistici (nella fattispecie, musicali), ciò è avvenuto perlopiù nella direzione di opere, correnti e autori abitualmente considerati più ‘seri’ ed ‘elevati’ rispetto a tutto ciò che reca il marchio ‘degradante’ del popular. Come esempio paradigmatico valga il caso di Heidegger, il quale, al principio del secondo paragrafo del suo saggio seminale L’origine dell’opera d’arte, si premura di chiarire al lettore che è “della grande arte – e di questa soltanto [che] qui si discorre”.1 Tale esempio, dicevamo, va assunto come paradigmatico, dunque come rappresentativo di un atteggiamento non limitato al solo Heidegger ma, anzi, comune a quasi tutti i maggiori protagonisti della filosofia dell’arte occidentale, anche a prescindere dalle varie suddivisioni/contrapposizioni tra tendenze e stili di pensiero differenti. E, d’altra parte, va anche detto che lavori importanti di natura enciclopedica sulla popular music, tra le centinaia di voci riservate ai vari aspetti di quest’ultima, non a caso non ne contemplano alcuna dal

1

M. Heidegger, Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 25 (corsivo nostro). Bisogna pure dire che Heidegger, anche qui in maniera per così dire esemplificativa dell’atteggiamento di molti filosofi, non si premura affatto di chiarire che cosa debba intendersi esattamente per “grande arte”, lasciando cioè il concetto indeterminato e mostrando di confidare sulla sua immediata comprensibilità. Un’indicazione, comunque, si può facilmente trarre dagli esempi citati nel suo saggio: “un quadro […] di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino”, “gli inni di Hölderlin”, “i quartetti di Beethoven”, “gli Egineti [custoditi] nel museo di Monaco o l’Antigone di Sofocle”, infine “un tempio greco” (Ivi, pp. 5 e 26-27).

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Filosofia e popular music

titolo “Philosophy of Popular Music”.2 Il che, alla luce di quanto è stato appena detto, non desterà probabilmente alcuno stupore. Infatti, anche quando i grandi studiosi e pensatori della tradizione occidentale hanno preso in considerazione le cosiddette forme d’arte ‘leggere’ (non troppo spesso, per la verità…), ciò è avvenuto perlopiù allo scopo di contestarle, demolirle impietosamente, demonizzarle in quanto mezzi che “riducono lo spettatore ad un ruolo passivo, lo costringono in uno stato di minorità e costituiscono una perdita globale di esperienza”.3 Tuttavia, bisogna anche dire che, in tempi recenti, molte cose sembrano esser cambiate rispetto a una situazione – che appariva ben consolidata fino a pochi anni prima – di assoluta impermeabilità dei filosofi alla cultura popular. In primo luogo, va ricordato che quel complesso e per certi versi ambiguo fenomeno che è stato il postmodernismo, se in generale “ha significato qualcosa”, ha rappresentato “soprattutto un gigantesco rimescolamento dei rapporti tra arte alta e arte di massa, che ha fatto saltare moltissime barriere ed ha visto un generale processo di scambi, ribaltamenti, osmosi tra i due livelli”.4 In secondo luogo, e in stretto collegamento con quanto è stato appena detto, va aggiunto che numerosi filosofi hanno spinto nella direzione di una rideterminazione dei rapporti tra le dimensioni poc’anzi citate della ‘superficie’ e della ‘profondità’. Non essendo qui possibile sviluppare questo discorso fino in fondo, con dovizia di riferimenti e citazioni, ci limiteremo a ricordare l’opinione di uno soltanto tra i protagonisti del dibattito contemporaneo – secondo Zygmunt Bauman, addirittura “il più grande di tutti i filosofi oggi [scil. nel 2000] attivi”, nel senso che, “dopo quello che ha dichiarato, non si può più filosofare come prima”5 –, e cioè Richard Rorty, il quale afferma: “Non credo che la filosofia abbia un oggetto particolare. Alcune persone passano il tempo a pensare alla morte, altre al sesso o ai soldi. Non penso che

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Ci riferiamo, ad esempio, a C. Larkin (a cura di), The Encyclopedia of Popular Music, 8 voll., MacMillan, London 1998, oppure a D. Clarke, The Penguin Encyclopedia of Popular Music, Penguin Books, London 1998. P. D’Angelo, Arte di massa, in Id. (a cura di), Le arti nell’estetica analitica, Quodlibet, Macerata 2008, p. 161. Per la precisione, D’Angelo fa qui riferimento all’opinione di Günther Anders sull’industria culturale e i mezzi di comunicazione di massa, ma la considerazione è chiaramente estendibile anche agli altri autori ‘anti-popular’ che egli passa rapidamente in rassegna all’inizio del suo saggio (Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Clement Greenberg, Dwight Macdonald). P. D’Angelo, op. cit., p. 175. Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, tr. it. di V. Verdiani, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 91.

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Introduzione

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uno di questi argomenti sia per sua natura più filosofico dell’altro”.6 In una prospettiva di questo tipo – associabile non soltanto al nome di Rorty, come dicevamo, ma più in generale al mutato clima culturale degli ultimi decenni – si capisce facilmente come divenga possibile elevare al rango di oggetto degno di un’indagine filosofica anche la popular music, al pari di molti altri fenomeni precedentemente soggetti a una forzata esclusione. È il caso, ad esempio, di un fenomeno certamente ‘superficiale’, ma nondimeno centrale nella modernità, come la moda – giustamente definita “un sistema sociale simbolico”, “una via di comunicazione tra mondo interiore e mondo esterno”, un’“area emarginata del contingente, del decorativo, del futile”, dalla quale pure “può germogliare […] un nuovo ordine culturale”7 –, a proposito del cui rapporto con la filosofia è stato scritto: Non si può certo dire, in ogni caso, che la moda sia un argomento à la page nelle scienze filosofiche. […] Tradizionalmente, infatti, la moda non è stata considerata come un oggetto degno di studio, e non ha ottenuto lo stesso riconoscimento attribuito ad esempio alla scultura o all’architettura. […] Se guardiamo indietro nella storia della filosofia, non troviamo un granché [ed] è sbalorditivo quanto poco sia il materiale a cui attingere in seno alla tradizione filosofica. Gli unici due filosofi di mia conoscenza che hanno dedicato libri interi alla moda sono Georg Simmel e Gilles Lipovetsky (anche se suppongo che i sociologi obietterebbero che Simmel è un loro uomo). In fondo scrivere di moda contrasta con l’essenza della filosofia. A partire da Platone abbiamo distinto tra la realtà in sé da una parte, e le sue rappresentazioni dall’altra, tra la profondità e la superficie. E la moda è sempre superficie. […] Il fatto che la moda sia stata negletta dai filosofi sembra derivare dalla concezione secondo cui il fenomeno è troppo superficiale perché gli si possa concedere un’analisi seria. […] Negli ultimi anni [però] le cose sono alquanto cambiate e stanno uscendo una valanga di pubblicazioni accademiche sull’argomento.8

6 7 8

R. Rorty, Verità e libertà. Conversazioni con Richard Rorty, tr. it. di B. Amali, Transeuropa, Massa 2008, p. 46 (trad. leggermente modificata). E. Wilson, Vestirsi di sogni. Moda e modernità, tr. it. di M. Giambò, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 258-259. L. Svendsen, Filosofia della moda, tr. it. di C. Falcinella, Guanda, Parma 2006, pp. 16-17. Giova ricordare a Svendsen, comunque, che accanto allo Simmel del saggio La moda (tr. it. di L. Perucchi, SE, Milano 1996) e al Lipovetsky de L’impero dell’effimero. La moda nelle società moderne (tr. it. di S. Atzeni, Garzanti, Milano 1989) bisogna citare anche Vischer e Fink tra i filosofi che hanno scritto testi interamente dedicati all’argomento (cfr. F.Th. Vischer, Wieder einmal über die Mode, in Id., Mode und Cynismus. Beiträge zur Kenntnis unserer Culturformen und Sittenbegriffe, Kadmos, Berlin 2006, pp. 9-82; e E. Fink, Mode… ein verführerisches Spiel, Birkhäuser Verlag, Basel-Stuttgart 1969).

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Filosofia e popular music

Alla luce di tutto ciò, dunque, non apparirà forse sorprendente il fatto che, in parziale controtendenza rispetto al mainstream filosofico appena descritto (“a partire da Platone…”), negli ultimi decenni si sono registrate importanti aperture al mondo della cultura popular (ivi inclusa la musica, ovviamente) da parte degli studiosi di estetica. Chiaramente, non essendo possibile affrontare tale questione in riferimento all’intera filosofia dell’arte tardo-novecentesca e dell’inizio del XXI secolo, ci limiteremo a citare alcuni esempi rappresentativi dei principali indirizzi dell’estetica contemporanea. Così, in riferimento all’estetica analitica, si possono ricordare – seguendo le utili indicazioni di Paolo D’Angelo9 – gli studi di David Novitz, John A. Fisher e Noël Carroll sull’argomento, dai quali, alla fine, emerge come “l’arte di massa” – contrariamente a quanto sostenuto dagli ‘apocalittici’,10 di qualsiasi scuola di pensiero e di ogni epoca – “non [sia] strutturalmente condannata alla mediocrità”.11 Nell’ambito degli sviluppi in campo estetico del pragmatismo americano, poi, è certamente il caso di menzionare l’opinione di Richard Shusterman, il quale – nel quarto capitolo della sua Estetica pragmatista – scrive: L’arte popolare non ha avuto popolarità tra gli studiosi di estetica e i teorici della cultura, per lo meno non nella loro attività professionale. Quando non del tutto ignorata perché disprezzata, essa viene solitamente declassata a spazzatura senza valore e senza gusto. La denigrazione dell’arte popolare o della cultura di massa […] offre una rara occasione in cui reazionari di destra e marxisti radicali si prendono per mano e fanno causa comune. È difficile opporsi a una così potente coalizione di pensatori per difendere l’arte popolare. Eppure è esattamente questo il mio scopo […]. La ragione più forte e urgente per la difesa dell’arte popolare è che essa procura (persino a noi intellettuali) una soddisfazione estetica troppo grande per accettarne la denuncia a buon mercato in quanto degradata, disumanizzata ed esteticamente illegittima. Condannarla come adatta al solo gusto barbaro e allo spirito ottuso delle masse ignoranti e manipolate, significa separarci non solo dal resto della nostra comunità ma anche da noi stessi.12 9

10 11 12

Cfr. P. D’Angelo, op. cit., pp. 168-169. I testi a cui D’Angelo fa riferimento sono, nello specifico: D. Novitz, Ways of Artmaking: The High and the Popular in Art (in «British Journal of Aesthetics», a. XXIX, n. 3, 1989, pp. 213-229), J.A. Fisher, High Art versus Low Art (in B. Gaut, D.M. Lopes [a cura di], The Routledge Companion to Aesthetics, Routledge, London 2001, pp. 527-540) e N. Carroll, A Philosophy of Mass Art (Clarendon Press, Oxford 1998). Il riferimento, chiaramente, è alla celebre dicotomia tra “apocalittici” e “integrati” proposta da Umberto Eco nell’omonimo saggio (Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964). P. D’Angelo, op. cit., p. 174. R. Shusterman, Estetica pragmatista, tr. it. di T. Di Folco, a cura di G. Matteucci, Aesthetica, Palermo 2010, pp. 121-122.

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Introduzione

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Infine, in riferimento all’estetica continentale, è degno di nota il riferimento di Hans-Georg Gadamer, alla fine del suo saggio L’attualità del bello. Arte come gioco, simbolo e festa, ai “dischi delle moderne canzoni, tanto amate oggi dalla gioventù”, in quanto forme d’arte “altrettanto legittim[e]”13 rispetto alle tragedie greche, al corale gregoriano o alle Passioni bachiane. Scrive infatti il padre dell’ermeneutica contemporanea, mostrando di avere in mente, peraltro, proprio la popular music: La possibilità […] di esprimersi e di instaurare la comunicazione è uguale in [tutti] i casi, tanto da raggiungere tutte le classi e tutti i presupposti culturali. E con questo non intendo l’ebbrezza del contagio psicologico della massa, che anche esiste, e che certamente è stato sempre un effetto collaterale di una autentica esperienza di comunità. […] L’ebbrezza come tale non è una comunicazione stabile. Ma è invece un fatto certamente significativo che i nostri giovani trovino l’espressione di se stessi, e nel modo più naturale possibile, in un certo essere accompagnati dalla musica, come bisogna chiamarlo […]. Chi crede che la nostra arte sia una pura e semplice arte dei ceti elevati, si sbaglia enormemente. Chi pensa così […] dimentica anche i mezzi di comunicazione di massa e l’effetto della loro diffusione nel tutto della nostra società. Non dobbiamo certo disconoscere che v’è sempre la possibilità di un uso ragionevole di tali cose.14

Tenendo conto delle considerazioni svolte poc’anzi e di questi ultimi esempi, tratti direttamente dalle principali correnti che hanno animato e continuano ad animare il dibattito filosofico-artistico della contemporaneità, riteniamo allora che il binomio “filosofia e popular music” possa apparire adesso meno inusuale o improbabile di quanto non potesse forse sembrare a prima vista. Anzi, riteniamo che esso possa ora apparire legittimo e degno di una raccolta di saggi articolata e complessa come quella che proponiamo qui tanto ai lettori di filosofia quanto agli appassionati di musica. A conferma di ciò, vorremmo anche ricordare come ricerche di questo genere godano ormai da diversi anni di una certa diffusione nel panorama filosofico anglosassone, peraltro anche a livelli elevati di studio, per così dire: vale a dire, al livello di studi condotti da specialisti della disciplina e filosofi di professione (al contempo fan di artisti o gruppi musicali popular), come dimostrato da molti dei contributi inclusi nelle colla-

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H.-G. Gadamer, L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, tr. it. di L. Bottani e R. Dottori, Marietti, Genova 1986, p. 55. Ibid.

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Filosofia e popular music

ne “Philosophy and Pop Culture”15 e “Popular Culture and Philosophy”,16 rispettivamente pubblicate da prestigiosi editori come Wiley-Blackwell e Open Court. A proposito del libro Filosofia e popular music, peraltro, è bene precisare da subito che esso non intende proporsi come un manuale o una raccolta di scritti in grado di (o, quantomeno, intenzionati a) fornire un resoconto completo, esaustivo e sistematico sull’argomento. Tale obiettivo esula infatti dagli scopi del presente volume, che consiste piuttosto di singole analisi, relativamente autonome le une dalle altre – seppur chiaramente unite da un medesimo oggetto generale (la popular music) e da un medesimo ‘metodo’ o, meglio, approccio (quello mirante a individuare e sviscerare gli elementi filosofici, nel senso più ampio del termine, presenti nei vari momenti, tendenze e protagonisti musicali di volta in volta presi in esame) – e, pertanto, tese a comporre un mosaico in grado di restituire, proprio in virtù della sua relativa asistematicità, il carattere composito e variegato di un universo molteplice come pochi altri qual è appunto quello della popular music. In conclusione, riteniamo opportuno fornire una precisazione ulteriore sul titolo del libro o, più precisamente, sul secondo dei concetti cui esso fa riferimento, ossia proprio quello di popular music. Ci si potrebbe infatti chiedere, anche legittimamente, perché si sia optato per questa espressione 15

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Si vedano ad esempio, in questa collana, le seguenti raccolte: W. Irwin (a cura di), Metallica and Philosophy: A Crash Course in Brain Surgery (Wiley-Blackwell, Malden-Oxford 2007); Id. (a cura di), Black Sabbath and Philosophy: Mastering Reality (Wiley-Blackwell, Malden-Oxford 2012). Cfr. i seguenti volumi: C. Porter, P. Vernezze (a cura di), Bob Dylan and Philosophy: It’s Alright Ma (I’m Only Thinking) (Open Court, Chicago-La Salle 2006); M.A. Wrathall (a cura di), U2 and Philosophy: How to Decipher an Atomic Band (Open Court, Chicago-La Salle 2006); M. e S. Baur (a cura di), The Beatles and Philosophy: Nothing You Can Think that Can’t Be Thunk (Open Court, Chicago-La Salle 2006); S. Gimbel (a cura di), The Grateful Dead and Philosophy: Getting High Minded about Love and Haight (Open Court, Chicago-La Salle 2007); G.A. Reisch (a cura di), Pink Floyd and Philosophy: Careful with that Axiom, Eugene! (Open Court, Chicago-La Salle 2007); J. Huss, D. Werther (a cura di), Johnny Cash and Philosophy: The Burning Ring of Truth (Open Court, Chicago-La Salle 2008); R.E. Auxier, D. Anderson (a cura di), Bruce Springsteen and Philosophy: Darkness on the Edge of Truth (Open Court, Chicago-La Salle 2008); B.W. Forbes, G.A. Reisch (a cura di), Radiohead and Philosophy: Fitter Happier More Deductive (Open Court, Chicago-La Salle 2009); S. Calef (a cura di), Led Zeppelin and Philosophy: All Will Be Revealed (Open Court, Chicago-La Salle 2009); J. Berti, D. Bowman (a cura di), Rush and Philosophy: Heart and Mind United (Open Court, Chicago-La Salle 2011).

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Introduzione

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e non, ad esempio, per altre formule spesso considerate come suoi sinonimi e usate come tali, quali ‘musica leggera’, ‘musica pop-rock’, ‘musica di massa’, ‘musica di consumo’ o ‘musica popolare’. Le ragioni per una tale scelta, in sintesi, sono state bene espresse dal sociologo Marco Santoro, curatore dell’edizione italiana di uno dei testi classici e canonici di questo campo di studi, il saggio Sulla popular music di Theodor W. Adorno. Spiega infatti Santoro di aver mantenuto in inglese “la formula popular music”, nella sua traduzione del saggio adorniano, per rispettare la ben nota assenza di un suo esatto equivalente nella lingua italiana, che non siano le scontate ma pregiudizievoli espressioni “musica leggera” […] o appunto “musica popolare”, nell’uso italiano riferit[a] abitualmente a ciò che in inglese si dice piuttosto folk music […]. Insoddisfacente sarebbe stata anche la scelta del termine pop, originariamente contrazione di popular ma ormai acquisita come parola identificativa di un non ben identificabile sottoinsieme (genere?) della musica popular, più facile e commerciale di altri. Quanto alle formule “musica di consumo” e “musica di massa”, da taluni utilizzate, è sin troppo scoperta l’ipoteca ideologica e polemica che le regge.17

Si tratta di considerazioni a nostro giudizio condivisibili e corrette, che possono trovare un’utile integrazione, peraltro, in quanto hanno scritto sull’argomento musicologi come Richard Middleton o, in Italia, Franco Fabbri. Partendo da quest’ultimo, si può ulteriormente osservare, a proposito dei rapporti tra i concetti di popular music e musica popolare, che optare per il primo concetto “non è uno snobismo”18 ed ha, piuttosto, a che fare con un’elementare esigenza di chiarezza. Scrive infatti Fabbri: In Italia c’è una traduzione di discorsi e di studi intorno alla musica popolare,19 e si è sempre sottinteso che si trattasse della musica di tradizione orale. Il riferimento dominante, per quell’aggettivo, è la nozione di “popolo”. C’entra Gramsci, naturalmente. Nei paesi anglosassoni sussiste perlomeno un’ambiguità tra popular come “del popolo” e popular inteso come “che piace a molti”, con una certa prevalenza del riferimento alla popolarità. Dato che in quella lingua la musica di tradizione orale era già indicata dal senso comune 17 18 19

M. Santoro, Nota del curatore, in T. W. Adorno, Sulla popular music, tr. it. di M. Santoro, Armando, Roma 2004, p. 64. F. Fabbri, Il suono in cui viviamo. Saggi sulla popular music, il Saggiatore, Milano 2008, p. 17. Segnaliamo che il testo originale recita, come riportato, “in Italia c’è una traduzione di discorsi e di studi […]”, ma che, dato il contesto e il senso generale del discorso, riteniamo si tratti di un refuso e che la frase, dunque, debba suonare “in Italia c’è una tradizione di discorsi e di studi […]”.

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Filosofia e popular music

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come folk music, non c’era dubbio che parlando di popular music si intendesse la musica di larga diffusione che circola attraverso media come il disco, la radio, la televisione. Così, quando una ventina di anni fa è stata riconosciuta la necessità di un campo di studi che affrontasse le musiche dei media, si è cominciato a parlare di popular music studies. […] Purtroppo, “musica popolare” non è una traduzione accettabile di popular music.20

Ciò, d’altra parte, non elimina del tutto le difficoltà nel circoscrivere l’esatto campo di applicazione del concetto di popular music, come segnalato da Middleton nelle prime pagine del primo capitolo del suo importante libro Studiare la popular music. Partendo dalla constatazione che la risposta più ovvia alla domanda “Che cos’è la popular music?” – risposta che suona: “tutta la musica [è] popular music, nel senso che è gradita (‘popular’) almeno a qualcuno” – è insufficiente, perché svuota il concetto “di gran parte dei significati di cui è investito nel discorso corrente”, Middleton evidenzia come tali significati siano “radicati socialmente e storicamente: essi portano il segno di particolari contesti e usi, e non sono mai neutrali”.21 È per questo che, secondo Middleton, nessuna delle definizioni di popular music abitualmente proposte dagli studiosi,22 così come nessuno dei metodi “più frequenti, sia nel discorso quotidiano sia negli approcci accademici”,23 impiegati per trattarne, appare del tutto soddisfacente. La sua conclusione, infatti, è che un fenomeno come quello della popular music può essere “inquadrat[o] opportunamente soltanto come fenomeno mutevole all’interno dell’intero campo musicale; e questo campo, insieme ai suoi rapporti interni, non è mai immo-

20 21 22

23

F. Fabbri, Il suono in cui viviamo, cit., pp. 17-18. Per un profilo storico dell’intera vicenda relativa ai molteplici percorsi della popular music, rimandiamo a F. Fabbri, Around the Clock. Una breve storia della popular music, UTET, Torino 2008. R. Middleton, Studiare la popular music, tr. it. di M. Mele, Feltrinelli, Milano 2001, p. 19. Per la precisione, Middleton distingue: “1) Definizioni normative. Popular music come tipo di musica inferiore. 2) Definizioni negative. La popular music è musica che non sia qualche altro genere di musica (generalmente musica ‘folk’ o ‘seria’). 3) Definizioni sociologiche. La popular music è connessa (è prodotta per o da) a un particolare gruppo sociale. 4) Definizioni tecnologico-economiche. La popular music è diffusa dai mass media e/o in un mercato di massa” (Ivi, p. 20). Middleton riprende peraltro tale tassonomia dal saggio di F.A.J. Birrer, Definitions and Research Orientation: Do We Need a Definition of Popular Music?, in «Popular Music Perspectives», n. 2, 1985, pp. 99-105. R. Middleton, op. cit., p. 21. In particolare, il musicologo inglese fa riferimento a due metodi o approcci: quello “positivista [che] si concentra sul senso quantitativo di ‘popular’” e quello definibile “in termini di essenzialismo sociologico i [cui] presupposti di base sono qualitativi e non quantitativi” (Ivi, pp. 21 e 23).

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Introduzione

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bile – è sempre in movimento”.24 Ciò, evidentemente, costringe a effettuare delle scelte preliminari circa il senso stesso e il taglio che si intendono conferire alle proprie indagini e, al pari di Middleton – il quale, nel suo libro, sceglie di occuparsi “in modo quasi […] esclusivo di popular music nelle società ‘sviluppate’ dell’Occidente industrializzato”25 –, anche noi in questo volume abbiamo deciso di concentrarci soltanto su questo tipo di repertorio e di storia musicale. Sotto questo punto di vista, forse il libro avrebbe potuto intitolarsi anche Filosofia e musica rock (o musica pop), sennonché abbiamo ritenuto che popular music risultasse più consono, sia per il suo uso ormai consolidato – come abbiamo appena visto – in sede propriamente musicologica, sia perché potenzialmente dotato di una maggiore estensione e più ampie possibilità di applicazione (giusto per fare un esempio, mentre si può dubitare che la produzione musicale di un artista come Brian Eno – ma gli esempi potrebbero essere molti – sia sussumibile sotto il concetto di ‘rock’, sicuramente non pone alcun problema annoverarla tra la popular music). In definitiva, comunque, non rientra fra gli scopi del presente volume chiarire una volta per tutte la questione relativa all’esatto campo semantico del termine popular music. Lasciamo tale questione agli specialisti del settore, ossia ai musicologi; quel che ci premeva specificare, in sede di Introduzione, erano solamente le ragioni sottostanti all’adozione di una certa terminologia. Quello che ci auguriamo, in qualità di curatori dell’opera, è piuttosto che la lettura dei saggi qui presentati possa condurre il lettore alla scoperta dell’implicita, o talvolta esplicita, ‘filosoficità’ insita in alcuni aspetti, forme e protagonisti del complesso mondo della popular music. Inoltre, crediamo che sarebbe senz’altro un bene se un’operazione come Filosofia e popular music (insieme ad altre auspicabili iniziative analoghe, anche di taglio diverso: sociologico, antropologico, psicologico ecc.) potesse fornire un contributo, magari anche modesto ma comunque non irrilevante, al riavvio e al ripensamento di un inveterato dibattito: quello, cioè, sui rapporti tra musica ‘seria’ e musica ‘leggera’ (o, appunto, popular), dibattito significativamente definito da uno dei principali musicologi del Novecento, Carl Dahlhaus, come “un dialogo tra sordi”…26 Donato Ferdori Stefano Marino

24 25 26

Ivi, p. 24. Ivi, p. 14. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, Che cos’è la musica?, tr. it. di A. Bozzo, il Mulino, Bologna 2004, p. 68.

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STEFANO MARINO

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LA MUSICA COME FORMA DI CONOSCENZA Considerazioni sull’estetica musicale di Theodor W. Adorno e l’opera di Frank Zappa A mio cugino Massimo, per avermi introdotto a Zappa prestandomi tanti anni fa l’LP di Joe’s Garage (che spero di avergli restituito, nel frattempo…)

“L’informazione non è conoscenza / La conoscenza non è saggezza / La saggezza non è verità / La verità non è bellezza / La bellezza non è amore / L’amore non è musica / La musica è IL MEGLIO (Music is THE BEST)”. Sono queste, probabilmente, le parole più famose e ancora oggi più citate di Frank Zappa, pronunciate dal personaggio di Mary nel brano “Packard Goose” tratto dal terzo atto dell’opera rock Joe’s Garage (1979).1 Ora, dalla succitata catena di affermazioni contenute in “Packard Goose” si potrebbe evincere, procedendo a ritroso dall’ultima alla prima frase, che la musica, essendo “il meglio” o “la migliore cosa che esista”, non sia amore, né bellezza, né verità, né saggezza, né conoscenza, né infine informazione. In base a questa lettura, dunque, la musica non sembrerebbe essere per Zappa una fonte di conoscenza. Com’è noto, tuttavia, una lunga tradizione all’interno della storia del pensiero occidentale non ha esitato ad assegnare proprio all’arte (nella fattispecie, alla musica) un’importante funzione conoscitiva, e nel corso del Novecento l’autore che ha forse sostenuto con più tenacia, autorevolezza e forza argomentativa la tesi di un carattere conoscitivo insito 1

Non ritengo necessario scendere qui nei dettagli riguardo alla trama dell’opera, ai suoi personaggi e ai vari momenti del suo svolgimento. A tal proposito, rimando, oltre che naturalmente al booklet allegato al disco di Zappa, alle sintesi della trama proposte da N. Slaven, Frank Zappa: il Don Chisciotte elettrico, tr. it. di S. Focacci, Tarab, Firenze 1997, pp. 248-249, e da E. Assante, G. Castaldo, 33 dischi senza i quali non si può vivere. Il racconto di un’epoca, Einaudi, Torino 2007, pp. 129-131, nonché al commento ai testi delle singole canzoni di Joe’s Garage svolto da M. Pizzi, Frank Zappa for president! Testi commentati, Arcana, Milano 2011, pp. 352-376.

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Filosofia e popular music

nella musica è stato Theodor W. Adorno, esponente di spicco della teoria critica della cosiddetta Scuola di Francoforte. A dispetto del fatto che il pensatore francofortese, com’è noto, nutrisse fortissime riserve nei confronti della popular music, il mio tentativo nel presente contributo sarà proprio quello di lasciar interagire liberamente fra loro, per così dire, l’estetica musicale di Adorno e la poetica di Zappa. Ciò, nella convinzione che una tale interazione possa risultare utile tanto al chiarimento di alcuni aspetti decisivi dell’opera di Zappa, quanto alla comprensione (e, in alcuni casi, anche alla ‘correzione’) di determinati momenti della concezione filosoficosociologica della musica di Adorno.

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1. La teoria adorniana della popular music Prima di entrare in medias res e sviluppare il tentativo di un’analisi ‘adorniana’ della musica di Zappa, ritengo però opportuno premettere alcune brevi considerazioni introduttive sulla concezione della popular music del filosofo tedesco, il quale vedeva in quest’ultima un momento fondamentale di quel fenomeno più generale, a suo giudizio caratteristico delle odierne società di massa fondate sul potere dei media, che è l’industria culturale come “mistificazione di massa”.2 In estrema sintesi, nel saggio Sulla popular music3 – pubblicato nel 1941 sulla rivista «Studies in Philosophy and Social Science» e riconosciuto, anche “a distanza di decenni dalla sua pubblicazione, […] come ‘uno dei due o tre lavori più penetranti sull’argomento’”4 – Adorno prende le mosse dall’abituale tendenza a carat-

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Cfr. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1997, pp. 126-181. Sull’interpretazione adorniana della popular music, contestualizzata all’interno della sua più ampia teoria sulla società di massa, cfr. M. Paddison, Adorno, Popular Music and Mass Culture, in Id., Adorno, Modernism and Mass Culture, Kahn & Averill, London 1996, pp. 81-105. Il saggio rappresenta il frutto più maturo della collaborazione di Adorno al Princeton Radio Research Project, finanziato dalla Rockefeller Foundation e diretto dal sociologo Paul Lazarsfeld. Su questo momento della vita e della carriera di Adorno, in generale, si vedano R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico, tr. it. di P. Amari, E. Grillo, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 245-255, e S. Müller-Doohm, Theodor W. Adorno. Biografia di un intellettuale, tr. it. di B. Agnese, Carocci, Roma 2003, pp. 327-342. M. Santoro, Adorno e la sociologia critica della musica (popular), in T. W. Adorno, Sulla popular music, tr. it. di M. Santoro, Armando, Roma 2004, p. 9. Le parole tra virgolette riportate all’interno della citazione dal saggio introduttivo di Santoro sono tratte dal contributo di B. Gendron, Theodor Adorno Meets the Cadillacs, in

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- La musica come forma di conoscenza

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terizzare la cosiddetta musica leggera5 nei termini della sua differenza dalla musica seria. Tale differenza, rileva Adorno, viene “generalmente data per scontata”, né egli mostra l’intenzione di rivederla nel suo impianto e metterla realmente in discussione; lo scopo di Adorno, piuttosto, è quello di tradurre “questi cosiddetti livelli in termini più precisi, sia musicali che sociali, in modo non solo da delimitarli in termini univoci ma anche da gettare luce sull’intero sistema delle due sfere musicali”.6 Per far ciò, egli ritiene opportuno individuare la quintessenza o, per usare i suoi termini, la “caratteristica fondamentale” di tutta la popular music, consistente nella “standardizzazione” che “si riscontra ovunque, dalle caratteristiche più generali a quelle più particolari” dei brani: “L’intera struttura della popular music”, scrive Adorno, “è standardizzata, anche laddove venga fatto il tentativo di aggirare la standardizzazione”.7 Senza soffermarci qui sull’interessante analisi adorniana circa il rapporto totalità formale/dettagli particolari nella musica – analisi per molti aspetti anche calzante, nel senso che essa si può indubbiamente applicare a una buona parte del repertorio musicale popular, seppure a mio giudizio non certo alla totalità di tale repertorio – diciamo solamente che, per Adorno, ciò a cui mira la “standardizzazione strutturale” (relativa, cioè, alla struttura stessa della composizione musicale) è produrre un insieme di “reazioni standardizzate”8 nell’ascoltatore. Non a caso, egli parla esplicitamente di un “carattere imposto dall’alto, commerciale, di quei modelli [scil. della popular music] che tendono a reazioni prestabilite”9 nell’ascoltatore; e, ancora, di un “ascolto della musica popular” che è “consapevolmente trasformato, non solo dai suoi promotori, ma per così dire dalla natura intrinseca di questa stessa musica, in un sistema di meccanismi reattivi totalmente antagonistici all’ideale di individualità in una società libera e liberale”.10 Con una delle sue celebri, fulminanti sentenze, dichiara allora il filosofo francofortese:

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T. Modleski (a cura di), Studies in Entertainment: Critical Approaches to Mass Culture, Indiana University Press, Bloomington 1986, pp. 18-36. Si possono considerare i termini popular music e “musica leggera” praticamente come sinonimici in Adorno, come dimostrato dal fatto che proprio Leichte Musik sarà il titolo del secondo capitolo dell’Introduzione alla sociologia della musica, frutto di una ripresa del saggio del 1941 (cfr. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1971, pp. 26-47). T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 65. Ivi, pp. 66-67. Ivi, p. 75. Ivi, p. 66 n. Ivi, p. 75.

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Filosofia e popular music

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La composizione ascolta per conto dell’ascoltatore. Questo è come la popular music spoglia l’ascoltatore della sua spontaneità e promuove riflessi condizionati. […] La costruzione schematica detta le condizioni a cui egli deve ascoltare mentre, allo stesso tempo, rende inutile ogni sforzo nell’ascolto. La musica popular è “predigerita”. […] La standardizzazione delle canzoni di successo tiene per così dire i clienti in riga ascoltando per essi.11

Secondo Adorno, d’altra parte, una siffatta “stilizzazione di un sempre identico schema generale” rappresenta “solo un aspetto della standardizzazione”, al quale deve necessariamente fare da complemento (al fine di soddisfare la richiesta, comunque proveniente dagli ascoltatori, di “stimoli che risveglino l’attenzione”) un altro aspetto, quello della “pseudoindividualizzazione”.12 Nota infatti Adorno che “la concentrazione e il controllo nella nostra cultura si nascondono dietro le loro stesse manifestazioni”, nel senso che, se tali meccanismi venissero rivelati, essi “provocherebbero resistenza” nel pubblico; pertanto, “l’illusione […] della realizzazione individuale”, la parvenza di un contributo autenticamente soggettivo presente in ogni canzone, “devono essere mantenut[e]”: la pseudo-individualizzazione – concetto con cui Adorno indica “la dotazione, sulla base della standardizzazione medesima, della produzione culturale di massa con l’aura della libera scelta” – “tiene in riga” gli ascoltatori, “facendo scordare loro che ciò che ascoltano è già stato ascoltato, o ‘pre-digerito’, per loro”.13 Solo in questo modo, a suo giudizio, l’industria culturale – che è, per così dire, l’entità onnipotente14 postulata da Adorno alle spalle dell’in11 12 13 14

Ivi, pp. 76 e 81 (corsivo mio). Ivi, pp. 78 e 80. Ivi, pp. 80-81. Nel saggio sulla popular music è lo stesso Adorno a parlare di “onnipotenza della stessa produzione meccanica e industriale”, nell’ambito di un ragionamento incentrato su un tema sociologico generale come la “meccanizzazione del lavoro e [la] vita quotidiana delle masse”, ma chiaramente applicabile, nel particolare, anche alle dinamiche dell’industria musicale (Ivi, p. 89). Espressioni analoghe si possono trovare anche nel capitolo sull’industria culturale della Dialettica dell’illuminismo – dove si parla, tra le altre cose, di “potere totale del capitale”; di “unità del sistema che si compatta sempre di più” e riesce ormai a “non produrre e […] non lasciar passare nulla che non corrisponda ai loro [scil. dei capi esecutivi] prospetti”; di “necessità inerente al sistema di non mollare la presa sul consumatore, di non dargli mai, nemmeno per un istante, la sensazione che sia possibile opporre resistenza”; infine, di “società onnipotente” (M. Horkheimer, T. W. Adorno, op. cit., pp. 126-129, 151 e 165) – o in saggi come Moda senza tempo. Sul jazz, là dove Adorno paragona il condizionamento del gusto del pubblico a favore del “trucco del sincopato” a una vera e propria “dittatura musicale sulle masse” o, addirittura, gli “entusiasti di jazz” ai “seguaci del governo nei paesi

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tero meccanismo della musica di consumo – può giungere al risultato di un’autentica “istituzionalizzazione e standardizzazione degli stessi modi d’ascolto”, ovvero a un controllo pressoché totale sui modi di reazione del fruitore, tale da portare “l’ascoltatore a farsi incantare dall’inevitabile”, dal “musicalmente sempre-uguale”.15 A tutto ciò corrisponde ancora un altro momento, ritenuto parimenti indispensabile da Adorno: quello della “popolarizzazione (plugging)”. In sintesi, Adorno definisce in questo modo la “tecnica apposita” usata nelle strategie dell’industria culturale al fine di imporre agli ascoltatori “la struttura del materiale musicale”.16 Il plugging ha dunque a che fare, ad esempio, con la “ripetizione incessante di un particolare pezzo in modo da renderlo ‘di successo’”, o con un’esagerata “enfasi sulla presentazione, garantita dalla promozione”, che deve “sostituire l’assenza di genuina individualità del materiale”, o con il dare straordinariamente risalto agli “stili e [alle] personalità”, in modo da “rinverdire una vecchia merce dandole un nome nuovo” e, così, incantare-ingannare il pubblico; ma ha anche a che fare con aspetti strettamente attinenti alla produzione e all’arrangiamento, funzionali “alla pubblicità […] e alla commercializzazione” del brano, come il conferimento di “una certa ricchezza e rotondità del suono” o il puntare su “effetti ammalianti della musica popular” che, però, a un orecchio attento si rivelano irrimediabilmente “equivalenti tra loro”.17 Come si può vedere, ci troviamo pertanto di fronte a una visione estremamente negativa e diffidente della popular music. Una visione che Adorno, a dispetto di alcune sporadiche aperture su questioni in qualche modo connesse con la popular music quali le trasformazioni tecniche nella riproduzione e diffusione della musica,18 non modificò mai realmente e che conduce dunque all’irrimediabile conclusione secondo cui, dal suo pun-

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totalitari” (T. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it. di C. Mainoldi et al., Einaudi, Torino 1972, pp. 120 e 124)! Id., Sulla popular music, cit., p. 85. Ivi, p. 84. Ivi, pp. 85-86, 92-93 e 88-89. Ad esempio, nelle prime pagine del saggio Opera e Long play (in Id., Long play e altri volteggi della puntina, tr. it. di E. Angelini Schäfer, Castelvecchi, Roma 2012, pp. 28-29) Adorno afferma che se “nel 1934 si poteva ancora dire che il disco non possedesse una sua forma”, a partire invece “dall’introduzione delle registrazioni su Long play ciò dovrebbe essere cambiato […]. In ogni caso l’espressione rivoluzione, per quanto riguarda i Long play, non è esagerata. La letteratura musicale nella sua totalità potrebbe divenire accessibile nella forma più autentica per tutti quegli ascoltatori che volessero sentirla e studiarla quando fa loro comodo”.

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Filosofia e popular music

to di vista, sebbene certa musica possegga un vero e proprio “carattere gnoseologico (Erkenntnischarakter)”,19 ciò non si applica in alcun modo all’universo della popular music. Quest’ultima, infatti, viene considerata da Adorno intrinsecamente viziata dalle logiche di una totalità sociale che, ai suoi occhi, non rappresenta altro che la totalità del “non vero”,20 e per questo motivo egli giunge a scrivere nella Teoria estetica che “quando si consiglia[no] il jazz e il rock-and-roll invece di Beethoven” non si fa altro che offrire “un pretesto alla barbarie e all’interesse di profitto dell’industria culturale”!21

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2. Arte vera e non-vera in Adorno Avendo appena accennato alla questione del vero e non-vero in Adorno, a questo punto è forse il caso di aprire una breve parentesi, per così dire, sulla sua concezione dell’arte quale modalità di conoscenza e manifestazione di verità. Ora, la prima cosa da notare è sicuramente il fatto che l’ideale conoscitivo di Adorno implica un superamento della mentalità identificante caratteristica, a suo giudizio, sia dell’intera tradizione filosofica occidentale che delle moderne scienze matematico-sperimentali. Una mentalità che, a suo dire, sfocerebbe nell’ideale acritico di una completa identificazione e, di qui, assimilazione forzata di tutto ciò che è estraneo, distante, individuale, particolare e differente (o, per usare la parola chiave della Dialettica negativa, non-identico), nonché nell’ideale di una mera classificazione dei fatti. L’approccio dialettico-conoscitivo di Adorno, in questo senso, mira a contrapporsi a un modello di conoscenza e di verità appiattito sulla mera registrazione, contemplazione o descrizione del reale, 19

20 21

Sul concetto di Erkenntnischarakter in musica, cfr. Id., Filosofia della musica moderna, tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 2002, pp. 122-126. È bene evidenziare, a questo proposito, che per Adorno non tutta la musica “seria” possiede un carattere conoscitivo. “Una fondamentale affermazione contenuta nella sua famigerata critica della popular music”, infatti, è che “qualsiasi cosa ci sia di sbagliato nella popular music è sbagliato anche nella ‘musica seria’, sebbene questo elemento sbagliato si mostri in maniere diverse in musiche differenti tra loro” (L. Goehr, Dissonant Works and the Listening Public, in T. Huhn [a cura di], The Cambridge Companion to Adorno, Cambridge University Press, CambridgeNew York 2004, p. 225). Mi riferisco qui alla celebre sentenza adorniana secondo cui “il tutto è il falso” (T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, p. 48). Id., Teoria estetica, tr. it. di G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 434.

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assunto come termine di riferimento ultimo e immutabile. Un siffatto appiattimento, infatti, priverebbe l’indagine filosofica del suo compito fondamentale, consistente per Adorno nel “comprendere […] ciò che ormai è” ma, a questo punto, anche nel creare “la possibilità di penetrare e quindi anche di spezzare il contesto di colpa come un contesto di accecamento”, insomma nell’utilizzare “la profondità della riflessione filosofica […] come resistenza a tutta l’apparenza e l’illusione che la coscienza reificata produce”.22 Evidentemente, la verità a cui fa riferimento Adorno non consiste “nella mera corrispondenza tra una proposizione ed un referente esterno nel mondo presente”, bensì in “un concetto con risonanze anche normative, riferito ad una futura società ‘vera’”.23 Ed è proprio a partire da una tale nozione di verità che emerge nitidamente la convergenza tra il percorso dell’arte e quello della filosofia, dal momento che, “al pari della dialettica negativa”, anche “l’arte autentica” (cioè quella che Adorno considerava tale, e nella quale egli evidentemente non includeva la popular music) procede “a una ‘contestazione’ del reale, seppure in una forma peculiare”.24 Chiaramente, dunque, il concetto adorniano della verità artistica presenta gli stessi tratti di criticità e utopicità che abbiamo appena indicato come il contrassegno della sua concezione generale della verità. E, in effetti, una lettura della Teoria estetica specificamente focalizzata su questa problematica mostra che Adorno, se da un lato “non dà definizioni positive del contenuto di verità dell’arte”, così come “non definisce la verità, nelle opere più specificamente filosofiche”,25 dall’altro lato comunque fa chiaramente intendere che vere, a suo giudizio, sono solamente quelle opere che prendono criticamente posizione contro lo stato di cose vigente, squarciano il velo mascherante le contraddizioni sociali in cui consiste propriamente l’ideologia e, in questo modo, dischiudono la prospettiva di una possibile, utopica conciliazione. Ciò, evidentemente, rimanda al tema del rapporto tra arte e società. Da quanto è stato appena detto, infatti, si deduce che la maggiore o minore 22 23 24 25

Id., Metafisica. Concetto e problemi, tr. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2006, pp. 135-137. M. Jay, Theodor W. Adorno, tr. it. di S. Pompucci Rosso, il Mulino, Bologna 1987, p. 167. P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea. Un’introduzione all’estetica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 346. U. Galeazzi, L’estetica di Adorno. Arte, linguaggio e società repressiva, Città Nuova, Roma 1979, p. 97. Sul problema della verità in Adorno, in generale, cfr. G. Schweppenhäuser, Osservazioni sul concetto di verità di Adorno, in L. Pastore, T. Gebur (a cura di), Theodor W. Adorno: il maestro ritrovato, Manifestolibri, Roma 2008, pp. 257-282.

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Filosofia e popular music

verità di un’opera deriverà proprio dal legame ch’essa instaura col mondo esistente, dal modo in cui essa si rapporta a quest’ultimo. La società, infatti, “è insita nel contenuto di verità”, il quale “non è fuori della storia ma ne è la cristallizzazione all’interno delle opere”.26 Questo implica che, per Adorno, le opere dotate di un carattere conoscitivo sono quelle “in cui il mondo contraffatto fa esperienza della verità di sé”: opere che, dunque, “appartengono materialiter e mentaliter a questo mondo, e contemporaneamente sono delle enclave dell’alterità che si distinguono dal mondo come un contromondo. L’Altro è ciò che è nel mondo come se non appartenesse a esso”.27 Ora, se le opere che Adorno considera vere e ‘autentiche’28 sono quelle che intrattengono un rapporto antagonistico con la società, fungendo da vero e proprio fermento di mutamento, è altrettanto evidente che quelle non-vere, apologetiche o ‘inautentiche’, sono quelle che, viceversa, si limitano a rispecchiare inconsapevolmente lo stato attuale della società, rinunciando al dovere della critica. Se la verità della musica, cioè, consiste nella sua forza critico-utopica ed eversiva, nella sua “capacità di resistere”29 alla repressione e alla sofferenza reale vigenti nel mondo, allora ai suoi occhi una musica docile, sottomessa, addirittura preconfezionata e predigerita come quella popular non potrà che essere irrimediabilmente falsa. ‘Falsa’, qui, inteso chiaramente come sinonimo di ‘ideologica’, cioè finalizzata a favorire “una qualche forma di adattamento psicologico ai meccanismi della vita odierna. […] L’autonomia della musica”, nel caso della popular music, viene “rimpiazzata da una semplice funzione sociopsicologica”, divenendo una sorta di “cemento sociale”30 e rivelando di essere “nient’altro che merce di fabbrica”.31 Con la propria esasperata standardizzazione, vigente anche nei momenti fintamente liberi e spontanei, la popular music funge dunque da strumento della società per ottenere 26 27 28

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T. W. Adorno, Teoria estetica, cit., pp. 176 e 178. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. di A. Calligaris, S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 197-198. Sul concetto di autenticità in Adorno, con specifico riferimento alla sua filosofia della musica e persino un breve excursus sul tema “La musica rock e l’ascesa delle ideologie dell’autenticità e della coerenza”, cfr. M. Paddison, Authenticity and Failure in Adorno’s Aesthetics of Music, in T. Huhn (a cura di), op. cit., pp. 198-221. T. W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 55. Id., Sulla popular music, cit., pp. 109-110. Id., Prismi, cit., p. 118. Sul concetto di mercificazione della musica, in generale, si veda il celebre saggio sul carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto (cfr. Id., Dissonanze, tr. it. di G. Manzoni, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 9-51).

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una “padronanza sempre più salda delle masse degli ascoltatori e dei loro riflessi condizionati”, ed essa sembra dire: “Nulla deve essere che non sia come ciò che è”.32 Arrivati a questo punto, però, bisogna dire che quello della popular music, in realtà, è probabilmente un universo molto più complesso, variegato e differenziato al suo interno di quanto una teoria come quella di Adorno non ammetta. Com’è stato notato, infatti, “per Adorno la supposizione che vi siano differenze qualitative all’interno del corpus della popular music” sembra spesso rappresentare “una differenziazione accettabile ma, in definitiva, priva di senso, tra livelli diversi di spazzatura”!33 Ma se, parafrasando Shakespeare e ironizzando un po’, si può dire che “ci sono più cose nel mondo della popular music, Adorno, di quante se ne sognano nella tua filosofia”,34 allora se ne deve concludere che “perlomeno all’interno del dominio della popular music” egli “fallì, e anche in modo piuttosto spettacolare, nel compito di discriminare tra generi e stili differenti”.35 Così come, infatti, appare oggi inammissibile ridurre una forma di espressione musicale come il jazz alla musica ballabile e commerciale, insomma alle cosiddette “canzonette”,36 allo stesso modo vi è una miriade di percorsi e personaggi, nell’ambito di quella che viene convenzionalmente definita musica rock o pop, che rende davvero difficile continuare a sostenere una concezione come quella di Adorno. Ora, in una tale miriade di personaggi e percorsi della popular music, credo che non vi sia esempio migliore di quello rappresentato dalla figura di Frank Zappa per tentare di mettere in discussione la concezione proba32 33 34

35 36

Id., Prismi, cit., pp. 119 e 128. T.A. Gracyk, Adorno, Jazz, and the Aesthetics of Popular Music, in «The Musical Quarterly», a. LXXVI, n. 4, 1992, p. 527. Il riferimento, va da sé, è alla celebre affermazione di Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia” (W. Shakespeare, Amleto: atto I, scena V, tr. it. di L. Squarzina, in Id., Tutto il teatro, 2 voll., Newton Compton, Roma 2007, vol. 2, p. 817). R. Miklitsch, Roll Over Adorno. Critical Theory, Popular Culture, Audiovisual Media, SUNY Press, Albany 2006, p. 45. Una delle tesi fondamentali di Adorno, infatti, è che il jazz, nonostante “abbia avuto una vicenda”, cioè uno sviluppo “dallo swing al be-bop”, comunque “è rimasto immutato” nel suo procedimento di base, visto che “l’unico materiale sonoro sono le canzonette” (T. W. Adorno, Prismi, cit., p. 115). Senza addentrarmi in questo discorso, che esula dagli scopi specifici e limitati del presente lavoro, per un’efficace critica di questo e altri aspetti della concezione adorniana del jazz segnalo R.W. Witkin, Why Did Adorno “Hate” Jazz?, in «Sociological Theory», a. XVIII, n. 1, 2000, pp. 145-170, e D. Sparti, Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2005, pp. 61-115.

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Filosofia e popular music

bilmente troppo rigida di Adorno sull’abisso che dividerebbe la “buona musica seria” dalla “popular music […] rigida e meccanica”.37 Ciò, beninteso, senza disconoscere del tutto il valore di una tale concezione,38 ma al contempo senza nutrire timori riverenziali per il fatto di discutere criticamente le idee del “maggior filosofo della musica del Novecento”,39 del pensatore con il quale, nel corso del Novecento, “chiunque si sia occupato di filosofia o di estetica della musica […] ha dovuto fare i conti”.40

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3. Adorno e Zappa sull’industria culturale Sono numerosi, a mio giudizio, gli aspetti della teoria adorniana della popular music che un autore come Zappa mette drasticamente in discussione, a cominciare dal rapporto stesso fra l’artista popular e l’industria culturale. Ho già accennato al fatto che la concezione adorniana dell’industria culturale sembra conferire a quest’ultima uno status di autentica onnipotenza nel condizionare, se non addirittura determinare e plasmare, sia i gusti del pubblico che le stesse composizioni musicali. Certo, è vero che Adorno accenna talvolta al fatto che, persino all’interno di un’industria culturale sempre “più totale e più totalitaria” come quella contemporanea, sussistono dei “rifugi ultimi” per le “ragioni dell’umano di fronte al meccanismo del sistema sociale”.41 Alla fine, però, la sua diagnosi rimane sempre impietosa e senza scampo: tutti i barlumi di umanità e spontaneità, infatti, vengono “implacabilmente spazzati e ripuliti [dalla] ragione pianificatrice”,42 e “anche le digressioni più ingegnose vengono nella musica leggera deformate 37 38

39 40 41 42

T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 73. Com’è stato notato, infatti, “la strategia tendenziosa dell’industria musicale nel periodo di ‘cultura di massa’ non è stata presentata da nessuno in modo così incisivo. […] Chiunque creda che sia importante studiare la popular music deve far proprio il pensiero di Adorno per poterlo poi superare. […] Per quanto questa teoria si presenti problematica, la sua forza è innegabile. […] Adorno parla certamente di cose vere. I problemi emergono quando l’evidenza empirica viene trasformata in teoria totalizzante e la strategia tendenziale in fatto compiuto” (R. Middleton, Studiare la popular music, tr. it. di M. Mele, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 60-63). E. Matassi, Musica, Guida, Napoli 2004, p. 89. G. Guanti, Estetica musicale. La storia e le fonti, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 486. M. Horkheimer, T. W. Adorno, op. cit., pp. 143 e 153. Ivi, p. 153.

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dal fatto che bisogna aver riguardo a coloro che badano alla smerciabilità del prodotto”.43 Com’è stato giustamente notato, però, se le cose stessero davvero così, se cioè ci trovassimo in un regime di “‘totalitarismo’ culturale […] assoluto” e se l’universo della popular music fosse davvero retto da “una legge monolitica”, allora diventerebbe davvero difficile, se non proprio impossibile, “spiegare alcuni fenomeni” effettivamente esistenti e anche piuttosto diffusi “come, per esempio, la nascita di case discografiche ‘indipendenti’”, oppure “le numerose dispute fra musicisti e le loro case discografiche. […] Secondo i presupposti del modello di Adorno tutto ciò sarebbe impossibile”.44 Il punto, in estrema sintesi, è cioè che Adorno, rimanendo prigioniero di una serie di pregiudizi e fraintendimenti, fondamentalmente dovuti all’“eurocentrismo e […] classismo della sua teoria dell’evoluzione musicale”, si è per così dire precluso da solo la possibilità di vedere che, “parallelamente all’aumento di controllo centralizzato”, nel mondo della musica pop e rock “si è manifestato persistentemente anche il dissenso”.45 Ora, è cosa ben nota che il rapporto di Zappa con l’industria musicale è stato improntato sin dall’inizio a una generale diffidenza e forte conflittualità. Diffidenza e conflittualità fondamentalmente dovute al fatto che, in un ambiente come quello discografico, il musicista non potesse fare a meno di confrontarsi con (e venire sovente condizionato pesantemente da) “un sistema nel quale la spettacolarità era più importante dei contenuti e che era sostenuto da ‘quei cazzoni delle case discografiche’ nella cui scala di priorità la qualità della musica occupa un posto piuttosto basso”,46 laddove Zappa manifestò fin dai tempi del suo primo, storico album, Freak Out!,47 l’esigenza di un controllo totale sui propri lavori. Di qui, le cause legali che opposero Zappa alle etichette con cui incideva, la Mgm-Verve prima e la Warner poi, fino ad arrivare alla decisione di affidarsi “alle majors per la sola distribuzione” dei dischi “pubblicati su etichetta Zappa Records” e, infine, persino alla scelta di “gestire quasi completamente [da sé] anche 43 44 45 46 47

T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 40. R. Middleton, op. cit., pp. 61, 81 e 64. Ivi, pp. 87 e 63. N. Slaven, op. cit., p. 270. Se c’è un disco, nella storia della musica pop-rock, a proposito del quale è lecito (se non addirittura d’obbligo) usare l’aggettivo ‘storico’, questo è sicuramente Freak Out!: “il primo album doppio del rock, il primo album concept, il primo lavoro ‘orchestrato, arrangiato e condotto’ da un musicista rock, eccetera”, il quale fece “compiere alla forma rock una mutazione totale” (P. Scaruffi, Storia del rock, 6 voll., Arcana, Milano 1989-1997, vol. 2: Underground & Progressive [1989], pp. 39 e 45).

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la distribuzione”, salvo poi cedere “l’intero catalogo alla Rykodisc” negli ultimi anni, quando, “ormai condannato dal cancro alla prostata”, Zappa avrebbe visto in ciò un’opportunità per “dare una forma definitiva alla propria opera e forse anche […] sollevare la famiglia dalla impegnativa gestione”48 della propria eredità artistica. In questo senso, forse non è azzardato affermare con il bassista Arthur Barrow che Zappa sia stato “l’unica persona” nel mondo della popular music “che non sia mai scesa a compromessi per quanto riguarda la propria musica e sia comunque riuscita a guadagnarsi da vivere”,49 o con lo scrittore William Burroughs che egli sia stato “l’unico uomo completo di tutta l’industria discografica”.50 E, alla luce di ciò, non sembra affatto si possa dire che Zappa si sia lasciato docilmente dirigere da quei “cartelli industriali”51 che per Adorno, invece, governerebbero totalitariamente l’industria della cultura. Inoltre, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, se per Adorno l’essenza ideologica (e dunque falsa, manipolante) della popular music risiede nella sua costitutiva tendenza a far sentire “l’ascoltatore […] sempre al sicuro”,52 anzi addirittura a fungere da “cemento sociale”,53 si può dire che quanto teorizzato e messo in pratica da Zappa sia stato esattamente l’opposto. 4. Zappa e l’‘impegno’: musica e critica sociale L’atteggiamento critico di Zappa nei confronti dell’industria musicale, infatti, va compreso come parte di un suo più ampio atteggiamento criticonegativo verso la società moderna nel suo complesso, in particolare per quanto riguarda la realtà statunitense (la stessa, è il caso di notare, dalla cui analisi ed esperienza diretta negli anni dell’esilio Adorno trasse la maggior parte delle impressioni che poi rielaborò in maniera concettualmente sistematica nella sua teoria sociologico-filosofica e anche musicale). Com’è stato giustamente notato, Zappa “si considerava un ideologo”, uno smascheratore delle “menzogne della moderna società consumistica”, una 48 49 50 51 52 53

M. Bazzoli, Frank Zappa. Compositore americano: 1940-1993, Auditorium, Milano 2003, p. 41. Citato in N. Slaven, op. cit., p. 241. Citato in B. Miles, Frank Zappa. La vita e la musica di un uomo “Absolutely Free”, tr. it. di M. Maraone, Feltrinelli, Milano 2011, p. 416. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 78. Ivi, p. 82. Cfr. ivi, pp. 109-114.

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sorta di “riformatore sociale, pieno di una giusta collera e di un senso di profonda indignazione per le condizioni del suo paese”; addirittura, egli “si vedeva come un critico della società”.54 Presa nel suo insieme, l’opera di Zappa va dunque interpretata come un complessivo e quanto mai esplicito atto d’accusa contro la società, a tutti i livelli. Particolarmente utili e interessanti, a questo proposito, mi sembrano alcune affermazioni e prese di posizione dello stesso Zappa, dalle quali emerge chiaramente come egli fosse “ben consapevole di quel che gli accade[va] attorno, della società in disfacimento e dell’ambiente nel quale vivono gli Americani”, nonché del ruolo che artisti come lui, “per mezzo dei loro incredibili gesti, per mezzo della loro musica”,55 potevano svolgere ai fini di un’autentica critica sociale. Tra queste affermazioni e prese di posizione di Zappa, ad esempio, è certo il caso di citare quella secondo cui il lavoro dei Mothers of Invention consisteva nell’essere “coinvolti in una guerra dimessa contro l’apatia […]; gran parte di quel che facciamo”, disse Zappa alla BBC, “è concepito allo scopo di infastidire la gente al punto di indurla a porsi perlomeno qualche interrogativo sul proprio ambiente, quanto basta per sentirsi spinta a cambiarlo”.56 Idee, queste ultime, confermate da svariate altre dichiarazioni sul rapporto musica/società, come ad esempio quando Zappa spiegò di voler fondamentalmente “rivolgere le armi di una società disorientata e infelice contro se stessa”,57 o come quando egli, ai tempi della sua durissima polemica contro il Parents’ Music Resource Center, alla considerazione di un membro di quest’organizzazione (Allan Bloom) secondo cui sarebbe “solamente [da] promuovere quell’arte che fosse ‘nobile, delicata e sublime’”, replicò: “Questo non è un paese nobile, delicato e sublime; questo è un merdaio governato da criminali, e gli artisti che fanno le cose che Bloom trova tanto rozze, volgari e repellenti altro non fanno che commentare tale dato di fatto”.58 Sembra dunque emergere dalle parole di Zappa una visione dell’arte come voce critica sulla società che, di fronte alla durezza e spietatezza di quest’ultima, deve vietarsi la tentazione della decorazione o dell’abbellimento del reale – che la comprometterebbero sul piano ideologico e la renderebbero inutile, o peggio falsa – e deve piuttosto restituirci, con i propri mezzi espressivi, la realtà stessa in tutta la sua problematicità e contraddittorietà. Una visione dell’arte, quest’ultima, che sembra presentare non pochi 54 55 56 57 58

B. Miles, op. cit., pp. 138, 153, 281 e 128 (corsivo mio). N. Slaven, op. cit., p. 94. Citato in N. Slaven, op. cit., pp. 113-114. Citato in B. Miles, op. cit., p. 165. Citato in N. Slaven, op. cit., p. 308.

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motivi di affinità con quella di Adorno secondo cui l’arte sarebbe tenuta oggi ad appropriarsi del brutto “non più per integrarlo, lenirlo o conciliarlo con la sua esistenza […], bensì per denunciare nel brutto il mondo che lo crea e lo riproduce a propria immagine”.59 Ad ogni modo, tornando alle parole di Zappa, che un’interpretazione della sua idea del rapporto musica/società come quella presentata poc’anzi sia legittima mi sembra ancora confermato, ad esempio, da ciò che egli sentenziò riferendosi al particolare tipo di spettacolo allestito con i Mothers nel periodo del loro ingaggio fisso al Garrick Theater di New York nella primavera-estate 1967: “La musica commenta la società, e di certo le atrocità sul palco non sono niente rispetto a quelle condotte in nome e per conto del nostro governo. A volte non riesci a scrivere accordi abbastanza dissonanti per esprimere a fondo quello che hai in mente”.60 Alla luce di ciò, quindi, si può certamente dire che quella di Zappa è una musica seriamente e profondamente ‘impegnata’ da un punto di vista sociale. D’altra parte, bisogna ammettere che quest’ultima affermazione potrebbe anche destare qualche perplessità: ad esempio, se si considera che, a prescindere da alcuni brani nei primi album dei Mothers, egli ha perlopiù scritto testi apparentemente ben poco “impegnati” nel senso canonico del termine e definibili piuttosto come rozzi, volgari, “davvero stupidi”, se non proprio “a livelli SUBMONGOLOIDI”.61 Oppure, ancora, se si pensa che, “durante la guerra del Vietnam, […] a differenza di molti altri suoi contemporanei” solitamente annoverati fra i cosiddetti artisti impegnati, Zappa “si era rifiutato di partecipare a proteste o manifestazioni pacifiste”.62 Oppure, infine, se si tiene conto del fatto che egli attaccò fin dagli inizi “l’intero movimento giovanile degli anni Sessanta, la sua politica e la sua musica”,63 mostrandosi scettico e diffidente verso la controcultura nella quale, all’epoca, si scorgeva la quintessenza del cosiddetto ‘impegno’.64 59 60

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T. W. Adorno, Teoria estetica, cit., p. 66. B. Miles, op. cit., p. 174. Specificamente incentrato sull’“inedita idea di teatro musicale” messa a punto da Zappa con i Mothers a partire dall’ingaggio newyorkese al Garrick è l’interessante contributo di G. Salvatore, Work in progress. Il teatro musicale dei Mothers of Invention (1967-69), in G. Salvatore (a cura di), Frank Zappa domani. Sussidiario per le scuole (meno) elementari, Castelvecchi, Roma 2000, pp. 41-67. F. Zappa (con P. Occhiogrosso), L’autobiografia, tr. it. di D. Sapienza, Arcana, Milano 1990, pp. 147 e 72. B. Miles, op. cit., p. 402. Ivi, p. 407. Come ha notato un autorevole testimone dell’epoca, Riccardo Bertoncelli, alla domanda “Da che parte sta Zappa?” un’“intera generazione, quella ‘storica’ degli

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Un’eventuale perplessità sulla reale opportunità di qualificare l’opera di Zappa come ‘impegnata’, tuttavia, dipende chiaramente dal concetto di ‘impegno’ che si decide di assumere e far proprio. Com’è stato notato, infatti, “per Zappa la politica è sempre qualcosa che ha a che fare con l’individuo” ed egli ha sempre nutrito “la certezza che l’esplicita protesta politica [fosse] soltanto un altro lato dello spettacolo”, arrivando così al “ripudio dell’azione politica collettiva”.65 Ora, senza entrare qui nel merito della correttezza o reale sostenibilità di una tale concezione, mi sembra comunque opportuno sottolineare come essa sembri corrispondere, almeno per certi aspetti, proprio alla concezione adorniana del ‘rinvio’ della prassi collettiva (a favore della concentrazione sull’obiettivo dell’emancipazione individuale) e dell’engagement come resistenza “al corso del mondo attraverso nient’altro che la configurazione artistica”, anziché attraverso il “mettere in rilievo alternative” o il “produrre misure, atti legislativi, disposizioni pratiche”.66 Agli occhi di Adorno, cioè, l’istanza della critica, del rifiuto e dell’impegno viene a incarnarsi in maniera più adeguata e compiuta in opere prive di un esplicito contenuto politico ma assolutamente coerenti dal punto di vista del progresso del linguaggio artistico, piuttosto che in opere che, pur di portare avanti un preciso messaggio politico in maniera chiara e comprensibile, rinunciano al dovere del radicalismo e della sperimentazione formale.67 Spostando il discorso sul piano della popular music,

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anni ’60”, rispose “entusiasticamente, con un madornale equivoco (‘dalla parte della freakness’, della rivoluzione, del ‘nuovo mondo armonioso’)”, e “adottò l’artista come santo protettore, insignendolo delle massime onorificenze controculturali, edificando un mito che, pur con i guasti del tempo e le smentite, dura ancora oggi. Zappa re dei matti, […] meglio, uomo giusto per sistemare i conti con gli altri, con la noia e con la borghesia, con il Sistema, tout court, ‘quinta colonna’ nel cuore del Nemico” (R. Bertoncelli, Estremo omaggio, con riverenza e salto acrobatico, al duca delle prugne, in Frank Zappa. Testi con traduzione a fronte, tr. it. di D. Mento, Arcana, Milano 1981, pp. 5-6 [corsivi miei]). B. Watson, Frank Zappa: The Negative Dialectics of Poodle Play, Quartet Books, London 1994, p. 83. T. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1979, pp. 92-93. L’esempio che chiarisce meglio la situazione è forse quello della nota predilezione di Adorno per l’opera di Beckett – i cui lavori rappresentavano ai suoi occhi “l’unica opera metafisica davvero rilevante del periodo postbellico” (Id., Metafisica, cit., pp. 141-142), l’unica reazione “come solo si conviene alla situazione del campo di concentramento” (Id., Dialettica negativa, tr. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 342) – rispetto a quella del più politicizzato e ‘impegnato’ (nell’accezione abituale del termine) Brecht. Su quest’argomento e, in generale, sull’interpretazione adorniana di Beckett, cfr. G. Frasca, La ricerca del nulla positivo, in T. W. Adorno, Essere ottimisti è da criminali. Una conversazione

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si potrebbe allora azzardare l’ipotesi che, agli occhi di Adorno (se solo egli avesse avuto occhi, o meglio orecchie, per la popular music…), sarebbero risultate meno apprezzabili e condivisibili le tipiche canzoni di protesta di Joan Baez, Bob Dylan, Crosby Stills Nash & Young, John Lennon, ecc. – caratterizzate da testi sicuramente importanti e impegnati, tanto da venire assunti come veri e propri inni dai movimenti giovanili controculturali, ma da strutture musicali spesso elementari, semplici, talvolta persino stereotipate – rispetto alle performance sperimentali dei Mothers of Invention, in grado di unire la satira politica contro il governo a una “originalissima drammaturgia musicale che rastrella clusters, Sprechgesang espressionista, postwebernismo, elettronica, psichedelia, aleatorietà, stereotipi popular”,68 oppure anche rispetto all’insistenza di Zappa, nei suoi brani meno spericolati e più banali, sull’elemento della stupidità fine a se stessa, al fine di aprire gli occhi del pubblico proprio sulla smisurata diffusione dell’idiozia nel mondo. In conclusione, allora, muovendo da questi rilievi e da quanto è emerso dalle analisi e considerazioni svolte in precedenza, credo si possa dire che una musica come quella di Zappa, nel suo insieme, rappresenti una peculiare forma di critica sociale e, dunque, nell’ottica di una teoria come quella francofortese – che, come abbiamo visto, identifica la conoscenza, intesa in senso forte e rigoroso, con “l’autoriflessione che permette” di sviluppare “un atteggiamento critico verso la società” ispirandosi “all’idea di una società migliore”69 – costituisca un mezzo di conoscenza critica del reale nelle sue contraddizioni, lacune e perfino insensatezze. 5. Zappa e la filosofia della storia della musica di Adorno A questo punto, però, un adorniano rigoroso potrebbe obiettare che, anche qualora le cose stessero davvero nel modo sopra descritto, ciò non sarebbe ancora sufficiente. Per Adorno, infatti, porsi lo scopo della contestazione e della protesta, tenendo fede all’imperativo categorico della critica, di per sé non basta, essendo necessario essere supportati, per così dire, dalla disponibilità di strumenti adeguati. Il fine, in altre parole, per poter essere realmente conseguito, necessita dell’uso di mezzi artistici ido-

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televisiva su Beckett, tr. it. di T. Roccasalda, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2012, pp. 67-87. G. Montecchi, L’invenzione di un linguaggio. I primi album di Frank Zappa (1966-67), in G. Salvatore (a cura di), op. cit., p. 33. M. Horkheimer, La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, tr. it. di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1979, p. 166.

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nei. Così come, ad esempio, egli stigmatizzava certe “ingenue poesie sulle vittime”70 della Shoah, ritenendole non all’altezza del compito (estetico, etico-politico e metafisico insieme) di dar voce alla sofferenza inaudita e, per certi versi, persino indicibile del genocidio, proprio in virtù dell’inadeguatezza del rapporto tra il piano dei contenuti espressi nel testo (sui quali egli, chiaramente, non nutriva alcuna riserva) e quello della forma, allo stesso modo si può dire che, in un’ottica adorniana, anche le incarnazioni linguisticamente e stilisticamente più ‘impegnate’ della popular music risulterebbero comunque carenti dal punto di vista della capacità di articolare, su un piano propriamente tecnico-compositivo, l’espressione della condizione umana nel mondo amministrato. Credo però che, anche da questo punto di vista, facendo riferimento al mondo della musica popular e, nella fattispecie, all’opera di un artista rock (seppure indubbiamente sui generis) come Zappa, sia possibile replicare a un’obiezione di tipo adorniano come quella appena citata. Abbiamo già visto, infatti, che per Adorno la quintessenza di tutta la popular music, in quanto arte di massa prodotta in serie dall’industria culturale, è definibile nei tratti della standardizzazione e della pseudo-individualizzazione. In questo saggio ho già tentato di evidenziare come un “resoconto totalizzante”71 come quello del filosofo di Francoforte soffra però della difficoltà di voler racchiudere un universo ricco, multiforme, variegato, spesso (anche se non sempre, certo) imprevedibile e talvolta persino caotico come quello della popular music in poche regole o categorie fondamentali, assunte come paradigmatiche e, per così dire, assolute. Ora, mi sembra evidente come il discorso adorniano – riassumibile nell’idea secondo cui ogni brano popular sarebbe dotato di un rigoroso e imprescindibile “schema standard”, vero e proprio “meccanismo inesorabile” o “mero automatismo musicale”,72 che renderebbe preconfezionata la musica prodotta in seno all’industria culturale – non si possa minimamente applicare alla produzione di Zappa. Per dimostrare questa tesi, naturalmente, risulta indispensabile soffermarsi, seppur rapidamente e rimandando a lavori più ampi sull’argomento per eventuali approfondimenti, su alcuni aspetti più specificamente intramusicali. Prendendo le mosse, ancora una volta, da quanto afferma Adorno nel saggio Sulla popular music, si può dire che, nella sua ottica, il materiale musicale alla base di questa musica è interamente riducibile alla “somma 70 71 72

T. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, cit., p. 102. R. Middleton, op. cit., p. 94. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., pp. 68 e 70.

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totale di tutte le convenzioni e delle formule musicali” a cui l’ascoltatore medio, poco preparato, “è abituato”, e che è considerato da quest’ultimo come “il linguaggio intrinseco, elementare della musica stessa”.73 Fondamentalmente, quindi, un linguaggio costituito “dalla tonalità maggiore e minore e da tutti i rapporti tonali che essa presuppone”, nel quale anche “le stravaganze sono tollerate solo nella misura in cui possono essere ricomposte in questo cosiddetto linguaggio naturale”.74 Com’è noto, però, secondo Adorno la sintassi tonale sarebbe oggi (o meglio, dopo l’esperienza delle avanguardie primo-novecentesche, in particolare quella schönberghiana) esteticamente squalificata, inesorabilmente invecchiata, decaduta a cliché per la musica colta “regressivo-restaurativa” e, per l’appunto, a linguaggio standard della musica di consumo. Ora, che i “prodotti dell’industria della canzone leggera [siano] in tutta evidenza […] esposti all’influenza dei criteri della musica classica”, giacché essi “ricorrono in gran parte a strumenti tecnico-compositivi della musica colta, e precisamente quella di epoche passate”,75 è un dato di fatto. D’altra parte, però, va anche detto che la condanna senza appello di Adorno nei confronti di qualsiasi utilizzo di mezzi tonali riposa su presupposti non proprio indiscutibili o, comunque, non necessariamente vincolanti, perché fondati, oltre che su un’indubbia e profondissima conoscenza delle reali vicende della storia della musica moderna, su un’interpretazione filosofica di queste stesse vicende secondo lo schema teleologico di uno sviluppo immanente alla dialettica del materiale stesso. Sviluppo al quale – sostiene il filosofo tedesco – il compositore non può sottrarsi, ma che anzi deve comprendere nella sua necessità, accettare, interiorizzare e rielaborare secondo la propria sensibilità individuale, in modo da far progredire ulteriormente il materiale stesso. Quella di Adorno, in altre parole, è una vera e propria filosofia della storia della musica76 che dà spesso l’impressione di scorgere nelle complesse vicende riguardanti la riorganizzazione dei linguaggi musicali nel corso del Novecento, dopo la crisi della tonalità, un divenire retto da una sorta di determinismo interno, e che proprio per questo motivo pone però non pochi 73 74 75 76

Ivi, p. 78. Ivi, p. 79. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, Che cos’è la musica?, tr. it. di A. Bozzo, il Mulino, Bologna 2004, p. 69. Su questo argomento, mi sia concesso rimandare alla mia monografia Un intreccio dialettico: teoresi, estetica, etica e metafisica in Theodor W. Adorno, Aracne, Roma 2010, pp. 177-200. Parla esplicitamente di una “filosofia della storia della musica” in Adorno anche M. Paddison, Adorno’s Aesthetics of Music, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1993, pp. 219-225.

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problemi. Se ci si ponesse infatti la domanda: “Quante sono le musiche del Novecento?”,77 la risposta dovrebbe essere sicuramente: “Molte”. Vi sono indubbiamente stati, cioè, “molti diversi Novecento”, inassimilabili gli uni agli altri e non sussumibili a “un’idea integrale e assoluta di sviluppo musicale”78 come sembra invece fare Adorno col suo ostinato tener fermo al valore unico e incomparabile della scuola viennese di Schönberg, Berg e Webern. Rilevare tutto ciò, evidentemente, significa mettere in discussione la concezione molto forte e convinta di Adorno circa l’ineluttabilità della “tendenza storica dei mezzi musicali”79 e ciò, d’altra parte, risulta di grande interesse anche ai fini del presente discorso su Frank Zappa. Com’è stato notato, infatti, “in un Novecento schönberghiano e post-weberniano Zappa ha poco spazio”, così come del resto la popular music in generale; ma “in un Novecento non-schönberghiano, o meglio ancora non tolemaico, privo di punti d’attrazione fatale, Zappa è – o meglio sarà – finalmente Frank Zappa, alla pari con molti altri grandi”.80 Ampliando l’ottica troppo “angusta [della] concettualizzazione adorniana” ed evitando di “assolutizza[re] un’idea musicale specifica” diviene dunque possibile includere in un discorso sulla musica vera, autentica, ‘impegnata’ e critica dei nostri tempi perlomeno “una buona parte del jazz d’avanguardia” e “alcuni gruppi rock, come i Mothers of Invention di Frank Zappa e i Velvet Underground”, definibili come “esempi di oggetti di consumo d’avanguardia”.81 77 78 79 80 81

M. Mastropasqua, Introduzione all’analisi della musica post-tonale, Clueb, Bologna 1995, p. 11. G. Salvatore, Introduzione a Id. (a cura di), op. cit., p. 13. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 37. G. Salvatore, Introduzione a Id. (a cura di), op. cit., p. 12. R. Middleton, op. cit., pp. 71-72. È il caso di rilevare che, paradossalmente, all’epoca (maggio 1966) in cui i due gruppi citati da Middleton come esempi di ‘rock d’avanguardia’ ebbero modo di condividere il palco del Trip e del Fillmore West, essi (cioè i Mothers e i Velvet) mostrarono di detestarsi e disprezzarsi reciprocamente. “L’ingaggio”, infatti, “fece incontrare i due principali dileggiatori del rock, Lou Reed e Frank Zappa. Mentre quest’ultimo riuscì a limitare le proprie emozioni entro i confini del disprezzo, Reed provò un autentico odio nei confronti di Frank […]. Dal canto suo Frank non si sforzò troppo le meningi per esprimere la propria opinione sui Velvet Underground: ‘Fanno schifo’, disse dal palco” (N. Slaven, op. cit., p. 59. Sul medesimo episodio, cfr. anche B. Miles, op. cit., pp. 139-140). Del resto, all’inizio del libro di Michele Pizzi di commenti ai testi di Zappa (op. cit., p. 8) è riportata la seguente affermazione di Lou Reed a proposito dell’autore di Absolutely Free: “È probabilmente la persona meno dotata di talento che abbia mai sentito. È un accademico pretenzioso e non sa suonare il rock ’n’ roll, perché è un perdente. E perciò si veste in modo buffo. Non è contento di se stesso, e penso che abbia ragione”…

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Ora, in base al discorso appena svolto, l’aspetto dal quale può risultare più opportuno partire è quello relativo ai “sistemi sonori di riferimento” adoperati da Zappa e, in particolare, alla sua concezione della “dimensione verticale e la sua elaborazione”82 (sintetizzabile, se vogliamo, con il termine ‘armonia’). Senza entrare troppo nei dettagli tecnici specifici, e rimandando per un approfondimento di questo tipo all’accurata e preziosa analisi svolta da Giordano Montecchi direttamente sugli spartiti dei brani di Zappa,83 si può dire che la musica di quest’ultimo possieda un “inusuale carattere melodico e armonico”, “una concezione armonica eterodossa rispetto ai canoni della tradizione dotta, ma ancora di più rispetto alle consuetudini del pop e del jazz”: concezione che fa chiaramente parte del suo “gusto per lo spiazzare, per [il] contraddire le interpretazioni troppo semplicistiche e prevedibili, prendendosi gioco di ogni lettura normalizzatrice”.84 Oltre a ciò, si potrebbe ancora osservare che anche quando Zappa fa uso di “stilemi armonici abituali”, come nel caso dei suoi numerosissimi “brani parodistici”,85 ciò va probabilmente interpretato come il segno di un atteggiamento critico verso la parte più banale e commerciale della popular music, che effettivamente si presta fin troppo bene a essere letta (e criticata) alla luce della categoria adorniana della standardizzazione. 6. Zappa: pensiero ritmico e rapporto tra engagement ed entertainment Ancor più che per l’aspetto melodico-armonico, però, è forse per il suo trattamento dell’articolazione temporale della musica, cioè per il suo aspetto metrico-ritmico, che la musica di Zappa esibisce una vistosa refrattarietà 82

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Mutuo questi concetti – facenti riferimento, rispettivamente, all’“insieme di frequenze ordinato e strutturato al suo interno secondo determinate regole di gerarchizzazione […] che variano in rapporto alle epoche storiche, alle culture musicali, ai generi, ai repertori” (categorie modali, sistema tonale, ecc.) e alle varie “forme di sincronia sonora”, ai modi in cui “due eventi sonori diversi possono combinarsi simultaneamente” (bicordalità, contrappunto, armonia per accordi, ecc.) – da L. Azzaroni, Canone infinito. Lineamenti di teoria della musica, Bologna, Clueb 1997, pp. 209-283 e 369-466. Cfr. G. Montecchi, Zappa: rock come prassi compositiva, in G. Salvatore (a cura di), op. cit., pp. 163-227. Ivi, pp. 195, 197 e 198. Ivi, p. 199. Sul linguaggio musicale di Zappa, in generale, si veda anche il lavoro di W. Ludwig (frutto di una dissertazione dottorale discussa alla Freie Universität di Berlino), Untersuchungen zum musikalischen Schaffen von Frank Zappa. Eine musiksoziologische und -analytische Studie zur Bestimmung eines musikalischen Stils, Peter Lang, Frankfurt a.M.- Berlin-Bern-New York-Paris-Wien 1992.

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a lasciarsi inquadrare nelle categorie adorniane. È molto importante sottolineare questo aspetto, per vari motivi: primo, perché si tratta probabilmente del tratto più caratteristico, in assoluto, dell’opera di Zappa, non a caso definita come il frutto di un vero e proprio “pensiero ritmico”;86 secondo, perché quello metrico-ritmico rappresenta un aspetto della musica a cui Adorno, nei suoi scritti sulla cosiddetta musica ‘seria’, ha stranamente e ingiustamente prestato minore attenzione87 rispetto ad altre componenti strutturali come il timbro, il contrappunto, la melodia e, soprattutto, l’armonia; terzo, perché tale aspetto gioca invece un ruolo importante nella teoria adorniana della musica ‘leggera’, contribuendo in maniera decisiva alla definizione della categoria della standardizzazione, la cui portata sto tentando qui di mettere in discussione proprio mediante il riferimento alla produzione zappiana. In estrema sintesi, ciò che Adorno rileva è, in primo luogo, come la struttura standardizzata della popular music spinga il pubblico a operare una “sostituzione meccanica”, durante l’ascolto, delle “formule ritmiche [anche] complicate” che possono trovarsi in un brano “con quelle semplici”, ossia a udire “solo il semplice” e percepire “il complicato come una distorsione parodistica del semplice”.88 Sotto questo punto di vista, anche le apparenti “irregolarità metriche”89 che possono trovarsi nell’esecuzione di un brano popular vanno intese per Adorno come meri effetti pseudo-individualizzanti atti a fornire una sensazione di fittizia spontaneità e, dunque, un’illusoria gratificazione sonora ed emotiva agli ascoltatori. L’elemento ideologico si manifesta dunque nel fatto che la maggior parte dei brani popular appare caratterizzato da una “sottostante, incessante, unità di tempo della musica”, consistente nel “suo ‘battito’ (beat)”, tale per cui “anche se si realizzano pseudo-individualizzazioni – come accenti in levare e altre ‘differenziazioni’ – viene sempre preservato il rapporto al tempo di base. Essere musicali significa per questi individui” (per gli individui, cioè, che Adorno riconduce alla tipologia socio-psicologica degli ascoltatori “ritmicamente obbedienti”) “essere capaci di seguire determinati modelli ritmici 86 87

88 89

G. Salvatore, Storia di uno che amava il ritmo, in Id. (a cura di), op. cit., p. 112. Facendo ancora riferimento alla Filosofia della musica moderna, probabilmente il più importante scritto musicale di Adorno (e sicuramente, con il suo celebre schema ‘Schönberg VS. Stravinskij’, il più influente sui compositori e i musicologi del Novecento), si può notare come il tema del ritmo trovi spazio solamente in due brevi paragrafi (cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., pp. 73-78 e 148-152). T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 75. Ivi, p. 88.

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senza farsi disturbare dai cambiamenti ‘individualizzanti’ e adattare anche le sincopi alle unità di tempo basilari”.90 Ora, una tale disponibilità ad adattarsi a un ritmo monotono, unitario, identico, uniforme, sempre-uguale, e a seguire passivamente i canoni e i modelli proposti dall’industria musicale, non è altro però, per Adorno, che il contrassegno di un “desiderio di obbedire”, di un “tipo di obbedienza” significativamente ribattezzato “obbedienza ritmica”, di una grande disponibilità all’“adattamento alla realtà bruta”,91 insomma dell’abbandono di qualsiasi disposizione critica nei confronti del reale. Monotonia, unità, identità, uniformità: non c’è dubbio che queste caratteristiche si possano riscontrare in un gran numero di brani pop e rock; tuttavia, è altrettanto certo che esse non si applicano affatto alla musica di un autore come Zappa, indubbiamente annoverabile nel mondo della popular music ma, al contempo, contraddistinta proprio da una vivacità e varietà metrico-ritmica senza pari. Infatti, in un’epoca, la seconda metà degli anni Sessanta, in cui praticamente nessuna band, neanche quelle che annoveravano tra le loro fila grandi solisti o virtuosi dello strumento, sembrava ‘schiodarsi’ dalla classica metrica in 4/4 delle canzoni, Zappa fu “il primo musicista rock a cimentarsi coi tempi dispari, i ritmi composti, i metri additivi, e a inserire nel gruppo due batteristi, o percussionisti che suonassero anche marimba, xilofono, vibrafono”, nonché il “primo a sovrapporre brani diversi suonati simultaneamente e sincronizzati in tempo reale”.92 Estremamente interessanti, a questo proposito, possono risultare alcune testimonianze e analisi musicali relative ai vari momenti della sperimentazione metrico-ritmica nel corso della sua carriera. Si parte dai primi, pionieristici tentativi con i Mothers originali, a base di bizzarre alternanze di metriche diverse, e si giunge ai ritmi jazz-rock delle formazioni ribattezzate Grand Wazoo Orchestra e Petit Wazoo (successive alla parentesi vaudeville del gruppo con Flo & Eddie). E, ancora, si va dall’innovativo spessore ritmico delle formazioni degli anni Settanta, caratterizzate dalla sovrapposizione tra batteria e molteplici strumenti a percussione, all’autentico tour de force rappresentato da una delle più celebri partiture zappiane, The Black Page, la “più complessa composizione ritmica umanamente eseguibile, […] un classico pezzo di bravura per solisti ed ensemble percussivi di tutto il mondo”.93 Infine, a partire dai tardi anni Settanta e poi negli anni Ottanta, arriviamo alla teorizzazione e messa in pratica di 90 91 92 93

Ivi, p. 111. Ivi, pp. 111-112. G. Salvatore, Storia di uno che amava il ritmo, cit., p. 111. Ivi, pp. 136-137.

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un “metodo di sincronizzazione sperimentale di assoli e basi ritmiche di provenienza diversa […] battezzato da Zappa xenocronia, cioè dal greco ‘strana sincronizzazione’”,94 nonché al caleidoscopio di ritmi e stili diversi – spesso impartiti alla band con appositi segnali sul palco95 – del “miglior gruppo che voi non avete mai ascoltato nella vostra vita”,96 fino ai tentativi di “forzare continuamente le soglie della ricerca metrico-ritmica” con l’ausilio del Synclavier, “mirando preferibilmente a superare i confini delle possibilità esecutive umane”.97 Nella sua autobiografia, in particolare, Zappa mette l’accento sull’importanza dei poliritmi nella propria concezione della composizione e dell’improvvisazione musicale, assegnando peraltro “il primo premio […] a Vinnie Colaiuta, il batterista del gruppo nel 1978 e ‘79”, quanto alla capacità di “concepire questi poliritmi [e] identificarli abbastanza velocemente per suonare una figura complementare [scil. a quanto suonato da Zappa alla chitarra] AL MOMENTO”.98 Alla luce di tutto ciò, si potrebbe essere persino tentati di scorgere nel particolare pensiero compositivo ‘ritmico’ di Zappa un utile e, soprattutto, consapevole strumento per correggere la tendenza generale – “esteticamente ingiustificabile” ma assolutamente centrale nella “riflessione teorico-musicale dell’antichità classica e del medioevo fino all’analisi dell’opera musicale del ventesimo secolo” – a ricercare in “strutture tonali astratte ed escluse dal ritmo la sostanza ‘effettiva’ delle opere musicali”.99 Una tendenza, quest’ultima, che è “comprensibile unicamente come conseguenza [di un] ‘pregiudizio’ europeo” anti-ritmico – nonostante “il ritmo [sia] indubbiamente il momento più appariscente e fattivo” dell’esperienza musicale – la cui radice ultima risiede forse in un “rapporto inadeguato con la percezione”.100 Che una tale interpretazione dell’opera di Zappa sia 94 95

Ivi, pp. 111 e 142. Su questa bizzarra procedura – in grado di modificare all’istante l’arrangiamento di un certo brano durante un concerto e, dunque, di smentire clamorosamente la tesi adorniana secondo cui “la popular music non può essere improvvisata, ma deve […] essere fissata e sistematizzata” (T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 95) – si vedano le interessanti e, insieme, molto divertenti considerazioni dello stesso Zappa nella sua Autobiografia (cit., pp. 132-133). 96 Il riferimento è al disco di Zappa The Best Band You Never Heard in Your Life, il cui titolo trae spunto dal fatto che la band del 1988 si dissolse prima della fine del tour a causa dei dissapori di vari membri con il bassista Scott Thunes. Zappa se ne rammaricò molto e forse non è un caso se quello fu il suo ultimo tour in assoluto. 97 G. Salvatore, Storia di uno che amava il ritmo, cit., pp. 151 e 155. 98 F. Zappa, L’autobiografia, cit., p. 144. 99 C. Dahlhaus e H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 32. 100 Ivi, pp. 31-32.

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Filosofia e popular music

legittima mi sembra confermato dall’opinione di alcuni studiosi autorevoli. Come scrive Ben Watson, ad esempio, Zappa era “conscio delle carenze della musica classica occidentale per quanto riguarda il ritmo. […] Un’analisi tecnica della musica di Zappa – incluse le supposte canzoni ‘stupide’ – rivela delle sbalorditive complessità ritmiche”.101 In maniera più precisa e, soprattutto, misurandosi direttamente con le partiture zappiane, Giordano Montecchi ha sottolineato che

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emiolie, gruppi irregolari, […] spostamenti d’accento, sincopi di ogni genere, acciaccature, rubati, sono la moneta corrente in Zappa come presso molte delle culture musicali antiche e recenti che collocano il ritmo in primo piano. Culture fra le quali, come anche la musicologia accademica ha ormai riconosciuto, non figura la tradizione colta occidentale.102

Ai rilievi di questi studiosi, poi, si possono affiancare alcune affermazioni dello stesso compositore statunitense, ad esempio là dove lamenta che “il tipo di musica che insegnano nelle scuole, specie dal punto di vista ritmico, non arriva mai oltre l’addizione e la sottrazione. […] La maggior parte delle situazioni accademiche tende a ignorare [il] tipo di approccio ritmico” che è proprio “di chiunque sia poliritmico”.103 Da tutto ciò che è stato detto finora si inferisce l’esistenza di una concezione del ritmo, in Zappa, assolutamente inassimilabile alle idee di Adorno sulla popular music. Ma il concetto che compendia nella maniera migliore l’inconciliabilità di Zappa (artista popular, lo ribadisco, seppure indubbiamente sui generis) con le teorie adorniane sulla musica ‘leggera’ e che, insieme, fornisce la possibilità di riconnettere la sua opera proprio con la concezione di Adorno relativa al valore conoscitivo dell’esperienza musicale (concezione sviluppata da quest’ultimo, come abbiamo visto, esclusivamente in rapporto a quella che egli giudicava “buona musica seria”104), è probabilmente quello di dissonanza ritmica. Si tratta di un concetto illustrato da Zappa in alcune tarde interviste, dove si legge: “Nelle mie orecchie il concetto di dissonanza agisce a livelli diversi. Può trattarsi di una dissonanza ritmica. Ogni ritmo che contrasta la naturale tendenza ritmica si traduce in un disturbo che permane per tutta la durata di questa dissonanza”.105 E, ancora:

101 102 103 104 105

B. Watson, op. cit., pp. 416-417. G. Montecchi, Zappa: rock come prassi compositiva, cit., p. 188. Citato in G. Salvatore, Storia di uno che amava il ritmo, cit., p. 152. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 73. Citato in G. Montecchi, Zappa: rock come prassi compositiva, cit., p. 180.

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Si possono scrivere dissonanze ritmiche […]. Potrei descrivere come ritmo dissonante un 23/24, dove le cose si strusciano l’una contro l’altra nello stesso modo in cui note a distanza di semitono hanno una certa tendenza a dare fitte all’orecchio. Ritmi che sono frazionalmente off l’uno con l’altro creano un altro tipo di dissonanza lineare.106

La possibilità di un confronto con Adorno – tramite il quale ci ricolleghiamo, alla fine del nostro discorso, al punto dal quale avevamo preso le mosse, quello cioè relativo al rapporto tra musica e conoscenza – è data dal fatto che per il filosofo tedesco, com’è noto, è proprio nella dissonanza che, nella musica moderna, si condensa quell’Erkenntnischarakter su cui ci siamo già soffermati. Ancora una volta, il riferimento obbligato per Adorno è rappresentato dalla scuola viennese legata a Schönberg, la quale “diffonde […] il terrore” negli ascoltatori proprio grazie alle dissonanze con cui “dà forma a quell’angoscia, a quello spavento e quella visione di una condizione catastrofica, a cui gli altri possono sottrarsi solo regredendo”.107 Le dissonanze, infatti, “riescono loro insopportabili” proprio perché “parlano della loro condizione personale. […] Il nuovo rivela violentemente, con l’inganno della loro civiltà, l’incapacità alla verità”: la musica moderna “prende una posizione precisa in quanto rinuncia all’inganno dell’armonia, divenuto insostenibile a petto di una realtà che sta portando alla catastrofe”.108 Ora, come ho notato in precedenza, nella sua filosofia della neue Musik Adorno tende a focalizzare la propria attenzione più sulle dimensioni della melodia, dell’armonia, del contrappunto ed eventualmente del timbro che su quella del ritmo, cosicché un concetto come quello zappiano di dissonanza ritmica potrebbe a prima vista sembrare un’utile integrazione per un discorso come quello di Adorno sulla “forza gnoseologica”109 della dissonanza. In sintesi, si può dire che Zappa trasferisce “su un terreno essenzialmente ritmico […] uno dei cardini del pensiero compositivo occidentale”, solitamente applicato però “sul terreno armonico e contrappuntistico”, e cioè la “risoluzione della dissonanza. […] Il ‘significato’ del ritmo risiede proprio in questa sua capacità di generare una tensione, una discordanza, la cui direzionalità e il cui valore vengono percepiti dal modo in cui si confrontano e si ricongiungono a una pulsazione ritmica fondamentale e regolare”, ed è una “caratteristica fondamentale della concezione ritmica 106 107 108 109

Citato in G. Salvatore, Storia di uno che amava il ritmo, cit., pp. 157-158. T. W. Adorno, Dissonanze, cit., p. 51. Id., Filosofia della musica moderna, cit., pp. 14, 105 e 128. Ivi, p. 60.

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di Zappa, anche quando si spinge in formulazioni cervellotiche […], il tenere sempre presente come elemento essenziale una pulsazione costante e identificabile, esplicita o latente”.110 In controtendenza rispetto alla musica accademica del Novecento che ha demonizzato una tale “regolarità della pulsazione”, degradandola a “icona dell’ottusità e della banalità”, egli riabilita allora, nel quadro di una musica comunque vivacissima e complessa dal punto di vista metrico, “un ritmo pulsante, fisico, perentorio in tutta la sua ricchezza e flessibilità senza privarlo – anzi, il contrario – del suo carisma seduttivo”; in questo modo, è come se Zappa si sforzasse di comporre “obbedendo a una logica finalizzata all’ascolto”, arrivando a fare “di questa sfida il cardine della sua concezione estetica […]. In altre parole, far sì che l’organizzazione più complessa si risolva in un evento sonoro godibile al livello percettivo in virtù di una riconquistata naturalezza uditiva”.111 Si tratta di un aspetto percettivo-sonoro che è stato notato, proprio in riferimento al ritmo, anche da Ben Watson, secondo il quale Zappa rivelerebbe un’idea del “progresso musicale” come “conseguibile soltanto attraverso una dialettica fra talento musicale e bisogni del corpo di esprimersi”.112 Ma si tratta altresì di un aspetto sul quale è misurabile una grande distanza da Adorno, il quale, seppure in un contesto angoscioso come quello di una considerazione sul destino dell’arte nell’epoca del dopo-Auschwitz, giunge comunque a stigmatizzare il “potenziale di estorcere godimento” che ogni “configurazione artistica […] contiene, per quanto alla lontana”.113 Volendo sintetizzare il discorso in una formula, potremmo allora dire che mentre Adorno tendeva a concepire l’engagement e l’entertainment come assolutamente inconciliabili e reciprocamente escludentisi, Zappa non ha mai concepito queste due sfere come disgiunte e, anzi, ha vigorosamente protestato contro “chi pensa all’arte come antidoto all’entertainment, come qualcosa che non ci deve dare nessuna esperienza godibile”, definendo quest’ultima teoria come “una concezione punitiva dell’arte”.114 110 111 112 113 114

G. Montecchi, Zappa: rock come prassi compositiva, cit., pp. 180-181. Ivi, pp. 181 e 187. B. Watson, op. cit., p. 417. T. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, cit., p. 103. G. Montecchi, Zappa: rock come prassi compositiva, cit., p. 174. Il “dichiarato intento poetico di Zappa […] non è affatto quello di lanciare messaggi, fare denunce”, ma si indirizza piuttosto “al divertimento, al piacere dell’ascoltare e del farsi trascinare da musicisti che, essi per primi, si divertono suonando. Proprio l’entertainment è ciò che la ‘grande musica’, espressione della Cultura ufficiale, considera compito spregevole” (Id., L’invenzione di un linguaggio, cit., p. 25). Sottolinea questo aspetto anche Riccardo Bertoncelli (Zappa nel Duemila, in G. Salvatore [a cura di], op. cit., p. 107), quando scrive: “È stato un musicista

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A partire da qui, come si configura allora la questione dell’‘impegno’ in Zappa, su cui ci eravamo concentrati in precedenza? In che modo, cioè, la musica si viene a configurare come una forma di conoscenza e di critica sociale? Secondo Giampiero Cane, l’“arte musicale diventa” nel caso di artisti come Zappa “un potenziale che dev’essere utilizzato per intervenire sul mutamento sociale”, con la società che viene dunque ad assumere le vesti di “oggetto che le [scil. alla musica] fa resistenza”, e con la musica che, per parte sua, trova il suo criterio nell’“opposizione che, entrando in gioco, entra nelle cose, manifestandosi come opposizione al concorde”.115 Ciò che Zappa costruisce, tuttavia, per Cane avrebbe solo il carattere della continuità dell’attualità; là c’è sempre un mondo represso che produce desideri e violenze sempre identiche, che la musica continua a raccontare, cinicamente. Questo perché non c’è un ulteriore alcuno. In Zappa non compaiono dei domani, come in Sun Ra miraggi ulteriori, ma solo continuamente l’oggi, dal quale, però, secondo il musicista, bisognerebbe sapere affrancarsi.116

Ora, credo che queste ultime considerazioni si prestino a essere interpretate, discusse, forse anche contestate, sulla base di una serie di rilievi ulteriori che è possibile effettuare. Si tratta, in sintesi, di stabilire cosa s’intende esattamente quando si dice che in Zappa “non c’è un ulteriore alcuno”. Infatti, se con ciò – come lascia presumere l’accenno ai “miraggi ulteriori” di un artista come Sun Ra – si vuol dire che manca in Zappa un senso del “totalmente Altro” (giusto per rispolverare una famosa categoria della teoria critica, in questo caso horkheimeriana),117 allora è abbastanza ovvio che le cose stiano così, vista la sua ben nota diffidenza verso ogni forma di religiosità o misticismo (per quanto riguarda un’‘ulteriorità’ di questo tipo), così come verso concezioni di natura utopica (per quanto riguarda un eventuale pensiero dell’‘ulteriorità’ di tipo politico).118 Ciò nonostante, credo sia possibile collegare la concezione compositiva di Zappa (“la novità

115 116 117 118

divertente […]. Ho sorriso, ho riso tanto con Frank Zappa, ho liberato quelle bellissime energie di gioia e di godimento che troppo spesso la vita ci fa seppellire in fondo in fondo […]. Anche Zappa si divertiva”. G. Cane, MonkCage. Il Novecento musicale americano, Bologna, Clueb 1995, pp. 207-208. Ivi, p. 209. Il riferimento, ovviamente, è a M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, tr. it. di R. Gibellini, Queriniana, Brescia 1972. Per Zappa, infatti, più che di teorizzare improbabili rivoluzioni totali, si trattava di cercare di “scalzare gradualmente il potere” (B. Miles, op. cit., p. 180).

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del linguaggio, la straordinaria sfida delle sue costruzioni musicali, la precisione delle sue esecuzioni, l’inventiva inesauribile e controllatissima”), così come la sua visione critico-conoscitiva di fondo (“la musica come […] organizzatissima discarica di quanto è socialmente inaccettabile”, come “strumento dotato di una potenzialità critica senza pari, acuminata e corrosiva”, secondo l’idea per cui “l’intollerabile non è nella [sua] musica e nei [suoi] comportamenti, […] ma nel mondo che ci sta di fronte”119), alla prospettiva di un’apertura su un’alterità possibile rispetto allo stato di cose vigente. La musica, allora, diviene anche “modello di un mondo possibile e sognato, straordinariamente vivo, intelligente, ilare, solidale e onesto”, diviene “la metafora […] di un mondo finalmente libero e divertente, da costruire con le proprie mani”,120 nel quale – come dicevo poc’anzi – l’engagement e l’entertainment non si escludono necessariamente l’un l’altro ma appaiono conciliabili, se non addirittura combacianti.

119 G. Montecchi, L’invenzione di un linguaggio, cit., pp. 24-25. 120 Ibid.

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ANDREA MECACCI

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IL KITSCH APOLLINEO L’estetica dei Beach Boys

Per molti europei l’America è stata la nostalgia per ciò che non si è mai avuto. Per gli americani questo ruolo l’ha svolto la California. Un’America del possibile al quadrato, una promessa che non conosce sconfessione, ma che ha elaborato una sua estetica precisa e riconoscibile. A concorrere a questa costruzione un gruppo di Los Angeles: i Beach Boys. La parabola artistica dei Beach Boys non è soltanto il resoconto delle fortune, più o meno altalenanti, di una band; è piuttosto la fotografia, probabilmente discutibile e ingenua, di una certa idea di bellezza che, seppur vissuta da pochi, ha alimentato le aspirazioni di molti. Una declinazione del bello che si radica in una geografia precisa (Los Angeles, la California meridionale), che si sovrappone ai suoi stessi luoghi ossessivamente reiterati (il mare, la spiaggia), che si modula sui suoi feticci esclusivi (le ragazze, il surf, le automobili) e che si identifica con una sola, unica fase della vita dell’uomo (il passaggio dall’adolescenza alla maturità). La pochezza di questi contenuti si scontra con l’inquietudine delle forme necessarie per tradurre questa stessa pochezza. Qui nasce il conflitto dell’arte dei Beach Boys e della loro mente, Brian Wilson. Restituire l’intangibilità della prima volta, dell’hic et nunc, lo scarto tra l’intensità del momento e il suo ricordo, lo spazio estetico della nostalgia. Un’intera cultura, e conseguentemente un’intera antropologia, che si specchia nell’adolescenza in quanto valore estetico ed etico non negoziabile e quindi irrinunciabile. In quanti modi si può ripetere lo stupore della prima volta (il primo bacio, la prima macchina, la prima canzone)? In che modo si può regredire fino al primo suono, il suono primigenio della California, le onde dell’oceano? È una regressione possibile? Fu questa la domanda che segnò con angoscia la reticente verità della visione solare dei Beach Boys: di quanto buio ha bisogno tutta quella luce? L’abbaglio di un tale interrogativo si mutò nella forza di una mitografia perpetrata con ostinazione: la California, l’ultima terra del continente, divenne l’utopia di un possibile sempre a portata di mano. La meta

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finale della colonizzazione si trasformò nel nuovo punto di partenza. Un immaginario che divenne un cartolina turistica di bassa e facile fruizione. Un’estetica che nei suoi tratti fin troppo dichiaratamente apollinei finì per ingabbiarsi nella formulazione kitsch di quello stesso sogno di innocenza, sempre più intatta nelle canzoni e sempre più persa nella realtà. Ma a tratti il genio debole di Brian Wilson è riuscito a dare un’immagine definitiva di ciò che per un istante ogni adolescente ha sognato di essere e di avere: guardare il mondo come se fosse la prima volta e perdersi in quella fascinazione negando tutto il resto (che poi è tutto). E quel mondo null’altro è che un sogno, il “più immane dei sogni”, come scrisse F.S. Fitzgerald, il primo sguardo posato sul nuovo continente, l’America: Per un attimo fuggevole e incantato, l’uomo deve aver trattenuto il respiro di fronte a questo continente, costretto ad una contemplazione estetica, da lui non capita né desiderata, mentre affrontava per l’ultima volta nella storia qualcosa di adeguato alla sua possibilità di meraviglia.1

1. Un’arte apollinea Per indagare un fenomeno, il criterio oppositivo o dialettico (come avrebbero detto anni fa i più colti) può rivelarsi la via allo stesso tempo più semplice e più suggestiva. Così, per definire l’estetica dei Beach Boys è possibile intraprendere una serie di approssimazioni oppositive per giungere alla categoria funzionale alla nostra analisi. Come l’America si oppone all’Europa, così fa la California verso il resto dell’America. Questo il primo grande conflitto, a cui ne seguono altri più ‘tecnici’ in senso stretto. Nell’arte la grande opposizione americana tra Pollock e Warhol, nella musica quella tra le due più grandi band americane, i Beach Boys e i Velvet Underground. E, nella musica, l’opposizione ancor più delimitata geograficamente tra i Beach Boys e i Doors (e conseguentemente quella tra i Doors e i Velvet Underground), ossia tra una versione apollinea e una dionisiaca dell’immaginario californiano. Da una parte una California che trova la propria autofascinazione nell’oceano godendo dei risultati del benessere sociale ed economico dello status quo stelle e strisce, dall’altra una che si smarrisce nel deserto bramando una liberazione dei sensi nella continua celebrazione estatica di se stessa. Da una parte il so-

1

F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby, tr. it. di F. Pivano, Mondadori, Milano 1983, p. 182.

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A. Mecacci

- Il kitsch apollineo.

L’estetica dei Beach Boys

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gno dell’oceano, dall’altra la visione del deserto. Al centro Los Angeles, nuovo spazio mitico. In questo doppiofondo che la cultura giovanile californiana ha costruito negli anni Sessanta risiede dunque una bipolarità più profonda che, sebbene fuorviante e a tratti forzata, ha definito sia un’interpretazione della grecità che del moderno: l’opposizione tra apollineo e dionisiaco. La Grecia di Winckelmann e quella di Nietzsche. Ma elevare due categorie, appartenenti a una cultura specifica (quella greca) e costruite a posteriori (tra Settecento e Ottocento), a paradigmi critici generali è un azzardo che comporta legittimi dubbi. Per ascoltare “California Girls” dobbiamo ricorrere veramente a Winckelmann? Quante volte nella sua esistenza Brian Wilson ha pronunciato la parola “Apollo”? Ovviamente non è questo il punto. Indagare un’estetica, come quella elaborata dai Beach Boys, non significa sfruttare arbitrariamente categorie concettuali e applicarle a un fenomeno apparentemente estraneo a quelle categorie, né inoltrarsi in un puro esercizio speculativo o in una compiaciuta commistione di alto e basso. Piuttosto, significa semplicemente rilevare dei tratti di fondo che, seppur compresi nella loro specificità storica e culturale (la California, gli anni Sessanta, la musica pop), la storia dell’estetica ha già definito in altre occasioni d’indagine. Il punto centrale rimane sempre lo stesso: cercare di capire un fenomeno. Ci si può liberare di una canzone pop dopo un suo ascolto o tentare di comprendere come quella stessa canzone abbia contribuito a costruire un immaginario estetico che, anche se ormai marginale o risibile, ha avuto un suo ruolo e tangenzialmente ancora lo ha. Sebbene l’opposizione nietzschiana di apollineo e dionisiaco sia stata colta in tutta la sua tendenziosità,2 risulta ancora parzialmente funzionale per dare un avvio alla nostra analisi. Ciò che in questa sede interessa è l’immagine dell’estetica apollinea che Nietzsche, in questo attento lettore di Winckelmann, mette a punto. Tanta è la forza dell’intuizione dionisiaca in cui Nietzsche si imbatte che l’apollineo appare opaco, a tratti ingessato. È certo il caso di evidenziare, a tal proposito, come a dispetto dei tentativi di numerosi interpreti di redimere Apollo dallo stereotipo nietzschiano,3 evidenziandone tutti quei tratti di violenza e oscurità che Nietzsche omette programmaticamente quasi sempre, Apollo rimanga comunque una figura ambigua. Del resto, Nietzsche rifiuta di Apollo tutto ciò che Winckelmann

2 3

Cfr. G. Colli, Dopo Nietzsche, Bompiani, Milano 1978, pp. 29-47; Id., Apollineo e dionisiaco, Adelphi, Milano 2010. Valga come esempio generale M. Detienne, Apollo con il coltello in mano, tr. it. di F. Tissoni, Adelphi, Milano 2002.

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Filosofia e popular music

apprezza e, in questo senso, si può dire che ciò che bisogna tentare è di tener presenti o ‘condividere’ due visioni dell’apollineo di per sé difficilmente conciliabili, entrambe le quali hanno nondimeno contribuito, in tempi e modi diversi, a definire tale concetto. La prima forma estetica dell’apollineo, e in qualche modo anche la forma che racchiude tutte le sue altre caratteristiche, è la bellezza giovanile. La bellezza apollinea è quella del bello colto nel suo “qui e ora”, al quale ci si rapporta già nostalgicamente, riconoscendone la transitorietà. Fermare questa caducità è ciò che innerva la stessa scultura greca: riprodurre l’ideale, dando vita eterna a ciò che è destinato già da sempre a morire. La carne che si fa marmo. L’utopia di afferrare la bellezza giovanile: questo il grande equivoco che fa abbinare sia a Winckelmann sia a Nietzsche Apollo alla scultura, trascurando il fatto che Apollo è il dio della musica. E rimuovendo la cetra viene anche taciuto l’altro simbolo apollineo, la testimonianza della sua oscurità, l’arco. Il più nobile concetto di un’ideale giovinezza virile ha la sua immagine peculiare nell’Apollo, nel quale la forza degli anni maturi si trova fusa nelle forme delicate della più bella primavera di gioventù. […] Forme che si addicono a un giovane nobile e destinato a grandi mete: ecco perché Apollo era il più bello tra gli dei. Questo giovane corpo è fiorente di salute e la sua forza già si annuncia come l’aurora di un giorno luminoso.4

Descrizione che verrà ripresa da Nietzsche un secolo dopo, riproponendo in tutta la sua centralità il legame tra solarità e gioventù. In quale senso Apollo poteva essere considerato come il dio dell’arte? Solo in quanto egli è il dio delle rappresentazioni di sogno. Egli è in tutto e per tutto il “risplendente”: nella sua radice più profonda è il dio del sole e della luce, che si manifesta nel fulgore. La “bellezza” è il suo elemento: a lui si accompagna la gioventù eterna.5

Si delinea la struttura portante de La nascita della tragedia, opera decisiva nella definizione contemporanea dell’apollineo, che è tematizzato nelle sue opposizioni – a volte meramente funzionali al discorso nietzschiano – al dionisiaco. In primo luogo, le due dimensioni del sogno e dell’ebbrezza che legano rispettivamente Apollo e Dioniso alle proprie arti: la scultura 4 5

J.J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, tr. it. di M.L. Pampaloni, Mondadori, Milano 1993, pp. 125-126. F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in Id., La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e altri scritti 1870-1873, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 2000, p. 50.

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e la musica. Apollo è il dio della forma e delle forme, il dio che inaugura il mimetico come linguaggio plastico. Una grammatica estetica che corre parallela a quella etica (e già socratica) della conoscenza di se stessi. Dio della coscienza crescente dei limiti individuali dell’uomo greco, Apollo è la rappresentazione dello sforzo di superare “la sofferenza dell’individuo con la luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza”.6 L’arte apollinea trae la propria forza dalla sua stessa autoipnosi: circoscritta alle sfere del sogno, dell’illusione e della contemplazione, edificata nelle metafore, sempre meno originarie, della luce, del sole e della gioventù, la mimesis apollinea documenta perennemente lo scarto tra il reale e la sua immagine, tra un mondo faticosamente reso intelligibile e raffigurabile e un’ulteriorità sfuggente e inquietante che appare come una sommessa istigazione all’oscurità rimossa. Apollo fu la formula estetica con la quale la grecità comprese che la bellezza null’altro è che l’apparenza del rimosso. Ogni arte apollinea è pertanto l’esibizione di questa dialettica sempre operante: Apollo è la complessità che appare come bellezza. Questa estetica dello scarto tra realtà e immagine della realtà è il cuore dell’opera dei Beach Boys. I motivi apollinei (luce, gioventù, sogno) sono trasfigurati nella geografia californiana che smarrisce se stessa in un altro scarto, quello tra archetipo e stereotipo. L’apollineo dei Beach Boys va quindi compreso solo all’interno di quell’universo particolare che è la loro città, Los Angeles, e in quella cornice temporale che segna la parabola dell’illusione perbenista e consumista dell’America degli anni Cinquanta fino alla disillusione nei confronti di quel modello negli anni Settanta. Al centro gli anni Sessanta: per i Beach Boys la cristallizzazione delle promesse e dei valori insiti in quelle promesse. 2. “Surfurbia” Che cos’è esattamente la città dei Beach Boys? Los Angeles non è un enigma urbanistico, un rebus topografico che trascende i valori socio-culturali ed estetici della polis occidentale. Può essere, come è stato giustamente notato, il paradosso stesso di una modernità, esclusivamente americana, che scopre in Los Angeles la prima città del moderno e quindi, per

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F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 2002, pp. 111.

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converso, la più antica della contemporaneità.7 Del resto anche Wilde nella sua commedia del 1893 Una donna senza importanza aveva affermato per bocca del protogonista, Lord Illingworth, l’ossessione di una civiltà restia ad abbondare la gioventù come valore fondante della propria identità:

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La giovinezza dell’America è la tradizione più antica degli americani. Va avanti ormai da trecento anni. A sentirli li si crederebbe ancora nella prima infanzia. Almeno come civiltà, invece, sono nella seconda.8

Ed è in questo suo doppio ruolo di archeologia e allo stesso tempo utopia del moderno che Los Angeles diventa modello. Ma di cosa? A indicarlo è stato colui che probabilmente ha compreso meglio di chiunque altro la specificità della megalopoli californiana, lo storico dell’architettura e teorico della cultura pop Reyner Banham. Il suo Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie del 1971, riletto oggi, ha il sapore del resoconto di un innamoramento mai messo in discussione. Per il critico inglese, Los Angeles non rappresentava solo una nuova idea di comunità, ma anche una nuova significazione estetica. Alla monumentalità delle città europee rispondeva la mobilità della città californiana. Un’intera antropologia modellata sui consumi automobilistici, come avrebbe notato anni dopo Baudrillard, che trova la propria sintesi in due simboli definitivi: la scritta “Hollywood” (allo stesso tempo emblema della cultura del billboard e di quell’imponderabile che segnò la storia della città, l’industria cinematografica) e lo Stack, lo snodo autostradale della città. L’universo dei Beach Boys accoglie questo doppio immaginario autoctono (automobilistico e cinematografico) integrandolo con quella che Banham ha indicato come la prima ecologia – la prima relazione tra am7

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“Los Angeles può anche dirsi la più vecchia, poeticamente parlando, delle città americane: come l’America sarebbe il paese più vecchio del mondo moderno, essendo stato il primo ad entrarci, così Los Angeles sarebbe la città più vecchia del mondo contemporaneo, essendo stata la prima a entrare in quella consapevolezza, […] per cui una terra promessa rimane tale non finché c’è terra, ma finché si riesca a mantenere in vita la promessa stessa” (L. Ballerini, P. Evangelisti, Helluva Vienna, introduzione a Id. [a cura di], Nuova poesia americana. Los Angeles, Mondadori, Milano 2005, p. X). Per le osservazioni che seguono riguardanti Los Angeles mi permetto di rimandare a A. Mecacci, L’estetica del pop, Donzelli, Roma 2011, pp. 90-96. O. Wilde, Una donna senza importanza, tr. it. di M. d’Amico, in Opere, a cura di M. d’Amico, Mondadori, Milano 2001, p. 666 (Il testo originale recita: “The youth of America is their oldest tradition. It has been going on now for three hundred years. To hear them talk one would imagine they were in their first childhood. As far as civilization goes they are in their second”).

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biente e comunità – della città: la spiaggia, “Surfurbia”. La lunga costa sabbiosa di settanta miglia che da Malibu giunge fino a Balboa è per Banham uno dei tratti più profondi dell’inconscio californiano. La spiaggia non è il luogo dello svago e del divertimento tout court, lo è in quanto rappresenta un valore. “Surfurbia” è il limite davanti al quale l’Occidente ferma la propria corsa. È l’ultima occasione di pensare una civiltà possibile. In questo suo essere estrema periferia della cultura occidentale, la prossimità di “Surfurbia” con la natura è manifesta. L’atmosfera di benessere fisico e di piacere resta saldamente legata alle spiagge, in parte per ovvi motivi fisiologici e in parte perché l’educazione e il culto del fisico dell’uomo (e della donna) sono tratti profondamente radicati nella psicologia della California meridionale. Sole, sabbia, surf sono considerati valori ultimi e trascendenti il loro puro significato materiale. […] La cultura della spiaggia rappresenta per molti versi un rifiuto simbolico dei valori della società dei consumi, un luogo in cui all’uomo è sufficiente possedere solo quel che indossa, in genere un paio di logori shorts e occhiali da sole. La spiaggia è l’unico posto di Los Angeles in cui tutti gli uomini sono uguali e vivono in territorio comune.9

La fascinazione onirica emanata dalla spiaggia, la sua dimensione di sogno trasfigurato, quindi apollinea a tutti gli effetti, è anche il cuore della descrizione offerta dalla figlia prima dimenticata e poi prediletta (post mortem) di Los Angeles, Marilyn Monroe. Nell’autobiografia del 1954 La mia storia, scritta insieme allo sceneggiatore Ben Hecht, l’attrice ricorda la prima volta in cui vide l’oceano da vicino. Siamo alla fine degli anni Trenta, l’America è quella della grande depressione, la California, nonostante tutto, è sempre la terra del possibile, come testimonia il romanzo simbolo di quell’epoca, Furore di Steinbeck, e Marilyn è nella sua prima adolescenza. Era una giornata di sole e la spiaggia era piena di bagnanti, di mamme coi loro bambini. Nonostante fossi nata e cresciuta a poche miglia dall’oceano non l’avevo mai visto così da vicino. Rimasi in piedi a fissarlo a lungo. Era come qualcosa che appare in un sogno, tutto colorato d’oro e lavanda, azzurro e bianco spumeggiante. C’era un’aria di vacanza che mi sorprese. Sembrava che tutti sorridessero al cielo.10

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R. Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, tr. it. di A. Castellano, Einaudi, Torino 2009, pp. 20-21. M. Monroe, La mia storia, tr. it. di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2010, p. 28.

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Questa è la scena primaria di tutta l’arte dei Beach Boys: uno specchio che riflette l’immagine di un sogno. Un autoinganno probabilmente, ma che ai californiani non interessa svelare. Un apollineo che declina comodamente e acriticamente nel kitsch tracciando un’estetica formato cartolina sempre spendibile, seppur logora e a tratti ridicola. A guardar bene, “Surfurbia” non è il paradiso in terra11 e la California nei suoi maldestri (nella prospettiva eurocentrica) tentativi di culturalizzarsi non ha fatto altro che edificare un compiuto lessico americano del kitsch,12 eppure miracolosamente il suo abbaglio rimane intatto. Un immaginario definito e fin troppo esaurito nelle sue possibilità mimetiche, ma che allo stesso tempo trova ancora una sua funzione, se non utopica, almeno consolatoria. L’apollineo californiano è esattamente questo: aver dato immagine una volta per tutte a ciascuno dei desideri indotti dell’Occidente (il benessere economico e fisico, le comodità materiali e gli agi spirituali, la bellezza come promessa realizzabile e l’ozio come ricompensa finale), aver ingannevolmente fornito alle aspettative di questo sogno, di fatto irrinunciabile, un repertorio perennemente riconoscibile. Ma dare un’immagine riconoscibile ad aneliti antropologici è propriamente il costruire una cultura. I Beach Boys sono stati al centro di questa costruzione. Eredi, protagonisti e comunicatori di una cultura che è solamente californiana, i Beach Boys sono stati la versione più fedele del sogno californiano, definendo l’apollineo come categoria vuota e, in questo, centrando l’essenza della loro grandiosa raffigurazione ai limiti del moderno: da Eleusi a L.A., da Delfi a “Surfurbia”. La potenza mitica della California è in questa mistura di estrema sconnessione e di mobilità vertiginosa imprigionata nel paesaggio, nello scenario iperreale dei deserti, delle freeways, dell’oceano e del sole. Da nessun’altra parte

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Baudrillard ne offre una descrizione piuttosto ingenerosa e apocalittica: “Questa [scil. la spiaggia di Long Beach], all’alba, è una delle spiagge più insignificanti del mondo, quasi una spiaggia di pescatori. L’Occidente si conclude qui, su un lido privo di senso, come un viaggio che, arrivando alla fine, perde ogni significato. L’immensa metropoli di Los Angeles si conclude così sul mare, come un deserto, con la stessa oziosa indolenza” (J. Baudrillard, America, tr. it. di L. Guarino, SE, Milano 2000, p. 72). “Di fronte a un caso in cui l’Arte ha giocato consciamente con l’Illusione e si è misurata con la vanità delle immagini attraverso l’immagine di un’immagine, l’industria del Falso Assoluto non ha osato tentare la copia, perché avrebbe sfiorato la rivelazione della propria menzogna” (U. Eco, Nel cuore dell’impero: viaggio nell’iperrealtà, in Id., Dalla periferia dell’impero, Bompiani, Milano 2004, p. 31). Cfr. anche A. Arbasino, Le Muse a Los Angeles, Adelphi, Milano 2000.

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esiste questa congiunzione folgorante di radicale incultura e di tale bellezza naturale, di prodigio naturale e di simulacro assoluto.13

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3. L’estate infinita Una delle più caustiche, ma anche, a ben guardare, più esaustive sintesi dell’opera dei Beach Boys è offerta, un po’ inaspettatamente, da Paul Morrissey, il regista di culto collaboratore di Andy Warhol. Autore di alcuni dei film (d’avanguardia) più sprezzanti nei confronti del sogno americano a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta (Flesh, Trash e soprattutto l’acida descrizione di Los Angeles di Heat), Morrissey è ricordato da Warhol in POPism, il resoconto degli anni Sessanta del guru della Pop Art, particolarmente in un episodio. L’entourage della Factory è in California, fine agosto del 1967, la Summer of Love sta terminando. Dopo Los Angeles, il gruppo va a San Francisco, epicentro della controcultura. Intellettuale di formazione cattolica e dal temperamento allo stesso tempo obliquo e pragmatico, Morrissey è fortemente disturbato, se non disgustato, dalla cultura hippie di San Francisco. La sua critica si indirizza alla scena rock della città, probabilmente un semplice pretesto polemico, e alla fine aggiunge, come riporta Warhol: I Beach Boys sono stati il miglior gruppo americano perché accettavano la vita californiana per quello che era, con tutto il suo splendore spensierato, senza chiedere scusa o imbarazzarsi: va’ in spiaggia, trovati una ragazza, abbronzati, punto e basta. E il loro era l’approccio più sofisticato che si potesse avere: musicale invece che “con i messaggi”.14

La California dei Beach Boys non è esattamente quella, più complessa, indagata da Banham: un universo che vive di contaminazioni, spesso incontrollate, in tutte le sue espressioni quotidiane, dal cibo alla lingua, e soprattutto nell’architettura, dove oscillare tra il revival spagnolo e le sperimentazioni moderniste appare come una formula che non mette alla prova le perplessità del gusto medio. È invece un luogo più ingenuo, ma anche più universale, e in questo ovviamente più stereotipato. Osservare l’intero corpus dei Beach Boys è un’operazione che oggi richiede un necessario sforzo di sintesi che deve naturalmente integrare 13 14

J. Baudrillard, America, cit., p. 137. A. Warhol, P. Hackett, Pop. Andy Warhol racconta gli anni Sessanta, tr. it. di C. Scapini, Meridiano Zero, Padova 2004, p. 247.

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l’affermazione di Morrissey, affermazione che fu fatta quando “Good Vibrations”, il brano più famoso del gruppo, non era ancora stato pubblicato, sebbene soltanto per una questione di poche settimane. Gli anni Sessanta dei Beach Boys sono essenzialmente divisi in due periodi, se non addirittura tre. Il primo periodo va dal 1962 al 1964, la seconda fase si estende dal 1965 al 1967, la terza conclude problematicamente il decennio. Ciò che seguirà sarà un precario esercizio di sopravvivenza, contraddittorio come la decade che riflette, gli anni Settanta. Al centro di questa parabola artistica collettiva la parabola, a sua volta, della personalità di Brian Wilson, l’insuperato genio debole della storia del rock. I primi sei album dei Beach Boys (Surfin’ Safari del 1962; Surfin’ U.S.A., Surfer Girl e Little Deuce Coupe del 1963; Shut Down Vol. 2 e All Summer Long del 1964) incarnano l’autentico spirito apollineo californiano, definiscono lo scenario mitografico al quale la band sarà sempre ricondotta dall’immaginario del pubblico e al quale la band stessa ricorrerà ciclicamente, come facile escamotage, nei momenti più critici. Questa prima produzione è e sarà sempre la California che ciascuno di noi ha in mente. È qualcosa di definitivo e per questo, nell’ambito di un’analisi della cultura pop, ha una sua crucialità. Pochi autori come Brian Wilson sono riusciti a costruire un’estetica così stringente elaborando pochissimi temi. La California di Wilson è la lontananza assoluta dall’America reale (la morte di Kennedy, le lotte per i diritti civili, gli inizi della guerra del Vietnam) eppure ha una sua realtà, quotidiana e tangibile: è il privilegio dell’adolescenza. La California della gioventù contro l’America degli adulti. Nella rimozione di un reale estraneo, problematico e oscuro nei suoi linguaggi (la politica in primo luogo, il più grande tabu della poetica dei Beach Boys) si accende il sogno apollineo di Wilson, un sogno che vive esclusivamente attraverso quattro grandi temi: il surf, le ragazze, le automobili e la solitudine adolescenziale. La spiaggia e il suo opposto, l’oceano, sono la geografia in cui tutto ciò si modula, quasi in modo statico, ripetitivo, poiché ignoti sono i processi della storia. L’apollineo di Wilson è un’incessante estetica dell’iterazione, un testardo rifiuto del divenire: conta solo l’essere della rappresentazione compiuta. La mimesis di quei feticci che unicamente interessano l’adolescente californiano e che alimentano il suo mondo interiore. Ritornare continuamente su ciò che è già noto sarà il grande sogno che segnerà l’arte propriamente musicale di Wilson e che lo porterà, paradossalmente, a trascendere i limiti della sua visione iniziale e a cercare, e a trovare per un breve attimo, l’essenza della bellezza (pop). Il primo singolo dei Beach Boys, “Surfin’”, pubblicato nel novembre del 1961, un discreto successo radiofonico della regione di Los Angeles,

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proclama il surf come valore assoluto senza mezzi termini: “Surfin’ is the only life / The only way for me”15. Sinonimo di estate e autentica vita californiana, il surf è celebrato dai Beach Boys, che non sono surfisti, come paradigma esistenziale fino al punto di divenire nella celeberrima “Surfin’ U.S.A.” il cuore di uno strampalato discorso alla nazione: “If everybody had an ocean across U.S.A. / Then everybody’d be surfin’ like Californ-I-A”16. La vita del surfista è celebrata, indagata nei suoi molteplici risvolti (“Surfin’ Safari”, “Noble Surfer”, “Catch a Wave”, “The Surfer Moon”, “South Bay Surfer”, “Surfers Rule”, “Surf City”, quest’ultima interpretata dal duo Jan and Dean) e si intreccia inevitabilmente con gli altri temi della band, condividendone lo spazio (la spiaggia) e il tempo (l’estate). Il divertimento estivo, che vive di una sua piena autonomia, quasi autistica (“Hawaii”, “Don’t Back Down”), o che si proietta in scontati oggetti del desiderio (le ragazze e le auto di “Fun, Fun, Fun”, di “All Summer Long” e “I Get Around”), trova l’arresto del suo infantile punto di fuga nell’incontro con un altro soggetto: non più le ragazze anonime e interscambiabili, le innumerevoli “Girls on the Beach”, ma la “ragazza”, la “Surfer Girl”. “Surfer Girl” è una canzone centrale nella produzione di Brian Wilson. In essa sono fissati una volta per tutte i parametri di una bellezza più evocata che realmente descritta. È il desiderio sempre posticipato dell’adolescente, sempre affamato di conferme, fatto di banalissime domande (“Do you love me, do you, surfer girl?”17) che incorniciano in una sola immagine, come nel dipinto quasi coevo di Roy Lichtenstein Girl with Ball, l’idea della bellezza apollinea stile californiano. Come un’Afrodite in miniatura, luminosa e lontana, la ragazza del surfista è un sogno evanescente capace quasi di saziare con la sua semplice apparizione: “I have watched you on the shore / Standin’ by the ocean’s roar”. È un’immagine dalla quale l’universo interiore di Wilson farà fatica a distaccarsi (come dimostrerà un’altra canzone decisiva del 1966, “Caroline, No”), poiché in quell’immagine vive la promessa dell’inizio e, per parafrasare Picasso, dopo l’inizio c’è soltanto la fine. Interessante notare che l’ispirazione musicale di “Surfer Girl” è, come ha ammesso lo stesso Wilson, “When You Wish upon a Star”, la canzone guida della versione disneyana di Pinocchio del 1940.18 L’inno alla bellezza femminile non è altro che la rielaborazione del desiderio di un bambino.

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Beach Boys, “Surfin’” in Surfin’ Safari, Capitol Records, 1962. Beach Boys, “Surfin’ U.S.A.” in Surfin’ U.S.A., Capitol Records, 1963. Beach Boys, “Surfer Girl’” in Surfer Girl, Capitol Records, 1963. Wilson includerà una propria interpretazione di “When You Wish upon a Star” nel suo tributo alle canzoni dei film di Walt Disney In the Key of Disney, del 2011.

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L’altra dimensione della brama del teenager è l’auto. Prodotto totemico, abbagliante e non oscuro oggetto del desiderio, proiezione e sublimazione della frustrazione sessuale dell’adolescente borghese, l’auto è nelle canzoni dei Beach Boys (l’album del 1963 Little Deuce Coupe è interamente dedicato alle automobili) il luogo dove l’estetica del consumabile, premessa della cultura pop e cuore del capitalismo del secondo dopoguerra, si compie e si traveste. Possedere un’auto significa conquistare possibilità di libertà, significa acquisire una propria spendibilità sociale (come avviene per le ragazze con la bellezza fisica), significa appartenere a una comunità, quella di Los Angeles, che attraverso l’auto elabora i propri spazi di senso: significa essere californiano. In “409”, “Little Deuce Coupe”, “Our Car Club”, “Ballad of Ole Betsy”, “Car Crazy Cutie”, “Cherry, Cherry Coupe”, “Shut Down”, “Spirit of America”, “Custom Machine”, “Drive-In” e “Little Honda” (singolare variazione motociclistica del tema), l’auto è allo stesso tempo simbolo e promessa dei traguardi del benessere tecnologico ed economico, il moderno nella sua esibizione più esibita, e attestazione di una nuova visione della vita, che in realtà si radica in valori già dati. Tranne che in “Little Honda”, i Beach Boys infatti celebrano sempre l’automobile e mai la motocicletta, oggetto di ribellione e marginalità sociale, come è evidente nel film Il selvaggio con Marlon Brando di circa dieci anni prima. L’automobile, come scrive nel 1955 Banham, è molto più di un manufatto concettualmente in evoluzione ma standardizzato nei vari modelli transitori: è qualcosa che esiste in più esemplari ma è anche consumabile nella sua individualità, un veicolo del desiderio e un sogno che il denaro può comprare.19

Surf, ragazze e automobili compongono la realtà esterna e si riflettono più o meno problematicamente nell’universo interiore dei protagonisti delle canzoni dei Beach Boys. Aver scandagliato il lato più ombroso dell’adolescente è il primo grande apporto autobiografico di Wilson alla descrizione della vita californiana. Ma non c’è tragedia, nessuna drammatizzazione, nessuna messa in discussione dello status quo, soltanto la penetrante analisi del disorientamento adolescenziale. Allo spazio comune del divertimento, la spiaggia, fa eco quello individuale del turbamento, la propria stanza. “In My Room” è un passo decisivo nel percorso d’autocoscienza del mondo giovanile, è la scoperta di una dimensione esistenziale che ha una sua unicità assoluta: una solitudine che non può essere 19

R. Banham, Veicoli del desiderio, in Id., Architettura della Seconda età della macchina. Scritti 1955-1988, tr. it. di B. Del Mercato, Electa, Milano 2004, p. 42.

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L’estetica dei Beach Boys

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comunicata né consolata, ma soltanto vissuta. La stanza diventa il nuovo grembo, un approdo regressivo nel quale sconfessare le pressioni di un mondo esterno (e adulto) incomprensibile: “There’s a world where I can go / And tell my secrets to / In my room”; “In this world I lock out / All my worries and my fears / In my room”; “Now it’s dark and I’m alone / But I won’t be afraid in my room”20. Il crepuscolarismo di Wilson, non ancora pienamente espresso, ma già in azione (“Lonely Sea”, “The Warmth of the Sun”), è la rivelazione di un altro lato della natura dell’apollineo. Se nel surf, nelle ragazze e nelle auto Wilson oggettiva l’apollineo come rappresentazione del bello, come valore di condivisione estetica, in canzoni come “In My Room” egli rinviene nella propria personalità la premessa di questa stessa oggettivazione. L’autore apollineo è colui che vive nella separazione tra sé e la propria opera, che non attiva processi di identificazione, tipici del dionisiaco. L’autore apollineo è colui che sogna e nel sogno elabora il proprio linguaggio plastico e mimetico: anche la luce apollinea ha una sua ombra. Apollo è il dio della distanza che nell’immediatezza abbagliante delle proprie raffigurazioni cela la complessità sfuggente della sua identità: “Tutto il suo modo di essere è distacco, limpidissimo esimersi. Ed è proprio dell’indole di Apollo lo stare in disparte”.21 La scoperta di questa distanza è ciò che conduce Wilson, e con lui i Beach Boys, alle intuizioni assolute del biennio 1965-1966. Il surf e le auto sono accantonati come giocattoli venuti a noia, rimangono le ragazze e l’interiorità, ma è cambiata la prospettiva. Non più l’irraggiungibilità del desiderio, ma la complessità dei sentimenti che maturano, le responsabilità dettate da rapporti che non si esauriscono nell’orizzonte ludico di una sola estate: l’amore. Crescere nel e attraverso l’amore è la nuova consapevolezza a cui bisogna dare un’immagine. 4. L’immagine perfetta La musica dei Beach Boys, fino a quel momento sostanzialmente derivativa (il rock’n’roll, il doo-wop, il pop), inizia a mirare più in alto. Stimolato dal confronto con le produzioni di Phil Spector e dei Beatles, Wilson scopre nello studio di registrazione una nuova Disneyland sonora, una nuova stanza dell’adolescente. In seguito a una crisi nervosa, sul finire del 20 21

Beach Boys, “In My Room” in Surfer Girl, Capitol Records, 1963. W. Otto, Gli dei della Grecia, tr. it. di G. Federici Airoldi, Adelphi, Milano 2004, p. 70.

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Filosofia e popular music

1964, Wilson decide di smettere di esibirsi dal vivo con la band. Da quel momento si concentrerà unicamente sulla composizione e sulla produzione della musica del gruppo. Così, mentre i Beach Boys continueranno a impegnarsi in remunerativi tour, il loro leader esperirà l’ombrosità produttiva dell’apollineo. L’isolamento assumerà negli anni a venire tratti di eccentricità grottesca. In una sala della sua villa viene installata una sandbox, un recinto di sabbia come nei giardinetti pubblici per bambini, e al centro del recinto viene posto un pianoforte per dar vita a una compiuta sinergia regressiva: la musica e la spiaggia in uno spazio autistico non più dialogante con il resto del mondo. Cosa nasce da questo isolamento che nel 1965 è ancora gestibile? Nasce semplicemente la più grande epopea pop degli anni Sessanta che solo i Beatles possono affermare di aver eguagliato (e superato). Wilson scopre che il pop è il precario incontro tra la comunicazione immediata e un elaborato processo di strutturazione formale. L’apollineo, la capacità di dar forma all’opacità del sentire, non è più adesso l’esibizione di una mitografia californiana di consumo turistico, ma è l’espressione di un’arte pop al massimo grado. Nel “Wall of Sound” (la particolare tecnica di produzione di Phil Spector, consistente nell’aggiungere alla normale strumentazione pop sovrapposizioni di musica orchestrale per ottenere un effetto di riverbero), Wilson intravede la soluzione apollinea finale. Il muro del suono: “La musica di Apollo era architettura dorica in suoni”.22 E come ha affermato lo stesso Spector, quasi a legittimare questa associazione nietzschiana: Sono stato sempre interessato a un approccio wagneriano al rock and roll. […] Sono stato molto influenzato da Wagner. È veramente difficile da immaginare perché il rock and roll è una cosa che… che tutti guardano dall’alto in basso. Ma se ascolti l’immensità di un disco di Wagner, […] stavo scrivendo piccole sinfonie per ragazzini.23

Il primo risultato organico di questo nuovo percorso è l’album del marzo del 1965, Today!. Sono ancora presenti gli inni al divertimento (la cover di Bobby Freeman, “Do You Wanna Dance”, e “Dance, Dance, Dance”), ma anche le canzoni più famose (e commercialmente riuscite) come “When I Grow Up (to Be a Man)” e “Help Me, Rhonda” (brano riarrangiato e pubblicato un mese dopo e secondo numero uno in classifica della band dopo “I Get Around”) mostrano maggiori inquietudini. Soprattutto l’atmosfera di “When I Grow Up (to Be a Man)” preannuncia i temi che condurrano 22 23

F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 29. R. Williams, Phil Spector: Out of His Head, Omnibus Press, London 2003, p. 77.

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L’estetica dei Beach Boys

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Wilson al suo capolavoro del 1966, Pet Sounds. Le certezze dell’età adolescenziale si incrinano. La stessa idea di bellezza diventa un interrogativo: il mondo adulto sarà capace di offrire le stesse immagini di incanto fino a quel momento esperite? “When I grow up to be a man / Will I dig the same things that turn me on as a kid?”; “Will I look for the same things in a woman that I dig in a girl?”24. I rapporti si fanno più complessi: l’abbaglio apollineo (“This beautiful image / I have of you”25) a tratti sembra non essere più sufficiente, come appare nella prima canzone, “Please Let Me Wonder”, dell’introverso secondo lato del disco. L’immagine della ragazza si muta nella realtà del confronto interpersonale (“She Knows Me Too Well”) o nella semplice nudità della catarsi sentimentale (“Kiss Me, Baby”, una delle massime performance vocali della band). Questa tensione introspettiva è momentaneamente sospesa nell’album successivo, uscito in piena estate, Summer Days (And Summer Nights!!!). Un apparente passo indietro che, tuttavia, regala al mondo la più grande immagine da cartolina della California turistica: “California Girls”, con il suo motto definitivo “I wish they all could be California girls”. L’estraniamento di Wilson dai compromessi e dalle pressioni commerciali si mostra in tutta la sua evidenza con l’operazione Beach Boys’ Party, pacco dono natalizio di fine anno. Un album di cover, una falsa improvvisazione live, una festa artificiosamente riprodotta in studio, con tanto di cori, applausi e risate. E mentre Wilson è impegnato a trovare un filo d’Arianna nel labirinto della sua mente (e dei suoni che la sua mente immagina), il mondo si ritrova regredito e felice di perdersi nei cori spensierati di una furba cover da quel momento per sempre associata ai Beach Boys, “Barbara Ann”. In quell’istante Brian Wilson sembrò veramente un novello Jay Gatsby che osservava gli altri divertirsi alla festa da lui organizzata. Ma il distacco che l’apollineo richiede nella concezione delle proprie forme dette i suoi frutti, il suo frutto massimo: Pet Sounds, 16 maggio 1966. La complessità delle soluzioni musicali, l’uso di una strumentazione sempre più ardita e l’ossessione (tipicamente apollinea) della perfezione estetica, i testi ispirati da Wilson e messi su carta in forma compiuta da Tony Asher costruirono il grande epos della musica pop, il passaggio dalla linea d’ombra dell’adolescenza all’incertezza della vita adulta. Pet Sounds divenne l’immagine definitiva di un mondo, la California stereotipata, alla cui cristallizzazione gli stessi Beach Boys avevano contribuito in modo 24 25

Beach Boys, “When I Grow Up (to Be a Man)” in Today!, Capitol Records, 1965. Beach Boys, “Please Let Me Wonder” in Today!, Capitol Records, 1965.

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Filosofia e popular music

sostanziale, proprio perché fu capace di trascendere quell’immagine. Innervò quella solarità logora con la consapevolezza che la bellezza non è veramente tale se non attraversa il dolore, e in tal modo fu compreso che l’amore, nella sua complessità tragica, è il centro di ogni esistenza. Diventare adulti cosa significa realmente? A quali congedi occorre consegnarsi per crescere? A quali rinunce? Ci saranno bellezze capaci di sostituire quelle che fino ad ora si sono conosciute? L’amore fu lo sfondo e il primopiano di queste domande. E il pop, al massimo della sua espressione formale e all’apice del suo classicismo, si legittimò per sempre come la grammatica estetica più adatta per rendere questa inquietudine arte. Il sogno ancora in qualche modo infantile di immaginare una vita in comune, il semplice stare insieme di una giovane coppia, apre lo scenario di Pet Sounds. Ma nonostante la sua gioia manifesta, “Wouldn’t It Be Nice”, la prima canzone dell’album, già indica umori più obliqui, la coscienza inaggirabile che la felicità si accompagna inevitabilmente al suo opposto: le complicazioni dell’amore (“You Still Believe in Me”, “I’m Waiting for the Day”), le sue verità impossibili da pronunciare se non con il silenzio (“Don’t Talk”, con un Wilson al culmine della propria fragilità: “Don’t talk, take my hand and listen to my heart beat / Listen, listen, listen”26), la sua transitorietà che rende oscuro anche il momento stesso dell’innamoramento (“Here Today”) e l’incertezza dell’esistenza che si rivela l’unica autentica verità dell’amore (“God Only Knows”, con il suo sbalorditivo incipit: “I may not always love you”27). Accanto a questi toccanti frammenti di un discorso amoroso in salsa pop, le riflessioni sull’insicurezza (“That’s Not Me”), l’incertezza (“I Know There’s an Answer”), il senso di smarrimento e inadeguatezza (“I Just Wasn’t Made for These Times”), brani che sono appunti di un diario intimo fatto leggere al mondo intero. Per poi giungere alla canzone conclusiva: “Caroline, No”, la tappa finale dell’innocenza perduta. “Caroline, No” esibisce come non mai la compiuta maturazione dell’apollineo di Wilson: l’aver assunto nella perfezione dell’immagine lo scarto emotivo, e doloroso, del ricordo. Chi è Caroline? Caroline è la “surfer girl” che è cresciuta scegliendo la realtà e abbandonando il sogno. Ma chi l’ha amata può accettarlo? All’epoca, 1966, Wilson ha 24 anni ed è sposato. È un giovane adulto a tutti gli effetti. Eppure sceglie di ritrarre, in quella che rimane una delle sue canzoni più grandi, l’amore non corrisposto del liceo, Carol Mountain, una cheerleader bionda. Solo recuperando il deside26 27

Beach Boys, “Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder)” in Pet Sounds, Capitol Records, 1966. Beach Boys, “God Only Knows” in Pet Sounds, Capitol Records, 1966.

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rio inespresso dell’adolescenza poteva aprirsi lo spazio tra quell’immagine di perfezione, di bellezza irraggiungibile e la non accettazione che anche quella bellezza potesse diventare qualcos’altro. I cliché della “surfer girl” sono invocati proprio nel momento in cui emerge la consapevolezza di averli persi per sempre. Il dolore della storia entra nel mondo dei Beach Boys e vi entra, non poteva essere altrimenti, attaverso la dimensione del privato: “Where did your long hair go? / Where is the girl I used to know? / How could you lose that happy glow? / Oh Caroline, no”28. E questo divenire impietoso compromette la stessa idea di bellezza. Anzi, il vero dolore è vedere la bellezza morire, o forse vale il contrario, la vera bellezza appare nell’attimo della sua rinuncia e del suo congedo: “Break my heart I want to go and cry / It’s so sad to watch a sweet thing die / Oh Caroline why?”. L’impossibilità di separarsi da questa visione e il tentativo di cercare di andare oltre Pet Sounds condussero Wilson al progetto irrealizzato di Smile. Gli sperimentalismi pop furono portati all’estremo, i testi firmati da Van Dyke Parks esibirono ermetismi che la stessa band, ad eccezione di Wilson, sembrava, per essere generosi, condividere a stento. L’album, un’oscura odissea nell’immaginario musicale americano, un tentativo di portare “Mark Twain nel rock’n’roll” (nella suggestiva definizione dell’inquieto leader degli Smashing Pumpkins, Billy Corgan), non fu mai portato a termine. Le canzoni, come mostra il brano centrale del progetto “Heroes and Villains”, erano il risultato di un faticoso processo di decostruzione in cui i singoli elementi, veri e propri atomi sonori, si ricomponevano in una serie di direzioni che erano allo stesso tempo centripete e centrifughe. Sotto pressione, incompreso, stordito dalle droghe, disorientato, isolato, Wilson alzò bandiera bianca. Come superare Pet Sounds? O la canzone capolavoro dell’autunno del 1966, “Good Vibrations”? Quest’ultima canzone, del resto, aveva segnato un punto di non ritorno. In vetta sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, la canzone (“una sinfonia tascabile per Dio”, come la definì lo stesso Wilson) mostrò di cosa fosse capace la mente di Brian Wilson, una mente tanto geniale quanto insicura di tutto e su tutto. Dopo otto mesi chiuso in quattro diversi studi di registrazione a Los Angeles e 700.000 dollari di costi di produzione (un record per l’epoca), mentre gli altri membri del gruppo erano impegnati nell’ennesimo redditizio tour, Wilson regalò alle orecchie del mondo tre minuti e trentacinque secondi in cui le onde dell’oceano furono veramente eguagliate. E in cui il pop raggiunse la sua assolutezza apollinea, la sintesi insuperabile di un’intera estetica, la propria immagine perfetta. 28

Beach Boys, “Caroline, No” in Pet Sounds, Capitol Records, 1966.

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5. La poetica del cliché Quello che seguì fu un’ininterrotta sequenza di luci e ombre, di mediocrità dissimulata tra canzoni a volte ancora perfette e altre volte, sempre più spesso, copia di se stesse. Un esercizio di stile che traghettò l’estetica dei Beach Boys in anni tetri. La controcultura, il Vietnam, il Watergate furono lo sfondo di album sfornati con regolarità, ma anche senza un senso preciso. Wilson, chiuso nella sua labilità psichica e nel suo ozio patologico (“Busy Doin’ Nothin’”, come recitava una sua canzone del 1968, l’anno in cui tutti tranne lui stavano facendo qualcosa), perse la leadership e i Beach Boys, paradossalmente, scoprirono di essere una band, ma per loro sfortuna fuori tempo. Più che un gruppo che traeva la forza dall’unione dalle diverse anime dei suoi componenti, i Beach Boys divennero uno strano contenitore nel quale contava, più che il tutto, la sconnessa somma delle sue parti: l’ortodossia di Mike Love ai cliché del gruppo, l’eclettismo artigianale di Carl Wilson, il romanticismo virile di Dennis Wilson, l’umiltà ironica di Al Jardine e i parchi contributi di Bruce Johnston (il sesto membro aggiunto). Dell’aspirazione apollinea non rimase che la posa e della sua immagine di perfezione non restò che un’opaca evocazione, una vetusta formula commerciale. Nel breve volgere di un istante i Beach Boys si tramutarono nell’archeologia di se stessi, nei giocattoli messi in soffitta da quel pubblico che, ormai cresciuto, cercava altri valori.29 Emblema di questa de-attualizzazione del gruppo californiano fu il singolo del luglio del 1968, “Do It Again”. In pieno Sessantotto i Beach Boys produssero due minuti e venticinque secondi di revival in presa diretta ed emozioni in differita. L’abusato immaginario fu fatto rivivere: le ragazze avevano di nuovo fluenti capelli lunghi, i corpi tornarono giovani ed abbronzati, il surf troneggiava ancora una volta e l’incantesimo fu lanciato senza timori: ripetere il passato e perdersi in quel ricordo. Vale a dire rimuovere un presente incomprensibile e ideologizzato: “Well I’ve been thinking ‘bout / All the places we’ve surfed and danced and / All the faces we’ve missed so let’s get / Back together and do it again”30. Maldestri 29

30

Come ha notato Eco: “una casa privata di settant’anni fa è già dato archeologico: il che ci dice molto sul vorace consumo del presente e sulla ‘passatizzazione’ costante che la civiltà americana compie nel suo processo alternato di progettazione scientifica e di rimorso nostalgico: ed è singolare che nei grandi negozi di dischi nel settore detto ‘Nostalgia’ ci siano, accanto alla sezione anni Quaranta e anni Cinquanta, anche le sezioni anni Sessanta e anni Settanta” (U. Eco, Nel cuore dell’impero, cit., p. 19). Beach Boys, “Do It Again” in 20/20, Capitol Records, 1969.

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L’estetica dei Beach Boys

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sacerdoti di un passato irripetibile, i Beach Boys si ritrovarono ingabbiati nella loro stessa estetica: trascorsa l’estate non rimane altro che parlare all’infinito del suo ricordo, la celebrazione di un’immagine che si muta nel proprio simulacro. Come avrebbe scritto Andy Warhol nel 1985:

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E, mentre la vivi, la tua vita non ha atmosfera finché non si trasforma in un ricordo. Per questo i luoghi immaginari dell’America sembrano così densi di atmosfera, perché li hai costruiti assemblando scene di film, canzoni, libri. E vivi nella tua America da sogno, che ti sei fatto su misura con l’arte, le sdolcinatezze e le emozioni, tanto quanto nella tua America reale.31

Ricadere nel sogno apollineo travestì gli sbandamenti sempre più manifesti del gruppo. Un Wilson sempre più disinteressato e appartato lasciò che i suoi due fratelli Carl e Dennis e il cugino Mike Love portassero avanti quello che ormai era un brand sempre meno remunerativo. Dopo il naufragio di Smile la band decise di riesumare a brandelli quel progetto nell’album del settembre del 1967, Smiley Smile. Il disco, un’ovvia controfigura del concept abortito, si rivelò un bizzarro saggio di psichedelia mal digerita, l’abbozzo di una transizione fine a se stessa: un vero e proprio passaggio a vuoto e verso il vuoto, come dimostrarono gli album che seguirono. Album che, al momento della loro pubblicazione, furono spazzati dalla controcultura e che oggi, con gusto filologico un po’ compiaciuto, sono stati recuperati a volte al di là dei loro effettivi meriti, sebbene non fossero e non siano opere a tratti prive di un loro fascino. Wild Honey (pubblicato appena tre mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno), interlocutorio e ondivago, Friends (1968), uno sfocato catalogo di bozzetti di vita familiare, 20/20 (1969), un’astuta esibizione di tuttologia musicale di mestieranti che la sanno lunga. Sunflower (1970) e Surf’s Up (1971) mostrarono nuove altezze. Opere più strutturate di quelle della fine del decennio precedente, videro in azione una band quanto mai viva. Ritornò in Sunflower la tendenza a costruire mini-opere (“This Whole World”), riemerse il ruolo catartico se non terapeutico in senso stretto della musica (“Add Some Music to Your Day”) e un’eleganza anacronistica, ma accattivante (“Forever”, “Our Sweet Love”). Un’estetica ancor più matura fu sviluppata in Surf’s Up. Ogni membro contribuì con canzoni importanti. Mike Love, con “Don’t Go Near the Water”, inaspettamente per la prima volta vide nell’oceano non il luogo del divertimento surfistico, ma la possibilità di portare avanti un ecologismo un po’ ingenuo. L’acqua divenne così non solo il pretesto per un denuncia, 31

A. Warhol, America, tr. it. di A. Mecacci e G. Monaco, Donzelli, Roma 2009, p. 4.

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un po’ vaga, dei danni dell’inquinamento, ma anche lo specchio impietoso di una band che stava invecchiando. In “Student Demonstration Time”, sempre Love fece entrare la storia nell’universo dei Beach Boys (e non a caso la canzone rimane la più detestata da Brian Wilson) descrivendo alcuni episodi di forte tensione sociale, in particolare la morte di quattro studenti della Kent University in Ohio ad opera della Guardia Nazionale il 4 maggio del 1970. La canzone, una riscrittura di “Riot Cell in Block Nine” (un brano del 1954 composto da Jerry Leiber e Mike Stoller) sembrò uno strano ibrido tra “Revolution” dei Beatles e “Ohio”, la canzone di Neil Young direttamente collegata alla strage della Kent University. Più consona alla band “Disney Girls”, una languida ballata di Bruce Johnston, uno dei vertici del decennio dei Beach Boys. Ancora una volta la nostalgia degli anni più belli (l’anno evocato è il 1957), ancora una volta l’anelito al passato che coincide con il rifiuto del presente: “Oh reality, it’s not for me / And it makes me laugh / Oh fantasy world and Disney girls / I’m coming back”32. Il momento musicale più alto dell’album è “Feel Flows” di Carl Wilson, un brano nel quale con sapienza stupefacente si fondono psichedelia e armonie vocali, una prova di ciò che i Beach Boys sarebbero potuti essere e non sono stati prima di smarrirsi nelle contraddizioni degli anni Settanta. Le due canzoni finali dell’album, entrambe di Brian Wilson, riconsegnano l’immagine dell’oceano. Se “Surf’s Up”, ennesimo recupero da Smile, è una labirintica esibizione dei risultati raggiunti da Wilson tra il 1965 e il 1967, con una decisiva accentuazione della sua natura ombrosa, “’Til I Die”, penultimo brano dell’album, rovescia una volta per tutte la fotografia apollinea dell’oceano. L’estate è veramente finita: “How deep is the ocean? / I lost my way”33. La parte centrale degli anni Settanta è quanto mai rivelatrice della natura kitsch che ormai la proposta della band stava assumendo soprattutto agli occhi del pubblico. Mentre gli album (Carl and the Passions – “So Tough” del 1972, Holland del 1973) passano sostanzialmente inosservati e quanto mai privi dell’apporto di Brian Wilson, la sigla Beach Boys appare vivere una seconda esistenza. Mentre l’anima della California, ora furbescamente ribatezzata West Coast, sembrava meglio espressa nella prima metà del decennio dall’utopia post-Woodstock di Crosby, Stills, Nash & Young e affini e, nella seconda metà, dal cinismo estetico degli Eagles, cantori – nella perfezione gelida di Hotel California – di una Los Angeles sempre più smarrita nell’incubo di un sogno fatto di cocaina e prostitute minorenni più che 32 33

Beach Boys, “Disney Girls (1957)” in Surf’s Up, Reprise, 1971. Beach Boys, “’Til I Die” in Surf’s Up, Reprise, 1971.

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di surf e ragazze sulla spiaggia, l’America a un tratto preferì riscoprire la sua innocenza. Così, nell’estate del 1974, in pieno Watergate e con Nixon in procinto di dimettersi, la nazione condusse l’antologia Endless Summer sempre più in alto fino al primo posto, raggiunto agli inizi di ottobre. Endless Summer incarnò pienamente l’immagine che era stata costruita attorno ai Beach Boys (e che essi stessi avevano contribuito a costruire). Le venti canzoni dell’antologia appartenevano tutte all’era anteriore a Pet Sounds. Una riuscita regressione di dieci anni che fu rafforzata dall’uscita di un’altra antologia, Spirit of America, nell’aprile del 1975. Rimanendo in classifica per oltre due anni e mezzo e vendendo tre milioni di copie, Endless Summer fu la cartolina finale dell’epopea dei Beach Boys. Fu l’illusione di un sogno al quale un’intera nazione cercò, furbescamente, di consegnarsi proprio nel momento della sua disillusione. Lo dimostrarono anche due film che incorniciarono quegli anni centrali del decennio: American Graffiti e Un mercoledì da leoni. Nel film del 1973 di George Lucas, i Beach Boys appaiono beffardamente con “All Summer Long” nei titoli di coda. L’estate del film è il 1962, il brano del 1964: un voluto scarto temporale che rimarca ancora una volta il divario tra il sogno e la realtà. Mentre la canzone procede, viene svelato il tragico e anonimo destino dei quattro protagonisti: la canzone continua a ripetere il proprio spensierato sogno di eterna adolescenza estiva proprio quando tutti si accorgono che l’estate è finita. Non rimane che la vita adulta: chi morirà in un incidente d’auto, chi verrà dichiarato disperso in Vietnam, chi diventerà agente d’assicurazione e chi scrittore lontano da casa. Se American Graffiti è un inventario del mondo pre-Vietnam al quale i Beach Boys sono appartenuti, prima come semplici adolescenti e poi come i suoi interpreti più accaniti, il film del 1978 di John Milius, Un mercoledì da leoni, non citando mai la band, la evoca implicitamente nella tipica mitologia californiana del surf, che si muta in modo palese in metafora esistenziale. L’arco temporale, che parte dall’estate del 1962 (ancora una volta, l’anno dell’esordio dei Beach Boys) e arriva a quella del 1974 (l’anno di Endless Summer), descrive la lenta parabola di disincanto di tre amici surfisti, la coscienza della perdita della propria innocenza, l’attesa, sempre meno comprensibile, ma allo stesso tempo necessaria, della “grande onda (the great swell)”, l’occasione di vedere con maturità le promesse del passato per comprendere i significati del futuro. A questa strana epoca di bilanci amari e nostalgie rassicuranti i Beach Boys pensarono bene di dare il loro apporto con un album tanto efficace commercialmente quanto inutile sotto tutti gli altri punti di vista: 15 Big Ones. Pubblicato nel luglio del 1976, l’album riportò il gruppo dopo dieci

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anni (se si prescinde dalle raccolte di successi) nella top ten. Si trattava, più che altro, di una serie di scanzonate cover, tra cui spiccava “Rock and Roll Music” di Chuck Berry, alle quali si accompagnavano sparuti contributi originali, tra cui il solito inno estivo, “It’s O.K.”. L’estetica tutto forma e niente contenuto di 15 Big Ones fu sconfessata l’anno seguente con Love You, una spettrale esibizione delle condizioni critiche di Wilson. Il disco rivelò una sua indubbia unitarietà (tutte le canzoni sono di Brian Wilson), ma anche un anacronismo doloroso. I tormenti di un’anima sofferente, smarrita nell’autoindulgenza delle proprie miserie, cosa poteva comunicare a un mondo che si stava dividendo tra la scena disco e quella punk? Nulla. E il nulla fu. La sequenza M.I.A. Album (1978), L.A. (Light Album) (1979) e Keepin’ the Summer Alive (1980) non fu il conto finale delle occasioni mancate di un’intera generazione, fu un insopportabile esercizio di nichilismo annoiato: canzoni che non parlavano di nulla e che non parlavano a nessuno. Il kitsch, fino a quel momento bene o male represso dall’inquietudine creativa di Wilson e dalla saggezza ironica del resto del gruppo, si riversò in soluzioni sonore difficili da digerire. L.A. (Light Album), l’unico album della band non prodotto da Wilson, palesò al massimo questa deriva: in “Lady Lynda” come introduzione fu riarrangiato il corale di Bach “Jesus bleibet meine Freude”, in “Sumahama” si faceva largo sinuosamente un sound stile “sol levante” per richiamare direttamente le atmosfere nipponiche evocate dalla canzone, in “Here Comes the Night”, una canzone originariamente apparsa su Wild Honey nel 1967, furoreggiavano undici minuti (!) di inconcludente disco music. La gioia apollinea dei Beach Boys si era cristallizata in formule vuote, obblighi contrattuali e disinteresse diffuso, quando l’America si lanciò nelle braccia del “Grande Comunicatore”, Ronald Reagan. All’alba degli anni Ottanta, con Keepin’ the Summer Alive, il trucco era ormai logoro se non patetico. Lo sforzo di “mantenere viva l’estate” fu ridicolizzato dalla stessa copertina dell’album. Concepita da John Alvin, la copertina mostrava la band in un ambiente polare, ma all’interno di una sfera di cristallo che, appunto, manteneva viva l’estate. Come un souvenir (kitsch) i Beach Boys, ibernati nella loro autorappresentazione funerea, erano ancora una volta circondati dai loro feticci: tavole da surf, palme, una ragazza bionda sdraiata su un asciugamano, la sabbia. Ciò che seguì è una storia difficile da raccontare e, allo stesso tempo, semplice. Dennis Wilson morì nel 1983 affogando in quello stesso mare tante volte celebrato e dopo aver dato alla luce sei anni prima quello che rimane il miglior album solista prodotto da un membro della band, Pacific Ocean Blue; Carl Wilson perse la sua lotta con il cancro nel 1998 dopo aver

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- Il kitsch apollineo.

L’estetica dei Beach Boys

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guidato il gruppo nell’ennesimo tour. In mezzo a queste due date: l’album cartolina del 1985, The Beach Boys, un pallido decalogo di cliché già noti; la vetta della classifica americana nel 1988 con “Kokomo”, emblema forse insuperabile della vacuità degli anni Ottanta; le beghe legali tra Brian Wilson e Mike Love per i diritti d’autore del remunerativo catalogo dei Beach Boys; il nome della band portato avanti da Mike Love con album (Still Cruisin’ del 1989 e Summer in Paradise del 1992) di devastante inutilità; la carriera solista di Brian Wilson iniziata con l’omonimo album del 1988 e proseguita negli anni con regolarità tra lampi di autentica creatività (Imagination del 1998 e la riscrittura nel 2004 dell’antica ossessione incompiuta, Smile) e sottile eleganza (That Lucky Old Sun, 2008). Poi nel 2012 una reunion celebrativa e la pubblicazione di That’s Why God Made the Radio, con ogni probabilità l’ultimo album dei Beach Boys. È un’uscita di scena che ripercorre gli antichi sentieri (armonie vocali perfette, una produzione impeccabile, testi misurati), ma è un ripercorrere la strada fatta con la consapevolezza di aver fatto un lungo cammino non invano. Forse questa lunga strada non ha fatto altro che snodarsi sullo stesso tragitto: la meta iniziale coincide esattamente, e fatalmente, con quella finale. Forse Brian Wilson non ha mai pronunciato la parola “Apollo” e probabilmente i Beach Boys, mentre cantavano “California Girls”, ignoravano che fosse mai esistito un certo Johann Joachim Winckelmann, ma resta nella loro opera la più nitida rappresentazione dell’apollineo che la cultura pop abbia mai espresso. L’illusione di un sogno, il sogno di un’immagine, l’immagine che ci siamo fatti delle nostre illusioni. Ad un tratto, anche se per poco, abbiamo creduto a quello in cui credeva Brian Wilson, anche se le nostre vite hanno espresso tutto il contrario di quell’illusione, di quel sogno, di quell’immagine. E tutto questo ci appare più autentico, più vero, quando ascoltiamo le parole che vengono sussurate nell’ultima strofa dell’ultima canzone dell’ultimo album, proprio nel momento del congedo definitivo da quella fascinazione che, per un istante, ha creduto di essere eterna. Summer’s gone I’m gonna sit and watch the waves We laugh, we cry We live then die And dream about our yesterday.34

34

Beach Boys, “Summer’s Gone” in That’s Why God Made the Radio, Capitol Records, 2012.

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ADELE RICCIOTTI

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JIM MORRISON, JANIS JOPLIN E MICHEL FOUCAULT Vita, morte ed estetica dell’esistenza Before I sink into the big sleep I want to hear I want to hear The scream of the butterfly The Doors, When the Music’s Over

Ciò che si vorrebbe tentare con il presente saggio è di interpretare alcuni protagonisti della musica rock degli anni Sessanta attraverso un parallelismo con il pensiero del grande filosofo francese Michel Foucault. Certamente un personaggio come Foucault, critico e diffidente nei confronti della società contemporanea, ben si presta all’accostamento con figure che, con la musica piuttosto che con la filosofia, hanno simbolizzato modelli di rivolta rispetto a ciò che consideravano un nemico della libertà personale. Le convinzioni che sorreggevano il dissenso politico della musica di quel periodo sono facilmente riconoscibili nelle opere filosofiche che videro la luce negli anni del pensiero “sospettoso” e “anti-assolutistico”. Eppure, Michel Foucault è qualcosa di più. Esattamente come Jim Morrison e Janis Joplin furono qualcosa di più. Ciò che davvero li accomuna è l’eccesso. L’eccesso con cui portarono avanti le rispettive carriere, con cui attraversarono le tappe, bruciandole sempre, con cui innalzarono la loro immagine e il loro messaggio – che fosse musicale o filosofico, era un messaggio di vita – alla vetta della dimensione estetica: la loro è stata una vita – o un pensiero – consacrata all’estetica dell’esistenza. Se i personaggi musicali la esperirono sulla propria pelle, Foucault la teorizzò, meravigliosamente come sapeva fare, con una dose di coerenza che spesso manca ai filosofi, anche perché la sua stessa vita mai contraddisse le sue idee. Appare piuttosto evidente, a questo punto, che i protagonisti della musica rock degli anni Sessanta – probabilmente il miglior rock concepibile e rimasto insuperato – bellissimi e tormentati, fratelli artisti degli studenti

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dissidenti del periodo, abbiano condiviso con la filosofia di Foucault il rifiuto di rinchiudere la propria esistenza all’interno delle scomode gabbie della società organizzata. E, chiaramente, vivere in una società che tentava di sopprimere il “movimento per la libertà della persona” nel momento stesso del suo nascere, e voler rifiutare le sue regole, significava trasformare la propria esistenza in qualcosa che eccede rispetto a tali norme sociali. Foucault, che sempre ha analizzato con precisione chirurgica la dinamica sociale, avvertiva che la società occidentale, così come si è costruita ed eretta, vive della contraddizione di un potere “apparentemente mite”: il bio-potere dominante nell’era della subordinazione dei corpi, fattore essenziale del capitalismo. L’organizzazione della società diviene organizzazione della vita, organizzazione della coscienza, fino a invadere la sfera sessuale: il potere più forte, infatti, è quello legato al controllo della sessualità. La costituzione delle scienze umane, nel XIX secolo, sancisce definitivamente il diritto di controllo sulla vita e sulla morte da parte della società capitalista. Negli anni Sessanta, mentre dirompeva quel movimento di “amore e di rivolta”, dall’Inghilterra fino alla California, sotto la cui bandiera la musica divenne il simbolo di qualcosa di ben più profondo di un semplice concerto rock, il rifiuto del controllo capitalista proseguiva il suo percorso raggiungendo tappe importanti. Gli ideali sarebbero stati presto fatti a pezzi, e il mondo, come si sarebbe compreso bene pochi anni dopo, non avrebbe mai invertito la direzione del proprio meccanismo governato dal dio mercato, anche se, naturalmente, i movimenti per i diritti (quello femminista, per esempio) diedero i loro frutti. Foucault visse il maggio del ’68 non a Parigi, ma in Tunisia, ritenendo più coerente partecipare alle rivolte insieme agli studenti africani. D’accordo con lo spirito di ribellione che sosteneva le manifestazioni, il filosofo non si lasciò però sedurre dall’ideale della “liberazione”. Come ha ripetuto più volte nel corso degli anni, la liberazione non può avvenire definitivamente poiché, ogni qualvolta la si raggiunga, essa apre nuovi rapporti di potere che dovrebbero essere quindi ridefiniti per impedire l’emergere di ulteriori forme di dominio. Naturalmente, la storia continua a dargli ragione. Se l’economia assorbe tutto, allora si deve evadere da questo ‘tutto’ ad ogni costo, con qualsiasi mezzo: questo è il messaggio. E se Foucault lo teorizzò senza mezzi termini, Janis Joplin, Jim Morrison, Brian Jones e Jimi Hendrix, accomunati da un’inquietante circostanza di morte, avvenuta per tutti all’età di ventisette anni, tra il 1969 e il 1971 (è oramai sempre più divulgata la teoria dell’ordine di assassinio da parte del governo degli

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Stati Uniti) lo sperimentarono con la loro stessa esistenza, attraverso la loro voce, la loro mimica, il loro corpo, le loro viscere. Questi personaggi ce l’hanno fatta. Sono riusciti a evadere dal sistema imposto. Prima, attraverso la propria personale estetica dell’esistenza, poi con la loro prematura morte (la quale, se anche non fosse stata decisa ‘dall’alto’, certamente non avrebbe tardato), tanto da raggiungere quell’immortalità che Foucault descrisse come l’anelito più forte dell’essere umano. Ma che cosa s’intende per estetica dell’esistenza? Nel 1982 Foucault tenne un corso universitario al Collège de France, intitolato L’ermeneutica del soggetto.1 Fondamentalmente il corso passava in rassegna, a partire dall’antica filosofia greca del V secolo a.C. fino all’avvento del Cristianesimo, gli esempi maggiormente significativi dello stretto rapporto tra il gnôthi seauton (conosci te stesso) e la epimeleia heauton (cura di sé). Quest’ultimo motto, che ha accompagnato il famoso precetto trascritto sull’Oracolo di Delfi e bandiera della filosofia socratica, è stato, secondo Foucault, progressivamente cancellato nel corso della storia della filosofia a favore della sola conoscenza di sé, fino alla sua completa sparizione con la nascita del pensiero moderno battezzato da Descartes. Nell’antica Grecia l’elaborazione della propria vita come opera d’arte personale coincideva con lo sforzo di affermare la propria libertà, concepita come modello unico entro cui riconoscersi e costituire anche un’etica personale. Con l’imporsi del Cristianesimo, la libertà personale è sostituita da un codice di rigide regole morali. L’introduzione del dubbio cartesiano sancisce poi il confine tra ciò che è vero – evidente – e ciò che non lo è; da quel momento la verità del proprio essere viene semplicemente a coincidere con la prova evidente dell’assenza di dubbio. La filosofia diventa il banco di prova tra ciò che è Il Vero e ciò che è Il Falso. Il campo della “spiritualità”, che per secoli ha circoscritto gli insegnamenti e le pratiche della cura di sé – all’interno del cui ambito l’uomo ha preso contatto con l’altro da sé, si è sottoposto a “prove” in vista di una “rinascita”, progredendo verso livelli di rivelazioni più alte, talvolta divine – è così escluso dalla filosofia. La ricerca, la pratica, attraverso cui il soggetto si trasforma e conosce il diverso per accedere a una conoscenza più alta, non importa più. Perché la verità è evidente. Ma la vera domanda di Foucault sarà: chi è il soggetto? E come si conosce il soggetto? Amante della dinamicità che caratterizza inevitabilmente 1

M. Foucault, L’herméneutique du sujet, Gallimard, Paris 2001; tr. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2001.

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il soggetto umano nelle sue esperienze storiche, Foucault sapeva bene che esso è in costante mutamento. Ciò implica l’impossibilità della sua chiusura “statica” entro le griglie imposte dalle scienze sociali. Foucault, ispirandosi alla filosofia antica e, in generale, al pensiero filosofico pre-cartesiano, riteneva che il soggetto si rende capace di verità solo quando opera una trasformazione su se stesso; egli non può, insomma, raggiungere una rivelazione di sé rimanendo il medesimo. Questo precetto è ciò che fonda, da sempre, l’esistenza degli antichi riti d’iniziazione presenti in ogni tempo e in ogni civiltà. Tuttavia, ciò che rende ancora più interessante il discorso di Foucault è la relazione che il filosofo ha posto tra questa trasformazione – risultato quindi della cura di sé – e l’arte di vivere. Secondo Foucault la conoscenza di sé è implicitamente connessa alla cura di sé, poiché la verità del soggetto è raggiungibile solo attraverso un “ritorno a sé”, ovvero un ritorno successivo a un “viaggio”, a una conversione, a qualcosa che ha elevato la sua vita al livello di una estetica. Se riflettiamo ora su un personaggio quale è stato Jim Morrison, leader carismatico del gruppo The Doors, la relazione con quanto detto riguardo all’estetica dell’esistenza appare evidente. È ben noto l’interesse che Jim Morrison nutriva per le pratiche d’iniziazione degli Indiani d’America e per i rituali dionisiaci. Tanto più che egli era seriamente convinto di ospitare l’anima di un indiano defunto il cui cadavere, a causa di un incidente stradale, incontrò da bambino mentre attraversava il Messico insieme al padre. Studente geniale alla Scuola di Cinema delle Università della Florida e della California, Jim Morrison – lettore vorace, alcolizzato, poeta, profeta, rivoluzionario, bisessuale – ebbe sempre coscienza di ciò che sperimentava. Le droghe, naturalmente, furono un valido aiuto per attraversare le famose “porte della percezione”. Ma quello che interessa qui, in un confronto con gli studi di Foucault, è mettere in luce questa consapevolezza che mai abbandonò l’affascinante cantante solista dei Doors, i cui componenti furono definiti dallo stesso leader “politici erotici”. I concerti dei Doors erano una sorta di riproduzione sul palco di rituali sciamanici, compiuti nel contesto di quel caos che era la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Morrison fu acuto testimone della sua epoca: la crisi spirituale, il disordine politico, le manifestazioni per i diritti civili, la guerra in Vietnam. Mentre tanti giovani della stessa età morivano per una guerra definita ancora oggi assurda, le sonorità distorte dei Doors e la sensuale voce di Morrison accompagnavano i “viaggi” attraverso le porte della percezione di chi era rimasto a casa a godersi il tempo delle liberazioni. Morrison invitava coscientemente alla perdizione, la sua voce magnetica

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scandiva un ritmo che, anche nel parlato (spesso recitava in pubblico suoi poemi), rappresentava un rituale. Morrison confermò in un’intervista che la sua era una vera e propria catarsi così come Aristotele la descrisse nella Poetica: purificazione dalle passioni attraverso la loro esperienza durante lo spettacolo.2 Ma ne era davvero purificato? Rispetto al rock spudoratamente psichedelico dei Jefferson Airplane, a quello maggiormente raffinato dei Led Zeppelin e al fenomeno Beatles, i Doors affascinavano con la loro poetica visionaria e il suono della tastiera melanconica e ironicamente triste, che ricordava la musica dei circhi, dei saltimbanchi, dei folli. Ne è simbolo la stravagante copertina del secondo e più bel disco dei Doors, Strange Days, ispirata a La strada di Fellini: freak liberati da un circo ridono e schiamazzano lungo un vicolo di New York. Jim Morrison nella sua breve vita di rockstar trasgredì ogni norma possibile, invitando costantemente il pubblico dei suoi concerti alla disubbidienza. La sua era anche una protesta politica, come nel caso dell’opposizione alla guerra del Vietnam, tanto da indurre il Presidente Nixon a intervenire con una campagna contro il comportamento dei Doors, ritenuti colpevoli di diffondere propaganda nemica e corruzione alla morale civile attraverso atti osceni e messaggi contro la guerra. Non stupisce quindi l’ipotesi, diffusa dopo la sua morte, che egli sia stato eliminato dal governo americano. Ciò che è certo è che Morrison ‘scappò’ a Parigi nel 1971, per evitare di essere arrestato con l’accusa di crimini sessuali da parte del governo degli Stati Uniti. Morrison volle sempre vivere da nomade, e rifiutò la sua stessa famiglia, che non rivide più dal momento in cui ne lasciò la casa per raggiungere l’Università di Los Angeles dove incontrò i futuri Doors. Che il padre fosse un militare non pare essere una coincidenza di fronte all’estrema ribellione di Morrison nei confronti di qualunque disciplina o imposizione sociale. Egli si definiva poeta, scriveva continuamente i suoi quaderni e, da quando arrivò a Los Angeles nel 1964, cominciò ad assumere la sua dose quotidiana dell’allora legale LSD. Egli volle stare sempre a un passo dalla morte. Non aveva paura di morire, piuttosto godeva nello sperimentare la pericolosa permanenza sulla soglia, tra vita e morte, luce e tenebra, lucidità e follia, perdita del sé e rinascita. Non ci sarebbe più stato un personaggio come Jim Morrison nella storia del rock: sciamanico, dionisiaco, eccessivo, erotico 2

Per questo e ulteriori dettagli si rimanda, tra i molti libri scritti su Jim Morrison, a S. Davis, Jim Morrison: Life, Death, Legend, Gotham Books, New York 2004; tr. it. di F. Zanetti, R. Bertoncelli, I. Castiglione, Jim Morrison: vita, morte, leggenda, Mondadori, Milano 2005.

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e poeta. Rimbaud era uno dei suoi maestri e la figura a lui più facilmente accostabile (talvolta firmava gli autografi con il nome di Arthur Rimbaud). Nella conferenza sul tema della follia tenutasi presso la Facoltà di Arti dell’Università di Tokyo nell’ottobre 1970,3 Foucault spiegava come il folle fosse stato emarginato nella società contemporanea a causa di un sistema di esclusione basato sul fatto fondamentale che egli non “produceva” attraverso il lavoro e, per questo, doveva essere giustamente isolato dalla comunità “produttiva”. Appare evidente come una tale norma cominci a muovere i suoi passi nel secolo XVII, quando la società comincia a sperimentare l’organizzazione sociale e politica del capitalismo: il folle, incapace di lavorare, “non può essere tollerato”.4 A partire da questo momento, la società capitalista s’impegna a “rinchiudere” negli istituti appositamente inaugurati tutti coloro che “non servono” al meccanismo economico, quindi non solo i folli, ma anche gli oziosi, i debosciati senza un soldo per sfamarsi, le prostitute. Da qui inizia il percorso sociale di classificazione tra chi è di utilità alla società e chi no. Così che nella “storia etnologica del folle, il malato di mente non è la verità ultima del fenomeno della follia, ma la sua metamorfosi propriamente capitalista”.5 Nel Medioevo, però, il folle non subiva un simile trattamento; al contrario, egli era pienamente accettato dalla comunità in qualità di buffone. Il buffone era colui che garantiva il divertimento durante la festa non religiosa e possedeva una posizione di grande privilegio nel teatro. Il buffone era, volontariamente o no – è praticamente impossibile saperlo –, un marginale, al quale non veniva chiesto di piegarsi, né alle regole della famiglia (in linea di massima era celibe), né alle regole del lavoro. Essenzialmente, egli aveva il compito di dire alcune cose che non potevano normalmente essere dette da un individuo che occupava uno statuto normale nella società. Aveva il dovere di dire ciò che gli altri non potevano affermare. Diceva agli altri le loro verità, serviva anche da consigliere, doveva predire il futuro, smascherare le menzogne, ironizzare sui presuntuosi e così via. In un certo senso, il buffone era la verità allo stato libero, ma una verità sufficientemente disarmata, che poteva essere recepita abbastanza ironicamente [...]. Il buffone era l’istituzio-

3

4 5

M. Foucault, Kyoki to shakai, in M. Foucault, M. Watanabe, Telsugaku no butai, Asahi-Shuppansha, Tokyo 1978, pp. 63-76 (poi in M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994); tr. it. di S. Loriga, La follia e la società, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 64-84. Ivi, p. 79. Ivi, p. 83.

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nalizzazione della parola folle. Era folle o imitava la follia [...]. Il folle è la verità irresponsabile.6

A partire dal XIX secolo, la letteratura europea assume l’incarico che nel Medioevo era stato del buffone: saper e poter dire un’altra verità, una verità non accettata moralmente, “una parola assolutamente anarchica, la parola senza istituzione, la parola profondamente marginale che interseca e mina tutti gli altri discorsi”.7 È la letteratura che ama la follia, quella di Hölderlin, Blake, Nietzsche, Poe, Baudelaire, Bataille, Artaud, i pensatori più ammirati da Foucault. Questi sono anche gli autori preferiti di Jim Morrison, che seguì addirittura un corso sul “teatro della crudeltà” all’Università della California. E come il buffone, come il folle, Morrison viveva volontariamente escluso da ogni sistema sociale, rifiutando innanzitutto una casa propria: egli preferiva i motel, le case degli amici e comprò un appartamento alla sua fidanzata storica Pamela Courson, dove andava a dormire di quando in quando. Naturalmente, non ebbe mai un lavoro. Un’altra particolarità che lega Jim Morrison agli autori citati è l’uso della droga. La droga è il mezzo attraverso cui il soggetto può vivere una “follia artificiale”. La droga è la protagonista della festa intesa come ribellione nei confronti della società. Nel Medioevo le feste erano tutte di ordine religioso tranne una, la “festa dei folli”, l’evento dell’anno in cui era permesso agli abitanti della comunità di invertire il loro ordine sociale: gli uomini si vestivano da donne, i poveri da ricchi e viceversa, e la follia prendeva il posto dell’ordine. La festa ha smesso di essere un fenomeno collettivo, il fenomeno della società stessa, e tende a diventare un atto di contestazione dell’ordine sociale; non vi sono più feste all’interno dell’ordine, le feste sono sempre più marginali, esterne all’ordine, non sono più sociali ma individuali. Le feste, che culminavano nella pratica dell’ubriachezza già nel secolo XIX, oggi, in America e in Europa, culminano nella pratica della droga. L’ubriachezza e la droga sono un modo per ricorrere alla follia artificiale, a una follia temporanea e transitoria per fare festa, ma una festa che sia necessariamente una controfesta, una festa affatto aggressiva nei confronti della società e del suo ordine.8

La festa come fenomeno orgiastico, che ripete le caratteristiche dei riti dionisiaci e che culmina, quasi sempre, con l’assunzione di droghe che favoriscano l’esperienza collettiva, era decisamente presente nelle esibizioni 6 7 8

Ivi, p. 74. Ivi, p. 75. Ivi, pp. 76-77.

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dei Doors. Il pubblico partecipava attivamente all’esibizione di Morrison, il quale, con la sua mimica e i suoi gesti, coinvolgeva la folla con ogni espediente: all’apertura di un concerto del settembre 1968, ad esempio, egli improvvisò un’ode a Nietzsche e più di una volta fu arrestato per atti osceni compiuti sul palco. Una particolarità che ben dimostra la volontà dei Doors di creare un ambiente comunitario in grado di garantire il rituale che proponevano risulta dal fatto che sempre rifiutarono di esibirsi in spazi troppo vasti, come quello del festival di Woodstock. In tutti i modi descritti, Morrison e la sua band contribuirono a restituire alla “follia” il ruolo sociale positivo che – come ha evidenziato Foucault – la modernità le nega. Foucault espresse più volte la sua opinione riguardante certe pratiche sessuali che, a partire dagli anni Settanta, grazie ai movimenti di liberazione, cominciarono a divenire di moda, specialmente negli ambienti omosessuali americani, come il sadomaso e le altre varie sperimentazioni. Il filosofo si è sempre mostrato a favore della sperimentazione poiché, come egli afferma esplicitamente, essa favorisce la creatività della vita. La vita culturale deve divenire creativa e, dal momento che il piacere fa parte della nostra cultura, anch’esso deve essere oggetto di sperimentazioni. Ciò che il filosofo francese ricordava in ogni suo scritto è il fatto che, ogni qualvolta un elemento della storia della società è stato scartato o emarginato, ciò è avvenuto per permettere il dominio dell’ordine (quasi sempre perseguito per motivazioni economiche) nella vita della comunità. Ma se i piaceri fanno parte della nostra cultura, essi non devono venir soppressi, tanto meno ignorati, bensì resi oggetto di sperimentazioni. Lo stesso discorso vale anche per la droga. Penso che le droghe debbano diventare un elemento della nostra cultura. [...] In quanto fonte di piacere. Dobbiamo studiare le droghe. Dobbiamo provare le droghe. Dobbiamo fabbricare delle buone droghe – capaci di produrre un piacere molto intenso. Penso che il puritanesimo nei confronti della droga – puritanesimo che consiste nell’essere a favore o nell’essere contro – sia un atteggiamento sbagliato. Oggi le droghe fanno parte della nostra cultura. Allo stesso modo in cui esiste della buona e della cattiva musica, esistono droghe buone e droghe cattive. E, dunque, non possiamo dire che siamo “contro” le droghe più di quanto si possa dire che siamo “contro” la musica.9

La vita di Jim Morrison è stata senz’altro un ottimo e concreto esempio di ciò che Foucault invitava a sperimentare. Egli non aveva limiti, deside9

Ivi, p. 298

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rava onestamente conoscere tutto il nuovo possibile, nelle droghe come nelle esperienze sessuali. Era vorace. La sua unica dipendenza in quanto malattia probabilmente fu quella dall’alcol; ma tutto il resto era pura volontà di collaudare. Foucault ha inteso condurre una critica del pensiero del soggetto come archeologia del sapere attraverso l’analisi di quelli che egli chiama giochi di verità, cioè i processi di soggettivazione per cui il soggetto diviene oggetto di conoscenza. Egli ha studiato la costituzione del soggetto come oggetto per se stesso: come il soggetto si osserva, si studia, si analizza, fa esperienza di se stesso. Affinché una tale “storia della soggettività” sia autentica, essa deve prevedere prima di tutto un’analisi effettuata entro la costituzione storica di riferimento e inoltre considerare tutto ciò che dalle analisi precedenti è stato escluso. Contemporaneamente a ciò, Foucault ha analizzato le forme di potere attraverso cui la verità di un particolare tipo di soggetto (l’escluso, il folle, l’emarginato) è stata istituita. Al filosofo interessavano le “nuove forme di soggettività”10 che derivano da un rifiuto di ciò che siamo: dalla distruzione si giunge a una nuova creazione di noi stessi, a un sé rinnovato. Ricordando autori come Nietzsche, Bataille e Blanchot, Foucault insisteva sulla necessità di sperimentare la “distruzione reale” del soggetto, la sua trasformazione in qualcosa di “radicalmente altro”. L’esperienza di Jim Morrison avrebbe potuto essere un perfetto oggetto di studio in questo senso. Le pratiche di “distruzione-creazione del sé” sono senz’altro pratiche di libertà. Eppure, esse non coincidono con la liberazione in senso politico, che può essere a sua volta una condizione favorevole e perfino necessaria per la pratica della libertà.11 I processi di liberazione, così come sono stati quelli degli anni Sessanta vissuti da Jim Morrison, distruggono i rapporti di dominio e creano le condizioni per l’esercizio della libertà. Tuttavia, quest’ultima dipende dalla cura e conoscenza di sé, come ben sapevano i Greci per i quali la pratica della libertà era un problema etico essenziale. Il soggetto si costruisce in modo attivo attraverso le pratiche di libertà che includono, naturalmente, anche i piaceri sessuali, i rapporti erotici, l’esperienza con le droghe. Jim Morrison ha sperimentato tali pratiche oltre ogni limite, fino alla propria completa autodistruzione. La leggenda sopravvi10 11

Id., Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, tr. it. di D. Benati et al., Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, pp. 235-254. Id., L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., pp. 273-294.

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ve alla sua stessa morte, tramutandolo ancora una volta da individuo a simbolo, non tanto della musica che ha incarnato, quanto piuttosto della ribellione alle regole del sistema sociale che ha trasgredito di volta in volta, raggiungendo la libertà della sperimentazione in ogni suo eccesso. Anche questo è uno dei motivi per cui Foucault fu attratto particolarmente dagli ‘emarginati’, gli esclusi dall’‘ordine sociale’, coloro che non rientravano nelle categorie imposte dall’economia occidentale (perché, come ha dimostrato Foucault, la nostra civiltà occidentale è sempre stata, fin dal suo primo sviluppo, una società basata sul dato economico), e che, proprio grazie alla loro ‘posizione’, beneficiarono di una libertà altrimenti impossibile, con la conseguente possibilità di una radicale ricreazione di sé. Un anno prima di Jim Morrison, nel 1970 moriva Janis Joplin. La sua vita non è stata troppo diversa da quella di altre star del firmamento musicale: la regina bianca del blues percorse il cammino di trasformazione dalla studentessa emarginata dai compagni della scuola – dove era stata nominata “il ragazzo più brutto” – di una piccola e bigotta cittadina del Texas, alla magnifica ed eccentrica star, inconsolabile depressa in cerca dell’amore, divenuta il simbolo di un genere che non avrà eguali nella storia della musica. Se la sua vita non fu originale, lo fu però il suo modo di cantare e soprattutto la sua voce. Una voce da nera, che sapeva provenire dalle profondità delle viscere, ostentando la propria solitudine a tutti coloro che assistevano al suo dolore in diretta. Probabilmente Janis Joplin fu sempre infelice, nonostante il successo e la consapevolezza di essere unica. Le frequenti divergenze con i componenti dei gruppi di cui fece parte nascevano soprattutto a causa del maniacale perfezionismo che dedicava alla preparazione dei suoi spettacoli solo apparentemente improvvisati. Il suo show era fatto di pianto, di angoscia, di autocommiserazione e di una certa disposizione all’incontro erotico-amoroso. Janis Joplin sul palco offriva se stessa, come un animale sacrificato al pubblico, non molto diversamente da Jim Morrison – che imitava spudoratamente le offerte dionisiache – ma in modo più triste, più malinconico e perfino drammatico. Mentre Morrison provocava per il gusto di trasgredire, Joplin lo faceva spogliandosi e mostrando la fragilità assoluta della sua persona. La sua era sempre un’offerta. Ma un’offerta patita, dolorosa, pericolosa. La sua voce, deteriorata da alcol e fumo, rispecchiava perfettamente la sua pena esistenziale: quando esplodeva, sembrava un disperato grido di aiuto, che si convertiva poi in un sussurro di morte. Gemeva, strillava, si struggeva, bisbigliava, attraverso la voce eccezionalmente dotata e il corpo implorante. Un corpo consumato, stanco, usato, che

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dimostrava molti più anni dei suoi ventisette (l’età in cui morì); un corpo sofferente che si offriva a un pubblico che non poteva, per quanto l’adorasse, salvarla dalla solitudine. Il corpo di Janis Joplin non era certamente un bel corpo. Ricoperto da innumerevoli strati di piume e di bigiotteria, esso rifletteva il marchio hippie dello stile “peace & love” del periodo. Dopo una prima trasformazione di sé – dalla ragazzina deturpata in viso dall’acne e insultata dai compagni di scuola alla star che ha cantato davanti a milioni di persone (come avvenne a Woodstock) – Joplin ne visse una seconda: la magnifica star tornava alla sua solitudine di adolescente, ma questa volta attraverso una propria autodistruzione. Fu trovata morta in una stanza d’albergo a causa di un’overdose di eroina, nonostante lei non la sopportasse, ne avesse quasi paura dopo aver sperimentato con essa la sua “luna di miele”. Beveva moltissimo (si dice almeno una bottiglia di Southern Comfort al giorno), ma non si drogava spesso. Il suo fu un teatrale gesto di addio al mondo? Impossibile saperlo. Ciò che è certo è che lei scelse questa distruzione del sé per la seconda volta, probabilmente dopo aver definitivamente compreso che quel pubblico al quale offriva quasi ogni sera le sue viscere non le sarebbe mai bastato. A differenza di Jim Morrison, al quale è stata spesso accostata per le volgarità esibite sul palco e per la tragica fine (il comico incontro tra i due, alla festa di compleanno di Andy Warhol, finì con una bottiglia di Southern Comfort spaccata sulla testa di Morrison), lei non fu capace di sopportare la sua stessa volontà di trasformazione. Foucault, quando ha trattato il tema dell’estetica dell’esistenza e della distruzione e rinascita del sé, lo ha fatto tenendo sempre bene a mente il fondamentale ruolo della cura di sé. Non esiste libertà – libertà della trasformazione e della creatività – che non implichi una tale cura. La cura esercitata da Janis Joplin e da Jim Morrison ebbe come obiettivo la distruzione del sé. Ma se la prima sembra essersi dirottata verso un non-ritorno a causa della più pura disperazione, il secondo ne risultava quasi soddisfatto, costantemente sollecitato a superare quel limite che ancora lo imprigionava al “sistema”. Ciò che appare importante, in questo confronto, è che entrambi ne furono sempre coscienti. In questo senso risultano due figure che è possibile accostare al discorso di Foucault. Janis Joplin e Jim Morrison crearono una propria forma di vita, istituirono un’etica del tutto personale che eccedeva e si ribellava a quella sociale, convertirono loro stessi e le loro voci in un’opera d’arte sperimentando le pratiche per sé atte a raggiungere una trasformazione e infine un’autodistruzione. Sono quindi da biasimare o da ammirare? Non c’è modo di sapere cosa avrebbe espresso Foucault al riguardo, ma molto probabilmente non avrebbe mai denunciato le loro

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gesta come altri fecero all’epoca. Questi personaggi hanno senz’altro vissuto attraverso la loro breve esistenza quella nuova forma di soggettività, libertà e creatività che, richiamandosi a Nietzsche, Foucault prospettava.

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Non soltanto la musica rock è (molto più di quanto non lo fosse il jazz) parte integrante della vita di tante persone, ma essa è anche un’iniziatrice di cultura: apprezzare il rock, apprezzare un certo tipo di rock piuttosto che un altro, rappresenta anche un modo di vivere, una maniera di reagire; essa costituisce un set completo di gusti e atteggiamenti. […] Il rock offre la possibilità di una relazione intensa, forte, viva, “drammatica” (nel senso che il rock si presenta da sé come uno spettacolo, nel senso che ascoltare musica rock è un evento e che esso produce se stesso sul palco), con una musica che è sì indigente, ma attraverso la quale l’ascoltatore afferma se stesso.12

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M. Foucault, P. Boulez, Contemporary Music and the Public, in «Perspectives of New Music», a. XXIV, 1985, pp. 6-7.

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DONATO FERDORI

CUORE E ANIMA Il conflitto tra eros e agape nei testi di Joy Division e U2

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Quando il bambino era bambino, le bacche gli cadevano in mano, come solo le bacche sanno cadere. Ed è ancora così. […] Ad ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta, e in ogni città sentiva nostalgia di una città ancora più grande. E questo, è ancora così. Sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico. Com’è ancora oggi. […] Aspettava la prima neve. E continua ad aspettarla. Quando il bambino era bambino, lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia. Che ancora continua a vibrare. 1

1. Eros e agape In questo lavoro, leggerò alcuni testi dei gruppi rock U2 e Joy Division alla luce del problema filosofico del rapporto tra due diversi aspetti di ciò che chiamiamo amore, cui si fa abitualmente riferimento con i termini greci eros e agape. Per la comprensione della ‘questione eros-agape’ sul piano più strettamente storiografico – sul piano, cioè, della storia del pensiero occidentale – resta fondamentale la ricostruzione di Anders Nygren, di cui traccerò subito le linee di fondo. Il concetto di agape “affonda le sue radici nella nuova comunione con Dio del cristianesimo”, quale ci appare nei Vangeli sinottici; “esso raggiunge la sua più alta espressione in Paolo, che collega la sua teologia della Croce al pensiero dell’amore divino”, ma “perviene 1

P. Handke, Lied vom Kindsein, recitato ne Il cielo sopra Berlino di W. Wenders.

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alla sua massima espressione formale nell’identificazione giovannea: ‘Dio è amore’”.2 Quando questa idea cristiana fece la sua comparsa, “si trovò in un mondo”, quello dell’ellenismo, “che aveva un orientamento etico e religioso ben diverso, caratterizzato dall’eros nel senso più ampio della parola”.3 È bene però distinguere subito, a questo proposito, tra un “eros volgare” – il cui oggetto è un aspetto del mondo fisico come tale, e che in quel mondo resta confinato – e un “eros celeste” o “filosofico”, il quale, per quanto sia profondamente radicato nei sensi, tende ad elevarsi al mondo trascendente e divino. Quest’ultimo tipo di eros – che è appunto quello che entra in rapporto e spesso in conflitto con l’agape – ha trovato la sua esposizione canonica in Platone. Come ricorda Nygren, l’eros, per Platone, è rivolto a ciò che è bello e buono. Il bello che l’uomo incontra nel mondo sensibile ha il compito di suscitare l’eros nell’anima; ma l’eros conduce, al di là della cosa bella, verso il Bello in sé.4 Vi sono, inoltre, due elementi che, secondo Platone, caratterizzano l’eros: la consapevolezza di uno stato attuale di insufficienza e il desiderio di superarlo raggiungendo una condizione più elevata e felice. […] L’eros, anche là dove in apparenza dona, è in fondo sempre desiderio di possesso, poiché Platone non conosce una forma d’amore diversa dal desiderio.5

Nel contesto dell’eros – prosegue Nygren estendendo il discorso al di là dell’ambito strettamente platonico – l’amore per il prossimo è diretto, in realtà, a Dio. L’eros “non ricerca il prossimo per sé stesso, ma in quanto può servirgli nella sua ascesa”.6 Aristotele ha poi “ampliato questa concezione, dando al concetto dell’eros un significato cosmico”: l’amore viene innalzato a forza universale. “Tutto ciò che esiste manifesta questa tendenza verso l’alto, tutto anela incessantemente alla somiglianza con Dio”, costituendo un ordine gerarchico di tutte le cose, dove ciò che è inferiore tende – tramite l’eros – a ciò che è superiore, e l’intero processo tende al divino, immobile, che agisce sul mondo mediante la nostalgia che quest’ultimo prova nei suoi riguardi.7 Nel neopla2 3 4 5 6 7

A. Nygren, Eros e agape, tr. it. di N. Gay, il Mulino, Bologna 1971, p. 37. Cfr. Rom., 5, 6-10; I Cor, 13; I Gv 4, 8 e 16. A. Nygren, op. cit., p. 12. Cfr. Platone, Fedro, 249d-251c. A. Nygren, op. cit., pp. 148-151. Cfr. anche ivi, pp. 31-32. Cfr. Platone, Simposio, 200a-204b. A. Nygren, op. cit., p. 187. Ivi, pp. 157-160. Cfr. Aristotele, Metafisica, Libro XII, in particolare 1072b. Su questo tema, si veda C.A. Viano, Introduzione ad Aristotele, La Metafisica, a cura di C.A. Viano, UTET, Torino 1974, pp. 59-66.

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tonismo, il motivo dell’eros assume una posizione ancora più centrale: esso s’inserisce in un quadro cosmologico per il quale tutte le cose derivano per emanazione dall’Uno, e tutte all’Uno ritornano ripercorrendo in senso inverso le tappe della discesa. Con Plotino, in particolare, la teoria dell’eros domina tali vie (discendente e ascendente), ritrovando ed esaltando in tal modo il proprio carattere soteriologico che, ben presente in Platone, era passato in seconda linea con Aristotele, ma avvicinandosi alla visione del ‘mondo gerarchizzato’ di quest’ultimo, d’altra parte, quanto alla continuità tra l’Uno e il mondo sensibile presupposta dalla ‘via discendente’. Inoltre, per Plotino Dio stesso è eros, amore di sé, un amore che gode della propria perfezione.8 L’agape si inserisce in questo contesto, dunque, sovvertendo radicalmente la “pietà ellenistica” basata sull’eros, oltre che “la religiosità giudaica improntata alla legge”.9 Consideriamo allora alcuni dei principali tratti ‘rivoluzionari’ dell’agape, seguendo la ricostruzione di Nygren. Gesù “agisce in nome di Dio, modellando la sua azione su quella di Dio stesso. Dio cerca il peccatore e vuole accoglierlo nella sua comunione. […] Il comportamento di Dio nei riguardi dell’uomo”, dunque, “non è posto sotto il segno della iustitia distributiva, bensì dell’agape”.10 L’agape divina è considerata “spontanea e ‘senza motivo’”: ogni idea di valutazione le è estranea. “L’amore divino non ama ciò che è in sé degno d’amore, al contrario: ciò che in sé è privo di valore, acquista valore divenendo oggetto dell’amore divino”.11 Inoltre, e soprattutto nella concezione paolina che è considerata la visione più ‘pura’ dell’agape, non vi è “una via che conduca dall’uomo a Dio, ma v’è soltanto una via da Dio all’uomo: l’agape” stessa.12 A questo punto, si comprende come l’amore che viene richiesto all’uomo dal cristianesimo sia “l’immagine dell’agape manifestata da Dio. Com’essa, deve essere spontaneo ed immotivato, scevro di calcoli, illimitato e incondizionato”.13 Se l’eros nasce dall’aridità del bisogno e del desiderio, l’agape sgorga dalla pienezza della bontà e della benevolenza.14 Significativo, in quest’ottica, è che si debba “amare il prossimo nella sua situazione concreta e nel suo essere concreto, e non una sua ideale costituzione, non ‘Dio nel prossimo’”.15 E centrale è l’idea per cui “il comandamento 8 9 10 11 12 13 14 15

A. Nygren, op. cit., pp. 168-173. Cfr. Plotino, Enneadi VI, 8, 15; IV, 8, 6; III, 5. A. Nygren, op. cit., p. 175. Ivi, p. 49. Ivi, pp. 54-57. Ivi, p. 59. Ivi, p. 70 (tr. it. leggermente modificata). Cfr. ivi, pp. 474-475. Ivi, p. 76.

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dell’amore del prossimo, lungi dall’includere l’amore di sé, lo esclude e lo supera”.16 Più precisamente, tramite l’amore cristiano del prossimo, sarebbe la stessa agape di Dio a diffondersi “servendosi come organo dell’uomo cristiano pneumatico”.17 Nel contesto dell’agape, inoltre, l’amore dell’uomo per Dio

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significa la riconoscenza per il suo dono e la volontà di appartenere completamente a lui. […] Se l’uomo ama Dio non è perché, comparandolo con le altre cose, abbia trovato in lui un appagamento maggiore [come avviene nella dimensione dell’eros], ma perché l’amore divino, non motivato, lo ha vinto e conquistato, di modo che egli non può non amarlo.18

Una delle tesi fondamentali di Nygren è quella secondo cui, penetrando nel cristianesimo, il motivo ellenistico dell’eros avrebbe cercato di soppiantare il motivo dell’agape e di sostituirsi ad esso. Così, “la concezione dell’amore in Dante o in Agostino non è semplicemente un’interpretazione dell’agape, ne è al tempo stesso una modificazione. La caritas del medioevo è un fenomeno complesso che riunisce elementi dell’eros e dell’agape”.19 Fu in particolare Agostino – non per nulla un cristiano neoplatonico – a contribuire più di chiunque altro ad introdurre il motivo dell’eros nel cristianesimo, procurandogli la sanzione della Chiesa.20 Un elemento chiaramente ‘erotico’ nella sintesi agostiniana, ad esempio, si rivela nell’idea per cui “Dio è l’unico oggetto degno del nostro amore. Se egli esige per giunta che noi amiamo il nostro prossimo, il nostro amore […] deve rivolgersi […] a Dio nel prossimo. […] Non è il prossimo com’esso è ora che dobbiamo amare”, bensì l’essere buono e perfetto che, grazie a Dio, il prossimo potrà diventare.21 Infatti, in Agostino, amare il prossimo come sé stessi significa preoccuparsi di condurlo all’amore per Dio, dove anch’egli troverà il summum bonum.22 Agostino non dubita che l’eros sia la via che conduce verso l’essere supremo, tuttavia riconosce che il problema dell’eros sta nella “superbia” ad esso inerente: le “ali del desiderio” non possono realmente giungere fino a Dio. E sciogliere il legame ultimo (dato dalla superbia dell’eros) tra l’anima e il mondo finito è unicamente compi-

16 17 18 19 20 21 22

Ivi, p. 79. Ivi, pp. 106-108. Ivi, p. 187. Ivi, p. 35. Ivi, p. 465. Ivi, p. 561. Cfr. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, LXV, 2. A. Nygren, op. cit., p. 564. Cfr. Agostino, La città di Dio, XIX, 14; X, 3.

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to dell’agape di Dio,23 che viene identificata con la grazia. La grazia dona all’uomo la caritas – si può forse dire: trasformando la natura dell’eros – e quest’ultima può elevarsi a Dio. “Collegando insieme la gratia e la caritas, la discesa di Dio e la nostra ascesa”, Agostino “ha ottenuto la sintesi tra la primitiva concezione cristiana della salvazione e la soteriologia ellenistica, tra le vie di salvezza dell’agape e dell’eros, sintesi che è prevalsa più tardi nella Chiesa medioevale”.24 La successiva e decisiva tappa nella storia del rapporto eros-agape, per Nygren, è rappresentata da Lutero, il quale potrebbe essere anche definito “il riformatore della nozione cristiana di amore”, avendo “distrutto la dottrina cattolica dell’amore, essenzialmente fondata sul motivo dell’eros”, e avendo così “ristabilito l’agape nella sua integrità e purezza”.25 Infatti, in quest’ottica, l’eros rappresenta la concezione religiosa “egocentrica”, entro la quale “tra il divino e l’umano viene postulata un’ininterrotta continuità”, mentre l’agape sarebbe la concezione religiosa “teocentrica”, in cui l’abisso tra l’uomo e Dio è assoluto e solo Dio può lanciare un ponte attraverso l’abisso:26 e Lutero insiste appunto su quest’ultima prospettiva. Abbiamo visto, dunque, come la ricostruzione di Nygren finisca per interpretare il conflitto eros-agape come conflitto tra due principi di natura essenzialmente religiosa. Senza dimenticare questa prospettiva storica, possiamo però fare un passo avanti considerando che – come peraltro mostra già la sintesi operata da Agostino – quando l’eros è rivolto direttamente a Dio, esso non entra necessariamente in conflitto con l’agape. Sembra anzi poter attingere quest’ultima, a patto di arrendersi. Si può citare come paradigmatica, in questo senso, una poesia di Simone Weil, La porte, che descrive la lotta compiuta dal desiderio per attingere la verità e il bene, i quali, con gli occhi di eros, sono cercati in quanto bellezza: “Apriteci dunque la porta e vedremo i verzieri, / Ne berremo l’acqua fredda ove la luna ha lasciato la sua traccia. / […] / Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci divora. / In attesa e nel dolore, eccoci davanti alla porta […]”. Finché eros giunge alla resa e, immediatamente, appare qualcosa che trascende la bellezza: La porta è di fronte a noi; che serve volere? Meglio andarsene e abbandonare la speranza. Non entreremo mai. Siamo stanchi di vederla. 23 24 25 26

A. Nygren, op. cit., pp. 477-481. Cfr. Agostino, Confessioni, VII, 9, 10, 11, 18, 20. A. Nygren, op. cit., pp. 540-541. Ivi, pp. 38-39. Ivi, pp. 180-181.

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Aprendosi, la porta lasciò passare tanto silenzio

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Che né verzieri apparvero né fiori; Solo lo spazio immenso di vuoto e luce D’improvviso presente da parte a parte, colmò il cuore, Lavò gli occhi ormai ciechi sotto la polvere.27

Eros deve morire per attingere agape, ma il suo vivere, il suo conato, sono sempre presupposti. Se eros è rivolto al divino – o, in termini areligiosi, al Bene –, arrendendosi può attingere l’agape, il che poi consente di dedicarsi agli altri con disinteresse, mossi soltanto dalla sua energia centrifuga. Ciò, peraltro, non toglie che il soggetto sappia che tale darsi incondizionato agli altri è al contempo una strada ineludibile per la propria felicità, come mostra esemplarmente la sottile dialettica kantiana riguardante il “sommo bene”.28 Tutto questo processo, per quanto contenga elementi ‘erotici’, può a mio avviso essere complessivamente identificato con la concezione dell’agape, che, in questa prospettiva più teoretico-interpretativa che strettamente storiografica, non esiterei ad identificare con la stessa caritas, nonché ad avvicinare a nozioni affini riconducibili a diverse tradizioni, quali la compassione buddista29 o la benevolenza ‘illuminista’.30 La tensione radicale tra eros e agape può innescarsi, invece, quando eros non è rivolto direttamente al ‘divino’, bensì al mondo sensibile e, 27 28

29 30

S. Weil, Poesie e altri scritti, ed. it. a cura di A. Marchetti, In Forma di Parole, Bologna 1989, pp. 64-67. Essa prevede che l’uomo buono non agisca in vista del fine della propria felicità, bensì unicamente mosso dal rispetto per la legge morale, ma che tuttavia, da una simile intenzione moralmente pura, ‘sorga’ immediatamente un fine (non un “fine-condizione” bensì un “fine-conseguenza”), cioè appunto il sommo bene, consistente nell’idea che alla virtù debba – prima o poi e non si sa come, ma necessariamente – corrispondere la felicità. Cfr. ad es. I. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, tr. it. di P. Chiodi, TEA, Milano 1997², pp. 4-7. Cfr. ad es. G. Pasqualotto, Il Buddhismo. I sentieri di una religione millenaria, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 17-41; D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, tr. it. di M.L. Cellerino, Esperia, Milano 2000, pp. 166-174. Cfr. ad es. I. Kant, La metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, Laterza, RomaBari 1983, pp. 253-255. In fondo, anche eros è termine legato a una specifica cultura – quella dell’antica Grecia –, il che non ci impedisce di considerare l’eros come un sentimento universalmente condiviso dagli umani. Analogamente, bisogna trovare un nome per caratterizzare quel tipo di amore che sgorga dalla pienezza spirituale e non dal desiderio, e che è ben presente in numerose culture. A mio parere non c’è motivo per non caratterizzare quest’ultimo tipo di amore con un altro termine greco – agape, appunto – che, pur avendo origine nella cultura cristiana, può assumere anch’esso una valenza universale.

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tipicamente, a singoli esseri umani: un figlio, un genitore, un amico, un amante/amato. E se in rapporto ai primi tre oggetti dell’eros menzionati possiamo caratterizzare più specificamente il sentimento in questione coi termini di affetto o philìa (amicizia), è all’eros rivolto al proprio amante/ amato – come peraltro già suggerisce il termine impiegato per l’oggetto del sentimento – che possiamo riservare l’impiego più specifico, più proprio, del termine eros. In questo senso più specifico – che è poi quello su cui mi concentrerò qui – l’eros è essenzialmente ciò che oggi chiamiamo abitualmente amore romantico. È evidente che l’eros così inteso, pur non essendo direttamente rivolto al divino o al bene, è molto più vicino all’“eros celeste” platonico di quanto non lo sia all’“eros volgare” che resta confinato nel mondo sensibile: il vero innamoramento proietta gli amanti in una dimensione spirituale che, proprio per questa sua natura elevata (o profonda), diviene facilmente avversaria dell’agape. Tra i pensatori occidentali, quello che forse ha sentito ed espresso con più forza il conflitto tra eros e agape, inteso in quest’ultimo significato – ossia come alternativa tra la dimensione emotivo-sentimentale dell’amore e quella più strettamente spirituale –, è Søren Kierkegaard. Egli ha preso molto sul serio, ad esempio, le “terribili” parole del Vangelo di Luca: “‘Se qualcuno viene a me e non odia il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle […] non può essere mio discepolo’ (Lc 14, 26)”.31 Nelle sue opere, il rapporto tra i due tipi fondamentali di amore (l’amore come ‘desiderio di un altro essere umano’ e l’amore per Dio, che si traduce in compassione – attiva benevolenza – verso altri umani) si intreccia in modo decisivo con il rapporto tra etica e religione. Kierkegaard intende la dimensione etica in modo simile alla concezione hegeliana della Sittlichkeit, cioè come una moralità comunitaria, di cui il matrimonio, l’amore coniugale e la vita famigliare sono fulcro e simbolo. Egli è convinto che il “dovere assoluto” – basato sul rapporto diretto del Singolo con Dio – possa richiedere di fare ciò che l’etica proibirebbe: paradigma ne è il sacrificio di Isacco da parte di Abramo.32 Ma dietro al sublime arrovellarsi del filosofo danese intorno alla vicenda di Abramo si legge in filigrana una sua cruciale esperienza personale: egli sceglie drammaticamente, per motivi religiosi, di lasciare l’amata Regina Olsen e di vivere in solitudine, riconoscendo nella necessità di tale scelta una “punizione” divina, che però al contempo gli consente – proprio in virtù del doloroso sacrificio di eros – 31 32

Cfr. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, tr. it. di C. Fabro, in Opere, vol. 1, a cura di C. Fabro, PIEMME, Casale Monferrato 1995, pp. 247-249. Cfr. Id., Timore e tremore, tr. it. di C. Fabro, in Opere, vol. 1, cit., pp. 230-232.

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di accedere ad un’eccezionalità nel rapporto con Dio e nella testimonianza di un cristianesimo autentico.33 Tuttavia, le pagine del suo Diario (che si riflettono poi in numerosi passi di altre sue opere) mostrano un continuo rovello del filosofo, che angosciato si chiede se sia davvero chiamato, legittimato, ad essere una simile eccezione, o se la scelta del celibato, invece, non dipenda in realtà dalla propria debolezza, dalla paura di vivere appieno i profondi piaceri e dolori, e le responsabilità, inerenti alla vita etica e in particolare al rapporto di coppia: se, insomma, la propria scelta, lungi dal ‘superare’ l’etica, non si collochi invece ‘sotto’ di essa, su un piano meramente estetico (qui inteso nel senso di ‘dominato dalla sensibilità’ e, nel suo caso specifico, di ‘dominato da un temperamento melanconico’).34 Peraltro, la scelta di vita di Kierkegaard è in certo modo contraddetta dalle pagine più alte e belle delle sue stesse opere pseudonime. Il “cavaliere della fede” di Timore e tremore, ossia il modello umano che incarna la dimensione del “salto” – al di là dell’etica e della stessa ragione – nella fede, è in realtà un uomo sposato e di buon senso, che mantiene “la realtà temporale dopo averla abbandonata” e che trasforma il salto in un camminare, compiendo così l’unico miracolo necessario. Si tratta di un’appassionata descrizione di unità profonda tra eros e agape, di una spiritualità che si traduce necessariamente in ethos, in vita comunitaria, nutrendosi non di eccezionalità, bensì di originalità nella ripetizione.35 D’altra parte, Wilhelm – il marito per antonomasia di Aut-aut – non rappresenta affatto la dimensione etica in quanto deve venire oltrepassata dalla sfera religiosa (come spesso si legge nelle sintesi manualistiche): il pentimento (visto al contempo come ricerca del proprio vero io e amore per esso),36 che caratterizza il passaggio dallo “stadio etico” a quello “religioso”, è già alle sue spalle37 e l’etica che egli ha cara ha ben poco di precettistico e si configura piuttosto come una dimensione autenticamente spirituale, in cui la ‘norma comunitaria’ viene innervata dal profondo tramite il rapporto del Singolo con il divino che è in lui, in modo tale che 33

34 35 36 37

Cfr. Id., Diario, ed. it. ridotta a cura di C. Fabro, Rizzoli, Milano 1975, ad es. pp. 129, 133, 140 (n. 1952, 2743, 2804). I numeri tra parentesi fanno riferimento alla numerazione progressiva dei frammenti nella Editio maior del Diario (Morcelliana, Brescia 1962). Cfr. Id., Diario, cit., pp. 68, 123, 109, 114 (n. 2766, 1790, 613, 715). Cfr. Id., Timore e tremore, cit., pp. 196, 213-217; Id., Il concetto dell’angoscia, cit., p. 460. Id., Aut-aut, ed. it. a cura di R. Cantoni, Mondadori, Milano 1956, p. 96. Ivi, p. 95.

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l’universale esiste “nel particolare senza divorarlo […] come quel fuoco che non divora il cespuglio nel quale brucia”.38 In questo contrasto, interno al pensiero di Kierkegaard, tra il tentativo di conciliazione di etica e religione sopra delineato, e la lacerante esperienza personale di una conflittualità insanabile tra le due dimensioni, sta non solo gran parte del fascino della sua filosofia, ma anche la sua importanza storica per aver in tal modo evidenziato l’esistenza di un bivio decisivo interno non soltanto al cristianesimo, ma all’esperienza religiosa in generale. Questo bivio dipende dalle diverse possibili soluzioni assegnabili al conflitto tra eros e agape: un conflitto che Kierkegaard ha sviscerato forse più di chiunque altro, ma che ha lasciato in fondo tragicamente irrisolto.39 Venendo al pensiero contemporaneo, un’impostazione diversa, più ‘irenica’ e conciliante, ma non per questo priva di intuizioni profonde e sottili, si può trovare nel noto studio di Clive S. Lewis The Four Loves (1960),40 dove l’autore prende in considerazione l’affetto, l’amicizia, l’eros (inteso appunto come innamoramento, amore romantico) e la carità (intesa come amore per Dio, che può poi sfociare in amore per il prossimo, ma anche trasfondersi negli altri tre affetti naturali trasformandoli dall’interno in suoi “strumenti”). Si tratta di uno studio condotto anch’esso – come peraltro la quasi totalità dei contributi sul tema – da un punto di vista dichiaratamente cristiano. Tuttavia, nella prospettiva ‘interculturale’ che intendo dare a questa ricerca, propongo di tenere presente la possibile traduzione dell’amore per Dio, che Lewis vede come aspetto essenziale della carità (ossia dell’agape), nei termini areligiosi di un kantiano rispetto per la legge morale che è in noi, o anche, più semplicemente, di un amore per la giustizia, per il bene; mentre, nei termini di una religione atea quale è il buddismo, si potrà analogamente parlare di dedizione alla Legge dell’universo. Il punto di partenza di Lewis è che l’eros, al suo apice, tende a rivendicare a sé un’autorità divina, e la sua voce viene da noi facilmente scambiata per la volontà stessa di Dio. […] Esige una totale dedizione […] e insinua in noi la convinzione che ogni azione fatta “nel sincero interesse dell’amore” sia, per ciò stesso, legittima e anche meritoria. […] Questa pretesa blasfema non si fa strada quando gli affetti umani sono più vili 38 39

40

Ivi, pp. 137-147. Su questo tema, molto più complesso di quanto si sia potuto qui accennare, rinvio al mio articolo Timore e tremore in Kierkegaard e in Kant, in «Governare la paura. Journal of Interdisciplinary Studies», 2011 (http://governarelapaura.unibo. it/issue/view/264). C.S. Lewis, I quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità, tr. it. di M. Ruggerini, Jaca Book, Milano 1982.

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e degradati, bensì, al contrario, quando essi raggiungono la loro espressione più […] stimabile, quando sono […] “puri” o “nobili”.41

Lewis chiarisce inoltre che “la sessualità rientra nel nostro tema soltanto quando essa diventa un ingrediente di quella complessa condizione che è l’‘essere innamorati’”.42 E aggiunge che quello che Paolo di Tarso teme, nello sconsigliare ai suoi seguaci il matrimonio, “è la ‘pre-occupazione’, il bisogno costante di ‘far cosa gradita’ alla propria compagna […], le molteplici distrazioni della vita coniugale. È il matrimonio in sé, e non il talamo, la causa che il più delle volte ci fa trascurare il servizio ininterrotto che è dovuto a Dio”.43 Si ribadisce quindi che “è nella grandezza dell’eros che si annida il seme dannoso. Esso ci parla come farebbe un dio: la sua totale disponibilità, il suo incurante spregio della felicità, il suo passar sopra a qualunque considerazione personale: tutto ciò suona come un messaggio proveniente dal regno eterno”.44 Anzi, l’eros spontaneamente “tende a trasformare l’‘essere innamorati’ in una sorta di religione”.45 E il vero pericolo “non è che gli innamorati si adorino a vicenda” – giacché a ciò contrasta “la gradevole prosaicità, lo scorrere monotono della vita in comune”… – “ma che essi facciano dell’eros un idolo”.46 “‘In amore’ abbiamo una nostra ‘legge’, una religione privata, un dio privato”.47 Ma “l’eros non può essere la voce stessa di Dio”, per il semplice motivo che “può anche spingerci a compiere il male, oltre che il bene”:48 ciascuno dei due amanti potrebbe infatti “dire all’altro, quasi con spirito di sacrificio: ‘è per amore che ho trascurato i miei genitori, rinunciato ai miei bambini, ingannato il mio compagno, abbandonato l’amico’”.49 D’altra parte, Lewis è altrettanto netto nel sostenere che, se “non dobbiamo prestare un’obbedienza incondizionata alla voce dell’eros […], non dobbiamo nemmeno ignorare, o tentare di negare, le sue qualità divine: questo amore è davvero simile a colui che è l’amore stesso”. L’eros – arriva a dire Lewis – “dà contenuto alla parola carità. È come se Cristo ci dicesse, attraverso l’eros: ‘così […], con questa prodigalità, senza badare a 41 42 43 44 45 46 47 48 49

Ivi, p. 18 (tr. it. leggermente modificata). Ivi, p. 117. Ivi, p. 123. Ivi, p. 136. Ivi, p. 139. Ivi, p. 140. Ivi, p. 141. Ivi, p. 136. Ivi, p. 142.

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quanto vi potrà costare, voi dovete amare me e l’ultimo dei miei fratelli’”.50 Inoltre, tutti gli affetti naturali, eros in testa, possono sì “diventare rivali dell’amore spirituale, ma possono anche fungere da imitazioni preparatorie, che ci aiutano a tenere in allenamento, per così dire, i muscoli spirituali […]. Potrà rendersi necessario rinunciare a questo amore – ‘cavati l’occhio destro’ – ma bisogna prima averlo, un occhio”; e, del resto, “chi non ama i propri compaesani […] – che vede e conosce – non ha molte probabilità di arrivare a provare amore per l’‘Uomo’, che non ha mai visto né conosciuto”.51 Lewis sostiene persino che solo l’agape può consentire all’eros di continuare a essere sé stesso nel tempo. L’eros è spinto a promettere ciò [l’eterna fedeltà] che l’eros, di per sé, non può portare a compimento. […] Esso, come un padrino, pronuncia i voti: ma siamo noi che dobbiamo poi mantenerli […]. Esso, da solo, non può essere ciò che, tuttavia, egli deve essere se vuole continuare a essere eros: ha bisogno di aiuto […]. Eros muore o diventa un demone, a meno che non si sottometta a Dio. Se rifiuta di farlo, sarebbe meglio per lui morire; ma può invece continuare a vivere, incatenando senza pietà due individui che si tormentano a vicenda, ciascuno corroso dal veleno dell’odio-amore, ciascuno bisognoso di ricevere e implacabilmente deciso a rifiutarsi di dare, geloso, sospettoso, pieno di livore.52

Se invece quella sottomissione avviene, Lewis parla di una vera e propria tendenza alla trasformazione degli affetti naturali in carità. Tutte le attività […] connesse agli affetti naturali possono, in un istante benedetto, diventare i frutti di un “amore-bisogno” lieto, senza vergogna, riconoscente, oppure di un “amore-dono” altruista e informale: entrambi sono carità. Niente è troppo insignificante, o troppo animalesco, perché non possa subire questa trasformazione. […] La trasformazione completa e stabile di un affetto naturale in uno strumento di carità è un compito talmente difficile che forse nessun mortale è ancora riuscito a portarlo a termine in maniera perfetta. Nonostante ciò […], l’invito a trasformare i nostri affetti naturali in carità non viene mai meno: esso ci viene fornito da quelle frizioni e frustrazioni che in 50 51

52

Ivi, p. 138. Ivi, pp. 38-39. Significativa anche la sottolineatura di Lewis del fatto che “non è cercando di evitare le sofferenze inevitabili dell’amore [eros] che ci avvicineremo più a Dio, bensì accettandole e offrendole a lui: gettando lontana la cotta di protezione”; e che, inoltre, “è quasi impossibile amare semplicemente ‘troppo’ un qualunque essere umano. Potremo amarlo troppo in proporzione al nostro amore per Dio; ma l’elemento di sproporzione è costituito dalla pochezza del nostro amore per Dio, non dalla grandezza del nostro amore per l’uomo” (Ivi, p. 154). Ivi, pp. 144-145.

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loro sperimentiamo continuamente, prova inconfutabile che il nostro affetto (naturale) non sarà mai di per sé sufficiente.53

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Concludendo questa ricognizione sommaria della questione eros/ agape,54 possiamo senz’altro notare come il rapporto tra i due aspetti principali dell’amore sia particolarmente sottile e complesso: eros deve ‘arrendersi’ ad agape, pena un conflitto insanabile tra le persone coinvolte e all’interno di ognuna di esse. D’altra parte, la seconda deve riconoscere i diritti e le prerogative del primo, pena un’aridità inumana, e spesso ha bisogno del primo come stimolo per potersi manifestare, nonché come ambito stesso del suo manifestarsi. Alla luce di queste premesse teoriche, entriamo ora nel mondo poetico di Joy Division e U2. 2. Heart and Soul Molte delle immagini enigmatiche e tenebrose dei testi di Ian Curtis – il cantante dei Joy Division, morto suicida a ventitré anni – sembrano provenire più dalla sua fantasia e dalle sue letture che da una registrazione diretta delle sue esperienze vitali. Vi sono però alcuni squarci che paiono rispecchiare molto più direttamente la sua dolorosa esperienza.55 Uno di questi riguarda la ‘perdita del presente’: la sensazione di radicale impotenza, tipica di uno stato depressivo – o, comunque, di una condizione di sofferenza ‘infernale’ – consistente nell’essere costretti a ‘guardare la propria vita mentre passa’, incapaci di viverla.56 Un altro argomento rilevante è quello del fallimento del tentativo di trovare punti di riferimento credibili nella di53 54

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Ivi, pp. 168-169. Sullo stesso tema si possono vedere, tra l’altro, le seguenti monografie: M.C. D’Arcy, The Mind and Heart of Love. A Study in Eros and Agape, Meridian Books, New York 1956; A. Soble (a cura di), Eros, Agape and Philìa: Readings in the Philosophy of Love, Paragon House, St. Paul (MN) 1989. Scrive Marco Di Marco, in un libro di commenti ai testi dei Joy Division, che a volte gli episodi dolorosi vissuti da Curtis “vengono trasposti in visioni apocalittiche […], in altri casi lasciati con umiltà sul piatto senza alcun filtro deformante. E quelli [gli ultimi] sono i momenti più autentici di poesia” (M. Di Marco, Joy Division. Broken Heart Romance, Arcana, Roma 2008, p. 221). Cfr., ad es., “Existence – well what does it matter? / I exist on the best terms I can. / The past is now part of my future, / The present is well out of hand.” (Joy Division, “Heart and Soul”, in Closer, Factory Records, 1980); “Destiny unfolded, I watched it slip away” (Joy Division, “24 Hours”, in Closer); anche il refrain di “Transmission” – “Dance, dance, dance, dance, dance to the radio” – sembra riferirsi alla necessità/incapacità di vivere ‘al ritmo del presente’.

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mensione religioso-spirituale e sociale.57 Ma il tema che più colpisce – per la sua particolarità e per l’incisività con cui viene affrontato – è quello del conflitto tra “cuore e anima”. Esso emerge nel modo più chiaro in due canzoni. La prima è “Disorder”, il brano di apertura dell’album Unknown Pleasures: un brano la cui collocazione indica verosimilmente una centralità dei problemi che vi si trattano.58 Il disordine in questione, introdotto dall’ammissione iniziale del cantante di non aver trovato la “guida” che cercava, è essenzialmente espresso da una frase ripetuta ossessivamente e con tono disperato: “I’ve got the spirit, but lose the feeling”. Spirito e sentimento – due dimensioni della vita evidentemente ritenute entrambe necessarie – vengono percepite come coinvolte in un conflitto insanabile. Non è certo una questione puramente ‘teoretica’: Curtis sente questo conflitto nel modo più diretto possibile, come condizione vitale. Se vivo nella dimensione dello spirito, mi è preclusa quella del sentimento, e viceversa. Il sentimento è legato allo “shock”, all’emozione;59 lo spirito alla padronanza di sé. Ma la padronanza di sé, ottenuta al prezzo della soppressione della scossa vitale delle emozioni, si riduce a qualcosa di secco e sterile; mentre l’emotività lasciata a sé stessa è instabile e destabilizzante.60

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“I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand” (Joy Division, “Disorder”, in Unknown Pleasures, Factory Records, 1979). “I campaigned for nothing, / I worked hard for this, / I tried to get to you, / You treat me like this. / It’s just second nature, / It’s what we’ve been shown. / We’re living by your rules, / That’s all that we know.” (Joy Division, “Candidate”, in Unknown Pleasures). Quest’ultimo brano potrebbe riferirsi tanto al mondo sociale quanto a quello religioso-spirituale, anche se l’ultimo verso citato fa più pensare alla dimensione religiosa. Vi sono poi il sarcastico “God in his wisdom took you by the hand, / God in his wisdom made you understand” (Joy Division, “Colony”, in Closer) e l’appello alla madre nella gelida “Isolation”: “Mother I tried, please believe me, / I’m doing the best that I can. / I’m ashamed of the things I’ve been put through, / I’m ashamed of the person I am.” (Joy Division, “Isolation”, in Closer). Va ricordato, a questo proposito, che i superstiti del gruppo, dopo la morte di Curtis, hanno assunto il nome di New Order. “I’ve got the spirit, lose the feeling, take the shock away” (Joy Division, “Disorder”, in Unknown Pleasures). Cfr. M. Di Marco, op. cit., p. 125. A proposito della ‘perdita delle emozioni’ descritta in Unknown Pleasures, vanno ricordate anche “Insight”, dove Curtis canta “I’m not afraid anymore”; “Candidate”, in cui si ascolta: “I’ve since lost the heart”; infine, “New Dawn Fades”: “I’ve walked on water, run through fire, / Can’t seem to feel it anymore”. Nell’album successivo troviamo poi: “Weary inside, now our heart’s lost forever, / Can’t replace the fear or the thrill of the chase” (Joy Division, “Decades”, in Closer). Riguardo al carattere destabilizzante

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Con il successivo ed ultimo album dei Joy Division – Closer – la situazione interiore di Ian, rispecchiata dai testi, sembra stabilizzarsi, ma si tratta di una stabilità mortifera. “So this is permanence, love’s shattered pride. / What once was innocence turned on its side. / A cloud hangs over me, marks every move. / Deep in the memory, what once was love”.61 Eros, l’amore emotivo, sembra essere sepolto nella memoria. E l’amore che è sopravvissuto, quello che avrebbe distrutto l’orgoglio, appare come una forma debole di compassione, vicina alla mera commiserazione, che dal soggetto cerca di estendersi all’umanità intera o, almeno, ad un’intera generazione: Here are the young men, the weight on their shoulders. Here are the young men, well where have they been? We knocked on the doors of Hell’s darker chambers, Pushed to the limit, we dragged ourselves in. Watched from the wings as the scenes were replaying, We saw ourselves now as we never had seen. Portrayal of traumas and degeneration, The sorrows we suffered and never were free.62

E l’alternativa tragica che, in “Disorder”, era urlata con disperazione, si risolve in “Heart and Soul” in una glaciale ma altrettanto ossessiva constatazione, che suona come un’accusa al creatore, alla vita stessa, per aver permesso l’esistenza di un simile “abisso” interiore: “Heart and soul, one will burn”. Che qui l’anima svolga lo stesso ruolo svolto dallo spirito in “Disorder”, e che il cuore stia ad indicare la dimensione del feeling è evidente. Curtis, in definitiva, sembra credere che il suo “cuore” sia bruciato o destinato a bruciare; l’“anima” è sopravvissuta, ma un’anima che non ha saputo sostenere il cuore non ha più niente da dire.63

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delle emozioni, invece, tra i testi più significativi si possono citare quelli di “She’s Lost Control” e di “I Remember Nothing”. Joy Division, “24 Hours”, in Closer. Joy Division, “Decades”, in Closer. Anche nella biografia del cantante è ben presente la propensione alla comprensione e alla (mesta) condivisione delle sofferenze altrui: cfr. M. Middles, L. Reade, Ian Curtis. La vita e i Joy Division, tr. it. di B. Sonego, Odoya, Bologna 2010, pp. 230-231. In realtà, la biografia del giovane artista non rispecchia un passaggio irreversibile dall’eros coniugale a una dimensione di compassione/commiserazione generalizzata: l’ultima fase della sua vita è infatti caratterizzata da un nuovo e sconvolgente innamoramento, che gli complica ulteriormente la vita e che ne accompagna la progressiva dissoluzione.

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Dobbiamo però ora chiederci se, ed eventualmente fino a che punto, l’aut aut posto dai testi di Curtis corrisponda effettivamente al problema eros/agape quale è stato delineato nel primo paragrafo. Il cantante sembra riferirsi essenzialmente al fatto che lo sconvolgimento interiore proprio della dimensione erotica – e degli eventi emotivi in genere – rende difficile, se non impossibile, la padronanza di sé necessaria per vivere e, in particolare, per vivere in una dimensione spirituale. Che però quest’ultima, per lui, corrisponda interamente ad un amore agapico, non è del tutto evidente. “Anima” e “spirito” sembrano indicare, ai suoi occhi, anche la capacità di vivere efficacemente la dimensione artistica; inoltre, essi sembrano legati a quelle particolari “sensazioni” che lo fanno dubitare di essere un “uomo normale” (cfr. “Disorder” e “Isolation”). Dopo aver parlato dell’ingresso di Curtis nel “carrozzone del mondo del rock” e del suo contemporaneo fare i conti con la vita domestica – in quanto marito e padre – e col lavoro presso un ufficio di collocamento per disabili, Marco Di Marco scrive: “E questo dualismo, questa discrasia, questa oscillazione pericolosa tra due modelli di esistenza costituisce un substrato importante della poetica di Curtis: l’inadeguatezza al mondo, l’incapacità di sentirsi parte dell’una o dell’altra facciata della vita”.64 Analogamente, Middles e Reade, nella loro monografia Ian Curtis, a proposito della lotta interiore di Ian tra la necessità di guadagnare meglio per sostenere l’arrivo imminente del figlio e la volontà di aderire alla scelta ‘idealistica’ del gruppo di continuare ad incidere con l’etichetta indipendente Factory, scrivono: “desiderava essere una cosa pur sapendo che, in un certo senso, aveva bisogno anche dell’altra”.65 Forse, insomma, la dicotomia spirit vs. feeling nasce anche dal dissidio tra esigenze artistiche e responsabilità famigliari. Sembra altrettanto chiaro, peraltro, che la scelta dei termini soul e spirit – e non, ad esempio, mind o brain – per indicare l’antagonista del “cuore”, rimandi a una prospettiva più specifica rispetto a quella rappresentata dal classico e vastissimo tema del rapporto cuore/mente, ragione/sentimento; sembra che rimandi, insomma, ad un problema che non può prescindere dalla dimensione etico-religiosa, e che non può non richiamare alla mente la questione del conflitto tra eros e agape. In definitiva, soul e spirit paiono indicare, nella poetica di Curtis, una ‘padronanza di sé’, un ‘distacco’66 che si manifesta sia tramite un ‘trasferimento della vita nell’arte’ – il quale 64 65 66

M. Di Marco, op. cit., p. 108. M. Middles, L. Reade, op. cit., p. 156. “You’ve lost the feeling, now you’re out of touch” (“Out of Touch”: una bozza del 1977): cfr. D. Curtis, Così vicino, così lontano, tr. it. di A. Campo, Giunti, Firenze 1996, p. 212.

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rende possibile sfuggire momentaneamente ai traumi dell’esistenza – sia in un’attitudine ‘pietosa’ nei confronti degli altri viventi: il tutto, però, ottenuto al prezzo dell’inaridimento della vita emotiva.67 Anche a prescindere dal conflitto tra i due aspetti dell’amore, va poi ricordato come l’esperienza che Ian fa di entrambi sia decisamente negativa. La fiducia in un’agape divina, che si traduca in amore reciproco tra gli umani, è in lui minata sia, come abbiamo già visto, dal non aver incontrato esperienze religiose credibili (la delusione e il risentimento nei confronti del cristianesimo è abbastanza palese in più di un brano68), sia dalla sua morbosa attenzione per gli aspetti più atroci della storia del Novecento (da cui, com’è noto, deriva anche il nome della band69), sia, infine – verosimilmente –, dalla devastante esperienza diretta dell’epilessia, che allontana Curtis ancora di più dalla vita sociale e che contribuisce a condurlo al suicidio. L’esperienza che il cantante fa di eros è altrettanto deludente e dolorosa. I versi “I’ve seen the nights, filled with bloodsport and pain / And the bodies obtained, the bodies obtained”70 alludono probabilmente a un’esperienza della sessualità frustrante e svuotata di valore. La desolata e violenta “I Remember Nothing” descrive una coppia che si scopre separata da una diversità abissale: “Me in my own world, yeah you there beside. / The gaps are enormous, we stare from each side. / We were strangers for way too long”.71 La terribile “A Means to an End”, che sta forse “a metà [strada] tra la vendetta e il rimorso”,72 parla di “A house somewhere on foreign soil /

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Difficile non pensare, a questo proposito, a Schopenhauer e alle prime due vie che egli indica per la liberazione dal circolo vizioso di desideri e sofferenza: ossia, appunto, l’arte e l’etica della compassione (cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di S. Giametta, Bompiani, Milano 2006, pp. 345 ss.). Cfr., ad es., “I saw the saints with their toys / […] / I saw all knowledge destroyed. / […] / I travelled far and wide through prisons of the cross, / What did you see there? / The power and glory of sin” (Joy Division, “Wilderness”, in Unknown Pleasures); la già citata, sarcastica, “God in his wisdom took you by the hand, / God in his wisdom made you understand” (Joy Division, “Colony”, in Closer), e la ‘minacciosa’ “And all God’s angels beware. / And all you judges beware” (Joy Division, “Insight”, in Unknown Pleasures). “‘Divisione Gioia’ era il modo in cui i nazisti chiamavano le internate tenute in vita per essere usate come prostitute” dai militari (D. Curtis, op.cit., p. 71). Joy Division, “Day of the Lords”, in Unknown Pleasures. Joy Division, “I Remember Nothing”, in Unknown Pleasures. M. Di Marco, op. cit., p. 260.

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Where ageing lovers call. / Is this your goal, your final needs / Where dogs and vultures eat? / Committed still, I turn to go. / I put my trust in you”.73 La già più volte citata, e centrale, “Heart and Soul” mette a sua volta in scena un confronto disperato tra due (ex) amanti: “You take my place in the showdown, / I’ll observe with a pitiful eye. / I’d humbly ask for forgiveness, / A request well beyond you and I. / Heart and soul, one will burn”.74 La crisi non viene semplicemente concepita come problema della singola coppia che, per così dire, ‘non funziona’, bensì come manifestazione di un problema universale, insito nella vita stessa: un problema che si presenta come irresolubile e del quale, nonostante ciò, ci si sente colpevoli. Tale universalità e ineluttabilità della sofferenza legata all’eros viene ribadita anche nel brano più rappresentativo dei Joy Division, il cui titolo è stato pure inciso, per volere della moglie, sulla tomba di Ian Curtis: “Love Will Tear Us Apart”. “Why is the bedroom so cold? / You’ve turned away on your side. / Is my timing that flawed? / Our respect run so dry. / Yet there’s still this appeal that we’ve kept through our lives. / But love, love will tear us apart again”.75 3. Wire Gli U2 conoscevano bene e apprezzavano i Joy Division. Ai loro esordi, giovanissimi, Bono e compagni – già “Unknown Pleasures-dipendenti”, come ricorda Peter Hook – si recarono negli studi dove Curtis e gli altri stavano registrando Closer, per conoscerli di persona.76 Quando quest’ultimo si suicidò impiccandosi, Bono ne fu scosso e scrisse “A Day Without Me” – un brano che parla di una “landslide in my ego”77 – “in parte […] come reazione al suicidio di Ian Curtis”.78 In seguito, gli U2 hanno spesso inserito il refrain di “Love Will Tear Us Apart” all’interno della loro “With or Without You” (che, come vedremo, è tra i brani della band irlandese che esprimono con più forza il conflitto tra eros e agape) e, più di recente, hanno realizzato live una cover dello stesso brano dei Joy Division. In una recente intervista, inoltre, Bono ha parlato della “holy voice of Ian 73 74 75 76 77 78

Joy Division, “A Means to an End”, in Closer. Joy Division, “Heart and Soul”, in Closer. Joy Division, “Love Will Tear Us Apart”, Factory Records, 1980. Cfr. M. Middles, L. Reade, op. cit., p. 253. U2, “A Day Without Me”, in Boy, Island Records, 1980. Cfr. U2. Tutti i testi, con traduzione a fronte, a cura di A. Campo, Arcana, Milano 1985, p. 39.

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Curtis”,79 a testimonianza di una mai abbandonata stima e di una particolare considerazione per il cantante di Manchester. Vi è però un altro brano – “Wire” – che, a dispetto di quanto gli stessi U2 hanno affermato riguardo alla sua genesi e al suo significato (si tratterebbe di una canzone sulla tossicodipendenza),80 ha tutta l’aria di rappresentare (anche) un tesissimo dialogo, una battaglia vitale che Bono ingaggia con il fantasma di Ian Curtis: con ciò che quest’ultimo, dopo la sua morte, ha finito per rappresentare. “Innocent and in a sense I am” – comincia Bono – “Guilty of the crime that’s now in hand”. Quale può essere il crimine in questione, l’unico di cui Bono si sente realmente colpevole? Conoscendo la sua poetica, il suo percorso umano riflesso dai testi, non si può pensare al problema della droga (che probabilmente è stata per lui una tentazione, ma di cui in genere egli tratta non come esperienza diretta, bensì esprimendo compassione per altri che ne sono vittime); il crimine di cui si tratta è invece probabilmente l’amore stesso81. Il brano prosegue infatti così: Such a nice day, throw your life away! Such a nice day, let it go! Cold in his eyes, I can’t believe it! Cold, in his heart he’s slow. Heart and soul. Cold man, such a cold heart, Such a cold man, I watch you tear yourself apart. […] Cold these eyes, I can’t believe it! So deep inside a cold fire. Cold in his heart and soul.

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Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=flVEoNuEYgE Cfr. N. Stokes, U2. Dentro al cuore. La storia canzone per canzone, tr. it. di A. Capizzi Cittadini, Giunti, Firenze 2002, p. 54. È però plausibile anche un’altra lettura, soprattutto se si accoglie la versione del testo riportata nel sito ufficiale degli U2 (la quale tuttavia in più di un punto non corrisponde a ciò che Bono canta nell’album) quanto ai seguenti versi: “Call me / Such a cold heart, / Such a cold man [to] / Watch you tear yourself apart”. In base a questa lettura, il “crimine” potrebbe essere quello di aver osservato la sofferenza di un amico (causata da droga o altro), scrivendoci pure una canzone sopra, senza essere riuscito ad aiutarlo.

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I riferimenti alla vita gettata via, al freddo negli occhi, nel cuore e nell’anima, allo “straziarsi (tear oneself apart)” sembrano richiamare da vicino la vicenda e le stesse parole di Curtis, come se gli si volesse dire: “l’alternativa che hai posto tra cuore e anima deriva dal fatto che entrambi, in te, erano freddi” e “non è stato l’amore a straziarti, ti sei straziato da solo”. Poi Bono sfida qualcuno, che sembra rappresentare al contempo una parte di sé: “Here we are again now, place your bets! / Is this the time / The time to win or lose? / Is this the time / The time to choose?” E la sfida pare appunto rivolta a un fantasma sofferente e foriero di sofferenza, che si vorrebbe sconfiggere accogliendolo e trasformandolo con un bacio: “Any time you’re on the Earth, / Kiss me!”82 I versi finali, infine, sembrano contenere un inquietante riferimento alla morte per impiccagione: “Here’s the rope / Here’s the rope / Now… swing away”.83 Il termine wire, spesso presente nei testi degli U2, sta sempre a rappresentare qualcosa di pericoloso, ma a volte anche di attraente. La “gatta” incarnazione del male, protagonista di “An Cat Dubh”, “sleeps beside the wire”;84 nella “barbed wire fence” di “Pride” resta impigliato un uomo che, tuttavia, “resiste”;85 attraverso i “wires” della donna amata – descritta come “angel, angel or devil” – si può viaggiare in “Trip Through Your Wires”.86 In questo contesto poetico, una canzone intitolata semplicemente “Wire” potrebbe ben avere a tema quel pericolo/oggetto di attrazione supremo che fa da ‘filo conduttore’ di gran parte della produzione degli U2: appunto, il problema delle due facce dell’amore. Ma anche se l’oggetto di “Wire” non fosse affatto, nelle intenzioni esplicite dell’autore, il fantasma di Curtis, non credo di essere lontano dal vero nell’individuazione della ‘battaglia’ di fondo combattuta dagli U2: una battaglia che, di fatto, riprende quella persa dal cantante dei Joy Division. Se quest’ultimo rappresenta un uomo che si uccide affermando l’incom82

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C’è anche chi trascrive: “Any time you’re on the air” (cfr. http://www.sing365.com/ music/lyric.nsf/Wire-lyrics-U2/B6C445B2C40906BD4825689600329B5A). Anche questo avrebbe un senso in relazione a Ian Curtis: “Ogni volta che sei in onda [cioè quando la tua voce è trasmessa per radio]”. U2, “Wire”, in The Unforgettable Fire, Island Records, 1984. La trascrizione “Here’s the rope / Now…swing away” è tratta dal sito ufficiale della band, e può far pensare che la “corda” rappresenti qui un oggetto cui aggrapparsi, piuttosto che uno strumento di morte, sebbene il verbo “to swing”, in slang, indichi appunto il morire per impiccagione. Il sito italiano “U2 Place.com” riporta invece: “Here’s the rope… / Now swing on it”. U2, “An Cat Dubh”, in Boy. U2, “Pride (In the Name of Love)”, in The Unforgettable Fire. U2, “Trip Through Your Wires”, in The Joshua Tree, Island Records, 1987.

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patibilità di cuore e anima, e accusando l’amore di averlo straziato e – in assoluto – di separare invece che di unire, la lotta dell’io cantante degli U2 consiste invece precisamente nella volontà/necessità/speranza di tenere insieme quelle due parti del sé e di poter celebrare l’amore – eros e agape insieme – come fondamento e senso della vita. Cominciamo dunque ad analizzare alcuni versi degli U2 in cui l’alternativa tra eros e agape viene riconosciuta come tale. Uno dei luoghi più espliciti è “Miracle Drug”, dove Bono canta: “I’ve had enough of romantic love / I’d give it up, yeah, I’d give it up / For a miracle, a miracle drug”. Dove la “droga miracolosa” è, con ogni evidenza, agape. La canzone ha sullo sfondo il problema dell’AIDS e, in particolare, il modo in cui tale problema si presenta nei paesi del Sud del mondo, dove, per motivi economici, non arrivano i farmaci che – in Occidente – riescono a ostacolare la malattia: una questione per la cui risoluzione Bono si sta spendendo da anni in prima persona. La “droga miracolosa” è dunque anche un farmaco che possa curare l’AIDS (“Of science and the human heart / There is no limit / There is no failure here sweetheart / Just when you quit / […] / I hear a voice, it’s whispering / In science and in medicine / ‘I was a stranger, you took me in’”). L’invito a ‘non mollare’ nella ricerca scientifica contro l’HIV e nella lotta per far sì che chiunque possa beneficiare dei risultati di quella ricerca si fonde, in qualche modo, con la determinazione a ‘non mollare’ nella ricerca di una soluzione ai problemi del “cuore umano”, con particolare riferimento ai rapporti di coppia: “Love and logic keep us clear / Reason is on our side, love!”. In entrambi i casi, la soluzione prospettata è agape.87 Nella solare “Angel of Harlem”, dedicata alla figura di Billie Holiday, si ascolta il gioioso auspicio: “Soul love! / Well this love won’t let me go”. La speranza è dunque che un amore dell’anima, cioè basato sull’anima, costituisca un punto fermo al quale aggrapparsi, in implicita contrapposizione ad un amore del cuore che, evidentemente, ha mostrato la propria instabilità e precarietà.88 L’idea viene confermata nella coeva “When Love Comes to Town”: “Used to make love under a red sunset [eros] / I was making promises I was soon to forget. / She was pale as the lace of her wedding gown / But I left her standing before love [agape] came to town”.89 Fin qui abbiamo visto brani in cui agape viene sì contrapposta ad eros, ma in cui si ha fiducia nel fatto che la prima sia in grado di ‘risolvere i 87 88 89

U2, “Miracle Drug”, in How to Dismantle an Atomic Bomb, Island Records, 2004. U2, “Angel of Harlem”, in Rattle and Hum, Island Records, 1988. U2, “When Love Comes to Town”, in Rattle and Hum.

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problemi causati dal secondo’, sostituendosi in qualche modo ad esso o assorbendolo in sé, secondo un processo analogo a quella trasformazione degli affetti naturali in carità di cui parla Lewis. Vi sono però altri luoghi in cui il conflitto si presenta in modo più drastico. Ad esempio, in “The Fly”, Bono canta: “They say the sun is sometimes eclipsed by the moon / You know I don’t see you when she walks in the room”. Il sole è in questo caso simbolo di Dio e, quindi, dell’agape – Bono basa infatti la propria fede sull’equazione giovannea “God is Love” –, mentre è facile intuire come la luna stia ad indicare l’amore erotico, che oscura agape “quando lei entra nella stanza”.90 In “Sweetest Thing”, a proposito del rapporto di coppia, si dice: “I wanted to run, but she made me crawl”.91 Il correre è per Bono simbolo di crescita spirituale, come dimostrato anche da molti altri brani;92 una crescita spirituale che, però, viene impedita dal rapporto di coppia e dalle sue leggi interne: lui vorrebbe correre, lei lo fa strisciare. Anche in “Moment of Surrender” l’eccesso di passione amorosa viene chiaramente indicato come un possibile motivo di allontanamento da Dio: “Even on our wedding day / We set ourselves on fire / Oh God, do not deny her”.93 In altri brani emerge nettamente la contrapposizione tra l’impegno sociale e la dimensione del rapporto di coppia, con varie sfumature. In “Tryin’ to Throw Your Arms Around the World”, ad esempio, si dice che “A woman needs a man like a fish needs a bicycle / When you’re trying to throw your arms around the world”.94 In “Love and Peace or Else”, di fronte alla tensione causata da una nuova guerra internazionale – il riferimento è molto probabilmente alla seconda Guerra del Golfo –, ci si sente chiamati a mettere da parte eros, “amante geloso”, un lusso che in quelle circostanze non ci si può permettere, e (implicitamente) a sostituirlo con un altro tipo di amore: “Lay your love on the track / We’re gonna break, the monster’s back / […] / Lay down your treasure / Lay it down now brother / You don’t

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U2, “The Fly”, in Achtung Baby, Island Records, 1991. U2, “Sweetest Thing”, B-Side del singolo “Where the Streets Have No Name”, Island Records, 1987. Cfr. ad es.: “You run, you run. / You run and not grow weary” (U2, “Drowning Man”, in War, Island Records, 1983); “On borderland we run / And still we run, we run and don’t look back” (U2, “A Sort of Homecoming”, in The Unforgettable Fire); “I believe in the Kingdom Come / […] / But yes, I’m still running” (U2, “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”, in The Joshua Tree). U2, “Moment of Surrender”, in No Line on the Horizon, Island RecordsInterscope, 2009. U2, “Tryin’ to Throw Your Arms Around the World”, in Achtung Baby.

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have time / For a jealous lover”.95 E, nell’allegra e pacificata “Get On Your Boots”, Bono invita la compagna ad infilarsi i suoi “sexy boots”, ammettendo, di fronte a tanta bellezza: “I don’t wanna talk about wars between nations / Not right now”.96 Sono però altri i brani – appartenenti a uno specifico periodo della produzione degli U2, come vedremo meglio più avanti – in cui il conflitto in questione assume toni tragici. Uso quest’ultimo termine in un senso stretto, cioè con riferimento allo spirito della tragedia attica, là dove tragica è la necessità di scegliere tra due opzioni alternative che vengono entrambe riconosciute come dotate di valore e che reclamano con forza la loro autorità sugli individui: qualunque scelta si faccia, si è destinati a perdere qualcosa di estremamente importante.97 Quando Bono canta “I can’t live with or without you”98 siamo lontanissimi dalla banalità del “non posso vivere senza di te” di tante canzoni pop: la frase significa, piuttosto, “se vivo con te – se accetto il rapporto di coppia e le sue leggi sfuggenti – ottengo il cuore, ma perdo l’anima; se vivo senza di te ritrovo l’anima ma perdo il cuore”. In “Please” lo scontro tra la concezione dell’amore di lui (incentrata su agape) e quella di lei (basata su eros) raggiunge un punto estremo, di apparente non ritorno: “So love is big, / Is bigger than us. / But love is not / What you’re thinking of. / It’s what lovers deal, / It’s what lovers steal / You know I found it hard to receive. / ‘Cause you, my love, / I could never believe”.99 Nella canzone “Slow Dancing” si ascolta: “My love is cruel as the night. / She steals the sun and shuts out the light. / […] / She left with my conscience / And I don’t want it back”.100 Qui emerge una resa ad eros che si traduce esplicitamente in una perdita della coscienza morale. Analogamente, nella sensuale e malinconica “If You Wear That Velvet Dress”, Bono afferma con un filo di voce: “I’ve been good ‘cause I know you don’t want me to”. Con questa frase, il conflitto tra eros e agape si è ripiegato su sé stesso fino a giungere a una perversa contorsione: lei non vuole che lui sia buono, perché non riconosce un valore all’amore agapico, il quale sottrae lui all’esclusività dell’eros di coppia; lui sceglie allora di “essere buono”, 95 96 97

U2, “Love and Peace or Else”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. U2, “Get On Your Boots”, in No Line on the Horizon. U2, Per questo tipo di lettura, cfr., ad es., A. MacIntyre, Dopo la virtù, tr. it. di P. Capriolo, revisione di M. D’Avenia, Armando, Roma 2007, pp. 171-186. 98 U2, “With or Without You”, in The Joshua Tree. 99 U2, “Please”, in Pop, Island Records, 1997. 100 U2, “Slow Dancing”, in Stay (Faraway, So Close!). The Live Format, Island Records, 1993.

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ma lo fa per fare un dispetto a lei e, in questo modo, paradossalmente ammette la propria sudditanza ad eros e il suo tradimento dell’agape nel momento stesso in cui si dedica a quest’ultima. Ciò viene confermato dai versi che vengono languidamente cantati poco dopo: “Sunlight, sunlight fills my room / It’s sharp and it’s clear / But nothing at all like the moon”.101 Tenendo conto della centralità di questo wire che collega e separa eros e agape nei testi degli U2, è difficile resistere alla tentazione di speculare sullo spettro semantico offerto dal nome del gruppo (una pluralità di significati verosimilmente non prevista nel momento in cui il nome fu scelto). ‘Anche tu (You Too)’, certamente: la condivisione agapica di un progetto di trasformazione del mondo, in continuità con l’eredità lennoniana del “I hope someday you’ll join us”.102 Ma anche ‘voi [siete] due’: l’irriducibile diversità delle due persone coinvolte in un rapporto di coppia. E perfino, volendo, ‘tu [sei] due’: il conflitto interiore fra le due strade divergenti, cuore e anima. Non appare per niente casuale, da questa prospettiva, che il brano forse più rappresentativo della band si intitoli “One”. L’aspirazione fondamentale è infatti l’aspirazione all’unità: unità interna (della persona con sé stessa), unità nella coppia, unità sociale, unità con l’Uno. 4. The Sheer Face of Love Gli ultimi brani citati ci conducono ora a concentrarci sulla caratterizzazione dell’amore (eros) come bugia, come colpa e fonte di sofferenza. Cominciamo con il tema dell’amore-bugia. Durante lo Zoo TV Tour, tra le innumerevoli scritte luminose che si accavallavano freneticamente sugli schermi del concerto, stordendo gli spettatori, compariva a un certo punto in grande evidenza la parola BELIEVE, in blu, al cui interno si illuminavano poi in rosso le lettere centrali: LIE. Probabilmente molti hanno inteso il gioco verbale solo nei termini di un contrasto tra il credere in qualcosa e lo scoprire in seguito che quel qualcosa è una menzogna. Naturalmente questa lettura è plausibile e verosimilmente prevista da chi ha ideato il gioco. Ma, conoscendo il tema di fondo degli U2, che stiamo cercando qui di sviscerare, possiamo presupporre che non si tratti soltanto di un verbo (to believe) e di un sostantivo (a lie), ma anche di due verbi, anzi di due imperativi:

101 U2, “If You Wear That Velvet Dress”, in Pop. 102 Cfr. J. Lennon, “Imagine”, in Imagine, Apple/EMI, 1971.

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credi (in Dio, cioè nell’agape) vs. menti (cioè abbandonati a eros, che è una bugia).103 Non pochi sono i brani in cui compare l’idea dell’amore come menzogna. Forse è un’idea già presente nell’intensa “Another Time, Another Place”, quando Bono canta: “I’ll be with you now / We lie on a cloud, we lie…”: se il significato del primo lie è inequivocabilmente stendersi, riferito verosimilmente a una coppia, il secondo viene cantato (e poi reiterato più e più volte) con una tale intensità da far pensare a un atto molto più pregno di significati del semplice stendersi.104 In “Surrender” troviamo il verso: “Oh, the city’s alight with lovers and lies”, che non avrebbe molto senso se il concetto di bugia non fosse intimamente legato a quello di amanti.105 E ancora, in “So Cruel”: “Desperation is a tender trap / It gets you every time / You put your lips to her lips / To stop the lie”. Ci si bacia, dunque, per “trattenere la bugia [dell’amore]”, anche se ciò conduce a una tenera disperazione.106 Ancora più chiaro è il riferimento all’amore in “Salome”: “Baby please don’t go / I got lies to feed / They want skin and seed”107, e in “Do You Feel Loved?”: “With my fingers as you want them / […] / And my tongue to tell you the sweetest lies”.108 In “The Unforgettable Fire”, poi, Bono canta: “Stay this time, stay tonight in a lie. / […] / Come on take me home, home again. / […] / Don’t push me too far, don’t push me too far / Tonight, tonight”.109 L’invito a “restare in una bugia”, come modo per essere “riportati a casa”, senza venire “spinti troppo lontano” – il tutto in un brano che è evidentemente una canzone d’amore – sembra rappresentare un’acuta consapevolezza del ruolo

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Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=kGSbadw0sD8 U2, “Another Time, Another Place”, in Boy. U2, “Surrender”, in War. U2, “So Cruel”, in Achtung Baby. U2, “Salome”, inclusa nel singolo “Even Better than the Real Thing”, Island Records, 1992. 108 U2, “Do You Feel Loved?”, in Pop. Gli esempi sarebbero ancora tanti: “Like lies need the dark / I need your love” (U2, “Hawkmoon 269”, in Rattle and Hum); “Well you lied to me ‘cause I asked you to. / Baby, can we still be friends?” (U2, “Who’s Gonna Ride Your Wild Horses?”, in Achtung Baby); “And I don’t know why a man will search for himself / In his woman’s eyes. / No, I don’t know why a man sees the truth / But believes the lies” (U2, “Slow Dancing”, in Stay [Faraway, So Close!]. The Live Format). Infine, la già ricordata, straziante, chiusa di “Please”: “It’s what lovers deal / It’s what lovers steal / You know I’ve found it hard to receive. / ‘Cause you, my love, / I could never believe”. A lei non si può credere, perché pone al centro l’amore come bugia. 109 U2, “The Unforgettable Fire”, in The Unforgettable Fire.

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che eros dovrebbe avere nel delicatissimo equilibrio del suo rapporto con l’agape. Ma perché eros sarebbe “una bugia”? In parte, perché abbandonarsi all’innamoramento sembra implicare un’illusione: la proiezione sull’amato/a di un’icona, di un sogno, che non corrisponde mai interamente alla persona reale. Appare facilmente come una bugia la convinzione – connaturata alla prospettiva erotica – che una sola persona, tra le innumerevoli esistenti, sia quella che merita l’enorme e quasi incondizionato amore che eros è in grado di donare. Spesso ci si illude, inoltre, di potersi rispecchiare completamente nell’altro/a, di poter comunicare senza mediazioni il proprio io così com’è, e che quest’ultimo venga interamente compreso e accolto; ci si illude di poter essere una cosa sola. La struggente “One” rappresenta anche e soprattutto il frutto maturo della disillusione riguardo a quest’ultimo aspetto di eros.110 La coscienza della natura illusoria dell’amore erotico non esclude però che due amanti possano volontariamente continuare ad illudersi, sapendo che la bugia è necessaria e vitale, anche se va radicata in un terreno di verità. Si può stare stanotte in una bugia, sapendo che è tale, e che è necessaria per sentirsi a casa, senza però essere spinti troppo lontano tramite la pretesa che la bugia sia invece la verità, il centro intorno al quale far ruotare tutto. Sull’eros inteso come colpa, come allontanamento dal bene e dalla felicità, uno dei luoghi più netti è il frammento finale di “In God’s Country”: “I stand with the sons of Cain / Burned by the fire of love”.111 Vi è poi “Ultraviolet (Light My Way)”, “una dichiarazione intrisa d’ansia e disperazione sul prezzo terribile che le persone pagano per l’amore”,112 e che ricorda gli scenari desolati dei brani di Curtis: “There is a silence that comes to a house / Where no one can sleep. / I guess it’s the price of love, I know it’s not cheap”.113 “So Cruel” descrive vividamente quella dimensione dell’eros ribellatosi ad agape e divenuto demone, di cui parla Lewis: “You say in love there are no rules. / Oh love, sweetheart, you’re so cruel”.114 “Love Is Blindness” descrive invece eros come un disperato rifugio che consente di sfuggire per un momento alla battaglia continua richiesta dalla vita (“Love is blindness, I don’t want to see / Won’t you wrap the night around me?”), un rifugio di cui non sfugge la natura illusoria e pericolosa: “A little death

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U2, “One”, in Achtung Baby. U2, “In God’s Country”, in The Joshua Tree. Cfr. N. Stokes, op. cit., p. 108. U2, “Ultraviolet (Light My Way)”, in Achtung Baby. U2, “So Cruel”, in Achtung Baby.

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without mourning / No call and no warning / Baby, a dangerous idea / That almost makes sense”.115 Tutto questo è la “Sheer face of love”, sulla quale “A man will beg / A man will crawl / […] / Like a fly on a wall”.116 Sheer – perpendicolare, a picco – è una caratterizzazione importante del lato oscuro dell’amore, perché indica il fatto che ad esso non ci si può aggrappare, non si può farne il punto fermo intorno al quale costruire la propria vita, come invece si vorrebbe.117 Dovrebbe comunque essere chiaro, da quanto detto fin qui, che la sheer face of love non rappresenta eros come tale, bensì eros in quanto pretende di sostituirsi ad agape.

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5. I’ll Show You a Place “‘Non scriviamo molte canzoni d’amore’ sostiene Bono. Ed è vero, nel senso convenzionale del termine. Ma gli U2 scrivono sull’amore in continuazione. In effetti l’amore in tutte le sue sfaccettature e forme è il territorio più frequentemente esplorato della loro musica”.118 Altrettanto vero è che si può rinvenire, album dopo album, un percorso abbastanza chiaro che un lui (il quale parla perlopiù in prima persona) e una lei (cui spesso ci si rivolge con un tu) compiono riguardo all’amore. Se i due personaggi in questione corrispondano, e fino a che punto, a Bono e a sua moglie Alison, non ci è dato sapere, benché l’elemento autobiografico sia indubbiamente presente. Ciò che conta è che la storia dei due personaggi si rivela decisamente significativa per il nostro discorso. I primi album del gruppo – fino a The Unforgettable Fire (1984) e, in parte, anche fino a The Joshua Tree (1987) – sono caratterizzati da un impeto ‘eroico’ volto a raggiungere la completezza, l’unità, il ‘ritorno a casa’,119 attraverso il “fuoco” dell’amore e, in questa fase, è difficile distinguere ‘due lingue’ in quel fuoco: eros e agape, cioè, sembrano fondersi in 115 U2, “Love Is Blindness”, in Achtung Baby. 116 U2, “The Fly”, in Achtung Baby. 117 Cfr. i numerosi versi degli U2 in cui compare la volontà di “tenersi stretti” ad eros, come ad esempio: “Hold on to love! / Love won’t let you go” (U2, “Luminous Times [Hold On to Love]”, B-Side del singolo “With or Without You”, Island Records, 1987). 118 N. Stokes, op. cit., p. 91. 119 Sul significato del costante riferimento al “ritorno a casa” nei testi degli U2, cfr. le interessanti considerazioni di J. Malpas, Philosophizing Place in “The Joshua Tree”, in M.A. Wrathall (a cura di), U2 and Philosophy: How to Decipher an Atomic Band, Open Court, Chicago-La Salle 2006, pp. 45-49.

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un’unica, grande, aspirazione. “But there’s a fire inside / When I’m falling over / There’s a fire in me / When I call out / I built a fire, fire… / I’m going home”.120 La dolce e struggente “Drowning Man”, stando a quanto ha affermato Bono, è una canzone scritta dal punto di vista di un Dio misericordioso che si rivolge a un uomo che “affoga”: Take my hand. You know I’ll be there If you can I’ll cross the sky for your love. For I have promised For to be with you tonight And for the time that will come. […] Hold on, hold on tightly! Hold on, and don’t let go of my love. […] Rise up, rise up with wings like eagles. You run, you run, You run and not grow weary.121

La prospettiva indicata dallo stesso Bono, comunque, non esclude che si possa leggere la canzone anche come una dichiarazione d’amore di un uomo a una donna. In un altro brano, “New Year’s Day”, si ascolta: “The newspaper says, says… / Say it’s true, it’s true, / We can break through! / Though torn in two / We can be one! / […] / Oh, maybe the time is right… / Oh, maybe tonight / I will be with you again”.122 Questa “era una canzone d’amore, certamente composta da Bono con la moglie Ali in testa. Ma lo scenario politico […] infonde al brano un senso di separazione e struggimento […]. ‘Inconsciamente devo aver pensato a Walesa che veniva arrestato e al fatto che a sua moglie fosse proibito andarlo a trovare’ ha commentato Bono”.123 L’unità della coppia – qui bramata sullo sfondo politico della Polonia di Solidarność – viene espressa con le stesse parole con cui, in “Sunday Bloody Sunday”, viene auspicata la pace tra le fazioni della guerra civile irlandese, una ferita

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U2, “Fire”, in October, Island Records, 1981. U2, “Drowning Man”, in War. U2, “New Year’s Day”, in War. N. Stokes, op. cit., p. 42.

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sempre aperta per i componenti della band: “But tonight / We can be as one, tonight!”.124 In “The Unforgettable Fire”, lui pare rivolgere a lei125 parole simili a quelle che il Cristo rivolgeva all’uomo-che-affoga in “Drowning Man”: “Walk on by, walk on through, / Walk till you run and don’t look back / For here I am”.126 Anche in “Luminous Times (Hold On to Love)”, eros e agape sembrano ancora coincidere: “Save my soul! / Hold on to love! / […] / Love won’t let you go. / […] / See the sunshine in her soul. / […] / I love you ‘cause I need to, / Not because I need you. / I love you ‘cause I understand / That God has given me your hand”.127 Con l’album The Joshua Tree le cose cominciano però a complicarsi. Lui sta aspettando lei: lo ripete più e più volte. Vuole qualcosa da lei che lei non riesce a dargli. See the stone set in your eyes, See the thorn twist in your side. I wait for you. Sleight of hand and twist of fate, On a bed of nails she makes me wait. And I wait without you. […] Through the storm we reach the shore, You give it all but I want more. And I’m waiting for you.128

In “Red Hill Mining Town”, il rapporto tra lui e lei viene ambientato nel contesto dei drammatici scioperi dei minatori nell’Inghilterra dell’eraThatcher. Stavolta, però, il legame conflittuale tra i due protagonisti viene decisamente in primo piano rispetto allo sfondo sociale, che apparirebbe quasi pretestuoso se non fosse per la passione sincera con cui il gruppo interpreta il brano: “Hangin’ on, / You’re all that’s left to hold on to. / I’m 124 A proposito di “New Year’s Day” è stato scritto giustamente che “l’oggetto della brama, nella canzone, non è solo il ricongiungimento con l’amata, ma anche un diverso tipo di unità: la pace, l’unità politica, la concordia” (M. Berzins McCoy, “We Can Be One”: Love and Platonic Transcendence in U2, in M. A. Wrathall [a cura di], op. cit., p. 6). 125 Ma potrebbero anche essere rivolte a qualcun altro, forse alla persona con gli “occhi neri come il carbone” descritta nei primi versi. 126 U2, “The Unforgettable Fire”, in The Unforgettable Fire. 127 U2, “Luminous Times (Hold On to Love)”, B-Side del singolo “With or Without You”. 128 U2, “With or Without You”, in The Joshua Tree.

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still waiting. / […] / We’re wounded by fear, / Injured in doubt. / I can lose myself, / You I can’t live without”.129 È però “Where the Streets Have No Name” a farci capire un po’ meglio che cosa lui stia aspettando da lei. We’re still building, then burning down love, Burning down love… And when I go there, I go there with you. It’s all I can do. The city’s a flood, and our love turns to rust. We’re beaten and blown by the wind, Trampled in dust. I’ll show you a place High on a desert plane Where the streets have no name.130

Come ricorda Niall Stokes, “il titolo si ispira senza dubbio al periodo trascorso da Bono e sua moglie Ali in Etiopia, nel 1985. Vi si erano recati come volontari, al seguito di agenzie umanitarie che operavano laggiù”.131 Ma il posto con le strade senza nome indica, a mio parere, soprattutto la terra di agape, che si trova al di là dell’individualità. È dunque molto significativo che l’espressione tragga spunto dall’Africa, dove Bono e Ali lavoravano insieme per il bene di persone sconosciute. La natura instabile e conflittuale di eros, basata sull’attrazione/repulsione reciproca di due individui (“Still building, then burning down love”) viene contrapposta al luogo elevato e stabile (“High on a desert plane”) della compassione. Ma a lui non basta affatto andarci da solo, in quel posto, fuggendo dall’instabilità di eros: al contrario “ci vado con te: / non posso fare altro”. La vera meta è che eros vada a vivere nella terra di agape. “Running to Stand Still”, stando alle ricostruzioni sulla sua genesi, sembra parlare di una coppia di eroinomani.132 Ma, ancora una volta, non sembra troppo forzato rinvenirvi, nascosta, una puntata importante del rapporto tra lui e lei.133 129 U2, “Red Hill Mining Town”, in The Joshua Tree. Anche in “Trip Through Your Wires”, tratta dallo stesso album, Bono ripete: “You, I’m waiting for you…”. 130 U2, “Where the Streets Have No Name”, in The Joshua Tree. 131 N. Stokes, op. cit., p. 65. 132 Cfr. ivi, pp. 70-71. 133 A proposito della moglie Alison, Bono ha affermato: “Ci vuole una grande generosità ad avere a che fare con uno nella mia posizione, che può farti esporre troppo. Se sei una persona riservata, come lei, questa è una situazione da affrontare con estrema attenzione. Ecco perché scrivo spesso delle esperienze di altri come

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And so she woke up, Woke up from where she was lyin’ still. Said I gotta do something about where we’re going. Step on a steam train, Step out of the driving rain, maybe Run from the darkness in the night. […] You gotta cry without weeping, talk without speaking, Scream without raising your voice. […] She will suffer the needle chill. She’s running to stand still.134

Lei, insomma, sembra infine decidere di raggiungere lui, superando l’inerzia, la sofferenza e l’instabilità di una vita basata su eros: per riuscirci deve dominare la propria sensibilità (senza ucciderla, naturalmente: “Cry without weeping”, ecc.); deve correre (immagine, come già accennato, della lotta spirituale) ma allo scopo di restare ferma, salda in sé stessa. In quest’ottica, “patire il freddo dell’ago”, al di là del riferimento all’eroina, può essere una bella metafora per l’‘imparare a stare da soli, a stare in piedi con le proprie gambe’. Nello scenario di The Joshua Tree è comunque ormai chiaro che, come si dice nel brano “Exit”, “the hands that build / Could also pull down… / The hands of love”.135 E quando, nel contesto del successivo album Rattle and Hum (1988), Bono urlerà (in “God Part II”) la sua dichiarazione: “I believe in love”, gli accadrà di chiedersi – durante un’esibizione del brano dal vivo, in uno strano ‘dialogo pubblico con sé stesso’ – “What kind of love? What kind? What you’re talkin’ about?”136 La divaricazione sempre meno sopportabile tra cuore e anima nella vita di Bono, insieme ad altri elementi (tra cui la popolarità ormai smisurata della band, con la conseguenza di una intimità sempre più violata), stavano per causare una frattura decisiva nella vicenda artistica e umana degli U2.

fossero mie e perché nelle mie canzoni d’amore troverai sempre delle storie” (cit. in N. Stokes, op. cit., p. 94). Questo frammento di intervista è sufficiente a farci capire un aspetto essenziale dei testi di Bono. 134 U2, “Running to Stand Still”, in The Joshua Tree. 135 U2, “Exit”, in The Joshua Tree. 136 O forse: “Why you’re talkin’ about it?” Cfr. http://www.youtube.com/ watch?v=-WhzPRmvVcM

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6. Moment of Surrender In un brano del 1983, “Surrender”, gli U2 avevano affrontato di petto un tema che sarebbe rimasto decisivo per il resto della vita della band, fino ad oggi: il tema della resa. “Surrender” – disse Bono – “è il tema di War”,137 l’album in cui la canzone è inclusa: un album che affronta tra l’altro temi come la guerra civile in Irlanda, le lotte per la libertà in Polonia, la questione dei rifugiati politici. In quel periodo, il cantante spesso brandiva sul palco una bandiera bianca, e il messaggio primario era evidentemente quello di trovare il coraggio di rompere il circolo vizioso delle violenze attraverso una trasformazione prima di tutto interiore (“Angry words won’t stop the fight. / Two wrongs won’t make it right! / A new heart is what I need. / Oh, God, make it bleed!” si ascolta ad esempio in “Like a Song”).138 A sua volta, la trasformazione interiore – come è già chiaro dai versi citati – passa per una resa dell’ego a Dio, all’agape.139 Tuttavia, “Surrender” non parla né di politica né direttamente di una resa religiosa: parla invece, anzitutto, di una città notturna illuminata a giorno, piena di “amanti e bugie”, una città che è “desire to take me for more and more”. E le voci femminili (le Coconuts di Kid Creole) che intimano la resa suonano molto più come un richiamo di sirena che come una voce divina. Un’altra strofa parla di una donna, Sadie, che “tried to be a good girl and a good wife, / Raise a good family, lead a good life, / It’s not good enough! / She got herself up on the 48th floor / Gotta find out / Find out what she’s living for”: e qui le voci che chiedono a Sadie di arrendersi possono sì indicare la resa a Dio (che significa ben altro dall’essere una ‘brava borghese’), ma potrebbero anche chiederle di buttarsi dal quarantottesimo piano. La canzone si chiude con Bono che afferma: “If I wanna live I gotta die to myself someday”. In qualche modo, dunque, l’io dovrà morire: arrendendosi a Dio o, forse, alla città (e a lei, che lui cerca in città: “The city’s […] / A passionate flame that knows me by name. / […] / It’s in the air, it’s everywhere I look for you”).140 Facendo un salto in avanti e tornando a quanto avviene dopo il cosiddetto ‘periodo americano’ di The Joshua Tree e Rattle and Hum, possiamo effettivamente assistere alla ‘resa’ di Bono. Se, fino a quel momento, lui era 137 Cfr. U2. Tutti i testi, con traduzione a fronte, cit., p. 117. 138 U2, “Like a Song”, in War. 139 A proposito di “Surrender”, Bono ha anche affermato: “Ho sempre creduto nell’idea biblica secondo cui il seme darà frutto solo se morirà, se sarà quasi annientato nel suolo” (cit. in M. Berzins McCoy, “We Can Be One”, in M.A. Wrathall [a cura di], op. cit., p. 13). 140 U2, “Surrender”, in War.

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rimasto saldo al suo posto pretendendo che lei lo raggiungesse, da Achtung Baby (1991) in poi lui si rende dolorosamente conto che lei non può raggiungerlo in quel posto; che la “mysterious distance between a man and a woman”141 non si può colmare in quel modo. Non solo: la mancata risposta di lei – unitamente, forse, ad altri elementi – comincia a generare in lui un percorso di pensiero del tutto nuovo, che mette radicalmente in discussione tutte le certezze precedenti, a cominciare dalla fede nell’agape divina. Per chi, negli anni Ottanta, aveva creduto negli U2 – e uso il termine “credere” in un’accezione quasi religiosa, essendo stata la voce di Bono, per molti giovani di quegli anni, una delle pochissime voci credibili che trasmettessero un messaggio autenticamente etico, di lotta coraggiosa contro il male, in un panorama culturale devastato – fu quasi traumatico sentirlo lamentarsi cantando “Sometimes I feel like I don’t know, / Sometimes I feel like checking out. / I wanna get it wrong. / Can’t always be strong / And love, it won’t be long”.142 Insieme ai testi cambiò nettamente anche la musica – in una direzione per certi versi più pop e via via più elettronica – e, soprattutto, l’immagine che il gruppo dava di sé. Per comprendere questi aspetti, e in particolare l’ultimo, non si può prescindere dagli effetti collaterali dell’enorme successo riscosso dalla band durante la ‘fase americana’. “‘Non riconoscevo più la persona che si supponeva io fossi, attraverso i media’ ha riferito Bono […]. ‘Quando rimani a lungo sotto i riflettori, subisci una specie di violenza carnale’”.143 Sentendosi soffocato da una maschera mediatica, Bono – estremamente sensibile alla questione dell’autenticità e dell’integrità del sé144 – comprese che l’unico modo per tentare di ritrovare una comunicazione autentica, paradossalmente, era quello di esasperare la maschera, creando anzi molte nuove maschere. Così, “ci trovammo con tante versioni diverse del cantante del gruppo. Qual era quella vera? Naturalmente tutte quante lo erano. Non [vi] era più un solo stereotipo. [Vi] erano un sacco di stereotipi”.145 Se, agli esordi, gli U2 si erano distinti dalla massa delle rock star guardando negli occhi gli spettatori e cercando di togliersi ogni maschera, al tempo di Achtung Baby e Pop (1997) mettersi a nudo significava travestirsi da super rock star. Non si può, comunque, comprendere a fondo la bellezza 141 142 143 144

U2, “A Man and a Woman”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. U2, “Ultraviolet (Light My Way)”, in Achtung Baby. N. Stokes, op. cit., p. 103. Cfr. K. Soper, The Importance of Being Bono: The Philosophy and Politics of Identity in the Lyrics and Personae of U2’s Frontman, in M.A. Wrathall (a cura di), op. cit., pp. 55-72. 145 N. Stokes, op. cit., p. 120.

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e la profondità di quei due album se si cade nei due estremi di considerarli o una resa completa e poco consapevole allo star system oppure, viceversa, una critica dello stesso (e della società dei consumi in genere) fatta a tavolino, con l’atteggiamento distaccato di chi se ne crede immune. In realtà, l’innegabile critica a quel sistema viene urlata e sussurrata con la voce rotta di chi si riconosce onestamente non immune dal suo fascino e ne soffre.146 “La gente pensò che stessimo prendendoci gioco dello star system rock, e roba del genere” – dice Bono – “ma io stavo in realtà ammettendo di essere una star. Era un modo per accettare quella parte egocentrica di me”.147 O, ancora: “Puoi far tua quella roba o provarne vergogna. […] Meglio vivere la contraddizione e riferire su di essa”.148 Come già accennato, la resa consapevole e riflessiva allo star system va di pari passo con una radicale messa in discussione dei punti di riferimento precedenti. Si fa avanti nei testi di Bono, in modo sempre più palese, una netta disillusione non solo riguardo alle Chiese e ai movimenti politici,149 ma anche nei confronti di Cristo e di Dio stesso: dal “God’s got his phone off the hook, babe. / Would he even pick up if he could?” di “If God Will Send His Angels”150, al “Lookin’ for to fill that God-shaped hole” di “Mofo”,151 fino al sarcastico e disperato atto di accusa a Cristo-Dio di “Wake Up Dead Man”.152 In “Staring at the Sun”, poi, la fede e l’impegno sociale – la dimensione dell’agape, simboleggiata dallo sguardo volto 146 Uno dei luoghi più espliciti, in questo senso, è: “It’s no secret that a conscience can sometimes be a pest. / It’s no secret ambition bites the nails of success” (U2, “The Fly”, in Achtung Baby). A proposito della cultura consumistica descritta in U2, “The Playboy Mansion” (in Pop), è stato scritto giustamente che “il parlante sembra, al contempo, voler abbracciare quella cultura e starne fuori, distanziandosene con l’ironia e il sarcasmo” (V.S. Benfell III, “Until the End of the World”: U2, Eschatology, and Heidegger’s “Being-toward-Death”, in M.A. Wrathall [a cura di], op. cit., p. 138). 147 N. Stokes, op. cit., p. 120. 148 Cfr. ivi, p. 114. 149 “And I’d join the movement / If there was one I could believe in. / Yeah, I’d break bread and wine / If there was a church I could receive in” (U2, “Acrobat”, in Achtung Baby). 150 U2, “If God Will Send His Angels”, in Pop. 151 U2, “Mofo”, in Pop. 152 U2, “Wake Up Dead Man”, in Pop. Altre testimonianze di questa fase di crisi della fede si possono trovare, ad esempio, in “The First Time” (in U2, Zooropa, Liberty Records, 1993) e nella parte cantata in italiano di “Miss Sarajevo”: di fronte all’orrore della guerra in Bosnia, Bono scrive: “E non so più pregare. / E nell’amore non so più sperare. / E quell’amore non so più aspettare”. Peraltro, la stessa “Miss Sarajevo” suona come una messa in discussione del noto brano biblico che recita “C’è un tempo per […] e un tempo per […]” (cfr. Qo, 3, 2-8),

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al sole – vengono sbeffeggiati e intesi come un modo per sfuggire ai veri problemi, costituiti dai nodi interiori legati alle difficoltà della vita personale: “I’m not the only one / Staring at the sun, / Afraid of what you’d find / If you took a look inside. / […] / Not the only one / Who’s happy to go blind”.153 Quest’ultimo punto di vista – vedere agape come una fuga, un’astrazione dalla realtà – è tipico dell’eros ‘ribelle’, che non solo non accetta la priorità di agape, ma vede a sua volta l’‘amore per l’umanità’ come utopia e autoinganno. Anche eros però – pur avendo, in questa fase, in certo modo la meglio – si trova in profonda crisi nella vita di lui, che le dice, senza più reticenze: Did I ask too much, more than a lot? You gave me nothing, now it’s all I got. We’re one, but we’re not the same. Well, we hurt each other, then we do it again. You say love is a temple, love’s a higher law. Love is a temple, love the higher law. You ask me to enter, but then you make me crawl And I can’t be holdin’ on to what you got, when all you got is hurt.154

Eppure, nel tempio di eros lui a questo punto continua ad entrare, a costo di strisciare, forse perché non gli è rimasto davvero altro. Le parti si sono invertite: è ora lui a correre verso di lei, pur chiedendole ancora di stare ferma.155 Finché lui ha messo agape al centro, lei non si è sentita tramite la ripetizione angosciata della domanda “Is there a time […]?” (Passengers, “Miss Sarajevo”, in Original Soundtracks 1, Island Records, 1995). 153 U2, “Staring at the Sun”, in Pop. Il not the only one, peraltro, può suonare come un richiamo stridente a “Imagine” di John Lennon. A proposito di questa fase critica e, in particolare, del significato di “Staring at the Sun”, si è parlato di un passaggio degli U2 da un cristianesimo platonico a un cristianesimo esistenzialista: “Il pessimismo degli U2, legato al loro cristianesimo tradizionalista, si trasforma in una sorta di disperazione quando essi si rendono conto che il cristianesimo metafisico o platonico è una forma di evasione dalla realtà, un deliberato rifiuto di una parte essenziale di noi stessi in quanto esseri terreni” (H.L. Dreyfus, M.A. Wrathall, Staring at the Sun: U2 and the Experience of Kierkegaardian Despair, in M.A. Wrathall [a cura di], op. cit., p. 17). 154 U2, “One”, in Achtung Baby. 155 “I’m gonna run to you, run to you, run to you, woman be still” (U2, “Trying to Throw Your Arms Around the World”, in Achtung Baby); “She’s just down the line… Zoo station / Got to make it on time… Zoo station” (U2, “Zoo Station”, in Achtung Baby).

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amata.156 Ora lui le chiede un’ultima possibilità: una possibilità che passa per una riscoperta del sesso. “Give me one last chance, and I’m gonna make you sing. / Give me half a chance to ride on the waves that you bring. / You’re honey child to a swarm of bees, / Gonna blow right through you like a breeze, / Give me one last dance, we’ll slide down the surface of things”. Così, in questa canzone – “Even Better than the Real Thing” – si incontrano perfettamente, nell’idea di scivolare sulla superficie, sia la resa allo show business e al mondo secolarizzato e consumistico, basato sulle apparenze, sia la resa ad eros attraverso la sessualità.157 Dice infatti Bono a proposito di questo brano: Pensammo che Even Better than the Real Thing fosse in realtà il luogo dove la gente vive adesso. La gente non cerca più esperienze di verità: cerca esperienze […] legate al momento. […] Ecco dove viviamo ora, in questa cultura rave. […] Vivere nel presente, nell’attimo – senza guardare che c’è dietro l’angolo – è molto pericoloso, dal punto di vista politico, ecologico, relazionale e famigliare.158

Eppure, se non si riesce a vivere l’amore – il cui sole fonde le ali159 –, proviamo a dedicarci ai nostri corpi con leggerezza. Proviamo a vivere, per un attimo, nell’attimo. In termini kierkegaardiani: tentiamo la strada della vita estetica per sfuggire al conflitto tra la vita etica e la vita religiosa. Forse – sembra pensare lui – può essere una paradossale via d’uscita. Ma si tratta di una via d’uscita tortuosa e dolorosa. La scelta del sesso come modo privilegiato per tenere insieme i due amanti viene descritta nel suo lato brutale e, per certi versi, ridicolo in “Do You Feel Loved?” e in “Staring at the Sun”, dove ciò che “incolla insieme un uomo e una donna” è la “colla di Dio”, che qui non è più agape, bensì – con ogni probabilità – lo sperma.160 Si cede, inoltre, ad eros nel suo aspetto più venereo, nello stesso momento in cui si continua a giudicarlo col metro morale di agape e, quin156 Cfr., ad es., “Do You Feel Loved?” e “Please”, in Pop. 157 U2, “Even Better than the Real Thing”, in Achtung Baby. Su questo tema, cfr. I. Thomson,“Even Better than the Real Thing”? Postmodernity, the Triumph of the Simulacra, and U2, in M.A. Wrathall (a cura di), op. cit., pp. 91-92. 158 N. Stokes, op. cit., p. 98. 159 Nei versi “We’re free to fly the crimson sky / The sun won’t melt our wings tonight» (U2, “Even Better than the Real Thing”, in Achtung Baby), il sole potrebbe rappresentare, come d’abitudine, agape, ma potrebbe anche rappresentare lo stesso eros: il volo nel cielo cremisi è illuminato soltanto – si direbbe – da un sole tramontato e dalla luce soffusa di Venere. 160 “Love’s a bully, pushing and shoving / In the belly of a woman. / Heavy rhythm takin’ over / To stick together a man and a woman” (U2, “Do You Feel Loved?”, in

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di, a condannarlo: “You say in love there are no rules / […] You’re so cruel / […] / Between the horses of love and lust we are trampled underfoot”;161 “I never listened to you anyway / And I got my own hands to pray. / But if you wear that velvet dress…”.162 “So you never knew love / […] / And you never felt wanted / Till you’d someone slap your face”.163 Guardando retrospettivamente a questo “momento della resa”, Bono potrà dire: “I tied myself with wire / To let the horses run free. / Playing with the fire / Until the fire played with me. / […] / I’ve been in every black hole, / At the altar of the dark star. / My body’s now a begging bowl / That’s begging to get back […] / To my heart, / To the rhythm of my soul”.164 A forza di “giocare col fuoco” dell’amore, cercando di sbrogliare la contorta matassa del conflitto eros/agape, e finendo per lasciar libero corso agli istinti, quel fuoco – con le sue due lingue – ha finito per bruciargli cuore e anima. 7. As an Angel Hits the Ground Gli ultimi due brani di Pop (“Please” e “Wake Up Dead Man”) erano, in un certo senso, volti a distruggere rispettivamente eros e agape. Da un punto così basso, se non si voleva seguire la via percorsa da Ian Curtis, si poteva solo cercare di risollevarsi con tutte le proprie forze. Bono e il gruppo ci riescono con All That You Can’t Leave Behind (2000) e con i due album successivi. Nel “momento della resa” sono cadute definitivamente le costruzioni intellettuali sul regno dei cieli e altre concezioni religiose tradizionali, come anche le rappresentazioni della gerarchia interna dell’amore (eros rigidamente sottoposto ad agape). Quando ci si risolleva, si resta in balia dei soli sentimenti, in una condizione di vertigine (“We’re at a place called Vertigo. / Lights go down and all I know / Is that you give me something / I can feel”165), ma si riesce a credere che i sentimenti possano bastare (“What you don’t have you don’t need it now / What you don’t know you can feel it somehow”166).

161 162 163 164 165 166

Pop) e “Creeps a-crawling over me / Over me and over you / Stuck together with God’s glue” (U2, “Staring at the Sun”, in Pop). U2, “So Cruel”, in Achtung Baby. U2, “If You Wear That Velvet Dress”, in Pop. U2, “Please”, in Pop. U2, “Moment of Surrender”, in No Line on the Horizon. U2, “Vertigo”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. U2, “Beautiful Day”, in All that You Can’t Leave Behind, Island Records, 2000.

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E si continua ad agire, per sé e per gli altri, si continua ad andare avanti – certo, non più “correndo” ma “camminando” (“Walk On”) – pur nella sofferenza di non avere un quadro di riferimento mentale soddisfacente (“Home… I can’t say where it is but I know I’m going home / That’s where the hurt is”167), forse continuando a rivolgere a sé stessi l’intimazione gridata agli altri, molti anni prima, in “Like a Song”: “And if you can’t help yourself / Well, take a look around you / When others need your time!”.168 E così, agendo per gli altri nonostante la confusione e la sofferenza, si trova quell’unica cosa che you can’t leave behind: il sentimento sui generis della grazia.169 Nella bellissima “Grace” – che chiude l’album che definirei ‘della rinascita’ – lui descrive, per così dire, una nuova incarnazione dell’agape: non più una forza trascendente, che si pone in contrasto col mondo, ma una forza immanente, che accetta il mondo e lo trasforma dall’interno. Grace, she takes the blame. She covers the shame. Removes the stain. It could be her name: Grace, it’s the name for a girl. It’s also a thought that changed the world.

167 U2, “Walk On”, in All that You Can’t Leave Behind. 168 U2, “Like a Song”, in War. È il caso di ricordare che le attività a favore dei diritti umani da parte degli U2 e, in particolare, di Bono sono sempre continuate, anche nel ‘periodo di crisi’ sopra delineato. 169 Questo primato dell’azione morale, che viene portata avanti anche in assenza della ‘fede teoretica’, e che però consentirà di scoprire una nuova ‘fede pratica’, ha potuto darsi, in lui, grazie all’attraversamento dell’angoscia e alla conseguente radicale assunzione di responsabilità legati alla disillusione nei confronti di un Dio antropomorfico, di cui ci si poteva permettere di ‘attendere l’intervento’. Una simile angoscia costruttiva è descritta, ad es., in “Last Night on Earth”, in Pop (cfr., al riguardo, V.S. Benfell III, “Until the End of the World”: U2, Eschatology, and Heidegger’s “Being-toward-Death”, cit., pp. 141-142). La ‘fede pratica’ che ne deriva viene descritta da Bono in un’intervista quando parla dell’oggetto della sua fede come di una “divinità invisibile la cui presenza intravediamo solo quando agiamo mossi dall’amore” (cit. in M.A. Wrathall, “If You Want to Kiss the Sky, Better Learn How to Kneel”: Existential Christianity in U2, in M.A. Wrathall [a cura di], op. cit., p. 37); ma anche in due versi recenti che, a prima vista, sembrerebbero riaffermare una dimensione passiva della fede: “It’s not if I believe in love / But if love believes in me” (U2, “Moment of Surrender”, in No Line on the Horizon). Ciò significa infatti: non si tratta di guardare il mondo e, su questa base, valutare se si possa credere o no nell’amore (Dio); bisogna invece rendersi degni dell’amore (Dio) attraverso l’azione.

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[…] She travels outside of karma, karma […] What once was hurt, What once was friction, What left a mark No longer stings. Because Grace makes beauty Out of ugly things. Graces finds beauty in everything. Grace finds goodness in everything.170

Non è certo un caso se il ‘nume tutelare’ di All That You Can’t Leave Behind è una donna, una donna che, peraltro, appartiene a una cultura non cristiana: al posto di Martin Luther King, che dominava l’orizzonte di The Unforgettable Fire, troviamo ora la figura di Aung San Suu Kyi, birmana e buddista (e che, comunque, simboleggia con la sua stessa vita la subordinazione di eros ad agape171). Lo stesso concetto di grazia viene articolato da Bono secondo coordinate aconfessionali e universali, come mostra il richiamo al karma, benché il Cristo resti per lui la figura di riferimento centrale.172 Abbiamo visto come il vecchio brano “Surrender” ponesse in qualche modo l’alternativa tra una resa a Dio e una resa al mondo (e a lei dentro il mondo). Ciò che è poi successo è che solo arrendendosi al mondo e – come

170 U2, “Grace”, in All that You Can’t Leave Behind. 171 È noto che Suu Kyi, figlia di un generale birmano che negoziò l’indipendenza del suo Paese dal Regno Unito, poi sposatasi in USA con un ricercatore occidentale dal quale ha avuto due figli, decise di trattenersi in Birmania in seguito all’instaurazione del regime militare (ancora oggi al potere) e di lottare per la democrazia nel suo Paese, dovendo in tal modo pagare il prezzo altissimo di non poter rivedere per anni i figli, né il marito, che nel frattempo morì di cancro. Alla sua vicenda gli U2 fanno riferimento in “Walk On”. 172 È, peraltro, la stessa Aung San Suu Kyi ad introdurre la nozione di “grazia” nei suoi discorsi. “L’intrepidezza può essere una dote, ma […] più prezioso è il coraggio acquisito con l’impegno, coraggio derivato dall’abitudine a non lasciare che la paura condizioni il proprio operato; coraggio che potrebbe essere descritto come ‘grazia sotto costrizione’: grazia rinnovata ripetutamente di fronte a una pressione aspra e incessante” (Aung San Suu Kyi, Liberi dalla paura, tr. it. di G. Arduin, Sperling & Kupfer, Milano 2005, p. 187). È evidente che qui il termine “grazia” viene impiegato dall’autrice non nell’accezione estetica, bensì in un’accezione etico-religiosa aconfessionale.

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vedremo – a un punto di vista femminile, lui ha potuto trovare ‘Dio nel mondo’: la grazia che non fugge il male e lo trasforma dall’interno.173 Quanto al rapporto con lei, se nella ‘fase eroica’ lei doveva raggiungerlo, e se ‘durante la crisi’ era invece lui a cercare di raggiungerla chiedendole di stare ferma, ora lui le chiede di portarlo con sé dove lei sta andando, insegnandogli qualcosa: “Touch me, take me to that other place! / Teach me, I know I’m not a hopeless case”;174 “And if you go there, go with me, / Wild Honey/ […] / Won’t you take me, take me please…”.175 Ormai, lui cerca di diventare come lei, di vedere le cose con gli occhi di lei: “So I try to be like you, / Try to feel it like you do. / But without you it’s no use, / I can’t see what you see / When I look at the world / […] / Tell me, tell me, what do you see? / Tell me, tell me, what’s wrong with me?”176 E ancora: “I’m still enchanted by the light you brought to me / Still I listen through your ears, through your eyes I can see”.177 Come si spiega una simile trasformazione della prospettiva? Lui si è semplicemente arreso ad eros? No, ha piuttosto sentito che avrebbe potuto ritrovare agape soltanto cercandola dentro eros. La chiave è il tema dell’immanenza. Nell’ultimo album, No Line on the Horizon (2009), Bono riprende implicitamente l’antico grido di “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” per dichiarare: “I found grace inside a sound / I found grace, it’s all that I found. / And I can breathe”.178 Qualunque cosa indichi esattamente il sound in questione,179 senza dubbio la grazia è stata trovata all’interno del mondo sensibile. Il titolo del medesimo album, poi, fa ancora riferimento alla dimensione vertiginosa legata al tentativo di accogliere una visione ‘femminile’ del mondo, e ormai i continui movimenti di lei non costituiscono più un disturbo, bensì un difficile ma meraviglioso arricchimento: “I know a girl who’s like the sea, / I watch her changing every day for me, oh yeah! / One day she’s still, the next she swells, / You can hear the universe in her sea shells”.180 173 Su questo tema, cfr. M.A. Wrathall, “If You Want to Kiss the Sky, Better Learn How to Kneel”: Existential Christianity in U2, cit., in particolare pp. 32 e 39. 174 U2, “Beautiful Day”, in All that You Can’t Leave Behind. 175 U2, “Wild Honey”, in All that You Can’t Leave Behind. 176 U2, “When I Look at the World”, in All that You Can’t Leave Behind. 177 U2, “Stuck in a Moment You Can’t Get Out Of”, in All that You Can’t Leave Behind. 178 U2, “Breathe”, in No Line on the Horizon. 179 Un concetto che ritorna misteriosamente anche in altri due brani dell’album: “Let me in the sound, sound / Meet me in the sound” (“Get On Your Boots” e “FezBeing Born”). 180 U2, “No Line on the Horizon”, in No Line on the Horizon. Il riconoscimento del valore spirituale dei ‘movimenti’ istintuali di lei era, in realtà, già presente in “Mysterious Ways” (in Achtung Baby).

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Al contempo, riemerge con forza in lui una consapevolezza che, in fondo, lo aveva sempre accompagnato, fin dai tempi di “I Will Follow”:181 la consapevolezza che la propria forza d’animo, il (credere di) non aver bisogno degli altri, l’atteggiamento eroico, la propria virile sicurezza – per quanto basata sulla stabilità della fede – sono in realtà un limite da superare, proprio per avvicinarsi a Dio, alla vita piena, per “trovare ciò che si sta cercando”. Assistendo il padre morente, Bono riconosce in lui le proprie ‘resistenze’, il non riuscire a farsi aiutare; la scorza che, forza apparente, nasconde un sottrarsi alla vita: “And it’s you when I look in the mirror / And it’s you when I don’t pick up the phone / […] / And it’s you that makes it hard to let go. / Sometimes you can’t make it on your own”.182 Lui deve imparare ad accettare di aver bisogno d’aiuto. Ed è soprattutto lei, la discepola di eros, che ora può insegnargli questo nuovo comportamento: “Your love is teaching me how, how to kneel!”.183 Possiamo anche supporre che, sollevata da questo cambiamento di lui, anche lei abbia potuto scegliere di compiere quei passi verso di lui che, in precedenza, erano impediti dal suo porsi quasi come ‘eroe’ o ‘santo’.184 Così, in “Magnificent” troviamo, infine, una splendida riconciliazione, un rinnovato equilibrio di cuore e anima. La prima parte è dedicata a lei: “I was born to be with you / In this space and time […]”; la seconda all’agape: “I was born to sing for you. / I didn’t have a choice but to lift you up […]”. E il refrain rimette insieme i pezzi dell’amore: “Only love, only love can leave such a mark / But only love, only love can heal such a scar!” Per concludere, infine, con gioia: “Justified till we die, you and I will magnify / The Magnificent”. Agape, la droga miracolosa, è ormai intesa come il profondo collante della vita famigliare (“Only love unites our hearts”), una vita comune dedita al bene supremo.185 181 Un brano in cui, accanto alla volontà di seguire una persona amata, emerge la volontà di comprendere il suo punto di vista, forse molto diverso dal proprio: “Your eyes make a circle: / I see you when I go in there. / But it’s your eyes…” (U2, “I Will Follow”, in Boy, corsivo mio). 182 U2, “Sometimes You Can’t Make It on Your Own”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. 183 U2, “Vertigo”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. È importante notare che questa frase umile viene cantata da Bono con grande energia e ‘orgoglio’ e che una simile combinazione di parole umili e suoni ‘orgogliosi’ caratterizza gli U2 fin dal primo brano del primo album: “I Will Follow” (in Boy). A proposito della prospettiva filosoficamente femminista, e vicina all’etica della cura, negli U2, cfr. J. McClinton-Temple, A. Myers, U2, Feminism, and Ethics of Care, in M.A. Wrathall (a cura di), op. cit., pp. 109-121. 184 È peraltro noto l’impegno sociale di Alison Hewson in vari ambiti, tra i quali l’impegnativo progetto Children of Chernobyl. Cfr. N. Stokes, op. cit., p. 159. 185 U2, “Magnificent”, in No Line on the Horizon.

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Il titolo del penultimo album, How to Dismantle an Atomic Bomb (2004), sembra potersi riferire – oltre che alla morte del padre di Bono, come quest’ultimo ha pubblicamente affermato186 – alla rinuncia congiunta da parte di lui e di lei alle rispettive posizioni ‘esplosive’, a quella visione eroica, romantica e conflittuale dell’esistenza che aveva forse raggiunto il suo culmine in The Unforgettable Fire, titolo ‘rischioso’ che conteneva un riferimento proprio all’esplosione nucleare. In particolare, la resa di lui ha significato una sua umanizzazione o ‘umiliazione’, nel senso etimologico di ‘avvicinamento alla terra’. E, a questo punto, non si può evitare di richiamarsi al tema di un film che è stato molto importante per gli U2: Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.187 Il film inizia in bianco e nero. Angeli, seri e compassionevoli, visibili a noi spettatori ma non agli altri protagonisti, lavorano instancabilmente per sostenere gli umani più o meno afflitti di Berlino, dei quali ascoltiamo – quando la macchina da presa si avvicina loro – i pensieri. Ci sono pensieri che rotolano pericolosamente verso il buio. L’angelo si accosta, ascolta, è presente. I pensieri della persona inspiegabilmente, impercettibilmente, cambiano rotta: uno sprazzo luminoso, un ricordo, un’idea. Questo il lavoro buono, sano, bianco e nero degli angeli. Un lavoro venato però di sottile malinconia. Gli angeli non sono certo onnipotenti e, a volte, nonostante la loro presenza, i pensieri di qualcuno non cambiano rotta, e qualcuno può anche decidere di buttarsi nel vuoto da un palazzo. Uno dei due angeli protagonisti appare più consapevole dei limiti della propria condizione, ed è affascinato dalla vita mortale, quella in cui si assapora il caffè, la pioggia ti bagna e magari ti dà fastidio; in cui il tempo passa e alla fine si muore; in cui si odia e ci si innamora: si ama qualcuno più di tutti gli altri. Col rischio di perdere non solo tutti gli altri, ma anche quel qualcuno. Così, l’angelo attratto dalla vita e dall’amore giunge infine alla vita, e alla mortalità, cadendo letteralmente al suolo. E il nostro ex-angelo, nel nuovo film ormai a colori, potrà bere il caffè, sentire la pioggia addosso e attendere di morire, e ridere divertito anche di fronte alla preoccupazione del suo ‘ex-collega’ rimasto cherubino. E potrà innamorarsi, di una trape186 Cfr. http://www.bestbuy.com/site/New-U2-Album-and-Exclusive-Interview/U2Q%26A-on-%3Ci%3EHow-To-Dismantle-An-Atomic-Bomb%3C/i%3E/pcmcat 46100050008.c?id=pcmcat46100050008 187 Per un inquadramento generale di questo film, si possono utilmente vedere: W. Wenders, Stanotte vorrei parlare con l’angelo, a cura di G. Spagnoletti e M. Töteberg, Ubulibri, Milano 1989, pp. 145-153, 203-207; F. D’Angelo, Wim Wenders, L’Unità/Il Castoro, Milano 1995, pp. 121-125; M. Russo, Wim Wenders, percezione visiva e conoscenza, Le Mani, Genova 1997, pp. 106-111.

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zista che già da angelo aveva avvicinato: di una che cerca il cielo, come lui cercava la terra. La preoccupazione, forse lo sconcerto, dell’‘ex-collega’ è interessante, così come lo è la spensierata risolutezza del neo-uomo. Dal punto di vista di agape – l’amore imparziale degli angeli –, eros (l’amore per un singolo) è debolezza e follia: l’angelo caduto ha perso non solo l’immortalità, ma anche la possibilità di beneficare quotidianamente innumerevoli persone. In questo senso, la sua può apparire come una colpa, oltre che come un autoinganno. Dal punto di vista di eros, invece, agape può apparire come rigidità, aridità e, in fin dei conti, impotenza: voler far del bene a tutti, ma in realtà non farne, fino in fondo, a nessuno.188 Ma c’è qualcosa di più, e di più inquietante: nella dimensione dell’agape – che si presenta come amore disinteressato, sicuro della propria moralità – il soggetto è, appunto, relativamente tranquillo, è ‘presso di sé’, possiede – per dirlo con Ian Curtis – lo spirito. Per poter essere compassionevoli – togliere sofferenza e dare sollievo – sembra necessario prima di tutto stare bene, muovere da un io stabile, da una serenità inattaccabile. In questo senso, eros può tentare di ribaltare il discorso, accusando agape di una, pur eticamente raffinata, forma di quieto vivere e quindi di staticità spirituale. L’io innamorato non ha questo sacro rifugio: è sempre esposto alla ferita, si mette continuamente in gioco e non è sicuro di niente, se non forse del proprio amore: ciò può condurlo a una crescita rapida e continua. Da questo punto di vista, i due angeli possono tenersi testa, anche da una prospettiva etica, e il dilemma appare nella sua gravità. È però il punto di vista terreno, erotico, ad avere decisamente la meglio nel film di Wenders. Il segnale forse più netto, in questo senso, lo dà la virata improvvisa della poesia di Peter Handke che accompagna tutta la pellicola. Finché gli angeli restano nel loro mondo in bianco e nero, l’andamento della poesia è del tipo: “Quando il bambino era bambino, era così… e adesso, invece, non è più così”. Ma non appena l’angelo cade sulla Terra e, rialzatosi, comincia a camminare euforico per strada, andando a cercare la donna desiderata, la poesia lo accompagna con “Quando il bambino era bambino… e adesso, è ancora così”. Il film racconta quindi una redenzione

188 Una significativa variante si trova nel sequel de Il cielo sopra Berlino, ovvero in Così lontano, così vicino!: qui un angelo diventa ‘suo malgrado’ umano nell’istante in cui, straziato dalla compassione, decide di non poter non salvare quell’unica bambina che sta cadendo da un terrazzo in quel momento: così si fa di carne, colorata, e nelle sue braccia – tra lo stupore generale – piomba la bimba, salva.

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D. Ferdori - Cuore e anima

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alla rovescia: l’innocenza si ritrova abbandonando la propria condizione angelica e innamorandosi del mondo e di una donna. La collaborazione in più direzioni tra gli U2 e Wenders è cosa nota.189 Più interessante, per noi, è che Bono e la band abbiano fatto propria la vicenda degli angeli wendersiani fino a re-interpretarla nel brano Stay (nel cui videoclip, tra l’altro, i membri della band impersonano appunto angeli, sulla falsariga del film in questione). La canzone appartiene al ‘periodo della crisi’ e riprende in alcuni versi il tema della distanza apparentemente incolmabile tra lui e lei: “And if you look, you look through me / […] / And when I touch you, you don’t feel a thing”. L’amore che lui, in quanto ‘angelo’, le dà, lei non lo sente: dal punto di vista di lei è quasi come se lui non ci fosse. E lui allora aspira a poter restare definitivamente nel mondo sensibile, accanto a lei, come l’angelo caduto di Wenders: “If I could stay, then the night would give you up. / Stay, and the day would keep its trust. / Stay, and the night would be enough”. Dove la prima occorrenza di “night” indica la sofferenza, e la seconda eros. Il brano si conclude con la caduta effettiva dell’angelo-Bono: “Just the bang and the clatter / As an angel hits the ground”.190 E, in effetti, solo dopo una simile, volontaria, caduta sulla Terra, accettandone i confini, lui potrà cantare versi come: “And you’re the one, there’s no one else / Who makes me want to lose myself / In the mysterious distance / Between a man and a woman”;191 “The sky over our head, / We can reach it from our bed / If you let me in your heart / And out of my head”;192 “You free me from the dark dream, / Candy floss ice cream, / All our kids are screaming / But the ghosts aren’t real. / Here’s where we gotta be, / Love and community, / Laughter is eternity if joy is real”.193 Per concludere con “You know we’ll go crazy if we don’t go crazy tonight”194, dove torna, ma con molta più leggerezza, l’antica speranza di poter stare in una bugia: eros è pazzia, ma diventiamo

189 Gli U2 hanno partecipato alle colonne sonore di Fino alla fine del mondo e Così lontano, così vicino! Inoltre, Bono ha curato la sceneggiatura e la produzione del film di Wenders The Million Dollar Hotel e la band ha contribuito al relativo soundtrack. Wenders ha anche collaborato al videoclip di Stay degli U2. Su questo punto, cfr. V.S. Benfell III, “Until the End of the World”: U2, Eschatology, and Heidegger’s “Being-toward-Death”, cit., p. 136. 190 U2, “Stay”, in Zooropa. 191 U2, “A Man and a Woman”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. 192 U2, “Window in the Skies”, in 18 Singles, Island Records-Interscope, 2006. 193 U2, “Get On Your Boots”, in No Line on the Horizon: brano con tanto di cane-cheabbaia campionato, che ‘fa molto famiglia’. 194 U2, “I’ll Go Crazy if I Don’t Go Crazy Tonight”, in No Line on the Horizon.

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Filosofia e popular music

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pazzi stanotte, o lo diventeremo in un altro, e molto più triste, senso: distruggendo il delicatissimo equilibrio dell’amore. Anche in questo modo, naturalmente, i problemi per lui e per lei non sono finiti né mai finiranno (“Little sister, / I know that everything is not ok […]”195), ma indubbiamente, attraverso tanta sofferenza, i due hanno trovato il modo di vincere, smentendo la “regola” dell’alternativa assoluta tra cuore e anima: “The rule has been disproved / The stone it has been moved / The grave is now a groove”.196

195 U2, “A Man and a Woman”, in How to Dismantle an Atomic Bomb. 196 U2, “Window in the Skies”, in 18 Singles.

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MASSIMO PALMA

FINIRE IL LAVORO La Second Summer of Love (1988-90)

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Lo strano cicerone di Syme portava il titolo di Lunedì; era segretario del consiglio, e il suo sorriso distorto dava più terrore di ogni altra cosa G.K. Chesterton, L’uomo che fu Giovedì

1. La comunità dell’alienazione inter-connessa Il 1989 fu anno decisivo per la storia d’Europa. Fu l’anno che chiuse il “secolo breve”. A volte, tuttavia, la percezione della storia che si compie diverge radicalmente dal vissuto generazionale. Il 1989, in Inghilterra, non viene tanto ricordato dai giovani di allora per l’emozione provata a guardare sugli schermi televisivi gli eventi che sgretolarono la Cortina di ferro. Molti, tra i ragazzi del tempo, ricordano piuttosto infinite serate passate nelle campagne nei pressi di Londra e Manchester a cercare di localizzare i rave party ambientati nei capannoni industriali in disuso o, d’estate, direttamente nei terreni rurali. Inizialmente, si trascorrevano notti intere nei club specializzati nella house music (appunto da warehouse, capannone) di Manchester (su tutti, il mitico Haçienda, fondato dal boss della Factory, Tony Wilson, insieme ai New Order) e di Londra (Land of Oz, Shoom, Spectrum, ecc.), poi si cominciò a partecipare a eventi di massa sempre più vasti, che punteggiarono l’isola per anni. Ma la via del lecito fu presto abbandonata. Dai club aperti dal dj Oakenfold e dai suoi sodali a Londra, per replicare nel Regno Unito l’atmosfera che si era creata nell’estate 1987 nell’isola balearica di Ibiza, si passò in pochi mesi a massicci raduni illegali, fino all’esplosione di una serie di casi di ordine pubblico e a una durissima repressione poliziesca, che portò negli anni alla ghettizzazione dell’illegal rave. Eppure, ciò che permane nel ricordo oggi, a distanza di due decenni, e a dispetto degli esiti confusi, dell’uso e abuso di massa di sostanze tossiche (e della progressiva contami-

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nazione delle droghe usate, nonché della stessa musica), è una sensazione di euforia diffusa, insieme a qualche anthem musicalmente assai datato. Quel periodo che altrove fu rivoluzionario per le istituzioni, in Inghilterra lo fu per il costume e per la musica. Lo fu sul piano sociale. Venne etichettato sin da subito come la “seconda estate d’amore”, The Second Summer of Love, richiamandosi direttamente alla prima, ben più famosa, estate d’amore del 1967. Alla ricerca delle origini di un movimento assai composito, può dirsi che quella lunga e trasgressiva estate era cominciata, per una coincidenza davvero singolare, quasi due anni prima, nel 1987, negli stessi giorni in cui Margaret Thatcher pronunciava, negli ultimi anni del suo mandato, la famigerata frase: “There is no such thing as society”.1 Caso volle che, nella percezione giovanile di allora, si creasse qualcosa come un legame sociale, o forse più propriamente una comunità nell’epoca dell’asserita dissoluzione della società. Si può rilevare, sulla base del dettato di Thatcher, che proprio il venir meno delle strutture sociali su cui si era costruita gran parte della lotta e dell’ideologia politica novecentesca – la dialettica partiti/sindacati, l’organizzazione del lavoro di stampo fordista –, nel liberare (senza emancipare) le forze prima canalizzate dalla società civile, diede vita a nuovi fenomeni comunitari. Comunitari – inteso qui senza scomodare necessariamente la dicotomia concettuale Gemeinschaft/ Gesellschaft di Tönnies, e poi anche, con ben diversi accenti, weberiana – nel senso di emotivamente connessi, modernissimi eppur radicalmente investiti da un’aura di primitività che attrasse lo studio di antropologi e sociologi. Una nuova forma di comunità fu proprio ciò che si creò, in modi imprevisti, e grazie a quella che può ben definirsi un’innovazione tecnica, nell’estate del 1987. Grazie alla sintesi chimica di una nuova pasticca, l’Mdma, fino ad allora utilizzata solo da alcuni psicoterapeuti statunitensi, e alla sua diffusione sempre più estesa in Europa e nel Regno Unito, una società danzante, sfacciatamente edonista, venne a nutrire le piovose notti inglesi di suoni martellanti e di una particolarissima ‘alienazione inter-connessa’ dovuta all’ecstasy,2 di cui la stragrande maggioranza di protagonisti e osservatori non sembra, a distanza di più di vent’anni, voler smentire il mito, catalizzato già pochi mesi dopo dall’uso del sintagma old-skool (la variazione della ‘c’ in ‘k’ e della ‘s’ in ‘z’ era sistematica), che andava a 1 2

Intervista realizzata da Douglas Key il mercoledì 23 settembre 1987 e pubblicata il 31 ottobre 1987 su «Women’s Own» col titolo Aids, Education and the Year 2000! Di “mare di alienazione connessa” parla S. Reynolds, Generation Ecstasy, Routledge, London 1999, p. 60, citando un’espressione di Louise Gray.

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connotare in fanzine e negozi di dischi quell’epoca apicale dell’autodefinitasi English Dance Culture. Inevitabilmente il rock si appropriò con una sintesi originale del nuovo fenomeno, dei suoi costumi e delle sue sonorità. Lungi dal confermarsi compartimenti stagni, il rock indipendente e la house music si guardarono con simpatia, contaminandosi. Le riedizioni recenti di album fondamentali del periodo in cui la dance si integrò con l’indie-rock d’Albione (tra i più rappresentativi, l’eponimo Stone Roses, Bummed e Pills’ n Thrills and Bellyaches degli Happy Mondays, Screamadelica dei Primal Scream) non mancano di sottolineare con toni nostalgico-entusiastici l’alchimia tra la scena creata e posta dall’uso diffuso dell’Mdma (detta E-scene) e la nuova musica. “Ragazzi goffi amanti dell’indie e hooligan calcistici trovarono una pasticca che permetteva loro di ballare e abbracciarsi”;3 “quella vibrazione loved-up dell’ecstasy faceva sembrare tutto possibile, incredibilmente a portata di mano, molto umano, beatifico, ti avvicinava alla notte con quel senso di comunità”.4 2. Everything starts with an E Per comprendere il valore iniziatico assunto, nella narrazione generazionale, dalla nuova sostanza, conviene tornare alle origini, alle parole di un personaggio chiave di quell’epoca: “l’estate del 1987 tutto cambiò davvero. È come se la vita, improvvisamente, fosse cambiata da bianco e nero a technicolor. Accadde quando presi la mia prima E”.5 “E” è ovviamente l’ecstasy – in americano X (coincidenza vuole che colui che ricorda, Shaun Ryder, cantante degli Happy Mondays, fosse soprannominato “X”). Ryder all’epoca era un venticinquenne mancuniano che nel 1987 aveva provato già ogni sostanza psicotropa (si autodefinisce a più riprese un garbagehead, una persona pronta ad assumere qualsiasi droga), ma che nonostante la propensione e lo habit ormai assunto, rimane decisamente colpito dalla novità della pasticca di Mdma, tanto da farla provare a tutti e da cominciare a venderla nella natia Manchester, proprio nell’Haçienda. L’Mdma entrò a pieno titolo nella stesura e nella produzio3 4 5

J. Brown, Liner Notes di Primal Scream, Screamadelica. 20th Anniversary Collector’s Edition, Sony, 2011. J. Robb, Liner Notes di The Stone Roses, The Stone Roses. 20th Anniversary Legacy Edition, Silvertone, 2009. S. Ryder, Twisting My Melon. An Autobiography, Corgi Books, London 2012, p. 125.

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ne dell’album Bummed, se è vero, come fu raccontato da più parti, che gli Happy Mondays fecero letteralmente e ‘coattivamente’ inghiottire le prime pasticche al loro produttore Martin Hannett – lo storico ‘regista’ del sound dei Joy Division – chiamato dall’etichetta Factory a dirigere le registrazioni del loro secondo disco (a loro dire, anche per distoglierlo dall’alcool e dalle altre droghe). Ryder riporta la nuova esperienza chimica negli stessi termini con cui la racconta la nutrita schiera di apologeti dei suoi benefici effetti, ossia l’effetto socializzante, pacificante, della pasticca bianca con la linea in mezzo. Essersi calati l’ecstasy (to be E’d-up) venne ad esser sinonimo di to be loved-up: per alcuni, all’ampio uso delle pasticche nelle curve degli stadi può imputarsi persino un concorso nella soluzione non solo poliziesca del problema degli hooligan in un paese che cercava una via d’uscita dopo le (eziologicamente ben diverse) tragedie dell’Heysel (1985) e di Hillsborough (1989, per nulla riconducibile alla questione hooligan). In tempi più recenti, è stato un autore italiano a dare di questa spiegazione una figurazione narrativa ed empatica. Nella rigida Inghilterra del tardo governo Thatcher, l’ecstasy è una vera rivoluzione emotiva. Un gelo che si scioglie… Di lì a breve, quando la violenza negli stadi cala sensibilmente, si scopre che la scena dance è legata a quella dei tifosi, e che l’ecstasy sta cambiando molte abitudini. D’un tratto, i giovani maschi inglesi sembrano disinteressati alle risse.6

Le comunità giovanili, intrecciando naturalmente sport e svago serale, stavano ‘reagendo’ all’Mdma, e, secondo uno schema già attivo nella prima Summer of Love del 1967 (vissuta a San Francisco e dintorni, anch’essa contrassegnata dal lemma dell’amore e dall’uso di una miracle drug come l’LSD), celebrando la nuova droga, celebravano se stesse. Due anni dopo quel rivolgimento ‘chimico’ del tutto, che rese la vita di Ryder ‘a colori’, il collettivo EZ Possee, con la partecipazione di MC Kinky, pubblicava il rave anthem “Everything Starts with an E”, ormai consueta lode nei testi, e stavolta a carte ben scoperte, della seconda vocale da parte della scena house, con una base quasi techno e un cantato ipnotico. Il singolo ebbe un discreto successo e finì anch’esso per esser trasmesso a Top of the Pops, il programma musicale più rilevante della BBC, senza destare, se non troppo tardi, dubbi sulla liceità ‘istituzionale’ del suo esplicito messaggio. E, nello stesso 1989, nell’ambito del rock ormai contaminato con sonorità house, a dominare la scena giungono proprio gli Happy Mondays. Quegli stessi 6

M. Mancassola, Last Love Parade, il Saggiatore, Milano 2012, p. 79.

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Mondays che, fino alla scoperta dell’ecstasy (“eravamo tutti al verde […] e ne avevamo abbastanza di esser poveri”7), non riuscivano a sbarcare il lunario.

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3. 24 Hour Party People Il problema economico venne sì risolto con l’aumento delle vendite e l’impetuoso successo di Bummed, e soprattutto dei suoi singoli remixati da sapienti dj house (“Wrote for Luck” e “Hallelujah” su tutti), ma anche con buone dosi di spaccio delle suddette pasticche e non solo di quelle, che Ryder si vanta di aver introdotto a Manchester dopo l’epifania che lo colse nel 1987. Alla questione del reddito, se vogliamo, venne data risposta dal binomio ‘spaccio&successo’, che solo poté garantire appieno il lifestyle dissoluto che il gruppo e il suo leader avevano scelto di vivere fino in fondo. Durante la Second Summer of Love, i Mondays, contrariamente ai coetanei ravers concentrati sull’Mdma, assumono ogni tipo di droga, festeggiando il crescente successo alzando il limite di una trasgressione non più percepita come tale. È al riguardo di questo clima di débauche all’altezza dei tempi e dei propri stessi proclami che possiamo integrare un ulteriore elemento, laterale ma a suo modo decisivo. È facile notare il malcelato stupore con cui il giornalista John Harris – chiamato nel 2007 a rievocare i fasti dei Mondays nelle Collector’s Editions di Bummed e di Pills ‘n Thrills and Bellyaches – nelle note a quest’ultimo presenta come innovativo il comportamento tenuto in tale contesto da Shaun Ryder. Citando le parole del manager del gruppo, Nathan McGough, Harris ricorda come Ryder, durante le registrazioni del terzo (e migliore) album dei Mondays, si fosse messo al tavolo e avesse scritto i testi senza improvvisarli o metterli direttamente su nastro, com’era sua prassi fino ad allora. Ryder, insomma, aveva dato l’impressione di lavorare metodicamente. Stupore comprensibile, e comprensibile il tono quasi ammirato. Se c’è infatti un elemento programmaticamente lontano dall’etica dei Mondays è quello del lavoro, del quotidiano ‘travaglio del negativo’. Il brano più importante della loro fase pre-ecstasy è quello che ha dato il titolo al film di Michael Winterbottom, “24 Hour Party People”, ricostruzione in chiave farsesca della storia dell’etichetta mancuniana Factory. Al riguardo Ryder afferma che “i Mondays vi sono ritratti come mere caricature, il che va 7

S. Ryder, op. cit., p. 124.

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bene, perché è solo un film, ma non eravamo così nella vita reale”. Gente che fa festa per 24 ore, recitava la canzone-manifesto del loro album di debutto. Un messaggio sufficientemente nitido di ‘negazione’ del lavoro (“No Days Off”) a favore del divertimento. D’altronde lo stesso nome scelto dal gruppo all’alba del decennio allude a un rovesciamento della concezione ‘moderna’ del lavoro (intendendo con ‘moderna’ semplicemente la visione tipica delle masse nell’era capitalista). Lungi dal fissare il paradigma emotivo dell’oppressione lavorativa, il lunedì diventa adesso “felice”. Il paradosso – uno tra i tanti di un’epopea incosciente – è che gli stessi protagonisti non colgono il portato innovativo del loro nome. È proprio aderendo ancora al paradigma del lavoro come gravame intollerabile che la denominazione della band viene liquidata come brutta e falsa da Ryder (“un nome terribile per un gruppo, ma ci piaceva per questo. È un nome falso [cheesy], un po’ spensierato e il contrario di ciò che eravamo, ma pensavamo funzionasse per questo”8). Tuttavia, nell’esasperato e altamente tossico edonismo dei Mondays emerge solo in parte l’aspetto fenomenologicamente innovativo proprio della temperie che nasce nel 1988 in Inghilterra e che è stata pomposamente denominata Second Summer of Love. Con qualche breve cenno, è opportuno individuare alcuni ulteriori fattori-cardine di un fenomeno la cui massificazione e la cui narrazione stessa, benché in frammenti (valga per tutti la spericolata letteratura di Irvine Welsh, da Acid House a Ecstasy),9 impedisce qualsiasi disamina frettolosa, e tantomeno una mera liquidazione in chiave di diritto penale. Con qualche forzatura, la prospettiva di Manchester può fornire chiavi di lettura esaustive. 4. L’addio a Cottonopolis La seconda ondata di ‘amore e musica’ colse l’Inghilterra salendo dal Sud londinese al Nord mancuniano. Rispetto al resto delle città inglesi, la peculiarità di Manchester, un tempo “Cottonopolis”, tempio industriale tanto quanto le città originarie del genere-house negli Usa, Chicago e Detroit, fu quella di coinvolgere nel cambiamento musica e costume insieme. In un rapido mutamento d’epoca, il grigiore dell’industria che, nella per-

8 9

Ivi, p. 62. I. Welsh, Ecstasy: Three Tales of Chemical Romance, London, Vintage 1996; tr. it. di M. Biondi, Ecstasy, Guanda, Parma 1997; Id., Acid House, Vintage, London 1995; tr. it. di M. Bocchiola, Acid House, Guanda, Parma 1999.

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cezione giovanile, aveva sempre contraddistinto la città venne superato dal colore generazionale delle esperienze legate alla E-scene. L’ethos della rave generation fuoriuscì dalle piste da ballo per divenire patrimonio rock e insieme si prestò a un simbolismo immediato, fatto di codici elementari: faccine, iniziali (l’onnipresente E), slogan menefreghisti (“Cool as Fuck” fu slogan, T-Shirt ed EP trionfale nella primavera del 1990 di una band senza grande originalità come gli Inspiral Carpets, il cui roadie era Noel Gallagher, destinato a ben altri palcoscenici con gli Oasis qualche anno dopo). Messaggi di un ethos semplificato ma sorridente, confezionati e pronti a diventare merce. Come afferma il giornalista e dj Stuart Maconie nel suo contributo al recente profilo fotografico della scena di Manchester pubblicato da Kevin Cummins: La house non fece propriamente il suo ingresso a Manchester. La ballavano a Londra allo Shoom e ai rave dei capannoni alla fine degli anni Ottanta. Ma era rimasta soltanto un’estensione della Londra à la page, modaiola, pavoneggiante; a Manchester divenne una vera forza della sottocultura, con i suoi propri valori, droghe, linguaggio, musica e abiti. I vestiti erano baggy, c’erano giganteschi pantaloni a zampa di elefante e T-Shirt a maniche lunghe, firmate da Shami Ahmed e dalla sua etichetta Joe Bloggs. Le droghe, in gran parte, erano ecstasy, erba, alcool, e una quantità di “rivitalizzanti”.10

Sotto un profilo strettamente musicale, l’elemento apparentemente contraddittorio, in realtà rivelatore, della nuova scena che da Manchester, come un contraccolpo partito dall’introduzione della house music nei club londinesi, si apre a macchia d’olio sul paese, è che i gruppi fondamentali del periodo non inglobano, se non tardivamente, i beat elettronici all’interno della scrittura originale dei propri pezzi, ma nei loro album di maggior successo presentano un rock per molti versi tradizionale, eppure consustanzialmente collegato alla E-scene. Ciò che appare come inequivocabilmente frutto dell’epoca e dei suoi costumi sono i testi, dall’esplicito linguaggio di Shaun Ryder alla straordinaria self-confidence di Ian Brown (voce degli Stone Roses) nel ripetere ossessivamente, in apertura del primo disco, ciò che vuole, per sé, per il gruppo, e per tutta una generazione. I don’t need to sell my soul He’s already in me

10

K. Cummins, Manchester. Looking for the Light Through the Pouring Rain, Faber and Faber, London 2012, p. 223.

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I wanna be adored I wanna be adored.11

Questa cantilena di auto-apprezzamento spinta all’eccesso, fino al mantra, non denotava tanto l’ormai (oggi) epica arroganza di un gruppo, quanto nei fatti la conscia valutazione da parte di un’intera comunità di essere alchemicamente legata da un sentimento di benessere, di socialità diffusa, proprio nel momento in cui il vertice politico del paese aveva decretato la fine della società, ovvero del legame sociale come auto-organizzazione, come istituzione complementare alla politica in dialogo razionale con diritto e amministrazione. La ‘comunità’, nei testi della rave generation, viene reinventata e ricondotta a una mera tensione amorosa, quindi, ma, a differenza di un immaginario inevitabilmente interno ad altre correnti del pop, non erotico-sessuale (il potenziamento erotico non rientra tra gli effetti delle pasticche di Mdma). Un’intera comunità di ballo si ‘adorava’. Non era più in gioco il furioso nichilismo punk di dieci anni prima, “uno dei momenti più ferocemente antidialettici della cultura giovanile”, l’“inconcludente esercizio del negativo”,12 bensì un elemento inevitabilmente più positivo, benché non propriamente costruttivo. In questione vi era l’iterazione del desiderio di evasione, che riuniva la percezione del tempo non come fratto in quotidiano ed extraquotidiano, feriale e festivo, ma come un’unica epopea di straordinarietà disseminata di beat e riff, o, fa lo stesso, della serotonina attivata dall’ecstasy. Nella città dove Friedrich Engels aveva potuto osservare con nitore le condizioni del proletariato, centocinquant’anni dopo la settimana delle masse era data come ballo, come festa, come rave. Era positivamente data. Il lunedì era effettivamente come il sabato. Eppure, come detto, sotto il profilo musicale l’appropriazione rock dello spirito maturato nei rave non portò a novità folgoranti. Nessuna epifania, a dispetto di testi che dislocavano echi religiosi (non solo la vera e propria adorazione di “I Wanna Be Adored”, ma anche i versi potenzialmente sacrileghi di “I Am the Resurrection”) su un territorio di immanenza totale: il gruppo più importante dell’epoca, gli Stone Roses, con quell’eponimo, seminale disco non faceva che riproporre un rock fortemente influenzato dai Sixties. A riprova di ciò, il loro secondo, straordinario ma tardivo, disco (Second Coming, 1994 – “secondo avvento”, di nuovo un’eco religiosa) era un album di puro guitar-rock (fatta eccezione per il notevole singolo 11 12

The Stone Roses, “I Wanna Be Adored”, in Stone Roses, Silvertone, 1989. A. Mecacci, L’estetica del pop. Teorie e miti della cultura di massa, Donzelli, Roma 2011, p. 4.

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“Begging You”, che all’ambiente della rave culture in fase di decadimento fa esplicito e disincantato riferimento).13 Dal canto loro, gli Happy Mondays, la cui mancanza di direzione e di progettualità artistica è evidente in ogni passaggio di carriera, sfornarono il loro capolavoro, dal titolo sufficientemente eloquente di Pills ‘n Thrills and Bellyaches (“pasticche, fremiti e mal di pancia”), affidandosi alla produzione di due dei ex machina dei dj-set come Oakenfold e Osborne, che avevano contribuito a diffondere in madrepatria il nuovo spirito acid. Lo stesso, straordinario, Screamadelica dei Primal Scream, arrivato nei negozi all’estremità finale della Summer of Love – se non fuori tempo massimo, dato che uscì nel 1991 – presenta un’originale sintesi di rock tradizionale tipicamente influenzato dagli Stones e sonorità elettroniche già piegate verso il dub (dove la presenza – il recupero – dell’ex PIL Jah Wobble nella traccia infinita di “Higher than the Sun” prelude alle nuove pieghe che stava per prendere il movimento musicale indipendente in Inghilterra, nelle direzioni di contaminazione con il dub e l’hip-hop che generò il trip-hop proprio in quei mesi). Assai più che nella musica, la novità portata in auge dal rock fu depositata nei testi, e consegnata a una generazione che ballando si accorse delle proprie parole d’ordine assai più tardi. 5. L’oblio del lavoro Is it worth the aggravation To find yourself a job When there’s nothing worth working for? Oasis, Cigarettes & Alcohol

In un quadro di attenzione ai testi, l’elemento dell’assenza del lavoro è quello che sembra emergere in modo rivelatore già nel nome Happy Mondays. Come visto, la felicità del lunedì era un nome scientemente assurdo per una band di ex-postini (il chitarrista lasciò l’impiego solo quando il gruppo diventò un habitué di Top of the Pops), formatasi all’inizio degli anni Ottanta, nella stessa Manchester di quei New Order che avevano ripreso l’espressione “Blue Monday” per farne il loro maggior successo (divenne il 12’’ più venduto della storia). Ma, per focalizzare l’attenzione sul significato veicolato dalla scelta del “lunedì” per nomi e canzoni, quel “Blue Monday” era anche un celebre pezzo blues degli anni Cinquanta

13

S. Reynolds, op. cit., p. 109.

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reinterpretato da Fats Domino, legato appunto alla retorica della ripresa del lavoro il primo giorno della settimana. All’epoca della rave generation, emerge come della ripresa settimanale del lavoro non sembri curarsi più alcuno. In quel momento storico di dissoluzione dichiarata della working society, ossia in quel frangente in cui viene proclamata perfino negli slogan la vittoria dell’amministrazione Thatcher contro le istanze rivendicative dal basso – al riguardo la sconfitta delle lotte dei minatori è giustamente simbolica –, l’elemento del lavoro viene dimenticato, obliterato. Sotto l’effetto rigenerante e socializzante dell’ecstasy, dalle nuove generazioni il lavoro è percepito come una pausa perfino inutile rispetto a un eterno weekend. Ma la società cantata e ballata nella Second Summer of Love è lontana, nelle sue teorizzazioni esplicite e nelle sue espressioni immediate, da qualsiasi atteggiamento impegnato a teorizzare un qualche ‘rifiuto del lavoro’, di stanza più negli anni Settanta:14 si trattava ora di un ‘rifiuto’ semmai calato dall’alto, dato un sistema di meccanizzazione industriale in cui l’occupazione stentava a migrare dal secondario al terziario. Nella società atomizzata dall’alto e ricostituitasi dal basso in comunità nomadi, orizzontali, elementarmente emozionali (Maffesoli le definì “tribali”, nonostante un individualismo difficilmente sottraibile alla scena contemporanea del rampantismo, rispetto a cui la scena rave non può essere vista in esplicita contrapposizione),15 la rave culture – di cui gli Happy Mondays e le faccine gialle di Mr. Smiley costituiscono l’avamposto mediatico, musicale e iconografico – ripudia l’idea di un corso della settimana diviso in due, i cinque giorni lavorativi contro i due di svago. Se i Beatles e la generazione dei padri erano fermi alla parola d’ordine della “Hard Day’s Night”, a fine anni Ottanta, complice il potenziamento chimico della resistenza alla fatica (peraltro a disposizione anche della generazione dei padri, i mod, di cui è noto l’amplissimo uso di anfetamine), la settimana è interamente derubricata a svago e a una versione sfacciata e dionisiaca dell’habeas corpus (dove la disposizione della persona si traduce in ingiunzione, radicalmente fisica, al ballo). Il lavoro è individuato come esperienza residuale; esso resta componente del quotidiano solo perché base del reddito necessario a finanziare e iterare gli appuntamenti ‘estatici’. 14 15

N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 426-434. Si vedano al riguardo le analisi di Michel Maffesoli (Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società post-moderne, Guerini e Associati, Milano 2004), specialmente le considerazioni in presa diretta – il testo è del 1988.

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6. Hallelujah “Madchester Rave On” fu l’anthemico EP degli Happy Mondays esplicitamente destinato a sfruttare l’onda lunga della Second Summer of Love proprio nel fatidico – altrove – autunno 1989. Quattordici giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, il 13 novembre, mentre in Europa si celebrava il più importante evento politico dalla fine della seconda guerra mondiale, la gioventù inglese sul palco di Top of the Pops, tra gli altri temi (la rilevanza assoluta del divertimento come espressione del sé, la sicurezza tracotante del proprio stile, l’indifferentismo posto come atteggiamento) vedeva proiettata implicitamente la decentralizzazione del lavoro. Uno dopo l’altro, i due gruppi più rappresentativi di Manchester, Stone Roses con “Fools Gold” e Happy Mondays con “Hallelujah”, si esibirono mostrando la potenza di quell’aura proveniente da Nord. Il contenuto lirico del brano dei Mondays nel suo titolo implica un ulteriore sfruttamento di lemmi religiosi sulla secolarissima pista da ballo. Nella sua imbarazzante povertà, il testo colpisce per la diretta esposizione della merce dozzinale di cui disponeva l’ex Lumpenproletariat mancuniano ora asceso al vertice musicale del paese. Hallelujah, hallelujah We’re Mr. bitter We’ll take a bit of this and that Hallelujah, hallelujah When Shaun William Ryder Will lie down beside ya Fill you full of junk.16

Svago, esonero, libertà di consumo di merci indeterminate (“prendiamo un po’ di questo e un po’ di quello”), uso di droghe a volontà (“ti riempio di robaccia”): questo l’uso della libertà delineato nell’icastica parabola di Ryder. Al vertice della propria carriera – nel culmine di circa un anno che va dal “Madchester Rave On” EP17 al successo del loro terzo album – i Mondays comunicano, si potrebbe dire, soltanto se stessi. Il loro nome falso, cheesy, nel 1989 arriva ai vertici di notorietà, rappresentando nell’immaginario 16 17

Happy Mondays, “Hallelujah”, in Madchester Rave On, Factory Records, 1989. Il termine ‘Madchester’ fu creazione, tra l’altro, del duo che dirigeva i loro video, i Bailey Brothers (cfr. S. Ryder, op. cit., p. 192).

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dell’epoca la parossistica elegia di quella felicità estatica che i ravers potevano provare il lunedì: non solo al ricordo del weekend di divertimento, ma al pensiero che la settimana trascorrerà esattamente nello stesso modo. Il lavoro perde centralità, in questa visione, perché non modifica più nulla, non cambia il dato reale, non colloca l’individuo in società, non mette in rapporto, non relaziona, non dialettizza. Visto unicamente come uno strumento di reddito tra i tanti, superato in redditività, d’altronde, da qualsiasi attività para-commerciale legata al circuito della rave culture, legale o meno che fosse, il lavoro non innerva più la settimana, non è più al cuore dell’esperienza del tempo come trent’anni prima:

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Blue Monday how I hate blue Monday! Gotta work like a slave all day.18

Il “Blue Monday” dell’autorappresentazione dell’afro-americano costretto allo hard work e subito associato alla tragedia dei suoi padri, già mutuato e violato nella glaciale ma sapientissima variazione sul tema, sopra ricordata, dei New Order, adesso, al culmine della deriva pop della rave generation, è diventato semplicemente happy. Il logo della faccetta sorridente e beata, replicato su milioni di gadget che accompagnarono la ravegeneration, significava un ripudio del lavoro non ideologico né teorico. Il lavoro veniva abbandonato perché inutile a definirsi, non più fondamento antropologico, ma variabile incostitutiva. Non emancipava più nessuno, il lavoro. Data questa considerazione implicita in un’attitudine generazionale che aveva non tanto invertito i tempi del giorno e della notte, quanto piuttosto prolungato il festivo nel feriale, estendendo l’aura carnevalesca del primo, e sottolineando l’assoluta liceità di una ‘in-occupazione’, di un disinteresse al lavoro, tutto starebbe nel comprendere se e come la cultura estatica abbia emancipato i suoi soggetti, e se l’implicita risposta negativa non sia già iscritta nell’atto che coagulava migliaia di giovani davanti a delle casse che emettevano beat sempre più rapidi: la danza collettiva non emancipa, non ha norme, fa vibrare soltanto. Eppure quel frammento impazzito di società materialistica ma estranea a ogni dialettica, coerente nella sua stretta estatica, non sfuggiva del tutto e nei fatti a una dialettica più grande, propria del mondo in cui viveva e ballava. Quella comunità danzante era ancora inserita in una società di cui era al contempo la negazione e lo specchio deformante. Progressivamente quella società prese le misure dei punti deboli di quel movimento, e proprio 18

F. Domino, Blue Monday, Imperial Recordings, 1956.

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attraverso l’elemento che quella comunità danzante non aveva più interesse a negare, il denaro.

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7. E il sesto giorno Dio creò Manchester Il marketing cominciò subito nella rave culture. Magliette, spille, memorabilia (dalle mascherine ai fischietti agli spray), che diedero forma non-verbale a quel sorriso di amore chimico che aveva colto in modo sorprendentemente unanime un’intera generazione. Fu quella stessa generazione che solo quattro-cinque anni dopo, in America, in occasione della riedizione di Woodstock, fu riassorbita nell’esplicito meccanismo mercantile insito nell’operazione-nostalgia legata alla prima Summer of Love. In piena epopea grunge, dall’altra parte dell’Atlantico si diede vita a una festa non avulsa da lunghe code techno notturne, in cui, nel fango causato dalle turbinose piogge dell’agosto 1994, cultura e controcultura si avvolgevano sotto l’egida dello sfruttamento commerciale. Con dubbia pertinenza, quella del 1994 venne definita generazione-X (ancora l’inquietante assimilazione generazionale all’Mdma propria dello slang dell’American English), mostrando un brutale fallimento denotativo: quei ragazzi sfuggivano alla definizione, erano indeterminabili. Ma torniamo a quando la controcultura generata dal liberismo sfrenato era fenomeno di massa, non ancora irreggimentato dall’autorità politica secondo un quadro ideologico funzionale alla sua ghettizzazione. Torniamo alle origini del fenomeno a Manchester, al 1989. Una delle T-Shirt più fortunate del periodo era una variazione sul tema della settimana lunga. Fondato sul gioco di parole ‘Man-Manchester’, lo slogan (riportato nel titolo di questo paragrafo) di Leo Stanley, proprietario di un negozio di vestiti a Manchester (Identity), rappresenta perfettamente l’atto di schietta dedizione lavorativa a rovescio cui andò incontro la patria dell’industrialismo britannico, nel biennio in questione, quando attorno alla comunità danzante cominciò a muoversi un giro di affari che dal marketing di merci (dall’abbigliamento ai viveri e alle bevande) legati alle serate andò a finire rapidamente nel mercato delle droghe. Per reggere i forsennati ritmi di stampa della scritta sulle fortunate T-Shirt, ha affermato Stanley in una recente intervista rievocativa,19 lui e i collaboratori ‘dovettero’ assumere

19

L. Bainbridge, Madchester Remembered: “There was Amazing Creative Energy at the Time”, in «The Observer», 21 aprile 2012.

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ecstasy sul luogo di lavoro. Per vendere il simbolo del non-lavoro – per poter quindi lavorare di più – si doveva assumere la droga dello svago. In sé, lo slogan “E il sesto giorno Dio creò Manchester” restituisce appieno la fine – chimica e musicale – di un concetto di settimana lavorativa, e con ciò, più seriamente, la fine di un lavoro visto come fonte di reddito di cui lo svago, i loisirs, siano integrazione e sorgente di senso. Alla fine del decennio Thatcher, migliaia, poi centinaia di migliaia di giovani cominciano a riunirsi in quelle serate destinate a durare tutta la notte, sentendo distintamente un nuovo senso di ‘comunità’, per quanto estatica. Ma l’assenza di una qualsiasi prospettiva di finalizzazione di quelle azioni ‘fuori schema’ – le immagini di quelle serate, oggi disponibili in ampie dosi su YouTube, risultano facilmente aliene o disturbanti per chiunque non abbia mai partecipato a eventi simili – diventò presto un problema da reprimere già nella seconda delle estati della lunga Summer of Love. Anche perché il primo morto per le complicazioni legate a una pasticca contraffatta di ecstasy fu registrato nel luglio 1989 proprio nel ‘tempio’ della Haçienda. A livello politico, tuttavia, a parte i primi ricoveri e le prime segnalazioni di violazioni di proprietà o di volumi sonori inappropriati ai contesti urbani e non, il problema non fu destato immediatamente dalle prime pasticche ‘impure’ e dai pericoli dell’attitudine polydrug che si affacciò quando il consumo divenne massificato, bensì dal carattere inaudito e slegato di quella cultura, che sembrava aggirare i presupposti individualistici e finalizzati al successo economico della filosofia politico-economica tory, che aveva impregnato il paese dal 1979. L’apparente, totale estraneità della rave culture al sistema riprese in ciò alcuni tratti caratteristici della scena punk di dieci anni prima, rovesciandone di segno l’attitudine. È Simon Reynolds a fornire una lettura assai persuasiva del processo. La scena dance UK era piena di vecchi punk che avevano barattato le loro chitarre per la nuova tecnologia: Alex Paterson degli Orb, Bobby Gillespie dei Primal Scream, Bill Drummond e Jimmy Cauty dei KLF. Se il negativismo punk fu in realtà un utopismo romantico avvelenato, quell’idealismo bloccato navigò libero negli anni Novanta grazie all’ecstasy. […] Basandosi su diverse fonti – i discorsi americani sull’autorealizzazione e la terapia interpersonale, le nozioni New Age sulla musica che cura e la “coscienza dell’abbondanza”, il flower-power degli anni Sessanta, le esortazioni gospel della deep house – la positività salutò l’alba dello Zeitgeist degli anni Novanta, che enfatizzava l’aver cura e la condivisione (caring and sharing), un ritorno alla qualità della vita rispetto allo standard del vivere, una coscienza ecologica verde. L’egotismo antisociale degli anni Ottanta, esemplificato in termini pop dal rap e da

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Madonna, fu eclissato da uno spostamento dall’“io” al “noi”, dal materialismo all’idealismo, dalla posa (attitude) alla banalità (platitude).20

La rave culture era fuori dal mondo che la circondava, ma non voleva distruggerlo né annichilirlo. Voleva semplicemente spostarsi al di fuori, prolungando il “sesto giorno”, il sabato – giorno-mitologico dell’intero spirito del rock ‘n’ roll fino ad allora –, in un party settimanale.

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8. Comunità acefale e inoperose A giudicare dalla sola via di fuga dionisiaca e priva di riferimenti esterni – socio-politici – all’E-scene vera e propria (Happy Mondays e Stone Roses si aggiunsero a tale scena e, va ribadito, non crearono affatto una musica soltanto per ravers), sembrerebbe non esser soltanto un caso che a partire dagli anni Ottanta, in territorio francese, ma con immediate diramazioni altrove, anche (e in misura rilevante) nel nostro paese, vi sia stato un notevole recupero della figura di Georges Bataille, e di alcuni aspetti del suo pensiero della fine degli anni Trenta (1936-39), del suo concetto di una sociologia dell’eccesso, della dépense e dei residui esclusi dagli imperativi della società. In quegli scritti – talora essoterici, talora schiettamente esoterici, limitati a una sorta di società segreta dal programmatico nome di Acéphale – Bataille e soci (su tutti Caillois) propagandavano una comunità orizzontale, sistematicamente privata di un capo, dedita a pratiche ‘sacrificali’ di cui la notion de dépense21 era il nerbo. È possibile, [lo] è sempre stato, proporre una spiegazione sistematica dell’esistenza umana, a tutti i suoi livelli, in funzione degli stati dionisiaci, della ricerca di simili stati, della variabile ineguaglianza degli uomini davanti ad essi, della loro comunione in essi.22

20 21

22

S. Reynolds, op. cit., pp. 102-103. La nozione di dépense in Bataille, un concetto intensamente anti-utilitarista di ‘economia generale’, venne trattata sin dall’omonimo saggio del 1933 e sviluppata nella Part maudite nell’immediato secondo dopoguerra (Editions de Minuit, Paris 1949; tr. it. di F. Serna, La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992). J. Monnerot, Dioniso filosofo, in G. Bataille, La congiura sacra, a cura di M. Galletti, intr. di R. Esposito, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 74.

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Data l’unica condivisione possibile – l’esperienza della morte (e della gioia davanti alla morte)23 – la comunità così pensata si dedicava a un esercizio a-finalistico del negativo, a dispetto e a scapito di qualunque dialettica storica. Non sembrerebbe quindi un caso che un simile esercizio ‘inoperoso’ di negatività – teorizzato da Bataille in coincidenza con la lettura kojèviana di Hegel24 – venisse ‘riscoperto’ da pensatori e studiosi proprio nell’era della sconcertante applicazione della tesi kojèviana della fine della storia per mano di Francis Fukuyama: fine della storia come trionfo del pensiero e del modello liberal-democratico occidentale, rispetto a cui non vi sarebbe ulteriorità alcuna. Restava, in eredità, il problema di pensare un modello di comunità adeguato all’era dell’asserita fine della storia, e la vicenda della rave generation sembrava fornire, nella sua esperienza, nei suoi ritmi, una prima risposta. Mentre il fenomeno dei rave party compiva il suo primo anno di vita, spostandosi dai club ai capannoni, Fukuyama recitava per la prima volta (nell’estate del 1989, sulla rivista «The National Interest») quel mantra che viene ricordato dallo stesso giornalista John Harris nel suo resoconto della Manchester post-Madchester (vale a dire, fondamentalmente, gli Oasis), che contribuisce al citato Manchester di Kevin Cummins. Visto da una prospettiva più ampia, la metà degli anni Novanta fu sicuramente il culmine di quell’isola di innocenza che ebbe vita tra la caduta del muro di Berlino e gli eventi dell’11 settembre 2011, quando infuriavano tante guerre e conflitti, ma a voce alta si reclamava che il mondo era fermo come mai prima, e che sorprendentemente c’era poco di cui preoccuparsi. Nel 1992 l’accademico americano Francis Fukuyama pubblicò il libro, discusso senza posa, The End of History and the Last Man.25

Quell’esercizio d’azione non-finalizzata che era il ballo e l’uso comunitario, socializzante, ma non ‘ordinabile’, non giuridificabile, di sostanze psicotrope, può mostrare talune parentele con la comunità immaginata 23 24

25

G. Bataille, La congiura sacra, cit., pp. 117-119. Sulle variazioni italiane del tema si veda ora la limpida analisi di D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012, pp. 163-165. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la “Phénoménologie de l’Esprit” professées de 1933 à 1939 à l’École des Hautes Études réunies et publiées par Raymond Queneau, Gallimard, Paris 19682 (1947); tr. it. a cura di G.F. Frigo, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996 – di cui si veda la celebre nota sulla fine della storia (pp. 436-437; trad. it., pp. 542-543 e passim). K. Cummins, op. cit., p. 307.

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da Bataille nei boschi dei dintorni parigini: la struttura acefala ravvisabile nell’assenza di icone personali nella rave culture, l’anonimato pressoché totale di dj ed etichette, l’inevitabile cortocircuito, almeno apparente, dell’estasi erotico-comunitaria preconizzata dal Collège de Sociologie con l’estasi chimico-danzereccia nei warehouses. Eppure, a contemplare più da vicino la strutturale positività del movimento iconizzata nel Mr. Smiley, non si può non notare l’assenza di qualsiasi attenzione al sentimento dell’angoscia, elemento costitutivo del pensiero bataillano della finitezza e della ritorsione riflessiva del negativo in un orizzonte solo immanente; elemento che emergerà come riflesso solo nel più tardo rave-movement politicizzato. Difficilmente anche il raver più avvertito potrebbe rivedersi nelle parole con cui Bataille evoca l’esperienza della trasgressione nella sua opera tarda più notevole, L’Erotisme, del 1957: “l’esperienza interiore dell’erotismo domanda a chi la compie una sensibilità non meno grande per l’angoscia che fonda l’interdetto che per il desiderio che porta a infrangerlo”.26 La tonalità emotiva angosciata, financo paranoica, non sarà certo fenomeno estraneo all’atmosfera dei rave, ma sarà in qualche modo tipica di un periodo più tardo, dove si intrecceranno alcune rischiose deviazioni polydrug, legate al nuovo costume di assumere diverse droghe assieme, tra cui la ketamina, e le diverse pratiche di criminalizzazione dell’intero fenomeno. Ma a dispetto di queste derive, pur notevolmente e inevitabilmente presenti, il movimento rave e la sua cultura rimangono, a una lettura non di sola superficie, pensieri del positivo – per quanto interni all’esercizio inoperoso di un’attività come il ballo –, risposte poco dialettiche all’era della solo asserita fine della storia e della negazione della società. Il tratto comune con Bataille, nella affinità di certi sfondi anche ambientali – l’elemento del ‘selvatico’, come scena ideale per potenziare il simbolismo insito nella pratica dionisiaca –, sembra essere inoltre una particolare accezione di quella che il filosofo francese chiamava violenza (qui, più prosaicamente, azione) senza impiego (violence sans emploi), che vede la rimozione del lavoro dal campo simbolico della costituzione del soggetto. Al vertice opposto della scala che vuole il ballo e i beat vi è, dimenticato, il lavoro. Nessun esercizio del negativo, in forma lavorativa, solo esercizio di quell’indeterminata positività condivisa con indeterminati altri dentro il suono di rumorosi beat.

26

G. Bataille, L’Erotisme, in Id., Œuvres complètes, 12 voll., Gallimard, Paris 19701988, vol. 10 (1987), p. 41.

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9. Libertà di corpi

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I close my eyes until I see I don’t need hands to touch me Be a Body Grimes, Be a Body

L’insistere sulle analogie con le teorie di Bataille e le scie di pensiero impolitico della communauté désouvrée (il cui radicamento storico nell’era del ‘riflusso’ e nell’heideggerismo di fondo del pensiero degli anni Ottanta non andrebbe dimenticato) soprattutto sottovaluterebbe un elemento che alcuni osservatori hanno sottolineato con efficacia. In atto, nella cultura dei rave party, è anche la riduzione dell’agire sociale a un’elementarità tribale, tribale perché vincolata al corporeo come mezzo semiotico. Evento anarchico, allucinato, spartano. Con i suoi giocolieri e mangiatori di fuoco, venditori improvvisati, cani che scorrazzano, tende piantate ai bordi della pista, gente che balla tra nubi di polvere, il rave-free party può somigliare a un accampamento medievale, o a una scena postatomica. Suggestioni New Age e apocalittiche, come in bilico costante tra rinascere o sparire. La dimensione rituale è forte: dance come stato di meditazione attiva, bassi elettronici come strumenti tribali (il tipo di strumenti dal suono cupo, abissale, suonati nelle società primitive nei riti di passaggio o di guarigione), mezzo di comunicazione con le potenze del sottosuolo. Dallo sciamano al raver, quasi un’unica storia.27

Sebbene la prospettiva tribalistica sia ravvisabile come costante sociale, è tuttavia arduo pensare alla comunità raver come a una comunità in qualche modo tesa al ‘risveglio’ proprio di qualsiasi aggregazione religiosa, o tale da prestarsi a un’educazione religiosa tipica del culto tribale e dell’attività di stregoni e incantatori.28 Tantomeno il movimento si presta a una razionalizzazione. Né alcuna forma ‘ierocratica’ entra in campo, se nel fenomeno del free-party l’anonimato, musicale e personale, restò (quasi) sempre elemento da difendere. 27 28

M. Mancassola, op. cit., p. 113. M. Weber, Religiöse Gemeinschaften, a cura di H. Kippenberg, in Wirtschaft und Gesellschaft. Die Wirtschaft und die gesellschaftliche Ordnungen und Mächte, Max Weber-Gesamtausgabe, Mohr Siebeck, Tübingen 1984 ss., vol. 22/2 (2001), p. 159; tr. it. a cura di M. Palma, Comunità religiose, in M. Weber, Economia e società. L’economia in rapporto agli ordinamenti e alle forze sociali, Donzelli, Roma 2003 ss., vol. 2 (2006), p. 41.

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È più convincente, semmai, il tentativo di leggere il fenomeno dei rave party attraverso la lente della riduzione a corpo, della valorizzazione – non riflessiva, ma mediata dal solo Mdma – della dimensione corporea.

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L’Mdma non è solo ematogeno. Anche entactogeno: “contatto interiore”, oltre che esteriore. […] Il grande equivoco dell’ecstasy, legato al suo nome, è quello di considerarla droga dell’“ek-stasis”, della fuoriuscita da sé, una droga che serve a fuggire dal mondo. Non stai uscendo dal mondo: ci stai entrando. Benvenuto, corpo tra i corpi, movimento tra i movimenti… vorresti non smettere. Continuare a godere di questa efficienza. Il tuo fisico trasformato in performance.29

Se qui l’ingresso nel mondo è definito attraverso una sinestesia materiale, il mondo nella sua complessità sociale viene ignorato, perché eliso già dal movimento di politica sociale in atto da anni. Resta il residuo corporeo come indicazione di una ricerca che affonda le radici nel biologico attraverso un lessico insieme teatrale e aziendale. Nell’evocazione icastica del corpo come medium della nuova comunità in atto, si radica anche una sfaccettatura dialettica ulteriore: in questa riduzione a prestazione efficiente può ravvisarsi l’impetuosa inversione di significato che subisce il tempo quotidiano nella percezione del raver. I lemmi della società del lavoro, dissolti nello stato liquido della sensazione alterata di benessere, si riformulano nella sfera della corporeità. Il corpo, infatti, mosso dalle sostanze e dai loro effetti cerebrali, veicola durante il ballo e nella memoria letteraria una performance dell’efficienza. Si è efficienti non lavorando, ma ballando. La palestra della velocità dei beat non viene percepita però come omologazione. La tribù non va intesa come aggregazione omogenea e tantomeno come primitiva, ma come comunione di performer fisici. Anche se, con la progressiva contaminazione delle pasticche in chiave anfetaminica, il brand estatico-euforico si trasforma presto in “reperto storico” da recuperare unicamente nella memoria sonora. 10. Prove antagoniste di libertà-con Che dunque nella Second Summer of Love, in Inghilterra, il sabato fosse divenuto l’elemento connotante la vita di un’intera città e sostanzialmente di ampie fasce di gioventù della nazione; che quella comunità si muovesse nell’immediatezza del ballo e che non desse, per la prima volta, quegli 29

M. Mancassola, op. cit., pp. 97-98.

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inquietanti segni di anti-socialità trasmessi da altri momenti topici della storia del rock (si rammenti solo la convivenza della scena punk con l’eroina), ma che la E-Scene fosse caratterizzata da una socialità letteralmente spensierata, e positivamente convinta dei propri slogan semplici come parole d’ordine: questa congerie di elementi non può indurre a dimenticare il fondamentale disinteresse della rave culture per un qualsiasi ordinamento della società. Il vago ma efficace ‘positivismo’ dello stare insieme loved-up non si coagulava in alcun costruttivismo politico-sociale e, a dispetto e in funzione di questo disinteresse, non riusciva a sfuggire al proprio interno alle dinamiche di mercificazione. Questo a dispetto di un sentimento comunitario di libertà-con30 che disegnava i margini di una diversa ‘politica’ dei sentimenti di convivialità e desiderio condiviso dentro il ritmo, con una musica senza parole, e quindi sprovvista di capacità persuasiva retorica. Solo il ritmo convince. Solo il ritmo mette in agenda il desiderio condiviso. Ma l’agenda è limitata al qui e ora, un be here now che coincide con una “collettività della scomparsa”, in virtù del dato per cui all’interno della nuova cultura popolare si tenta di sottrarsi a una qualsivoglia sorveglianza.31 Ballare per evadere, per sottrarsi a una presa. Per definire la propria puntualità in un altrove altrettanto puntuale. Creare un free party è aprire un’altra stanza. Un rito collettivo e gratuito di ricerca di spazio. La categoria di “altrove”, quasi debellata nel mondo unicouniformato, nell’immaginario sempre più accentrato, ha trovato forse un veicolo di sopravvivenza. Oggi qui, domani chissà. La prerogativa del free party è il suo fluttuare. Sparire prima della reazione di autorità e media. […] Rave illegale come tattica di scomparsa, capacità di non farsi assorbire. I raver come guerrieri dell’assenza. Ovviamente per alcuni è proprio questo il limite. A cosa serve il rave? Come molte pratiche antagoniste, non è “costitutiva”. Non costituisce qualcosa di stabile, non fonda una nuova comunità. Ma la sola comunità possibile, negli anni Novanta, non è forse questa? Temporanea, continuamente dispersa, una repubblica dei desideri che si ritrova e disperde, ritrova…32 30

31 32

Un riferimento possibile, non senza forzature, è alla “terza libertà” di W. Benjamin (cfr. Die dritte Freiheit. Zu Hermann Kestens Roman “Ein ausschweifender Mensch”, in Gesammelte Schriften, 7 voll., Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972-1989, vol. 3 [1972], pp. 171-174 [pubblicato originariamente in «Die literarische Welt», 7 giugno 1929, a. V, n. 23]; tr. it. a cura di M. Palma, La terza libertà. Sul romanzo di Hermann Kesten, “Ein ausschweifender Mensch”, in W. Benjamin, Scritti politici, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011, pp. 161-165). Si veda la tesi di A. Melechi, The Ecstasy of Disappearance, in S. Redhead (a cura di), Rave Off. Politics and Deviance in Contemporary Youth Culture, Avebury, Hampshire 1993, pp. 29-40. M. Mancassola, op. cit., p. 114.

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“Repubblica dei desideri”, repressa, “fenomeno underground di massa”, segnato da un’istanza di appartenenza non (o quasi non) verbalizzata. Portata ad espressione, però, dalla normativa in vigore dall’autunno 1994, il Criminal Justice and Public Order Bill. La disposizione di legge, nella parte V (Public Order: Collective Trespass or Nuisance on Land) all’articolo n. 6, prevedeva espliciti provvedimenti riguardanti il power to remove persons attending or preparing for a rave, ovvero riguardanti “raduni all’aria aperta di più persone in cui venga suonata musica amplificata e che in ragione del suo rumore e della sua durata possa causare serio incomodo agli abitanti del luogo”. Qui33 si trova anche la sobria definizione di musica del comma b. “Music” includes sounds wholly or predominantly characterised by the emission of a succession of repetitive beats.34

A partire dalla sua repressione, dal forzato ingresso nel territorio dell’illegalità sanzionata (non più tollerata), la storia della rave music prese pieghe diverse. Sfuggendo alla sua originaria catalogazione in un territorio out of time, nell’anonimato dei dj, dei brani, dei luoghi in cui era suonata, l’esperienza dei ravers dovette entrare in un’illegalità cosciente. Non fu più tanto il diffuso senso di ‘comunità estatica’ e responsabile solo del proprio ritmo a rappresentare la via maestra – old-skool – della cultura underground, quanto una rapida, certo non universale, politicizzazione forzata. È stato Simon Reynolds, con grande lucidità, a cogliere la ‘terza via’ che si insinuava nell’alternativa tra la percezione del fenomeno in chiave New Age e il suo ingresso nel mainstream. Da una parte, il discorso trascendentalista, neopsichedelico di piani più elevati di coscienza e la fusione con l’Umanità/Gaia/il Cosmo. Dall’altra, l’ecstasy e la rave music si inserirono in una emergente “rush culture” di brividi adolescenziali e fremiti a basso costo: videogames, skateboards, bunjee jumping, e altri “sport estremi”, blockbusters le cui narrative sono meramente fragili cornici per mettere in campo effetti speciali spettacolari. […] Ho trovato questa musica “ripetitiva” infinitamente produttiva di pensiero. E nonostante la sua ostentata natura di evasione, il rave in realtà mi ha politicizzato, mi ha fatto pensare di più alle questioni di classe, razza, genere, tecnologia. Perlopiù priva di parole e quasi mai apertamente politica, la rave music – come il dub reggae e l’hip hop – usa il suono e il ritmo per costruire paesaggi psichici di esilio e utopia.35 33 34 35

Lo ricorda opportunamente M. Mancassola, op. cit., p. 115. Criminal Justice and Public Order Bill 1994, parte V, art. 6, comma b. S. Reynolds, op. cit., p. 10.

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Filosofia e popular music

Ma proprio la “dialettica utopico-distopica” di cui parla acutamente Reynolds – innervata da un dark side di eccesso tossico e paranoico – costringe l’originario desiderio (alienato dai powers that be) di costituire repubblica a sé, potenzialmente totalizzata in una comunità estatica, a confrontarsi in modi anche conflittuali con le istituzioni e a porsi in modo seriamente antagonista con il resto della società. Costretto in un angolo, il mondo dei ravers acquista una consapevolezza che viene elaborata – non sempre, e non in tutti i territori – secondo una dinamica di rifiuto del modello sociale unico e vincente: dinamica che confluirà a fine decennio nel movimento anti-globalizzazione. Per questo la ricerca di piacere insita nell’origine ‘libera’ della rave culture muta gradualmente significato. La frase ripetuta ossessivamente da “Loaded”, l’ipnotico brano di Screamadelica dei Primal Scream, da manifesto edonista si tramuta negli anni in veicolo di politicizzazione, in riflessione sui confini e le potenzialità della ‘ragione-raver’. La libertà di evasione, il proclama di sentirsi felici il lunedì, diventerà nuovamente, ma per fette di società estremamente più marginali, una messa in questione radicale di cosa voglia dire libertà nella pretesa era della liberal-democrazia trionfante. We want to be free We want to have a good time. We want to get loaded.36

In una possibile lettura retrospettiva, quel load di cui si tratta qui con scarsa reticenza non verrà più assunto edonisticamente come il ‘carico’ di chimica necessario ai fini dell’evasione. Per alcuni settori radicali e antagonisti, esso diverrà nuovamente sinonimo e colonna sonora di contenuti da rivendicare. Anche per questo, nelle manifestazioni i ritmi techno saranno sempre più legittimati a far da spalla a spezzoni di corteo, come il suono di uno spazio di libertà ‘altro’ da riattivare. La politicizzazione coatta della X-Generation passò per territori chimici non certo rassicuranti per il pensiero pacificato dell’era di mezzo 19892001, laddove l’antico spirito punk-rave dell’illegalità diffusa e produttiva di nuove forme di socialità si mescolò, come sovente accade nei cortocircuiti di repressione e antagonismo, a una ghettizzazione in cui l’esperienza di una ‘terza libertà’ dovette abbandonare l’indifferentismo politico per radicarsi nella società. L’immaginario politico della X-Generation non 36

Primal Scream, “Loaded”, in Screamadelica, Creation, 1991.

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M. Palma - Finire il lavoro. La Second Summer of Love (1988-90)

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prolungò più i sabati in un’indeterminata prospettiva settimanale di party a 24 ore: ritornò gradualmente a pensare i lunedì come blue. Finita la fine del lavoro, il lavoro ricomincia a giocare il suo ruolo in una generazione che nella scoperta della precarietà come propria condizione troverà una definizione di sé: prima passiva, poi, gradualmente, più politica.

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MARCO JACOBSSON

THE DANCE OF ETERNITY Breve ‘improvvisazione’ su musica assoluta e progressive metal 1

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1. Sul titolo – “Regression”2 “The Dance of Eternity” è la composizione strumentale che occupa la posizione centrale del disco Metropolis pt. 2: Scenes from a Memory dei Dream Theater. Il gruppo statunitense ha contribuito a trasformare il rock ‘duro’ o ‘pesante’ in una musica difficilmente riconducibile alla diffusa idea che si ha della popular music come musica fatalmente destinata a cadere nella banalità e nella bruta ripetitività.3 Nel presente articolo tenterò di considerare la musica proposta dai Dream Theater come degna di un’analisi in senso ampio filosofica.4 A differenza della maggior parte degli studi di questo tipo, mi concentrerò quasi esclusivamente sull’aspetto musicale, lasciando da parte quello testuale. A questo proposito, mi sembra opportuno premettere che chi scrive è privo di una vera e propria formazione musicale teorica, così come di un curriculum specificamente 1 2 3 4

Dream Theater, “Metropolis pt. 1: The Miracle and the Sleeper” in Images and Words, Atco Records, 1992, 9’ 04’’. I titoli dei paragrafi ricalcano le tracce del disco dei Dream Theater Metropolis pt. 2: Scenes from a Memory, Elektra Entertainment Group, 1999. D’ora in poi citato semplicemente come Scenes from a Memory. La versione filosofica più celebre di questa diffusa idea si deve a T. W. Adorno, Sulla popular music, tr. it. di M. Santoro, Armando, Roma 2005, pp. 66 e ss. Di certo i Dream Theater non sono stati né i primi né gli unici ad aver tentato la strada di una ‘nobilitazione’ del metal. Prima di loro, infatti, altri gruppi musicali come Fates Warning, Queensryche, Sieges Even hanno tentato di allontanare il rock ‘duro’ da strutture e da linguaggi musicali standardizzati. Non è da ignorare l’altra tendenza tutta interna al metal anni Ottanta, in cui, al di là dell’effettiva riuscita, è evidente questo sforzo. Basti citare brani come “The Call of Ktulu” dei Metallica (in Ride the Lightning, Vertigo, 1983) o “Seventh Son of a Seventh Son” degli Iron Maiden (in Seventh Son of a Seventh Son, EMI, 1988).

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musicologico. Rifacendomi alla nota tipologia proposta da Theodor W. Adorno, sono ben lontano dall’essere un ascoltatore “esperto” e, nella migliore delle ipotesi, potrei riconoscermi grosso modo in una sorta di ascoltatore “attento” che, nel proprio approccio alla musica, ha sempre cercato di minimizzare la presenza di alcune caratteristiche del “consumatore di cultura” e dell’“ascoltatore risentito” (caratteristiche che invece mi sembrano molto in voga nei fruitori del rock ‘duro’).5 Muovendo da un tale background e approcciando una materia così complessa, il pericolo al quale ci si espone è quello di dar vita ad una sorta di ‘improvvisazione’ più che a un contributo scientifico serio. A ben vedere, però, sia nella scrittura filosofica che nella musica, un’improvvisazione assoluta è impossibile. Improvvisare implica, infatti, lo svincolarsi da un percorso prestabilito per far emergere la propria espressione individuale, il che presuppone necessariamente l’esistenza di un sistema storico e teorico di regole. Al contempo anche gli ‘esperti’ non possono prescindere da un momento di improvvisazione. Con le debite differenze fra testo scritto e composizione musicale – se il primo possiede già una sua oggettività, la seconda deve essere eseguita per essere realizzata – entrambi necessitano infatti di un momento di mediazione, di una ‘messa in gioco’6 (spielen, jouer, to play). E mettersi in gioco, lasciarsi ‘giocare’ da un Gioco più grande di noi stessi, sperimentando il primato del gioco stesso sull’individualità dei giocatori, è tutto quel che possiamo fare, anche a costo di correre il rischio di apparire semplici principianti.

5 6

Per quanto riguarda la tipologia dei modi d’ascolto faccio riferimento a T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 2002, pp. 9-10 e 14-15. Nell’utilizzare queste espressioni faccio riferimento alla trattazione gadameriana del tema del gioco nella prima parte di Verità e metodo, là dove si legge: “Il gioco ha infatti una sua essenza propria, indipendente dalla coscienza di coloro che giocano. […] Il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco stesso che si produce attraverso i giocatori. […] È il gioco che ha in sua balìa il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco. […] [Il] gioco non ha il suo essere nella coscienza o nell’atteggiamento del giocatore, ma piuttosto è esso a trarre chi gioca nel proprio ambito e riempirlo del proprio spirito. Il giocatore avverte il gioco come una realtà che lo trascende” (H.-G. Gadamer, Verità e metodo. Elementi di una ermeneutica filosofica, tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2002, pp. 229, 237 e 243).

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2. A mo’ di ouverture – “Overture (1928)” Il presente articolo presenterà diversi temi che si intrecciano vicendevolmente e che rimandano l’uno all’altro, senza che vi sia alcun ordine gerarchico tra essi; piuttosto ciascun tema risulta realmente comprensibile solamente alla luce del suo intreccio con gli altri. Tenterò innanzitutto, in base ad una brevissima ricostruzione storica, di comprendere il progressive metal come un’unione fra apollineo e dionisiaco, intendendo però questi termini in un’accezione diversa da quella nietzschiana. Dopo aver visto che cosa non è il progressive metal, e come dunque esso non debba venir interpretato, concentrerò l’attenzione sulla possibilità di vedere alcune composizioni strumentali dei Dream Theater come esempio di ciò che è stato definito nella musicologia novecentesca “musica assoluta”. In estrema sintesi, l’idea di una musica “assoluta” si sviluppa nell’Ottocento in opposizione all’estetica settecentesca che poneva l’espressione del sentimento al centro del fare artistico. Una delle prime decisive prese di posizione in tal senso è contenuta nella recensione alla Quinta di Beethoven stesa nel 1810 da E.T.A. Hoffmann, per il quale “se si parla della musica come arte autonoma ci si dovrebbe riferire sempre e solo alla musica strumentale”, l’unica in grado di esprimere “l’indicibile”7 negato alla parola. In questo senso mi sembra decisivo prendere in considerazione il rapporto fra la forma, il contenuto e la natura in senso lato linguistica della musica, il che solleva anche il problema del suo rapporto con la concettualità. Mi sforzerò poi di mostrare che questo tipo di musica non riproduce la natura, ossia non va compresa in base a un paradigma mimetico, e che il suo contenuto primario non è nemmeno l’emozione. Dopo un’analisi del brano “The Dance of Eternity”, proverò a delineare alcuni motivi che legano la musica, in primis strumentale, alla nostra esistenza, intesa sulla base della categoria heideggeriana della “motilità”. In conclusione, affronterò questioni in senso ampio sociologiche, tra cui in particolare il rapporto fra progressive metal e ideologia.

7

Citato in C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, Che cos’è la musica?, tr. it. di A. Bozzo, il Mulino, Bologna 1988, p. 44.

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3. Brevissima storia di un genere che non è un ‘genere’ – “Strange Deja-Vu” “Questa tecnica di etichettamento, rispetto ai tipi di musica […], è una forma di pseudo-individualizzazione, ma di un tipo sociologico che sta fuori dal campo della stretta tecnologia musicale. Esso fornisce i marchi per distinguere ciò che è in realtà indifferenziato”.8 Mi sembra che, sin dalla sua nascita, il progressive abbia adottato queste parole adorniane come vero e proprio strumento di navigazione all’interno dei diversi generi e delle diverse culture musicali, riuscendo a conferire dignità artistica al rock, arricchendolo di elementi che vanno al di là degli “avanzi della storia della musica”.9 Quando nel 1992 i Dream Theater pubblicarono Images and Words, la duplice sensazione di uno strano deja vu e, al contempo, di trovarsi di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo fu forte.10 Di certo il disco era catalogabile all’interno del vasto mondo del rock ‘duro’. Il gruppo si presentava, infatti, con la formazione hard rock più classica dai Deep Purple in avanti (voce, chitarra, tastiere, basso e batteria11) ma, a differenza della maggior parte delle altre band, la loro musica riportava direttamente ad alcuni stilemi del progressive rock nato più di venti anni prima in Inghilterra. Senza avere la pretesa di riassumere in poche righe un fenomeno così ampio, 8 9 10

11

T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 84. Id., Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 36. L’idea che la popular music possa “riarticolare i frammenti” è di R. Middleton, Studiare la popular music, tr. it. di M. Mele, Feltrinelli, Milano 20072, p. 70. Da una parte, il loro lavoro era considerato troppo complicato: “performances accuratamente pianificate […], musica che non si potrebbe affermare di amare o di cui non si potrebbe godere; piuttosto la si potrebbe solo apprezzare dalla giusta distanza. Come osservare degli scienziati costruire una bomba atomica. Se ne apprezza la perizia, ma si deplora il risultato finale”. D’altra parte, se ne riconobbe immediatamente l’importanza: “Si dice che il progressive rock sia morto quando band come Yes e Genesis hanno iniziato a soddisfare il mainstream. Ma con Images and Words, i Dream Theater dimostrano di essere un’autentica guida”. Le recensioni da cui sono tratti i giudizi appena ricordati – la prima di Chris Welch apparsa su «Rock World», la seconda apparsa su «Modern Drummer» – sono citate in R. Wilson, Lifting Shadows. The Authorized Biography of Dream Theater, Essential Works, London 2007, p. 127. La formazione che registrò Images and Words nel 1992 era composta da James La Brie (voce), John Petrucci (chitarra), Mike Portnoy (batteria), Kevin Moore (tastiere) e John Myung (basso). Nel 1999, in occasione della registrazione di Scenes from a Memory, Jordan Rudess sostituì Derek Sherinian che, a sua volta, aveva preso il posto di Kevin Moore subito dopo la pubblicazione di Awake. L’attuale formazione è composta da La Brie, Petrucci, Myung, Rudess e da Mike Mangini, che ha sostituito Portnoy alla batteria.

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tenterò di concentrare l’attenzione sugli aspetti che ritengo essenziali ai fini del discorso che svilupperò più avanti.12 Nato alla fine degli anni Sessanta come fenomeno di rottura rispetto agli schemi più consolidati del rock precedente, il progressive si poneva l’obiettivo di creare una musica che, pur rimanendo legata alle controculture popular, sapesse non solo divertire, ma anche comunicare qualcosa di più ‘serio’ o ‘elevato’, e che fosse in grado di aprire un dialogo fra stili apparentemente inconciliabili tra loro come il rock-blues, il jazz, la musica classica, la folk music e ancora le cosiddette culture musicali ‘altre’. Quasi tutti gli autori inquadrabili nella galassia progressive erano contemporaneamente compositori (di musica e testi), arrangiatori ed esecutori. Questo aspetto allontanava la maggior parte di essi da quella vera e propria “divisione del lavoro”13 che farebbe della popular music un mero aspetto dell’industria culturale. La struttura delle composizioni si svincolava dalla semplice forma-canzone per abbracciare una modalità narrativa, spesso assimilabile a un ‘flusso di coscienza’, che poco concedeva ai tempi e ai modi caratteristici dell’ascolto radiofonico ‘occasionale’. Tipico del progressive fu inoltre, come già accennato, l’allargamento del tradizionale linguaggio rock e l’introduzione di stilemi desunti dal repertorio classico e dalla musica etnica. Non un genere, quindi, ma un vero e proprio modo di concepire e fare una musica che fosse formalmente complessa e che miscelasse coerentemente elementi molto vari; una musica che sapesse, infine, armonizzare in un tutto coerente cambi d’umore e di atmosfera all’interno di una medesima composizione. Nel corso dei primi anni Settanta, grazie all’apporto di decine di gruppi più o meno noti, si svilupparono tendenze diverse, distinte fra loro ma al contempo per nulla isolabili le une dalle altre, che tenterò qui di descrivere. 1) La tendenza ‘filologica’, forse quella più presente nel progressive, portava a fondere il rock con melodie e timbri della musica del passato. Rintracciabile un po’ in tutti i gruppi del periodo, tale tendenza ebbe i suoi esempi più significativi nell’incedere rinascimentale dei Gentle Giant e nelle fughe barocche di Emerson, Lake & Palmer. 2) La tendenza ‘romantica’ si esprimeva nella volontà di trascinare l’ascoltatore in un mondo etereo e sognante, spesso attraverso l’uso di melodie ampie e di uno spiccato senso della teatralità di cui furono maestri, in particolare, i Genesis (perlomeno nella loro prima produzione, quella cioè precedente alla dipar12 13

Per una ricostruzione seria e circostanziata rimando a D. Zoppo, Prog. Una suite lunga mezzo secolo, Arcana, Roma 2011. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 77.

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tita di Peter Gabriel nel 1975). 3) La tendenza ‘cosmica’ affondava le sue radici negli esperimenti psichedelici degli anni precedenti e si esprimeva nelle composizioni dilatate, avvolgenti, quasi surreali dei Pink Floyd o in quelle più cupe dei Van der Graaf Generator. 4) La tendenza ‘geometrica’, quella decisiva ai fini del presente articolo, è magistralmente espressa, ad esempio, in “Larks’ Tongues in Aspic pt. 2”, “Fracture” e “Red” dei King Crimson del periodo 1972-74 (quello, cioè, più sperimentale rispetto alle precedenti formazioni guidate da Robert Fripp, probabilmente ascrivibili a tipologie più melodiche di progressive).14 Queste ultime composizioni dei King Crimson sono incentrate su schemi ritmici e melodici spigolosi, che poco concedono alla melodia cantabile, e che mettono in risalto l’aspetto formale come momento principale della musica. Per certi versi, esse si possono persino considerare le prime composizioni che preludono al progressive metal.15 Ora, i Dream Theater hanno ereditato qualcosa da ognuna delle succitate tendenze, ma nella loro musica la componente più evidente è senza dubbio quella geometrica. Uno sguardo particolare su questa tendenza offre l’occasione per considerare alcune composizioni dei Dream Theater come una musica in un certo senso ‘assoluta’. Anche se inserita in un meccanismo di produzione, reclamizzazione e vendita, al pari di tutta la popular music, è mia opinione che essa, per le ragioni che mi sforzerò di chiarire nel prosieguo dell’articolo, disponga di un autentico valore estetico (e non solo).

14 15

Cfr. King Crimson, Larks’ Tongues in Aspic, Island Records, 1973; Id., Starless and Bible Black, E.G. Records, 1974; Id., Red, E.G. Records, 1974. Negli ultimi anni i Symphony X sono stati, senza dubbio, i rappresentanti più significativi della fusione del metal con il gusto ‘filologico’, nello specifico neoclassico; i Pain of Salvation lo sono stati della tendenza ‘romantica’, i Riverside di quella ‘cosmica’. Cfr., in particolare, Symphony X, Fifth. The New Mythology Suite, Metal Blade Records, 2000; Pain of Salvation, The Perfect Element pt. 1, InsideOut Music, 2000; Riverside, Second Life Syndrome, InsideOut Music, 2005.

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4. L’incontro fra progressive e heavy metal – “Through My Words / Fatal Tragedy” Ben prima della pubblicazione di Images and Words nel 1992, il singolare incontro fra il progressive ed il rock più ‘duro’ stava prendendo forma. Se è vero che grazie a quest’ultimo il progressive conobbe una seconda giovinezza, non dobbiamo pensare che esso fosse del tutto scomparso. Anche se offuscato commercialmente da tipi di musica più semplici ed immediati come il punk o il glam rock, il progressive ‘classico’ sopravvisse, con alti e bassi, anche negli anni Ottanta.16 Quel che accadde alla fine del decennio non fu dunque una totale resurrezione di qualcosa che era morto e sepolto, bensì una sua decisa trasformazione, del resto del tutto coerente con la natura stessa del progressive; una trasformazione niente affatto repentina, anzi graduale e, come visto, per certi aspetti già anticipata in alcuni lavori dei King Crimson. Sono convinto sia possibile trattare in maniera fruttuosa la nascita e l’evoluzione del progressive metal alla luce dei concetti nietzschiani di apollineo e dionisiaco. È infatti possibile associare il gioco di forze spirituali descritto ne La nascita della tragedia alla trasfigurazione dell’esplosione dionisiaca e caotica del metal nella forma serena e razionale del progressive. La centralità delle note gravi, e per giunta distorte, nella costruzione dei riff di chitarra, un uso della batteria ben più presente rispetto al rock classico, sono, ad esempio, alcuni fra gli indizi più evidenti di questo aspetto in senso ampio ‘dionisiaco’. Le note gravi – relegate al brutto musicale, sino alla loro rivalutazione romantica che si richiamava alla distinzione kantiana fra bello e sublime17 – sono di certo preponderanti nella struttura delle composizioni progressive metal, struttura sulla quale si stagliano poi le melodie vocali o gli assoli dei vari strumenti.18 16 17

18

Cfr. Marillion, Script for a Jester’s Tear, EMI, 1983. Pallas, IQ e Pendragon sono, assieme ai Marillion, fra i gruppi più significativi, per altro ancora in attività, del cosiddetto neoprogressive. “Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime, invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata per di più nella presentazione della totalità […]. Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo” (I. Kant, Critica del Giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 160 e 161). La maggior parte dei gruppi progressive metal – e, più in generale, metal – utilizza da anni chitarre baritone a 7 corde in si, o addirittura a 8 corde in fa#

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Mi limito ad osservare che se di apollineo e dionisiaco si può parlare in riferimento al progressive e al metal, ciò è possibile a patto che i due concetti vengano reinterpretati come simboleggianti tendenze strutturali della nostra esistenza legate alla specifica situazione sociale in cui essa mano a mano si realizza in concreto. La razionalità tipica del progressive è, per così dire, tesa a dar forma a ciò che, per sua natura, è informe, alla vitalità espressa nell’elemento più propriamente ‘metal’. L’aspetto logico, si potrebbe anche dire, deve necessariamente agire su una caoticità altrimenti ‘muta’, elaborandola in modo da farla diventare ‘eloquente’. I due aspetti, però, non trovano mai una conciliazione definitiva. Se, infatti, dopo l’iniziale incontro fra le due tendenze, si giunge a un loro equilibrio in forme standardizzate che, col passare del tempo, sono destinate a dar vita a semplici tentativi di imitazione,19 è pur vero che, attraverso il ritorno del nonespresso – l’opacità a se stessa della nostra esistenza, come pure tensioni sociali non sopite –, si può giungere allo sviluppo di forme sempre nuove. Il contatto con il non-espresso e il non-conciliato, nell’accezione appena precisata, è fonte di quel rinnovamento necessario a ogni forma espressiva che, altrimenti, finisce col cristallizzarsi in ideologia. Al contempo, vi è anche la necessità di forme storiche stabili e condivise, senza le quali la vita non sarebbe nemmeno in grado di esprimersi. L’assoluta originalità non è quasi mai, infatti, un segno incontestabile di qualità: la “‘autenticità’ dell’espressione soggettiva non esclude la creazione di kitsch, e sul percorso verso il proprio intimo non di rado vengono alla luce pure e semplici convenzioni”.20 Nel progressive metal verrebbero allora ricomposte quelle istanze che, per molto tempo, sono state invece separate e “cristallizzate in rigide branche”:21 da una parte l’ebbrezza orgiastica relegata all’arte inferiore, dall’altra la logicità tipica dell’arte superiore. Uno dei motivi dell’importanza del progressive metal rispetto ad altri generi musicali

19

20 21

dell’ottava inferiore al mi delle tradizionali chitarre a 6 corde, rendendo possibile un’estensione verso le tonalità basse altrimenti impensabile. È quanto è successo nel progressive metal degli ultimi anni, sia nei dischi dei gruppi più importanti, Dream Theater compresi, che in quelli degli epigoni. Non dischi brutti, anzi alcuni di ottimo livello, ma di certo dischi manieristici in cui si respira un buon lavoro di scuola. Sussistono tuttavia esempi di un certo rinnovamento in dischi come Haken, Aquarius, Laser’s Edge, 2010 o Kotebel, Concerto for Piano and Electric Ensemble, Musea, 2012. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 36. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 26. Si potrebbe poi discutere su quanto sia applicabile al progressive il duro e sarcastico giudizio adorniano su una “musica leggera” che “è tanto peggiore quanto più assume atteggiamenti pretenziosi” (Ivi, p. 27).

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popular è, quindi, la sua capacità di conferire una forma pienamente razionale a quegli aspetti caotici e quasi insondabili della nostra intima esistenza che, tuttavia, non vanno intesi come mera irrazionalità ‘naturale’, ma che possiedono già di per sé, in forma per così dire potenziale, la capacità di poter essere trasfigurati in un evento musicale. Soprattutto nel ritmo, l’elemento che lo lega maggiormente al rock ‘duro’ più tradizionale, il progressive metal offre l’esempio più eclatante di questa fusione. Sebbene le composizioni siano incalzanti, marziali, quasi martellanti, in esse predominano misure inusuali, spesso irregolari o composte, e una ricerca di strutture ritmiche ‘fratturate’ con frequenti cambi.22 Anche se molte melodie presenti nelle canzoni progressive, soprattutto per quel che riguarda le parti vocali, si avvicinano al ‘cantabile’ della musica leggera, è indubbio però che, soprattutto nelle composizioni prettamente strumentali o negli intermezzi non narrativi dei brani cantati, emergano elementi che allontanano tali canzoni dal gusto mainstream e che denunciano una decisa tendenza alla geometria formale. La ricchezza, l’ampiezza, la presenza di molti abbellimenti, la ricerca del contrappunto, fanno di questa musica un vero e proprio “caleidoscopio”23 sonoro. L’aspetto che lega il progressive metal dei Dream Theater alla musica degli anni Settanta è la ricerca di melodie costruite su scale diverse dalla semplice alternanza maggiore/minore o dalle classiche pentatoniche rock-blues. Ad emergere sono così un gusto etnico che si può notare, ad esempio, nell’uso della scala araba, oppure un’attenzione particolare a scale della tradizione classica poco usate nella musica rock, come la scala esatonica, o ancora una presenza di melodie modali. Già nel semplice materiale musicale è dunque evidente una certa resistenza che tale musica oppone al materiale sonoro ‘immediato’, alle canzoni di facile presa e di successo, resistenza che è stata spesso bollata dai fautori della semplicità a tutti i costi come “falsa coscienza”, come “incapacità di divertirsi”, come “falsità elitaria”.24 Ciò da cui deve restare 22

23 24

A differenza dei ritmi in 4/4 tipici del rock, del punk e del metal – la “marcia veloce […] come strumento di critica”– il progressive in generale, e quello proposto dai Dream Theater in particolare, presenta una struttura che “viene spezzata anche dal modo in cui viene sovvertita la regolarità delle durate delle frasi e della pulsazione ritmica solita delle canzoni popular” (R. Middleton, Studiare la popular music, cit., pp. 37 e 51). E. Hanslick, Il bello musicale, tr. it. di M. Donà, Minuziano, Milano 1945, p. 84. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 117-118. Riferendosi al progressive rock, Middleton afferma chiaramente che è “molto più difficile l’appropriazione di questa musica da parte dell’industria musicale. Eppure i riferimenti alla tradizione rock, specialmente dal punto di vista ritmico, bastano per fissare questa

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lontana una musica che mira a rimanere popolare senza scadere nel banale o nell’‘immediato’, è il pericolo del risentimento verso tipi di musica tradizionalmente considerati ‘alti’ o l’isteria di percepirsi, al contrario, come unica forma di musica popular ‘seria’. L’idea che un qualsiasi genere musicale possa configurarsi come l’unica ‘vera’ musica è del tutto estranea alla natura del progressive e ha a che fare esclusivamente con aspetti sociali di identificazione. Come già detto, quella dei Dream Theater non è una musica inquadrabile in un unico genere, ma un modo di fare musica al cui interno convive una molteplicità espressiva, emotiva e tecnica. Un altro aspetto non secondario è che il progressive metal rimette al centro l’idea che “la musica non si esaurisce nella prassi”.25 Non è un caso che nell’universo della popular music, anche sulla scia di un certo feticismo per l’accuratezza dell’esecuzione sul piano squisitamente tecnico, nessun genere più del progressive abbia prestato attenzione alle trascrizioni, alla musica ‘su carta’. È anche vero, però, che la musica proposta dai Dream Theater, pur conservando un rigore formale difficilmente reperibile in altre forme di rock, si tiene ben lontana dalla “reificazione”26 che la rigida aderenza alla partitura impone. Spesso, infatti, le loro canzoni vengono reinterpretate in versioni diverse durante le esibizioni dal vivo, in modo che la singola esecuzione non stravolga la composizione, ben studiata e pensata, ma la arricchisca e ne mostri le sempre aperte potenzialità. La critica più comune che viene mossa alla musica dei Dream Theater, e al progressive in generale, è di essere una musica ‘fredda’, troppo incentrata sulla mera tecnica fine a se stessa e non in grado di produrre reali emozioni nell’ascoltatore. Si potrebbe riformulare tale critica alla luce di una sorta di concezione agonistica della musica collegata all’elemento del virtuosismo tecnico. Alla luce di questa riformulazione, quella dei Dream Theater sarebbe allora una musica molto vicina allo sport, in cui conta la prestazione, la velocità, l’esecuzione prestante e ‘performante’ anziché l’espressione di emozioni.27 Una prima indicazione di percorso per rispondere a tale critica è offerta da una sommaria riflessione sulla differenza fra tecnica come sapere delle regole che presiedono necessariamente alla composizione e tecnica come pura e semplice manualità, come mero esercizio fisi-

25 26 27

musica nell’ambito di un pubblico ‘popular’” (R. Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 54). Tale capacità di restare popolare senza essere banale è di certo ascrivibile anche al progressive dei Dream Theater. C. Dahlhaus, L’estetica della musica, tr. it. di R Culeddu, Astrolabio, Roma 2009, p. 24. Cfr. R. Middleton, Studiare la popular music, cit., pp. 153-154. Cfr. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., pp. 15 e 41.

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co. Nessuna obiezione potrà poi scalfire il seguente argomento ‘minimale’, autoevidente: a parità di emozioni provate dal musicista, maggiori sono le sue conoscenze tecniche, meglio tali emozioni verranno espresse. Dalla parte del fruitore, poi, credo si possa dire che il sapere tecnico-analitico non cancella l’emozione, semmai la accresce.

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5. Oltre le solite interpretazioni – “Beyond This Life” Al lettore esperto potrà sembrare ovvio, ma prima di puntare l’attenzione su ciò che di specificamente musicale emerge dal progressive metal, è necessario decantarlo da ciò che non è, invece, strettamente musicale. La musica proposta dai Dream Theater, infatti, non è comprensibile come mero fenomeno giovanilistico,28 né tantomeno punta semplicemente a commuovere, a suscitare emozioni o a spingere verso il puro divertimento. A differenza della maggior parte del rock, inoltre, il loro progressive non si ricollega innanzitutto a un’attitudine o ad uno ‘stile di vita’ con il quale identificarsi, ma rivendica uno statuto di vera e propria forma d’arte.29 Sarebbe poi limitativo intenderlo come musica ‘a programma’ che nasce per accompagnare una rappresentazione o un contenuto concettuale, né quella dei Dream Theater è una musica destinata al ballo, il che non preclude che essa abbia un legame intrinseco con il movimento e la corporeità, ma non nel senso della mera espressione corporea che, a ben vedere, è impedita, più che favorita, da una struttura ritmica frammentata come quella dei brani della band statunitense. Non è, infine, una musica che serve a distrarre o che genera “comfort”30, giacché essa, anzi, non ha nulla di ‘comodo’ ed è, al contrario, il più delle volte disturbante. Per queste ragioni, il progressive metal dei Dream Theater pretende un’analisi che ponga al centro la spinosa questione del valore autonomo della musica in senso ampio popular, autonomia che, secondo i critici, sarebbe invece spesso rimpiazzata dall’assolvere “una semplice funzione socio-psicologica”.31

28

29 30 31

“‘Adolescenza’, ‘teenager’ e ‘gioventù’ sono concetti ideologici e non fasi naturali; questi concetti avevano significati diversi per gruppi diversi in specifiche collocazioni socio-strutturali, e anche le loro connessioni a particolari stili musicali funzionavano in modo differente” (R. Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 221). Cfr. Ivi, p. 339. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 20. Id., Sulla popular music, cit., p. 110.

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La dottrina barocca degli affetti, l’approccio classicista alle regole, l’estetica della sensibilità per la quale la musica sarebbe una voce della natura e non un’opera d’arte, la stessa estetica romantica del sublime e del meraviglioso, non sono paradigmi interpretativi che sappiano comprendere appieno ciò che viene espresso nel progressive metal dei Dream Theater. Ciò nondimeno, va detto che nella loro musica si respira qualcosa del tratto tipicamente romantico che intendeva ridimensionare la cultura borghese della sensibilità e del buon gusto: “alla semplicità veniva contrapposta la ‘bella confusione’ dell’artificio, a quanto è naturale quel che è meraviglioso”.32 È significativo, in tal senso, che la loro musica opti spesso per registri assimilabili all’epico, al grandioso e al solenne, tipici di certa musica classica.33 Spesso nella musica rock il giudizio su una composizione musicale si riduce al semplice “mi piace” o “non mi piace”, ovvero (anti-kantianamente, si potrebbe dire) a un mero giudizio di sensibilità,34 oppure verte su fattori per così dire ‘esterni’, come la funzione che una certa musica dovrebbe espletare. Il progressive metal dei Dream Theater, al contrario, non è funzionale a qualche attività, non è una musica che si lascia ascoltare. Può esistere, però, una musica popular – e che rimanga tale – completamente priva di finalità in senso ampio sociali? Mi limito a una semplice indicazione di percorso. Il progressive metal è, nelle sue manifestazione più significative, un tipo di espressione musicale che, per essere realmente compresa, esige un ascolto guidato da un giudizio cognitivo e non meramente sensibile. A una condizione: che in esso sia implicita la considerazione storico-sociale del tipo di musica realizzato e del materiale musicale utilizzato. Non esiste, infatti, un concetto definitivo di musica che derivi da ciò che essa è ‘in sé’, 32 33

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C. Dahlhaus, L’idea di musica assoluta, tr. it. di L. Dallapiccola, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 81. Non è un caso che il primo compositore classico al quale ha fatto riferimento il progressive rock sia stato Johann Sebastian Bach (un caso su tutti, Emerson, Lake & Palmer). Cfr. I. Alfano, Fra tradizione colta e popular music. Il caso del rock progressivo, Aracne, Roma 20102, pp. 35-42. Secondo Middleton la vicinanza del progressive al barocco non è affatto casuale, in quanto essi hanno in comune “formule ben precise” e “correlazioni sintattiche notevoli”(R. Middleton, Studiare la popular music, cit., pp. 54-55). Nel dire ‘anti-kantianamente’ faccio riferimento alla celeberrima distinzione fra piacevole e bello contenuta nell’Analitica del giudizio di gusto. Se “piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione”, il compiacimento del bello chiama in causa la dimensione cognitiva, in quanto “deve dipendere dalla riflessione su un oggetto, la quale conduce a qualche concetto (non importa quale); e si distingue perciò anche dal piacevole, che riposa interamente sulla sensazione” (I. Kant, Critica del Giudizio, cit., pp. 75 e 79).

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ma è possibile soltanto una riflessione che parta da una considerazione storica della soggettività in rapporto alla musica.35 Le composizioni dei Dream Theater adempiono, a mio giudizio meglio di altri tipi di musica popular, alle condizioni minime di bontà musicale. Esse sono innanzitutto musica ben composta e ben eseguita, che mira a superare il livello formale semplicemente modesto di molta musica popular; si tratta infatti di composizioni spesso caratterizzate dalla ricerca di melodie non banali o prevedibili, da strutture ritmiche inusuali e ricche di tempi irregolari, poliritmie, cambi di tempo e misura, nonché da una decisa tendenza alla strutturazione delle composizioni e, infine, dalla ricerca di una coerenza interna. Nel loro progressive metal non vi sarebbe pertanto una mera ‘contabilità’ compositiva, ma il tentativo di superare le elementari regole che caratterizzano la maggior parte della popular music attuale.36 Sebbene il punto fondamentale, di per sé, non sia la contrapposizione fra musica ‘semplice’ e ‘complessa’, e sebbene la complessità non sia sempre un valore in sé o un segno univoco di bontà musicale, è pur vero che la semplicità fine a se stessa è sempre sintomo di quella standardizzazione musicale che Adorno stigmatizzava con tanta forza perché essa non ammette la benché minima ricerca, col risultato che “il complicato [diventa] una distorsione parodistica del semplice”.37 Tali considerazioni sollevano però il problema del rapporto fra extramusicale e musicale. 6. Il progressive metal fra forma e contenuto – “Through Her Eyes” L’esempio che, nella fattispecie, ho scelto di esaminare più da vicino è, come detto, il brano progressive metal strumentale “The Dance of Eternity”, composizione in cui, a mio giudizio, i Dream Theater offrono uno degli esempi più riusciti di un paradigma che è stato più volte definito (pur in riferimento al repertorio classico ottocentesco) “musica assoluta”. Bisogna innanzitutto chiarire un possibile equivoco: ciò che renderebbe meno musicale la popular music rispetto alla musica strumentale ‘pura’ non è tanto l’uso della voce in quanto tale, ma l’insistenza sulle parti narrative a scapito di quelle più prettamente musicali, il che avviene non necessariamente ogni volta che entra in campo la voce, bensì, più precisamente, quando essa si fa veicolo di esigenze concettuali alle quali la 35 36 37

Cfr. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 55. Ivi, p. 66 n. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 75.

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musica è tenuta ad adeguarsi. Non è però il caso di Scenes from a Memory dei Dream Theater. In esso la strumentalità è quasi sempre preponderante rispetto alla storia narrata, che sparisce quasi dietro la musica – senza scomodare la tesi estrema di Eduard Hanslick sulla intercambiabilità dei testi38 – anche se, pure in questo disco, vi sono alcuni momenti in cui il narrativo sembra emergere eccessivamente, come in “Strange Deja Vu” o come nella prima parte di “Beyond this Life”.39 Comunemente, con “contenuto” della musica si intende qualcosa di opposto alla sua mera forma: ad esempio, l’aspetto testuale o anche, su un altro livello, quello emotivo. La vera musica sarebbe quindi quella che è in grado di accompagnare il messaggio poetico racchiuso nel testo, di per sé concettuale in senso forte, o quella che è in grado di esprimere o di descrivere al meglio emozioni e sentimenti. L’idea che vorremmo seguire è, al contrario, quella che pone al centro della musica ciò che è specifico di essa, ovvero la forma dei suoni in movimento. Il formalismo di Hanslick poneva la “forma interna” come vera ed unica essenza della musica. La forma non era concepita però come semplice serie di “effetti acustici isolati”, bensì come ciò che tiene assieme lo spirito, il processo compositivo e i suoni, nel senso che lo spirito umano si “plasma interiormente” su di un materiale sonoro capace di spirito.40 Tale concezione aveva tuttavia il grosso limite di dipendere da una metafisica di chiara eredità humboldtiana che smentiva il tentativo di Hanslick di emanciparsi dalla metafisica di Schopenhauer e dalla stessa dialettica hegeliana fra essenza ed apparenza.41 Una possibile via d’uscita dalle aporie del formalismo hanslickiano potrebbe essere quella di superare la rigida antitesi fra musicale ed extramusicale. In base a questa visione, così come non esisterebbe qualcosa di ‘in sé’ musicale metafisicamente scisso dalla soggettività, allo stesso modo non esisterebbe alcuna musica completamente priva di elementi extramusicali attivi come sua funzione e contenuto, poiché anche quella musica che si crede priva di funzioni ne possiede. Si chiamano da molto tempo, per esempio, utopia e affermazione, progetto di un mondo

38 39

40 41

Cfr. E. Hanslick, Il bello musicale, cit., p. 63. Cfr. Dream Theater, “Strange Deja Vu” e “Beyond this Life” in Scenes from a Memory, cit. Nella successiva e più recente produzione dei Dream Theater, l’aspetto narrativo ha poi preso spesso il sopravvento su quello più propriamente musicale, decretando così una sorta di scadimento nel livello delle composizioni. Cfr. E. Hanslick, Il bello musicale, cit., pp. 133 e 87. Cfr. C. Dahlhaus, L’idea di musica assoluta, cit., p. 122.

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alternativo e fuga in esso, “universo a sé stante”, isolamento e segregazione nei confronti della realtà, compresi i “fatti” da cui sorge la non-musica.42

L’idea che vi sia uno specifico musicale irriducibile al mero sentimento o al contenuto concettuale ‘forte’ della parola in generale non viene però scalfita in alcun modo da questa indicazione. Permane, infatti, l’esistenza di qualcosa di

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“intramusicale”, nel senso della logica (dell’immanenza) e dell’autonomia musicali, con riferimento a caratteristiche quali la concordanza, la coerenza, la concatenazione, ecc. Questi caratteri esistono indubbiamente e possono essere considerati persino come richieste fondamentali poste alla musica, riguardando la struttura, in sé significativa, della musica in quanto tale.43

Sentimenti, concetti, ideali socio-politici non sono pertanto extramusicali, bensì musicalmente ‘indifferenti’, anche se potenzialmente musicabili. La capacità che la musica esibisce di significare qualcosa, anche senza avere concetti nel senso stretto del termine, poggia sul sistema di norme che caratterizza ciascun periodo storico e che si concretizza in composizioni.44 La musica è quindi capace di significare in quanto concretizza delle norme ‘universali’, ma ogni singolo momento musicale, dal canto suo, nella sua esteticità ‘particolare’ è irriducibile alle regole, sebbene le presupponga. La musica deve essere pensata e fruita a partire da questa relazione inesauribile fra generalità e particolarità che dà vita all’effettiva concretizzazione storica la quale, a sua volta, esercita un’opera continua di trasformazione delle norme stesse.45 Una delle idee portanti di un possibile paradigma interpretativo che ponga al centro lo specifico musicale è l’esistenza, nelle varie composizioni musicali, di un significato aconcettuale o preconcettuale, in ogni caso difficilmente traducibile in parole o concetti.46 Rimane però la necessità di 42 43 44

45 46

C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 65. Ivi, p. 56. Cfr. il modello proposto da Richard Middleton in Studiare la popular music, cit., p. 246. Secondo Middleton, il tentativo della musica di collegare l’universale delle norme, prima logiche e poi storiche, ai momenti particolari della composizione si esprime in una sorta di ‘movimento’ progressivo e graduale dalla langue (la sintassi tonale occidentale) sino alle singole esecuzioni, passando per norme e sottonorme. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 76. Cfr. R. Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 335. La ragione di questa intraducibilità nel linguaggio verbale risiede per Middleton nel fatto che la musica non è solo conoscenza, ma anche piacere.

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evitare, al contempo, lo scivolamento in un simbolismo misticheggiante incentrato sull’incomunicabile o sull’inesprimibile come oggetto privilegiato della musica. Se è vero, infatti, che l’assolutamente individuale, il caotico irriducibile alla forma, permane in essa, è altrettanto vero che la musica, e quella strumentale in primis, non deve pensarsi come sua espressione immediata perché priva di un aggancio al testo concettualizzato. Il sistema formale delle norme musicali, necessario per la riconduzione del particolare al generale – sistema che è sì logico, ma innanzitutto storico47 –, non concede nulla a questa metafisica romantica del suono. Resta dunque l’esigenza di capire la musica al di là del mero bello musicale. E capire la musica, al pari di ogni ‘capire’ (ossia di ogni esercizio cognitivo), implica il concetto, ovvero la costruzione consapevole di nessi logico-funzionali fra le parti e il tutto, fra l’intero e i suoi elementi costitutivi. Ora, nella fruizione di una musica non così gradevole alla semplice sensibilità come quella dei Dream Theater è in gioco una cognitio sensitiva che non si spinge di certo a una determinazione prettamente concettuale, ma che rappresenta piuttosto una mediazione fra le esigenze del godimento estetico e quelle dell’analisi. Il progressive metal dei Dream Theater può dunque essere anche visto come una forma di arte non bella, in quanto non suscita semplicemente un piacere, ma, al contempo, cerca di tendere verso un significato che minerebbe in parte il presupposto latente dell’estetica tradizionale, secondo il quale appartiene alla natura dell’arte far trasfondere completamente i significati e le strutture logiche che ne stanno alla base in una dimensione fenomenologica; in tale ottica ciò che non si dimostra percettibile è, in quanto intenzione irrealizzata, esteticamente nullo.48

La struttura logica all’opera nella musica dei Dream Theater si manifesta invece nella percettibilità, ma senza sparire; in questo modo essa non è solo bella, ma esibisce anche un significato. La loro musica è quindi comprensibile come linguaggio, in quanto è capace di esprimere qualcosa, anche se non è inequivocabilmente chiaro cosa ‘dica’. Proprio in questa incapacità di rintracciare un contenuto specifico della musica risiede la sua 47

48

Non è mia intenzione intervenire sull’inveterata e irrisolta questione se vi sia o meno un fondamento ‘naturale’, nel senso della fisiologia, alla base delle più elementari norme musicali, come il prevalere degli intervalli di quarta e quinta. Sta di fatto, però, che, se vi fosse davvero un tale fondamento, esso non sarebbe comunque comprensibile a prescindere dalle sue concretizzazioni storico-culturali (cfr. ivi, pp. 350-360). C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., pp. 126-127.

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specificità e importanza. Tale ambiguità deriva dal fatto che essa non esprime un cosa, ma un come:

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La musica è senza concetti. Si basano su questo il suo potere e i suoi limiti. Nel suo potere essa riesce ad estendersi sull’intera esistenza umana, in tutte le sue occupazioni e i suoi materiali reperibili. E nei suoi limiti è utilizzabile, funzionale in ogni direzione, e le si possono attribuire le funzioni più disparate. La domanda “che cos’è la musica?” è, alla luce dell’insistenza con cui essa viene posta fin dai tempi antichi, di natura eccezionale. Questa domanda costituisce ancora oggi la reazione a un vuoto che ci inquieta.49

L’essenziale nella domanda “cos’è la musica?” non mira a un significato, ma presuppone un senso, là dove per ‘significato’ s’intende qui l’indicazione reificante di un concetto (la risposta oggettiva a una domanda) mentre per ‘senso’ s’intende la pre-condizione problematica del sorgere di una domanda che investe non tanto un oggetto specifico, quanto noi stessi perché in grado di porre tale domanda. Perché ce la poniamo? A cosa mira? Il fatto che la musica sia ancora più ‘musicale’ quando è, in qualche modo, vuota, indica che questa vuotezza sui generis è un suo tratto essenziale. Ciò che sussiste nella musica non è propriamente un qualcosa, anche se, costretti dalla nostra stessa natura a ricorrere a qualche tipo di concettualità, non possiamo non pensarlo come un qualcosa di oggettuale. A tale conclusione, a ben vedere, mira la celeberrima frase di Frank Zappa: “L’informazione non è conoscenza / la conoscenza non è saggezza / la saggezza non è verità / la verità non è bellezza / la bellezza non è amore / l’amore non è musica / la musica è IL MEGLIO”.50 Essa esprime esattamente questo: che certo la musica ha una qualche oggettività percettiva, che in essa possono essere veicolati messaggi, che può adempiere a una funzione sociale, ma che, nella sua più intima essenza, essa non è un qualcosa, bensì un come. L’idea, forse ambiziosa, che mi sento di seguire è che la musica sia la migliore forma espressiva in cui si estrinseca la nostra esistenza, soprattutto nel modo in cui essa sussiste in quanto tempo, forma e movimento.

49 50

Ivi, p. 147 (corsivo mio). “Information is not knowledge / Knowledge is not wisdom / Wisdom is not truth / Truth is not beauty / Beauty is not love / Love is not music / Music is THE BEST” (F. Zappa, “Packard Goose”, in Joe’s Garage. Act III, Zappa Records, 1979).

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7. Emozione e Natura – “Home” Uno degli aspetti più rilevanti del progressive metal dei Dream Theater è che esso offre un paradigma di musica del quale è molto difficile immaginare l’emozione come tratto essenziale. Al di là di ciò che il singolo compositore prova mentre scrive o suona – situazione molto simile a ciò che, in epistemologia, s’intende per “contesto della scoperta” – se nella musica è rintracciabile un’emozione, essa è, infatti, già matematizzata, cioè organizzata in una logica, in un sistema di norme che ben poco hanno a che fare con il sentire nudo e crudo. Abbiamo già visto quanto sia sterile intendere l’emozione come vero contenuto e il sistema di norme come mera forma che riveste questo contenuto. Il fatto che il compositore voglia quindi intenzionalmente o meno esprimere tristezza, rabbia, nostalgia, o che l’ascolto sia accompagnato da tali emozioni, costituisce un aspetto per certi versi importante che rivela qualcosa, ma che comunque non è l’essenziale. Sarebbe però un errore pensare che il formalismo estetico classico neghi per principio l’esistenza del carattere emotivo della musica. Lo stesso Hanslick riconosce che il movimento melodico o armonico della musica è analogo alla dinamica delle emozioni. I sentimenti sono infatti caratterizzati da tensione e risoluzione, forme che ricordano quelle della musica. Il problema vero e proprio non è il riconoscimento dell’esistenza o meno di tratti emotivi nella musica, quanto la loro determinatezza o indeterminatezza. Il problema è quindi la psicologizzazione forzata dell’interiorità che si esprime nella presunta esteriorità musicale. Non è l’emozione che fonda la forma: nel momento in cui, infatti, essa viene espressa in quanto suono, viene, per così dire, superata in quanto emozione. Appare altresì problematico ricondurre l’aspetto emozionale e quello logico della musica ad una presunta vicinanza alla natura. Certo, ha senso parlare di emozione radicata nella natura umana – chi potrebbe disconoscerlo – ma ben più problematico sarebbe intendere in questo senso l’aspetto matematico intrinseco nella natura del suono. Se così fosse, infatti, si eliminerebbe la differenza fra semplice suono e musica. La stessa tendenza ‘dionisiaca’ che abbiamo visto all’opera nel progressive metal non è semplicemente naturale, ma è trasfigurata dalla logicità propria della musica. Ciò che trasforma il suono ‘grezzo’, nella sua riducibilità a puri parametri fisici, in qualcosa di propriamente musicale, è il graduale processo storico di razionalizzazione dei suoni nel sistema tonale occidentale. Il fatto che in altre culture musicali tale sistema non sia presente, o abbia conformazioni

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ben diverse con le quali è auspicabile confrontarsi, è una conferma della sostanziale a-naturalità della musica.51 È anche per questo motivo che un’esperienza estetica basata sul mero gusto non è mai priva di presupposti come vorrebbero, al contrario, i difensori dell’ingenuità e della spontaneità espressiva. L’immediatezza musicale è, infatti, sempre mediata dal concetto, dalla storia: un’esperienza estetica che colga soltanto il bello in maniera immediata è una pura astrazione. A chi accusa la musica proposta dai Dream Theater di essere ‘fredda’ e poco emozionale, si potrebbe obiettare che l’esperienza estetica non è in sé naturale, ma è sempre gravida di presupposti e che l’immediatezza è solo un “alibi per l’ottusità”.52 Nell’esperienza estetica è in gioco un costante andirivieni fra contemplazione e riflessione, dall’interazione delle quali dipende la comprensione di un pezzo musicale. Gli aspetti intellettuali non sono dunque per nulla superflui, ma sono già sempre impliciti nella percezione estetica: “la vera immediatezza non è la prima (il paradiso perduto, che tale non era) ma la seconda, mediata dalla riflessione”.53 Se tutto ciò che abbiamo sinora detto è calzante a proposito della musica proposta dai Dream Theater, allora possiamo dire che in essa risultano minimizzate, o perlomeno vengono rese meno invadenti, quelle caratteristiche di controllo, disciplina e ottundimento della forza utopica dell’arte che Adorno ascrive a quella musica leggera che, nell’illusione della sua naturalità, promette una facile gioia e letizia.54 Appare anche problematico parlare del progressive metal dei Dream Theater come esempio di una musica che sia semplicemente stimolante. La convinzione di Adorno è che, se da una parte ogni canzone deve catturare l’ascoltatore con stimoli apparentemente nuovi, dall’altra deve paradossalmente andare sul sicuro, proponendo un linguaggio standardizzato che sia avvertito come “naturale”.55 Quella che Adorno chiama “pseudoindividualizzazione”, che ha il duplice scopo di far sentire sempre al sicuro l’ascoltatore e di dargli l’illusione di essere di fronte a un’opera d’arte unica nata dall’individualità del genio di turno, è davvero all’opera nel progressive metal come tendenza dominante ed esclusiva? A mio giudizio non è così e spero che le motivazioni di questa risposta negativa emergeranno chiaramente nel prossimo paragrafo, nel quale tenterò un’analisi di “The Dance of Eternity”. 51 52 53 54 55

Cfr. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 28. C. Dahlhaus, L’estetica della musica, cit., p. 113. Ivi, p. 130. Cfr. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., pp. 54-57. Cfr. Id., Sulla popular music, cit., pp. 78-79.

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Ma già se prestiamo ascolto, ad esempio, a “Erotomania”, un’altra composizione strumentale dei Dream Theater, ci accorgiamo di quanto sia difficile parlare di pseudo-individualizzazione o, a dispetto del titolo del brano, di musica semplicemente ‘stimolante’. Vi è, certo, un riff di riferimento, ma definirlo standard è problematico. Più che le scale, dominano infatti i cromatismi, la scansione temporale è inusuale, essendo contrassegnata dal passaggio dal 5/4 al 9/8 e poi, in chiusura, al 3/4. La stessa progressione degli accordi su cui si inserisce il primo assolo, giocato anch’esso su cromatismi,56 è ben lontana dal rock, e vi si può riconoscere, piuttosto, un certo gusto jazz. La presenza di molti accordi di sostenuta ci impedisce di fissare la tonalità. In ogni caso il pericolo di una standardizzazione è evitato dal modo in cui questa impronta jazz viene stravolta dalla fusione con elementi ad essa estranei. Dopo un serrato riff che si muove intorno alla tonalità di Sol# minore, la sezione centrale è caratterizzata da un’atmosfera decisamente più ‘cantabile’ che sfocia in un assolo di chitarra che anticipa la melodia vocale e la progressione di accordi del brano successivo, intitolato “The Silent Man”.57 Quando sembra che il tema iniziale giocato sui cromatismi discendenti debba semplicemente ritornare per concludere il pezzo, l’atmosfera improvvisamente cambia, orientandosi verso sonorità che potremmo definire neoclassiche. L’assolo di chitarra finale si muove infatti su una melodia ampia e ariosa, sostenuta da una successione di accordi più riconoscibile.58 Se di qualche stimolo si può parlare in questo cangiante caleidoscopio di note in perenne movimento fra generi, esso è diretto certamente più alla nostra capacità di analisi che alle nostre semplici pulsioni ed emozioni. Per Adorno, la musica leggera sarebbe ideologica perché offrirebbe l’illusione di restituire all’uomo una parte della sua libera corporeità, in quanto “le funzioni corporee riprodotte dal ritmo sono esse stesse, nella rigidità meccanica della loro ripetizione, identiche a quelle dei processi di produzione che hanno spogliato l’individuo di quelle funzioni corporee”.59 56 57

58 59

Dream Theater, “Erotomania”, in Awake, Atlantic Records, 1994, 1’ 41’’ – 1’ 57’’. “Erotomania”, assieme alle due tracce successive, “Voices” e “The Silent Man”, costituisce, infatti, una sorta di suite divisa in tre parti intitolata “A Mind Beside Itself”. Le singole canzoni risultano collegate fra loro sia concettualmente che dal punto di vista musicale e offrono un significativo saggio della capacità dei Dream Theater di fornire rimandi interni alle loro composizioni, senza per questo operare delle semplici ripetizioni. Lo stesso accenno alla melodia di “The Silent Man” presente in “Erotomania” non anticipa semplicemente, ma piuttosto suggerisce, allude. Dream Theater, “Erotomania”, cit., 4’ 40’’ – 5’ 20’’. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 64.

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A tal proposito, Middleton distingue la ripetizione “musematica” da quella “discorsiva”: la prima basata sul riff ostinato, la seconda su frasi più lunghe ed articolate. La musica rock non è tutta dominata dalla rigida ripetizione di riff semplici e brevi, bensì, soprattutto nel progressive, dalla “sequenza”, assieme ripetitiva e non-ripetitiva, in cui

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l’unità di ripetizione è integrata in un’unità più ampia di flusso “narrativo” o di simmetria testuale […]. La sequenza compone il tempo (invece di segnarlo o cancellarlo, come sembra fare la pura ripetizione, specialmente se musematica) […], introduce una direzionalità teleologica nell’ontologia della ripetizione.60

Da quanto appena detto, e da quanto dirò nel successivo paragrafo, appare chiaramente che la musica proposta dai Dream Theater non esprime una mera accettazione di ciò che è considerato naturale, ma è più vicina a un contro-movimento opposto al banale e al ripetitivo. Tale movimento è in grado di superare quanto c’è di caotico in noi, facendolo approdare all’espressione. Ciò che emerge dalla loro musica è che persino la nostra corporeità è storica: il nostro corpo sta, per così dire, già sempre ‘là fuori’ senza riflettere necessariamente un ‘dentro’. Esso è mediato da un sistema logico comune e storicamente sedimentato che dà forma ad una presunta ‘natura’ o ad una ‘interiorità’. 8. “The Dance of Eternity / One Last Time” 8.1. Irruzione (– 0’ 43’’). Il profondo power chord61 di Re5 che apre “The Dance of Eternity” non è un vero e proprio inizio. Innanzitutto perché esso si ricollega, senza soluzione di continuità, alla canzone precedente intitolata “Home”. Al di là di questa ragione narrativa, possiamo intendere questo ‘inizio mancato’ come inevitabile. Infatti, in maniera ancor più chiara che nelle canzoni precedenti, “The Dance of Eternity” si propone di continuare quanto già espresso nella canzone “Metropolis pt. 1”, della quale, già dopo 60 61

Cfr. R. Middleton, Studiare la popular music, cit., pp. 366-368. Per power chord si intende l’accordo suonato sulla chitarra elettrica distorta, quasi sempre sulle note gravi, spesso utilizzando il palm muting, ovvero poggiando il palmo della mano destra sulle corde vicino al ponte per dare un effetto di maggiore cupezza. La caratteristica del power chord è di essere una sovrapposizione di note (a rigore, neanche un accordo costruito per terze) estremamente semplificata, essendo composta solo dalla tonica, dalla quinta e dall’ottava. Ad esempio, un power chord di Mi, indicato negli spartiti con Mi5, è costituito dalle note mi, si e mi dell’ottava superiore.

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pochi secondi, si odono in sottofondo alcuni passaggi riproposti al contrario. È dunque chiaro che, più che di un inizio, si debba parlare di un ritorno al passato. Per comprendere meglio di che tipo di ‘regressione’62 si tratti, devo dire qualcosa sull’aspetto testuale del disco. Scenes from a Memory narra la storia di Nicholas, un giovane che, tormentato da incomprensibili vissuti a cavallo fra sogno e realtà, decide di rivolgersi a uno psicanalista. Grazie all’ipnosi scopre di essere la reincarnazione di Victoria Page, una ragazza uccisa nel 1928 dal suo amante, Julian Baynes, da tempo dedito all’alcol e alla droga. Nicholas intraprende in prima persona nuove indagini e riesce a scoprire che, in realtà, la ragazza è stata uccisa dal senatore Edward “The Miracle” Baynes, fratello di Julian “The Sleeper”,63 e capisce finalmente che Victoria aveva tormentato i suoi sogni affinché scoprisse la verità. Più che dal semplice plot letterario, questo legame fra passato e presente è espresso soprattutto dal modo in cui si sviluppa musicalmente il disco in toto e, in particolare, “The Dance of Eternity”. Prima che la composizione si dipani nel suo presente, essa è infatti immersa in un passato che la precede, in un contesto che le permette di svilupparsi, che ne indirizza le possibilità e al quale deve riferirsi. Da questa sorta di ‘mondo’ emerge infatti la seguente melodia:

62 63

La prima traccia di Scenes from a Memory reca, infatti, il titolo “Regression”. In essa assistiamo alla seduta d’ipnosi alla quale si sottopone Nicholas all’inizio del suo viaggio all’indietro. Ricordo che “Metropolis pt. 1” recava come sottotitolo proprio “The Miracle and the Sleeper”.

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Nelle prime tre battute, il saliscendi melodico si muove sul modo frigio, anche se la terza minore, il sib, compare solo quando l’accordo sottostante è diverso dalla tonica di partenza (sul Lab e Fa) ed il sesto grado, il mib, non è presente. Nonostante l’armatura di chiave lasci intendere che la tonalità sia in Mib maggiore, è però difficile decidere se essa lo sia effettivamente. La tonalità rimane, per così dire, sospesa; l’indecisione nel sesto grado prepara il passaggio armonico discendente in Mi nella terza battuta (e non in Mib come la scala avrebbe previsto). Nella quarta battuta, poi, il modo frigio lascia spazio a scale esatoniche discendenti. Sebbene la linea melodica delle battute quinta, sesta e settima ricalchi quella delle prime tre, essa viene doppiata sull’ottava superiore e la batteria sottostante segue un proprio percorso autonomo, preparando l’ingresso del riff nella sezione successiva. Nell’ultima battuta assistiamo a un ulteriore cambiamento della melodia giocata su una scala octofonica. La sequenza è dunque costruita da una successione ‘modulare’ di note giocate sul modo frigio: il gruppo sol-lab-do-re, nelle diverse ottave, sostenuto dai power chord in Sol5 e Mi5 e, nella seconda parte delle battute, la linea discendente dal do al lab dell’ottava sottostante, sostenuta dal Lab5, dal Fa5 e, infine, sempre dal Mi5. A spezzare questa apparente meccanicità della composizione interviene il costante cambio di misura che, mano a mano, diventa più stringente: dall’iniziale 4/4 si passa, per successiva e graduale sottrazione, al 7/8 e al 3/4. L’altro elemento che significativamente spezza questa contabilità è l’innesto, nella quarta e ottava battuta, delle scale esatoniche e octofoniche. L’irruzione di questa melodia dal proprio contesto ‘storico’ esprime dunque un’individualità che si muove costantemente fra identità e differenza, fra universale e particolare e che – questo sembrano dirci i Dream Theater – col passare del tempo e con la sottrazione graduale di esso, non risolve se stessa. 8.2. Sviluppo (0’ 44’’ – 2’ 32’’). Con l’inversione dei ruoli fra chitarra e tastiera – ora la prima disegna il riff, mentre la seconda intona gli accordi di sottofondo – lo sviluppo della melodia porta al riff principale (che, per pura semplicità, chiamo Sequenza 1) giocato su misure in progressivo accorciamento e sul modo frigio, stavolta non soltanto su accordi di Sol ma anche di Mi, con brevi passaggi su accordi sostenuti di Do e Do# in cui viene ancora evitata una precisa tonalità. Per alcune battute la misura raddoppia, passando da ottavi a sedicesimi, e la melodia di chitarra sviluppa il riff principale, muovendosi sul modo frigio in cui è finalmente espressa la terza minore e anche una quinta diminuita dal deciso sapore cromatico (Sequenza 2). La melodia iniziale eseguita dalla tastiera ritorna, stavolta in una

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tonalità più bassa (Re) sempre appoggiata sui power chords di chitarra. Un breve intermezzo pianistico in 5/4, con un’accentazione davvero singolare, prepara il ritorno della Sequenza 2 che si muove però su misure inedite (17/16 – 15/16 – 13/16). L’intreccio prosegue: le veloci scale esatoniche discendenti disegnate dal pianoforte vengono interrotte dal basso che per la prima volta emerge in primo piano. Il breve passaggio ‘slappato’, subito ripetuto dalla tastiera, è una chiara citazione di “Metropolis pt. 1”.64 Da questo momento i rimandi al pezzo del 1992 diventano lampanti, anche se la composizione si muove costantemente fra l’universalità del ‘mondo’ di riferimento e la sua propria irriducibile individualità. Anzi, “The Dance of Eternity” reinventa il proprio passato in modo nuovo ed originale. Il citazionismo (in questo caso, l’auto-citazionismo) è, come già visto, molto presente nelle composizioni dei Dream Theater. Tale tecnica potrebbe far pensare a una focalizzazione “su [un] processo di formazione dell’abitudine”65 che riduce il genuino ascolto musicale a un mero riconoscimento. Ma, in questo caso, siamo di fronte a elementi riconoscibili che si integrano con altri inediti. In questo caso, cioè, il riconoscimento non esclude la novità musicale e diventa un mezzo, piuttosto che un fine. La ripresa di una melodia e la sua diversa esplicazione secondo le possibilità musicali ci dicono, infatti, che il tempo musicale non è quello della ‘semplice presenza’ in cui le cose stanno semplicemente l’una accanto all’altra, ma quello di un presente dilatato in relazione di senso con il passato ed il futuro. La melodia rimanda al simile e, allo stesso tempo, al dissimile, continuità e discontinuità sono interconnesse. Il ritorno è, in questo caso, una relazione a un passato lontano che si presenta sotto forme nuove o attraverso varianti che non interferiscono o si confondono, ma si condizionano e si supportano a vicenda. Gli improvvisi salti, forse il tratto caratteristico del geometrismo di “The Dance of Eternity”, spezzano sì il continuum, ma allo stesso tempo lo presuppongono. I due motivi non stanno l’uno accanto all’altro, è attraverso la variante che il passato ritorna e il futuro viene prefigurato. A tal proposito, si potrebbero citare le seguenti parole di Carl Dahlhaus: In generale, la sussistenza di una relazione è più sorprendente del suo contenuto. Ciò che è ricordato, evocato e riportato di nuovo alla coscienza è lo64

65

Cfr. Dream Theater, “The Dance of Eternity”, cit., 1’ 27’’ – 1’ 29’’. In “Metropolis pt. 1” questo passaggio in 6/8, ripetuto ora dal basso, poi dalla chitarra o dalla tastiera, in funzione ritmica o solistica, era alla base di un’intera sezione strumentale (Id., “Metropolis pt. 1”, cit., 6’ 20’’ – 7’ 00’’). T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 95.

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calizzato nel presente, ma porta allo stesso tempo il colore del passato da cui proviene. I tempi sono accavallati.66

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Dopo una sezione molto dinamica in cui domina il contrappunto fra chitarra e tastiera (1’ 29’’ – 1’ 44’’) il movimento sembra arrestarsi sulla ripetizione martellante del si. Anche in questo caso parlare di semplice ripetizione meccanica è molto difficile, non tanto perché le misure sono inconsuete (un 11/4 che solo nell’ultima battuta prima dell’assolo si accorcia in un 9/4), ma soprattutto per il modo in cui è mosso il ritmo di una semplice e unica nota. L’assolo successivo, un unisono fra chitarra e tastiera giocato su arpeggi discendenti, che sfocia poi in un riff su note più basse, segna il passaggio graduale alla sezione successiva. Nella seconda parte, infatti, il basso e la tastiera anticipano ciò che avverrà di lì a poco. 8.3. Ritorno (2’ 33’’ – 2’ 46’’). L’intermezzo pianistico in stile ragtime, inserito per esigenze narrative,67 rivela qual è l’atteggiamento dei Dream Theater, e forse più in generale dell’intero progressive, nei confronti del passato e della tradizione musicale. Verso di essa non vi è, infatti, un rapporto semplicemente spettatoriale o riproduttivo. Il musicista progressive non cerca la purezza filologica e non è mosso da un interesse “antiquario” o “monumentale” (per utilizzare due celebri categorie coniate da Nietzsche nella seconda delle sue Considerazioni inattuali), ma utilizza il vecchio reinventandolo e fondendolo con il nuovo. La sequenza armonica è certamente quella standard, anche se sostenuta dalla chitarra distorta, ma la melodia viene arricchita da abbellimenti virtuosistici e il lavoro della batteria è tipicamente metal. Questa breve sezione sembra rispondere alla critica adorniana alla musica leggera: Il rapporto della musica superiore con le sue forme storiche è dialettico. […] La musica leggera invece usa le forme come vasi vuoti in cui la materia viene compressa senza interazione fra sé e le forme. Priva di relazioni con queste, la materia intristisce e in pari tempo smentisce le forme che non organizzano più nulla in sede compositiva.68

66 67 68

C. Dahlhaus, L’estetica della musica, cit., p. 118. Così come Nicholas, attraverso l’ipnosi, torna alla sua vita precedente nel 1928, allo stesso modo la musica gioca con il citazionismo ‘filologico’. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., pp. 32-33 (tr. it. leggermente modificata).

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8.4. Ripartenza (2’ 47’’ – 3’ 06’’). Bisogna tornare indietro per proseguire, questo sembrano dirci i Dream Theater attraverso la loro musica. Infatti, da questo momento in poi, dopo l’intermezzo in ragtime, “The Dance of Eternity” esprime, nella forma più compiuta, l’essenza geometrica della musica, fatta di intrecci, sviluppi, rapporti, note che si inseguono in un magniloquente ed energico gioco di suoni, nell’incontro più perfetto fra logicità e caoticità: “uno sviluppo continuamente vario […] con dolci trapassi e netti contrasti, sempre coerente e pur nuova, in sé conclusa e a se stessa bastante”.69 In un primo momento la struttura si semplifica: la misura resta su un 4/4, i power chords di sottofondo si muovono su una tonalità ben definita (un Do maggiore), anche la melodia si assesta su un modo frigio di Mi perfettamente coerente con la tonalità, non vi sono alterazioni di scala. Chitarra e tastiera proseguono all’unisono, soltanto verso la fine i due strumenti si divaricano dando origine ad un breve contrappunto. Quanto emerge dunque in questa sezione è un altro aspetto fondamentale della composizione tipico dei Dream Theater: la capacità di disegnare continui saliscendi virtuosistici in cui emergono gli aspetti più concilianti del progressive metal, un’apparente serenità non inserita, per il momento, in un contesto ritmico ‘problematico’. Questo passaggio a un tempo – per così dire – ricreato dalla musica avviene gradualmente. 8.5. Tensione (3’ 07’’ – 4’ 21’’). L’assolo di basso – che rimanda, reinventandolo, a quello presente in “Metropolis pt. 1”70 – apre ad una sezione in cui, dopo tanta ‘fatica’, emerge la tensione e l’apertura di una melodia appoggiata su misure per lo più stabili sul 4/4 (la presenza di battute consecutive in 3/4 e 5/4 segna però un cambio di accenti). In virtù del rapporto al proprio passato non semplicemente ricordato, ma reinventato, “The Dance of Eternity” si apre ora verso il futuro: le citazioni da “Metropolis pt. 1” o le parti filologiche lasciano il posto alla pura forma in movimento tesa verso le sue stesse possibilità. Anche in questo caso la tonalità si assesta su un Do maggiore, la chitarra e il basso tracciano all’unisono un serrato riff su un modo frigio in Mi, mentre la tastiera, come per gran parte della sezione, armonizza la melodia restando sulla scala maggiore di Do. Una brevissima variazione del precedente riff, in cui la sola chitarra ripete la melodia sull’ottava superiore, introduce una parte ritmicamente più omogenea costituita esclusivamente da semicrome senza alcuna pausa. La tastiera disegna una spigolosa melodia indipendente dal fitto intreccio 69 70

E. Hanslick, Il bello musicale, cit., p. 84. Dream Theater, “Metropolis pt. 1”, cit., 5’ 35’’ – 5’ 46’’.

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tessuto dalla chitarra che si muove prima sul Mi frigio, poi, con un salto di quarta abbastanza standard, sul La frigio. L’intricata serie di note in costante ascesa esplode in una sezione vorticosa, anche se breve, in cui dominano le fratture impresse allo sviluppo del ritmo, sino a quando una rapida scala ascendente in Mi frigio porta ad un momento di relativa calma. 8.6. Distensione (4’ 22’’ – 5’ 12’’) Sebbene i battiti per minuto scendano significativamente – dall’Allegro dei due minuti precedenti si passa ad un Andante a 102 bpm – bisogna attendere ancora qualche battuta affinché il martellante incedere degli strumenti lasci il posto a una sezione in cui dominano ritmi più ampi. La melodia iniziale sul modo frigio in Sol, a suo tempo eseguita dalla tastiera nella parte qui chiamata Irruzione, torna nella medesima tonalità scandita da identiche misure e da identici battiti (124 bpm), ma stavolta eseguita dalla chitarra sostenuta da accordi di tastiera in sottofondo. Se però la ascoltiamo più attentamente, ci accorgiamo che questa non è la semplice riproduzione della prima, bensì un suo sviluppo, un originale progresso delle sue possibilità: l’inizio è identico (la prima battuta in 4/4, la seconda in 7/8 e la terza in 3/4), ma nella quarta battuta la melodia diventa più distesa rispetto all’inizio, essendo giocata sempre su una scala esatonica discendente anche se meno stretta e nervosa. Le prime due battute vengono poi ripetute, ma dalla terza in poi essa prende una nuova direzione. La misura (15/8 o 9/8 seguiti da 6/8, con un conseguente cambio di accenti) diventa eccedente; la melodia, che parte dalla medesima nota, si snoda stavolta lungo un modo misolidio di Sol o un eolio di La, coerenti con la tonalità tornata in Do maggiore, intervallati però a scale esatoniche e a cromatismi. I cromatismi dominano anche la breve sequenza successiva, caratterizzata da un’inconsueta linea di basso (mi-fa-re-do#-la) modulata su misure di 9/8 (per le prime tre battute) e di 8/8 per l’ultima. La chitarra e la tastiera disegnano all’unisono la melodia, sviluppo della precedente, su una scala di Mi maggiore ‘colorata’ dalla quinta diminuita ed aumentata e dalla settima minore per quel che riguarda le prime tre battute chiuse da una octofonica che parte dal do#, il VI grado in qualche modo ‘soppresso’ dai cromatismi. Nelle ultime battute la tastiera armonizza di una quarta verso il basso la melodia e la batteria prepara la sezione successiva. 8.7. Crescendo finale (5’ 13’’ – 6’ 14’’) La parte finale di “The Dance of Eternity” è caratterizzata da un crescendo progressivo, in base a una graduale complicazione della parte precedente attraverso i costanti cambi di misura e di accentazione su cui si dipana la melodia precedente eseguita

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all’unisono da chitarra e basso. L’intervento della tastiera e infine della batteria chiudono questo primo sviluppo che apre il crescendo. Dal minuto 5’ 43’’, più o meno sulla stessa melodia costruita sulla maggiore con la quinta diminuita alternata a scale octofoniche, assistiamo a un rapido spostamento su tonalità di Mi, La, Do e Fa#. La serrata concatenazione di note sfocia in un Andante più ampio su cui si appoggia una melodia vicina al cantabile sorretta da una progressione di accordi che ruota intorno a una chiara tonalità di Si maggiore e che anticipa il motivo successivo: “One Last Time”, una composizione più classica costruita su una struttura strofa-ritornello, una tipica ballad. Al contrario del pezzo che la precede, “One Last Time” è più simile ad una canzone ‘leggera’ giocata su di una dolce melodia cantabile. Passata la tempesta sonora di “The Dance of Eternity”, possiamo riflettere su quanto successo. È indubbio che l’elemento centrale dei circa sei minuti della composizione appena presentata sia il ritmo rapportato al tempo. Che la musica sia qualcosa che si svolge nel tempo è un’ovvietà. Nel tempo musicale vi è però, innanzitutto, un aspetto spaziale al quale abbiamo accennato parlando di una tendenza geometrizzante nella musica dei Dream Theater. I numerosi paragoni fra musica e architettura rispondono, infatti, alla natura stessa della musica, fatta di movimenti e sezioni che hanno una loro particolare oggettività spaziale: “Nulla sarebbe più errato che vedere nella tendenza alla spazializzazione una distorsione della natura della musica”.71 Non c’è ragione di vedere il tempo spazializzato come contrapposto al tempo vissuto proprio della nostra esperienza vitale. In musica “entrambi gli aspetti, temps espace e temps durée, sono operanti […], sotto forma, rispettivamente, di tempo e moto”.72 Questo tempo spazializzato non è dunque qualcosa di meramente soggettivo o oggettivo. Non vi sono infatti degli oggetti ideali atemporali del tutto indipendenti dalle singole concretizzazioni temporali (le singole melodie, ad esempio). Tale idealità della struttura è forse comprensibile piuttosto come sistema storico di regole che fungono da criterio. Senza ricadere in una forma di spiritualismo per la quale il tempo vissuto sarebbe del tutto alieno dal tempo matematico-geometrico, mi sento infatti di seguire la storicità del sistema di riferimento, piuttosto che la sua idealità, e di definire provvisoriamente la natura del tempo della musica mettendola in rapporto con la nozione di forma: la musica è tempo organizzato da forme, da strutture sonore in movimento. 71 72

C. Dahlhaus, L’estetica della musica, cit., p. 23. Cfr, E. Hanslick, Il bello musicale, cit., p. 108. C. Dahlhaus, L’estetica della musica, cit., p. 115.

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L’intero sviluppo di “The Dance of Eternity” mette chiaramente in evidenza i vari modi in cui la musica organizza il tempo. Mi servirò di quello che Hans Heinrich Eggebrecht chiama “tempo ‘composto’”,73 concetto secondo il quale la musica non è semplicemente nel tempo, ma è in qualche modo il tempo in base alla forma di cui è fatta. Il suono non solo necessita di tempo, ma “è esso stesso il risuonare del tempo”74 in base a movimenti tipici come il comporre, l’ordinare, lo scompigliare, l’articolare, lo stratificare, il proporzionare e il distruggere per ricomporre. Sono tutti movimenti che abbiamo visto all’opera in “The Dance of Eternity”, vero e proprio paradigma di questo modo di concepire la musica. La struttura ritmica del brano in questione evidenzia quanto l’uso delle misure e del ritmo nel progressive metal dei Dream Theater sia distante dalla sentenza adorniana sul tipo di ascoltatore “ritmicamente obbediente”.75 È difficile, ad esempio, interpretare lo sviluppo dell’ultima parte del brano come dominato semplicemente dal beat incessante, da quella sottostante unità di tempo che preluderebbe necessariamente all’obbedienza, ovvero a seguire determinati modelli ritmici senza farsi disturbare dai cambiamenti “individualizzanti”. Come si è visto, l’individualizzazione, il tentativo di conferire a ogni singolo passaggio il suo valore senza imbrigliarlo in una struttura standard ‘preconfezionata’, è ben presente nella composizione dei Dream Theater. Sebbene in questa ricerca qualche volta esasperata del continuo cambiamento vi sia il pericolo di un certo feticismo, la musica da loro proposta tiene lontano l’altro tipo musicale tracciato da Adorno, quello emotivo. In “The Dance of Eternity”, come in molte altre loro composizioni, non vi è affatto quel sollievo temporaneo caratteristico del tipo musicale emotivo: quel sollievo che poi – sostiene Adorno – resterebbe “deluso”. L’essenziale mi sembra stia nel fatto che, mentre le singole rappresentazioni di un’opera scritta – pensiamo ad un pezzo teatrale – sono determinate da essa in modo da stare dentro un tempo deciso in precedenza, la musica è già realizzata in quanto pura attuazione di se stessa. Essa non è semplicemente nel tempo, ma è tempo. E il tempo musicale è un tempo innanzitutto irripetibile. Per quanta fedeltà allo spartito possa esservi nell’esecuzione, esso non può annotare tutto: la musica eseguita ne eccede le possibilità. Ciò che emerge maggiormente dall’analisi di “The Dance of Eternity” è che il tempo inteso nella musica non è un tempo né semplicemente psico73 74 75

C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 138. Ivi, p. 140. T.W. Adorno, Sulla popular music, cit., pp. 110-111.

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logico né ideale, bensì esistenziale e dunque, in senso pieno, storico. Nelle sue strutture non vi è la semplice attesa o il ricordo. La musica, come la nostra esistenza, si protende verso, esce fuori di sé, non esiste se non in virtù del prima e del dopo. La musica qui presentata, in quanto pura forma in movimento, è dunque profondamente legata a ciò che noi stessi siamo.

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9. Appunti di lavoro su musica, esistenza e movimento76 – “The Spirit Carries On” Quella dei Dream Theater non è un tipo di musica ‘superiore’ perché complessa o autentica, o perché chi la esegue, in base al principio di prestazione, è tecnicamente più dotato di altri musicisti. Semmai il loro progressive metal può, a buon diritto, essere inteso come una musica ‘più musicale’ di altre. Questo non perché essa darebbe forma a sentimenti, emozioni, valori o concetti, ma perché, meglio che in altre espressioni artistiche, in essa si rifletterebbe l’intima struttura formale della nostra esistenza. La forma è, infatti, ciò che mette in relazione la musica alla nostra esistenza, nel senso che esse esibiscono caratteri strutturali simili. Riferendosi a se stessa la musica trascende se stessa. Essa, per così dire, ex-siste, si trova, già da sempre, fuori di sé rimanendo vincolata al suo ‘mondo’. Una composizione musicale, non dipendendo da nulla di esterno a sé nel momento in cui si realizza, esibisce una certa immanenza, ma allo stesso tempo rimanda a un’alterità, all’intramusicale, alle norme di riferimento e così via. In questo specifico riferirsi al suo mondo, la musica, come la nostra esistenza, si attua come costante termine finale della propria attuazione. Nel suo svolgersi temporale autosufficiente, la musica si rivolge principalmente, se non esclusivamente, a se stessa. La musica non è un oggetto, un fatto o un processo psicologico. Il tempo della musica non è soltanto il tempo omogeneo dei fatti, ma anche un tempo mosso, rallentato, accelerato, frammentato e ricomposto. E neanche è il tempo psicologico in cui avviene qualcosa. Certo, essa non accade nella pura indeterminatezza, la sua struttura matematica permane, ma solo perché la nostra stessa esistenza non è mai né del tutto determinata né indeterminata. La musica non sta, come detto, semplicemente nel tempo, ma è tempo organizzato dalla forma della nostra esistenza. Il suo movimento 76

In questo paragrafo mi servirò, molto liberamente, delle formulazioni sulla “motilità della vita” sviluppate da Martin Heidegger nei suoi corsi dei primi anni Venti e successivamente ‘sistematizzate’, per così dire, in Essere e tempo.

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– pensiamo a una melodia – non è diretto a qualcosa di esterno, essa si muove verso il proprio futuro e si dispiega a partire dal proprio passato. Il suo movimento coincide con la sua attuazione, essa non ha bisogno di nient’altro per essere realizzata, il suo contenuto e la sua forma si identificano, coincidono. La forma in movimento, l’essenza della musica, fonda ogni altra possibilità di ricevere un ‘contenuto’ succedaneo come una rappresentazione, un’emozione e così via. La capacità che ha la musica di emozionare chi la ascolta non proviene, infatti, dall’emozione come suo contenuto, bensì dal fatto che i suoi movimenti riflettono le varie possibilità della nostra esistenza. La commozione è un muoversi con noi stessi assieme alla musica. La forma in essa sussistente non è quindi né l’espressione di uno spirito o di una psiche staccata da un corpo, né quella di un regno logico indipendente dalla storia. Questa forma non è, però, del tutto priva di una sua intima concettualità, sebbene non possiamo intenderla come immediatamente e completamente traducibile nel concetto logico-linguistico che scioglie il particolare nell’universale. Piuttosto, in essa opera la razionalità stessa della nostra esistenza che si trova costantemente legata sia all’individualità che all’universalità. Senza ricadere, infatti, nella semplice ineffabilità dell’individuale, la relazione che si instaura fra universale e particolare in musica è dialettica. I due aspetti centrali della musica – quello più emotivo (caotico, dionisiaco) e quello logico (razionale, apollineo) – rispondono alle possibilità della nostra esistenza, al suo muoversi verso e lontano da se stessa, alla sua possibilità di perdersi e di riconquistarsi, anzi al necessario perdersi nell’opacità sempre presente e mai eliminabile, per potersi ricomprendere sempre daccapo in situazioni storiche diverse. Nella musica, e in particolare in quella analizzata in questo articolo, si esprime dunque la necessità di un contro-movimento rispetto alla possibilità esistenziale di smarrirsi nel naturale e nell’ovvio. La musica, nel suo attuarsi secondo un necessario sistema di regole, resta aperta, nel senso che la sua dinamicità si attua non come entelechia, cioè nel conseguimento di uno stato finale ben preciso, bensì nel suo stesso attuarsi. La musica non ha, infatti, il carattere dell’érgon, dell’opera, bensì dell’enérgeia, di un puro divenire che si realizza in sé.77 Nella complessità del progressive metal emerge che la trasparenza 77

Mi riferisco alla definizione di Johann Gottfried Herder che vedeva la musica come “arte energetica”. Carl Dahlhaus sostiene che “Il pensiero di Herder applica alla musica ciò che Humboldt disse del linguaggio”, ovvero che “Il linguaggio non è un’opera (érgon) ma un’attività (enérgeia)” (C. Dahlhaus, L’estetica della musica, cit., p. 21).

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logica della vita a se stessa non è qualcosa di naturale o immediato, ma è qualcosa che deve essere pian piano conquistato attraverso un confronto costante con la possibilità di perdersi. Come detto, Scenes from a Memory prosegue il discorso testuale e musicale di “Metropolis pt. 1”, il cui verso finale recita: “Love is the dance of eternity”.78 A mio avviso, è possibile interpretare questo rimando all’amore tenendo presente quanto sinora detto sulla ‘motilità’ dell’esistenza. In realtà “Metropolis pt. 1” parla di tre ‘danze’. Le prime due le incontriamo nella prima parte della canzone, quella più narrativa, presentate nei versi “Death is the first dance, eternal” e “Deceit is the second without end”.79 Solo al minuto 4’ 19’’ viene annunciato l’arrivo della “terza” danza (“The third arrives”) rappresentata dalla mirabolante sezione strumentale che domina la seconda parte della canzone e che sfocia poi nel finale in cui viene chiarita la natura della terza “danza”, l’amore appunto. La morte è dunque il primo movimento della nostra esistenza. L’aspetto centrale di questo discorso non è però quello relativo a una possibile interpretazione concettuale di quanto dicono i Dream Theater nei loro testi. Nel rapporto con la propria ‘fine’ emerge semmai la differenza fondamentale fra esistenza e musica. La prima si rapporta alla propria morte in quanto termine costante della sua motilità, ‘avendola’ già da sempre in sé come intima possibilità della propria impossibilità.80 La musica, al contrario, esibisce come sua caratteristica primaria l’apertura, nel senso che ogni pezzo, virtualmente, potrebbe non finire ed espletare le sue possibilità in maniera indefinita. Essa viene conclusa in vari modi soltanto da una nostra decisione. Ad esempio, una composizione può avere: 1) una precisa struttura (strofe, ritornello, bridge), oppure 2) una struttura circolare, o ancora 3) una struttura aperta. Nessuna di esse è migliore dell’altra; ognuna esprime semplicemente la tendenza della nostra esistenza a organizzare la caoticità, a rintracciare un senso di completezza oppure a riflettere l’apertura dell’esistenza verso il futuro.81 In questo modo ci riserviamo di esprimere nell’arte ciò che nella vita ci è il più delle volte precluso. L’illusione, l’inganno (deceit) è il secondo movimento della nostra esistenza. Se la musica riflette la forma della nostra esistenza, in essa è infatti 78 79 80 81

Dream Theater, “Metropolis pt. 1”, cit., 9’ 04’’. Cfr. l’esergo del presente articolo. Ivi, 2’16’’ e 4’ 02’’. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 197615, in particolare pp. 289-324. Nella musica dei Dream Theater si vedano rispettivamente “The Spirit Carries On”, in Scenes from a Memory, cit.; “Octavarium”, in Octavarium, Atlantic Records, 2005; “The Dance of Eternity”, in Scenes from a Memory, cit.

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presente una sorta di privazione, necessaria al movimento, che esprime la possibilità sempre aperta di fallire e di ‘cadere’ da se stessa (e da noi stessi). Così come nelle categorie, che – dialetticamente – non dicono mai senza al contempo negare qualcosa, ogni passaggio musicale è forma, ma è anche privazione. Il sostrato di questo movimento è il ritmo.82 E che il ritmo, nella sua essenza, sia – come si è visto – l’ossatura del progressive metal dei Dream Theater è chiaro. Mentre il complesso ritmico – battuta, accento, tempo – è separabile dalla melodia, il contrario non è possibile. Una melodia, per quanto semplice, presuppone sempre un ritmo: il fatto che sia concepibile un ritmo senza una successione di suoni, ma non una successione di suoni senza un ritmo, indica che è proprio il ritmo a costituire l’elemento fondamentale dell’impressione di un moto musicale. Il tempo, il temps durée solidificato del temps espace, è la dimensione primaria dello spazio sonoro, la verticalità è secondaria.83

Come nella musica, così anche nella vita posso sorgere nuove melodie, può cambiare lo sfondo armonico, può esservi una trasformazione, anche radicale, fatta di una serie di crescendo e diminuendo, ma la ritmica che ne esprime la direzionalità si mantiene costante, si conserva in un rapporto tutto specifico fra molteplicità e unità. L’amore è, infine, il terzo movimento della nostra esistenza, quello in cui emerge una specifica ‘eternità’. Nell’amore ci si offre, infatti, la possibilità di uscire dalla finitezza impostaci dalla morte e dalla perdita. L’amore è il movimento che ciascuno di noi compie con e verso l’altra/o, diventando propriamente se stesso. Esso è dunque il co-movimento – esistenziale e musicale – verso un progetto comune in cui il sé e l’altro spariscono in quanto tali, ma si uniscono tendendo all’ulteriore. 10. Progressive metal e ideologia – “Finally Free” La nostra esistenza non è mai svincolata da un contesto storico e sociale. Non vi è motivo per considerare i due piani dell’analisi, quello esistenziale e quello sociologico, come incompatibili. Una delle mancanze maggiormente sottolineate nel progressive è quella di difettare di una precisa atten-

82 83

Cfr. E. Hanslick, Il bello musicale, cit., p. 83. C. Dahlhaus, L’estetica della musica, cit., p. 122.

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zione a problemi politici e sociali. Salvo alcune significative eccezioni,84 la maggior parte dei gruppi progressive viene vista come espressione puramente formale di un atteggiamento borghese verso la società. Ha senso, dunque, soffermarsi a parlare di progressive metal strumentale, di una forma di musica ‘assoluta’ come arte fine a se stessa svincolata da qualsiasi interesse extra-musicale? L’idea di una musica formale che prescinda dai contenuti sociali è di per sé ideologica? Non vi è forse nella musica dei Dream Theater il pericolo di allontanarsi dai gusti dei più per diventare una questione da intenditori, ciò che già Hegel denunciava, a suo tempo, a proposito della musica strumentale?85 Anche se indipendente da veri e propri contenuti concettuali, come quelli veicolati ad esempio dai cosiddetti testi politicamente ‘impegnati’, la forza in sé musicale del progressive metal, la sua capacità di dare espressione ad alcuni aspetti non conciliati, e non concilianti, del reale, consente di attribuire a questa musica una dimensione politica in senso ampio. Nel progressive metal sarebbe operante non più la concezione borghese e decadente dell’‘arte per l’arte’ in cui molto formalismo ottocentesco era ricaduto, bensì la volontà di rappresentare, con mezzi propri e specifici, e per così dire ‘dall’interno’, la possibilità della semplice e pura alterità rispetto alla meccanicità o alla presunta naturalità della presente realtà storico-sociale. Certo, nella maggior parte dei testi dei Dream Theater, ad esempio, non vi sono immediati ed espliciti intenti pedagogico-morali, perlopiù non si trattano temi politici, non vi è la volontà di formare le coscienze così come vorrebbe fare tanta popular music ‘impegnata’. Ma alcune composizioni progressive metal, al di là della volontà esplicita dei compositori, non sono neanche semplice ‘arte per l’arte’, in quanto nel loro gioco puramente formale e libero viene prefigurato, oltre il regno della standardizzazione, il diverso e l’utopico. Esse infatti, più di altri tipi di popular music, esibiscono le caratteristiche del gioco: la libertà, l’assenza di scopo, l’esistenza per sé, la partecipazione ‘emotiva’ (nel senso prima precisato), una temporalità del tutto particolare non riducibile all’oggettività semplicemente misurabile o alla psicologia dei ‘giocatori’, l’inutilità e, infine, l’improduttività. Se pre84

85

Cfr., ad esempio, gli italiani Area (significativamente noti anche come International POPular Group), in particolare i loro lavori Arbeit macht frei, Cramps, 1973, e Caution Radiation Area, Cramps, 1974. Gli stessi Dream Theater non mancano di concentrarsi nei loro testi su problemi in senso ampio politici o sociali (ricordiamo “The Great Debate” sulle frontiere della scienza, “Sacrificed Sons” o “In the Name of God” sugli eventi seguiti agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 e la suite “Six Degrees of Inner Turbulence” su alcuni aspetti della follia). Cfr. C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, op. cit., p. 51.

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stiamo ascolto alla conclusione di “Finally Free”, l’ultima traccia di Scenes from a Memory, ci si presenta un piccolo barlume di libertà. Non dobbiamo, però, prestare attenzione all’ampia melodia disegnata da chitarra e tastiera, bensì alla batteria che emerge in primo piano e che si emancipa dal contesto melodico, ricreando il tempo e ribaltando i soliti rapporti in cui il ritmo (dionisiaco) fa semplicemente da sfondo alle melodie (l’apollineo, qui inteso come ciò che è statico). Nelle sue incessanti pulsazioni si esprime una libertà che proviene ‘dal basso’, una libertà intesa come capacità di ricreare il proprio tempo nel contesto di un gioco storico non astratto. Difatti, le regole logiche del sistema di riferimento non sono decise una volta per tutte o in modo eterno, non possono tramutarsi in uno strumento di dominio. Esse devono venir apprese, interiorizzate e, infine, cambiate in rapporto alla situazione storica. Il progressive metal dei Dream Theater, sebbene in prima battuta possa dare l’impressione di non essere nient’altro che uno scostante virtuosismo fine a se stesso, è davvero una musica popolare, in quanto il messaggio che ne possiamo trarre è che il ‘popolo’ a cui si riferisce non è trattato come un soggetto passivo di semplici e sempre uguali ‘canzonette’, ma è stimolato a un ascolto più attento, a un’emulazione, seppur spesso feticista, e infine all’emancipazione dai modelli per sviluppare una creatività autonoma. Con ciò sarebbe almeno soddisfatta la condizione minima che Adorno prescrive alla musica moderna: L’unica cosa che resta da fare, senza illudersi troppo di aver successo, è di far conoscere quello che si è appreso e per il resto, nell’ambito musicale specialistico, operare il più possibile perché al consumo ideologico subentri un rapporto concreto e conoscitivo con la musica. Al consumo ideologico si possono solo contrapporre modelli infranti di un rapporto con la musica, e magari anche modelli di una musica che sia diversa.86

La musica, sebbene non meramente funzionale, da sola però può poco, se non nulla. Affinché ci sia una reale trasformazione della società, infatti, deve cambiare la struttura sociale e produttiva. Alla luce di ciò, ci si può dunque chiedere quanto il progressive metal resti ‘cattiva coscienza’ e quanto, invece, sappia rappresentare compiutamente in sé la realtà sociale in maniera non ideologica. Esso è, in ogni caso, una forma d’arte ‘popolare’ che sta più in alto di quell’arte ideologica la quale chiude gli occhi di fronte allo status quo o lo riproduce rimuovendo la contraddizione a esso interna e restituendoci così un’immagine pacificata del reale. Nel progressive metal nulla è, infatti, 86

T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 66 (tr. it. leggermente modificata).

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totalmente pacificato. In esso si prospetta una possibile via d’uscita dal dominio dell’industria culturale. La musica sarà infatti tanto migliore

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quanto più profondamente saprà plasmare nella sua forma la forza di quelle contraddizioni e la necessità del loro superamento sociale, quanto più puramente essa saprà enunciare, nelle antinomie del linguaggio formale che le è proprio, lo stato di necessità della condizione sociale, facendo appello, nel linguaggio cifrato del dolore, alla trasformazione.87

Il progressive metal sembra lontano da quelle caratteristiche che Adorno ascrive all’industria culturale – la ripetitività, l’orecchiabilità, la prevedibilità, il semplice consumo e la mercificazione – in quanto è, come visto, un tipo di musica che esige impegno nell’ascolto ed è ben lungi dalla passività ricettiva della musica leggera standard. Certo, esso esibisce alcune caratteristiche espressive forse ancora troppo meccaniche, come l’uso preponderante del sistema tonale, di strutture e di standard spesso logori, o come la persistenza di elementi narrativi, descrittivi o sentimentalistici. Ma, proprio in virtù della sua natura, esso è anche in grado di mediare fra aspetti ‘alti’ e ‘bassi’ senza arroccarsi nell’autocompiaciuta astrusità di certa musica ‘colta’. Il pericolo a cui è esposto il progressive metal dei Dream Theater è semmai quello di cadere in ciò che Adorno chiama “incanto musicale”,88 nella creazione di innumerevoli fantasmagorie strumentali legate al meraviglioso barocco, al maestoso, all’intricato, all’ornamento musicale. In tal caso, esso sarebbe espressione di un’illusione di conquista, di libertà e di forza dell’ascoltatore: quella forza e libertà che gli vengono di fatto negate nella realtà legata alla meccanizzazione del lavoro estesa alla vita di tutti i giorni. Nel progressive metal dei Dream Theater, tale meccanicità tecnologica del mondo moderno è però di fatto espressa e sublimata nella cura formale. Questo aspetto la renderebbe una coscienza né falsa né cattiva, in quanto “più la musica rappresenta completamente e chiaramente la totalità in tutte le sue contraddizioni, più è autonoma (e valida)”.89

87 88 89

Ivi, p. 85. T. W. Adorno, Sulla popular music, cit., p. 88 e ss. R. Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 67.

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PROFILO DEGLI AUTORI

DONATO FERDORI ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università di Bologna. Si è principalmente dedicato al pensiero di Kant, con una particolare attenzione rivolta all’etica, pubblicando il volume L’autonomia come principio spirituale (2012). Ha inoltre pubblicato contributi sulla filosofia della storia di Benjamin, sul rapporto tra etica e religione in Kierkegaard, occupandosi infine di comunitarismo e, in particolare, del neoaristotelismo di MacIntyre. MARCO JACOBSSON ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane presso l’Università di “Roma Tre”. Si è occupato in particolare del pensiero di Heidegger e del suo rapporto con lo storicismo di Dilthey, pubblicando il volume Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia (2011). Attualmente insegna storia e filosofia nei licei. STEFANO MARINO è assegnista di ricerca in Estetica presso l’Università di Bologna. Ha incentrato le sue ricerche sulle correnti filosofiche dell’ermeneutica e della teoria critica, traducendo il libro di Gadamer Che cos’è la verità. I compiti di un’ermeneutica filosofica (2012) e pubblicando le monografie Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer (2009), Un intreccio dialettico. Teoresi, estetica, etica e metafisica in Theodor W. Adorno (2010), Gadamer and the Limits of the Modern Techno-scientific Civilization (2011) e Fusioni di orizzonti. Saggi su estetica e linguaggio in Hans-Georg Gadamer (2012). ANDREA MECACCI insegna Estetica presso la facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Ha pubblicato saggi sull’estetica tedesca, con particolare riferimento alla figura di Hölderlin, fra cui i volumi

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Hölderlin e i greci (2002) e La mimesis del possibile. Approssimazioni a Hölderlin (2006). Sull’estetica pop ha pubblicato le monografie Introduzione a Andy Warhol (2008) e L’estetica del pop (2011), ha curato le edizioni italiane di G. Marcus, Like a Rolling Stone (2005) e A. Warhol, America (2009), e ha partecipato al volume Andy Warhol (2012). Il suo ultimo libro è Estetica e design (2012). MASSIMO PALMA, studioso del pensiero tedesco e francese del Novecento, svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha pubblicato Benjamin e Niobe. Genealogia della “nuda vita” (2008), Studio su Eric Weil (Napoli 2008) e Politica e diritto in Kojève. Esilio sulla via maestra (2012). Ha curato gli Scritti politici di Walter Benjamin (2011) ed è responsabile della nuova edizione italiana di Economia e società di Max Weber (2003-2012). Nel 2012 ha pubblicato una guida alternativa, filosofico-musicale, alla città di Berlino, dal titolo Berlino Zoo Station. ADELE RICCIOTTI ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università di Bologna. Si è specializzata sul pensiero di María Zambrano e sulla filosofia spagnola contemporanea. Ha pubblicato la monografia María Zambrano. Etica della ragione poetica (2011) e numerosi saggi per edizioni italiane e straniere. Collabora con l’Università Autónoma di Madrid e si dedica allo studio della crisi del soggetto contemporaneo, in particolare attraverso l’approfondimento dell’opera di María Zambrano e Simone Weil.

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IL CAFFÈ DEI FILOSOFI Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

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Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, luogo dello spirito Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosoficopolitico Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione francese Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione

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25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica dell’identico 26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella 27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università 29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica 30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso Menegazzi 31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo 32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore 33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore 34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio 35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo 36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea 37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese 38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai 39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spettacolo postmoderno 40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga, Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione, un carattere 41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere 42 Carmine Castoro, Filosofia dell’osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del Nulla, 2013, pp. 202, Isbn 9788857516899, Euro 16,00 43 Roberto Masiero (a cura di), Pensare l’Europa, 2013, Isbn 9788857518824 44 Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos, 2013, pp. 286, Isbn 9788857517599, Euro 20,00

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Finito di stampare settembre 2013 da Digital Team - Fano (PU)

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