Filosofia e idealismo. Giovanni Gentile [II] 8870883426, 9788870883428

Interamente dedicato a Giovanni Gentile, questo secondo vo­lume di Filosofia e idealismo ha il suo centro ideale nei due

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Filosofia e idealismo. Giovanni Gentile [II]
 8870883426, 9788870883428

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Interamente dedicato a Giovanni Gentile, questo secondo vo­ lume di Filosofia e idealismo ha il suo centro ideale nei due saggi dedicati a L'atto, il tempo e la morte e a La questione dell'astratto e del concreto, nei quali gli aspetti centrali del­ l'idealismo attuale sono ripensati con forte accentuazione cri­ tica: critica, e, proprio per questo, lontana da ogni apologia e, nello stesso tempo, da ogni atteggiamento di ideologica de­ precazione. Nel libro sono del resto affrontati molti altri temi e aspetti dell'opera di Gentile: dallo studio di Dante all' atteg­ giamento tenuto nei confronti del nazionalsocialismo, dalle postille da lui segnate nei margini di alcuni libri di Benedetto Croce ad altri momenti della polemica sostenuta con l'amico di un tempo. E su ciascuno di questi argomenti l'autore, che molto si è avvalso della sua lunga frequentazione dell'Archi­ vio della Fondazione «G. Gentile», ha detto chiaro il suo giudizio, sotteso comunque sempre dalla convinzione che il filosofo dell'atto puro visse, a partire dal 1924, una vita nel profondo tragica e che soltanto in questa dimensione si può forse arrivare a comprenderlo. Gennaro Sasso, professore ordinario di Filosofia teoretica nell'Università di Roma, e direttore dell'Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, è socio nazionale dell'Accademia dei Lincei. Tra le sue opere ricordiamo Niccolò Ma­ chiave/li (1958, 3' ed. in due volumi 1994), Passato e presente nella storia della filosofia (1967), In margine al V centenario di Machiavelli (1971), Bene­ detto Croce. La ricerca della dialettica (1975), La Storia d'Italia di Benedetto Croce cinquant'anni dopo (1979), Il progresso e la morte. Saggi su Lucrezio

(1979), Tramonto di un mito. L'idea di progresso fra Ottocento e Novecento (1984, 2' ed. 1988), Machiavelli e gli antichi e altri saggi (1986-1988 in tre volumi), Essere e negazione (1987), Per invigilare me stesso. I Taccuini di la­ voro di Benedetto Croce (1989), L'essere e le differenze. Sul Sofista di Platone (1991), La fedeltà e l'esperimento (1993).

GENNARO SASSO

FILOSOFIA E IDEALISMO II GIOVANNI GENTILE

BIBLIOPOLIS

Proprietà letteraria riservata

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«

ISBN 88-7088-342-6 Bibliopolis, edizioni di filosofia e scienze srl» Napoli, via Arangio Ruiz 83

INDICE

Avvertenza I. Visitando una mostra. Considerazioni, ricordi, pole­ miche II. L'atto, il tempo, la morte III. La questione dell'astratto e del concreto IV. Di Gentile, di Heidegger e della loro reciproca cono­ scenza. Documenti e aneddoti V. Gentile e il Nazionalsocialismo. Appunti e documenti VI. Sul misticismo VII. Definizioni dell'atto puro. Croce, Tilgher, Vinci­ guerra VIII. Gentile e Dante. Note e appunti IX. Glosse marginali di Giovanni Gentile a libri di Bene­ detto Croce X. La «Filosofia delle quattro parole». Storia di una «prefazione»

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AVVERTENZA La ragione per la quale questi saggi sono stati composti sta, credo con sufficiente chiarezza, nei saggi stessi; e non oc­ corre perciò illustrarla con particolari discorsi se non per dire che chi li ha scritti è interessato alla filosofia di Gentile, è in­ teressato alle tragiche vicende nelle quali la sua vita si con­ sumò e infine si spense; e non prova invece, oggi, alcuna pas­ sione per la sua presunta «rinascita», a quel modo stesso che non ne provò, ieri, filosoficamente parlando, per il declino della sua fama e per il plumboeo silenzio calato sul suo nome. Il « declino » e la «rinascita» di una filosofia meritano senza dubbio di essere studiati nel quadro della storia culturale di un'età. Ma l'interesse per la filosofia c'è o non c'è; ed è un'al­ tra cosa. Gli studiosi che hanno scritto di Gentile non traggano motivo di disappunto dalla scarsa attenzione che, almeno in apparenza, ho dedicata alle loro tesi. Della letteratura critica che lo riguarda, di quella di ieri, che cominciò a fiorire quando ancora Gentile era vivo ed operante, e di quella di oggi, iniziata con l'inizio del lungo dopoguerra, credo di avere, nel corso degli anni, meditato l'essenziale; e penso, per fare soltanto alcuni nomi, al libro di Vincenzo La Via e agli scritti di Gustavo Bontadini, alle pagine di Ugo Spirito e di Guido Calogero, penso a De Ruggiero, a Garin, a Scaravelli, a Lugarini, a Vittorio Sainati, a Severino, ad Antimo Negri. Ma , con qualche eccezione imposta da particolari circostanze, al di là del consenso, del dissenso e sempre, comunque, nel rispetto di tutti, ho preferito che il mio discorso si svolgesse per la via diretta dell'esegesi filosofica, a stretto contatto con i testi e senza indugi in polemiche e discussioni con gli inter-

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AVVERTENZA

preti. A questo metodo mi sono attenuto, sempre, anche ne­ gli scritti che mi è accaduto di dedicare a Benedetto Croce . E in questa scelta non credo di aver sbagliato. L'idealismo ita­ liano è stato nei passati decenni una specie di campo d'Agra­ mante di dispute senza fine, spesso tessute, a parte gli apolo­ geti, con il filo dell'insulto e della denigrazione . Di nuove po­ lemiche, anche se intonate alla civiltà, c'era dunque assai meno bisogno che di analisi determinate e concrete, volte ad interpretare, ma anche a far conoscere. Dell'idealismo ita­ liano ciascuno infatti si sente in diritto di parlare senten­ ziando; ma che siano molti quelli che sul serio lo conoscono, nessuno, onestamente, potrebbe dire. Con l'eccezione del settimo, che vide la luce nel 1 976, i saggi raccolti in questo volume appartengono tutti all'ultimo dodicennio. Li ho scritti non per farne un libro, ma per chia­ rire di volta in volta questioni particolari e, quindi, per ordi­ nare in un discorso sistematico i risultati di una riflessione il cui inizio risale agli esordi della mia qualsiasi attività di stu­ dioso. Il libro non è che una conseguenza: anche se forse, per un altro verso, sia la sua « idea » ad occupare il primo posto . A Cristina Farnetti che mi ha aiutato nella correzione delle bozze, e alla quale si deve l'indice dei nomi, il più cordiale ringraziamento. Ma altresì mi è gradito ringraziare la prof.ssa Angela Schinaia che, con impareggiabile cortesia e compe­ tenza, ha agevolato ogni ricerca che io abbia intrapresa e con­ dotta nell'Archivio della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici. G.S. Roma, 2 4 febbraio 1995

I VISITANDO UNA MOSTRA (CONSIDERAZIONI, RICORDI, POLEMICHE)

L'Istituto di filosofia della Facoltà di Lettere dell'Univer­ sità di Roma ha organizzato, nella sua nuova sede di Villa Mi­ rafiori, una mostra « storico documentaria », intesa a rievo­ care i cinquant'anni trascorsi dal giorno in cui la vecchia « Sa­ pienza» si trasferl dal nobile palazzo cinqueseicentesco che l'ospitava al complesso architettonico dello Studium Urbis. La circostanza che la mostra sia stata organizzata nella villa ot­ tocentesca in cui, da qualche anno, l'Istituto di filosofia è stato convenientemente collocato, potrebbe essere interpre­ tata come l'involontaria vendetta che lo spirito della sobrietà, se non proprio del buon gusto, si è presa della consolidata bruttezza dei palazzi piacentiniani: una bruttezza irrepara­ bile, granitica, solenne, che il sole sfolgorante non riscalda ma esalta, e la pioggia contribuisce vieppiù a far penetrare nel­ l'anima. Non c'è, in realtà, sentimento del temps perdu, o in­ dulgenza suggerita dal ricordo dei giorni lontani in cui, in uno di quei palazzi, trascorremmo la parte migliore del nostro tempo, - non c'è nostalgia della bella gioventù (che poi, per la verità, bella non fu affatto), che valga a farci apparire gra­ devoli quelle « fabbriche », quei prati, quella grande fontana, la comica Minerva che la sormonta; e la fotografia, esposta nella mostra, che ritrae Benito Mussolini mentre, scortato dal ministro Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, percorre il viale principale della Città universitaria, il giorno dell'inaugu­ razione, può ben essere assunta come il simbolo sintetico dei sentimenti che, nei confronti di quella stagione, nutrimmo e

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nutriamo. È uno stato d'animo il nostro (e qui è giusto rico­ noscere che è stato ben altro che la bruttezza piacentiniana a consolidarlo), - è uno stato d'animo che si trova perfetta­ mente ritratto in una pagina recente di Leonardo Sciascia; il quale ha osservato che « c'è nella vita di oggi, per noi, un qualcosa di più, e di più vero, del ricorrente, eterno rim­ pianto che ogni generazione, sul punto di tramontare, rivolge al passato. È difficile, oggi, sentir dire: 'oh se avessi vent'an­ ni!': che prima continuamente si coglieva. Nessuno vuol tor­ nare oggi ad avere vent'anni. E forse anche coloro che li hanno non li vorrebbero, ne sentono il disagio, quasi la dispe­ razione » 1• Malgrado il disagio, e quasi la disperazione, che il ri­ cordo della « bella gioventù » ci produce, occorre riconoscere che la mostra storico-documentaria che gli amici e colleghi Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani de Cumis hanno organizzata come meglio non si sarebbe potuto, senza risparmio di energie e con buon gusto pari alla fatica, è ricca di interesse e offre materia a varie considerazioni. Nasce bensl dall'occasione rievocativa. Ma è stata messa insieme alla luce di un criterio che, tanto più richiede di essere illu­ strato e discusso, quanto più è facile che a coloro i quali si trovino a non conoscere la vicende di quegli anni, e non ab­ biano fatto a tempo a risentirne in sé il contraccolpo dolo­ roso, sfugga o non risulti chiaro. Per dichiarare subito la tesi, o, se si preferisce, per dire quale sia l'impressione che la visita della mostra e la lettura del volume-catalogo 2 ci hanno suscitata dentro, il miglior partito è di avvertire che, con i suoi collaboratori, Gregory ha compiuto un viaggio nella memoria; e si è trovato di fronte al filosofo che, nella Scuola romana di filosofia (e non ll soltanto), fu figura in ogni senso dominante . Si è trovato di fronte a Giovanni Gentile. Con Ernesto Buonaiuti, che egli conobbe da ra1 L. SciASCIA, Ritratto dello scrittore da giovane, Sellerio, Palermo 1985 , p. 18 . 2 Filosofi Università Regime. La Scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta, a cura di T. Gregory, M. Fattori, N . Siciliani de Cumis, Roma-Na­ poli 1 985 .

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gazzo e che molto h a influito sulla sua prima formazione; con Bruno Nardi, che gli fu maestro; con altri personaggi di quel tempo e di quella cultura, Gregory è sempre stato in contatto. Mai il filo delle memorie gli si è spezzato dentro; e a rigore egli non aveva bisogno di intraprendere un viaggio per riannodarlo. Ma (e non soltanto per il modo in cui è uscita di scena) quella di Giovanni Gentile è una figura tra­ gica, con la quale non è facile mantenere il contatto; una fi­ gura tragica che, almeno in parte , ciascuno di noi è stato come costretto a velare e a oscurare, in modo da poterne sopportare il peso: una figura tragica, e tanto più tragica in quanto, chi potrebbe negare che sia cosa ardua, e tale da ri­ chiedere uno sforzo penoso di elaborazione psicologica, il tentativo vòlto a tener distinto il debito che si sente di aver comunque contratto con lui dalla vendetta che la nostra parte politica (o una parte politica che stava dalla nostra stessa parte) ha esercitata, con crudeltà, sulla sua persona e sul suo « tradimento »? In realtà, a più di quarant'anni dal giorno della sua morte, vibra ancora in alcuni di noi lo sgomento a cui Tri­ stano Codignola diede voce in un famoso articolo, scritto al­ l'indomani, e sotto l'impressione immediata, del tragico even­ to 3; e cosl, quando una circostanza qualsiasi torni a collocarci dinanzi a quest'uomo e quasi ci imponga di osservarne di nuovo i comportamenti, e le ragioni profonde che li determi­ narono, lo sgomento ci riprende, ci troviamo esitanti e impre­ parati, oscillanti fra la volontà di identificarlo con la parte che volle scegliersi, e di perderlo per sempre, e l'altra, e non meno forte, volontà di distinguervelo, riappropriandoci in tal modo di quel che della sua opera, ci piaccia oppure no, è an­ dato a costituire almeno un aspetto del nostro qualsiasi es­ sere. Questa oscillazione è inevitabile; ed è troppo facile ba­ nalità confidare a sé stessi che soltanto nella serenità del giu­ dizio storico la figura di Giovanni Gentile ricomporrà in noi la sua unità. In attesa che la buona storiografia discenda in 3 Sull ' articolo di T. Codignola, cfr. C . L . R.AGGIDANTI, Disegno della li­

berazione italiana, Pisa 19622, pp. 15 1-5 3 .

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noi a compiere questo miracolo, il volto di Gentile seguita in­ fatti ad apparirci come quello di un pauroso fantasma shake­ speariano; e, ricevendone la visita, torniamo a dividerci, e quindi ad oscillare, fra la volontà di.allontanarlo per sempre e quella, viceversa, di rivolgergli la parola e di ascoltarne la voce . Anche Gregory ha sublto il fascino obliquo di questa si­ tuazione. E ha cercato di uscirne accentuando gli aspetti « li­ berali » dell'azione che Gentile spese nella difesa della cul­ tura. Ha cercato di uscirne, facendo battere con forza l'ac­ cento su un avversario, - la Chiesa cattolica e gli ambienti che vi si ispiravano, che di tempo in tempo il filosofo dell' at­ tualismo si trovò di fronte e, variamente, dovette combat­ tere . La tendenza a fare di Gentile uno che si trovi al nostro fianco, e ha gli stessi avversari che anche noi abbiamo, è forte nell'impostazione della mostra: ne costituisce, anzi, il Leitmo­ tiv. E si è cercato di spiegare perché si sia determinata. Ma occorre anche discuterla. Discuterla è tanto più necessario in quanto, per questa volontà di non confondere un uomo come Gentile con la parte politica che si era scelta, è accaduto, ad esempio, che i curatori del volume abbiano presentato la questione del giu­ ramento del 193 1 in una luce non del tutto chiara; e tale, ad­ dirittura, che il lettore poco esperto potrebbe esserne indotto all'equivoco. Si legge infatti, nel catalogo, che il testo del giu­ ramento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'8 ottobre 193 1 « modificava il precedente testo di Gentile, inserendo il riferimento al regime fascista »4• A coloro i quali sappiano che cosa sia il « precedente testo di Gentile », a cui qui si al­ lude, la dichiarazione apparirà, come è, del tutto ineccepibile . Ma il lettore « ingenuo », che della storia del fascismo non sia specialista (e che altresl non si trovi a possedere nei partico­ lari la questione del giuramento, o dei giuramenti) 5 , potrebbe Filosofi Università Regime, p. 135. Manca, per quel che so, uno studio specifico della questione: cfr. quel che ne dicono L. SALVATORELU G. MIRA, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1 964 , pp . 527-28; A. AQUARONE, L'organizzazione dello stato 4

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invece ricavarne che, non a Gentile, bensì al Ministro della Pubblica Istruzione Balbino Giuliano, e, naturalmente, al capo del governo, risalga la responsabilità di questa esten­ sione . Il lettore non specialista potrebbe insomma essere in­ dotto a ritenere che con il giuramento del 1 93 1 niente Gen­ tile avesse a che vedere; oppure che avesse bensì a che vedere con un giuramento, ma limitato al Re e allo Statuto, e non esteso al regime fascista. Questo medesimo lettore potrebbe infine concludere che, il «precedente testo di Gentile » es­ sendo stato modificato, l'estensione del giuramento al regime fascista fosse da lui subìta e non voluta: il che, fra le altre cose, potrebbe spiegare perché, ai professori romani che non giurarono, egli rivolgesse, nel Consiglio della Facoltà, le pa­ role di saluto e di rimpianto, che ora possono leggersi in que­ sto medesimo catalogo 6 . Deve confessarsi che, scorrendo con ingenua disposi­ zione d'animo e di mente le linee introduttive alla sezione concernente il giuramento del 19 3 1, si è indotti a pensare che così, effettivamente, stessero le cose: così e, dunque, in modo alquanto diverso da come le avevamo apprese da libri di storia e da pagine di ricordi. In quei libri, infatti, e in queste pagine, l'iniziativa del giuramento è da tutti concor­ demente attribuita a Gentile 7 che a lungo, si diceva, si ado­ però perché Mussolini lasciasse cadere preoccupazioni, ti­ mori, scrupoli, e infine si decidesse a piegare le coscienze dei professori universitari, legandoli, con quel mezzo , alla causa del fascismo. Ora, invece, le cose si presentano con un volto diverso; e chi, nei confronti di Gentile, si trovasse a totalitario, Torino 1 965 , pp . 1 7 9-80, R. DE FELICE, Mussolini il duce, I, Gli anni del consenso 1929- 1 936, Torino 1 974, pp . 109 sgg. 6 Filosofi Università Regime, p. 1 3 8 . A rigore, le parole di Gentile si riferiscono al solo Gaetano de Sanctis; il documento al quale alludo nel testo meriterebbe una unalisi (che volentieri lascio ad altri) . i Cfr . , per es . , SALVATORELLI-MmA, Storia d'Italia, p. 527: « principale promotore del nuovo giuramento fu Giovanni Gentile, il quale in tal modo si proponeva di rassicurare definitivamente i colleghi contro le accuse sem­ pre ritornanti di antifascismo)) (ma sul secondo di questi due giudizi non concordo, e nel testo spiego perché) .

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non condividere il giudizio interamente negativo che da molte parti gli è stato gettato addosso come un'irrevocabile sentenza, può trarne qualche motivo di soddisfazione. In realtà, non è cosl. Il dubbio che le cose siano sul serio an­ date nel modo che dal catalogo sembra emergere ha ben pre­ sto prevalso sulla soddisfazione derivante dal vedere che cosl erano andate; e il pensiero che, quanto era seducente, altret­ tanto questa presentazione fosse da giudicare improbabile, se non, anzi, addirittura impossibile, ha finito col prevalere . In effetti, vada pure per gli storici che, se costruiscono sul­ l'ignoranza di un documento cruciale, l'intero edificio può, rovinosamente, crollare. Ma com'è possibile che a ignorare responsabilità e circostanze fossero proprio coloro che del dramma del giuramento si trovarono ad essere i diretti pro­ tagonisti e, si dica pure, le vittime? Com'è possibile che, es­ sendosi limitato a stendere un testo nel quale come oggetto del giuramento erano indicati il Re e lo Statuto, Gentile non trovasse mai il modo di avvertire che della sua « estensione » al regime fascista non a lui, ma ad altri, risaliva la responsa­ bilità (e, se si vuole, il merito)? In realtà, perentorie, nell'attribuire a lui, Gentile, la mag­ giore responsabilità del giuramento a cui il regime fascista li costringeva, sono le testimonianze offerte da due dei tre pro­ fessori che, a Roma, non giurarono: Gaetano de Sanctis 8 e Giorgio Levi Della Vida 9 (il terzo, che fu, com'è noto, Erne­ sto Buonaiuti, non nomina in questa parte del suo libro au­ tobiografico Giovanni Gentile, al quale riserva, in altre, sfer­ zanti giudizi: ma solo perché diverso è l'angolo visuale dal

8 G. DE SANCTIS, Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze 1970, pp . 1 44-45 : « ma frattempo la tirannide imperversava e cercava nuove vie per meglio fondare il proprio dominio ed asservire le anime degli Ita­ liani. Una di queste vie, suggerita (mi duole il dichiararlo) da un uomo di alto animo che me lo confessò egli stesso, Giovanni Gentile, fu la via del giuramento dei professori universitari ». 9 G. LEVI DELLA VmA, Fantasmi ritrovati, Vicenza 1 966, p. 240, dove si dice che del giuramento di fedeltà al regime Gentile si era « fatto promo­ tore segreto presso il Governo (era il segreto di Pulcinella, beninteso) . . . ».

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quale la questione fu d a lui osservata) 10• E perentoria dovette essere, in quei giorni, e nelle settimane che li precedettero, la stessa voce pubblica che, concorde, assegnò a Gentile il de­ merito, o il merito, di quell'iniziativa del governo fascista. Valga qui la citazione della testimonianza (fino a ieri inedita) di Benedetto Croce; il quale, oltre ad essere il maggiore rap­ presentante dell'opposizione liberale, l'uomo, insomma, che, se anche avesse voluto, non avrebbe potuto non vedere, non ascoltare, non sapere, era anche senatore del Regno e, dun­ que, necessariamente informato di quanto in questo, e in altri ambienti, si diceva. Ebbene, il 28 ottobre 193 1 , nei Tac­ cuini di lavoro, ossia nei diari che, dal 1 906, aveva preso a tenere con quotidiana regolarità, Croce annota di essersi « dovuto recare a Roma per la questione del giuramento impo­ sto, su consiglio del Gentile, ai professori universitari »: una questione che, aggiunge, lo « sconvolge ». Il l o novembre scrive infatti del « molto sdegno » e della « molta tristezza » su­ scitatagli dentro da « questa faccenda del giuramento imposto agli insegnanti universitari »; e dice di esserne rimasto a tal punto turbato da non aver potuto - evento per lui eccezio­ nale - lavorare per l'intera giornata. Quattro giorni dopo, il 5 novembre, il Diario ha un nuovo, doloroso sussulto (« Tri­ stezza al solito: visite di antichi compagni di scuola rovinati dalla presente crisi; visita d'insegnanti minacciati di prestar giuramento contro coscienza e che mi hanno straziato, veden­ doli persino con gli occhi pieni di lacrime ») , che si ripete il 1 5 novembre: « è venuto a farmi visita l'Einaudi, anche lui scon­ volto per il giuramento a cui sarà costretto [ . ] Molta tristez­ za ». Si sa bene, del resto, che, discutendo con Luigi Einaudi, e quindi, a Roma, con Gaetano de Sanctis , Guido de Rug­ giero e altri amici, Croce sostenne che , per quanto odioso, il giuramento non doveva costituire un insuperabile problema di coscienza. Riteneva infatti (e lo disse a Gaetano de San­ ctis, che le sue parole riferl, più tardi, nei suoi Ricordi) che, . .

1° Cfr., comunque, E. BuoNAIUTI, Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo, a cura di M. Niccoli, Bari 1 964, pp. 247-82.

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poiché la sua situazione personale non era, in quel caso, esposta a pericoli altrettanto gravi, a lui, che professore non era e, come senatore, era protetto da immunità, non conve­ nisse far diversamente, predicando ad altri il rigore assoluto e l'intransigenza 1 1 che non avrebbe in quel caso potuto eser­ citare per sè. E, del resto, a confortarlo in questo atteggia­ mento fu anche la convinzione, maturata nei precedenti anni di dittatura, e registrata nei Taccuini di lavoro 12, che il clima della tirannide imponesse quella che un secentista da lui molto studiato, Torquato Accetto, aveva definita la « dis­ simulazione onesta» 13, e che, in nome di astratti prindpi, o di princìpi astrattamente vissuti, non si potesse lasciare l'Università nelle mani di uomini che della serietà degli studi non si preoccupavano più di quanto avessero a cuore la li­ bertà (e la loro stessa personale dignità) . Non c'è, d'altra parte, ragione di ripetere che la richie­ sta del giuramento fu da lui giudicata vile e sommamente odiosa, e che di essa sempre ritenne ideatore e responsabile il suo amico di un tempo, Giovanni Gentile. Lo scrisse, ad esempio, con la maggiore chiarezza, in un articolo dedicato ai rapporti avuti con il filosofo siciliano: un articolo che egli compose nel settembre del 1944 e che, per altro, desiderò rimanesse inedito e venisse reso pubblico solo nel caso (come si legge in una postilla autografa segnata in alto, nella prima pagina, alla destra del titolo) che « si pubblichino cose calunniose circa i miei rapporti col Gentile ». L'articolo 14, che consta di 8 pagine dattiloscritte corrette di pugno del­ l'autore, e che, in fondo all'ultima pagina, reca, anch'essa autografa, l'indicazione « Sorrento, settembre 1 944 », s'inti­ tola Le mie relazioni col Gentile, e, con tutta evidenza, fu 11

DE SANCTIS, Ricordi, cit . , p. 1 4 8 . 12 Taccuini di lavoro ( 1 5 dicembre 1 925), II, 3 9 8 (ora edito i n Taccuini di lavoro 1917-1926, Napoli 1 987 [ma 1 992], II, 452) . . D Cfr . per questo il mio Per invigilare me stesso. I « Taccuini di lavoro » di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 1 0 1 - 1 02 . 1 4 L'articolo è conservato nell'Archivio Croce a Palazzo Filomarino , Napoli, dove ho potuto prenderne visione per la cortesia della signora Alda Croce, che ringrazio vivamente.

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composto insieme ai « ricordi politici », stesi nello stesso luogo e nel medesimo mese dello stesso anno, e relativi tanto al periodo in cui fu ministro con il Giolitti, quanto alle « relazioni col Mussolini » e con « Casa Savoia» 15. Croce vi afferma risolutamente che « per il primo » Gentile « propo­ se, in un suo articolo, che agli insegnanti universitari venisse imposto il giuramento di fedeltà al regime », esultando in pubblico « quando dovettero sottostare a siffatta umiliazio­ ne »; e poiché, come si vede, fa riferimento ad un articolo che il filosofo siciliano scrisse per rendere palese a tutti da quale intento fosse mosso, la sua dichiarazione acquista par­ ticolare valore . Il testo a cui Croce si riferisce è, con quasi assoluta certezza, quello che Gentile pubblicò nella Politica sociale del 1929, e quindi, lo stesso anno, nell'Educazione fascista 1 6 . È un articolo che non trovò posto nei suoi libri di argomento politico, ma ebbe tuttavia molta risonanza e fu anche tradotto in tedesco; ed è, da capo a fondo, una pole­ mica, violenta e insieme alquanto dolciastra, diretta contro il manifesto, o contromanifesto, che, su richiesta di Giovanni Amendola 17 Croce aveva composto nel 1925 e molti, anzi moltissimi, intellettuali italiani avevano sottoscritto nelle settimane successive . Nella sua polemica, Gentile non li ri­ sparmia. Ma, come si è detto, anche li blandisce: donde, ap­ punto, il tono che si è creduto di poter definire « dolciastro » della sua pur violenta invettiva. Per un verso, infatti li as­ sume come altrettanti esempi di « leggerezza e vanità», letterati, « intellettuali apolitici », ai quali non parve vero di fare un po' di pubblicità al proprio nome apponendo una 15 Questi articoli furono raccolti fra le Nuove pagine sparse, Bari 1 966, I, 63- 1 06 (e cfr. I, 21 n. 1 ) . 16 G. GENTILE, Fascismo e Università, « Educazione fascista », 5 ( 1 929) , pp. 6 1 3-15; e ora in Poetica e cultura, a cura di H.A. Cavaliera, Firenze 199 1 , II, 235-39. 1 7 Cfr . la lettera di Giovanni Amendola a Benedetto Croce, 20 aprile 1 925, e la risposta del secondo al primo, in E. KiiHN-AMENDOLA, Vita di Giovanni Amendola, Firenze 1 96 1 , pp . 5 70-7 1 . Cfr. anche B. CROCE, Epi­ stolario, I, Scelta di lettere curata dall'autore, Napoli 1967, pp . 1 1 1 - 12; e quindi Carteggio Croce-Amendola, a cura di R. Pertici, Napoli 1982, pp. 82-83.

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« firma che non costava nulla»; e per un altro, invece, usa nei loro riguardi il tono dell'indulgenza. Li invita infatti a rientrare nei ranghi, a prendere coscienza della realtà « fasci­ stica» che, li avverte, non è cosa effimera e passeggera, come ben sapevano gli intellettuali veri che subito avevano scelto di stare dalla parte del nuovo movimento e del suo capo. Di questo invito a rientrare, o ad entrare, nei ranghi e, per ciò stesso, ad uscire dalla «preistoria », nella quale in­ vece sarebbero rimasti immersi se avessero seguitato a con­ dividere sul serio il punto di vista sostenuto in quel famige­ rato manifesto che, aggiungeva (ed è aggiunta rivelatrice), « è sempre un caso strano come abbia potuto, quattro anni fa, raccogliere tante firme sotto una dichiarazione polemica banale e stizzosa, scritta senza la più piccola dose di co­ scienza della gravità e serietà dell'atto nazionale che s'inten­ deva compiere » 18, - di questo invito a dichiarare finito il tempo dell'irrealtà e dell'incoscienza, proprio il giuramento di fedeltà al fascismo, che, a quel che si sentiva dire, si pen­ sava di imporre ai professori delle Università, avrebbe po­ tuto essere l'espressione e, insieme, lo strumento concreto. E perciò, convinto del male che dal manifesto crociano del 1925 era derivato, egli, Gentile, plaudiva all'iniziativa. « Se questo avverrà - scriveva - son certo che, tranne quattro o cinque, che saranno essi stessi contenti di aver un'occa­ sione d'uscir dall'equivoco, lasciando il servizio dello Stato che sotto i loro occhi s'è trasformato radicalmente e non può più ammettere divergenze di tendenze e di dottrine politiche tra sé e i suoi professori », i più « giureranno in buona co­ scienza, lealmente; e proveranno che dal 1925 al 1 929 anche l'Italia intellettuale ha fatto molto cammino, e l' antimanifesto va buttato, finalmente, in soffitta» 19. È difficile leggere questa prosa senza che un sentimento pena e, insieme, di sdegno prenda forma nel fondo del­ di l'animo . Ancora oggi che tanti anni sono passati da questo episodio e la morte violenta che subì nell'aprile del 1944 ha ts 19

GENTILE, Fascismo e Università , p. 613 ( Ibid., p. 614 ( pp. 237-38) . =

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p. 23 6) .

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come chiuso in un orizzonte di non trascendibile tragedia la figura umana di Giovanni Gentile, - ancora oggi è difficile resistere, impassibili, di fronte a questo spettacolo di traco­ tanza intellettuale e morale, e anche di ingenuità, perchè come un uomo suo pari si sarebbe altrimenti potuto illudere che l'unità potesse nascere dalla coercizione? In realtà nell'au­ tentico diktat che il filosofo faceva pesare su quanti avevano reagito al suo manifesto, addirittura impossibile è non rile­ vare il misto di orgoglio ferito, di superbia, di dispregio, di volontà di rivincita e di vendetta, e, dall'altra parte, di ipo­ crita indulgenza, che rende francamente deplorevole questa come tante altre sue prose politiche. È difficile altresì, e forse anche impossibile, non cogliere in essa la spiacevole minimiz­ zazione del coraggio che aveva assistito i firmatari del mani­ festo, o antimanifesto, di Benedetto Croce; è difficile, e forse impossibile, per ciò stesso che, diviso com'è fra la dichiara­ zione del nessun pericolo, o rischio, che la sua sottoscrizione implicava, e l'altra relativa agli « zelanti » che, « nelle ammi­ nistrazioni statali e negli uffici del Partito vanno spesso a scartabellare gli elenchi dei firmatari, per rinfrescarsi la me­ moria e confermare periodicamente la sentenza di bando con­ tro questo o quell'intellettuale segnato nigro lapillo: bando da una commissione giudicatrice, da un ufficio tecnico, da una cattedra, a cui si accederebbe magari per trasferimento ecc . » 20, il ragionamento di Gentile riesce addirittura con­ traddittorio. E difficile, infine, e anzi impossibile, perché, come non cogliere in quest'articolo quella che potrebbe essere definita la perfidia della lusinga che Gentile usa nei riguardi dei professori universitari agitando dinanzi ai loro occhi la vana insegna dell'Accademia d'Italia della quale, nella sua su­ periore saggezza, clemenza, lungimiranza, il capo del governo già aveva chiamato a far parte qualcuno dei firmatari del « fa­ migerato manifesto »? Non deve forse dirsi e riconoscersi, e tanto più se volentieri se ne farebbe a meno, che, nell'argo­ mentare in questo modo, Gentile mostrava di avere bene ap­ presa (e occorre dargliene atto) la tecnica caratteristica del ti20

Ibid., p. 6 1 7 .

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ranno: del tiranno, si vuoi dire, che disprezza e blandisce, e tanto più blandisce quanto maggiore è la disistima che nutre nei confronti di coloro che si dispongono a riceverne le lusin­ ghe e ad accoglierne i favori? Alla vox communis che assegna a lui, Giovanni Gentile, il « consiglio » rivolto al governo di introdurre il giuramento di fedeltà al regime fascista, deve dunque prestarsi fede . Questa è, in effetti, la verità; e cosl proprio come Croce, De Sanctis, Levi Della Vida e, fra gli storici del fascismo, con particolare vivacità, Giuseppe Antonio Borgese ebbero a narrarle, le cose effettivamente andarono. L' articolo che ab­ biamo citato e, solo in parte, commentato, ne è, del resto, la eloquente conferma: essendo evidente che l'idea di scriverlo non venne a Gentile se non al fine di dare pubblicità e, con ciò, ulteriore efficacia, al lavoro persuasivo da lui svolto, a partire almeno dall'anno precedente, presso Benito Musso­ lini, e per mettere quest'ultimo, che in effetti esitò abba­ stanza a lungo a seguirne il consiglio, nella condizione di non poterlo rifiutare. La verità era stata in effetti intuita, a questo riguardo, da Borgese che nel suo libro a ragione os­ servò che, « ispirato dal desiderio di rendere la vita difficile a quei seguaci di Croce che avevano ancora delle cattedre universitarie » 2 1 , fu proprio Gentile, e lui soltanto, a sugge­ rire a Mussolini l'idea del giuramento . E certo Borgese colse ancora nel segno quando rilevò che, malgrado l'autorità del proponente, il « despota titubò per più di due anni », perché la paura che avvertiva « davanti al mondo misterioso dell'in­ telletto gli faceva temere », ulteriormente, « un'insurrezione di massa » 22. Rilievo acuto, come si vede, anche se, come del resto è nello stile di Borgese, insieme esagerato e som­ mario; alla cui luce può forse comprendersi perché, tra il fi­ losofo e il tiranno, le parti questa volta si invertissero e fosse il primo a somministrare al secondo la lezione, più ci­ nica in questo caso che pessimistica, del realismo. Da Gen21 22

G.A. BoRGESE, Golia. Marcia del fascismo, Milano 1 946, p. 3 3 5 . Ibid. , p. 336.

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tile Mussolini fu infatti invitato a considerare che quello della « rivoluzione dei professori » era un timore infantile, perché, di costoro, non più di quattro o cinque avrebbero rinunziato alla cattedra per rimanere fedeli ai loro ideali e pur di non piegarsi a giurare fedeltà al fascismo. Non è dunque vero che, su indicazione e imposizione mussoliniana, Balbino Giuliano sottoponesse a revisione il « precedente testo » di Gentile, e al Re e allo Statuto aggiun­ gesse, quale oggetto specifico del giuramento di fedeltà, il « regime fascista ». O, se si preferisce, è vero (perché Balbino Giuliano era allora il Ministro della Pubblica Istruzione); ma in un senso estremamente specifico che, al di là di ogni pos­ sibile ambiguità, richiede di essere determinato . È vero nel senso che, fra il 1924 e il 193 1 , tre volte i professori univer­ sitari furono invitati a giurare; e che l'ultimo dei tre giura­ menti riguardò non solo il Re e lo Statuto, ma anche il regime fascista. Non è vero nel senso che, auctor del primo giura­ mento (quello del 1 924), nell'ideazione e imposizione del terzo Gentile non avesse alcuna parte: del primo, infatti, egli fu, come ministro, il materiale estensore, dell'altro fu la mente, l'anima, - l'autorevole e tenace consigliere « segre­ to » 23. Chiarito il punto, può passarsi, questi tre giuramenti, a osservarli da vicino . Il 6 aprile 1 924, nell'art . 3 1 del Regola­ mento generale universitario Gentile aveva disposto che i professori giurassero fedeltà al Re e allo Statuto, impegnan2 3 Cfr. H. GoETZ, Agostino Gemelli e il giuramento del 1 9 3 1 , « Quel­ len und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken », 59 ( 1 976), pp . 427 sgg . E dello stesso, Giovanni Gentile und der Faschismus, « Geschichte in der Wissenschaft und Unterricht », 27 (1 976), pp . 103-104. Si veda del resto la « memoria » Sullo schema di disegno di legge contenente disposizioni sull'ordinamento dell'Istruzione Superiore (AC S, PCM, 5/ 1 , n. 703 1 ) che Gentile firmò di suo pugno, e che reca la data del 5 gennaio 1 929 a. VII. Si legge, testualmente, nelle linee conclusive: « art. 22, che si indica qui per ultimo per la sua importanza. Esso con una breve aggiunta alla for­ mula vigente del giuramento dei professori potrà, come ho avuto l'onore di esporre a voce, risolvere la questione delicata e ormai urgente della fascistiz­ zazione delle Università italiane » .

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dosi altresì ad esercitare « l'ufficio di insegnare e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria ». A sua volta, con il Regio decreto-legge del 1 3 gennaio 1 927, il ministro Pietro Fedele aggiunse alla precedente formula la precisazione che ai profes­ sori era fatto divieto di appartenere ad associazioni, e partiti, « la cui attività non si concili con i doveri connessi all'uffi­ cio ». Fu soltanto nel 193 1 che, essendo ministro Balbino Giuliano, ma su iniziativa di Gentile, ai professori fu imposto di giurare fedeltà, non solo al Re e allo Statuto, ma anche al « regime fascista » . Così, la tendenza, che già nel secondo te­ sto può notarsi, alla « rigorizzazione » in senso autoritario del contenuto, raggiunge, nel terzo, il suo culmine . Il « preceden­ te testo » di Gentile fu « ampliato ». Ma a proporre l'amplia­ mento del suo vecchio testo del 1 924 era stato, fin dal 1928, con tenace perseveranza, proprio lui, - Giovanni Gentile. Se è così, occorre riconoscere che il più e il meglio rimane tuttavia oscuro. E torniamo a chiederci: perché? Perché Gen­ tile pretese da Mussolini, e infine ottenne, che i· professori universitari giurassero fedeltà al regime fascista? E perché, dopo le note esitazioni, anche il capo del governo si risolse a compiere quel passo? Che interesse potevano avere, il ditta­ tore e il filosofo, a esercitare una simile prepotenza, e quale « utilità » pensavano che avrebbero ricavata da una così odiosa imposizione? Non era difficile infatti capire che se la formula del giuramento fosse stata sottoscritta dalla gran maggioranza dei professori universitari, la luce della vittoria fascista sarebbe pur sempre stata offuscata dal sospetto che a giurare costoro fossero stati spinti da considerazioni personali (le famiglie, i figli) , da paura, o, se antifascisti, dal convinci­ mento che abbandonare l'Università nelle mani del Regime e dei suoi seguaci non fosse, dopo tutto, il miglior partito; per non parlare poi del tranquillo cinismo di cui, ad esempio, dette prova, e quasi si vantò, un uomo come Giacomo De­ voto, il quale più tardi, con qualche compiacimento da esprit /ort, non esitò a scrivere che quel giuramento ebbe per lui « il valore di un bicchiere d'acqua fresca » e che mai e poi mai

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avrebbe rinunziato « ad una possibilità di viaggio o di passa­ porto all'estero per non cedere a una imposizione di questa natura » 24 : - un sentimento questo che il dotto glottologo avrà condiviso con altri, e che non era tale da recar gloria al fascismo che, con questa sua iniziativa, era andato a risve­ gliarlo nel profondo delle coscienze. E ancora più facile sa­ rebbe stato comprendere che, se qualcuno avesse trovato la forza di resistere e di non giurare, a questi « pochi » sarebbero andati il plauso, e il consenso, delle coscienze libere, la am­ mirazione degli uomini di coraggio, - quelli stessi, insomma, ai quali, nel 1 923 , Gaetano de Sanctis aveva dedicato, defi­ nendoli « parimente » sdegnosi « d'essere oppressi e di farsi oppressori», il quarto volume della Storia dei Romani. Per quanto riguarda Mussolini, la questione può forse es­ sere risolta con relativa facilità. Sebbene, sensibile com'era agli umori e alle possibili reazioni negative dell'opinione pubblica, italiana e, forse, sopra tutto, internazionale, il capo del governo non si nascondesse i pericoli che l'imposi­ zione del giuramento ai professori delle Università recava con sé, è tuttavia probabile che egli avesse qualche buona ragione per correre questo rischio e che, alla luce di queste, dopo i dubbi e le esitazioni, valutasse il suggerimento di Gentile. A parte il sottile piacere che forse si riprometteva di trarre da questo atto di prepotenza, vòlto a piegare l'or­ goglio di quanti, fra gli intellettuali italiani, non gli avevano risparmiato, nel recente passato, ironie, sarcasmi, ostilità, è probabile che, piegandoli alla fedeltà, Mussolini intendesse anche, a pochi mesi dalla sottoscrizione dei Patti lateranensi, rivendicare i diritti dello Stato contro la pretesa che alla Chiesa, e soltanto a questa, spettasse la guida spirituale delle coscienze. Si sa bene, del resto, che il 19 3 1 è, nei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, un anno di crisi; e cosl non può escludersi e, anzi, deve ammettersi, che, sollecitata e messa a dura prova da quanto aveva pur dovuto concedere al papa, 24 G. DEVOTO, La parentesi. Quasi un diario, Firenze 1 974, pp. 39-40 (cfr . L . CANFORA, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Pa­ lermo 1 985, p. 1 8 ) .

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la sua antica e alquanto rude vena anticlericale gli consi­ gliasse di ricorrere anche a quel provvedimento, politica­ mente discutibile . Si aggiunga che a spingerlo in questa di­ rezione fu non soltanto il desiderio, nascente da un antico complesso d'inferiorità, di esser lui il padrone indiscusso e il « duce » delle coscienze di coloro che si fregiavano del titolo accademico e, fosse vero o no, rappresentavano il meglio della cultura italiana, ma anche (è stato il De Felice a notar­ lo) 25 l'interesse che aveva a placare i risentimenti e le scon­ tentezze di quanti, nel fascismo, esprimevano le « istanze ri­ voluzionarie » e ritenevano che il movimento delle « camicie nere » dovesse piegare ogni resistenza, somministrando a tutti, nemici e amici troppo « tiepidi », adeguate lezioni. È probabile che, in questo calcolo, in parte Mussolini vedesse giusto e in parte, invece, sbagliasse: vedesse giusto nel rite­ nere che, alla fine, con qualche protesta facilmente supera­ bile e rimediabile, i professori giurerebbero senza dargli più eccessiva noia, ma sbagliasse, tuttavia, nel resto: anche se, per altro verso, occorra riconoscere che a veder giusto nelle piccole cose e a sbagliare nelle grandi egli era, per cosl dire, costretto da quel che era, - un dittatore e un tiranno che, secondo la logica deteriore delle dittature e delle tirannidi, doveva pensare, valutare, governare. E Gentile? Quali ragioni lo indussero a consigliare il giu­ ramento e a battersi, tenacemente, perché infine il consiglio fosse accettato? Perché con tanta energia volle umiliare i suoi colleghi delle Università? Ci accontenteremo delle ragioni che egli ebbe ad esporre nell'articolo del 1929? O piuttosto cer­ cheremo di osservarle, queste ragioni, in controluce, per co­ glierne la trama più sottile e, per certi aspetti, addirittura « segreta»? In realtà, la risposta alla domanda concernente le «ragioni » di Giovanni Gentile è tanto più difficile quanto più intricata appare la psicologia del personaggio: - un per­ sonaggio che alcuni hanno ritenuto fosse mosso soltanto dalla forza della passione risorgimentale reinterpretata alla luce della filosofia dell'atto puro, oppure (pau lo minora canamus!) 25

DE FEUCE , Mussolini il duce cit . , l, 1 09· 1 1 0.

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dall' ambizione della potenza e della gloria mondana, e invece fu un uomo complesso, agitato da sentimenti diversi e, spesso, addirittura contradittorii: così diversi e contradditto­ rii da, appunto, offrire difficoltà notevoli a chi tenti di ren­ derne persuasiva la decifrazione. Per cercar di orientarsi nel groviglio di queste che, comunque connotate e qualificate, sono pur sempre passioni, occorre dunque procedere con pa­ zienza, gradino dopo gradino, verso il centro della sua co­ scienza. Ma, per arrivare a tanto, quale strada seguiremo? La prima risposta alla domanda potrebbe essere che, in tanto Gentile ebbe a dare a Mussolini il suggerimento di cui stiamo discutendo, in quanto, al pari di lui, anch'egli, in quel momento difficile, avvertiva la necessità di tenere a bada gli « intransigenti », che non gli risparmiavano critiche e auten­ tici attacchi, definendolo un liberale travestito da fascista, e dunque, in ultima analisi, un opportunista pronto a tradire. Ma si tratta di una risposta, quanto meno, parziale; e che ad­ dirittura errata si rivelerebbe qualora si pretendesse di esau­ rirvi le ragioni che sono alla radice della sua iniziativa. In realtà, Gentile era troppo orgoglioso, era troppo sicuro della bontà del compito che s'era proposto, e che consisteva nel realizzare, attraverso e nella sua stessa persona, la congiun­ zione di Risorgimento e fascismo; era, infine, troppo persuaso di star operando nelle regioni pure del pensiero e della Wel­ tgeschichte, per lasciarsi guidare da una così meschina ragione di opportunità politica, o da questa soltanto . Il suo ideale era che, strumento e, al tempo stesso, méta, il fascismo compisse l'unità degli italiani, conferendo concretezza etica al loro sen­ tire comune e fondendo insieme, in un nesso indissolubile, lo stato e la patria, la patria e lo stato. E, malgrado il cinismo e la deteriore astuzia di cui, talvolta, dette prova in questi anni, personalmente Gentile era abbastanza « ingenuo » da il­ ludere sé stesso che un'impresa come quella che la sua filoso­ fia delineava in termini di libertà, autoctisi, autocoscienza potesse esser condotta a compimento con uno strumento così estrinseco e miserevole qual era un giuramento imposto ab ex­ tra, e quindi, per dirla in modo conforme al suo stile filoso­ fico, secondo la logica deteriore del «naturalismo», alle co­ scienze.

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In realtà il punto che stiamo toccando , o per toccare, è dei più delicati: perché concerne la questione del rapporto che lega, oppure non lega affatto, l'attualismo e il fascismo, Gentile e Mussolini. Primo fra tutti coloro che, per elogiare o per criticare, sostennero la tesi del nesso, o dell'esistenza del nesso, dev'essere considerato lo stesso Gentile; che, benin­ teso, nel sostenerla, si elogiò e non si criticò, perché, sul se­ rio, nel fascismo vide e volle vedere la realizzazione, o l'avvio alla realizzazione di quel che sempre a lui era sembrato im­ portante e vitale, - la serietà e intimità del sentire politico, il primato dell'azione, l'unità della teoria e della prassi. Ma, al di là, al di qua, accanto a questo modo « fascistico » di inten­ dere l'attualismo, con il quale Gentile convertl in termini po­ sitivi l'aspro giudizio negativo formulato da Benedetto Croce, c'era però dell'altro; e questo è che, come nel filosofo attua­ lista l'idea della disciplina non poteva andar disgiunta da quella della libertà, e questa era pur sempre, per certi essen­ ziali aspetti, l'idea stessa che anche il vecchio liberalismo aveva affisata, cosl, per un altro verso, in sede di teoria logica e anche politica, la filosofia dell'atto puro lasciava trasparire in sé stessa un non sopprimibile lineamento «liberale ». E, per questo aspetto, si poneva come la critica immanente di ogni astratta « cristallizzazione » istituzionale, come il supera­ mento eterno, nella libertà, di ogni estrinsecità « naturalisti­ ca», come la rivendicazione dell'eterno primato della co­ scienza che, anche qui in eterno, condanna il « fatto » all'inat­ tualità: il che, fra l'altro, spiega non solo l'accanimento con il quale, appena delineata, la sua « riforma » scolastica fu com­ battuta dentro il fascismo, ma, sul fronte opposto, il fascino profondo che il suo pensiero esercitò su quanti pur non con­ dividevano, e anzi combattevano, le sue « scelte » politiche. Così alla radice del suo pensiero si veniva determinando, e via via si accentuò, un contrasto netto, e difficilmente sana­ bile, fra l'idea dell' « unità» politica degli italiani, pensata in termini di patria e, più ancora, di coercizione statuale, e il criterio che questa medesima unità delineava e configurava nella pura riflessione filosofica. E il contrasto teorico non è forse senza concreti riscontri nella sua coscienza politica e morale, che, variamente, lo avvertì, ma, certo, non riuscì a ri-

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comporlo. Per un verso, dal concetto radicale della libertà in­ tesa come il « farsi » incessante e non obiettivabile dello « spi­ rito », e dalla conseguente consapevolezza che impossibile fosse la sua « traduzione » in termini politici e giuridici, egli era indotto, per contrasto, a contemplare un mezzo che, vi­ ceversa, tanto più valesse a « obiettivare », ossia a tradurre nell'obiettività istituzionale, quanto più, forse, gli appariva chiaro che , a svolgere soltanto la prima linea, la conseguenza sarebbe stato un liberalismo venato, addirittura, di spiriti li­ bertari e del tutto insofferente del vincolo, non si dice della dittatura, ma della legge. Era, in effetti, un'eterna Antigone quella che, in questo quadro, Gentile individuava come l'es­ senza stessa della politica. Di qui, per un altro verso, il com­ pito che egli propose a sé stesso, di ritradurre Antigone in Creonte, e di rendere così possibile l'obiettiva realizzazione politica dell'atto. Era, come è facile comprendere, un com­ pito impossibile, al quale, per altro, egli si dedicò con cura puntigliosa; e lo strumento, il mezzo, la tÉXVll della realizza­ zione obiettiva poté persino sembrargli rappresentabile nel giuramento imposto alla classe dei dotti, dei clerici, degli uo­ mini di cultura, - i professori, insomma, delle Università ita­ liane. Era, certo, nella filosofia come nel resto, un'ingenuità, una grave, e fin quasi incredibile, ingenuità. E quasi si è in­ dotti a pensare che, se fosse stato più esperto di poesia e di letteratura, e la sua memoria fosse stata visitata dalle parole con le quali, nel Julius Caesar di Shakespeare, Bruto respinge l'idea che i congiurati debbano giurarsi fedeltà, forse, chi sa, sarebbe stato spinto a interpretare in una luce più pura, e con maggior rigore, il senso di un pensiero quale era il suo, così ostile, per tanti e non inessenziali aspetti, ad ogni inter­ pretazione eteronoma dei fatti « spirituali ». Anche questa spiegazione, tuttavia, con la quale e nella quale l'accento è fatto battere con forza sul contrasto che, come la sua filosofia, così divideva in due la sua personalità, e addirittura incomunicanti rendeva talvolta le sue « parti », - anche questa spiegazione non è sufficiente a farci pene­ trare fin nel fondo della sua coscienza, nel luogo nascosto in cui le « decisioni » si determinano per cercare, poi, la luce. O meglio: non sarebbe sufficiente, e permarrebbe in una

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qualche astrattezza, se non la specificassimo osservando che, nel contrasto di quei due motivi, il secondo, - quello che, nel caso in questione, si esprimeva come il consiglio e la scelta del giuramento, assumeva quasi il carattere di una volontà cieca e irresistibile: come se, nell'avvertire la voce profonda della libertà spirituale, lungi dallo svolgerne il tema politico che le è intrinseco nella forma di una critica dell'auto­ ritarismo e della dittatura, Gentile intendesse piuttosto spe­ gnerne il suono e dare invece rilievo al momento coercitivo, al quale, assurdamente, affidava il compito di realizzare l'unità e l'organica fusione degli spiriti. Molte ragioni, certo, avranno contribuito a determinare la scelta di questo secondo elemento, o motivo, della sua così poco pacificata « sintesi »; e, fra queste, la meno importante non sarà da ravvisare nella necessità che gli imponeva di opporre un netto rifiuto a qua­ nti, in quegli anni drammatici, avevano cercato di fargli toc­ care con mano fino a che punto il suo pensiero filosofico fosse cosa diversa dalla teoria e dalla prassi del fascismo, e richiedesse quindi atteggiamenti opposti a quelli dell' ac­ cettazione e del consenso. Si pensi, per fare un esempio, al drammatico e doloroso carteggio che, dopo il delitto Matteot­ ti, egli scambiò con il suo discepolo Adolfo Omodeo; si pensi a quello, ancora inedito, che intrattenne con l'amico fraterno Giuseppe Lombardo Radice 26 • Sarebbe una patente scioc26

Cfr . per es . , la lettera, veramente impressionante, che Lombardo Radice gli inviò il 24 giugno 1 924 (Archivio Fondazione Gentile, Carteggi) : «ora Giovanni Gentile, che non può non capire (se no, dove andiamo a fi­ nire? diveniamo tutti un paese di ciechi e di deboli?) , non può, agli occhi di chi lo stima, restare a condividere la responsabilità di un uomo politico cer­ tamente cieco e debole». E ancora: «e se tu non esci ora, sia pure a burrasca superata (provvisoriamente superata) , tu non varrai più domani, quando l'Italia avrà bisogno di te [ . ] Tu non varrai più perché sarai stato cieco agli ordini del cieco» . «Esci e serba la tua forza per tutti intatta». Gli scriveva ancora il 5 settembre dello stesso anno, quando Gentile fu chiamato a pre­ siedere la Commissione per la riforma dello Statuto: «mancherei al più grave dei miei doveri, se non ti dicessi la mia impressione. Sono profonda­ mente addolorato di vederti non solo membro, ma capo della Commissione per la riforma dello Statuto. Quella è, per me, una triste e ridicola cosa>>. L'S aprile rifiutava l'invito che Gentile gli aveva rivolto a collaborare all'En.

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chezza ritenere che le parole indirizzategli da uomm1 come questi, che lo stimavano, lo amavano, addirittura lo venera­ vano, e che egli certo ricambiava con analoghi sentimenti, non penetrassero nel fondo della sua coscienza, e che, acce­ cato dall'ambizione, egli non avesse il tempo e sopra tutto la voglia, non che di accoglierle, nemmeno di ascoltarle . La ri­ costruzione storica non è la polemica politica; e nella realtà profonda del suo essere Giovanni Gentile non era certo l'Idealtypus dell'intellettualità convertita e pervertita in licen­ za, libidine di potere, cinismo. Quelle parole, dunque, Ge­ ntile le ascoltò, anche se non poté accoglierle, condividendo­ le, dentro di sé: non si dice soltanto quelle che Adolfo Omo­ deo gli rivolse quando, il 5 agosto 1 924, lo invitò ad assumere la guida del fascismo, « ora che Mussolini è fallito » 2 7, ma anche le altre che gli indirizzò il 15 ottobre per confidargli che, per quanto « scaltrito negli scherzi della storia», non ar­ rivava a comprendere e a « scorgere non dico l'aderenza ma nemmeno il germe del suo programma in questo rivoluziona­ risma allo stato cronico, che con tanta leggerezza sovverte ciclopedia; e, vedendo che, ciò nonostante, il suo nome figurava nell'elenco dei collaboratori, gli scriveva, secco, il 23 aprile: « e tu non hai diritto a re­ gistrare il mio nome fra i tuoi collaboratori. lo non sono tuo collaboratore». Non era valsa, evidentemente, a rassicurarlo, la dichiarazione di Gentile che il 14 aprile gli aveva scritto non avere l'Enciclopedia «proprio nulla di co­ mune col fascismo»: non essere né «fascista nè idealista»; e certo l'aveva fe­ rito, questa volta, l'orgogliosa e «possessiva» pretesa dell'amico di segnarlo «ad ogni modo» nell'«elenco dei collaboratori». Non è questa la sede in cui possa parlarsi dell'amicizia di questi due uomini: che fu, comunque, profon­ dissima, e con accenti, da parte di Lombardo Radice, volta a volta patetici e drammatici. Quando, nell'agosto del 1938, Lombardo morl, stroncato, mentre passeggiava lungo un sentiero di montagna presso Cortina d' Am­ pezzo, da un infarto, Gentile scriveva a Guido Calogero, che vi si trovava in vacanza, questa breve lettera: «ho avuto la brutta notizia da un giornale, e troppo tardi perché potessi trovarmi a Roma ai funerali, dove altrimenti non sarei mancato . Ma perché la famiglia non aveva risparmiato gli stra­ pazzi della montagna a un uomo tanto sofferente di cuore? Povero Lom­ bardo! Quanti ricordi per me e quanta tristezza in questo dileguarsi di tutti i vecchi amicih> (AC S, fondo G. Calogero, b. 6 1: e cfr. AFG, s. L . , terzi a Gentile, fase. Calogero, la lettera con la quale, il 18 agosto 1938, Calogero annunziava a Gentile la morte di Lombardo Radice) . 27 Carteggio Gentile-Omodeo, Firenze 1974, p. 3 1 6 .

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ogni norma giuridica e morale, senza crearne una nuova; che dissipa l'autorità dello stato in un feudalesimo provinciale sovvertitore e corruttore: che con tanta leggerezza viola tra­ dizioni che bisognerebbe consolidare; che rompe l'unità mo­ rale dei cittadini che dovrebbe sussistere pur nelle più acca­ nite lotte dei partiti; che confonde milizia con vita politica, stato con partito, monarchia con cesarismo presidenziale » 28 . Gentile, dunque, ascoltò, lesse, ma non poté accogliere l'invito che queste parole contenevano; e nemmeno poté ac­ cogliere l'appello drammatico rivoltogli da Lombardo Radice. Nel suo orgoglio, non poté accettare che da parte di uomini che militavano ormai dall'altra parte della barricata gli si ri­ cordasse che questa « parte » avrebbe dovuto essere la sua, e che c'era ancora tempo perché egli vi prendesse il posto che a lui conveniva. Le ragioni di questa « impossibilità» non erano del resto quelle, difensive ed estrinseche, che egli provò ad esporre quando, rispondendo a Omodeo il 22 dicembre, gli obiettò che i suoi giudizi non corrispondevano « alla realtà delle cose, che tu », scriveva, guardi « attraverso i giornali, e io sento vi­ vendoci dentro » 29; per concludere : « una sola questione mo­ rale c'e, ed è la questione politica generale: salvare l'Italia. Le altre questioni morali minori non sono morali appunto perché minori » 30• Ragioni estrinseche, come si vede. Argomenti fu­ tili, ammantati di estrinseco realismo. Se sul serio quelle que­ stioni fossero state, quali Gentile le definiva, « non morali », allora avrebbero altresl dovuto essere qualificate, non come « minori », ma, appunto, come « immorali », e tanto estese, per conseguenza, quanto la « moralità » alla quale si contrap­ ponevano . Il che Gentile non era tuttavia disposto a conce­ dere; e per questo, non per altro, le sue ragioni appaiono po­ vere ed estrinseche, i suoi argomenti, futili. In effetti, e lo si è già accennato, i motivi autentici, che a Gentile vietavano di 28 Ibid. , p.324. E cfr . già la sua lettera del 27 agosto 1922, Carteggio, p. 320, in cui si parla del « bonapartismo » di Mussolini e si paventa una « dittatura Farinacci ». 29 Carteggio Gentìle-Omodeo, p . 328. > o Ibid., p . 329.

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accogliere l'invito che gli amici gli rivolgevano perché si de­ cidesse a prender atto della realtà, non erano questi: ossia, non erano quelli che egli metteva in campo. Nella imbaraz­ zata difensività che non è difficile cogliervi, nella stessa vee­ menza della critica rivolta, da una parte, alle « anime belle », da un'altra, e senza sostanziale divario, agli « inferiori inte­ ressi politici », questi motivi sono bensl interessanti: ma come indizio di qualcosa d'altro che, invece, rimaneva celato, come documento di un disagio che al suo argomento comunicava qualcosa come la contraddittorietà intrinseca. Cosl, per un verso, egli giudicava «generosa » e creativa la « violenza fas­ cistica » che, abbattutasi sulla « spensierata pigrizia del carat­ tere italiano », « ha certo del barbarico e dobbiamo », perciò, « a tutto potere » combattere . Ma, per un altro verso, riteneva tuttavia che, appunto si « abbattesse » sull'atavica pigrizia del carattere italiano, interrompendo il lungo sonno del titano ignavo. E allora, francamente, perché mai si sarebbe dovuto contrastarne il corso benefico? In effetti, è probabile, anzi, a rigore, del tutto certo, che in Gentile agisse l'una determina­ zione, e quindi, in sostanziale contemporaneità, anche l'altra; che egli desiderasse opporsi, « a tutto potere », alla « violenza fascistica » che pure, per un altro verso, considerava « gene­ rosa» e, per gli effetti che potevano attendersene, addirittura provvidenziale . E la contraddittorietà balenante in questo giudizio costituisce, essa, l'indizio di un più profondo, e irri­ solto, contrasto interno: - di quella scissione, insomma, che già fu notata nella sua maniera, duplice e niente affatto ar­ monica, di intendere la libertà e la legge. Le ragioni dell'impossibilità, in cui Gentile si trovava, di dare ascolto a quel che gli amici gli raccomandavano, e una parte della sua coscienza in qualche modo avvertiva e condivideva, stanno in questa scissione che mai egli riuscl a dominare e a ricompor­ re. Stanno, tuttavia, anche altrove; e forse non si va lontano dal vero se si osserva che, a costituirle nella forma che assun­ sero nelle profondità della sua coscienza, a renderle cosl forti ed esclusive, nonché impenetrabili e armatissime contro il rischio che altri riuscisse a « confutarle », fu proprio la sintesi singolare di orgogliosa sicurezza e di dubbio tenace che sem­ bra essere, questi due « caratteri » alimentandosi e rafforzan-

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dosi l'un l'altro, l'accordo di base della sua personalità: quella peculiare mistione di incertezza e poi anche di straordinario senso di sé e della propria infallibilità, quel continuo rina­ scere della sicurezza dall ' insicurezza, il cui fondamento ul­ timo può forse essere indicato in uno degli elementi costitu­ tivi di questa strana « sintesi », - nell'orgoglio smisurato di cui sempre dette prova: nell'orgoglio che, a sua volta, è, non soltanto una sorta di forza debole, di sicurezza insicura, di decisione indecisa, ma anche, e nello stesso tempo, il contra­ rio di queste cose, e cioè una debolezza forte, un'insicurezza sicura, un'indecisione decisa; insomma, un equilibrio impos­ sibile che ad ogni ora, nei momenti drammatici della vita e della storia, rischia di trasformarsi in un gorgo terribile, nel quale le personalità che ne partecipano sono travolte senza ri­ medio. Ad alimentare questo orgoglio, e a rendere perciò ir­ reversibile il suo destino; a far sl che, nel suo stesso sentime­ nto, l'orgoglio apparisse ai suoi occhi come un oai�c.ov irresi­ stibile e, in definitiva, un padrone al quale ribellarsi era impensabile, erano in realtà proprio gli argomenti degli amici che cercavano di risvegliare in lui il sentimento della libertà offesa, trattenendolo dal precipitare nel baratro che egli stes­ so, ogni giorno, contribuiva a rendere più pauroso e profon­ do . Ma ancora più erano le critiche violente e le parole sprez­ zanti che il suo vecchio amico Benedetto Croce gli rivolgeva; e certo negli anni successivi all'assassinio di Giacomo Mat­ teotti, a rafforzarlo nella scelta del fascismo sarà proprio quel che si legge nella Storia d'Italia dal 1 871 al 1 915, nel luogo in cui dell'idealismo attuale si dice come di un « cattivo consi­ gliere pratico » 3 1 • Come aveva scritto nelle ultime pagine del Sistema di logica, le critiche filosofiche rivoltegli da Croce era stato per lungo tempo abituato a considerarle alla stessa stre­ gua di quelle che egli stesso si rivolgeva: le aveva perciò de­ finite come l'autocritica del suo pensiero 32• E questo doveva B. CROCE, Storia d'Italia dal 1 871 a/ 1 915, Bari 1 942 7 , pp. 258-59 (cfr. il mio La 'Storia d'Italia ' di Benedetto Croce, Bibliopolis, Napoli 1 979, pp . 63-65) . 32 G. GENTILE, Sistema di logica come teoria del conoscere, Firenze 11

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altresì esser vero nelle cose profonde della personalità e dei sentimenti: ancora una volta, ma ora Gentile non poteva con­ fessarlo nemmeno a sé stesso, quelle critiche rischiavano di assumere la forma di un'autocritica. Tanto più, dunque, era inevitabile che la sua reazione do­ vesse essere quale, in effetti, fu. Personalità come la sua ten­ dono all'egemonia e, nello stesso tempo, alla solitudine; al do­ minio degli altri e, quanto maggiore è il numero dei dominati, all'isolamento. La violenza della critica crociana, che egli re­ spingeva con intensità pari al dolore bruciante che gli procu­ rava, ebbe forse per risultato l'esasperazione della sua sicurez­ za, del suo senso dell'egemonia, e della sua solitudine. Esa­ sperando il suo gusto del dominio, lo isolò ancora di più. E tanto più accrebbe ed accentuò questo suo sentimento quanto più, trovatosi solo, egli dovette misurare la gravità della scon­ fitta patita al tempo dei « manifesti », quando, alle firme rac­ colte dal suo si erano contrapposte le tante e tante, autore­ voli, firme che erano andate ad arricchire quello di Croce . Fra queste non poche erano state apposte da uomini che non a torto egli considerava appartenenti al suo mondo, e che, nella storia dei suoi pensieri, dei suoi ideali, dei suoi sentimen­ ti, erano stati importanti. In modo sempre più chiaro e impe­ rioso, avvertì quindi che, giunti a questo punto, egemonia e dominio richiedevano di essere esercitati nella forma della vendetta; - della vendetta che, abbandonato da chi aveva considerato parte di sé, a lui spettava di prendere non solo sui nemici, ma anche, e sopra tutto, sugli amici, che ormai non erano più tali, e con i quali, quasi ad evitare le tentazioni del sentimento, conveniva che ogni rapporto fosse interrotto. L'isolamento e la solitudine raggiunsero così il culmine. Di qui fino al momento della morte, Gentile non ebbe infatti più amici con i quali pacatamente conversare e confidarsi: perduti i vecchi, non ebbe forse più l'animo di farsene di nuovi. A parte gli scolari, troppo di lui più giovani perché 1959, Il, 3 8 3 . Ho citato questa, che è l'ultima edizione: il passo vi è rimasto quale era nella prima (Bari 1923); ma « il più benevolo dei miei critici >> è diventato nell'ultima edizione, semplicemente « un critico ».

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potesse metterli a parte del suo più profondo mondo interio­ re, ebbe seguaci oppure nemici (tanto più radicali quanto più, un tempo, avessero condiviso con lui affetti e ideali) . L'idea che ai professori universitari convenisse imporre il giuramento di fedeltà al regime fascista nacque forse, in lui, da questo giro alquanto intricato di sentimenti; da una cupa volontà, non solo di umiliare chi aveva abbandonato lui all'amarezza della sua solitaria vittoria, ma di impedire a sé stesso ogni possibilità di ritorno al suo vecchio mondo. La complessità di questo stato d'animo rimase celata ai più; e, con ogni probabilità, anche a lui, Giovanni Gentile. Ma, se si riesce ad affisarla negli elementi che la costituiscono forse si arriva a comprendere la rag ione di certi suoi compor­ tamenti altrimenti impenetrabili. E noto (e se ne trova con­ ferma cosl nei Ricordi di Gaetano de Sanctis come nei Fanta­ smi ritrovati di Giorgio Levi Della Vida) che la decisione d'imporre ai professori il giuramento di fedeltà al regime fas­ cista, fu giustificata da Gentile con l'argomento che, com­ piuto questo atto, ogni distinzione di fascisti e antifascisti sa­ rebbe stata cancellata e niente più si sarebbe richiesto ai pro­ fessori delle Università italiane. Che, in una parte di sé, di questa spiegazione Gentile si contentasse, è possibile. Ma, quando lo si prenda per quel che è, l'argomento resta un mo­ dello di astrattezza e di ingenuità. In realtà, se le osservazioni svolte fin qui sono vere, o, almeno, verisimili, le ragioni che indussero Gentile a battersi in favore del giuramento furono di tutt'altra natura; e ne conoscesse o no la genesi, fosse o non fosse riuscito a decifrarne il volto, è certo che non dal desiderio di proteggere la classe dei professori egli fu guidato nella formulazione della sua proposta, ma, al contrario, dalla volontà di colpirli e, per vendicarsi di alcuni, di offenderli tutti. Proprio per questo, a guardar. bene, egli ebbe ad espri­ mere in pubblico (nella sede stessa, ad esempio, del Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia) , e non senza qualche suo rischio personale, non solo l'ammirazione con la quale guar­ dava ai pochi che si erano detti non disposti a piegare il gi­ nocchio e a giurare, ma anche, e nello stesso tempo, il rim-

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pianto con il quale li vedeva andar via dall 'Università. Per questo: e non dunque per le ragioni messe avanti da Levi Della Vida, che le sue fossero le classiche lagrime del cocco­ drillo, - anche se di un «buon coccodrillo », sinceramente addolorato per il danno che aveva procurato agli amici. In realtà, non c'è ragione di credere che del « dramma » che aveva aperto nella coscienza dei molti, o dei non pochi, che a giurare furono costretti dalla necessità di non lasciar mo­ rire di fame le loro famiglie, Gentile non fosse consapevole e soltanto di maniera fosse la sua pietà. L'ammirazione nu­ trit a e proclamata nei confronti di Gaetano de Sanctis, Giorgio Levi Della Vida e persino del suo avversario Erne­ sto Buonaiuti, ai quali, come si è detto, nel Consiglio di Fa­ coltà in cui fu annunziato il loro decadimento dal ruolo dei professori, rivolse parole di saluto e di rimpianto (che, pun­ tualmente, qualche anima caritatevole fece pervenire, per iscritto, alle competenti autorità) 33, nasceva, senza dub­ bio da un moto sincero della sua coscienza. Ma tanto più Gentile doveva compiacersi che questo sentimento si tro­ vasse nel fondo del suo animo, in quanto, compiendo quel­ l'« eccezionale » gesto di coraggio, quegli uomini, essi pro­ prio, confermavano che il resto (la regola !) non era che una vile massa damnationis, della quale era giusto che si pren­ desse vendetta. Il caso Gentile si presta a ulteriori considerazioni. E, per svolgerle, converrà riformulare la domanda: perché, nel­ l' organizzare la mostra e nello scegliere i documenti, Gre­ gory e i suoi collaboratori hanno dato particolare rilievo alla difesa che, in varie occasioni, Gentile fece della « cultura » contro le pretese e le prepotenze della « politica»? Perché 33 AC S , Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato ( 1 922-43) , b. l, fase . 7/R « Giovanni Gentile », pubblicato in Filosofi Uni­ versità Regime, p. 1 3 8 . Non saprei dire perché l'anonimo autore di questa « relazione » riferisca solo il nome di Gaetano de Sanctis, quando dal ver­ bale del Consiglio di Facoltà dell' l i gennaio 1932 risulta (ivi, p. 1 3 3) che Gentile rivolse il suo saluto ed espresse la sua stima a tutti e tre i colleghi che lasciavano l'insegnamento.

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hanno contrapposto a lui i Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, i Francesco Orestano e altri personaggi della mede­ sima qualità? Perché hanno altresì tanto insistito sulla pole­ mica che, da una parte il clericalismo italiano, da un'altra tanti e tanti fascisti scatenarono contro Giovanni Gentile? È evidente intanto che la risposta non potrebbe mai con­ sistere soltanto nel rilievo che la contrapposizione esistette nella realtà, e prenderne atto era doveroso. Non può consi­ stere in questo rilievo (o soltanto in questo rilievo) perché, ed è cosa ovvia, con i fascisti che diffidavano di lui, lo conside­ ravano un « liberale », lo attaccavano e ne desideravano la fine politica, Gentile aveva tuttavia in comune il fascismo; e non c'è differenza di gusto, di stile, di cultura che possa far dimenticare il fatto di questa « comunanza». Né, al riguardo, può assumersi che a mettere fra parentesi il fascismo di Gen­ tile, e a giustificare l'operazione, basti il fatto che, per lunghi anni, l'attualismo fu il bersaglio costante di tanti pensatori di parte cattolica. Questa è, in effetti, una tutt'altra questione, interessante, senza dubbio, e ben degna di essere ancora e meglio studiata; ma tale, tuttavia, che non può essere confusa con la prima. È discutibile se, fino in fondo, Gentile possa es­ sere considerato un pensatore «laico ». Non è invece discuti­ bile che, nella prassi (se non anche, interamente, nel pensie­ ro) , fu fascista e legato al fascismo; talché mettere fra paren­ tesi questa realtà della sua vita non giova alla comprensione del suo « dramma ». Alla tentazione di metterla fra parentesi, o, almeno, di attenuarla, Gregory e i suoi collaboratori hanno invece, in qualche caso, inclinato. Poiché si tratta di studiosi assai agguerriti, e di assai ben definita fisionomia, occorre dunque chiedersi ancora: perché? La risposta alla domanda non è, per altro, difficile. Ma deve, tuttavia, esser data per gradi. Per cominciare a darla, conviene rimettersi sotto gli occhi le rapide pagine nelle quali, nei suoi Ricordi, Gaetano de Sanctis rievocò il collo­ quio che, presa ormai la « deliberazione definitiva» di non prestare il giuramento richiesto ai professori, ebbe, a Roma, con Gentile . A differenza che in quelle di Levi Della Vida, così distaccate nella rievocazione, eleganti e scritte nel segno

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dell'ironia 34, nelle pagine del De Sanctis si racconta e non si giudica. Ma si racconta, tuttavia: e pesanti come le pietre che l'antica canzone boema ritrae mentre cadono nella Mol­ dava, stanno, in questi Ricordi, le battute del dialogo nel corso del quale Gentile mostrò di meravigliarsi della deci­ sione che il De Sanctis aveva presa di non giurare, e cercò di persuaderlo del contrario . Gli domandò perché mai, non simpatizzante col fascismo e, tuttavia, uomo di studi, estra­ neo alla politica militante, egli ritenesse di doversi impe­ gnare a « prendere posizione in una questione di carattere politico ». E si sentl rispondere che quella del giuramento non era una questione soltanto politica: era bensl, innanzi tutto, una questione morale. Gli domandò perché mai, se proclamava l'ubbidienza alle leggi, rifiutasse questa che ora imponeva il giuramento. Forse che non era, anche questa, una legge? E si sentl rispondere che « sopra le leggi scritte [ . . ] sono le leggi non scritte, ma eterne », e che questo inse­ gnamento lui, De Sanctis, l'aveva ricevuto da Socrate. Gli confidò allora che l'idea del giuramento gli si era presentata come il miglior mezzo, e il più efficace, per invalidare il « manifesto Croce »: ossia per liberare i firmatari dall'im­ pegno assunto all'atto della sottoscrizione di esso. E si sentl rispondere: « ma io [ . . . ] quando dò la firma, la dò a ragion veduta e non la ritratto mai » 3 5 . Battute d i u n dialogo che ancor oggi non può leggersi, o rileggersi, senza un intimo senso di disagio e di umiliazione: a vincere il quale, se pur si tratti di vincerlo, certo non è sufficiente l'osservazione del De Sanctis che, nel dire quel che diceva e nell'argomentare come argomentava, Gentile si manteneva coerente alle sue scelte . In realtà, come abbiamo visto, la questione è alquanto più complessa di quanto al De Sanctis non apparisse. La fedeltà alle scelte è, in questo caso, meno rilevante del « modo » in cui Gentile la realizzò nei fatti. Donde, appunto, il senso di disagio e quasi di umi­ liazione che si prova nel ripercorrere questa pagina della sua .

LEVI DELLA VmA, Fantasmi ritrovati cit . , pp. 279 35 DE SANCTIS, Ricordi cit . , pp. 1 49-50.

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sgg .

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vita; e che del resto non nasce soltanto dalla povertà degli argomenti ai quali il filosofo aveva finito per costringersi, ma anche e sopra tutto dalla convinzione che a sostenere quel che il De Sanctis gli obiettava avrebbe potuto e dovuto essere lui, che concetti di quella qualità aveva certo il diritto filosofico di rivendicare alla migliore essenza del suo pen­ siero. L'aspetto tragico della personalità di Gentile sta qui; sta in questa intercambiabilità delle parti, nella possibilità che, senza tradire il suo senso autentico, l'attualismo parli, oltre quello del fascismo, il linguaggio dell'antifascismo, e questo il linguaggio di quello; sta dunque (come si è già no­ tato) nella sua scissione perché è anche vero, naturalmente, quel che si vorrebbe e non si può dimenticare, e cioè che proprio al linguaggio del fascismo l'attualismo fu invece, nella teoria politica, piegato . Tenere insieme questi due aspetti della personalità di Gentile è difficile; e tanto più in quanto in essi si riflette il contrasto stesso che ha lacerato la nostra più recente esistenza politica e culturale . Che dunque il tentativo che si esperisca di tenerli insieme, e di pensarli nella loro impossibile unità, sia esposto al frequente rischio del fallimento, è cosa tanto comprensibile quanto, per altro verso, è necessario che il tentativo sia compiuto: e questo spiega perché, fra i due aspetti nei quali la personalità intel­ lettuale e morale di Gentile si scinde capiti che ora si scelga l'uno (e lo si condanni) , ora si scelga l'altro (e se ne tenti la almeno parziale difesa) . In realtà, non è cosa da niente dar pace al fantasma di Giovanni Gentile. Esso si aggira in­ quieto e infelice intorno a noi che in effetti alla sua vista, trasferiamo in noi stessi la inquietudine e l'infelicità che ne affliggono il volto, perché non sappiamo risolverei né a esor­ cizzarlo per sempre, né a intrattenerlo a colloquio, e tanto più fra questi due comportamenti non siamo in grado di sce­ gliere in quanto persino sulla morte violenta che nell'aprile del 1 944 spezzò il filo della sua esistenza, - nemmeno sulla morte tragica dell'uomo che, dopo le perplesse settimane se­ guite al 25 luglio 194 3, aveva infine aderito all a Repubblica sociale, accettando di condividere fino in fondo il destino del fascismo e di Mussolini, riusciamo a venire in chiaro con noi stessi. Non si tratta, beninteso, soltanto delle ombre che

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ancora rendono incerta questa pagina della nostra storia, che è la sua morte: anche perché, dopo essersi affacciata alla ri­ balta e aver mostrato di possedere qualche elemento almeno di plausibilità, la tesi che a uccidere Gentile fossero stati i più violenti fascisti fiorentini dei quali più volte egli aveva avuto modo di lamentarsi presso Mussolini, non ha retto alla critica e sembra aver ormai ceduto all'altra, che l'esecuzione della sua condanna attribuisce ad un gruppo di partigiani co­ munistP6. Si tratta, in realtà, di altro; di qualcosa di ambi­ guo e di sfuggente che di questo episodio costituisce il nu­ cleo più profondo . Al di là del senso di orrore che un atto del genere non può non suscitare, l'aspetto tragico, specifi­ camente tragico, di questa morte violenta sta nell'ambiguità della situazione sulla quale, senza poterla modificare e, anzi, confermandola in questo suo carattere, tale atto si esercitò; e a chiarire il senso di questo discorso valga la considera­ zione che nella uccisione di Gentile proprio non si riesce a vedere soltanto un'azione di guerra, vòlta a colpire un ne­ mico che, in ogni senso, sia il contrario e l'opposto, la vi­ vente negazione di quel che noi siamo. Certo, Gentile era il 36 La tesi fu delineata da C. FRANCOVICH, Un caso ancora controverso: chi uccise Giovanni Gentile?, « Atti e studi dell'Istituto storico della Resi­ stenza in Toscana », 3 ( 1 9 6 1 ) , pp. 40 sgg . E cfr. RAGGHIANTI, Disegno cit . , pp. 1 54-56 i n nota. La prima testimonianza s i trova nel Diario fiorentino ,

giugno-agosto 1 944, Firenze 1 946, pp. 1 4 8 , 150, 1 69 , ed è resa dall'avvo­ cato Gaetano Casoni, e in un discorso tenuto da A. Medici Tornaquinci al­ l'assemblea del Partito liberale italiano (Firenze 1944, p. 9). Ma anche B . BERENSON, Echi e riflessioni, Milano 1950, p. 3 2 7 , avanzò subito il sospetto che a uccidere Gentile siano stati « questi vampiri di repubblichini » e, in particolare, il capitano Carità, timoroso che il filosofo protestasse contro le sue efferatezze presso Mussolini. Si sa che Gentile aveva in animo di recarsi a Salò per conferire con Mussolini su questioni concernenti l'Accademia d'Italia, e che in quell'occasione avrebbe potuto parlargli delle imprese del Carità e della sua « banda »: cfr. B. GENTILE, Dal discorso agli Italiani alla morte, 24 giugno 1943- 1 5 aprile 1944, in Giovnni Gentile. La vita e il pen­ siero, Firenze 1 95 1 , IV, 58, il quale esclude per altro con energia e nettezza la tesi, che all'indomani della morte prese a circolare, circa le responsabilità dei fascisti fiorentini. Cfr. ancora CANFORA, La sentenza cit . , pp. 228-44, che, nell'ambito di una tesi che occorrerebbe discutere a parte, offre un quadro ricco di particolari.

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più illustre degli intellettuali fascisti; alto, e simbolico, era il prestigio che ancora circondava il suo nome. Deciderlo signi­ ficava perciò quel che sempre significano le azioni vòlte a indebolire il nemico, infliggendogli una sconfitta tanto più bruciante quanto più, appunto, simbolica. Ma, al di là della consapevolezza che poterono averne coloro che material­ mente eseguirono l'atto di condanna del filosofo, è indiscu­ tibile che nella sua morte gli stessi antifascisti, e non solo, forse, quelli che non la condivisero e apertamente la condan­ narono, avvertirono qualcosa di più della morte di un ne­ mico: in essa videro l'attuazione di una vendetta abbattutasi su uno che aveva « tradito » ideali che erano parte essenziale del suo stesso pensiero. E la vendetta ha, almeno in questo caso, natura particolare. Fra colui che la esegue e colui che la subisce stringe un rapporto che è, a sua volta, un coinvol­ gimento; stabilisce una distanza che, mentre non potrebbe essere maggiore, suppone tuttavia un'estrema vicinanza, forse addirittura un'identità. E sarà perché la violenza che troncò la vita di Giovanni Gentile è come il simbolo della « violenza » e della sua inaccettabilità etica, e in chi comun­ que debba condividerne la responsabilità provoca perciò un quasi insopportabile senso di disagio, sarà per altre ragioni, certo è che la tendenza psicologica è a trasferirla nell'intimo di colui che la subl e ne fu vittima, facendo di lui, che im­ maginiamo e vogliamo non conciliato con sé stesso, il vero autore, almeno per una parte, della sua propria morte . È questa, beninteso, una rappresentazione psicologica, il tra­ sferimento di un peso troppo grave per essere sopportato, un atto inconscio che nel suo intrinseco si rivela costituito dal rifiuto della responsabilità e, per un altro verso, dal suo ribadimento. E certo furono uomini di una parte opposta alla sua in un periodo fra i più tragici della storia d'Italia a ucciderlo, - non fu Giovanni Gentile a punire, con lo stru­ mento che quelli gli offrivano, sé stesso . Eppure, è cosl che talvolta incliniamo a rappresentare questa tragedia e a indi­ carne il senso. È per questo che, subito dopo la sua morte, sul fondamento di qualche indizio non al tutto implausibile, fu delineata la tesi, o si diffuse la voce, che ad uccidere Giovanni Gentile fossero stati alcuni fascisti violenti ed ef-

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ferati, nei confronti dei quali decisa era stata la sua pole­ mica e la sua protesta. Se da documenti inoppugnabili que­ sta tesi fosse stata provata vera, se vera fosse risultata la voce che allora dal centro di Firenze si diffuse sui colli che circondano la città e giunse fino all'orecchio di Bernard Be­ renson, che la registrò nel suo diario, chi potrebbe negare che molti antifascisti ne avrebbero tratto un senso di sol­ lievo, come se, senza il loro contributo, il destino di Gio­ vanni Gentile si fosse consumato e concluso per entro la cer­ chia fatale nella quale un giorno lontano aveva deciso di en­ trare per non uscirne mai più? In realtà, il gioco vario e vano che qui è stato delineato non è che l'indizio di quanto sia difficile, anche per chi ieri abbia scelto la parte opposta a quella in cui Gentile collocò sé stesso e oggi non abbia al­ cuna ragione di non ribadirla, accettare nel profondo la re­ sponsabilità della sua morte, o, se si preferisce, attribuire alla propria storica responsabilità che egli infine sia morto così. Sarebbe senza dubbio interessante soffermarsi sulla se­ zione dedicata all'Enciclopedia italiana; che è altresì quella nella quale l'impostazione che Gregory ha data alla mostra, e, ancora una volta, al « problema Gentile », rifulge con chia­ rezza: e tanto maggiore quanto più grande è, per questa parte, la conformità ad essa del materiale raccolto . Nelle grandilineesi tratta, certo, diunastorianota. All'impresadell'En­ ciclopedia molti studi sono stati dedicati nel dopoguerra: dal­ l' articolo, apologetico ma non privo di interesse, di Gioac­ chino Volpe, alle pagine recenti del Turi; e ora non sarà il caso di rievocare le vicende e le peripezie degli autori più spe­ cificamente impegnati nella redazione, non solo di alcune « voci » filosofiche, ma di quelle, sopra tutto, concernenti la storia ebraica, cristiana e, in genere, religiosa. Note sono in­ fatti le difficoltà che la censura esercitata dai padri Tacchi Venturi e Vaccari sollevò in questo campo, costringendo in­ fine alle dimissioni uomini come Giorgio Levi Della Vida e Adolfo Omodeo. E nota è, in questo quadro, la posizione di Gentile; che, anche dai documenti raccolti nel catalogo, ap-

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pare come quella di uno che, messo dinanzi all'esigenza di dar vita ad un'opera di scienza, e non di propaganda, sceglie gli studiosi adatti al raggiungimento dello scopo, ma poi, giorno dopo giorno, è pur costretto a doverli difendere dagli attacchi dei fascisti intransigenti non meno che dalle insidie censorie dell'autorità ecclesiastica: a difenderli, e tuttavia, qualche volta, come si è detto, a dovervi rinunziare. A rivolgere al­ l'Enciclopedia e al suo direttore le accuse più pittoresche fu­ rono, come si sa, i fascisti. Si pensi, per esempio, all'articolo, anonimo, ma dovuto forse alla penna di Telesio Interlandi, pubblicato nei Tevere del 24/25 aprile 1926; si pensi alle os­ servazioni di A. Di Marzio, un gerarca con velleità culturali e storiografiche, che ebbe poi a dirigere l'Istituto di mistica fa­ scista, e che, a proposito della « voce » Cesare, redatta da Ma­ rio Attilio Levi, lamentava che vi fossero contenute perfidie e insinuazioni di ogni genere, e, nel concludere il suo scritto, dichiarava che, per ritemprarsi lo spirito, sarebbe andato a « passeggiare sulla via dell'Impero dove, mentre l'acqua della fontana monumentale borbotta (!), a noi pare di riudire il passo delle legioni gloriose che sfilano sotto gli occhi di Be­ nito Mussolini verso il Colosseo immenso. Più lontano, col suo gesto pacato e i larghi occhi sereni [ma Dante li aveva de­ finiti « grifagni »], Giulio Cesare guarda. Il Giulio Cesare vero: grande, immenso, romano » 37 . Del resto, riflessioni analoghe a queste del D i Marzio si trovano in un articolo firmato G . B . , e comparso ne La Sa­ pienza, l (giugno-luglio 1933), dove le argomentazioni del Levi sono ricondotte alle « tesi del prof. Croce » (l'autore si riferisce, evidentemente, al saggio Antistoricismo, e lo inter­ preta con larghezza di vedute) 38: per non parlare del vee37 Filosofi Univmità Regime, pp. 291-92 . Ibid. , p. 284. L'articolo che Croce intitolò Antistoricismo è la lettura tenuta al Congresso internazionale di Filosofia svoltosi a Oxford nel settem­ bre 1930 (lo si veda ora in Ultimi saggi, Bari 1 9482, pp. 246-58); e suscitò varie polemiche, fra le quali quella di Gentile . II 9 dicembre 1930, Taccuini di lavoro, III 226 ( III, 225-26) , Croce annotava: « continuano impres­ sioni di stupore e di sdegno per la pubblica denunzia che il Gentile ha fatto del mio discorso di Oxford, additandolo alla vendetta. Chi sa a quali inte'8

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mente attacco di G. B . Serventi che, nell'articolo La contro­ rivoluzione nell'Encilopedia, dichiarava di non meravigliarsi dello « stile » culturale di un'opera che « ha come vice-diret­ tori due professori universitari, G. De Sanctis e Levi della Vida che non solo hanno firmato tutti i manifesti antifascisti pubblicati in lunga serie, ma sono stati anche dimessi dal­ l'Università per essersi rifiutati di giurare fedeltà al Regime »: dopo di che, con esplicito riferimento a Gentile, aggiungeva che così non si poteva andare avanti. La protesta fu insomma tanto energica e minacciosa che Gentile, alla fine, se ne preoccupò, avvertì la necessità di difendersi, e scrisse a Mus­ solini per informarlo che il Levi era « uno dei più valenti sto­ rici dell'antichità », non che un fascista della prima ora e che, letto con serenità, il suo articolo non meritava, per qualche « espressione poco felice » che potesse rinvenirvisi, di essere criticato in quel modo 39• Si tratta di cose, nell'insieme, note. E qui basteranno due osservazioni. Malgrado le umiliazioni alle quali, per difendere l'impresa dell'Enciclopedia, Gentile accettò di sottoporsi, è indubbio che, quasi sempre, a lui riuscisse di difendere i di­ ritti della scienza e del rigore contro le rozze prepotenze della politica, e quelle, più abili, ma non meno perentorie, dell'auto­ rità ecclesiastica, contribuendo alla realizzazione di un'opera che, nell'insieme, ha ben poco di « fascistico » e tiene bene il confronto con altre, dello stesso genere, pubblicate altrove. Può ben darsi che a quelle umiliazioni egli non dovesse sot­ tostare . La lettera che il 26 luglio 1933 scrisse al De Sanctis ressi egli ubbidisce, presentandosi a questa nobile parte ». La « pubblica de­ nunzia » alla quale Croce qui allude è forse da identificarsi con il discorso che Gentile tenne per l'inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura di Roma, e che fu ripreso nel « Giornale d'Italia » del 7 dicembre 1930. [Il te­ sto completo è quello che, intitolandolo La formazione politica della co­ scienza nazionale, può ora leggersi in Politica e cultura, II, 243-56. L'ac­ cenno a Croce è alle pp. 25 1 -53 . Per un'analisi di questo testo nella parte concernente il De Sanctis e l'esonero dei professori dell'Università, nonché dei membri dell'Accademia Reale, di Napoli, cfr. B . CROCE , Francesco De

Sanctis e lo scioglimento e la ricomposizione della Società reale di Napoli nel 1 861, in Aneddoti di varia letteratura, Bari 1 954, IV, 229-50. 39 Filosofi Università Regime, p. 295 .

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per invitarlo, «leggendo anche questa volta nell'animo mio », a rinunziare a comporre « l'articolo di 25 colonne sulla Storia dei Romani », è un documento tanto più penoso in quanto, di fronte agli attacchi mossi, da parte fascista, all'Enciclopedia, egli non esitava a chiedere « comprensione » ad un uomo che ben altri danni aveva ricevuti da quella stessa parte 40• E lo stesso si dica per la rinunzia, che egli dovette subire, alla col­ laborazione di Omodeo e di Levi Della Vida. Ma, chiarito questo punto, occorre ribadire che, avendo deciso di rima­ nere al suo posto, per salvare la dignità della scienza Gentile fece il possibile. Questa la prima, ovvia, osservazione. L'altra riguarda il presunto carattere « idealistico » dell'Enciclopedia. Annidati nelle redazioni giornalistiche e radiofoniche, giova­ notti analfabeti, e tuttavia di belle e arroganti speranze, hanno, proprio in occasione di questa mostra, resa pubblica la sentenza: nell'impostazione, e dunque nelle inclusioni e nelle esclusioni, sopra tutto nelle esclusioni, l'Enciclopedia fu « idealistica», aperta alla retorica umanistica dello « spirito », chiusa, invece, alla scienza e ai valori dell'empirismo. In realtà, e basta scorrere l'elenco dei collaboratori per capirlo, e constatarlo, l'Enciclopedia non fu affatto « impostata » ideali­ sticamente: anche se, com'è ovvio, numerose furono le « voci » dovute, nel campo degli studi filosofici, storici e let­ terari, alla penna di studiosi idealisti o formatisi, comunque, nel clima dell'idealismo. E non fu impostata idealisticamente perché il criterio che presiedette alla scelta dei collaboratori fu, e così doveva essere, quello della « competenza ». Può darsi che le scelte fossero, di volta in volta, felici, meno felici, mediocri. Ma questo, in casi del genere, capita sempre; e non ha niente a che fare con l'idealismo. I giovanotti di belle spe­ ranze cerchino dunque di non essere impari all'attesa, eserci­ tino il senso critico, non giurino sulla parola di maestri che, in questi nostri anni, hanno bensì avuto onori e titoli, ma, nell'insieme, non si sono mai sollevati al di sopra della trivia­ lità ideologica. Cerchino di imparare che, con i suoi limiti inevitabili, nelle sue espressioni migliori l'idealismo tutto fu 40 Ibid. , p. 293 .

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fuor che provinciale; e certo i suoi rappresentanti più autore­ voli ebbero altro da fare, in vita loro, che tendere insidie e «lacciuoli » agli scienziati, perseguitandoli ed estromettendoli dal « potere ». Dal catalogo della mostra, ossia anche dal catalogo della mostra, il cattolicesimo romano emerge con un volto chiuso, intransigente, dogmatico: di una durezza, talvolta, implaca­ bile . Se ne conoscevano già i tratti essenziali; e, nel rievo­ carli, l'intenzione non è, in questa sede, di abbandonarsi alla polemica. Ma non può negarsi, e anzi deve riconoscersi, che, a ritrovarseli di fronte, l'impressione non è delle più grade­ voli. Il « caso » di Ernesto Buonaiuti è, nella sostanza, ben noto; anche perché la serie degli avvenimenti che si conclu­ sero con la sua definitiva estromissione dall'insegnamento universitario forma la materia di uno dei capitoli cruciali del Pellegrino di Roma. Ma di questo libro chi scrive non aveva più avuto occasione di occuparsi dopo la rilettura che ne fece quando, nel 1 964, uscì l'edizione curatane da Mario Niccoli; e così gli era uscito di mente che, ad un certo punto della vi­ cenda, sull'Università di Roma il Vaticano fece pesare, addi­ rittura, la minaccia dell'interdetto, ammonendo, per il tra­ mite del Tacchi Venturi, che « se il Buonaiuti avesse ripreso l'insegnamento, il Papa era risoluto ad emanare un decreto col quale si sarebbe fatto divieto agli studenti cattolici di fre­ quentare l'Università di Roma » 4 1 . Era, com'è facile compren­ dere, una minaccia gravissima; e sia il capo del governo, sia il suo ministro non tardarono a preoccuparsene, - e ad agire in modo conforme ai desideri della Santa Sede. Dall'insegna­ mento il Buonaiuti fu escluso; e, com'è noto, a far lezione dalla sua cattedra romana non fu riammesso nemmeno dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando, caduto defini­ tivamente il fascismo, fu bensì reintegrato nel ruolo dei pro­ fessori, e, non di meno, di insegnare gli fu vietato su espressa richiesta del Vaticano, del quale questa volta si fece inter­ prete presso il governo italiano, attenendone la piena com41 Ibid. , p. 1 03 .

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prensione, il nunzio apostolico Francesco Borgoncini Duca. Evidentemente, nella « disubbidienza » del prete romano la Chiesa aveva individuato un exemplum di estrema pericolo­ sità; e, nel ribadirne la condanna, certo intendeva anche ren­ dere manifesto ai nuovi governanti italiani che, in questa ma­ teria, niente era cambiato e, per l'avvenire, doveva cambiare . Sono cose note; tanto più meritevoli tuttavia di essere ricor­ date e poste di nuovo in rilievo in quanto capita talvolta che, dimenticando la dura realtà delle istituzioni e della politica, gli storici delle idee (e, nella fattispecie, di quelle « moderni­ stiche ») tendano ad attribuire molte delle disavventure di co­ loro che, in Italia, le professarono alla perfida opposizione de­ gli idealisti, non solo di Giovanni Gentile, ma, concordi in questo con lui, anche di Benedetto Croce e di Adolfo Orno­ dee: rei, tutti, di insensibilità « storiografica», o, addirittura, di essersi « alleati » con la Santa Sede al fine di stroncare sul nascere il rinnovamento della cultura cattolica, che il moto modernistico perseguiva. Non è questa la sede nella quale tale questione possa essere discussa. Ma sia lecito tuttavia osser­ vare che, malgrado il credito di cui gode nei più svariati am­ bienti della nostra cultura, la tesi dell'« insensibilità storica » degli idealisti suona altrettanto goffa, sgraziata e ridicola di quella che, addirittura, li ritrae come gli « obiettivi » e fedeli chierichetti del Santo Padre: quasi che, nel discutere le idee di qualcuno si debba, non già guardare alla sostanza teorica, ma, invece, far conto e preoccuparsi dell'« ansia di rinnova­ mento » che le agita, e, per non correre il rischio di essere iscritti d'autorità a «partiti » religiosi e politici che non ci gar­ bano e non sono i nostri, sia preferibile astenersi dal dire chiaro e tondo quale sia la nostra opinione in materia di re­ ligione e filosofia. È questo il « senso storico » di cui ci si vanta in possesso? Se è questo, meglio, francamente, molto meglio, esserne « al tutto » privi. Del resto, e nel catalogo se ne trovano i documenti, no­ tevole fu la pesantezza con la quale la Chiesa esercitò la cen­ sura preventiva sul testo degli articoli che i collaboratori, cat­ tolici e non, inviavano alla redazione dell'Enciclopedia ita­ liana; e, a parte i casi ben noti di Adolfo Omodeo e Giorgio Levi Della Vida, singolare è quello di Guido Calogero che, a

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proposito della «voce » Spirito da lui redatta, protestò, il 12 ottobre 1936, con Umberto Bosco, « di non poter aderire al desiderio dei vostri consiglieri ecclesiastici », perché « se si to­ gliesse quel brano, l'articolo risulterebbe evidentemente mon­ co » 42. E singolare è altresì l'altro, di Federico Chabod che, riferendosi, nella sua qualità di redattore, all'articolo Storici­ smo, firmato da Carlo Antoni, scrisse a Gentile che le « mo­ dificazioni » proposte da padre Tacchi Venturi sono, come lo stesso consigliere ha ammesso, « piuttosto sostanziali », e tali che, in qualche caso, « capovolgono la posizione » dell'auto­ re 43. Ma questa della «censura» ecclesiastica, e degli sforzi compiuti da Gentile per contenerne le pretese, è storia, per lo più, nota; mentre inedita, salvo errore, è la notizia (fornita e documentata nel catalogo) relativa al « caso Bruno Nardi », ossia alla richiesta, formulata nel Consiglio della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Roma il 7 luglio 1 94 1 , che, « appena alla Facoltà venga assegnata una nuova cattedra di ruolo, voglia il Ministro della E . N . compiacersi di nomi­ nare il prof. B . N . professore di Storia della Filosofia Medie­ vale nella R. Università di Roma in base all'art . 1 7 del pre­ sente Testo Unico delle leggi sull'istruzione universitaria » 44 . Per l a verità Gentile aveva pensato, in u n primo momento, che al Nardi la cattedra potesse essere assegnata per « alta » e chiara fama. E a parte la discutibilità della legge alla quale pensava di far ricorso, è giusto dire che, dei non molti stu­ diosi che allora ebbero a beneficiarne, Nardi, che non ne be­ neficiò, era forse il più meritevole. Già agli inizi degli anni quaranta, nessuno in Italia, e pochi in Europa, possedevano, nel campo della filosofia medievale, conoscenze , paragonabili alla sua; e, con l'eccezione di Ernesto Giacomo Parodi , di Mi­ chele Barbi e di Luigi Pietrobono, nessuno aveva studiato con altrettanta profondità e competenza il pensiero di Dante. Per ragioni che non sono del tutto chiare, l'originaria idea di 42 Ibid. , p. 309 Cfr. su questa vicenda, l'articolo di C . FARNETI1, Teo­ logia trinitaria e censura: un passo inedito di Guido Calogero, « Cultura» 32 .

( 1 994), pp . 323-3 1 . 4 l Ibid., p . 3 1 1 . 44 Ibid. , p . 1 3 1 .

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Gentile fu modificata dalla Facoltà che, come si è visto, pre­ ferì piuttosto appellarsi all'art. 1 7 del Testo Unico. Ma, an­ che in questo caso, la reazione del Vaticano fu tanto tempe­ stiva quanto implacabile, non potendosi evidentemente, negli ambienti ecclesiastici, ammettere che nell'Univertità di Roma l'insegnamento della filosofia medievale fosse professato da un ex prete . Nella lettera che il 15 novembre scrisse a Gen­ tile, Nardi formulò l'ipotesi che l'opposizione che la richiesta della Facoltà stava suscitando dovesse farsi risalire, non tanto alla Santa Sede, quanto piuttosto all'« indebita ingerenza del solito intrigante, il frate milanese, che si vanta delle sue ade­ renze nell'ambiente ministeriale »; e nel suo stile colorito, ag­ giunse che « questo autentico furfante è capacissimo d'aver mosso la diplomazia vaticana o qualche vulpecola, a Voi ben nota, che da qualche tempo si presta al giuoco dell'astuto e diabolico frate e ne riceve moine e carezze » 45 . Ma, in realtà, appare assai più verisimile che le iniziative del Gemelli si in­ serissero nel moto di opposizione che la proposta della Fa­ coltà romana aveva suscitato, e non lo provocassero; e, co­ munque sia di ciò, sta di fatto che la Santa Sede fu pronta ad intervenire, dichiarando, per mezzo del primo segretario della Nunziatura apostolica, monsignor Marchioni, il suo non gra­ dimento, ai sensi dell'art. 5 del Concordato, della nomina, e, anzi, addirittura, del mantenimento dell'incarico. Cosl, Bruno N ardi non ebbe la cattedra (anche se riuscì a conser­ vare l'incarico) ; e nemmeno in seguito l'avrebbe mai ottenuta (ma per altre ragioni, in questo caso) se non fosse stato per le insistenze esercitate presso di lui da Carlo Antoni che, non solo lo convinse a presentarsi al concorso che alla fine degli anni quaranta, la Facoltà romana aveva chiesto, ma, come al­ lora tutti dicevano nei corridoi dell'Istituto di filosofia, prov­ vide a controllare di persona che i pacchi contenenti le pub­ blicazioni partissero davvero alla volta del competente Mini­ stero . Per parte sua, infatti, Nardi pensava piuttosto agli « in­ vidiosi veri » e ai sillogismi di Sigieri di Brabante che non alle cose accademiche; e, certo, se una nuova questione dantesca 45 Ibid. , pp. 1 3 1-32.

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gli si fosse accesa nella mente, non si sarebbe ricordato di date e scadenze . Quando finalmente vinse la cattedra, aveva quasi 68 anni; e non fece forse nemmeno a tempo a conse­ guire l'ordinariato. A noi, che eravamo molto giovani, e con occhi di giovani lo guardavamo, appariva come un vecchio professore, anzi, meglio, come un professore vecchio; e, nel ricordo che ne ho io, non mi pare che, nell'aspetto, fosse tanto diverso dall'uomo che, tanti e tanti anni dopo, il sigaro spento fra i denti, il volto severamente distratto, un grande volume di Alberto Magno o di Tommaso d'Aquino fra le mani, incontravo nella sala degli stampati, o in quella dei ma­ noscritti, della Biblioteca Vaticana. Qualche volta, in queste occasioni, mi fermavo a conversare un po' con lui che, seb­ bene (come diceva) avesse fretta di concludere il commento della Monarchia, e di vincere così la gara che aveva intrapresa con il tempo, sempre trovava il modo e la buona voglia di ri­ spondere ai timidi quesiti rivoltigli dall'antico discepolo. A questo punto, occorre concludere. E spendiamo perciò almeno una misurata parola per dire che, sebbene professore a Roma sia stato soltanto nel dopoguerra e, negli anni trenta in­ segnasse invece, dopo gli inizi fiorentini, all'Università di Pisa, Gregory ha fatto benissimo a dedicare un pannello della mostra, e una sezione del catalogo, a Guido Calogero . A parte che, giovanissimo, fra il 1928 e il 193 1 , Calogero ricoprì, nella Scuola romana di filosofia, l'incarico di storia della filosofia antica, la sua opera di studioso, di storico del pensiero e di fi­ losofo è troppo intimamente legata alla « scuola romana» perché si potesse non includerlo nella rievocazione di un de­ cennio nel quale, giovane di anni, egli scrisse alcuni dei suoi libri fondamentali (oltre i due sulla logica aristotelica e l' elea­ tismo, la Conclusione della filosofia del conoscere, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, La scuola dell'uomo), e si fece maestro riconosciuto di molti che gli erano, all'incirca, coetanei. I documenti esposti nella mostra, e raccolti nel cata­ logo, inviterebbero a parlare della maturazione del suo antifa­ scismo, dei suoi rapporti con i due maestri dell'idealismo, della sua idea, così diversa da quella gentiliana, del nesso che

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stringe la filosofia moderna a quella antica; inviterebbero a parlare della sua eccezionale « precocità » e poi, anche, della tenacia con la quale, per tutta la vita, rimase fedele al nucleo dei suoi primi pensieri. Inviterebbero a parlare di questo, e poi anche di molte altre cose, perché, al di là dei suoi caratteri intrinseci, la vicenda intellettuale di Guido Calogero è quasi emblematica della più generale vicenda dell'idealismo italiano di questo secolo; e a studiarla con cura, anche l'altra ne ver­ rebbe illuminata e, forse, meglio compresa. Ma di queste cose non può trattarsi in un articolo di ricordi e di varie considera­ zioni, che, per di più, volge ormai al termine. La speranza è quindi che all'opera di Guido Calogero qualcuno voglia e sap­ pia presto dedicare uno studio adeguato, - uno studio che, tessendo insieme la tela della sua interpretazione della logica classica e del pensiero che ne è nato, valuti con rigore il suo contributo, senza dimenticare, se possibile, che pochi altri studiosi italiani di filosofia hanno saputo, al pari di lui, inten­ dere, nelle sue vibrazioni, la lingua con la quale, in Occidente, la filosofia è venuta al mondo . Chi legga il suo libro sulla lo­ gica aristotelica, e anche l'altro sull' eleatismo, stenta a credere che il primo, e mai rinnegato, interesse di Calogero fosse non per la filosofia, ma per la letteratura antica; e che, da ragazzo, egli progettasse di fare per l'antica poesia quel che Croce aveva fatto, e stava facendo, per la moderna. Eppure è cosl. Ed è un peccato che la testimonianza delle qualità che fanno di Calogero un lettore impareggiabile di Omero, dei tragici, dei lirici greci, di Virgilio e di Orazio, resti affidata, a parte i brevi saggi che ne dette in qualcuno dei suoi libri, soltanto al ricordo degli amici che, in tempi diversi, godettero della sua conversazione, e da lui ricevettero il dono di qualche privata « lettura degli antichi ». Tanto più, dunque, lo studioso della sua opera dovrà cercare di ricostruire questa sua singolare atti­ tudine; perché, al di là di ogni retorica, se « umanesimo » si­ gnifica sopra tutto greco e latino, nessuno, da vari decenni a questa parte, è stato in Italia più umanista di Calogero, che queste lingue ha rese vive dentro di sé, le ha lette e scritte come se tutti le leggessero e le scrivessero, e ad esse è spesso tornato, « sdimenticando » per qualche ora di tempo, nella pa­ rola degli antichi poeti, « ogni affanno ».

II L'ATTO , IL TEMPO, LA MORTE Si sa che Giovanni Gentile affrontò per la prima volta, in modo esplicito, il tema della morte in un capitolo (il decimo) della Teoria generale dello spirito come atto puro, dedicato per altro all'immortalità; e che della morte tornò a parlare, ma con altro accento, nel capitolo conclusivo di Genesi e struttura della società, la sua ultima opera, uscita postuma, dopo essere però stata preparata per la stampa da lui, nel 1944. Si sa an­ che che accenni al problema della morte sono contenuti in al­ tri suoi scritti: il che non sorprende perché quello della morte si presenta nel suo pensiero come il tema opposto all'altro del­ l'immortalità e dell'eternità (dell'atto), con il quale intrattiene il medesimo rapporto che il trascendentale intreccia con l'em­ pirico e, a quel modo che questo è fondamentale e riceve nella sua opera costante attenzione, così è, necessariamente, anche di quello . Meno noto, e anzi nient'affatto noto, è che fra il 19 16, che è l'anno in cui la Teoria generale vide la luce, e il settembre del 1 94 3 1, che è quello in cui la stesura di Ge1 Che Gentile terminasse la stesura del manoscritto, incominciato nel­ l'agosto, già ai primi di settembre del 1943 , lo apprediamo da una nota del­ l'editore, apposta in calce all 'Avvertenza premessa a Genesi e struttura della società. Vi si legge che « tanto il manoscritto quanto il dattiloscritto e le bozze di stampa che l'Autore ebbe il tempo di rivedere e di licenziare non recano traccia di correzioni » . Il manoscritto e il dattiloscritto (un originale e una copia) sono conservati nell'Archivio della Fondazione Giovanni Gen­ tile per gli studi filosofici, Roma (d'ora in poi AFG) , mss . gentiliani pub­ blicati, busta 1 2 ; e, in effetti, non recano in pratica nessun segno di corre­ zione. L'opera fu iniziata e t.erminata durante il soggiorno nella villa che

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nesz e struttura della società ebbe termine, sul tema della morte egli era tornato a più riprese in una serie di piccoli scritti, o frammenti, che lasciò inediti fra le sue carte, seb­ bene di alcuni, come vedremo, si servisse per elaborare il quarto e quindi l'ultimo capitolo della sua ultima opera. Converrà innanzi tutto (perché non solo, con un'eccezio­ ne 2, sono inediti, ma, a quel che risulti, nessuno li ha fin qui descritti) dire come si presentino: cominciando dal primo che, datato dallo stesso Gentile 9 giugno 1920, è un frammento sine titulo, ma dedicato in modo esplicito al difficile e, come lo definisce, « astruso » problema della morte; e consta di sei pagine numerate e di quattro non numerate, che costitui­ scono una sorta di appendice, nella quale, nella forma di ap­ punti diversamente elaborati, sono riprese le questioni deli­ neate e accennate nei dieci paragrafi in cui le prime sei si di­ vidono e si articolano 3• È un testo, questo, che, posteriore di circa quattro anni alla Teoria generale, anticipa di ben ven­ titré l'ultimo capitolo dell'ultima opera; e costituisce il primo tempo di una riflessione che, certo, sarebbe assurdo definire esoterica (perché Gentile tutto fu fuorché un pensatore se­ greto, o che in segreto svolgesse alcuni temi del suo pensiero) , ma fu affidata tuttavia a testi palesemente destinati a non esl'avvocato Casoni, un suo vecchio amico, aveva messa a disposizione di Gentile e della sua famiglia per l'estate; e al giardino di questa dimora, e non, come in un primo tempo avevo pensato, a quello di Villa Montalto, si riferiscono le pp. 144-45 di Genesi e struttura. In quest'ultima abitazione, di proprietà di Tammaro de Marinis, Gentile si trasferì intorno alla metà di ottobre (B . GENTILE, Dal discorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1943-15 aprile 1944) , Firenze 1954, pp . 35-36) . 2 L'eccezione riguarda il frammento del 9 giugno 1 920 che, a rigore, è stato non pubblicato ma reso noto attraverso una riproduzione anastatica e inserito tra le pp. 635 e 637 del volume che comprende gli Atti di un con­ vegno gentiliano tenuto a Roma nel 1 976 (Il pensiero di Giovanni Gentile, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Roma 1 9 7 7 , 2 volumi con numerazione continuativa di pagine) . Va comunque notato che qui non sono riprodotte le pagine non numerate che tengono dietro al testo, e che ritengo siano da con­ siderare come appunti preparatorii; e anche che, dei vari manoscritti, parte editi parte inediti, riprodotti in quest'opera, non c'è un indice, né una qual­ siasi descrizione. 3 AFG , mss . inediti, busta 1 4 .

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sere, in quella forma, subito trasferiti in una sede pubblica. Temi segreti, dunque, no, perché, come si è detto, costi­ tuendo l'altro volto dell'atto, non solo lo richiamano, ma al­ tresì ne sono richiamati e con ciò resi, in qualche modo, pub­ blici. Temi problematici, tuttavia: segnati da incertezze, oscillazioni, esitazioni; e per questo, CQn ogni probabilità, la­ sciati nell'ombra e, per quel che si sa, non comunicati ad al­ cuno. Al frammento del 9 giugno 1920 tenne dietro un breve Pensiero, come Gentile intitolò il frammento in cui affrontò la questione dell'immortalità dell'anima. È un testo di tre pa­ gine, perché la quarta facciata, che è altresì l'unica che rechi l'intestazione « Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente», sembra appartenere ad un diverso momento e con­ sta di alcune linee che esprimono qualcosa come una mas­ sima: « l'uomo non è eterno, ma, come dice Dante, si eterna. Eternarsi infatti è pensare. Ma l'uomo che pensando si eterna, non è quello che viene a collocarsi nella storia ed è perciò come oggetto del pensiero, ma l'uomo pensante in quanto tale. Nel concetto di questo uomo è il segreto della vita. - Giovanni Gentile ». Questo testo che è incluso nella busta 26 dell'armadio contenente, fra le altre cose, gli inediti, non reca alcuna data 4• Ma, a giudicare dal ductus della scrit­ tura, non sembra essere di molto posteriore, nelle prime tre pagine, al precedente. Appartengono invece al 1942 , e sono inclusi nella busta 42, cinque brevi scritti, o frammenti, che, tutti insieme ammontando a otto facciate, possono essere considerati come appunti preparatorii di Genesi e struttura della società (che, non si dimentichi, costituì la materia del­ l'ultimo corso che, 1942/1943 , Gentile tenne nell'Università di Roma) . Sono, nell'ordine, intitolati così: l . La dimostra­ zione pratica dell'esistenza di Dio , 2. La morte, 3. Il capovol­ gimento della filosofia di Hegel, 4 . Pensiero e azione, 5. Soli­ psismo. A questo medesimo anno deve altresì, con ogni pro­ babilità, essere assegnato l'ultimo di questi inediti, che, con il titolo Il mito della filosofia definitiva, si trova nella busta 38 4 AFG, mss. inediti, busta 26.

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e, poiché almeno indirettamente riprende la questione del tempo e della morte, ha a che fare sia con un saggio del 1935 sul superamento del tempo nella storia, sia con quanto nel 1937 Gentile pubblicò di una Filosofia della storia, rimasta in­ compiuta, sia infine con il saggio Storicismo e storicismo, che costituisce forse l'ultimo documento della sua polemica anti­ crociana 5 . Agli occhi di chi fosse stato in grado di comprendere che, fondata sull'energia sintetica di un atto che, in eterno costi­ tuendo sé stesso attraverso la negazione-espulsione del nega5 Il saggio Storicismo e storicismo, pubblicato negli « Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1 942 , pp. 1 - 7 , fu poi ristampato nel­ l'Introduzione alla filosofia, Firenze 1952 2 , pp. 259-70. Per quanto invece attiene alla Filosofia della storia, che Gentile progettò e non realizzò se non in parte, cfr. Introduzione a una nuova filosofia della storia, « Giornale cri­ tico della filosofia italiana », 18 ( 1 937), pp . 8 1 -93 , 225-3 3 , e L'oggetto della storia, ivi, 1 9 3 7 , pp. 305- 1 8 , 393-407: i due saggi possono ora leggersi in Frammenti di estetica e di teoria della storia, a cura di H. Cavallera, Firenze 1992, II, 2 1 -50, 5 1 -90. Il saggio del 1935 al quale ci si riferisce nel testo è anche, per la questione del tempo e della morte, il più importante; e com­ parve anche, volto in inglese da E . F . Carrit, nella Festschrift per Cassirer (Philosophy and History. Essays presented to Ernst Cassirer, edited by R. Klibansky and H.] . Paton, Oxford 1936, pp. 9 1 -95) . Lo si veda ora, da ul­ timo, nei Frammenti, II, 3-20; e vi si notino i luoghi in cui è detto che « il presente che è veramente presente, è del pensiero; e che il presente che è passato, è del mondo >>; che « la temporalità della storia è quindi la sua inat­ tualità » ; che il tempo storico vive morendo nel pensiero e trasfigurandosi sub specie aetemi. E se gli uomini temono la morte « per questo spettacolo che hanno sempre innanzi agli occhi, delle ' morte stagioni ' che li attirano a sé come la voragine in cui prima o poi cadranno, essi tremano di una vana ombra. Perché questo passato, questo tempo che traveste incessantemente ' l'uomo e le sue tombe/e l'estreme sembianze e le reliquie/della terra e del ciel ' , non è pensabile come la mors immortalis, di cui parlava Lucrezio: ossia come la morte, da cui non tornerà più mai la vita; bensì come la morte di ciò che muore passando nell'eterno; e muore perciò toccando l'immortalità, che », poiché contiene in sé il tempo, « lo eternizza » (II, 1 3 , 19-20) . Di que­ ste considerazioni che rappresentano uno dei poli del pensiero di Gentile, e ne esprimono l'« ottimismo » attualistico, occorrerà che il lettore non si di­ mentichi; perché solo a questa condizione potrà comprendere le ragioni per le quali, di volta in volta, egli fu tentato di allontanarsene e, nel fatto, se ne allontanò .

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tivo, di necessità si costituisce e ricostituisce come eterna vit­ toria sul disvalore, sul non essere, sulla morte, la filosofia di Gentile conosce la sua più autentica inquietudine nel reincon­ trare nel fondo di sé medesima ciò che, nel suo costituirsi, l'atto nega ed espelle, non sembra esser cosa da poco la testi­ monianza offerta da questi inediti; che bene a ragione pos­ sono essere interpretati come il documento del continuo ri­ torno, e quindi della non sul serio eseguita espulsione, di ciò che all'atto è opposto e che, di per sé, non dovrebbe posse­ dere la nota positiva dell'essere e della realtà. E per coglierne l'importanza concreta e determinata, occorre perciò tenere in­ nanzi tutto presente quel che sul tema dell'immortalità e della morte Gentile aveva scritto nella Teoria generale, e in parti­ colar modo, come s'è detto, nel capitolo decimo, che, intito­ lato a L'immortalità, dev'essere letto a stretto riscontro del precedente, dedicato a Lo spazio e il tempo. I quali, come si sa, per un verso sono lo stesso spirito che temporalizza e spa­ zializza, spazializza e temporalizza; ma proprio per questo, ne sono diversi. Non può mai accadere infatti che del tempo e dello spazio lo spirito possa andare a far parte, includendovisi e subendone perciò in sé stesso la legge specifica. Dell'uno e dell'altro, dello spazio e del tempo, esso costituisce il princi­ pio costitutivo; che, come principio dello spazio e del tempo, non può, esso stesso, essere spazio e tempo . Ne consegue, se­ condo Gentile, che se, inimmaginabili e impensabili al di fuori di questo riferimento allo spirito che ne costituisce qual­ cosa come la ratio essendi et cognoscendi, il tempo e lo spazio vi sono inclusi e formano bensl il « sistema del molteplice », ma, appunto, il sistema, e non il molteplice stesso nella sua rapsodicità eslege, allora l'accento deve battere con forza su questo loro essere inclusi e contenuti nella dimora, essa stessa non spaziale e non temporale, dello spirito; il quale è infinito e, in quanto tale, costituisce la condizione dell'indefinito, e non infinito esso stesso, essere e costituirsi del tempo e dello spazio . Ma lo spirito è la stessa cosa dell'Io. L'Io è la stessa cosa del pensante che è, a sua volta, come la radice più pro­ fonda della « personalità »; la quale è bensl mortale in quanto « noi stessi » ci naturalizziamo e ci chiudiamo nella prospet­ tiva dello spazio e del tempo e ci rendiamo molteplici con la

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molteplicità della quale quelli sono, l'uno e l'altro, il « siste­ ma », ma essendo tuttavia radicata « in una personalità supe­ riore », in forza e in ragione della quale quella empirica e na­ turale è reale ed essente. Di qui la conclusione che Gentile pensava di poter dare al suo ragionamento; ed egli infatti osservava che se l'immorta­ lità è dello spirito, che è spirito e non natura, è quest'ultima che, priva com'è del carattere che a quello invece appartiene dell'infinità e dell'eternità, cade, oltre che nello spazio, nel tempo, e qui consuma il dramma della sua morte. « Ormai (si legge nel duodecimo paragrafo di questo decimo capitolo) è chiaro . L'eternità dello spirito è la stessa mortalità della na­ tura, perché ciò che è indefinito dal punto di vista del mol­ teplice, è infinito da quello dell'uno ». E Gentile proseguiva perciò osservando che la « vita, la realtà dello spirito, è nel­ l'esperienza (nella natura di cui l'esperienza è coscienza) : ma esso ci vive dentro senza esservi assorbito e senza diventar mai esso stesso natura, anzi conservando sempre la propria infinità o unità, senza la quale la stessa natura col suo molte­ plice (spazio e tempo) si dileguerebbe ». La sola immortalità, « dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale effettiva­ mente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale ». Non è l'altra in cui « si è fantasticamente irretita la mi tic a interpretazione filosofica di quest'immanente affermazione dello spirito, l'im­ mortalità dell'individuo empirico: onde nel regno dell'immor­ talità si viene a proiettare la molteplicità e, per conseguenza, la spazialità e temporalità della natura » (§ 12) 6• Il « difficile e astruso » problema era così giunto nei pressi della sua autentica definizione . Se, inteso in senso rigoroso, il presente, l'atto, non è un presente, o un atto, che si trovi come in bilico «tra due termini opposti» ma è «l'eterno, ne­ gazione d'ogni tempo » (§ 15), la conseguenza ulteriore è al­ lora che quel che « muore di noi e dei nostri cari è la mate­ rialità che mai non è stata », giacché la materialità autentica,

42.

6

Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze 19596 , pp. 1 4 1 -

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quella alla quale può così assegnarsi il predicato dell'essere e della realtà, è interna alla vita dello spirito: « e in esso è e vale quel tanto che realizza dello spirito » 7 • Con la conseguenza che alla domanda: « l'individuo, dunque è mortale o immor­ tale?», la risposta non può essere se non che mortale è «l'in­ dividuo aristotelico », che è pur quello del pensare comune e della comune esperienza, ma « immortale » è invece l'indivi­ duo assunto nell'attualità dell'« atto spirituale », che è « indi­ viduo individuandosi » 8, ossia in quanto s'individua e assume questo suo volto . Ebbene, se questo è il filo che Gentile viene come svol­ gendo e dipanando dalla sua premessa, - che cosa dire? Che tutto qui, malgrado la difficoltà e il carattere « astruso » della ricerca, scorre nel segno della coerenza, o che al con­ trario, al di là, o piuttosto al di qua, della questione della morte, in queste considerazioni vi è qualcosa che non scorre affatto e si attorciglia invece in un nodo tanto tenace quanto arduo da sciogliere e, prima ancora, da · individuare negli elementi che lo costituiscono in questo . suo improprio carattere? In effetti, la prima difficoltà che questi testi gen­ tiliani presentano concerne la fisionomia assegnata al tempo, allo spazio, al rapporto che questi intrattengono con lo spi­ rito (in quanto ne sono contenuti) e che lo spirito intrattiene con essi (in quanto li contiene) . Concerne, inoltre, il modo in cui Gentile tratta la questione della molteplicità. E si ar­ riva a comprenderla, questa prima difficoltà, quando si con­ sideri che se per un verso lo spirito è alla radice del tempo e dello spazio che perciò, ossia in forza e in ragione di questa loro radice, sono attività e non dati obiettivi, inclusi nella natura, sono temporalizzazione e spazializzazione, anzi atto temporalizzante e spazializzante, e non semplici tempo e spazio, allora per questo aspetto è impossibile che fra l'uno, lo spirito, e gli altri, il tempo e lo spazio, possa darsi un rap­ porto che non valga come espressione metaforica dell'idenì 8

Ibid. , pp . 1 46-7. Ibid. , p. 147.

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tità. È problematico, anzi molto (come vedremo) problema­ tico, se possa rilevarsi il carattere del concetto, e non piut­ tosto quello della metafora, nell'affermazione secondo cui, senza mai esserne incluso, lo spirito include in sé e lo spazio e il tempo. Ma certo soltanto metafora, e niente di più, que­ sta affermazione sarebbe se con essa s'intendesse che come temporalizzazione e spazializzazione, ossia come atto del temporalizzare e dello spazializzare, lo spirito, che è atto, in­ clude in sé e il tempo e lo spazio: e se, per conseguenza, anche dovesse distinguersi fra i due atti, uno (quello inclu­ sivo della spazializzazione e della temporalizzazione) non in­ eludibile che nel suo stesso esser atto, l'altro, che pure è atto, includibile invece nel primo, dal quale, poiché ne è contenuto, si distingue. In realtà, fra i due atti non può darsi distinzione; e soltanto per metafora, rischiosa meta­ fora, si dice che un atto si distingue da un atto. L'atto è atto; e, se sono atto, il temporalizzare e lo spazializzare sono la stessa cosa dello spirito che, per conseguenza, è in sé stesso, come spirito, temporalizzazione e spazializzazione . Ne consegue, se è così, che a essere compreso nello spirito è il tempo, è lo spazio, intesi, l'uno e l'altro, in modo dif­ forme dalla rappresentazione che se ne dà quando li si in­ tende come temporalizzazione e spazializzazione; e altresì ne consegue che, accanto al tempo e allo spazio intesi come at­ tività temporalizzante e spazializzante, occorre assumere un altro tempo e un altro spazio : che saranno bensì connessi ai primi due, ma nel segno della diversità, non dell'identità. A un tempo e ad uno spazio intesi come l'atto della tempora­ lità (temporalizzante) e della spazialità (spazializzante) , e perciò come la «concretezza» stessa dello spirito, fanno ri­ scontro, e si oppongono, un tempo e uno spazio astratti. E la questione che ne nasce è in ogni senso analoga, o, se si preferisce, identica, a quella che sottende la distinzione, op­ pure l'opposizione, comunque il rapporto che al logo con­ creto stringe il logo astratto.

È una questione tutt'altro che semplice quella che in tal modo, gradatim, si è venuta delineando; anzi così complicata,

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intricata, ricca di ambiguità, sfuggente, che in sé stessa reim­ plica l'essenza medesima dell'attualismo. E converrà perciò studiarla senza cedere al demone della fretta definitoria: os­ servandola, innanzi tutto, attraverso la lente dell'analisi che a questo punto non può non essere dedicata al capitolo che nella Teoria generale Gentile dedica allo spazio e al tempo, e che converrà seguire, o cercar di seguire, nella sua linea, che solo in apparenza è semplice . Ebbene, è noto che, partito lui pure, almeno in prima istanza, dall'assunto fondamentale che lo spazio e il tempo sono i due « sistemi del molteplice »; che «reale, in modo positivo, è quel che esiste » e « quel che esi­ ste, esiste nello spazio e nel tempo », Gentile si trovò subito dinanzi la concezione che dell'uno e dell'altro era stata ela­ borata dalla filosofia trascendentale. E la interpretò, questa concezione, nel senso che, avendo elevato lo spazio e il tempo a « forme a priori dell'esperienza » e, quindi, a « modi onde l'attività unificante dello spirito lavora i dati della im­ mediata sensibilità », chi l'aveva elaborata non credette di « poter altrimenti garantire l'oggettività positiva della intui­ zione sensibile, se non » col presupporre « alla molteplicità unificata spazialmente e temporalmente un'altra moltepli­ cità, non ancora unificata dal soggetto, ma base a tale unifi­ cazione » 9. Donde la critica che, presentate le cose in questo modo Gentile ritenne di dover rivolgere a Kant; al quale in­ fatti obiettò che, poiché la molteplicità non può essere pen­ sata se non come spazio e come tempo, chi presupponga la molteplicità da spazializzare e da temporalizzare alla sua forma intuitiva finisce, senza accorgersene, per presupporre lo spazio allo spazio, il tempo al tempo. Supposta come po­ sitiva e, altresì, come assoluta (« questo assurdo che è ap­ punto l'assolutamente molteplice ») 10, la molteplicità è dun­ que, per Gentile, innanzi tutto spazio. E, comunque posto 9

10

Ibid., p. 1 12 .

Per la critica che, in questo libro, Gentile rivolge al concetto della molteplicità, cfr . Teoria, pp. 1 1 0- 1 . E se ne potrebbe discutere a parte e a lungo, perché, se giusta era l'esigenza che Gentile avanzava e nel cui nome si faceva lui pure critico di quella molteplicità che Kant aveva ragguagliata ad una « rapsodia di percezioni sconnesse » (cfr . , per es . , Kritik der reinen

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« in una esperienza attuale », spazio significa risoluzione del reale in elementi e, in ultima analisi, in punti, « ciascuno dei quali è fuori di tutti gli altri, e ha tutti gli altri fuori di sé » 1 1 • Ma per un altro verso il punto appariva a Gentile con il carattere del « centro »; e il carattere di questo carattere era dunque tale che, costituendo altresì il limite dello spa­ zio, il « punto-centro » si presentava come inesteso: non spa­ ziale, perciò, anzi decisamente « aspaziale » 1 2 • A osservarla con qualche cura, questa prima « deduzio­ ne » non appare in ogni senso perspicua; e la sua « difettivi­ tà » emerge in effetti con chiarezza quando si consideri, in primo luogo, che se sul serio fosse inesteso, non spaziale, aspaziale, in nessun modo il punto potrebbe cadere al di fuori di ogni altro, - ossia di quei punti che, tutti cadendo al di fuori di ogni altro, per questa via costituiscono il si­ stema dello spazio come pura esteriorità e molteplicità. Ciò che non è esteso non può cadere al di fuori di ciò che abbia questo medesimo carattere, - gli « inestesi » essendo, in quanto tali, identici e originariamente sottratti al puro mol­ teplice esteriore; che mai infatti, sul fondamento dell'ine­ stensione dei punti, potrebbe costituire sé stesso e sussi­ stere . Ciò nonostante, Gentile li assunse tanto come inestesi quanto, nel loro estrinseco o esteriore « cader fuori » l'uno dell'altro, come « limiti » dello spazio. Riteneva evidente­ mente che, per essere e poter essere « limiti », dovessero al­ tresì essere inestesi; e che « limite » e « inesteso » fossero da questo punto di vista « lo stesso ». Se il « limite » fosse stato esteso, sarebbe stato (così, evidentemente, per persuadersi del contrario, Gentile argomentava) esso stesso « spazio »; del quale, quindi, non avrebbe potuto costituire il limite. In­ somma, in qualche modo Gentile avvertiva che se il punto fosse stato interpretato come esso stesso esteso, sarebbe stato preso immediatamente come spazio; e non solo, Vemun/t, § § 15 e 16), inadeguato era invece il modo che egli teneva nel pre· supporre la molteplicità (i molti) alla critica che rivolgeva alla sua immedia· tezza. 11 Teoria, p. 1 1 3 . 12 Ibid. , p. 1 1 4 .

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quindi, avrebbe riprodotto in sé medesimo il problema al quale, prendendolo invece come inesteso, cercava di confe­ rire orizzonte e risoluzione, ma avrebbe dato luogo ad un'ul­ teriore, pesante difficoltà. Come spazio, non sarebbe stato punto. Ed è il punto che, cadendo al di fuori di sé, dà, a suo parere, luogo alla moltiplicazione dei punti, e perciò allo spa­ zio. Ma, se è così, la conseguenza è allora che (e questa è la « tesi » che Gentile escludeva) se immediatamente il punto fosse stato preso come esteso e spaziale, lo spazio sarebbe stato posto innanzi alla sua deduzione. Se al contrario, e come egli voleva, fosse stato assunto come inesteso e aspaziale, mai avrebbe potuto cadere al di fuori di sé, e dar luogo allo spazio. È impossibile infatti che l'inesteso sia premessa dell'esten­ sione e che in questa sia incluso. Se il punto è inesteso è in­ concepibile che abbia un « fuori di sé » in cui possa cadere . È inconcepibile, del pari, che, col cadere fuori di sé, dia luogo al « fuori di sé » in cui cade. Ed è necessario invece che, nell'es­ sere ciascun punto inesteso, ciascuno sia identico all'altro, e tutti siano identici all'identico che, se è tale, esclude che, nella loro molteplicità, gli identici (inestesi) siano e possano essere altro che « nomi ». Per questa via, dunque, il concetto dello spazio rischiava seriamente di pervenire alla sua propria dissoluzione, o, in modo più drastico, alla esibizione della sua propria impossibi­ lità di costituirsi. E fu dunque per questa ragione, in qualche modo operante nella sua mente, che Gentile elaborò la sua particolare risoluzione; che fu senza dubbio non migliore e, forse, fu peggiore della difficoltà alla quale cercava di sot­ trarsi, ma che sarebbe tuttavia ingeneroso negare che non pro­ cedesse dall'averla, almeno in parte, avvertita. Per sfuggire alla difficoltà, Gentile prese il punto come inesteso e aspa­ ziale; perché, ribadì, «ogni punto dello spazio è centro, in cui si fissa il sistema di tutti gli altri, e distrugge quindi la molte­ plicità: il punto come tale è limite dello spazio, e però si sot­ trae alla spazialità». Ma, giunto a questo approdo, dalla sua impostazione trasse un'ulteriore conseguenza: del punto parlò infatti come se, in questa sua natura di centro e di limite, non solo si sottraesse allo spazio, ma altresì ne costituisse l'« annui-

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lamento » 13. Era, questa, una conseguenza grave e profonda­ mente aporetica. E capirlo non è difficile. Com'è possibile, in effetti, che, nello stesso atto, il limite sia sé stesso e « annullamento » di alcunché? Se è limite, certo non gli è dato di annullare il limitato: se annull a sse il limi­ tato, come potrebbe insieme esserne il limite? Ma per le ra­ gioni già viste (e che in sostanza si raccolgono tutte nell' as­ surda ammissione che, nel suo carattere aspaziale e inesteso, il punto cada tuttavia al di fuori degli altri e, nella reciproca esclusione che in tal modo si realizza, costituisca il sistema della molteplicità spaziale) , del punto e del limite Gentile parlò come se, proprio in questa loro natura, costituissero al­ tresì l'annullamento dello spazio. Ne parlò, in altri termini, come se essere centro, punto, limite ed essere « annullamen­ to » fossero e potessero essere la medesima cosa. E in tal modo, la difficoltà, nella quale già era involto, ulteriormente si inasprì. Si inasprì, occorre specificare, nel momento stesso in cui, sia pure per una via obliqua e indiretta, un suo aspetto giungeva a chiarirsi. Nel limite infatti lo spazio si annullava: perché, nella sua acutezza, Gentile era infine giunto a capire quel che peraltro avrebbe dovuto costituire la premessa del discorso, e cioè che se il punto è aspaziale e inesteso è impos­ sibile che cada al di fuori degli altri punti, e, se non cade al di fuori, dunque è impossibile che costituisca un limite dello spazio; che per conseguenza come spazio non riesce, in que­ sto quadro, a costituirsi. La comprensione di questo punto, che, se fosse riuscita completa, al discorso sul tempo e sullo spazio avrebbe imposto un diverso inizio, e un tutt'altro svolgimento, completa invece non riuscì. Riuscì, al contrario, parziale; e Gentile si trovò nella necessità, che il suo stesso ragionamento aveva determi­ nata , di « salvare » lo spazio dal naufragio al quale egli stesso l'aveva predisposto. L'impresa non era agevole : anzi tanto più ingrata e difficile in quanto, come si è detto , della necessità di un diverso inizio egli non arrivò a rendersi conto . Fu perciò 1 J Ibid. , pp. 1 14-15 .

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costretto a supporre che, « limitando lo spazio e quindi annul­ landolo », il punto non fosse concepibile senza un'ulteriore « moltiplicazione », che « sarà una nuova spazializzazione » 14. E, in sé non difendibile, la supposizione fu resa necessaria dal­ l'aver avvertito che, « annullando lo spazio », il punto non po­ teva costituirne altresì il limite, e dall'avere ciò nonostante te­ nuto fermo al suo carattere di « limite dello spazio ». A chia­ rire questo passaggio, così insidioso e irto di difficoltà (solo in parte, come si vede, avvertite, e it1 modo implicito) , scrisse: « c'è un punto tra i punti, ed è il punto della molteplicità: e dà luogo allo spazio. Ma c'è anche il punto dell'unità, che non si può fissare nella sua unità senza far cadere nel nulla la molte­ plicità che ne dipende. Quindi si spazializza esso stesso ». Il passo è, per la verità, assai singolare; ed è comunque ben !ungi dal riuscire persuasivo . Nel ragionamento che lo sottende non è difficile infatti rilevare che « prima » si as­ sume quel che « poi » si toglie, per riassumere quindi, to­ gliendo il toglimento, quel che appunto si era tolto: e cioè che il punto sia fra i punti e sia perciò il punto della molte­ plicità spaziale. È proprio infatti perché il punto dell'unità subentrante a quello della molteplicità « annulla » quest'ul­ tima e, come qui si dice, « fa cadere nel nulla » la spazialità, - è proprio per questo che Gentile deve assumere che il punctum tollens sia altresì quello che allo spazio dona l'es­ sere. E il dono è in effetti tanto più generoso, insperato e, occorre dire, gratuito, in quanto è lo stesso donatore che qui si fa dono: il punto dell'unità si spazializza, infatti, « esso stesso ». Ma come, e perché, si spazializza? Come e perché, dal « nulla » in cui l'unità fa cadere la molteplicità e la spa­ zialità, lo spazio risorge? Il punto si spazializza e lo spazio perciò risorge perché l'unità non fa cadere nel nulla la mol­ teplicità e quindi la spazialità se non nell'ipotesi astratta che essa, appunto, si « fissi » in sé stessa disciogliendosi dal suo nesso dialettico con quella. O, in termini più specifici, per­ ché, prendendo « Un qualunque elemento dello spazio (hic) », appare chiaro che « nella sua definita elementarità» esso « si 14 Ibid. , p. 1 15 .

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sottrae all'insieme degli elementi, e quindi alla spazialità », senza perciò permanere come «qualcosa di unico ». Dal suo « stesso seno » la spazialità «risorge » infatti « come reciproca esclusione degli elementi dell'esperienza, che, rimanendo sempre l'elemento già definito (che può essere un punto), si escludono in quanto l'uno sottentra all'altro nello stesso luogo: e ciascuno è nel suo istante (nunc) » 15. Ebbene, dopo aver avvertito che, come presto si vedrà, questa è tanto la deduzione dello spazio come « sistema » del molteplice esterno, quanto la deduzione del tempo (che è, a sua volta, ciò che lo spazio presuppone e da cui può quindi essere « dedotto ») , occorre altresì aggiungere che troppe sono le cose che qui non vanno, o non tornano, perché non si debba dirne qualcosa, e l'esigenza che conduce a control­ lare l'argomento deduttivo nei suoi passaggi essenziali non sorga imperiosa. Che, in effetti, l'argomento richieda di es­ sere attentamente controllato è tanto più evidente in quanto come si fa a non rendersi conto che, per un verso, qui si tiene fermo alla conclusione raggiunta, e perciò si assume che nella sua « definita elementarità », l'elemento (o il punto) si sottrae all'« insieme degli elementi, e quindi alla spaziali­ tà», mentre per un altro lo spazio è con tranquilla coscienza assunto come ciò che di regola s'intende per « spazio »? Come insomma non rendersi conto che, per un verso, gli elementi, o i punti, presuppongono la spazialità, ossia il luogo in cui si sottraggono l'uno all'altro, mentre, per un al­ tro, sono essi a costituirla e altresì, in questo atto, a negarla come «luogo spaziale »? Come, infine, non rendersi conto che , per restringersi a quest'ultimo tratto dell'argomenta­ zione gentiliana, per un verso lo spazio risulta costituito nel­ l' atto in cui è negato, e, per un altro, negato nell'atto in cui è costituito? E, scendendo se possibile alla radice, come non capire che l'atto di questa « negazione/costituzione » e, eo ipso, di questa « costituzione/negazione », è esso stesso l' atto nel signoreggiato processo della sua autocostituzione; e che è l'atto dello spirito, quello che così s i costituisce, non l' atto 1; Ibid. , p. 1 1 5 .

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dello spazio (e del tempo); che non possono perciò godere di alcuna autonomia antologica e anzi, più radicalmente, è im­ possibile che giungano mai a costituirsi? Non rendersene conto è, in effetti, impossibile. Impossi­ bile altresì (anche se a quest'ultima dimensione del problema si preferisca, qui ed ora, non prestare l'attenzione che pur merita) , - impossibile non capire che la ragione per la quale questo scarto si produce, discende a sua volta dal mancato avvertimento del nucleo stesso della questione: non poten­ dosi infatti assumere come « elemento » ciò che per un altro verso viene preso come inesteso, non spaziale, aspaziale. Im­ possibile è infine non comprendere che, così stando le cose, necessariamente l'equivoco era destinato a ripresentarsi, e a ribadire sé stesso, in ciascuno dei passaggi deduttivi intrin­ seci all'argomentazione e richiesti da essa. Inevitabile era, ad esempio, che questo « elemento », del quale si era pur pre­ teso che si sottraesse perciò alla spazialità, fosse tuttavia ac­ creditato di uno spazio interno, di un « seno », nel quale la spazialità risorge come « reciproca esclusione degli elementi dell'esperienza » . E non basta: ché altre considerazioni, a questo punto, si rendono necessarie. Notevole, per esempio, è il modo in cui, nel corso della deduzione, Gentile fa inter­ venire l'istante; che per un verso dovrebbe essere l'istante, appunto, del reciproco subentrare, l'uno all'altro, degli ele­ menti « nello stesso luogo », e non già quello in cui ciascuno subentra; ma per un altro verso, a giudicare almeno dalla materialità dell'espressione, proprio questo è, - l'istante in cui ciascuno è (subentrante) . Il difetto dell'analisi o, se si preferisce, della concettualizzazione, qui è evidente. Ma conviene tuttavia renderlo esplicito. E osservare quindi che se si tenesse fermo alla tesi secondo cui, nella reciproca esclusione determinata dal subentrare, l'uno all'altro, degli elementi, l'istante è l'istante del subentrare, impossibile sa­ rebbe non vedere che, simultaneo e non successivo essendo il subentrare realizzante la reciproca esclusione, ogni istante sarebbe simultaneo all'altro. E impossibile sarebbe altresì non vedere che, poiché la simultaneità degli istanti non è che la metafora della pura, indivisibile, immoltiplicabile aspazialità e atemporalità onde ciascuno di quelli si caratte-

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rizza nella sua essenza, all'istante è vietato di ospitare altro che sé medesimo, con rigida esclusione di ogni « elemento » e del loro stesso, reciproco, istantaneo e non successivo, su­ bentrare l'uno all'altro. Né, al riguardo, gioverebbe il pas­ saggio all'altra dimensione della tesi, della quale del resto già si è mostrata, velocemente, !'« impossibilità ». Non giove­ rebbe perché, l'istante in cui ciascuno è subentrante essendo il medesimo istante in cui si presume che tutti subentrino a tutti, un solo istante caratterizza questo subentrare di cia­ scuno e di tutti; e come l'istante è indiviso, così non può certo essergli consentito di costituire qualcosa come il luogo in cui, istantaneamente, i subentranti subentrano. L'istante, in altri termini, viene dedotto, nell'argomento di Gentile, dal « su­ bentrare »; che a sua volta è un istante, e perciò non può es­ sere un subentrare. Come che sia di questo particolare svolgimento, ma te­ nendo tuttavia ben fermo quanto dall ' analisi è fin qui emerso, sta di fatto che, e già lo si è avvertito, questa è, oltre che dello spazio, la deduzione del tempo. Non altro che « tempo » è infatti, nella valutazione di Gentile, la « spa­ zializzazione dell'unità dello spazio », ossia, in concreto, il ricostituirsi, come spazio, della spazialità che il punto ine­ steso e aspaziale aveva, in modo alquanto avventuroso, « an­ nullata » in sé stesso. « Può dirsi adunque (si legge in questo capitolo) che il tempo sia la spazializzazione dell'unità dello spazio . E però tempo e spazio si possono rappresentare sche­ maticamente come due rette intersecantisi, aventi in comune un punto solo: quel punto dello spazio, che nello spazio non può essere un punto (un punto unico) senza essere uno de­ gl'infiniti punti del tempo » (§ 4). Ne deriva, a giudizio di Gentile, che, « in conclusione, lo spazio si compie nel tempo per porsi come molteplicità assoluta, di cui ogni elemento è esso stesso una molteplicità»: anche se, in effetti, non sa­ rebbe giusto dire che il tempo sia la « prosecuzione dello stesso processo di moltiplicazione dello spazio ». E sia pure con qualche fatica, e dando luogo a varie difficoltà, Gentile infatti osservava che, « se così fosse, non ci sarebbe il punto dello spazio, e nessuna unità spaziale comunque definita. Bi­ sogna arrestare il processo dello spazio e fissare il suo ele-

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mento, per intendere quell'altro elemento che si genera dalla moltiplicazione di questo primo elemento . La quale è an­ ch' essa spazializzazione in quanto anch'essa, come la prima, è reciproca esclusione di elementi distinti, e quindi moltepli­ cità, ma è pure una nuova spazializzazione del primo spazio. Qui la differenza del tempo dallo spazio ». Gli sembrava in­ fatti che la differenza, questa differenza, fosse a sufficienza chiara quando si avvertisse che « una pura molteplicità im­ mediatamente data è spazio », e poi si considerasse che « sot­ trarre alla molteplicità stessa un elemento non si può senza vederlo in una seconda molteplicità pura, nata nella prima, e che è il tempo » 1 6 • Questa dunque, fedelmente ripercorsa nella sua linea fon­ damentale, la deduzione; che si svolge in due tempi, e in en­ trambi richiede di essere esaminata. Cominciando dal primo, si consideri che il tempo è presentato come la « spazializzazio­ ne dell'unità dello spazio ». Ma, se è cosl, subito allora si comprende il disagio che questa definizione comunica a chi cerchi di comprenderne il senso. Non ci si puo infatti non chiedere quale sia, qui, l'autentico soggetto grammaticale e, sopra tutto, logico; e indagando le due alternative, entrambe (in astratto) possibili, che il testo sembra delineare, non può non avvenire che ci si venga a trovare al centro di difficoltà non lievi. È il tempo che, come soggetto della « spazializza­ zione », spazializza, ossia riapre nella forma dello spazio, l'unità nella quale lo spazio si era « annullato »? Oppure è questa medesima unità che, autentico soggetto della spazializ­ zazione, si spazializza, in tal modo annullando l'annullamento dello spazio che si era, per cosl dire, celebrato in essa? Entrambe (in astratto) possibili, le due tesi sono diverse; e non c'è sagacia esegetica mediante la quale, reinterpretando sé stesso, il testo gentiliano possa arrivare a farne i momenti costitutivi di un circolo coerente. Nella prima, in tanto il tempo assume il grado e il ruolo del soggetto, ponendosi esso, in concreto, come l'auctor della « spazializzazione », in quanto 16

Ibid. , p. 1 1 6 .

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di per sé l'unità è annullamento dello spazio, e né possiede, né può possedere, la capacità di « annullare », in sé stessa e mediante sé stessa, l'annullamento (dello spazio) in cui consi­ ste e si realizza. Ma, se è così, allora è evidente che il tempo interviene ab extra; e che invano si cercherebbe di ricavarlo dall'intrinseco dell'« unità ». Nella seconda tesi, invece, in tanto è nell'unità che occorre riconoscere l' auctor e il soggetto della spazializzazione (di sé medesima) , in quanto, se per con­ tro fosse il tempo a « spazializzare » allora, appunto, si sa­ rebbe in presenza della già vista estrinsecità. Ma, in sé stessa, l'unità è annullamento dello spazio: e come potrebbe, l' annul­ lamento, essere eo ipso la ricostituzione dello spazio? Se quindi a soggetto della spazializzazione si assumesse l'unità che dello spazio è l'annullamento, a soggetto della spazializ­ zazione si assumerebbe la contraddittorietà pura: che è in ef­ fetti ciò che si dà a vedere in una situazione nella quale « an­ nullamento » e costituzione si presentino come soggetti inter­ cambiabili. Se il primo tempo della deduzione dà luogo a non supe­ rabili difficoltà, il secondo presenta più di un lato oscuro; e, nell'insieme, permane in un'atmosfera di forte problemati­ cità. Lo si osservi ad esempio là dove, dicendo che lo spazio si compie nel tempo e che in tal modo si pone come « molte­ plicità assoluta », ogni elemento della quale è esso stesso mol­ teplice, non solo Gentile evitava di chiarire se e come sia pos­ sibile parlare di una molteplicità (assoluta) nella quale ogni elemento trova luogo, e poi anche della molteplicità intrin­ seca a ciascuno di questi elementi; non solo, in altri termini, non avvertiva la necessità di spiegare quale rapporto leghi e poi anche distingua queste due molteplicità, che non possono, se l'una sta nell'altra, essere la medesima e identica moltepli­ cità; ma faceva in realtà di più (o, se si preferisce, di meno, di assai meno, di quel che ci si sarebbe aspettati che facesse) . Palesemente, egli dimenticava che, in quanto tale, !'« ele­ mento » si sottrae alla molteplicità e alla spazialità; e che né molteplice né spaziale potrà mai essere definito ciò che, pro­ prio nel e per il suo sottrarsi al molteplice e allo spaziale, si

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presenta altresl come la negazione, o !'« annullamento », di entrambi. Di qui, se è lecito esemplificare, l'oscurità che av­ volge le ultime linee del passo; nelle quali in effetti non è dato capire né che cosa, a rigore, sia quel che vi viene defi­ nito come il « processo dello spazio », né in che consista il « soggetto » che lo arresta e deve arrestarlo, né quale infine possa essere il senso della definizione dello spazio come « pura molteplicità immediatamente data »: ossia, conviene aggiun­ gere, come una molteplicità tale che, sottraendo ad essa un elemento, è impossibile non vedere quest'ultimo « in una se­ conda molteplicità pura, data nella prima, e che è il tempo ». Concentrando l'attenzione su questa conclusiva « degnità », è in effetti abbastanza agevole comprendere che le difficoltà in­ trinseche all'impostazione gentiliana si sono qui come anno­ date e potenziate le une con le altre. Giunto alla fine della sua deduzione, Gentile è stato infatti visitato dalla balenante consapevolezza che se !'« elemento », ogni elemento, del mol­ teplice, è esso stesso molteplice, la conseguenza sarà che, iso­ lato (e posto che isolarlo sia possibile) , esso si ripresenterà come quella « molteplicità pura immediatamente data» che è lo spazio . Ma, per un verso, non è stato in grado di vedere che, proprio perché l'elemento è esso molteplicità pura, e dunque spazio, isolarlo dalla molteplicità pura significa in realtà restituirlo con il carattere di questa e dunque, in ultima analisi, non poterlo isolare affatto. Per un altro, non è stato in grado di comprendere che, nella reale impossibilità dell'iso­ lamento, lo spazio rimane per sempre consegnato allo spazio; e « dedurne » il tempo è perciò impresa disperata. La deduzione alla quale abbiamo assistito non esaurisce dall'altra parte, per Gentile, la questione dello spazio e del tempo . Non la esaurisce perché questa non è in realtà se non la deduzione dello spazio e del tempo « astratti »; e resta perciò da considerare quella relativa allo spazio e al tempo « concreti »: una deduzione che, sebbene rispetto a quella che trova posto nel Sistema di logica, e che concerne il pensante e il pensato, l'atto e il fatto, il logo concreto, appunto, e quello astratto, si presenti con caratteri alquanto sommari, è tutta-

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via una deduzione anch'essa, e converrà perciò, prima di ri­ badire la valutazione che ne è stata accennata, attendere che giunga al suo compimento. È evidente d'altra parte che se do­ vessimo indugiare nell'analisi di questo ulteriore aspetto della deduzione, e prestare perciò l'attenzione che merita all'argo­ mento relativo all'attività spazializzatrice e temporalizzatrice dello spirito che, lungi dal ricevere come già « posti » lo spazio e il tempo, è essa a generarli nella e attraverso la generazione della molteplicità, il discorso finirebbe per riguardare l'im­ pianto logico di questa tesi: ossia, in poche parole, la struttu­ ragenerale dell' attualismo 1 7 • Basti alloraosservarla, questa strut­ tura, di scorcio, e comunque nel punto in cui, parlando dello spazio e del tempo che, !ungi dall'includere in sé lo spirito, ne sono inclusi e compresi, Gentile scrive che « in linguaggio lo­ gico può dirsi che la spazialità in generale sia l'antitesi di una tesi che è lo spirito; ma di uno spirito che, in quanto semplice tesi, opposta all'antitesi, non è meno astratto della spazialità: laddove la concretezza dell'una e dell'altra consiste nella loro sintesi. La quale non è un tertium quid che sopraggiunga al­ l'unità dello spirito e alla spazialità della natura, e ne risolva l'opposizione unificando ne i termini. La sintesi, abbiamo detto, è originaria: ossia non c'è tesi senza antitesi, né vice­ versa: e non v'è opposizione che non sia opposizione dell'uno a sé stesso, come diverso e come identico. La dualità dei ter­ mini è presa come dualità che non sia unità, da un'analisi astratta, che si esercita sul vivo del processo spirituale unico, dove la tesi è antitesi, e l'antitesi è tesi » 1 8 • Questo modo d i presentare l a questione è affetto d a in­ sormontabili difficoltà. Chi in effetti non capisce che, pro­ spettato come la deduzione concreta dello spazio e del tempo, costituisce esso proprio la riprova della loro indeducibilità? Intorno a queste difficoltà potrebbe discutersi a lungo. Basti tuttavia, in questa sede, cercare di raccoglierne, velocemente, 17 Sull'argomento rinvio a quanto ho scritto nel saggio dedicato alla questione dell'astratto e del concreto, che si trova raccolto in questo vo­ lume . 18 Teoria, p. 127 .

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il senso ultimo. E si osservi allora che la spazialità è presen­ tata da Gentile come la antitesi di una tesi, che è lo spirito; il quale non è a sua volta se non l'antitesi di quella antitesi, e per questo infatti è una tesi. Se per altro è così, la conse­ guenza è allora che la polarità della tesi e dell'antitesi, la loro opposizione, è non più che apparente; e si configura in realtà nell'atto in cui si risolve nella forma della pura identità. La tesi è in sé stessa un'antitesi. L'antitesi è in sé stessa una tesi; e quale differenza può mai esserci tra una tesi, che è un'an­ titesi, e un'antitesi, che è una tesi? Ciascuna è una tesi e un'antitesi: e quale differenza, si ripete, potrà dunque sussi­ stere fra l'una e l'altra? Forse la differenza che è posta in es­ sere da quella che Gentile chiama l'opposizione originaria? Ma se è vero che, secondo il suo più profondo convinci­ mento, è l'opposizione, che perciò è originaria, a precedere gli opposti e a costituirne il fondamento; se è vero che, kantia­ namente, è la sintesi a venir prima della « tesi antitesi » e del­ l'« antitesi tesi » e a dischiudere l'ambito di questa possibilità, vero è anche che se la tesi e l'antitesi svelassero, nel loro es­ sere intrinseco, di essere piuttosto identiche che non opposte, di opposizione originaria non potrebbe parlarsi in nessun modo . L'opposizione originaria è concepita qui come un fon­ damento, una ratio essendi, una realtà possibilitante il con­ creto opporsi degli opposti (la tesi e l'antitesi) . Ma se, in luogo di dischiudere quello dell'opposizione degli opposti, l'opposizione originaria rivela l'orizzonte degli identici, e perciò in senso forte, dell'identico, come mai potrebbe essere ancora definita così? Di questa difficoltà, in qualche modo e fino a un certo se­ gno, Gentile senza dubbio si rese conto. Ma solo fino ad un certo segno. E la ragione di questa solo parziale comprensione della difficoltà sta, e non paia paradossale, proprio nel crite­ rio in ragione del quale riteneva di averla infine superata: os­ sia, per dirla in breve, nell'idea che si era fatta della sintesi e della sua antecedenza rispetto ai termini che, essendone co­ stituiti, per un altro verso la costituiscono. Come già abbiamo incominciato a vedere, Gentile non riusciva a discernere il punto essenziale, e cioè che il passaggio all'autentica concre­ tezza dello spirito inteso come la « vivente » concretezza della

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sintesi, non è ottenibile se, posta nel primo « tempo » l'oppo­ sizione astratta della « tesi antitesi » e della « antitesi tesi », nel secondo l'opposizione sia vista come l'eterno e originario opporsi dell'opposizione in sé stessa: come l'« uno », appunto, che originariamente oppone a sé il suo « sé » . Il secondo tempo non è in realtà, a ben guardare, se non il puntuale ri­ badimento di ciò che già nel primo era stato ottenuto. Nella prima posizione - nella posizione insomma dello spazio, e del tempo, come antitesi di una tesi « che è lo spirito », lo si è già detto e occorre tuttavia ripeterlo, la tesi è un'antitesi, l'antitesi è una tesi: e nell'atto in cui sembra che realizzino il massimo dell'opposizione, l'una e l'altra in realtà si pareg­ giano, senza perciò riuscire né a distinguersi né ad opporsi, in una « parità » che è, in effetti, identità, pura identità: con la conseguenza che proprio perché la tesi è un'antitesi, ma que­ sta è una tesi, è impossibile parlare dell'una e dell'altra come di una tesi che sul serio si opponga ad un'antitesi, o di un'an­ titesi che si opponga ad una tesi. La tesi, che è antitesi, e l'antitesi, che è tesi, tutto questo (si ripete) che altro è se non l'identità? Ma, se ben si guardi, la stessa cosa interviene nella seconda posizione: nella quale l'essere la tesi indistinguibile dall'antitesi, e questa da quella, non significa, allo stesso modo, se non la pura identità, e realizza perciò un significato assai diverso da quello della « concretezza» dialettica, o della sintesi originaria, che Gentile riteneva di avere infine conse­ guita. Che sia cosl, è evidente; e anche da altri punti di vista questo « risultato » può essere osservato nella sua necessità. La tesi e l'antitesi non sono i lati di uno « stare insieme » che consegua al loro essere l'una la tesi, l'altra l'antitesi, e quindi al loro essere ricomprese in un ambito o in una sintesi. Ma stanno bensl nella sintesi che, originariamente, le istituisce, come tesi (mai senza antitesi) , e come antitesi (mai senza tesi) , nell'atto stesso in cui istituisce sé medesima e la sua propria originarietà. Se è cosl, ne consegue che il loro stare insieme, originariamente, nell'originario, dev'essere assunto con rigore. E se cosl, con rigore, lo si assume, non è difficile comprendere che, come l'originario non può raddoppiarsi nella tesi e nell'antitesi di sé stesso, perché una siffatta ope-

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razione gli è vietata dalla sua stessa natura di originario, così è impossibile che la tesi e l'antitesi si inserivano nel suo « am­ bito ». Non è possibile che vi si inserivano perché, se è origi­ nario, l'originario non può avere parti o lati; e se ha parti o lati, non è l'originario . Oppure le parti e i lati sono essi stessi originari, e allora non sono a rigore parti e lati, ma l'origina­ rio stesso che, appunto, non ha e non può avere parti e lati. Identiche all'originario, le parti (ossia, in questo caso, la tesi e l'antitesi) sono l'originario che, dunque, e lo si ribadisca, come non ha parti e lati, così nemmeno può essere e la. tesi e l'antitesi di sé stesso. Ma, secondo la ricostruzione che Gen­ tile ne propone, la tesi e l'antitesi sono, nella sintesi origina­ ria, l'una lo spirito, l'altra lo spazio (e il tempo) . Se per altro nella sintesi originaria la tesi e l'antitesi non possono stare se non originariamente, dunque è impossibile che vi stiano come la tesi e l'antitesi, e che allo spirito (tesi) lo spazio (e il tempo) si contrappongano come l'antitesi. Nell'originario non si dà se non l'originario. Ed anche in questa, che dovrebbe essere la deduzione dello spazio (e del tempo) concreti, non si assiste in realtà che al darsi come originario dell'originario, rispetto al quale sia lo « spirito », sia lo spazio (e il tempo) non sono, come tesi e come antitesi, se non astratti: come astratti, sono identici, come identici, insuscettibili di sintesi. Se ora, dopo aver passato in rassegna le più importanti questioni che s'intrecciano nel capitolo dedicato, nella Teoria generale, allo spazio e al tempo, si cerca di stringere il senso specifico della deduzione gentiliana, ci troviamo innanzi tutto di fronte ad alcuni paradossi, che converrà, brevemente, dire quali siano e perché siano insorti. Per un verso, la conclusione alla quale Gentile perviene è assai semplicemente formula­ bile; e si risolve infatti o nelle parole pascaliane (« par l'espace, l'univers me comprend et m'engloutit, comme un point; par la pensée, je le comprends ») 19 che, come motto, 19 Nella sua interezza il testo dice così: « Ce n'est point de l'espace que je dois chercher ma dignité, mais c'est du règlement de ma pensée. Je n'au­ rai pas devantage en possédant des terres: par l'espace, l'univers me com-

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egli appose al suo libro, oppure in quelle, scritte da lui e poi tante e tante volte ripetute, secondo cui « non noi siamo nello spazio e nel tempo: anzi lo spazio e il tempo, tutto ciò che si spiega spazialmente e succede a grado a grado nel tempo, è in noi: nell'Io, che non è, beninteso, l'empirico, ma il trascen­ dentale » (§ 13) 20• Ma per un altro estremamente faticoso è il cammino al quale Gentile invita e anzi costringe chi pur de­ sideri pervenire al fondo del suo pensiero: faticoso e non in ogni senso ben segnato. Lo si vede se innanzi tutto si consi­ deri che, mentre per un verso l'intera trattazione culmina nella tesi del duplice carattere, astratto e concreto, onde lo spazio e il tempo sono segnati e definiti, per un altro invece nessuno potrebbe dire che questa cosl problematica, e tutta­ via essenziale, distinzione sia segnata con sufficiente vigore, e svolta nelle sue conseguenze. E dev'esser infatti quanto meno completata e resa esplicita dal lettore che, consapevole dei successivi svolgimenti, la riformuli nella sua mente, cercando altresl di coglierne le intrinseche complicazioni teoretiche. Dopo questo, un secondo paradosso si dà a vedere in ciò, che mentre (e nella sua esplicita consapevolezza) quella di Gentile si definisce come una teoria di netta ispirazione kan­ tiana, è pur vero, per un altro verso, che, a differenza di quel che accade nella prima Critica 2 1 , e in particolar modo nel­ l'Analitica dei principi, nella teoria delineata da lui il primato appartiene non al tempo, ma allo spazio, del quale esplicita­ mente dice che il primo costituisce una specificazione. E seb­ bene in qualche modo marginale, il rilievo non è tuttavia né estrinseco né privo d'importanza: essendo dopo tutto evi­ dente che se di ispirazione kantiana è la tesi secondo cui lo spazio e il tempo sono attività, e cioè, per ritradurre il ter­ mine usato da Gentile nelle parole della Critica, non oggetti, ma forme a priori della sensibilità, una diversa ispirazione è quella che lo induce a dire che, pensati come attività, lo spaprend et m'engloutit comme un point : par la pensée je le comprends » (B . PAsCAL, Pensées, éd . Brunschvicg, intr. et notes par Ch. -Marc des Granges, Paris 1948, p. 163) . E cfr. anche pp. 162-63 . 20 Teoria , p. 122. 21 KANT, Kritik, § 6 .

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zio e il tempo sono la stessa cosa dello spirito che, spazializ­ zando e temporalizzando, è spazio e tempo concreti, e perciò non è né spazio, in senso naturalistico ed estrinseco, né tempo. Se, come si è visto, non sono lo spazio e il tempo ad includere in sé, nel loro proprio ambito, contiguo o succes­ sivo, lo spirito, ma al contrario è questo che in sé include lo spazio e il tempo, allora è evidente che, proprio perché si dice che li include, non può anche assumersi che lo spirito sia spa­ zio e tempo, e che perciò si riduca alla dimensione, o, meglio, alle dimensioni che, a quanto Gentile assicura, esso dischiude e rende possibili. Il « sé » in cui lo spirito include lo spazio e il tempo, qui rendendoli possibili, non è infatti né uno spazio né una successione . E non è come uno spazio che includa uno spazio, e come un tempo che includa il tempo, che esso, lo spirito, contiene entrambi. Se mai in effetti fosse possibile che lo spazio contenesse lo spazio, e il tempo il tempo, anche lo spazio e il tempo che contengono lo spazio e il tempo do­ vrebbero essere contenuti nello spazio e nel tempo, ossia in uno spazio e in un tempo destinati a loro volta ad essere ri­ gorosamente, e all'infinito, contenuti in uno spazio e in un tempo esposti al medesimo destino; e poiché quella del « re­ gresso all'infinito » non è, per dirla in breve, se non una me­ tafora dell'« impossibilità » che lo spazio sia contenuto nello spazio, e il tempo nel tempo, cosl s'intende perché lo spirito nel quale, a parer suo, lo spazio e il tempo sono contenuti, fosse inteso da Gentile come bensl attività spazializzante e temporalizzante, non però come esso stesso spazio e tempo. Se è cosl, e a sufficienza chiara risulta, per questo aspetto, la linea che Gentile ha tracciata, varie questioni si pongono, e, racchiuse in esse, varie e non lievi difficoltà: che occorrerà per conseguenza cercare di rendere esplicite, - a cominciare da quella che concerne questa idea del « compren­ dere » e dell'« includere » che dello spirito, nei confronti dello spazio e del tempo, costituisce la prima ed essenziale caratte­ ristica, e che, se non è (come in Pasca!) una metafora, deve poter essere pensata come, appunto, un'idea e, meglio ancora, un concetto. Che è in effetti l'esigenza che, per un verso al­ meno, Gentile avvertl, essendone tratto ad una assai faticosa precisazione. Egli osservò infatti che, a differenza di quel che

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in tante altre filosofie accade, il tempo e lo spazio richiedono di essere pensati come finiti, senza che tuttavia siano riduci­ bili ad « un certo finito ». Il che, nei suoi termini, significa non questa specifica e determinata finitezza, non infinità, ma, invece, « indefinitezza ». La quale è conseguenza della condizione che la costituisce e la rende possibile; e cioè del­ l'« infinità » dello spirito, che dello spazio e del tempo costi­ tuisce, come si sa, la radice e, appunto e se si preferisce, la condizione trascendentale . Che sia così, si vede con chia­ rezza, secondo Gentile, quando si consideri la natura dello spazio . La « negatività del limite spaziale » è infatti « il carat­ tere intrinseco, non del limite, in quanto già posto da un atto che sia compiuto, ma del limite in quanto vien posto dall'atto in fieri: dall'atto cioè che è sempre atto, puro atto, e che qui è l'atto stesso della limitazione ». E gli sembrava perciò chiaro che, « se si potesse liberare dall'atto spirituale », se si potesse isolarlo e renderlo astratto in sé stesso, il limite per certo « re­ sterebbe » (il limite) , lo spazio sarebbe finito come « un certo finito », e non sarebbe perciò « indefinito » . Ma, proseguiva, il limite « non si fissa, e si sposta, perché limite significa limi­ tazione, ed è concepibile soltanto per la sua immanenza al­ l' atto dello spirito, il quale non limita una volta per sempre, cessando quindi di agire » 22 • Per definizione, lo spirito esclude di poter essere fine e conclusione del suo agire perché la sua compiuta essenza è, a giudizio di Gentile, l' agire stesso e, perciò, il suo « essere non essendo » (che è la stessa cosa, come si sa, del suo « non essere essendo ») . E nel limitare, nel­ l' atto stesso del limitare, esso è perciò superamento e oltre­ passamento del limite posto, che « fermo » nel suo essere po­ sto, dunque, non può stare: con la conseguenza che lo spazio, che nel limite ha la sua radice, è non infinito, perché questo dell'infinità è il carattere della condizione trascendentale, os­ sia dell' attività spazializzatrice, ma nemmeno è finito, perché, lungi dal racchiuderlo in un orizzonte spazialmente intrascen­ dibile, il limite è in sé stesso oltrepassamento di sé; e perciò, si ripete, non infinito, non finito, è invece « indefinitività». 22

Teoria, p. 1 3 3 .

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Lo si vede emergere, questo carattere, - il carattere, si vuoi dire, dell'« indefinitività » - dalla considerazione alla quale, dopo quella dello spazio, sottoponiamo l'oscura e problema­ dca natura del tempo; che è in effetti, come sappiamo, una « specificazione » dello spazio , e come perciò potrebbe non condividerne il tratto essenziale? A questa conclusione, del resto, Gentile era condotto da ciò, che se del tempo e dello spazio lo spirito è la radice e la condizione trascendentale, e il suo carattere è per conse­ guenza l'infinità, allora certo questo medesimo carattere non potrebbe mai essere assegnato allo spazio e al tempo; che, se anch'essi fossero contrassegnati dall'infinità che è propria dello spirito, non potrebbero distinguersene, né, per conse­ guenza, esserne determinati: con la conseguenza che nel suo nucleo più profondo, la dottrina riceverebbe un irreparabile colpo demolitore. Il che non significa per altro che, così com'è, la linea teoretica tracciata da Gentile si presenti in­ tatta, coerente in ogni sua parte, e non invece spezzata e, nella sostanza, problematica fino, per dire così, al limite della più schietta inconseguenza. Se lo spirito, o il logo, è infinità, da quale principio che, con coerenza, sia intrinseco a questo suo carattere, e perciò non lo contraddica; da quale interna necessità, dovrebbe mai essere costretto a porre sé stesso come un'attività che, in luogo di esser quella onde lo spirito è lo spirito, e l'infinità è la sua propria infinità, si configuri in­ vece come attività spazializzatrice e temporalizzatrice, e quindi, si badi, come condizione trascendentale ed infinita non dell'« infinità», ma invece dell'« indefinitività » dello spa­ zio e del tempo, naturalisticamente concepiti? Anche, infatti, quando si intendesse rimaner fedeli al quadro teoretico entro il quale Gentile ha, per così dire, raccolto gli elementi essen­ ziali della sua concezione dello spirito come atto puro, e anzi proprio nel caso in cui ferma in sommo grado questa inten­ zione di fedeltà si rivelasse, evidente apparirebbe la difficoltà che in effetti s'incontra a pensarvi con rigore e, appunto, in spirito di attualistica coerenza, lo spazio e il tempo. Si dica pure, se si vuole, che, in quanto si costituisce e

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autocostituisce ponendosi come il suo proprio oggetto, negan­ dosi in questa sua « posizione » e in questo atto essendo ap­ punto la trionfante totalità del suo « sé », è attraverso la po­ sizione, la negazione e il superamento di un «limite » che l'atto si costituisce e autocostituisce. Ma, lasciando da parte le non semplici questioni, e anzi le ardue difficoltà, che l' ana­ lisi di queste formulazioni attualistiche non tarda, come pur sappiamo, a far emergere, altre se ne danno che in nessun caso potrebbero essere oggetto di una considerazione meno che attenta. Esse in effetti s'impongono non appena si osservi che, ponendo a sé stesso e dinanzi a sé stesso il limite della sua propria oggettività, negandolo e oltrepassandolo, l'atto si realizza come infinità. Il che significa con tutta chiarezza che non basta parlare di «limite » perché di qui si possa e si debba ricavare il corollario dell'« indefinitività ». È evidente infatti che, per quanto riguarda lo spirito e la sua essenza, il limite non è altro che un'articolazione interna alla sua stessa infinità nel processo eterno della sua attuazione. Ma, se è così, quali conclusioni trarne? Forse quella, di sapore paradossale, se­ condo cui nel porre, attraverso il limite, lo spazio e il tempo, di necessità lo spirito pone l' « indefinitività », non l'infinità, e dunque, a rigore, non sé stesso, che è infinità, ma lo spazio e il tempo che, posti così, sono natura e non spirito? Ma, fermo restando che, dedotta così e lungo questa via, la conclusione che stiamo delineando è pur dedotta (parrebbe) con il neces­ sario rigore, e nel segno dunque della necessità, è pur vero che assai sconcertante è quel che ulteriormente può, o po­ trebbe, farsene derivare. L'atto, e lo spirito che ne è realizzato, sono, come si sa, norma sui; e questo significa che, nell'essere liberi e senza al­ cuna possibilità che alcun clinamen venga qui a determinarsi, realizzano in eterno la loro propria essenza: ossia l'atto, lo spirito, la libertà e l'infinità che ad essi intrinsecamente com­ petono. Se, viceversa, nel porre lo spazio e il tempo, lo spirito ponesse « qualcosa » che ha non il suo carattere, - il carat­ tere dell'infinità, ma quello bensì dell'« indefinitività», allora è evidente che , come che ciò sia possibile, esso porrebbe qual­ cosa d'altro e di irriducibile: non sé come altro, quanto piut­ tosto l'« altro » che nella sua assoluta e recisa alterità, tale è

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anche nei confronti di quell'« altro » in cui il « soggetto » rende sé stesso l'oggetto di sé stesso. Pone, in altri termini, sé stesso non come oggetto che, nell'essere lo stesso « Sé » nella forma dell'oggettività, non ne capovolge, appunto, se non la forma; ma come qualcosa che, intermedio tra il finito e l'in­ finito, non si riesce in effetti a capire né come possa posse­ dere questo carattere (perché non essendo concepibili come gli estremi di un genere, è impossibile che il finito e l'infinito includano un J.LE'tal;l>, e addirittura costituiscano un rapporto) , né come, in quanto indefinito e non infinito, possa configu­ rare in sé stesso, nella forma dell'oggetto, l'infinità dello spi­ rito. E questo è, per la verità, un punto critico di grande de­ licatezza, che conviene tenere ben fermo dinanzi allo sguardo, e non lasciar sfumare nella vaghezza di un concetto, o privo di contorni o, addirittura, contraddittorio. Si dice in­ fatti oggetto, ossia, si badi, il soggetto che, nell'atto del suo autocostituirsi, pone sé stesso come il suo proprio oggetto; e non è infrequente che s'intenda la sua « determinatezza » nel senso del «limitato » e non dell'infinito: quasi che, appunto, fosse la stessa cosa assumere l'oggettivarsi di un soggetto, e il suo reincludersi, invece, nel qualsiasi limite della finitezza. Può ben darsi che questo equivoco, e la confusione che ne co­ stituisce qualcosa come la (negativa) essenza, non sempre sia stato evitato da Gentile; e che ad indurvelo sia stata la sug­ gestione derivante dallo schema romantico per il quale r og­ getto è natura e questa è un limite che, impaziente delle cose finite, lo spirito pone per oltrepassarlo e in questo atto rea­ lizzare sé stesso. Ma, comunque sia di Gentile e delle sugge­ stioni romantiche alle quali esponeva sé stesso, rimane che al­ tro è una suggestione, altro il pensiero nella sua obiettiva ne­ cessità; altro l'intenzione, altro la filosofia. E a imporre sé stessa qui è la filosofia, non l'intenzione, è il pensiero nella sua obiettiva necessità, non la suggestione in forza della qu.ale può persino accadere che questo si atteggi nella forma del­ l' opinione . Come sempre avviene quando sia il pensiero a co­ stituire l'oggetto dell'indagine, è quello, è il pensiero, a con­ tare: non le intenzioni, o altro che sia, di chi pure ne fu l' au­ tore. Se è cosl, è una ben grave conseguenza quella che ci si sta

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delineando di fronte agli occhi. Pensati come attività spazia­ lizzatrice, l'uno, come attività temporalizzatrice, l'altro, lo spazio e il tempo sono « attività », e perciò la stessa cosa dello spirito; che nel porli come il suo proprio contenuto li pone al­ tresl come « astratti » e perciò come « negati » nella sua pro­ pria realtà sintetica. E la situazione che in tal modo viene a determinarsi è perciò in ogni senso identica a quella che ca­ ratterizza il rapporto del logo astratto e del logo concreto. O meglio, dovrebbe essere identica. E invece non lo è affatto: come con grande chiarezza si vede se si considera che, quale contenuto del concreto, l'astratto è « infinito » perché dispo­ nente sé stesso nella forma della circolarità che, in eterno, conforme alla sua natura, ritorna su sé stessa: laddove non cosl si presentano il tempo e lo spazio, i quali, in quanto tali, sono « indefiniti », non infiniti, e non posseggono, né l'uno né l'altro, il carattere specifico dell'infinità che realizza sé stessa attraverso l'identico ritorno dell'identico.

È dunque una situazione alquanto complessa, e non age­ vole, quella che in tal modo, e per queste vie, viene rivelan­ dosi agli occhi di chi, senza fretta e impazienza, cerchi di guardarvi dentro. E si può radicalizzarla, questa situazione, mettendo in luce il curioso paradosso che per certi versi co­ stituisce il suo carattere saliente. Gentile non lo dice mai, e può dubitarsi se, con questa nettezza, la relativa proposizione gli si sia mai affacciata alla mente e sia stata da lui espressa in conformi parole. Ma è tuttavia necessario considerare che, pensato come in re ipsa Io pensa, il tempo è per lui, essen­ zialmente, il passato: - il passato, e non già l'intreccio ne­ cessario delle sue tre, classiche, dimensioni. Il tempo, per Gentile, si riduce al passato perché, nell'esser posto con quel carattere di « indefinitività » che gli deriva dall'essere non più che una « specificazione » dello spazio, esso è posto altresl (e come che ciò sia possibile) come in eterno (si badi: in eterno) superato e oltrepassato nella perenne attualità dello spirito che, «presente » per definizione a sé stesso, tale è tuttavia se­ condo l'essenza che gli è intrinseca e che non è quella del tempo. Se, per una volta, in spirito di sobrietà e castità del

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resto, fosse lecito imitare il vario etimologizzare mediante il quale tanti e tanti filosofi contemporanei si compiacciono di ritrovare e quindi di stabilire dinanzi agli occhi ammirati e adoranti di qualche malcapitato spettatore l'affinità, anzi la Wahlverwandtschaft, che li avvince al destino heideggeriano, potrebbe dirsi che in tanto, nell'intrinseco, il tempo è il pas­ sato, in quanto per definizione è « oltrepassato ». Il che poi, in termini gentiliani, significa che il tempo è passato perché è astratto; e se è astratto è, in quanto tale, « natura»: che è in­ fatti, romanticamente, il passato dello spirito. E questo è non solo un paradosso, ma un pungente paradosso: guardando nel cui fondo non è per altro difficile comprendere il sostanziale fallimento di questo tentativo volto a tenere il tempo nel qua­ dro dello spirito, e a tenervelo tuttavia come « tempo ». L'altro paradosso è non meno pungente. Per un verso, il tempo è l'astratto, che anch'esso infatti è tante volte definito da Gentile come « passato ». Ma, assunto e pensato nel suo aspetto più profondo, per un altro verso l'astratto non è tempo: in primo luogo perché è infinità e, quando in questo suo carattere, spregiudicatamente, si cerchi di guardare fino in fondo, si rivela come la stessa cosa del concreto. È un ar­ gomento, questo, che a lungo è stato svolto in un'altra sede, anch'essa per altro consacrata all' analisi del pensiero di Gen­ tile. E tornando a prospettarlo in questo quadro, se ne può ricavare di nuovo la conseguenza, paradossale forse ma neces­ saria, alla quale si alludeva e che, lungo varie vie, è stata svolta e argomentata. Perché anche qui torni a delinearsi, ba­ sterà osservare che se il concreto è infinità, e infinità altresl è l'astratto, come mai allora questo potrebbe essere il conte­ nuto dell'altro? Forse perché l'infinità intrinseca al concreto si svolge verticalmente verso l'alto, ed è una linea ascendente, mentre quella dell'astratto torna su sé medesima ed è per con­ seguenza un circolo? Ma se, invece di contaminare la filosofia con le metafore geometriche, alla prima ci si attenesse con ri­ gore, e non alle seconde, chiaro dovrebbe risultare che, l'in­ finità essendo l'infinità, è impossibile per essa sottomettersi a due predicati contraddittori; e che per conseguenza, o non c'è contraddizione fra il circolo e la linea, oppure non è infinità quella che, curvata nel senso del circolo, non si realizza nel

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senso della linea. Che se, viceversa, al circolo volesse ricono­ scersi la medesima infinità che si vede espressa dalla linea che, nei suoi due sensi, prolunga all'infinito sé stessa, allora con buona pace della geometria, occorrerebbe anche ricono­ scere che, in filosofia, se è infinito, il circolo è la stessa cosa della linea (infinita) . Il che del resto non parrà forte, per dirla con Dante, se non a quel « volgo » il quale, sul serio ritenendo che il logo astratto sia un circolo geometricamente tracciato con il gesso su una lavagna, e il concreto un'altrettanto geo­ metrica linea ascendente verso l'alto, proprio per questo non arriva a capire che se da questo vincolo rappresentativo non riuscissimo mai a liberare la mente, allora dovremmo quanto meno incontrare difficoltà nell'intendere come sia possibile che una linea ascendente nell'infinito possa comprenderne in sé un'altra che curvi invece sé stessa nella figura geometrica del circolo. Che un circolo possa includere un circolo, è cosa che s'intende con facilità, una volta almeno che il circolo in­ cludente sia stato tracciato con un diametro superiore a quello del circolo che vi si include. Ma che una linea che, in­ finitamente, proceda dritta all'infinito possa, allo stesso modo di un circolo, includere un circolo, - questo è impossibile comprenderlo! D'altra parte, e anche questo è un corollario che più volte è venuto alla luce nel corso di questa e di altre indagini con­ cernenti l'idealismo attuale, se si assumesse che, all'interno di questa relazione che a un capo di sé ha l'atto e, ad un altro, il tempo, l'uno è infinito, l'altro invece finito, e che è fra questi che l'opposizione tende sé stessa, raggiunge il limite estremo della sua estensione e da sé ricava le sue conseguenze dialet­ tiche, allora per certo le difficoltà non sarebbero meno gravi. E non solo perché se, e sia pure nel quadro di una relazione « dialettica», l'infinito si presentasse come l'antitesi di una « tesi » costituita nel segno della finitezza, sarebbe anch'esso finito e, in actu exercito, l'assunto toglierebbe quel che, in actu signato, si pretendeva lo caratterizzasse. Ma anche per una ragione ulteriore. E questa è che, se pure al di là dell'in­ finito, il finito potesse darsi in modo tale che quello, l'infi­ nito , restasse fermo, senza togliersi, nel suo carattere, non per questo l'opposizione fra i due riuscirebbe a costituirsi.

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Per costituire sé stessa, e comunque si giudichi circa la possi­ bilità che questo discorso si svolga e si concluda nel segno della coerenza, l'opposizione esige che, nel costituire l'una l'antitesi dell'altra, la tesi e l'antitesi si corrispondano senza che l'una sia più e l'altra meno: essendo evidente che se, come qui invece avviene, l'una fosse più e l'altra meno, l'op­ posizione sarebbe squilibrio, asimmetria e quant'altro si vo­ glia, ma opposizione per certo non sarebbe. L'infinito per al­ tro, in questa rappresentazione che qui se ne dà, è più del fi­ nito, che è meno; e questo conferma che se di opposizione de­ v' essere il rapporto che essi instaurano, qui non si dà alcuna opposizione, che abbia il carattere rigoroso che le compete; e, per conseguenza, non si dà alcun rapporto . Di altre conseguenze che da questo intreccio di questioni potrebbero trarsi quando l'oggetto del discorso fosse, uber­ haupt, costituito dal tema o del tempo o dell'atto, non occorre invece che si tratti in questa sede: nella quale basterà conclu­ sivamente osservare che, se è così, allora non soltanto l' as­ sunto gentiliano, secondo cui nello spirito e nella sua infinita dimora il tempo e lo spazio si includono e sono contenuti, suona nell'intrinseco impossibile, ma anche altro, e sempre nel segno dell'impossibilità, si dà a vedere. Se in effetti fosse ammissibile che il tempo e lo spazio s'includessero e fossero entrambi contenuti nello spirito, allora occorrerebbe altresì ammettere che anche l'ambito che li contiene, e perciò lo spi­ rito e la sua infinita dimora, ne riflettessero in sé la specifica determinatezza, e l'infinito si rimodellasse sull'« indefinito ». Ma con buona pace di quanti (e fossero pure pensatori illu­ stri) a questa « impossibilità» non hanno fatto caso, è in ef­ fetti impossibile che, restando tale, l'infinito riceva in sé la determinatezza del tempo e dello spazio; e se anche potesse mai accadere che la ricevesse, la conseguenza sarebbe per certo paradossale, perché l'atto del riceverla sarebbe altresì quello del suo rivelarsi finito e non infinito: con la conse­ guenza che verrebbe ad essere falso quel che come vero era stato ammesso, e cioè che si dia e possa darsi un atto nel quale l'infinito riceve la visita di una determinazione finita o,

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comunque, « indefinita». Il che si vede del resto con chia­ rezza, e per una via, forse, più agevole, se si considera che, appunto, se mai si desse la possibilità che il determinato fosse accolto nell'infinito, questo sarebbe come costretto a incon­ trarne in sé stesso il limite, e perciò a « finire » (ma è impos­ sibile che l'infinito finisca) , e quindi a ricominciare (ma è im­ possibile che l'infinito ricominci) . Se per altro è così, ecco al­ lora che non si dà nell'attualismo alcuna autentica deduzione dello spazio e del tempo . Se infatti fossero assunti come reali, lo spazio e il tempo coinciderebbero con l'attività spazializza­ trice e temporalizzatrice dello spirito : e spirito dunque sareb­ bero, non spazio e tempo. Se al contrario fossero assunti come ciò che, spazializzando e temporalizzando, lo spirito in­ clude in sé e nel suo ambito ideale, e cioè come quel che con­ segue all'attività spazializzatrice e temporalizzatrice che è propria del suo infinito fieri, non perciò sarebbe possibile prenderli come lo spazio e il tempo. A differenza di quel che Gentile pensava, a impedire, in senso forte, questa assun­ zione è la stessa struttura trascendentale dello spirito, che a questo preclude di « produrre » qualcosa che, come lo spazio e il tempo, differisca, e in modo così radicale, da ciò che in senso eminente e necessario esso produce o si assume che pro­ duca: la sua stessa oggettività, circolante senza fine in sé me­ desima nella forma del logo astratto. Se, nella riflessione di Gentile, lo spazio e il tempo pre­ sentano i caratteri aporetici che, cogliendo o cercando di co­ gliere la ragione che ne determina l'insorgere, abbiamo qui su passati in rassegna (altri potrebbero essere addotti, ma, per quanto è di questa indagine, l'essenziale è stato detto) , allora è evidente che una conclusione, in modo particolare, impone qui la sua propria necessità. Ed è quella che in effetti si de­ linea e si rende manifesta quando si torni a considerare la questione della morte, che è connessa da Gentile a quella del­ l'io empirico assunto nella sua radicale differenza dall'Io tra­ scendentale, e quindi anche , necessariamente, all'altra dello spazio e del tempo. Dello spazio e del tempo, s'intende bene, in quanto siano assunti non già come la stessa trascendentale

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attività dell'Io, dello spirito, dell'atto che spazializza e tem­ poralizza, e per sé stesso tuttavia è attività, dischiude la pro­ spettiva e la possibilità del morire, e, per sé stesso, invece non muore, è la radice dello spazio e del tempo e non di meno esclude questa radice dallo spazio e dal tempo; ma in quanto al contrario siano assunti come l'empirico e astratto orizzonte dell'empirico e dell'astratto morire dell'empirico e dell'astratto « io », che è l'unico infatti che, nella prospettiva costruita dall'attualismo, possegga questo negativo privilegio, all'altro lo, quello trascendentale, appartenendo invece, e lo si dice (nella Teoria generale e altrove) apertis verbis, !'« im­ mortalità ». Cosl, gradatamente, si giunge al nodo della morte; che è altresl quello che dobbiamo cercar di sciogliere perché pre­ senta, in effetti, non poche questioni, che si fanno in parti­ colar modo acute quando ci poniamo dinanzi alla definizione dello spazio, del tempo, del nascere crescere morire delle cose e degli individui a cui, pur nel quadro immutabile del­ l'eternità, questo destino tuttavia incomba. Il tempo, lo spa­ zio, l'io empirico, il suo entrare nel mondo, il suo perma­ nervi (in uno spazio, per qualche tempo) , il suo uscirne: tutte « astrazioni », che soltanto l'attività che ha nome essa stessa « astrazione », ma che in sé stessa è o pretende di es­ sere un attivo principio dal quale la cosa che il suo nome designa è resa possibile, è in grado, appunto, di « rendere possibili » e di produrre . Tutte « astrazioni » che la sintesi vi­ vente dello spirito risolve nella sua propria concretezza e che, perciò, solo un atto extra- e metasintetico, oppure ex­ tra- e metanalitico, può ottenere e « fissare », pur sempre in astratto, nel loro carattere extraspirituale. Nel discorso gen­ tiliano, perciò, in rapida successione, si danno la sintesi, che è originaria, e tale dunque che ogni (presunto) atto di analisi che la investa di sé non può che ricostituirla nel suo carat­ tere; e poi anche, tuttavia, i suoi elementi scissi dal nesso che li risolve, ne fa una sintesi e mai, come originario, do­ vrebbe poter risolvere, a sua volta, sé stesso nei suoi ele­ menti « astratti ». Da una parte, dunque, l'originarietà della sintesi. Da un'altra, il tendenziale risolversi dell' originarietà nella sua

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propria analisi. E, quindi, lo stesso contrapporsi analitico della sintesi originaria, la cui analisi non è che la sintesi stessa nella sua ribadita concretezza, agli elementi, essi stessi anali­ ticamente contrapposti, che in quella stanno come concreti. Il che, converrà precisarlo e confermarlo, costituisce, nel di­ scorso di Gentile, qualcosa come un controcanto intessuto e costituito di note fortemente dissonanti: la cui radice sta in­ fatti, se ben si guardi, in quell'idea dell'astrazione onde l'astratto è, o si fa, sul serio astratto, che è tanto presente quanto, come si è detto, in quel quadro teoretico, estrinseca o, meglio ancora, impossibile . E più che una tesi esplicita­ mente ragionata e teorizzata, delinea perciò una tendenza e, appunto, un controcanto; che per altro sono reali, apparten­ gono al quadro e, se non li si considerasse e ascoltasse, ben poco potrebbe comprendersi del modo specifico in cui questo tormentoso problema del morire, che proprio come « morire » è un problema, si pone nell'universo attualistico. Per Gentile infatti, e per l'esplicita forma teoretica del suo idealismo que­ sto è un punto fermo, e mille volte ribadito, la sintesi è sin­ tesi di analisi, e non può prescinderne: salvo a darsi essa stessa come analisi (priva di sintesi) . L'analisi è analisi di sin­ tesi, ma non nel senso che il suo esercizio si attui sulla, e ab­ bia per oggetto, la sintesi, che da essa è perciò risolta in ana­ lisi (se questo fosse il suo carattere l'analisi o avrebbe energia metasintetica, o sarebbe essa stessa sintesi, con esito, come si vede, in ogni senso autocontraddittorio) , bensì nell'altro che « appartiene » alla sintesi, la quale è infatti sintesi di analisi, e per questo, secondo Gentile, è sintesi. Insomma, il trascendentale e l'empirico, l'empirico e il trascendentale, sono trascendentalmente connessi. Il che si­ gnifica che, nel segno del trascendentale, l'empirico è tale in quel nesso, e, « astratto » da questo, non è niente che possa essere annoverato nel quadro del reale, non è, si badi bene, nemmeno « empirico », perché il suo nome non può essere de­ clinato se non sul fondamento (come che sia) del trascenden­ tale. Ma significa anche altro. Significa che, quale che sia la relazione, ossia la natura della relazione, onde l'empirico è as­ sunto nell'ambito del trascendentale (dove attinge il suo ca­ rattere proprio), non solo l'io empirico non ha uno spazio e

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un tempo, essi stessi empirici, nei quali possa svolgere il ritmo della sua propria esistenza, che comincia e finisce, di­ pana il suo filo e subisce il fato della sua interruzione (non li ha, in quanto non può averli, e non può averli perché nem­ meno come « assolutamente astratti », e anzi cosl meno che mai, il tempo e lo spazio sono concepibili), ma neppure lo spazio e il tempo possono ricevere la visita di un siffatto ospite, il quale vi entri, abiti la loro dimensione, e vi svolga il ciclo della sua esistenza (non possono riceverla, questa visita, perché l'individuo empirico, l'uomo che vive per morire, è un'astrazione che, per essere e poter essere, richiede uno stru­ mento che, lungi dal delineare e costituire, l'attualismo, esso proprio, rende impensabile) . In altri termini. Se l'empirico e il trascendentale presuppongono il nesso che concretamente li stringe in sé stesso nel segno dell'essere che, per intero, coin­ cide con quel nesso e vi si risolve; se, come trascendentale e sintetico, questo nesso è lo stesso spirito nel suo atto, e que­ sto è eterno; se, per definizione, quel che è eterno non teme l'assalto del tempo e della morte, allora è evidente che non ha senso dire che, impensabile, al pari della nascita, sul piano del trascendentale, la morte è invece, al pari della nascita, pensa­ bile su quello del tempo e dello spazio, resi indipendenti, e cioè « astratti », dal nesso e dalla sintesi. Questo discorso non ha nessun senso perché, contro la sua stessa premessa, a volte in modo esplicito e altre volte in modo implicito, assume, o presuppone, che la sintesi possa es­ sere spezzata e il momento empirico e naturale del nascere e morire possa essere dato, insieme all'empirico e naturale in­ dividuo che lo abita, di per sé; e assume, e presuppone, perciò che la morte, che nel quadro dello spirito richiede di essere « dedotta», fornisca essa, innanzi alla deduzione, l'onere di una dimostrazione, e di una prova, relativa al suo «poterei » essere . Ma se allo spirito della deduzione, oppure della dimostrazione, oppure della prova, s'intende rimanere fedeli, allora è necessario che questo esercizio sia eseguito in modo tale che, quanto meno, l'esercizio stesso sia la prova della sua eseguibilità. E, come qui si sta vedendo, questo è impossibile, perché dire deduzione significa in questo conte­ sto dire analisi, ossia rottura e risoluzione della sintesi; signi-

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fica l'intervento di una potenza o extrasintetica o essa stessa sintetica che nell'orizzonte gentiliano non ha un luogo dove possa costituirsi e mostrare il suo volto: che del resto, ove mai potesse costituirsi e mostrarsi, sarebbe necessariamente un volto sintetico e, in sé stesso, mostrerebbe l'invincibilità, ossia l'irresolubilità, della sintesi che intendeva invece risol­ vere nei suoi elementi e per tale via condurre alla morte. Se queste considerazioni non sono errate, e colgono in­ vece il punto nevralgico della questione, allora è evidente che tutto quel che, in tema di morte e di immortalità, si legge nel decimo capitolo della Teoria generale non regge alla critica perché si rivela pensato nel segno di una distinzione della quale non è stato esibito il fondamento necessario, o, se si preferisce, l'elemento possibilitante. E distinguendo infatti, nel modo in cui li distingue, fra io empirico e Io trascenden­ tale, destinati, il primo ad essere una cosa fra le cose (spazio) , un ente che il tempo fa uscire dal niente per riconsegnarlo, dopo la breve stagione del suo esserci, alla sua fredda tene­ bra, il secondo ad esser sempre, Gentile presuppone appunto come eseguibile quel che eseguibile non è: e cioè questa di­ stinzione che, se mai fosse realizzata (e nell'atto in cui la si realizzasse) , non potrebbe riguardare l'empirico e il trascen­ dentale, che tali infatti sono nella sintesi, e fuori di questa sono tutt'altro c anzi, per lui, addirittura, nulla. Se è così, se la sintesi è eterna, originaria, immortale e, perciò, inscindibile, quello della morte in tanto è un problema che la filosofia incontra e sul serio rischia di non poter risol­ vere, in quanto concerne il suo darsi, come che sia, al di là del cerchio dell'eterno che, per definizione, non consente al­ cun « al di là » e non può perciò essere oltrepassato. Ma se è così, allora è anche evidente che è sulla sintesi e la sua inscin­ dibilità che l'attenzione dev'essere concentrata: è sull' impos­ sibilità di andar oltre il cerchio dell'eterno che deve riflet­ tersi, perché, contro le intenzioni gentiliane, è proprio nel suo rendere possibile, accadendo, questo « impossibile », che, agli occhi del filosofo, la morte assume il suo volto ed esibisce il suo crudo e puro paradosso. L'attenzione dev'essere tenuta

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ferma sulla sintesi e sulla sua inscindibilità, non solo perché, se questa è definita immortale ed eterna, tale sarà e dovrà es­ sere considerato anche il così detto « io empirico »; che vi è infatti contenuto nel segno dell'appartenenza non empirica ma trascendentale e da nessuna potenza potrebbe mai, senza contraddizione, esserne « astratto » e quindi consegnato alla naturale vicenda del nascere e del morire. Ma anche per un'ulteriore, convergente e in parte già vista ragione, l' atten­ zione deve esservi tenuta ferma. Se in effetti non sull'immor­ talità, sull'eternità e l'inscindibilità della sintesi la concentras­ simo, quanto piuttosto sull'imporsi stesso del morire alla sin­ tesi che l'ha risolto, o dovrebbe averlo risolto in sé, allora sa­ rebbe come se, con pura movenza irrazionale, la morte fosse anticipata alla morte e alla sua possibilità: con il risultato che l'intero iter argomentativo determinerebbe in sé qualcosa come una violenta inversione dei suoi termini; la conse­ guenza, non dedotta, sarebbe assunta come la premessa di sé stessa, e tutto rientrerebbe perciò nella dimensione dell' as­ surdo: se si preferisce, del circolo vizioso. Questo, nelle grandi linee, il quadro che nella Teoria ge­ nerale Gentile aveva delineato. E converrà tenerlo fermo nei suoi termini, che in effetti non sono né semplici né univoci. Converrà osservarlo nel paradosso che, radicalizzando ed es­ senzializzando quel che vi accade, può ben essere reso traspa­ rente mercé l'osservazione che, per un verso, la morte non può darsi ed è inconcepibile, perché l'empirico « appartiene » trascendentalmente al trascendentale e non può esserne « astratto », ma per un altro invece si dà e, dopo essere nato, l'individuo muore: sebbene il quadro rimanga quello che prima si era delineato nel segno del trascendentale che, senza possibilità di eccezione, tiene avvinto a sé l'empirico e, per dirla in modo crudo, gli sottrae la possibilità della morte . Una sottile contraddizione, e, per conseguenza, una sottile inquie­ tudine si erano perciò insinuate nell'edificio concettuale che Gentile aveva innalzato. Senza che il punto della confusione riuscisse ad essere da lui individuato e dominato, l'empirico e l'astratto assumevano infatti, nella concretezza dei suoi ragio-

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namenti, due volti diversi; e per un verso, nel segno della tra­ scendentalità e della sintesi che non può essere risolta e in­ franta, erano assunti nel trascendentale, per un altro ne erano invece « astratti >>, erano « fissati » in sé e in qualche modo ri­ consegnati alla vicenda della natura da una potenza, l'astra­ zione, che, come si è visto, è tanto più presente nei momenti nevralgici dell'attualismo, quanto meno vi sia giustificabile e deducibile. Di tutto questo, oscuramente, Gentile era consa­ pevole. Il quadro tracciato nella Teoria generale per un verso lo appagava, ma per un altro no, perché l'affermazione peren­ toria e quasi arrogante dell'immortalità dello spirito teneva celato in sé, nel suo fondo oscuro, il contrappasso della sua propria negazione. E, dopo essere stata negata con le armi ra­ zionali offerte dalla filosofia sintetica dell'atto puro, la morte permaneva tuttavia sul limite dell'orizzonte, - ambigua, ir­ ridente, non sul serio esorcizzata e vinta. È in questo quadro che occorre considerare il lungo frammento che il 9 giugno 1 920 Gentile compose, !asciandolo poi, come si è detto, ine­ dito fra le sue carte; e, innanzi tutto, leggerlo per intero : l.

Difficoltà e astruseria di questo problema, che come tutti 1 grandi problemi tutti si propongono, e tutti anche risolvono, ma si connette con le questioni fondamentali di ogni sistema filosofico; in modo che la sua stessa posizione implica tutto un sistema. Io non dirò che mi contenterò di po"e il problema (poiché un problema si pone quando si risolve); ma di far sentire la difficoltà del problema, e l'arbitrio e il pericolo delle facili soluzioni, a cui per solito altri s'affida. E ciò tenendomi aderente all'esperienza pro­ fonda di ciascuno di noi, di qua dalle superbe e astruse dottrine . 2.

Non è una questione religiosa, s e non i n quanto tutte le que­ stioni morali e filosofiche hanno pure aspetto religioso. È questione filosoiica: di quella filosofia che è immanente alla vita, e i cui si­ stemi non sono soltanto teorie, ma (come pensieri, in generale) atti dell'umana personalità. L'uomo pensa (e agisce) , affermando la propria libertà. E il so­ spetto che questa non sia possibile ne paralizza l'azione e il pen-

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siero. Così pure l'uomo afferma la propria immortalità, introducen­ dosi, con la sua azione, nel flusso continuo delle cose transeunti, e fermando il tempo con l'arte, il bene, il vero, - il valore, e facendo brillare nelle tenebre delle cose mortali il proprio eterno essere e fare . 3.

Che è morte? Senza saper questo si ignorerà sempre che sia im­ mortalità. Morte o corruzione (> e molteplicità, aveva finito con l'assumere, non il volto sintetico e trascendentale che le è proprio, ma quello analitico del « pensato ». L'aveva esclusa da questa senza, per un altro verso, inclu­ derla nella logica dell'astratto (che non possedeva ancora, nel quadro della memoria sull'atto del pensare un suo autonomo ambito) . Perché poi, scri­ vendo il primo volume del Sistema di logica, Gentile reincludesse il principio di ragion sufficiente, che, com'è noto (e comunque lo si interpreti) , si pre­ senta in Leibniz come un'estensione o, almeno, un'integrazione della pura logica della verità analitica, nella logica dell'astratto, varrebbe la pena di in­ dagare a parte: non senza aver intanto notato l'ampliamento che la logica dell'astratto aveva ormai fatto registrare in sé, e l'equivoco che a tale am­ pliamento non può non essere intrinseco . Non si dà principio di ragion suf­ ficiente senza ammissione di « pluralità » o di molteplicità. Ma nella logica dell'astratto, quale Gentile la concepisce, la molteplicità è come congelata e rivelata identica a sé nel sistema che il suo oggetto costituisce; e il principio della ragion sufficiente o coincide, perciò, con l'esplicarsi e realizzarsi del­ l' astratto come astratto, o non possiede un ambito specifico nel quale possa esercitare la sua efficacia. =

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capitoli ai quali debba riconoscersi autentica importanza: ol­ tre il settimo, nel quale è trattata la questione della « verità astratta » e della « verità concreta», l'ottavo, nel quale le « forme storiche principali del logo astratto » sono passate in rassegna e, da Parmenide a H egel, il concetto dell'astratto è illustrato non solo nel suo limite ma anche nella sua necessità intrinseca. E l'importanza dei due appare subito evidente quando si consideri che quel che Gentile afferma nel para­ grafo decimo del settimo capitolo non era mai stato detto prima con simile chiarezza e con cosl perentorio riconosci­ mento non solo dell'astrattezza, ma anche della fondamenta­ lità e necessità, dell'astratto per lo stesso concreto . Il quale è rappresentato come un fuoco « che incenerisce il suo combu­ stibile per trarne luce e calore »; ma nel quale « il combusti­ bile, non per anca cenere, è essenziale, ineliminabile ». Sic­ ché, egli prosegue, « una logica del puro conoscere che, come dialettica della realtà idealizzantesi, nega la sussistenza di una realtà statica, puro oggetto del pensiero sottratto al flusso della vita; una tale logica, quale pur noi l'intendiamo, se non salvasse la verità come ferma torre, oggetto eternamente op­ posto alla libertà del soggetto, non varrebbe più d'un fuoco che altri volesse alimentare di niente » 5 1 . Era, nei confronti di quelle che, per ritrarre la natura del pensato e del fatto, Gentile aveva proposte e moltiplicate nei precedenti suoi scritti, una dichiarazione molto forte; e tale che la logica del­ l' astratto ne riceveva un incremento di valore che prima, quando il suo oggetto era stato prospettato come puro og­ getto, natura, e persino errore, sarebbe stato impensabile at­ tribuirle e riconoscerle. C'è del resto in questo paragrafo, anche se non in queste medesime linee, qualcosa di ancora più singolare e notevole; e lo si incontra là dove si dice che la « vera dialettica non è quella che nega l'oggetto, bensl quella che ha coscienza della sua astrattezza, e quindi della concretezza, da cui esso attinge i succhi della sua eterna vitalità»: con la conseguenza che « se dialettica diciamo la logica del concreto, ossia del puro cono51 Sistema di logica, I, 144.

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scere, unità del soggetto e dell'oggetto, oltre la dialettica bi­ sogna pur ammettere, grado alla stessa dialettica, una logica dell'astratto, o del pensiero in quanto oggetto, nel momento dell'opposizione. Senza questo astratto non è attuabile l'unità in cui il concreto risiede » 52• Che era, per quanto subito pre­ cisata mercé l'osservazione che la «logica dell'astratto è grado a quella del concreto solo in quanto è costruita dal punto di vista della dialettica», ossia della verità immanente, e che questo era un punto di vista « al quale non si erano mai col­ locati i logici precedenti, che costruivano una logica del­ l' astratto fermi nel convincimento che questo astratto fosse esso il concreto », una notazione tanto importante, per inten­ dere il senso del suo pensiero, quanto problematica e difficile da ricomporre nel quadro dell'unità che il filosofo attualista aveva in mente e perseguiva. La dialettica (e Gentile lo dirà con nettezza nel 1 924, nei chiarimenti rivolti « ad un attuali­ sta dubbioso ») 53, - la dialettica è infatti del concreto, al cui interno l'astratto non è se non momento o articolazione. Ma, come che sia di ciò e quale che sia, nella dialettica, il ruolo e la funzione dell'astratto, sta pur di fatto che, posto che que­ sto non sia internamente dialettizzabile perché il suo « dialet­ tizzamento è nel logo concreto » che infatti « contiene in sé attualmente il logo astratto », non perciò potrebbe dirsi che in ogni senso perspicuo sia il significato che debba attribuirsi al­ l'essere, l'astratto, « grado » al concreto . Duplice infatti si ri­ vela qui la natura dell'astratto; che per un verso, e proprio in quanto ne è un grado, è, nelle parole stesse di Gentile, « oltre la dialettica » 54, e o le sta dinanzi o la sottende, ma in ogni caso « sta oltre » e perciò fuori di essa, mentre, per un altro verso, non sta fuori, non sta oltre, e sta invece ben dentro la dialettica, ossia dentro il logo concreto, che è esso la «vera dialettica ». E subito perciò le questioni si intrecciano alle questioni, esigendo risposte non equivoche: a cominciare da quella che concerne la natura e il carattere della dialettica che Ibid. , pp . 1 44-45 . 13 Li si veda nell'Introduzione alla filosofia, Firenze 1958\ pp . 2 1 3 - 1 4 . � 4 Sistema di logica , I , 145. 52

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Gentile ha in mente e svolge . Natura e carattere tanto più difficili da cogliere assumendo la prospettiva che qui egli ha costruita, dal momento che, per un verso, se è « grado al con­ creto », di necessità l'astratto deve non opporglisi ma distin­ guersene: distinguersene e dunque mantenere l'autonomia dal concreto che, distinto a sua volta dall'astratto, anch'esso è un distinto; mentre per un altro verso, se è soltanto interno al concreto e reale solo nell'esserne posto e negato, diverso dal precedente (non di distinzione, bensì piuttosto di risoluzione) sarà il rapporto stabilito con lui. All a relazione dei « gradi » che, almeno nelle intenzioni e secondo il concetto che comun­ que la sottende, implica il principio della distinta coesistenza dei gradi, e perciò delle rispettive posizioni e autonomie, suc­ cede ora una relazione di tutt'altra natura: quella cioè che, in­ nervata e resa possibile dall'oggettivarsi (negarsi) del sog­ getto, è caratterizzata, come si è accennato, da ciò, che l'og­ getto è bensì « posto », negato e perciò anche, nella « posizio­ ne-negazione », conservato; ma, appunto, come « posto­ negato », e perciò solo in quest'atto che altresì implica il suo oltrepassamento eterno . Due situazioni, queste, come deve ribadirsi, assai diverse, e, nella loro pretesa di essere compatibili e coesistenti, tanto più destinate a rivelarsi opposte, quanto più e meglio si con­ sideri che, se l'una è segnata dal carattere della necessaria ap­ partenenza dei gradi a questo loro « appartenersi » (che è poi l'ambito unitario della logica) , l'altra lo è da quello dell'esclu­ sione del negato (e della sua conservazione come inattuale) : con la conseguenza che, essendo contraddittorie e non po­ tendo, come tali, coesistere nell'orizzonte costituito dal loro essere l'una grado all'altra, dovrebbero includersi in uno spa­ zio ipotetico, assunto come un ambito inclusivo dei contrad­ dittorii. Ma, inclusi in un ambito (e per ciò stesso che lo sono) , i contraddittorii non sono contraddittorii; sono, in quanto identicamente inclusi, identici. Che se al contrario fossero contraddittorii, e non identici, allora per certo sa­ rebbe impossibile dire che sono inclusi in un ambito. Non è, questa che stiamo delineando, una situazione né semplice né lineare; e ha nell'idea del « non essere », o, se si preferisce, del « nulla » e della contraddizione, il suo centro e,

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altresl, il suo punto critico. Vi abbiamo già accennato, e via via ne riparleremo, fino, se possibile, a raggiungere il suo fondo e, in tal modo, la radice delle ambiguità gentiliane. Ma, comunque sia per essere di questo programma, la situa­ zione che ci sta dinanzi è, in ogni caso, notevole e degna di essere considerata con attenzione. Non solo vi appare chiaro che, accanto ad una dialettica dei gradi (che è piuttosto una relazione che non una dialettica) se ne dà un'altra degli op­ posti; e, proprio come in Croce, costruita nel senso e nel se­ gno non dell'equilibrio, della simmetria formale, della pura proporzione garantita dalla reciproca negatività dei termini, bensl piuttosto dello squilibrio, dell'asimmetria, della spro­ porzione, determinati da ciò, che negativo del negativo è sol­ tanto il positivo, che nega infatti e non è negato perché, in eterno, costituisce il signoreggiamento e l' oltrepassamento del suo opposto. Ma anche per un'altra ragione questa situazione appare, ed è, notevole. A seguirne con qualche radicalità e consequenzialità lo svolgimento necessario, non è difficile in­ fatti scorgervi le conseguenze che da questa duplice prospet­ tazione della dialettica scaturiscono . Da questa duplicità si origina infatti l'ulteriore situazione per la quale è ben vero che, nei propositi gentiliani, l'astratto è posto (per esserne ne­ gato) dal concreto che, perciò, eternamente lo precede e ne costituisce la radice; ma vero è anche che, come grado del, e al, concreto, l'astratto (e sia pur questa una precedenza ideale e non cronologica) viene prima, o viene anche prima: dal mo­ mento che, se è necessario al concreto, è altresl necessario che questo lo presupponga. E lungi dal poter esser ritratta come il segno o il simbolo del superiore dialettismo caratterizzante la vita dello spirito, questa è una situazione ambigua, anzi schiettamente contraddittoria. È infatti evidente che se si provasse ad argomentare in favore della sua coerenza assu­ mendo che, sia nel caso del concreto, sia in quello del­ l' astratto, la precedenza è da intendere in senso (come si è detto) ideale e non cronologico, non per questo in luogo della contraddizione si affermerebbe l'armonia o la coerenza o la compatibilità. Nella, e attraverso, l'unicità dell'ambito in cui le due precedenze sono assunte, ciascuna con il suo carattere,

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esclusivo dell'altra, non si ribadirebbe in effetti se non il loro essere l'una contraddittoria all'altra. Nell'andamento necessariamente circolare, fatto perciò di riprese, di allontanamenti, di ritorni, che non solo, uberhaupt, il discorso filosofico, ma in particolare il discorso attualistico è come costretto ad assumere, - in questo andamento si rende altresì evidente la tendenza onde i temi appaiono, si al­ lontanano dal centro della scena, tornano ad apparirvi e ad occuparla. Di qui, o anche di qui, il carattere avvolgente del­ l' analisi che questi testi attualistici richiedono e anzi esigono . Di qui, ulteriormente, la difficoltà, e anche la faticosità, che ne costituiscono la nota essenziale. Non si è ancora toccato un traguardo, che già la necessità di tornare a toccarlo per la seconda, per la terza, per la quarta volta lascia, sullo sfondo, intravvedere il suo volto. Così è per la questione della prece­ denza dell'astratto rispetto al concreto e del suo esserne pre­ ceduto. Così, in generale, per la questione della dialettica e se univoco o no ne sia il carattere: una questione che, del resto, non concerne soltanto il rapporto dell'astratto e del concreto, oppure del concreto e dell'astratto, ma concerne bensì anche la natura della monotriade (arte, religione e filosofia) , - un tema, anche questo, che Gentile trattò nel suo primo scritto sistematico, quello del 1 909 su Le forme assolute dello spirito, e che non decadde mai tanto, nel quadro della sua medita­ zione, che questa non lo reincontrasse là dove meno ci si sa­ rebbe aspettati di trovarlo, e fosse come costretta a conceder­ gli nuova attenzione . Tale, dunque, la natura della riflessione gentiliana: una riflessione che, al pari del logo astratto, anch'essa si pre­ senta come un circolo che, incapace di spezzare la necessità del suo ripetersi senza alterarsi, non si altera, infatti, e si ri­ pete. E tale, per conseguenza, il destino di questa ricerca; che fin d'ora è in realtà costretta a ripercorrere i caratteri, che pure già ci sono noti, dell'astratto e della logica che lo go­ verna; e a osservare di nuovo che a tal punto, nella valuta­ zione e rivalutazione di questa figura, Gentile si era spinto

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innanzi che, dove prima aveva parlato di « natura », di pas­ sato, di inattualità e persino di errore, ora, per l'astratto e a proposito dell'astratto, parlava in termini, se non opposti e contraddittorii, certo non identici, e anzi molto diversi. Si consideri per esempio la tesi, assai importante e destinata ad essere perciò ripresa nella Conclusione del Sistema, secondo la quale c'è bensì, per l'astratto, una considerazione astratta, a quel modo stesso che una altrettanto astratta può esserci per il concreto, ma se ne dà anche una concreta; e si consideri come Gentile osservi che l'errore commesso a proposito del­ l' astratta logica analitica era consistito nel concepirla in modo, non concreto, ma astratto . Concezione in effetti, a suo giudizio, assurda, propria di chi non s'avveda che, se l'astratto fosse assunto astrattamente, e perciò come per in­ tero « falso e da estirpare [ . ] dalle radici », non si potrebbe allotà neppure concepire « nel modo concreto che si deve », e non potrebbe « parlarsene » 55 • È questo il concetto (vi ab­ biamo accennato anche in precedenza e, come si vede, ritorna a rendersi palese) che, in forma più o meno esplicita, ma sem­ pre presente nel fondo della pagina, d'ora innanzi guiderà la ricerca e ne costituirà come un ideale Leitmotiv. E quanto sia lontano dal concetto che in precedenza Gentile aveva co­ struito dell'astratto, si vede chiaro se si legge il passo che apre il terzo paragrafo: nel quale, convinto che a saperla guardare dal punto di vista del concreto, la « dottrina della verità tra­ scendente » rivela il « nocciolo sostanziale di pensiero che si cela nel suo fondo », osservò che questo è il momento « della oggettività del pensiero, in cui [. . ] si risolve, si attua e vale la verità » 5 6 • Parole forti, perentorie, e tali che invano ne avremmo cercate di analoghe ne L'atto del pensare e persino, forse, nella Teoria generale. Parole alle quali niente di sostan­ ziale è tolto dall'avvertenza e dalla raccomandazione che il soggetto e l'oggetto siano presi e trattati non come accade nelle solo in apparenza contrapposte concezioni dell' empiri­ smo e del pensare metafisico, ossia come reciprocamente limi. .

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55 Sistema di logica, I, 1 3 4 . Ibid. , p. 1 3 5 .

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tantisi ed entrambi quindi presupposti all'ambito « duale » che li accoglie o dovrebbe accoglierli, ma in tutt' altro modo: ossia ribadendo che il « puro conoscere » non presuppone nulla, « ma pone sì il soggetto e sì l'oggetto nella loro viva unità, in guisa che l'oggetto non sia se non la realtà dello stesso sog­ getto nella sua idealizzazione, e il soggetto perciò non possa avere altro limite che quello che egli stesso pone a sé mede­ simo, con un atto che è insieme autolimitazione e aggettiva­ zione di sé » 57 . Parole esplicite: attraverso l e quali, nell'esposizione di questo nesso e, al suo interno, del ruolo sostenuto dal­ l' astratto, Gentile perveniva al punto insieme della maggiore chiarezza e, rispetto al recente passato, della più grande di­ stanza. Osservava infatti , proseguendo, che proprio in quanto « il conoscere è attuazione del soggetto, non limitato da altro, ma solamente autolimitantesi, il conoscere, il vero conoscere, è puro: cioè non misto a nulla di empirico: a nulla che importi nel soggetto del conoscere l'accessione (l'intuizione) di qual­ cosa di estrinseco alla sua essenza ». E a sottolineare la di­ stanza che, come si è osservato, Gentile aveva ormai stabilita nei riguardi della prima sua delineazione dell'attualismo, con­ verrà soffermarsi con particolare cura sulle linee che seguono, e con le quali il sesto paragrafo ha termine . Scriveva infatti che « il conoscere puro [ . . ] è quello che non ha fuori di sé il conosciuto, ma il cui conosciuto è l'atto stesso del conoscere: soggetto che è soggetto in quanto oggetto a sé medesimo » 58 • Con estrema chiarezza era qui affermata l'assoluta e non altrimenti equivocabile presenza, e sarebbe meglio dire in­ trinsecità, del « conosciuto » al conoscere, dell'oggetto al sog­ getto. E l'intrinsecità in tanto gli appariva tale in quanto l' og­ getto che, come si dice nella descrizione fenomenologica, il soggetto si trova di fronte e di contro non ha, rispetto a que­ sto e alla sua radice, un'altra radice, un altro fondamento, un' altra ragion d'essere in cui il primo, il soggetto, sia, per eser­ citare il conoscere, come costretto a penetrare; ma è lo stesso .

57 Ibid. , pp. 1 3 9 . 5s Ibid. , pp. 1 3 9-40 .

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soggetto che, coscienzializzandosi nel suo atto, e rifletten­ dosi, pone sè stesso, per negarsi e riappropriarsi, dinanzi a sé . Non ha dunque, l'oggetto, un'altra radice, un altro fonda­ mento, un'altra ragion d'essere, perché è appunto in lui e nel suo puro ambito trascendentale che il processo riflessivo ond'esso si genera come soggetto ha luogo e si realizza. E, come si diceva e conviene insistere, è proprio perché l'atto con cui il soggetto pone sé stesso come oggetto, e lo nega, im­ porta la perfetta coincidenza di tutti i momenti che lo costi­ tuiscono e che solo la così detta astrazione può separare e « rendere diversi », - è proprio per questo che qui Gentile si spinge così innanzi da parlare di un « conosciuto che è l'atto stesso del conoscere », dal quale dunque, se le parole hanno il senso che non possono non avere, non può essere separato. Se per altro è così, la conseguenza è allora, quando si ab­ bia la cura di prospettarla con rigore nel quadro delle catego­ rie gentiliane, tutt'altro che pacifica. E se infatti il cono­ sciuto, il pensato, l'oggetto insomma e l'astratto, a tal punto sono intrinseci al soggetto che è addirittura al suo « atto » che li si dice intrinseci, non può allora non conseguirne che al soggetto l'oggetto è « attualmente » intrinseco; e se perciò questo è per un altro verso « inattuale », è pur sempre un'inat­ tualità inclusa nell'attualità, e attuale dunque a questa, quella della quale deve parlarsi ogni volta che a questo carattere l'oggetto, e quindi, di necessità, il conosciuto, il pensato, l'astratto siano, come si deve, ridotti e ricondotti. Una con­ seguenza paradossale; e che a rigore non poteva non essere ul­ teriormente rigorizzata mercé l'osservazione che se, posse­ duta e tenuta ferma dall'attualità, l'inattualità è attuale all' at­ tualità, dunque per la sua inattualità non sussiste alcun luogo logico all'interno del quale si possa costruirne la razionalità e l'intellegibilità; e al suo concetto deve perciò dirsi addio. Ad un simile commiato era per altro impossibile che Gen­ tile si disponesse e si rassegnasse. Se, con le parole o con i fatti, lo avesse compiuto, era all'attualismo stesso, e al suo principio costitutivo, che avrebbe rinunziato. E a questa ri­ nunzia gli era perciò vietato di dare corso. Eppure la diffi­ coltà che s'era insinuata nelle pieghe più profonde e riposte del suo pensiero, da questo, non da altro, era stata generata.

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Era perciò un'autentica, cruda, profonda difficoltà; e non me­ dicabile con le parole era la ferita che da sé medesimo il pen­ siero si era inferta. Dalla difficoltà, certo, si sarebbe potuto tentare di uscire assumendo che « intrinsecità» non signifi­ casse immediatamente « identità»: ovvero che significasse bensl « identità», ma quella attualistica che, identica a sé, reca la differenza. E sia pure, lo si conceda (anche se soltanto in via « dialettica » la concessione possa aver luogo, perché au­ tocontraddittorio è, come sappiamo, il concetto dell'identità dell'identità e della differenza) . Posto per altro che non signi­ fichi « identità» analitica, è pur vero che « intrinsecità» signi­ fica però « atto »; e dunque attualità sia del soggetto sia del­ l'oggetto sia del loro rapporto, che entro l'attualità, in virtù dell'attualità, o, se si preferisce, suo malgrado, deve dimo­ strare di essere un rapporto, all' interno del quale i termini siano inclusi e, resistendo all ' attualità che li vuole tutti e allo stesso modo attuali, e perciò identici, anche siano distinti. Ma l'attualità non è di per sé in grado di fondare, di rendere possibile, di far sl che, prima che attuali, i termini siano ter­ mini e si distinguano . Se attuale è il soggetto, attuale l' og­ getto, attuale il loro stesso (presunto) rapporto, non è il sog­ getto ad essere attuale all'oggetto, non è questo ad essere at­ tuale al soggetto, non è il rapporto ad essere attuale ai ter­ mini; ma è bensl l'attualità che nel rivelarsi tale, ossia identica, nel soggetto, nell'oggetto, nel rapporto, non rivela in effetti questi e la loro specifica realtà, ma rivela sé stessa, ossia l'attualità, nei confronti della quale quelli, il soggetto, l'oggetto, il rapporto non sono se non nomi diversi dati, dal­ l'esterno, all'identico . Per essere più che « nomi », - per es­ sere i reali termini che l'uno all'altro si rivelano attuali senza perciò perdere nell'attualità il loro specifico « esser altri », in « altro » dunque, al di fuori dell'attualità, dovrebbero trovare la ratio del loro essere il soggetto, l'oggetto, il rapporto. Il che, francamente, è impossibile. È impossibile perché se, ol­ tre che attuali, e innanzi al loro esserlo, il soggetto, l'oggetto, il rapporto fossero anche « altro », e cioè, appunto, il soggetto (che non è l'oggetto) , l'oggetto (che non è il soggetto) , il rap­ porto (che, come rapporto, è il rapporto, e non è il soggetto nè l'oggetto), - ecco allora che, essendo, rispetto al loro es-

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sere attuali, « altro », anche dovrebbero essere « altri » da sé stessi e dalla loro attualità; che si rivelerebbe perciò in sé me­ desima inattuale nei confronti di ciò che pur si fa che intrin­ secamente le appartenga - resa tale, e cioè inattuale, tra­ scorsa, esaurita, dall'« alterità » . Un esito, per la verità, cata­ strofico; e nel quale, fra le altre cose, anche si riflette l'estrema difficoltà che una filosofia, come questa, della ri­ flessione necessariamente incontra a non presupporre al mo­ vimento che la riflessione è a sé medesima questo movimento medesimo, la sua ragion d'essere e il suo perché . Se è cosl, allora si comprende perché quanto più in qual­ che modo gli accadesse di entrare in contatto con questa dif­ ficoltà, che era nel fondo del suo pensiero e non poteva perciò non cercare la sua propria espressione, tanto più per al­ tro verso dovesse riuscire inadeguata, ossia soltanto verbale, la continua riproposizione che Gentile faceva del nesso onde l'identico e il diverso stanno insieme nella concretezza del « concreto » (ed anche, ma questa è una difficoltà ulteriore, nella riflessiva circolarità dell'astratto, che è ben di più della pura « identità » e suppone anch'essa infatti la differenza) . E fra i tanti e tanti luoghi che potrebbero essere indicati e quindi riuniti insieme come in una sorta di florilegio, è elo­ quente al riguardo quello che s'incontra in una pagina del set­ timo capitolo: nella quale Gentile dice che « dentro [ ] allo stesso soggetto, dialetticamente concepito come posizione di sé, risorge nell'atto del puro conoscere, la differenza dei due momenti, soggettivo ed oggettivo, per la cui inesatta com­ prensione l'empirismo e la metafisica facevano della verità una realtà trascendente rispetto all'atto del soggetto e a tutta la vita dello spirito »; per proseguire quindi con l'osservazione che il « soggetto [ . . ] del puro conoscere è soggetto ed oggetto in uno », talché, nei confronti del modo empiristico e metafi­ sica di considerare la questione, la differenza sta pertanto « solo in ciò: che questa realtà totale era per l'empirismo e per la metafisica una somma di due elementi, ciascuno dei quali tentavasi di concepire per sé stante e indipendente dall'altro: laddove essa, nel concetto del puro conoscere, è una concreta unità», alla quale occorre perciò sempre rifarsi senza mai pre­ scinderne, vedendovi la dualità che vi è inclusa e che anche è . . .

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necessario intendere, non nella sua pos1z1one astratta, ma « nella dialettica della sua vita concreta ». Nella dualità in­ fatti, « in cui l'unità si pone », « come ragion d'essere dell'al­ tro termine, insieme col quale esso realizza l'unità del cono­ scere », risorge l'oggetto: « l'oggetto, assoluto opposto del sog­ getto, a cui pure è identico ». E qui allora dove la questione torna al nodo a cui già l'avevamo condotta, Gentile osserva e ribadisce che l'oggetto è, rispetto al soggetto, « assoluto oppo­ sto, ma non meno identico che opposto », e che questo è il punto che conviene « bene fermare, se si vuoi riconoscere l'importanza di tutte le ricerche filosofiche » che si compiano intorno alla logica, e « che non raggiunsero in passato il punto di vista del puro conoscere » 5 9 • Cosl, come si diceva, la questione torna al nodo. Vi torna, e non vi si risolve. Altro infatti è dire che la dualità è intrinseca all'identità e, come qui Gentile si esprime, alla « medesimezza ». Altro è dimostrarlo, o averlo dimostrato. E sebbene egli provasse qui a toccare l'estrema radice della que­ stione, e, al di là delle parole, l'esigenza della dimostrazione gli si imponesse nell'intrinseco, a quella radice non riuscl a pervenire. Osservò infatti (e si abbia la pazienza di seguire il filo del suo ragionamento) che, preso nella sua pura immedia­ tezza, l'oggetto è, « verso il soggetto di cui è oggetto, opposto e nient'altro che opposto » 60. E questa era una ben singolare asserzione perché, e a questa argomentazione Gentile non era infatti estraneo, è ben evidente che nell'immediatezza gli op­ posti sono immediati, se sono immediati, sono pari nel non possedere alcunché che possa, non che apporli, nemmeno di­ stinguerli: con la conseguenza, se è cosl, che dall'immedia­ tezza nascerà bensì, analiticamente, l'immediatezza, ma non l'opposizione, la cui concepibilità (se mai si riesca a perve­ nirvi) di necessità si colloca in un'altra dimensione, sintetica e non analitica, ossia, appunto, secondo le intenzioni, dialet­ tica. Come che sia di ciò (ma presto comunque il filo di que­ sta argomentazione dovrà essere ripreso) , per spiegare perché, 59 Ibid. , pp . 1 40 e 14 1 . Ibid. , pp . 1 4 1 .

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ossia su quale fondamento, dicesse così, Gentile osservava che, nel pensare {poniamo) il teorema di Pitagora, si pensa bensì immediatamente questo teorema, ma non anche il pen­ siero che pensandolo, e nell'atto di pensarlo, lo pensa. Nel­ l' oggetto {e, specificava, obiectum mihi) « non c'è altro che l'oggetto e non ci sono io ». E come nella situazione di Nar­ ciso che « nell'immagine amata non vede sé stesso amante » 61 , questa che ha appena finito di descrivere è ai suoi occhi la po­ sizione immediata dell'oggetto di fronte al soggetto, nella quale quello è escluso dalla sfera di questo a quel modo, po­ trebbe aggiungersi, che dalla sfera dell'oggetto è escluso il soggetto, e l'oggetto occupa tutt'intero lo spazio del pensiero e del pensabile realizzandosi, come poi Gentile dirà, in una solitudine « sconfinata » 62 . Posizione estrema, questa, sulla quale molto ci sarà da dire prima che la ricerca abbia concluso il suo iter (e anche perché possa concluderlo) . Posizione che è pur quella onde il logo astratto si definisce come logo astratto, e che anche agli occhi di Gentile apparirebbe con il carattere della più schietta aporeticità se egli non credesse di poter aggiungere che, nel­ l'escludere « affatto >> l'oggetto dalla sfera del soggetto e nel collocarlo « al di là », dove per quest'ultimo non c'è posto e l'oggetto è solo, tale posizione non è, « in quanto immedia­ ta», « posizione di pensiero », perché pensiero « è negazione di ogni immediatezza» 6 3 • Per questa via per altro l' aporeticità era non già risolta, ma confermata e, se possibile, aggravata. E la conseguenza del suo discorso era infatti che l'opposi­ zione della quale, sia pure in modo improprio, nella prece­ dente battuta Gentile aveva proclamata l'assolutezza, dichia­ randola immediata bensì, ma assoluta, qui viene invece defi­ nita impossibile, perché possibile e reale essa è soltanto nel pensiero, nel suo ambito e attraverso la sua intrinseca dialet­ ticità, ossia il movimento intrinseco all'atto del suo contrap­ porre a sé l'astratto. Con il che non solo, come si vede, fra le 61

Ibid. , pp . 1 4 1 -42 . Sistema di logica, II, 2 1 -22. 63 Sistema, p. 142.

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due proposizioni il rapporto si rivelava difficile, e anzi, per dirla in modo schietto, contraddittorio; ma anche si tornava a conferire rilievo all'aporia intrinseca al pensiero, e al suo atto, intesi come quel « concreto » che sottende l'antitesi del con­ creto e dell'astratto e ne costituisce la sintesi. Posto innanzi al pensiero dal pensiero stesso che, nell'aggettivarvisi, lo nega e così è concreto, l'astratto è, in questo senso e per questo verso, l'« attuale » contenuto del pensiero; e sta bensì « in­ nanzi » a lui, ma in modo tale che questo « stargli innanzi » è altresì uno « stargli dentro », perché appunto, se l'astratto è il contenuto del pensiero, è impossibile che non sia incluso nella sua attualità e, malgrado ogni sua proclamata inattua­ lità, a quella sia rigorosamente attuale : proprio come av­ viene del teorema di Pitagora, che, nell'atto in cui un « io » lo pensa, è il pieno, totale e attuale contenuto di questo « io », e si annullerebbe (tale è il verbo che Gentile usa) se quel pensiero venisse meno 64 • Se per altrò l'astratto è l' at­ tuale contenuto del pensiero che attualmente lo pensa, di­ stinguernelo sarà impossibile: con la conseguenza che, men­ tre, l'attualità del pensante e del pensato implicando la loro identità, il pensiero si esaurisce e si risolve nel suo unico atto, che è altresì quello in cui è identico al suo contenuto (il pensato) , di necessità il dialettismo vede sfumare la sua presunta ouvaJ.w; nella statica fermezza dell'identità. E la dialettica si rivela perciò in questo quadro doppiamente im­ possibile . Prospettata nell'immediatezza, con gli opposti vede svanire, sé stessa, ossia l'opposizione che è il suo carat­ tere specifico e la sua stessa ratio essendi. Prospettata nel pensiero, ossia nel luogo supremo della concretezza, vede al­ tresì svanire sé stessa, dal momento che conforme alle cose, se non anche alle parole, dell'attualismo, il pensato è lo stesso del pensante che lo include e non riesce a sul serio distinguersene. Ma se questa è la via lungo la quale la dia­ lettica rivela l'impossibilità della sua propria « natura», al­ lora è un approdo di estrema drammaticità quello a cui qui Gentile perveniva; ed è infatti come se, dopo aver avuto 64 lbid. , p. 1 43 .

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l'impressione di compiere un lungo viaggio ed aver anche durato la fatica relativa all'allestimento della nave necessaria alla sua realizzazione, dovesse constatarsi che il viaggio non è mai incominciato, perché la meta era già stata raggiunta (ed era diversa da quella che, nella fantasia scambiata per pensiero, si era immaginato che fosse) . Molte sono le que­ stioni che a questo riguardo dovremo affrontare. Ma questo risultato è stato, salvo errore, raggiunto; ed è cosl impor­ tante che conviene non perderlo di vista. Conviene non perderlo di vista perché c'è in esso una nota di estrema radicalità che, per il suo stesso carattere e per togliere di mezzo ogni sospetto di brillantezza parados­ sale, richiede un supplemento di indagine. È a questo punto infatti che cade opportuno un discorso che, raccogliendo quanto fin qui si trovi come disperso nelle varie osservazioni che via via sono state proposte, affronti direttamente, ossia in modo tematico, la questione della dialettica; e innanzi tutto, perciò, delle « figure » sotto le quali si dispone e che si tratterà poi di decidere se nella diversità dei termini siano identiche, oppure diverse e non riconducibili all'unità. Per un verso infatti (e risalendo alla fase che potrebbe esser de­ finita preattualistica e che, documentata per la sua forma si­ stematica sopra tutto dal breve saggio su Le /orme assolute dello spirito, precede di un paio d'anni la memoria sull'atto del pensare e di circa tre l'altra sulla riforma della dialettica hegeliana) , la dialettica si mostra bensl sempre appartenente alla radice trascendentale dell'Io penso, del « pensiero/pen­ sare >> o, come qui per lo più si dice, della filosofia; e nella figura in cui la sua essenza culmina e si esprime, ossia nel divenire, essa è infatti il divenire dell'unità, che è il vero divenire: il vero divenire, non quello del molteplice, e cioè dei molti « fatti » che sorgono , cadono, sorgono, tornano a cadere nell'eterna vicenda aristotelica di yf:vemç e di q>9op6., ossia di quel divenire apparente, al quale Gentile non con­ cede la dignità filosofica del concetto che soltanto all'altro, al divenire dell'unità, compete ed appartiene. È questa perciò la dialettica quale tante volte a lui ac-

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cadde di delinearla come l'unica e vera: - la dialettica che non è il concetto della dialettica, perché ad esser dialettico è qui il concetto stesso inteso nell'atto della sua vita concreta; e che a tal punto si presenta come costituita da due termini che quando, viceversa, volle sottolinearne o confermarne il carattere triadico Gentile fu costretto a duplicare il termine sintetico (il concreto o l'atto) ponendolo a fondamento di sé medesimo (concreto del concreto, atto dell'atto) e del suo opposto. La questione alla quale qui si allude, se diadica o triadica sia per lui la dialettica, deriva da, ciò che esplicita­ mente triadica era, agli inizi, la sua struttura: in alto, o in basso (alla radice) , la filosofia, ai suoi due lati i momenti astratti o soltanto ideali dell'arte e della religione, dell'imme­ diata soggettività e dell'immediata oggettività. Era questa, come si sa, la figura che, allo scopo di stringerne con forza anche verbale il carattere unitario, e, meglio ancora, il suo assoluto radicamento nel pensiero in atto, Gentile definiva non, semplicemente, « triade », ma monotriade. E conver­ rebbe in primo luogo esaminarla negli scritti della piena ma­ turità, nei quali il confronto con l'altra figura, costituita dal­ l' astratto e dal concreto, o, se si preferisce, dal concreto e dall'astratto, si rese possibile, e anche necessario; chieden­ dosi in secondo luogo, non tanto se, come, a partire da Be­ nedetto Croce, tante e tante volte fu detto, il suo esito ne­ cessario fosse costituito dall' inconveniens che ha nome «panlogismo », ma piuttosto perché, ossia per la forza di quale intrinseco fondamento, Gentile fosse costretto a pre­ sentarla cosl. Eppure, l'affermazione della necessità, o, quanto meno, dell'opportunità che nello studio della mono­ triade si parta dalla fase matura, e non da quella iniziale (che più largamente ne è caratterizzata) , non può essere mantenuta se non in parte e sotto il rispetto ideale: e in­ tanto partire dall'inizio perché non è detto (e dovrà essere deciso) che, nel ripresentarsi nel Sistema di logica e, quindi, ne La filosofia dell'arte, quella, la monotriade, conservi inte­ gro il volto con il quale si presentava nello scritto del 1 909 sulle forme assolute dello spirito. In questo scritto, il carattere non semplicemente triadico, ma monotriadico, della suprema relazione dialettica era stato

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affermato con forza, se non con il termine, con il concetto, perché decisivo era stato il rilievo, anzi il primato, accordato alla filosofia. La quale già qui, in questo primo profilo di un sistema dello spirito assoluto, è sintesi, e, come sintesi, è ori­ ginaria, ossia tale che, non potendo essere trascesa né a parte ante né a parte post, con tutta chiarezza è idealmente ante­ riore ai termini ai quali, nella considerazione astratta, è in­ vece posteriore. E duplice era pertanto la questione che su­ bito ne nasceva. La sintesi è originaria. Se è originaria, è eterna. Se è eterna, non comporta, né sopporta, distinzioni che, spazializzandone le parti o i momenti, pongano fra que­ ste rapporti di anteriorità e posteriorità, e perciò di tempo . Se è eterna, la sintesi non può ospitare dentro di sé né lo spa­ zio né il tempo; e la cosa è, almeno nella sua pura essenza, così ovvia, che non occorre né illu strarla né, tanto meno, svolgerla nelle sue conseguenze. Ma se è originaria e eterna, e ciò non ostante, ospita i momenti attraverso i quali, ponen­ doli per negarli, si costituisce, ecco allora che la distinzione spazio-temporale e l'astratta molteplicità (qui e non qui, ora e non ora, e così via) che ne consegue richiedono, e sia pure soltanto nella dimensione logica, di essere mantenute. E , come già in parte sappiamo e presto torneremo a vedere, que­ sta è un'assai pungente questione e una, non meno pungente, difficoltà. L'altra questione concerne la qualità della dialettica e quindi dei suoi termini, che sono ideali, logicamente ideali, e perciò inclusi o integrati nella sintesi, ma anche sono in sé stessi contraddittorii e perciò, in questo segno supremo ed estremo, opposti, senza che per altro si rinunzi a definirli an­ . che in sé, ossia contrassegnati in sé stessi dal carattere in ra­ gione del quale sono contraddittorii ed opposti. Ne discende, come prima, e tuttavia significativa, conseguenza, che alla do­ manda se quella di Gentile sia una dialettica di opposti con­ traddittorii, o non invece piuttosto di opposti determinati (e perciò di distinti) , la risposta non ·potrà essere univoca: es­ sendo fin dall'inizio evidente che per un verso gli opposti sono tali nel segno della contraddittorietà, ma per un altro in­ vece in quello della contrarietà (e determinatezza) , senza che da questa ambiguità egli sia mai riuscito a venir fuori.

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Sono, come si vede, due questioni non semplici, e anzi complesse: in sé e quindi nel nesso in cui è necessario pro­ spettarle. Due questioni che occorre perciò affrontare nella loro radice e, dunque, nella loro estrema estensione; perché non c'è alcuna speranza che si possa, altrimenti, entrare nel cuore dell'idealismo attuale. Dopo di che, avendo di nuovo avvertito che per ragioni intrinseche le due questioni ten­ dono a trapassare l'una nell'altra ed esigono perciò di essere trattate distintamente all'interno di una considerazione uni­ taria, non resta che passare all ' analisi. E osservare innanzi tutto quel che in questo testo si presenta subito con il carat­ tere della singolarità, anzi della più estrema singolarità. Nella sintesi che, come originaria, è eterna, i momenti dei quali essa intesse la propria trascendentale « anteriorità » non possono essere distinti, e già lo si è accennato, se non in modo affatto logico: non secondo il tempo e lo spazio, ma, appunto, logicamente: ossia nell'unico modo che, a giudizio di Gentile, renda compatibile il concetto della distinzione con quello dell'eternità (e dell'originarietà} . I momenti non sono infatti giustapposti, e tali quindi che nella giustapposi­ zione (che è conseguente al loro esser dati} ciascuno sia in­ nanzi tutto sé stesso (§ 7 } . E per afferrarne il carattere, oc­ corre coglierli nella «intussuscepzione [ . . ] del pensiero, ogni momento del quale è sé stesso e tutti i precedenti (dialetti­ ca} » 65 : occorre cioè saperli vedere nell'atto del loro intrin­ seco assumersi (tale sembra essere il significato del termine - « intussuscepzione » - a cui qui Gentile ricorre) nella di­ mensione stessa del pensiero, del quale solo in questo senso sono perciò momenti. Ma per sforzi che si facciano per com­ prendere dall'interno le ragioni per le quali Gentile non poté non formulare in questi termini le sue tesi relative alla dia­ lettica, queste ragioni possono essere bensl descritte, non però « comprese », ossia assunte nella luce della coerenza. Non è dato infatti comprendere perché mai, ossia per la forza e l'energia e il comando di quale necessità, lo spirito .

65 Le forme assolute dello spirito, ( 1 909) , in Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia, Firenze 1 962 2 , p. 2 6 3 .

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preceda trascendentalmente le forme che ne articolano l'eterno atto; e che esso, lo spirito (tale l'argomento genti­ liano) pone perché, essendo coscienza di sé, non può non porre sé (come oggetto) dinanzi a sé e cosl appunto essere coscienza del suo essere posizione (soggetto) dell'oggetto: os­ sia sintesi dell'uno e dell'altro. Per essere autore di un « pro­ cesso » nel quale esso entri bensl, ma senza particolarizzar­ visi ed esser perciò costretto, nell'essere autore del processo, ad essere meno di quel che questo termine comporti e a con­ seguirne la pienezza non prima che il processo sia concluso, - per non essere in altri termini costretto a essere insieme, e in modo contraddittorio, causa e conseguenza del pro­ cesso, lo spirito dev'essere per intero padrone del suo essere coscienza di sé, del soggetto, dunque, e dell'oggetto. Deve, nella sua prima posizione, essere identico a quello che si dice essere lo spirito nel momento supremo del suo proprio intrinseco dialettismo. Se infatti non lo fosse, e altra, mal­ grado tutto, fosse, la coscienza di sé, dall'autocoscienza (os­ sia dalla coscienza della coscienza di sé), ecco allora che come parte, e non come tutto, lo spirito dovrebbe mettersi in viaggio per conquistare la totalità e la sintesi, appunto, dell'autocoscienza. E la conseguenza sarebbe allora che, dopo essere stato presentato in termini di eternità e di ori­ ginarietà, all'interno di queste dovrebbe darsi (e rendersi concepibile) il percorso spazio-temporale, che la « parte » non può, per pervenire al tutto, non compiere. Ma al tutto la parte è impossibile che pervenga; e lo si comprende se si considera che, assunto come mèta della parte, il tutto ha questa fuori sé; e perciò è parte, non tutto. Perché questa aporia, di evidente natura platonica, sia evitata e non in­ comba come un fato avverso sulla ricerca che Gentile sta qui tentando della dialettica, è necessario che non la parte sia assunta nel suo (autocontraddittorio) tendere al tutto, ma il tutto sia preso come il soggetto del �uo tendere (al tutto) . Il che è, per un altro verso, altrettanto impossibile: essendo evidente che se il tutto si definisse mediante il suo tendere al tutto, e questo, il tendere, fosse tenuto fermo nel suo ca­ rattere proprio, né come soggetto, né come oggetto, il tutto sarebbe il tutto. Sarebbe bensl, e come soggetto e come og-

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getto, « parte ». Se parte, per altro, fosse il soggetto, e parte altresì l'oggetto, non si darebbe il tendere; che presuppone infatti, e come che sia, la diversità, mentre alla parte la parte non può essere che identica. Il tentativo gentiliano di pensare insieme l'eternità e, nel segno (così ottenuto) della dialettica, la diversità, rivela per questa via e per questo aspetto il suo fallimento; e sullo sfondo la dialettica rimane come un desiderio non realizzato e una mèta non raggiunta. . Questa difficoltà viene ad essere confermata e ribadita se la discesa che abbiamo iniziata verso le radici della conce­ zione attualistica della dialettica sia proseguita e non inter­ rotta. E per proseguirla e non interromperla, si consideri quel che Gentile dice dell'opposizione, e dello spirito, « che non è sintesi di due opposti nati come tali », perché è sintesi invece di « due opposti che rampollano dall'unità fondamentale e dallo stesso soggetto o Io »: in modo tale dunque che l'Io « che è radice di questa dualità di Io e non-Io, non è l'Io che è opposto al non-lo », e che l'altro Io « che rampolla dal primo » e non è il primo. E qui, a rendere ancora più proble­ matica la linea del suo ragionamento, Gentile aggiunge che questo Io è « realmente l'unità ancora indistinta dei due ter­ mini, ossia il Tutto, di cui ognuno di noi sente nel ritmo della propria coscienza il palpito universale » (§ 2) 66 . Ebbene, si lasci pure da parte qui quest'ultimo rilievo (che nasconde e anticipa una grande difficoltà destinata in­ fatti a ripetersi nell'orizzonte concettuale gentiliano, talché, avendovi già alluso, dovremo via via ritornarvi) . E si consi­ deri invece l'altra questione, - quella che appunto si delinea là dove Gentile scrive dello spirito « che non è sintesi di due opposti nati come tali », e risultato perciò della loro opposi­ zione, perché di questa, e quindi degli opposti, è la radice . Osservazione, questa, di grande importanza; e per l'intelli­ genza della sua idea della dialettica, fondamentale. Al pari del distinto crociano, che non è il risultato ma la condizione tra­ scendentale dell'opporsi degli opposti, il positivo che, senza 66

Ibid. , p. 260.

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esserne e poterne essere negato, nega il negativo e in que­ st' atto è sintesi, anche in Gentile l'atto, che è sintesi, precede i termini e, se così vuol dirsi, è esso la condizione costitutiva del suo esserne costituito. Se per altro è così, allora è anche evidente che la distinzione qui stabilita fra, da una parte, la dialettica concepita come l'ambito inclusivo del suo proprio risultamento sintetico e come la conseguenza, perciò, dell'es­ sere i termini che la delimitano « dati in sé stessi », e, da un'altra, la dialettica intesa invece come l'attualità trascen­ dentale dell'opposizione e come la sua ideale precedenza nei confronti di questa e degli «opposti » che la costituiscono, questa distinzione non tocca la difficoltà che giace nel fondo . Non la tocca e, anzi, la subisce; non la tocca e anzi la ripete nel ritmo stesso del suo (presunto) risolversi. Come che ciò sia possibile, si è visto infatti che la posizione di sé dinanzi a sé (coscienza) e il ritorno a sé attraverso e mediante il supe­ ramento del « sé» alienato sono per lo spirito non una scelta, ma una necessità, non un'operazione che possa e anche non possa essere eseguita, ma la legge stessa del suo essere. Sono perciò una necessità assoluta: della quale può dirsi bensì, se si vuole, che è identica all'assoluta libertà onde, nel porre sé di­ nanzi a sé, l'Io si fa lo ed è libero, senza per altro che, nel dir così, non debba altresì ripetersi che per l'lo e la sua libertà questo del porsi dinanzi a sé e quindi al « riappropriarsi » è una condizione ineludibile . Da questo punto di vista, signore dell'antitesi, che è lui infatti a porre, e a costituire, dell'atto e del fatto, del pensante e del pensato, dell'Io, come allora Gentile preferiva dire, e del non-Io, lo spirito ne è anche lo schiavo: con la conseguenza che, come idealmente anteriore ai suoi termini, esso è altresì l'artefice della sua posteriorità: essendo impossibile che esso non ponga quel che perciò ne di­ pende, e non dipenda tuttavia, per un altro verso, da quel che pone . È ben vero senza dubbio che di queste anteriorità e po­ steriorità, nonché dell'intreccio che ciascuna in sé, esse costi­ tuiscono, potrebbe indicarsi il punto della contemporaneità; e al fondo, quale sua radice trascendentale, trovare così l'atto. È ben vero. Ma quel che si ottiene per questa via è non già la soluzione della difficoltà: è bensì questa difficoltà medesima . È evidente infatti che come atto o contemporaneità dell'an-

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teriorità posteriore e della posteriorità anteriore, inevitabil­ mente l'atto o la contemporaneità dipendono da ciò di cui, nel segno della necessità, costituiscono l'ambito . Se è cosl, questa è allora la più profonda ragione per la quale, dopo aver escluso che il « per sé » dei momenti possa esser tale solo nel quadro del più profondo « per sé » costi­ tuito dalla radice trascendentale dell'Io ed esser quindi un ben singolare « per sé», caratterizzato dal riposare non sul suo prqprio fondamento, ma da un « per sé » che è esso il vero fondamento, Gentile dice anche che, ciò non astante (e am­ messo, senza concedere, che sul serio ciò non osti) , i momenti sono anche « per sé ». Ed aggiunge che dunque, in qualche modo, e sia pure soltanto nel processo del loro risolversi nella sintesi dalla quale « rampollano », il soggetto e l'oggetto, l'arte e la religione, sono «visibili » nell'autocoscienza che è insieme la loro premessa e la loro meta, e perciò, in questo senso, la loro autentica ratio essendi. Senza avvedersi fino in fondo della difficoltà alla quale in tal modo dava luogo, ma avver­ tendone tuttavia il disagio che proprio per ciò gliene deri­ vava, Gentile poteva ben dire che gli opposti sono soltanto «ideali » perché, come posti dalla sintesi, ne conseguono o, per usare il verbo che allora egli scelse, ne « rampollano ». Ma della necessità di questo rampollare e del suo essere per la sin­ tesi, che non può prescinderne per ciò stesso che ne costitui­ sce l'orizzonte, una suprema necessità, Gentile si era pure in qualche modo reso conto. Era lui infatti a porla con questi ca­ ratteri di ferrea e inalterabile inevitabilità; era lui a prospet­ tarla come una necessità assoluta. E può perciò comprendersi che, se non nel punto che gli avrebbe consentito d'intrapren­ dere e di condurre alle estreme conseguenze l'esercizio auto­ critico, in una parte almeno del ragionamento questa sua con­ sapevolezza dovesse lasciare qualcosa come un indizio, e un segno, in sé stesso problematico e contraddittorio, del suo es­ sere, malgrado tutto, al lavoro . C 'era del resto in questa ammissione, e agiva con forza alla radice, un altro motivo che già più di una volta abbiamo incontrato nei punti critici di questa ricerca, e al quale non

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abbiamo mancato di conferire l'adeguato rilievo, svelandone l' aporeticità; ed è quello che già in questo esordio del suo pensare sistematico si delinea là dove (§§ 2-3) Gentile osserva che nella sua essenza l'Io dal quale « l'lo e il non-Io rampol­ lano è l'unità ancora indistinta dei due termini », e subito dopo aggiunge che « prima che sorga la luce della coscienza con l'atto distinguente-uniente di soggetto e oggetto, lo spi­ rito non c'è », per correggersi tuttavia nella linea immediata­ mente successiva, dove è detto che, com'è evidente, « un istante, in cui tale luce non ci sia, non c'è nemmeno », « per­ ché l'essere è appunto il mondo della coscienza» e « di là dalla coscienza non vi può essere, e non v'è, se non la proiezione immaginaria dello stesso contenuto della coscienza» (§ 3). Che è, come di necessità deve risultare evidente a chi del pensiero di Gentile possegga i termini essenziali, una se­ quenza altamente ambigua, ma certo istruttiva perché, per il tramite stesso dell'ambiguità, rivelativa della difficoltà che si era come nascosta nella più riposta profondità del suo pen­ siero. Come già si è più volte notato, Gentile era travagliato dalla attiva presenza in lui di due esignze diverse, alle quali consapevolmente cercava di conferire un orizzonte unitario. E per un verso era infatti il tema dell'anteriorità trascenden­ tale dell'atto, del suo « venir prima» e non essere preceduto da alcunché, che agiva in lui, gli si imponeva e gli dettava le parole che di ll a poco avrebbero composto il discorso dell' at­ tualismo. Ma per un altro a tenerlo vigile ed inquieto era il tema del movimento, della dialettica, del processo, dell'essere che occorre pensare come il fieri stesso del pensiero, eterno bensì nella sua struttura, ma non di meno (e qui, stava il punto difficile) , sul serio « diveniente » E per sforzi che già qui, e poi lungo l'intero corso del suo pensiero, egli compisse per ridurle entrambe, senza disperderne la peculiarità, entro il quadro di una considerazione coerente, è pur vero che di venire a capo della loro inevitabile tendenza a entrare, non in un quadro coerente, ma in un conflitto, non fu mai in grado. In realtà, Gentile capiva benissimo che l'idea alla quale era pervenuto dell'anteriorità trascendentale dell'atto, della sua « eternità», della sua (a parte ante e a parte post) intrascendi­ bilità, non era facilmente componibile, se alla dichiarazione

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verbale si fosse inteso aggiungere il concetto e, con questo, la dimostrazione, con l'altra sua idea, concernente la processua­ lità e il divenire dell'atto; che è eterno, e tuttavia fit. Il co­ rollario inevitabile della prima era infatti l'immobilità, l'im­ possibilità che a sé stesso, e in sé stesso, senza appunto per­ dere il carattere della sua perfezione e compiutezza, l'atto po­ tesse trovare lo « spazio » e il « tempo», ideali bensì ma non fittizi, del suo proprio interno muoversi. Il corollario inevita­ bile della seconda era che la perfezione non è una �tç, un ca­ rattere o un modo d'essere concluso in sé, ma la perfezione piuttosto del suo stesso cercarsi oltre il suo stesso limite . E questa era una pura illusione verbale, una soluzione estrin­ seca, oppure, quando la si fosse tradotta in termini rigorosi, la stessa cosa che si era rivelata immanente alla prima idea: essendo evidente che se il « cercarsi oltre il limite » è esso, ne­ cessariamente, la perfezione e si chiude perciò entro il cerchio aureo della eterna àvayKT) , allora l' « oltre » che compare nella dizione della tesi è una pura metafora e, nel concetto, non corrisponde affatto alla parola che la fa accadere nel linguag­ gio. Se « cercarsi oltre il limite » è esso la perfezione, la ne­ cessità, l'eternità, l'« oltre » è interno alla perfezione, alla ne­ cessità, all'eternità; e non può perciò costituire il dover essere che, dopo averne acceso il desiderio, attrae la ricerca . In realtà, la ricerca sta nella ricerca e, senza poter uscire da sé, si realizza nel suo giro eterno; l'oltre sta nell'oltre; e, incluso in sé stesso, il « dover essere » non è, per parlare il sobrio lin­ guaggio della critica, se non « essere ». Per questo, dopo aver posto l'esigenza dell'unità indistinta (e avere perciò in qual­ che modo subìto il fascino dell'hegeliano « cominciamento as­ soluto »), nei fatti, se non nelle parole, Gentile la dichiarava « impossibile » e impensabile; e, senza averla risolta, chiudeva una questione che proprio per questo era destinata a tornare, in varie formulazioni, al centro del suo pensiero (si ricordi il ruolo ambiguo assegnato, nella Logica, a Parmenide, e, ne La filosofia dell'arte, al sentimento) . Ma, se è così, è sul serio una dialettica triadica, o a tre momenti, questa che Gentile delineò nella memoria del 1 909,

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e che, come che sia, rimase poi nel suo pensiero successivo come un nodo che gli fu impossibile di sciogliere, o con l'escluderlo dal suo ambito, o col coerentemente risolvervelo? Ed è, come egli stesso pur teneva per fermo, una dialettica di opposti, nel cui nome polemizzava, o riteneva di dover pole­ mizzare, con Croce; oppure una dialettica platonico-aristote­ lica di « esserci », ossia di determinati? Già si è detto, o ac­ cennato, che, pensata, concepita e anche presentata come una dialettica di opposti, questa è in realtà una dialettica di « de­ terminati» che, a sua volta, si atteggia tuttavia come una dia­ lettica di opposti, e (senza ora aprire la questione se questa e quella siano altrimenti possibili) non riesce in realtà ad essere né l'una né l'altra. Lo si è detto, in effetti, all'inizio di questa analisi: o piuttosto lo si è accennato. Ma ora occorre con più forza stringere i termini della questione. E osservare innanzi tutto ancora una volta che, per quanto concerne il primo suo aspetto, e cioè la triadicità, soltanto a prezzo di una curiosa inconseguenza, e quasi si direbbe disattenzione, Gentile poté affermarla e ribadirla. In quanto opposti, e anche se il loro es­ ser tali sia considerato dal punto di vista della sintesi che li sottende, li pone e così li rende sia possibili sia pensabili, gli opposti non hanno concretezza se non in quella, nella sintesi, dove sono comunque negati e oltrepassati. Sono perciò « astratti ». Ma se sono astratti, necessariamente occorre (o occorrerebbe) che siano detti « indeterminati », privi cioè di ogni tratto che ecceda, o restringa in un carattere, l'unico che ad essi competa, e cioè l'indeterminezza stessa. Se infatti nel­ l' esser posti dalla sintesi come opposti, fossero non già in que­ sto medesimo atto negati, ma « posti » con un carattere, e del­ l'uno si dicesse che, appunto, è il soggetto e la coscienza che questo ha di sé, e dell'altro che è oggetto e coscienza di sé in quanto oggetto (religione) , allora non potrebbe dirsi né che sono immediati (astratti) né che il loro essere, ciascuno, posto coincida con il loro essere, ciascuno, negato. È già altamente discutibile che da Hegel e, quindi, dalla tradizione spaven­ tiana Gentile abbia accolto, senza indagarne la possibilità e la pensabilità, questa idea per la quale è vero non solo che, data la simultaneità del « porre » e del « negare », quest'ultimo non si esercita su un oggetto che gli preesista, ma anche che, seb-

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bene posto dal suo atto, è pur sempre su un oggetto che il ne­ gare rivolge la sua punta di diamante: con la conseguenza che all'atto del « porre », nel quale il negare rivela la sua natura antologizzante, deve di necessità seguirne un altro in forza del quale l'essere (posto) sia «ridotto a nulla ». Ed è alta­ mente discutibile, non solo perché di questa reductio ad nihi­ lum non avvenne che, qui o altrove, Gentile giungesse a pren­ der atto e, in questo, a cogliere le varie assurdità che nel suo concetto si intrecciano; ma in primo luogo perché non si av­ vide che se il negare di necessità « intenziona » e perciò anto­ logizza, è dunque all'essere, non al nulla, che esso, autocon­ traddittoriamente, deve nel suo esercizio, far riferimento. Certo è comunque che se, oltre il carattere che, sia pure per un attimo, occorre riconoscergli di essere « essere » e non nulla, al « posto » si riconoscesse altresl quello della coscienza soggettiva o oggettiva, e nella prima si indicasse l'arte, nella seconda la religione, la difficoltà sarebbe, per dir cosl, poten­ ziata e raddoppiata. Con la conseguenza che in effetti si de­ linea nelle pagine di questo saggio del l909; e in modo parti­ colare là dove, sempre più approfondendo le questioni nelle quali era entrato, Gentile osserva che poiché, in quanto tra­ scendentali, le forme assolute dello spirito « non possono tro­ varsi né anche esse ad una ad una, ma si realizzano tutte in­ sieme nell'unità immanente dello spirito », l'una sta perciò nell'altra, e il « soggetto non è soltanto soggetto (tale sog­ getto, tale oggetto) , perché nel pensiero stesso dell'uno è compreso il pensiero dell'altro. E viceversa. L'uno e l'altro sono dunque, ciascuno per sé, concetti contraddittorii: poiché ciascuno dovrebbe essere altro dall'altro; ed è identico » 6 7 • Di qui la conseguenza che Gentile credeva di poterne trarre: la conseguenza dell' «unità » e della sintesi, in cui la contraddi­ zione originariamente si risolve . E qui, per la verità, la situazione che viene a determinarsi è sul serio singolare. Si lasci pure da parte (ma dopo averla tuttavia rilevata) la battuta relativa alle forme; che sono as­ solute e, in quanto tali, neanch'esse possono trovarsi « ad una 67 Le forme assolute, pp. 262

e

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ad una » e piuttosto « si realizzano tutte insieme nell'unità dello spirito ». La si lasci da parte, questa battuta, dopo tut­ tavia aver rivolto al testo il quesito se l'unità dello spirito nella quale le forme assolute si realizzano sia essa la sintesi, ossia il culmine filosofico della sua concretezza: quesito, in effetti, tanto più urgente e tanto meno eludibile in quanto, per un verso, la risposta dovrebbe suonare positiva, mentre per un altro è pur evidente che lo stare insieme delle forme, che sono « insieme » soggetto e oggetto, oggetto e soggetto, configura una situazione di interna contraddittorietà, il cui orizzonte risolutivo dovrebbe essere ulteriore, e non intrin­ seco, al fatto del loro « stare insieme ». Del quale, come che sia, Gentile rileva la contraddittorietà; e, acutamente, subito dopo, la identità. Non gli sfuggiva infatti che se il soggetto sta nell'oggetto al modo stesso in cui questo sta in quello, il soggetto è eo ipso oggetto, questo è eo ipso soggetto: con la conseguenza che, la contraddittorietà che in tal modo si ri­ vela immanente ad entrambi essendo a questi identicamente immanente, l'uno e l'altro non sono che «lo stesso », e cioè l'identico . E se, per un verso, gli si sarebbe potuto obiettare che l'identità non concerne se non la presunta dualità delle si­ tuazioni, che non sono in effetti che una situazione sola, e ri­ guarda perciò quel che accade all'interno di questa, che è « in­ sieme » soggetto ed oggetto, oggetto e soggetto, ed è quindi contraddittoria, - è pur vero che Gentile avrebbe ben po­ tuto replicare che, se di contraddizione vuoi parlarsi, anche deve parlarsi dell'« insieme », dello ilJ.La, che sono della con­ traddizione come il fondamento, esso stesso, a differenza di questa, incontraddittorio . La contraddizione, in altri termini, suppone l'identità dello aJ.I.a, che è il suo fondamento incon­ traddittorio. E se, per un altro verso, in questa situazione, né qui né in seguito, Gentile si provò a guardare a fondo, e non vide quindi che se incontraddittorio, e necessariamente in­ contraddittorio, è il fondamento della contraddizione, di que­ sta è contraddittorio parlare, e poi anche dell'ulteriore che ne risulta e cosl via di seguito, in modo tale che soltanto in que­ sta forma, regressiva ed obliqua, è dato parlarne, - dell'ine­ vitabile risolversi dei cosl detti contraddittorii nell'identità

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dell'identico si rese invece ben conto . E acutamente ne fermò il concetto . Non fino al punto, per altro, da saper compiere l'ulteriore passo che questa consapevolezza richiedeva. Della contraddi­ zione, che ai suoi occhi assumeva il duplice volto del condi­ zionato e poi anche della condizione, sentiva di non poter fare a meno: persuaso com'era che, se a questa avesse detto addio o soltanto in altra forma ne avesse affisato il volto, an­ che avrebbe dovuto dire addio, e rinunziare, all'ambizione di­ namica che della filosofia che era intento a costruire costi­ tuiva la nota più profonda. Ma, per non rinunziarvi, fu co­ stretto a battere un sentiero fra i più infidi e pericolosi. E, velocemente, quasi senza insistervi, ma pronunziando ciò non ostante una grave sentenza, disse infatti che la contraddi­ zione (che sembra) intrinseca all'essere il soggetto anche og­ getto, e questo anche soggetto, consiste in realtà non in que­ sta situazione, che è di identità, non di contraddizione, ma piuttosto in ciò che, « dovendo essere » opposti, i termini sono invece identici. La contraddizione si stabilisce infatti in questa prospettiva fra, da un lato, l'identità e, da un altro, il «dover essere » della diversità (o dell'opposizione) . E , a sa­ pervi guardar dentro, questa è un'autentica assurdità; che si rivela, o comincia a rivelarsi, quando si consideri che se il « dover essere » della diversità è tale in relazione all'identità, che è identità e « dovrebbe essere » opposizione (o diversità) , le sarà o intrinseco o estrinseco. Se le è intrinseco, è impos­ sibile che, anche nei termini entro i quali Gentile prospetta l'idea della contraddizione, possa esserle opposto e contrad­ dittorio: sta infatti nell'identità, e nell'identità non può es­ servi altro che la identità stessa. Se invece le è estrinseco, e in questo senso opposto e diverso, anche l'identità gli sarà ine­ vitabilmente diversa e opposta; e non sarà, dunque, identità. Sarà diversità, - e perciò diversa da quel diverso che, ri­ spetto al suo essere identica, è il « dover essere ». Ma dalla di­ versità la diversità non può essere diversa: è identica. E dove non si dà che identità, come potrebbe esservi contraddizione ed opposizione? Ebbene, se a questo intreccio di questioni si tiene fermo lo sguardo, può cominciarsi a comprendere la ragione dell'am-

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biguità che, d'ora innanzi, segnerà di sé la dialettica attuali­ stica. Nel delineare le forme assolute dello spirito (e fin dal 1 9 1 3 Croce ebbe a notarlo con grande acutezza) 68 Gentile in effetti oscillò; e ora le definì, al di qua della sintesi, come astratte, ora invece come determinate, ora assunse l'arte e la religione come astratte ed inattuali, ora prese l'astratto e l'inattuale come arte e religione: in modo tale da renderlo al­ meno tendenzialmente, come in sé stesso determinato (e au­ tonomo) . In entrambi i casi, e nell'una prospettiva non meno che nell'altra, la dialettica non incontrò il modo della sua pro­ pria costituzione . Nel primo caso, perché nell'astratto non c'è che l'astratto, l'identità dell'astratto, e dell'opposizione non si dà per conseguenza alcuna traccia. Nel secondo, perché se gli opposti sono opposti, sono identicamente opposti: identici dunque, la loro stessa perfezione di « opposti » importando la loro identità. E dove c'è identità, non può esservi opposi­ zione; dove non c'è opposizione, nemmeno la dialettica è pos­ sibile, - la dialettica che, in una concezione come questa, su nient'altro che sull'opposizione è (o pretende di essere) fon­ data. E veniamo ora, dopo che nel suo stesso interno, e in ra­ gione della sua intrinseca costituzione, lo schema triadico, e la monotriade che ne esprime il concetto, si sono come dis­ solti, - veniamo all'altro schema, quello che, di struttura ra­ dicalmente duale, triadico è solo quando, attraverso la dupli­ cazione del termine che nella formula dichiara il concreto, l'atto, la sintesi, si dica appunto che questi sono la sintesi di sé e dell'astratto, e la formula perciò suoni: « il concreto è la sintesi (l'atto) del concreto e dell'astratto ». Ma, quale che sia la ragione che la determina (e che non potrà, se è una ra­ gione, non tornare, quando i tempi saranno maturi, al centro dell'indagine) , la duplicazione è, in quanto tale, una duplica­ zione; e la triadicità che induce nella formula è perciò sol­ tanto apparente . Dove infatti, fatta consistere nel culmine sintetico dello spirito che altresì ne costituisce la premessa e 68

CROCE, Conversazioni critiche, Il, 89-9 3 .

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la condizione trascendentale, la dialettica sia colta nel ritmo riflessivo mediante il quale, ponendo sé dinanzi a sé, il pen­ siero passa attraverso la sua propria alienazione nel « sé po­ sto », lo nega in quest'atto e torna perciò alla pienezza del « Sé » dalla quale, non fenomenologicamente, ma logicamente, il processo era partito, soltanto in apparenza il ritmo ha na­ tura triadica. E in realtà ne ha una, come si diceva, duale (o a due momenti) . Il ritmo rivelerebbe infatti natura triadica, e non duale, se analiticamente i momenti attraverso i quali si dice che si svolge fossero rappresentati e rappresentabili cia­ scuno in sé; e prima si desse lo spirito nella sua pura sogget­ tività, quindi nella oggettività conseguita attraverso l' autone­ gazione del soggetto, infine nella (e come) negazione di que­ sta negazione. Ma la rappresentazione analitica dei momenti è proprio ciò che, nella sua logica più profonda, l'attualismo respinge con la più grande energia (in questo, fra le altre cose, facendo consistere la sua propria riforma della dialettica he­ geliana) . Se è vero che la sintesi « viene prima » e costituisce essa la condizione dell'antitesi in cui, nell'opposizione, entra in rapporto col termine che, a sua volta, le è antitetico, non è forse anche vero (e l'abbiamo già notato) che fra il primo e il terzo non può esserci che coincidenza e che, a rigore, qui non si danno se non due termini, il primo dei quali realizza la sua propria sinteticità nell'escludere (negare) il suo proprio nega­ tivo (ossia, in termini gentiliani, il suo « sé » posto come og­ getto)? Ma se è cosl, e già molte volte questo nodo è tornato sotto la lente dell'indagine (e ancora vi tornerà perché, lo si è già notato, quella di Gentile è una filosofia che costruisce sé stessa come in un circolo e costringe perciò chi si proponga di ripercorrerla e comprenderla dall'interno a costruire lui pure secondo questa figura l'analisi con la quale l'investe) , - se è cosl, altro allora occorre aggiungere . Occorre aggiungere che anche nella forma duale a cui qui è stata ridotta, la dialettica dell'atto non è che una soltanto apparente dialettica; e ciò che in realtà finisce col risultarne è sopra tutto la forte apo­ reticità che, in sede di logo concreto non meno che di logo astratto, connota lo strumento riflessivo e il ritmo « oblio/me­ moria » che, con altre parole, ne esprime il tema fondamen­ tale. Lo si è già visto nelle precedenti pagine e, ancora una

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volta, anche in una che si è da poco aggiunta alle più lontane: ossia nel luogo specifico nel quale si osservò che se la sintesi è idealmente anteriore ai termini dalla cui opposizione pur si fa che in qualche modo consegua, allora è comunque impos­ sibile che nella conclusiva pienezza del suo « sé » sia diversa da quella che era all'inizio. Lo si è già visto; e, per questo aspetto, non resta che ribadirlo. Sebbene non ancora conclusa, e destinata perciò a essere ripresa quando sarà il rapporto del logo astratto e del logo concreto a costituire il principale argomento, l'analisi della dialettica ha già ricevuto un conveniente sviluppo. E richiede tuttavia, prima che quell'argomento possa essere affrontato in sé, qualche ulteriore indugio. È ben vero, per esempio, che, lungi dall'esser stati abbandonati a sé stessi e al loro puro va­ lore documentario di una fase soltanto iniziale dell'idealismo attuale, lo schema triadico e la monotriade che ne esprime l'autentico concetto tornano al centro del quadro nel sesto ca­ pitolo della prima parte del Sistema di logica . Ma vero è anche che assai più che non sull'arte e sulla religione, Gentile insiste qui sul carattere necessariamente triadico di ogni svolgimento spirituale, che non si attua infatti per lui se non nel e secondo il ritmo del «porre », del negare e del negare il negare. E già si è visto fino a che punto, sebbene ne dichiari la natura tria­ dica e lo assuma nel senso di questa, il ritmo che, attraverso l'aggettivazione del soggetto conduce questo a ripossedersi nella forma pura dell'autocoscienza, diverga invece dalla fi­ gura della triade, nella quale la posizione del sogge.t to è rico­ perta dall'arte, non dal pensiero, e l'oggetto è costituito dalla religione. Non solo infatti, e conviene notarlo, quel che nel primo schema è pensiero è, nel secondo, arte; ma non in senso assoluto sovrapponibili sono, nell'uno e nell'altro, le po­ sizioni definite col termine « oggetto », che nel primo è il « pensato », ossia il determinato contenuto del pensiero che pensa, laddove nel secondo è il diretto opposto dell'arte: è la religione che, quanto quella è astratta soggettività, altrettanto è astratta, ma nel segno dell'oggettività: con la conseguenza che, se si assumesse che con la filosofia l'arte e la religione

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stanno nel medesimo rapporto onde il pensato è connesso al pensante, occorrerebbe allora assumere che anche in questo caso il pensante (la filosofia) abbia un oggetto, o un conte­ nuto, univoco, e incontraddittorio; e che arte e religione siano perciò non il soggetto (che contraddice l'oggetto) e l'og­ getto (che contraddice il soggetto} , ma «lo stesso ». Tale in­ fatti, univoco e incontraddittorio, è il pensato, l'oggetto del pensiero, inteso come « logo astratto ». Ma, prospettata nel quadro emergente da questa situazione, la reductio della filo­ sofia al pensante, o « logo concreto », si rivela ineseguibile. Non è forse evidente che, per sforzi che si compiano, la filo­ sofia non è qui se non la sintesi di un'antitesi costituita dal­ l'arte e dalla religione, e che ardua fino al limite dell'impos­ sibilità risulta l'impresa volta ad assegnarle un oggetto in sé, non contraddittorio, ma altrettanto coerente di quel logo (astratto) che nei principi d'identità, non contraddizione e terzo escluso realizza la sua essenza (di verità pensata e resa oggettiva a sé stessa)? Insistere sullo schema triadico, o monotriadico, è dunque, come si vede, non inutile, perché la materia della dialettica è ricca di complicazioni che, acuendosi in nuove difficoltà, esi­ gono di essere prese in attenta cura. E in tema di dialettica, e di natura della dialettica, c'è in realtà ancora qualcosa che in questa sede richiede di essere considerato, prospettandolo, giova aggiungere, nel quadro del saggio più ampio ed impor­ tante che, in assoluto, dopo quello del 1909, Gentile abbia dedicato al tema dei rapporti dell'arte e della religione. Si tratta dello scritto che, con nel titolo questi due termini, Gentile compose nel 1 920: non solo quindi undici anni dopo la stesura di quello consacrato alle « forme assolute dello spi­ rito », ma tre dopo la pubblicazione del primo volume ( 1 9 17) del Sistema di logica e tre innanzi quella del secondo, avve­ nuta nel 1 92 3 . E sul serio si tratta di un saggio importante, e anzi, nella storia del pensiero di Gentile, essenziale. Le pre­ cedenti difficoltà vi ricompaiono, infatti: ma potenziate, in­ tensificate, investite da una luce radente che altro ancora consente di cogliere alla loro radice e di saldarlo con queste in un quadro di alta problematicità.

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La problematicità intrinseca a questa ripresa del tema triadico salta subito agli occhi quando con attenzione si con­ sideri e con forza si tenga fermo nella mente quel che Gen­ tile aveva scritto nel saggio del 1 909: dove, come si ricor­ derà, l'arte e la religione erano da una parte dichiarate in sé stesse contraddittorie perché ciascuna ospitante nel suo stesso ambito l'altra, e da un'altra erano tuttavia definite an­ che in sé stesse, solo così potendosi, a giudizio di Gentile, arrivare a comprendere come l'arte potesse essere anche reli­ gione, e filosofia, la religione arte e filosofia, e questa es­ serne la sintesi. C'erano qui, come sappiamo, difficoltà assai gravi, che non riuscivano ad essere ricomprese e risolte in un quadro coerente; e basterà ricordare la più grave, che è quella per la quale, riconosciuta come inevitabile l'identità degli opposti, Gentile non solo pretendeva di ritrovare la concretezza dell'opposizione nell'essere gli opposti identici mentre avrebbero « dovuto essere » opposti e tali perciò da far scoccare la scintilla viva della contraddizione, ma anche dava luogo all'ambiguità che, nel profondo, segna la sua dia­ lettica. Come assai bene si vede se, finalmente si studia il modo in cui la questione è trattata e prospettata nel saggio del 1 920, che presenta aspetti singolari, sui quali non sarebbe ammissibile che non ci si fermasse. A cominciare dal concetto del soggetto che, assunto nella sua idealità, è arte in quanto è puro sentimento, e cioè, si precisa qui, è bensì il soggetto del giudizio, ma di un giudizio nel quale il soggetto compaia e il predicato invece no. Insomma, un ben singolare soggetto, perché è pure evidente (o dovrebbe esserlo) che, se lo si con­ cepisce così, nel giudizio il soggetto (particolare) è per il pre­ dicato (universale) tanto quanto questo è per il soggetto; e che, se questo si dà senza quello, allora soltanto a prezzo di un'intrinseca scorrettezza logica può dirsi che, in mancanza del predicato, il soggetto è il soggetto. Egli non se ne avve­ deva e non ne traeva perciò le necessarie conseguenze. Ma è pur evidente che la situazione delineata da Gentile rivelava il suo punto di essenziale e problematica articolazione nel « sen­ za » che, come (se ci si mette su questa via) non è difficile ve­ dere, è esso, e la O''tÉpTJr reinen Vcmunft, Hamburg

1 9 5 6 . pp . 2 2 0 - 2 9 .

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una > ad opera dell'astrazione che, intervenendo su quella, appunto, la separa nei suoi termini costitutivi. Opera­ zione, quest'ultima, estremamente problematica; ed anzi, nel quadro dell'attualismo, altrettanto impossibile ad essere ese­ guita quanto, nel quadro hegeliano e in quello crociano, è im­ possibile dar conto dell'intelletto astratto e dello pseudocon­ cetto . Problematica, dunque, fino al limite dell'impossibilità: ma intrinseca tuttavia al tentativo gentiliano di prendere l'astratto come astratto, e all' aporeticità che, a sua volta, gli è intrinseca. Ebbene, se è così, allora è evidente che sul primo punto

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non c'è, in questa sede, se non da ripetere quel che altrove si è detto; e trarne perciò la conseguenza secondo la quale, se il misticismo coincide con l'astratto reso astratto dall'astrazione onde la sintesi è spezzata e separata, esso è allora altrettanto inconcepibile, nel sistema, quanto in questo è inconcepibile e indeducibile la potenza astraente per la quale l'astratto si astrae in sé stesso ed è il puro astratto 1 0 . E per quanto con­ cerne il secondo punto? Per quanto concerne il secondo punto , il misticismo è identificato con l'oggetto inteso come religione; e come nello schema triadico questo si contrappone al soggetto, che qui è l'arte, così è evidente che la situazione mistica è addirittura l'opposto di quest'ultima, - della situa­ zione dell'arte, con la quale non entra a rigore, o non do­ vrebbe entrare , in contatto se non nell'atto sintetico onde gli astratti sono opposti e resi concreti nel concreto . Appare per­ ciò, almeno prima facie, evidente che quella del misticismo è una situazione astratta e, in sé stessa, irreale; e che soltanto nell'idealità del suo distinguersi dall'arte e dalla stessa filoso­ fia, nella quale per altro giunge, con l'arte, al sacrificio di sé, possiede il suo qualsiasi atto (che non è un reale atto) di realtà. Essa è insomma « per non essere » (come situazione mi­ stica) : questo « non essere » essendo per altro l'essere della fi­ losofia, del quale costituisce qualcosa come la trama o l'altro volto . Anche qui, dunque, la situazione mistica si presenta con il carattere della pura idealità e, per sé stessa, dell'irrealtà. E di misticismo non dovrebbe perciò parlarsi come di un' espe­ rienza che si svolga, invece, nella realtà, e, quale che sia, pos­ segga il suo particolare ritmo fenomenologico : nel quale sia perciò descrivibile e rappresentabile . Il che tanto più con­ viene osservare in quanto, per un verso Gentile fu drastico, fin dal 1 909, nell'affermare che la « religione è l'opposto del­ l'arte: coscienza dell'oggetto come mero oggetto », e per un altro nel rilevare che se è vero che l'oggetto non può esser 10

Mi sono intrattenuto a lungo su questo punto nel saggio dedicato alla questione dell'astratto e del concreto, che può leggersi qui su, pp. 167383.

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mai « mero oggetto », e che, come forma pura, la religione « non è pensabile », vero è però che nella sua astrattezza essa « è questo impossibile, che pure l'uomo si sforza sempre di realizzare » 1 1 . E qui allora, come si vede, sul ragionamento di Gentile si distende l'ombra dell'ambiguità. E per un verso, egli infatti dichiara la religione « impossibile » e parrebbe escluderla, dunque, dall' ambito di ciò che è, possiede la nota della realtà ed è pensabile . Ma per un altro fa che questo « impossibile » sia tuttavia l'oggetto del perenne sforzo onde l'uomo cerca di realizzarlo . E così, mentre da una parte lo esclude, da un'altra invece lo reinclude. Lo reinclude perché, se costituisce l'oggetto di uno sforzo, allora è inevitabile che possibile, e ben possibile, sia considerato questo « impossibi­ le », al quale, nel suo stesso tentativo di realizzarlo, l'uomo si rapporta, intenzionandolo. Ambiguità notevole, degna cioè di essere rilevata e considerata; e nella quale si esprime in effetti quella più profonda che, come s'è visto e forse anche dimo­ strato, caratterizza nella sua radice la dialettica attualistica. Per un verso, infatti, questa dialettica si svolge fra opposti, che soltanto la sintesi pone perciò come reali e, di contro alla loro astrattezza, come concreti . Ma è tale tuttavia che, per un altro, di continuo, nel suo andamento concreto, gli opposti (contraddittorii) si convertono in opposti (contrari) , ed anche in sé, dunque, non soltanto nella sintesi (che non dovrebbe in effetti riguardarli) presentano la nota della realtà. È quel che, almeno indirettamente, si vede nel luogo in cui Gentile os­ serva che « l'oggetto della religione, come l'oggetto dell'arte, non è assoluto dal punto di vista filosofico, ma assoluto dal punto di vista religioso o artistico »; e prosegue che « il Dio del poeta è il suo genio; il Dio del santo è appunto l'ignoto. Da una parte: l'immediatezza della luce; dall'altra, l'immedia­ tezza della tenebra e del mistero; da una parte, l'esaltazione del sogge tto, dall'altra il suo prostrarsi e annullarsi » (§ 1 3 ) . I n realtà, s e non dal punto d i vista della filosofia e della sua reale assolutezza, l'oggetto della religione e dell'arte è as11

G. GENTILE, Le fonne assolute dello spirito , in Il modernismo e i rap­ porti fra religione e filosofia, Firenze 1962 2 , p . 268.

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saluto, ma da quello bensì dell'assolutezza che è propria della religione e dell'arte, allora qui l' ambiguità è tale, e produce un tale ingorgo, che il ricorso allo strumento catartico del­ l' analisi si rivela essenziale e irrimandabile . E occorre perciò osservare che se l'arte e la religione posseggono la loro pro­ pria assolutezza, e l'una si caratterizza nell'oggettività della sua propria costituzione attraverso il genio del poeta, mentre , nell'oggettività sua, l'altra trae il suo carattere dall'ignoto nel quale il santo si annulla e così è santo, qual è allora il rap­ porto che queste « assolutezze » intrattengono fra loro? Un rapporto debbono infatti pur intrattenerlo, perché è da que­ sto che il sistema dello spirito trae il carattere in forza e in ragione del quale è un sistema. È evidente per altro che le as­ solutezze non sono, né possono essere, se non l'assolutezza, l'unica identica e non moltiplicabile assolutezza, che solo il particolare, fantasioso e irresponsabile genio della metafora può pretendere di declinare al plurale . E perciò o l'arte, la re­ ligione, la filosofia sono assolute, e si presentano quindi come i « nomi » assolutamente intercambiabili che l'unica identica immoltiplicabile assolutezza può assumere, e allora è evi­ dente: l'arte, la religione, la filosofia non sono che nomi del­ l' assolutezza, la quale di per sé è l'assolutezza e certo non comporta, e non ammette, che nel suo qualsiasi « interno » l' arte e la religione si oppongano come assolutezza ad assolu­ tezza per trovare infine pace nella sua. Oppure l'arte e la re­ ligione sono astratte, si oppongono e concrete non sono che nell'assolutezza della filosofia; e allora anche qui è evidente: di esse non può dirsi che sono, in sé stesse, assolute . Deve dirsi che sono astratte (e quali che siano poi le particolari in­ congruità e difficoltà che da questo carattere derivano alla pensabilità dell'opposizione e alla concepibilità della dialet­ tica) . Anche qui, dunque , ambiguità. E la sua ombra si perce­ pisce più che mai nella parte centrale del decimoterzo para­ grafo dello scritto del 1909 su Le forme assolute dello spirito, sul quale da qualche tempo ci stiamo intrattenendo . In brevi tratti, ma con molto impegno e non senza efficacia, Gentile vi delinea (si potrebbe definirla così) la particolare fenomeno­ logia della religione; che è pura oggettività, e perciò, in que-

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sto senso, rmst1c1smo . L'oggetto si presenta qui come un « puro oggetto », e cioè « scisso dalla sua relazione col sogget­ to ». Si presenta dunque, a giudizio di Gentile, come l'ignoto . Ma la religione è tuttavia non soltanto oggetto, perché è in­ vece anche « coscienza dell'oggetto »; e come qui per un altro verso la coscienza, e perciò anche il soggetto, tornano in primo piano, cosl era inevitabile che la situazione si compli­ casse. Da un lato in essa Gentile non vedeva se non l'oggetto, il puro oggetto, « scisso dalla sua relazione col soggetto ». Ma da un altro vedeva pur sempre qualcosa come la « non rela­ zione », l'aveu o il « senza » della relazione; e perciò di nuovo, scisso dall'oggetto ma pur sempre presente, il soggetto. Che sia cosl è evidente; e per risolvere la difficoltà della quale in qualche modo s'avvedeva, Gentile era quasi costretto ad os­ servare che se, « scisso dalla sua relazione col soggetto », l'og­ getto è l'ignoto, è pur vero che, affermato (da quel soggetto, dovrà intendersi, dal quale pure è scisso) , l'ignoto è « in qual­ che modo conosciuto: conosciuto come ignoto ». E la conse­ guenza che egli ne traeva era che « questo ignoto non è dun­ que, in quanto oggetto, un oggetto cosl indeterminato che po­ trebbe poi farsi noto, determinandosi » . Se, proseguiva, « ignoto vale indeterminato, questa sua indeterminazione è la sua determinatezza. Ora questo oggetto determinato , come ogni oggetto determinato, è oggetto di un soggetto determi­ nato. Sicché il soggetto che afferma l'ignoto, essendo il sog­ getto di questo oggetto (e non di altri oggetti) , e non affer­ mando sé stesso, non afferma altro che questo ignoto (affer­ ma sé stesso unicamente come questo ignoto) . Il quale ignoto, pertanto, non avendo accanto a sé altro che lo limiti, è, nella coscienza che lo afferma, assoluto o infinito ». La deduzione di questo passaggio, che pure, nel quadro del sistema che Gentile stava delineando, riveste importanza essenziale, si presenta avvolta in una discreta oscurità che, quando si rischiara, lascia trasparire l'arbitrio . Se il soggetto che afferma l'ignoto è, quale qui lo si definisce, un soggetto determinato, è palesemente impossibile assumere che l'esser tale non riposi sulla coscienza di sé e perciò sull' autoafferma­ zione . Ma se è cosl, e soltanto cosl in effetti può essere, allora è anche evidente l'impossibilità del passaggio che Gentile

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cerca di eseguire là dove osserva che, tale, ossia Ignoto, es­ sendo l'oggetto di questo soggetto che l'afferma, nell' affer­ marlo questo non afferma sé stesso come invece accadrebbe qualora non tanto dell'ignoto si trattasse, quanto invece di oggetti noti, nel loro carattere, al soggetto . L'impossibilità di questo passaggio è evidente perché , sia. pure che, se è noto come ignoto, l'ignoto è tuttavia anche ignoto, e si presenta dunque come un limite nel quale e oltre il quale è impossibile che il soggetto penetri e vada. Ma proprio per questo è ne­ cessario ammettere che, tanto più in quanto è in grado di di­ stinguere nell'oggetto ignoto quel che in esso è conoscibile (l'ignoto, potrebbe dirsi, come forma) da quel che conoscibile non è (l'ignoto come contenuto) , il soggetto, che di queste ri­ cognizioni è l' auctor, è altresl il soggetto di queste distinzioni: di tutte, nessuna esclusa. E la conseguenza sarà allora non quale Gentile la prospetta, ossia il rientrare e lo sparire del soggetto nell'oggetto ignoto, che esso afferma bensl ma senza affermare sé stesso . Sarà invece che, consapevole dell'ignoto, della sua forma e non del suo contenuto, il soggetto è in atto non solo questa distinzione della forma e del contenuto (del­ l'ignoto) , ma altresl di sé stesso sia dall'ignoto come forma, sia dall'ignoto come contenuto . E , a differenza di quel che Gentile riteneva, l'ulteriore conseguenza sarà forse che la di­ stinta e ineliminabile presenza del soggetto, il suo porre sé stesso come necessariamente distinto dall'oggetto ignoto che altresl si distingue ai suoi occhi come la forma (nota) dal con­ tenuto (ignoto) , - tutto questo esclude che l'oggetto si pre­ senti con il carattere della assolutezza e della solitudine . Siamo cosl, nella veloce analisi che è stata offerta di que­ ste tesi gentiliane, tornati a toccare il punto della paradossa­ lità che a questa esperienza mistica è intrinseca: la volontà di negare il soggetto per l'oggetto e, in questo stesso atto, la riaffermazione dell'essere (innegabile) di questa volontà di ne­ gazione e autonegazione . Il misticismo si presenta come desi­ derio dell'oggettività, nonché dell'infinito che ne è il carat­ tere; e nell'esserne il desiderio, proprio in questo, esclude che quella, l'oggettività, possa mai essere infinita. Che è, a guar-

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dar bene, proprio il paradosso che l'analisi gentiliana subisce senza riuscire mai, infatti, ad affisarne il carattere e a co­ glierne perciò la contraddittorietà . Senza riuscirvi . Ed essa infatti si lascia sfuggire che sì, l' ambizione suprema del mi­ stico è il suo « non esserci più » nella sua particolarità; è che, immediatamente, questo suo non essere sia l'essere di Dio : senza che d'altra parte questa situazione sia mai a pieno rea­ lizzabile, perché , se c'è l'esserci che anela a non esser più, proprio per questo non può esserci l'essere infinito di Dio, e se questo sia invece tale da occupare l'intera scena dell'infi­ nito, allora a non esserci, a non poter esserci, a non potersi costituire è la stessa situazione mistica, che, nell'assenza del soggetto, essa stessa è assente e nella realtà è impossibile che entri e trovi posto . Che quindi, indicando nella pura, asso­ luta, immobile oggettività l'essenza del « mistico », Gentile fosse interprete fedele dell'intenzione che , per così dire, a questa esperienza è necessariamente connessa, è indubbio . Ma la fedeltà può essere e anche non essere la stessa cosa del­ l'intelligenza piena dell'oggetto, della esperienza, della situa­ zione a cui si è fedeli . E se, per esempio, con più cura e at­ tenzione, egli avesse guardato nella « cosa » alla quale asse­ gnava i caratteri del misticismo; se con più cura avesse letto i testi da lui stesso prodotti, e meno fosse stato perciò legato a questa idea della religione come misticismo e del misticismo come realizzante sé stesso nella pura assoluta irrelativa ogget­ tività; se, in altri termini (e come fin dall'inizio ci accadde di notare) , avesse guardato più alla possibilità che l'intenzione mistica si traducesse nella realtà e meno al suo effettivo tra­ durvisi, più alla possibilità e meno al risultato, - della para­ dossalità che invece seguitava a sfuggirgli certo si sarebbe ac­ corto . Che per esempio egli potesse dire (§ 15) che la religione è essenzialmente « misticismo », affermazione dell'assoluto come estrinseco, e non intrinseco, all'attività affermatrice e come « negazione », quindi, di « questa attività stessa » 12, si spiega, o piuttosto non si spiega, se si considera quel che poco 12

Ibid. ,

p.

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prima aveva affermato circa il perdersi del soggetto, che af­ ferma l'ignoto, in quello stesso che afferma (§ 1 3) u . Ed è os­ servazione insostenibile, e persino assurda: perché dall' estrin­ secità dell'assoluto, o, se si preferisce, dall'affermazione del­ l' assoluto come estrinseco si deduce bensì che questo non è in nessun senso l'assoluto, ma non certo che l'affermazione ne sia negata nella sua radice soggettiva. E piuttosto è uno dei caratteri paradossali del misticismo a risultarne : essendo in effetti evidente che la presenza del soggetto che in sé stesso cerca di realizzare l'esperienza del suo proprio annullamento in Dio, e nella sua obiettiva infinità, ha come immediata con­ seguenza del suo esserci il non poter essere di Dio e della sua infinità (che d'altra parte, se potesse essere e Dio fosse l'in­ finito al quale il mistico assegna il suo desiderio, non è forse ancora una volta evidente che a non poter esserci sarebbe in questo caso l'essere del mistico, e dunque, in assoluto, la con­ creta esperienza del suo « annullamento »?) . Se è così, e con questo può passarsi ad alcuni dei testi ci­ tati da Gentile in un altro suo scritto (che è poi quello con cui questa ricerca ha avuto inizio) , come non vedere che nel com­ mentarli egli ne ripeteva, nella migliore delle ipotesi, la più palese incongruenza interna? Si prenda per esempio la laude nella quale J acopone, o chi la scrisse, « ammonisce che chi vuol contemplare ' Deitate ', gli è d'uopo vedere prima la sua ' nichilitade ': un vedere che non può essere neppur esso virtù nostra, ma di Dio » 14; e si leggano, per maggior chiarezza, i versi che anche Gentile, del resto, cita: Capace veramente del nichil glorioso non è, chi sé non vede. La illuminata mente in nichil fa riposo per virtuosa fede . 1 3 Ibid. , pp. 268-69 . 1 4 GENTILE, Discorsi di religione, p. 5 8 . E cfr . in genere la sua Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo Val/a) , Firenze 1962, pp. 125-3 5 .

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De pace la provvede Christo, che fe' el condutto, perché gustasse el frutto de sua nichilitade . Annichilarse bene non è potere umano, anzi è vertù divina 1 5 .

Versi notevoli, senza dubbio, se li si consideri in rela­ zione alla definizione di ciò che è mistico e della sua interna, mobile, fenomenologia. Notevoli non soltanto perché chi li compose mostri di avere ben chiara in mente l'idea che il ful­ gore della « deitate » non è percepibile e sostenibile se non da uno sguardo che, per così dire, sappia passare attraverso la « nichilitate » dello stesso soggetto che guarda, ma anche per altro. E innanzi tutto, si direbbe, per l'intuizione onde egli afferma che « la illuminata mente l in nichil fa reposo l per vertuosa fede » e che « annichilarse bene l non è potere umano, anzi è virtù divina ». Versi notevoli, dunque . Ma non tanto perché la situazione mistica vi domini chiara, limpida, sovrana; quanto piuttosto per la tutt'altra ragione che il volto del misticismo appare qui di scorcio, ossia a condizione che, entrando nel gioco dei concetti e delle metafore, si sappia fra gli uni e le altre distinguere, cogliendo le inconseguenze e non avendo timore di far torto alla storicità del poeta col metterle nella cruda luce che, per essere colte, esse richiedono. Così sarà metaforica questa idea· del « conseguire » la propria « ni­ chilitate », che all'uomo è negato e soltanto la grazia di Dio in effetti gli consente di realizzare. E in tanto deve dirsi così, che è metaforica, in quanto è per un altro verso più che evi­ dente che « conseguire » o realizzare il proprio nichil è, anche quando fosse guidato dalla mano di Dio, cosa impossibile, se è vero che non può esser nulla, e dev'essere invece qualcosa, il soggetto e l' auctor, di questo conseguire a realizzare il suo proprio passaggio al nulla; che se d'altra parte potesse mai es­ ser preso come qui lo si prende , e cioè come la meta del ten15

Cfr. la Nota che chiude questo articolo.

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dere che il soggetto fa ad esso, come non vedere che allora sarebbe una meta, e dunque essere e non nulla? Incongruenze evidenti; che guardate dall'alto o, comun­ que , da un altro angolo visuale, confermano questa difficoltà o insidia o paradosso che il misticismo ospita dentro di sé, e che concerne (lo sappiamo già) il soggetto . Il quale deve non esserci e poter non esserci, perché senza il suo nichil Dio non potrebbe essere e svolgersi come infinita potenza. Ma intanto deve pur costituire il fondamento e la ragion d'essere e la condizione necessaria di questo suo annullarsi in Dio, che, a sua volta, è bene perché questo annullamento si dà che può esser detto totalità e infinità: due situazioni, come si vede, concettualmente assurde e, in ogni senso, autocontradditto­ rie, perché se l'annullamento ha un soggetto che, appunto, lo esegue, si dà dunque qualcosa, nell' annullamento, che non si annulla e, per così dire, si ferma sul limite del soggetto, e se, per contro, è in forza e in ragione di questo annullamento che Dio è infinità e totalità, ecco allora che di nuovo l'annulla­ mento non è tale (costituisce infatti una condizione) e Dio non è né infinità né totalità (ha la sua radice in una condi­ zione che di necessità gli preesiste) . In un'altra lauda, di si­ cura autenticità 1 6, questa, J acopone dice dell'« alta nichili­ tate » che il suo « atto è tanto forte, l che pre tutte porte, l et entr'ello 'nfinito » (92 , 3 4 1 -44) . E qui tanto più l'incon­ gruenza raggiunge il suo culmine quanto più, siano invece ef­ ficaci queste parole; che tessono l'elogio del niente e intanto, impassibilmente, alludono alla forza del suo atto che , certo, se è un atto, non può esser niente, e, se è qualcosa, come , senza contraddizione, potrebbe dischiudere le porte della luce e della mistica felicità? Incongruenze gravi; che volentieri si perdonano al poeta che , attraverso questa metafora, ha pur cercato di porre in atto la sua approssimazione al misticismo, ma non allo stesso modo potrebbero essere giustificate presso chi facesse profes­ sione di filosofia e dovesse perciò non tanto ridurre i concetti 16

p . 305 .

Cito secondo l'edizione delle Laude a cura di F. Mancini, Bari 1 974,

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a metafore quanto invece dissolvere queste in quelli. Così, di

Jacopone non ci si meraviglia. Ma di Gentile che lo cita senza

criticarlo, sì, di lui ci si meraviglia; a quel modo stesso che ci si meraviglia che niente egli trovi da ridire a proposito di quel che si legge nell'epistola ai Filippesi, desiderium habeo dosso/vi et esse cum Christo ( 1 , 23), o nell'altra ai Galati: vivo autem, iam non ego: vivit vero in me Christus (2 , 20) . Ci si meraviglia non perché, quando si dovesse leggerle nel quadro della viva esperienza dell'apostolo delle genti fosse di primaria impor­ tanza notare lo scarto che si produce fra il dissolvi (che, co­ munque si sia prodotto, ammettiamo che si sia prodotto e sia quindi conforme alla sua intenzione significativa) e l'esse cum Christo, che è pur sempre uno stare in comunione che ha per soggetto e autore il soggetto che dovrebbe essersi dissolto e , dunque, « non esser più » . M a c i s i meraviglia e, s i direbbe, pieno iure, perché le parole di Paolo di Tarso sono qui assunte e valgono per la descrizione che contengono dell'esperienza mistica e del suo concetto; ed è in questo quadro, e in riferi­ mento a questo oggetto, che si deve perciò giudicarle : senza dunque lasciarsi sfuggire l'assurdità di quel vivere, che a sog­ getto ha non un ego (che in effetti si assume che non sia) , ma Cristo, il quale per altro vive bensì anche in sé, e non di meno vive anche in quel me, ossia in quell'« ego » del quale era stato pur detto, poco innanzi, che « non era ». E così via, perché certo anche, e non poco, ci sarebbe da eccepire sulla congruenza al contesto della citazione di Pascal t 7 e del suo concetto giansenisticamente rigoroso della grazia; perché in effetti le sue parole dicono , al riguardo, tutt'altro, e neppure per la via dell'immagine o della metafora mettono in que­ stione l'essere e il nulla. Siamo così giunti alla fine di questo excursus che se non è, come di certo non è, riuscito a tracciare la linea compiuta 17 GENTll..E , Discorsi di religione, p. 59. Che il dono della grazia, la quale « d'un homme plein de faiblesses, de misères , de concupiscence, d'or­ gueil et d'ambition, a fait un homme exempt de tous ces maux » (Pensées, n. 550 Brunschvicg) , non abbia immediatamente a che fare con la questione del misticismo, mi sembra evidente di per sé.

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SUL MISTICI SMO

della questione, dovrebbe però averne restituito qualche tratto essenziale . La questione del resto torna con prepotenza in primo piano, e con tutta intera l'ambiguità che già ci si è rivelata come la sostanza più profonda della concezione gen­ tiliana della religione e del misticismo che ne esprime l'es­ senza, in una delle sequenze concettuali che costituiscono il capitolo che nei Discorsi di religione è dedicato a Il problema filosofico. Qui, dopo aver osservato che l' « essere di Dio è il nostro non-essere » ed aver aggiunto che « chi non fissa in questi termini esatti il significato della trascendenza del di­ vino, non si mette in grado di sottrarsi al gioco dell'immagi­ nazione, la quale spadroneggia nel campo della religione », Gentile aggiungeva che « malgrado tutte le difficoltà contro cui deve combattere in conseguenza del suo stesso assunto », la religione è questo mirare alla realtà che, veduta come altra dall'uomo che vi si affisa, si rappresenta immediatamente in­ finita: insuperabile nella forma in cui si presenta, perché su­ perabile potrebbe essere in virtù del pensiero onde si pensa». E proseguiva altresì osservando che « la religione è questo af­ fisarsi dell'uomo nell'oggetto della sua coscienza, e obliarvisi. Obliarvisi, come conoscere e come fare: in guisa che né possa presumere di conoscere egli ciò che conosce (rivelazione) , né possa presumere di fare da sé quel che fa (grazia) . E quindi adorare, piegandosi, prostrandosi, la fronte nella polvere, in­ nanzi all'infinito; e poi pregare, implorare il soccorso che ci metta in grado di adempiere la volontà divina » 18 • E qui, per la verità, gli equivoci che già da tempo, anche in virtù di queste linee (che in parte infatti ci sono note) , ci si sono rivelati intrinseci a questo concetto della religione ap­ paiono tanto più chiari in quanto è ben vero che della reli­ gione e del suo linguaggio Gentile è fermo nel rilevare la vena « immaginosa » e metaforica. Ma vero è anche che di questa metaforicità egli non fa poi se non tessere e ritessere gli ele­ menti concettuali senza porne in questione il quadro o la cor­ nice; e dell'oggetto che nella religione assume il carattere della separazione e dell'assolutezza, ma a tal punto è poi an18

Discorsi di religione, pp. 60

e

61.

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che coscienza del suo essere un oggetto assoluto e separato che, per questa via, la soggettività, che dovrebbe esserne ri­ gorosamente esclus a, invece vi si reintroduce, - dell'oggetto concepito così egli non rileva l'impossibilità e l'inconcepibilità intrinseche . Si limita, come sappiamo, a considerarlo « astrat­ to », separato, assoluto, ma astratto; e tale quindi che, in forza del suo essere puro oggetto, si oppone all'arte, che è puro soggetto. E a parte che per questa via non riesce a scor­ gere fino in fondo il dileguarsi inevitabile dell'opposizione (arte e religione) nell'identità formale degli astratti, è pur vero che, al pari dell'astratta soggettività dell'arte, l'oggetti­ vità astratta della religione non è, in quanto tale, incoerente. E invece lo è perché, ragionata nei termini in cui Gentile la pone, la relativa quaestio è ragionata in modo nient'affatto conforme a quel che il logo prescriverebbe, - il logo che, in effetti, prescrive quel che di sopra fu argomentato e a questo modo di considerare la questione non può non opporre se non un secco divieto. Insomma, della religione Gentile dice, e poi anche non dice, che è metafora; e, come anche si è osservato, è lui stesso che infatti ne concettualizza la metaforicità: in modo tale, per altro, che questa rimane una metafora, sì che è il concetto che si metaforizza e assume il volto della con­ traddittorietà. Della religione dunque Gentile non dice quel che, se fosse stato libero dalla coercizione su di lui operata dallo schema triadico di origine hegeliana che, agli inizi, aveva posto al centro del suo pensiero , avrebbe potuto . Ma dice bensì che « è » quel che viceversa, in qualche modo, pur dice che ad essa è vietato di essere . Vietato , si comprende bene, dal logo, il quale certo non può consentire (e nemmeno quello gentiliano dovrebbe) che l'oblio o addirittura l' annul­ lamento del soggetto nell'oggetto, che della religione costitui­ sce qui il tratto primario ed essenziale, implichi che sul serio quello « sparisca», si oblii o si annulli, e questo rimanga solo ed unico e incontrastato padrone del campo . Non può con­ sentirlo, e non lo consente, perché, assunto il concetto che il soggetto scompaia e lasci libero il campo all'oggetto, il logo è anche costretto ad assumere che lo sparire del soggetto abbia, per così dire, all a sua radice questo medesimo soggetto: il quale come potrebbe in effetti sparire se dello sparire è

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l'unico ed effettivo soggetto? Il che è poi abbastanza evidente da produrre almeno qualche indiretta conseguenza: com'è quella che emerge, si delinea e si dà a vedere quando si con­ sideri questo concetto dell'oblio che sembra in ogni senso so­ vrapponibile a quello dello « sparire » e dell'« annullarsi » e del dissolversi nel tutto, e sovrapponibile a questo invece non è . A sparire, ad annullarsi, a dissolversi s i assume infatti che sia l'essere dell'esserci, e l'esserci stesso: il quale infatti è bensì il soggetto di questo suo iter ad nihil (o ad nihilum, come di pre­ ferenza si scriveva nel latino medievale), ma, almeno nelle in­ tenzioni di chi sostiene questa tesi, in modo tale che, iniziata dall'essere, l'operazione si concluda nel nulla. Obliarsi è in­ vece altro dallo sparire, dall'annullarsi, dal dissolversi; e l'atto che lo realizza è come un sonno senza sogni nel quale, per l'effetto dell'oblio che ne deriva, l'anima e la coscienza spro­ fondano, andando bensì, come il giovane Giuseppe quando vi fu spinto dai fratelli, ad occupare la parte più bassa del Brun­ nen der Vergangenheit, ma pronte come lui a riemergerne quando l'occasione del risveglio si sia prodotta. Insomma, e con questo ci si avvia ormai alla conclusione, di dire quel che diceva Gentile non aveva alcun diritto; e notevole è che in queste medesime pagine nelle quali, senza che il trapasso sia segnato e avvertito, il non essere dell'uomo di fronte all'es­ sere di Dio assume il volto, il carattere e il colore dell'oblio, questo sia poi inteso come oblio non di tutto intero il sog­ getto, quanto piuttosto della sua libertà e del suo « spirito »: il che è tanto vero che è bene a causa di questa particolare per­ dita che, essendo tuttavia il soggetto, questo si piega, si pro­ sterna, posa la fronte sulla polvere e così, in queste condi­ zioni, prega, implora e si fa servo del dio. E questa è bensì una battuta importante che, fra le tante cose ambigue e anche sfuggenti che segnano di sé l'arco della riflessione attualistica sulla religione, merita di esser posta in evidenza per la net­ tezza con la quale l'intero cosmo della libera critica è riven­ dicato alla filosofia. Ma è tuttavia, nel contesto filosofico al quale appartiene, una battuta incoerente; perché, se l'uomo oblia sé stesso nella religione e nella situazione mistica che, come s'è detto, ne costituisce l'essenza, è tutto il suo essere , il suo intero sé stesso, che vi oblia: come conoscere e come

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fare, come libertà e come spirito . E non si comprende allora che cosa sia questo soggetto che, ciò non astante, rimane un soggetto, e prega e implora e si prosterna e invoca il soccorso che « lo metta in grado di adempiere la volontà divina ». Forse che è oblio il gesto stesso della invocazione, della pre­ ghiera, dell'implorazione? È esso stesso oblio l' atto del genu­ flettersi e del chinare il capo in segno di obbedienza? Domande che qualcuno considererà retoriche perché la ri­ sposta non può non essere che non è e non può essere oblio il gesto di chi invoca, prega, si genuflette e china il capo . Non è e non può essere oblio persino nel caso in cui s'intenda che è sull'oblio della libertà e dello spirito che sono nell'uomo che questo suo atto sorge : con la conseguenza, se è cosl, che al­ l' oblio fa riscontro il non oblio, fanno riscontro la coscienza e il possesso di sé; e la situazione delineata da Gentile si rivela, per una sua parte essenziale, difforme dalla sua definizione formale . Che è del resto (e con questo chiudiamo sul serio) quel che con tutta chiarezza si dà a vedere nelle pagine finali di questo « discorso ». Tacitamente, e certo senza averne com­ piuta consapevolezza, in queste pagine Gentile passa dalla concezione della religione come oggetto astratto che si con­ trappone all'astratto soggetto (arte) per culminare nella sintesi costituita dalla filosofia, alla concezione dell'oggetto inteso come logo astratto; nel quale ritrova quel che nell'altra c'è e non dovrebbe esserci: ritrova l'oggetto come oggetto astratto, esaurito nell'inesausta e sempre identica ripetizione del suo ritmo, ma anche, tuttavia, come « sistema », concetto, giudi­ zio, sillogismo e perciò come pensiero che, chiuso nella cor­ nice trascendentale del suo gesto, possiede anche il principio eterno del suo proprio oltrepassamento e superamento nel concreto . Alla analisi e alla critica di questa concezione è stato dedicato, ad opera di chi scrive, un ampio saggio 19 di cui questo può considerarsi una sorta di appendice . E a quello perciò occorre rinviare il lettore : dopo aver per altro rilevato che il non riuscito sacrificio del soggetto e perciò la sua te­ nace sopravvivenza nella concezione della religione come t9

C fr .

qui su pp . 167 sgg .

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astratta oggettività non sono forse senza connessione con la sua sotteranea e spesso obliqua presenza, che non si do­ vrebbe, e pur si è come costretti a notare nella concezione dell'oggetto inteso come logo astratto. ( 1 993)

NOTA

A proposito dei versi che sono stati citati qui su, nel testo, alle pp. 445-46, e che sia nella giovanile Storia della filosofia italiana, Mi­ lano s.d. [ 1 904/ 1 9 15], p. 1 02 (e se ne veda la dedizione nelle Opere, Firenze 1 962, XI, 1 32), sia nei successivi Discorsi di religione, p. 58, Gentile attribuiva senz'altro a Jacopone, non parrà inopportuna una piccola precisazione. Nel riferirli, né nel primo né nel secondo testo, Gentile dichiarava l'edizione della quale si era servito e che aveva sott' occhio; edizione che per certo non fu la princeps buonaccorsiana del 1 940, riprodotta da Giovanni Ferri (Roma, Società filologica ro­ mana, 1 9 1 0) ; poi Bari 1 9 15), che non include questi versi: i quali non appaiono del resto recuperati né nell'edizione lemonnierana della Ageno (Firenze 1953), né in quella di Franco Mancini per gli « Scrittori d'Italia » del Laterza, Bari 1 9 7 4 . Non è questa la sede (e chi scrive non ne avrebbe comunque la competenza) in cui possa pro­ cedersi ad una descrizione delle edizioni e delle parziali sillogi jaco­ poniche succedutesi, dopo quella del Buonaccorsi, fino agli anni in cui Gentile scriveva, presumibilmente fra il 1 904 e il 1906, le pagine che già sono state ricordate della Storia della filosofia italiana. E, la­ sciando da parte l'intricatissima questione della tradizione mano­ scritta, per quanto concerne le edizioni basterà tener conto, oltre che della Prefazione del Ferri alla prima delle sue due edizioni e di quel che scrisse N. SAPEGNO Frate ]acopone, Torino 1 926, pp. 183-92, di ciò che si trova nelle edizioni della Ageno e del Mancini. Poiché, come ho detto, Gentile non dichiarò di quale edizione jacoponica si servisse, e d'altra parte è pressoché impossibile indo­ vinare attraverso quale altro testo questi versi gli pervenissero, oc­ corre congetturare; e senza escludere altre ipotesi, la più probabile è che egli trovasse questi versi nell'edizione veneziana, 1 6 1 8 , del Tre­ satti (cfr . R. BETTARINI, ]acopone e il laudario urbinate, Firenze 1969, p. 435).

VII DEFINIZIONI DELL'ATTO PURO (CROCE, TILGHER, VINCIGUERRA)

Quando, nella Storia d'Italia dal 1 8 71 al 1 91 5 appena uscita ( 1 928) , Giovanni Gentile lesse le parole, per la verità terribili, che nel decimo capitolo Benedetto Croce aveva de­ dicate a lui e all'« idealismo attuale », definito un « non lim­ pido consigliere pratico » 1 , la sua reazione fu, sulle prime, violentissima. A Giovanni Laterza, che del libro crociano era l'editore, ma che anche delle sue lo era, aveva scritto di te­ mere che i loro rapporti si sarebbe presto « guastati » se con lui non avesse convenuto circa « la necessità di certi riguardi, che nessuna amicizia può far trascurare o calpestare » 2 . È dif­ ficile, sul fondamento di queste sole linee, dire se al Laterza Gentile in sostanza chiedesse che in una nuova edizione della Storia d'Italia quella parte del giudizio concernente l'idealismo attuale fosse cancellata. Ma sta di fatto che cosl la sua lettera fu interpretata da Croce; il quale, scrivendone a sua volta al Laterza che della protesta e forse anche della proposta genti­ liana s'era fatto interprete presso di lui, replicò che se nella seconda edizione egli avesse soppresso « quella frase », le avrebbe dato « un risalto straordinario », perché tutti allora avrebbero cercata la prima! « Farei (scriveva maliziosamente) 1 B. CROCE, Storia d'Italia dal 1 871 al 1 915, Bari 1928, pp. 254-5 5 . La lettera del Gentile al Laterza, 27 gennaio 1928, è leggibile i n Mo­ stra storica della casa editrice LAterza, Milano 16 novembre/ 1 6 dicembre 196 1 , p. 5 9 . Sulla rottura che infine ne conseguì anche con il Laterza, cfr. D. Cou, Croce Laterza e la cultura europea, Bologna 1983 , pp. 46 5 3 . 2

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come Gentile quando, nella prefazione a una certa Bibliogra­ fia bruniana, indicò all'indignazione un opuscolo di Tilgher, procurandogli la maggior réclame » 3 . Come che sia di dò, dopo averla per qualche tempo per­ duta, abbastanza presto Gentile riacquistò la calma; e fa­ cendo anzi mostra della grande pazienza della quale, se è tale , un filosofo deve dar prova, lamentò tuttavia che , nel giudi­ care l'idealismo attuale come l'aveva giudicato, e cioè come una filosofia che, attraverso il « sermon prisco » ravvisabile nelle sue formule si apriva non di meno allo « stil dei mo­ derni » e svelava in sé il fondo torbido del peggiore irrazio­ nalismo, Croce si fosse avvalso dell'« autorità d'interpreti pe­ scati tra i giornalisti di second'ordine orecchianti di filosofia, pur d'avere buon giuoco e riuscire comunque a far rientrare in un quadro di maniera, tutto ambrato d'irrazionalismo fu­ turistico, una filosofia già sempre giudicata panlogistica, e cioè crudamente razionalistica » 4 • I giornalisti « orecchianti d i filosofia » ai quali Croce aveva fatto ricorso non erano in realtà tanti quanti, a giudi­ care dalle linee gentiliane , ci si aspetterebbe dovessero essere . E si riducevano in effetti a uno solo, a Mario Vindguerra: un « giornalista », questo, che era qualcosa di più e di meglio di quel che con questo nome, e con i vari predicati che gli ag­ giungeva, il teorico dell'idealismo attuale intendeva. Era uno scrittore, non profondo, ma colto e non privo di finezza; del 3 La lettera di Croce è in Mostra storica, p. 60: ha la data del 29 gen­ naio 1 928. Per l'allusione che vi è contenuta a « una certa Bibliografia bru­ niana », cfr. la Prefazione di G. GENTILE a V. SALVESTRINI, Bibliografia delle opere di Giordano Bruno e degli scritti ad esso attinenti, Pisa 1 926, p. XIV , dove si legge: « in questa storia della fortuna del Bruno gli specialisti po­ tranno forse notare qualche piccola lacuna, e qualche indicazione superflua o insignificante. Quella che reca il n. 1237 avrebbe fatto bene il Salvestrini a non registrare, perché non accresce decoro a un libro cosl serio e cosl bello come il suo. Piccole mende, che vorrei augurare che si potessero correggere in una nuova edizione » . Il n. 1237 registra in effetti il libello tilgheriano . 4 Sulla Storia d'Italia Gentile intervenne con una nota Benedetto Croce, « Giornale critico della filosofia italiana », 9 ( 1 928) , pp. 79-80, che può ora leggersi tra i Frammenti di estetica e di teoria delkl storia, a cura di H.A. Cavaliera, Firenze 1992, II, 153-55 .

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quale Croce citava un piccolo libro, Un quarto di secolo. 1 900- 1 925, uscito appunto nel 1 92 5 presso le edizioni di Piero Gobetti, nel quale, seguendo in più punti il giudizio da qualche tempo formulato da Adriano Tilgher, l'idealismo at­ tuale era inserito nel quadro dell'irrazionalismo contempora­ neo e definito perciò come la « teologia del futurismo » 5 • L'al­ tro scrittore del quale, senza (chi sa perché) dirne il nome, Croce citava il giudizio che di recente aveva recato sull'idea­ lismo attuale e sul suo autore, nominato come il « mistico del­ l' azione », era Lorenzo Giusso 6; del quale sarebbe superfluo, in questa sede, discutere se fosse un giornalista di second'or­ dine e orecchiante di filosofia, o uno storico del pensiero ten­ dente al giornalismo, perché più utile è ricordare che, a dif­ ferenza del Vinciguerra, di Gentile era un grandissimo esti­ matore e che, nel definirlo come lo definiva, intendeva rivol­ gergli il più grande degli elogi. L'uso che perciò Croce aveva fatto del suo giudizio, che non a torto, e intenzione a parte, gli sembrava convergesse, con quello formulato dal Vinci5 M. VINCIGUERRA, Un quarto di secolo. 1 900- 1 925, Torino 1925, p. 3 1 . Ma converrà ricordare che, a giudizio del Vinciguerra (e questo è il cen­ tro della sua interpretazione), la filosofia di Gentile divenne « cultura », e cultura in certi ambienti, sopra tutto giovanili, dominante, negli anni della prima guerra mondiale, quando coloro che non erano stati in grado di co­ gliere nella sua unità e complessità il pensiero di Croce « trovarono [ . . ] uno sbocco naturale e una compiacente giustificazione in un'altra forma teorica, che per la facile formulazione e per la sua stessa schematica rigidità, toglieva l'assillo del continuo controllo mentale, che è la valvola di sicurezza del­ l' idealismo critico ». 6 L'articolo del Giusso che, senza nominare l'autore, Croce citava (Sto­ ria d'Italia , p. 336) come Il mistico dell'Azione, nel giornale Il lavoro d'Italia, 3 novembre 1927, s'intitola in realtà Gentile. Il mistico dell'Azione; e in­ nanzi di citarlo, osservava: « gli odierni laudatori notano, in altro tono, le stesse cose, e anche più gravi » (di quelle, dovrà intendersi, rilevate dal Vin­ ciguerra) . E nel suo articolo il Giusso scriveva fra l'altro: « l'imperativo del­ l'attualismo non è: definisci, rifletti, contrapponi te a te, - ma piutto­ sto: - realizza ». Che poi, con quel che segue, questo proprio fosse l'attua­ lismo, soltanto il Giusso poteva crederlo sul serio. Ma questa è ora un'altra questione, che soltanto in parte potrà essere toccata in questo saggio, che pure è dedicato alla differenza che, fra qualche somiglianza, deve sapersi co­ gliere fra interpretazioni come queste, e l'altra, in precedenza delineata da Croce. .

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guerra, nello stesso segno, era polemicamente insidioso; e a confermarlo in questo carattere era proprio Gentile, che se giudicava alla stregua di un « orecchiante di filosofia » chi lo aveva definito come il « teologo del futurismo », perché non avrebbe dovuto giudicare allo stesso modo chi in lui aveva ravvisato, e sia pure con positiva intenzione, il « mistico del­ l' azione »? In realtà, la questione che, quasi senza rendersene conto fino in fondo, con questa sua osservazione Gentile poneva, non riguardava la « strana modestia » di Croce che, per giudi­ care il suo idealismo, s'era rivolto a Mario Vincinguerra. « Modesto » in quel senso mai Croce avrebbe potuto essere definito, nemmeno per una sorta di ironica /ictio polemica. E certo egli non aveva avuto bisogno di leggere il libretto del Vinciguerra per imparare che cosa fosse la teoria dello spirito come atto puro; che, come nella Storia d'Italia puntualmente ricordava, era stata da lui criticata in pubblico, e con deci­ sione, fin dal 1 9 1 3 , senza che negli anni successivi la nettezza della sua opposizione filosofica si attenuasse e temperasse 7 • La questione che nella sua breve replica Gentile poneva ri­ guardava in realtà il possibile mutamento, se non del giudi­ zio·, almeno della sua intenzione generale e della sua intona­ zione, se è vero che una filosofia già considerata come panlo­ gistica e perciò « crudamente razionalistica » era ora ritratta da Croce come espressione di tutt'altro, di irrazionalismo e di decadentismo . E poiché senza, come s'è detto, esserselo proposto, con la sua battuta Gentile sollevava una questione autentica, che conviene perciò non lasciar cadere , assumia­ mola dunque, facciamola nostra, cercando innanzi tutto di di­ stinguervi quel che vi sia di confuso, di parziale e di poco -

7 Non è questa la sede nella quale possa ricostruirsi la storia della varia polemica che contrassegnò il rapporto dei due filosofi. Per un quadro, non soltanto filosofico, ma sopra tutto storico e psicologico, delle questioni in­ sorte dalla decisione crociana di rendere pubblico, nel 1 9 1 3 , il conflitto teo­ retico che sottendeva la collaborazione e l'amicizia, cfr. il mio articolo In margine alla discussione tra «filosofi amici ». Un carteggio di Giovanni Gen­ tile con Fausto Nicolini, « Cultura >>, 29 ( 1 9 9 1 ) , 3-60 ( = Filosofia e idealismo, l , 467-543).

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chiaro, e di cogliervi invece quel che vi si presenti con il se­ gno della verità. La questione è definibile in questi termini, che non sarà inopportuno rendere espliciti. In quel che nel suo libretto il Vinciguerra diceva di Gentile e dell'idealismo attuale il giu­ dizio che su questa filosofia Croce aveva formulato nel 1 9 1 3 è certo presente . Ma può perciò anche dirsi che, nel formu­ lare il suo, di quello assumesse tutti i temi e li svolgesse nella direzione che la sua logica interna indicava? Oppure deve piuttosto ammettersi che, presupponendone alcuni, sopra tutto ad altri egli desse voce e risalto : ad altri che in Croce erano stati fin lì o soltanto impliciti o senz' altro assenti? In realtà, alla radice della valutazione che il Vinciguerra forniva di Gentile, dell'idealismo attuale e del suo significato cultu­ rale, anche altro agiva. Agiva, come già s'è detto, anche l'in­ terpretazione che da vari anni ormai Adriano Tilgher aveva delineata dell' attivismo e dell'irrazionalismo contemporanei. Ed è questa una circostanza da tenere presente, perché sarà vero che all a radice, a sua volta, di questa interpretazione è presente anche la caratterizzazione critica che, fin dal 1 9 1 3 , dell'idealismo attuale era stata data da Croce . Ma è anche vero che sarebbe indizio di scarsa finezza critica ridurre l'una all'altra, come se nascessero da una fonte o da un convinci­ mento in ogni senso comuni; come se, al di là di qualche dif­ ferenza d'accento, dicessero lo stesso, e l'affinità che per un verso le segna di sé fosse tale da togliere ogni importanza a quel che invece hanno, nel fondo, di diverso . Sarebbe indizio di soltanto debole consapevolezza non considerare che se per certi aspetti giunsero a convergere è pur sempre da presuppo­ sti diversi che, innanzi di mescolare le loro acque, le interpre­ tazioni di Croce, di Tilgher e di Vinciguerra avevano preso l'avvio . Occorrerà perdo, queste interpretazioni, cercare di distinguerle con cura; e, cominciando da quella di Croce 8 , e 8

Che Tilgher conoscesse bene gli scritti crociani del 1 9 1 3 è fuor di dubbio : sulla polemica insorta in quell'anno tra i due filosofi amici, egli aveva scritto un articolo, La polemica Croce-Gentile, « Rassegna contempo-

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con l'occhio rivolto alla difficoltà che, nel delinearsi, essa fa come emergere dal fondo di sé stessa, decidere se in ogni suo aspetto sia questa la vera ispiratrice del Tilgher e del Vinci­ guerra, e della tendenza che entrambi dimostrarono alla tra­ sfigurazione « culturale » della critica filosofica. Il nucleo della critica che nel 1 9 1 3 Croce rivolse all'idea­ lismo attuale di Giovanni Gentile sta nelle linee nelle quali è detto che il « significato » che gli attualisti attribuivano al­ l'« attualità » non si risolve nel rifiuto opposto alla « distinzio­ ne resa astratta », ma nel rifiuto bensì opposto ad ogni « di­ stinzione », perché astratto era per loro l'esercizio stesso del distinguere, ed essi in effetti affermavano non il « concetto concreto (unità nella distinzione) , ma la concretezza senza concetto ». « Voi - obiettava rivolgendosi non solo a Gen­ tile, ma ai filosofi che a lui si ispiravano e lo assumevano come guida e maestro - , voi volete starvene immersi nell'at­ tualità, senza veramente pensarla; perché pensare è unificare distinguendo e distinguere unificando, il che voi considerate come un trascendere l'attualità ». E continuava: « perdonate: ma codesta è la schietta posizione mistica, e si esprime, o piuttosto non si esprime nell'Ineffabile. Il vostro atto puro, che voi chiamate Pensiero, si potrebbe del pari chiamarlo Vita, Sentimento, Volontà, o in qualunque altro modo , perché ogni denominazione, importando una distinzione, è qui non solo inadeguata, ma indifferente » 9• E comunque si adattasse ad esprimere il senso compiuto dell'idealismo at­ tuale, questa era un'osservazione, non solo pungente, ma acuta, molto acuta: come si arriva a comprendere se, invece di banalizzarla in una qualsiasi formula « culturale », si cerchi di coglierne il centro, che consiste non solo e non tanto nel­ l' accusa di misticismo, quanto nella sua specificazione filoso­ fica, e perciò nel rilievo dell'indifferenza in cui, le piaccia o no , questa filosofia viene di necessità a trovarsi nei confronti ranea », 25 gennaio 1 9 1 4 , pp. 327-3 1 , nel quale non aveva nascosto che era con il secondo, e non con il primo, che il suo accordo era maggiore. 2 9 B. CROCE, Conversazioni critiche, Bari 1 924 , Il, 68-69 .

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del pensiero, del sentimento, della vita, della volontà. Il suo carattere essendo l'« indistinzione », e ogni forma che in qual­ che modo vi interviene e vi mostra il suo volto non essendo perciò una « forma », nessuna di quelle indicate qui su può sul serio aspirare ad esprimerne l'essenza, - non il pensiero, ma nemmeno il sentimento, la vita, la volontà. Dire pensiero « equivale » infatti a dire sentimento vita volontà, e cosl via anche nel senso inverso . Ma il punto serio della questione è che con tale radicalità questi « termini » si « equivalgono », e non si distinguono, da doversi addirittura concludere che, poiché non si distinguono, proprio per questo nemmeno si « equivalgono » . Il concetto di « indistinto » è di per sé stesso irto di difficoltà ed intrinseche complicazioni; e più che pro­ blematica è perciò la sua assunzione . Ma certo è che, posto che lo si assuma e si possa assumerlo, allora deye anche dirsi che dove c'è indistinzione non si dà alcuna possibilità di rap­ porto, nemmeno di quello che pur si stabilisce fra termini nei quali si riconosca « uguale valore ». E ne consegue dunque che se il senso della battuta polemica che rivolgeva all'attualismo fosse stata svolta verso il suo esito necessario, e a proposito della « indistinzione » Croce si fosse chiesto come possa co­ munque costruirsene il concetto, come altresl possa costruirsi quello dell'« equivalenza » e l'uno possa essere posto in rela­ zione con l'altro, gravi e non facili questioni si sarebbero pro­ filate all'orizzonte della sua analisi. Le difficoltà alle quali si è accennato avrebbero rivelato il loro volto . E se ne avesse fino in fondo svolto il senso, la sua analisi dell'attualismo ne sa­ rebbe essa stessa stata per intero coinvolta. Ne sarebbe stata coinvolta perché, ed è evidente, mentre per un verso l'indi­ stinzione suppone il distinto o i distinti, se ne distingue e, se se ne distingue , non è indistinzione, per un altro, nel distin­ guersi, i distinti rivelano il loro essere identicamente distinti, e dunque identici, non distinti. Situazione complessa, come si vede , e anche intrincata; che, comunque sia destinata a svolgersi nell'analisi teoretica che eventualmente se ne intraprendesse, una conseguenza, per certo, ne emergerebbe. E questa è che se è indistinzione (di teoria e prassi, di intelletto e volontà, di concetto e rap­ presentazione) , è ben vero che dell'idealismo attuale non

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potrà dirsi che è teoria, che è intelletto, che è concetto, ma allo stesso titolo per il quale è altresl vietato di definirlo come volontà, come vita, come rappresentazione. L'idealismo at­ tuale è, a giudizio di Croce, indistinzione . Non è né intelletto né prassi, né teoresi né volontà. Ma a parte la difficoltà che si rivela intrinseca all'esercizio della negazione dell'intelletto come della prassi, della teoresi come della volontà, che deb­ bono pur essere, ed essere distinti, perché di essi possa dirsi che « non » lo sono, e sono indistinti; ferma altresl restando l'esigenza di capire che cosa sia questo « indistinto » che, qua­ lunque cosa sia, indistinto è tanto poco che, per assumerlo, non solo si deve in qualche modo « distinguerlo » dal distinto e farne perciò un distinto, ma, addirittura, si può prenderlo come il predicato di un soggetto denominato « idealismo at­ tuale », - altro resta da osservare e almeno un' altra conse­ guenza deve al riguardo essere tratta. Deve infatti aversi chiaro in mente che se, nel quadro dell'interpretazione cro­ ciana, l'idealismo attuale fosse assunto nel senso del panlogi­ smo, questo dovrebbe a sua volta esser preso nel senso del­ l'indistinto . Il lego infatti è distinzione; e dove questa man­ chi, il lego non è che indistinto. Ma se è indistinto, non è lego (anche se poi resti, o si riproduca, la questione del suo poter comunque esser detto e definito « indistinto ») . Donde, fra le altre cose, le due diverse direzioni interpretative che la critica crociana dell'idealismo attuale conteneva in sé (dire­ zioni diverse e di problematico accordo) ; e l'esigenza di te­ nerle distinte e non confonderle . Come che di ciò sia e debba essere, rimane che da questo concetto, che costruisce e definisce l'idealismo attuale nel se­ gno dell'indistinzione, discendono, a guardar bene, le altre caratterizzazioni che, nel corso della polemica del 1 9 1 3 e poi anche in seguito, Croce ne ha fornite . A cominciare, natural­ mente , dalla più impegnativa e ricca altresl di conseguenze, ossia da quella concernente l'impossibilità in cui, venuto meno il criterio della distinzione delle forme spirituali e, in primo luogo, della teoria dalla prassi, e di questa dalla teoria, Gentile si sarebbe involto di dar conto dell'errore e della sua

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specifica fenomenologia 10• Osservazione grave, che in questo scritto intonato all' amicizia, oltre che alla critica, Croce cer­ cava in ogni modo di controllare nelle sue conseguenze, di li­ mitare ed attenuare, parlando della « depressione » che, al di là di ogni soggettivo intento, questo idealismo produceva nella sfera morale, e ottenendo tuttavia, in tal modo, il risul­ tato di averla, se possibile, resa ancora più grave, perché la cosa è sempre più forte dell'intenzione, che può essere ot­ tima, ma, se è inserita in un contesto mal disposto a riceverla, finisce anch'essa per esserne ed esservi travolta . La conse­ guenza filosofica era comunque che dalla « depressione » che l'idealismo attuale induceva nella vita e nella coscienza mo­ rale, Croce deduceva il suo effettivo risolversi in una forma di fenomenismo e positivismo, nella quale era più che discu­ tibile che potesse parlarsi di verità e anche, naturalmente, di moralità. E dell'impossibilità che nel quadro di questo ideali­ smo potesse costruirsi un'etica Croce fece sempre un punto fermo della sua polemica 1 1 ; e nella replica che alcuni anni più tardi, in una lettera privata, oppose all a replica che Gentile aveva data alle sue critiche , scrisse che di una cosa sola si do­ leva, e cioè che l'amico l'avesse rinviato ad una trattazione, appunto di etica, che ancora non era stata scritta 1 2 (e che, a suo parere, era impossibile che potesse esserlo) ! Strette nella connessione concettuale in forza della quale si presentano come le parti di un tutto, sono queste, com'è noto, le conseguenze che Croce deduceva dal principio, quale allora era stato determinato, dell'idealismo attuale . E se lo scopo di queste pagine fosse di scendere alla radice più profonda della polemica del 1 9 1 3 , occorrerebbe affrontare la difficile quaestio dell'errore che, indeducibile nel quadro del­ l' attualismo, non lo è di meno in quello della filosofia dello spirito. È una questione, e, non occorre ribadirlo, delle più ardue; e qui basti considerare che l'errore finisce per assuConv. crit. , II, 74-78, 93-94, passim. Ibid. , p. 93 . La lettera, del 22 gennaio 1920, in Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A . Croce, Milano 1 98 1 , p. 592 . 1° 11 12

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mere, nel pensiero di Croce, un curioso volto bifronte . Poi­ ché, in sé stesso, è negatività, non può a rigore essere né verità (teoresi) , né prassi; le quali infatti sono « forme », sono positività, sono in sé stesse risoluzione eterna del di­ svalore nel valore . E per essere, e poter tuttavia essere, de­ finito come errore, è necessario supporre che in qualche modo, partendo dalla verità (nella quale non può tuttavia stare come errore) , questo proceda nella direzione della prassi, ed errore sia non in questa, ma nel suo tendervi at­ traverso il processo, perché è pur chiaro che se non può es­ ser tale nella verità, nemmeno l'errore può esserlo nella prassi che, in quanto prassi, è positività, è valore, e non è errore. Se tuttavia l'errore fosse errore nel processo del suo diventarlo, questo, il processo, sarebbe verità, non errore: ché se errore, e non verità, fosse il processo attraverso il quale si assume che l'errore si faccia errore, non sarebbe vero che nel processo l'errore si fa errore. Ma se è cosl, e verità, non errore, è il processo nel quale l'errore diventa, o « si fa », errore, come dunque è possibile che l'errore stia in un processo che è verità? Ne consegue, se è cosl, che, as­ sunto come necessariamente vero il processo attraverso il quale l'errore si fa errore, è impossibile che nel processo del suo diventare errore l'errore sia errore . E allora? Forse la difficoltà si risolve assumendo che l'errore stia innanzi al processo del suo diventare, attraverso il processo, errore? No di certo, perché è attraverso il processo che si assume il suo poter diventare errore. E se, d'altra parte, l'errore fosse tale innanzi al processo del suo diventarlo e, proprio come errore a questo desse l'inizio, l'inconseguenza consistente nel porre l'errore come condizione del suo diventar tale sarebbe ancora poca cosa rispetto all'altra, che si rende manifesta quando si consideri che, preso come inizio di qualcos a, l'er­ rore è un inizio, e se è un inizio « è » , se « è », non è errore . Se, come anche da questi pochi accenni può vedersi, la questione dell'errore è la più spinosa che, entrambi rimanen­ dovi coinvolti, non solo Gentile, ma anche Croce, si trovas­ sero dinanzi, è pur vero che era sulla sua « premessa» che il secondo dei due insisteva nella critica che rivolgeva all' altro . E la premessa era costituita dal tema della distinzione (e del

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suo contrario) . Ma, se è così, allora è alla sua luce che oc­ corre considerare il rilievo che negli scritti del 1 9 1 3 Croce deduceva dall'incapacità, o comunque si debba definirla, che gli attualisti dimostravano nei confronti della distinzione: il rilievo, si vuoi dire, relativo al « volere », questi, « starsene immersi nell' attualità, senza pensarla » . E considerandolo alla luce della distinzione, e anzi, piuttosto, dell'indistin­ zione nella quale gli attualisti rimanevano immersi, occorre altresì precisarlo nel senso che non può essere la volontà che in questo quadro viene ad occupare il centro del quadro e a determinare il carattere dell'idealismo attuale, perché la vo­ lontà è forma, e, se è forma, è per ciò stesso distinzione . E nemmeno ad occupare il centro del quadro e a determinare il carattere dell'idealismo attuale può essere la volontà che sia la volontà a prevalervi e a determinarne il carattere ; perché anche qui la volontà è forma e il suo affermarsi è perciò l'affermarsi della distinzione, non dell'indistinzione . Il che, salvo errore, conduce alla comprensione del punto es­ senziale: e cioè che per interpretare l'idealismo attuale come il pendant idealistico dell'irrazionalismo, del decadentismo, dello « slancio vitale » e magari della « volontà di potenza», quale allora s'intendeva che fosse, occorre insistere non sulla volontà, non sul pensiero, non sul prevalere (che suppone pur sempre la distinzione) della prima sul secondo, o di que­ sto su quella, ma sull'indistinzione (anche se poi, a questo riguardo, sia inevitabile assumere l'« indistinto » nella sua vera luce, e mostrarne, sia concessa la metafora, l'ardua tes­ situra aporetica, o, se si preferisce, l'impossibilità concet­ tuale) . -

Questa incertezza nell'uso del concetto dell'indistinto e quindi anche , per converso, della stessa distinzione, - que­ sta incertezza che, a rigore, appartiene ad entrambi i pensa­ tori che si affrontavano in questa disputa, meritava di essere notata e posta in rilievo, perché dell'interpretazione che Croce dette dell'attualismo costituisce non solo un aspetto importante, ma anche la ragione per la quale dal rilievo di panlogismo e di panvolontarismo egli ha creduto di poter pas-

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sare a quello di « indistinzione » e da questo, senza alcuna dif­ ficoltà, di poter ripassare al primo: quasi che fra la sua tesi e quella del Tilgher e poi del Vinciguerra non ci fosse sostan­ ziale differenza, e l'una potesse essere risolta nell'altra, nel se­ gno, giova aggiungere , della transvalutazione culturale della critica filosofica. La tesi del Vinciguerra, alla quale Croce fece riferimento nelle « annotazioni » apposte al decimo capitolo della Storia d'Italia, fu esposta, e già lo si è ricordato, in un volumetto pubblicato due anni innanzi a quello in cui il capitolo fu re­ datto, nelle edizioni torinesi del Gobetti; e, come anche si è ricordato, non è senza connessioni con quella che, in tema di attivismo, futurismo, relativismo, pirandellismo, il Tilgher aveva preso a svolgere già negli anni del primo conflitto mon­ diale, e poi subito dopo, quando completo fu lo spettacolo della desolazione e della rovina che questo aveva provocate nelle cose e nelle coscienze europee 1 3 . N o n è questa la sede nella quale si possa ricostruirla, questa sua tesi, non soltanto nel suo profilo culturale e etico-politico, ma anche nei nessi che, per cosl dire , stabiliva con la biografia e la filosofia di colui che, avendo pubblicata nel 1 9 1 5 una precoce Teoria del pragmatismo trascendentale, e da poco, a guerra appena con­ clusa, il libro che intitolò a La crisi mondiale, attraverso que­ sto percorso aveva cominciato a dimostrare con chiarezza fino a che punto, non diverso in questo da Guglielmo Perrero e, sopra tutto, da G.A. Borgese, nel dramma che aveva preso a descrivere si trovasse ad essere involto 14 • Ma questa è tut­ tavia la sede nella quale è invece, non solo possibile, bensl an­ che necessario, ricordare che per Tilgher il carattere della 13 Cfr. qui su n. 5 . Ma per il giudizio recato dal Vinciguerra su Tilgher e sullo stesso Pirandello, visto con gli occhi del primo, cfr . Un quarto di se­ colo, pp . 5 1 -63 , 63-65 . Sull'evoluzione dell'interpretazione tilgheriana di Pi­ randello, non occorre intrattenersi qui. 14 Varie considerazioni sul Tilgher (al quale converrebbe comunque de­ dicare maggiore attenzione specifica, sia in sé sia nel quadro della cultura della prima metà del secolo) sono nel mio Tramonto di un mito. L'idea di 'progresso ' tra Otto e Novecento, Bologna 1989 2 , pp. 47-64, 68-74 .

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grande crisi era rappresentabile, in sostanza, nel ritmo « sto­ ria/antistoria »; che a sua volta, assunto come canone inter­ pretativo , stava per lui ad indicare e a spiegare perché dallo storicismo del secolo decimonono, interpretato come teoria del fatalismo, come signoria dei morti sui vivi, del passato sul presente, e come espressione, quindi, della borghesia conser­ vatrice, si fosse generata la violenta reazione « relativistica » e « scettica » in ragione della quale « se tutto è buono e giusto a suo tempo e a suo luogo, se la verità di oggi sarà l'errore di domani, dov'è più criterio della distinzione della verità dal­ l'errore? [ . ] Tra verità e menzogna non v'è più differenza di natura, ma solo di grado . Tutto è finzione in diverso grado utile a promuovere gli scopi della vita. E poiché manca un punto assoluto d'orientamento e di riferimento, ma i punti sono infiniti, come infiniti sono i centri vitali interessati a conservare ed a promuovere sé stessi, ad ognuno di questi viene riconosciuto il diritto di foggiarsi un mondo di fanta­ smi, della cui erroneità o verità, cioè della cui utilità, in de­ finitiva solo il successo sarà giudice. Alla vita, all'azione viene cosl riconosciuta una supremazia assoluta sulla intelligen­ za» 15 . A questo autentico assalto che, in nome di sé stessa e del suo buon diritto di affermare la sua propria essenza, la vita rivolgeva contro la mortificazione storicistica del presente e del futuro, collaboravano, secondo Tilgher, e davano il loro contributo, i più grandi rappresentanti dello spirito contem­ poraneo, gli interpreti e sopra tutto i testimoni della grande « crisi mondiale ». E come, alla radice di tutto questo, egli co­ glieva la presenza del più grande critico dello storicismo e del più radicale eversore dei valori borghesi che il secolo decimo­ nono avesse generato dal suo interno, e cioè Fr . Nietzsche, cosl i temi della sua critica li ritrovava dovunque . Li ritro­ vava in Hans .Y aihinger e nella filosofia del « come se»; li ri­ trovava nell' Untergang des Abendlandes di O . Spengler; li ri­ trovava, sia pure in forma indiretta, persino in Albert Ein­ stein, interpretato come una sorta di Eraclito o, magari, di . .

1 5 A. TILGHER, Relativisti contemporanei, Roma 1 92 1 , pp. 28-29.

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Cratilo, del « tutto si relativizza » 16 e come perciò un eversore « terribile », la cui teoria è « non solo cronologicamente, ma anche idealmente » contemporanea « a quelle che in filosofia è il pragmatismo, in economia il capitalismo dei trusts o altri­ menti associato, in politica l'imperialismo, in arte il titani­ smo, l'energetismo ». E nella teoria della relatività si espri­ meva perciò, a suo giudizio, la medesima intuizione del mondo, o della vita, per la quale lo spirito si rifiuta « di am­ mettere una verità, una giustizia, una bontà, in una parola, un ordine teoretico o pratico di valori che abbia esistenza in sé, indipendente dalla sua attività, e dinanzi al quale non gli rimanga che inchinarsi e prenderne atto » 1 7 • Lo « spirito » consisteva perciò, in questa filosofia o visione del mondo, nel « respingere sempre più oltre il limite»; e questo è ciò che « fa il destino e la grandezza dell'uomo ». L'« essere » cedeva il campo al « fare » : e come lo spirito coincideva perciò con que­ sto suo perenne muoversi oltre e al di là di ogni limite che fosse stato per l'innanzi conseguito, così « la verità non » era « più in un'immaginaria equazione » che esso stabilisse « con ciò che è fuori di lui, e che, se è fuori di lui, non si vede in che modo egli potrebbe toccarlo e apprenderlo: essa è nel­ l' atto del pensiero che pensa, e si sposta con questo pensiero, verità oggi, errore domani » 18 . E di qui, simpatizzando tutta­ via col fenomeno che descriveva e, non senza vivacità di ac­ centi, ritraeva nel suo carattere essenziale, Tilgher ricavava l'estrema conseguenza. Gli sembrava in effetti che, caduti sotto i colpi della critica einsteiniana i principi newtoniani af­ fermanti « l'esistenza di uno spazio di un tempo di un movi­ mento di una materia in sé, obiettivi e assoluti », nulla più s'opponesse all'affermarsi del « mobilismo universale », e la vecchia immagine del mondo fosse per sempre andata in pezzi, giacesse infranta in guisa tale che nessuno poteva più seriamente pensare di restaurarne l'unità. Se è così, due conseguenze s'impongono a chi di questa 16 Ibid. , 1 1 Ibid. , 1 8 Ibid. ,

p. p. p.

33. 39. 40.

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sequenza interpretativa cerchi di cogliere il carattere essen­ ziale . La prima, già accennata, riguarda il coinvolgimento nel quadro dell'autore stesso che lo delineava e dipingeva; e in modo tale egli infatti lo dipingeva che di andare a farne parte gli era tanto vietato quanto per contro era impossibile che, pure in qualche modo criticandolo, non ne condividesse il de­ stino . La crisi insomma era colta e descritta mediante le ca­ tegorie stesse che ne esprimevano il carattere, o l'essenza: il diagnosta soffriva del male che diagnosticava. E questo è un punto da tener fermo con forza, perché è qui che in effetti può cogliersi la ragione profonda dell'ambiguità che, nell'in­ sieme, caratterizza la posizione assunta dal Tilgher nei con­ fronti non soltanto del mondo moderno, ma della stessa dia­ gnosi che ne forniva. Il mondo moderno era da lui descritto nei termini del, come si esprimeva, « mobilismo universale », del perenne oltrepassamento dei limiti, come l'intrinseca ne­ gazione di ogni « obiettivazione » che pretendesse di frenarne e fermarne lo slancio vitale; e poi anche, nello stesso tempo e senza quindi che di ciò egli mostrasse di avere distinta con­ sapevolezza, come l'assoluta intrascendibilità di questa sua perennemente rinnovantesi trascendibilità: in termini, dun­ que, non soltanto , come avviene nella prima battuta, di atti­ vità e libertà, ma anche, come avviene nella seconda, di ne­ cessità e di fato. Donde, deve ripetersi, la profonda ambi­ guità del Tilgher; che nell'atto in cui costruiva il senso della rivolta che la nuova cultura aveva scatenata, in nome della vita, contro la storia, in nome dell'attività, contro la neces­ sità, in nome del « dover essere » contro l'immobilità dell'es­ sere , era pur sempre nel quadro della storia interpretata come necessità e destino che includeva questa ribellione contro la necessità e contro il destino . E donde ancora la debolezza e incertezza del suo pensiero che, dalla lotta combattuta contro lo storicismo del diciannovesimo e del ventesimo secolo, e contro la pesante àvò:yKTJ che ne costituiva l'essenza, era uscito profondamente provato e privo di un sicuro criterio di orientamento: come si comprende se si considera che, non potendo neppur lui tornare al concetto della verità obiettiva e ai valori che il mondo moderno aveva infranti, oscillò a lungo, ostile non meno al nuovo che al vecchio mondo, fin-

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ché, non senza aver cercato lui pure conforto nella « filoso­ fia » di Leopardi, infine trovò (se la trovò) pace nella costru­ zione di una teoria del « casualismo critico », notevole meno per la forza concettuale che non per l'ostentazione compia­ ciuta del pessimismo che vi era dichiarato . Strettamente connessa a questa, della quale è addirittura un aspetto, l'altra conseguenza riguarda l'interpretazione che Tilgher delineava e svolgeva dell'idealismo attuale di Gio­ vanni Gentile. Che, poste le premesse che velocemente sono state passate in rassegna, egli dovesse considerarlo come som­ mamente espressivo dello spirito della contemporaneità, e quasi come la sintesi perfetta del faustismo romantico da Gu­ glielmo Perrero e da lui stesso, Adriano Tilgher, innalzato a categoria di ciò che, appunto, è contemporaneo, è evidente, e si spiega. Dopo aver intuito al fondo della « crisi » del Nove­ cento , il volto di Giovanni Gentile, in questo coglieva il ri­ flesso della crisi, - qualcosa come il suo compendio. Nel sag­ gio dedicato a Einstein aveva parlato della verità come iden­ tica all'atto del pensiero che pensa, e che perciò si sposta al­ l'infinito in avanti, vera oggi, non più vera domani. E sebbene l'interpretazione fosse alquanto banalmente deli­ neata, perché , posto che l'atto abbia un oggi e un domani, è pur sempre lo stesso atto quello che oggi e domani si defini­ sce-· così (con la conseguenza che sono se mai l' « oggi » e il « domani » a trovarsi in difficoltà nei confronti dell'atto, non questo nei confronti dell'oggi e del domani) - sebbene, dun­ que, l'interpretazione non andasse al di là della brillantezza giornalistica e, rispetto alle questioni poste dall' attualismo, suonasse alquanto facilior, era tuttavia di certo a Gentile che egli qui si riferiva. Con la conseguenza, se è così, che non fa meraviglia che nel capitolo dedicato, nei Relativisti contempo­ ranei, al suo pensiero , egli vi indicasse « l'ala estrema del re­ lativismo e dell'attivismo contemporanei » 19; mentre è pur vero che qualche meraviglia suscitano l'avversione, la vena d' antipatia, il sentimento di ribellione che, malgrado tutto, 1"

Ibid. , p. 6 1 .

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giunto dinanzi a questa che pur considerava come una radi­ calizzazione e rigorizzazione del principio della contempora­ neità, Tilgher non riusciva a reprimere in sé: quasi che, dopo aver assistito con gioia al crollo dello storicismo ottimistico, e della stessa storia, sotto i colpi vibrati ad entrambi, e al fa­ talismo che ne è il comune predicato, da Nietzsche e dai suoi diretti e indiretti discepoli, egli non potesse poi, contemplate e considerate le conseguenze estreme dell' « antistoria », non ritrarsene con un moto irresistibile di orrore. Nell'idealismo attuale Tilgher aveva in effetti incontrato il soggetto assoluto, l'Io trascendentale, lo spirito, anch'esso assoluto, « di cui gli spiriti finiti non sarebbero che espres­ sioni ed aggettivazioni »; e contro queste supreme ipostasi, che costituivano altresl per lui il culmine della mistificazione storicistica, e contro le quali, non soltanto nel nome di Nietz­ sche ma più tardi, come si è accennato, anche in quello di Leopardi, mai, fino all'ultimo giorno della sua vita, si stancò di combattere, la sua polemica, appunto, non conobbe un giorno di tregua. Nella filosofia di Gentile intese perciò sve­ lare i segreti e, come si è detto, la mistificazione, perché altra vi era in effetti l' apparenza, altra la verità obiettiva della cosa; e mentre la prima parlava in favore della « storia come progresso », quindi come la ragione stessa nella sua concre­ tezza, la seconda parlava invece tutt'altro linguaggio. Ed era alla negazione, non all'affermazione, del progresso che nei fatti metteva capo . Il progresso è possibile - tale era l'opi­ nione che il Tilgher esponeva - solo dove la realtà non sia « di colpo tutto ciò che può essere », ma si venga bensl « man mano facendo , cioè restaurando nella sua purezza originaria, reintegrando nel suo essere primordiale , rientrando nella na­ tura ed essenza dalla quale si era alienata e decaduta ». E con­ verrà !asciarne intera a lui che la esprimeva in questi termini la responsabilità: essendo evidente che se sul serio consistesse nella restaurazione, nella reintegrazione e infine nella restitu­ zione dell'unità originaria il progresso non sarebbe tale nel se­ gno che gli si vuole invece riconoscere, della novità e dell'in­ cremento. Rimane tuttavia che, a giudizio del Tilgher (e quest' osser­ vazione non sarà un modello di profondità, ma almeno non è,

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come invece la precedente, implausibile fino al limite dell'as­ surdo) « una realtà che in ogni momento » sia tutto ciò che può essere, un atto che « in ogni determinazione » possieda « tutta intera la sua perfezione (qual è l'atto puro del pensiero secondo l'idealismo attuale) , - una realtà siffatta non può muoversi né, tanto meno, progredire »: con l'ulteriore conse­ guenza che nessun valore e nessuna differenza di valore è possibile introdurre nel suo quadro. « E senza differenza di valore com'è possibile lo sviluppo, il progresso, la storia? ». Domanda perentoria, e che evidentemente non richiedeva ri­ sposta: anche perché il Tilgher ne traeva un eloquente e per lui essenziale corollario. Gli sembrava infatti che l'« atto puro dello spirito » si spezzasse « in infiniti centri di azione, asso­ lutamente equivalenti » e che, per giungere di qui all' afferma­ zione del relativismo, dell'individualismo, anzi, addirittura, dell'anarchismo non vi fosse che da compiere un breve passo: dopo di che poteva anche dirsi che raggiunto fosse stato il cuore stesso della regione pirandelliana, - l'incomprensione e la tragica incomunicabilità degli infiniti io, tutti eguali e tutti diversi: uno, nessuno e centomila. La reductio dell'idealismo attuale alla dimensione tragica, assurda, grottesca caratterizzante il mondo di Luigi Piran­ dello appartiene senza dubbio al tratto deteriore dell'ingegno, o del talento, del Tilgher; e consiste in quella sua tendenza agli accostamenti simbolici che a sua volta, unitamente alla d­ traduzione immediata della filosofia in cultura, suppone lo scambio fra essenzializzazione e semplificazione , fra essenzia­ lizzazione e impoverimento, - un vedere dovunque « lo stesso » in una realtà che , appunto, l'impoverimento scam­ biato per essenzializzazione abbia ridotta ad un solo ed estrinseco elemento. In realtà, dalla premessa che, non senza arbitrio, egli poneva della frantumazione dell'atto in « infini­ ti » atti, il Tilgher avrebbe dovuto (e se al demone della sem­ plificazione polemica avesse posto un freno, è giusto ritenere che vi sarebbe riuscito) trarre la conseguenza opposta a quella che invece ne ricavava: non la molteplicità, conseguente alla moltiplicazione, degli identici ed infiniti atti, ma al contrario l'identità assoluta degli atti apparentemente molteplici nel­ l'unico e immodificabile atto; e di qui, da questa sua assoluta

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fermezza e identità, avrebbe s e mai dovuto ricavare la conse­ guenza dell'immoltiplicabilità intrinseca alla sua q>umç, che è una q>umç eterna e solo verbalmente può dichiarare la diver­ sità della sua identità, e il fieri del suo esse. Con assai discu­ tibile coerenza, e anzi, per la verità, con schietta incoerenza, il Tilgher ne ricavava invece il corollario dell'estrema frantu­ mazione del mondo, ridotto perciò al giuoco irrelativo, e che dunque non è nemmeno un giuoco, delle monadi leibniziane . E se di qui, da questa frantumazione, giungeva a far nascere , o rinascere , l'opposta esigenza dell'assoluto, termine ultimo al « quale il pensiero infaticabilmente aspira e nel quale soltanto soddisfatto si riposa», e per questo rinviava ad una sua di poco precedente meditazione del tempo e dell'eterno, era di nuovo nel segno dell'incoerenza che procedeva. Non s' avve­ deva infatti che soltanto in apparenza, e per l'arbitrio intrin­ seco al linguaggio che così li nominava e li definiva, gli atti possono esser detti molteplici, mentre in realtà non sono se non identici. Né s'avvedeva che se sul serio fossero stati mol­ teplici, e non l'unico, identico, immoltiplicabile atto, allora sarebbe veramente stato impossibile far sorgere da essi un as­ soluto che non fosse un semplice relativo e, dunque, un atto, al pari degli altri, rientrante nel quadro e nella cornice della molteplicità. Come che sia di ciò , è per altro evidente che, venutosi a trovare di fronte a quella che pure , iniziandone l'analisi, aveva definita come l'« ala estrema del relativismo e dell'atti­ vismo contemporanei», Tilgher riusciva bensì, giunto al suo termine, a mantenere il primo concetto, il relativismo (al quale conferiva il già visto volto pirandelliano) , non però a te­ ner fermo il secondo, l' attivismo, che, insensibilmente , as­ sunse invece il carattere opposto, - quello dell'immobilità intrinseca alle monadi irrelative e incomunicanti. E questa è una ben singolare circostanza; che, una volta che la si sia af­ ferrata con qualche precisione concettuale, conviene ribadire, osservando che il tratto irrazionalisticamente faustiano, l' azione per l'azione, l'attività per l'attività e insomma, per dirla con una sola parola, lo sfrenato attivismo presente nella filosofia di Gentile, il Tilgher finiva per trovarlo meno in questa che non nella geistige Situation della quale era pur pre-

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sentata come la sintesi e la « verità » . Ne discendeva come conseguenza che, per assegnarle, potenziato, il carattere o il segno dei tempi, occorreva compiere un salto, - e dar luogo al passaggio, non agevolmente deducibile dalla premessa, etç tò illo yévoç, a un diverso e ulteriore ordine di considera­ zioni; e anzi non ulteriore, ma soltanto diverso e, in effetti, addirittura preesistente e precedente quello che qui su si è ri­ costruito . In realtà nella parte iniziale del saggio che lo concerneva, l'idealismo attuale era stato delineato dal Tilgher proprio come una filosofia dell'eterno autosuperamento dello stesso atto superante. Ed egli aveva insistito sul punto che se l'og­ getto non preesiste « all'atto con cui lo spirito lo pone », e « non è che in funzione di quest'atto, fuori del quale è nien­ te », allora è evidente che « nulla d'oggettivo, nulla d'in sé » resiste e può resistere alla « coscienza che lo spirito ha acqui­ stata nella sua infinita attività creatrice » 20• Di qui l'entrare dell'universo « nel vortice dell'atto puro del pensiero pen­ sante: spazio, tempo, natura, individui, società, stato, storia, Dio, tutto, e l'io stesso che pensa ». Di qui la concezione del­ l' atto non, alla maniera di Aristotele e dell'« antica» filosofia (Hegel compreso ! ) , come actum, ma piuttosto come actus, o agens: atto soggetto e non atto oggetto. E lo spirito è perciò assoluta libertà, libertà, come il Tilgher preferisce dire, « illi­ mitata »: « non immobile essere, ma atto puro ». È lo spirito che, « di momento in momento si fa contro un non essere che perennemente in lui rigermoglia (dolore, errore, male) , non essere che è lo spirito stesso in quanto non è ma fu , non agens ma actum, e, in quanto tale, forza di arresto e d'inibizione al nuovo farsi, al nuovo porsi di esso come attività pura e incon­ dizionatezza » 2 1 . Parole chiare, esplicite, ma, comunque si vo­ glia giudicarle , conducenti in tutt'altra direzione da quella che concerne la moltiplicazione relativistica, o piuttosto irre­ lativistica, dell' atto negli atti. E, come necessaria conse­ guenza, ne nasceva infatti l'impossibilità che, nel suo stesso 20 21

Ibid. , p. 62 . Ibid. , p . 63 .

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espandersi all'infinito, l' atto fosse altra cosa dall'atto, unico, identico e anche immobile, di questo medesimo espandersi; che è atto e non può perciò mai eccedere il suo limite: con la conseguenza che, a rigore, non è quel che si dice sia, - un espandersi. Alla radice di queste situazioni concettuali, e il Tilgher non giunse mai ad accorgersene (innanzi tutto perché, a ri­ gore, della loro qualità non era stato sul serio in grado di prender atto} , c'era tuttavia qualcosa che le unificava, nell'in­ trinseco, in un segno paradossale ma necessario: un segno che non era possibile per altro cogliere se prima non si fosse con­ statato quel che s'è avvertito, e cioè che la definizione del­ l'una non corrispondeva a quella dell'altra. Per un verso in­ fatti Tilgher insisteva sulla moltiplicazione dell'atto negli atti e sulla conseguente molteplicità di questi che, per questa ra­ gione, restituivano ai suoi occhi l'immagine della « relativi­ tà ». Ma per un altro insisteva invece su tutt'altro, - insi­ steva sull'unicità dell'atto che tutto include e risolve in sé. E senza accorgersi della differenza che in tal modo era proprio lui ad introdurre nella definizione, che pretendeva fosse unica e coerente, dell'idealismo attuale, si lasciava del tutto sfuggire l'identità da cui quelle due situazioni sono sottese e per la quale soltanto in apparenza sono due. Si lasciava sfug­ gire il paradosso che a queste due situazioni, che perciò, come s 'è detto, non sono due, si rivela intrinseco. Tilgher non si avvedeva infatti che se l'atto si moltiplica negli atti e questi sono tuttavia ciascuno un atto, non diverso ma identico a tutti gli altri in cui il primo atto si sia moltiplicato , i « mol­ teplici » sono in effetti identici e non molteplici. E nemmeno, sull' altro fronte, si avvedeva che se l'atto è infinita espan­ sione, ma questa non è che l'atto di sé, ossia del suo infinito espandersi, l'espansione dell'atto è atto, non è espansione del­ l'atto . In entrambe le situazioni, e Tilgher non arrivava a comprenderlo, ad emergere è dunque l'atto nella sua identità; e nessuna delle due è perciò conforme alla definizione che egli ne dava. Fra queste due rappresentazioni dell'idealismo attuale che

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Tilgher poneva come l'una conseguente all' altra, e che conse­ guenti invece non sono perché, se fosse vera la prima che lo spirito delinea e rappresenta come un'infinita puntualità di atti monadisticamente irrelativi, allora sarebbe falsa la se­ conda, che lo ritrae con il carattere dell'actus all'infinito estendente sé medesimo e la sua incoercibile energeia, e mai la teoria dello spirito come atto puro potrebbe essere innalzata a simbolo e ad emblema della contemporaneità intesa come at­ tivismo faustiano, - fra queste due rappresentazioni dunque c'è contrasto. E come, nel proporre la sua, il Vinciguerra si atteneva alla prima, e sulla seconda sorvolava, così il mede­ simo accadde al Tilgher quando, spinto, fra le altre cose, dalla pas sione politica, contro Gentile indirizzò lo strale della più violenta e sprezzante delle satire, e scrisse Lo spaccio del be­ stione trionfante: un libello che, allorché vide la luce, ebbe qualche fortuna e ancora negli anni successivi, per esempio nei primissimi, confusi tempi del secondo dopoguerra, fu ri­ cordato e provocò qualche equivoco e il corollario di alcune precisazioni polemiche 22 • Un libello che oggi pochi leggono e 22 Mi riferisco alla lettera con la quale, in « Domenica. Settimanale di politica, letteratura e arte », l , n. 6, 1 0 settembre 1 944, p. l , Guido Calo­ gero rettificò l'errore in cui la redazione di questa rivista era incorsa nell'at­ tribuire a Gentile la Perizia filosofica . . . sull'uccisione di Giacomo Matteotti che, ne Lo spaccio del bestione trionfante. Stroncatura di Giovanni Gentile. Libro per filosofi e non filosofi, Roma 1 926, pp . 90-9 1 , Tilgher si era diver­ tito lui a scrivere nello stile del filosofo del fascismo . Poiché il settimanale è ormai rarissimo , e l'episodio in buona parte dimenticato, riproduco qui la lettera di C alogero: « Caro direttore, a quest'ora la redazione di Domenica si sarà certamente accorta della svista in cui è incorsa attribuendo effettiva­ mente a Giovanni Gentile la lettera sull'uccisione dell'an. Matteotti che si legge nello Spaccio del bestione trionfante di Adriano Tilgher . È una svista che si risolve in un omaggio alla capacità stilistica e all'inventiva polemica del Tilgher, perché il lettore può veramente credere di trovarsi di fronte a una autentica lettera del Gentile. Tuttavia, adoperando un poco di quel più tecnico ' senso dello stile ' che spesso è per i filologi l'unico strumento atto a far loro distinguere, negli antichi testi e documenti, lo spurio dal genuino e l'interpolato dall'originario, è facile accorgersi, anche senza riprendere in mano il libro del Tilgher (ed io non l'ho qui sott'occhio) , che in questa pre­ sunta lettera alla sezione d'Accusa del processo è veramente di Gentile solo il brano del discorso pubblicato nel volume Il fascismo al governo della

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anzi, forse, nessuno. Un libello che per una ragione essenziale dev'essere considerato brutto e infelice anche da chi allora e poi sia stato dall a parte del Tilgher e non da quella di Gen­ tile . Sebbene la contemporaneità abbia la tendenza a pareg­ giare in sé stessa, ossia nell'animo e nella mente di chi la vive, il dramma, la commedia e anche la farsa, proprio per questo è tanto più vero che soltanto nelle mani di chi, pur vivendo in essa, sappia per suo conto distinguere l'una dall'altra queste tre situazioni, la satira può perdere il carattere della terrestre meschinità e povertà per farsi strumento potenziale di verità. Il che significa che tanto più una satira è efficace quanto meno si rivolga alla debolezza dei soggetti; al piccolo mondo delle ambizioni e delle cupidigie, che a tutti e a ciascuno co­ municano il medesimo brivido, al grand'uomo come al came­ riere; e che, nelle sue forme proprie, è alle idee che , per rea­ lizzarsi in queste, deve rivolgersi, - alle idee e non alle per­ sone (che delle idee contano sempre infinitamente di meno) , e vanno perciò esse, le idee, innanzi tutto, prese sul serio. Il dramma di un tempo che sta per conoscere l'onta della tiranscuola, mentre è del Tilgher tutto il resto, e cioè l'applicazione della teoria enunciata in quel passo all'uccisione dell'o n. Matteotti e alla discrimina­ zione dei suoi assassini. Il Tilgher, facendo questo, si valeva di un metodo legittimo di ironia polemica, perché mentre nessun lettore del tempo avrebbe mai potuto esser tratto in inganno, ognuno aveva modo di consta­ tare ad oculos quali fossero le pericolose conseguenze della teoria della forza e del suo rapporto col consenso, tanto sommariamente enunciata nel citato brano del Gentile . Con tutto ciò, è chiaro che bisogna tenere ben distinto, nel giudizio, ciò che Gentile veramente scrisse da ciò che forse avrebbe po­ tuto scrivere, ma che in realtà non scrisse mai . Nel processo di abbassa­ mento della cultura italiana al livello del fascismo, Gentile porta il suo peso gravissimo di colpe . Ma non attribuiamogli, per distrazione, anche quelle che non ha ». - La lettera di Calogero restituiva senz'altro la verità dei fatti; ed è giusto che in quel clima di passioni e contrasti egli avvertisse la esigenza di ristabilirla. A distanza di tanti anni, l'unica osservazione che forse rimane da fare è quella relativa all'omaggio che involontariamente era stato rivolto alla « capacità stilistica » del Tilgher, ossia alla sua abilità nel­ l'imitare, ironicamente, lo « stile » di Gentile. Questa capacità, in effetti, non esiste; e c'è persino da dubitare, leggendo la sua presunta « imitazione », che questo fosse il suo intento: di imitare la prosa gentiliana e di offrirne, attraverso questo esercizio, la parodia.

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nide è tale nelle idee, non nelle ambizioni e nei tornaconti; e il resto - le ambizioni, appunto, e i tornaconti, il resto è commedia, è satira di per sé, e per questo non merita la vera commedia e la vera satira. Può darsi che, impostata in questi termini, la questione sia insuscettibile di svolgimento, e della vera satira occorra perciò dire che , semplicemente, è impossibile . Ma al talento perché dovremmo imporre limiti? E poi chi dice che la quaestio non sia già stata risolta in qualche ingegnoso trattato d'estetica dei nostri tempi, esistente in rerum natura e, non di meno, colpevolmente ignoto allo scrivente? Come che sia, è indubitabile che il libello polemico del Til­ gher è sul serio brutto e misero . Lo è perché Gentile vi è de­ scritto non come un personaggio tragico, ma come un arrivi­ sta e, per il resto, un opaco bestione: come uno, d'altra parte , che (con questi suoi caratteri è anche l'espressione culminante di un'età, di una cultura, di una dimensione essenziale della Weltgeschichte, che anch'essa perciò non è che la misera storia di un misero mondo, in cui né Cesare né Bruto, e tutti gli al­ tri possono aspirare a una qualsiasi grandezza, perché nel suo proprio petto ciascuno non ha saputo alimentare se non il fuoco fatuo della sua ambizione e della sua miseria. È inutile, di conseguenza, entrare nel libello tilgheriano allo scopo di trarne qualche battuta. Il lungo dialogo che un padre e un fi­ glio intrecciano nella sua parte centrale è una povera cosa, de­ serta di spirito e di talento 2 3 . La « falsificazione » intenzio­ nale dello « stile » gentiliano 24 è scialba, e non regge il con­ fronto nemmeno con quella, per altro non eccelsa, eseguita più tardi da Paolo Vita Finzi. La rappresentazione dell'« igno­ ranza» di Gentile e della superiorità culturale, sopra di lui, di Croce è, anch'essa, banale; e anzi peggio che banale, perché vi si avverte dentro qualcosa come un involontario brivido di subalternità e di servilismo, - la maldicenza, che è altra cosa dalla crudezza del giudizio, e di per sé stessa non può non ri­ manere estranea alla verità. Subalternità, servilismo, maldi23 24

TILGHER, Lo spaccio cit . , pp. 49-88 . Ibid. , pp. 89-9 1 : e cfr . qui su n. 22.

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cenza; che del resto si confermano nella loro natura anche quando, passando da Gentile a Croce, di quest'ultimo Tilgher dice bensì che è , rispetto al primo, un filosofo assai più ela­ borato e complesso, ma per aggiungere tuttavia subito dopo che il suo è un genio strategico; il genio di uno che, presa la decisione di « conquistare » l'I t alia, da lui ben conosciuta come un paese di letterati, con il congeniale strumento del­ l' estetica, sente il bisogno di farsi guardare le spalle da un « bestione », fedele a lui e, nei confronti di ogni altro, minac­ cioso, aggressivo, violento 25 . Volgarità, cose squallide; che non si vorrebbe rievocare e rimettere sotto gli occhi dei let­ tori, e certo non si rievocherebbero se ancor oggi non acca­ desse di doverne leggere di consimili in testi che , rispetto a questo del Tilgher, non hanno nemmeno l'onestà di presen­ tarsi come libelli e satire, e si avvolgono nel ridicolo paluda­ mento di seriose banalità. Per suo conto, il Tilgher ebbe forse il merito di accorgersi per tempo che, per quanto avesse tentato di sbrigliare e ren­ dere libera la sua fantasia, il risultato non era stato pari al­ l' attesa; e dopo aver rappresentato il pensiero di Gentile di­ nanzi ad un pubblico di persone colte ma inesperte di filoso­ fia, volle indicare a chi invece di questa fosse esperto, in che cosa propriamente l'idealismo attuale consistesse. E ponen­ dole in appendice, scrisse perciò sette svelte paginette, nelle quali, alla sua maniera, fornì di questo l'interpretazione e la critica . Aveva letto, intanto, il libretto di Mario Vinciguerra, attraverso il quale molte delle tesi che nei precedenti anni aveva formulate in tema non solo di idealismo attuale, ma an­ che di « crisi mondiale », di attivismo, di irrazionalismo, di vi­ talismo, gli tornavano indietro, ripensate e riformulate . E nel riprendere dal Vinciguerra quello stesso che quest'ultimo aveva preso da lui, - nel riprenderlo e nel ritesserlo nel suo nuovo discorso, il Tilgher non esitava a servirsi altresì delle argomentazioni che fin dal 1 9 1 3 Croce aveva svolte nelle po­ stille polemiche indirizzate all'amico. Sebbene, facendola ri­ salire , attraverso Fichte, al suo « pragmatismo trascendenta2>

Ibid. , pp. 19-2 1 .

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le », la teoria gentiliana del soggetto che pone sé stesso come oggetto e non- Io, e cosl perviene , nel logo concreto, al su­ premo e pieno possesso di sé, non potesse non incontrare la sua più o meno segreta approvazione (al punto che della filo­ sofia attualistica del diritto come « volontà voluta » egli si proclamò il vero e disconosciuto e plagiato autore !) 26 , pure di questo idealismo si volse sopra tutto a sottolineare il carattere dogmatico, empirico, naturalistico. Lo definl perciò non, quale pretendeva., storico, dinamico, sommamente dive­ niente, ma con il segno contrario. Lo disse antistorico, immo­ bile, e tanto poco « diveniente » quanto poco può assumersi che sia « divenire » un « susseguirsi incess ante di folgorazioni di sogno in un immobile sognante », oppure « un tizzone ro­ teante con rapidità in un circolo luminoso quale appare a chi lo vede » 2 7 . E poiché crocianamente, gli sembrava, ed anzi escludeva, che nell' atto fosse impossibile introdurre distin­ zioni, ecco allora che in esso la filosofia, che dovrebbe costi­ tuirne il vertice e l'essenza, equivale alla non filosofia . « Dove tutto è filosofia, niente è filosofia ». E con lo stesso diritto, infatti, o con la medesima assenza di diritto, può dirsi che tutto è politica, oppure non lo è, tutto è religione, tutto è arte », tutto « è brivido, tutto è sternuto , tutto è sbadiglio » 28 • Lungi perciò dall'es sere l'intransigente forma di idealismo che si vantava di essere, l'idealismo attuale non era che natu­ ralismo; e in esso, da un pensiero ad un altro, da un atto di pensiero ad un altro atto non si passa infatti se non «per la cieca necessità della sua natura ». Lungi dall'essere libertà, critica, progressiva acquisizione della sua propria essenza, sempre conquistata e sempre di nuovo perciò da riconqui­ stare, l'idealismo attuale era « agnostico, irrazionalistico , na­ turalistico, istintivistico »; e, coincidendo con l'atto, la verità vi si identificava con l'errore e con il male, non era libertà, ma natura. Sicché, non diversamente da quel che fin dal primo dei suoi due scritti polemici del 1 9 1 3 , Croce aveva 26

27 28

Ibid. , p. 25 n. Ibid. , p. 105. Ibid. , p. 106.

l.

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detto, il rischio immanente all'idealismo attuale doveva essere indicato nella « depressione della moralità », nell'indebolito senso della verità e dell'errore, del bene e del male , o, come il Tilgher preferiva esprimersi, nel « totale indifferentismo etico e relativismo teoretico » 2 9 • Ed ecco allora che, traendo le con­ seguenze del suo discorso, e non senza anche aver prestato ascolto al discorso del Vinciguerra, egli perveniva alle sue pre­ dilette formule definitorie . « Meglio che teoria dello spirito come atto puro », l'idealismo attuale « dovrebbe chiamarsi teoria della natura come spontaneità bruta »; e spogliato in­ fatti con decisione degli orpelli « dei quali si copre », esso si riduce alla cieca « esaltazione dell'atto vitale, dello slancio vi­ tale, della vita », e nel suo fondo più segreto e più vero è un « energetismo brutale, un vitalismo assoluto, un irrazionali­ smo radicale : la naturale filosofia di un'epoca in cui il calcio e la boxe, il cinematografo e il tabarin, il cocainismo e la vio­ lenza settaria sono le manifestazioni predilette della psiche collettiva, la naturale filosofia di un'età impulsiva e brutale, tutta straripante di passioni cieche e irriflesse » . Donde la de­ finizione che, infine, gli sembrava essere la migliore che del­ l'idealismo attuale si fosse data: quella fornita da Mario Vin­ cinguerra che, nel suo libro, ne aveva infatti parlato come della « teologia del futurismo » 3°. Il discorso che Tilgher svolgeva era chiaro: di paradosso in paradosso, di esagerazione verbale in esagerazione verbale, di brill a ntezza in brillantezza, la risoluzione dell'analisi filoso­ fica (che mai del resto era sul serio venuta al mondo) in qual­ cosa come una « simbologia » culturale, all'interno della quale i filosofemi e i pensieri stanno come altrettante « allegorie », toccava il suo culmine, mostrando altresì il limite intellettuale intrinseco al concetto che la guida. E non ci sarebbe perciò se non di prenderne atto, passando poi ad altro, se lo spirito pe­ dantesco della compiutezza non ci inducesse ad osservare che la reductio che il Tilgher eseguiva dell'idealismo attuale a natu29 30

Ibid. , p. 1 0 7 . Ibid. , p. 1 0 9 .

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ralismo, anzi a « vitalismo » e « Istmtlvlsmo » naturalistico, peccava gravemente nel riguardo della coerenza . Da una parte infatti l'idealismo attuale era « immobilità » , negazione del di­ venire e della storicità. Ma da un'altra tuttavia la « natura » alla quale si riduceva era in sé stessa « passaggio » e non immo­ bilità: sia pure nella sua propria cecità, era passaggio da qual­ cosa a qualcosa e quindi, se non « progresso », movimento, se non storicità autentica, il contrario, comunque, dell'immobi­ lità . Se è così, deve dirsi che, ancora una volta, oppresso e ti­ ranneggiato dal suo interno Wille zur Macht definitorio, Til­ gher si lasciò sfuggire il punto essenziale ; e non capì infatti che a ben altro si sarebbe dovuto indirizzare l'attenzione se sul serio si fosse voluto comprendere perché nell'idealismo at­ tuale il « dialettismo », che dovrebbe esprimerne la essenza, non è, in effetti, se non immobilità. A queste definizioni, senza per altro citare il pamphlet ti­ lgheriano che, certamente, non gli era (e lo abbiamo visto) ri­ masto ignoto, anche Croce aveva, come sappiamo, concesso la sua attenzione; e le aveva infatti citate nelle « annotazioni » apposte al decimo capitolo della Storia d'Italia. Che egli le ci­ tasse, queste definizioni, dal Vinciguerra, e non dal Tilgher che, come autore dello Spaccio, si era autoescluso dall'onore­ volmente citabile , è cosa che s'intende da sé. Ma la citazione del Vinciguerra dovette sembrargli non inopportuna, perché, riferendosi all'idealismo attuale di Giovanni Gentile, le sue definizioni si riferivano altresì alla temperie variamente irra­ zionalistica di cui questo pensatore aveva alla fine rivelato di essere, a dispetto del suo « sermon prisco », un'espressione . Riguardavano perciò bensì la filosofia, ma non in modo par­ ticolare la filosofia presa nel suo senso tecnico, ossia specifico e rigoroso . Riguardavano la filosofia resasi visibile e obiettiva nei moti della cultura e della politica, che ne ritengono qual­ che carattere e sono tuttavia, nell'insieme, tutt'altra cosa. Tant o più del resto l'osservazione che il Vinciguerra formu­ lava intorno alla tonalità irrazionalistica dell'idealismo attuale dovette sembrargli degna di essere ricordata e citata in quanto ad altro si connetteva e, quindi, rinviava. La più

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acuta forse delle osservazioni che s i leggono nel libretto del Vinciguerra concerneva l'uso irrazionalistico, frammentistico , decadentistico che agli inizi del secolo si era fatto del pen­ siero di Croce e in modo particolare della sua estetica 3 1 . E Croce dovette in effetti rimanerne colpito, non superficial­ mente ma in profondità, se è vero che a quell'osservazione dette risalto addirittura nel testo del decimo capitolo, e la fece sua e scrisse che è « da riconoscere che lo spirito » che egli aveva messo nel delineare l'estetica nel quadro unitario della filosofia dello spirito, e l'unità di questa, furono e l'uno e l'altra fraintesi e presi a pezzi, « e questi pezzi travolti so­ vente a un senso che non era il loro, come », appunto, « nel caso delle dottrine estetiche, in cui le teorie, che egli aveva ideate per spiegare la grande poesia di Dante e di Shake­ speare, la pittura di Raffaello e del Rembrandt, il suo con­ cetto dell'intuizione lirica», vennero distorti a formule « mo­ dernistiche » di scuola « per giustificare il più sconvolto e de­ cadente romanticismo e ' futurismo ' , che egli non solo con­ dannava in forza della sua teoria, ma personalmente aborriva con tutto l'essere suo » 32 _ Anche per questo, dunque, alle critiche che il Vinciguerra dirigeva contro il Gentile e l'idealismo attuale, e che erano bensì ispirate alla sua interpretazione ma anche, per un altro verso, a quella del Tilgher, Croce si dispose a concedere un'udienza che, se di quella « filosofia» soltanto la filosofia avesse dovuto giudicare, sarebbe stata meno larga, o forse, addirittura, non sarebbe stata concessa affatto. Ma quando scriveva quel capitolo della Storia, trasformandosi via via in tragedia il dramma dell'Italia liberale aveva ormai toccato il punto del non ritorno; e mentre Gentile aveva deciso di af­ frontare la traversata di quell'oceano tempestoso sulla nave pilotata da Benito Mussolini, a lui era toccato in sorte di sa3 1 VINCIGUERRA, Un quarto di secolo cit . , pp. 23-24, e, in genere, 1 3 sgg . , passim. M a sarà opportuno ricordare che considerazioni non dissimili erano state svolte un anno prima che il libretto del Vinciguerra vedesse la luce, da N . SAPEGNO, Resoconto di una sconfitta, « Il Baretti », l , 23 dicem­ bre 1924 (ora in Pagine sparse, Roma 1979, pp . 1 1 5-20) . 32 CRoCE, Storia d'Italia, pp. 253-54.

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lire su un'altra, che batteva tutt 'altra bandiera e affidava sé stessa ad un diverso e anzi opposto destino. Nel parlare che perciò faceva di irrazionalismo, romanticismo, decadentismo, futurismo, Croce aveva bensl la mente ai documenti letterari e culturali nei quali questi avevano trovata la loro espres­ sione, e con animo diverso, anche se non opposto a quello con il quale ne aveva tratto nell'ormai lontano 1 904 e poi an­ cora negli anni successivi, tornava di conseguenza sul D'An­ nunzio e sul suo stile, cosl diverso da quello schietto e « sem­ plice » di cui s'erano serviti e il Manzoni e il De Sanctis . Ma ormai pensava al fascismo e a questo estendeva l'avversione che provava e dichiarava con forza di provare nei confronti dei suoi incunaboli letterari . Anche nella Storia d'Italia , tuttavia, la linea interpretativa che Croce tracciò non coincideva, con quella che il Tilgher e il Vinciguerra avevano segnata. E sebbene qui egli ne co­ gliesse sopra tutto la dimensione morale e nell'attualismo sor­ prendesse perciò, sotto l'usbergo professorale e accademico, la tentazione irrazionalistica, e lo « stil dei moderni » fre­ mente sotto il « sermon prisco », tutto per il resto, finiva qui : tanto che nes suno potrebbe dire che ormai egli si fosse per­ suaso che l'atto fosse sopra tutto natura, bruta e immediata natura e che alla sua tessitura filosofica non valesse la pena di rivolgere, e tener fisso, lo sguardo . Sarebbe perciò impru­ dente dedurre dalle linee che nelle « annotazioni » Croce traeva dal libretto del Vinciguerra, e anche dall'anonimo ar­ ticolo (firmato in realtà per altro, come si è detto, da Lorenzo Giusso) in cui l' attualismo era avvicinato alla filosofia di Berg­ son, all a Volontà dei pragmatisti e al Wille zur Macht di Nietzsche, - sarebbe imprudente dedurre che anche per Croce l'atto non fosse che azione, volontà e, magari, fremito vitale . Sarebbe imprudente perché l' atto era stato da lui de­ finito come indistinzione e, sotto il profilo filosofico e cultu­ rale, come misticismo ; e per le ragioni che si sono viste, que­ sta era bensì una tesi affine a quelle che poi il Tilgher e il Vinciguerra ne ricavarono : affine però, non identica, e per­ ciò, a rigore, diversa. E tale, del resto, ossia diversa, nella so-

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stanza, da quelle del Tilgher e del Vinciguerra, questa sua in­ terpretazione appare anche negli scritti che egli dedicò al­ l'idealismo attuale nel periodo che, partendo dalla recensione del secondo volume del Sistema di logica ( 1 92 3 ) va fino agli anni trenta e oltre . Nella recensione del secondo volume della Logica, che è l'ultimo scritto importante che Croce dedicò a Gentile prima della rottura intervenuta nell'ottobre del 1 92 4 , il rilievo es­ senziale è ancora, a guardar bene, quello di misticismo; che, nell'ideale fenomenologia degli errori attualistici, è, potrebbe dirsi, quello in cui, in qualche modo, culminano tutti gli altri, il panlogismo e il fenomenismo e, infine, il suo essere una fi­ losofia teologizzante, ossia tale che, dalla logica che le è in­ trinseca, è costretta a distinguere « due pensieri: un pensiero divino (o, che è lo stesso, umano-divino) , e un pensiero me­ ramente umano » 3 3 : da una parte , insomma, il logo concreto, o della dialettica, dall'altra il logo astratto, o dell'identità. Certo, la fenomenologia di quelli che riteneva fossero gli er­ rori attualistici non è, da Croce (che pure alla fenomenologia degli errori credeva) , descritta cosl, perché il culmine non ne è segnato dal misticismo, ma dalla stessa serie fenomenolo­ gica, che dall'un errore passa nell'altra e cosl si realizza e li realizza. Ma qui conviene forse insistere nell'indicarlo nel mi­ sticismo, questo vertice . Non solo perché (e vi abbiamo già fatto cenno) , intesa come Croce la intende, la fenomenologia degli errori presenta come necessariamente vera la serie dei suoi passaggi, o i passaggi che costituiscono la sua serie: con la conseguenza della contraddittorietà, perché non può in ef­ fetti non essere contraddittoria una serie di errori che sia, per cosl dire, scandita Katà 't1ÌV ru:t)aetav . Ma anche e sopra tutto perché, con tutto ciò che comporta, il rilievo di panlogismo e anche l'altro di fenomenismo (protagoreo) non si lasciano de­ durre, malgrado l'abilità con la quale Croce argomentava la sua critica, da quello di misticismo. Si ammetta infatti (senza 3 3 La recensione fu pubblicata nella « Critica », 22 ( 1 924) , pp. 49-55 . La citazione è a p. 49 (e cfr. Conversazioni critiche, Bari 1 932, IV, 297) .

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per altro concedere) che misticismo e indistinzione siano lo stesso. Ma, a differenza del misticismo, che è indistinzione (di forme) , il panlogismo è forma, - è la forma del pensiero in cui tutto si risolve, o che è il tutto; e, nel suo relativizzare e quindi temporalizzare ogni tesi in cui di volta in volta trovi espressione, il fenomenismo protagoreo offre in sè stesso lo spettacolo della vita e della morte, della vita che si estingue nella morte e quindi ne riemerge, - di una distinzione dun­ que, non dell'indistinzione. Dopo di che, stabilita la diffe­ renza e chiarito il punto, potrà chiedersi di nuovo, pur senza riprendere da capo la questione , che cosa sia questo « indi­ stinto >> al quale Croce riduceva il senso e il significato del­ l'idealismo attuale; ed è dubbio che con lui possa dirsi che, essendo tale, l'indistinto sia tuttavia qualcosa che è si pos­ siede e ci possiede ma che si sente e non si discerne. Il dubbio nasce in realtà da ciò, che se questo fosse l'in­ distinto, - qualcosa che non si discerne ma si sente, allora sarà bensl vero che nessuna delle « forme » note alla filosofia dello spirito (l'arte e la filosofia, l'economica e l'etica) riuscirà ad emergere dall'indistinto, che per questo infatti è l'indi­ stinto. Ma vero sarà altresl che, poiché sente e si sente senza tuttavia discernere e discernersi, in questo sentire privo di luce intellettuale l'indistinto avrà il suo carattere e quindi ne­ cessariamente, da questo punto di vista, la sua distinzione . Il che suona tanto più singolare e paradossale in quanto se è qualcosa che sente, si sente e non si discerne, dunque l'indi­ stinto è la stessa cosa del sentimento, mentre da un'altra parte, se fosse sentimento, non dovrebbe possedere alcuna autonomia, e meno che mai quella per la quale si dice che l'in­ distinto è il sentimento . Nemmeno, del resto, potrebbe dirsi, rovesciando la direzione predicativa, che il sentimento è l'in­ distinto. Anche qui, infatti, se il sentimento fosse ciò che, senza potersi discernere, sente tuttavia e si sente, allora di nuovo, contraddittoriamente, esso si caratterizzerebbe in sé stesso proprio attraverso la distinzione, che non può, d'altra parte, esservi ospitata, fra il suo sentire e poter sentire e il suo non poter discernere: con la conseguenza che la distin­ zione, la quale non può per sé stessa divenire l'oggetto del suo proprio discernerla, costituisce, per un altro verso, la so-

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stanza e l'essenza del suo essere . Situazione paradossale e, come si vede, intricata fino al limite, se cosl può dirsi, della contraddizione; che importerebbe, se fino alle conseguenze estreme se ne seguisse la logica, l'obbligo di abbandonare il discorso che la produce, e di riconoscere che mette capo ad una duplice impasse. Da un lato infatti questo discorso impe­ diste di considerare l'indistinto come sentimento (perché in tal caso se ne farebbe una forma, e il sentimento non è una forma) . Ma da un altro impedisce di considerare il sentimento come indistinto (perché se quest'ultimo termine fosse assunto come tale che in sé stesso vive della differenza, e dunque della distinzione, che passa fra il suo sentire, il suo sentirsi e il suo non potersi tuttavia discernere, la distinzione dunque, e non l'indistinzione, sarebbe il suo carattere . Come, del re­ sto, si vede con chiarezza se si considera che, assunto come il predicato di un soggetto definito sentimento, l'indistinto do­ vrebbe, per poterglisi unire, distinguerne, l' almeno nelle in­ tenzioni crociane, realizzare la situazione che qui invece si nega possa mai essere la sua) . Situazione paradossale e, varrà ribadirlo, non poco intri­ cata: nella quale Croce entrò per ciò stesso che nell'analisi dell'indistinto non era riuscito a giungere fino alla radice, e della questione del sentimento non riprese a discutere il tema, subendone invece, come in una sorta di contrappasso, le conseguenze aporetiche. Il sentimento è, nella filosofia dello spirito, un ospite inquieto e indisciplinato. E subisce in sé stesso una complessa metamorfosi, perché, o è sentimento in senso stretto, e allora, per dirla in modo rapido, è materia che si rende visibile soltanto nel processo, logico per altro e non fenomenologico, delle forme . Oppure è sentimento nel senso della forma economica, della forma elementare della prassi; e allora il suo sarà bensl un sentire privo di logico di­ scernimento, ma ordinato tuttavia nella struttura categoriale dello spirito, e distinto perciò, non indistinto, nel quadro dello spirito, che è infatti, com'è noto, unità e insieme distin­ zione, distinzione e insieme unità. Se è cosl, è evidente che, riducendo l' atto a indistinzione, Croce ha preso quest'ultimo come sentimento; e in entrambe le interpretazioni a cui que-

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sta assunzione può dar luogo, finì per dire cosa diversa da quella che intendeva. Per quanto non fosse aliena dal far vibrare la corda della trasfigurazione culturale, quella che Croce dava dell'attuali­ smo era, nella sostanza, e tale rimase sempre, un'interpreta­ zione filosofica. E questa è la ragione per la quale, al di là di ogni altro punto di contatto, rispetto a quella delineata dal Tilgher e dal Vinciguerra la sua è tutt'altra tesi: sicché sol­ tanto a prezzo di una grave forma di infedeltà a sé stesso, e al suo tema più profondo, Croce avrebbe potuto dichiarare a quella il suo consenso . Se tuttavia accadde che talvolta an­ dasse vicino ad accoglierla, ossia a ritradurre la sua nella forma di quella, fu in ragione dell'indecisione che nel suo fondo la caratterizava e che non poteva essere da lui sanata. Questa indecisione nasceva infatti dalle complesse questioni strutturali che travagliavano il suo pensiero e che non pote­ vano non far avvertire la loro presenza nel confronto che egli istituiva con la filosofia del suo amico, e poi nemico, Gio­ vanni Gentile . ( 1 993)

VIII GENTILE E DANTE* NOTE E APPUNTI

Questo saggio non si propone il compito ambizioso di ri­ costruire in ogni sua possibile dimensione lo sfondo filoso­ fico delle varie analisi che, fra il 1905 e il 1 9 3 9 , lungo l'arco di trent' anni e più, Giovanni Gentile dedicò a Dante, alla sua poesia, alla sua filosofia, alla sua profezia, al nesso nel quale questi elementi a parer suo entrano; o ancora, e se si preferisce dire cosl, alla forza sintetica che, nell'unità che stringe insieme il primo e il terzo termine, la profezia, que­ st'ultima rivela, ponendosi con ciò come il suggello e il ca­ rattere essenziale di tutto quel che « avviene » nella Comme­ dia. Questo saggio si presenta perciò come, propriamente, un saggio: ossia come un tentativo, un sondaggio eseguito su un tema particolare che, nel quadro dell'intero, ha tuttavia un significato notevole, e di continuo infatti lo richiama e ne fa avvertire l'esigenza, lo pone, perché si possa analiz­ zarlo, al centro dell'attenzione. Come ogni parziale sondag­ gio, anche questo fa perciò tanto meglio sentire il suo limite quanto più, rimanendo tale, accenni tuttavia ad andare, e vada in effetti, oltre. Ma, a parte la soggettiva capacità di chi lo ha eseguito, che sia cosl è inevitabile . E per la stessa * In questo saggio lo scopo è unicamente di ricostruire lo sfondo filo­ sofico e di indicare la complessità dell'interpretazione attualistica di Dante . È, insomma, un saggio su Gentile, non sull'autore della commedia; e l'in­ terpretazione che se ne propose non è perciò valutata in riferimento ai testi del poeta.

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ragione è inevitabile che l' analisi dello sfondo, e cioè del « sistema » che Gentile denominò dell'idealismo attuale, vi sia presente in alcuni accenni, che hanno ricevuto svolgi­ menti più o meno ampi, sempre tuttavia inadeguati; e richie­ dano perciò di essere proseguiti altrove . Cosl come sono, non è per altro impossibile che queste pagine contribuiscano a far avvertire in modo non generico la necessità che il pen­ siero di Gentile sia studiato con autentica spregiudicatezza: osservandovi la forma che le questioni filosofiche dalle quali è costituito vi assumono, e cercando, senza possibilmente far chiacchiere, e produrre paragoni oziosi, di entrare in esse, di valutarie e di dibatterle; facendo insomma filosofia, perché è questo l'unico modo, quando si abbiano di fronte filosofi, di farne la storia. A parte le pagine , risalenti al 1 904/ 1 905 , della Storia della filosofia italiana, che ora, forse per iniziativa dell'edito­ re 1 , possono leggersi all'inizio del volume di Studi su Dante, pubblicato nelle Opere, XIII, nel 1965 - pagine importanti, per altro, e niente affatto sostituite da quelle composte più tardi, in più matura età , il primo scritto che Giovanni Gentile dedicò all' autore della Commedia è la recensione che egli fece dell'opera di Karl Vossler, della quale era uscito in Germania, nel 1 90 7 , il primo volume (o la prima parte) , anzi a rigore, il primo tomo, Religiose und philosophische Entwiklungsgeschichte und Erkliirung. E a scriverla fu in­ dotto e incoraggiato da Benedetto Croce, che con lo stu­ dioso tedesco era da ormai diversi anni in stretto contatto e in cordiali rapporti di amicizia. « Vi mandai il Dante del Vossler - gli scriveva il 26 gennaio 1 907 - . Vi prego di farne la recensione per la Critica, perché è materia vostra » 2 • E Gentile gli rispondeva 1 ' 8 febbraio per avvertirlo che di recensire il Vossler era stato pregato da Rodolfo Renier, che -

1 Non risulta infatti che Gentile avesse pensato di riunire in un vo­ lume delle sue Opere gli scritti danteschi, da lui sparsamente pubblicati e quindi raccolti in volumi diversi. 2 B . CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A . Croce , Milano 1 98 1 , p. 23 1 .

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aspettava perciò da lui che ne scrivesse nel Giornale storico: con la conseguenza che, per fare onore all'impegno che aveva assunto e per non deludere, nello stesso tempo, la ri­ chiesta dell'amico, gli annunziava che di recensioni ne avrebbe composte due, e che al libro avrebbe guardato, nella Critica, da un « altro punto di vista» 3 • L'impegno fu poi mantenuto; e le due recensioni uscirono in effetti, una, in forma di articolo, nella Critica del 1908, l'altra nel Giornale storico dell' anno successivo 4 • Riguardavano entrambe la prima parte dell'opera vossleriana; e occorre tuttavia tener conto di quel che a Croce Gentile scrisse molti mesi più tardi, il 10 novembre 1 907, perché, per la storia di questi suoi saggi, vi si trovano precisazioni non prive d'importanza, e, anzi, essenziali: Ho scritto pel Renier una lunga recensione del I volume del Vossler; ma il libro non m'ha prestato materia se non per discussioni metodiche e generali, quali io pensavo di riserbare alla Critica. Non ho saputo pertanto trovare altra soluzione, perché nella Critica si parli convenientemente del libro, che conglobare in (sic!) unica re­ censione quella del I con quella del 2° volume imminente; in modo che, rimandando per una parte alle osservazioni fatte nel Giornale Storico, possa avviare altre discussioni nuove. Altrimenti, non avrei dovuto mandar nulla al Renier, e non potevo. In questo primo ar­ ticolo, del resto, non mi son fermato ad esporre la trama di questo I volume; e questo potrò fare nella Critica, in modo da dare un'idea completa di tutta questa genesi storica della Commedia, che il V. vuol ricostruire nei due volumi della l a parte 5 .

Come che sia d i ciò, quando, verso l a fine di novembre, Croce ricevette lo scritto concernente il Vossler, lo giudicò « bellissimo »; e dopo aver aggiunto che reputava giusto quel che vi si diceva « di un difetto, o di un'esasperazione, della 3 G. GENTILE, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, Fi­ renze 1976, III, 3 3 . 4 « Critica >>, 6 ( 1 908) , pp. 52-7 1 ; « Giornale storico della letteratura italiana », 53 ( 1 909), pp. 353-65 . L'ultimo degli scritti dedicati al Vossler, nel « Giornale storico », 59 ( 1 9 12), pp . 385-9 3 . 5 Lettere a Benedetto Croce, III, 1 3 6 .

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critica dantesca del De Sanctis », gli annunziava tuttavia che sulle bozze gli avrebbe indicato « qualche frase che non mi persuade del tutto » 6 • Che cosa Croce avesse trovato, nell'ar­ ticolo gentiliano, di non conforme al suo modo d'intendere le questioni di critica dantesca che vi erano trattate, si deduce da un'altra, e successiva, lettera: anch'essa del novembre, ma priva dell'indicazione del giorno, forse perché non era conce­ pita che come un lungo « appunto » relativo alle ultime car­ telle dell'articolo, che veniva restituito all' autore per le even­ tuali modifiche da introdurre nelle ultime pagine. « Mi piace­ rebbe - gli scriveva dopo aver osservato che il loro accordo era maggiore di quanto non sembrasse - se tu », citato il brano del Vossler e « approvatone i concetti desanctisiani, come semplice avvertimento pel futuro facessi seguire l' os ser­ vazione che bisogna tener conto, più che il De S . non facesse, degli elementi intellettuali che Dante trasforma in poesia. E ciò in omaggio agli stessi principii della critica desanctisiana che ammettono ogni contenuto d'arte: e se questo contenuto può essere l' adulterio di Francesca, non si vede perché non possa essere la ricerca della verità filosofica e il sistema della scolastica » 7• Subito dopo, fissava in cinque punti il suo dis­ senso, o, se si preferisce, la sua richiesta di chiarimento: l 0) Trovo giustissimo l'appunto fatto alla critica dantesca del De Sanctis di trascurare alquanto il valore dell'altissima poesia che nasce dalle ispirazioni più intellettive e meno passionali di Dante e la sua esposizione poeticissima della stessa scolastica. Ma ho sempre pensato che il De Sanctis reagiva contro un falso concetto di Dante, e perciò esagerava. La ragione della sua esagerazione era poi anche in parte nel suo temperamento, che aveva grande simpatia per la drammaticità e passionalità (hegelianismo ! ) . 2°) M a mi pare che t u abbi torto nel confondere u n po' l'alle­ goria con l'elemento intellettuale. Certo, l'elemento intellettuale può essere un antecedente dell'arte; e così diventa arte come l'elemento passionale, anzi si traduce esso stesso in passionale . Ma l'allegoria si definisce il persistente dualismo nell'arte: è la negazione dell'auto6 Lettere a Giovanni Gentile, p. 296. 7 Ibid. , p . 270.

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nomia dell'arte : è l'arte che h a valore non per s é m a per qualcos'al­ tro . Contro l' allegoria in questo senso sta la critica del De Sanctis. E in questo senso l'allegoria non è elemento d'arte, ma è arte sba­

gliata. 3°) Circa l'estetica dantesca, osservo che se essa diventa ele­ mento intellettivo, al pari della scolastica, che sia un precedente della sintesi artistica dantesca, certamente fa parte del poema e bi­ sogna tenerne conto per capire questa o quella parte. Ma come ri­ flessione di Dante sulla propria arte, essa, o vera o falsa che sia, non appartiene al momento artistico: appartiene al Dante scienziato, non al poeta. 4 °) A ogni modo, se il De Sanctis è alquanto unilaterale e quindi cade anche in qualche affermazione erronea nella sua critica di Dante, non mi pare che il Vossler ci sia caduto lui non avendo ancora data l'analisi del poema. La pagina che tu trascrivi, mi pare teoricamente correttissima. 5°) Toglierei l'allusione al rapporto del De Sanctis col verismo. Il De Sanctis ebbe il merito di riconoscere l'importanza del movi­ mento veristico, progresso spirituale sul romanticismo diventato vuoto. Ma negò che Zola fosse un uomo di genio; e tutta quella pro­ duzione artistica considerò piuttosto come un elemento di arte fu­ tura, che non come arte riuscita per sé stessa 8 •

Di questi cinque punti, che Croce sottoponeva all' atten­ zione di Gentile, il veramente rilevante è il secondo, che ri­ guarda l' allegoria e il suo rapporto con l'« elemento intellet­ tuale »; che non è da confondere con quella, perché l' ele­ mento intellettuale può essere un « antecedente » che, se l'arte riesca ad assumere come sua « materia » e a trasfigurare, è arte, e l' allegoria invece no, non può essere un « anteceden­ te », il suo carattere definendosi come « il persistente duali­ smo nell'arte », e dunque, all'estremo limite, come « arte sba­ gliata ». Il punto rilevante è questo; e tale lo giudicò Gentile, che a questo in particolar modo procurò di rispondere, for­ nendo il richiesto chiarimento . Non si tratta, a guardar bene, di una risposta in ogni senso perspicua; e vi si nota del resto

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Ibid. , pp. 27 1-72.

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qualcosa come un'esitazione psicologica 9, che non sarebbe possibile cogliere in altre discussioni da lui intrecciate, su cose filosofiche, con l'amico: Per ciò che riguarda l'allegoria io sono interamente del tuo av­ viso, se l'allegoria è, come dici nell'Estetica, una interpretazione cri­ tica del poeta, una profezia post eventum. Ma non è questa l'allego­ ria di Dante, o almeno io non riesco a vedere la dualità tra l'allego­ ria di Dante e la sua poesia, salvo che non si voglia ridurre questa alla piccolissima parte del poema dove non c'è affatto elemento al­ legorico. Virgilio, Beatrice, Matelda, S . Bernardo, l'Inferno, il Pur­ gatorio, il Paradiso ecc . come si devono intendere, se si trascura l' al­ legoria? E nel Faust l'ascensione di Fausto? E Dante stesso e Fausto sono Dante e Fausto letterali, nella intuizione poetica? Nel senso che io dico si deve attribuire all'allegoria di Dante, mi pare sia giu­ sto dire che l'arte è essenzialmente allegoria, come è linguaggio. Spero che dopo i nuovi chiarimenti aggiunti nell'art. tu l'approverai. Ci potrà essere parola non precisa; ma in sostanza io credo di avere espresso un pensiero che dev'essere, ed è tuo 1 0 •

Il rinvio che qui Gentile fa al passo dell'Estetica nel quale Croce aveva definito il concetto dell' allegoria merita un pic­ colo indugio . Nella storia che condusse alla formulazione della tesi costitutiva del libro dedicato alla poesia di Dante, quel passo infatti è importante e merita di essere sottolineato . Lo s'incontra nel quarto capitolo della prima parte; e vi si legge: [. ] altresì è stato considerato essenza dell' arte il simbolo . Ma se il simbolo è concepito come inseparabile dall'intuizione artistica, è sinonimo dell'intuizione stessa, che ha sempre carattere ideale; non v'è nell'arte un doppio fondo, ma un fondo solo, e tutto in essa . .

9 Che nei confronti dell'« estetica » crociana Gentile avvertisse qual­ cosa come, appunto, un'esitazione, un'incertezza, e in lui si determinasse una qualche consapevolezza della sua forse non adeguata attitudine a trat­ tarne, si ricava da vari indizi, sui quali anche in questo saggio si ragiona. Ma vedi anche il mio articolo, Glosse marginali di Giovanni Gentile a libri di Benedetto Croce, « Cultura », 14 ( 1 976) , pp. 266 sgg . (e in questo volume, pp . 541-6 1 4 ) . 10 Lettere a Benedetto Croce, III, 1 4 7 .

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è simbolico perché tutto è ideale . Che se poi il simbolo è concepito separabile, se da un lato si può esprimere il simbolo e dall'altro la cosa simboleggiata, si ricade nell'errore intellettualistico : quel pre­ teso simbolo è l'espressione di un concetto astratto, è allegoria, è scienza, o arte che scimmiotta la scienza. Ma bisogna essere giusti anche verso l'allegorico e notare che in certi casi esso riesce cosa af­ fatto innocua. Posta la Gerusalemme liberata, se n'è poi escogitata l'allegoria; posto l'Adone del Marino, il poeta della lascivia insinuò poi ch'esso fosse volto a mostrar come « smoderato piacer termina in doglia »; posta una statua di bella donna, lo scultore può appiccarvi un cartello per dire che la sua statua rappresenta la Clemenza o la Bontà. Questa allegoria, che giunge post festum, a opera compiuta, non altera l'opera d'arte . E che cosa è allora? È un'espressione ag­ giunta estrinsecamente a un'altra espressione. Al poema della Geru­ salemme si aggiunge una paginetta di prosa, che esprime un altro pensiero del poeta; all 'Adone, un verso o una strofe, che esprime ciò che il poeta vorrebbe dare a intendere a una parte del suo pubblico; alla statua, nient' altro che una parola: « clemenza » o « bont à » 1 1 .

Qui in effetti è notevole che l'allegoria sia definita, non nel segno della prassi, alla quale nel libro dantesco del '2 1 sarà drasticamente « ridotta» 1 2 , ma in quello bensl di un con­ cetto astratto, quale il simbolo è quando, invece di assumerlo come la stessa cosa dell'intuizione e quindi come in sé fuso e indistinguibile da questa, vi si distingue invece « da un lato » il simbolo stesso e « dall' altro la cosa simboleggiata », e lo si prende perciò come qualcosa che ha a che fare o con la scienza o con l'arte « che scimmiotta la scienza ». E notevole è altresl che, distinguendo da questo suo aspetto, che per lui non era, agli effetti dell'arte, innocuo ma nocivo, l' altro che viceversa giudicava non nocivo ma innocuo, Croce lo inten­ desse come qualcosa di sopravveniente post /estum, un'espres­ sione aggiunta « estrinsecamente » ad un'altra espressione e che, in forza di questa « estrinsecità», non ha sulla prima al11

B . CROCE, Estetica come scienza dell'espressione linguistica generale, Bari 1 922 5 , pp. 3 9-40. 12 Cfr . , per questo, i miei saggi Croce e Dante. Considerazioni filosofi­ che su «struttura » e «poesia », e Croce, Dante e l'allegoria nel primo volume di questa raccolta.

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cun potere di deformazione e merita perciò di esser conside­ rata « innocua ». Analiticamente considerate, le due proposi­ zioni alle quali, in questa pagina, Croce riduce l' allegoria non presentano difficoltà particolari di interpretazione . Ma, nel suo fondo, il passo rimane, non di meno, oscuro. Non sa­ prebbe ad esempio affermarsi con sicurezza che cosa, nella prima articolazione di questa idea dell'allegoria, sia il sim­ bolo, che è qui assunto nella sua dualità intrinseca, nella se­ parazione di sé stesso dalla cosa simboleggiata, e, dunque, come concetto astratto e scienza. Non si potrebbe perché, sebbene il concetto dell'attività economica fosse nell'Estetica del 1902 già a sufficienza delineato 1 3 , chiaro invece non è se questa scissione del simbolo fosse da pensare come indottavi dall'attività separante dell'intelletto astratto, o come invece opera della « scienza » intesa piuttosto come filosofia e come attività concettualizzante. Ed è forse a quest'ultima interpre­ tazione che, in riferimento a questo testo dell'Estetica, ci si deve attenere . Ma la medesima incertezza si nota nella seconda articola­ zione; e anche qui non saprebbe dirsi infatti che cosa sia, e come sorga e perché sorga, questa « espressione » che, aggiun­ gendosi dal di fuori alla precedente , dal di fuori appunto la definisce, e in modo, perciò, arbitrario . E certo da questo punto di vista non si direbbe male se si osservasse che per il carattere d'arbitrarietà che si svela intrinseco a questa dimen­ sione della sua natura, l' allegoria è già qui, almeno tendenzial­ mente, ciò che sarà in seguito. Ma rimane tuttavia da aggiun­ gere (e si tratta di un'aggiunta, e di una precisazione, essen­ ziale) che questo carattere d'arbitrarietà, per il quale l' allego­ ria appare come la decisione , non altrimenti motivata, che « questo » significhi invece « quello » e la statua di una bella donna rappresenti la « clemenza » e la « bontà», non ha il suo naturale riscontro nell'altro, per il quale l' allegoria è scienza e, si direbbe, interpretazione . 1 3 La rivendicazione del carattere « assiologico » e categoriale dell'utile è già compiutamente presente nelle Tesi di estetica del 1 900 (cfr. B. CROCE, La prima fonna dell'« Estetica » e della «Logica », a cura di A. Attisani, Mes­ sina-Roma 1 926, pp. 55-6 1 ) ; e cfr . Estetica cit . , pp . 6 1 -6 7 .

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Che quindi, nella delineazione del concetto dell'allegoria, Croce mostrasse, nell' Estetica del 1 9 02 , sostanziali incer­ tezze , e soltanto di scorcio e, per cosl dire, in nube, indicasse la via sulla quale avrebbe in seguito proceduto, è, a leggere con qualche attenzione, evidente . Ed è perciò notevole che, nel dargli il suo consenso, e nel dichiarare che l'allegoria è « un'interpretazione critica del poeta, una profezia post fe­ stum », della complessità, e anche dell' ambiguità, intrinseche alla posizione crociana, Gentile non s' avvedesse; o preferisse comunque « sforzare » il primo aspetto e ignorare del tutto il secondo . Se, in effetti, di quest'ultimo avesse tenuto conto e, ad esempio, si fosse chiesto che senso dovesse riconoscersi nell'idea dell'« aggiunta » (dell'espressione all'espressione) che Croce aveva delineata, e non tuttavia spiegata, non solo avrebbe avvertito fino a che punto fosse illegittimo assumere un aspetto del suo concetto dell'allegoria e lasciar cadere l'al­ tro, ma altresl si sarebbe indotto a interrogarsi con qualche migliore cura sul nesso dell'arte e del linguaggio che sempre, in effetti, rimase, nel fondo del suo pensiero, sfocato . Del re­ sto, anche a prescindere da queste, che non riusd a scorgere e a riferire a sé stesso, le difficoltà sono evidenti nella for­ mula stessa nella quale Gentile riassunse il senso dell' allego­ ria . Si trattava di un'interpretazione critica, eseguita dal poeta sul corpo vivo della poesia? Ma allora era filosofia, non arte; e perché, e come, la si sarebbe potuta definire come non « allotria » rispetto a questa? Era una profezia post eventum? Ma se con « evento » si fosse intesa l'arte, dunque, in questa formula, l' allegoria avrebbe dovuto sopraggiungerle, venir dopo, presupporla: come, perciò, non le sarebbe stata di­ versa? Che se invece si fosse sostenuto che, intrinseca all'arte in quanto arte, l'allegoria è tuttavia critica e interpretazione, ecco allora che, in questo quadro, o l'arte sarebbe stata essa stessa interpretazione e critica, e dunque non arte ma filoso­ fia, o di questa non sarebbe stata, con le difficoltà che mai Gentile riusd a superare, se non un momento astratto e inat­ tuale . Di questo passo non si saprebbe dire di più . Ed è natu­ ralmente difficile supporre che , quale che fosse allora, nei ri­ guardi dell'allegoria, il suo pensiero, Croce potesse accogliere

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quello che, dichiarandolo coincidente con il suo dell'Estetica , Gentile aveva delineato . Tanto più, del resto, questa conclu­ sione sembra legittima quando si considerino le due, tre, forse quattro pagine che Gentile aveva riscritte per adattarle alle osservazioni che Croce gli aveva comunicate: pagine sin­ golari, in effetti, e composte, vale aggiungere, nel segno della più sfuggente ambiguità, perché, a guardar bene , per un verso si rivelano ispirate al concetto esposto nella lettera del 10 di­ cembre 1 90 7 , ma per un altro no. Non sappiamo purtroppo in che modo il problema dell'allegoria fosse stato impostato nel « finale » che, su suggerimento di Croce, Gentile o ritoccò o addirittura soppresse per riscriverlo nella sua forma attuale : non lo sappiamo, e non c'è speranza che all'ignoranza possa porsi rimedio, dal momento che nell'Archivio che raccoglie una parte dei suoi manoscritti non c'è traccia, non si dice delle pagine corrette o soppresse, ma nemmeno di quelle del­ l' articolo concernente il Vossler 14 . Abbiamo bensì, natural­ mente, il testo definitivo; che, letto alla luce del dibattito epi­ stolare che, sul tema dell'allegoria, Gentile aveva sostenuto con Croce, consente se non di ricostituire quello perduto, di immaginarne però l'incertezza, che, chissà, il lavoro di revi­ sione e correzione forse addirittura accentuò . Come che sia, converrà mettersi sul saldo terreno dei te­ sti, cercando di seguire con qualche attenzione il ragiona­ mento che Gentile vi svolse. Nel suo fondo, infatti, il pen­ siero è assai meno sicuro, fermo e limpido di quanto in genere non si sia detto, e, con alcune accensioni e illuminazioni no­ tevoli, permane , per altri versi, entro un oscuro cerchio di difficoltà irrisolte . E di questo suo carattere occorre prendere atto e tener conto. Del resto, perché no? Quello dell'assoluta compresenza, alla coscienza gentiliana, dei temi fondamentali 14 La ricerca è stata eseguita con scrupolo (ringrazio la prof.ssa Angela Schinaia, che mi ha agevolato in essa) ; e là dove avrebbe potuto essere, que­ sta parte manoscritta, con le correzioni autografe di Gentile, non c'è. È pro­ babile, o quanto meno possibile, che, in luogo di correggerle, egli preferisse, queste pagine finali, riscriverle da capo , eliminando poi quelle sostituite. Ma poiché è l'intero manoscritto di questo articolo a non esser stato conservato, il discorso che lo concerne non può che finire qui.

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dell'attualismo, che perciò sarebbe nato prima ancora, se così potesse dirsi, di essere venuto al mondo, non è un concetto storiografico. È bensì un mito della scuola, volto a costruire nel segno dell'indipendenza, dell' autonomia, dell'autosuffi­ cienza, l'immagine del maestro; il quale , sempre restio alle rappresentazioni autobiografiche, per suo conto non lo smentì, ma nemmeno lo confermò, e qualche volta andò anzi molto vicino a farne, senza proporselo, la critica 1 5 . Ma, come che sia di questo mito e del vario danno che alla storiografia e alla critica ne è derivato , sta di fatto che il primo dei tre scritti che Gentile dedicò al Dante del Vossler è, nel suo fondo, caratterizzato da una persistente incertezza, che non è difficile sorprendere, in primo luogo, nella concezione che vi si delinea dell'allegoria. « Il primo obbligo della critica dante­ sca » gli era apparso consistesse nel « cogliere l'unità del poe­ ma », perché, scriveva, « ogni apprezzamento separato di que­ sta o quella parte, se è possibile in sé [. . ], rende impossibile l'apprezzamento di tutte le parti » 16• E venendo al nodo del­ l'allegoria, dichiarava di voler « combattere il principio [ . . ] per cui tutto l'elemento intellettuale e allegorico sarebbe un'interruzione dell'attività artistica ». Gli sembrava infatti che, al contrario, « questo elemento » non interrompesse « l'arte perché, in quanto intellettuale e allegorico, quale noi ci sforziamo di fissarlo analiticamente per ricostruirne poi per sintesi la personalità poetica determinata del poeta, è ap­ punto un antecedente astratto dell'arte, che nel fatto lo ha ri­ solto [ . . ] in sé stessa, assorbendolo nell'unità intuiti va del suo mondo spirituale fantastico » 1 7 . Ebbene, non è evidente che, interpretata così, come un « antecedente » che l'arte risolve in sé, l'allegoria è tutt'altra cosa dalla « profezia post festum », della quale Gentile parlava nella let tera inviata a Croce il 1 0 dicembre 1 907? Interpre­ tata così, e cioè considerata come un « antecedente astratto » dell'arte che, « nel fatto », la risolve in sé, l'allegoria non è .

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Cfr . , per questo, l'Appendice. Studi su Dante, Firenze 1 965 , p. 8 1 Ibid. , pp . 82·83 .

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niente altro che il « contenuto », il quale , in tanto non può la­ sciare segno di sé nella « forma » che, appunto, lo supera e lo risolve, in quanto già allora Gentile sapeva quel che nel 1 9 1 2 avrebbe scritto recensendo l'ultimo volume del Vossler: ossia che « il reale contenuto di un'opera d'arte non è il contenuto, ma la stessa forma in cui esso si scioglie e vive » 18 . Se, d'altra parte, il contenuto non era che la forma, e come forma, ap­ punto, viveva nell'atto del suo risolvervisi, è ben vero che le varie metafore che egli adoperava per esprimerne il concetto lasciano forse supporre un'incertezza irrisolta nel fondo del suo pensiero che, da un lato, poneva il processo dello « scio­ gliersi » e del « risolversi », e da un altro invece lo « negava » come processo perché, J? iuttosto, lo intendeva come un'iden­ tità e una coincidenza. E ben vero, per di più, che la duplice vicenda di un processo, che è un'identità e una coincidenza, e di queste che, per un altro verso, sono un processo, costitui­ sce, nel fondo del pensiero di Gentile, un' aspra e non risolu­ bile difficoltà. Ma anche è vero che, riducendo la questione in un più ristretto ambito, la tonalità fondamentale del passo è costituita dalla coincidenza e dall ' identità: dalla identità originaria, e non dall'identificazione, che suppone la dualità e nel superamento che ne fa, non può non ribadirla, e perciò non la supera. Ne conseguiva, se è così, che, comunque fra identità e identificazione Gentile distinguesse o, piuttosto, non distingues se, nel suo ragionamento si dà bensì l'arte, non però l' allegoria, alla quale in concreto nessun carattere può es­ sere riconosciuto che non sia quello dell'arte stessa . Ed è evi­ dente allora che in questa movenza del suo pensiero Gentile aderiva non solo alla critica desanctisiana dell'allegoria 19, ma 18

Ibid. , pp. 1 12- 1 3 . Per il D e Sanctis, cfr . , per es . , Opere, V , Lezioni e saggi su Dante, a cura di S . Romagnoli, Torino 1953, pp . 620-22, passim. Nel luogo indicato, il De Sanctis tracciava una sorta di linea fenomenologica dell'allegoria, la quale, osservava, « comparisce ne' due punti estremi di un'epoca, nel prin­ cipio, quando l'idea non ha ancora la forza d'incorporarsi, e nella fine, quando, preso l'idea e la stacca dal corpo » (ivi, p. 620) . Che questo pro­ cesso sia in ogni senso perspicuo, non direi. Considerandola forse, e anzi senza forse, fredda, artificiosa ed estrinseca in entrambe queste sue forme, 19

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altresl all'obiezione di Croce; il quale anche altro tuttavia av­ vertiva nella questione dell'allegoria, e in tanto voleva che non la si confondesse con l'elemento intellettuale e, al pari di questo e con questo, fosse perciò ridotta a puro antecedente astratto, e ad astratto contenuto, in quanto intuiva che per questa via, e in questa prospettiva, di « allegoria » non si sa­ rebbe addirittura potuto parlare più, e solo l'arte avrebbe co­ stituito legittimo argomento di discorso. Che, d'altra parte, di questo rischio anche Gentile si fosse in qualche modo reso conto, è provato da quel che, pro­ seguendo, scrisse in questo medesimo saggio; e in particolare là dove osservò che l'allegoria è un « errore estetico (innocuo, in verità) , quando è qualcosa di sovrapposto all'arte, di cui l'artista, in funzione di critico, crede di elevare o creare il va­ lore, attribuendole un significato intellettuale realmente estraneo al suo processo artistico ». Giudicava che, per altro, lungi dall'essere un « antecedente astratto », l'allegoria fosse un astratto susseguente, un ragionamento condotto ab extra sull'arte; e che, in quanto tale, fosse erroneo, anche se in sé e per sé vero, perché, « intrudendosi » nell'arte, era impossibile che non alterasse la sua logica specifica 20• Ed anche qui, a guardar bene, egli non diceva niente che, a rigore, Croce non potesse sottoscrivere . Ridotta ora a « susseguente », a espres­ sione, come si era letto nell'Estetica, aggiunta all'espressione, l' allegoria riacquistava bensl la sua fisionomia intellettuale, ma, proprio per questo, non riusciva a rivelare e ad affermare il suo volto specifico, che nel primo caso era infatti quello stesso dell'arte, e nel secondo quello del pensiero . La conseDe Sanctis sembra suggerire che ad entrambe Dante riuscisse a sottrarsi col tenere una via intermedia e con l'intedere perciò l'allegoria « in una maniera più larga ». È anche vero per altro che, comunque Dante la interpretasse e realizzasse nel suo poema, con l'allegoria « siamo (a giudizio del De Sanctis) nell'arbitrio ». E sebbene avesse forse provato a trattarne con moderazione, è indiscutibile che l'avversione che provava nei confronti di questa « figu­ ra », lo indusse a rimproverare il poeta che se n'era servito e a renderlo re­ sponsabile della fitta rete esegetica che, al fine di recare alla luce quel che per definizione non può se non essere oscuro, i commentatori furono come costretti a lasciar cadere sulla Commedia . 2o Studi su Dante, p. 8 3 .

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guenza alla quale, senza che se lo fosse proposto, lo avesse de­ siderato o lo desiderasse, con queste considerazioni Gentile metteva capo, era dunque paradossale . E all'allegoria sot­ traeva infatti ogni identità; perché, si ripete, o era arte o era pensiero, filosofia: et tertium non dabatur. Se è così, l'ambiguità è evidente . E consiste nella persi­ stente pretesa che, non possedendo volto, carattere, identità, essendo una maschera o una parola, e anzi a rigore né questa né quella, l'allegoria tuttavia « fosse », e si distinguesse in « buona » e « cattiva », in « antecedente » e « susseguente », quasi che di quel che « non è» potesse dirsi che ha un carat­ tere, un'identità, un volto, e si distingue a seconda del suo venir prima o venir dopo. Ma anche in altro consiste l' ambi­ guità; e cioè nello svolgimento che Gentile imprimeva al suo ragionamento là dove osservava che, « come ha detto benis­ simo il Croce », l'arte è linguaggio, e, appunto, « l'allegoria di Dante è il linguaggio della sua anima » 2 1 - il linguaggio che era congeniale a lui, e non lo è altrimenti a noi che, «pel pro­ gresso fatto dalla filosofia nei cinque secoli che ci dividono » dalla sua filosofia, dalla sua teologia, dal suo mondo, in­ somma, intellettuale e morale, non a questo mondo apparte­ niamo, ma ad un altro. E qui, per la verità, non c'è solo am­ biguità, ma, come si diceva, qualcosa di più - c'è il poten­ ziamento e, se così ci si potesse esprimere, la radicalizzazione dell'ambiguità. Non deve infatti soltanto osservarsi che, iden­ tica, al pari dell'arte, al linguaggio, o l'allegoria è arte, o l'arte è allegoria, e che delle due una certo è di troppo . Ma anche deve dirsi che se, in sé stesso, il linguaggio di Dante è alle­ goria, perché tale era la sua cultura che solo in quella « for­ ma » poteva trovare appagamento ed espressione , allora per certo Gentile non avrebbe dovuto e potuto tener fermo alla precedente identificazione dell'allegoria con l'« antecedente » che si risolve nell'arte, e con il « susseguente » che è pensiero e filosofia. In entrambi i casi, infatti, e l'arte e la filosofia si sarebbero, nella loro pura essenza, storicizzate nel segno , non già del loro costituirsi trascendentale , ma del loro rendersi en21

Ibid. , p. 84.

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trambe temporali e contingenti: e con le premesse del suo idealismo egli sarebbe venuto a trovarsi in aspro conflitto. L'altra fonte di ambiguità è nel modo in cui, in questo saggio, è discussa la questione , che in Gentile è centrale, del­ l' arte e della filosofia 22 • E ne nascono in realtà varie ambi­ guità, che occorrerà cercar di individuare, di non confondere insieme, ma di distinguere. N elle pagine che tre o quattro anni prima aveva dedicate a Dante nella Storia della filosofia italiana che, come si sa, rimase interrotta, perché non andò al di là di Lorenzo V alla 23, al rapporto di arte e filosofia, non solo nella concezione, ma nella viva realtà del pensiero circo­ lante nelle sue opere, Gentile aveva dedicato più di una con­ siderazione. E fin dall'inizio aveva osservato che, opera filo­ sofica oltre che poetica, nella Commedia « il concetto generale dell'universo non è un presupposto della visione poetica nel­ l' anima del poeta ma è l'essenza stessa della trama generale dell'opera ». Drasticamente, ne aveva ricavata la conseguenza; e aveva affermato che « in Dante la filosofia è non il partico­ lare e l'accessorio, ma il generale, l'insieme, il principale », ag­ giungendo che proprio per questo non poteva dirsi che « la fi­ losofia interrompe la poesia » 24• « La prima parola del poema - che è la coscienza volgare, dominata dalle passioni, involta 22 Questione centrale non soltanto negli studi danteschi, ma anche, come si sa, leopardiani; e centrale quindi nel pensiero estetico di Gentile, che soprattutto su questi due poeti si fermò, e alle questioni che pongono in ordine all'arte, alla filosofia e al loro rapporto, deve, in un certo senso, di essere venuto al mondo. 2 3 L. Russo, La critica letteraria contemporanea, II, Dal Gentile agli ul­ timi romantici, Bari 1 946, p. 49 n. l , scrisse di essere stato informato dallo stesso Gentile che l'indagine era stata portata a termine « per tutto l'Uma­ nesimo »; e che il libro sarebbe presto venuto alla luce per essere seguito poco dopo da un volume sul Rinascimento, redatto dal Garin. Le cose an­ darono diversamente; e nell'archivio della Fondazione Gentile non ho tro­ vato alcuna traccia di questo lavoro. Nella ristampa nel corpus delle Opere, il volume è fermo a Lorenzo Valla; e l'interruzione fu, per cosl dire, ribadita persino nel titolo. 2 4 Studi su Dante, pp. 3 e 5 ( = Opere, XI, Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo Val/a), Firenze 1 962 , pp. 1 3 7 e 139). Il Russo, La critica letteraria contemporanea, II, 73-74, ha osservato, per poi toglier via la sua

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ancora nel senso -, e l'ultima - Dio - sono il punto di par­ tenza e d' arrivo d'un procedimento, dell'eterno procedimento filosofico dello spirito » e perciò « altrettanti passi riflessi dello spirito stesso », tal che « la poesia erompe, non dalla concezione che Dante ha del presente, ma dall' anima sua », che è assunta, di conseguenza, come il luogo dell'unità. Ed è, questo, un passo notevole; che, scritto alquanto tempo in­ nanzi che, nel saggio del 1 909 su Le forme assolute dello spi­ rito, Gentile tentasse la prima definizione rigorosa del sistema che aveva iniziato a delineare nella sua mente, ne accenna i temi e quasi ne anticipa le difficoltà. È evidente infatti, a leg­ gerle con qualche attenzione, che quel che conta, per Gentile, è non tanto la filosofia della quale Dante ebbe esperienza e consapevolezza nell'esposizione che via via, dal Convivio alla Commedia, ne dette, quanto piuttosto l'altra che realizzò nella concretezza e nella potenza unitaria della sua « anima »: la filosofia, in altri termini, che egli fu a sé stesso nel suo ascendere al vertice della sua propria perfezione e nel realiz­ zarsi, appunto, come « anima ». Personalità, filosofia, autocoscienza . Era, a suo modo, una concezione sufficientemente definita e articolata nei suoi termini essenziali quella che in tal modo Gentile accennava. affermazione, che « per il Gentile c'è soprattutto un Dante filosofo dal quale nasce e fiorisce episodicamente la poesia. Se ci si riflette, è la stessa tesi che sarà annunziata dal Croce nel libro del '2 1 ». L'osservazione è in­ gegnosa, ma estrinseca; e, come si diceva, dopo averla avanzata, a ragione il Russo la ritirò, osservando che « nel Croce [ . ] la distinzione vigoreggia: da ciò l'apparente tono censorio, che è un'effettiva celebrazione di Dante poe­ ta »: con la conseguenza che, mentre in lui lo scopo è di intendere «pensiero e poesia nella loro vicenda dialettica, il Gentile si fa invece celebratore della mera filosofia » . In realtà, le cose non stanno, a rigore, cosl; e non direi, per esempio, né che Croce si sia mai proposto (perché non poteva) di cogliere la « vicenda dialettica » della poesia e del pensiero (fra poesia e pensiero non si dà alcuna dialettica per ciò stesso che attraverso la dialettica lo « spirito » passa dalla poesia al pensiero) , né che Gentile si sia mai « fatto celebratore della mera filosofia » dantesca. Si aggiunga che la ragione autentica per la quale, come che sia di Gentile, non potrebbe mai dirsi che per Croce la poe­ sia sta nei particolari, è che, per definizione, non può starvi; e che, come « altro » dalla poesia, nemmeno la « struttura » sopporta definizioni spaziali. . .

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E tanto più notevole è perciò la difficoltà che anche in questa sua aurorale formulazione è possibile cogliervi. Per un verso infatti la filosofia costituiva, in Dante, la totalità dell'edifi­ cio, e l'arte non era che fregio, decorazione, qualcosa di pre­ gevole, coincidente tuttavia con i « particolari », non con l'in­ sieme . Ma per un altro verso Dante , che per suo conto am­ biva ad essere più grande filosofo che non poeta, era invece assai più grande poeta che non filosofo. E c'era poi, oltre questi due, un altro lato della questione . Parlando di arte e di filosofia, si parlava infatti di arte realizzata e di filosofia rea­ lizzata anch'essa; mentre al di là, autentica radice e nello stesso tempo vertice supremo, si dava l'unità della sua anima, che era arte ma anche filosofia, anzi l' essenzializzarsi, che è proprietà spirituale suprema, dell'arte nella filosofia. Non era, questo, un quadro semplice 25: e fra i due con­ cetti di filosofia che vi si danno a vedere, quello storico, coincidente con la filosofia elaborata ed esposta da Dante come la sua propria filosofia, e quello ideale (e più veramente reale) , coincidente con l'energia sintetica della sua anima, il gioco e le rispondenze tanto più erano complessi in quanto non era il più vero, era bensl il più angusto, a possedere il grado più alto della determinatezza e dell'« espressione ». Il grado più alto della determinatezza e dell'espressione apparte­ neva infatti alla filosofia realizzata nei concetti che Dante aveva pensati: non a quella che, come « anima », egli era in e a sè stesso. E la questione era sul serio acuta, perché, posto che avesse « realtà >>, come si sarebbe tuttavia potuto assumere che !'« anima » di Dante fosse meno determinata, e meno perciò reale, dei pensieri ai quali aveva conferito « espressione »? 2 5 Ed è infatti, in questa sua natura essenziale, sfuggito al Russo, La critica letteraria, II, 75 sgg . ; il quale ha osservazioni penetranti, ma non è nel vero, ed obbedisce ad un preconcetto, quando scrive che Gentile riconosce bensì che Dante è più grande poeta che filosofo, ma a malincuore, perché per lui la filosofia contava più della poesia, che riteneva, ai suoi occhi, qual­ cosa di caduco, di « temporale », di « umano », tanto che si configurava « come una specie di mancamento spirituale dello scrittore ». Non credo possa dirsi che, nemmeno nel 1904 (non nel 1908, come il Russo dice) , Gen­ tile avesse pensato simili pensieri.

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Forse che fra realtà e realtà, fra determinatezza e determina­ tezza, si sarebbe potuto distinguere con il criterio quantita­ tivo della maggiore o della minore intensità? Insomma: che co­ s'era in questo quadro l'« anima » di Dante? E, dalla radice stessa di questa, un'altra questione si de­ lineava: una questione, anch'essa, inquietante. Avvolta nel­ l' oscurità degli inizi e pure in qualche modo percepibile, si presentava qui una questione che nella sua fase matura Gen­ tile avrebbe dovuto porre, e invece non pose, al centro del suo pensiero; ed è quella che appunto concerne l'espressione che si rivela propria dell'arte e della filosofia (non meno com­ plesso, il caso della religione dovrebbe comunque essere con­ siderato a parte) . Dell'arte e della filosofia, infatti, l'una è certamente linguaggio, perché attraverso il linguaggio si esprime e si rende concreta, sebbene poi per un altro verso, nell'intrinseco della sua essenza, il suo carattere sia l'inattua­ lità e l' astrattezza; mentre è più che dubbio che, nella sua più autentica verità di logo concreto e di « atto in atto », la filo­ sofia lo sia. A differenza infatti di quel che accade nella « fi­ losofia dello spirito » 26, nella quale il pensiero è discrimina­ zione logica, ma anche conservazione, dell'intuitivo, in Gen­ tile l'arte è nella filosofia per intero superata, e non vi sta che come idealità, inattualità e astrattezza. Donde, come si vede, il paradosso intrinseco a questa situazione, perché, concreta nel linguaggio, l'arte è tuttavia, in quanto tale, astratta, men­ tre, nella sua concretezza, l'atto non riesce ad incontrare il medium della sua propria espressione . E donde, altresl, l'evi­ dente difficoltà intrinseca a questa situazione: che, appunto, si fa manifesta quando si consideri che, per renderla pensa­ bile , non basta sostituire all'esse dell'astratto il fieri del con­ creto . Non basta perché è pur sempre a qualcosa che « non è » , e possiede perciò il carattere dell'alterità determinata, che in tal modo si fa ricorso: con la conseguenza che anche il fieri è

Cfr. B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1942 6 , pp. 3-12, passim . 26

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un esse, indistinguibile, nel suo determinato contrapporlesi, dalla sua specifica determinatezza 2 7 . I l giro è stato un po' lungo; e non è stato eseguito che in un accenno rivolto all'autentica questione che giace nel fondo. Ma compierlo, sia pure sommariamente e, appunto, attraverso un accenno, era necessario, se si vuole almeno co­ minciare a dar rilievo a questa idea dell'« anima » dantesca; che è qualcosa di ben più serio e impegnativo che non sia una formula, perché costituisce in effetti un'articolazione tanto necessaria quanto aporetica del pensiero di Gentile e delle ra­ gioni che, nel profondo, ne determinarono il carattere, fin dall'inizio rendendo problematici, anche se diversamente pro­ blematici, i concetti che egli teorizzò della filosofia e del­ l'arte . A queste difficoltà che, sommariamente, sono state in­ dicate qui su, dovrà tener fermo lo sguardo chi delle que­ stioni intrinseche a questa forma dell'idealismo posthegeliano intenda penetrare il senso; e intanto converrà che altresl non perda di vista una delle conseguenze che ne discendono . Per un verso è la filosofia a costituire il vertice dell'anima dante­ sca, perché è appunto legge perentoria dello spirito che il ver­ tice sia costituito dall a filosofia. Per un altro è l'anima di Dante, nella sua unità, a rappresentare il vertice: mentre per un altro il vertice è costituito dalla storicità concreta di que­ sto scrittore - del quale si dice che è più grande poeta che non filosofo non solo, o non tanto, per l'evidenza dell'asserto, ma anche e piuttosto in ragione del documento che la poesia può offrire della sua grandezza, e la filosofia, invece, no. Il rapido colpo d'occhio che, come di scorcio , abbiamo gettato su questo esordio dantesco di Gentile non è stato inu­ tile; e dovrebbe infatti aver contribuito a delineare le origini di una difficoltà, o di un'indecisione fra arte e filosofia, che nella sua critica dei poeti e, sopra tutto, forse, dei poeti che, come Dante appunto e Leopardi, giudicava anche filosofi, è evidente e non si lascia ricomporre e superare . E si comincia 2 7 Sulla questione accennata nel testo, occorrerà ritornare, discuten­ dola in un più ampio contesto.

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a percepirla, questa difficoltà, e forse anche, a questo punto, a soppesarla e valutaria nelle sue ragioni, quando, passando di nuovo al primo dei tre saggi dedicati al Vossler, si ascolta la parola di Gentile, che, fattasi all'improvviso eloquente, troppo eloquente , assicura che « nell' anima di Dante, nella sua coscienza, tutto è fuso, tutto è uno : la religione è filoso­ fia, e la filosofia è arte: cioè, a rigore, non ce né religione né filosofia, ma arte: un'arte come non c'era stata mai; un'arte che raccoglie nel fuoco della fantasia la visione dell'universo, natura e uomo; e l'uomo con tutte le sue passioni vitali, dagli amori bestiali all' amore divino; e però con tutte le forme del sapere, dalla descrizione delle cose sensibili alle speculazioni della realtà soprannaturale ». La questione che con queste ri­ sonanti parole Gentile poneva non era, per il sistema che con prepotenza gli urgeva nella mente e cercava la sua espres­ sione, cos a di poco conto: richiedeva infatti che le relazioni dell'arte con la religione e con la filosofia fossero definite nelle loro specifiche ragioni teoretiche. E, sia pure indiretta­ mente, a qualcuna di queste esigenze definitorie Gentile si provò a dare soddisfazione e orizzonte . Non prima per altro di aver rilevato, ed era un singolare rilievo , che « la poesia qui non ha da riconciliare nulla [ . . ], perché sorge dall'unità straordinaria di quest'anima completa e fortemente perso­ nale . Il segreto per intendere la filosofia che ci sta dentro, e senza di cui perciò la stessa poesia sarebbe inintelligibile, è di mettersi al punto di vista di Dante » 2 8 • Due passaggi qui richiedono di essere notati e posti in ri­ lievo . E per cominciare dall'ultimo, dovrà dirsi che non è senza qualche almeno iniziale meraviglia che nelle linee che si sono appena citate si legge di una poesia che « qui non ha da riconciliar nulla» perché sorge dall' « unità straordinaria di quest'anima completa e fortemente personale », che Dante chiudeva nel profondo del petto . Non senza qualche sorpresa; e sembra infatti che, a differenza di altre poesie di altri poeti, e quindi contraddicendo a quel che pure, con esplicita radi­ calità, si era asserito a proposito della stessa Commedia e del .

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Studi su Dante,

p.

74.

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Faust di Goethe (che, in quanto poesia, non sono paragona­ bili, perché « sono una cosa sola: poesia » 29), qui Gentile as­ suma qualcosa come la « straordinarietà » ed eccezionalità della poesia di Dante; che in realtà non deve « riconciliare nulla » nella materia dalla quale nasce, che è di per sé unitaria e in ogni senso coerente. Che questo concetto della « straordi­ narietà » (del contenuto oltre che della forma) intervenga in effetti, nel ragionamento di Gentile, con tale forza da costi­ tuirne il centro , è reso evidente anche da quel che si legge al­ l'inizio di questa pagina, là dove esplicita è l'affermazione che quella di Dante è una poesia quale non si era mai vista, né udita, prima. E occorrerà cercar di spiegarla, questa straordi­ narietà, che costituisce in effetti una questione non semplice nel quadro di una filosofia nella quale sempre, e in ogni sua ar­ ticolazione, la realtà o la semplice idealità dell'arte mise a dura prova colui che l'aveva costruita. Non è d'altra parte, questo della « straordinarietà» dan­ tesca, un concetto che s'incontri soltanto qui. Nel saggio che nel 1 9 1 8 dedicò a La profezia di Dante, e che è di poco po­ steriore alla prima edizione della Teoria generale dello spirito come atto puro 30, Gentile tornerà a scrivere che ogni poeta, e citava Petrarca, Ariosto, Shakespeare, Goethe, « è universale, e parla eterno al cuore di tutti ». Ma, a costo di una dizione filosoficamente più che imperfetta, era quasi costretto ad as­ sumere che quella di Dante fosse « un'universalità superiore a quella propria d'ogni poeta». E ricorrendo ad una « formula » che definiva « filosofica », spiegava che, « laddove l'universa­ lità del poeta concerne la forma dello spirito che si attua nella poesia, quella di Dante investe anche il contenuto » 3 1 • Eb­ bene, di fronte a questo ulteriore e più compiuto documento della « straordinarietà » dantesca deve cercarsi di cogliere il 2 9 Ibid. , p. 63. Andrà notato, come semplice curiosità, che queste, de­ dicate al Dante del Vossler, sono salvo errore le uniche pagine nelle quali a Gentile sia occorso di parlare con qualche determinatezza del Faust di Goe­ the : un poema che, per il modo in cui liricità e riflessione vi si presentano intrecciate, avrebbe invece ben potuto attrarre la sua attenzione. 30 La prima edizione della Teoria generale è del 1 9 1 6 . 3 1 Studi s u Dante, p . 1 6 7 .

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punto; e procedere perciò con ordine . Da quando , discutendo con Benedetto Croce, in privato e poi anche in pubblico, aveva incominciato a ragionare intorno alla questione della forma, del contenuto, del loro rapporto 32, sempre Gentile era stato guidato, e con progressiva chiarezza e radicalità, dal con­ cetto dell'intrinseca unità dei due termini; e non solo aveva escluso che, nei confronti dell'arte, il contenuto potesse mai stare nella posizione di ciò che ne condiziona, ne limita, ne determina la capacità espressiva, ma anche aveva avuto l' oc­ chio ad una sintesi che nella reciproca trasparenza dei termini escludesse, in effetti, la loro dualità. Il contenuto dunque era forma, e la forma contenuto, senza possibilità che fra questa e quello si mantenesse se non la distinzione delle parole, significanti però lo stesso. « Il solo reale contenuto di un'opera d'arte - aveva scritto nel 1 9 12 , nell'ultimo dei tre saggi dedicati al Vossler - non è il conte­ nuto, ma la stessa forma in cui esso si scioglie e vive » 33; e il passo, che già è stato citato e in parte commentato, potrebbe esser considerato come la prima sintesi di quanto da anni or3 2 La discussione che i due filosofi intrapresero sulla forma e il conte­ nuto, e che durò (si può dire) per l'intera loro vita, ha il suo inizio (salvo errore) con la richiesta che il 25 settembre 1 898 Croce rivolse all'amico (Let­ tere a Giovanni Gentile, p. 23) perché gli scrivesse le sue obiezioni « sulla questione del seicentismo », alla quale già Gentile aveva alluso (Lettere a Be­ nedetto Croce, l, 1 02) 1'8 settembre. « Voi siete dei pochissimi (o il solo?) che abbiano penetrato la questione della /orma nell'estetica ». Ed è possibile seguirla, questa discussione, nelle lettere che i due amici si scambiarono con particolare intensità nel periodo, sopra tutto, in cui Croce era intento alla delineazione delle Tesi di estetica . Cfr., per es . , fra il settembre e il novem­ bre del 1 898, GENTILE, Lettere, I, 105-108; CROCE, Lettere, pp . 25-27; GEN­ TILE, Lettere, I, 1 1 2-2 1 ; CROCE, Lettere, pp. 3 1 -32; GENTILE, Lettere, I, 1 2 830. Cfr. poi, fra il giugno e il dicembre del 1 899, CROCE, Lettere, pp. 5 1 -52; GENTILE, Lettere, I, 1 79-8 1 ; CROCE, Lettere, pp . 52-5 3 ; GENTILE, Lettere, l , 225-28; CROCE, Lettere, pp. 69-70, 70-72 , etc . E cfr. poi la lettera del 2 7 giugno 1900, nella quale (Lettere, I, 297-98) Gentile formula il suo giudizio sulle Tesi di estetica, da poco ricevute: « ho pensato e ripensato sulle vostre tesi fondamentali di estetica; e mi sono sempre più confermato nella prima impressione; che per voi questa scienza si mette sulla sua via . Il vostro con­ cetto dell'espressione, come fatto puramente spirituale, interno, di libera at­ tività, è una verità capitale e incontrastabile di altissimo valore ». 33 Studi su Dante, pp . 1 12- 1 3 .

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mai impegnava, su questa materia, la sua riflessione . Nei con­ fronti dell'estetica che, dalla fine del precedente secolo, Croce aveva preso a costruire, la sua preoccupazione non era stata infatti che di spingerla verso questo approdo, inducendo il « filosofo amico » a progressivamente ridurre la distanza che gli sembrava fosse stata da lui mantenuta fra i due termini, fra il sentimento, preso al di qua dell'intuizione, e l'intuizione, as­ sunta come elaboratrice e trasformatrice, ma di qualcosa che le provenisse tuttavia, e pur sempre, dall'esterno. Ebbene, come mai allora, se è cosl, nel luogo che stiamo esaminando Gentile si espresse in quei termini singolari? Per il semplice suo distrarsi dal pensiero che più avrebbe dovuto essergli in­ trinseco? Per pura inavvertenza, e a causa dunque di un « erro­ re » nel quale, come si assicura, tutti possono incorrere? O in­ vece per un'altra, meno futile ragione, considerando la quale si arriva a comprendere che l'inavvertenza non fu affatto, o non fu soltanto, un'inavvertenza, e quei termini non sono cosl singolari da non poter essere spiegati, o da non poterlo essere se non mediante il ricorso a qualcosa di contingente e di acci­ dentale - e fosse pure l'immagine diversa e più alta che, come poeta, Dante offriva agli occhi intellettuali, e forse an­ che al sentimento retorico, di Giovanni Gentile? La questione è in realtà alquanto delicata; e ha a che fare con il rapporto niente affatto semplice che in quegli anni Gentile aveva stabilito e intratteneva con l'estetica di Benedetto Croce . Rapporto niente affatto semplice; e, anzi, obiettivamente ambiguo, perché da una parte, nei confronti dell'estetica crociana, Gentile era venuto a trovarsi nella po­ sizione del critico che suggerisce, emenda, modifica, spinge insomma in una direzione che era quella indicata dal suo pensiero e che andava oltre; ma da un'altra, e mediante l'esercizio stesso della critica, a tal punto aveva reso il suo pensiero interno a ciò che pure criticava da condividerne poi, in questa forma, la sostanza profonda. E l'ambiguità nacque di qui; perché qui, fra le altre cose, si era determi­ nato l'equivoco . Nel suo nucleo, quella di Croce era un'este­ tica dell'intuizione (espressione) ; e per quanto l'autore avesse cercato di garantirne la compattezza, il rapporto che l'intuizione istituiva con il sentimento supponeva, alla sua

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radice, l'alterità (in senso platonico) dei termini, e quindi, pur all'interno della realtà spirituale, la non identità delle « fonti ». Insomma, fin dall'inizio, a fondamento del suo di­ scorso, Croce supponeva l'intreccio eterologico delle forme; e basti pensare al « sentimento » che, certo, era arte in quanto fosse stato assunto e trasfigurato nella e dalla forma, ma era prassi, era « altro » cioè dalla teoreticità, nel quadro e nel ritmo della realtà, all'interno della quale accadeva altresì che decadesse a materia della forma teoretica dell'intuizio­ ne 34. Di questi ragionamenti, e anche a prescindere dal com­ plesso quadro di relazioni che la distinzione dei distinti dagli opposti e l'intrinsecità di questi a quelli contribuivano a de­ terminare, era impossibile che, fin dall'inizio, Gentile accet­ tasse la premessa. Fin dall'inizio, la questione della diversità, o distinzione, gli si era infatti presentata nella forma, non di una distinzione di fonti originariamente distinte nell'unità, ma in quella della pura idealità di ciò che (arte e religione) di per sé è inattuale, e non ha concretezza se non nella sintesi, ossia nella filosofia e nel pensiero . Era un capo delle tempeste quello che, in tal modo, Gentile affrontava, o si preparava ad affrontare; e le acque vi erano infatti non meno agitate di quelle sulle quali anche il vascello crociano aveva preso a na­ vigare . Ma, come che sia di ciò, è pur vero che all'idealità e inattualità dell'arte (e della religione) egli avrebbe dovuto, per potervi tener fermo con coerenza, sottrarre il carattere della forma, che significa « sintesi ». Se questo carattere fosse infatti stato mantenuto e, alla maniera crociana, l'arte fosse stata presentata come forma e come sintesi, impossibile sa­ rebbe stato, e Gentile avrebbe dovuto accorgersene, assu34 Che questo giro concettuale sia ricco di molte complicazioni, e che col decidere circa la « possibilità » che la forma « decada » a materia anche si decida se, nel sistema dello spirito, la dialettica possa darsi (per « dialettica » intendendosi qui tanto la vera e propria dialettica, degli opposti, quanto il nesso di quelle « sintesi » di opposti non ulteriormente dialettizzabili che sono i « distinti ») , è, per chi conosca la filosofia dello spirito, evidente: e per le molte e anche intricate questioni che ne nascono, si veda il mio Be­ nedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975, pp . 1 2 1 sgg .

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merla come l'elemento « astratto » che, nel costituirsi, la sin­ tesi del pensiero risolve in sé. E insomma, se fin dall'inizio gli fosse stato dato di guardare con nettezza nel fondo della que­ stione, nell'estetica di Croce Gentile avrebbe dovuto criticare non tanto il modo in cui, fermo restando il carattere intuiti­ vo-espressivo dell'arte, fosse stato di volta in volta configu­ rato il suo rapporto con il sentimento, ma l'idea stessa che fra arte e sentimento si desse un rapporto, e questo fosse l'arte . Che sia cosl, è evidente; e non è un caso che quando Gentile ebbe finalmente guardato con qualche intensità e chiarezza nella logica della sua mente, fu proprio alla distinzione di intui­ zione e sentimento, o di sentimento e intuizione, che rivolse la sua critica; e fu altresl allora che, senza poter dissipare ogni am­ biguità, egli riconobbe l'essenza dell'arte in quella del senti­ mento: senza poter dissipare ogni ambiguità, perché, identifi­ cata con l'immediatezza del sentimento, l'arte conservò tuttavia il carattere suo di « forma » di questa immediatezza 35 • Se per altro è cosl, e la perentorietà stessa del risultato al quale da ultimo egli pervenne si presenta come in sé stessa di­ midiata e perplessa, allora è evidente che in tema di ideale cronologia gentiliana varie cose richiedono di essere rettifi­ cate. Assurda è senza dubbio la tesi che scandisce come una sorta di marcia trionfale gioiosamente dipanante il filo aureo della coerenza fin dall'inizio posseduta la vicenda, che fu in­ vece tutt 'altra, del suo pensiero 36• E addirittura vacuo è il co­ rollario che ad un certo punto qualcuno ne trasse affermando che di Croce Gentile fu non l'allievo, ma, fin dall'inizio, il maestro (inascoltato nella sostanza, e non segulto) 37 • Non 35 Rinvio essenzialmente su questo punto al saggio sul Sentimento (1928) e alla « voce » Arte ( 1 929) raccolti nell'Introduzione alla filosofia, Fi­ renze 1 9522, pp . 34-60 (e in particolare, 5 1 sgg . ) , 12 1-34. E cfr. La filosofia dell'arte, Firenze 1937, pp . 1 66-96, 197 sgg . , passim. 3 6 Cfr . , in questo senso, quel che lo stesso Gentile scrisse nel 1 9 3 1 nel saggio Concetti fondamentali dell'attualismo, ora in Introduzione alla filoso­ fia, cit . , p. 18 (« i primi scritti in cui comincia a delinearsi la filosofia attua­ listica risalgono agli ultimi anni del secolo XIX ») ; e in nota rinviava al suo Rosmini e Gioberti (1 897/ 1 898) . 3 7 Alludo alla lettera « aperta » che nel 1950 Ugo Spirito inviò, per so­ stenere questa « tesi », allo stesso Croce. Cfr. U. SPIRITO, Giovanni Gentile,

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questa tesi è infatti vera, che , alla luce del suo corollario, ap­ pare anzi addirittura ridicola. Ma vero è piuttosto che, es­ sendo nel fondo di sé stesso posseduto da un pensiero che, as­ sai diverso da quello di Croce, lo conduceva nella direzione conclusiva dell'unica autocoscienza spirituale - di quell'atto puro, di quel pensiero pensante, di quell'agens, di cui Ber­ trancio Spaventa 3 8 aveva più che intuito il lineamento essen­ ziale - Gentile fu tuttavia agli inizi fortemente influenzato dalla « filosofia dello spirito » e dall'estetica che ne era parte. E tanto più, si direbbe, l'influenza subìta fu notevole , e tale da non poter essere liquidata, se si vuoi capire, in poche bat­ tute, in quanto fu nell'intrinseco contrastata, combattuta e, appunto, subìta bensì, ma nella forma della critica che in­ tanto, per migliorarlo, veniva rivolta a ciò che in qualche modo si accoglieva. Così, ed è un fatto, da Croce Gentile ac­ colse il principio della forma; che non mutò, come si è accen­ nato, il suo carattere solo perché a questa si fosse studiato di rendere in ogni senso intrinseco il contenuto . Accolse anche, per conseguenza, il principio dell'intuizione e dell'espres­ sione: come si vede, ad esempio, e a tacer d'altro, nel primo dei tre saggi dedicati al Vossler, e ancor meglio nella recen­ sione che consacrò alla terza edizione ( 1 907) dell' Estetica; e nel discuterla, valorizzandone con piena consapevolezza i « progressi » idealistici, mostrò bensì di essere vivamente preoccupato della questione connessa all'unità delle forme (che fu al centro del mai concluso dibattito da lui sostenuto con Croce), ma non per questo ebbe allora dubbi sul punto che l'arte fosse « forma » e, in quanto arte, autoposizione del suo proprio contenuto. Scrisse in quel testo: Dunque, il Croce ha fatto un'estetica formale? Anch'io aderisco alla veduta del Croce; e vorrei che questo formalismo fosse inteso bene. Non si dice già che il contenuto dell'opera d'arte non sia bello; ma si nega la bellezza del contenuto come tale . Il Croce non

Firenze 1969, pp . 75-93 (e la sferzante replica di Croce, nelle Terze pagine sparse, Bari 1955. II, 86-9 1 ) . 3 8 Cfr. G . GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1924 2 , p. 35 ( = Opere, XXVI I, 3 1 ) .

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ammette la forma per sé stante, quasi un precedente dell'arte, un'idea innata. La definisce infatti per un'attività dello spirito, at­ tività elaboratrice, espressiva. L' attività produce le forme, che si di­ cono belle; ma prima della produzione, non v'è se non l'attività astratta. Né la produzione è possibile senza la posizione di un con­ tenuto. E dico posizione, perché non è possibile avere un contenuto indipendente dalla forma, fuori dell'attività dello spirito: onde si dirà bene, dicendo che la forma genera il contenuto; e che il forma­ lismo quindi, nonché dimezzare o comechessia menomare la realtà del fatto artistico, lo coglie tutto in ciò che ha di essenziale. Porre insomma una forma è costruire un contenuto. E criticare pertanto un contenuto è criticare la forma, la vera forma, ciò che lo spirito ha prodotto del suo . Non c'è dunque forma e contenuto; se ci fosse l'una e l'altro, l'una accanto all'altro o in qualche altro modo con­ nessa con l'altro, il formalismo sarebbe un errore 39.

È ben vero che in questo passo, e, in genere, nell'intero suo scritto, Gentile accentua e, se si vuole, radicalizza. Ma non perciò stravolge il pensiero crociano che, interpretato cosl, è infatti ben interpretato . Ed è di conseguenza da giu­ dicare fuorviante quel che, ristampando nel 1 920 questa sua recensione, Gentile scrisse a proposito dell'ultima espressione data da Croce, nel Breviario di estetica ( 1 9 12), a questo con­ cetto del « formalismo ». Gli sembrava infatti che il « senti­ mento » vi fosse presupposto all'immagine, perché di quello, appunto, si implicava il superamento come di « Un atto mercè un altro atto ». E aggiungeva che l'arte era bensl, da Croce, definita « sintesi a priori estetica », sintesi di sentimento e im­ magine nell'intuizione, ma, obiettava, in modo tale da non avvertire che « in quella sintesi come attività sintetica è la vera forma, e che l'altra, quella tale immagine onde si illu ­ mina il cieco sentimento, è una mera astrattezza » 40. Il che, francamente, reca qualche sorpresa perché, quali che siano, è certo che non queste indicate da Gentile sono le difficoltà in­ trinseche all'idea crociana della sintesi. La quale è, innanzi tutto, la stessa cosa dell' « immagine » nell'atto in cui questa

39 4°

Frammenti di estetica e letteratura, Lanciano 1920, Frammenti, p . 1 42 n. l .

pp .

1 4 1 -42.

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supera e risolve in sé, nella sua propria trasparenza, il conte­ nuto sentimentale . Se, infatti, non fosse così e s'interpretasse altrimenti, certo non si arriverebbe a capire che cosa mai sa­ rebbe la sintesi; che, essendo estetica, non può essere logica, ma, se fosse più dell'immagine, non potrebbe essere estetica. In realtà, « sintesi di sentimento e immagine » è, in Croce , la stessa immagine, che non è infatti, in sé stessa, se non sintesi di sé e del sentimento : a quel modo stesso che , nella sua con­ cretezza, anche l'atto è sintesi di sé e dell' astratto . E questo, senza dubbio, genera aspre difficoltà; che riguardano per al­ tro le « forme » crociane non certo più di quanto si rivelino intrinseche alla struttura stessa dell'atto puro teorizzato da Gentile. Si tratta, tuttavia, di difficoltà ulteriori; e da esami­ nare in un altro contesto, con la larghezza, e con l'agio ana­ litico , che senza dubbio richiedono e meritano . Nella sede in cui ci troviamo, basterà dire che l'obiezione di Gentile appare infondata. E in altro sta, salvo errore, la vera difficoltà. La vera difficoltà sta nella concepibilità di quel momento « astratto » (il sentimento, il « fatto ») che, in Gentile non meno che in Croce, per un verso « è per non essere », e perciò appunto è astratto e si risolve, ma per un altro, inevitabil­ mente, in questo suo « essere per non essere » è, e perciò è il fondamento e la ragion d'essere del suo « non essere » nel con­ creto e nel sintetico . Queste sono, senza dubbio, complicate questioni . E, come si diceva, richiedono di essere svolte in altra sede . Ma, tornando al primo detto, occorre ribadire che se, fin dall'ini­ zio, Gentile avesse avuto chiaro il tema più profondo del suo pensiero, proprio a questo aspetto (che è poi il fondamentale) dell'estetica di Croce avrebbe dovuto dar rilievo e negare il suo consenso: non essendo per lui possibile trovare un punto d'incontro che non fosse estrinseco con una filosofia che, in una direzione o in un'altra, tenesse fermo all'idea dell'auto­ nomia, e cioè del carattere sintetico dell'arte . Eppure, nemmeno se si dicesse così, a rigore si direbbe bene; e nel pensiero di Gentile occorre infatti cercar di guar­ dare più a fondo. Se con l'estetica e la filosofia di Croce egli

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non poté fare a meno di stabilire un contatto, che riuscì cri­ tico bensì, ma ciò nonostante anche, e in ogni senso, coinvol­ gente, le ragioni non possono essere né superficiali né estrin­ seche; e costituirono infatti per lui la condizione di un tor­ mento concettuale che, lungi dall'aver risolto, La filosofia del­ l'arte condusse al vertice dell'esasperazione, e che, alla radice, si chiarisce nella duplice e contemporanea impossibilità di consentire con l'affermazione della piena autonomia dell'arte, e, per un altro verso, di rinunziarvi senza essere costretto a faticose delucidazioni . In realtà, non si trattava soltanto del fascino esercitato sul suo dal pensiero estetico di Croce; e nemmeno di quello che, malgrado tutto, egli subì dai poeti, o da quelli almeno, Dante Leopardi Manzoni, che più gli erano congeniali e sui quali, infatti, a più riprese tornò . Si trattava di questioni connesse con il suo pensiero, e con la struttura del suo pensiero: nella quale, come si sa, conforme ai modi del suo particolare hegelismo, con la religione egli ritrovava anche l'arte che, al pari dell'altra forma e specularmente a questa, era bensì inattuale e in sé e per sé inidonea a stringere la realtà, che è dell'autocoscienza e di essa soltanto, ma in questa inattualità era tuttavia ineliminabile, necessaria, irri­ nunziabile, e tale perciò da generare e comunicare inquietu­ dine, disagio, varia preoccupazione . È proprio qui, in questa strutturale ambiguità, che la pre­ senza nel suo pensiero dell'estetica crociana si rivela inelimi­ nabile : quasi che la lezione che in gioventù, e malgrado ogni grande o piccolo dissenso, ne aveva ricavata lo inducesse a conferire il massimo dell'intensità e dell'importanza struttu­ rale ad un momento (l' arte) che, nella dialettica dello spirito, era tuttavia, e per altro verso, segnato da « irrealtà», astrat­ tezza, inattualità, e, per converso, a guardare con non suffi­ ciente spregiudicatezza nel groviglio di difficoltà che, per questa via, si costituì alla radice del suo pensiero . Tipico può essere considerato, da questo punto di vista, il caso de La fi­ losofia dell'arte, ossia del libro nel quale più aspra, e tesa fin quasi al limite dell'ingiuria e del dileggio, risuonò la nota della polemica diretta contro il pensiero di Croce, filosofo delle « quattro parole »; e nella quale chi tuttavia segua il filo obiettivo del pensiero, e a questo guardi, non ad altro, arriva

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forse a comprendere che la violenza del tono non si spieghe­ rebbe al di fuori della volontà di stabilire una distanza che, per alcuni aspetti essenziali, poteva bensì essere proclamata, non però dimostrata, e dedotta. Non è possibile, in poco spazio, cercar di spiegare perché questa difficoltà, o ambiguità, riuscisse a Gentile insupera­ bile, e, appunto, fra inattualità e attualità (realtà) dell'arte, fra il suo « esserci per non essere » e, comunque, l'esserci e ba­ sta di questo « esserci per non essere », sempre egli rimanesse indeciso, e oscillasse e pretendesse che ad entrambe queste determinazioni potesse darsi, nel suo pensiero, coerente ospi­ talità. Non è possibile spiegare in poco spazio perché del­ l' arte, che per un verso è inattuale, Gentile sentisse di dover parlare, per un altro, come di qualcosa di attuale; e all'attuali­ tà, per esempio, non alla inattualità, egli intitolasse una delle due parti in cui, dopo la non breve Introduzione, divise La fi­ losofia dell'arte. Non è possibile spiegare perché, dopo avere così a lungo polemizzato contro i rischi del dualismo, e perciò anche contro ogni tentazione che avesse subita di assumere, in relazione alla forma, un contenuto non per intero e tra­ scendentalmente risolto in questa, Gentile giungesse a iden­ tificare arte e sentimento, e di questo facesse l'« inizio » ne­ cessario della vita spirituale 4 1 : una forma, dunque, che, piac­ cia o no, nella sua « inizialità » viene prima del pensiero, che infatti se la trova dinanzi e la deve perciò elaborare e domare. È ben vero che, come Gentile esplicitamente dice, il senti­ mento trova nel pensiero la sua autentica espressione e rea­ lizzazione 42 • Ma, lungi dal risolverla, questa avvertenza esa­ spera la difficoltà. La esaspera perché, appunto, in che senso allora sarebbe in sé stesso reale questo sentimento, che trova la sua realizzazione ed espressione nel pensiero, e tuttavia, per un altro verso, è definito come tale che, non solo , « all'ini­ zio [ . ] della giornata », « prevale » nell'uomo come la « forza del sentire non ancora domata dalla disciplina della riflessione . .

41 42

Filosofia dell'arte, Ibid. , p. 20 1 .

p.

224 .

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e dell'analisi » 43 , ma anche nella pienezza della « mediazione » che il pensiero esercita sul corpo vivo della sua « immediatez­ za» fa avvertire la sua presenza, e vi è « bensì sempre supe­ rato e come disciolto » 44 non però, appunto, perduto, perché « nella mediazione sopravvive l'immediato » 45 , e se « al pen­ siero venisse una volta a mancare il sentimento che esso og­ gettiva, il pensiero verrebbe a lavorare nel vuoto, e cioè a ca­ dere nel nulla » 46? Inattuale, dunque, per un aspetto, il sentimento, che ha nel pensiero la sua espressione. Attuale, tuttavia, in un altro ·senso, come radice dell'essere e tonalità ineliminabile e neces­ saria del pensiero. Con il che, e vederlo non è difficile, si torna alla difficoltà e all'ambiguità che segnano di sé questo aspetto della riflessione gentiliana. E anche, si badi, si torna a dover ribadire che ad una questione così intricata sarebbe impossibile dare soluzione in poco spazio. Mediazione, imme­ diatezza, « sopravvivenza » di questa in quella, - e quindi sintesi, analisi, analisi di sintesi (oltre che sintesi di analisi) , sono termini e concetti costitutivi dell'universo attualistico (e delle sue difficoltà) . Se, ad esempio, così, all'ingrosso, si di­ cesse che nel pensare e teorizzare la dialettica dell'atto e l'« infinito processo dell'infinità dello spirito », Gentile è in­ corso nell'equivoco consistente nell'assumere gli « opposti » tanto come opposti-contraddittori quanto, per usare la defi­ nizione aristotelica, come opposti-contrari (o diversi) , non si direbbe male, e anzi si indicherebbe forse il punto essenziale, e dolente, della questione . E si arriverebbe forse a capire per­ ché, contro la più certa coerenza del suo pensiero , Gentile as­ sumesse questo concetto dell'« analiticità» della sintesi, ossia della realtà in essa dell'immediato, che è arduo in effetti, e anzi impossibile, assumere nell'ambito delle cose pensabili . Ma la dimostrazione richiederebbe tempo e spazio; e bastino perciò queste poche e veloci osservazioni che, in margine alla H

Ibid. , p. 224. Ibid. , p . 1 78 45 Il sentimento cit . , p. 47. E cfr. La filosofia dell'arte, p. 2 1 7 . 46 LA filosofia dell'arte, p . 1 7 8 .

44

.

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pagina che ora sarà citata, certo non ne esauriscono l'analisi e il commento, e ad entrambi tuttavia danno un qualche inizio: Nel pensiero son da distinguere tre momenti, non successivi ma idealmente progressivi : la cui conclusione è la loro sintetica unità, ossia appunto il pensiero. Primo: coscienza di sé . Secondo : coscienza di qualche cosa. Terzo : coscienza di sé che è coscienza di qualche cosa. Si può anche dire: soggetto, oggetto, unità di soggetto e og­ getto. L'oggetto presuppone il soggetto, a cui è relativo, e da cui in­ fatti è prodotto; perché il soggetto si costituisce soggetto in quanto ha coscienza di sé, e distingue in sé cosl sdoppiato un sé che è il sog­ getto e un sé che è l'oggetto della coscienza. Li distingue; e per di­ stinguerli realmente, li oppone e contrappone, non riconosce cioè sé in sé stesso, e l'oggetto non è lo specchio di lui stesso, ma l' altro, il suo limite. L'opposizione però, se restasse tale e non si risolvesse nella unità di una sintesi che abbracci gli opposti, non sarebbe nep­ pure opposizione . I due termini sarebbero sempre un termine solo; perché dall'uno di essi, mancando ogni relazione, non ci sarebbe modo di passare all'altro, e avere quindi, invece di uno, due termini. La dualità richiede l'unità, e l'opposizione accenna già alla medesi­ mezza. E la relazione, significativa di una fondamentale unità, qui è presente nella ragione stessa della dualità: in cui l'oggetto si oppone al soggetto per la realizzazione della stessa autocoscienza. E questa non è nell'immediato soggetto, punto di partenza del processo della realtà, ma non ancora realtà in atto . Nella quale il soggetto entra a un tratto con l'oggetto, come termine correlativo d'un termine oppo­ sto nel senso della relazione in cui egli si realizza. Perciò attraverso la coscienza dell'oggetto il soggetto attua la coscienza di sé, fuori della quale il soggetto non è nulla. Tanto più si oggettiva, tanto più esso è quel soggetto che può essere. Più cresce il sapere, più s'estende la sfera d'azione d'un uomo, e si arricchisce e si slarga la sua possibilità 47•

Non sarà il caso di ricordare, tanto presso gli esperti la cosa è nota, che con l'illustrazione di questo schema tripartito Gentile aveva dato inizio, nel lontano 1 909, alla delineazione dei primi elementi del sistema che avrebbe, di n a qualche anno, assunto, o cominciato ad assumere, il volto dell'ideali­ smo attuale. E il soggetto si definiva 11 non solo soggetto, ma 47 La

filosofia dell'arte,

pp.

8 1 -82.

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anche arte, mentre , l'oggetto essendo «religione », la filosofia costituiva l' atto sintetico dell'uno e dell'altro, ossia la risolu­ zione della contraddittorietà intrinseca all'uno, all ' altro, e alla loro contrapposta astrattezza. Per un verso, di conseguenza, i termini astratti precedevano l'atto del pensiero , che non avrebbe potuto, né mai potrebbe, costituirne la sintesi se, ap­ punto, quelli non si presentassero con questo carattere e, in qualche modo presupponendoli nel suo stesso porsi, esso, il pensiero, non li dispiegasse tuttavia dinanzi a sé come « ciÒ » che rende possibile il suo atto . È ben vero infatti che, per un altro verso, è il pensiero a venir prima dell'arte e della reli­ gione, e che l'atto precede il fatto . Ma non meno vero (ed è questo il punto che ci si lascia per lo più sfuggire) - non meno vero è che, nel porli come opposti e nel costituirne perciò la radice, il pensiero è come costretto a non poter pre­ scindere dal loro essere, e non poter non essere, l'uno il sog­ getto, l'altro l'oggetto: con la conseguenza che, essendone l'inizio, esso è anche tale da non poter non riconoscere in quelli l'inizio del suo essere, ed esserne, l'inizio . Per un verso, insomma, unica realtà, -realtà vera e autentica, è il pensiero, l'atto del pensiero: nei confronti del quale, senza essere realtà in atto, l'arte e la religione posseggono tuttavia la loro nota di realtà, perché del pensiero , come si è detto, costituiscono l'inizio, e, nella loro diversa auroralità, inaugurano il mondo . Ancora: per un verso realtà e atto sono la medesima cosa, e non si dà realtà che non sia tale nell'atto (che non ha e non può avere né un prima né un dopo) del suo esserlo. Ma, per un altro, l'atto ha un inizio, che non coincide con l'atto per­ ché, appunto, non ne è che l'inizio e lo dischiude alla sua pos­ sibilità: con la conseguenza che ciò che l'identità di atto e realtà esclude (ossia l'esser reale di quel che non sia il suo atto) viene riammesso e, contro ogni intenzione, la realtà ri­ schia di doversi distinguere in sé stessa senza che il suo mo­ mento debole (l'arte e la religione) possa essere né ammesso come legittimo né estromesso come inesistente . L' ambiguità intrinseca a questa situazione, nella quale la realtà, che è atto e non può essere se non atto, è anche tut-

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tavia, in qualche modo, « reale » al di qua della realizzazione dell'atto, - questa ambiguità è l'indizio di una difficoltà grave, che giace nel fondo del sistema; e che consiste nel modo in cui, anche nel periodo della sua piena maturità filo­ sofica, Gentile considerò gli opposti. Anteriori o posteriori alla sintesi, gli opposti furono infatti, e innanzi tutto, da lui considerati come necessari alla sintesi, che è sintesi di opposti e, certo, non sarebbe ciò che è se, creati o no dal suo stesso atto, questi comunque non si dessero e non possedessero realtà. Se, per altro, gli opposti sono necessari, e « si danno » e posseggono realtà, come mai potrebbero essere considerati contraddittorii e, nel senso di contraddittorii, astratti? Se in­ sieme fossero contraddittorii e necessari, necessari e contrad­ dittorii, allora sarebbe contraddittorio assumerli o come con­ traddittorii o come necessari: essendo evidente che, come ne­ cessari, non possono essere contraddittorii, e, come contrad­ dittorii, è impos sibile che siano necessari . Per questo, ossia per l'avvertimento di questa difficoltà, e, insieme, per la sua non piena trasparenza, avvenne che Gentile dicesse opposizione e contraddizione, e intendesse in­ vece, piuttosto, contrarietà; e restituisse perciò realtà e auto­ nomia a termini che, se sul serio fossero stati conformi al suo intendimento, avrebbero dovuto essere destituiti dell'una e dell'altra . Se per altro, e contro il suo intendimento, i con­ traddittorii non furono, in Gentile, se non contrari, allora è evidente che meno che mai si sarebbe dovuto parlare del loro non potersi non risolvere in unità. È più che discutibile, e anzi, a rigore, schiettamente impossibile, che il luogo di riso­ luzione dei contraddittorii sia costituito dall'unità (dialettica) ; e sarebbe interessante cercar di capire come mai questo con­ vincimento si sia invece formato, - attraverso quali vie e quali equivoci. Ma altrettanto discutibile e, anzi, non meno schiettamente impossibile è che gli opposti si risolvano in unità se siano stati presi come contrari. I quali infatti non ri­ solvono la loro contrarietà ed opposizione nella sintesi, il luogo ontologico della loro intellegibilità essendo costituito dalla contrarietà stessa, della quale, come che ulteriormente ciò sia possibile , costituiscono gli estremi . E in questa pro­ spettiva, dunque, invece che come sintesi, inveramento, supe-

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52 1

ramento, risoluzione, unità, il pensiero, l'atto, il trascenden­ tale non sarebbero che la contrarietà stessa, - la relazione dei contrari e il suo intrascendibile non potersi « risolvere » in altro. Sono, come si vede, questioni complesse e, nella loro tra­ scrizione gentiliana, ancora più sfuggenti, forse, di quanto non siano in altri contesti filosofici di questa medesima tra­ dizione concettuale. Ma abbastanza evidente vi è, salvo er­ rore, l'oscillazione, in cui Gentile s'impigliò rimanendovi pri­ gioniero, fra la realtà del soggetto e dell'oggetto, e, per un al­ tro verso, la loro irrealtà, fra l'attualità e l'inattualità, e cosl via. Un'oscillazione, un'ambiguità e un'incertezza che, come si vede, risalgono lontane nel tempo perché, in sostanza, coin­ cidono con l'atto di nascita della dialettica attualistica, e fino alla fine rimasero, irrisolte, al centro di questa. Un'oscill a­ zione, un'ambiguità, un'incertezza che altresl fanno intendere la ragione per la quale, in questo sistema, l' arte si configurò come ciò che, non potendo, per la sua stessa inattualità, non risolversi nella concretezza del pensiero pensante, possiede tuttavia di questa sua « inattualità » l' attualità; e non può perciò entrare fino in fondo, per perdervisi, nella sintesi tra­ scendentale dell'autocoscienza. La quale, a sua volta, e per conseguenza, non è sul serio sintesi e in ogni senso unitaria. È infatti bensl sintesi, ma di analisi 4 8 ; ed è perciò tale che, vengano prima o vengano dopo, ne siano presupposti o, vice­ versa, creati, i termini sono comunque necessari al suo atto costitutivo. Ma questa, alla quale qui si allude, è un'ulteriore, aspra difficoltà; che non occorre, in questa sede, specifica­ mente discutere . Se è cosl, e queste sono le difficoltà che, fino alla fine, il pensiero di Gentile si trovò di fronte e non riuscl a risolvere - erano difficoltà intrinseche alla sua stessa radice, e per vincerle avrebbe dovuto guardare assai più a fondo di quanto non gli fosse consentito - , è per altro verso innegabile che, svolgendosi, la sua riflessione sull'arte radicalizzò il suo tema 48

Sistema di logica come teoria del conoscere, Firenze 1940 3 , I, 2 1 7- 1 8 .

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e condusse colui che l' aveva elaborata ad un approdo assai lontano da quello a cui era rimasto fermo nel periodo dei suoi studi danteschi, ossia fino al 1 92 1 (il saggio su Sordello, ossia sul sesto canto del Purgatorio, non contiene, in relazione a quest'ordine di questioni, niente di particolarmente rilevan­ te) 49• Al di là delle già viste incertezze e ambiguità, e delle ragioni strutturali che le determinano, è un fatto ad esempio che ne La filosofia dell'arte, queste ragioni permangono in­ tatte e, nonché attenuarsi, le incertezze e le ambiguità si ac­ crescono . E senza star ora ad analizzare il come e il perché, è ancora una volta un fatto che, come che sia del tentativo volto ad ottenere « la distinzione per gradi delle forme spiri­ tuali » (che è, viene spiegato, « una distinzione trasversale e non perpendicolare », che « non taglia » perciò la « realtà dal­ l' alto in basso, e si trova cosl ad avere una cosa a destra e una cosa a sinistra ») 5°, la distinzione stessa non riesce ad essere sul serio quale la si vorrebbe. Non distingue infatti, distingue a parole, con eloquenza e senza rigore, perché l'unità « attuale è arte che è diventata pensiero », e l'arte pura « è inattuale , e perciò, nella sua purezza, inafferrabile » 5 1 • È ben vero che, per tener fermo a quel suo concetto della distinzione trasver­ sale e non perpendicolare, e per chiarirlo, Gentile aggiunge che, ciò nonostante, l'arte « esiste », e che « soltanto non si può separare, qual essa è per quel che essa propriamente è, dal resto dell'atto spirituale, in cui esiste, e in cui anzi dimo­ stra tutta la sua energia esistenziale ». Ma, proprio qui, e an­ che senza richiamarne nella sua interezza il quadro, le diffi­ coltà si danno a vedere; e con particolare asprezza, perché, da una parte, è impossibile che l'arte mantenga la sua autonomia ed « esista» e sia visibile, anche se non afferrabile, là dove l' atto del pensiero l'abbia, come si dice, risolta in sé, e da un'altra il rischio è che, in forza di quell'asserzione, l'atto sia meno della sua propria, assoluta, potenza se, per via d' analisi, è pur possibile cogliervi quel che non è afferrabile e tuttavia

49 5° 51

Lo si veda negli Studi su Dante, pp . 2 1 5-35 . Filosofia dell'arte, pp . 1 3 2 e 1 3 3 . Ibìd. , p . 1 3 5 .

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vi dispiega la sua, come Gentile la definisce, « energia esisten­ ziale » . Non è un caso che su questo argomento della sintesi, del­ l' analisi, della analisi della sintesi, Gentile si sia a più riprese, e sopra tutto nel Sistema di logica, cimentato e travagliato 52 • Ma, comunque il cimento e il travaglio si siano determinati, rimane che, prospettata all'interno della sinteticità costitutiva del suo atto, l' analisi della sintesi non può essere successiva alla sintesi, e tale perciò da indicare e, sia pure idealmente, risolvere in sé quel che vi si presenti nel segno trascendentale della unità. Se cosl l' analisi della sintesi venisse intesa, e fra analisi e sintesi si desse perciò la qualsiasi distinzione neces­ saria a che l'una potesse esercitare sull'altra la sua specifica efficacia, la sintesi non sarebbe sintesi, perché fuori di sé avrebbe ciò che appunto pretende di darne l'analisi; e questa non potrebbe a sua volta essere ciò che presume, - l'analisi della sintesi. L'analisi della sintesi non può essere, in questo quadro concettuale, se non la sintesi stessa assunta nell'atto della sua costituzione; e la difficoltà che vi interviene ri­ guarda non solo la possibilità che l'atto costitutivo della sin­ tesi dica a sé stesso le fasi ideali del suo processo, e il suo sia perciò un dire inverso al ritmo di questo, ma anche riguarda qualcosa d'altro, e di non meno problematico. Riguarda, que­ sta difficoltà, il punto già a noi noto, anche se sommaria­ mente noto, della fenomenologia e della logica, o, se si pre­ ferisce, della dialetticità dell'atto, del problematico , e più che problematico, rapporto che lega questo, che è puntualità as­ soluta e inestensione e eternità, al presunto processo (dialet­ tico) del suo farsi e formarsi e costituirsi. Una difficoltà grave e che, quasi per diffrazione, altre ne produce; una difficoltà che, comunque si determini la questione degli opposti e il modo in cui Gentile la prospetta, riguarda per altro non la sua soltanto, ma ogni filosofia che, richiamandosi al modello hegeliano della dialettica, cerchi di pensare l'essere come di­ venire . Ed è nel suo quadro che la questione dell'arte, della 52

Sistema di logica, l, 200- 1 3 .

52 4

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sua attualità, della sua inattualità, torna a dover essere con­ siderata.

È difficile immaginare come, se si fosse posto a conside­ rarli dal punto di vista infine raggiunto ne La filosofia del­ l'arte, Gentile avrebbe giudicato quel che soltanto qualche anno prima (il suo libro è del 19 3 1 , ma deriva da un corso te­ nuto all'Università di Roma nel 1927/ 1 928) aveva scritto nei due saggi dedicati alla profezia, e quindi alla filosofia di Dante, rispettivamente nel 1 9 1 8 e nel 1 92 1 . È difficile, si vuoi dire, se il possibile esercizio sia considerato dal punto di vista dell'individuale psicologia, e si sia perciò costretti a im­ maginare l'autore di uno scritto mentre, in concreto, com­ batte in sé stesso la battaglia dell'amor sui e del disgusto, del compiacimento e della critica. Ma, presentata così, questa non è che un'immaginazione frivola, che produce difficoltà, in questo quadro, inutili. E assai più produttivo è invece cer­ care di osservarla, tale questione, ponendosi dal punto di vi­ sta, non dell'anima, bensì invece della mente di Gentile; il quale certo non avrebbe in questo caso trovato compatibile con quel che da poco aveva scritto ne La filosofia dell'arte quanto aveva sostenuto in quei due saggi danteschi. Che li giudicasse tendenzialmente espressivi del punto di vista che poi avrebbe raggiunto, è probabile e comprensibile; e in quel che di Dante aveva scritto fra il ' 1 8 e il '2 1 è comprensibile e probabile che, come elemento specifico e caratterizzante, egli indicasse l'insistenza messa nel presentare la Commedia come un'unità, nella quale la poesia si rivela come l'accento stesso della « personalità », ma anche il pensiero si rivela con questo carattere e con questo accento; con la conseguenza che, in questa prospettiva, in questo modo d'intendere, non « classi­ co » ma, come Gentile diceva, « romantico », i due accenti si fondevano ed erano un accento solo . Ma, per il resto, e come che sia del rigore intrinseco a questa argomentazione, è più che evidente che fra i saggi danteschi e il libro del '3 1 , la dif­ ferenza è notevole . E in quelli Gentile incontrava difficoltà non lievi a uscir fuori da una considerazione dell'arte che per tanti versi appare ancora connessa al quadro dell'estetica ero-

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ciana; incontrava difficoltà nel tentativo che pur compiva di pervenire là dove la coerenza, o, se si preferisce, la più pro­ fonda aporia del suo pensiero, in qualche modo lo dirigevano. Non è possibile, in questa sede (che non è fatta per ospitare questioni tanto ambiziose) , discutere nelle sue varie articola­ zioni il concetto del sentimento che Gentile elaborò ne La fi­ losofia dell'arte, e quali conseguenze ne derivassero, o avreb­ bero potuto derivarne , all a tesi, che egli in sostanza mante­ neva, dell'arte come forma. Allo stesso modo, o per la stessa ragione, non è possibile riesaminare in questo quadro, fra le sue luci e le sue ombre, la questione del « contenuto », nei confronti della quale presso che perfetta è, per molti riguardi, la coincidenza del suo pensiero con quello di Croce. Ma certo è che, per quanto ci si sforzi di vederli in cammino verso l'ap­ prodo costituito da La filosofia dell'arte, nei due saggi dante­ schi del ' 1 8 e del '2 1 l'arte è in tutto e per tutto, e in senso crociano, « forma » - forma e non « sentimento », nel signi­ ficato specifico che, a partire dall'articolo del 1 929 dedicato a L'arte 53, a quel termine fu conferito . Scrisse nel saggio del 1 92 1 : . . . il pensiero d'un poeta non è per vero intelligibile alla stregua del metodo che ho detto classico . Si credette già una volta che que­ sto fosse appunto il metodo per giudicare integralmente del poeta, quando all'arte applicavasi l'estetica del contenuto. Ma oggi tutti convengono che l'arte è forma. Non tutti, per altro, riconoscono la verità del concetto formale dell'arte; che non intende già valutare una forma astratta, scissa dal contenuto, bensì quella forma in cui tutto si risolve (o si deve risolvere) il contenuto dell'opera artistica. Sì che il mondo che il poeta vide, non si mette già da parte come materia estranea e indifferente allo sviluppo di quel processo in cui la creazione estetica consiste; ma si considera, quale esso è infatti, illuminato dalla luce in cui fu dal poeta veduto in virtù della sua passione e però di quel certo atteggiamento spirituale, che costituì la sua precisa individualità poetica, espressa appunto in quel mondo avvolto in quella luce . Quale che sia cotesto contenuto, esso riflette

53

Cfr.

n.

35.

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e quasi incarna la personalità del poeta, in quanto reca in ogni sua fibra viva il fremito di quell'anima che gli dà vita 5 4 •

Qui, come si vede, l'arte è forma in cui tutto il contenuto deve risolversi e si risolve . E sarà bene che nelle linee con­ clusive di questo passo Gentile scrivesse del « contenuto » che « riflette e quasi incarna la personalità del poeta, in quanto reca in ogni sua fibra viva il fremito di quell'anima che gli dà vita ». Sarà bene che , in una battuta che, a voler essere sot­ tili, potrebbe essere addotta come il presentimento di quel che in seguito avrebbe scritto del « sentimento », inteso come l'accento di base della personalità, egli si esprima e dica così . Ma anche, e più che mai, è vero che il « contenuto è poesia in quanto è trasfigurato nella vita concreta che esso vive nella vita del poeta » 55 • Dove, a rigore , per chi abbia l'occhio ri­ volto a La filosofia dell'arte, la tesi presenta ancora un volto schiettamente crociano. E l'elemento decisivo, il tratto che consente di risolvere il dubbio che al riguardo pur potrebbe sussistere , sta nel concetto di « trasfigurazione », che qui in­ terviene a designare un'attività che è della forma, e da questa si comunica al contenuto, che ne viene infatti investito e per­ ciò, appunto, « trasfigurato ». Concetto, certo, variamente di­ scutibile, nel quadro del pensiero crociano (anche se non sono per la verità i concetti esposti da Gentile all'inizio del capi­ tolo quinto della prima parte de La filosofia dell'arte i più ido­ nei a darne l'effettiva critica 56) . Ma discutibile, e per analo­ ghe ragioni, anche in quello di Gentile; che è in effetti iden54

Studi su Dante, p. 186. Ibid. , p. 187. 56 Filosofia dell'arte, pp . 197-98, dove, fra le altre cose, è notevole che, rilevando l'impossibilità che, in quanto « forma » della prassi, il sentimento possa essere assunto come « materia » dell'arte, Gentile ritenesse di non do­ vere, non che discutere, nemmeno menzionare il principio stesso della dia­ lettica, che senza dubbio, presenta non pochi problemi, ma esiste, e ha il suo criterio nell'energia spirituale onde le forme decadono, ciascuna, a ma­ teria della successiva, e così costituiscono il loro circolo. In realtà, se Gen­ tile avesse affrontato fino in fondo l'esame di questo luogo problematico , avrebbe visto che vi opera un'idea del divenire (contraddizione e sintesi de­ gli opposti) strutturalmente non diversa dalla sua, e, al pari di questa, non 55

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ticamente delineato mediante un criterio dell'« assumere », dell'« elaborare », del « trasfigurare », che, se nel quadro cro­ ciano suppone il dualismo, perché non dovrebbe supporlo an­ che nel suo che , come s'è detto, gli è identico? Come che sia di ciò , è evidente che a predominare qui è l'arte; e quando appartenga ad un poeta, la filosofia non « può essere altro che la stessa sua poesia, dov'è pure la sua politica, la sua reli­ gione, e in genere tutto il suo mondo ». Che altro aggiungere? In realtà, alla radice stessa della questione che è stata rapidamente esaminata e discussa, se ne delinea un'altra, che in qualche modo ne costituisce il poten­ ziamento e quasi il simbolo riassuntivo. Già si è visto, ed è materia nella quale occorrerebbe insistere con più attenta e analitica considerazione, che, quant'era disposto ad innalzarlo al di sopra di ogni altro poeta, e addirittura a fare della sua un'universalità superiore a quella propria di ogni altro poe­ ta 57, con pari energia Gentile era ostile a riconoscere nella fi­ losofia di Dante la filosofia, ossia il vigore speculativo che gli appariva intrinseco ai grandi sistemi del passato, e fossero pur stati quelli elaboranti il logo che definiva astratto , - quella « filosofia », come scrisse in una di queste sue pagine dante­ sche, che « si sforza tutta di concepire intellettualisticamente la realtà, come oggetto assoluto della conoscenza umana », os­ sia « quale si rappresenta all'intelletto che la presuppone come suo oggetto, concepita come molteplicità atomica o come co­ smo intelligibile », e che, concepita cosl, « rimane sempre qualcosa di chiuso in sé, che l'uomo non può riconoscere senza sentirsene fuori; che è come dire, senza svalutare sé stesso, e annientare idealmente nella realtà assoluta la propria personalità, la propria libertà, la coscienza della propria crea­ tività » 5 8 . Di questa filosofia, che costruisce il mondo come oggetto e lo contempla e in questo atto svaluta come illusione poco problematica: con la conseguenza che anche di sé, se a quell'analisi si fosse dedicato, avrebbe dovuto parlare. 57 Studi su Dante, p. 167. 5 8 Ibid. , p . 194.

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ogni attività che presuma di potervi immettere sé stessa e così inserirla nel processo e nel progresso, - di questa filosofia, in quanto filosofia, Dante era un epigono tanto più convinto quanto meno forse fosse disposto ad ammettere di esser rima­ sto fermo e contento al suo quia. Di una filosofia diversa, che dell'oggettività delineasse la critica e riformasse il concetto, non riusd in sostanza mai, a giudizio di Gentile, a venire in possesso 59. E non solo, infatti, il De vulgari eloquentia e il Convivio presentano a tratti qualche trasalimento di origina­ lità concettuale, e poi, invariabilmente, ricadono nel grigiore di un pensiero ricevuto, accolto e non sul serio ripensato . Ma anche nella Monarchia accade lo stesso: nella Monarchia che pure, nelle pagine che dedicò al suo autore, egli ebbe l'indub­ bio merito di aver considerata come la teorizzazione di un « paradiso terrestre » (l' Impero) che tutto e per intero è pro­ dotto dall a ragione, di un Virgilio che non aspetta nessuna Beatrice nel fondo del suo Limbo « per largire all'uomo i suoi philosophica documenta »; nella Monarchia, « che rappresenta un passo notevolissimo oltre la Commedia » ed « è il primo atto di ribellione alla trascendenza scolastica» 60• Quando infatti, negli scritti della sua maturità critica, e in particolar modo nei due saggi del 1 9 1 8 e del 1 92 1 , che a lungo sono stati e ancora sono sotto la lente della critica, tornò su questo tema, e lo riconsiderò , lo spunto geniale del quale abbiamo dato qui il documento fu attenuato; e, in so­ stanza, Gentile lo perdé. Come e per quali ragioni questa at­ tenuazione si determinasse, tanto più sarebbe da indagare in quanto non risulta che questa ricerca sia stata, quanto meno, avviata 6 1 • Ma sta comunque di fatto che , per quanto nel 59 G . GENTILE, I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, Bari 1 923, pp. 87-88 (Opere, 1963, XII, 97-98) . 60 Ibid. , p . 50. 61 Cfr . , per es . , B . NARDI, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, pp. 156 e 174. Varrà la pena di rilevare, anche perché non si tratta che di un accenno, di un'allusione destinata a facilmente sfuggire, che questa tesi gen­ tiliana fu respinta da B . CRocE, La poesia di Dante, Bari 1 943 5 , p. 8, là dove osservò che nella Monarchia « il lodato concetto della monarchia mon­ diale e della pace universale è un pio desiderio di tutti i tempi, e l'altro, che

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1 9 1 8 avesse affermato che nella Monarchia « Dante rialza la città terrena, che Agostino aveva abbattuta », e la « rialza bensì senza nulla perdere dell'altezza a cui il cristianesimo aveva intanto sollevato gli spiriti: poiché ogni grande pensa­ tore afferma, non nega » 62 , di quel suo « lasciarsi indietro d'un gran tratto », sotto il riguardo politico, « la filosofia scolastica», Gentile non parlò più né più si compiacque di rilevare la « grande importanza» e lo « speciale significato storico » che allora aveva rilevati in questa (come la definiva) « sdrucidura » prodottasi « nel tessuto del sistema tomisti­ co » 63 . Ed è ben vero che nel saggio del 1 92 1 , quasi all'im­ provviso ricordandosi di quel che aveva scritto quindici anni innanzi, e forte dell'esperienza che intanto aveva compiuta nello studio della filosofia scolastica, osservò come, sopra tutto « nelle opinioni politiche », Dante « originalmente si spinga più in là della linea entro la quale » Tommaso d'Aquino, lui in primo luogo, aveva chiuso la filosofia. È ben vero che a questo rilievo, e alla sua ripresa, aggiunse l'altro relativo all'essere Dante non in senso proprio un « to­ mista ortodosso », ma un pensatore che sceglie ed assume anche « dottrine e concetti di altri indirizzi filosofici », siste­ mandoli in un diverso quadro di pensiero. Ma anche e non meno vero è che, « interpretato e giudicato col metodo clas­ sico », come filosofo Dante « è uno scolastico, il cui posto nella storia della filosofia è assai umile, se in lui non si guardi piuttosto allo scrittore sommo che primo trattò in volgare di filosofia traendola dalle scuole umbratili dei chie­ rici nel campo aperto della cultura laica e dentro al pensiero

si vuole che vi si affermi dello stato laico è invece un dualismo di potere spirituale e potere temporale, con la debita riverenza di questo a quello, che importa una certa subordinazione ». Non starò qui a discutere questo giudi­ zio , per certo inaccettabile: basti aver richiamata quest'osservazione, che non mi pare di aver vista citata da quanti si sono occupati della spinosa que­ stione. 62 Studi su Dante, p. 152. 63 lbid. p . 5 1 . '

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della nuova letteratura nazionale , da lui d'un tratto sollevata ad altissimo grado » 64 . Insomma, e come che sia delle oscillazioni che non è dif­ ficile sorprendere nelle sue pagine, sarebbe esagerato dire che nel giudizio formulato intorno alla filosofia di Dante Gentile eccedesse in negatività; ed è infatti vero che, sebbene forse non gli riuscisse di trovare il punto dell'equilibrio, dalla sua intuizione del significato immanentistico intrinseco alla Mo­ narchia, Bruno Nardi trasse lo spunto per molte delle analisi con le quali, puntigliosamente, rivendicò all'autore della Commedia una fisionomia diversa da quella del tomismo 65 . Ma vero è altresì che, nell'insieme, anche la filosofia fu per Gentile un elemento del grande « crogiuolo » personale onde il poeta trasse la materia della sua costruzione, che fu, in primo luogo, poetica. E qui, negli scritti danteschi, la poesia è una fantasia, è un sogno che, « al pari di ogni sogno, non ha verità né realtà fuori della fantasia » che nel sogno spiega la sua attività « e spazia nel mondo che essa si finge; né può in­ tendersi perciò fuori dell'essere subiettivo che è la personalità di chi sogna obiettivando sé stesso in quella realtà che appar­ tiene al comune dominio dell'esperienza e del pensiero » 66 . E sebbene non prive di qualche oscurità siano queste linee, nelle quali non saprebbe in effetti decidersi se, equiparata al sogno, la fantasia dantesca sia per Gentile tale anche nel suo « obiettivarsi » nella realtà che appartiene al « comune domi­ nio dell'esperienza e del pensiero »; sebbene non agevole sia stabilire chi sia il soggetto e l' autore di questo « obiettivarsi », la fantasia che è sogno e come sogno, appunto , si realizza, op­ pure la comune esperienza e il comune pensiero, che l' accol­ gono in sé come in una ulteriore e più ampia dimora, - il concetto che le guida non è tuttavia oscuro . È chiaro, invece, e ben afferrabile, dal momento che, come che sia dell'« obiet­ tivarsi » e del suo auctor, rimane che , per la filosofia che 64

Ibid. , p. 1 88 . Alla dimostrazione di questa tesi s i può dire che buona parte del­ l' esegesi dantesca del N ardi sia dedicata: ma si veda almeno Saggi di filosofia dantesca, pp. 3 4 1 -80. 66 Studi su Dante, pp . 1 88-89 . 65

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Dante professò e nella quale credette, la realtà è costituita come un oggetto che sta innanzi al pensiero e tiene dentro di sé, come suo elemento , particolare e subordinato, l'arte: !ad­ dove, nella viva realtà del suo essere, colta, « romanticamen­ te », nel centro stesso della sua « personalità», questa realtà è poesia, - fantasia che investe la materia e la trasfigura e la risolve in sé. E questo è, ancora, Croce: così che, malgrado ogni sforzo che già qui Gentile compisse per procedere lungo il sentiero che lo avrebbe condotto alla tesi del sentimento come di per sé identico, nella sua immediatezza e radicalità, all'intuizione e alla poesia, questa è appunto non soltanto forma nel senso in cui, come pura immediatezza, anche il sen­ timento lo è, ma forma che trasfigura una « materia», nella quale tutto il mondo passionale di Dante è come in attesa che quella, la forma, intervenga a trasfigurarlo. Attesa « ideale », si dirà, non temporalmente misurabile; e, non di meno, at­ tesa. Materia di per sé astratta; e, non di meno, in questa sua astrattezza (che, se non è niente, è « posizione » di qualcosa), materia. E notevoli sono al riguardo, se ci si riflette, le con­ seguenze che ne scaturiscono . Per un verso, conforme alla concretezza della situazione dantesca, che Gentile ebbe in mente e descrisse e interpretò, astratta è, in quanto tale, la filosofia, concreta l'arte, nella quale quella entra bensì e si esprime, ma come materia e nella forma perciò dell'arte . Per un altro tuttavia, e anche in que­ sto scritto se ne avverte il sintomo e se ne individuano le tracce , inverso a questo è, nel pensiero di Gentile, il rapporto dell'arte e della filosofia . Era diverso già nello scritto del 1 909 su Le forme assolute dello spirito, dove, nella sua oppo­ sizione alla religione, insieme a questa l'arte era risolta nella concretezza dell' autocoscienza e non possedeva perciò alcuna reale autonomia 67 • E lo è ne La filosofia dell'arte, e negli scritti che da presso ne annunziano il tema, dove, quale che sia la complessa vicenda da cui il precedente schema triadico 67

Le forme assolute dello spirito ( 1 909) , in Il modemismo e i rapporti tra religione e filosofia , Bari 192 1 , pp. 238-39 ( = Opere, 1962 , XXV, 26162) .

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è come investito, e ora ne è travolto per riemergere tuttavia in altri momenti dalla zona più arcaica dell'esperienza filoso­ fica gentiliana, è pur vero che l' attualità dell'arte non è cogli­ bile e afferrabile se non, come pura inattualità, nell'attualità dell'autocoscienza in cui eternamente si risolve . Ed è su que­ sta situazione che occorre riflettere . Non si tratta di dar conto solo della singolare circostanza per la quale, dopo aver attentamente seguito, fra il 1902 e il 1 907, le vicende e le fasi che segnarono la nascita e la forma­ zione del pensiero estetico di Benedetto Croce, e dopo aver aderito al suo tema fondamentale, all'improvviso, nel 1 909, Gentile riesumò uno schema all'interno del quale di arte (e di religione) non poteva parlarsi se non in termini di inattualità e astrattezza, per ritornare quindi, negli scritti danteschi composti fra il 1907 e il 1 92 1 , a un concetto dell'arte assai più vicino a quello dell'estetica dell'intuizione di quanto non fosse al suo: a quello, si vuoi dire, delineato nel 1 909. Su que­ sta vicenda, e sui bruschi scarti che la caratterizzano, riflet­ tere è importante perché, agli occhi di chi lo consideri con qualche serietà, e al di fuori quindi di ogni agiografia, affer­ mativa o negativa, il percorso intellettuale di Gentile si rivela assai più vario e anche intricato di quanto, appunto, seguaci ed avversari non abbiano supposto 68 • E certo appare chiaro che in concreto è assai più arduo giudicare dell'arte e della poesia al lume di un'estetica che non ne assuma se non l' Inat­ tualità, l'astrattezza, la pura idealità, di quanto non sia giu­ dicarla entro un quadro categoriale che anche dall'arte sia, nella sua attualità e compresenza a sé medesimo, costituito: e questo pur a prescindere dalle difficoltà che possano ritro­ varsi, come in quello, anche in questo sistema di pensiero . La questione autentica che, considerata nel contesto del­ l' attualismo, la « filosofia dell' arte » di Gentile pone, è tutta­ via di diversa natura; e consiste in ciò, che se l'arte è il sen­ timento stesso nella sua radicalità e immediatezza; se, con questo carattere, il sentimento è la radice della personalità; se la personalità è tutta intera la personalità che, nella sua ra68

Cfr. qui su,

n.

15.

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dice, è però sentimento, allora non può appartenere ad u n io che non sia quello stesso di Dante, e gli sia invece trascenden­ talmente superiore, l'arte che il suo io produsse . Se infatti c'è una funzione alla quale, fra le altre , nell'obiettività del pen­ siero di Gentile il sentimento assolve , è quella onde l'io em­ pirico è lo stesso io trascendentale , non essendoci e non dan­ dosi trascendentalità che non abbia la sua radice nel senti­ mento e nell'accento individuale che ne deriva alla persona­ lità. L'arte della Commedia è l'arte perciò di colui che storicamente la produsse e le dette forma; e questo è appunto un soggetto, definito dal suo inconfondibile accento « senti­ mentale ». Ma concreta e reale e vivente in questa specifica accezione, l'arte è anche, per altro verso, astratta e inattuale. Reale essa è bensl soltanto nella sintesi dell'autocoscienza, dove, per sé stessa, ossia presa fuori di questa sua risoluzione, è non reale, ma inattuale, non concreta ma, piuttosto, astratta. E la domanda è allora dove sia e possa essere reale quest'arte concreta di Dante, che è sentimento, e nell'esserlo è certo reale, ma in questo medesimo atto non può invece es­ serlo, non può essere reale; perché anche il sentimento non ha la sua autentica espressione se non nel pensiero, al quale in effetti, e ne La filosofia dell'arte Gentile lo dice chiaro, ap­ partiene di « superarlo » e di « discioglierlo » in sé, aggettivan­ dolo e chiudendolo cosl nella sua propria definizione, altri­ menti inafferrabile 69. La domanda, che è in sé perfettamente legittima, costitui­ sce in effetti un serio e delicato problema. Se infatti è vero che è nel pensiero che, inafferrabile in sé, l'arte, e il senti­ mento che è arte, vivono, vero è anche che nel personaggio storico che scrisse la Commedia e al suo mondo dette la forma della poesia, quella della filosofia rimase per contro, in quanto tale, estranea; e all'autocoscienza, e alla coscienza at­ tuale dell'autocoscienza, egli non pervenne, e il vertice del pensiero non fu attinto. Il che è bensl facile a dirsi. A pen­ sarsi è però impossibile perché, per ciò stesso che in lui si as­ sume il darsi dell'arte (che è la stessa cosa del sentimento, e 69

Filosofia dell'arte, p. 2 1 7 .

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non può perciò non darsi con l'inevitabile darsi di questo) , per la stessa ragione dovrebbe ammettersi che anche la filo­ sofia si dia, - e si dia anzi tanto più necessariamente in quanto è nel suo ambito trascendentale che, con il suo oppo­ sto (l'oggetto, la religione) , l'arte attinge la sua idealità di « grado » e, nel suo modo proprio, « esiste ». Se, in altri ter­ mini, si desse l'arte, ma non la filosofia, nemmeno l'arte in realtà si darebbe. E se invece è inevitabile che l'arte si dia, e si dia con il carattere di « condizione » e di « inizio », che Gentile le assegna, e che smentirebbe sé stesso se non fosse segulto da ciò che, appunto, rende possibile, anche la filosofia allora deve darsi. Ma in Dante si dà l'arte, non, in senso pro­ prio, la filosofia. E non potrebbe dirsi che l'anomalia sia spie­ gabile mediante il suo essere un individuo, non trascenden­ tale, ma empirico: per varie ragioni, e in primo luogo perché è pur all'individuo empirico che appartiene, con il senti­ mento, il darsi dell'arte, e se questo gli appartiene, ecco allora che quell'individuo non può essere empirico, e la filosofia deve perciò appartenergli di necessità, come di necessità a un triangolo appartiene il suo vertice . La difficoltà, come si vede, è pungente : e uscirne non è facile . Se, per uscirne, si proponesse che l'autocoscienza filosofica è bensì in Dante, ma soltanto come implicita, la conseguenza sarebbe catastro­ fica per il sistema; perché in questo caso dovrebbe ammet­ tersi che l' autocoscienza possa stare senza essere sé stessa, senza possedere il suo carattere che è, comunque poi ulterior­ mente vi si ragioni su, coscienza di sé. E del resto è la distin­ zione stessa di empirico e trascendentale che, in questo punto meglio che altrove, si rivela ineseguibile. La distinzione, in­ fatti, di empirico e trascendentale è empirica, o è trascenden­ tale? Se è empirica, ed è non di meno una distinzione, deve poter accogliere nel suo ambito, accanto all'empirico, il tra­ scendentale . Ma se lo accogliesse, cesserebbe di essere empi­ rica; e se invece conservasse questo carattere, per certo non potrebbe ospitare in sé il trascendentale . Se, per altro verso, la distinzione fosse non empirica, ma trascendentale, allora nel suo ambito dovrebbe accogliere l'empirico; che , per altro, assunto in ambito trascendentale , cesserebbe di essere empi­ rico, sarebbe trascendentale e la distinzione non sarebbe

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perciò distinzione . Insomma, fra io empirico e io trascenden­ tale, nessuna distinzione è possibile : né empirica, né trascen­ dentale . E anche per questa via, qui del resto non più che ac­ cennata nel suo rilievo aporetico, il superamento della diffi­ coltà si rivela ineseguibile . Sono difficoltà gravi quelle che, in tal modo, emergono dal fondo del pensiero gentiliano, dove, per comprenderle nella loro autentica natura, occorre saper scendere . E per darne l'ulteriore svolgimento si dovrebbe ulteriormente riesa­ minarne il fondamento nel quadro, assunto nella sua massima estensione, nel quale trovano posto, e agiscono . Non rimane perciò, in questa assai più modesta sede, se non di far punto e mettere fine a questa analisi; che nei suoi limiti avrà tutta­ via raggiunto il suo scopo se, oltre ad aver mostrata la com­ plessità dei temi che si intrecciano negli studi danteschi di Gentile; oltre ad aver posto in rilievo la periodizzazione che ne deriva al suo pensiero sull'arte, così singolarmente diviso in questa fase fra la fedeltà ai suoi motivi propri e la persi­ stente vicinanza alle tesi crociane, altresì avrà mostrato quanto sia urgente che, al di là di ogni apologia e, ormai, di ogni condanna, ma con intransigente partecipazione filoso­ fica, assumendo sopra di sé il peso delle questioni e senza di­ sporle sulle spalle della storia, l'idealismo attuale sia riesami­ nato nelle questioni strutturali che ne costituiscono la trama.

APPENDICE

Sulla cautela, e forse anche esitazione, mostrate da Gentile nei con­ fronti della necessità che pur lo spingeva ad entrare senz' altro nella fi­ losofia che gli urgeva nella mente e ad esporne con risolutezza il con­ cetto, dovrà soffermarsi a parte, e farne la storia, lo studioso che per suo conto sia abbastanza sobrio da guardare con, quanto meno, diffi­ denza all'opinione di chi trovi l' attualismo già delineato nel Rosmini e Gioberti del 1 89 7 , e quindi nei di poco successivi scritti concernenti Marx e la filosofia. Una tesi di questa qualità può in effetti essere so­ stenuta e condivisa soltanto da chi nella filosofia si preoccupi di cogliere le così dette « tendenze essenziali », e, non avendo alcun reale interesse per la tessitura logica dei concetti e per le argomentazioni che li sotten­ dono, si diletti nel costruire, con quelle, la filosofia della Weltgeschichte, nei suoi sensi riposti; e basti pensare, per non citare che un esempio, ai saggi gentiliani di Augusto Del Noce. In realtà, le cose andarono in modo assai diverso da come immaginarono {e immaginano) sia alcuni scolari di ieri sia alcuni interpreti variamente apocalittici di oggi. E per rimanere sul terreno dei documenti, e cogliere in concreto la cautela e l'esitazione delle quali si parlava, si veda per esempio quel che , quasi a conclusione della polemica epistolare che si era svolta fra loro alla fine del precedente anno sulla questione della filosofia e della storia della fi­ losofia, Gentile scriveva a Croce nella lunga e impegnativa lettera del 4 gennaio 1907, dove annunziava di aver composto un breve scritto che pensava di porre in appendice alla sua prolusione palermitana che, a sua volta, intendeva stampare in Coenobium. Il breve articolo al quale Gen­ tile alludeva è una sorta di recensione del capitolo sugli opposti e i di­ stinti, e dell'altro concernente la fenomenologia dell'errore, del volume , Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, che Croce aveva pubblicato all 'inizio del 1907; e, sebbene non identificato dall a cura­ trice dell'edizione delle Lettere, è quello stesso che per allora Gentile preferì lasciare inedito e che, ritrovatolo fra le sue vecchie carte, pub­ blicò, tredici anni più tardi, nei Frammenti di estetica e letteratura, Lan­ ciano 1920, pp . 1 5 3 -6 1 , per far vedere come, fin dagli inizi, egli avesse provato a dimostrare che il nesso dei distinti non si sottraeva, a scru­ tarlo in profondità, alla « legge dialettica » della « unità degli opposti »

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(Lettere, I I I , 8) . E notevole è qui che da Croce egli non tanto, o non soltanto , dissentisse e dalla gravità del dissenso traesse motivo di seria preoccupazione, ma che altresì ne fosse indotto alla prudenza, consape­ vole com'era che il cammino era per lui agli inizi e che fra molte e aspre difficoltà gli sarebbe toccato di procedere prima di giungere all a meta. « Credo anch'io - scriveva polemicamente all'amico, dopo averlo pre­ gato di non dargli dell'ortodosso - che errori indubitabili nel sistema di Hegel ce ne siano ; e dopo la vostra critica, se non vedo tutti quelli che voi denunziate, e se non m'accordo con voi nell'additarne l'origine, ne intravvedo anche qualcuno non colpito da voi, che può svelare forse la vera magagna. Ma per parte mia sento di doverci studiare ancora molto attorno, per poter fare un'affermazione. Quello che ora posso af­ fermare è che l'hegelismo va profondamente corretto non per la limita­ zione della portata dialettica, ma, al contrario, per un'applicazione più rigorosa della universalità e assolutezza di essa » (Lettere, I I I , 9). Nel dire così, Gentile non diceva male; e anzi bene, perché, con sostanziale esattezza, prevedeva che lungo sarebbe stato ancora il cam­ mino . Altri sette anni, infatti, gli sarebbero occorsi per elaborare la sua personale riforma della dialettica hegeliana e delineare, nel contempo, il primo abbozzo dell'idealismo che defiru attuale; addirittura dieci per costruire la « teoria generale dello spirito come atto puro )>. Del resto, della prudenza e della cautela che aveva invocate per sé stesso nella let­ tera del 4 gennaio, Gentile tornava a ribadire la necessità nell' altra, non meno impegnativa, che inviò a Croce il 28 gennaio di quello stesso anno 1907; e nella quale, dopo aver dichiarato e ribadito quanto grande fosse la « fiducia » che riponeva « nella tenace energia del [ . . ] pensiero » che il suo amico avrebbe di certo seguitato a dispiegare nel prossimo futuro, e dal quale si riprometteva di ricevere nuova « luce e incitamenti nuovi », « per la parte » sua avvertiva che fin che non gli fosse avvenuto di « Ve­ dere ben chiaro dove » voleva « vedere », avrebbe seguitato « a far saggi di storia, polemiche e recensioni, che pur mi giovano tanto a quell'in­ tento; e mi contenterò di mettere il lento movimento del mio pensiero, come fo ora da più di 8 anni, nelle mie lezioni vive. Voi questo lo sa­ pete: che io non mi son contentato mai di ripetere frasi pappagallesca­ mente; ma ho cercato sempre d'intendere da me, e d'intendere, come solo è possibile, nell'insieme e in sistema >) (Lettere, III, 28). E qui, certo, non c'era solo prudenza, non c'era solo cautela; c'era bensì anche orgoglio, perché di essere atteso ad una mèta ulteriore Gentile non si permetteva di dubitare. Era tuttavia la prudenza a dominare; il senso dell' attesa, la consapevolezza, come si è detto, delle difficoltà che gli stavano dinanzi: difficoltà ardue, che egli percepiva bensì, senza essere peraltro ancora riuscito a trovare il principio del loro superamento. E le parole di queste sue lettere debbono perciò esser messe a confronto con quelle che egli scrisse nel 1920 quando, avendolo ritrovato fra le sue .

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« vecchie carte », pubblicò lo scritto sui distinti, gli opposti, l'errore, che, nel 1907, aveva preferito lasciare inedito: « ho pubblicato questa nota ritrovata tra mie vecchie carte, come semplice documento delle difficoltà in cui s'è travagliato il mio pensiero per giungere a certe so­ luzioni » ( Frammenti di estetica , p. 1 6 1 n. 1 ) .

IX GLOSSE MARGINALI DI GIOVANNI GENTILE A LIBRI DI BENEDETTO CROC E*

« Leggere con la matita» significa, per lo scrittore 1 che si compiacque di usare questa espressione, leggere con parteci­ pazione vivacemente commossa e, nello stesso tempo, con l'intento di imprimere alla lettura un primo segno di intellet­ tuale dominio . Non sempre, infatti, si legge con la matita in mano, e non tutti i libri meritano di esser letti cosl. Ma quando si legge con la matita, il libro acquista un duplice, e pur convergente, significato. A parte obiecti, i segni tracciati sui suoi margini delineano i tempi e i modi della sua « fortu­ na », delle sua appartenenza a uomini e a ambienti. Ma, a parte subiecti, possono essere riguardati come il documento di

* Per la citazione dei passi crociani ai quali le glosse di Gentile si rife­ riscono, si è fatto uso delle seguenti sigle: B Breviario di estetica (« Piccola biblioteca filosofica », Laterza, Bari, 1 9 1 3 . Nuovi saggi di estetica, Laterza, Bari 1 920. NSE Teoria e storia della storiografia , Laterza, Bari, 1925. TSS Aspetti morali della vita politica (« Piccola biblioteca filosofica », AMVP Laterza, Bari 1928. Eternità e storicità della filosofia (« Quaderni critici », XXI) , ESF Rieti 1930. Etica e politica, Laterza, Bari 193 1 . EP Ultimi saggi, Laterza, Bari 1935. us La Storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938. SPA

La

1 L'espressione è, com'è noto, di TH. MANN, Romanzo di un romanzo. genesi del ' Doctor Faustus ', in Scritti minori, Milano 1 958, p. 130.

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un'altra e diversa storia intellettuale, l'inizio, talora incerto e persino enigmatico, di un nuovo libro . Queste sono cose ovvie, o rese tali dall'esperienza con­ creta che studiosi provetti dell'antichità classica e della tradi­ zione umanistica squadernano ogni giorno dinanzi ai nostri occhi . E converrà perciò cercar di imitare la loro prassi, aste­ nendosi dall'irrigidirla in una teoria. L'essenza della noia è il voler dire tutto, sempre e comunque, esclamò una volta Vol­ taire, che per questa sua massima ricevette l' approvazione di Schopenhauer . E noi, che senza preoccuparci di riuscire noiosi, certo non ci proponiamo, né sapremmo, « dir tutto », non faremo dunque qui il tentativo di delineare una teoria della glossa marginale . Per la medesima ragione nemmeno ci azzarderemo a far notare che la storiografia qui ricordata con onore è bensì meritevole di ogni elogio, ma pur talvolta (come càpita) vittima della sua stessa virtù, se nel ritrovamento delle glosse e nell'individuazione della mano che le segnò coloro che la praticano sembrano far consistere la civiltà stessa delle lettere, anzi la civiltà senz'altro, e così dimenticano di leggere il libro glossato ed altresì di seguire la storia intellettuale di cui la glossa è spesso soltanto il primo germe lontano . Essere noiosi, passi. Non, però, più del necessario . Lasciamo dunque che altri elevi la glossa a canone metafisica e metastorico del suo umanesimo, componendo con essa storia e teoria. E re­ stringiamoci alle glosse specifiche, che qui di seguito pubbli­ cheremo e sobriamente commenteremo, di Giovanni Gentile ad alcuni libri di Benedetto Croce 2 • Non tutti i libri di Croce, posseduti e letti d a Giovanni Gentile, recano infatti sui margini segni di materiale atten­ zione critica, e solo alcuni postille e glosse. Perché mai? Ad­ durre ragioni in ogni caso valide è difficile, e forse impossi­ bile. Ma alcune spiegazioni possono non di meno esser ten­ tate . È evidente che non sempre, leggendo un libro crociano 2 La raccolta delle opere crociane, già possedute da giovanni Gentile, si trova ora, con tutti gli altri suoi libri ed opuscoli, nella Biblioteca dell' Isti­ tuto di Filosofia dell'Università di Roma.

G LOSSE MARGINALI DI G. GENTILE A LIBRI DI B. CROCE

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appena pubblicato, Gentile si trovava di fronte ad un'opera nuova o, per intero , nuova. Spesso (e s 'intende che il riferi­ mento va agli anni in cui più stretta fu l' amicizia, più intensa la collaborazione intellettuale) accadeva proprio il contrario . Avesse o no, nei suoi primi anni creativi, natura di sistema­ tico postillatore dei libri altrui (e di Croce in modo partico­ lare) , è un fatto ad esempio che, quando gli giunsero i volumi su Hegel ( 1 906) e sulla Filosofia della pratica ( 1 908) , Gentile non ebbe forse bisogno, nel rileggerli, di segnare in margine le sue impressioni critiche . A parte le discussioni orali soste­ nute con l'amico intorno alle questioni della dialettica e della filosofia hegeliane, di quei volumi egli aveva potuto seguire la composizione e la stampa, leggendone le bozze che l'autore via via gli spediva 3 • E se pure ne prese appunti e si provò a fermar subito sulla carta le prime impressioni di lettura, sta di fatto che, quando li lesse nella loro compiuta forma di libri, forse già trascorsa era l'occasione che suole dettare le postill e e le glosse. A questa regola o, se si preferisce, a questa abi­ tudine di materiale non intervento critico, non fa del resto sostanziale eccezione il volume della Logica crociana del 1 909, che , nell'esemplare posseduto e letto da Gentile, è 3 Cfr. le lettere che i due filosofi si scambiarono, quando Gentile lesse prima il manoscritto (Gentile a Croce, 12 maggio 1 906, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S . Giannantoni, Firenze 1974, Il, 268-69, e la breve rispo­ sta di Croce, ivi, p. 269 n. = B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, Milano 198 1 , p. 195), e poi le prove di stampa del saggio hege­ liano (Gentile a Croce, agosto 1 906, Lettere, Il, 283 e 287). Non interessa qui ricostruire, di su le lettere di Gentile e di Croce, il dibattito fra i due filosofi su questo libro: si ricordi tuttavia che il 1 8 settembre 1906, Lettere, II, 296, Gentile scrisse a Croce di star « almanaccando », mentre aspettava che l'editore gli inviasse il volume, « una recensione in forma di lettera (o lettere) a voi, per parlare anche dell'Estetica e della Logica ». « Se a Palermo - concluse - sarò tranquillo , farò questo libretto ». Il libretto non fu scritto; ma Gentile si impegnò tuttavia in una recensione del Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, che, rimasta inedita fra le sue carte, fu da lui stesso inserita, molti anni dopo, nei Frammenti di estetica e letteratura, Lanciano 1 920, pp . 153-6 1 . Per quanto, infine, attiene alla Filo­ sofia della pratica, cfr. la ricostruzione da me offerta nella « Cultura », 12 (1 974), pp. 354-59. E cfr. ora Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975, pp. 127-35 .

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bensì segnato in margine, ma solo in qualche raro punto , e forse più a scopo mnemonico che non per esprimere una prima reazione critica 4• Assai più singolare è invece che né le Tesi di estetica del 1900, né l'Estetica del 1902 , né le sue successive edizioni, e in particolar modo la terza del 1 907 (sulla quale egli inter­ venne con importanti osservazioni 5) risultino in alcun modo postillate o comunque segnate in margine . Eppure, sono que­ sti i libri sui quali Gentile prese a saggiare in concreto la con­ sistenza teoretica del pensiero di Croce; e dal carteggio non risulta (anzi, se mai, risulta il contrario) né che il loro autore gli fornisse via via le prove di stampa, né che con lui egli avesse particolare agio di discorrere a voce . Del resto, se l'Estetica e le precedenti Tesi non appaiono postill a te, la me­ desima assenza di segni, anche di semplice richiamo mnemo­ nico, si nota non solo sugli estratti, che Croce gli donò, dei saggi sul marxismo, ma anche sul volume che, nel 1899, ap­ parve, in prima edizione, con il noto titolo, presso il Sandron. E se poi si considera che altrettanto immacolati sono i mar­ gini dei saggi (da Gentile posseduti in estratto) che più tardi (1 909) andarono a costituire la folta raccolta dei Problemi di estetica, l'impressione che agli inizi egli non usasse « leggere con la matita» si rafforza, tendendo quasi a costituire la legge di una diversa abitudine di lettura e di una diversa disposi4 La Logica come scienza del concetto puro, Bari 1909, presenta sem· plici segni di attenzione e di richiamo alle pp . 66, 67, 68, nelle quali Croce tratta la vexata quaestio dei distinti e degli opposti. V al la pena di aggiun­ gere che nel volume crociano è inserito un foglietto, ripiegato in due, e in­ testato ' Ministero dell'Istruzione. Il Ministro ' , che reca il seguente ap· punto: « Logica Concetto . Estetismo Misticismo Prammatismo . Il concetto e gli pseudoconcetti » . Converrà notare che se, com'è probabile, l'appunto ri­ sale al periodo nel quale Gentile fu ministro della pubblica istruzione nel primo gabinetto Mussolini ( 1 922- 1 924), non può escludersi che quell'ap­ punto fosse preso in vista della stesura dell'Epilogo del Sistema di logica, il cui secondo volume apparve in effetti soltanto nel 1 923 . In tale occasione è probabile che Gentile abbia ripreso in mano la Logica di Croce, ricercan­ dovi le pagine sul « rnisticismo »: cfr . B. C ROCE, Logica come scienza del con­ cetto puro, Bari 1942 6 , pp. 289-97 . 5 GENTILE, Frammenti di estetica e letteratura cit . , pp. 162-72 .

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zione nei confronti di libri che pure impegnavano a fondo la sua intelligenza critica e, nel senso migliore del termine, il suo stesso spirito di emulazione 6 . Come che sia d i ciò, è u n fatto che l e prime glosse o po­ stille marginali appaiono nella copia delle due edizioni 7 (fuori commercio , l'una, nella « Piccola biblioteca filosofica», l'al­ tra) , entrambe uscite nel 1 9 1 3 , del Breviario di estetica, che, com'è noto, Croce aveva composto, su invito dell'Università del Texas, l'anno precedente . È difficile, ovviamente, dire perché, postosi dinanzi a questo libro crociano, Gentile sen­ tisse il bisogno non solo di leggerlo e di postillarlo, ma di leg­ gerlo e postill arlo in entrambe le edizioni delle quali era in possesso. Può darsi, senza dubbio, che in modo tutt'affatto particolare egli si sentisse conquistato dalla felicità letteraria, oltre che speculativa, di questo, che è uno dei capolavori del­ l'« espressione » crociana; e che, sette anni più tardi, quando fu ristampato nel volume dei Nuovi saggi di estetica ( 1 920) , egli tornasse a leggerlo e a postill arlo, può costituire la prova non solo del fascino che molto a lungo questo libro esercitò su di lui, ma anche del suo considerarlo come il più impor­ tante ostacolo che, per definire compiutamente sè stessa, l'estetica attualistica era chiamata ad affrontare e a superare . Poiché, d'altra parte, a partire da quella data, gli interventi del glossatore non si limitarono a quell'opera soltanto, ma si estesero invece ad altri libri crociani; e poiché tali interventi appaiono nel complesso dettati da uno stato d'animo, nel­ l' amicizia e poi nel contrasto, variamente polemico, così con­ verrà cercare qui, nella polemica e nel dissenso (anche se, non ancora, nell'inimicizia) , la ragione , probabile se non addirit6 Un sondaggio effettuato su alcuni libri posseduti da Gentile, e da lui certamente studiati con particolare cura (Kant, Hegel, B . Spaventa, B . Va­ risco, Pitrè), ha mostrato che, nell'insieme, egli non usava intervenire con « la matita » se non in casi eccezionali; e la circostanza, per quel che può va­ lere, è forse degna di qualche considerazione. 7 Non vedo che questa edizione sia stata ricordata né da G. CASTEL· LANO, Introduzione alle opere di Benedetto Croce, Bari 1936, p. 7, né da F. NICOLINI, L'« editio ne varietur>> delle opere di Benedetto Croce, Napoli 1960, p. 1 7 , né infine da S. BoRSARI, L'opera di Benedetto Croce, Napoli 1 964, p. 120.

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tura sicura, di questa sua mutata abitudine di lettura ed an­ che del relativo ritardo con cui si produsse. In effetti, nei rapporti intensissimi di amicizia e di colla­ borazione intellettuale che i due filosofi vennero stabilendo e approfondendo nel primo decennio del nostro secolo, il dis­ senso filosofico, che non era mai mancato e che, nella sostan­ ziale convergenza culturale, riguardava questioni essenziali della logica e della dialettica, già una volta, fra il 1905 e il 1906, aveva conosciuto toni vivaci ed era andato vicino ad assumere la forma di una vera e propria crisi 8 . La questione che l'aveva provocato e che concerneva il punto d'unione e di distinzione della filosofia e della storia, era stata poi appia­ nata, in parte attraverso le stesse discussioni che, con estrema franchezza, i due amici avevano intrecciate nel loro carteggio, in parte per gli sviluppi obiettivi del pensiero di Croce che, ostile, agli inizi, alla tesi gentiliana del « circolo della filosofia e della storia della filosofia », era giunto, nella seconda edi­ zione della Logica, alla dimostrazione della « identità» di giu­ dizio definitorio e di giudizio individuale e, dunque, esplici­ tamente, di filosofia e storia. Il nucleo profondo del dissenso rimaneva tuttavia intatto; e poiché, al di qua di convergenze anche importanti, concerneva la questione cruciale dell'unità e della distinzione, che già allora Gentile interpretava in modo assai diverso da quello che Croce aveva ormai condotto alla sua quasi assoluta compiutezza nella Logica del 1 909 e negli scritti composti fra quella data e il 1 9 12, era inevitabile che dovesse riemergere e dar luogo a nuovi contrasti quando il più giovane dei due si fosse deciso ad affiancare al suo la­ voro, fin Il prevalente, di storico della filosofia, un'attività di­ spiegata in termini di esplicita teoria 9• In effetti, fino al 8

Benedetto Croce cit . , pp . 897-906. Cfr . , del resto, la lettera del 26 gennaio 1907, nella quale Croce esor­ tava Gentile ad entrare con maggiore decisione nel campo della esplicita teoria (Lettere a Giovanni Gentile, pp. 232-33) , e quella, per contro, in cui, il 28 gennaio 1907, Gentile gli rispondeva: « io ho fiducia grandissima, come sapete, nella tenace energia del vostro pensiero, e ne aspetto sempre nuova luce e incitamenti nuovi. Per parte mia, finché non vedrò ben chiaro dove voglio vedere, continuerò a far saggi di storia, polemiche e recensioni, 9

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1 9 1 2 , di teoreticamente impegnativo Gentile non aveva scritto (a parte qualche minore saggio su aspetti particolari della teoria della storia) se non la breve memoria su Le forme assolute dello spirito ( 1 909) 10 che, nel suo andamento conciso

che pur mi giovano a quell'intento » (Lettere a Benedetto Croce, III, 28) . Che, dunque, in quegli anni Gentile ancora non riuscisse a veder chiaro nella direzione che pur intuiva fosse quella lungo la quale il suo pensiero avrebbe dovuto procedere, non può mettersi in dubbio. E ne deriva la pos­ sibilità di una « periodizzazione » della sua filosofia in parte diversa da quella che, in certi casi (non però in altri), egli più tardi suggerl. Si veda, ad esempio, nell'intervento polemico del 1 9 1 3 (Saggi critici, Firenze 1927, II, 12): « io posso dire infatti che il primo nucleo di questo idealismo, che ho testé battezzato idealismo attuale, sia il concetto fondamentale della mia tesi di laurea in filosofia, scritta nel 1 897, e pubblicata l'anno dopo nel libro Rosmini e Gioberti, dove la mia tesi, per l'intelligenza del valore della filo­ sofia rosminiana, e quindi della kantiana, è quella della profonda differenza tra la categoria (che è l'atto del pensiero) , e il concetto (che è il passato) [. . . ]. Fin d'allora consideravo il pensiero come reale soltanto nella sua apriorità o attualità: uno, quindi, se guardato nell'atto suo, molteplice, come natura, se guardato nel suo prodotto ». Ma, a parte la pertinenza di questa Selbstdar­ ste//ung, che non dirò sia senz' altro da respingere (anche se molto rimanga da articolare e precisare), è pur un fatto che la distinzione, che fin dal 1 897 Gentile diceva di aver conquistata fra il pensiero come atto e il pensiero come prodotto o natura, non dissipò di colpo le nebbie dell'incertezza (come sembrano immaginare quanti par che ritengano che un pensiero venga al mondo di colpo, con tutte le sue interne specificazioni e articolazioni) . E pur senza negare che il libro del 1897 abbia grande importanza, come punto di partenza, nella storia del suo pensiero, e che fra quella data e il 1 9 1 1 - 1 2 Gentile lavorò con coerenza intorno ad u n motivo fin dagli inizi intravisto, più e meglio rispondente al vero sembra l'altra « periodizzazione » che fissa al 1 9 1 2 , dopo un lungo periodo di tentativi e di prove, la nascita dell'idea­ lismo attuale. Cfr. del resto, in questa direzione, quel che Gentile scrisse nella ristampa de L'atto del pensare come atto puro , Firenze 1937, pp. 7-8. 10 Lo scritto fu stampato in Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari 1909, pp. 229-48 . Ma cfr. comunque la lettera che Croce scrisse a Gentile il 27 giugno 1 909, nella quale dichiarò di star aspettando di >, 2 1 marzo 1 925, e poi in Che cosa è il fascismo, pp . 1 53-59. L'espressione citata nel testo è, ivi, p. 154. L'articolo crociano al quale Gentile qui risponde, comparve nel « Gior­ nale d' Italia », 12 marzo 1 925, quindi nella « Critica », 23 ( 1 925), pp . 125-28 e, da ultimo, in Cultura e vita morale cit . , pp. 283-88. Alla risposta gentiliana Croce replicò ancora nel « Giornale d'Italia », 24 marzo 1925 ( = Pagine sparse, II, 454-57), e Gentile ribatté nell'« Epoca » del 25 marzo 1 925 ( = Che cosa è il fascismo, pp . 1 59-6 1 ) . 3 3 Le polemiche degli scolari d i Gentile nei confronti di Croce sono, a partire sopra tutto dal 1 923 - 1 924, un fatto pressoché costante nella storia delle relazioni fra i due filosofi: cfr . la lettera di A. Omodeo a Gentile, 22 dicembre 1 92 3 , in Carteggio Gentile-Omodeo, Firenze 1975 , p. 294. E cfr. del resto anche U. SPIRITO, I cinquant'anni del « Giornale critico della filo­ sofia italiana » , « Quaderni » della Biblioteca filosofica di Torino, 32 ( 1 969), pp. 7-9. S i veda, in genere, l'ampia documentazione raccolta da R. CoLA ­ PIETRA, Benedetto Croce e la politica italiana, Bari 1 970, II, 5 6 1 sgg . , passim.

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il pensiero filosofico, gli scavava nell'animo, m a altresl della vanità degli sforzi che, in tempi come quelli, uomini onesti e disinteressati compiono per impedire che la politica consumi intero il suo dramma e, in esso, vecchie solidarietà, affetti, speranze di pace. Era inevitabile, dunque, che la « tregua d'armi » 34, che Omodeo aveva richiesta alle due parti, non potesse essere rispettata né dall'uno né dall'altro filosofo . Non poteva essere rispettata da Gentile, che nel vecchio amico di tante battaglie, ora attestato su posizioni diverse dalle sue, e fin opposte, vedeva e sentiva come un monito continuo, un richiamo alla buona compagnia per la quale era nato; e ne era perciò indotto, per contrasto, a esacerbare il tono della polemica e a far vibrare con maggior forza la voce interna di un convincimento, che nessuno certo si permetterà di discutere nel suo fondamento morale, ma che pure non po­ teva essere privo, nel suo fondo oscuro, di dubbi e di intimi motivi di lacerazione. Ma, per altro verso, la tregua non po­ teva essere rispettata da Croce: il quale, in una zona segreta e profonda della sua coscienza, pensava bensl che, forse, svol­ tesi le cose secondo la loro logica intrinseca, il fascismo avrebbe finito per dissolversi e Gentile per riconoscere di nuovo i suoi; ma, d'altra parte e nello stesso tempo, non po34 La proposta di una « tregua d'armi » è contenuta nella lettera a Gen· tile del 27 ottobre 1927, Carteggio Gentile-Omodeo, p. 3 9 1 , e fu accettata da Croce (ivi, p. 392) e da Gentile nella lettera a Omodeo del 28 ottobre, Carteggio, p. 393 . La « tregua » naufragò definitivamente il 30 gennaio 1928, quando Gentile scrisse a Omodeo (Carteggio, p. 397) per avvertirlo, con due parole, di quel che Croce aveva scritto nella recentissima Storia d'lt4lia, a proposito dell'idealismo attuale e del suo torbido mescolarsi nelle cose della pratica. E Omodeo, il l 0 febbraio dello stesso anno: « ho letto con dolore il passo in questione, ma non le nascondo che con eguale dolore lessi tempo fa un'invettiva contro i rammolliti e gli smidol/ati. Evidentemente il mio ten­ tativo è fallito, e non si può fermare un cozzo deplorevole, ma inevitabile finché si pongono avanti - come allora feci io - criteri d'opportunità » (Carteggio Genti/e-Omodeo, p. 398). La vicenda fu poi rievocata, senza per altro alcun accenno specifico alla proposta della « tregua d'armi », in A. 0MODEO, La collaborazione con Benedetto Croce durante il ventennio, « Ras­ segna d'Italia », l ( 1 946) , p. 269 e ora in Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, Torino 1 960, p. 49 1 , dove è comunque durissimo il giudizio sulla « scuola » gentiliana.

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teva non avvertire l' amarezza, il disinganno e anche il disgu­ sto provocatigli dall'atteggiamento del suo amico, dal tono baldanzoso e a tratti arrogante della sua polemica, nonché dalla pretesa di continuo ribadita di esser lui, e lui solo, il vero e unico interprete di quel che il pensiero crociano fosse nella realtà, e al di là di ogni soggettiva illusione . Avvenne cosl che quando nella Storia d'Italia (alla quale egli cominciò a lavorare, come si apprende dai Diarii, il 1 8 giugno 1 926) Croce giunse, nel capitolo decimo , a trattare dell'opera sua, di quella del suo maggior collaboratore e del­ l'indirizzo variamente irrazionalistico preso a un certo punto dal suo pensiero, che di recente si era infatti rivelato come un « non limpido consigliere pratico » 3 5 , Gentile giudicasse giunto il momento di rompere definitivamente la tregua che l'Omodeo aveva proposta, accettando, ed inducendo ogni al­ tro ad accettare come irreversibile, una guerra lunga e aspra. « Avrai visto nell'ultimo libro del Croce - scriveva a Orno­ dea il 3 0 gennaio 1928 - come sia stata da lui osservata la tregua da te invocata: e come sia quindi facile il silenzio . Quell'uomo è accecato dall'orgoglio : da un orgoglio satanico . Ed è diventato pericoloso come un cavallo sfuriata . Non si può perciò non occuparsene » 36. A sua volta, a Giovanni La­ terza 37 che aveva tentato l'estrema mediazione, Croce scri­ veva duramente: « la frase non è modificabile, perché è giusta. È strano che il Gentile si lamenti di cosa nota a tutti, e della quale egli stesso ha data fresca riprova col suo discorso di otto giorni or sono, che è parso a tutti un complesso di contraddi­ zioni, un dire e un non dire , ossia proprio il contrario della

B. CROCE, Storia d'Italia dal 1 871 a/ 1 91 5 , Bari 1 943 7 , p. 259. } 6 Carteggio Gentile-Omodeo, p. 397. J ì Giovanni Laterza aveva ricevuto da Gentile una lettera, 27 gennaio 1 928, nella quale erano contenute lamentele per la « frase equivoca, che è una vera insinuazione maligna e spregevole contro di me » (il testo è in Mo­ stra storica della Casa editrice Laterza, Bari 1 96 1 , p. 599; e l'editore aveva cercato di operare, in extremis, una mediazione, la quale naturalmente fallì, come si vede dalla risposta di Croce, citata nel testo . }5

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limpidezza . Cerchi il Gentile di decidersi, diventi limpido, e la mia frase non gli sarà più applicabile » 38 . Ma nel 192 5 , quando Gentile si mise dinanzi al testo cro­ ciano della Politica 'in nuce ' , che forse egli già aveva letto nella Critica dell'anno precedente, la tregua delle armi non era stata ancora proposta, e la polemica era per contro nel suo pieno corso. E poi, in ogni caso, la tregua non è la pace; e nel chiuso di una stanza da studio è inevitabile che dinanzi ad un libro come quello di Croce, tutto risonante, nel profondo, dei toni appassionati di una durissima polemica, l'animo sia in­ dotto ad accettarla e ogni volontà diplomatica di non esaspe­ rarla ne sia invece travolta. Del resto che la Politica 'in nuce ' sia anche un documento di esplicita, o quasi esplicita, pole­ mica antiattualistica, è cosa di cui, chiunque l' abbia letta con un minimo d'attenzione, si sarà ben accorto . Esso culmina nella distinzione, duramente ribadita, della politica dalla mo­ rale; riduce lo stato a un processo e a un intreccio di azioni utili; con estrema decisione combatte contro le aberrazioni dello « stato etico »; eleva al di sopra dello stato la moralità e la storia, e in questa intende la vera concretezza dell'agire po­ litico, che non è soltanto di coloro che « acconsentono » e di­ cono sì, bensì anche degli oppositori, degli uomini del dubbio e della rivolta, degli intellettuali, come Croce li definisce, di « tempra fine » . E Gentile che, leggendo questo testo, meglio di ogni altro era in grado di coglierne le più riposte sfumature polemiche, non poteva non reagire subito, matita in mano, a quelle forti provocazioni critiche . Le postille che, più inten­ samente che altre volte, egli segnò nei margini del saggio cro­ ciano, gli riuscirono perciò non solo vibranti di passione po­ lemica, ma, come quelle che nascevano da una sfida esisten­ ziale, oltre che teoretica, nutrite di particolare impegno filo­ sofico ed esegetico . Fra le glosse che, nel corso degli anni, egli dedicò ai libri del suo amico, sono queste, in effetti, le più interessanti; e converrà perciò, dopo averle pubblicate, dedi­ care ad esse un breve commento . 38

Croce a G. Laterza, 29 gennaio 1 928, Mostra storica cit . ,

p.

60.

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EP 1 7

L'uomo (come sapevano e dicevano già gli antichi) è un essere sociale o politico per sua natura; e lo Stato (come diciamo noi mo­ derni) non è un fatto, ma una categoria spi­ rituale.

Se lo Stato è catego­ ria, si distingue dal­ l'azione politica, con cui si identifica a p. 12.

EP 1 9

I I dilemma s e lo Stato si fondi sulla forza o sul consenso, e il quesito se legittimo sia lo Stato dovuto alla forza o solo quello dovuto al consenso, vanno messi in compagnia con la distinzione di sopra ricordata tra Stato e go­ verno; perché, in verità, forza e consenso sono in politica termini correlativi, e dov'è l'uno, non può mai mancare l'altro. Consenso (si obietterà) ' forzato ' ; ma ogni consenso è forzato, più o meno forzato, ma forzato, cioè tale che sorge sulla ' forza ' di certi fatti, e perciò ' condizionato ' : se la condizione muta, il consenso, com'è naturale, viene ritirato, scoppiano il dibattito e la lotta, e un nuovo consenso si stabilisce sulla condizione nuova. Non c'è formazione politica che si sottragga a questa vicenda: nel più liberale degli Stati come nella più oppressiva delle tirannidi, il consenso c'è sempre, e sempre è forzato, con­ dizionato e mutevole. Se cosl non fosse, man­ cherebbero insieme e lo Stato e la vita dello Stato .

Ma se l'azione poli­ tica è la stessa azione del singolo, che è questo Stato che man­ cherebbe se. . . ?

EP 22

La sovranità, in una relazione, non è di nessuno dei suoi componenti singolarmente preso, ma della relazione stessa.

che cosa è questa re­ lazione, posto il no­ minalismo di pp. 1 1 12? O anche in quelle pagine il pro­ cesso è qualcosa di interindividuale?

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EP 22 E se la sovranità è in ogni parte della re­ lazione nec cubat in ulla, cade anche, come destituita di valore speculativo, la divisione degli Stati secondo le persone che esercitano la sovranità, e anzitutto la celebre tripartizio­ ne in monarchia, aristocrazia e democrazia.

lo Stato è relazione? Ma allora la legge non s'immedesima con l'operare effet­ tivo del singolo.

EP 24 Il presupposto di questa [la teoria eguali­ taria] è la eguaglianza degli individui, messa a fondamento degli Stati: eguaglianza che non sarebbe pensabile se non nella forma di au­ tarchia, del pieno appagamento dell'indivi­ duo in sé medesimo, che non ha nulla da chiedere all'altro, al quale è eguale; e perciò in una forma così fatta, che non può valere a fondare lo Stato, ma per contrario ne mostra la superfluità, essendo, in tale ipotesi, ogni individuo uno Stato a sé.

Ogni individuo è uno Stato a sé. Lo Stato è relazione (Dio, Storia, Idea). Questo è Hegel.

EP 32 Poiché lo Stato veniva inteso [da Hegel e dagli hegeliani] come la vita morale, la con­ cretezza stessa della vita morale, era affatto conseguente innalzarlo al fastigio sul quale il Kant aveva collocato la legge morale e pro­ parlo alla medesima reverenza e venerazione. Ma l'errore di quei dottrinari consisteva, e consiste, per l'appunto nell'aver concepito la vita morale nella forma, a lei inadeguata, della vita politica e dello Stato.

EP 33 Ma la vita morale abbraccia in sé gli uo­ mini di governo e i loro avversari, i conser­ vatori e i rivoluzionari, e questi forse più de­ gli altri, perché meglio degli altri aprono le

di quale Stato? Se lo Stato s'intende come anche il Croce l'in­ tende a p. 24, no: perché oltre Dio o la Storia non c'è altro.

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vie dell'avvenire e procurano l'avanzamento delle società umane. Per essa non vi sono al­ tri rei che coloro i quali non si sono ancora elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama e celebra i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li santifica martiri del­ l'idea. Per essa, ciascun uomo di buona vo­ lontà serve alla causa della cultura e del pro­ gresso a sua guisa, e tutti in concordia di­ scorde.

ma lo Stato com­ prende gli uomini di governo e gli avver­ sari perché coincide con la relazione, la sintesi. Bisognerebbe dimostrare che gl'in­ tellettuali di fine qualità siano fuori della sintesi.

Gentile alla fine di EP 3 5 :

In tutti questi 2 primi capitoli giuocano due concetti diversi dello Stato; una volta inteso come governo ( governanti) e un'altra come relazione e storia (governanti e governati, e rapporti internazionali). Per uscir dall'astratto nominalismo, l'A. si afferra al 2° concetto. Per combattere l'eticità dello stato, si afferra al 1 ° . =

EP 46

Ma quando i nomi SI trattano come nomi, e si rispettano anche ma come nomi, e nei partiti si ricerca e si affisa il loro essere storico, e gli individui che li compongono e li guidano, questi giochetti di reciproca conver­ sione, questi sofismi sono impediti o resi vani, perché si ha allora dinanzi la realtà dei vari partiti, che è diversità di sentimenti, di temperamenti, di precedenti, di svolgimento mentale, di cultura, di educazione, di voca­ zione. EP 66

La durezza e l'insidiosità, inevitabili nella politica e che il Machiavelli riconosceva e raccomandava pur provandone a volte nau­ sea morale, vengono spiegate dal Vico come parte del dramma dell'umanità, che in perpe­ tuo si crea e ricrea; e sono riguardate nel loro duplice aspetto di bene reale e di male appa­ rente . . .

qui si torna al nomi­ nalismo

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EP 72

Ciò che noi abbiamo chiamato vita poli­ tica e Stato in senso stretto o in senso pro­ prio, corrisponde ad un dipresso a quello che lo Hegel chiamava ' società civile ' (burgerliche Gesellschaft) e che comprendeva non solo l'operosità economica degli uomini, la produ­ zione e lo scambio delle merci e dei servigi, ma anche il diritto e l' amministrazione o go­ verno in base alle leggi. EP 100 39

Da questi difetti di teoria e da queste an­ gustie di contingenza la storia morale o etico­ politica si deve disciogliere, correggendo sé stessa e concependo come suo oggetto non solo lo Stato e il governo dello Stato e l'espansione dello Stato, ma anche ciò che è fuori dello Stato, sia che cooperi con esso, sia che si sforzi di modificarlo, rovesciarlo e so­ stituirlo. EP 105-106

Sol che, al modo stesso nel quale si è disopra ammonito a non scambiare la vita eti­ co-politica o statale, che è oggetto della storia, con lo Stato come vien concepito dai meri politici e per fini politici o giuridici, bisogna pur raccomandare di non prendere la ' religione ' nel significato materiale degli adepti delle varie religioni . . .

p. 72.

Ripercorrendo nel loro insieme le glosse che sono state qui su pubblicate, è facile vedere che due sono le preoccupa­ zioni che Gentile vi esprime. La prima è di controbattere il 39 Questo testo, e quello successivo, appartengono al saggio Storia eco­ nomico-politica e storia etico-politica, che Croce aveva incluso nella dedi­ zione in volume degli Elementi di politica .

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giudizio che nel testo di Croce corre netto da una capo all'al­ tro della trattazione, e che consiste nel restringere, al di qua di ogni limite in precedenza fissato, l'ambito spirituale dello stato, il suo valore e la sua importanza per la vita etica e cul­ turale. E questa è, si direbbe, la preoccupazione più ovvia, e che, malgrado i motivi filosofici che pur la sottendono, più di ogni altra si rivela legata all ' attualità del contrasto poli­ tico allora in atto, su questo tema, tra fascisti e antifascisti. Quel contrasto, che in atto era in realtà da tempo, proprio nelle settimane in cui, con ogni probabilità, Gentile leggeva e postillava la memoria crociana sulla « politica », stava impe­ gnando i due filosofi in uno scambio piuttosto aspro di opi­ nioni e di accuse. Ebbene, giova, da questo punto di vista, osservare che se, in pubblico, Gentile non tralasciava occa­ sione che comunque gli consentisse di far vedere come, bene al di là dei suoi soggettivi convincimenti, anche Croce fosse in realtà solidale con il nuovo accento che il fascismo aveva posto sulla classica idea liberale dello stato etico, in privato, ossia nelle glosse che scriveva per suo stretto uso personale, questo atteggiamento è assai meno vivo e presente, e in suo luogo si nota piuttosto la preoccupazione di dimostrare con­ traddittoria l'idea della libertà e del dissenso, quella cioè che, nella Politica { in nuce ', costituisce una delle dimensioni essenziali della stessa relazione, che l'una all'altro stringe la « forza» e il « consenso ». Il quale è « forzato », a giudizio di Croce, perché sorga sulla « forza » di certi fatti . Ma i fatti sui quali sorge sono tanto la realtà, che si accetta, dello stato, quanto la realtà della sua non accettazione da parte della coscienza etica e politica; sl che, sempre « forzato » e, in questo senso, « condizionato », il consenso è altresl peren­ nemente « mutevole », viene dato e poi anche ritirato, e chi lo ritira e lo nega non è meno reale e meno « politico » di chi lo dà e lo conferma. Se quindi, in vista del carattere sempre « consensuale » degli stati - dei più oppressivi come dei più liberali - , si argomentasse che ad essi mai potrebbe negarsi il predicato della eticità, l'obiezione di Croce sarebbe che questo non è che un sofisma, perché non nello stato in quanto tale, ossia nella consolidata relazione della forza e del consenso, consiste l'eticità, bensl al contrario nella vigile

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coscienza dell'uomo, nel cui interno dev'essere ricercato il criterio vivente del consenso e quindi, in ultima analisi, della moralità. Di questo mobile carattere del « consenso » crociano, Gentile si era reso ben conto; e che poi, anche nelle glosse polemizzasse contro il concetto che il suo amico ne aveva delineato, significa non che negasse la peculiarità di quella delineazione, ma al contrario che, sforzandosi di demolirne il fondamento, la riconosceva diversa dalla sua proprta . In questo senso, dunque, Gentile si mostra, nelle glosse, alquanto diverso da come invece appariva e comunque cer­ cava di apparire in pubblico. Ed anche un altro aspetto della polemica pubblica qui dileguava o perdeva molto del suo mor­ dente specifico: l' aspetto che può individuarsi nell'insistenza con la quale egli aveva a più riprese osservato come gli riu­ scisse incomprensibile l'ostilità dichiarata al fascismo da uno scrittore che sempre si era distinto per il vigore dei suoi con­ vincimenti antigiusnaturalistici, antidemocratici e antimasso­ nici, e, d'altra parte, per lo schietto apprezzamento della « forza » teorizzata da Machiavelli e da Marx come l'essenza stessa della storia politica e sociale 4 0 • Come poi Gentile po­ tesse metter d'accordo queste due tesi - in forza delle quali Croce avrebbe dovuto dichiararsi fascista a) perché antidemo­ cratico assertore della forza, e b) perché autentico liberale, non insensibile perciò alla lezione hegeliana e spaventiana dello « stato etico » che suppone bensì la ' forza ' , ma, almeno a parole, come forza dello spirito , è un altro discorso, che converrà, se mai, svolgere altrove. Ma, avesse o no torto nel ragionare così, è chiaro che queste tesi della sua polemica pubblica non si riflettono , o si riflettono in modo assai pal­ lido, nella sua lettura privata. Ed ecco, dunque, che nella sua privata nota di lettura proprio il maggiore autore della tesi re­ lativa al fascismo ante litteram di Benedetto Croce, negava questa tesi, o se ne dimenticava, o comunque non la confer­ mava. Ecco altresì che proprio lui, Gentile, che per primo -

4° Cfr . , essenzialmente, GENTILE, Il liberalismo di Benedetto Croce ( 1 925), in Che cosa è il fascismo cit . , pp. 158-59.

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l' aveva formulata, smentiva, suo malgrado, la verità della tesi che tanti pubblicisti fascisti allora sostenevano intorno al ca­ rattere (non antifascista) della relazione stabilita da Croce fra il consenso e la forza 4 1 . L'altra preoccupazione è meno ovvia, più interessante e meritevole perciò di attenzione . Se affrettata e, in ultima analisi, verbalistica si rivela la glossa nella quale Gentile obiettò che, in quanto « categoria », lo stato deve distinguersi dall'azione politica nella quale invece Croce pretendeva di ri­ solverlo (e si dice affrettata e verbalistica, perché è fin troppo ovvio che qui egli aveva in mente un concetto della categoria che poco ha a che vedere con quello che, fin dai tempi della Filosofia della pratica, era stato elaborato) , ben diversa pene­ trazione mostrano le altre. Senza coglierne il significato com­ plessivo e senza svolgere l'analisi fino alle conseguenze estreme, Gentile aveva, nell'insieme messo l'occhio su un nesso essenziale di pensieri. È vero, infatti, che per Croce lo stato si risolve nella concretezza dell'azione politica, e che questa non potrebbe non esser sempre « individuale » senza perciò cessare di essere concreta. Ma è pur vero che lo stato è, per un verso un processo di azioni utili, e quindi una « re­ lazione », mentre, per un altro, è azione individuale, ed è re­ lazione solo per ciò che, senza bisogno di presupporre una pluralità di soggetti, racchiude nel suo orizzonte (materia e forma) il carattere della relazionalità. Si aggiunga che se l'azione individuale è colta una volta nel processo al quale ap­ partiene, e un' altra nella relazione che stabilisce con la sua propria struttura di azione, è poi anche inevitabile che, in en4 1 Gli Elementi di politica ebbero, al loro apparire in volume ( 1 925), notevole fortuna di recensioni e di discussioni, la cui storia non è stata an­ cora ordinatamente raccontata (forse perché la qualità della maggior parte di quei contributi, assai scadente, ha avvilito l'estro degli studiosi di oggi! ) . Ad alcuni di quegli interventi (senza per altro nominarne gli autori) Croce re­ plicò in una noterella, La politica dei non politici, « Critica », 23 ( 1 925), pp . 1 90-92 ( = Cultura e vita morale, pp . 289-92) . Ma, per l'analogia dell'argo­ mento, si veda anche Fissazione filosofica , già pubblicata nella « Stampa >> del 16 luglio 1 925, quindi nella « Critica », 23 ( 1 925), pp. 252-56 ( = Cultura e vita morale, pp. 293-300) . Per l'indicazione di alcuni fra questi testi, cfr . CoLAPIETRA, Benedetto Croce, Il, 52 1 sgg .

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trambe le sue accezioni, essa si realizzi come azione indivi­ duale toccando altresì, in questo atto, il limite della sua tra­ sfigurazione nella storia o, come nella Filosofia della pratica Croce aveva detto, nell'accadimento . E la storia diviene in tal modo il punto di vista veramente reale dal quale osservare le azioni politiche in cui lo stato, per la sua concretezza, si ri­ solve : sì che - ed è l'ultimo corollario che, in questa sede, debba trarsi dall'analisi - quel punto di vista è storico non meno che etico, perché l'essenza della moralità consiste nel dare a ciascuno il suo, nel superare le opposte unilateralità, ossia la colpa che, per la loro angusta particolarità, gli uomini si pagano a vicenda nella concretezza del loro vivere e agire . In altre pagine, alle quali ci permettiamo di rinviare il let­ tore che di quelle lette fin qui non si fosse ancora stancato 42 , è stata nostra cura ricostruire nei particolari questa complessa vicenda di pensieri culminanti, attraverso tensioni e aporie, nell' anzidetta trasvalutazione dello stato in etica e in storia . E al riguardo non potrebbe dirsi che, nelle sue glosse, Gentile le cogliesse, quelle tensioni, le indicasse con esattezza, quelle aporie, e quindi assegnasse al tutto che ne consegue il suo au­ tentico significato. Ma, parte per la via regia del suo ingegno critico, parte per quella stessa della passione polemica, dalla quale l'ingegno stesso era come acuito e, pur nell'inevitabile unilateralità, reso più penetrante, a lui riuscì comunque di mettere in chiaro che il nodo del pensiero crociano era costi­ tuito non solo dalla vicenda delle due diverse « relazioni » che, senza riuscire mai a coincidere, si inseguono nelle pagine della Politica (in nuce ' , bensì anche da quel trasfigurarsi dello stato in etica e in storia che, comunque egli lo intendesse, è come il suggello di questa dottrina. Che poi, trascinato in basso dalla medesima passione che, in certi momenti aveva reso più penetrante il suo sguardo, egli quasi materializzasse i termini del discorso di Croce e, con evidente sofisma, osser42 Alludo al mio Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Morano, Napoli 1975, al quale mi permetto di rinviare per il chiarimento, o la mi­ glior comprensione, di alcuni accenni contenuti in queste pagine, i quali forse risulteranno, presi a sé, troppo sommari.

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vasse che, se lo stato è una sintesi onnicomprensiva, non si vede come possano starne fuori, opponendoglisi, gli intellet­ tuali del dubbio e del dissenso, è cosa che, psicologicamente, può comprendersi. Ma la circostanza non può far dimenticare che, con le inevitabili cadute, le sue glosse contengono, per alcuni aspetti, più verità di quanta sia data incontrarne in certi contributi di allora e anche di oggi, celebri nei rispettivi ambienti e cenacoli, e, non di meno, quanto angusti e me­ schini, se osservati con spregiudicatezza. Si vuoi dire, con questo, che l'interpretazione di Gentile è l'unica che, nei suoi limiti possa considerarsi « vera »? Ma no, niente affatto, se ad essa sfugge, come si è detto, la sintesi, il luogo ideale in cui le tensioni e le aporie si annodano e fanno corpo e ritrovano il loro significato . Si vuoi dire soltanto che essa contiene, im­ pliciti, elementi che, meglio di altri, si rivelano idonei a far avvertire le tensioni e le difficoltà, e, attraverso questi, il senso comples sivo della teorizzazione crociana. Ed anzi, non per dilettarsi con i paradossi, ma perché sembra che le cose stiano proprio così, potrebbe persino dirsi che le glosse scritte nei margini della Politica ( in nuce ' , con­ tengano spunti e intuizioni che lo stesso Gentile fu lungi dal saper riprendere nella recensione che di questa memoria cro­ ciana inserì, nel 1 924, nel Giornale critico 43 • In effetti, se nel leggere e postillare gli Elementi di politica, Gentile era andato più volte vicino al punto in cui, come s'è detto, le sue diffi­ coltà si annodano e fanno corpo, nello svolgere in positivo il tema dello « stato etico » il suo pensiero si impigliò invece in gravi incertezze 44• Così, con gli occhi ben fermi su Hegel e su Croce, egli osservava che fuori della storia lo stato « non esi43 G. GENTILE, Stato etico e statolatria, « Giorn. crit. filos . ital . » , 5 ( 1 924), pp . 467-68. 44 GENTn.E, Stato etico e statolatria, p . 468 . La questione dell'eticità dello stato, in Gentile, richiede, a mio avviso, una trattazione attenta, e volta a metterne in chiaro i tempi e le fasi. Un testo molto importante è nella Prefazione ( 1 904) che egli scrisse per la ristampa dei Principi di etica di B . Spaventa (ora i n Opere, Firenze 1 97 1 , I , 603): « nell'idea dello spirito obbiet· tivo definire lo stato realizzazione ( Wirklichkeit) dell'idea morale, mi pare ben altra cosa che far dipendere la morale dallo stato; anzi importa fondare questo sulla morale, e non riconoscerne quindi il valore in un'istituzione che

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ste » ed è un'astrazione; che nei rapporti internazionali, nella guerra e quindi nella storia c'è una vita etica che nello stato non può essere contenuta e compresa; che in esso si inclu­ dono le opposizioni e la stessa rivoluzione: e vi si includono, parrebbe, non nel senso che ne sono negate e trascese e ol� trepassate. Ma poi, curiosamente, pretendeva che, attraverso il suo stesso essere superato da questo empito di vita morale che non trova posto entro i suoi confini, attraverso le oppo­ sizioni e le rivoluzioni (che, dovrà ora intendersi, ne sono ne­ gate, trascese e oltrepassate) , lo stato di continuo riaffermasse il suo carattere e la sua specifica natura. Un nodo di gravi dif­ ficoltà si era costituito alla radice del suo pensiero; e poiché a lui non riusciva di scioglierlo, ne nasceva il sofisma: se non il sofisma, l'ambiguità. Che, infatti, lo stato sia un'esistenza storica e, fuori della storia, un'astrazione, doveva certo esser cosa ovvia per lui, come per Croce e per tutti. Ma, come i te­ sti di Hegel e di Croce imponevano che si dicesse, la que­ stione era se lo stato racchiuda dentro di sé la storia, o ne sia invece racchiuso e dunque superato. E nonché risolverla, Gentile non riusciva forse nemmeno a vederla, la questione, nei suoi termini estremi. Come può comprendersi, solo che si spinga lo sguardo nella sua pretesa di considerare lo stato, da un lato come sempre superato dalla totalità della vita etica e, da un altro, invece, come sua adeguata espressione ; da una lato come includente, e non oltrepassante, opposizioni e rivo­ luzioni, e da un altro come autentico signore e risolutore di esse. Se infatti, opposizioni e rivoluzioni, che, in quanto tali, si formano di necessità all'interno dei singoli stati storica­ mente « esistenti », sono intese come opposizioni e rivoluzioni reali, ossia, per toglier via ogni possibile equivoco, come op­ posizioni e rivoluzioni caratterizzate in senso empirico, esse procederanno sempre « contro lo stato », intraprenderanno con lui una lotta mortale, e o vinceranno o saranno vinte . E non realizzi l'idea morale »; e di qui forse occorrerà partire anche per far ve­ dere come, agli inizi della sua meditazione politica, fosse l'eticità a costituire il criterio dell'eticità dello stato, che, in quanto tale, può esserne privo, e non è dunque necessariamente « etico » .

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allora non può dirsi, a rigore, che attraverso le opposizioni e le rivoluzioni che gli si formano dentro e che , in questo senso, esso include in sé, lo stato si realizzi e si affermi. Dovrà dirsi che vince o viene vinto, si riafferma o viene di­ strutto, e che, se questa è la sua vicenda necessaria, reali ve­ ramente sono la lotta e la mobile sintesi in cui, di volta in volta e non per sempre, esso si risolve . In questo senso, dun­ que, lo stato è « storico » perché il ritmo del suo vivere ed esi­ stere lo spinge sempre oltre alla sua vita specifica; e non è, di conseguenza, la storia a culminare, con l'etica che è ad essa intrinseca, nello stato, ma è lo stato a culminare, con l'etica che è ad esso intrinseca, nella storia. Una soluzione, questa, che si ritrova, almeno in parte, in Hegel (dove, peraltro, ha la funzione di rendere estremamente problematica la concezione dello stato come « sostanza etica» realizzata) , e certo si ri­ trova in Croce ; una soluzione che anche in Gentile finisce per esser presente, senza che in una filosofia come la sua, che tec­ rizza la coincidenza di stato, storia e moralità 45, riesca tutta­ via a trovare pieno e coerente diritto di cittadinanza. Il compito sarebbe troppo gravoso e, in questa sede, non eseguibile, se qui ed ora ci proponessimo di connettere queste glosse con le tesi di filosofia giuridica e politica che, fin dal 1 9 1 6 , Gentile aveva fissate in un corso pisano, che in quel medesimo anno prese la forma dei Fondamenti della filosofia del diritto ; e quindi, d'altra parte, con gli svolgimenti che, va­ riamente premuto dai tempi, egli aggiunse ad esse negli anni successivi . Sarebbe infatti fuori di luogo, anche se assai inte­ ressante nella giusta sede , scrutare con attenzione il punto critico in cui l'universalizzazione del volere tende a trapassare nel concetto, che a rigore Gentile teorizzò molti anni più tardi, dello stato etico . E altresì sarebbe interessante venir mostrando alla radice del suo pensiero politico quella che 45 Questa identità si trova affermata, ma in un contesto teorico molto sommario e di debole rigore, nel saggio gentiliano su Lo Stato ( 1 9 3 1 ) , nato come comunicazione da leggere, con il diverso titolo Il concetto hegeliano dello Stato , nel convegno hegeliano di Berlino dell'ottobre 193 1 : « storia universale e stato coincidono » (G. GENTILE , I fondamenti della filosofia del diritto , Firenze 196 1 , p . 1 1 7) . . . .

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forse potrebbe chiamarsi l a continua tentazione dell'estremo individualismo, se non addirittura, in certe articolazioni, del­ l' anarchia. Ma questo è, come si diceva, argomento di altra indagine; e qui converrà passare alle glosse che Gentile segnò sui margini degli Aspetti morali della vita politica, un volu­ metto uscito nel 1 928, e che può considerarsi il seguito di quello del 1 92 5 , sulla politica e sullo stato . AMVP 8 4 6 Ma la concezione liberale, propriamente detta è rimasta fuori del quadro sopra tracciato. Per­ ché? Perché, in verità, questa concezione è me­ tapolitica, supera la teoria formale della politica e, in certo senso, anche quella formale del­ l' etica, e coincide con una concezione totale del mondo e della realtà.

una concezione me­ tapolitica non può dar luogo a norme, criteri, atteggiamenti, programmi e partiti sul terreno pratico.

AMVP 9 Non è già, la concezione autoritaria, una concezione sic et simpliciter, immorale, ma di altra e inferiore morale, sorgente sopra al­ tri e inferiori presupposti teoretici, e, come tale, vede la sua diretta nemica nella conce­ zione liberale, contro cui {senza parlare degli espressi e solenni cartelli di guerra o ' sillabi ) è sempre convulsa di odio e di paura . . .

Anche questa conce­ zione aut[orita]ria è metapolitica?

'

Gentile a fondo pagina:

Dunque, il liberale non può accedere alla tesi della nota V. Quella concezione di Stato e Chiesa è dualistica, quindi autoritaria 47. 4 6 S i tratta del primo saggio della raccolta, Il p resupposto filosofico della concezione liberale, già pubblicato negli « Atti Ace. Scienze mor. e poi . della

Società reale di Napoli », 50 ( 1 927), pp . 289-98, e quindi, definitivamente, in Etica e p olitica , Bari 1 93 1 , pp . 135-4 1 . 47 Gentile allude qui al saggio Stato e Chiesa in senso ideale e loro per­ petua lotta nella storia, pubblicato, con diverso titolo, negli « Atti Ace .

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AMVP 2 6 48

Orbene, l'impotenza di esso [dell'ideale imperialistico e nazionalistico] si fa palese nella contradizione stridente in cui si mette con la coscienza morale, che vi ripugna senza remissione, sentendo quanto trista immagine della vita umana gli stia dietro come presup­ posto e dinanzi come annunzio, quale vile fi­ gura dell'uomo, condannato a fare schiavi e a farsi schiavo, a morire e a dar morte, steril­ mente, con la sola promessa beatitudine del ghigno feroce onde si allieterà il provvisorio conculcatore di classi e di popoli, o l'altra, poco diversa, di qualche artistica voluttà ne­ roniana. Che se, per difenderla, si venga co­ munque temperando e correggendo questa ideologia, e mettendola in rapporto con la co­ scienza morale, come lotta che non sia chiusa in sé stessa e sterile, ma abbia a suo fine la sempre maggiore elevazione morale del­ l'uomo, e l'eroe vi faccia da demiurgo del bene [. . . ], si è ricondotti a poco a poco al concetto della lotta per la libertà, la quale im­ plica i contrasti e le antitesi . . .

?

e allora? Se la lotta per la libertà può farsi anche per mezzo di questo demiurgo del bene, anche l'au­ toritario è liberale.

AMVP 32

Non c'era, dunque, da stupire che la lotta continuasse o diventasse più aspra, che sorgessero difficoltà non prima sperimentate o non sperimentate in quella estensione o grado, che illusioni dovessero essere dissi­ pate, generalizzazioni rivedute e corrette, e la mitologia sostituita dalla critica.

Il liberalismo perciò che non ammette la Realpolitik e tutto il resto di p. 33 è ' mi­ tologia '! Alla buo­ n'ora!

Scienze Napoli », 5 1 ( 1 928) , pp. 135-4 1 , nella « Critica », 26 (1928), pp. 1 82-86, e quindi, definitivamente, in Etica e politica , pp. 339-44. 4 8 È un passo tratto dal secondo saggio della raccolta, Contrasti d'ideali politici dopo i/ 1 870, che già costitul il I dei « Quaderni critici >> del Petrini (per altre edizioni, cfr. BoRSARI, L'opera di Benedetto Croce, p. 247).

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AMVP 42 49

La difficoltà si scioglie col riconoscere il primato non all'economico liberismo ma al­ l' etico liberalismo, e col trattare i problemi economici della vita sociale sempre in rap­ porto a questo. Il quale aborre dalla regola­ mentazione autoritaria dell'opera economica in quanto la considera mortificazione delle facoltà inventive dell'uomo, e perciò ostacolo all'accrescimento dei beni o della ricchezza che si dica; e in ciò si muove nella stessa li­ nea del liberismo, com'è naturale, posta la comune radice ideale. Ma non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l'accu­ mulamento dei mezzi a tal fine; e, più esat­ tamente, non può accettare addirittura, dal suo punto di vista, che questi sieno beni e ricchezza, se tutti non si piegano a strumenti di elevazione umana. AMVP 43

Del resto, quel che noi procuriamo di presentare in chiari termini critici si può dire riconosciuto dagli stessi economisti, sia pure in forma poco critica e poco rigorosa, i quali [ . . . ] hanno sempre ammesso che il principio del ' lasciar fare e lasciar passare ' sia una mas­ sima empirica, e non si possa prenderlo in modo assoluto e bisogni !imitarlo. Senonché il limite è qui inteso come qualcosa di posto a b extra, e, come tale, contradittorio al con­ cetto che si vuoi cosl limitare; onde o il con­ cetto stesso ne esce distrutto o il limite viene rigettato.

dunque liberalismo individualismo. =

Il bene economico è

strumento di elevazio­ ne spirituale. Dunque economia è na­ tualismo, non può sorgere sul terreno dello spirito.

Questo limite è lo Stato? Lo Stato, al­ lora, è il moralmente buono? Stato etico?

AMVP 44

Passando a considerare in concreto, la di­ sputa ridiventa quella circa il carattere di un

49 Il passo è tratto da Liberismo e liberalismo, poi ristampato in Etica e politica, pp. 3 1 6-20 (per altre indicazioni, BoRSARI, op. cit. , p. 253).

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dato provvedimento, se sia liberale o illibe­ rale, moralmente buono o cattivo .

liberale buono

=

moralmente

Gentile a fondo pagina 4 5 :

Se il liberalismo corregge il liberismo vuoi dire che questo è falso. Ma un liberalismo senza liberismo, un liberismo della libertà più grande contro la libertà più piccola è più liberalismo (individualismo)? AMVP 68 '0

La politica [secondo il Kay Wallace] tra­ monterebbe, perché le potenze del mondo sono ora gli industriali e gli operai, e la plu­ tocrazia e il proletariato, mentre il ' ceto me­ dio ' o la borghesia, che era quella che pen­ sava e faceva politica, è via via più schiac­ ciato tra le due enormi forze antagonistiche, e il mondo moderno non si muove più se­ condo la politica ma secondo l'economia. Ora, come si può pensare che tramonti mai una categoria spirituale essenziale dell'urnanità?

Pe/ K. W. non sa­ rebbe una categoria.

AMVP 79 "

Se si desidera qualche punto di medita­ zione per intendere quella che si chiama na­ tura utilitaria o economico-politica dello Stato, si consideri, per esempio, che laddove l'uomo morale, ha, in dati casi, il dovere e il diritto di sacrificare la sua vita, lo Stato è di qua da questo dovere e da questo diritto.

che cosa è l'econo­ mico-politico?

AMVP 83

Dall'esatta determinazione di questo rap­ porto fra politica e etica, mal determinato o

'0 È un luogo del saggio Di un equivoco concetto storico: la « borghe­ sia » , poi raccolto in Etica e politica, pp. 321-38 (BoRSARI , p. 254). 5 1 Da Giustizia internazionale, ora in Etica e politica, pp . 345-49 (BoR­ SARI, Bibl. , p. 250) .

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GLOSSE MARGINALI DI G. GENTILE A LIBRI DI B. CROCE

stortamente presentato dai moralisti della po­ litica (come, nel caso analogo, dai domanda­ tori di poesia direttamente filosofica, che non sarebbe poesia ma polemica o didascalica) , si ricava la pratica conseguenza che dagli Stati e dagli uomini politici non basta invocare opere di pregio morale a pro dell'intero genere umano [ ], ma bisogna aiutarli all'uopo e venir loro incontro con le effettive modificazioni indotte nelle menti e negli animi . . .

Il

?

. . .

AMVP 83

Se diventasse più generale che non sia il rispetto per la verità ideale e storica, per la vita teoretica che è una in tutto il genere umano, più generale il discernimento e l'abito riflessivo e critico; come si potrebbe, innanzi al saldo muro opposto da questa energia spirituale, non fare una politica di­ versa da quella che si fa col fabbricare quoti­ dianamente il falso, eccitare le immagina­ zioni, stordire con le vuote parole? AMVP 84

La negazione del carattere etico dello Stato in quanto tale ha, dunque, tra gli altri suoi motivi, anche questo: di togliere ai facili moralisti l'alibi ch'essi si procacciano quando si danno a chiedere agli Stati di cangiare la propria natura ed esercitare la moralità, in­ vece di attendere da parte loro al grave do­ vere di promuovere nel mondo la coscienza e il costume morale, affinché gli Stati se li tro­ vino di fronte da ogni banda, e senza can­ giare la loro peculiare natura, concorrano a servirli. Gentile a fondo pagina:

Servire la coscienza morale? È possibile a chi non sia per sua na­ tura morale? La conclusione contraddice a tutta la tesi di questa nota.

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GENNARO SASSO

Su quest'ultima annotazione, che ha senza dubbio il suo peso critico e in ogni caso rivela la vigile attenzione con cui il Gentile leggeva le pagine del suo amico-nemico, occorre tut­ tavia fermarsi brevemente per una precisazione preliminare. Certo, se Croce avesse detto che, trovandosi di fronte coloro che dedicano la loro vita al concreto innalzamento della co­ scienza e del costume morali, gli stati collaborano con costoro ed anch'essi, dunque, « servono » a quella coscienza e a quel costume, l'obiezione gentiliana coglierebbe nel segno, perché non può esser servitore della moralità chi, per suo conto, non abbia natura morale . Ma pur ammettendo che il periodo scritto da Croce a conclusione di quel saggio (che s'intitola alla Giustizia internazionale) non sia fra i più limpidi e perspi­ cui che uscissero dalla sua penna, e concedendo altresì le molte difficoltà che la sua aspra concezione della politica in­ contrò nel suo svolgimento, e nell'approfondimento del suo rapporto con l'etica, è ben possibile ammettere che il senso complessivo di quel passo sia diverso, ossia più com­ plesso e articolato, di quanto, nella foga della polemica, a Gentile non apparisse . E vero infatti, senza dubbio, che, pre­ muti e quasi sfidati da coloro che, senza nutrire illusioni sulla loro natura specifica, si battono per innalzare le coscienze e i costumi, gli stati vengono anch'essi colti nell'atto di servire a quelle coscienze e a quei costumi. Ma vero è anche che, come Croce esplicitamente dice, in quel « servire » essi non rinne­ gano la loro natura specifica; e se dunque servono la causa della moralità senza propriamente entrare nel suo regno e mu­ tare con ciò il loro carattere, non dovrà intendersi che quel loro « servire » sia qualcosa di indiretto, consistente nell' osta­ colo, e nella materia, che in qualche modo offrono all'attività universalizzante dell'etica? Interpretazione, anche questa, plausibile, una volta che sia prospettata in riferimento, se non a questo specifico testo crociano (che infatti rimane incerto, e nemmeno così mostra di poter risolvere la sua ambiguità) , al­ meno al senso complessivo della « filosofia dello spirito ». In­ terpretazione che , senza dubbio, potrebbe dar luogo a inte­ ressanti svolgimenti se, come qui non si può, venisse posta a confronto con la « totalità » delle tesi crociane, di filosofia po­ litica e di filosofia senz'altro, ma che, in ogni caso, vale a ri-

GLOSSE MARGINALI DI G. GENTILE A LIBRI DI B. CROCE

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durre di molto il peso del rilievo gentiliano (del quale non si saprebbe, tuttavia, disconoscere il valore di stimolo e di sug­ gerimento che, invece, gli è implicito) . Per il resto, chi abbia seguito il commento che qui su è stato dedicato alle glosse scritte in margine alla Politica 'in nuce ' , non ne richiederà, per queste ultime, uno altrettanto diffuso. E basti quindi osservare con quanta cura, e, d'altra parte, con che scarsa forza di convinzione, nelle pagine cro­ ciane Gentile tentasse di ritrovare la giustificazione del suo · diverso pensiero e delle sue diverse scelte pratiche. Così, per un verso, egli si compiace di sottolineare che « se la lotta per la libertà può farsi anche per mezzo di questo demiurgo del bene, anche l'autoritarismo è liberale », o di ironizzare sul li­ beralismo, che sarebbe pura mitologia se non accogliesse la dura lezione della Realpolitik; e in questo senso, la tendenza a fare del fascismo il vero liberalismo e comunque a conside­ rarlo non sul serio distinguibile da quello, anche in queste glosse si riafferma. Nelle quali, per un altro verso, altrettanto chiara è l'insistenza sugli aspetti deteriormente « individuali­ stici » della concezione liberale, sulla contraddittorietà intrin­ seca alla distinzione che, per altro, non può essere analizzata in questa sede : dove, se mai, più interesserà osservare come quella notazione relativa alla teoria « metapolitica » della li­ bertà, che non può stabilire norme, leggi e criteri di azione, torni più volte nelle polemiche che nel corso degli anni si svolsero intorno a questi aspetti del pensiero di Croce . E ba­ sti pensare agli scritti non solo di Luigi Einaudi 5 2 , ma anche di Guido C alogero e di Norberto Bobbio 53. Ebbene, che altro aggiungere a queste rapide annota­ zioni? Lo scopo di queste pagine è bensì di commentare ma, sopratutto, di pubblicare le glosse di Gentile. E poiché altro ancora rimane da far conoscere al lettore, passiamo agli ultimi tre libri che egli lesse « con la matita»: la raccolta Eternità e 52 L. EINAUDI, Il buongovemo, Bari 195 3 , pp. 254 sgg . 53 G. CALOGERO, Difesa del libera/socialismo, Roma 1 945 , pp. 32 passim; N . BoBBIO, Politica e cultura, Torino 1955, pp . 263-64.

sgg. ,

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GENNARO SASSO

storicità della filosofia (che, corrispondendo con qualche va­ riante all'ultima sezione degli Ultimi saggi, apparve dapprima, nel 1930, nel ventunesimo dei « Quaderni critici » che Dome­ nico Petrini stampava a Rieti) , gli Ultimi saggi ( 1 935), e, in­ fine, La storia come pensiero e come azione ( 1 938). E S F 64 54

Per uscire da questo intrigo, e per giusti­ ficare il nostro giudizio che il criterio hege­ liano, nonostante il mal passo al quale fu con­ dotto dallo Hegel e dai suoi scolari, è un ri­ trovamento geniale, conviene negare che la storia della filosofia, cioè del pensiero umano, consista in una serie di sistemi, cia­ scuno retto da un proprio principio, ossia da un'eterna categoria; e sostituire a questa l'al­ tra concezione che la storia del pensiero è la storia di singoli problemi, solo a un dipresso sistemati da ciascun pensatore, e anzi varia­ mente sistemati da un medesimo pensatore nel corso del suo svolgimento mentale.

dunque c'è una siste­ mazione! E il farla a un dipresso è giudi­ zio che suppone una sistemazione che non sia a un dipresso.

ESF 70 55 Sì, queste e altre cose noi sappiamo, che i vecchi pensatori, vindici della individualità contro l'astratto universale non sapevano e non vedevano, e noi stessi in un primo tempo non vedevamo, e non c'importava vedere, perché à chaque ;our suffit sa peine.

v.

Estetica.

ESF 7 1

E troppe volte vediamo che i predicatori dell'universale concreto ricascano in quello

54 Si tratta di un breve saggio, scritto come recensione di B . HEIMANN, System und Methode in Hegels Phi/osophie, Leipzig 1 927, che fu ristampato in Conversazioni critiche, Bari 1932, IV, 48-5 1 . 5 5 Parole tratte dal saggio, Sul concetto d'individualità nella storia della filosofia, ristampato fra gli Ultimi saggi, Bari 1 948 2 , pp. 368-72 .

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GLOSSE MARGINALI DI G. GENTILE A LIBRI DI B. CROCE

astratto, gli assertori della dialettica nella sta­ tica identità: come quando, nella teoria del­ l' arte, seguitano a trattare l'arte quasi filoso­ fia sensibile e immaginosa e a risolverla nella filosofia al pari di una qualsiasi philosophia inferior, o, nella teoria dello Stato, schiacciano sotto il cosiddetto Stato e la cosiddetta autorità l'individualità e la libertà.

E dal/i!

ESF 82 5 6

Né la cosa andava molto diversamente nelle aule universitarie, perché, fatta ecce­ zione di taluno rispettato per il suo ' passato patriottico ' o per l'austerità presente della vita, i professori di filosofia erano i meno sti­ mati dai loro colleghi di facoltà, considerati estranei a tutte le questioni concrete di cui essi si occupavano, e peggio che estranei quando vi mettevano bocca, perché allora si scoprivano o semplici o ignari o sconclusio­ nati.

No, non chiacchie­ riccio sciocco. Si ri­ cordi Fiorentino, Tocco, Cantoni.

Al di là dell'espressione di sentimenti polemici resisi or­ mai quasi cronici, queste glosse toccano punti, per la filosofia dello spirito come per quella dell' atto puro (il rapporto fra « sistema » e « sistemazione » , in Croce, quello fra l'unità e la molteplicità dei problemi filosofici, in Gentile) , molto impor­ tanti. Ma, alla data in cui furono scritte, rinviano piuttosto ad un corpo consolidato di teorie, che non al progetto di teo­ rie da costruire . E perciò converrà passare agli Ultimi saggi. us 52 5 7

Quel che, togliendo la base stessa a cote­ ste costruzioni, dà altro indirizzo al problema

56 Il passo è tratto dalla nota su Il Filosofo, ora in Ultimi saggi, pp. 386-90. 57 Questo e i successivi passi crociani fanno parte del saggio, Le due scienze mondane: l'estetica e l'economia, in Ultimi saggi, pp. 43-58.

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GENNARO SASSO

della natura, è la considerazione gnoseologica onde ci si è a poco a poco avveduti che non sussistono già due ordini di realtà o due mondi, l'uno spirituale e l'altro naturale o materiale, l'uno governato dalla finalità, l'al­ tro meccanico, ma che l'unica compatta in­ scindibile realtà può essere a volte elaborata secondo i concetti di spirito, vita, fine, e se­ condo quelli di materia, causa e meccanismo .

Il

us 52-53

Per uscire da questa stretta, non c'è altra via che riporre e riconoscere in uno solo di quei due modi il genuino pensiero e la verità, e attribuire all'altro un ufficio meramente pratico e strumentale o ' economico ' , com'è stato chiamato.

Il

us 53-54

E poiché tale esso [l'oggetto] è [ossia ' il fantasma ritornante ' dell'inconscio, della na­ tura, della materia], tutti gli sforzi che si ado­ perano per riassorbirlo sono altrettanto vani quanto quelli delle vecchie filosofie della na­ tura, e riescono a tautologie e a bisticci, come quando s'insiste sulla dualità che è unità del rapporto di soggetto-oggetto, e si riecheg­ giano i termini del problema senza risolverlo, o si cerca di escamoter l'oggetto, facendolo scomparire e poi ricomparire come il fatto di fronte all'atto, e cioè come natura di fronte a spirito, o come il passato di fronte al pre­ sente, e con altrettali giochetti di sublime me­ tafisica. us 55

Il pensiero, anche quando pensa e critica gli altrui pensieri e ne svolge la storia, non pensa il pensiero ma la vita pratica del pen­ siero, perché il pensiero è sempre il soggetto che pensa e non mai l'oggetto pensato.

Bisogna pire!

prima

ca­

60 1

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L'unica glossa 5 8 che, al di là dei pochi segni materiali qui riprodotti, possa leggersi in margine al saggio crociano su Le due scienze mondane, riguarda bensl un punto di grande im­ portanza ma, avendo tono di semplice ritorsione polemica, rinvia in effetti a quel motivo della incomprensione, da parte dei critici, dei prindpi fondamentali dell'attualismo, che ri­ suona più volte negli scritti di Gentile, e sopra tutto in quelli successivi alla composizione del secondo volume del Sistema di logica ( 1 923) e, quindi, de La filosofia dell'arte ( 1 93 1 ) . Non ha quindi particolare importanza. E ben diversamente inte­ ressanti risultano perciò le glosse, molto polemiche e discre­ tamente folte, che Gentile dedicò al libro su La storia . SPA

vn

Conforme a questa origine, il volume si compone di una serie di saggi, che hanno un'implicita unità nel pensiero che tutti li regge e ai quali ho procurato di dare un'unità anche esplicita col primo, che può servire da introduzione . SPA 1 4 Il giudizio, nel pensare u n fatto, lo pensa quale esso è, e non già come sarebbe se non fosse quello che è: lo pensa, come si diceva nella vecchia terminologia logica, secondo il principio d'identità e contradizione, e perciò logicamente necessario.

Logo astratto!

SPA 1 9

Se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che

5 8 Va tuttavia rilevato che annotazioni gentiliane si trovano in margine al saggio Antistoricismo, « Critica », 28 ( 1 93 0) , pp. 406 e 407. A p. 406: « origine del fascismo dalla guerra ! ». A pp . 406-407, in margine al passo che comincia: « quanto si consideri non solo che nella guerra, etc. », l'annota­ zione è: « elogio della guerra! »; e se, a proposito della prima, può forse in­ tendersi che fosse diretta a criticare l'idea che fosse nato dalla guerra il fa­ scismo che Gentile invece considerava come il frutto maturo del Risorgi­ mento, capire il senso della seconda è proprio impossibile perché non c'è, nella pagina crociana, una sola parola che possa essere interpretata come « elogio della guerra ».

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esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché i fatti immobili non si trovano né si concepiscono nel mondo della realtà.

Un fatto non è dive­ niente.

SPA 2 1 -22

Ma il pensiero storico ha giocato a que­ sta rispettabile filosofia trascendente un cat­ tivo tiro, come all a sua sorella, la trascen­ dente religione, di cui essa è la forma ragio­ nata e teologica: il tiro di storicizzarla, inter­ pretando tutti i suoi concetti e le sue dottrine e le sue dispute e le sue stesse sfiduciate ri­ nunzie scettiche come fatti storici e storiche affermazioni . . .

Scetticismo, che è per altro una filoso­ fia anch'essa sopra­ storica.

SPA 23

Stavo per dire, cogliendo un esempio sul vivo, che anche le dilucidazioni metodologi­ che, che qui vengo dando, non sono vera­ mente intelligibili se non col rendere mental­ mente esplicito il riferimento (di solito da me dato in modo soltanto implicito) alle condi­ zioni politiche, morali ed intellettuali dei giorni nostri, delle quali concorrono a dare la descrizione e il giudizio.

Il che non vuoi dire che debbano esser veri per oggi e per sempre.

SPA 23

Sono essi [i professori di filosofia] i na­ turali conservatori della filosofia trascen­ dente, a segno che anche quando professano a parole l'unità della filosofia e della storia, la smentiscono col fatto, o tutt'al più discen­ dono di tanto in tanto dal loro sopramondo per pronunziare qualche vieta generalità o qualche falsità storica.

E l'Estetica? E la Filos. d . pratica? e le ' eterne categorie ' di cui si parla qui appresso (p. 29)?

SPA 24-25

Né le categorie cangiano e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchi-

Dualismo e meta/i­ sica.

603

GLOSSE MARGINALI DI G. GENTILE A LIBRI DI B. CROCE

mento, essendo esse le operatrici dei cangia­ menti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, dell'atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele . . .

Il

?

SPA 25-26

Per accennare a tempi recenti, in Germa­ nia, nell'ottocento, a consimile rimedio ri­ corse il rigido pedagogista Herbart contro le perversioni della dialettica e dello storicismo i n parte nello stesso Hegel, m a più ancora nella scuola hegeliana, che sembravano insidiare non meno la serietà della vita morale che quella della vita scientifica . . .

Herbartismo .

SPA 27

Poiché si è stranamente pensato che bi­ sognasse andar soffiando su tutti i lumi per assicurare interezza e purezza all'immanenza, quasi che la sua degna sede sia il ' regnum te­ nebrarum ', non fa meraviglia che sia stata combattuta, e in immaginazione abbattuta, anche la distinzione primigenia e fondamen­ tale, che il senso comune dell'umanità ha sempre posta e osservata e le filosofie hanno rispettata: quella del conoscere e del volere, del pensiero e dell'azione.

Ignora l'A. la distin­ zione di logo astrat­ to e l[ogo] concreto che spiega l'oggetti­ vità e necessità del vero di fronte al­ l'azione (al soggetto) senza i misteri delle 4 parole. Altro che lumi spenti!

SPA 27

L'argomento che in ciò si adopera si ri­ conduce al fonte di ogni sofisma, che è nel prendere uno stesso termine in due accezioni diverse, e dimostrata l'una delle due acce­ zioni, far passare come dimostrata l'altra e vi­ ceversa.

l'A. pare si dimenti­ chi di dirci quali sa­ rebbero le due acce­ zioni diverse.

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GENNARO SASSO

SPA 29

Basta guardarsi intorno e porgere ascolto alle voci che si levano dai circoli intellettuali e artistici, religiosi e politici, e insomma da ogni parte della società, per trovarsi dinanzi le ma­ nifestazioni dell'indifferenza e dell'irriverenza per la carità e la verità, e l'attivismo privo di ideale, e tuttavia irruente e prepotente. E se in alcuni casi si tratta veramente d i mediocre letteratura che non mena a conseguenze, in altri molti si osserva con quanta facilità gli assertori della statica identità del conoscere con l'operare, che hanno mortificato in sé stessi la vigile forza della interiore distinzione e chiarezza, passino, nella vita pubblica, alla sofistica e alla rettorica in rispondenza dei propri comodi, ingrossando le fila di quei ' clercs ' traditori, contro i quali uno scrittore francese, or è qualche anno, sentì il bisogno di stendere uno speciale atto d'accusa. La cattiva teoria e la cattiva coscienza si originano l'una dall'altra, si appoggiano l'una all'altra e cascano, infine, l'una sull' altra.

contro il fascismo! non è vero!

SPA 30

Più strano è vedere come, invece di far oggetto di accurata e profonda analisi le mal­ sanie sociali della specie di quella ora accen­ nata [ . ], si prenda ad accusare il pensiero storico o lo ' storicismo ', reo (si dice) di ge­ nerare quelle malsanie col promuovere il fata­ lismo, dissolvere i valori assoluti, santificare il passato, accettare la brutalità del fatto in quanto fatto, plaudire alla violenza, coman­ dare il quietismo, e, insomma, di togliere im­ peto e fiducia alle forze creatrici [ ]. Ma tutte queste cose hanno già i propri loro nomi nel mondo morale, chiamandosi fiac­ chezza d'animo, disgregamento volitivo, di­ fetto di senso morale, superstizione del pas­ sato, sospettoso conservatorismo, viltà che cerca pretesti a sé medesima . . . . .

. . .

Ma che abbiano nomi propri non to­ glie che siano tutti forme di storicismo.

GLOSSE MARGINALI DI G. GENTILE A LIBRI DI B. CROCE

605

SPA 3 7

Sono queste le sfere del fare, dell'attività umana, a cui rispondono le forme fondamen­ tali ed originali della storiografia: politica o economica; della civiltà, o dell'ethos o della religione che si chiami; dell'arte; e del pen­ siero o filosofia. E benché una sorta di diffi­ denza si soglia manifestare verso la discrimi­ nazione di queste quattro forme della storia, esse non sono state già ritrovate e distinte da un singolo filosofo, per quanto abbia potuto ragionarvi intorno e meglio formularne la di­ stinzione, ma dalla coscienza del genere uma­ no . . .

Sforzo di ridurre a quattro le forme che non si crede di poter contestare per cui a un tratto si fa ethos religione. =

SPA 38

Rispondere che le categorie sono mnu­ merevoli e infinite quanto le particolari azioni e giudizi è (come si è veduto) non un rispondere filosofico, ma una rinunzia al giu­ dicare, che è pensare, e una rinunzia al fare, che è sempre un fare specificato qualitativa­ mente .

Affermazione traria

SPA 3 8

Comunque, quali che siano queste sfere di attività, il principio che tutte le anima è la libertà, sinonimo dell'attività o spiritualità, che non sarebbe tale se non fosse perpetua creazione di vita. Un creare sforzato, un creare meccanico, un creare a comando e vincolato nessuno ha mai sperimentato, né riesce a concepirlo in idea; e, in effetti, è un nesso di vocaboli che non dà senso. SPA 3 8

D i decadenza si può bensì parlare, ma per l'appunto in riferenza a certe guise di opere e di ideali che ci sono cari (e troppe volte si dà così la stura agli insipidi piagnistei

Hegei

arbi­

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del ' peior avis ', del ' nequior ' e del ' vitio­ sior '); ma in senso assoluto, e in istoria, non c'è mai decadenza che non sia insieme formazione o preparazione di nuova vita e, pertanto, progresso.

e allora?

SPA 40

La più importante di coteste combina­ zioni [fra concetto del progresso e concetto di uno stato terminale e paradisiaco della realtà], culmine di moltissime altre dello stesso genere, si ritrova in una filosofia che ha più di ogni altra conferito a interpretare la realtà come storicità, e la vita come sintesi di opposti, e l'essere come divenire, la filosofia hegeliana . . .

Falso!

SPA 43

E che cosa mai aggiunge a queste opere belle, vere e variamente utili la moralità? Si dirà: le loro opere buone. Ma le opere buone, in concreto, non possono essere se non opere di bellezza, di verità, di utilità. E la moralità stessa, per attuarsi praticamente, si fa pas­ sione e volontà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l'artista, e lavora con l' agricol­ tore e con l'operaio, e genera figli e esercita politica e guerra, e adopera il braccio e la spada.

Dunque le sono tre?

forme

SPA 43

La moralità è nient'altro che la lotta con­ tro il male; ché se il male non fosse, la morale non troverebbe luogo alcuno. E il male è la continua insidia all'unità della vita, e con essa alla libertà spirituale: come il bene è il continuo ristabilimento e assicuramento del­ l'unità, e perciò della libertà. SPA 44

Domandarsi perché mai il processo pro­ ceda così, o pensare che possa procedere al-

Verba nihil.

praetereaque

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trimenti senza lotta, senza passaggi faticosi, senza pericoli, senza arresti, senza pencolare verso il male né impigliarvisi, non ha senso, come non ha senso domandarsi perché il ' sì ' abbia per correlativo il ' no ' , e almanaccare di un puro ' sì ' scevro di ' no ', o di una vita che non contenga in sé la morte e non debba sorpassare ad ogni istante la morte .

non c'è mai perché.

SPA 44

Ora, l' azione che mantiene nei loro con­ fini le singole attività, che tutte le eccita ad adempiere unicamente il loro proprio ufficio, che si oppone in tal modo al disgregamento dell'unità spirituale, che garantisce la libertà, è quella che fronteggia e combatte il male in tutte le sue forme e gradazioni, e che si chiama l' attività morale. SPA 45

E un altro punto si rischiara: perché mai tra le forme della storiografia si sia sempre mirato ad una che è parsa la storia per eccel­ lenza, una storia sopra le storie; e, conside­ rando storie speciali quelle dell'arte, della fi­ losofia e della varia attività economica, si sia additata questa come la vera e propria storia, la storia sopra le storie, quella dello Stato in­ tesa come stato etico e regola della vita, e quella della Civiltà, che meno imperfetta­ mente designa la vita morale, traendola fuori dall'angustia politica del concetto di stato.

l'A. si è accorto in­ tanto che la teoria della 4 a forma o grado, che era nella Filos.

d.

pratica,

non regge: perché quell'universale che lì era l'oggetto del volere morale ha in­ ghiottito ogni parti­ colare.

Come se ci fosse ci­ viltà senza stato.

Nell'ultima pagina, non numerata, di questo libro cro­ ciano, Gentile annotava: « storie razzistiche 1 2 . Le 4 forme ridotte a 3 : p. 43 ». Erano temi sui quali, evidentemente, pensava di dover tornare con maggiore attenzione. Se il mo­ tivo del razzismo bruciava nell'animo dell'uomo che, forse, stava osservando con intimo sgomento l'estrema degenera­ zione a cui, proprio in quel giro di mesi, il fascismo condan-

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nava sé stesso, l'altro motivo, quello della quadripartizione dello spirito, attirava di nuovo il suo vivo interesse di vecchio lettore e interprete della filosofia di Benedetto Croce . Ma, nell'insieme, che cosa dire di queste glosse gentiliane? Anche qui, certo, come il libro di Croce è, nella sua prima parte, il più duramente polemico che, senza mai nominarla, egli diri­ gesse contro la filosofia del suo antico collaboratore, così al­ trettanto dura e veemente è la reazione di Gentile; e sebbene, come si diceva, le sue glosse siano interessanti e vivaci 59, pure è un fatto che ormai la polemica che da anni quasi quo­ tidianamente li impegnava trovava difficoltà evidenti a scen­ dere con cura alla radice delle rispettive « ragioni », e si svol­ geva invece, violenta e sprezzante, attraverso il gioco delle d­ torsioni e delle contrapposizioni . Ecco, così, Gentile fermarsi su un periodo crociano nel quale è detto che un « fatto » è un processo storico (e dunque non è, ma diviene), e obiettare che un fatto, non diviene, e che ad esso unicamente adeguata è la logica del « logo astratto ». In margine all a p. 14 del libro su La storia, Gentile aveva annotato, con enfasi, « Logo astrat59 Nascono di qui, o anche di qui, sia il saggio su La distinzione cro­ ciana di azione e pensiero , « Giorn. crit . fil. ital. », 22 ( 1 94 1 ) , pp. 274-78, sia l'altro, Storicismo e storicismo, « Annali Se. Nor. Sup . Pisa », 1 1 ( 1 942), pp. 1-7 (poi in Introduzione alla filosofia, Firenze 1958 2 , pp. 259-70) . Ma val la pena di aggiungere che (come ricordò CALOGERO, Ricordi del movimento li­ bera/socialista, in Di/esa de/ libera/socialismo cit . , pp. 1 92-94) assai notevole era, intorno al 1 940, la diffusione delle idee crociane nell'ambiente della Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui Gentile era direttore. Ed anche questa sarà stata una delle ragioni che indussero Gentile a intervenire pub­ blicamente contro l'ultimo libro filosofico di Croce (cfr., per es. , CALOGERO, Ricordi, p. 1 9 3 : « c'è stato tutto un periodo in cui Croce è stato il livre de chevet, la lettura segreta della migliore gioventù italiana. Quel fascino che in altri tempi poteva avere un romanzo proibito, allo ra ebbero i pesanti volumi laterziani di Croce. Per loro conto, molti professori facevano quanto più po­ tevano, per destare e rafforzare nei giovani il gusto di tali letture. Si arrivò al paradosso che in quella stessa che doveva essere la roccaforte dello spirito gentiliano, la Scuola Normale Superiore di Pisa, lo studio del Croce era cosl intenso e diffuso che Gentile, non avendo né il coraggio di proibirlo né quello di permetterlo, ricorse una volta al ripiego di togliere a un professore l'incarico di ' Esercitazioni di storia della filosoiia ' e di sostituirlo con quello di ' Esercitazioni di storia della filosofia antica ' , per impedirgli di svolgere tali esercitazioni su testi croci ani ») .

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to ! », intendendo con questo che se la necessità storica dev'es­ sere intesa come sempre identica e in sé stessa non contrad­ dittoria, allora la sua corretta trattazione non potrà esser data nella logica del concreto, o del pensiero pensante, ma in quella, invece, dell'astratto, o del pensiero pensato . E cosl aveva anticipato, o ribadito, la sua critica dello storicismo crociano come filosofia, nel suo fondo, intellettualistica e « naturalistica ». Ma nella glossa che stiamo esaminando, senza richiamare la precedente definizione del « fatto » in ter­ mini di identità e non contraddizione (e senza soffermarsi sulla difficoltà complessiva che ne risulta) , egli si limitò a scri­ vere quel che si è letto. E il suo giudizio assunse perciò la forma dell'estrema semplificazione . Una semplificazione, non un giudizio: alla quale sarebbe stato facile replicare che al « fatto », quale l'intende la logica dell'astratto, anche Croce avrebbe in effetti riconosciuto carattere « non diveniente », perché quella che, per Gentile, era la statica identità, formale e vuota, di A con A, era per lui la realtà schematizzata dalla logica astraente dello pseudoconcetto nelle sue varie forme; mentre, per altro verso, anche per il filosofo dell' atto puro il « fatto storico » non è in sé statico e compiuto, se è vero che « nulla è mai fatto, nulla già pronto, come tavola imbandita a cui uno si possa senz'altro sedere » 60• Per quante differenze, anche profonde, si vogliano riconoscere nella concezione che del « fatto storico » i due filosofi elaborarono nel corso degli anni, non può dirsi che esse abbiano la forza di far sparire questa specifica convergenza. E nella sua glossa perciò Gen­ tile faceva una questione di parole: semplificava, non criti­ cava, cedeva alle lusinghe della polemica. Del resto, altrettanto semplificatrici o, se si preferisce, troppo sommariamente polemiche, sono anche altre sue anno­ tazioni: come quella, ad esempio, nella quale egli definl « scet­ ticismo » la « storicizzazione » che il pensiero fa delle posi­ zioni che investe della sua critica, o l'altra, nella quale pretese di porre in contrasto una pur chiara proposizione crociana con la teoria, pur essa crociana, dell'eternità delle categorie, o 60

GENTILE, Sistema di logica, II, 68.

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quella, infine, nella quale è detto che « ignora l'A. la distin­ zione di logo astratto e logo concreto che spiega l'oggettività e necessità del vero di fronte all'azione (al soggetto) senza i misteri delle 4 parole . Altro che lumi spenti ! » 6 1 • Osserva­ zione, questa, che nel tono perentorio e fin aggressivo che la caratterizza, nell'estrema sicurezza e, qua e là, anche nell'ar­ roganza che la affliggono, nasconde forse piuttosto il deside­ rio di confermare una verità in cui si riposa ormai come in un inattaccabile fortilizio, che non la volontà di scendere di nuovo in campo a fare sul serio la prova delle armi. Come po­ teva, infatti, Gentile, dire sul serio che Croce « ignorasse » la sua distinzione fra astratto e concreto, se nel Sistema di logica aveva concluso la trattazione osservando che il pensiero cro­ ciano era in effetti come l'immanente « autocritica » della sua filosofia? Ma anche qui, se è comunque interessante (psicologica­ mente e storicamente interessante) che la polemica di Gentile incupisse i suoi temi e, nella violenza di una drastica contrap­ posizione , irrigidis se le sue linee, non deve tuttavia dimenti­ carsi che molte cose acute si ritrovano nel suo fondo . E basti pensare all'insistenza che, leggendo il libro di Croce, Gentile mise nel sottolineare l'inquietudine introdottasi nel sistema delle categorie , che ora si distinguono secondo il consueto ritmo quadripartito e ora, invece, sembrano all'improvviso ri­ dursi a tre, a causa della nuova concezione che qui caratte­ rizza la moralità . Certo, chi studi a fondo la risistemazione che del precedente universo categoriale Croce fece nel libro su La storia, e, cogliendone le fortissime tensioni interne, la confronti con quanto al riguardo era stato detto ai tempi della costruzione e poi dei primi svolgimenti del « sistema », si ac­ corge che ben più complesso è il problema che occorre mettere a tema dell'indagine . Ma, sia pure fra le nebbie di una polemica ormai incapace di serenità, ancora una volta Gentile aveva in­ tuito un punto importante, da svolgere senza dubbio e, dunque, da non trascurare . Sebbene il suo tono fosse ormai quello di chi 61 Sull'espressione relativa alle « quattro parole », cfr . qui appresso, pp . 6 1 5-43 .

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si compiace di sottolineare difficoltà e far notare incongruenze, l'intelligenza era migliore dello stato d'animo, e ancora sapeva arrecare contributi degni di discussione e di critica. Come si è detto, La storia come pensiero e come azione è l'ultimo libro crociano che Gentile leggesse con la matita, po­ stillando con sistematicità (ed anche con accanimento) . Privi di ogni segno sono infatti i margini del libro su La poesia, in­ tatti quelli de Il carattere della filosofia moderna ( 1 94 1), che pure, come può desumersi dall'esame materiale dei volumi, Gentile quasi certamente lesse per intero e con attenzione . Era dunque ormai esaurita l'occasione della polemica, oppure l'ansia procurata dalla guerra, da poco iniziata e già volgente al peggio , tratteneva il filosofo dal proseguire un « gioco » che doveva apparirgli di troppo inferiore alla gravità del mo­ mento? E questo, forse, il vero motivo per il quale, se in qualche occasione non poté astenersi dal colpire ancora con asprezza la filosofia di Croce e la « religione della libertà », in privato, dove da lui soltanto dipendeva se dar di nuovo corso, oppure no, alla espressione dell'animo esacerbato, egli preferl tacere . E non deve del resto dimenticarsi che del fastidio, o del disagio morale, che a lui procurava la polemica con quel­ l' antico compagno di battaglia, al quale tuttavia lo avvince­ vano « ricordi incancellabili », Gentile esplicitamente parlò nell'ultima delle postille anticrociane del Giornale critico 62 • Quali, d'altra parte, nella vita profonda dei sentimenti, delle speranze, delle oscure angosce, trascorressero , fra l'en­ trata dell'Italia nel conflitto e la morte, gli ultimi suoi anni, non sappiamo. La tranquillità 6 3 che, forse, egli aveva in qual­ che modo conquistata attraverso il silenzio che s'era imposto e che soltanto il 24 giugno 1943 sarebbe stato, tragicamente, rotto, dové essere, nel profondo, insidiata da dubbi, da incer­ tezze, da esitazioni che, in un uomo meno forte nel dominare o almeno dissimulare le passioni, e meno orgoglioso, avreb62 G. GENTILE, A Benedetto Croce, « Giorn. crit. fil. ital. >>, 23 ( 1 942) , p. 120. 63 Cfr . , per questo , la testimonianza offerta da B . GENTILE, Dal di­ scorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1 943- 1 5 aprile 1 944), in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze 1 95 1 , IV, 12.

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bero pur trovata qualche via d'espressione. Ma nell'assenza di ogni documento che valga a confermare, oppure a smentire, ciò che, per le sue esigenze, la fantasia ama dipingere, con­ verrà al riguardo astenersi da ogni ulteriore congettura. Ed anche sul tema dei rapporti profondi che lo legavano e lo op­ ponevano a Croce, la cui immagine forse si sarà a tratti ras­ serenata ai suo occhi mentre la tempesta della guerra si ab­ batteva sul suo mondo, insinuandogli nell'animo l'angoscioso presagio della fine , il silenzio è più apprezzabile di ogni di­ scorso, per cauto che sia. Del resto, che cosa potrà mai dirsi di non banale, o di non stridente, in una materia come que­ sta? Soltanto questo, forse: che, come ogni uomo racchiude dentro di sé qualche frammento almeno della comune uma­ nità, così i « sentimenti » di Giovanni Gentile non saranno stati, nel profondo della sua coscienza, diversi da quelli che , alla notizia della morte violenta di lui 64 , Croce affidò ad una pagina del suo Diario, che non può rileggersi senza che, con la commozione che ne spira, un senso sofferto di superiore se­ renità penetri nell'animo 6.'5 .

6 4 Sull'uccisione di Gentile gli storici non hanno ancora trovato, anche per le difficoltà intrinseche ad una documentazione ancora largamente lacu­ nosa, l'accordo. Cfr . , essenzialmente, C . L . RAGGHIANTI, Disegno della Libe­ razione italiana, Pisa 1 962 2 , pp . 1 5 1-57, il quale offre un'ottima analisi delle « testimonianze » atte a sostenere l'ipotesi, che circolò subito a Firenze, il giorno stesso dell'uccisione (cfr. anche GENTILE, Dal discorso agli Italiani alla morte cit . , p. 129), secondo cui il filosofo sarebbe stato soppresso dalla famigerata banda del Carità, contro la quale egli aveva più volte protestato presso Mussolini. Cfr. anche C. FRANCOVICH, La Resistenza a Firenze, Fi­ renze 1 96 1 , pp . 1 87-88, il quale accenna anche lui, ma per dichiararla im­ probabile, alla « voce che attribuiva l'omicidio allo stesso Carità ». Successi­ vamente, per altro, il Francovich dedicò all'analisi di questa « ipotesi », uno specifico contributo (Un caso controverso: chi uccise Giovanni Gentile? , « Atti e Studi 1st. st. Resistenza Tosc. », n. 3 , 1 96 1 , pp. 20-45) . Per altre in­ dicazioni bibliografiche, cfr. DI LALLA, Vita di Giovanni Gentile, pp. 53 9-40, il quale, per altro, non accenna in alcun modo all'ipotesi, discussa dal Rag­ ghianti e dal Francovich (e del resto registrata anche da Benedetto Gentile) . 65 B . CROCE, Quando l'Italia era tagliata in due, Bari 1 948, pp . 1 1 1 - 1 2 (ora i n Scritti e discorsi politici [1 943- 1 94 7], Bari 1 963 , I, 305-306) . [Ma cfr . ora il mio Per invigilare me stesso. I ' Taccuini di lavoro ' di Benedetto Croce, Bologna 1 989, pp . 40-60].

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LA « FILOSOFIA DELLE QUATTRO PAROLE » STORIA DI UNA « PREFAZIONE »

Di questa espressione , polemica e spregiativa, della quale più volte Giovani Gentile si servì per colpire ed offendere la filosofia di Benedetto Croce, il primo documento è la Prefa­ zione che va innanzi alla prima edizione, 1 9 3 1 , e quindi alla ristampa, 1937, de La filosofia dell'arte. L'ultimo capoverso di questa Prefazione che, giova aggiungere, sia nell'edizione del 193 1 , sia nella ristampa del 1937, non presenta indica­ zione di data, dice infatti così: E questo vuol essere un libro di filosofia. L'ho detto anche nel frontespizio per avvertire i rispettabili critici della terza pagina, che questo libro non è per loro . So bene che in gran parte in Italia l'estetica è nelle loro mani; e io non ci ho nulla a ridire, convinto come sono che essi dicano con molto garbo cose molte interessanti. Soltanto, con tutto il rispetto che ho per loro, mi permetto d' espri­ mere il parere che la loro estetica non sia filosofia: neanche la filo­ sofia delle quattro parole 1 •

Nel 1 934 la Filosofia dell'arte uscì a Berlino, presso gli editori Junker e Diinnhaupt, nella traduzione curata, non da Heinrich Langen (che non era se non uno pseudonimo) , ma in realtà da Heinrich Levy, Werner Peiser, Nicolai Rubinstein e Guido C alogero; il quale ultimo da Cortina, il 2 settembre

(

=

1 G. GENTILE, La filosofia dell'arte, Treves , Milano 193 1 , Sansoni, Firenze 1937, p. vm) .

p.

vm

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1 9 3 4 , scriveva a Gentile per avvertirlo che, finalmente, il la­ voro era giunto al termine 2 . E, scherzando, gli diceva che, poiché i traduttori erano quattro, ossia, come si conveniva ad un autore messo all'indice, tre ebrei e un miscredente, in luogo del nome dell'inesistente Heinrich Langen, si sarebbe potuto proporre quello di un Heinrich Vierkopf, che almeno presentava, nel nome, il vantaggio di essere aderente alla realtà del loro numero ! Come che sia, nella versione tedesca, il passo suona così: Und dieses will eben philosophisches Buch sein . Schon auf dem Titelblatt habe ich es zum Ausdruck gebracht, um die schiitzens­ werten Vertreter der journalistischen Kritik darauf hinzuweisen, dass in Italien die Àsthetik grossenteils in ihren Handen ist, und ich lege nicht den geringsten Wert darauf, ihnen zu widersprechen, tiberzeugt, wie ich bin, dass sie mit vielen Eifer viel Interessantes vorbringen. Nur erlaube ich mir - mit alle dem Respekt, den ich ftir sie empfinde - die Meinung zu iiussern, dass ihre Asthetik nicht Philosophie ist, ja nicht einmal die bertihmte Crocesche phi­ losophie der vier Kategorien cles Geistes 3 .

Qui, come s i vede, il passo appare bensì con una modi­ fica, perché le « quattro parole » e la filosofia che vi si risolve sono diventate, per il lettore tedesco (che con difficoltà, al­ trimenti, avrebbe colto l'allusione polemica) , le vier Katego­ rien des Geistes, e il nome di Croce vi è citato per rendere comprensibile a tutti che, nonché all'altezza della sua, nem­ meno a quella della filosofia dello spirito i critici dei giornali erano in condizione di salire . Ma, nell'insieme, anche se in forma più accademica e meno sprezzante, la nota polemica vi traspare con chiarezza e nettezza; e c'è senza dubbio del­ l'ironia nell' aggettivo beruhmte che, nel testo tedesco, s1 ac­ compagna, precedendolo, alla Crocesche Philosophie. Fin qui, dunque, niente di strano; e niente, sopra tutto, di nuovo . A parte le « quattro parole » , l'intento di Gentile 2

La lettera è in AFG, Carteggi Guido Calogero . 3 G. GENTILE, Philosophie der Kunst, Berlin 1934,

p. VI.

LA , 47 ( 1 950), p. 2 1 7 , che trovo citata in S . RoMANO, Giovanni Gen­ tile. La filosofia al potere, Milano 1984, p. 28 1 . Meglio in H . S . HARRIS, The social Philosophy of Giovanni Gentile, University of Illinois Press, Urbana 1 960, p. 282 n. 79. AI Rossi, mostrandogli il manoscritto di Genesi e strut­ tura della società, che da pochi giorni aveva terminato di scrivere, Gentile avrebbe detto, a Firenze nel settembre del 1943: « i vostri amici possono ammazzarmi ora se vogliono. II mio lavoro nella vita è finito >>. Per la que­ stione filosofica della morte, cfr . qui su, pp . 53- 1 65 . 11

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posta con simile nettezza, e costituisce l'indizio di una possi­ bile autocritica dell'intera filosofia dell'atto puro. Ma non su questo è possibile discutere qui. E tornando invece sull'illusione, che a tratti Gentile forse nutrl, circa la vittoria che ancora poteva arridere alla sua parte, occorre cer­ car di capire di che qualità fosse. Che di tanto in tanto la sua prospettiva gli si accendesse dentro e gli rassegnasse l'animo e la mente, è possibile, e, in un uomo come lui, probabile an­ che, e comprensibile . Ma altrettanto probabile, e comprensi­ bile, è che la luce dell'illusione non durasse a lungo. E , comunque, diversa era l'interpretazione che dell'insorgere, e poi anche del possibile spegnersi, di questa rasserenante ener­ gia vitale, l'attualista doveva fornire . Nel Discorso agli Italiani c'è un passo che resiste alla retorica, all'enfasi, all' aggres­ sività; ed è quello nel quale è detto che il vincere, il non vin­ cere, la previsione dell'uno o dell'altro, - tutto questo è « de­ leterio » se lo si prospetta sul piano astratto delle probabilità, perché quel che conta sta nella coscienza, nella concretezza e nell' atto della coscienza, - sta in questa, soltanto in questa, non fuori, dove l'oggettività è pura molteplicità e astrazio­ ne 13 . E, sebbene prevedibile nella sua tessitura logica, questo è tuttavia il luogo più singolare, e impressionante, di questo Discorso : il luogo nel quale il tema fondamentale dell'attualismo si esalta in una sorta di spettrale coerenza. Vi si coglie una nota profonda, un accento religioso, assai più schietto che non siano quelli che si ritrovano in altri suoi scritti consacrati al tema della religione, e anche nell'ultimo, che fece discutere e non si salva dall'ambiguità. E c'è, natu­ ralmente, di più . Nella conclamata inattualità di questo sen­ timento, che anche con la sua parte lo poneva in contrasto, nella ricerca del sacrificio, a cui forse ispirò gli ultimi atti della sua vita, si coglie altresl il senso di astrattezza, e persino di pace, che da questi emerge con forza: si coglie la contrad­ dizione nella quale egli si collocò quando, nell'imminenza dell'ormai certa guerra civile, coltivò l'illusione che la sua mi13 G. GENTILE, Discorso agli Italiani, in Politica H.A. Cavaliera, Firenze 199 1 , II, 204-205 .

e

cultura, a cura di

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lizia significasse ed esprimesse l'unità. Illusione grave, as­ senza di lucidità, perdita del senso duro e preciso delle cose che, comunque fossero valutate, non consentivano che la parte fosse scambiata con il tutto. E c'era perciò, nel suo agire e pensare e parlare di questi mesi, qualcosa di tragico e anche di assurdo; perché, giova ripetere, la parte è la parte, non è il tutto, e scambiare l'una con l'altro è tanto meno lecito quando non l'unità, ma la scissione, non la concordia, ma la più aspra delle lacerazioni, costituisca il carattere della realtà storica e politica. Ove così stiano le cose, e a costituire il loro carattere sia, appunto, la scissione, non l'unità, la ricerca di questa non può avvenire, nella guerra e nella poli­ tica, se non attraverso la parte, che, per colui che la sceglie è, nel segno della volontà, non la parte, ma il tutto . Nel segno della volontà, tuttavia: e nella consapevolezza, altresì, che al­ tro è quel che si vuole, altro quel che, mentre la volontà è in atto e produce le sue conseguenze, la pacata e realistica con­ siderazione delle cose pur suggerisce alla ragione . Il torto di Gentile consisté allora non nello scegliere, perché scegliere si doveva. Ma consisté bensì nel dire a sé stes­ so che la sua non era una scelta: perché concerneva il tutto, non la parte, e il tutto non può costituire materia di scelta. Consisté nel credere che l'unità potesse aver luogo, e realiz­ zarsi, non nel travaglio e attraverso il travaglio, nella lotta e attraverso la lotta, ma nella parte; che naturalmente era indi­ cata come il tutto, - ciò che le stava di fronte e di contro non essendo che accidentalità ed errore, pervicacia e fazio­ sità. E, qualunque cosa se ne pensi in sede teoretica, quella che in tal modo Gentile indicava a sé e agli altri era la via, non della conciliazione , ma della violenza, non della concor­ dia, ma della persecuzione . Di qui, inevitabilmente, l' ambiguità del suo agire e pensare e parlare, - la violenza e, nello stesso tempo, l'invito alla concordia, il dichiararsi fasci­ sta e poi l'assumere che il fascismo significasse non, quale era, una delle parti in lotta, ma la sintesi, la concordia, l'unità. E da un lato perciò a « anglofili e germanofili », ad antifascisti e fascisti, a « italiani sbandati » e a « italiani fermi al loro posto di combattimento », - a tutti, dunque, senza distinzione di partito, Gentile riconosceva il diritto di esistere e di parteci-

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pare alla « ricostruzione » 1 4. A tutti. E voleva per consegu­ enza che in questo spirito, che tutti doveva coinvolgere e del quale tutti dovevano partecipare, si dovesse « colpire » bensl, ma « il meno possibile », senza « insistere sempre sui tradi­ menti, che disonorano la N azione e non soltanto i colpevoli se questi erano a capo della Nazione », senza « perseguitare pel gusto di una giustizia che si compia anche a danno del Paese », perché « la giustizia tanto meglio può adempiere il suo ufficio sacrosanto quanto più si sottrae alla furia e alla pressione della piazza », e quanto più si arrivi a comprendere che la « Patria [ ] non è un partito per cui si può per mille motivi accidentali non esser d'accordo; ma la nostra stessa terra e la nostra vita, il passato da cui, anche volendo, non ci si può staccare , e l' avvenire, il solo possibile avvenire, della nostra vita e della vita dei nostri figli » 1 5 • Ma, da un altro lato, ecco che, nell' atto stesso in cui celebrava il rito supremo della « Patria » che non può, perché non deve, morire, i diver­ samente pensanti, quelli che per mille « motivi accidentali » possono pur dissentire dal « Partito » ed essere anglofili, in­ vece che germanofili, e, anzi che fascisti, antifascisti, - ecco che costoro assumevano il volto dei « riottosi », la cui irriduci­ bile « pervicacia » doveva essere colpita col massimo rigore, e senza alcuna indulgenza 16, -il volto dei « sobill atori », dei « traditori », dei « venduti », ed anche di coloro che, fossero pure « in buona fede », erano tuttavia affetti da una « sadica » ebbrezza di « sterminio » 1 7 • Era dunque u n tragico equivoco quello che, ancora una volta, emergeva dai suoi atti e dalle sue parole, - quel misto di idealismo e di deteriore machiavellismo, che molti che lo conobbero notarono in lui anche negli anni del fascismo trionfante, quel senso esclusivo e prepotente del fine, che, come lo induceva a passar sopra, con eccessiva indulgenza, . . .

1 4 G . GENTILE, R icostruire, « Corriere della sera », 28 dicembre 1943 , ora in Politica e cultura, II, 209. 1 ' Ibid. , pp. 2 1 1 - 1 2 . 16 G . GENTILE, Questione morale, in « Italia e civiltà », l , gennaio 1 944 ( = Politica e cultura, II, 2 1 4 ) . l ì Politica e cultura, II, 2 12 .

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alla crudezza dei mezzi, dei così detti mezzi, così contribuiva a rendere duplice la percezione della sua personalità e a far sì che egli non fosse odiato anche quando amarlo era diventato impossibile, e, per converso, non potesse essere amato senza riserve anche da chi pur avrebbe voluto poterne non incon­ trare alcuna dentro di sé. Come che sia, almeno in una cosa Gentile aveva ragione . La tragedia era giunta infatti al suo ul­ timo atto; e senza rinnegare il suo passato, assumendosi la re­ sponsabilità schiacciante delle sue scelte, egli volle viverla, nel segno della coerenza, fino all'ultima sua scena, convinto che a lui fosse concesso di fare così e non altrimenti, e che questo fosse il suo destino . E qui forse, in questa complessa e contraddittoria Situa­ tion der Seele, sta forse anche la ragione per la quale, trova­ tosi nel novembre del 1 94 3 , o nell'ottobre, di fronte alla bat­ tuta spregiativa ed offensiva con la quale, dodici anni innanzi aveva colpito, ferito, satireggiato l'autore della « filosofia dello spirito », non si sentì di confermarla e ripeterla. In quella forma, la battuta non corrispondeva più al suo senti­ mento della vita e persino delle polemiche letterarie; e per questo forse la mutò in un'altra che, senza capovolgerla o ritrattarla, tuttavia diceva altro . Non volle, in altri termini, che sul frontespizio del tempio che aveva innalzato all'arte si leggessero le parole di una polemica che, nel profondo di sé, sapeva, in quel suo carattere, contingente e non sul serio es­ senziale. Non volle, e le soppresse. E con questo gesto dette espressione a un sentimento complesso, che riguardava Croce e non lui soltanto, e che occorre cercar di capire quale fosse, o come si fosse via via trasformato, negli anni che , se non il declino delle sue fortune politiche, certo videro il suo cr­ escente isolamento, la sua solitudine, la fiera preoccupazione che l' avventura nella quale l'Italia si era lasciata coinvolgere avesse a tragicamente concludersi. È difficile congetturare quali fossero, in quegli anni, i suoi sentimenti, e se dall a realtà quotidiana, che è pur quella nella quale non solo gli uo­ mini ma anche i loro ideali vivono, il concetto del fascismo

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che aveva delineato nei suoi scritti, e con ogni mezzo cercato di tener vivo e intatto dentro di sé, avesse dovuto patire danni irreparabili. È difficile, perché, per la loro costituzione intrinseca, i sentimenti hanno natura ambigua, da un contra­ rio trapassano all' altro, in questa vicenda assumendo cangi­ anti colori. E non c'è perciò speranza che, quale che sia, la congettura possa aspirare a un grado alto nella scala della cer­ tezza. Sarà dipeso forse dal suo orgoglio, dall a gelosa riserva­ tezza con la quale amministrava e cercava di governare i moti della sua coscienza, dal suo tenace non volere che altri leg­ gesse nel suo animo e vi cogliesse il segno o, quanto meno, l'indizio del dubbio . Ma certo è che, se il pensiero della morte lo indusse a cercar di sublimare nella filosofia quel che di aspro e angoscioso questo estremo e supremo atto dell'esistenza reca con sé 1 8, a confidenze private non risulta che si disponesse mai e, salvo errore, fra le sue carte inedite non una sola ha questo carattere 1 9 • Come tanti e tanti uomini della sua generazione e della sua cultura, Gentile non consen­ tiva che a sé stesso o ad altri l'esercizio dell'introspezione psi­ cologica desse luogo ad atteggiamenti che, ad altri forse no, ma a lui di certo, apparivano segnati dal compiacimento e dalla letteratura, dalla confessione resa in pubblico per acqui­ sire miglior fama presso i contemporanei e, magari, i posteri. E a determinare questo costume varie cose avranno contri­ buito; ma certo, per quel che se ne sa, sopra tutto il suo non aver più avuto, dopo Croce, un amico con il quale, in assoluta parità, la confidenza potesse realizzarsi nella parte del dare non meno che in quella dell'avere . Per questo, o anche per questo, quando nel 1 9 3 7 si trovò di fronte La vita come ricerca di Ugo Spirito ed ebbe modo di leggere quest'opera e di misurare in concreto l'entità del­ l' apostasia attualistica che vi si determinava, ad irritarlo fu non tanto il dissenso filosofico, quanto invece il compiaci­ mento con il quale il dubbio e la disperazione vi erano, al di IS Cfr. qui su, pp. 53 sgg. 1 9 Per quanto almeno risulti dalle ricerche che ho finora condotte nel­ l'Archivio della Fondazione.

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qua di ogni austero controllo, esibiti come il carattere stesso dei nuovi tempi . Le confessioni rese in pubblico piacevano a lui altrettanto poco che a Benedetto Croce, che con severità aveva per esempio giudicato l' Esa me di coscienza di Renato Serra 20 . E a tal punto, forse in Gentile questa avversione agiva e condizionava il suo giudizio che, pur riconoscendogli il merito storico di aver dato inizio al mondo moderno, al Pe­ trarca non perdonò mai la sublime mancanza di riservatezza che caratterizza il suo frequente « confessarsi »; e come per­ sonaggio e Idealtypus del letterato italiano non è un paradosso dire che lo detestò. Se è così, si può esser certi che nessun dubbio poté mai essere più forte in lui della volontà di combatterlo e di oltre­ passarlo . Ma, per ciò stesso che ad ogni passo richiedeva di essere ribadita e confermata nella sua unità, nella sua forza, nella sua intatta capacità superatrice , - proprio per questo, nel profondo di sé, la coscienza viveva, in questa battaglia, il suo rischio più grande . Lo viveva, si comprende bene, psico­ logicamente, non nel quadro teoretico, dove l'atto vince ed è necessario che vinca. Ma insomma, psicologicamente, lo vi­ veva, questo rischio: con la conseguenza che fra il piano dell'assoluto, sul quale la coscienza è atto e l'atto è per defi­ nizione positività e superamento, e quello empirico-esisten­ ziale, l'analogia non era identità. Era analogia: con la conse­ guenza che la differenza che all' analogia è intrinseca si mol­ tiplicava, nella dimensione empirico-esistenziale, fino ad assu­ mere il carattere della separazione e della scissione . Nella sua coscienza, insinuandosi nella sua coscienza, la separazione e la scissione costituivano così qualcosa come una zona d'ombra, nella quale non soltanto il timore e tremore prende­ vano forma, ma anche l'istanza del ripiegamento malinconico sul mondo di ieri, quando le differenze si erano rese compa­ tibili all'interno del progetto culturale e filosofico al quale , con Croce, aveva dedicata la parte migliore di sé, e malgrado le insidie e le negative potenzialità che pur potessero chiudere in sé, non davano segno di potersi acuire nel dramma e nella 20

B. CROCE, Storia d'Italia dal 1 871 al 1 91 5 , Bari 1 928,

pp .

290-9 1 .

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tragedia della separazione . Per questo, dunque, perché anche in lui da tempo forse il dubbio si era insinuato con forza in­ sidiosa, al libro di Spirito, che pretendeva di farne il princi­ pio stesso della realtà, aveva dato una replica così insolita­ mente ferma e fin drammatica. Per questo, si ripete, nel profondo della coscienza la ten­ denza a ritornare sul mondo di ieri, e al ricordo di un'esistenza che si era svolta nel segno sostanziale dell'unità, aveva cominciato a dar segno di sé. Ma del mondo di ieri, e dell'unità che sembrava caratterizzarlo, Croce era stato senza alcun possibile dubbio la cosa più importante. E sebbene la gelosia, l'invidia, le potenze oscure che alimentano lo spirito della contrapposizione e della verità, già al tempo dell'amicizia si insinuassero in questa, e tanto più quanto più intensa ne fosse l'energia e più grande la qualità - di qui certo non deve ricavarsi se non questo: e cioè che quella era sul serio una grande amicizia . Un' amicizia grande, e auten­ tica, perché complessa fino al limite estremo della con­ traddittorietà e tale dunque che, nell'atto in cui per un verso dava l'impressione di poter funzionare come un'energia supe­ ratrice di ogni conflitto che pur fosse insorto entro il suo con­ fine, per un altro era essa stessa insidiata dal conflitto, dal­ l' ambigua natura intrinseca alla sua unità. Se è così, non deve sorprendere che, in quello dei due che, malgrado tutto, era il più disposto a ricercare il tempo perduto e tanto più dalla sferzante durezza della polemica crociana 2 1 era offeso e colpito, la nota aspra della ritorsione cedesse talvolta a quella della nostalgia e del rimpianto. Se fra 21 Sulla natura dei sentimenti che, dopo la rottura, Croce nutrì nei confronti di Gentile, mi sono intrattenuto in varie occasioni, ricostruendo i momenti della polemica: cfr. sopra tutto Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 40-58, 6 1 -75, e quindi Filo­ sofia e idealismo, I, Benedetto Croce, Napoli 1994, pp. 467-543 . Certo è che, più di Gentile, Croce fu estremamente attento a non concedere che segni di rimpianto trapelassero dalle sue prose polemiche. E si veda, per es . , quel che egli scrisse nei Taccuini di lavoro, Napoli 1987 (ma 1 992), IV, 43 1 : « mi sono risoluto a togliere dalla nuova edizione, la 3", del libro su Dante, la dedica al Gentile, che avevo conservato ancora nell'ultima edizione, solo ap­ ponendovi la data del 1920, per segnare che gliel'avevo fatta quando egli

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il 1928 e la metà, all'incirca, degli anni trenta anche dalla sua parte la polemica era stata dura e anche a lui, che per lo più l'aveva subita e aveva dovuto difendersene , era accaduto di prendere in qualche caso l'iniziativa, nella seconda metà di questo decennio e sopra tutto all'inizio del secondo i toni si erano alquanto attenuati . Persino nella replica che, nel 194 1 (e con notevole ritardo, dunque) 22 , dette alla critica che Croce gli aveva di nuovo rivolta nella prima parte de La storia come pensiero e come azione, non aveva potuto non rico­ noscere che, pur entro i limiti che non riusciva a oltrepassare, ricco di vigore giovanile era l' animo del suo amico di un tempo, e pur sempre « poderoso » il suo ingegno . E , non senza sofferenza, aveva dato voce al rimpianto in un passo (« e se risorge talvolta l'immagine d'un vecchio amico, che pur fu amato , è un rimescolio di furore insano come all'apparire d'un fantasma che l'inesorabile realtà abbia fugato nel regno delle ombre. Realtà malsana, vento di bufera nefasta, che sof­ fia intorno pel mondo e appesta ogni angolo nella terra » 23) che , ed è singolare, sembra essere simmetrico a quello con il quale, dieci anni prima, Croce aveva concluso la sua recen­ sione de La filosofia deltarte: « potrei riempire trenta pagine con simili improntitudini sofistiche che mi fanno trasecolare per la loro enormità, che mi fanno sparire come in un gorgo vorticoso l'immagine, non dirò dell' autore, ma di quel suo omonimo che ho avuto un tempo compagno di lavoro; ma a me pare già troppo averne riempito tre pagine, e lascio che i era, o io lo credevo, altro da quello che è diventato o si è mostrato poi . Ma ora, dopo il suo discorso in Campidoglio, non mi regge l'animo di conser­ vare quella dedica, accostando il nome di lui al titolo del libro che tratta della Poesia di Dante ». Che è un testo importante, non solo per quel che in modo esplicito dice e per il giudizio che formula intorno al discorso del 24 giugno, ma anche perché lascia intendere che, in qualche modo, ancora nel 1 940, ossia (e si corregga perciò la svista dei Taccuini) , ancora nella quarta edizione, sia pure con l'apposizione della data in cui era stata scritta, Croce aveva sentito di poter mantenere la dedica a Gentile del suo libro su Dante. 22 La distinzione crociana di pensiero e azione, « Giornale critico della filosofia italiana », 22 ( 1 9 4 1 ) , pp . 274-78, ora in Frammenti di filosofia cit . , pp. 35 1-57, d a cui cito. 23 Ibid. , p. 3 5 7 .

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lettori vedano da sé, se a loro piace, le altre . Il libro è stam­ pato a Milano, Treves, 193 1 » 24. Nello stesso anno , in una breve postill a , A Benedetto Croce, Gentile aveva bensl ancora una volta deplorato che passioni (come le giudicava) particolari si mescolassero a « discussioni di filosofia »; e per evitare che quelle di nuovo vi irrompessero e il suo animo, che pure ne era sgombro, cor­ resse il rischio di tuttavia soggiacervi, aveva proposto che la polemica tacesse in attesa che la guerra finisse 25• Ma, e non certo perché come qualcuno, ha osservato 26, volesse offrire all'avversario un politico segno di pace, aveva anche trovato il modo di rievocare i vincoli di amicizia che un tempo aveva stretti con lui e il ricordo, tuttora incancellabile, di quella sta­ gione della sua vita. La risposta, dura quanto non poteva non essere, di Croce, non aveva impedito che un anno più tardi, pubblicando nel Giornale critico la tesi di laurea di una sua scolara, M . F . Fornaca, concernente il problema della storia nello storicismo assoluto 2 7 , Gentile vi apponesse una nota nella quale per un verso lamentava che nella sua rivista si fosse costretti a polemizzare spesso (anche se meno di quanto pur si sarebbe dovuto) con il suo antico amico, ma per un al­ tro rivendicava il carattere altamente liberale della sua scuola, nella quale era ben possibile che « si udissero anche voci dis­ cordi dalla » sua, « purché schiette e animate da sincero amore della verità » 28; come quella, appunto, di questa sua giovane allieva, che tanto lontana dal maestro per la verità non era, e nel suo saggio era stata tuttavia, nei confronti dell'autore stu­ diato, ricca di riconoscimenti. Aveva infatti concluso la sua disamina osservando che lo « storicismo di Benedetto Croce è più e meno di una dottrina filosofica: esso è soprattutto un 24 B. CROCE, Conversazioni critiche, Bari 1932, IV, 3 4 1 . 2 5 « Giorn. crit . filos. ital. >> , 2 3 ( 1 942) , p. 120, e Frammenti, p. 358. 2 6 R. FRANCHINI, Per la storia dei rapporti Croce-Gentile ( 1 980), in Il diritto alla filosofia , Napoli 1 982, p. 123 . 27 M.F. FoRNACA, Il problema della storia in Benedetto Croce, « Gior. crit. filos . ital. », 24 ( 1 943), pp . 146-79, 2 1 3-41 28 FoRNACA, art. cit. , pp . 240-4 1 . Il passo è riferito anche in Fram­ menti, p. 359 n.

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insegnamento morale . Anche se molte difficoltà teoretiche re­ stano insolute, e molti problemi non sono nemmeno posti, in esso l'uomo moderno trova un atto di fede nella vita, un'educazione al senso del dovere e della responsabilità, che si risolvono sempre in un'esaltazione della dignità morale dell'individuo di fronte alla storia » 2 9• Formulato in questi termini, il giudizio della giovane stu­ diosa era, per la verità, assurdo, perché una teoria filosofica non può essere più e meno di sé stessa; e se si risolve in « Un atto di fede nella vita » e nell' « educazione al senso del dove­ re », in realtà non vi si risolverà affatto, perché sarà già que­ ste cose, che sono moralità, in effetti, e non filosofia. Giudi­ zio assurdo , dunque: e dal punto di vista attualistico dal quale la Fornaca si poneva, doppiamente assurdo, dal mo­ mento che, nella sua concretezza, il logo e la moralità sono lo stesso ed è perciò impossibile che, essendo moralità, il logo sia più e meno di sé stesso. Giudizio significativo, tuttavia, quando, almeno, lo si collochi nel quadro della vita che Ge­ ntile stava allora vivendo e delle passioni che, anche nei con­ fronti di Benedetto Croce, lo agitavano. Nell'articolo Sto­ ricismo e storicismo, nel quale, nei suoi confronti, aveva rin­ novato un attacco di particolare asprezza, Gentile era giunto a presentarlo come l'autore di una teoria che, rispetto alla sto­ ria vivente, alla storia in atto, è prologo ed epilogo, e non mai perciò coincidente con quella storia stessa 30 . E certo la critica che in queste pagine Gentile rivolgeva a Croce di natura­ lismo, di intellettualismo , di latente materialismo, di acuta capacità descrittiva e di altrettanto acuta incapacità di slancio speculativo, - tutto questo non era, per i suoi lettori, una novità. Era il consueto rilievo di chi, attualisticamente, in Croce colpiva il difetto di una filosofia che, impari alla sua vera essenza, non sapeva innalzarsi al vertice dell' atto puro e di continuo, perciò, smarriva il suo proprio centro . Ma era espresso con particolare asprezza; e culminando nell'ulteriore 29 FoRNACA, art. cit. , p. 24 1 . 30 Storicismo e storicismo ( 1 94 1 ) , in Introduzione alla filosofia, Firenze 1 952, pp. 259-70.

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rilievo, implicito e pur evidente, di debolezza morale, finiva col porsi in contrasto con quanto, ispirata (come vedemmo) da lui, era stato scritto dalla sua scolara. Sebbene, infatti, nella bibliografia apposta alla fine del suo saggio, non lo ci­ tasse, era tuttavia ad un articolo che Gentile aveva pubbli­ cato il 9 marzo 1 94 1 nella KO!nische Zeitung e quindi ristam­ pato, in quest' anno stesso, in un volumetto sansoniano, La fi­ losofia italiana contemporanea, che con piena evidenza la For­ naca si riferiva, ispirandovi il suo 3 1 • Di questo articolo, che nella storia della sua lunga polemica anticrociana occupa un posto tanto notevole quanto o poco o non notato affatto, converrà qui di seguito prestare l'attenzione che, invece, me­ rita. Composto su invito, e con l'evidente intenzione di infor­ mare il pubblico colto tedesco di quel che in Italia si fosse pensato dall'inizio del secolo, l'articolo di Gentile aveva an­ che lo scopo di valorizzare l'oggetto del discorso; e non am­ metteva quindi, per la sua stessa natura, i toni veementi della polemica esplicita. Si aggiunga che, collaboratore com'era stato per circa trent'anni di Benedetto Croce, critiche troppo dure che fossero state rivolte contro di lui facilmente si sar­ ebbe ritorte contro quello stesso che le lanciava. E anche que­ sta era dunque una ragione perché al contrario il tono ri­ uscisse pacato e il giudizio storico prevalesse sul dissenso teo­ retico. Ma questo non toglie tuttavia che se, di scrivere quel che invece scrisse, Gentile non fosse stato persuaso, non gli sarebbe stato difficile declinare l'invito che con ogni proba­ bilità gli era stato rivolto, rinunziando a scrivere un articolo che, per la sede all a quale era destinato, non gli consentiva di dir chiaro e netto il suo pensiero . Se invece a scriverlo non rinunziò, è buon metodo supporre che, nel comporlo, non av­ vertisse alcun limite alla sua libertà; e che, quanto appunto vi diceva, senza alcuna riserva corrispondesse a quel che in ef­ fetti pensava . Questa premessa è in realtà necessaria perché, consi31 Lo si veda nei Frammenti di filosofia,

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stendo per buona parte in una veloce e stringata esposizione del pensiero di Benedetto Croce, il giudizio che, nell'insieme , egli ne dette è sul serio sorprendente. E basta, per rendersene conto, leggerlo con un minimo di attenzione . Dopo aver no­ minato con rispetto, ma senza impegno, Bernardino V arisco, Piero Martinetti e Pantaleo C arabellese, alla sua stessa filoso­ fia, all'idealismo attuale o attualismo che si preferisse defi­ nirla, Gentile dedicava uno spazio decisamente inferiore a quello riservato a Croce e all'esposizione delle sue tesi. Il mo­ tivo dominante dell' attualismo era indicato nel riconosci­ mento che in esso si faceva della « idealità d'ogni reale che si dispiega sl nel tempo e sl nello spazio come molteplicità [ . . . ] : una molteplicità che è raccolta nell'unità immoltiplicabile e perciò eterna ed infinita dell'Io. Il quale perciò è tutto . È sto­ ria, ma storia che si risolve nell'atto eterno del pensiero che l'attua pensandola. Immanentismo, ma d'una religiosità che, senza negare la particolarità dell'individuo per sommergere questo in Dio panteisticamente o misticamente concepito, la risolve nel ritmo eterno del divenire ». E Gentile proseguiva osservando che, « condannata dalla Chiesa cattolica come pe­ ricolosa», la sua filosofia era bensl, in quanto contraria a « ogni dogmatismo », nemica « d'ogni immediata trascen­ denza come limite presupposto all'attività dello spirito », ma, proprio per questo, tale anche che quest'attività non poteva in essa essere concepita altrimenti che come « concezione eterna di limiti e passaggio dal proprio essere immediato ad una realtà che lo trascende ». Le difficoltà che senza dubbio anche nel suo quadro insorgevano erano bensl difficoltà; delle quali per altro la filosofia dell'atto « era contenta»: « convinta che se avesse risoluti tutti i problemi, non sareb­ be vita ma morte; lieta insomma che la giornata non sia fi­ nita » 3 2 . Era questa, come si vede, piuttosto la riproposizione del tema fondamentale dell'attualismo che non l'esposizione del suo itinerario e dell'organismo concettuale che ne era nato . E, come che sia, si risolveva in poco più che in un accenno, per}2 Ibid. ,

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87 .

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ché, per il resto, l'articolo era in sostanza dedicato alla filo­ sofia di Benedetto Croce; nel giudicare la quale Gentile scrisse, nel novembre 1 940, cose che da tempo non si erano più udite da lui, e che , se non fosse per le allusioni che vi si trovano, ed era impossibile che non vi si trovassero, alla po­ lemica che li divideva, riconducono, o ricondurrebbero, indi­ etro agli amichevoli dissensi che pur avevano caratterizzato gli anni della collaborazione e dell'amicizia . Sia ben chiaro; e manovrando con qualche delicatezza lo strumento che ab­ biamo nelle mani, cerchiamo di evitare le trivialità e le sciocchezze che, in questo campo, non sono purtroppo incon­ suete . Anche in queste pagine, chi le legga con qualche cura, non tarda a cogliere, al di sotto dei riconoscimenti, il basso continuo della critica; che, come non poteva non essere, è pur sempre quella che tante e tante volte, in un ampio ventaglio di toni, Gentile aveva rivolta a Croce . E cosl, subito dopo aver notato il grande contributo da lui recato alla discussione del marxismo per aver « sfatato », da una parte « la filosofica concezione materialistica della storia » e aver criticato « a fondo, dall'altra, il nucleo di quella ' economia ' che preten­ deva profetare come effetto di una legge interna all'eco­ nomia capitalistica la fine del capitalismo stesso » 33 , pas­ sando all ' Estetica ne parlò come di un libro « rivoluziona­ rio », che, insieme agli altri testi che allora furono dedicati alla delineazione dell'idealismo, subito conquistò i suoi let­ tori: anche se, per un altro verso, gli parve giusto rilevare come agli « entusiasmi » facessero riscontro « poca reazione critica » e « scarso controllo » 34• Nel che, com'è ovvio, discernere la parte del basso continuo non è, ad un orecchio appena esercitato, difficile : non è difficile, di qui, risalire alle critiche, ben altrimenti aspre tuttavia, e ingenerose, che giusto dieci anni prima, all'« estetica » crociana erano state rivolte ne La filosofia dell'arte. Eppure, non c'è critica che, pur presente, esplicita o im­ plicita, in queste pagine, valga a cancellare l'impressione che 33 Ibid. , 3 4 Ibid. ,

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si riceve dalle linee nelle quali è pur detto che, sebbene lo stile del suo filosofare fosse « più all'inglese che alla tede­ sca » 35, aperto al mondo della letteratura e della storia e non altrettanto agli « astrusi problemi » nei quali i filosofi puri amano immergersi, con l'Estetica Croce scrisse un libro « rivo­ luzionario », di « schietta e semplice ispirazione », ma rivolu­ zionario; che, « rivendicando l' autonomia dell'arte e deducen­ done molteplici corollari per la critica e la storia di essa, ra­ vvivando ed allargando l'estetica a linguistica generale, con­ ducendo la più strenua lotta che sia stata mai combattuta contro la rettorica tradizionale », non dunque per ragioni es­ trinseche, ma intrinseche, diventò il vangelo delle giovani ge­ nerazioni . E del resto, se si legge questo passo: Scrisse una Logica, che fu una liquidazione del valore conosci­ tivo delle scienze naturali e una rivendicazione del filosofare puro, che mira al concetto, che non può essere se non dello spirito. Lo spi­ rito perciò non solo realtà di cui si venga in possesso filosofando; ma unica realtà. La realtà che si attua storicamente; e di cui la fi­ losofia ci svela la costante natura, ma la cui concretezza ci è data dalla storia. Continua creazione, ma dell'uomo che è inserito nella storia, attore libero sulla base di una situazione, che è il primo mo­ mento di ogni sintesi creativa. Quindi lo spirito è la realtà in quanto realtà storica; e la cima del sapere è nella storiografia. La quale è co­ noscenza e azione insieme, perché pensare la storia è il più alto grado del farla. Immanentismo assoluto, assoluto storicismo. Disci­ plina del pensare concreto, austero, religioso , assolutamente libero . La filosofia, come teoria di questa storia temporale ed eterna, me­ todologia 36;

se dunque si legge questo passo e si prosegue poi con l'osservazione secondo cui questa è una « filosofia altamente educativa ed edificante, come ogni dottrina che, atea da un aspetto e religiosa dall'altro, impone allo stesso uomo la re­ sponsabilità del divino operare », e poi ancora con l'altra con­ sistente nell'affermazione che, a misura che « cogli anni » è }5

Ibid. , }6 Ibid. ,

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81. 85.

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venuto « raffermando la coerenza del suo pensiero e approfon­ dendo il motivo del suo idealistico storicismo », Croce si è al­ tresì « sforzato di adeguare la sua vita a questo austero ideale di pensiero che celebra nel suo intimo la libera creazione del mondo » 37 , non potrà non concludersi che, formulato alla fine del 1 940, questo è in ogni senso, sotto la penna di Gentile, un giudizio inconsueto . E anche dovrà convenirsi sul punto che non c'è rilievo critico che, nella sostanza, possa infirmarne e capovolgerne la positività: nemmeno quello secondo cui i prin­ cipali libri di Croce, e cioè i primi tre volumi della ' Filosofia dello spirito ' « si sono proposti sempre la definizione dei con­ cetti (bello, vero, utile, buono) »: con la conseguenza che, avendoli ridotti a