Filosofia dell’animalità [5 ed.]
 9788858110300, 8858110307

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Universale Laterza 941

Felice Cimatti

Filosofia dell’animalità

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione ottobre 2013

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Edizione 4 5

Anno 2013 2014 2015 2016 2017

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0941-0 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Gli animali non esistono

Sia chiaro, è difficile, forse impossibile, trascrivere in parole ciò che è al di là della presa del Logos: il grido della nostra entrata nella vita, la nostra animalità precoce, la perversità e l’impudenza originaria dei nostri sogni che, talvolta, nei loro sviamenti dalla logica, ci trasmettono qualcosa. Questo tempo, questa “alogia” non sono alle nostre spalle. Sono una fonte del presente (J.-B. Pontalis, Ce temps qui ne passe pas, Paris 1997, p. 37).

Siamo così abituati a non pensare a noi stessi come animali che ci viene automatico ritenere che una Filosofia dell’animalità non possa che essere un libro che parla degli animali non umani. Ecco, vi sbagliate, questo libro parla della nostra animalità. Questo libro si occupa appunto dell’animalità dell’umano. Cioè di tutto ciò che il modo in cui diventiamo umani deve tagliare fuori, perché altrimenti non potremmo diventare, e definirci, umani. Il processo di individuazione che tutti noi dobbiamo attraversare (altrimenti non veniamo ammessi nel club umano) produce una particolare entità, il soggetto uma­v

no, che sempre più appare in crisi. Il punto è che il soggetto, cioè quel corpo che dice “io”, è sostanzialmente incapace di stare al mondo insieme agli altri soggetti. C’è molto ottimismo, che per certi versi è anche giustificato (pure da un punto di vista neurologico, si pensi a quello che ha significato la scoperta dei “neuroni specchio” per la conferma di una originaria empatia fra i corpi umani1), sulla intersoggettività dell’uomo, ma è appunto una storia molto ottimistica, quella che vuole che i diversi “io” possano andare d’accordo. Di fatto un soggetto, quando dice “io” traccia un confine, qui e ora ci sono “io”, appunto, là ci sei tu. Lo scopo antropologico del soggetto è limitare le possibilità degli altri soggetti che, come lui, vogliono poter dire a loro volta “io”. Il conflitto, lo sfruttamento, l’esclusione, la segregazione sono impliciti nel gesto antropogenico fondamentale, quel dire “io” che rende possibile la nascita della soggettività umana2. L’idea di questo libro è cominciare a immaginare il campo di un’individualità umana non basata sull’“io”. Questa ricognizione ha bisogno di un preliminare ripensamento dell’animalità dell’uomo, la parte da sempre esclusa e gettata via della corporeità umana. L’animalità dell’uomo si colloca in uno spazio, di fatto impensabile (ché non sappiamo che sia un pensiero privo di un “io” che lo pensi), oltre il linguaggio. È importante questo oltre: l’umanità dell’uomo si basa sul fatto che parla, e quindi l’animalità di Homo sapiens non la troveremo mai in quella degli altri animali, che invece non 1  V. Gallese, The Roots of Empathy: The Shared Manifold Hypothesis and the Neural Basis of Intersubjectivity, in «Psychopatology», vol. 36 (4), 2003, pp. 171-180. 2 F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Torino 2000.

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si costruiscono a partire dal linguaggio. In questo senso Filosofia dell’animalità è anche un libro che prova ad esplorare quella che potrebbe essere una umanità non basata sul linguaggio. Una animalità, quindi, non da ritrovare, bensì da costruire, che non è alle nostre spalle, ma davanti a noi. Animalità significa immaginare una soggettività non scissa in corpo e mente, cioè una vita umana in grado di esaurirsi tutta, senza alcun residuo, nella vita che già si vive, peraltro l’unica che possiamo vivere. Una soggettività come quella che qui proviamo a pensare non è più tagliata in due fra la vita qui e la vita là, che ancora non si vive, e che forse si vivrà un giorno. La vita che immaginiamo è una vita del tutto priva di trascendenza. Per questa ragione ripensare l’animalità dell’umano, e quindi il suo essere corpo, significa pensare al tema dell’immanenza, ossia appunto ad una vita che non sente alcun bisogno di proiettarsi oltre di sé: «l’immanenza è un pensiero della vita, non una meditazione sulla morte»3. Prima di occuparci dell’animalità umana, occorrerà però occuparsi di come e perché l’animalità sia stata così tenacemente allontanata dalla definizione dell’umano4. Il primo punto di questa operazione è accettare il fatto che gli animali non esistono. Non esistono perché non sappiamo nulla, degli animali, non li abbiamo mai davvero neanche osservati. Gli unici animali che conosciamo sono quelli che abbiamo inventato noi5. Gli animali non esistono perché non esiste, e non ha 3  R. Ciccarelli, Immanenza. Filosofia, diritto e politica della vita dal XIX al XX secolo, Bologna 2008, p. 19. 4  Cfr. M. Calarco, Zoographies: The Question of the Animal from Heidegger to Derrida, New York 2008; trad. it. Zoografie, Milano 2012. 5  V. Despret, Quand le loup habitera avec l’agneau, Paris 2002; trad. it. Quando il lupo vivrà come l’agnello, Milano 2004.

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alcun senso che esista, un’unica sterminata categoria che dovrebbe raccogliere tutti i viventi escluso l’umano. L’uomo (e non il bambino, o la donna, o il vecchio) e l’animale, al singolare, in un unico enorme e confuso sacco in cui troviamo vermi e balene, prioni e cavalli, galline e scimpanzé. L’animale non esiste. Non solo l’animale, o gli animali, non esistono, giacché anche quando sembra che si parli di loro, in realtà, è di tutt’altro che si parla. Perché gli animali sono, da sempre, allegorie, e in un doppio senso: l’animale vale – per l’uomo, non per sé stesso – come rappresentazione esemplare di una virtù oppure di un vizio. Prendiamo un esempio illustre, il Physiologus, un testo composto fra il II e IV secolo dopo Cristo ad Alessandria d’Egitto, che ebbe grande fortuna per tutto il Medioevo, e che informa tuttora, anche se nascostamente, il nostro modo di guardare agli animali. Seguiamo come viene trattato il caso del castoro, un trattamento davvero esemplare: Esiste un animale detto castoro, assai docile e mansueto, e i suoi organi sessuali sono utili come medicinale. Quando è inseguito dai cacciatori e si rende conto di essere preso, si tronca gli organi sessuali e li getta al cacciatore; se poi si imbatte in un altro cacciatore e ne viene inseguito, il castoro si getta a terra supino e gli si mostra, e in tal modo il cacciatore, rendendosi conto che è privo degli organi sessuali, se ne allontana. Anche tu, dunque, o fedele, rendi al cacciatore ciò che gli appartiene. Il cacciatore è il demonio, e ciò che gli appartiene, lussuria, adulterio, omicidio: estirpa da te queste cose e dalle al demonio, e il demonio cacciatore ti lascerà, così che anche tu possa dire: «l’anima nostra, come un uccellino, è scampata al laccio dei cacciatori» [Salmi, 123.7]. Bene dunque ha detto il Fisiologo del castoro6.   F. Zambon, a cura di, Il Fisiologo, Milano 1975, pp. 61-62.

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La storia è cruenta, ma esplicita e diretta: l’animale è un segno, non è un’entità autonoma. L’animale ammonisce l’umano. Il castoro è il fedele che come lui deve castrarsi per poter essere ammesso nel regno dei cieli. Eccola la questione dell’animalità, ma non del castoro, bensì dell’umano. La filosofia nasce stabilendo un confine, fra noi e gli altri, gli animali, appunto. In questo senso tutto il gran parlare che si fa degli animali, anche oggi, da parte di etologi ed ecologisti, filosofi e scrittori, scienziati e poe­ ti, è soprattutto un modo più o meno indiretto, più o meno consapevole, per parlare di noi, dell’animale che parla, Homo sapiens. Spesso, peraltro, lo stesso benemerito animalismo non parla propriamente degli animali, delle loro vite, ma soprattutto di come pensiamo che sia la loro vita, le loro emozioni, la loro mente. Per questa ragione uno dei pochissimi filosofi che abbia realmente provato a pensare la questione dell’animalità, Jacques Derrida, sostiene che l’unico animale che conosciamo è l’animot, una parola inventata in cui troviamo fuse sia mot (cioè, in francese, parola) che animaux (animali)7. L’animale che conosciamo, e forse l’unico che possiamo conoscere, è la somma di quanto non riconosciamo come umano; per questo l’animale non esiste, perché non esiste questo chimerico vivente che pretende di riunire in sé tutti gli altri viventi. L’animale è letteralmente una parola, una entità linguistica. Ogni definizione dell’animale è, di fatto, una definizione in negativo rispetto alla definizione dell’umano (l’animale è quel vivente privo di qualcosa: di volta in volta, linguaggio, ragione, capacità di ridere, pollice opponibi7  J. Derrida, L’animal que donc je suis, Paris 2006; trad. it. L’animale che dunque sono, Milano 2006, p. 89.

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le, arte, mano, possibilità di morire e così via). L’unico animale che conosciamo è quello che manca di qualcosa. In questo senso gli animali non esistono, perché è davvero curioso occuparsi di esseri viventi solo per chiedersi se hanno, o non hanno, il linguaggio, ad esempio. Un castoro è un vivente del tutto completo, e proprio non ha senso chiedersi se ha o no qualcosa che ha un altro animale. Tanto varrebbe chiedersi se Homo sapiens ha o non ha le piume o le branchie. E questo atteggiamento non è certo una esclusività della filosofia: vale anche per gli scienziati. Basta guardare a come la scienza (psicologia comparata, etologia, scienze cognitive) ha cambiato idea molto spesso, su quel che un animale è e sa fare. Oggi la moda vuole che gli animali, e alcuni fra questi in particolare (i bonobo, ad esempio, ancora pochi anni fa i delfini, prima ancora i piccioni), siano sostanzialmente come noi: hanno mente, ragionamento, linguaggio, emozioni, moralità e così via. Sono come noi (o quasi, non ci si mette mai d’accordo su dove tracciare il confine), appunto, come noi. Il problema siamo noi, non gli animali, sottoposti ad esperimenti spesso assurdi, crudeli, oppure semplicemente inutili, per stabilire quanto sono vicini a noi. È curioso come l’animalismo non comprenda questo punto, pur così evidente: sostenere che gli animali hanno diritti perché sono come noi è un modo per non prenderli davvero in considerazione. Per quale ragione i diritti devono essere attribuiti solo a chi stabiliamo (in modo del tutto arbitrario) che somiglia a noi umani? È così importante essere umani, al punto che pretendiamo d’essere il metro di riferimento di tutto il mondo vivente? Questo che avete fra le mani non è, quindi, l’ennesimo libro sugli animali, perché ne esistono già moltissimi, e nel loro genere alcuni sono anche ottimi (basta ricordarsi che si occupano dell’animot). No, questo libro si occupa ­x

dell’animale umano, Homo sapiens, di quell’unico animale – questa sì che è una caratteristica unica della nostra specie – che ha come principale preoccupazione quella di dirsi che è diverso dagli altri viventi. Oggigiorno non c’è forse una posta in gioco più importante, in un’epoca che vede il fallimento – ecologico, in primo luogo, ma poi anche politico ed etico – di un’umanità che ha perso ogni contatto con l’animalità che incarna, o che per meglio dire, potrebbe incarnare. Sarebbe un onore se nelle pagine che seguono trasparisse anche una lontana eco di un dialogo di Paul Valéry, Dialogue de l’arbre. I personaggi sono due: Titiro, un pastore, appoggiato al tronco di un maestoso faggio, e il poeta Lucrezio: «Ma tu [dice Titiro rivolgendosi a Lucrezio], tu fai professione di capire le cose: su questo faggio immagini di saperla molto più lunga di quanto esso stesso potrebbe sapere, se avesse un pensiero che lo inducesse a credere di conoscersi... Quanto a me, non voglio sapere se non i miei momenti felici. La mia anima oggi si fa albero. Ieri la sentivo sorgente. Domani?... Mi innalzerò con il fumo di un’ara, e mi terrò librato sulle ali lente, chissà...»8. Ringrazio gli studenti del corso di Filosofia della comunicazione dell’Università della Calabria dell’anno accademico 2011-2012 per le discussioni che abbiamo avuto insieme sul tema dell’animalità: Davide Basile Costantino, Letizia Bonfiglio, Armando Canzonieri, Lorella Casella, Denise Di Matteo, Delfina Donnici, Ida Giugnatico, Annalisa Laganà, Stefania Mari, Daniela Marinello, Maria Chiara Marino, Rita Paonessa, Elvira Sacchetti, Matteo Scozia, Danilo Sirianni, Roberto Terlizzi. 8  P. Valéry, Dialogue de l’arbre, Paris 1925; trad. it. Dialogo dell’albero, in Tre dialoghi, Torino 1990, p. 120.

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Filosofia dell’animalità

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L’animale è mancante

Una delle cause principali della malattia filosofica – una dieta unilaterale: nutriamo il nostro pensiero con un solo tipo di esempi (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino 1974, I, § 593).

1. L’animalità umana Un gatto ci osserva. Cominciamo da un animale qualunque, uno di quei pochi che può conoscere anche un cittadino che non ami particolarmente gli animali, come appunto il gatto di una zia, o il cane del vicino di casa. Il gatto, quando entriamo nella casa in cui vive, può venirci a salutare, passandoci fra le gambe, strusciando la coda su di noi. Oppure ci può ignorare, rimanendo nel suo cantuccio, la sua poltrona, o sotto un letto. Il gatto, comunque, continuerà la sua vita. Perché è una vita, quella del gatto, diversa dalla nostra, spesso diversa in un modo che quasi non riusciamo ad immaginarla, ma è comunque una vita. Il punto è proprio questo, si tratta di una vita in realtà inimmaginabile. Non la possiamo immaginare proprio perché è una vita abissalmente diversa dalla nostra; certo il gatto, come noi, mangia, dorme, gioca, ha ­3

appetiti sessuali, forse sogna, ed infine muore, proprio come noi, come tutti i viventi. Ma queste somiglianze sono troppo generiche, per poter immaginare che cosa possa significare vivere una vita da gatto. Il problema non è solo che il gatto incarna un punto di vista sul mondo che è soltanto suo1, questo è ovvio, anche perché lo stesso problema si pone fra i diversi esseri umani. No, il gatto rappresenta un modo di vivere, e di percepire e pensare2, completamente diverso da quello umano. È di questa radicale diversità che si occupa questo libro. Una diversità talmente radicale che poche volte, nella storia della filosofia, ma anche della scienza, è stata pensata fino in fondo. Una diversità, e così cominciamo a comprendere quanto sia difficile affrontare questo problema, che non contrappone il mondo del gatto a quello dell’uomo. Questa impostazione, che poi è quella tradizionale, presuppone due categorie: da una parte l’uomo, dall’altra l’animale, che di volta in volta viene esemplificata da un animale particolare, come in questo caso il gatto. Ora, il problema è che il gatto, come l’uomo peraltro, non esiste, non esiste cioè il gatto, c’è solo questo gatto, questo particolare corpo vivente. Ma se non esiste il gatto ancor meno esiste l’animale, questo strano essere che dovrebbe racchiudere in sé le caratteristiche di tutti i viventi non umani (esclusi i vegetali, e tanto peggio per quelli che non sappiamo deciderci se considerare piante o animali), dai prioni ai virus, dalle amebe alle balene, dalla lampreda allo 1  T. Nagel, What Is It Like to Be a Bat?, in «The Philosophical Review», 83 (4), 1974, pp. 435-450; trad. it. in Questioni mortali, Milano 1986. 2  F. Cimatti, La mente silenziosa. Cosa pensano gli animali non umani, Roma 2002.

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scimpanzé. Eppure, come vedremo, è (quasi) sempre e solo dell’animale, così al singolare, che parla la filosofia. Ma che cos’è, propriamente, l’animale? Sappiamo tutto, dell’animale, come vedremo, e lo sappiamo prima ancora di averne incontrato uno. È il destino degli animali, sappiamo sempre tutto, di loro, lo sappiamo da sempre. Sappiamo, in particolare, che l’animale, meglio ancora l’animale, è un vivente che ha molte caratteristiche, alcune anche condivise con noi, con l’uomo, ma sappiamo soprattutto che l’animale, per quanto possa essere simile a noi, manca comunque di qualcosa. L’animale è, per definizione, quel vivente che manca di qualcosa, ad esempio del linguaggio, una risposta tradizionale e molto diffusa, una capacità che, invece, l’uomo possiede. L’animale è mancante, questa è l’essenza filosofica dell’animalità. Praticamente ogni proposta di definizione dell’animale è costruita secondo questo schema: da una parte l’uomo, dall’altra l’animale, che è privo di alcune caratteristiche umane. Da notare che questo schema si applica anche a chi, e oggigiorno sono molti, ritiene che l’animale abbia più o meno tutte le caratteristiche dell’uomo. Prendiamo il caso di qualcuno che, dalla lettura di Darwin, si sia fatto la convinzione che gli scimpanzé abbiano quasi, o tutte, anche se in un grado minore, le caratteristiche cognitive e comportamentali umane. Per quanto questa posizione possa sembrare rivoluzionaria, rispetto alla tesi dell’animale come mancanza, in realtà si inserisce perfettamente al suo interno. Perché anche chi considera lo scimpanzé praticamente uguale all’uomo, in realtà continua a prendere in considerazione lo scimpanzé soltanto riferendolo all’uomo. Lo scimpanzé parla, pensa, spera, prova empatia, ha il senso della giustizia, e così via: è evidente che in questo modo non stiamo parlando dello scimpanzé, stiamo sempre e solo prendendo ­5

l’animale umano come termine di riferimento di ogni altra forma di vita. E allora il problema non è che tipo di vita sia la vita di uno scimpanzé, bensì quanto la sua vita sia vicina alla nostra vita. Dello scimpanzé, paradossalmente, non ci interessa niente. Anche l’animalista, con tutto il suo zelo, continua a vedere l’animale dal punto di vista dell’uomo. Si pensi al dibattito bioetico sul dolore negli animali3, in particolare quelli uccisi negli allevamenti industriali. Per stabilire se questi animali soffrono, si usa come metro di paragone la sofferenza umana, e quindi la maggiore o minore vicinanza al nostro sistema neurologico. Ma un punto di partenza serve, si obietterà, e partiamo da qualcosa che conosciamo bene, noi. La questione è esattamente questa, in ogni caso partiamo da noi. Il metro è l’uomo, sempre. E quindi se un animale avrà un sistema nervoso in qualche modo simile al nostro allora gli verranno accordati dei diritti, altrimenti no. Per essere riconosciuti occorre essere come noi. Ora, in questo libro non verrà preso in considerazione l’importantissimo e urgente problema dell’estensione dei diritti agli animali non umani4, bensì un problema ancora precedente, e per certi versi ancora più fondamentale: qual è l’animalità umana? Il problema, crediamo, non è provare a definire, per l’ennesima volta, quale sia l’animalità dell’animale, al contrario, provare a cercare quale potrebbe essere l’animalità di quell’animale che non sembra avere altra preoccupazione se non quella di differenziarsi dagli altri 3  Fra le tantissime pubblicazioni, si possono vedere due punti di vista molto diversi: J. Safran Foer, Eating Animals, New York 2009; trad. it. Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, Parma 2009, e B. Bermond, The Mith of Animal Suffering, in M. Dol et al., eds., Animal Consciousness and Animal Ethics, Assen 1997, pp. 125-143. 4  P. Singer, Animal Liberation, New York 1975; trad. it. Liberazione animale, Milano 2003.

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viventi. Il problema non è cos’è un gatto, bensì quale animalità è possibile per Homo sapiens. 2. «Mondo» e «ambiente» Ma di cosa manca l’animale? La formulazione forse più esplicita di questo punto, che è all’origine di tutte le altre mancanze, la possiamo trovare in un piccolo libro – Ambienti animali e ambienti umani – dello zoologo e filosofo estone Jakob von Uexküll, che ha avuto, e continua ad avere, una grande importanza presso molti filosofi, in particolare Heidegger, che proprio sul lavoro di questo scienziato ha costruito la sua teoria dell’animalità, e quindi dell’umano. La premessa di von Uexküll è anticartesiana, gli animali non sono delle macchine, non si può più concepirli «come semplici cose ma come soggetti, le cui attività essenziali sono operative e percettive»5. Ritroviamo qui, però, l’ambiguità intrinseca dello sguardo umano rispetto agli animali, quando non smette di prendere come punto di riferimento l’umano: l’animale non è una macchina, come sosteneva Cartesio, d’accordo, e cos’è allora? È un vivente che ha una soggettività. Ma la soggettività è, per definizione, quella umana. L’animale, allora, non è una macchina, è una specie di uomo, anche se di un grado inferiore e diverso. La definizione dell’animale non riesce a non passare per quella umana. L’abbiamo già incontrato, questo nodo, l’impossibilità di pensare l’animale se non attraverso l’umano. La critica verso chi, come Cartesio, aveva troppo accentuato la differenza con l’umano si rovescia, allora, nell’impossibilità 5  J. von Uexküll, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen, Berlin 1934; trad. it. Ambienti animali e ambienti umani, Macerata 2010.

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di cogliere l’animalità in quanto animalità, e non come semplice umanità di grado inferiore. Com’è, infatti, l’ambiente (Umwelt) animale? «Tutto quello che un soggetto percepisce diventa il suo mondo percettivo (Merkwelt) e tutto quel che fa costituisce il suo mondo operativo (Wirkwelt). Mondo percettivo e mondo operativo formano una totalità chiusa: l’ambiente»6. Quella che sembrava una ammissione di libertà, l’animale non è una macchina, ecco che subito si trasforma nel suo contrario: l’animale – e non a caso vedremo fra poco qual è l’animale modello di tutta questa costruzione teo­ rica – percepisce, del mondo naturale, solo quello che, dal suo punto di vista, è biologicamente significativo. Questo aspetto, il «mondo percettivo», innesca così una serie specifica di azioni, si traduce cioè in comportamenti, ossia il «mondo operativo», che permettono all’animale di sopravvivere. L’aspetto più caratteristico dell’ambiente animale è che è chiuso: l’animale percepisce solo quello che gli serve per sopravvivere, il resto è per lui biologicamente privo di significato, e pertanto non gli presta alcuna attenzione. In questo senso l’ambiente è chiuso. Von Uexküll propone l’esempio di una farfalla in un prato: dal nostro punto di vista – e vedremo fra poco che è molto importante questa precisazione, perché l’introduzione del punto di vista umano crea di colpo una gerarchia fra gli animali, e naturalmente l’umano si troverà al vertice di questa gerarchia – in quel prato primaverile ci sono tanti colori, tanti profumi, tante forme diverse. Dal punto di vista della farfalla, invece, ci sono solo quelle forme che possono significare nutrimento e accoppiamento. La ricchezza sensibile della natura, in realtà, non è a disposizione della farfalla:   Ivi, p. 39.

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tracciamo intorno a ciascuno degli animali che popolano il prato una bolla di sapone che ne rappresenti l’ambiente e che contenga tutte le marche percettive accessibili al soggetto. Non appena entriamo in una di queste bolle di sapone, i dintorni (Umgebung) che fino ad allora circondavano il soggetto si trasformano completamente. Spariscono molti dei colori di cui era pieno il prato, altre proprietà emergono dallo sfondo, si producono nuovi rapporti7.

Ogni animale vive in una «bolla di sapone», al cui interno è presente solo quello che, per quell’animale, è biologicamente significativo. Non c’è alcuna libertà, in questo mondo, non c’è nulla di gratuito, ad ogni percezione corrisponde una azione e viceversa, non è previsto uno sguardo disinteressato né un gesto fortuito. Non sembra esserci spazio per il gioco, in questa bolla, né per uno sguardo estetico, cioè per uno sguardo che osservi qualcosa solo per il gusto di osservarlo. E poi ci sono quei «dintorni», una nozione teoricamente decisiva, ma ambigua proprio da un punto di vista biologico. Mettiamoci nei panni della farfalla, dentro la sua invisibile (per lei) bolla. Proprio il fatto di essere prigioniera nella bolla, di cui appunto ignora l’esistenza, le preclude la possibilità di avere notizie dei «dintorni», che sarebbe invece lo spazio all’esterno della bolla. Per la farfalla c’è solo l’ambiente in cui vive, con le sue marche percettive, ad esempio un certo colore che significa che c’è un fiore ricco di nettare, a cui corrispondono altrettanto determinate marche operative, come l’azione di volare verso quel colore, per suggerne il nettare: «ogni soggetto animale affronta il suo oggetto con le estremità di una pinza, una percettiva e una operativa. La prima attribuisce all’oggetto una mar  Ibid.

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ca percettiva, la seconda una marca operativa. In questo modo certe proprietà dell’oggetto diventano portatrici di marche percettive, mentre altre fanno da supporto a marche operative»8. Per la farfalla c’è solo l’ambiente, di dintorni non c’è né può esserci traccia. Ma allora, come facciamo a parlare di «dintorni»? Chi è che può percepirli? Finora sembrava che ci stessimo occupando solo di biologia, e invece ecco di nuovo la metafisica, l’uomo e l’animale. Perché i «dintorni» li può percepire solo l’uomo. Eccola la gerarchia, che spunta inesorabile tutte le volte che si parla di animalità. Ma qual è l’animale modello di von Uexküll? Qual è l’animale che dovrà sostenere il peso di rappresentare lo sconfinato insieme di tutti i viventi animali? Perché succede sempre così, si parla di animalità in generale, ma in realtà si parla di un animale in particolare. In questo caso l’animale è la zecca. La vita di questo artropode è descritta come «un ciclo funzionale»9, in cui ogni passo è innescato da una particolare «marca percettiva», che a sua volta si traduce in una particolare operazione. Da notare che «la marca operativa di un oggetto disattiva la sua marca percettiva»10; la zecca percepisce un certo oggetto, mediante una specifica «marca percettiva», ad esempio un odore caratteristico, che a sua volta libera una altrettanto specifica azione. La zecca percepisce dell’oggetto soltanto ciò che innesca l’azione, e una volta che questa è scattata l’oggetto letteralmente sparisce dall’orizzonte percettivo dell’animale. Non c’è mai un momento, nella vita della zecca, in cui l’oggetto percepito esista in modo autonomo; se esiste, esiste per inne  Ivi, pp. 47-48.   Ivi, p. 49. 10  Ivi, p. 48. 8 9

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scare una azione biologicamente vitale, e quando questa azione è cominciata l’oggetto – per lei – cessa di esistere. Esistere, per la zecca, significa essere percepibile, e può essere percepito solo ciò che è rilevante per la sua sopravvivenza (quella della zecca è una biologia berkeleyana). Per questo l’ambiente animale è chiuso, perché a questo schema non sfugge nulla, non possono esistere oggetti percepiti che non abbiano un qualche significato per la vita, come non ci possono essere azioni disinteressate: «tutti i soggetti animali» – da notare quell’aggettivo, «tutti», la zecca qui coincide con l’intera animalità – «i più semplici come i più complessi, sono adattati al loro ambiente con la medesima perfezione»11, perché, ribadisce von Uexküll, «lo schema [del ciclo funzionale della zecca] mostra che il soggetto e l’oggetto si incastrano l’uno con l’altro, costituendo un insieme ordinato»12. Seguiamo da vicino, ora, il celebre esempio della zecca, celebre perché è diventato il modello di tanti altri animali filosofici, e non solo. Il ciclo comincia con l’animale in attesa. Sì, perché quando il meccanismo vitale non è in funzione l’animale, nonostante von Uexküll ci tenga a considerarlo una «soggettività», rimane fermo, inerte, in attesa appunto. Anche se propriamente non è una attesa, perché la zecca non attende niente, di fatto, finché non si attiva il ciclo funzionale che la porterà alla riproduzione la zecca è, semplicemente, all’interno di un altro ciclo funzionale. E fra un ciclo e il successivo, per la zecca, sembra esserci una radicale cesura, almeno così von Uexküll ci descrive la vita di questo vivente. Attendere, invece, significa avere una qualche aspettativa di ciò che si sta attendendo. Vedremo an  Ivi, p. 49.   Ibid.

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dando avanti che è intorno alla questione del tempo che si gioca buona parte della questione dell’animalità umana. La zecca è ferma, allora, nascosta fra i rami di un arbusto; rimarrà in questa condizione finché, e se, nel suo spazio percettivo passa un mammifero: «a farsi carico delle marche percettive del primo circuito sono i follicoli sebacei del mammifero, perché l’eccitazione dell’acido butirrico produce nell’organo percettivo della zecca segni percettivi specifici che vengono proiettati all’esterno come marche olfattive»13. Un mammifero, un cane ad esempio, passa in prossimità della zecca: l’acido butirrico secrèto dalle sue ghiandole sebacee raggiunge i particolari recettori della zecca. Ora il ciclo della zecca può cominciare: «i processi in atto nell’organo percettivo producono per induzione [...] gli impulsi corrispondenti nell’organo d’azione, il quale, a sua volta, provoca il rilascio della presa. Dopo essersi lasciata cadere, la zecca conferisce ai peli con i quali viene in contatto la marca percettiva dell’urto, che produce una marca percettiva tattile in grado di disattivare la marca olfattiva dell’acido butirrico»14. Ogni passaggio percettivo innesca una tappa operativa, la quale, a sua volta, innesca un nuovo momento percettivo, e così in avanti. In ogni momento la zecca è guidata dalla stimolazione che proviene dall’ambiente. La zecca è in uno stato di completo abbandono rispetto al suo ambiente; anche in questo caso è una strana soggettività, quella che von Uexküll le attribuisce, perché si tratta di una soggettività che non ha aspettative né progetti, rimpianti o desideri. La zecca dipende completamente dalla sua situazione ambientale. Ora è sul corpo del mammifero,   Ibid.   Ibid.

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ne tocca la pelle: «la nuova marca tattile attiva un movimento d’esplorazione fino a che questo, a sua volta, non viene soppresso dalla marca percettiva termica nel momento in cui la zecca arriva in un punto privo di peli e comincia a perforarlo»15. Inizia così un ulteriore ciclo operativo, perché il sangue che succhierà dal mammifero le permetterà di completare il processo della riproduzione. A questo punto, completato il ciclo, l’animale può lasciarsi morire, perché le uova che ha deposto ne inizieranno un altro. Di che cosa manca, quindi, la zecca? In quel prato in cui questa storia di vita e di morte è cominciata esistono una quantità di stimoli percettivi, ma tutta questa ricchezza, e bellezza, la zecca di von Uexküll – e quindi l’animale di von Uexküll – non la percepisce; siccome non la percepisce, allora letteralmente è come se non ci fosse: «nel mondo sterminato che circonda la zecca, tre stimoli brillano come segnali luminosi nell’oscurità»16, tutto il resto rimane oscuro e invisibile. Ecco, allora, di cosa manca la zecca, e con lei ogni altro animale: il suo è un ambiente, ma un ambiente limitatissimo e chiuso, al cui interno esistono soltanto quelle entità che hanno una funzione biologica: «l’intero, ricco mondo che circonda la zecca si contrae su sé stesso per ridursi a una struttura elementare, che consiste essenzialmente di tre sole marche percettive e tre sole marche operative: il suo ambiente»17. Un animale diverso, uno scimpanzé, un animale oggigiorno di gran moda fra etologi e filosofi, avrà un ambiente più ricco, cioè con un maggior numero di «marche percettive» e di corrispondenti «marche ope  Ibid.   Ivi, p. 50. 17  Ivi, p. 51. 15 16

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rative», ma questo non cambia la sua natura intrinseca: anche quello dello scimpanzé è un ambiente, cioè uno spazio chiuso – e tendenzialmente statico – di stimoli pertinenti e di azioni che quegli stimoli innescano. L’animale è una soggettività, ma senza possibilità di muoversi liberamente nel suo ambiente; l’animale è libero di fare tutto ciò che il suo ambiente lo costringe a fare. E così la farfalla vedrà nel fiore soltanto il cibo, la zecca nel cane percepirà solo il calore che significa sangue, nel frutto lo scimpanzé vedrà solo un oggetto da sbucciare. La condizione umana è completamente diversa, invece. Perché mentre l’ambiente della zecca è chiuso quello umano non lo è (è la distinzione che Heidegger fissa nella contrapposizione fra «ambiente» animale e «mondo» umano; cfr. infra, § 3). Il problema non è biologico, bensì logico: come facciamo, infatti, a sapere che la zecca vive in un ambiente composto «di tre sole marche percettive e tre sole marche operative»? Dal punto di vista della zecca, proprio per come è organizzato il suo apparato percettivo, non ha senso dire che il suo ambiente è limitato, perché per la zecca non c’è altro da percepire, oltre a quello che effettivamente percepisce. Chi può dire, alla zecca, che nel suo ambiente ci sarebbe anche molto altro da percepire? L’uomo naturalmente, e soltanto l’uomo, che può percepire anche ciò che si estende oltre i confini biologici di ogni ambiente determinato: «l’ambiente dell’animale [...] costituisce solo un frammento dei dintorni che vediamo distendersi intorno a lui: i dintorni non sono altro che il nostro stesso ambiente, l’ambiente umano»18. Von Uexküll non sembra cogliere la differenza radicale – una differenza che   Ivi, pp. 54-55.

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lui stesso ha stabilito – che esiste fra l’ambiente della zecca e quello dell’uomo: il mondo umano, per usare la terminologia di Heidegger, non è soltanto più esteso di quello della zecca, è costitutivamente libero, perché contiene entità e proprietà, ad esempio la bellezza dei fiori, che non hanno un valore biologico, e che tuttavia l’uomo è capace di percepire. Il rapporto con il mondo dell’uomo non si esaurisce nei cicli funzionali da cui, invece, la zecca non può uscire. Mentre «la zecca [...] è governata da un preciso piano naturale»19, questo stesso vincolo non vale, di fatto, per l’uomo, che infatti vive nei «dintorni» delle altre specie viventi. Von Uexküll definisce anche quello umano un «ambiente», ma in realtà la sua stessa descrizione introduce una differenza radicale con quello animale. L’uomo rappresenta una sorta di sguardo assoluto sui diversi ambienti animali, abita infatti quei mondi che non solo la zecca non percepisce, ma nemmeno può immaginare di non percepire. Anche se von Uexküll non vuole esplicitamente collocare l’umano fuori dal mondo naturale, di fatto ribadisce, sebbene con argomenti diversi e più sottili, la tradizionale separatezza dell’umano rispetto all’animalità. L’uomo è quell’animale in grado di vedere l’animalità degli altri animali, e quindi – come attesta il fatto stesso dell’esistenza di un libro come Ambienti animali e ambienti umani – di prendere le distanze dalla propria stessa animalità. Questa è la tensione teorica di tutto questo libro, che da un lato pretende di descrivere gli ambienti animali, compresi quelli umani, dall’altro ha la pretesa di essere una teoria generale degli ambienti animali. Questa doppia esigenza è autocontraddittoria.   Ivi, p. 96.

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Ogni ambiente, ci dice von Uexküll, è delimitato da una «bolla» invisibile. Questo significa che la zecca non sa di vivere dentro una bolla, anzi, significa che la zecca è convinta che non esistano altri ambienti oltre il proprio ambiente; di fatto per la zecca non è questione di ambienti al plurale, c’è il suo, che non sa che è un ambiente, e basta. Ora, se è vero che «ciascuno di noi» uomini e animali, «vive chiuso dentro il suo mondo, cioè dentro la sua bolla»20, come è possibile scrivere un libro come quello che ha scritto von Uexküll, che vorrebbe descrivere l’insieme degli ambienti animali, compreso quello umano? Eppure il libro è stato scritto. A conferma della posizione particolare che comunque viene assegnata all’uomo, anzi, all’uomo. Proprio perché capace di muoversi fra gli ambienti animali, nei «dintorni», ecco ripristinata l’eccezionalità dell’umano rispetto al resto del mondo animale. La zecca conduce la sua vita, che bella o brutta che sia è l’unica vita che può vivere; l’uomo, al contrario, è capace non solo di vivere la vita che vive, ma anche e soprattutto di prendere le distanze dalla propria stessa vita. È infatti in grado di relativizzare il proprio punto di vista, cioè di vedere il proprio stesso punto di vista. Il «mondo», come lo chiama Heidegger, è esattamente questa capacità di non aderire alla propria vita, al proprio «ambiente». L’esistenza stessa del libro di von Uexküll testimonia di questa costitutiva separatezza fra la vita vissuta e la vita pensata: l’uomo, si potrebbe dire, è una zecca che sa di essere una zecca, e quindi smette di essere soltanto una zecca. In questo senso l’animale è mancante, perché può vivere soltanto nell’«ambiente» che gli è capitato,

  Ivi, p. 74.

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il «mondo» gli è precluso. Tutte le altre mancanze che sono state addebitate all’animale, a partire dalla mancanza fondamentale del linguaggio21, non sono che una conseguenza di questa originaria mancanza: l’animale vive e basta, mentre l’uomo non coincide con la vita che vive. Rimettere in questione questa essenziale separatezza dell’umano da sé stesso è la posta in gioco dell’animalità. Se, come scrive Agamben, è l’immanenza il tema della «filosofia che viene»22, cioè la questione insieme teorica ed etica di pensare una vita umana che faccia tutt’uno con la propria stessa vita, una vita che non conosca la trascendenza, allora è intorno all’animalità dell’uomo che occorre tornare. O forse, visto che l’umano si è costruito intorno alla separatezza da sé stesso, cioè staccandosi dalla propria animalità, bisogna cominciare ad immaginare quale potrebbe essere un’animalità umana mai prima sperimentata. 3. Che cosa è l’animale? L’umanesimo è quel modo di considerare l’umano che lo colloca al di fuori del mondo animale23. Il progetto umanistico, quello incentrato sul soggetto adulto autocosciente dotato di logos, si è schiantato ad Auschwitz. Il punto è che proprio quel soggetto così speciale non è stato capace di evitare la tragedia dell’umanesimo. Un progetto che si basa esattamente sulla separazione,

21  La storia di questa tradizione, antica come la filosofia occidentale, si può leggere nel bellissimo E. de Fontenay, Le silence des bêtes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité, Paris 1998. 22  G. Agamben, La potenza del pensiero, Vicenza 2010, p. 385. 23  M. Calarco, Zoographies: The Question of the Animal from Heidegger to Derrida, New York 2008; trad. it. Zoografie, Milano 2012.

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nell’umano, della componente razionale da quella vitale e animale: «persona qualifica ciò che, nell’uomo, è altro e oltre rispetto al suo corpo»24. Auschwitz è stata possibile proprio perché nel cuore di questo progetto è contenuto un dispositivo che produce esclusione: Homo sapiens si costruisce tracciando un confine fra chi rientra nell’umanità e chi ne è escluso. Il soggetto può dire “io” solo perché nell’atto stesso di affermare il proprio sé esclude per l’altro questa stessa possibilità. Io sono “io” perché tu non lo sei. Si diventa umani solo condannando all’inumanità qualcun altro. In questo senso Auschwitz era ed è inevitabile, perché si diventa umani solo precludendo a qualcun altro la possibilità di diventarlo. Diventare umano significa escludere qualcuno o qualcosa da questa condizione, a partire dagli animali, per finire con la propria stessa animalità. La «filosofia che viene» è appunto il tentativo di pensare una via d’uscita dall’umanesimo. La figura centrale di questo problema è quella di Martin Heidegger. È significativo che Giorgio Agamben nel saggio L’immanenza assoluta25 non sappia come collocare la sua figura, rispetto appunto al tema di una filosofia dell’immanenza: sta dalla parte dei filosofi della trascendenza – da Kant a Derrida – oppure dalla parte dei filosofi dell’immanenza, da Spinoza a Deleuze? Heidegger, infatti, è da un lato il filosofo che nella Lettera sull’«umanismo» si propone di abbandonare l’asfissiante «soggettivismo metafisico»26; dall’altro, però, è an24  R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino 2007, p. 94. 25  Agamben, La potenza del pensiero, cit., pp. 384-413. 26  M. Heidegger, Über den Humanismus, Frankfurt a.M. 1949; trad. it. Lettera sull’«umanismo», Milano 1995, p. 78.

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che il filosofo della netta separazione dell’umano dalla «animalitas»27. L’uomo potrà diventare pienamente e finalmente umano, ciò che per Heidegger significa uscire dall’«oblio dell’essere»28, e cioè abbandonare la visione in cui l’uomo si pone come proprietario e legislatore del mondo naturale, se invece riconoscerà che «non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere»29. Ora, per Heidegger questo passaggio decisivo può avvenire solo a condizione di separare drasticamente l’umano dall’animale. Ecco perché la posizione di Heidegger è così difficile da stabilire: bisogna uscire dall’umanesimo che produce il soggetto metafisico che si basa sulla esclusione, ma per farlo occorre allontanare quello stesso umano dalla sua condizione animale. Il raggiungimento di una condizione di vicinanza con l’essere presuppone l’allontanamento da sé, dalla propria animalità. Si vuole superare una esclusione, quella dell’uomo dall’essere, mediante un’ulteriore esclusione, quella dell’uomo dall’animale, e quindi dal mondo naturale: Probabilmente tra tutti gli enti l’essere-vivente è per noi il più difficile da pensare, perché da un lato è quello che in un certo modo ci è più affine, ma dall’altro è ad un tempo abissalmente separato dalla nostra essenza e-sistente. Potrebbe invece sembrare che l’essenza del divino ci sia più vicina di quanto non sia l’estraneità degli esseri-viventi, più vicina di una lontananza essenziale che, come lontananza, è tuttavia più familiare alla nostra essenza e-sistente di quanto non lo sia la parentela fisica con l’animale, la cui insondabilità è appena immaginabile30.   Ivi, p. 45.   Ivi, p. 69. 29  Ivi, p. 73. 30  Ivi, p. 49. 27 28

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Il divino, ossia ciò che c’è di massimamente lontano, l’irraggiungibile e impensabile trascendenza, ci è più vicino dell’animale. In altre parole, è più facile pensarsi come vicini a Dio che ad un gatto o un lombrico. La strada che Heidegger propone di imboccare, per superare il progetto umanistico, e quindi l’arrogante soggetto metafisico, prende da subito una direzione inaspettata: non avvicinarsi all’animalità, al corpo, alla natura, al contrario prendere la direzione opposta, allontanarsene definitivamente. E certo è difficile immaginare come questo tipo di percorso possa portare all’immanenza, alla coincidenza della vita con sé stessa. La via d’uscita dall’umanesimo e dalle sue conseguenze accentua, e non diminuisce, la distanza fra l’umano e l’animalità: rimane finalmente da chiedersi se in generale l’essenza dell’uomo, in un senso iniziale e che decide anticipatamente di tutto, stia nella dimensione dell’animalitas. Siamo in generale sulla via giusta per determinare l’essenza dell’uomo se e finché consideriamo l’uomo come un essere vivente come gli altri, che si distingue rispetto ai vegetali, agli animali e a Dio? Si può procedere così, si può in tal modo situare l’uomo in seno all’ente e considerarlo un ente tra gli altri. Così facendo si potranno sempre fare asserzioni corrette sull’uomo. Ma si deve anche avere ben chiaro che così l’uomo è definitivamente cacciato nell’ambito essenziale dell’animalitas, anche quando non lo si assimila all’animale, ma gli si attribuisce una potenza specifica. In linea di principio si pensa sempre all’homo animalis anche quando l’anima è posta come animus sive mens, e quest’ultima più tardi come soggetto, come persona, come spirito31.

Per Heidegger il punto di differenza fra humanitas e animalitas è il linguaggio, che permette all’uomo di ac  Ivi, pp. 45-46.

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cedere alla «radura (Lichtung) dell’essere»32, cioè gli permette di cogliere l’essere in quanto essere (cioè non come questa o quella cosa particolare), mentre tutti gli altri viventi possono avere contatti, come la zecca con la pelle del cane, soltanto con enti particolari con una funzione particolare. Solo l’uomo è in grado di porsi in relazione con l’essere. Usando la terminologia di von Uexküll, il linguaggio è capace di questa prestazione perché ci mette in contatto con i «dintorni», liberandoci così dall’aderenza fra percezione e azione che è invece la caratteristica biologica fondamentale del rapporto fra l’animale e il suo ambiente. Si capisce perché, allora, Heidegger consideri l’allontanamento dall’animalità come la condizione per poter accedere all’essere: «la metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pensa in direzione della sua humanitas»33. Se l’uomo viene pensato come un animale fra gli altri non potrà uscire dalla «bolla» del suo ambiente; nell’ambiente ci sono solo enti particolari. Se può avere contatti solo con gli enti è escluso che possa pensare l’essere, che non è un ente fra gli altri. Per uscire dalla «bolla» ambientale occorre poter accedere ai «dintorni», cioè appunto lo spazio dell’essere (nei «dintorni» non ci sono enti, è piuttosto lo spazio fra gli enti): ma come cogliere i «dintorni», dal momento che non è, a sua volta, un ente? È il linguaggio che permette di passare dagli enti all’essere, perché il linguaggio non è limitato all’espressione di questo o quell’ente, bensì alla possibilità di ogni ente: per questa ragione «il linguaggio è la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola»34.   Ivi, p. 46.   Ibid. 34  Ivi, p. 61. 32 33

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Siamo partiti, con Agamben, dal problema della «filosofia che viene», cioè dalla questione dell’immanenza, di una vita senza trascendenza, una vita che coincida senza resti con la vita stessa. Su questo percorso abbiamo subito incontrato Heidegger, come colui che forse prima e meglio di altri coglie la crisi della soggettività insita nel progetto umanistico. Eppure la soluzione di Heidegger non muove verso il superamento della separatezza fra la soggettività e il corpo, la prima e fondamentale scissione nella nostra esistenza. Perché se è l’immanenza che vogliamo trovare la prima divisione da ricomporre è quella fra soggettività e corporeità, una divisione che rende la mente trascendente rispetto al corpo. Il punto di crisi è proprio nel linguaggio. Essere l’animale del linguaggio significa essere l’animale che può avere rapporto con il mondo solo attraverso la mediazione della parola: non ci può essere «mondo» – distinto da «ambiente» animale – senza linguaggio: «λόγος, linguaggio e mondo si trovano fra loro in intima connessione»35. E così tagliare fuori l’animalitas dall’umano significa mantenere la separazione fra corpo e mente, fra soggettività e vita, fra trascendenza e immanenza. Heidegger chiarisce che la posta in gioco, quando si parla di animalità, è il corpo umano, non quello del topo o dello scimpanzé: il corpo dell’uomo è qualcosa di essenzialmente altro da un organismo animale. L’errore del biologismo non è ancora superato per il fatto che alla corporeità dell’uomo si aggiunge l’anima, all’anima lo spirito, e allo spirito l’esistentivo, e per 35  M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik: Welt - Endlichkeit - Einsamkeit, Frankfurt a.M. 1983 [1929-1930]; trad. it. Concetti fondamentali della metafisica, Genova 1999, p. 391.

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il fatto che si predica più forte che mai l’alto valore dello spirito, per poi far ricadere tutto nell’esperienza vissuta della vita, mettendo in guardia dal pensiero che con i suoi concetti rigidi distruggerebbe il flusso della vita, e dal pensiero dell’essere che deturperebbe l’esistenza36.

Il corpo umano non è, né soprattutto dev’essere, soltanto un corpo animale. Questa la determinazione finale di Heidegger rispetto all’animalità umana. L’obiettivo di questa filosofia è ricomporre il rapporto fra uomo ed «essere», e quindi abbandonare la nozione di soggetto tipica del progetto umanistico, cioè un “io” autocosciente, dotato di volontà e potenza, autoritario e violento. Si tratta di recuperare la subordinazione dell’umano rispetto all’essere, solo così sarà possibile sviluppare una nozione di uomo diversa da quella che ci ha consegnato la tradizione filosofica. L’obiettivo è quindi una ricomposizione. Ma è un obiettivo che Heidegger ritiene di poter raggiungere attraverso l’accentuazione del carattere più che animale dell’umano: «pensare la verità dell’essere significa ad un tempo pensare l’humanitas dell’homo humanus. Bisogna porre l’humanitas al servizio della verità dell’essere, ma senza umanesimo in senso metafisico»37, cioè non come homo animalis bensì, appunto, come homo humanus, uomo tutto e solo umano, oltre e al di là dell’animalità. Ma è praticabile questo percorso? È davvero possibile immaginare una umanità liberata dalle trappole in cui inevitabilmente cade il soggetto umano senza ripensare la propria stessa corporeità animale?

  Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 47.   Ivi, p. 88.

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La macchina antropogenica

La negatività è il modo umano di avere il linguaggio (G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino 2008, p. 105).

1. La zecca e la noia All’interno stesso dell’operazione antropologica attraverso la quale un esemplare della specie Homo sapiens diventa umano si colloca una separazione, un passaggio per la trascendenza: «l’uomo è l’animale che deve riconoscersi umano per esserlo»1. Per vivere non gli basta, come per la zecca di von Uexküll, avere un «ambiente» dentro il quale ci sono le risorse per sopravvivere, e i pericoli da evitare; l’umano deve letteralmente uscire da sé, questo significa riconoscersi, e dichiararsi umano. La coppia «ambiente»/«mondo» illustra questo movimento; la zecca conduce tutta la sua esistenza nel suo ambiente, vive e muore lì dentro, nella sua «bolla invisibile». L’umano, al contrario, deve vedersi vivere   G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino 2002, p. 33.

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nell’ambiente, deve cioè uscire nel «mondo» (cioè lo spazio fra gli ambienti, i «dintorni» come li chiama von Uexküll), e da questa posizione eccentrica affermare la sua umanità. L’umano scopre e istituisce sé stesso come umano solo attraverso questo raddoppiamento che lo porta fuori di sé, in questo senso incarna la scissione fra la corporeità che è qui ed ora, e uno sguardo trascendente – oltre quel corpo, al di fuori di esso – che permette (o condanna) a quella incarnazione di dichiararsi umana. Questa operazione – è la macchina antropogenica del titolo di questo capitolo – è una operazione violenta e dolorosa. Prendiamo ancora una volta come esempio la zecca di von Uexküll. Qual è la vita che conduce, all’interno del suo ambiente? Qui ci interessa il tono emotivo del rapporto della zecca con gli enti che può incontrare. Partiamo dall’esperienza del tempo. Secondo von Uexküll la zecca può rimanere in attesa del passaggio di un mammifero per molti anni, senza per questo morire né dare segni di impazienza. Rimane lì, semplicemente. Rimane ferma, non perché stia aspettando qualcosa, ché forse dopo molti anni di attesa frustrata si sposterebbe, no, rimane lì, almeno così ci dice von Uexküll, perché non è ancora arrivato lo stimolo ambientale che innescherà il nuovo ciclo funzionale. E se non arriverà, ma la zecca non sa che deve arrivare qualcosa, semplicemente morirà nel posto dove la sua esistenza è esistita. In questo senso la zecca non sta aspettando nulla, perché per aspettarsi qualcosa occorre avere una qualche idea di quello che ci manca, e che speriamo che prima o poi possa arrivare. La speranza è un sentimento che tira fuori il corpo da sé stesso, lo proietta oltre la condizione presente. La zecca, al contrario, non si aspetta niente, tutta la sua vita, finché è aggrappata all’arbusto su cui ­25

si è arrampicata, coincide con quell’arbusto. Non c’è altro, è la completa e perfetta aderenza della vita a sé stessa. Non è nemmeno corretto sostenere che la zecca viva il presente, perché non aspettandosi niente, e tantomeno rimpiangendo nulla, non ha altri tempi in cui poter vivere; in questo senso non vive il presente, come tempo distinto dal passato e dal futuro. Vive la vita che vive, e basta. Se esiste una vita senza trascendenza, quella della zecca è la vita che cerchiamo. Una vita del genere, per quanto possa essere pericolosa e – dal nostro punto di vista – povera di eventi ed emozioni, è però una vita segnata da una partecipazione alla vita stessa che sembra assolutamente preclusa all’animale umano. È difficile anche solo immaginare una vita del genere, la passione totalizzante che deve legare la zecca alla pelle del cane su cui si lascia cadere, ad esempio, una passione che non conosce dubbi, esitazioni, rimpianti. Una passione totale, appunto, nel senso che assorbe in sé tutta la potenza vitale di chi la vive. Anzi, la zecca non prova una esperienza, la zecca è quella esperienza. Ora, non sarà casuale che il filosofo che meglio di altri ha saputo descrivere questa passione è quello stesso Heidegger che con tanta nettezza intende separare l’animalitas dall’humanitas. Come se nella passione della zecca Heidegger, in fondo, raccontasse di una possibilità di vita che per lui è preclusa. Come se ci fosse quasi una nota di rimpianto in quelle pagine. L’analisi di Heidegger muove dalla condizione, che come stato d’animo ci appare affatto incomprensibile e intollerabile, della zecca ferma sul ramoscello di un arbusto. Von Uexküll racconta che in un esperimento una zecca è rimasta in questo stato fino a diciotto anni. La domanda che ci viene subito in mente, prima ancora di chiederci come abbia potuto resistere alla sete e ­26

alla fame, è: ma come avrà potuto sopportare la noia di una attesa così lunga? In effetti non sembra possibile, per un essere umano, una attesa immobile per un periodo di tempo così prolungato. Neanche un eremita avrebbe potuto superare una prova del genere, tenuto anche conto che l’eremita avrebbe comunque occupato il tempo, per dir così, con la preghiera e la speranza di un ricongiungimento con il suo signore. Risorse che alla zecca sono precluse. Il problema è: chi può provare lo stato d’animo della noia? Chi può annoiarsi? Abbiamo visto che la zecca, in realtà, non sta aspettando il cane su cui, se finalmente passerà, si lascerà cadere vogliosa di succhiarne il sangue. La zecca non sembra desiderare altro che quello che già è; la sua passione coincide con la condizione in cui già si trova. Cioè, la zecca non desidera ciò che non è, bensì, e al contrario, la zecca è già tutto quello che dev’essere. Per questo la sua è una passione totale, senza scarti, che non lascia alcuno spazio per ulteriori pensieri e desideri. Cos’è la noia, invece? È la condizione che può provare solo un vivente che vive l’esperienza del tempo, è anzi l’essenza della esperienza del tempo. Si annoia chi, in qualunque esperienza determinata, sente lo scarto con la temporalità in generale. Sto vivendo ora questa particolare esperienza, ma sento che non è che una esperienza, che è destinata comunque a finire, come succede a tutto ciò che è nel tempo. In questa stessa esperienza, allora, sento anche la sua vacuità, perché non è che una esperienza qualunque, appunto, per quanto possa essere al momento straordinaria e appagante. Tutto ciò che nel tempo appare, il tempo l’inghiottirà indifferente. La noia è allora la consapevolezza di questo scarto inesorabile fra il qui ed ora che sto vivendo e la sconfinata vastità del tempo. Sto vivendo questa esperienza, ma già mi ­27

annoia, perché non è altro che un istante di temporalità destinato a svanire, e così mi annoia nell’atto stesso in cui la sto provando: «ciò che annoia nella noia profonda [...] è la temporalità in una modalità determinata della sua temporalizzazione»2. Può annoiarsi solo un vivente che viva l’esperienza della temporalità. E qual è, a sua volta, la condizione per provare questa esperienza? La possibilità di cogliere sé stesso nel flusso della propria esistenza, ossia la possibilità di vedersi nel proprio «ambiente», cioè la possibilità di passare da questo al «mondo», e viceversa. La zecca è assorbita in modo totale dalla sua passione, e così non può vedere sé stessa assorbita dalla sua passione. È proprio l’assolutezza della sua passione che le impedisce di vedersi come appassionata. Una zecca che fosse capace di vedersi dall’altra parte della «bolla invisibile», cioè una zecca che potesse dislocarsi nei «dintorni», sarebbe capace di essere contemporaneamente sé stessa come zecca appassionata, e sé stessa come zecca che vede ciò di cui è appassionata. L’esperienza della temporalità consiste in questo scarto. L’animale umano, allora, può annoiarsi perché è un vivente che prova l’esperienza del tempo, e può provare questa esperienza perché la sua esistenza oscilla fra «ambiente» e «mondo». E questa oscillazione, infine, dipende dal fatto che fra sé e ciò di cui fa esperienza è sempre presente lo schermo del linguaggio. Fra la mano e la cosa c’è sempre, comunque, la parola che denota la cosa; ma una denotazione può essere vera, e allora la mano-parola afferrerà la cosa, ma può essere anche falsa, e allora la mano stringerà il vuoto. La parola allontana l’esperienza, la parola apre lo spazio 2  M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, Genova 1999, p. 208.

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che separa l’«ambiente» dal «mondo»3. Ecco il senso di quello che possiamo considerare un vero e proprio test per valutare l’umanità di un vivente: è umano quel vivente che può annoiarsi: «ciò che è noioso [...] [è] la temporalità in quanto tale. Ma questa temporalità non si trova accanto agli “oggetti” e ai soggetti, bensì costituisce il fondamento della possibilità della soggettività dei soggetti»4. La temporalità è il fondamento dei soggetti, e quindi dell’humanitas, come l’assenza di temporalità è il fondamento dell’animalitas. La zecca, allora, non si annoia, perché non può annoiarsi. Possono passare anni e anni, mentre rimane aggrappata appassionatamente al ramoscello dell’arbusto, senza però che tutto questo tempo la annoi. In realtà, dal punto di vista della zecca, i diciotto anni che abbiamo contato sul nostro calendario, dal suo punto di vista non sono affatto passati. Per la zecca non passa il tempo. La zecca vive la vita che vive. È in questa tautologia – ma che è una affermazione tautologica solo nella prospettiva della logica, ma la logica non si applica ad un vivente chiuso in un «ambiente» – che è racchiusa la potenza di vivere della zecca. A partire da questa radicale differenza qual è, secondo Heidegger, il tono emotivo della vita della zecca, o meglio dell’animale? Prendiamo un altro esempio, l’ape bottinatrice che si sposta di fiore in fiore in un prato primaverile alla ricerca del nettare da cui verrà poi prodotto il miele. Heidegger ci tiene a precisare che il suo volare non è disinteressato, ma risponde ad una funzione biologi3  F. Cimatti, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens, Verona 2011. 4  Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 208209.

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ca. Qui sta seguendo da vicino von Uexküll, quando sostiene che il «comportamento» animale (una azione umana, invece, per Heidegger è una «condotta») si svolge sempre all’interno di un ciclo funzionale. L’ape segue il profumo del fiore, perché il profumo è una «marca percettiva» che, nell’ambiente delle api, corrisponde alla «marca operativa» del succhiare il nettare. L’ape si posa su di un fiore, infine. Ma in che senso è un “fiore” quello su cui l’ape si è poggiata? Qui il problema è che tipo di ente sia, il fiore, per l’ape. Siccome è inserito nel ciclo funzionale del nutrimento, il fiore in realtà entra nella sua esperienza soltanto come innesco dell’azione che porterà al nettare. Il fiore, cioè, esiste per l’ape soltanto come passaggio verso qualcos’altro. In questo senso il fiore non viene percepito come fiore, come ente autonomo dotato di sue caratteristiche, come un certo colore, una forma, una consistenza tattile, un particolare profumo. Tutte queste caratteristiche del fiore sono accessibili solo uscendo dall’ambiente delle api, e spostandoci nei suoi «dintorni». Dentro la bolla ambientale dell’Apis mellifera, invece, il fiore compare solo come nutrimento. Poniamo che il fiore sia bello, nel senso che un essere umano lo definirebbe così: ammesso che un’ape possa percepire questa bellezza, dal suo punto di vista si tratterebbe di un carattere del tutto inessenziale del fiore, a cui non presterebbe nessuna attenzione. Per l’ape il fiore esiste soltanto come tappa di un ciclo funzionale, non di per sé, non in quanto fiore, cioè soltanto come nettare: «c’è un segno del fatto che l’ape constata il sussistere o non sussistere del nettare? Certo. Infatti attratta dal profumo del nettare, è rimasta sul fiore, ha iniziato a succhiare e ha smesso in un momento determinato. Ma questo è una prova del fatto che ha constatato il nettare come sussistente? Niente ­30

affatto, tanto più se c’è la possibilità, anzi la necessità, di interpretare questo fare come una pratica e un essersospinto e come comportamento – e non come condotta dell’ape in rapporto al nettare che sussiste o non sussiste più»5. Se fossimo in presenza di una «condotta» saremmo nella situazione in cui l’ape sceglie di volare ora qui ora là, di volta in volta attratta da una forma e da un profumo; quello dell’ape, però, è un «comportamento», cioè un «esser-sospinto» dal ciclo funzionale del nutrimento verso il fiore-nettare. In questo senso la sua è una passione totalizzante, perché non lascia alcuna alternativa, quando c’è la passione per fiore-nettare non è possibile nessun’altra passione. Tutta la vita dell’ape è la passione-fiore-nettare. Una passione talmente assorbente che l’ape si muove sul campo di fiori in preda ad una condizione di «stordimento», questa l’espressione che usa Heidegger. Uno stordimento peculiare, non come quello di una persona che ha sbattuto con violenza la testa, e che per qualche istante non si rende ben conto di quello che le è successo; questo è uno stordimento temporaneo, a cui segue – se la botta non è stata troppo forte – il recupero della coscienza, e quindi della presenza a sé. Lo «stordimento» dell’animale, invece, è una caratteristica permanente della sua vita. Torniamo all’ape, e al suo volo leggero e apparentemente svagato per il campo. Come farà, dopo essersi rifornita di nettare, a tornare al suo alveare? «Se si dice: l’ape tiene presente la posizione del sole, l’angolazione e la lunghezza del tratto di volo, dobbiamo considerare che il tener-presente, a prescindere da altro, è sempre un tener-si-presente di qualcosa per qualcosa – qui con   Ivi, p. 309.

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l’intento di ritrovare l’alveare posto in un luogo determinato. Ma proprio di questo l’ape non sa nulla»6. Non «sa nulla» nel senso che l’ape non tiene conto della sua posizione rispetto a quella del sole in modo esplicito e consapevole; l’ape segue le «marche percettive» che di volta in volta ne guidano il volo. L’ape risuona ad un flusso informativo che la trascina con sé7, che parte dal fiore-nettare e arriva fino all’alveare. Heidegger sembra quasi invidioso, quando descrive lo stato dell’ape mentre si affida al sole per trovare la sua strada: «l’ape è semplicemente abbandonata al sole e alla durata del volo, senza coglierli in quanto tali e utilizzarli, una volta colti, per delle riflessioni. Abbandonata ad essi può esserlo soltanto perché è spinta dall’istinto fondamentale del raccogliere cibo. Proprio in tale esser-spinta, e non in virtù di constatazioni e riflessioni, l’ape può esser stordita da ciò che il sole provoca in essa»8. L’ape è innamorata del sole, e come ogni vivente innamorato non perde certo tempo in ridicole «constatazioni e riflessioni» sull’oggetto del suo innamoramento. Siamo arrivati al punto, quell’animalitas da cui Heidegger vuole tanto prendere le distanze presenta i tratti dell’innamoramento, dell’abbandono dell’innamorato,­ che non frappone più, fra sé e ciò che ama, alcuno schermo, nessuna riflessione. Perché l’innamorato non deve constatare nulla, l’innamorato ama, punto e basta. Eccola l’immanenza, la completa aderenza della vita alla vita stessa, la tautologia che l’humanitas non riesce a sopportare:

  Ivi, p. 315.   J. Gibson, The Senses Considered as Perceptual Systems, Boston 1966. 8  Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 316. 6 7

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stordimento dell’animale significa dunque innanzitutto: essenziale sottrazione di ogni apprensione di qualcosa in quanto qualcosa, e dunque: in tale sottrazione, appunto, un esser-assorbito da..., stordimento dell’animale indica dunque innanzitutto il modo di essere in conformità al quale all’animale, nel suo riferirsi ad altro, è sottratta, o [...] stordita la possibilità di rapportarsi e di riferirsi ad esso, a questo altro, in quanto questo e quello, in quanto qualcosa di sussistente, in quanto un ente. E proprio perché all’animale è sottratta questa possibilità di apprendere ciò a cui si riferisce in quanto qualcosa, proprio per questo può essere assorbito dall’altro in questa maniera assoluta9.

Lo «stordimento è l’essenza dell’animalità»10, cioè l’animale è quel vivente che è in grado di vivere la pienezza del vivere in modo completo e «assoluto». Si può vivere questa pienezza perché ciò di cui si fa esperienza non è percepito o pensato in quanto oggetto determinato. L’ape è appassionata del fiore, cioè l’ape non pone alcuna radicale distanza fra sé ed il fiore, può perdersi nel fiore, così come si abbandona al sole. L’ape non è un soggetto che pone di fronte a sé un oggetto, il fiore o il sole; l’ape partecipa insieme al fiore ad un unico flusso energetico e vitale: «in virtù di questo esser-messo in ciclo l’animale si trova per così dire sospeso fra sé stesso e l’ambiente, senza sperimentare in quanto ente né l’uno né l’altro»11. 2. Addomesticarsi Il problema che l’animalità pone all’uomo, cioè a quel vivente che vive nel «mondo» ma, come Heidegger, rim  Ivi, p. 317.   Ibid. 11  Ibid. 9

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piange l’«ambiente», è quello di questa particolarissima modalità dell’esperienza che è racchiusa nella formula dell’ente in quanto ente. L’ape vede il fiore, ma non lo vede come ente determinato, separato da sé, dotato di una serie di caratteristiche indipendenti; lo percepisce da subito come il terminale implicito di un’azione dotata di un valore biologico. Non c’è da una parte l’ape e dall’altra il fiore (un Soggetto e un Oggetto), e in mezzo i pensieri dell’ape su quello che potrebbe fare con quel fiore: c’è immediatamente il flusso energetico unitario ape-fiorenettare. Le ricerche neurologiche confermano che, almeno nel cervello dei viventi dotati di mani, e di arti in generale, alla vista di un oggetto afferrabile si attivano non soltanto le aree visive ma anche e contemporaneamente quelle motorie, cioè quelle che controllano i movimenti delle mani: «la vista», ad esempio, «della tazzina» da parte di una scimmia «non sarebbe che una forma preliminare d’azione, una sorta di appello ad agire che, a prescindere dal fatto che venga corrisposto o meno, la caratterizza come qualcosa da prendere per il manico, con due dita, ecc., identificandola così in funzione delle possibilità motorie che essa racchiude»12. Si vede con le mani, ossia il senso di quello che si percepisce è direttamente e inestricabilmente connesso a quello che si può fare con quello che si vede. Non c’è dapprima una fase di pura percezione, in cui l’oggetto verrebbe esplorato in modo neutrale e disinteressato, a cui poi eventualmente seguirebbe una decisione motoria; fin dall’inizio vedere e agire procedono insieme. Ma se allora gli oggetti, negli ambienti animali, sono sempre «ipotesi d’azione»13, da dove spunta invece il 12  G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano 2006, pp. 47-48. 13  Ivi, p. 75.

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fiore in quanto fiore che Heidegger considera il marchio distintivo dell’humanitas? Perché occuparsi di un fiore in quanto fiore significa prenderlo in considerazione indipendentemente da quello che possiamo farci, con quel fiore. La modalità di relazione dell’in quanto è un modo neutrale, disinteressato, distaccato di avvicinarci al mondo. L’esistenza del fiore in quanto fiore presuppone quella di un soggetto in quanto Soggetto, come quella di un oggetto in quanto Oggetto; qui uno là l’altro, separati da un abisso di «riflessioni e constatazioni». Ecco, l’interrogativo che l’animalità pone all’humanitas è nella distanza incolmabile che il linguaggio scava fra la mano e ciò che stringe, e che si riflette nella distanza, altrettanto incolmabile, che separa l’io che dice “io” dal corpo di quello stesso “io”. Si tratta di vedere più da vicino, a questo punto, il processo dell’antropogenesi, quello attraverso cui un esemplare della specie Homo sapiens diventa un soggetto, cioè un corpo animale capace di dire, di sé, “io”. All’inizio c’è un corpo animale, di un piccolo di mammifero dotato di capacità cognitive e comportamentali sostanzialmente simili a quelle degli altri mammiferi14. Il processo comincia nel momento in cui questo corpo, che nasce quando il suo sviluppo cerebrale è ancora largamente incompleto15, entra in contatto con un particolare tipo di cure parentali, quelle che passano attraverso una mediazione semiotica, in particolare attraverso il linguaggio. La prima tappa di questo processo precede la nascita: al nascituro viene attribuito un nome. Da quel 14  E. MacPhail, The Evolution of Consciousness, Oxford (UK) 1998. 15  J. Thompson, G. Krovitz, A. Nelson, eds., Patterns of Growth and Development in the Genus Homo, Cambridge (UK) 2003.

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momento in poi la comunità in cui il piccolo umano verrà alla luce gli si rivolgerà usando quel nome (e gli altri che possono essere attribuiti in seguito). E così, prima ancora che cominci la vita sociale del nascituro, questi è già stato inglobato nella rete del linguaggio. C’è così il suo corpo carnale, con le attenzioni e le cure che riceverà dagli adulti, ma allo stesso tempo c’è anche il suo corpo simbolico, che si accompagna al nome, insieme a tutte le altre pratiche che lo segneranno: quel corpo deve imparare a vestire, mangiare, camminare, sedersi, sorridere, fare l’amore e così via. Fin dall’inizio c’è così un doppio registro nel processo di antropogenesi, uno corporeo e uno simbolico. La tappa decisiva in questo processo, però, è quella in cui questi due registri si incontrano: quando il piccolo umano comincia ad applicare su di sé le pratiche semiotiche che ha imparato ad usare con gli altri. Immaginiamo questa situazione: un bambino, già in grado di parlare, e il gatto di casa. C’è il gatto, che dalla sedia spinge guardingo una zampa sul bordo del tavolo, e c’è il bambino, che tante volte l’ha sentito dire dai suoi genitori, che dice al gatto “no, non si può salire sul tavolo”. Il bambino ripete quello che ha ascoltato dagli adulti, usa il linguaggio come forma di potere, per vietare qualcosa ad un’altra corporeità, quella del gatto. Un’altra volta succede che il bambino ha fame, sa che nella dispensa c’è della cioccolata, sa che non ci sono adulti in giro, e che se si muove velocemente non se ne accorgerà nessuno. Ma sa anche che sua madre non vuole che mangi prima di cena, perché poi lascia tutto nel piatto, e lei si arrabbia con lui. C’è la fame, c’è la cioccolata. Ma c’è anche quel “no”, che ha imparato ad usare con tanto piacere con il gatto. Ecco, siamo al punto, il bambino sta per aprire la dispensa, ma gli viene in mente quel “no”, non c’è nemmeno bisogno ­36

che se lo immagini, risuona lo stesso nell’improvvisa irresolutezza dei suoi gesti. Alla fine, dopo una lunga esitazione, lascia stare, la cioccolata rimane nella dispensa. Il linguaggio ha parlato per lui anche se nessun adulto ha effettivamente parlato. Perché ora non c’è più bisogno di un adulto per ascoltare quel “no”, ora può usarlo anche da solo, ora il linguaggio parla da solo. Ora il “no” non controlla più il corpo del gatto, ora il “no” controlla il suo stesso corpo, come prima facevano i genitori con lui. Solo che adesso non serve più la presenza dei genitori per vietargli qualcosa, ci riesce da solo. Qui è da sottolineare che è proprio il gesto linguistico del “no” a dividere in due la corporeità del bambino, perché d’ora in poi ci sarà sempre un qualche “no” pronto ad intervenire per vietare qualcosa, o un “sì” per consentirlo. Attraverso il “sì” e il “no” il bambino ha lasciato il suo «ambiente» naturale, quello in cui alla percezione si accompagnava senza intervalli l’azione, ed è entrato nel «mondo»; dire, del corpo che si è, ora “sì” ora “no” significa infatti essersi staccati da quella stessa corporeità, ed essere diventati capaci di osservarsi dall’esterno; il bambino che si dice “no” si è spostato nei «dintorni» del suo ambiente originario, e proprio perché ne è fuori può valutarlo, e quindi accettarlo come rifiutarlo. Ora davvero il bambino ha un corpo, perché di quel corpo può disporre. Nel processo dell’antropogenesi questo passaggio è senza ritorno: animalitas significa essere il corpo che si è, e oltre questo corpo non c’è altro (immanenza del corpo a sé stesso); l’humanitas consiste invece esattamente in questo sdoppiamento, per cui il corpo che si era diventa ora il corpo che si ha, un corpo-cosa a disposizione di quella strana entità capace di dire “io” (trascendenza del soggetto rispetto al corpo): «se per l’animale è lecito identificare l’essere e il corpo, per la specie umana non ­37

lo è. Concerne lo statuto del corpo parlante: il corpo non rileva dell’essere bensì dell’avere»16. Essere un corpo significa non sapere di essere quel corpo, come succede alla zecca nella sua «bolla invisibile». Significa che vedere un oggetto è già un tentativo di afferrarlo, significa che il corpo è sempre uno, che non c’è mai la possibilità di essere in anticipo, o in ritardo, su di esso. Questo è il corpo della zecca, appunto, o il corpo dell’ape abbandonato al calore del sole, il corpo stordito che è semplicemente il corpo che è. Quando il bambino del nostro esempio diventa capace di parlare a sé stesso non sta semplicemente imparando un nuovo e più complesso uso del linguaggio: sta cambiando la sua natura corporea. Potersi dire “no” o “sì” significa allontanarsi per sempre dal corpo, e significa anche cambiarne lo statuto, che ora diventa una cosa a disposizione. Un passaggio che coincide con l’acquisizione della capacità di volgere il potere e la violenza normalizzatrice del linguaggio su sé stessi; un passaggio che significa che il bambino è diventato l’adulto di sé stesso, il proprio stesso controllore (in questo senso l’angelo custode è un poliziotto che non ha bisogno del manganello). E, come aveva ben compreso Heidegger, senza linguaggio non ci sarebbe passaggio da «ambiente» a «mondo». In questo senso il punto di svolta non è rappresentato dalla semplice acquisizione del linguaggio; soltanto quando il linguaggio diventa autocontrollo il piccolo umano abbandona l’animalitas per entrare nella humanitas: «il soggetto, a partire dal momento in cui è soggetto del significante [cioè del linguaggio], non può identificarsi con il proprio corpo ed è da lì che prende il via il suo 16  J.-A. Miller, Biologia lacaniana ed eventi di corpo, in «La psicoanalisi», 28, 2000, p. 23.

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affetto per l’immagine del suo corpo. L’enorme bolla narcisistica, caratteristica della specie [umana], procede dal difetto di identificazione soggettiva con il corpo»17. Alla «bolla» in cui vive la zecca nel suo «ambiente» subentra ora la «bolla narcisistica», all’interno della quale vive il soggetto che dice “io”, che tanto più ha bisogno di promuovere la propria immagine quanto più è separato dal proprio corpo. È la bolla che accompagna il vivente del «mondo», che proprio perché privo di un «ambiente» non sa letteralmente dove stare, né tantomeno come starci: vivere in un «mondo» significa infatti non avere nessuno (per la zecca ci pensa l’«ambiente») che indichi quel che è necessario fare, e perché. E così, questo “io” ad un tempo dispotico – perché può mantenersi come “io” solo continuando a comandare il corpo – e fragile – perché l’assenza di un ambiente lo priva di ogni riferimento stabile e sicuro che orienti le sue scelte e le sue azioni – non ha altro modo per mantenersi in vita che rifugiandosi in una «bolla narcisistica». Solo rimirandosi nello specchio, infatti, nella propria immagine, questo “io” può provare a riconoscersi; non essendo un corpo, prova allora ad averne uno, ma l’unico corpo che può avere è quello immaginario che gli offre lo sguardo altrui. E così ritorna la trascendenza, il corpo che dice “io” può trovare sé stesso solo nell’altro, fuori e oltre di sé appunto. Un altro irraggiungibile, però, perché la frattura che il linguaggio installa nel corpo umano non è ricomponibile, non è una ferita che possa essere rimarginata, è l’essenza stessa dell’umano essere attraversato da questa «faglia dell’identificazione tra l’essere e il corpo»18.   Ivi, p. 24.   Ibid.

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È stato Lacan, lettore attento di Heidegger, a trarre le conseguenze ultime di questa premessa antropologica: il soggetto umano nasce come effetto di una frattura, quella fra “io” e corpo, frattura che genera una animalitas che scopre di essere animalitas (in questo consiste, propriamente, l’humanitas). La trascendenza compare nella vita umana come effetto del linguaggio sul corpo, allontanando il soggetto dal corpo, perché dire “io” significa lasciare il corpo e accedere alla possibilità di vedersi dall’esterno del corpo, possibilità che alla zecca sembra preclusa. Lacan sottolinea come questa operazione implica assumere, per scoprire sé stessi, lo sguardo dell’altro; vedersi da fuori significa vedersi come ci vedono gli altri, così come il bambino che dice “no” al suo desiderio lo dice con le parole dei genitori, e così il suo parlare è sempre quello di un ventriloquo: «l’Altro è colui che mi vede»19. Con Lacan collochiamo la frattura, la «faglia», come lui la chiama, all’interno stesso della soggettività umana: Homo sapiens è questa faglia. Il paradosso dell’animale che dice di sé “io”, l’unico che abbia il coraggio e la sventatezza di affermare la propria individualità, non accontentandosi di incarnarla, è che questo gesto lo condanna a perdere immediatamente quello stesso “io” orgogliosamente proclamato appena un attimo prima: il corpo che dice “io”, infatti, perde subito ciò che indica, perché l’io in realtà dipende dal «desiderio dell’Altro»20. L’effetto del passaggio dall’animalitas alla humanitas comporta che l’“io”, come scrive Freud, «non è padrone in casa propria»21; l’affermazio19  J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre X. L’angoisse, Paris 2004; trad. it. Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, Torino 2007, p. 26. 20  Ibid. 21  S. Freud, Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse, in «Imago», 5

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ne è curiosa, perché quella è comunque la casa dell’“io” e, tuttavia, in quella casa non è l’“io” che comanda. Essere Homo sapiens significa avere la possibilità di avere una casa di cui dirsi padroni, ma in quello stesso atto c’è una clausola maligna, che impegna ad accettare che un altro sia il padrone della nostra casa: puoi avere una casa tua solo a condizione di rinunciare ad averla. Il paradosso dell’antropogenesi è in questo doppio movimento, ricevere e perdere esattamente nello stesso istante: già nella piccola immagine esemplare da cui parte la dimostrazione dello stadio dello specchio – quel momento detto giubilatorio in cui il bambino, venendo a cogliersi nell’esperienza inaugurale del riconoscimento allo specchio, si assume come totalità che funziona in quanto tale nella sua immagine speculare –, non ho forse da sempre ricordato il movimento che fa il bambino? [...] [E]gli si volta [...] verso colui che lo sostiene e che sta dietro di lui. Se cerchiamo di assumere il contenuto dell’esperienza del bambino e di ricostruire il senso di quel momento, diremo che, con tale movimento di rotazione della testa che si volta verso l’adulto come per fare appello al suo assenso, e che poi ritorna verso l’immagine, egli sembra domandare a colui che lo sostiene – e che rappresenta qui il grande Altro – di ratificare il valore di quell’immagine22.

3. Alla fine c’è “io” L’antropogenesi è il processo che porta un vivente a dire “io”, ciò che significa uscire da sé, dal flusso del proprio vivere, e vedersi dall’esterno. Apparentemente c’è sempre un solo corpo, quello che agisce nell’«ambiente» (1), 1917, pp. 1-7; trad. it. Una difficoltà della psicoanalisi, in Opere, vol. 8, Torino 1964, p. 663. 22  Lacan, Il seminario. Libro X, cit., p. 36.

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e quello che dice “io”, in realtà è un corpo diviso in due. Il rimpianto – e il desiderio – dell’immanenza comincia qui. Ma qual è il riferimento, la denotazione, del pronome “io”? Torniamo al bambino che abbiamo già incontrato, che esita nel compiere il passo che lo trasporterà nella humanitas, quello in cui non serve più che sia un altro in carne ed ossa a controllarci, perché ora il controllore è dentro di noi, siamo noi stessi a controllarci. Fino ad un certo punto la sua vita è stata come quella della zecca, per certi versi più ricca, per altri più povera, ma è stata comunque una vita di potenza e passione. Quel bambino vive in un «ambiente» in cui ci sono cibo, calore, dolore, carezze. Un «ambiente» pieno, di cui il suo corpo, un corpo che ignora di avere, limitandosi ad esserlo, occupa stabilmente il centro, ma anche qui, senza sapere che nell’«ambiente» si possano occupare altre posizioni. Poi arriva la parola. Ma non qualunque parola, perché c’è anche un linguaggio che si incastra con l’«ambiente», come quello delle api, un linguaggio che dice dove c’è il fiore, e quanto è lontano23. Un linguaggio pieno come l’ambiente della zecca. E difatti in questo linguaggio, a quanto se ne sa, non è possibile mentire, cioè non è possibile produrre un enunciato falso. Nella lingua del bambino, invece, ci sono delle espressioni particolari, come i pronomi “io” e “tu”, che non hanno un riferimento fisso. Ora è la madre che parla, e dice “io”; poi è il padre a prendere la parola, e anche lui, adesso, dice “io”. Non solo, quando parlava la madre si rivolgeva al padre indicandolo con il “tu”, 23  F. Cimatti, Come è fatto un linguaggio animale. Due casi a confronto: il linguaggio delle api e il linguaggio verbale, in S. Gensini, a cura di, Manuale di semiotica, Roma 2004, pp. 209-231.

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quando parla il padre è la madre ad essere indicata con il “tu”. Ecco, la prima scoperta, non proprio rassicurante: “io” e “tu” non sono come i nomi, che invece rimangono attaccati a chi li porta, non sono separabili da chi li porta. Chi è “io” allora? Il bambino, a sua volta, comincia a diventare un “tu” dei discorsi altrui. Poi, un giorno, diventa anche lui un “io”. Semplicemente, senza fare tante storie, ha preso la parola. Ed ecco la sorpresa, basta parlare e si diventa un “io”. Non serve altro, basta parlare, e immediatamente si diventa un “io”, e colui a cui parliamo diventa un “tu”. Ma l’eccitazione dura poco, perché appena il bambino prende fiato ecco che il “tu” a cui stava parlando diventa a sua volta un “io”, e il bambino torna ad essere un “tu”. Qual è il significato, allora, di questa strana e sfuggente parola? «Qual è quindi la “realtà” alla quale si riferiscono io o tu? Unicamente una “realtà di discorso” [...]. Io può essere definito solo in termini di “parlare”, e non in termini di oggetti, come lo è invece un segno nominale. Io significa “la persona che enuncia l’attuale situazione di discorso contenente io”»24. “Io” è colui che prende la parola, e quindi “io” non si riferisce ad un oggetto particolare, al contrario, “io” si riferisce a sé stesso. Mentre un normale «segno nominale» indica un certo oggetto (o una certa classe di oggetti), “io”, invece, è il segno linguistico che compie una torsione su sé stesso, e indica lo stesso corpo che sta dicendo “io”. In questo senso ci sono tanti “io” quanti sono i parlanti, perché questo segno è a disposizione di tutti coloro che sono in grado di usare la lingua. Ma allora, che cosa è veramente l’“io”? «È nella situazione di discorso in cui 24  E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Milano 1994, p. 302.

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io designa il parlante che quest’ultimo si enuncia come “soggetto”. È quindi vero alla lettera che il fondamento della soggettività è nell’esercizio della lingua. Se ci si riflette seriamente, si vedrà che non vi sono altre testimonianze oggettive dell’identità del soggetto fuorché quella che in tal modo egli stesso dà su sé stesso»25. La conclusione è desolante, il bambino è un “io” soltanto perché dice “io”. Aveva appena vissuto l’ebbrezza di sentirsi un “io” e subito scopre avvilito che non è certo il solo “io” in circolazione. Fino a quel momento era stato al mondo, come la zecca di von Uexküll, senza porsi tanti problemi, viveva, e questo era tutto. Ora scopre che, oltre a vivere, c’è anche – in un certo senso – una possibilità di vita che si colloca a lato della vita di prima; scopre, ad esempio, che se ha fame può anche dire “ho fame”. Il fatto è che dicendo che ha fame scopre di avere fame (eccolo, il passaggio da essere un corpo ad avere un corpo). Ma avendolo scoperto si accorge che può anche prendere la decisione di rinviare il momento della merenda, perché vuole continuare a giocare con i suoi amici, oppure che comunque non è il caso di mangiare altra cioccolata, perché l’altra sera ne ha mangiata troppa, e poi è stato male. Diventare un “io” aggiunge un fattore alla sua vita, un fattore di cui – finché, come la zecca, si accontentava di vivere la vita che stava vivendo – non aveva sentito certo la mancanza; ma ora che l’ha scoperto si accorge che non è più possibile tornare alla condizione precedente, perché anche se non la vuole usare più, quella parola, ebbene anche in questo caso ormai l’ha scoperta, ormai è diventato un “io”. E quan  Ivi, p. 314.

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do ci si accorge di avere un corpo non è più possibile far finta di non averlo. Vedremo andando avanti che il nodo dell’immanenza è tutto intorno a questo problema: come immaginare una condizione di immanenza a partire dalla trascendenza? “Io” è la denotazione dello stesso atto linguistico che contiene il pronome “io”. Ma questo auto-riferimento, in realtà, non è affatto una dichiarazione di autonomia. “Io” infatti esiste solo perché c’è un “tu” che conferma e «ratifica», come aveva scritto Lacan, il fatto di essere “io”. Ma questo significa appunto che il gesto con cui il corpo dice di sé “io” non è affatto un gesto sovrano: senza l’altro che accetta di essere il momentaneo “tu” del corpo che si dichiara “io”, la auto-proclamazione non è valida. Io sono “io” solo perché “tu” mi confermi che lo sono. La soggettività appena guadagnata dal corpo capace di identificarsi come “io” passa in realtà per il corpo di un altro, di un “tu” qualunque, senza il quale il mio gesto non significa nulla. Ma “tu”, come peraltro “io”, non sono altro che «categorie del linguaggio»26; la materia della soggettività è una catena di atti linguistici. Questo “io” durerà finché il gesto auto-referenziale verrà reiterato. Non solo, allora, la parola spezza l’unitarietà e la pienezza dell’esperienza originaria dell’«ambiente», ma lascia la nuova soggettività in una condizione di perenne fragilità; è sufficiente che “tu” smetta di riconoscermi il diritto di dire “io” che subito “io” vacilla, proprio perché non riesce a stare in piedi da solo. La trascendenza che il linguaggio introduce nella humanitas si colora adesso di violenza, perché la tenta  Ivi, p. 303.

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zione dell’immanenza, della pienezza che aderisce alla vita, della animalitas (che peraltro l’umano non ha mai conosciuto, perché è l’animale che parla, la sua storia linguistica comincia prima ancora della nascita, con il nome che gli viene assegnato) va sempre di nuovo combattuta. Esemplare, in questa prospettiva, il modo in cui il più grande psicologo del ’900, Lev S. Vygotskij, compara – e già l’idea di un confronto del genere è insieme tremenda e chiarificatrice – tre animots: la scimmia, l’uomo primitivo e il bambino. Il libro cerca di raccontare le differenze fra l’intelligenza naturale della scimmia, in particolare degli scimpanzé, e quella degli animali umani. La tesi di Vygotskij è che il passaggio fra le due forme di intelligenza è segnato dall’acquisizione del linguaggio, ma non come semplice strumento di comunicazione, ché anche gli scimpanzé lo possiedono, bensì come strumento di controllo del proprio stesso comportamento. L’umano, è questa la tesi del libro, è l’animale che, mediante il linguaggio usato come comando interiore (il bambino che si dice “no”), riesce ad addomesticare sé stesso. Al contrario, «il pensiero dello scimpanzé è completamente indipendente dal linguaggio»27. Eccola, la posta in gioco, il rapporto fra corpo e linguaggio. Con l’apparizione del linguaggio appare per la prima volta nella storia umana uno «sdoppiamento della linea del suo sviluppo»28; da un lato permane la linea «psicologico-naturale», che ritroviamo anche negli altri animali (perfino nella zecca, fatte le debite propor27  L.S. Vygotskij, A.R. Lurija, Etjdy po istorii povedenija, Moskwa 1930; trad. it. La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, Firenze 1987, p. 54. 28  Ivi, p. 4.

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zioni), dall’altro la linea «psicologico-culturale», che è invece propria dell’umano, e che passa per «il lavoro e lo sviluppo, ad esso collegato, del linguaggio [specificamente] umano e di altri segni psicologici, mediante i quali l’uomo primitivo cerca di dominare il [proprio] comportamento»29. La funzione principale del linguaggio nella specie Homo sapiens non sarebbe allora la comunicazione, bensì quella di «dominare» sé stessi. La posta in gioco è il controllo delle proprie reazioni immediate, appunto, il controllo del corpo. Si pone ad uno scimpanzé affamato un problema, o almeno, quello che l’addestramento dello psicologo che progetta l’esperimento lo ha portato a considerare un problema30: in un angolo del pavimento fuori della gabbia in cui lo scimpanzé è rinchiuso c’è un frutto, e, nell’angolo opposto, c’è un bastone. Il frutto non si può afferrare sporgendo la mano fra le sbarre, mentre il bastone sì. Lo psicologo pensa che allo scimpanzé verrà in mente di usare il bastone per tirare a sé il frutto. Lo scimpanzé, invece, non la pensa così, e dopo aver invano provato a sporgere il braccio fra le sbarre per afferrare il frutto, si ritira corrucciato nel fondo della gabbia. Oggi sappiamo spiegare questo comportamento31: gli animali vedono azioni possibili, non oggetti (lo scimpanzé, direbbe Heidegger, non vede il frutto in quanto frutto), e quindi lo scimpanzé ha cercato di afferrare il frutto; ma l’esperimento è invece pensato per rendere questa reazione spontanea inutile e anzi controproducente: «qui si scopre un dettaglio curioso: la scimmia riesce a risolvere l’esperimento solo se il frutto ed il bastone sono vicini   Ibid.   Cfr. V. Despret, Penser comme un rat, Versailles 2009. 31  Rizzolatti, Sinigaglia, So quel che fai, cit. 29 30

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uno all’altro, nello stesso campo visivo, quando tra loro vi è un contatto ottico. Infatti basta solo spostare il bastone ad una distanza tale da non permettere alla scimmia di abbracciare con uno sguardo lo strumento e la meta, che la soluzione di questo problema si dimostra per la scimmia quasi impossibile»32. In realtà l’esperimento ha lo scopo di mostrare che nel «mondo» umano lo sguardo-azione che nell’«ambiente» è così efficace è invece del tutto inadatto: per risolvere il «problema» (ecco un’altra definizione dell’umano, quello che trasforma la natura in una serie di problemi da risolvere), lo scimpanzé avrebbe infatti dovuto fermare la sua reazione spontanea, il gesto naturale di afferrare con la mano il frutto. In questo consiste il momento inaugurale dell’humanitas, bloccare il corpo e rinviare l’azione. Poi si sarebbe dovuto guardare intorno, alla ricerca di un mezzo per risolvere il «problema». Per questa ragione lo psicologo previdente, ma anche un po’ maligno, aveva buttato là per terra il bastone. Ma il bastone dello psicologo non è lo stesso bastone dello scimpanzé: per quest’ultimo è un afferrabile, che però in questa situazione non serve a nulla, e difatti viene ignorato; per lo psicologo, invece, è uno strumento, ossia il segno di qualcos’altro, il mezzo che permette di avvicinare il frutto alla mano. Si oppongono qui due modi completamente diversi di essere corpo: quello di chi si abbandona alla pienezza del flusso percettivo, e quello di chi, invece, considera il «mondo» come una specie di officina, come trasformazione, come «lavoro». Ecco la differenza fondamentale, lo psicologo – che qui incarna l’uomo – con gli occhi propriamente non vede 32  Vygotskij, Lurija, La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino, cit., p. 19.

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bensì lavora. Si comprende anche quanto debba essere violenta questa trasformazione: il corpo «stordito» dello scimpanzé deve essere letteralmente ristrutturato per sopportare questo cambiamento, per smettere di vedere con gli occhi-mani e divenire un corpo vigile, riflessivo, analitico: «nello sviluppo psichico dell’uomo, dal momento in cui compare l’invenzione e l’uso dei segni, che consentono all’uomo di dominare i processi del proprio comportamento, la storia dello sviluppo del comportamento si trasforma in buona parte nella storia dello sviluppo di tali “strumenti del comportamento” ausiliari, artificiali, nella storia del dominio, da parte dell’uomo, del proprio comportamento»33. La storia del linguaggio è «la storia del dominio [...] del proprio comportamento». Ecco perché ce l’abbiamo così tanto con gli animali e l’animalitas, perché quel dominio lo subiscono, ma come violenza estranea, non come scelta che tutti i giorni deve essere ribadita e celebrata.   Ivi, p. 59.

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Rabbia e nostalgia

Ora, se la vita è cosa più perfetta che il suo contrario, almeno nelle creature viventi; e se perciò la maggior copia di vita è maggiore perfezione; anche per questo modo seguita che la natura degli uccelli sia più perfetta (G. Leopardi, Elogio degli uccelli, in Operette morali [1827], Milano 1976, p. 185).

1. Perché loro sì e noi no? Quello che è impensabile, nell’animale, è che possa vivere semplicemente vivendo. Formarsi attraverso la macchina antropogenica significa, l’abbiamo appena visto, che l’«ambiente» diventa «mondo». Nell’«ambiente», si pensi alla sconsiderata sicurezza con cui un gabbiano si getta nel vuoto dal suo nido su una scogliera a picco sul mare, quel che si percepisce è già una azione; fra occhio e ala, per rimanere a questo esempio, non c’è distanza, e per questo non c’è nemmeno timore o esitazione. Questo significa che non esiste lo spazio, che per l’umano è infinitamente ampio, che separa il progetto dalla sua realizzazione, l’occhio dalla mano appunto. ­50

L’«ambiente» non è nemmeno la casa dell’animale, perché questo vorrebbe dire che fuori di esso dovrebbe esserci un luogo segnato invece dall’estraneità ostile. La coppia interno/esterno, e quindi l’opposizione fra familiare e straniero, amichevole e nemico, vale nel «mondo», non nell’«ambiente». Il «mondo» diventa così un peso ma anche un vanto, perché solo l’umano «ha» un mondo, mentre – nella descrizione semplificata e un po’ sbrigativa di Heidegger, che si dimentica del tutto dei vegetali – la «pietra (l’ente-materiale) è senza mondo» mentre l’animale «è povero di mondo»1. Dove Heidegger voglia arrivare si capisce dal trattamento che riserva alla pietra, che in questo sommario confronto fra animalità e umanità compare solo per attenuare la distanza altrimenti incolmabile che li separerebbe: «la pietra giace sul sentiero. Diciamo: la pietra esercita sul suolo una pressione. Nel farlo “tocca” la terra. Ma ciò che qui chiamiamo “toccare” non è un tastare. Non è quella relazione che una lucertola ha con una pietra, quando giace al sole sopra di essa. E questo toccarsi di pietra e suolo è ancor meno quel toccare che sperimentiamo noi quando la nostra mano poggia sulla testa di un’altra persona»2. Gli esempi sono quantomeno curiosi. Intanto torna il sole, la lucertola si crogiola al sole, come l’ape che abbiamo già incontrato si abbandona ai raggi solari per ritrovare la via dell’alveare. Sembra che in questo farsi riscaldare ci sia qualcosa che turba Heidegger, per l’animalità il sole è prima di tutto calore, immediatamente. Poi c’è il toccare della mano sulla testa di una persona. In realtà sembra più 1  M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, Genova 1999, p. 232. 2  Ivi, p. 255.

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un gesto che afferma una relazione gerarchica, un gesto paternalistico, la «nostra» mano sulla testa di qualcuno che non può rifiutare di farsela toccare. Il «mondo» è allora qualcosa che si fa, infatti «l’uomo è formatore di mondo»3. La differenza, con animali e pietre (e il confronto è davvero bizzarro, mettere insieme lucertole e sassi per poter affermare che l’uomo è un animale speciale), è tutta qui: per la pietra il mondo è già lì, non deve fare nulla al mondo, perché va bene com’è: giacendo sulla terra, essa non la tasta. La terra per la pietra non è data come sostegno, come ciò che sorregge quella, la pietra, e tanto meno poi in quanto terra, né la pietra può certo, nel giacere, compiere ricerche intorno alla terra in quanto tale. La pietra giace sul sentiero. Se la gettiamo sul prato vi rimane ferma. La scagliamo in una fossa piena d’acqua. Va giù e resta sul fondo. La pietra si trova, a seconda delle circostanze, ora qua ora là tra e in mezzo ad altre cose, in modo tale che ciò tra cui sussiste non le è, per essenza, accessibile. Poiché la pietra, nel suo essere-pietra, non ha alcun accesso alle altre cose, tra le quali si trova, così da raggiungerle e possederle in quanto tali, essa non può neppure, in generale, farne a meno. La pietra è, cioè è questa e quella, e in quanto tale è qui e là, oppure non è presente4.

Che c’è che non va nella pietra? Se ne sta lì dove è capitata, accetta senza fare storie di essere gettata nella fossa piena d’acqua (sembra che Heidegger proprio non sopporti la passività della pietra), rimane accanto alle altre pietre vicino a cui è rotolata. Soprattutto, e questo è un punto che già avevamo notato (l’ape che si abbandona al sole senza «riflessioni e constatazioni»),   Ivi, p. 230.   Ivi, pp. 255-256.

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la pietra non ha alcun bisogno di «compiere ricerche intorno alla terra in quanto tale». La pietra se ne sta al mondo, le è capitato così, non c’è molto da spiegare né da girarci intorno. È proprio questo che l’humanitas non sopporta della pietra, lo stare al mondo senza «ricerche», lo starci e basta. Talmente non lo sopporta, perché rappresenta una esistenza completamente diversa da quella formatasi attraverso la macchina antropogenica, che per una volta è migliore anche la vita di una lucertola: «la lucertola», infatti, «non è semplicemente presente al sole sulla pietra riscaldata. Ha cercato quella pietra, è solita cercarla. Spostata via da lì, non rimane ferma in nessuna parte, la cerca di nuovo [...]. Al sole prende il sole. Diciamo così, anche se è dubbio che nel farlo, si comporti come noi, quando stiamo sdraiati al sole, che il sole le sia accessibile in quanto sole, che possa sentire la lastra di roccia in quanto roccia»5. La lucertola cerca il calore del sole, e, diversamente dalla pietra, che quando finisce all’ombra non si sposta per cercare di nuovo il sole, si muove per andarlo a cercare quando non lo trova. Ma anche la lucertola non fa il suo mondo, perché si limita a sfruttare le opportunità che questi già le offre6. Pietra e lucertola stanno nel mondo che c’è, non hanno bisogno di un mondo che non c’è. Da questo punto di vista Heidegger ci tiene a precisare che il sole, per la lucertola, non è il sole in quanto sole, non è cioè un ente autonomo, una stella, un oggetto fisico dotato di caratteristiche proprie, il sole per la lucertola   Ivi, p. 356.   In realtà ogni forma vivente modifica e costruisce il proprio ambiente, non solo l’animale umano; cfr. J. Odling-Smee, K. Laland, M. Feldman, eds., Niche Construction: The Neglected Process in Evolution, Princeton 2003. 5 6

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è semplicemente e immediatamente – senza «riflessioni e constatazioni» né «ricerche» – luce e calore. Il «mondo», per l’uomo, è un insieme di enti «in quanto enti», che sono a sua disposizione proprio per questa ragione. Solo un ente, pensato come entità indipendente, può essere preso in considerazione per scopi diversi da quelli che appaiono immediatamente quando lo si percepisce. Si pensi allo scimpanzé analizzato da Vygotskij nel capitolo precedente, che non riesce ad usare il bastone per avvicinare il frutto alle sbarre della gabbia. Non ci riesce proprio perché non vede il bastone in quanto bastone, come oggetto lungo e affusolato che, grazie a queste caratteristiche intrinseche, può essere usato anche come strumento; lo vede invece solo come qualcosa di afferrabile, un qualcosa che nel contesto della situazione in cui si trova non ha però alcuna funzione, e pertanto non gli presta attenzione. L’animale è «povero di mondo» proprio perché gli enti in quanto enti non gli interessano; infatti per la lucertola «la lastra di roccia sulla quale [...] si posa, non è [...] una lastra di roccia che possa essere oggetto di ricerca mineralogica» così come «il sole in cui essa si riscalda non le è dato in quanto sole, così che essa possa porsi domande e fornire risposte di carattere astrofisico»7. Il punto è, e la questione dell’animalità dell’uomo forse è tutta racchiusa in questa domanda elementare, perché il corpo di un vivente per scaldarsi al sole dovrebbe potersi porre «domande [...] di carattere astrofisico»? Che sproporzione fra il gesto, un corpo infreddolito che si stende al sole, un gesto accessibile ad ogni animale, e invece la condizione che, solo per l’animale uma  Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 256-

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no, sarebbe necessaria per potersi concedere quello stesso gesto. C’è quindi una specie di risentimento nei confronti dell’immediatezza della vita animale, proprio perché può riscaldarsi al sole senza doversi porre tante domande: il sole scalda, è tutto quello che c’è da sapere, del sole: «il filo d’erba sul quale un maggiolino si arrampica correndo, non è per quest’ultimo un filo d’erba, né una possibile parte di una balla di fieno che il contadino dà da mangiare alla sua mucca, bensì il filo d’erba è un sentiero per maggiolini, sul quale esso non va in cerca di un qualcosa da mangiare, bensì di cibo per maggiolini»8. Viene da chiedersi: perché il maggiolino dovrebbe porsi tante domande, sul filo d’erba su cui si arrampica? Perché non dovrebbe bastare, per il maggiolino, la ricerca di cibo per maggiolini? Al contrario, l’uomo si trova nella situazione opposta: «l’esser-ci nell’uomo forma il mondo: 1. lo produce; 2. dà un’immagine, una visione di esso, lo rappresenta; 3. lo costituisce, è ciò che lo circonda, che lo abbraccia»9. Come se, anche per scaldarsi al sole, l’animale umano non potesse non passare, comunque, per la mediazione artificiosa ma inevitabile della condizione di formatore di mondo. Ho freddo, vorrei scaldarmi al sole, ma anche quando finalmente riesco a stendermi per espormi al suo calore, anche in questo caso permane in me la oscura ma fastidiosa consapevolezza che il sole è un ente in quanto ente, sul quale – benché ora non me le ponga, perché ho davvero troppo freddo – potrei pormi interessanti domande «di carattere astrofisico». E così anche il semplice e diretto piacere provocato dal calore del sole che mi   Ivi, p. 257.   Ivi, p. 365.

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scalda il corpo, anche questo piacere così elementare, così animale, ebbene anche questo piacere è comunque disturbato dal fatto che il sole, per me, è comunque un ente in quanto ente. L’humanitas non mi lascia mai in pace, mai. Da qui, dalla sensazione di fatica che la condizione umana comporta, ché appunto impedisce la possibilità di stare al mondo così come una pietra poggia per terra, o una lucertola si scalda al sole, deriva allora il rovesciamento: non è l’animale umano ad essere imprigionato nella gabbia dell’in quanto, una gabbia invisibile fatta di linguaggio e “io”, una gabbia molto più asfissiante della «bolla invisibile» dell’«ambiente» animale, no, è tutto il contrario: «l’animale è, per la durata della sua vita, imprigionato nel suo mondo-ambiente come in un tubo che non si allarga, né si restringe»10. Una affermazione che dallo stesso punto di vista di Heidegger è del tutto ingiustificata (oltre al fatto che in quel tubo ce lo conficca letteralmente l’uomo11). Perché l’«ambiente», per chi vive al suo interno, non è percepito come qualcosa di chiuso; quello della zecca è un «ambiente» proprio perché la zecca ignora completamente che possa esistere un ambiente accanto ad altri ambienti. Ricordiamo che von Uexküll lo definisce come una «bolla invisibile». Ma allora, ammesso anche che l’animale viva al suo interno, se la bolla è invisibile, per la zecca non esiste nessuna bolla. È solo dal punto di vista di Heidegger che l’animale può essere definito come «imprigionato». Si può desiderare di scappare solo da una prigione, se   Ivi, p. 258.   Cfr. C. Patterson, Eternal Treblinka: Our Treatment of Animals and the Holocaust, New York 2002; trad. it. Un’eterna Treblinka, Roma 2003. 10 11

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l’animale non sente di vivere imprigionato non sente nemmeno il bisogno di evadere. Di fatto, se c’è un vivente libero questo è proprio l’animale. Quella di Heidegger sembra tanto una proiezione, l’attribuzione ad un altro del proprio stato d’animo. In effetti succede spesso, quando si parla dell’animalità, che il punto di vista dell’uomo sia colorato, più o meno indirettamente, di un vago senso di perdita, se non di nostalgia. Torniamo per un momento allo psicologo marxista Vygotskij12, che racconta con l’ottimismo rivoluzionario del processo storico attraverso il quale «parallelamente al più alto grado di dominio della natura, la vita sociale dell’uomo e la sua attività lavorativa cominciano ad esigere dall’uomo anche il dominio sul proprio comportamento»13. La posta in gioco – che poi è il nucleo fondamentale del progetto umanistico – è, senza tanti giri di parole, il dominio della natura da un lato, e dell’uomo stesso (ed in particolare del suo corpo) dall’altro. Ma se l’animale è del tutto incapace di questa auto-domesticazione, cosa succede al bambino, così pericolosamente sospeso fra animalitas e humanitas, quel bambino che «ha, nei confronti del mondo un atteggiamento diverso dal nostro»?14 Per Vygotskij il mondo del bambino, anche se forse dovremmo scrivere l’«ambiente» del bambino, è caratterizzato proprio dalla stessa pienezza e senso di immanenza che abbiamo già più volte trovato in queste pagine: «il mondo esterno» – che a rigore, per il bambi12  Sul complicato rapporto del marxismo con la natura e l’animalità è da leggere M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Aprilia 2011. 13  L.S. Vygotskij, A.R. Lurija, Etjdy po istorii povedenija, Moskwa 1930; trad. it. La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, Firenze 1987, p. 128. 14  Ivi, p. 136.

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no, non è affatto esterno, perché la distinzione interno/ esterno vale nel «mondo», non nell’ambiente – «è recepito in modo ancora primitivo ed inoltre è percepito solitamente come qualcosa di vicino, di raggiungibile per lui se egli tocca, palpa, afferra, cioè mediante tutte le forme primitive di possesso»15. Questo bambino, come la lucertola ferma al sole, ma forse addirittura come la «pietra» che giace inerte sulla terra, è appassionato del mondo che può sentire, toccare, inghiottire, stringere. Si tratta di un mondo non costituito di enti in quanto enti, bensì di afferrabili, di stringibili, di succhiabili, di inghiottibili. Un mondo vivo, come è vivo lui, che percepisce in modo «eidetico [...] in cui le percezioni esterne sono mescolate e corrette dalle residue immagini dell’esperienza precedente»16. Poi la festa finisce, e arriva lo sviluppo, e «al posto delle forme primitive e infantili di comportamento a poco a poco se ne formano altre, “adulte”, “civili”»17. È curioso che fra gli esempi per spiegare questo passaggio Vygotskij ricorra proprio alla pietra, quella stessa pietra che per Heidegger è del tutto «priva di mondo»: «l’ambiente produttivo e culturale un po’ per volta modifica l’uomo stesso, e l’uomo, così come lo conosciamo, è come una pietra, più volte affilata a trasformata sotto l’influsso dell’ambiente produttivo e culturale»18. Come se la pietra, la lucertola e l’uomo si disponessero in circolo, e infine la prima toccasse l’ultimo della serie, rendendolo un po’ simile a sé (l’uomo si pietrifica, e la pietra si umanizza); e difatti per Vygotskij l’uomo tratta   Ivi, p. 137.   Ibid. 17  Ivi, p. 164. 18  Ivi, p. 167. 15 16

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sé stesso come una pietra grezza da affilare, per arrivare a costruire uno strumento perfetto, affilato e pericoloso. Ma in che consiste, propriamente, il processo di sviluppo che porta il bambino a diventare un «uomo formatore di mondo»? E in particolare, cosa perde e cosa acquisisce il bambino in questo passaggio? Tutto il comportamento del bambino si riordina: in esso si produce l’abitudine di frenare il diretto soddisfacimento delle sue necessità e inclinazioni, di trattenere le risposte dirette agli stimoli esterni in modo da impadronirsi di una data situazione meglio e più facilmente, per vie traverse, elaborando procedimenti culturali adeguati. Proprio in una tale inibizione delle funzioni primitive e nella elaborazione di complesse forme culturali di adattamento consiste il passaggio dalle forme primitive del comportamento infantile al comportamento dell’adulto civile19.

2. L’animale è infelice L’animale, l’abbiamo capito, non è questa cornacchia proprio qui sopra il tetto, o il cane che abbaia da dietro la porta all’interno uno, e nemmeno il gatto che per strada mi lancia uno sguardo distratto mentre s’infila fra le sbarre del cancello. L’animale sta lì a ricordarci che una vita diversa dalla nostra non solo è possibile, ma è effettivamente praticata e vissuta proprio sotto i nostri occhi, ora, qui. Solo perché c’è l’animale può esistere l’«uomo formatore di mondo». Per questa stessa ragione, l’animale, in particolare l’animale filosofico, ci parla molto poco della sua vita, quanto di quella del filosofo che ce la racconta. O meglio, ci parla dell’idea   Ivi, p. 169 (corsivi nostri).

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di essere umano che propone il filosofo che sembra parlarci degli animali. In questo senso uno degli animali più interessanti è quello hegeliano. L’animale, per Hegel, è un «organismo», che «esiste come soggettività in quanto la propria esteriorità della figura si è idealizzata diventando le membra; e l’organismo nel suo processo verso l’esterno contiene in sé l’unità in sé stesso»20. Diversamente da quelle piante da cui è possibile, a partire da un rametto, far sviluppare una nuova pianta, l’organismo animale forma un intero strutturato in parti specializzate, le sue diverse «membra». L’animale è un insieme dotato di «automovimento», che «determina da sé stesso [...] il suo luogo», e che conseguentemente è caratterizzato, come organismo individuato, da una sua peculiare «voce»21. Ricompare qui il rapporto molto stretto, che già abbiamo visto nel capitolo precedente, fra individualità e voce/linguaggio. Per Hegel l’animale, dal momento che è una «soggettività», ha anche una «voce». Che tuttavia non diventerà mai voce rivolta verso di sé, cioè voce della coscienza, “io”: l’animalità, infatti, è una individualità tutta presa nella relazione con il mondo. Così la soggettività dell’animale può esistere solo come controparte dell’oggettività che le si oppone: «il sentimento di sé dell’individualità è però altresì immediatamente esclusivo; ed è in tale atteggiamento di tensione contro una natura inorganica»22. Ma qual è la relazione fra questa soggettività e il suo «ambiente»? Qui Hegel introduce una considerazione 20  G.W. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heidelberg 1830; trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bari 1907-2002, § 350. 21  Ibid. 22  Ivi, § 357.

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diversa e divergente rispetto a quanto abbiamo visto finora, in particolare rispetto alla perfezione che per von Uexküll caratterizzerebbe il rapporto fra «marche percettive» e «marche operative». Finora, infatti, la «bolla invisibile» dell’ambiente animale è stata presentata come satura, senza lacune: non c’è separazione – ad esempio – fra l’occhio che vede e la mano che afferra. Per Hegel, invece, questo stato di pienezza è precluso all’animalità, perché solo una soggettività capace di autocoscienza può raggiungere questa condizione. E così nell’«ambiente» viene introdotta la lacuna: «solo l’essere vivente sente mancanza [...], si ha la mancanza, quando, in uno e medesimo essere, esiste altresì, e in lui è perciò immanente e posta la contraddizione come tale»23. È nello stesso organismo vivente che è insita la contraddizione, che quindi scava al suo interno la «mancanza», ad esempio la fame come bisogno di cibo. Aver fame significa che l’organismo non è completo, che non trova in sé tutto ciò di cui ha bisogno; bisogno che, a sua volta, innesca la ricerca di ciò che potrà soddisfarlo. Hegel descrive questa mancanza come «qualcosa che [...] sorpassa» l’essere vivente; ma questo significa introdurre la trascendenza nell’animalità. In effetti la «mancanza» di cui parla Hegel va oltre il bisogno fisiologico, come la fame o il freddo: secondo Hegel l’animalità è intrinsecamente mancante, e quindi proiettata nella trascendenza. Finora abbiamo invece sempre considerato l’animalitas come l’occasione per pensare l’immanenza. Ma Hegel, che non vuole affatto rinunciare alla trascendenza, la vuole piuttosto inglobare nella vita dello spirito, con l’effetto di rendere an  Ivi, § 359, scolio.

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che la vita naturale una vita in vista della trascendenza. L’animalità compare solo come tappa dell’umano, una tappa necessaria, come tutte le tappe, ma da superare il prima possibile. E però provare la fame non necessariamente significa essere sorpassati da qualcosa di esterno e superiore rispetto alla vita vissuta, e quindi essere ricacciati nella trascendenza. La fame porta il maggiolino sul filo d’erba, ma questo non significa affatto che il maggiolino viva la sua condizione come mancante di qualcosa: il maggiolino ha fame, come la lucertola ha freddo e quindi si sposta per trovare del calore. Collocare la «mancanza» nell’animalità permette ad Hegel di spiritualizzare il comportamento della zecca: mancare di qualcosa implica potersi rappresentare ciò che manca, e quindi eventualmente rimpiangerlo, se un tempo lo si è avuto, oppure desiderarlo se ancora non lo si è vissuto. Ma in questo modo l’animale è stato cacciato dal suo «ambiente», e già vaga disperato nel «mondo». Solo da questo punto di vista, infatti, la zecca potrebbe vedere, come entità distinte, le sue stesse azioni e ciò verso cui tendono. Ma allora la zecca non sarebbe più una zecca, perché la condizione per essere un animale è l’impossibilità di lasciare il proprio ambiente. Ma di che manca, propriamente, l’animale? L’animale manca del fatto di non essere altro che un animale; l’animale, nella sua vita, soffre del fatto di essere soltanto un animale. Questo limite intrinseco dell’animalità emerge quando l’animale si ammala, ossia viene in contatto internamente con la possibilità della morte (qui non conta la morte provocata da un altro animale, come un pesce che ne inghiotte uno più piccolo; questa morte è accidentale, il fatto del morire no): «il suo organismo è come esistenza, capace di una certa forza quantitativa: e così anche di vincere la sua scissione [causata dalla ­62

malattia] come anche di soggiacerle [...]. Ma il vincere e il sorpassare le singole inadeguatezze non sopprime quella che è l’inadeguatezza universale, che l’individuo ha in quanto la sua idea è idea immediata; in quanto, come animale, sta nella cerchia della natura, e la sua soggettività è il concetto soltanto in sé, non già per sé stesso. L’universalità interna resta perciò, contro l’individualità naturale del vivente, un potere negativo, da cui quello patisce forza e per cui perisce; dacché la sua esistenza come tale non ha in sé siffatta universalità, e non ne è la realtà adeguata»24. L’animale è condannato a non essere completo dalla sua stessa natura animale. Essere un animale, infatti, significa vivere una vita tutta racchiusa nel cerchio di quella stessa vita («la sua idea [cioè la sua essenza] è idea immediata [...] nella cerchia della natura»), senza cercare oltre quella vita, perché un oltre, per la zecca, semplicemente non esiste. Hegel è d’accordo, questa è la vita animale25, ma per questa stessa ragione è una vita costitutivamente incompleta, proprio perché non conosce la possibilità di oltrepassarsi in qualcos’altro. Pertanto, rovesciando la prospettiva che abbiamo seguito finora (ma in realtà confermandola, perché l’operazione teorica di Hegel riconosce nell’animalità l’esperienza dell’immanenza, solo che questa esperienza per Hegel è la più povera e triste che si possa dare): «l’inadeguatezza dell’animale all’universale», appunto alla trascendenza, allo spirito, al linguaggio, «è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte»26.   Ivi, § 374.   «La vita è ad essi [gli animali] immanente; essi sono legati alla vita, la vita è legata ad essi»; G.W. Hegel, Ästhetik, Berlin 1955; trad. it. Estetica, Torino 1976, p. 166. 26  Hegel, Enciclopedia, cit., § 375. 24 25

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L’animalità muore, questo è il «germe innato» che la condanna, e, morendo, della vita che è stata non rimane nulla. Questa è la sua radicale «inadeguatezza [...] all’universale», cioè il fatto che l’animalitas è una vita affatto immanente, tutta concentrata nella vita che si vive, qui ed ora (per questo è inadeguata all’universale). È una vita che non attende di essere illuminata da «qualcosa che [...] sorpassa» la vita stessa; al contrario, è una vita che si consuma tutta, senza residui né rimpianti, nella vita stessa. E allora, in coerenza con la sua prospettiva, che privilegia la trascendenza sull’immanenza, Hegel rovescia la descrizione delle caratteristiche dell’«ambiente»: non il luogo della perfezione di cui parla von Uexküll, al contrario, «contiene quasi soltanto elementi estranei; e preme, con una perpetua violenza e minaccia di pericoli, sul sentimento dell’animale, che è sentimento d’insicurezza, di angoscia, di infelicità»27. Era qui che voleva arrivare, l’animale è infelice; e per le stesse ragioni neanche veramente bello, come dice nella Estetica: «la sede vera e propria dell’attività della vita organica ci rimane nascosta, noi vediamo solo i contorni esterni della figura, che è a sua volta coperta interamente di piume, scaglie, peli, vello, aculei, guscio. Questi rivestimenti appartengono certamente al regno animale, ma sono produzioni animali in forma vegetale. Risiede qui la manchevolezza fondamentale della bellezza del regno animale»28. L’animale è infelice e brutto non perché la sua vita sia stata sfortunata, come se in un’altra vita potrebbe invece essere lieta e gioiosa; no, 27  Ivi, § 368, scolio. Qui Hegel riprende un tema aristotelico, cfr. E. de Fontenay, Le silence des bêtes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité, Paris 1998, p. 97. 28  Hegel, Estetica, cit., p. 166.

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l’animalità è infelice proprio perché è animalità, perché le è negata la possibilità di accedere a forme di esistenza superiori, più sviluppate, più civili. Come finisce questa storia lo sappiamo, l’abbiamo appena visto con Heidegger: ad Hegel, che interessa non la semplice vita, bensì lo «spirito», l’animalità non dice nulla, è qualcosa da abbandonare prima possibile: «lo spirito ha [..] a suo presupposto la natura, della quale è la verità [...]. In questa verità la natura è sparita, e lo spirito risulta come l’idea giunta al suo esser per sé»29. L’animale deve morire, in tanti sensi, perché soltanto quando «la natura è sparita», solo con la sua morte libera la strada allo sviluppo dello spirito, della cultura, della storia e del linguaggio. Cioè a noi, gli animali che parlano, all’«uomo formatore di mondo». E così l’«angoscia» non è il segno dell’umano, è tutto il contrario, è la zecca ad essere angosciata30. La conclusione a cui giunge Hegel è sorprendente, ma allo stesso tempo illuminante: non è il «mondo», come invece sostiene Heidegger, ad essere uno spazio «d’insicurezza, di angoscia, di infelicità», al contrario, è l’«ambiente». È la zecca ad essere infelice, non l’umano che è gettato nel «mondo» senza punti di riferimento stabili e affidabili31. Questo esito è sorprendente, ma solo fino ad un certo punto, perché al fondo non cambia la   Hegel, Enciclopedia, cit., § 381.   In realtà di animali angosciati ne esistono miliardi, ad esempio tutti quelli che vivono e muoiono negli allevamenti industriali, ma anche quelli costretti a partecipare ad esperimenti spesso non solo crudeli, si pensi a quelli sadici di Harry Harlow negli anni ’50, ma anche semplicemente stupidi; cfr. V. Despret, Quand le loup habitera avec l’agneau, Paris 2002; trad. it. Quando il lupo vivrà con l’agnello, Milano 2004. 31  Cfr. M. Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Macerata 2009. 29 30

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considerazione dell’animalità come un’esperienza – l’unica che conosciamo, forse – di immanenza. Quello che cambia è il valore che si attribuisce a questa constatazione. In ogni caso dall’immanenza occorre allontanarsi, è il pericolo che rischia di mettere in crisi la condizione dell’uomo «formatore di mondo». È proprio questo il rischio, che il mondo crolli. C’è però da precisare, a questo punto, che il crollo del mondo non fa ricadere in un «ambiente»32. L’animale umano è l’animale che parla, questa è la sua natura33, e da questa natura non si torna indietro (cfr. infra, cap. 6). Rimane il fatto che il confronto con l’animalitas rappresenta sempre un’occasione di invidia, di rimpianto, oppure, e capita più spesso così, di rabbia. In ballo c’è quel «germe innato della morte» di cui abbiamo appena letto. In fondo Hegel ci dice che il difetto originario dell’animale è di morire e basta, questo significa la sua «inadeguatezza [...] all’universalità». Un cane viene investito da un’auto in corsa, rimane lì sul ciglio della strada, muore. È una storia triste, ed è una storia che non conosce né si aspetta redenzione. Infatti per Heidegger il cane propriamente non muore, bensì cessa di vivere, perché solo l’uomo può veramente morire34. Lo scandalo dell’animalità è tutto qui, gli animali muoiono, a miliardi, continuamente, ma la loro morte chiude definitivamente le loro esistenze. Semplicemente muoiono, ma senza che questa «inadeguatezza» preoccupi nessuno, se non quel corpo che tira le cuoia. Ecco lo scandalo, com’è possibile morire così? 32  Cfr. M. De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, Macerata 2008. 33  F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Torino 2000. 34  M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen 1927; trad. it. Essere e tempo, Milano 1971, p. 296.

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Jacques Lacan – che è vissuto quando non si poteva più credere alla faccenda dello Spirito, semplicemente non era più possibile, anche con le migliori intenzioni – non la pensa come Hegel, l’angoscia non è quella dell’«ambiente»; al contrario, è il «mondo» ad essere angoscioso, e non perché sia complicato, anche l’«ambiente» della zecca lo è, non è per questa ragione, è angoscioso proprio perché è «mondo»: «ciò che c’è da vedere a proposito dell’angoscia» è «che non c’è nessuna rete» di sicurezza; «trattandosi dell’angoscia, ogni maglia, se così posso dire, ha senso solo in quanto lascia il vuoto nel quale si trova l’angoscia»35. Vivere nel «mondo» significa che, diversamente da quello che succede in un «ambiente» animale, non sono a disposizione del corpo delle «marche percettive» che possano guidare e controllare le corrispondenti «marche operative»; e questo vuol dire, semplicemente, che in una qualunque situazione data non esiste la risposta giusta, quella biologicamente fondata. E allora, quale sarà la mossa giusta? Ecco, vivere in un «mondo» vuol dire non poter rispondere a questa domanda, e ancora una volta non perché sia una domanda troppo complicata, piuttosto perché la domanda non ha risposta. In un «ambiente», invece, c’è sempre una risposta giusta, anche se non riusciamo a darla; in un «ambiente» ad ogni pieno corrisponde un vuoto, ad ogni concavità una convessità, ad ogni stimolo una risposta. Ma che succede quando ci troviamo a vivere in un mondo pieno di vuoti a cui non corrisponde nessun pieno, e viceversa? «Ma se, improvvisamente, viene a manca35  J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre X. L’angoisse, Paris 2004; trad. it. Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, Torino 2007, p. 12.

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re ogni norma, ovvero ciò che costituisce l’anomalia e la mancanza stessa, è in quel momento che comincia l’angoscia»36. Perché quello che davvero suscita invidia dell’immanenza, dell’animalitas, è proprio questa storia dell’angoscia. Hanno tanti problemi, gli animali, ma quando li lasciamo stare questo dell’angoscia non sembrano averlo. E non provare angoscia significa non avere paura di morire: l’animale non “sa lasciar essere”, “lasciare la cosa com’è”. Ha sempre un rapporto di utilità, di messa in prospettiva, non lascia che la cosa sia quello che è, appaia tale senza un progetto guidato da un “tubo” [cfr. supra, § 1] stretto di pulsioni, di desiderio. Una delle questioni che allora si pongono è di sapere se l’uomo lo fa [...]. Perché questo è il rapporto all’ente in quanto tale, cioè il rapporto a ciò che è in quanto lo si lascia essere ciò che è, cioè quando non lo si affronta, o non lo si conosce a partire dalla nostra prospettiva, dal nostro progetto. Per rapportarmi al sole così com’è, bisogna che, in un certo modo, io mi rapporti al sole così com’è in mia assenza ed in effetti è così che si costituisce l’oggettività, a partire dalla morte37.

3. Sigfrido e il salmone Derrida coglie il nesso fondamentale che lega da un lato il progetto umanistico, quello della soggettività che dice “io”, e dall’altro la morte, e quindi l’angoscia. Abbiamo visto che la soggettività che dice “io” compie questo gesto delimitando la propria posizione rispetto a quella altrui: un “io”, per esserci, deve proiettare l’al  Ivi, p. 47.   J. Derrida, L’animal que donc je suis, Paris 2006; trad. it. L’animale che dunque sono, Milano 2006, pp. 221-222. 36 37

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tro nella posizione del “tu”. Certo la posizione di “io” è intercambiabile con il “tu”, ma rimane che un “io” non esiste se non si fa spazio a spese del “tu”. Quello della soggettività è un gesto che delimita ed esclude. Il paradosso implicito in questo stesso gesto è che “io” può morire soltanto perché dice “io”. Solo perché mi sono messo da parte, questo infatti significa dire “io”, posso essere lasciato da parte, posso morire. “Io” significa, per usare ancora il dispositivo heideggeriano dell’in quanto, che io ci sono, in quanto “io”, solo perché mi sono autodelimitato come “io”, appunto. L’operazione che conduce a “io” esisto è del tutto analoga a quella che permette di isolare il sole in quanto “sole”; l’operazione che, secondo Heidegger, nessun animale è in grado di compiere. Il sole come entità del tutto oggettiva è il sole come se non lo vedesse nessuno, o se lo vedesse solo Dio, è appunto il sole «com’è in mia assenza». È il sole quando io non lo vedo più perché sono morto. Vale lo stesso per “io”: vedere me stesso in quanto “io” significa vedermi da fuori, significa essere uscito dal corpo che sono per osservarmi dall’esterno, come se osservassi un altro. Come se io non ci fossi più, come se fossi già morto. Oggettività e autonomia di “io” vanno di pari passo con la sua sostituibilità, con la sua mortalità. In effetti il tempo, nella esperienza umana, entra con quello stesso gesto con cui diciamo “io”. Prendere la parola significa occupare una posizione nel campo della lingua, come fissare una bandiera in un territorio sconosciuto; in questo luogo, e in questo momento, insieme a questa bandiera ci sono io, colui che ha fissato la propria posizione proprio mediante questo gesto: «qui e ora delimitano la situazione spaziale e temporale coestensiva e contemporanea alla presente situazione di di­69

scorso contenente io»38. Dire “io” costituisce chi lo dice come un io in grado di dire “io”. La stessa operazione circolare vale con i dettici spaziali e temporali: “qui” ed “ora” non indicano posizioni definite nel tempo e nello spazio, al contrario, definiscono i punti di riferimento rispetto a cui tempo e spazio possono essere pensati e organizzati. “Qui” permette di distinguere vicino e lontano, come “ora” permette di distinguere fra un prima (passato) e un non ancora (futuro): «è un fatto originale e fondamentale che queste forme “pronominali” non rimandino né alla “realtà” né a posizioni “oggettive” nello spazio o nel tempo, ma all’enunciazione, ogni volta unica, che le contiene, e riflettano così il loro proprio uso»39. La macchina antropogenica produce un soggetto, che è un soggetto perché è in grado di dire “io”, e contemporaneamente lo colloca nel tempo e nello spazio. “Io” diventa temporale, e quindi mortale, nel momento stesso in cui viene al mondo. È il prezzo da pagare, ma nessuno ci aveva detto quanto fosse salato, il prezzo da pagare per poter dire “io”, per poter avere un corpo, per poter accedere al club dell’humanitas. Ecco allora, forse, il perché – oltre all’invidia – di tanta rabbia verso l’animalitas. Perché l’animale, con il suo sguardo incapace (se diamo ragione ad Heidegger) di cogliere l’in quanto, ci vede – se ci osserva – come corpo, come un pezzo del mondo in cui vive, un pezzo a volte fastidioso, a volte pericoloso, a volte indifferente. L’animale ci vede così come gli appare il corpo che siamo, non vede altro, è tutto lì visibile, e se non si vede non c’è. Ma quel corpo è un “io”, mentre lo sguardo animale 38  É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Milano 1994, p. 303. 39  Ivi, p. 304.

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lo riconsegna alla condizione di semplice corpo. Ecco, è questo sguardo che “io” non sopporta, gli ricorda troppe miserie che non ha affatto intenzione di ricordare. C’è un episodio, Sigfrido e il salmone, all’interno dello straordinario romanzo di Curzio Malaparte Kaputt, che racconta esattamente di questa passione umana ad annientare gli animali (in realtà tutto il libro è una specie di storia dei rapporti fra uomo e animalità). La storia si svolge nella Finlandia alleata dei nazisti, durante la seconda guerra mondiale, lungo il fiume Juutuanjoki, che scorre nella parte settentrionale del paese, vicino al confine con l’Unione Sovietica. Il tema mortifero del racconto si apre con un cinico dialogo fra lo scrittore e alcuni ufficiali dell’esercito tedesco, si parla di pelle umana usata per tappezzare poltrone: «“con la pelle di tutti gli ebrei che avete massacrati durante questa guerra” dissi, “quante centinaia di migliaia di poltrone si potrebbero ricoprire di pelle umana”. “Milioni”, disse Georg Beandasch. “La pelle di ebreo non è buona a nulla”, disse Kurt Franz»40. L’ebreo è l’ebreo, come l’animale, un ente «in quanto ente» che raccoglie in una astrazione suprema tutta l’umanità ebraica, come l’animale raccoglie tutti i viventi non umani. Non è un caso che questo episodio cominci con una mossa che sposta la vita dal suo piano di evidenza vitale a quello dell’astrazione, dell’ente linguistico. Perché non esiste l’animale come non esiste l’ebreo. Eppure c’è un filo che lega il gesto originario del corpo che dice “io” alla creazione di enti immaginari come l’animale o l’ebreo. “Io”, come abbiamo visto, non è il nome di una qualche entità psicologica41, è un   C. Malaparte, Kaputt, Firenze 1967.   Cimatti, La scimmia che si parla, cit.

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gesto che allo stesso tempo include ed esclude; il primo scarto di questa esclusione è il corpo, e insieme ad esso l’animalitas. “Io” come in quanto produce, e non riesce a non produrre, sempre di nuovo ulteriori «in quanto». C’è allora una ragione interna alla macchina antropogenica che produce il mattatoio come il campo di sterminio42. Nella notte boreale, prosegue il racconto, lo scrittore esce per i boschi in prossimità della linea del fronte. La guerra è vicina, il nemico e l’amico, lo straniero e il patriota, ma allo stesso tempo, nel bosco, passa veloce e senza paura un branco di animali simili a cani «di un grigio color ferro rugginoso»: “I lupi” dissero i soldati. Ci passavano vicini, guardandoci con quei loro occhi rossi e lucidi. E pareva che non avessero alcuna paura, alcun sospetto di noi. Nella loro confidenza non v’era soltanto qualcosa di pacifico, ma, direi, qualcosa di distratto, una specie di nobile e triste indifferenza. Correvano senza far rumore, veloci e leggeri, con quel loro passo lungo, agile e morbido. Nulla di ferino era in loro, ma una tal quale nobile timidezza, una specie di orgogliosa, e crudelissima mansuetudine43.

C’è la guerra, ma i lupi passano accanto ai soldati e ai cannoni «con una specie di nobile e triste indifferenza». È l’indifferenza dell’animalitas, quella che inquieta e turba l’humanitas sempre disposta a prendersi troppo sul serio (non c’è orgoglio senza “io”, e quant’è superbo un “io” in divisa). Un soldato, quasi per un riflesso, alza il fucile per ucciderne qualcuno, ma un commilitone lo ferma: «come se anche l’uomo, in quelle   Patterson, Un’eterna Treblinka, cit.   Malaparte, Kaputt, cit., p. 323.

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disumane solitudini, non trovi altro modo di esprimere la sua umanità che nell’accettazione di una ferinità triste e mansueta»44. Un gesto di rispetto, ma non un gesto paritario, è un atto di magnanimità, ché con l’animale, come con il corpo, il gesto è sempre paternalistico, anche la carezza al gatto è un gesto di potere, perché quella stessa mano potrebbe uccidere. La mano che avvicina vuole sempre ricordare che potrebbe anche allontanare, in ballo c’è sempre una gerarchia di potere, di vita e di morte. Dopo il passaggio dei lupi, dell’animalitas che si disinteressa dell’humanitas guerriera, entra in scena il salmone, uno degli animali più sfuggenti che ci sia, dallo sguardo attento ma insondabile (se Levinas avesse preso come esempio di volto quello di un pesce la sua filosofia sarebbe stata profondamente diversa45): «Da qualche giorno – disse Georg Beandasch, aiutante di campo del generale di cavalleria von Heunert – il generale è fuori di sé. Non riesce a pigliare un salmone. Tutta la strategia dei generali tedeschi è impotente contro i salmoni»46. Ecco la sfida, il generale e il pesce, l’uomo e la bestia. Una sfida, naturalmente, a senso unico, perché il pesce vive nel fiume, dove i salmoni vivono da sempre, non c’è nessuna provocazione da parte del salmone. La sfida è tutta dalla parte del generale di cavalleria von Heunert. E qual è la posta in gioco? L’onore del generale in quanto “io”, ché un generale tedesco non può farsi mettere in scacco da nessuno, tantomeno da un pesce. Ma cos’è l’onore se non lo sguardo dell’Altro? “Io” non   Ibid.   «Il volto dell’Altro non può essere fatto coincidere a priori con il regno dell’umano»: M. Calarco, Zoografie, Milano 2012, p. 11. 46  Malaparte, Kaputt, cit., p. 323. 44 45

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sta in piedi da solo, occorre sempre – come nel gesto del bambino che subito dopo essersi riconosciuto nello specchio si volta per averne conferma dall’adulto che lo tiene in braccio – la «ratifica» (Lacan) dell’Altro. Senza questo passaggio “io” non è che un rumore senza senso. Ecco il senso antropologico della sfida al salmone, qui c’è un “io” che deve ricordarsi di esserlo, e ne chiede conferma – c’è tutta la truppa schierata lungo i bordi del fiume, per proteggerlo, e per riconoscerne il valore – ai testimoni che ha convocato proprio per questo scopo. Il generale questa volta arriva alla sfida decisiva preparato, l’accompagna un capitano – fatto arrivare appositamente per questa necessità – specialista della pesca alla trota: «“Delle trote?” dissi. “Delle trote. Perché no?” disse il generale von Heunert. “Il capitano Springenschmid è uno specialista della pesca alle trote, famoso in tutto il Tirolo, afferma che le trote tirolesi hanno lo stesso umore dei salmoni della Lapponia. Non è così, capitano Springenschmid?” “Jawohl!” disse il capitano Springenschmid inchinandosi»47. Trote, salmoni, che conta, sempre di pesci si tratta, sono animali, e degli animali sappiamo tutto, sappiamo sempre tutto dell’animalitas. «“Sì, le trote” dissi, “Ma i salmoni?”. “I salmoni sono come le trote”, disse il capitano Springenschmid sorridendo. “La trota non è un animale paziente: si stanca di aspettare, e corre incontro al pericolo. Se abbocca all’amo, è perduta. Dolcemente, con delicatezza, il pescatore la tira a sé. È un gioco da ragazzi. Le trote...”. “Sì, le trote” dissi, “ma i salmoni?”. “I salmoni” disse il capitano Springenschmid, “non sono che trote più   Ivi, p. 332.

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grosse”»48. Appunto, la trota è un salmone, e quindi il salmone è una trota, inutile starci tanto a girare intorno, sono pesci, alla fin fine. Eppure il salmone nel fiume Juutuanjoki del racconto di Malaparte è un particolare pesce, è proprio quel salmone lì, che forse non è nemmeno un salmone (Salmo salar), ma semplicemente un organismo che vive in un certo posto. Ma una volta entrato nella rete del linguaggio immediatamente diventa – il tutto a sua insaputa – una astrazione, un generico salmone in quanto salmone: «“Pare”, disse il generale von Heunert, “che il mio salmone sia il più bell’esemplare di salmone che sia mai stato visto in questi fiumi. È un bestione enorme, di un coraggio straordinario. Pensate che l’altro giorno poco è mancato non venisse a battermi col muso nelle ginocchia”. “È un salmone insolente” dissi, “e merita di essere punito”. “È un salmone maledetto” disse il generale von Heunert»49. Quel vivente è ora una sfida, perché ha provocato l’onore di un generale tedesco, un oggetto di proprietà, infatti ora è il suo pesce, e per la stessa ragione ha perso ogni singolarità, infatti si è trasformato nel «più bell’esemplare di salmone che sia mai stato visto in questi fiumi». La distanza che separa la vita, questa vita qui, di questo pesce, dal linguaggio che invece lo trasforma in un’astrazione è assoluta e incolmabile: sul fiume Juutuanjoki si scontrano in realtà due enti linguistici, un “io” e un animale. Uno scontro che può aver luogo solo nel «mondo»; in un «ambiente» ci sarebbero stati soltanto due corpi che avrebbero lottato per una ragione determinata, cibo, tana, riproduzione. L’immanenza, non conoscendo la trascendenza, non sa nulla tanto dell’onore che dell’orgoglio.   Ivi, pp. 332-333.   Ivi, p. 333.

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La lotta [fra il salmone che ha abboccato e il generale tedesco] si svolgeva già, con alterne vicende, da circa tre ore, quando mi accorsi che un sorriso ironico nasceva nel viso giallo e rugoso di Pekka e degli altri lapponi, seduti in crocchio con la pipa di gesso fra i denti. Allora guardai il generale. Egli era in mezzo al fiume, in pieno assetto di guerra, il casco d’acciaio sulla fronte, la grossa Mauser appesa alla cintura, avvolto nelle pieghe dell’ampia zanzariera. Le larghe bande rosse dei suoi calzoni di generale splendevano nel morto riflesso del sole notturno. Pareva ormai che non avesse più la forza di resistere ancora a lungo alla ostinata violenza del suo avversario. E qualcosa nasceva in lui, lo sentivo, l’indovinavo dai suoi gesti impazienti, dal suo viso rabbioso, dall’accento con il quale gridava ogni tanto: “Achtung!”, un accento di orgoglio ferito, di sottile inquieta paura50.

Il pesce, il salmone, l’animale è comunque più ostinato del generale von Heunert, non ne vuole sapere di essere tirato fuori dal fiume in cui ha sempre vissuto. Tutti e due combattono contro la morte, anche se non è la stessa morte quella che temono. Per il salmone è la morte di chi smette di essere vivo, che non ha bisogno neanche di presentire, quell’amo lo sta trascinando dove non vuole andare, questo è sufficiente, la sua vita è nell’acqua. Il generale non teme la morte fisica (non ancora almeno), perché il salmone non potrebbe ucciderlo, teme la morte di “io”, perché se non riesce a tirare fuori dall’acqua il pesce verrà deriso da tutti, e perderà così lo sguardo dell’Altro. La posta in gioco è da un lato una morte nell’immanenza dall’altro una nella trascendenza. Corpo e “io”. Ma “io” non può morire, per questo deve morire l’animale; il destino del salmone è segnato, ma da molto prima che cominciasse la lotta   Ivi, pp. 335-336.

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con il generale. L’animale deve morire, perché solo la sua morte permette al soggetto che dice “io” di sopravvivere. Nel regno della trascendenza non c’è spazio per l’immanenza: Il generale von Heunert a un tratto si volse verso Beandasch, e gridò con voce rauca: “Genug! Erschiesst ihn!”. “Jawohl!” rispose Beandasch, e si mosse. Scese lungo la corrente, a passi lenti, duri, pesanti, e quando fu vicino al salmone, che si dibatteva nell’acqua schiumosa trascinando a valle il generale, si fermò: trasse la pistola dalla fondina, si curvò sul bravo salmone, e gli sparò a bruciapelo due colpi nella testa51.

  Ivi, p. 336.

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Farsi vedere

Dimmi, occhio di topo schiacciato sul selciato, dimmi: chi guardi? (F. Marcoaldi, Occhio di topo, in Animali in versi, Torino 2006, p. 60)

1. I lupi ci guardano «Ho sognato che era di notte e stavo a letto [...]. Tutto a un tratto la finestra si spalancò da sola e io rimasi terrorizzato nel vedere dei lupi bianchi seduti sui rami del grande noce che si trovava proprio davanti alla finestra. Erano sei o sette. I lupi erano tutti bianchi [...]. L’unica immagine in movimento del sogno era quella della finestra che si apriva, dato che i lupi erano seduti tranquillissimi sui rami, senza fare neppure un movimento, [...] e mi guardavano. Era come se avessero fissato tutta la loro attenzione su di me. Credo che questo sia stato il mio primo sogno angoscioso»1. È 1  S. Freud, Aus der Geschichte einer infantilen Neurose, Leipzig 1924; trad. it. Il caso dell’uomo dei lupi, in S. Freud, Casi clinici, Roma 2004, p. 306.

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uno dei sogni più famosi della storia della psicoanalisi, passato alla storia come il sogno dell’uomo dei lupi, che Freud – dopo lunghi e infruttuosi anni di lavoro per superare le resistenze dell’analizzato – ritenne infine di poter interpretare come il ritorno camuffato della scena primaria, un rapporto sessuale dei genitori, a cui il paziente avrebbe assistito all’età di un anno e mezzo. L’analisi del sogno che Freud sviluppa in ogni dettaglio (fino a stabilire anche l’ora presunta del rapporto sessuale, le cinque del pomeriggio) è straordinaria, ma qui ci interessa un aspetto importante di questo sogno, a cui Freud però non presta molta attenzione: l’animalità dei lupi che stanno guardando la persona che sta sognando. Il suo paziente, Sergej Costantinovič Pankëev, ha sognato dei lupi. Freud parla sì dei lupi, ma non li prende in considerazione come lupi, bensì sempre e solo come «simboli» di qualcos’altro (in realtà ci sono molti animali negli scritti di Freud2, ma vi compaiono quasi sempre come, appunto, simboli). La psicoanalisi (almeno quella di ascendenza freudiana3) non sembra cogliere la portata trasformativa del rapporto con l’animalità animale. L’animalità psicoanalitica è invece sempre allegorica: vogliamo dire una cosa semplice sulla psicoanalisi: essa ha incontrato sovente, e fin dall’inizio, la questione del divenir-animali dell’uomo. Nel bambino, che attraversa in continuazio-

2  G. Pascuzzo, Gli animali di Sigmund Freud, tesi di laurea magistrale in Teoria della comunicazione e comunicazione pubblica, Università della Calabria, a.a. 2011-2012 (disponibile in rete sul sito http://centrostudifilosofiaepsicoanalisi.unical.it/). Sugli animali in Lacan, cfr. E. Macola, A. Brandalise, Bestiario lacaniano, Milano 2007. 3  G. Genosko, Freud’s Bestiary: How Does Psychoanalysis Treat Animals?, in «Psychoanalytic Review», 80 (4), 1993, pp. 603-632.

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ne tali divenire. Nel feticismo, e soprattutto nel masochismo, che non smettono di affrontare questo problema. Il minimo che si possa dire è che gli psicoanalisti non hanno capito, neppure Jung, o non hanno voluto capire. Hanno massacrato il divenire-animale, nell’uomo e nel bambino. Non hanno visto nulla. Nell’animale vedono un rappresentante delle pulsioni o una rappresentazione dei genitori. Non colgono la realtà di un divenir-animale, non vedono come esso sia l’affetto in sé, la pulsione in persona, e non rappresenti nulla4.

Nel sogno di Sergej, i lupi, accucciati in silenzio su un grande albero, lo osservano. Ma prima si apre la finestra della stanza in cui, nel sogno, sta dormendo. Prendiamo il sogno alla lettera, per quello che lascia vedere. C’è un doppio movimento di sguardi, dai lupi sull’albero verso Sergej steso sul letto, e quello opposto, da Sergej ai lupi sull’albero. Ci sono degli sguardi che si incontrano, e che generano angoscia (non terrore, perché i lupi non hanno un atteggiamento aggressivo). Il punto saliente di questo sogno, se riusciamo a rimanere aderenti a quello che ci mostra, è quando si apre la finestra della camera da letto. Per vedere i lupi occorre prima permettere ai lupi di osservarci. Per essere visti, e per vedere a nostra volta chi ci sta osservando, occorre esporsi a quello sguardo. Uno sguardo, quello dei lupi, che sfida la trascendenza, perché qui abbiamo solo dei corpi, e nient’altro. Quando un lupo osserva una lepre, vede soltanto la lepre. E così accade a Sergej, e per questo prova angoscia, perché è osservato come un corpo. Non è lo sguardo che ci torna indietro dallo specchio, che ci dice “io” perché riceve la certificazione dell’Altro 4  G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris 1980; trad. it. Mille piani, Roma 2003, pp. 366-367.

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(cfr. supra, cap. 2). Lo sguardo del lupo è lo sguardo di quel lupo che mi sta osservando, tutto qui. Uno sguardo che mi spoglia delle vesti dell’Altro (la soggettività, il potersi dire “io”), e mi lascia nudo in un senso radicale davanti agli occhi di un altro corpo. Eccola l’angoscia dell’animalità, che è antecedente alla paura che si prova di fronte alla belva: il lupo mette in questione non la mia vita, ma il fatto che possa dire di me che sono “io”; e, l’abbiamo visto con Heidegger, senza “io” propriamente non si può nemmeno morire. In questo senso la simbolizzazione dell’animale effettuata dalla psicoanalisi è un modo per neutralizzare questa minaccia, ché senza “io” non ha senso parlare di psicoanalisi. Si tratta di scongiurare questo rischio, e quindi collocare l’animale in uno spazio completamente diverso. E allora, di nuovo, la distinzione che già conosciamo, fra «mondo» umano e «ambiente» animale: «nell’uomo», dice Lacan nel commento al caso freudiano, «ci sono dei rapporti di conoscenza – come uomo e come donna – fra individui. Negli animali, il rapporto del soggetto è un rapporto a due. In un rapporto a due si costituisce il riferimento femminile mediante quello al maschio: conoscenza del partner. Ma nell’uomo, [il soggetto] si conosce prima di questi riferimenti allo spettacolo determinante, l’individuo già possiede almeno questa conoscenza di sé (stadio dello specchio)»5. Quando due animali si osservano ci sono sempre e solo due partecipanti a questa scena, i due animali che si stanno osservando. Quando invece si osservano due esseri umani i partecipanti, in realtà, sono tre: fra loro c’è l’Altro, che li definisce come soggetti, come “ma5  J. Lacan, Seminaire: L’Homme aux Loups - 1952-1953, inedito: cfr. gaogoa.free.fr/Seminaires_HTML/HaL/HaL_notes1.htm.

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schio” e “femmina” ad esempio. E così la trascendenza si intrufola fra i loro corpi, e l’immanenza è perduta, quella stessa immanenza che nel suo sogno turba così tanto Sergej. «In ragione di questo accento», continua Lacan «messo nell’esperienza dalle sue esigenze narcisistiche, nell’individuo si rivela una specie di prevalenza d’un bisogno di padroneggiamento che va nella direzione contraria alla scelta istintiva dell’oggetto, e questo determina, nel caso dell’uomo dei lupi, una situazione del tutto peculiare»6. C’è un uomo, Sergej, che sembra attratto dalle donne, in particolare dalle donne delle pulizie, eppure il suo problema è evitare in tutti i modi di avere una relazione con una donna determinata, perché in realtà cerca uno schema di donna; la sua esigenza fondamentale è difendere sé stesso dalla possibilità di incontrare qualcuno che possa mettere in crisi le «sue esigenze narcisistiche», il suo “io”: Il soggetto fa una scelta parziale e contrastata e questo lo porta a ignorare il suo partner femminile. L’accento è messo sulla dimensione aggressiva del rapporto narcisistico e questo provoca l’esplosione della sua libido e la sua vita istintiva ne viene ridotta a delle esplosioni compulsive quando incontra una determinata immagine: quella della domestica piegata sul pavimento, e allora può realizzarla. Si trova pertanto nella posizione del padrone (nel senso hegeliano), cioè è separato dai propri oggetti, spossessato del proprio stesso oggetto sessuale7.

Il suo desiderio è letteralmente nelle mani dell’Altro, non gli appartiene, in questo senso è completamente   Ibid.   Ibid.

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spossessato della sua stessa corporeità sessuale. Il riferimento iniziale all’animalità serve a Lacan solo per liquidare velocemente la questione dell’immanenza: gli animali si incontrano, gli esseri umani no (da qui la celebre tesi lacaniana del «non c’è rapporto sessuale»8). Ma in questo modo la presenza dei lupi, nel sogno di Sergej, perde ogni valore. E soprattutto perde valore il fatto che i lupi lo stavano osservando: «tutta la difficoltà, per l’essere umano, prima della sessualità propriamente genitale, è di essere un Me che si riconosce ed aliena nell’altro. La sessualità richiede l’intervento di un piano culturale. Il soggetto si va a situare attraverso il rapporto con il padre»9. Il soggetto, prima di diventare un “io”, è un “me”, cioè una soggettività oggettivata, cioè appunto una soggettività costruita sul modello e l’appoggio dell’Altro. Al tempo di questo seminario (1952-1953) l’occasione di prendere sul serio i lupi del sogno, e quindi di provare a immaginare una via d’uscita dall’alienazione nell’Altro (e quindi dal linguaggio), a Lacan non era ancora venuta in mente (cfr. infra, cap. 6): «questo sogno si traduce come un delirio. Per tradurlo non c’è che da invertirlo: i lupi mi osservano immobili, molto calmi: sto guardando una scena molto convulsa [il rapporto sessuale fra i genitori]. Si può aggiungere: “Questi lupi hanno delle belle code, devo fare attenzione alla mia!”»10. Come per Freud, come per tanta filosofia, il lupo non è un lupo, è un delirio, un rebus da sciogliere, un segno: «non c’è dubbio», scrive 8  J. Lacan, Le Seminaire de Jacques Lacan. Livre XVIII. D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), Paris 2007; trad. it. Il seminario. Libro XVIII. D’un discorso che non sarebbe del sembiante, Torino 2010. 9  Lacan, Seminaire: L’Homme aux Loups, cit. 10  Ibid.

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deciso Freud, «che il lupo del quale aveva paura fosse il padre»11. Allo stesso destino va incontro, qualche pagina dopo, «una chiocciola gigante» che, come il lupo, non è affatto un animale, perché «la chiocciola prendeva il posto della donna, essendo un perfetto simbolo sessuale»12; e, ancora più avanti, «una bella e grande farfalla con larghe ali a strisce gialle che terminavano a punta (una vanessa)» che, neanche a dirlo, alla fine si rivela per Freud la rappresentazione di una giovane donna13. Il problema antropologico (e non a caso è il sogno di un bambino) che pone lo sguardo dei lupi, allora, non è quello di scioglierli in una interpretazione simbolica, considerarli rappresentanti del padre o della minaccia della castrazione, quanto di considerarli un’occasione per una messa in crisi degli esiti trascendenti della macchina antropogenica. Lo stesso Freud, nelle pagine finali di questo libro, arriva indirettamente a sfiorare questo punto, quando si chiede quanto sia effettiva, per gli esseri umani, la possibilità di un contatto reale con la propria esperienza (qui Freud è esplicitamente kantiano). Parlando del «complesso di Edipo», e di come questo e gli altri dispositivi «filogenetici» modellino la costruzione della soggettività umana Freud arriva a chiedersi: «ci capita di frequente di vedere come lo schema abbia la meglio sull’esperienza dell’individuo»14. Lo schema di Freud è l’Altro di Lacan, è appunto il movimento eccentrico della trascendenza che allontana dall’immanenza dei corpi. Sergej cercherà per tutta la sua tormentata   Freud, Casi clinici, cit., p. 315.   Ivi, p. 336. 13  Ivi, p. 351. 14  Ivi, p. 373. 11 12

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esistenza di cogliere il valore tutto terreno, immanente, dello sguardo di quei lupi, senza però mai riuscire a tirarsi fuori dagli «schemi» in cui l’ha imbrigliato la macchina antropogenica. Nel Seminario di Caracas (1980), Lacan – quasi al termine della sua vita – torna sulla questione dell’animalità, ma da una prospettiva completamente diversa: ora non si colloca più dal lato dell’Altro, al contrario, vede la situazione dalla parte di ciò che il corpo umano perde, quando è avviluppato nelle trame della parola. Il problema teorico dell’ultimo insegnamento teorico di Lacan è proprio come arrivare ad uscire dal linguaggio, per arrivare a quello che chiama «inconscio reale»15, che appunto non è quello «strutturato come un linguaggio». In questo contesto torna la questione dell’animalità, come straordinario esperimento biologico di una vita immanente. Lacan sta parlando del numero, come esemplificazione massima della potenza del linguaggio, ché non c’è aritmetica senza lingua, e viceversa16: perché allora non ammettere che la pace sessuale degli animali, facendo riferimento a colui che è detto essere il loro re, il leone, dipenda dal fatto che il numero non s’introduce nel loro linguaggio, qualunque esso sia. L’ammaestramento, probabilmente, può darne una parvenza. Ma niente di più. La pace sessuale vuol dire che si sa cosa fare con il corpo dell’Altro. Ma chi sa cosa può fare il corpo di un parlessere? – Al di fuori di stringerlo un po’ più o un po’ meno? L’altro, quando poi acconsente, che cosa trova da dire? Dice: “Strin15  J.-A. Miller, L’inconscio reale, in «La psicoanalisi», n. 49, 2011, pp. 194-243. 16  M. Hauser, N. Chomsky, T. Fitch, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?, in «Science», n. 22 (298), 2002, pp. 1569-1579.

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gimi forte”. Roba da niente per la copulazione. Chiunque può far meglio. Dico chiunque – una rana per esempio. C’è un dipinto che mi ronza in testa da tempo [è il trittico di San Michele, del Bramantino, in cui, ai piedi della madonna, c’è la curiosa immagine di una rana, delle dimensioni di un uomo, a terra]. [...] Ebbene, questo dipinto testimonia bene la nostalgia che una donna non sia una rana, che giace lì supina, in primo piano nel dipinto17.

Il «parlessere» è il corpo umano plasmato dal linguaggio, è il prodotto della macchina antropogenica. Questo particolare vivente, come il Sergej del sogno dei lupi, non può realmente toccare l’altro corpo, appunto perché fra loro s’interpone sempre l’Altro. Il massimo che può succedere è che questo corpo, comunque distante, gli dica “stringimi forte”. Ma la distanza che li separa non è spaziale, bensì logica, nel senso che fra loro c’è sempre il linguaggio. La rana, invece, come il leone (è frustrante che non si riesca mai a parlare degli animali che come allegorie), può conoscere questa effettiva vicinanza corporea, proprio perché «il numero non s’introduce nel loro linguaggio». Il numero porta con sé una sorta di maledizione, perché quel corpo che si stringe – se pensato come esemplare numerabile – non è che un corpo, ma dopo 1 c’è 2, e poi 3, e così via all’infinito. Un corpo che non si individua a partire dal linguaggio è un corpo che sfugge a questa deriva centrifuga. È il corpo della rana, ad esempio. Per il «parlessere» la situazione è rovesciata: «da qui i miei matemi [le formule di Lacan], che procedono dal fatto che il Simbolico è il luogo dell’Altro, ma che non c’è l’Altro 17  J. Lacan, Seminario di Caracas, in «La psicoanalisi», n. 28, 2000, p. 12.

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dell’Altro»18: l’Altro è il simbolico, cioè il linguaggio, e una volta entrati al suo interno (è questo il «parlessere») non esiste una via d’uscita («non c’è l’Altro dell’Altro»). «Ne consegue», conclude Lacan, «che ciò che lalingua [il termine che usa per indicare la dimensione originaria del linguaggio] può fare di meglio è di dimostrarsi al servizio dell’istinto di morte»19: solo un “io” può morire, e siccome non c’è “io” senza linguaggio, allora è letteralmente vero che la macchina antropogenica è «al servizio dell’istinto di morte». 2. «Visti visti dall’animale» È il legame fra linguaggio e «istinto di morte», allora, quello che è in gioco quando la macchina antropogenica si confronta con l’animalità. È attraverso il linguaggio, cioè il dispositivo che permette la comparsa di “io” e della sua specifica temporalità, che l’esperienza della morte entra nella vita umana. Come può Heidegger, infatti, distinguere fra il morire degli umani e il cessare di vivere degli altri organismi? La distinzione non è direttamente biologica, perché evidentemente entrambi smettono di essere in vita, bensì riguarda il fatto che il vivente che dice di sé “io” è presente a sé nel «mondo», e quindi, alla morte non muore solo la corporeità che ha, ma anche la soggettività che è. Il vivente che vive in un «ambiente» è tutto proiettato e immerso nella esperienza di vita a cui partecipa in modo integrale; per questa ragione non è tanto una individualità determinata che muore, quanto una particolare relazione vitale   Ibid.   Ibid.

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organismo-ambiente che cessa di sussistere. In questo senso l’animale non muore, perché non è mai esistito come individualità separata dalla relazione con l’ambiente. Affermandosi come “io”, invece, l’animale che parla si stacca dall’«ambiente», e si afferma come punto di vista autonomo sul «mondo»: è questa la ragione per cui questo vivente, propriamente, muore, perché quella che cessa di sussistere come vivente è una soggettività individuata. Esiste allora un nesso strettissimo fra soggettività, linguaggio e morte20. L’animalità, al contrario, è quella modalità di esistenza che, rimanendo esclusa dalla macchina antropogenica, non è toccata da questa forma di mortalità. Di più, come nota Derrida, la tristezza animale (di cui scrive Hegel; cfr. supra, cap. 3) non è la conseguenza di questa inclusione – come se l’animale presentisse in modo confuso la sua mancanza di coscienza, e di conseguenza ne soffrisse – al contrario, è l’effetto di un’inclusione: l’animale diventa triste quando riceve un nome, quando è tirato dentro il linguaggio. Perché entrare nel linguaggio significa appunto entrare nella morte: perché da sempre, ciò che la rende triste, e una volta rattristata la priva delle parole, non è un mutismo né l’esperienza di un’impotenza, un non-saper-dare-il-nome, ma innanzitutto il fatto di ricevere il nome. Intuizione folgorante. L’essere nominato [...], anche quando chi nomina è come un dio, un beato, il fatto di vedersi dare il proprio nome, forse coincide con il lasciarsi invadere dalla tristezza, dalla stessa tristezza (che 20  G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino 2008. Un tema in parte simile è affrontato, seppure da una prospettiva affatto diversa, in A. Pennisi e A. Falzone, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, Bologna 2010.

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dunque avrebbe come origine proprio la passività dell’essere nominato, l’impossibilità di riappropriarsi del proprio nome), o perlomeno da una specie di presentimento oscuro della tristezza. O meglio ancora, da un presentimento del lutto [...]. Un lutto presentito perché, mi sembra che qui, come in ogni denominazione, abbiamo a che fare con l’annuncio di una morte futura accompagnata dalla sopravvivenza di uno spettro, quello della longevità di un nome che sopravvive a chi lo porta. Chi riceve un nome si sente mortale o morente, proprio perché il nome vorrebbe salvarlo, chiamarlo e assicurargli la sopravvivenza. Essere chiamato, sentirsi chiamato per nome, ricevere un nome per la prima volta, è forse sapersi mortali e anche sentirsi morire. Già morto, in quanto promesso alla morte: morente21.

È il fatto di «ricevere il nome» ad aprire la possibilità della morte, perché ogni nome è un «presentimento del lutto», ogni nome attesta, per il semplice e spietato fatto di esserci, che un ente è stato individuato, che ora c’è un “io”; un “io” che per questa stessa ragione prima o poi cesserà di esserci, perché si tratta di un “io” gettato nel tempo, e quindi inevitabilmente destinato a svanire. Si comprende meglio, a questo punto, la ragione dell’angoscia di Sergej. È la morte ciò che è in ballo quando si offre allo sguardo dei lupi. Il lupo ci guarda, ma ci guarda come guarderebbe un qualunque oggetto del suo mondo, come un visibile, come qualcosa che esiste davanti a lui, qualcosa che può interessarlo se entra in qualche flusso dinamico che lo coinvolge, come preda o amico, come pericolo o gioco, come vita o morte. Vede il corpo che si para davanti a lui, non vede altro, il lupo. Esporsi allo sguardo del lupo significa compiere 21  J. Derrida, L’animal que donc je suis, Paris 2006; trad. it. L’animale che dunque sono, Milano 2006, pp. 57-58.

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questo passo in realtà impossibile, perché significa esporsi non come “io”, bensì come corpo e nient’altro. Un passo per un verso impossibile, perché per l’animale umano la condizione di “io” non è accessoria, non è qualcosa che si possa dismettere come un abito vecchio in cambio di uno nuovo. Non si smette a piacimento di avere un “io”. Ma un passo che, benché appunto impossibile se a compierlo è un “io”, rappresenta comunque una tentazione irresistibile, perché in quello sguardo c’è anche l’unica possibilità di redenzione che si offre a quella soggettività. Il lupo che osserva Sergej gli ricorda che una vita diversa è possibile, è lì, proprio davanti a lui. Per questo ne è angosciato, perché sente l’irriducibile distanza che separa quello che scorge in quegli occhi dalla sua condizione di animale parlante, e per questo «promesso alla morte». Esporsi allo sguardo dell’animale, ecco allora la prima mossa, insieme decisiva e inutile, di un percorso immaginabile verso un’animalità dell’uomo a venire. Un passo decisivo, perché allude alla possibilità di una esistenza completamente diversa da quella del vivente che dice “io”; un passo inutile, perché non è un passo effettivamente praticabile, appunto perché non si smette di essere un “io” semplicemente volendolo (solo un “io” può volere di non esserlo; ma in questo modo non esce dalla condizione di “io”). Si tratta comunque di un gesto del tutto inconsueto, offrirsi allo sguardo dell’animale. Una mossa che implica appunto di porsi nella condizione di farsi osservare come semplice vivente. Non è lo sguardo di un uomo verso un altro uomo, lo sguardo mediato dall’Altro, lo sguardo linguistico di un “io” che osserva un “tu”. Si tratta dello sguardo senz’altre determinazioni di due viventi uno di fronte all’altro. Uno sguardo che si esaurisce completamen­90

te nella evidenza sensibile dei due corpi l’uno rispetto all’altro: «spesso m’interrogo, per vedere chi sono – e chi sono nel momento in cui, sorpreso nudo, in silenzio, dallo sguardo di un animale, ad esempio gli occhi di un gatto, faccio fatica, sì, a superare un disagio»22. C’è subito il «disagio», che ricorda l’angoscia del sogno di Sergej, un disagio che non si sa come giustificare, perché chi ci guarda è un gatto, e non ci si vergogna dei gatti, come loro non si vergognano di noi, quando, ad esempio, si accoppiano in nostra presenza, come se noi non ci fossimo, oppure – ed è un sentimento ancora più straniante – come se ci fossimo, ma questo non facesse per loro nessuna differenza. Un «disagio» che è accentuato quando il nostro corpo è nudo. La vergogna per il corpo è il tipico sentimento che rimanda allo sguardo dell’Altro, che ci valuta e giudica. Ma il gatto non è l’Altro, è solo un gatto, questo gatto che incontriamo quando usciamo dal bagno, ad esempio. Eppure c’è del disagio. Si tratta allora di un disagio che non riguarda l’inadeguatezza del nostro corpo, che è grasso, sgraziato, appesantito dagli anni, no, riguarda proprio il fatto di avere un corpo. Perché il corpo appartiene ad un “io”, che appunto dice, del corpo che vive, che è “il suo corpo”. Nello sguardo del gatto, come in quello dei lupi, non si coglie questa distanza, fra gli occhi che ci fissano e la soggettività che ci osserverebbe attraverso quello sguardo. Il gatto che ci guarda è soltanto questo gatto che ci sta osservando. Forse è questa semplicità che vogliamo cogliere, quando diciamo – fra banalità e imbarazzo – che gli animali sono belli. E subito risalta, al contrario, la nostra radicale non aderenza al   Ivi, p. 38.

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corpo che abbiamo. Da questo punto di vista è del tutto paradossale che qualcuno possa pensare di uscire da questa contraddizione dedicando tutte le sue attenzioni al corpo, un comportamento che può venire in mente solo ad un “io”, ossia proprio quell’entità che queste stesse persone vorrebbero mettere fra parentesi. Il gatto non si preoccupa del proprio corpo, mai, non c’è mai separazione fra il gatto ed il suo corpo. Al contrario, invece, il «disagio» che prova Derrida attesta di questa separatezza che il gatto mette letteralmente a nudo semplicemente guardandoci. L’unicità del suo sguardo svela, per contrasto, la doppiezza del nostro. Il che mostra, ancora una volta, che l’animale non riusciamo proprio a pensarlo come questo animale qui, perché il «disagio» del filosofo è comunque e ancora un uso allegorico del gatto. Il gatto mi osserva, e io che faccio? Mi sento a disagio, cioè penso a me (le onnipresenti «esigenze narcisistiche», come le chiama Lacan, di “io”). Lo sguardo del gatto è una «esperienza originale, unica e incomparabile dell’imbarazzo, che in verità si trova nel comparire nudo davanti allo sguardo insistente dell’animale, uno sguardo benevolo o senza pietà, meravigliato o riconoscente. Uno sguardo di un veggente, di un visionario o di cieco molto lucido. È come se, nudo di fronte al gatto, ne provassi vergogna, ma avessi nello stesso tempo vergogna di vergognarmi»23. Si tratta di uno sguardo che osserva soltanto quello che c’è da vedere, un corpo, che è nudo solo perché quello che “io” possiede è sempre, per questa stessa ragione, un corpo artificiale (e quindi essere nudo significa essere coperti dalla assenza di vestiti); per il gatto il corpo è   Ibid.

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sempre un corpo, sia o no coperto da qualcosa. Ecco allora il perché di questa doppia vergogna: ci si vergogna di avere un corpo, rispetto all’identità di gatto e corpo che ci sta osservando, ma ci si vergogna anche del fatto di vergognarsi, perché il gatto non è un “io”, il gatto è soltanto un gatto, cioè un animale, e non c’è ragione di vergognarsi di fronte a qualcosa che non è un “io”. Perché se ci si comincia a vergognare di fronte ad un gatto, dove si andrà a finire? Che si proverà di fronte alla «pietra priva di mondo»? Si finirà per dire, come il poeta, che «anche i sassi sono fiori, solo è più forte il loro profumo»?24 Si capisce sempre meglio, crediamo, l’angoscia che provò il bambino Sergej nel sogno dei lupi, perché un bambino sta appena cominciando ad imparare l’operazione, violenta e senza ritorno, che separa “io” e corpo. In un adulto, come Derrida di fronte al suo gatto, quello stesso sguardo sembra meno forte, è diventato fonte di «disagio», di «vergogna» per la quale, però, a sua volta si vergogna. Offrirsi allo sguardo animale è un rischio, ma anche una tentazione continua, e per questo il sogno continua a turbarlo anche da adulto, e forse soprattutto da adulto. In fondo Derrida è Sergej che si è salvato da quello sguardo, perché la filosofia tutta è una specie di ininterrotto tentativo di esorcizzare la possibilità stessa di quello sguardo. Scoprire quello sguardo, infatti, significa che la coppia «ambiente» e «mondo», attraverso la quale credevamo di avere sterilizzato la questione dell’animalità (come facciamo con i cosiddetti animali da compagnia, per renderli più mansueti e meno selvatici), non è affatto una soluzione, bensì è il problema. 24  P. Celan, «Mikrolithen sinds, Steinchen». Die Prosa aus dem Nachlaß, Frankfurt a.M. 2005; trad. it. Microliti, Rovereto 2010.

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Non è l’animale che manca di qualcosa, è l’umano che ha in sé stesso un che di troppo, che eccede il corpo che è, e che lo rende mortale: l’animale è lì prima di me, è lì presso di me, lì davanti a me – che seguo/sono di lui. E dunque, essendo prima di me, eccolo dietro di me. Mi circonda. E dal momento che è lì davanti a me, può certamente farsi guardare, ma – e forse la filosofia lo dimentica, forse essa è proprio questo oblio calcolato – anche lui può guardarmi. Possiede un suo punto di vista su di me. Il punto di vista dell’assolutamente altro, e niente mi ha mai fatto pensare tanto all’alterità assoluta del vicino o del prossimo, quanto i momenti in cui mi vedo posto nudo sotto lo sguardo di un gatto25.

Qui è da sottolineare che questo «assolutamente altro» non è affatto un tentativo, come a qualcuno potrebbe venire in mente pensando alla tematica del «volto» in Levinas, di considerare il gatto come qualcosa in cui appare il trascendente. Non si tratta affatto di considerare il gatto come una specie di mio simile, come qualcuno a cui attribuire dei diritti, rispetto a cui dovrei sentirmi responsabile: questi atteggiamenti di fronte all’animalità – per quanto urgenti e benemeriti – non colgono il punto semplicissimo che quello sguardo pone (senza parole, al di qua delle parole): il fatto elementare che c’è un vivente che mi guarda, e mi guarda come guarda un topo o una foglia, e che in quello sguardo non trova posto nessun “io”. In questo senso è uno sguardo diverso anche da quello disumanizzante di chi uccide o tortura i propri simili, come gli aguzzini dei campi di sterminio: solo un “io” può guardare qualcuno in modo   Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 47.

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disumanizzato, come se fosse una “bestia”. Lo sguardo del gatto non vuole togliere niente a nessuno, come non intende vedere in ciò che vede niente di più di quello che effettivamente vede: è uno sguardo, si potrebbe dire, che rimane sul posto, non ricorda né annuncia nulla, è solo quello sguardo lì, fra un gatto e un uomo che è appena uscito, nudo, dalla doccia. Proprio questa radicale immanenza del gatto rispetto al suo sguardo è forse la sfida maggiore che ci pone. Nonostante tutti i nostri sforzi, infatti, il gatto non lo conosciamo, conosciamo piuttosto il gatto, l’animot, l’ente linguistico che coglie l’animalità in generale proprio per poterci allontanare dalla determinatezza di questo gatto qui. D’altronde è questa la natura originaria del linguaggio: «è possibile “prendere il Questo” solo se si compie l’esperienza che il significato del Questo è, in realtà, un Non-questo, che esso contiene, cioè, una negatività essenziale»26. Voglio afferrare con una parola questo gatto qui davanti a me, mentre esco nudo dalla doccia: per compiere questa operazione mi servo della parola “gatto”, che la lingua che penso mi mette subito a disposizione. Ma “gatto” non è soltanto questo gatto, al contrario, è qualunque gatto, in ogni tempo ed ogni luogo. Ma così il gatto che ho davanti agli occhi non è più proprio questo gatto, diventa appunto un generico e indeterminato animot: il gatto è scappato via, la rete con cui ho cercato di acchiapparlo ha le maglie troppo larghe, non riesce a trattenerlo: no e poi no, il gatto, il gatto che mi guarda in camera o in bagno, questo gatto che forse non è né “il mio gatto” né “la mia gatta”, non rappresenta qui, come ambasciatore, l’immensa   Agamben, Il linguaggio e la morte, cit., p. 22.

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responsabilità simbolica di cui la nostra cultura ha da sempre investito i felini, da La Fontaine a Tieck (autore del Gatto con gli stivali), da Baudelaire a Rilke, Buber e tanti altri. Se dico “è un gatto reale” che mi vede nudo, lo faccio per sottolineare la sua irriducibile singolarità. Quando risponde al suo nome (qualunque cosa significhi “rispondere” [...]), questo gatto non si comporta come un caso della specie “gatto” e ancora meno di un genere o di un regno “animale”. Sicuramente lo identifico come un gatto o una gatta, ma ancora prima di questa identificazione, il gatto mi viene incontro come questo essere vivente insostituibile che entra un giorno nel mio spazio, in questo luogo dove ha potuto incontrarmi, vedermi e vedermi nudo. Niente mi potrà mai togliere dalla testa la certezza che qui si tratta di un’esistenza che rifugge da ogni concettualizzazione e per giunta di un’esistenza mortale perché, dal momento che possiede un nome, quel nome già gli sopravvive e firma la sua possibile scomparsa27.

Qui è evidente la condizione paradossale e insostenibile in cui ci getta lo sguardo del gatto. Da un lato, infatti, il gatto è soltanto questo gatto che mi sta guardando adesso, e proprio per questa ragione quello sguardo mi mette a «disagio», perché mi rendo conto che sfugge ad ogni generalizzazione, perché è solo un gatto, non è un “io” né una qualche astrusa soggettività prelinguistica o nonlinguistica28; dall’altro lato, però, quello è comunque “il mio gatto”, infatti quando lo chiamo – mediante il nome che gli ho dato – miagola e mi si avvicina facendo le fusa. Ma in questo modo, ecco il groviglio del rapporto fra linguaggio ed esperienza, lo condanno a morire, perché «quel nome già gli sopravvive e firma la   Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 46.   Si veda l’analisi del tema dell’animalità come «costituzione passiva» in Husserl in E. de Fontenay, Le silence des bêtes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité, Paris 1998, pp. 631-648. 27 28

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sua possibile scomparsa», perché solo chi ha un nome è una individualità, è il “tu” di un “io”, e solo una individualità può morire. È per sfuggire da questo irrisolvibile groviglio che non ci facciamo sorprendere dallo sguardo del gatto, perché non ci piace affatto ricordare quanto sia sottile lo spessore di “io”; un gesto linguistico che va ripetuto in continuazione, perché è sufficiente interromperlo, è sufficiente permettere a un gatto di osservarci che subito “io” entra in crisi, e letteralmente non sa più che cosa sia. La storia del pensiero dell’animalità è la storia di «testi firmati da persone che hanno senz’altro visto, osservato, analizzato, riflettuto sull’animale, ma non si sono mai visti visti dall’animale»29. È la storia di un tentativo, che non smette di essere reiterato, di non esporsi allo sguardo animale: come se questi uomini avessero visto senza essere visti, come se avessero visto l’animale senza essere visti da lui, senza essersi visti da lui: senza essersi visti visti nudi da parte di qualcuno che, indirizzandosi a loro dal fondo di una vita detta animale, e non solo con lo sguardo, li avesse obbligati a riconoscere, nel momento dello sguardo, che ciò li riguardava. Ma dal momento che, in fondo, non credo che tutto ciò sia mai capitato loro, né che questo sia mai stato in qualche modo, più o meno esplicitamente, significato, rappresentato [...], restano da decifrare i sintomi di tale disconoscimento. E questo non può essere rappresentato come un disconoscimento tra i tanti. Esso istituisce la specificità dell’uomo, il rapporto a sé di un’umanità primariamente preoccupata e gelosa di ciò che le è proprio30.

  Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 50.   Ivi, p. 51.

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3. L’animale oltre l’animot «L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio da qui»31. Ma come pensare l’animale, a partire dal gatto di Derrida, senza passare per l’animot? Come permettergli di essere questo gatto qui e non un gatto? Il gesto più importante è offrirsi allo sguardo dell’animale, e questo implica due rinunce: occorre accettare un confronto con l’animalità che non si basi sulla nozione di in quanto; e poi è necessario accettare la possibilità della trasformazione, e quindi accettare che “io” non definisca uno spazio chiuso e invalicabile. Rinunciare all’in quanto significa non potersi più fare forza della distinzione fra «mondo» e «ambiente». E così, ad esempio, non possiamo più distinguere con la precisione che tanto ci rassicura la «reazione» ad uno stimolo (che è istintiva, automatica) dalla «risposta» ad una domanda (che invece è intelligente e flessibile). E ancora, significa accettare che la soglia che distinguerebbe lo sguardo disinteressato dell’uomo da quello dominato dalla funzione biologica nell’animale, è permeabile e mobile. Di nuovo, significa accettare la possibilità che non solo l’uomo muoia, ma anche l’animale. Non è tanto un problema di continuismo evolutivo, quello di chi ritiene che natura non facit saltus. Il punto è che il mondo vivente è percorso da correnti di forza che si spingono in direzioni e con modalità che la nostra metafisica non ha ancora il coraggio di immaginare32. L’altra rinuncia è altrettanto inevitabile, perché

  Ivi, p. 68.   Cfr. G. Fusco, A. Minelli, Phenotypic Plasticity in Development and Evolution: Facts and Concepts, in «Phil. Trans. R. Soc. B», 365, 2010, pp. 547-556. 31 32

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strettamente connessa alla nozione di «in quanto», e alla inviolabilità di “io”. In fondo l’animalità esiste per permettere a “io” di proclamare la sua diversità dal resto del mondo vivente; l’uomo e l’animale: l’animale, che parola! L’animale è una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare. [...] Si sono dati la parola per raggruppare un gran numero di viventi sotto un solo concetto: L’Animale, dicono loro. E si sono dati questa parola, accordandosi nello stesso tempo tra loro per riservare a sé stessi il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole e in breve a tutto ciò di cui sono privi gli altri in questione, quelli che vengono raggruppati nel gran territorio della bestia: L’Animale. [...] Tutti i filosofi che interroghiamo [...] tutti dicono la stessa cosa: l’animale è senza linguaggio. O, più precisamente, è senza risposta, intendendo per risposta qualcosa che si distacca precisamente e rigorosamente dalla reazione: gli animali sono privi del diritto e della capacità di “rispondere”. E quindi anche di tante altre cose che sarebbero il proprio dell’uomo. Gli uomini sarebbero innanzitutto quei viventi che si sono dati la parola per parlare univocamente dell’animale e per designare in lui quell’unico essere che sarebbe rimasto senza risposta, senza parole per rispondere33.

Rinunciare a questa distinzione così tranquillizzante – l’animale reagisce, l’uomo risponde (del tutto sovrapponibile alla distinzione di Heidegger fra «comportamento» e «condotta», o a quella fra biologia e storia, o ancora fra body e mind) – significa fare la stessa operazione del sogno di Sergej, l’uomo di lupi: aprire la finestra, e quindi liberare lo spazio della reciproca visibilità. È la prima mossa, e la più radicale, ché tutto discende   Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 71.

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da questa esposizione; da una parte c’è un bambino, dall’altra ci sono dei lupi: «questa abissale frattura non disegna due bordi, la linea unilineare e invisibile, l’Uomo e l’Animale in generale»34. Si sa bene cosa succede quando cade una frontiera: sconfinamenti, incroci, confusione. “Io” teme solo questo, in fondo, più ancora della sua fine corporea: teme di non poter più contare sulla macchina antropogenica, teme che il gesto con cui si autoproclama “io” smetta di avere valore, teme che non ci sia più un Altro che ne ribadisca l’esistenza in vita. Il punto è che c’è rischio di confusione soltanto dal punto di vista di una soggettività individuata; è soltanto “io” a rischiare, in questa situazione. Ma è proprio l’unica entità che deve essere messa in crisi, perché l’animale esiste solo per rassicurare “io” che lui no, lui è l’eccezione del mondo naturale, lui non è un animale. Rinunciare all’animale significa appunto rinunciare anche a quella soggettività così gelosa di sé che non smette di dirsi “io”. E cosa c’è, dopo “io”? «Al di là del bordo sedicente umano» – perché è un bordo, come peraltro quasi tutti i bordi, stabilito soltanto da una delle parti che quello stesso bordo divide – «al di là di questo ma non su unico bordo opposto, al di là de “l’Animale” o de “La-Vita-Animale” è presente, già qui, una molteplicità eterogenea di viventi»35. Accettare di farsi guardare dall’animale significa aprire la porta a questa «molteplicità eterogenea di viventi». Qui il punto è che fra questi viventi si intrecciano dinamiche, movimenti, scambi che non sono calcolabili in anticipo, e che non si fermano quando finiscono per invadere la riserva   Ivi, p. 70.   Ibid.

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protetta di “io”. Un “io” che, invece, può mantenersi in vita solo finché riesce a mantenere a distanza questa molteplicità. Il brulichio della vita non conosce né “io” né barriere invalicabili. Mentre “io” presuppone una assoluta igiene, sterilizzazione, immunizzazione36 contro ogni rischio di contagio. Ecco, il vivente è contagio, o non è vivo: «fate rizoma, ma non sapete con che cosa potete fare rizoma, quale stelo sotterraneo farà effettivamente rizoma o farà divenire, farà popolazione nel vostro deserto. Sperimentate»37. Lasciare “io” significa lasciare alle proprie spalle – o meglio, allontanarsi e basta, ché senza “io” non ci sono più spalle che appartengano a qualcuno, c’è solo un movimento anonimo – il recinto soffocante e mortale della soggettività, e aprirsi alla sperimentazione del vivente. Una molteplicità «eterogenea», perché «dire viventi è dire troppo o troppo poco»: anche nella nozione di vivente infatti, è implicito un gesto di potere, violento, di esclusione, come quello di Heidegger quando lascia cadere la «pietra» nello stagno, ché appunto è inerte, non è vivente, è «priva di mondo». In effetti come «la molteplicità eterogenea» è apertura agli scambi fra i viventi, così però è anche apertura agli scambi con ciò che, forse per impazienza o scarsa immaginazione, chiamiamo non vivente, come appunto le pietre. Come scrive il poeta in prosa del mondo delle cose, Francis Ponge, ribaltando la tesi di Heidegger: i vegetali, gli animali, i vapori e i liquidi, nel nascere e nel morire, ruotano in modo più o meno rapido. La grande ruo36  R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino 2002. 37  Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., p. 356.

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ta della pietra, invece, ci sembra praticamente immobile, e anche teoricamente, non possiamo concepire che una sola parte della fase della sua lentissima disgregazione. Così che, contrariamente alla comune opinione, che fa di essa un simbolo di durata e di impassibilità agli occhi degli uomini, si può dire invece che la pietra, per il fatto che ormai non si riforma più nella natura, è in realtà l’unica cosa che vi muore continuamente38.

Una molteplicità, continua Derrida, «di organizzazioni di rapporti fra il vivente e la morte, rapporti di organizzazione e non-organizzazione di rapporti fra regni che è sempre più difficile scindere nelle figure dell’organico e dell’inorganico, della vita e/o della morte»39. E così entra in crisi un altro punto, e quanto decisivo, dello schema di Heidegger, la distinzione fra il morire umano e il decedere animale. Che significa morire, quando i processi che lo definiscono assumono valori diversi al variare della scala temporale che prendiamo in considerazione? Quando muore un cane, quando smette di battere il suo cuore, o quando anche l’ultimo atomo del corpo che un tempo era sarà stato infine assimilato in un altro corpo, o in un minerale, o in una nuvola? E un corpo umano, quando muore? Quando non è più capace di dire “io”, oppure quando il cuore non batte più, o ancora quando smette ogni metabolismo cellulare (quella «vita residua», come la definisce la tanatologia, che dura molte ore, se non giorni, dopo la morte)? Sembrava così netta, e limpida, la distinzione fra morire e decedere, e scopriamo invece che è una distinzione che non è netta affatto, che ci scappa da tutte 38  F. Ponge, Le parti pris des choses, Paris 1945; trad. it. Il partito preso delle cose, Torino 1979, p. 119. 39  Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 70.

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le parti: in realtà forse non è una distinzione, bensì una ingiunzione, se non un auspicio. «Questi rapporti», inoltre, «che sono nello stesso tempo intimi e abissali, non sono mai totalmente oggettivabili. Non si definiscono mai in alcun modo con la semplice esteriorità ed estraneità di un termine rispetto all’altro. Ne consegue che non è mai possibile ritenere gli animali come specie di un genere da chiamare Animale, l’animale in generale»40. Una visione, questa, che mette in crisi anche la rappresentazione ingenua ma persistente dell’evoluzione, che vede al vertice l’umano, e le altre specie come forme più o meno imperfette e preparatorie dello stesso umano. Come se uno scimpanzé andasse preso in considerazione per quello che (presunto) annuncia dell’uomo, e non perché è una forma di vita autonoma e affatto singolare. L’immagine dell’animalità che viene, quella che stiamo provando a pensare, è questa «molteplicità eterogenea di viventi», mobile, contaminata, che non si arrocca in alcun “io”. Il modello di questa «molteplicità», capace di trapassare di forma in forma, da animale e vegetale, insieme dalla vita alla morte, è la storia straordinaria di Filemone e Bauci raccontata da Ovidio: Sulle colline della Frigia vi è una quercia, cresciuta vicino a un tiglio, entro un recinto di pietra non troppo alto [...]. Un giorno vi arrivarono Giove e suo figlio, il nipote di Atlante, muniti di caduceo ma senza ali. Si presentarono a mille case, chiedendo un posto per riposarsi, ma mille porte vennero loro chiuse in faccia. Una dimora finalmente li accolse, piccola, con il tetto fatto di canne palustri e di stoppie; vi abitavano una buona vecchia, Bauci, e il marito Filemone, della   Ibid.

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sua stessa età. Vi erano venuti quando erano giovani sposi e in quella casa erano invecchiati insieme, senza nascondere di essere poveri [...]. Non serviva cercare lì servi e padroni: loro due erano tutta la casa, erano quelli che comandavano e nello stesso tempo ubbidivano41.

Filemone e Bauci conducono una vita povera, ma a loro non manca nulla, la loro casa e la loro unione è tutta la loro vita. Una vita senza desideri, se è possibile per gli umani una vita del genere, perché hanno ciò di cui hanno bisogno, e non hanno bisogno di ciò che non hanno: in questo senso una vita piena. Anche la loro generosità non è in vista di qualcosa, è offrire ciò che si ha, semplicemente perché si ha qualcosa da dare, acqua all’assetato, cibo all’affamato. Un gesto generoso, ma che non implica l’attenzione per la trascendenza, significa piuttosto che, non avendo desideri, non hanno nemmeno bisogno di mettere da parte un capitale per procurarseli. E così la loro è una specie di generosità non etica: Quando dunque gli abitanti del cielo arrivarono alla piccola dimora e vi entrarono, chinando la testa per poter passare sotto la bassa porta, il vecchio li invitò a riposare, offrendo loro un sedile, su cui Bauci, zelante, gettò una coperta. [Sulla tavola] si posero olive verdi e nere [...] bacche autunnali condite con aspra salsa liquida, indivia, radicchio, latte cagliato e uova [...]. C’era anche un cratere [...] e boccali di faggio [...]. Dopo poco arrivarono dal fuoco le vivande calde, e venne di nuovo servito il vino [...] poi messo da parte per far posto alla frutta. Si trattava di noci, fichi secchi mescolati a rugosi datteri, prugne, mele [...] e una porporina appena colta: in 41  Ovidio, Metamorphoseon libri XV; trad. it. Le metamorfosi, Milano 1997, p. 495.

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mezzo era posto un favo candido. Ma soprattutto c’era una grande cordialità42.

L’accoglienza è generosa e ricca, nobile senza alcuna ostentazione. Gli dèi sono colpiti e grati, e quando puniscono la mancanza di ospitalità del paese facendolo sommergere da una alluvione, salvano la capanna dei due vecchi; che poi trasformano in un tempio, di cui saranno sacerdoti proprio Filemone e Bauci. Alla richiesta di Giove esprimono un solo desiderio (che poi è il desiderio paradossale di non averne, cioè di continuare così come avevano vissuto fino a quel momento), poter morire insieme, come insieme sono vissuti. Un desiderio che il dio accoglie di buon grado, perché così il flusso che li ha tenuti insieme in una forma potrà continuare in un’altra. Perché per gli dèi ogni individuazione non è che un istante di un movimento continuo: Quando poi, consumati dall’età, stavano una volta davanti ai gradini del sacro tempio e rievocavano le vicende del luogo, Bauci si accorse che addosso a Filemone spuntavano delle fronde e il vecchio Filemone vide lo stesso capitare a Bauci. Mentre le cime dei due alberi crescevano e stavano ormai per avvolgere i loro volti, si scambiarono ancora delle parole, finché poterono, poi si dissero addio contemporaneamente; e contemporaneamente la corteccia coprì i loro visi, facendoli scomparire. Anche adesso gli abitanti Tinei mostrano in quel luogo i due tronchi vicini, che furono i loro corpi43.

  Ivi, pp. 497-499.   Ivi, p. 499.

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Divenire-umano

Essere animale per Kafka con ogni probabilità significava semplicemente aver rinunciato, per una sorta di pudore, alla figura e alla saggezza umana (Lettera a Gerhard Scholem del 12 giugno 1938, in W. Benjamin, Lettere 19131940, Torino 1978, p. 348).

1. L’«unità rattiera» e il labirinto L’animale, l’abbiamo visto, è quel vivente che è privo di qualcosa, tipicamente del linguaggio. Perché l’animale non parla. Ma ancora non siamo soddisfatti, neanche se sta zitto lasciamo in pace l’animale, perché quel mutismo inquieta il vivente chiacchierone: sta zitto perché non ha niente da dirci, oppure semplicemente non vuole parlare con noi? E allora proviamo a insegnargli a parlare la nostra lingua, come si è provato a fare a partire dagli anni ’601. Non è mai stato del tutto chiaro quale fosse l’obiettivo di queste ricerche, se dimostrare 1  J. Wallman, Aping Language, Cambridge 1992; F. Cimatti, Mente e linguaggio negli animali, Roma 2002.

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che gli animali possono parlare come gli umani, oppure se fosse quello di dimostrare che non ci riescono. In entrambi i casi il problema, evidentemente, non è il loro linguaggio2. È particolarmente istruttiva la storia di questi esperimenti perché insegna più di quello che effettivamente è stato scoperto, che in realtà è ben poco, ad esempio che uno scimpanzé è in grado di imparare ad usare qualche centinaio di segni, come può fare anche un cane, o un pappagallo. Ma questo lo si è sempre saputo, il problema è che l’animale non ha il linguaggio, e non perché davvero non sia in grado di comunicare (nessuno che conosca un animale ne ha mai dubitato), perché la definizione di animale è vivente privo di linguaggio. E così che l’animale non parli è equivalente a dire che lo scapolo non ha moglie. L’invadenza dell’animale impedisce di vedere questo gatto e questa scimmia. Colpisce, di questi progetti, il modo in cui sono costrui­ ti, che si ripete in centinaia di esperimenti apparentemente diversi, ma che in realtà riproducono sempre lo stesso schema: un essere umano che chiede all’animale di fare qualcosa3. La posizione dell’animale, scimpanzé, orango, delfino, pappagallo, gorilla e così via, è quella di chi – e non a caso si trova dentro una gabbia – deve ubbidire ad un ordine. L’animale non chiede, al più esegue un comando. E non chiede perché solo una soggettività può avere qualcosa da chiedere; l’animale – che invece non è una soggettività – reagisce, come una molla quando viene rilasciata. E difatti per Heidegger quello 2  In realtà gli animali non umani dispongono di sofisticate capacità comunicative; cfr. J. Bradbury, S. Vehrencamp, Principles of Animal Communication, Sunderland (Usa) 2011. 3  V. Despret, Quand le loup habitera avec l’agneau, Paris 2002; trad. it. Quando il lupo vivrà con l’agnello, Milano 2004.

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dell’animale è un semplice «comportamento» (cioè la risposta, appresa o innata, ad uno stimolo), non una «condotta» (che rimanda invece ad una norma, che si segue – o trasgredisce – volontariamente)4: all’animale viene negata la «possibilità di rispondere»5. Detto in altro modo, dall’animale non ci aspettiamo sorprese, come non ce ne aspettiamo da un muro o da una lavatrice. Lo schema tipico di questi esperimenti prevede un animale affamato (altrimenti non perderebbe tempo con gli umani), il segno da imparare, una ricompensa (un chicco d’uva, ad esempio). Lo sperimentatore mostra all’animale il segno insieme all’oggetto a cui si riferisce: quando l’animale ripete correttamente il gesto (dopo una noiosissima e insulsa serie di presentazioni del segno) gli viene data la ricompensa. Già qui è evidente che l’intero esperimento è progettato perché l’animale non possa chiedere nulla, se non elemosinare qualcosa da mangiare o una carezza. Ma non perché non possa chiedere altro, piuttosto perché il dispositivo sperimentale esclude che l’animale possa porre una domanda6. La scoperta che quindi gli animali usano il linguaggio che gli insegniamo soltanto per chiedere cibo7 in realtà non è affatto una scoperta, si limita a ribadire quello che già crediamo di sapere dell’animale, che cioè non è in grado di sorprenderci. Ma non ci sorprende solo perché lo co  Cfr. supra, cap. 1.   J. Derrida, L’animal que donc je suis, Paris 2006; trad. it. L’animale che dunque sono, Milano 2006, p. 41. 6  In effetti se si cambia lo scenario d’apprendimento – in cui l’animale non è più costretto nel ruolo di chi può soltanto eseguire un ordine – anche un pappagallo diventa improvvisamente capace di porre domande; cfr. I. Pepperberg, The Alex Studies: Cognitive and Communicative Abilities of Grey Parrots, Cambridge 1999. 7  H. Terrace, L. Petitto, R. Sanders, T. Bever, Can an Ape Create a Sentence?, in «Science», n. 206 (23), 1979, pp. 891-902. 4 5

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stringiamo in una situazione che esclude ogni sorpresa. Se poi smettiamo di chiederci se l’animale abbia o no un linguaggio simile a quello umano, e prestiamo attenzione a quello che effettivamente dice l’animale, ad esempio la femmina di scimpanzé chiamata Washoe8, improvvisamente e finalmente lo vediamo. Washoe, che prende il nome dalla contea nel Nevada dove fu allevata da una coppia di psicologi che provarono ad insegnarle la lingua gestuale statunitense9, imparò diverse centinaia di segni diversi. Nella stragrande maggioranza dei casi Washoe usava la lingua che le era stata insegnata per chiedere cibo o coccole, come appunto ci aspettiamo che faccia un animale intelligente che ha imparato che gli esseri umani che la tengono in prigione le danno del cibo solo se lei glielo chiede attraverso i gesti che ha così faticosamente imparato ad usare. Eppure qualche volta Washoe riesce a chiedere anche qualcos’altro. «Prego» segna Washoe, appoggiando il palmo della mano destra sul petto, all’altezza del cuore, e muovendola in modo circolare in senso orario; «Che cosa vuoi?» le chiede lo sperimentatore, «Fuori» gli risponde Washoe, sfilando via la mano destra dalle dita raccolte della mano sinistra. Un’altra volta Washoe chiede «Vieni», che si segna puntando verso di sé entrambi gli indici delle due mani, «Che cosa vuoi?» le viene chiesto; «Aperto» risponde, con il segno che si articola mostrando all’interlocutore i palmi distesi delle mani che lentamente si allontanano uno dall’altro, come le ante di un portone che si apre10. Non ci vuole molto per 8  F. Cimatti, Washoe. Una vita, in Altri versi. Sinfonia per gli animali a 26 voci, Milano 2011, pp. 238-249. 9  R. Gardner, B. Gardner, Teaching Sign Language to a Chimpanzee, in «Science», vol. 165, n. 3894, 1969, pp. 664-672. 10  E. Linden, Apes, Men and Language, New York 1974, p. 41.

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capire che cosa voglia Washoe, anche se non sappiamo se per lei «Aperto» è una parola o una frase, un segno o un gesto privo di senso, se appartiene al linguaggio oppure no. Washoe vuole uscire. D’un colpo vediamo quello che decenni di esperimenti non sono riusciti a vedere, una scimmia che non vuole rimanere chiusa in una gabbia, un uomo che parla e gioca con il linguaggio. Il punto è che la posta in gioco, fra la scimmia e l’uomo, non è affatto la mente dell’animale; il crudele gioco linguistico a cui Washoe è sottoposta vuole rispondere a una domanda diversa: quali sono gli effetti della parola sull’animale? «Poiché il limite [...] è costituito dal fatto che ci sono degli esseri che parlano, ci si chiede quale possa mai essere il sapere di quelli che non parlano. Ce lo chiediamo. Non si sa perché ce lo chiediamo. Ma ce lo chiediamo ugualmente, apprestando un piccolo labirinto per ratti»11. Cos’è il ratto per lo sperimentatore? E perché proprio un labirinto? «Il ratto non viene considerato come essere, ma a tutti gli effetti come corpo, il che presuppone che viene visto come un’unità, un’unità rattiera. [...] Identifichiamo il suo essere e il suo corpo»12. Il ratto dentro il labirinto non è più un vivente determinato, è una astrazione, è una generica «unità rattiera». È lo stesso dispositivo che lo trasforma da vivente in animale, così come la macchina antropogenica produce degli “io” tutti uguali e per questa ragione intercambiabili. L’unità rattiera coincide con il corpo che è, non è cioè separato in due come invece succede all’essere umano, che è un “io” che ha un cor11  J. Lacan, Le Séminaire de Jacques Lacan. Livre XX. Encore, Paris 1975; trad. it. Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, Torino 2011, p. 133. 12  Ivi, p. 134.

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po13. Il ratto lo gettiamo nel labirinto proprio perché non sopportiamo il suo essere soltanto quell’animale che è, e niente di più. Il labirinto diventa la punizione per la sua condizione di animale. Nell’«ambiente»14, come sappiamo, il gesto che si protende verso l’oggetto non incontra ostacoli; il labirinto, invece, ha gli stessi effetti del linguaggio, genera distanza, dubbio, incertezza: «il labirinto non sbocca soltanto sul cibo, ma su un bottone o su una valvola, dei quali occorre che il supposto soggetto di quell’essere trovi il meccanismo per accedere al cibo. O altrimenti si tratta di riconoscere un tratto, un tratto luminoso o colorato, a cui l’essere è in grado di reagire. Il punto essenziale è che si trasforma la questione del sapere in quella dell’apprendere»15. Il sapere spontaneo del ratto, quello che gli è necessario per vivere, è corporeo e percettivo, è un sapere immediato, direttamente a contatto con l’esperienza; nel labirinto, invece, questo sapere è inutile e addirittura dannoso, perché ora è necessario imparare che il cibo può essere raggiunto, forse, se si spinge una leva, oppure se non si prende una certa direzione, o ancora se si riconosce un determinato colore. Fra il ratto e il cibo si frappone ora, e per sempre, lo schermo dei segni, degli equivoci, della menzogna, perché il labirinto è proprio questo, la rete del linguaggio. Per questa stessa ragione solo al vivente che parla poteva venire in mente di progettare un esperimento del genere: «ora, in questa storia è proprio lo sperimentatore a sapere qualcosa, ed è con quello che sa che inventa 13  J.-A. Miller, Biologia lacaniana ed eventi di corpo, in «La psicoanalisi», 28, 2000, p. 75. 14  Cfr. supra, cap. 1. 15  Lacan, Libro XX. Ancora, cit., p. 134.

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l’istallazione del labirinto, con bottoni e valvole. Se non fosse qualcuno per cui il rapporto con il sapere è fondato su un rapporto con la lalingua, sull’abitazione di lalingua, o sulla coabitazione con essa, non ci sarebbe questa istallazione»16. Quella che Lacan chiama «lalingua» è appunto l’impasto di corpo e linguaggio che segna la biologia umana; «lalingua» tutto attaccato, nel senso che non è una lingua determinata, ma la possibilità di tutte le lingue, in un inestricabile intreccio di segni e di rimandi ad altri segni. «Lalingua» è «la testimonianza di un sapere in quanto per buona parte sfugge all’essere parlante», un sapere che «articola cose che vanno ben oltre quello che l’essere parlante supporta come sapere enunciato»17. Porre il ratto nel labirinto significa osservare dal vivo come nasce una «unità rattiera», un animale, così come nel linguaggio nasce l’uomo. L’aspetto più amaro di questo gioco è che sfugge completamente al ratto, proprio come «lalingua» sfugge del tutto all’umano che parla una lingua determinata, e crede di sapere di che parla, quando ne parla: «tutto ciò che l’unità rattiera impara in quest’occasione è come dare un segno, un segno della sua presenza di unità. La valvola è riconosciuta soltanto tramite un segno e l’appoggio della zampa su questo segno è un segno. È sempre dando un segno che l’unità accede a ciò di cui si conclude vi sia apprendimento. Ma questo rapporto con i segni è di esteriorità. Niente conferma che il ratto afferri il meccanismo in cui sfocia la pressione del bottone»18. Una luce, nel labirinto, si accende improvvisa, il ratto si ritrae impaurito, e urta una leva, che apre   Ivi, p. 135.   Ivi, p. 133. 18  Ibid. 16 17

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uno sportellino da cui rotola a terra una nocciolina. La luce è un segno, forse, ed è un segno anche la leva, ma il meccanismo che governa questo gioco è misterioso, quello che è sicuro è che il ratto, nel labirinto, corre impaurito, ogni suo gesto, ormai, è diventato doppio; è quello che è, ad esempio il movimento di una zampa, ma è anche il senso che quel movimento, forse, può avere rispetto ad un altro segno. Nel labirinto, insieme ai segni, è entrata anche l’esitazione, l’incertezza, la tristezza infine. Perché una volta entrati al suo interno si perde per sempre la semplicità del gesto che – in quel «fuori» che cercava Washoe – univa lo sguardo all’oggetto. Nel labirinto comincia il tempo, e con esso il rimpianto. Tornando «ai due modi di sapere sull’animale» di Derrida, fra coloro che lo considerano «una cosa vista e non vedente» (praticamente tutti) e quei pochi «poeti o profeti» in grado di «assumere su di sé l’appello che l’animale rivolge loro»19, ebbene fra questi c’è certamente Kafka. In particolare, in un racconto del 1917, Una relazione per un’Accademia, la storia della scimmia chiamata Pietro il Rosso che, deportata giovanissima dalla Costa d’Avorio verso il mondo civile (quello dell’Accademia, appunto), in seguito diventa – dopo aver imparato a parlare – una attrazione mondiale (è esattamente la storia di Washoe). La relazione è in prima persona, è la scimmia che parla, ma il divenire-umano di Pietro il Rosso incrocia il divenire-animale di Kafka. «Sono nato in Costa d’Avorio» dice la scimmia, «una sera scesi ad abbeverarmi insieme al mio branco. Fecero fuoco e fui l’unico ad esser colpito: ebbi due colpi»20. L’incontro con   Derrida, L’animale che dunque sono, cit., pp. 51-52.   F. Kafka, Ein Bericht für eine Akademie, 1917; trad. it. Una relazione per un’Accademia, in Tutti i racconti, Milano 2009, p. 251. 19 20

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l’umanità è traumatico, e lascia una cicatrice, ossia una traccia che non potrà mai più essere cancellata: l’umano è esattamente gli effetti di quella traccia: «è perché c’è l’inconscio, vale a dire lalingua, in quanto è per coabitazione con essa che si definisce un essere chiamato essere parlante»21. La traccia è un segno, e un segno rimanda a qualcos’altro, ad un senso, per comprendere il quale occorre un segno ulteriore, e così via: è questo il labirinto del linguaggio, e in questo labirinto viene gettato Pietro il Rosso. La sua tristezza è quella di un vivente che, come l’«unità rattiera», viene trasformato in un essere frammentato al suo interno, in “io” e corpo, in pensiero e azione, in passato e futuro: «è così che il soggetto si trova ad essere, e soltanto per l’essere parlante, un essente il cui essere è sempre altrove [...]. Il soggetto è sempre puntiforme ed evanescente, poiché è soggetto solo mediante un significante e per un altro significante»22. La Costa d’Avorio è perduta per sempre, perché anche tornandoci non sarebbe più il suo accogliente e caldo «ambiente», sarebbe solo il suo «mondo», uno fra i tanti possibili, incomprensibile e ostile. Il viaggio verso il ricco mondo occidentale è terribile, la scimmia capisce velocemente, così come l’«unità rattiera» e come Washoe, che per scamparla occorre rinunciare al passato, alla Costa d’Avorio. È un passaggio tremendo, l’«ambiente» viene scoperto nell’atto stesso in cui viene abbandonato, perché quando ti accorgi della sua presenza è già svanito, dal momento che la condizione perché un «ambiente» possa esserci è che non si sappia di vivere al suo interno. E così il passato appena scoperto diventa immediatamente rimpianto e   Lacan, Libro XX. Ancora, cit., p. 136.   Ibid.

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desolazione: «questa evoluzione non sarebbe stata possibile, se fossi rimasto ostinatamente attaccato alla mia origine, ai ricordi della gioventù. Proprio la rinuncia ad ogni ostinazione costituiva il precetto informatore che mi ero imposto: io, scimmia libera, mi sottoposi a questo giogo»23. La scimmia afferma così la sua (precedente e fino ad allora inconsapevole) libertà solo per rinunciarvi, perché la scopre solo per accettare di farne a meno, accettando di vivere una esistenza decisa da altri, in base a regole ignote, in un mondo estraneo. È il paradosso della macchina antropogenica, che fabbrica un “io” autonomo solo per imporgli come vivere e come pensare24: dopo quei colpi mi svegliai – e qui hanno inizio a poco a poco i miei ricordi – in una gabbia sottocoperta [...]. Nel suo insieme la gabbia era troppo bassa per stare dritti e troppo stretta per stare seduti. [...] Si ritiene che una tale maniera di trattare nei primissimi tempi le bestie feroci, sia utile, ed oggi, dopo la mia esperienza, non posso negare che dal punto di vista dell’uomo, questa sia in fondo la verità. Allora però non ci pensavo. Per la prima volta in vita mia mi trovavo senza via d’uscita, o almeno non la vedevo diritta innanzi a me; davanti a me c’era la cassa, con ogni asse ben connessa all’altra25.

La gabbia in cui Pietro il Rosso è imprigionato è comunque troppo stretta, semplicemente perché è una gabbia. È questa la prima e decisiva scoperta della scimmia, è diventato un vivente in gabbia. Prima di allora non aveva mai provato una sensazione del genere, e non soltanto perché era libero di muoversi a piacimento nella   Kafka, Una relazione, cit., p. 250.   Cfr. supra, cap. 2. 25  Kafka, Una relazione, cit., p. 252. 23 24

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foresta della Costa d’Avorio, piuttosto perché quello era un «ambiente», cioè uno spazio aperto. Ma nel momento in cui si accorge di vivere in un «ambiente» si accorge anche che non è che un ambiente, e che quindi ne esistono molti altri, e che dovunque starà sempre all’interno di qualche «ambiente». Essere gettato nel mondo umano significa scoprire che si vive in gabbia, in ogni caso. Nella gabbia sottocoperta Pietro il Rosso, che prima di allora non aveva un nome, scopre di vivere, mentre prima di allora aveva vissuto e basta: «in tutto questo predominava soltanto una sensazione: non c’è scampo»26. Soltanto un “io” può scoprire di essere mortale27, solo un “io” può sentire la sensazione che non c’è scampo (che non si può non morire): «sino ad allora avevo sempre avuto tante vie d’uscita, ed ora più neanche una. M’ero incagliato. Se mi avessero inchiodato al suolo la mia libertà di movimento non sarebbe diminuita ancora»28. Pietro il Rosso non è più una scimmia, ma non è neanche un uomo; è un animale intelligente, come l’«unità rattiera», se il gioco è questo bisogna imparare velocemente a giocarlo: «non avevo una via d’uscita, ma dovevo procurarmela, perché senza non avrei potuto vivere. A star sempre contro la parete di quella cassa – sarei certamente crepato. Ma le scimmie per Hagenbeck [il proprietario della nave] devono stare contro una cassa – ebbene, allora smisi di essere una scimmia. Un ragionamento chiaro e bello, che devo in qualche modo aver tirato fuori con la pancia, perché le scimmie pensano con la pancia»29.

  Ivi, p. 253.   Sulla questione filosofica della morte dell’animale cfr. M. Filippi, Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte, Verona 2010. 28  Kafka, Una relazione, cit., p. 253. 29  Ibid. 26 27

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La soluzione è radicale, «smisi di essere una scimmia». Divenire-umano significa smettere di essere sé stessi: «no, non volevo la libertà. Soltanto una via d’uscita»30. La via d’uscita è rinunciare a cercare una via d’uscita. Pietro il Rosso si sforza con tutta la sua intelligenza di diventare quasi umano, perché solo così potrà essere accettato dagli uomini, solo così potrà sopravvivere. E capisce subito cosa si aspettano da lui, che parli, nulla turba più i sapiens del silenzio, o quello che a loro appare silenzio, degli animali. Con uno sforzo che lo stravolge riesce, infine, ad entrare nel linguaggio: «gridai senz’altro: “Olà” emettendo un suono umano e penetrando così di colpo con questo grido nella comunità degli uomini; e la loro risposta: “Sentite, parla!” mi parve come un bacio su tutto il mio corpo, grondante di sudore. Ripeto: non mi attirava tanto imitare gli uomini; lo facevo perché cercavo una via d’uscita, per nessun’altra ragione»31. La scimmia della Costa d’Avorio non c’è più, la macchina antropogenica mostra il suo lato crudele e violento: «ed imparai, signori miei. Oh s’impara quando si deve imparare; s’impara quando si vuol trovare una via d’uscita; s’impara disperatamente. Si sorveglia noi stessi con la frusta; ci si lacera le carni alla minima resistenza»32. Che poi è quello che succede realmente quando un animale diventa un animale, un modello sperimentale come l’«unità rattiera». È, ad esempio, il destino disperato dei neonati di scimmie Rhesus coinvolti negli esperimenti di Harlow. Le piccole scimmie venivano separate dalle madri per scoprire l’effetto che potesse avere un precoce distacco dal calo  Ibid.   Ivi, p. 257. 32  Ibid. 30 31

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re e dall’affetto parentale; al posto delle madri ci sono, nelle gabbie, dei surrogati freddi (ad esempio tralicci metallici ricoperti o no da una coperta). In poche settimane, osserva con scrupoloso linguaggio scientifico Harlow, si induce la «morte psicologica» di questi animali33. Sarebbe stato sufficiente che avesse letto la storia di Pietro il Rosso, «se fate disperare una scimmia, fate esistere una scimmia disperata»34. 2. La foresta senza gli alberi Per Heidegger è fuori discussione: «in definitiva, l’animale non ha percezione»35. Ma cos’è che non vede l’occhio del falco, ad esempio, l’animale dalla vista proverbialmente acutissima? Il divenire umano si gioca tutto intorno alla questione del linguaggio, come ci dice con franchezza Pietro il Rosso. E diventare umano significa imparare a vedere in modo umano, ossia in modo linguistico. Un’ape bottinatrice si dirige verso un fiore, è l’esempio di Heidegger. L’ape vola verso il fiore perché cerca il nettare, la sostanza zuccherina che si trova al suo interno proprio per attirare gli insetti, che poi entra nella produzione del miele; in questo modo trasportano il polline di fiore in fiore, e così diventano gli agenti inintenzionali della riproduzione dei fiori. Ma che vede, propriamente, un’ape quando vede un fiore? Vede una certa forma, ad esempio, a cui è naturalmen33  H. Harlow, P. Plubell, C. Baysinger, Induction of Psychological Death in Rhesus Monkeys, in «Journal of Autism and Developmental Disorders», vol. 3, n. 4, 1973, pp. 299-307. 34  Despret, Quando il lupo, cit., pp. 95-96. 35  M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, Genova 1999, p. 131.

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te sensibile rispetto ad altre che la colpiscono assai di meno36. Ma il punto in questione, per Heidegger, non è se vedono qualcosa, quanto se vedono il fiore come fiore, distinto dal prato e dall’albero, oppure dal cielo e dalle nuvole. Un’ape riesce cioè a vedere il fiore come una entità distinta, come un oggetto appunto? Perché questa domanda gli sta così a cuore? Perché un oggetto separato e distinto può esistere solo se, dall’altra parte, c’è un soggetto che lo osserva. E un soggetto è qualcuno che sa di essere un soggetto proprio perché può distinguersi dagli oggetti con cui ha a che fare. Messa in questi termini, sappiamo già come andrà a finire questa storia, perché un animale non può essere un soggetto, quindi non potrà nemmeno disporre di oggetti, e di conseguenza non sarà neanche in grado di percepire (cioè avere un rapporto sensibile con un oggetto) qualcosa. Il problema di Heidegger è stabilire se un animale è in grado di percepire qualcosa in quanto qualcosa, ossia appunto come oggetto isolato. L’ape, dal momento che è un animale, non può avere rapporto con l’in quanto: «il succhiare dai fiori non è un avere una condotta in rapporto al fiore in quanto qualcosa di sussistente o non sussistente»37. Una «condotta» è una azione umana, che risponde a norme, è giusta o sbagliata, ha un fine, risponde a un progetto esplicito. Quella dell’ape, invece, è un più semplice «comportamento», cioè un’azione che «viene regolata sulla base di una inibizione (istinto e disinibizione)»38. L’ape esce dall’alveare alla ricerca di nettare. Questa azione è innescata da un processo in36  K. von Frisch, Aus dem Leben der Bienen, Berlin 1927; trad. it. Nel mondo delle api, Bologna 1951. 37  Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 311. 38  Ibid.

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terno, istintivo, che l’ape non controlla in alcun modo. La vista di un fiore innesca un altro comportamento (lo disinibisce), e così entra al suo interno per succhiarne il nettare. In questa sequenza di azioni l’ape è di volta in volta trascinata dagli stimoli che la colpiscono, per questa ragione «l’istinto è stordito»39, perché l’ape – come succede a chi abbia ricevuto un forte colpo alla testa – agisce in modo automatico, senza rendersi conto di quello che sta facendo. In tutto questo processo non è mai in gioco il fiore «in quanto qualcosa di sussistente o non sussistente». Il fiore entra nel comportamento dell’ape perché dotato del significato naturale di “nutrimento”. Quando l’ape è sazia smette di interessarsi ai fiori, che invece per lei esistono soltanto come mezzi per raggiungere il nettare. In questo senso l’ape, per Heidegger, propriamente non percepisce il fiore, perché per lei il fiore in quanto fiore non conta nulla, esiste solo il fiore come passaggio intermedio che porta al nettare, il fine biologico del suo comportamento. È questo il collegamento fra «stordimento» e oggettività: l’ape è sempre stordita, pertanto non è mai in grado di percepire qualcosa come qualcosa: «lo stordimento è l’essenza dell’animalità [...]: in quanto tale l’animale non si trova in una manifestatività dell’ente. Né il suo cosiddetto ambiente, né esso stesso sono manifesti in quanto enti»40. Lo stordimento dell’ape significa che né percepisce sé stessa come un soggetto né percepisce il fiore come un oggetto. L’ape è così strutturalmente indifferente all’in quanto; non è che non riesce a percepirlo, è che la sua costituzione biologica le impedisce di accedervi. Per questa ragione   Ibid.   Ivi, p. 317.

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per Heidegger l’animale è «povero di mondo», appunto perché il suo «ambiente», nonostante l’acutezza dei suoi sensi, è paradossalmente meno ricco del nostro proprio perché non contiene oggetti, ma solo irresistibili sequenze comportamentali: «l’indifferenza degli animali per tutto ciò che non è di stimolo alle loro pulsioni – un fatto originario e permanente [...] – l’indifferenza dunque per ciò che non rientra nel mondo subbiettivo proprio della loro specie [l’“ambiente”] va ricondotta alla monotonia e alla “sprovvedutezza” della loro vita sensoria e motoria»41. Ma come si passa dall’«ambiente» al «mondo»? Come si passa dall’assenza di percezione dell’ape allo sguardo umano capace di cogliere il «fiore in quanto qualcosa di sussistente»? Si tratta di esplicitare quello che Pietro il Rosso ci ricorda: «oh s’impara quando si deve imparare; [...] s’impara disperatamente. Si sorveglia noi stessi con la frusta; ci si lacera le carni alla minima resistenza»; ecco, come si impara a guardare il mondo in questo modo? E soprattutto, che si perde, imparando a guardare un fiore in quanto fiore? Dal punto di vista psicologico la storia dell’in quanto è la storia di come un primate della specie Homo sapiens riesce ad imparare a controllare (eccola di nuovo, la «frusta») la propria attenzione. Perché per vedere un fiore in quanto fiore devo imparare a vedere – cioè appunto a prestare attenzione a – un fiore anche quando – se sono un’ape – non ho fame, ad esempio, oppure quando non contiene nettare. La storia di questo processo la raccontano Vygotskij e Lurija42. I due grandi psicologi sovietici de41  A. Gehlen, Der Mensch, Wiesbaden 1978; trad. it. L’uomo, Milano 1983, p. 190. 42  L. Vygotskij, A. Lurija, Orudie i znak v razvitii rebënka, in So-

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scrivono le capacità percettive del bambino in un modo molto simile a quello di Heidegger quando parla dell’ape: all’inizio il suo sguardo è irresistibilmente attratto dalla scena percettiva, che gli impone non solo che cosa vedere, ma anche che fare in quel contesto. Il bambino appare cioè come «schiavo del campo sensoriale»43; vedere una mela, ad esempio, significa provare immediatamente ad afferrarla, così come il fiore detta all’ape quale «comportamento» realizzare. Il bambino, secondo questa descrizione, propriamente non percepisce un oggetto distinto, la mela, a cui si contrappone come soggetto altrettanto distinto; il bambino partecipa piuttosto di un flusso «percezione-movimento»44 unitario, un divenire-mela che non permette di distinguere chi è attivo e chi passivo, chi fa e chi subisce, chi pensa e chi è pensato. È evidente che nel divenire-mela del bambino la mela in quanto mela di Heidegger svanisce del tutto. Per passare alla forma specificamente umana di percezione è necessario un dispositivo che interrompa il flusso del divenire-mela del bambino, un dispositivo che permetta di separare e di cristallizzare le due posizioni del soggetto e dell’oggetto, da una parte un “io” e dall’altra la mela in quanto mela. Questo dispositivo è il linguaggio, che «introduce nella percezione un momento analitico e soppianta così la struttura naturale del processo percettivo con un processo complesso e psicologicamente indiretto»45. Con l’inserzione del linguaggio il bambino da un lato comincia a pensare sé stesso branie sočinenij, vol. VI, Moskva 1984; trad. it. Strumento e segno nello sviluppo del bambino, Roma-Bari 1997. 43  Ivi, p. 45. 44  Ivi, p. 49. 45  Ivi, p. 48.

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come “io”, dall’altro comincia a vedere la mela mediante il significato della parola “mela”: perché la “mela” è distinta dalla “pera”, sono oggetti separati, uno sta qui l’altro sta là, così come “io” è diverso da “tu”. Il linguaggio permette al bambino di introdurre distinzioni dove prima tutto scorreva unitariamente, dall’occhio al braccio alla mela e viceversa: «la relazione naturale primaria tra percezione e movimento, la loro inclusione in un unico sistema psicologico, si disintegra nel processo dello sviluppo culturale ed è sostituita da relazioni di struttura completamente diversa, a cominciare da quando la parola o qualsiasi altro segno sono introdotti tra le tappe iniziali e conclusive di questo processo e tutta l’operazione acquista un carattere indiretto»46. Se dapprima – in quella che i due psicologi chiamano «percezione naturale», contrapposta a quella culturale o «artificiale» – l’attenzione è guidata dall’evento al cui interno è inglobato anche il bambino, la riorganizzazione cognitiva operata dal linguaggio rovescia del tutto la situazione: l’aspetto essenziale è che, a differenza dell’animale, il bambino risulta per la prima volta capace di spostare in modo attivo e indipendente la sua attenzione, ricostruendo la sua percezione e liberandosi così dalla sottomissione alla struttura del campo visivo che gli è dato. Il bambino, legando ad un certo stadio di sviluppo l’uso degli strumenti con il linguaggio [...], sposta l’attività della sua attenzione su un nuovo piano. Mediante la funzione indicatrice delle parole [...] comincia a padroneggiare la sua attenzione, creando nuovi centri strutturali nella situazione percepita, cambiando [...] non tanto il grado di chiarezza di questa o quella parte del campo per  Ivi, p. 50.

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cepito, ma il suo centro di gravità, l’importanza dei suoi elementi distinti, staccando sempre di più figure dallo sfondo e ampliando così senza limiti la possibilità di dirigere l’attività della sua attenzione47.

La posta in gioco in questo processo drammatico, perché letteralmente trasforma e con violenza un vivente in un soggetto, in un “io”, è stabilire chi comanda e chi è comandato, non ci sono dubbi: si tratta di costrui­ re qualcuno «attivo» e «indipendente», in modo che possa liberarsi «dalla sottomissione al campo visivo» affinché possa «padroneggiare la sua attenzione», ossia i suoi occhi e le sue mani. Un processo che, attraverso il controllo dell’attenzione divide in due l’animale umano, da una parte il soggetto-mente, l’istanza attiva, il padrone, dall’altra il corpo, l’istanza passiva, l’esecutore. Prima ancora della separazione fra uomo e animali c’è quella fra mente e corpo. Non si potrà ricomporre la prima frattura se non si ricompone anche l’altra, le due scissioni procedono insieme. Ma se proviamo a tornare indietro, a prima di questa scissione, cosa troviamo? Come vede il bambino del divenire-mela o l’ape del divenire-fiore?48 C’è un passo, in quello stesso corso di Heidegger, tutto dedicato, in fondo, al tema dell’animalità, in cui sembra intuire quanto si perda nel passaggio all’in quanto; è quando si chiede che percepisca, allora, l’ape, se non percepisce il fiore: «se il comportamento non è una relazione con l’ente, è allora una relazione con il nulla? No! Ma se non con il nulla, allora pur con qualcosa, il quale deve pur essere ed è. [...]   Ivi, p. 55.   Cfr. F. Cimatti, Una bestiale sovranità. Esperienza estetica e animalità, in «Liberazioni», anno 2, n. 5, 2011, pp. 38-52. 47 48

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ciò a cui il comportamento come non-entrare-in-relazione si riferisce è per l’animale, in una certa maniera, aperto»49. Subito dopo precisa che questo «aperto» non va affatto inteso come «manifesto in quanto ente»50, e questo ormai lo sappiamo (solo l’uomo può accedere all’ente in quanto ente), però questo «aperto» rimanda ad una condizione estatica, ottusa ma anche radicalmente liberatoria, e proprio per questa ragione preclusa all’umano51. Come se Heidegger intuisse che lo «stordimento» dell’animale può essere visto non solo come mancanza, come indice di una «povertà di mondo», al contrario, come una pienezza vitale che è affatto preclusa all’uomo «formatore di mondo»52. Cioè non considerare l’animale come un vivente che non ha qualcosa che invece l’umano possiede, piuttosto rovesciare completamente la prospettiva: non è l’animale che è segnato da una mancanza, è l’uomo che è segnato da una eccedenza, da un troppo. Non l’animale come un non (ancora) umano, bensì l’umano come un non (più, o non ancora) animale. Un ribaltamento di prospettiva che troviamo nelle descrizioni delle capacità sensoriali degli animali in un libro scritto dalla zoologa autistica Temple Grandin53; un libro che possiamo considerare, in realtà, paradossalmente molto vicino alla tesi fondamentale del testo di Heidegger, Concetti fondamentali della me  Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 323.   Ibid. 51  Un’analisi dettagliata di questa oscillazione si trova in G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino 2002, pp. 60-65. 52  Cfr. F. Cimatti, Quando entra in scena l’animale. Perché l’animalità, e proprio ora?, in «Fata Morgana», 14, 2011, pp. 123-140. 53  T. Grandin, C. Johnson, Animals in Translation. Using the Mysteries of Autism to Decode Animal Behavior, New York 2005; trad. it. La macchina degli abbracci, Milano 2007. 49 50

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tafisica, cioè la questione dell’in quanto. La differenza è che Temple Grandin scrive un libro dal punto di vista dell’animalità, e quindi prende in considerazione proprio quello che Heidegger trascura: la possibilità di un modo di vivere non segnato dal linguaggio. Che significa, allora, vedere qualcosa senza la mediazione del linguaggio? Cosa significhi vedere attraverso il linguaggio ce l’hanno spiegato Heidegger e Vygotskij, significa vedere il fiore in quanto fiore, ad esempio. Ma vedere un fiore significa vedere il fiore come rappresentazione di una classe di entità, quella dei fiori appunto. Significa, in sostanza, che del fiore che abbiamo qui davanti agli occhi in realtà vediamo la sua esemplarità; ma ciò che rende esemplare un fiore, cioè in grado di valere per tutti i fiori, ci impedisce di vedere come è fatto proprio questo fiore, proprio ora, proprio qui. Vedere un fiore in quanto fiore rende molto più complicato prestare attenzione a (e in seguito ricordare54) i dettagli di questo fiore. Il mondo sensoriale degli animali è stracolmo di dettagli che, per un occhio umano, passano del tutto inosservati, e non perché la vista animale sia più acuta di quella del sapiens, perché è disturbato dall’interferenza generalizzatrice del linguaggio: «quando un animale [...] osserva il mondo reale, e non la sua idea di mondo, sta vedendo dei dettagli. Questa è la cosa più importante da sapere sul modo in cui gli animali percepiscono la realtà: essi vedono dettagli che gli esseri umani non vedono»55. E li possono vedere perché la loro attenzione è tutta assorbita dal campo percettivo, perché non 54  J. Schooler, T. Engstler-Schooler, Verbal Overshadowing of Visual Memories: Some Things Are Better Left Unsaid, in «Cognitive Psychology», vol. 22, n. 1, 1990, pp. 36-71. 55  Grandin, La macchina degli abbracci, cit., p. 46.

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c’è nessuna mente separata e distinta – non c’è un “io” che comanda – che «padroneggi» la loro attenzione: il visibile appare in tutta la sua evidenza e invadenza, come «una massa vorticante di minuscoli dettagli»56. Per prestare realmente attenzione ad un dettaglio occorre, paradossalmente, non essere distratti proprio dall’attenzione: «gli esseri umani sono fatti per vedere quello che si aspettano di vedere, ed è difficile aspettarsi una cosa mai incontrata prima. La cose nuove, semplicemente, non vengono colte»57. Se esiste un vivente in grado di provare qualcosa come una integrale esperienza estetica, ebbene questo è soltanto l’animale58: gran parte di ciò che un animale vede, lo vedono anche gli esseri umani normali; questi ultimi però non sanno che lo stanno vedendo. Invece, il cervello di una persona normale si serve dei dettagli grezzi del mondo per formarsi un concetto o uno schema generalizzato, ed è proprio quel concetto o quello schema che poi affiora alla coscienza. Le cinquanta sfumature di marrone diventano un singolo colore unificato: il marrone, appunto. È per questo che le persone normali vedono solo quello che si aspettano di vedere: perché non riescono a sperimentare consapevolmente i dati grezzi, ma solo lo schema che il loro cervello crea a partire da quelli. La gente normale vede e sente schemi, non dati sensoriali grezzi59.

L’animale può immergersi completamente nel sensibile, perché i suoi occhi vedono senza essere disturbati dal pensiero (esplicito, ma soprattutto implicito) dell’in   Ivi, p. 88.   Ivi, pp. 68-69. 58  F. Cimatti, Che vede, una cornacchia, quando osserva un albero? Biologia dell’esperienza estetica, in «Rivista di Estetica», in corso di stampa. 59  Grandin, La macchina degli abbracci, cit., p. 85. 56 57

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quanto: «decisamente, gli animali si comportano come se vedessero tutto: a una mucca non sfugge nulla»60. Non riusciamo nemmeno ad immaginare la potenza che deve avere uno sguardo del genere, e non possiamo farlo perché essere un esemplare della specie Homo sapiens significa essere passati per la macchina antropogenica, e quindi essere diventato un animale linguistico; ed è proprio il linguaggio che ci impedisce di vedere quello che può vedere una mucca. L’animale umano, l’animale in grado di percepire l’ente in quanto «sussistente», riesce nell’impresa cognitiva di vedere la foresta (vede cioè un ente linguistico), mentre per gli animali «non esiste una foresta, ma una distesa di alberi, alberi, e ancora alberi. Gli animali sono fatti così»61. 3. In gabbia Lo «stordimento», cioè per Heidegger la caratteristica distintiva dell’animale, è un «esser-assorbito» che «non è mai un entrare-in-relazione con l’ente, neppure con sé stesso in quanto tale»62. L’animale non è una soggettività, un “io”, che osserva il mondo come se fosse qualcosa di separato da sé: l’animale «nella sua pratica [...] viene sempre messo in ciclo in un modo oppure nell’altro»63. L’animalità è partecipare di un flusso, essere inseriti nella successione degli eventi, come anche essere «sequestrati»64 da un dettaglio: «essere iperspecifico significa vedere le differenze fra le cose molto meglio delle   Ivi, p. 69.   Ivi, p. 261. 62  Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 331. 63  Ibid. 64  Grandin, La macchina degli abbracci, cit., p. 68. 60 61

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loro somiglianze»65. Poter fare esperienza del dettaglio, questo significa «essere iperspecifico», vuol dire – ed è qualcosa di inimmaginabile per l’animale che parla, per l’animale dei concetti e delle astrazioni – che ogni volta è la prima volta. Per questo le novità sono così sgradite agli animali, perché una novità è straordinariamente nuova, e tutto dev’essere ancora deciso – è un pericolo? è innocuo? è buono? è indifferente? – quando se ne incontra una. Che succede, ora, quando una mente del genere viene messa al lavoro? Quando, ad esempio, le si chiede di risolvere un problema che, nel suo ambiente, non aveva mai incontrato. Qui il problema non è quanto possa essere difficile, per un animale, trovare una soluzione66, quanto piuttosto farle capire che cosa le si sta chiedendo: percepire il mondo come un problema. In un esperimento in cui un animale deve risolvere un problema gli si sta chiedendo di trasformarsi in un essere che si tira via dal «ciclo» vitale in cui è inserito, gli si chiede di pensare prima di agire: l’esperimento è un modo per trasformare un animale in un essere umano. In effetti, anche quando l’animale risolve il problema in realtà lo risolve in un modo diverso da quello in cui lo risolverebbe un essere umano. Cerca di risolverlo, cioè, come se il problema, anche se l’ha incontrato già molte altre volte, si presentasse a lui per la prima volta: cerca di non basarsi, cioè, sull’esperienza passata, bensì su quello che vede nel momento in cui il problema si presenta. E non perché non abbia una buona memoria, o perché sia stupido, perché i dettagli della situazione non sono mai gli   Ivi, p. 261.   Cfr., ad esempio, L. Huber, G. Gajdon, Technical Intelligence in Animals: The Kea Model, in «Animal Cognition», vol. 9, n. 4, 2006, pp. 295-395. 65 66

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stessi della volta precedente. Perché la vita dell’animale si svolge tutta nel momento in cui si svolge, è una vita sotto il segno dell’immanenza. Prendiamo il caso dei famosi esperimenti dello psicologo Wolfgang Köhler con gli scimpanzé. In uno di questi il compito per l’animale era di provare a prendere un frutto che pendeva dall’alto, al di fuori della portata delle braccia protese degli animali. Nel recinto degli scimpanzé c’erano anche delle casse di legno. Il problema è evidente, gli animali hanno fame, c’è del cibo, ma non è raggiungibile direttamente. Ad una scimpanzé, chiamata Chica, più intraprendente degli altri, viene in mente di arrampicarsi sopra una delle casse per avvicinarsi al frutto, e finalmente afferrarlo. Il problema è risolto. In realtà però è stato risolto questo problema, non questo tipo di problemi, perché l’animale non pensa per categorie, l’animale vede gli alberi, ma non la foresta. E difatti, quando il problema le viene nuovamente presentato ricominciano le difficoltà: «è curioso osservare come l’animale, che già una volta ha trovato la giusta soluzione del problema in una data soluzione, non riesce, per qualche ragione, a utilizzarla in un altro caso»67. Perché la situazione problematica non è la stessa della volta precedente; non è la ripetizione di uno schema generale. Non c’è nessuno schema qui: «così [...] cerca con tutte le sue forze di appropriarsi della banana appesa al soffitto, senza tentare di utilizzare come supporto la cassa situata nel centro della stanza, benché essa abbia già utilizzato la cassa come scala»68.

67  L.S. Vygotskij, A.R. Lurija, Etjdy po istorii povedenija, Moskwa 1930; trad. it. La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, Firenze 1987, p. 27. 68  Ibid.

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Cos’è che la scimpanzé non vede? Quando aveva risolto il problema la cassa si trovava già sotto il frutto sospeso, e quindi la soluzione era evidente, era direttamente visibile. Quello che non vede è allora la struttura – ideata invece da un essere linguistico – del problema: vede l’albero, appunto, ma non la foresta: «la scimmia salta in alto, cercando di staccare il frutto, fino alla completa spossatezza. Essa vede la cassa, ci si siede sopra più volte per riposarsi, ma non fa alcun tentativo per spostarla sotto il frutto. Per tutto questo periodo sulla cassa è sdraiato un altro animale, Tercera. Quando Tercera per caso si alza, Chica immediatamente prende la cassa, la trascina sotto la banana appesa e se ne impossessa»69. Cos’è cambiato, rispetto ai precedenti e vani tentativi? Ora la cassa ha cambiato “senso”, perché è entrata in un’altra configurazione percettiva rispetto a quando Tercera era sdraiata sopra di essa: «la cassa, sulla quale è sdraiata Tercera, non è per la scimmia “un oggetto per staccare il frutto, ma solo un mezzo per coricarsi”. In queste circostanze la scimmia non riesce a collegare la cassa alla possibilità di raggiungere la meta, essa è inserita in un’altra struttura e per questo non può far parte della situazione base dell’esperimento in qualità di strumento»70. La difficoltà di Chica è dovuta al fatto che il suo pensiero non è organizzato secondo lo schema generale: problema, strumento e meta. Per pensare in questo modo occorre avere una idea di sé in quanto “io” come dell’oggetto, la banana in questo caso, «in quanto sussistente», e quindi di un terzo elemento, lo «strumento», che faccia da intermediario fra gli altri due. Pensa così solo l’animale linguistico, ossia   Ibid.   Ibid.

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l’animale a cui è stato insegnato a vedere la foresta prima ancora che gli alberi. Al contrario, per uno scimpanzé questo modo di pensare è del tutto estraneo. Ma l’animale che parla nemmeno riesce ad immaginare che possa esistere un modo di vivere diverso dal suo. Ecco allora che l’animale, eterna allegoria di qualcos’altro, viene descritto come pigro e svogliato: Lo stesso animale cade in uno stato del tutto singolare quando si cerca di insegnargli qualcosa per cui non prova il minimo interesse. Esso doveva, di sera, dopo il pasto, raccogliere in un cesto le bucce dei frutti, sparse tutt’intorno; comprese rapidamente di che cosa si trattava, e fece ciò che gli veniva chiesto, – ma solo per due giorni. Il terzo giorno lo si dovette esortare ogni momento a proseguire; il quarto, gli si dovette ripetere l’ordine ad ogni buccia di banana; al quinto giorno, e nei giorni successivi, per ogni singolo movimento (prendere, sollevare, camminare, tenere la buccia al di sopra del cesto, lasciarla cadere, ecc.) si dovettero muovere le sue membra, poiché queste restavano immobili nella posizione che avevano preso o che era stata fatta loro assumere. L’animale si comportava come un meccanismo da orologeria fermo, o come certi malati [...]. Fu impossibile ristabilire la facilità spontanea dell’atto iniziale71.

Un animale non è pigro, o svogliato, perché pigrizia o solerzia valgono solo per gli animali che parlano e che lavorano. In questo passo di curioso c’è piuttosto la singolare mancanza di immaginazione dello psicologo prussiano Köhler: per quale ragione uno scimpanzé dovrebbe sforzarsi di imparare «qualcosa per cui non prova il minimo interesse»? Qui di curioso c’è la sua in71  W. Köhler, Intelligenzprüfungen an Antropoiden, Berlin 1917; trad. it. L’intelligenza nelle scimmie antropoidi, Firenze 1975, p. 272.

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capacità di provare ad assumere il punto di vista dell’animale, per il quale il lavoro a cui lo si vuole costringere è del tutto privo di senso. Quello di Köhler è uno straordinario esempio di antropomorfismo; il proprio punto di vista è l’unico punto di vista: «parimenti, io non sono riuscito ad ottenere che dei divieti spesso ripetuti e accompagnati da punizioni, provocassero un miglioramento della condotta che perdurasse oltre la durata della mia presenza»72. Che valore può avere un divieto, per un animale che vive ogni istante come il primo e l’ultimo della sua vita? Il libro di Köhler, in realtà, ci dice più sul suo autore che sulle scimmie di cui descrive il comportamento, ci lascia intravvedere il suo impensato, ciò che considera ovvio e indiscutibile: il proprio punto di vista. Un giorno scopre che una scimpanzé, Nueva, «mostrava [...] un particolare interesse per la confezione di nodi»73. Subito Köhler pensa di poter sfruttare questo gioco per insegnarle un «lavoro manuale»74, la produzione di tessuti: «quando le procurai un telaio per intrecci, che portava dei brani di foglia fissati da un solo lato, essa si ostinò a continuare i suoi nodi; alla minima pressione nella direzione di un determinato “lavoro produttivo”, perdeva ogni piacere per questo genere di attività e lasciava cadere scontenta l’apparecchio»75. Qui la mancanza di immaginazione diventa malafede, perché Nueva è un animale in gabbia, affamato, costretto a passare il tempo risolvendo problemi che non l’interessano, come pensare che possa anche provare «piacere» per un «“lavoro produttivo”»? Ecco l’animalità ideale   Ibid.   Ivi, p. 286. 74  Ibid. 75  Ibid. 72 73

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per l’uomo: uno schiavo che ci è grato per averlo trasformato in schiavo. È uno scrittore, infine, Coetzee, che ha saputo vedere quello che Köhler non è riuscito a vedere. Si mette nei panni di Sultan, il più solerte degli scimpanzé di Köhler; ecco quello che si vede, e si pensa, dall’altra parte della gabbia: Sultan è solo nel recinto. Ha fame: il cibo che prima gli arrivava con regolarità ha cessato inspiegabilmente di arrivare. L’uomo che prima gli dava da mangiare e ora ha smesso di farlo tende un filo metallico sopra il recinto, a tre metri d’altezza, e appende un casco di banane. Trascina nel recinto tre casse di legno. Poi sparisce, richiudendosi il cancello alle spalle, sebbene sia ancora nei pressi dal momento che se ne sente l’odore. Sultan lo sa: adesso da lui ci si aspetta che pensi. È per questo che le banane sono appese lassù. Le banane sono lì perché si pensi, per spingere qualcuno ai limiti del pensiero. Ma che cosa si deve pensare? Si deve pensare: perché mi fai morire di fame? Si deve pensare: che cosa ho mai fatto? Perché ha smesso di volermi bene? Si deve pensare: perché non vuole più queste casse? Nessuno di questi, però, è il pensiero giusto76. 76  J.M. Coetzee, The Lives of Animals, Princeton 1999; trad. it. La vita degli animali, Milano 2000, p. 38.

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Divenire-animale

Un animale è una trasformazione travestita da oggetto o essere (P. Valéry, Quaderni, vol. IV, Milano 2002, p. 459).

1. L’indiano e il cavallo L’animale, anche quello dei laboratori scientifici, anche quello che sembra il più oggettivo possibile, non riusciamo a considerarlo semplicemente come un vivente; lo vediamo, ma in realtà non riusciamo a vederlo, è lì, ma non è proprio un cane, della razza Chow-Chow ad esempio1, rimane comunque – come la celebre Topsy della principessa Marie Bonaparte, la psicoanalista amica di Freud – una «sostituzione dell’assente», in questo caso dei figli che hanno lasciato la famiglia2. Ma Topsy

1  Va ricordato che le diverse razze canine, in larghissima parte, sono state selezionate da allevatori nel XIX secolo; cfr. H. Parker, E. Ostrander, Canine Genomics and Genetics: Running with the Pack, in «PLoS Genet», 1 (5), 2005, pp. 0507-0513. 2  M. Bonaparte, Topsy, Paris 1937; trad. it. Topsy, Torino 1990, p. 12.

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è anche un «talismano» che con «la sua semplice presenza impedisce che nella mia camera entri un male maggiore, o già la Morte...»3: Topsy, cioè, è un segno, è altro da sé, è oltre di sé. Un vivente che non solo non può essere soltanto la vita che è, in realtà è un sostituto che alla fine delude, come quando Topsy, dopo una malattia, preferisce correre con la figlia della Bonaparte, o addirittura con la cameriera: «vorrei che fosse morta», confessa ingelosita a Freud la psicoanalista4. La risposta di Freud però è sorprendente, perché non si limita a ribadire il carattere allegorico dell’animale, compie un passo ulteriore: «in realtà», scrive Freud alla principessa, «le ragioni per cui si può voler bene con tanta singolare intensità a un animale [...] sono la simpatia senza ambivalenza, la semplificazione della vita, la bellezza di una esistenza in sé compiuta»; fin qui però è ancora il punto di vista dell’uomo ad essere privilegiato, al cane è riservato un ruolo sempre secondario ed esemplare. Ma c’è dell’altro, aggiunge Freud, c’è «il sentimento di un’intima parentela, di una incontestabile affinità». Ora il cane non è soltanto un segno, torna ad essere un vivente in carne ed ossa che vale di per sé, e con cui è possibile stabilire una relazione in qualche modo paritaria: «spesso nel carezzare Jofi [il cane di Freud] mi sono sorpreso a mugolare una melodia che io, uomo assolutamente non musicale, ho dovuto riconoscere come l’aria dell’amicizia dal Don Giovanni»5. Freud, lo stesso Freud che nel sogno dei lupi non parla   Ivi, p. 67.   Ivi, p. 80. 5  Lettera a Marie Bonaparte del 6 dicembre 1936, in S. Freud, Briefe 1873-1939, Frankfurt a.M. 1980; trad. it. Epistolari. Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti. 1873-1939, Torino 1990, p. 363. 3 4

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mai dei lupi come animali (cfr. supra, cap. 4), si scopre qui a canticchiare (la musica non spiega nulla, la musica non è un linguaggio o un ragionamento): è il corpo di Freud che prova piacere a stare con Jofi, non la sua mente analitica, quella che cerca la ragione di ogni evento della vita, anche dell’affetto per un cane. Quello di Jofi, nonostante la psicoanalisi, è comunque un corpo, e con quel corpo si ha a che fare, e questo vale anche per Freud. Lo ribadisce in un’altra lettera, anche in questo caso ad una donna, Lou Salomè, in cui scrive di quanto gli manchi un altro cane, Lün, sorella di Jofi, da poco morta: «oggi mi manca», scrive Freud, «quasi quanto il mio sigaro»6 che gli era stato vietato dopo la diagnosi di tumore alla bocca. Il parallelo può sembrare oltraggioso, un cane come un sigaro, eppure qui Freud, il materialista e ateo Freud, ci sta parlando proprio del corpo, e non c’è niente più importante del corpo, e nessuno meglio di un malato di cancro lo può comprendere. Qui in ballo c’è la vita, non è più in questione il suo significato7, ma la semplice e nuda vita. E allora un cane è un corpo, come è un corpo quello del grande Freud, ma anche quello di un sigaro. D’un colpo l’accurata, e preoccupata, tripartizione di Heidegger, fra la pietra «priva di mondo», l’animale «povero di mondo» e infine l’uomo «formatore di mondo» sembra entrare in crisi. Un sigaro, un cane, un uomo. Certo, il 6  Lettera del 10 ottobre 1930, in S. Freud, Briefwechsel, Frankfurt a.M. 1966; trad. it. S. Freud, L. Salomè, Eros e conoscenza, Torino 1983, p. 181. 7  Forse il punto più alto dell’interpretazione semiotica del caso dell’uomo dei lupi lo si può trovare nel libro di N. Abraham e M. Torok, Cryptonimie. Le Verbier de l’Homme aux Loups, Paris 1976; trad. it. Il verbario dell’Uomo dei lupi, Napoli 1992; un libro, non a caso, in cui dei lupi non si parla mai.

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Freud del celebre motto «dove era l’Es, deve subentrare l’Io (Wo Es war, soll Ich werden)»8 è lontanissimo dal desiderio di annullare i confini, di confondere l’umano con l’animale, l’Io e l’Es appunto. Eppure quando parla dei suoi cani sembra aprirsi uno spiraglio su un modo del tutto diverso – anche se Freud non l’ha preso in considerazione – di considerare la corporeità. Perché il problema dell’animalità è quello del corpo, e di come liberarlo dal controllo della macchina antropogenica, perché «la differenza» fra uomo e animale «non ha alcun senso»9. Qui ci interessano, al contrario, i modi complicati e torbidi in cui un corpo diventa qualcosa di diverso da quello che era e in cui le essenze e le identità rinunciano al loro orgoglio narcisistico. Ancora una volta è Kafka a guidarci in questo percorso, come era stato lui a mostrarci la violenza del divenire-umano. In effetti il divenire-animale è del tutto diverso dal divenire-umano. Mentre questo è un processo che produce un soggetto, e quindi un “io” e un corpo separati, il divenire-animale, al contrario, è il movimento che va oltre la soggettivazione, e pertanto oltre il linguaggio, perché “io” e linguaggio procedono insieme. Il divenire-animale non va nemmeno inteso come un processo di animalizzazione, come se fosse un “tornare” animale. In realtà non c’è nessun animale a cui tornare, l’animalità del divenire-animale non è nel passato bensì nel futuro, è da costruire non da restaurare. Il racconto di Kafka, Desiderio di diventare un indiano, è brevissimo e fulminante: 8  S. Freud, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, Wien 1933; trad. it. Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Torino 1979, p. 190. 9  V. Despret, Être bête, Arles 2007, p. 29.

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se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, sicché si lasciavano gli speroni, perché non c’erano speroni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza il collo e la testa del cavallo!10

L’indiano non è sul cavallo, non è un “io” che comanda e guida il corpo della bestia, del cavallo che galoppa sfrenato nella prateria. Il cavallo è ormai «senza il collo e la testa», perché non c’è più un cavallo e un indiano, c’è un indiano-cavallo che corre, c’è un divenire-cavallo che non conosce più soggetto e oggetto, chi è sopra e chi è sotto, chi guida e chi è guidato. Questo racconto non è la solita allegoria della libertà, o dell’incontro fra un uomo e un animale: è già il fatto della loro confusione, dell’indiano-cavallo lanciato sulla «terra innanzi a sé», e chi sia questo sé è inutile chiederselo. Il divenireanimale è appunto oltre la domanda su cosa sia, il sé, su quali siano i suoi confini, su che lo differenzi da ciò che il sé non è. Nello Stallone11, un romanzo breve di D.H. Lawrence, si racconta la storia intrecciata di una coppia, lei americana lui australiano, nell’Inghilterra subito dopo la prima guerra mondiale. La loro esistenza è di successo, lui è un pittore che si sta affermando, lei una giovane donna ricca che ancora non ha trovato la sua strada. La vita di società attrae molto l’uomo, Harry, mentre la donna, Louise, per un verso non riesce a trovarla interessante, per l’altro però non trova nemmeno qualcosa 10  F. Kafka, Wunsch, Indianer zu werden, 1913; trad. it. Desiderio di diventare un indiano, in Tutti i racconti, Milano 2009, p. 135. 11  D.H. Lawrence, St. Mawr, London 1925; trad. it. Lo stallone, in Tutti i romanzi e i racconti brevi, Roma 1995, pp. 188-279.

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da opporvi. Finché non regala al marito un cavallo, St. Mawr, un bellissimo stallone dal carattere difficile, che ha già provocato più di un incidente ai suoi precedenti proprietari. La presenza del cavallo cambia radicalmente la prospettiva di Louise, che un po’ alla volta comincia a vedere più distintamente la sua esistenza. St. Mawr, in realtà, non è un animale cattivo, semplicemente non accetta la vita che gli viene proposta. Louise si accorge così che una vita diversa è possibile. E se ne accorge proprio perché St. Mawr rifiuta, in un modo cocciuto e ottuso, di essere soltanto quello che ci si aspetta che sia, un bravo cavallo che faccia fare bella figura ai suoi proprietari: «Non è straordinario», le dice un giorno una amica mentre parlano del cavallo, dopo che ha disarcionato Harry, «che non si riesca mai ad ottenere un animale del tutto soddisfacente? C’è sempre qualcosa che non va. E anche negli uomini. Non è curioso? C’è sempre qualcosa: qualcosa di sbagliato o qualcosa che manca. Perché?»12. Nella tenacia del cavallo Louise vede qualcosa che la riguarda, che le parla della sua insoddisfazione e della sua irrequietezza. Da notare che in questa storia St. Mawr non è una allegoria, è un cavallo che ha un carattere, il carattere che è, non è nulla di più. Non è il simbolo della vita naturale e selvaggia, perché Louise si rende subito conto che non sarebbe una strada praticabile, perché il punto non è tornare a un’esistenza originaria che non è mai esistita, semmai trovare un modo per essere il corpo che si è, cioè quello dell’animale che parla, senza però smettere anche di essere un corpo animale. L’animalità del divenire-animale non è alle nostre spalle, ma davan  Ivi, p. 260.

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ti agli occhi. Quello che, agli occhi della amica, c’è di «sbagliato» in St. Mawr, come anche «negli uomini», è invece proprio ciò che Louise cerca di proteggere e di raggiungere. La «grande tristezza animalesca»13 del cavallo è la sua unica salvezza, come lo diventerà – nel prosieguo della storia – anche per Louise. Il primo passo di questo percorso è quando si accorge che lo stallone non è un cavallo: «Pensa a St. Mawr!», dice alla madre. «Ci ho riflettuto tanto. Lo chiamiamo animale, ma non sappiamo che cosa significa. Mi sembra un mistero molto più grande di un uomo intelligente. È un cavallo. Perché non si può dire lo stesso di un uomo: È un uomo? Sembra che non ci sia mistero nell’essere uomo. Ma c’è un terribile mistero in St. Mawr»14. Il «mistero» che è questo cavallo qui, il suo temperamento, che è allo stesso tempo remissivo e violento, il suo manto rossastro così sensibile e fremente. Non abbiamo parole per pensare questa individualità, mentre sappiamo benissimo che cos’è un «uomo». E così l’uomo, questo uomo in carne ed ossa scompare, e rimane un generico e indistinto «formatore di mondo». St. Mawr non accetta questa riduzione, e si ribella a modo suo, scalciando, rovesciando il collo, non accettando la compagnia dei cavalli che, invece, se ne stanno buoni buoni dentro le loro piccole stalle a masticare avena. St. Mawr ricorda a Louise questa possibilità, affatto impensabile, perché la nostra preoccupazione, al contrario, è sempre di «ottenere un animale del tutto soddisfacente». Lo stallone, semplicemente, non vuole essere «soddisfacente». È questo che affascina Louise, la radicale individualità di St. Mawr, non il «richiamo   Ivi, p. 230.   Ivi, p. 214.

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della foresta» né una presunta condizione naturale di cui non sa che farsene. Alla madre, che all’inizio non comprende l’agitazione della figlia, lo spiega in modo esplicito: «e non fraintendermi, mamma. Non voglio essere un animale come un cavallo, o un gatto o una leonessa, anche se mi affascinano tutti per il modo come vivono d’impulso, non attingendo a un sacco di vecchi serbatoi, come facciamo noi. Non ammiro l’uomo delle caverne e quel genere di cose. Ma pensa, mamma, se potessimo attingere la nostra vita direttamente alla fonte, come fanno gli animali, e rimanere noi stesse»15. Quello che Louise sente mancare nella sua vita è proprio la pienezza della vita animale, cioè appunto il «vivere d’impulso»16, una pienezza che significa una esistenza che rimane incollata alle cose, non impacciata dalla trascendenza che allontana e distrae: «perché il pensiero degli uomini non è veloce come il fuoco [...]? Perché è così lento, così torpido, così mortalmente noioso?»17. Louise non vuole rinunciare alla sua umanità per diventare «un cavallo, o un gatto o una leonessa». L’aggettivo sapiens dell’Homo sapiens non si dismette a piacimento. Non si tratta di smettere d’essere umani, bensì di provare a vivere in un modo che si avvicini a quello degli altri animali. Sua madre, che continua a non capire, l’incalza: «che cosa vuoi, Louise? Vuoi proprio l’uomo delle caverne, che ti picchi sulla testa con la clava?»18. La risposta è facile, perché è evidente che è tutt’altro quello che la figlia desidera: «non essere sciocca, mamma. Quello è piuttosto un tuo inconscio desiderio di ammiratrice   Ivi, p. 215.   Ibid. 17  Ibid. 18  Ivi, p. 216. 15 16

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della Mente. Non considero affatto l’uomo delle caverne un vero animale umano. È un bruto, un degenerato. Un vero animale uomo sarebbe bello come un daino o un leopardo, e arderebbe come una fiamma alimentata da dentro. E sarebbe parte dell’altro mondo, come lo è persino un topo. E non cesserebbe mai di meravigliarsi, respirerebbe silenzio e invisibile meraviglia, come le pernici, che corrono fra le stoppie. Sarebbe tutti gli animali a turno, anziché una cosa, fissa, automatica, che si regge solo sui nervi, come adesso. Ah no, mamma, voglio ritrovare la meraviglia o morirò»19. Ora, la condizione per provare «meraviglia» è poter essere esposti all’esperienza sensibile in modo radicale. È il tema dei «dettagli» di cui parla Temple Grandin (cfr. supra, cap. 5). Per vedere un dettaglio occorre riuscire a vedere questo albero qui, adesso e soltanto lui, senza essere distratti dalla visione della “foresta”. Non è un caso che anche per Lawrence il tema della meraviglia si intrecci a quello del linguaggio20: quello del «vero animale uomo», che deve ancora apparire, sarà «un mondo [...] silenzioso dove il linguaggio non agita [...] mai le foglie tenere e non ne brucia [...] mai i bordi come un vento cattivo»21. In cui appunto anche un foglia è qualcosa da osservare per quel che è, colore, tessitura, profumo, forma, in cui non c’è dettaglio che non attiri l’attenzione. La posta in gioco del divenire-animale è allora sperimentare una umanità che non sia intrappolata nella gabbia del soggetto, di “io” e “tu”, e quindi “io” da una parte e tutto il resto dall’altra. È questo il deside  Ibid.   Cfr. F. Cimatti, L’immanenza della vita. D.H. Lawrence e la psicoanalisi, in «La psicoanalisi», 51, 2013, pp. 277-295. 21  Lawrence, Lo stallone, cit., p. 245. 19 20

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rio di diventare-indiano-cavallo del racconto di Kafka, che non è né un cavallo al servizio di un uomo né un essere umano che si cavallinizza: è un trapassare i confini delle individualità, è diventare flusso e prateria, è sperimentare una nuova forma di vita. Che poi è il desiderio di chi sente così pesante il peso della propria individualità, come anche di quella altrui. Non sarà un caso che una delle descrizioni più efficaci di questo movimento la si trovi nelle pagine dell’autistica Temple Grandin: «cavalcare, per me, è una gioia. A volte ci lanciavamo al galoppo nei prati, ed era una emozione immensa. [...] Ricordo benissimo la sensazione degli alberi che fischiavano mentre sfrecciavamo sul sentiero, superandoli [...]. Dopo un po’ cavalcare diventa istintivo; un buon cavaliere e il suo cavallo diventano una squadra. E non è una relazione a senso unico, in cui l’essere umano dice all’animale che cosa deve fare»22. Divenire cavallo e prateria, non temere per il proprio “io”, coincidere con il flusso del galoppo, «vivere d’impulso», come sogna Louise. Questa è l’animalità dell’uomo, un progetto per il futuro, non un passato da restaurare: Alla fine, un giorno decisi di stendermi sulla schiena e di vedere che cosa sarebbe successo. Vennero tutte da me e continuarono ad annusarmi e a leccarmi. [...] Quando una mucca si avvicina per esplorare un essere umano fa sempre le stesse cose. Prima protende la testa e lo annusa; poi allunga la lingua sfiorandolo appena, e quando ha un po’ meno paura comincia a leccare. Lecca e mastica i capelli, e le piacciono molto anche gli stivali. Di solito non mi faccio leccare 22  T. Grandin, C. Johnson, Animals in Translation. Using the Mysteries of Autism to Decode Animal Behavior, New York 2005; trad. it. La macchina degli abbracci, Milano 2007, pp. 16-17.

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la faccia, perché le mucche hanno una lingua molto ruvida e potrei ritrovarmi con un graffio sulla cornea; a volte però chiudo gli occhi e le lascio andare avanti. Non mi dà fastidio se mi infilano la lingua giù per il collo, quello possono farlo. E lascio anche che mi lecchino le mani. Probabilmente trovano piacevole il sapore del sale che sentono sulla pelle. A volte le bacio sul muso23.

2. Divenire-lupo Una volta – erano ormai passati decenni – venne chiesto a Sergej Costantinovič Pankëev, il nobile russo analizzato da Freud passato alla storia come l’uomo dei lupi (cfr. supra, § 4.1), cosa ne pensasse della sua interpretazione del celeberrimo sogno dei lupi: «cos’è spiegato dai sogni, nella mia storia? Nulla, per quanto possa capirne. Freud riconduce tutto alla scena primaria che fa derivare dal sogno. Ma quella scena non si verifica nel sogno. Quando interpreta i lupi bianchi come pigiami o qualcosa del genere, per esempio camice o vestiti di lino, penso che sia in qualche modo azzardato. Quella scena nel sogno in cui le finestre si aprono e così via, e i lupi che stanno seduti, e la sua interpretazione, non lo so, queste cose sono lontanissime. È tutto molto azzardato»24. Ora, il parere dell’uomo dei lupi sulla psicoanalisi, e sull’interpretazione di Freud dei suoi sogni, vale come quello di chiunque altro, naturalmente. Il punto non è se Freud abbia interpretato in modo corretto o no quel sogno25, piuttosto su quella   Ivi, pp. 62-63.   K. Obholzer, Gespräche mit dem Wolfsmann. Eine Psychoanalyse­ und die Folgen, Reinbeck 1980; trad. ingl. The Wolf-Man Sixty Years Later, New York 1982, p. 35. 25  Cfr., ad esempio, C. Ginzburg, Freud, l’uomo dei lupi e i lu23 24

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sorta di automatismo analitico per cui gli animali sono immediatamente qualcos’altro: sogno un lupo, anzi, dei lupi, ma in realtà si sta sognando il padre, sono bianchi e quindi sono camice da notte, hanno la coda lunga, stai attento al tuo pene. Ma erano lupi: «evidentemente Freud ignora tutto della fascinazione esercitata dai lupi, di ciò che significa il muto richiamo dei lupi, l’appello a divenire-lupo. Dei lupi osservano e fissano il bambino che sogna; è talmente più rassicurante dirsi che il sogno ha prodotto un’inversione e che è il bambino a guardare dei cani o dei genitori mentre stanno facendo l’amore. Freud conosce solo il lupo o il cane edipizzato, il lupopapà castrato-castratore, il cane a cuccia, il “Bau-Bau” dello psicoanalista»26 (come Topsy, il cane allegoria e sostituto che abbiamo appena incontrato). Certo, Sergej Pankëev alla fine è diventato davvero l’uomo dei lupi, rispondeva proprio così, Wolfsmann, quando qualcuno telefonava a casa sua; viene da chiedersi se lo è diventato attraverso la psicoanalisi o lo è rimasto nonostante la psicoanalisi. La questione dei lupi, allora, è importante, com’è importante che ce ne fosse più d’uno: è importante il plurale. Perché il lupo è un animale collettivo, in realtà non c’è il lupo, come c’è il signor Mario Rossi, c’è il branco dei lupi. In questo senso, se la questione dell’animalità è quella di come poter immaginare una umanità post-soggettiva, ecco che il lupo-lupi è uno dei modi per immaginare questa umanità a venire27: «non si può pi mannari, in Miti, emblemi spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 239-251; W. Davis, Sigmund’s Freud Drawing of the Dream of the Wolves, in «Oxford Art Journal», vol. 15, n. 2, 1992, pp. 70-87. 26  G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris 1980; trad. it. Mille piani, Roma 2003, pp. 69-70. 27  Ma in questo modo non stiamo usando il lupo in modo analo-

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essere un lupo, si è sempre otto o dieci lupi, sei o sette lupi. Non sei o sette lupi alla volta, solamente per sé, ma un lupo fra gli altri, con cinque o sei altri lupi. Quel che è importante nel divenire-lupo, è la posizione di massa, e anzitutto la posizione del soggetto stesso rispetto alla muta, rispetto alla molteplicità-lupo, la maniera in cui vi entra o non vi entra, la distanza a cui resta, il modo in cui dipende o non dipende dalla molteplicità»28. Il soggetto, cioè il signor Mario Rossi, è identificato dall’etichetta sulla porta, l’enorme apparato di barriere e confini che lo separa da tutti gli altri Mario Rossi del mondo, porte, lucchetti, antifurto, proprietà private, pass-word, cassette di sicurezza, privacy, “mio” e “tuo” e così via. Il divenire-lupo si colloca d’un colpo oltre questo scenario. Uno degli effetti principali dell’essere passati attraverso la «macchina antropogenica» (cfr. supra, cap. 2) è pensare che ci sia un solo modo d’essere un individuo, quello che si manifesta – agli altri come a sé – mediante il pronome “io”. Come se ci fossero soltanto due alternative: o si è “io” o non si è nulla: «tale prospettiva [...] accorda un principio ontologico all’individuo costituito»29. In realtà il lupo è un individuo, è un corpo con un metabolismo e una psicologia propri, eppure queste caratteristiche non sono sufficienti a costruire un lupo in carne e ossa, un lupo vivente: manca ancora quella che Gilbert Simondon chiama «individuazione di gruppo», un terzo e necessario livello di individuazione, dopo quella «vitale» e quella «psichica»: gico, ancora una volta? Sì, non se ne esce, è pur sempre una soggettività umana che scrive queste righe. 28  Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., p. 70. 29  G. Simondon, L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Paris [1965] 1995; trad. it. L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione, Milano-Udine 2011, p. 31.

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non è [...] corretto parlare dell’influenza del gruppo sull’individuo; in realtà, il gruppo non è costituito da individui riuniti in gruppo da certi legami, ma da individui raggruppati, ovvero da individui di gruppo. Gli individui consistono in individui di gruppo, come i gruppi consistono in gruppi di individui. Non si può affermare che il gruppo eserciti un’influenza sugli individui, poiché questa azione risulta contemporanea alla vita degli individui, non ne risulta indipendente e il gruppo non consiste neppure di una realtà interindividuale, ma in un complemento di individuazione su vasta scala, che riunisce una pluralità di individui30.

L’«individuo di gruppo» non è né un lupo insieme agli altri lupi, come se il branco fosse l’insieme delle singole relazioni fra i diversi lupi, né un gruppo come un’entità dotata di vita propria, che inghiotte e cancella i singoli lupi: né individuo isolato né gruppo totalizzante. Al contrario, è un modo di essere questo lupo che però è inseparabile dal fatto di essere incluso nel movimento unitario di un gruppo di lupi. L’«individuo di gruppo» non è pensabile finché rimaniamo ancorati all’entità “io”-soggettività, perché un individuo del genere si può costruire soltanto marcando la propria differenza rispetto al gruppo: “io” può esserci solo contro un non-“io”. È una inedita soggettività anonima quella che stiamo cercando nel divenire-lupo; anonima perché “io”, in realtà, è la parola dell’altro (di chi mi ha insegnato a parlare, di chi mi ha offerto la lingua in cui penso e parlo), e quindi la soggettività linguistica intanto afferma sé stessa in quanto la sottomette alla lingua dell’altro. Per questa ragione dev’essere anonima, perché non deve avere bisogno del linguaggio per indi  Ivi, p. 402.

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viduarsi. Ma è anonima anche in un altro senso, perché solo se “io” non c’è è possibile provare ad essere l’individualità che si è: questo animale, una volta assorbito nel linguaggio, diventa subito l’animale, ma in questo modo ne perdiamo la sua singolarità inesprimibile, proprio perché è una radicale singolarità. L’«individuo di gruppo» è un individuo non linguistico, ma non per questo chiuso in sé stesso, isolato e autosufficiente. È un rimanere sé stessi con gli altri senza però essere costretti a rinunciare, come accade quando diciamo “io”, a quel nucleo affatto individuale che ci rende proprio quello che siamo. In realtà l’«individuo di gruppo» è più ricco dell’individualità che si arresta alla individuazione «vitale» e «psichica»: «l’essere non è solo ciò che è in quanto manifesto, poiché questa manifestazione consiste [...] di una sola fase; mentre questa fase si attualizza, esistono altre fasi latenti e reali, altrettanto attuali in quanto potenziali energeticamente presenti, e l’essere consiste in esse tanto quanto nella fase attraverso cui consegue l’entelechia»31. Il divenire-lupo non è tanto un rinunciare alla soggettività, quanto un guadagnare nuove e «numerose forme»32, aprirsi ad un «essere polifasico»33 che evidentemente «non può» più «essere considerato all’interno dello schema dei generi prossimi e delle differenze specifiche»34. Uno schema che si costruisce proprio a partire dal nome proprio, che in realtà non è affatto proprio, appunto perché è sempre il nome dell’Altro (il nome ce lo dà qualcun altro): «il nome proprio può essere solo un caso estremo di nome   Ivi, p. 430.   Ibid. 33  Ivi, p. 431. 34  Ibid. 31 32

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comune, che comprende in sé la sua propria molteplicità già addomesticata e la mette in rapporto ad un essere o oggetto posto come unico. Ciò che è compromesso, sia dalla parte delle parole sia da quella delle cose, è il rapporto del nome proprio come intensità con la molteplicità che esso coglie istantaneamente»35. Il divenire-animale è un modo per pensare individualità non soggettivate, corpi singoli che non sono un “io” ma «individui di gruppo» (è nella possibilità di questo ossimoro la sfida dell’animalità), ma allo stesso tempo corpi straordinariamente più potenti di quelli imprigionati nella scatola dell’identità, e che derivano questa potenza proprio dal fatto di non essere trattenuti dal timore di perdere “io”. Si aprono così possibilità vitali del tutto impensate, commistioni che travalicano i confini corporei, a formare flussi in cui non ha più senso distinguere chi agisce e chi subisce, chi è soggetto e chi oggetto, chi è umano e chi non lo è. Il divenireanimale è pertanto un doppio processo, di «deterritorializzazione», che è il processo che apre le frontiere, confonde i territori appunto, e di «territorializzazione», che è quello in cui nascono nuovi territori, nuove aggregazioni, nuovi flussi: «l’orchidea si deterritorializza formando una immagine, un calco della vespa: ma la vespa si riterritorializza su questa immagine. La vespa nondimeno si deterritorializza, diventando essa stessa un pezzo nell’apparato di riproduzione dell’orchidea, trasportandone il polline. La vespa e l’orchidea fanno rizoma in quanto sono eterogenee»36. L’orchidea esce da sé (e cioè apre il proprio territorio), assumendo una forma che verrà completata dalla vespa, formando con   Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., p. 68.   Ivi, p. 43.

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questa un territorio comune; lo stesso accade per la vespa, perché entra a far parte del circuito riproduttivo dell’orchidea. Il punto difficile da mettere a fuoco è che questo nuovo spazio non è il risultato di un qualche patto fra due individualità distinte, piuttosto è la costituzione di un «individuo di gruppo», di un divenireanimale-vegetale all’interno del quale non ha molto senso determinare qual è il contributo della vespa rispetto a quello dell’orchidea, come se si trattasse del confine fra due territori diversi. Il divenire-vespa dell’orchidea, come il divenire-orchidea della vespa, smonta il dispositivo stesso del territorio: «ciascuno di questi due divenire assicura [...] la deterritorializzazione di uno dei due termini e la riterritorializzazione dell’altro, i due divenire concatenandosi e dandosi il cambio secondo una circolazione di intensità che spinge la deterritorializzazione sempre più lontano. Non c’è più imitazione né rassomiglianza, ma l’esplosione di due serie eterogenee nella linea di fuga composta da un rizoma comune che non può essere attribuito né sottomesso ad alcunché di significante»37. Non c’è un ordine precostituito, un piano, una direzione, il «rizoma» si sposta, «non è soggetto alla giurisdizione di nessun modello strutturale o generativo. È estraneo a ogni idea di asse genetico, come di struttura profonda»38. È il soggetto che ha bisogno di un ordine difensivo, che deve rimanere fedele ad uno schema genetico e non oltrepassare i confini della tradizione; il divenire-animale è lo spazio pericoloso della contingenza e dell’occasione: «non è fatto di unità, ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento»39.   Ibid.   Ivi, p. 45. 39  Ivi, p. 56. 37 38

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Un divenire, soprattutto, che «non si lascia riportare né all’Uno né al molteplice»40. Dove finisce, allora, la vespa, e dove comincia l’orchidea? Dov’è il confine, senza il quale non sappiamo come pensare né parlare? «C’è un blocco di divenire che investe la vespa e l’orchidea, ma da cui nessuna vespa-orchidea potrà discendere. C’è un blocco di divenire che prende il gatto e il babbuino, di cui un virus C opera l’alleanza. C’è un blocco di divenire tra radici giovani e certi micro-organismi, le materie organiche sintetizzate nelle foglie che operano l’alleanza (rizosfera)»41. E qui tornano i lupi, e la sfida che pongono al piccolo Sergej, ma anche allo psicoanalista che si affretta a ricondurli nel recinto della soggettività: «ogni animale è anzitutto una banda, una muta»42. Ecco perché c’erano tanti lupi, sull’albero, perché come non esiste l’animale non esiste nemmeno il lupo; quel che si vede è una muta di lupi in movimento, dentro il bosco, che si avvicina e si allontana, che ci osserva, che ci chiama e ci tiene a distanza. Gli animali sono sempre una «molteplicità»43 che mette in crisi “io” e i suoi confini: l’animale «è l’effettuazione di una potenza di muta, che solleva e fa vacillare l’io»44. Del confortevole pensiero binario del soggetto, o “io” o non-“io”, il divenire-animale non sa che farsene, un divenire che si svolge tutto fra quelle due alternative, nell’infinità di combinazioni e incroci che si aprono quando le linee di confine vengono oltrepassate: «io sono legione»45 dice l’animale, e forse avrebbe voluto dirlo   Ibid.   Ivi, p. 342. 42  Ivi, p. 343. 43  Ibid. 44  Ivi, p. 344. 45  Ivi, p. 343. 40 41

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anche l’uomo dei lupi. La «molteplicità» dei lupi, è questa che fa paura, e non perché il lupo sia pericoloso, ma proprio perché sono tanti, i lupi, una «molteplicità» che chiama ad una «alleanza»46 fra diseguali, diversi, nemici: è una «involuzione questa forma di evoluzione che avviene fra elementi eterogenei, a condizione, soprattutto, che non si confonda l’involuzione con una regressione. Il divenire è involutivo, l’involuzione è creatrice. Regredire è andare verso il meno differenziato. Ma involvere è formare un blocco che fila secondo la propria linea, “tra” termini messi in gioco e secondo i rapporti assegnabili»47. È questa l’«involuzione creatrice», che non è una evoluzione, un progresso, un miglioramento – tutte operazioni che rimandano ad un soggetto e a un progetto – l’esito dell’animalità: «le partecipazioni, le nozze contro natura sono la vera natura che attraversa i regni. [...] Combinazioni che non sono né genetiche né strutturali, interregni, partecipazioni contro natura, ma la Natura procede solo così, contro sé stessa»48. I lupi di Sergej annunciano un movimento che prende congedo dalla soggettività chiusa dentro “io”, e infatti sono una muta quei lupi, ci osservano, aspettano, sono su un albero, sono animali pazienti e tenaci. Il divenire-animale come mossa ultima, non dialettica o evoluzionistica, del soggetto, per uscire da sé: «il divenire non produce nient’altro che sé stesso. [...] Ad essere reale è il divenire stesso, il blocco di divenire, e non l’insieme dei termini che si suppongono fissi e per i quali passerebbe colui che diviene»49.   Ivi, p. 342.   Ibid. 48  Ivi, p. 346. 49  Ivi, p. 341. 46 47

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3. La creatura e l’immanenza Il punto da comprendere, del divenire-animale, è che in realtà non diviene nulla, è «un blocco di divenire» che non prevede un compimento, un sapere assoluto, un happy ending in cui tutti i conti tornino. È un aderire al mondo senza residui, è essere il mondo di cui si partecipa. Ma in che modo è, il divenire-animale, se non è “io”? Rimane ancora qualcosa del soggetto? Al riguardo Deleuze e Guattari parlano di «ecceità», ossia «individuazioni senza soggetto»50. È qualcosa, ma senza essere un soggetto che possa riconoscersi come tale: «nulla si soggettivizza, ma si formano ecceità secondo le composizioni di potenze o di affetti non soggettivati»51. L’«ecceità» è un certo grado di potenza, una particolare intensità, un timbro caratteristico. È qualcosa, appunto, e così finalmente «si arriva [...] a essere veramente come tutti»52. Come una miriade di uccelli che formino nel cielo una composizione mobile, un divenire-stormo in cui tutti gli uccelli si assomigliano, eppure ognuno è proprio quel colore, quello scarto, quel verso, quella assoluta e inconfondibile «ecceità» appunto. Ora, questa vita è «pura immanenza»53, proprio perché non c’è l’intralcio di “io” e delle divisioni che subito l’accompagnano, perché si pensa e si pone come soggetto, e quindi pretende un oggetto, un prima e un dopo, un al di qua e un al di là. Una «ecceità» vive la vita che vive, e basta, la rassicurante e razzista distinzione fra «ambiente» e «mondo» qui non   Ivi, p. 375.   Ibid. 52  Ivi, p. 391. 53  G. Deleuze, L’immanence: une vie..., in «Philosophie», 47, 1995, pp. 3-7; trad. it. L’immanenza: una vita..., Milano-Udine 2010, p. 9. 50 51

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si applica più: «è una vita, e nient’altro»54. Torniamo allo stormo che vive nel cielo, una combinazione di corpi a sua volta corpo, ma un corpo che non è organizzato in vista di nulla, non c’è un fine in quel movimento, la sua bellezza non la vede nessuno, sicuramente non gli uccelli che lo compongono, ed è bello proprio per questa ragione. Immanenza significa solo questo, che non c’è nessun oltre, neanche quello della bellezza, che tutto quel che c’è è lì, in quel divenire-stormo: «non è l’immanenza alla vita» – ché ancora distingue fra vita e immanenza, permettendo così alla trascendenza di intrufolarsi – «ma l’immanente che non è in niente è una vita. Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, è completa beatitudine»55. È completa, perché altrimenti sarebbe una potenza che mancherebbe di qualcosa, e quindi non sarebbe un’«immanenza dell’immanenza»; per la stessa ragione è «beatitudine», perché l’immanenza non desidera nulla, non è segnata dalla mancanza, dal rimpianto o dalla nostalgia. La questione dell’immanenza può cominciare a porsi solo laddove non è più il linguaggio a definire la natura di un corpo; essere l’animale che parla significa infatti lanciare l’esperienza oltre il momento che il corpo sta vivendo, significa usare un gesto espressivo – una parola, ad esempio – per indicare qualcosa che non è presente nel momento dell’enunciazione; la trascendenza entra nella vita dell’Homo sapiens con il linguaggio56. L’immanenza è piena, ignora infatti che possa essere   Ibid.   Ibid. 56  Cfr. F. Cimatti, Linguaggio e religione. Lacan sull’umano come animale malato, in «Psicoterapia e Scienze umane», 4, 2010, pp. 463472. 54 55

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un buco, che infatti «è una particella quanto ciò che ci passa. Alcuni fisici dicono: i buchi non sono assenze di particelle, ma particelle che vanno più veloci della luce. Ani volanti, vagine rapide, non c’è castrazione»57. L’idea stessa della castrazione è inconcepibile senza il linguaggio: la castrazione – l’architrave della teoria psicoanalitica dell’umano – è una assenza che rimanda ad una presenza che non sarebbe più. Solo una mente linguistica può considerare una presenza, ad esempio una certa conformazione corporea, come segnale dell’assenza di qualcos’altro: solo l’animale che parla, l’animale educato al simbolismo, al rimando, alla trascendenza, può infatti vedere in qualcosa dell’altro che non ci sarebbe: questo è del tutto chiaro – come qualcosa potrebbe non essere al suo posto, non stare in un posto dove per l’appunto non è? Dal punto di vista del reale, questo non vuol dire assolutamente niente. Tutto ciò che è reale è sempre e necessariamente al suo posto, anche quando lo si va a scomodare. Il reale ha come proprietà di portare il suo posto attaccato alla suola delle scarpe. Potete sconvolgere il reale quanto volete, si dà il caso che i nostri corpi saranno ancora al loro posto dopo l’esplosione di una bomba atomica, al loro posto in pezzi. L’assenza di qualche cosa nel reale è puramente simbolica. È solo nella misura in cui definiamo attraverso la legge che dovrebbe stare lì che un oggetto manca al proprio posto58.

L’immanenza, al contrario, non manca di nulla: «l’immanenza assoluta è in sé: non è in qualche cosa, a qualcosa, non dipende da un oggetto e non appartiene   Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., p. 74.   J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre IV. La relation d’objet (1956-1957), Paris 1994; trad. it. Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale, Torino 2007, pp. 33-34. 57 58

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a un soggetto»59. Una volta che il campo dell’essere si libera dalla stretta del linguaggio si aprono possibilità di individuazione non soggettivate assolutamente straordinarie: l’«ecceità», a questo punto, non è costretta a coincidere con un corpo, e tanto meno con un “io”: «una stagione, un inverno, un’estate, un’ora, una data hanno un’individualità perfetta, che non manca di nulla, sebbene non si confonda con quella di una cosa o di un soggetto. Sono ecceità, nel senso che lì tutto è in rapporto di movimento e di riposo tra molecole o particelle, potere di intaccare e di venire intaccato»60. La curiosa tripartizione di Heidegger, pietra animale e uomo (e le piante? e tutti i milioni di animali diversi che esistono?) viene sorpassata d’un solo colpo. Una «ecceità», un «corpo si definisce soltanto mediante una longitudine e una latitudine: cioè l’insieme degli elementi materiali che gli appartengono sotto certi rapporti di movimento e di riposo, di velocità e di lentezza (longitudine); l’insieme degli affetti intensivi di cui è capace, secondo un certo potere o grado di potenza (latitudine). Nient’altro che affetti e movimenti locali, velocità differenziali»61. Nell’immanenza la trappola cognitiva del nome, che scontorna e distingue, traccia confini, gerarchie, scale, non c’è più: il mondo si riempie di presenze inedite, che travalicano i cordoni sanitari della sostanza, del proprio e dell’improprio, del mio e del tuo: un mondo che ora, letteralmente, esplode di vite inedite, impossibili, contaminate. Divenire-animale significa questo movimento, questa deflagrazione, questa straordinaria ricchezza. La sfida dell’animalità non è quella, allora, di recuperare   Deleuze, L’immanence, cit., p. 8.   Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., p. 368. 61  Ibid. 59 60

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l’animale che è in noi, operazione a un tempo impossibile – perché non è possibile dismettere a piacimento la condizione umana – e inutile, perché non abbiamo mai smesso di essere animali: è piuttosto quella di rendere possibile questa operazione di radicale decentramento rispetto alla soggettività linguistica: avete l’individuazione di un giorno, di una stagione, di un anno, di una vita (indipendentemente dalla durata) – di un clima, di un vento, di una nebbia, di uno sciame, di una muta (indipendentemente dalla regolarità). O almeno potete averla, potete arrivarci. Un nugolo di cavallette portate dal vento alle cinque della sera; un vampiro che esce la notte, un lupo mannaro quand’è luna piena. E non si creda che l’ecceità consista soltanto in un decoro o in uno sfondo che localizzerebbe i soggetti né in appendici che fisserebbero al suolo le cose e le persone. Tutto il concatenamento nel suo insieme individuato è una ecceità; si definisce mediante una longitudine e una latitudine, per velocità e affetti, indipendentemente dalle forme e dai soggetti che appartengono a un altro piano. Il lupo stesso o il cavallo o il bambino finiscono di essere soggetti per divenire eventi, in concatenamenti che non si separano da un’ora, da una stagione, da un’atmosfera, da un’aria, da una vita. La strada si compone con il cavallo, come il topo che agonizza si compone con l’aria, e la bestia e la luna piena si compongono fra loro62.

È un mondo del tutto nuovo quello dell’immanenza, un mondo che è tutto qui, che non aspira ad altro che essere qui, senza oltre, senza prima, qui, proprio qui. Un qui che assume un valore diverso, perché non si proietta nei tempi che non ci sono più, né in quelli che non ci sono ancora. L’immanenza non si proietta, sem  Ibid.

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plicemente, l’immanenza sta ferma sul posto, come i lupi che osservano Sergej o il gatto che guarda Derrida. Entrare in quel mondo significa scoprire una ricchezza che nemmeno sospettiamo. La sfida dell’animalità è tutta qui, nel provare ad entrarci. Certo, entrarci è un’avventura, perché il prezzo che si paga è molto alto, all’ingresso si lascia “io”. Ma è questa l’animalità. E poi il mondo, appunto, esploderà di vita: «il clima, il vento, la stagione, l’ora non sono di una natura diversa dalle cose, dagli animali o dalle persone che li popolano, li seguono, vi dormono o vi si svegliano. Ed è di un sol fiato che si deve leggere: la-bestia-caccia-alle-cinque»63. Questo campo dell’«immanenza assoluta» è l’«aperto»64, come lo chiama un poeta, Rainer Maria Rilke. E qui vive la «creatura» – l’animale – che «con tutti gli occhi vede [...] l’aperto»65. Lo vede «con tutti gli occhi» perché non c’è nessuno schermo che si frapponga fra la creatura e il mondo; lo vede in tutti i suoi dettagli, come sappiamo, lo vede per quel che c’è da vedere. La «creatura» partecipa del mondo, semplicemente. E soltanto lei lo può vedere: «ciò che è fuori solo dal volto animale lo sappiamo»66. All’uomo, all’animale linguistico, questa visione semplice e radicale è preclusa, perché è ostacolata dal linguaggio. Rilke rovescia così (anche se scrive le Elegie prima del corso che abbiamo commentato nel cap. 2) la posizione di Heidegger: non è l’animale che è «povero di mondo», al contrario, l’unico vero mondo, in tutta la sua potenza e il suo splendore   Ivi, p. 371.   R.M. Rilke, Duineser Elegien, Frankfurt a.M. [1922] 1955; trad. it. Elegie duinesi, Genova 1985, p. 91. 65  Ibid. 66  Ibid. 63 64

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soltanto l’animale può percepirlo e viverlo. È l’uomo che manca della pienezza del mondo, non l’animale67: che, non costretto a difendere “io”, non vincolato dalla soggettività gettata nel tempo e nella noia, è infine «libero da morte»68. E non perché non muoia, piuttosto perché solo “io” può smettere di essere, di colpo; una «ecceità», invece, trapassa in un altro «blocco di divenire», «come il topo che agonizza si compone con l’aria»: alla creatura «infinito gli è l’essere suo, non còlto e privo di visione sul suo stato, puro, come il suo guardar fuori. E dove non vediamo l’avvenire, là vede il tutto e sé nel tutto, risanato per sempre»69. Al contrario, «questa», cioè la morte, «noi soli la vediamo; il libero animale ha sempre dietro sé il suo tramonto, e a sé innanzi Dio, e quando va, va nell’eterno, come le fonti vanno»70. Qui «Dio» non è affatto da intendere come l’irruzione della trascendenza, piuttosto come la raggiunta pienezza dell’immanenza, di un divenire che non si arresta mai, «come le fonti». L’«aperto», è lo «spazio puro innanzi, nel quale in infinito si dischiudono i fiori. È sempre mondo e mai non-luogo senza non: il puro, incustodito, che si respira, si sa infinitamente e non si brama»71. Il «non» è il segno del mondo umano, è l’operatore linguistico più importante di tutti gli altri, perché dice ciò che non è; il «non» è la dispiegata potenza del linguaggio. La trascendenza comincia con il «non». L’«aperto», 67  Sulla critica di Heidegger, che non convince fino in fondo, alla nozione di «aperto» di Rilke cfr. A. Calligaris, «E tuttavia noi siamo con loro». La straniante parentela tra l’uomo e l’animale in Heidegger, in «Esercizi Filosofici», 2, 2007, pp. 20-40. 68  Rilke, Elegie duinesi, cit., p. 91. 69  Ivi, p. 93. 70  Ivi, p. 91. 71  Ibid.

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invece, non è mai «non-luogo», cioè una presenza che allude ad una assenza; non è nemmeno la negazione di questo «non-luogo». È anteriore a questa distinzione, di cui non ha bisogno, è uno spazio che «si [man] sa infinitamente»; cioè nessuna persona sa qualcosa, è un sapere infinito, senza portatore, immanente. Immaginare l’animalità umana è immaginare un modo per vedere l’«aperto», per lasciare la nostra condizione di viventi sospesi, lacerati dal linguaggio: E noi: sempre, ovunque spettatori, rivolti a tutto questo e fuori mai! In noi trabocca. Lo ordiniamo. Si disgrega. Torniamo ad ordinarlo e siamo noi dissolti. Chi ci ha dunque voltati che, in qualsivoglia cosa intenti, disposti siamo come uno che parte? Come quello, sull’ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s’arresta, si volge indietro, [indugia – così viviamo, in un continuo prendere congedo72.

  Ivi, p. 95.

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Figure dell’animalità

Insomma, [...] l’ideale sarebbe farla finita con il simbolico (J. Lacan, L’insu que sait de l’unebéuve, inedito, lezione dell’8 febbraio 1977).

1. Il santo Provare ad esplorare l’animalità umana significa avventurarsi in un campo in cui quel che abbiamo sempre saputo, di noi e dell’animale, non serve più. Il problema è che l’animalità dell’uomo non la possiamo trovare negli altri animali, perché Homo sapiens esiste solo perché, con un gesto che si ripete ogni volta che prende la parola, non fa che staccarsi da tutti gli altri animali. Non c’è Homo senza animalitas, e viceversa. Qualunque uomo che cerchi di ritrovare il contatto con l’animalità, ad esempio, non per questo smette di essere un esemplare della specie Homo sapiens. La condizione di “io” non si dismette con la volontà o con le buone intenzioni. Il problema dei rapporti fra esseri umani e animali non è un problema etico, bensì biologico. Il primo tipo di problema può essere risolto, forse, con l’educazione, con l’empatia, con qualche forma di rinuncia. Il secon­162

do no, perché la propria condizione biologica non rientra nei poteri della volontà. Un “io” buono che ami gli animali e mangi solo frutta e verdura1 non smette per questo di essere una soggettività. E se è una soggettività, se cioè è un “io”, non smetterà – che lo voglia o no – di affermare la propria differenza dall’animale. Per questa ragione l’animalità umana va cercata nell’umano, e non negli animali. Il problema è che il modo – la macchina antropogenica – attraverso cui si diventa umani esclude un patto con gli animali, che non sia quello (nei casi migliori) di rinchiuderli in uno zoo o in una riserva naturale: Il fatto di avere fra le proprie rappresentazioni anche quella dell’Io eleva l’essere umano infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. È questo che ne fa una persona e, in virtù dell’unità della coscienza in tutte le alterazioni che possono toccarlo, una medesima e sola persona, cioè un essere del tutto differente per rango e dignità dalle cose, quali sono gli animali privi di ragione, di cui può disporre a piacimento2.

Kant è esplicito, e presenta con brutalità la questione fondamentale: la soggettività umana, cioè la «persona», incarna un vivente completamente diverso dagli 1  In realtà esiste anche un «comportamento» delle piante; cfr. J. Silvertown, D. Gordon, A Framework for Plant Behavior, in «Annual Review of Ecology and Systematics», vol. 20, 1989, pp. 349-366. Questo significa, ma lo sappiamo almeno da Aristotele, che esiste una sensibilità vegetale; perché allora preoccuparci di quella di una gallina e non di quella di un cespo di insalata? Siamo sempre lì, c’è sempre un uomo che decide della vita e della morte dei viventi. 2  I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Könisberg 18002; trad. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, Torino 2010, p. 109.

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altri viventi. Che anche Homo sapiens sia un animale, che esistano menti e linguaggi animali, che esista l’empatia, è tutto vero e indubitabile: rimane il fatto che una «persona» è un tipo di vivente affatto particolare, che può esistere solo a condizione di ribadire sempre di nuovo la propria differenza rispetto agli altri animali. E non esiste etica che possa cancellare questo dato di fatto biologico. Kant non fa che esporre con nettezza quello che un petto di pollo avvolto nel cellophane al supermercato mostra in modo ipocrita (perché è presentato in modo tale che ci dimentichiamo che si tratta della porzione di un cadavere): gli animali sono «cose [...] di cui si può disporre a piacimento». Ma non si potrebbe, come vorrebbe il pensiero animalista, rispettare gli animali? Il punto è che la condizione di soggetto conferisce all’umano un potere che nessuna etica può contenere. L’egoismo non è un difetto dell’umano che una educazione illuminata potrà un giorno eliminare, è piuttosto la sua caratteristica (biologica) principale: «dal giorno in cui incomincia a parlare con l’“Io” ecco che, ogni volta che può, l’essere umano pone in primo piano il suo amato “Sé”, e l’egoismo avanza inarrestabile, se non in modo palese (dato che gli si oppone l’egoismo degli altri), quantomeno di nascosto; e con l’apparente abnegazione e pretesa modestia, con tanta più sicurezza egli cerca di darsi un valore preminente nel giudizio altrui»3. Il triste destino degli animali nel «mondo» umano, la loro condizione di «cose» non dipende, allora, da una cattiveria che un essere umano migliore alla fine sconfiggerà: dipende dal fatto che “io” è un “io”. Il disastro ecologico a cui stiamo andando   Ivi, pp. 110-111.

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incontro non è causato dalla cattiveria umana, ma dal fatto che ogni “io”, nei limiti dei suoi mezzi, cerca di affermare sé stesso a spese di tutti gli altri: il fuoco non distrugge perché è malvagio, ma perché brucia. Certo, si può rinchiudere quel fuoco all’interno di un forno, e così lo controlleremo, ma il fatto che ci proteggiamo dalle sue fiamme significa solo che continuerà a bruciare legna, carbone, e tutto quello che troveremo per alimentare la sua natura distruttiva. Il collegamento che esiste fra linguaggio, “io” e distruzione degli animali lo mostra in modo esemplare Flaubert in La légende de saint-Julien l’Hospitalier. È la storia di un giovane principe, e comincia quando scopre il gusto dell’uccidere un vivente: «un giorno, durante la Messa, egli scorse, alzando la testa, un topolino bianco che spuntava da dietro un muro. Il topo trotterellò sul primo gradino dell’altare, e dopo aver fatto due o tre giri a destra e a sinistra, fuggì dalla stessa parte. La domenica seguente, lo turbò l’idea che avrebbe potuto rivederlo, e l’aspettò ogni domenica. Ne era irritato, e cominciò a odiarlo: infine decise di farlo morire. Prima chiuse la porta, poi, seminate sui gradini le briciole di un dolce, si appostò davanti al buco, con una bacchetta in mano. Dopo molto tempo spuntò un muso color di rosa, poi il topo tutto intero. Giuliano batté un leggero colpo, e rimase stupefatto davanti a quel piccolo corpo che non si muoveva più. Una goccia di sangue macchiava la pietra»4. Giuliano vede un topolino bianco, gli presta attenzione. È in chiesa, forse è preoccupato che un topo possa profanare il luogo sacro, oppure semplicemente 4  G. Flaubert, La légende de  saint-Julien  l’Hospitalier, in Trois Contes, Paris 1877; trad. it. La leggenda di san Giuliano ospitaliere, in Tre racconti, Milano 1956, p. 83.

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scopre il potere implicito nel fatto di essere un “io”. In effetti il topo non è un pericolo, né un alimento, è solo un «topo», qualcosa che c’è, ma che lui può decidere che non ci sia più. È più che sufficiente per decretarne la morte. Ora, un «topo» non è appunto che un topo; non basta uccidere una volta, perché dopo uno c’è due, e poi tre, e così via: «uccelli di ogni genere rubacchiavano le sementi nel giardino. Gli venne l’idea di mettere dei piselli in una canna cava. Quando sentiva cinguettare su un albero, si avvicinava in punta di piedi, poi alzava il tubo, gonfiando le gote: e le bestiole gli piovevano sulle spalle in tale abbondanza che non poteva trattenersi dal ridere, tutto felice della sua trovata»5. Non è il bisogno che spinge Giuliano alla caccia, non è la fame né la paura: il suo è un desiderio che non ha una spiegazione direttamente biologica. Giuliano uccide, un topo, poi degli uccellini, poi «uccise orsi a colpi di coltello, tori con la scure, cinghiali con lo spiedo»6 senza mai fermarsi. Quello che colpisce, nel suo comportamento, è l’elemento numerico: ogni numero è seguito da un altro numero, che a sua volta sarà seguito da un altro numero, e così via, così come ogni preda non è che la penultima, perché non c’è, per lui, l’ultima preda, come non esiste un numero che non possa essere superato da un numero ancora più grande. Ma i numeri sono parole: Giuliano è ostaggio del linguaggio: «il soggetto è portato a comportarsi in modo essenzialmente significante ripetendo all’infinito qualcosa che per lui è, propriamente parlando, mortale»7. È «mortale» per gli animali, ma anche per lui, perché intrappolato in un   Ivi, pp. 83-84.   Ivi, p. 84. 7  J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre IV. La relation 5 6

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meccanismo che è più forte di lui, che lo trascina e lo priva della libertà. Giuliano non è malvagio, Giuliano è l’animale che parla. E così «un mattino d’inverno partì prima che facesse giorno, ben equipaggiato, con una balestra in spalla e un turcasso pieno di frecce appeso all’arcione»8: parte perché non può che ripetere «all’infinito» il dispositivo che lo muove. Comincia il massacro: «in cima ad un ramo un gallo di macchia intirizzito dal freddo dormiva con la testa sotto l’ala. Giuliano, con un colpo di spada gli recise le due zampe, e continuò per la sua strada senza nemmeno raccoglierlo»9; su uno sperone di roccia ci sono due caproni, «curvandosi, a piedi nudi, riuscì a giungere fino al primo [...] e gli immerse un pugnale nelle costole. L’altro, in preda al terrore, si buttò nel vuoto»10; poi è la volta degli uccelli, «di tanto in tanto passavano sulla sua testa delle gru, volando basso. Giuliano le ammazzava con la frusta, e neppure un colpo gli fallì»11. Ma la strage è appena agli inizi: «un capriolo balzò fuori dal fitto del bosco, apparve un daino in un crocicchio, un tasso uscì da un buco, un pavone spiegò la sua coda sul prato, e quando li ebbe uccisi tutti, si presentarono altri caprioli, altri daini, altri tassi, altri pavoni, e poi merli, gazze, puzzole, volpi, ricci, linci, una infinità di bestie, a ogni passo più numerose»12. Ma perché non scappano gli animali? Non scappano perché non possono scappare, perché non esiste un luogo in cui siano al riparo dagli esseri d’objet (1956-1957), Paris 1994; trad. it. Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale. 1956-1957, Torino 2007, p. 46. 8  Flaubert, La leggenda di san Giuliano, cit., p. 88. 9  Ivi, p. 89. 10  Ibid. 11  Ibid. 12  Ivi, p. 90.

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umani, perché Giuliano li raggiungerà comunque, perché appena c’è “io” c’è l’animale, cioè «cose [...] di cui può disporre a piacimento». E poi l’epilogo, «un vallone in forma di circo [...] gremito di cervi»: al pensiero di una simile carneficina, per qualche minuto, la voluttà della strage gli tolse il respiro. Poi discese da cavallo, si rimboccò le maniche, e cominciò a tirare. Al sibilo della prima freccia tutti i cervi voltarono simultaneamente la testa. Si fecero dei vuoti nella loro massa; si udirono voci di lamento e una gran movimento agitò tutto il branco. La sponda del vallone era troppo alta perché potessero risalirla. Se cercavano di uscire dal recinto, vi ricadevano. Giuliano mirava e tirava, e le frecce cadevano fitte come la pioggia nella tempesta. I cervi inferociti si colpivano fra loro, si impennavano, montavano gli uni sopra gli altri; e le loro corna con le corna ramose aggrovigliate formavano come un largo mucchio che nello smuoversi si sfasciava. Infine, morirono, distesi sul terreno, con la bava alle narici, le viscere sparse, mentre il palpito del loro ventre si andava abbassando a poco a poco. Poi tutto fu immobile. [...] Giuliano si appoggiò ad un albero e stette a contemplare con occhi affascinati l’enormità del massacro, senza riuscire a comprendere come avesse potuto compierlo13.

Ora, cosa è successo, durante questa strage? Giuliano ha ucciso tutti i cervi intrappolati nella valle, ma in realtà il suo operato è del tutto analogo a quello di Adamo quando assegna un nome ad ogni animale: Flaubert lo nota esplicitamente: «talvolta, in sogno, si vedeva al centro del paradiso terrestre come il padre Adamo, in mezzo a tutte le bestie; allungando il braccio le faceva morire. Oppure sfilavano a due a due, per ordine di   Ivi, p. 91.

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grandezza, a cominciare dagli elefanti e dai leoni agli ermellini e alle anitre, come il giorno che erano entrati nell’arca di Noè. Nell’ombra di una caverna, vibrava su di esse i suoi infallibili giavellotti; ne giungevano altre: la cosa non finiva mai, ed egli si svegliava ruotando gli occhi feroci»14. Adamo è davanti all’animale, gli attribuisce un nome, e così lo rende infelice15 e mortale, perché lo trasforma in un’entità individuata, cioè qualcosa che comincia e che prima o poi finirà. Solo le entità individuate possono morire, tutto il resto non nasce e non muore, trapassa da una forma ad un’altra. Per questo il gesto di Adamo non è che l’anticipazione di quello di Giuliano. Che infatti non sta vedendo un cervo in particolare, ma sta mirando al cervo, e poi ad un altro cervo, e poi ad un altro ancora. Accecato dal linguaggio e dal numero sta inseguendo una astrazione. Si tratta di interrompere questo dispositivo, è questo il tema del resto del racconto di Flaubert. Che non può essere interrotto da un atto volontario, come se Giuliano, d’un colpo, capisse che è male quel che ha fatto fino a quel momento. Intanto perché è sempre stato chiaro che nessuna giustificazione esiste per quella brama di assassinio. Ma soprattutto perché se è male uccidere gli animali, Giuliano non ha nessuna colpa di quel male, che infatti eredita dal gesto originario di Adamo: Giuliano è quel male. Per questo il tema dell’animalità non è un tema etico16. Il punto di svolta del racconto è nella maledizione che gli lancia l’ultimo cervo rimasto   Ivi, pp. 100-101.   E. de Fontenay, Le silence des bêtes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité, Paris 1998, p. 730. 16  Cfr. C. Diamond, The Difficulty of Reality and the Difficulty of Philosophy, in S. Cavell et al., Philosophy & Animal Life, New York 2008, p. 71. 14 15

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vivo, prima di stramazzare al suolo ucciso da una freccia che l’ha colpito alla fronte: «“Maledetto! Maledetto! Maledetto! Un giorno tu, cuore feroce, sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre”» gli grida in faccia, «poi piegò le ginocchia, chiuse lentamente le palpebre, e morì»17. Giuliano, terrorizzato, fugge via dal castello natio, diventa soldato di ventura in terre lontane, compie gesta eroiche, sposa la figlia di un imperatore. La sua vita è felice, sembra cambiata, eppure sente che quella maledizione l’accompagna, e non tanto per quello che ha fatto, ma per quel che è. E difatti alla fine, nonostante tutte le sue cautele, Giuliano uccide gli anziani genitori, che da anni vagavano alla sua ricerca. Questa volta la sua fuga è definitiva. Dopo aver vagato a lungo disperato diventa traghettatore, porta le genti da una sponda all’altra di un fiume, non chiede nulla per sé, lo fa perché non c’è niente più che possa fare. Finché, una notte, si presenta un lebbroso, che chiede di essere portato dall’altra parte del fiume. È una notte di tempesta, Giuliano lo accoglie nella sua capanna, lo disseta e lo sfama. «“Ho il ghiaccio nelle ossa! Vienimi vicino”» gli grida il lebbroso, «e Giuliano, sollevata la tela, si coricò sulle foglie secche, vicino a lui, fianco a fianco»18. Ma non basta: «il lebbroso voltò la testa: “Spogliati, perché io senta il calore del tuo corpo!”. Giuliano si levò i vestiti; poi, nudo come era nato, si ricacciò nel letto, e sentiva contro la coscia la pelle del lebbroso, più fredda di un serpente e scabra come una lima. Cercava di fargli coraggio, ma l’altro rispondeva, ansante: “Ah! Sto per morire!... Avvicinati, scaldami! Non con le mani!   Flaubert, La leggenda di san Giuliano, cit., p. 92.   Ivi, p. 119.

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No! Con tutto il tuo corpo”. Giuliano gli si stese sopra completamente, bocca contro bocca, petto su petto»19. Siamo alla fine di questa storia: Giuliano, il discendente di Adamo che aveva dato un nome agli animali, dopo averli massacrati, realizzando la profezia che in quel nome era contenuta, è alle prese con quella stessa morte che ha così generosamente e ottusamente diffuso per il «mondo». Per tornare a quella morte e liberarsene è dovuto passare per quella dei suoi stessi genitori, per liberarsi di quella discendenza. È altissimo il prezzo che Giuliano deve pagare per affrancarsi dal peso delle stragi di cui si è macchiato. Ma non c’era un altro modo: Giuliano uccidendo i suoi stessi genitori uccide sé stesso come colui che portava la morte con le frecce, come Adamo la portava con le parole. C’è ora, forse, la possibilità di un altro Giuliano: allora il lebbroso lo strinse a sé; e d’un tratto i suoi occhi presero la chiarità delle stelle, i suoi capelli si allungarono come raggi di sole; il suo respiro aveva la dolcezza delle rose; una nube d’incenso si levò dal fuoco, le onde del fiume cantavano. Nello stesso tempo una sovrabbondanza di delizie, una gioia sovrumana inondò l’animo di Giuliano; e colui le cui braccia lo stringevano sempre, diventava grande, grande, toccava con la testa e coi piedi i muri della capanna. Il tetto sparì, si spiegò il firmamento20.

2. Il corpo Il paradosso dell’“io” è che esattamente lo stesso gesto che permette di diventare un “io” impedisce di esserlo   Ivi, pp. 119-120.   Ivi, p. 120.

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in senso pieno. La verità di questo corpo che proclama la sua raggiunta condizione di io, ebbene quello stesso “io” non la può dire. Per dire quella verità, infatti, occorre usare le parole di altri, la lingua dell’Altro: ma l’io che si vorrebbe dire è questo corpo qui, proprio ora, e soltanto qui e soltanto ora. Ma nessuna lingua dispone del mezzo per indicare questa assoluta individualità: “io” è una parola che, come tutte le parole della lingua, chiunque può usare. Ci sono tanti “io” quanti sono i corpi che dicono “io”. Quando dico “io” per indicare ciò che c’è di più singolare in me, ebbene in quello stesso momento sto dichiarando che non sono in grado di cogliere questo nucleo, proprio perché non ci sono parole, per dirla, questa assoluta individualità che è mia e solo mia. La macchina antropogenica non conosce questo corpo, come non conosce la diversità della vita; è l’animale che conosce, è il generico e intercambiabile “io” che può indicare. È l’indicibile verità del corpo che ci interessa qui, una verità che il senso, e quindi il linguaggio, non può articolare: il corpo è dove si cede. “Non senso” non indica qui qualcosa come l’assurdo, né un senso alla rovescia o contorto (non è in Lewis Carroll che arriviamo a toccare i corpi); ma indica che non c’è senso o che si tratta di un senso che nessuna figura del “senso” può avvicinare. Senso che ha senso laddove, per il senso, è limite. Senso muto, chiuso, autistico; ma non c’è autós, non c’è “sé stesso”. L’autismo senza autós del corpo, che lo rende indefinitamente meno di un “soggetto”, ma anche infinitamente diverso da esso; gettato e non “soggettato”, ma anche lui duro, intenso, inevitabile e singolare come un soggetto21. 21  J.-L. Nancy, Corpus, Paris 1992; trad. it. Corpus, Napoli 1995, pp. 14-15.

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Ora, questo corpo è laddove il senso «cede», perché è una specie di sublimazione del senso, che appare quando il linguaggio ha rinunciato alla sua presa, e lascia libero il corpo di essere sé stesso. Un corpo che non è un soggetto, perché c’è soggetto solo attraverso “io”, ma non per questo – anzi, proprio grazie a questo – è meno «singolare». Un corpo che non è nemmeno «autós», però, perché solo un “io” ha dei confini da difendere, solo un “io” può essere egoista. È un corpo che è tutto da conquistare, passando attraverso il linguaggio (è lo stesso faticoso tragitto che deve percorrere Giuliano per abbandonare l’eredità di Adamo), per liberarsene, infine: «forse corpo è la parola che per definizione non ha uso» appunto perché per il linguaggio non c’è questo corpo, ma solo il corpo; per questa ragione è una «parola di troppo in ogni linguaggio»22. Quel corpo che comunque resiste, «come un pezzo d’osso, come un sassolino, come un grave, come ghiaia che cade a picco»23. Il corpo, per il linguaggio, è indigeribile. Ma come arrivare, infine, ad essere semplicemente corpo? Per il linguaggio, lo sappiamo, il corpo è il sostrato della mente, per questo è invisibile, oppure è segno di altro, come vuole il cosiddetto linguaggio del corpo: ossia, il corpo non è per sé. Esemplare il caso di certa psicoanalisi, che non riesce letteralmente a vederlo, il corpo, se non come allegoria di un senso altro, nascosto, da decifrare e finalmente portare alla luce: «è [...] sorprendente [...] [come] un certo discorso della psicoanalisi si ostini, negando il suo oggetto, a fare del corpo un che di “significante”, invece di smascherare la significazione come ciò che dappertutto fa ostacolo agli   Ivi, p. 20.   Ibid.

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spaziamenti del corpo. [...] Pare così che l’isteria diventi esemplare: un corpo saturo di significazione. E quindi niente più corpo...»24. Il corpo isterico parla attraverso i suoi sintomi, ma appunto parla. Qui interessa invece un corpo che non ha nulla da dire, che è soltanto il corpo che è, la sua potenza e la sua debolezza. Giuliano si accorge infine della semplicità del corpo, dopo averne massacrati a centinaia senza mai vederne nessuno, quando infine stringe a sé in un abbraccio mortale e torbidamente erotico il lebbroso. È come se le parole, infine, denunciassero la loro limitatezza, perché non si possono spingere oltre, e allora ecco il lebbroso, le piaghe, il disgusto, il piacere, la morte. Perché solo dove il linguaggio si arresta può apparire il corpo: «se il corpo è segno, non può essere il senso: e ha bisogno dunque di un’anima o di uno spirito, che saranno il vero “corpo del senso”»25. Ecco, dove c’è il corpo, finalmente, niente più spirito, anima, trascendenza. Si apre uno spiraglio, e il corpo appare, per la prima volta forse, come se prima di allora non ci fosse mai stato, o non l’avessimo mai osservato, come Giuliano e i cervi che uccide a centinaia, uno, un altro, un altro ancora, senza fine. Il corpo appare, allora, come l’inciampo del senso, quando la parola gira a vuoto, non parla più. Ora, ci sono due modi di considerare questo corpo che finalmente appare: lo si può vedere dal punto di vista del senso, e quindi del linguaggio e di “io”, come la negazione del senso (come corpo muto, ossia incapace di parlare); oppure, dall’altro punto di vista, come una nuova possibilità di esistenza, come quella di Giuliano oltre sé stesso, e quindi come corpo che non ha (più) bisogno del lin  Ivi, p. 21.   Ivi, p. 58.

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guaggio. Per esplorare la prima possibilità ci affidiamo di nuovo ad uno scrittore, Tommaso Landolfi, nel racconto Dialogo dei massimi sistemi. C’è un poeta, Y, che è alla ricerca della sua voce affatto unica, quella che caratterizzi lui e soltanto lui. Y è convinto che, per raggiungere questo scopo, «è di gran lunga preferibile scrivere in una lingua imperfettamente conosciuta, anziché in una che ci sia compiutamente familiare»26. Una perfetta conoscenza della lingua significa infatti che il proprio parlare è assolutamente corretto, che rispetta tutte le norme, e non introduce nessuna forzatura nell’uso delle parole: ma allora coincide con la lingua della comunità, appunto, all’interno della quale la voce individuale finisce per svanire. Y decide pertanto di farsi insegnare il persiano da un conoscente, o quello che crede essere il persiano. Perché un giorno, quando il suo insegnante è ormai partito, Y si accorge che non è affatto persiano quello che ha imparato: la lingua in cui ha faticosamente scritto tre poe­sie in realtà «non esiste e non è mai esistita»27. Ma allora, che cosa ha scritto realmente Y? Una serie di macchie d’inchiostro su di un foglio può essere considerata una scrittura, se non esiste una lingua che permetta di comprendere quelle macchie come segni? Il punto è che la lingua in cui ha scritto le sue poesie, o almeno quelle che lui chiama poesie, per Y «questa dannatissima lingua che non so come chiamare è bellissima, bellissima... e io l’amo molto»28. Ecco il punto: questa lingua non esiste, la conosce, forse, soltanto Y, eppure è una lingua «bellissima, bellissima». La voce di Y, quella che lo rende 26  T. Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, in Opere I. 1937-1959, Milano 1991, p. 43. 27  Ivi, p. 46. 28  Ibid.

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affatto inconfondibile, la sua voce (per questa ragione la «ama molto»), ebbene questa lingua non esiste. In real­ tà una sua voce può esistere solo perché la lingua in cui si manifesta quella voce non c’è. Altrimenti sarebbe la lingua di tutti, e non di Y. Nelle tre poesie che Y ha scritto e «in cui avevo messo il meglio di me!»29. Possiamo capire bene perché in quelle poesie ci sia il «meglio» di Y: perché la sua verità, ciò che lo rende quel particolare e unico essere umano che è, e che nessun altro potrà mai essere, ha trovato una lingua che «non esiste», un modo per manifestarsi assolutamente unico. Il personaggio di Landolfi si trova stretto in un paradosso senza vie d’uscita: da un lato cercava un mezzo per manifestare la sua voce che fosse assolutamente proprio, e inutilizzabile da altri; dall’altro lato la lingua in cui ha scritto le sue poesie non è, in realtà, una lingua: «dietro di loro [le tre poesie] non c’è un complesso di norme o di convenzioni, dietro di loro c’è solo il capriccio di un momento, capriccio in nessun modo codificato, dileguato irrimediabilmente come è sorto»30. Y ha trovato la sua lingua, finalmente, una lingua che è soltanto sua, però – e proprio per questa ragione – è una lingua che nessun altro può comprendere: «e allora, chi ci garantirà che la stessa espressione non muti, volta a volta, radicalmente di significato? Nei diversi componimenti o nello stesso. Non una parola, vogliate notarlo, si trova ripetuta due volte attraverso le tre poesie. Teoricamente [...] si può supporre che ognuna delle tre poesie svolga una certa immagine (o concetto che vogliate dire), e contemporaneamente, visto che le parole non hanno un senso ben definito, cento, mille,   Ivi, p. 47.   Ivi, p. 49.

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un milione di altre immagini (o concetti)»31. La lingua di Y è ricchissima, può manifestare «cento, mille, un milione di altre immagini», ma proprio questa ricchezza impedisce che un qualunque lettore possa comprendere quello che ha scritto. Y è precipitato in una situazione comunque insoddisfacente: da un lato c’è la verità di sé stesso, che però non può condividere con nessuno; dall’altro la possibilità di essere compreso da tutti, ma a prezzo di rinunciare alla propria individualità. La testimonianza, necessariamente incomprensibile, di questo paradosso la vediamo nella poesia di Y: Aga magéra difúra natun gua mesciún Sánit guggérnis soe-wáli trussan garigúr Gúnga bandúra kuttávol jerís-ni gillára Lávi girréscen suttérer lunabinitur Guesc ittanóben katír ma ernáuba gudún Vára jeskílla sittáranar gund misagúr Táher chibíll garanóbeven líxta mahára Gaj musasciôr guen divrés káes jenabinitúr Sòe guadrapútmijen lòeb sierrakár masasciúsc Sámm-jab dovár-jab miguélcia gassúta mihúsc Sciú munu lússut junáscru gurúlka varúsc32.

Ma c’è un paradosso ulteriore, in questa poesia; non solo è incomprensibile per un normale lettore, è incomprensibile anche – e soprattutto – per l’autore: «vi confesserò», rivela Y al critico a cui si è rivolto per capire se la sua è davvero una poesia, «che, vista la piega presa dalla faccenda, io stesso ho bruciati tutti i miei vecchi appunti, che avrebbero potuto costituire la grammatica o il codice della lingua. La lingua deve quindi ritenersi   Ivi, p. 50.   Ivi, p. 51.

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inesistente, anche per le due sole persone [l’amico e Y] che l’hanno parlata per qualche mese»33. La vera e inconfondibile voce di Y non la può ascoltare neanche Y. È importante essere precisi, a questo punto, perché è qui che può rientrare in campo il corpo. In effetti la poesia è incomprensibile soltanto ad Y in quanto “io”. Ma l’“io” in cui Y si riconosce non è tutto quel che c’è in quel corpo che, non si sa come né perché, ha composto quegli strani versi che abbiamo appena visto. Il corpo che gli altri chiamano con il nome proprio (che però è altrui) “Y”, e che usa riferirsi a sé stesso mediante la parola “io”, non coincide con Y e “io”. Y si sente precipitare in un paradosso perché non riesce a sentire, nelle “poesie” che ha composto ma che non sa leggere, qualcosa che comunque appartiene al corpo che è. Y è spaventato dalla prospettiva di essere un corpo che ha confini più estesi di quelli che “io” pretende di fissare. Y vede le poesie soltanto come qualcosa privo di senso, non come il campo di azione di un corpo che si muove da solo oltre il linguaggio. Y non riesce ad immaginare, per sé, una vita oltre il linguaggio. Torniamo a Giuliano, allora, per provare almeno ad immaginare cosa potrebbe succedere ad un corpo che si avventuri in questo campo. Giuliano uccide gli animali, questa è la sua verità. In realtà uccide anche molti esseri umani, durante il periodo in cui comanda una compagnia di ventura, ma soprattutto uccide tutti gli animali che incontra. Li uccide, uno dietro l’altro. In effetti è una specie di pulsione numerica, prima che di morte, quella che lo agita34. Ma se è vero che muoiono solo le entità   Ivi, p. 48.   Sul rapporto fra linguaggio e capacità numeriche cfr. H. Wiese, Language, Numbers and the Human Mind, Cambridge (UK) 2003. 33 34

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individuate da un nome, allora pulsione numerica è un sinonimo di pulsione di morte. Giuliano è agito da una pulsione che lo costringe, quasi suo malgrado, ad uccidere tutte le forme di vita che incontra. E così finisce per uccidere anche i suoi stessi genitori, ciò che, peraltro, non è particolarmente sorprendente, perché in fondo sono loro che gli hanno trasmesso quella pulsione35. Giuliano fino a questo punto è vissuto nella condizione di chi «trova la propria casa in un punto situato nell’Altro»36. Ecco, Giuliano non ha mai vissuto nella propria casa. La posta in gioco dell’animalità è tutta qui, finalmente: Giuliano potrà mai vivere a casa sua? Qui va subito evitato un grave equivoco: non si tratta di liberare Giuliano dai condizionamenti sociali che bloccherebbero lo “spontaneo” sviluppo del suo “io”, al contrario, si tratta di liberarlo proprio da “io”. Il problema non è che Giuliano non può realizzare sé stesso, quanto liberarlo dal condizionamento che “io” impone al corpo che è. “Io” è un costrutto linguistico (cfr. supra, cap. 2); la sfida dell’animalità umana è prospettare una vita in qualche modo ancora umana tuttavia non vincolata dal bisogno identitario e dall’egoismo di “io”. In realtà lo stesso bisogno di realizzare sé stessi è un bisogno che soltanto “io” può avere e desiderare; ma siccome «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro»37, quello che “io” crede essere il suo desiderio è appunto soltanto il desiderio dell’Altro, «quell’Altro che si sottrae nel rinvio 35  Cfr. N. Ray, Psychoanalysis and “The Animal”: A Reading of the Metapsychology of Jean Laplanche, in «Journal of Critical Animal Studies», 10 (1), 2012, pp. 40-66. 36  J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre X. L’angoisse, Paris 2004; trad. it. Il seminario. Libro X. L’angoscia. 1962-1963, Torino 200, p. 53. 37  Ivi, p. 26.

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indefinito delle significazioni, l’Altro in cui il soggetto si vede soltanto come destino, ma come un destino che non ha termine, un destino che si perde nell’oceano delle storie»38. L’Altro non lo possiamo toccare, è l’insieme dei condizionamenti, delle tradizioni, delle «storie» appunto che dobbiamo introiettare per diventare umani: non a caso Vygotskij definisce questo come un vero e proprio «processo di trapianto»39. La completa realizzazione del desiderio di “io”, il sogno di ogni soggettività liberata, in effetti coincide con il massimo di assoggettamento. Il problema non è liberare “io”, bensì liberarsi da “io”. Se ora torniamo ad Y del racconto di Landolfi ecco allora che appare una possibilità di rovesciamento; quei versi che nessuno comprende, lui per primo, sono però qualcosa che è davvero soltanto suo, anche se non appartengono a nessun “io”. È un’opera a suo modo perfetta proprio perché non ha bisogno di una soggettività, è qualcosa che appare, in modo quasi spontaneo, come un cristallo o una gemma. Se allora quei versi sono una condanna, per Y in quanto “io”, possono però anche diventare una straordinaria esperienza per un corpo che non teme più di muoversi oltre il campo della soggettività. C’è una differenza fondamentale fra l’animalità umana e il corpo sotto il regime di un “io”: la caratteristica fondamentale della soggettività è la «mancanza», proprio perché “io” non trova al suo interno ciò che lo definisce come “io” bensì nell’Altro, fuori di sé: «la mancanza è radicale, radicale alla costituzione stessa della soggettività [...]: non appena si sa, non appena   Ivi, p. 51.   L.S. Vygotskij, Istorij razvitija vyssih psihiceskih funktcij, Moskwa 1960; trad. it. Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Firenze 1974, p. 219. 38 39

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qualcosa giunge al sapere, vi è qualcosa di perduto»40. L’animalità, al contrario, è piena, è tutto ciò che è, non manca di niente, coincide con sé stessa. Del corpo non si chiede: di che manca? che cosa desidera? La domanda ora diventa, piuttosto: «che cosa può un corpo?»41. Il corpo di Y è capace di scrivere poesie che nessuno è in grado di comprendere, e che proprio per questa ragione contengono un cuore di verità che nessuna comprensione o interpretazione potrà mai annacquare; il corpo di Giuliano può abbracciare il lebbroso, cioè la morte, oltre che darla, e finalmente rompe i confini identitari che lo costringevano nel ruolo o di cacciatore o di cacciato. Ora si apre un intero mondo di possibilità, del tutto impensabili finché si rimbalza fra “io” e “tu”, agente e paziente, soggetto e oggetto. Un corpo non è che questo corpo, in questo momento, in questo luogo: per capire che è un corpo non serve chiederci se è un “io”, se parla, se è razionale. Un corpo è ciò di cui è capace: «quello vola, questo mangia l’erba, quell’altro la carne, ecc., il regime alimentare. È chiaro? Si tratta di modi di esistenza. Lo stesso accadrà per le cose inanimate: cosa potrà un diamante? Di che cosa è capace? Cosa può sopportare? Cosa può fare? Un cammello può stare senza bere per molto tempo. È una sua “passione”. Allora si apre un campo enorme di sperimentazioni, dove l’essenza non c’entra più nulla. Le persone cominciano ad essere viste come insiemi di possibilità»42. È un «campo enorme di sperimentazioni» quello   Lacan, L’angoscia, cit., p. 145.   G. Deleuze, Les cours de Gilles Deleuze: sur Spinoza, 19781981; trad. it. Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Verona 2010, p. 80. 42  Ivi, p. 81. 40 41

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dell’animalità umana, un campo che richiede di passare attraverso le maglie del linguaggio e dell’individuazione, ma per poi allontanarsene. È l’obiettivo radicale della psicoanalisi, in particolare di quella lacaniana, muoversi dal «simbolico» – cioè dal linguaggio, dal desiderio dell’Altro – verso il «reale», verso il corpo. Per questa ragione l’animalità umana, se esiste, può apparire soltanto dopo il linguaggio, perché solo un “io” può rinunciare alla soggettività, solo un corpo «che s’imbroglia con il simbolico»43 può desiderare una pienezza che non ha mai conosciuto, e che vede e invidia negli animali. Ritroviamo qui la strana poesia di Y, che è fatta di linguaggio ma non serve a comunicare: «che resta, allora?» ci si chiede dopo questo movimento dal «significante» al «reale»? La risposta non sorprende, a questo punto: «resta un x, che è la poesia»44. Poesia che va intesa come l’apparire – che non rimanda a nulla, che non dice e non allude a niente, senza profondità o interiorità – della singolarità unica e radicale che ogni corpo incarna: «è una poesia speciale, poiché è quella che opererebbe un rapporto diretto del significante con il corpo»45. Qui è importante questo aggettivo, «diretto»: il significante diventa il corpo stesso dell’uomo. Il linguaggio smette di essere segno, e diventa gesto, carne. 3. L’artista Ma perché è così importante la questione del linguaggio? Tutti gli animali, ma più in generale tutti i viventi, 43  J.-A. Miller, L’inconscio reale, in «La psicoanalisi», n. 49, 2011, p. 225. 44  Ibid. 45  Ibid.

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in qualche modo comunicano, tutti quindi conoscono il linguaggio. È vero, ma è vero anche che l’animale umano è così impastato di linguaggio che, in realtà, è un «parlêtre»46 [parlessere]. L’animale che parla – non come caratteristica aggiuntiva, ma come quella che lo rende l’animale che è, e non un gatto o una lucertola – l’animale che parla è completamente attraversato dal linguaggio. La prima e fondamentale conseguenza di questo attraversamento è che l’animale umano è diviso in due, è un “io” e un corpo che non arrivano mai a toccarsi (cfr. supra, cap. 2). Da questa divisione discende quella «deriva della mente»47 che è la sua condizione, ma anche la sua condanna. L’animalità umana si colloca alla fine di questa traversata. È una animalità che prova a ricostruire la pienezza del corpo. Una pienezza raggiungibile solo a condizione di trasformare il linguaggio da formidabile dispositivo di separazione e «mancanza» in una modalità di ricomposizione. Il punto è che il linguaggio è, per sua natura, «doppio». Non esiste un’entità linguistica semplice, nel senso che sia soltanto ciò che è: «esiste una lingua se a[lla sequenza fonica] m + a + r + e è attaccata una idea»48. Ma questo significa che ogni entità linguistica allontana da quanto è fisicamente presente: c’è questo oggetto materiale, ad esempio il rumore mare emesso da un corpo umano, ma questo stesso oggetto non ha nessun valore di per sé, perché dipende da qualcos’altro, dal suo significato, che invece non è presente né è necessario che sia presente per poter usare quella sequenza fonica. In

  J. Lacan, Autres écrits, Paris 2001, p. 565.   A. Ferrari, Il pulviscolo di Giotto. Saggi psicoanalitici sullo scorrere del tempo, Milano 2005, p. 67. 48  F. de Saussure, Écrits de linguistique générale, Paris 2002, p. 20. 46 47

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questo senso il linguaggio è per sua natura trascendente, ossia rimanda ad una realtà diversa da quella che si sta vivendo mentre lo si usa. Non c’è bisogno di credere in Dio per vivere l’esperienza della trascendenza, basta prendere la parola, e aspettarsi una risposta: «finché si parla si crede in Dio. [...] è il Padre che dà il nome, che nomina le cose. I nomi dati alle cose è da lui che li riceviamo e ci crediamo. Dal momento che crediamo al linguaggio, che crediamo a ciò che il linguaggio comunica, diciamo la messa, celebriamo una messa»49. Ogni atto linguistico presuppone la fiducia nel linguaggio. Perché mare deve significare proprio quello che credo che significhi? E come faccio ad essere sicuro che la parola che mi hanno insegnato sia proprio quella giusta? La fiducia è il sentimento che si prova rispetto a ciò che non controlliamo e che non è presente, e che forse domani potrà esserlo. Ci si fida del prossimo, come della legge o delle previsioni atmosferiche, perché in quanto animali del linguaggio siamo anche gli animali della fiducia. Non esiste linguaggio senza fiducia. Ma tornare al corpo significa non avere più bisogno della fiducia, perché il corpo è sempre qui. E se non ci fidiamo del corpo, non è perché il corpo ci ha tradito, piuttosto perché “io” non lo può realmente conoscere, perché “io” non è nel corpo, bensì ha un corpo. L’esperienza dell’immanenza presuppone o di fare a meno del linguaggio, oppure di un linguaggio che non sia più doppio. È questa l’animalità umana, l’immanenza. La psicoanalisi – soprattutto quella della tradizione lacaniana – si pone l’obiettivo di recuperare esattamente questa pienezza del corpo che “io” non ha mai 49  J.-A. Miller, Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII “Il Sinthomo”, Roma 2006, p. 60.

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conosciuto. Non solo “io” non conosce il corpo, in realtà non è in grado di conoscerlo perché ci può essere “io” solo a condizione di spezzare l’unitarietà del corpo50. La psicoanalisi è il tentativo (intrinsecamente irrealizzabile, ché l’animale umano è il «parlêtre») di trasformare la coppia “io”/corpo in qualcosa di unitario. Torniamo per un momento all’uomo dei lupi di Freud (cfr. supra, cap. 4). Uno dei suoi sintomi nevrotici era una grave stitichezza; «nel corso del trattamento», scrive però Freud, «i suoi intestini, come qualsiasi organo colpito dall’isteria, cominciarono a “entrare nella conversazione”, recuperando in poche settimane la funzione menomata da lunghissimo tempo»51. Il corpo innocuo, quello che ubbidisce ai ritmi e alle regole di “io”, è quello che parla, che è capace di «entrare nella conversazione», di farsi capire e ascoltare. L’unico corpo ammesso è quello che si conforma al linguaggio, che è il modello del corpo. L’uomo dei lupi non ha trovato altro modo di conoscere il corpo che assoggettarlo all’io. Ma così il corpo perde ogni autonomia e verità. Infine diventa l’uomo dei lupi52, usando per sé il nome del caso clinico che l’ha reso famoso. Non è più Sergej Costantinovič Pankëev, e infatti ha preso il nome che gli hanno dato, il nome che gli ha assegnato Freud, e di quelli che in seguito hanno continuato ad occuparsi di lui53. L’unico modo che Sergej 50  Cfr. F. Cimatti, Psicoanalisi e natura umana, in «Rivista di Psicoanalisi», n. 2, anno LVIII, 2012, pp. 477-490. 51  Freud, L’uomo dei lupi, cit., p. 341. 52  Cfr. K. Obholzer, Gespräche mit dem Wolfsmann. Eine Psychoanalyse und die Folgen, Reinbeck 1980; trad. ingl. The Wolf-Man Sixty Years Later, New York 1982, p. 4. 53  In effetti è stato in analisi praticamente per tutta la vita; cfr. Obholzer, The Wolf-Man, cit.

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ha trovato per affrontare la sua nevrosi è stato negarla, trasformarla in una specie di linguaggio che qualcuno – lo psicoanalista – avrebbe un giorno interpretato e quindi svelato. E così anche il suo celebre sogno finisce per essere solo una specie di rebus, e il suo corpo una specie di testo composto da sintomi (segni) che vanno ricondotti al loro significato nascosto. Il corpo non c’è, è la manifestazione di qualcos’altro. Ora, il percorso che proviamo a seguire è diverso: rimanere nel corpo, senza allontanarsene. Il punto non è spiegare il sintomo (il lupo che significa il padre, ad esempio), piuttosto «farci qualcosa»54, trasformarlo in un’occasione di singolarizzazione, cioè nell’opportunità per provare ad essere qualcosa di affatto unico: «quando si constata di essere affetti da un sintomo si hanno due strade. O si inizia a guardare i programmi dietetici: cinque capsule al giorno, andare a letto e svegliarsi sempre alla stessa ora, non fumare, fare sport. O fate qualcosa con ciò che non è conforme. Joyce non si è occupato di decifrare il suo sintomo. Ha preferito cifrarlo in modo diverso»55. Il tragitto del bambino che sognava i lupi è stato invece quello di passare da un nome dell’Altro, Sergej Costantinovič Pankëev, a quello – Wolfsmann – di un ulteriore Altro, quello della scienza psichiatrica. Come se le uniche possibilità che gli si offrivano fossero comunque decise da Altri. Per questo l’obiettivo dell’analisi non è riportare ancora una volta il corpo al linguaggio (la psicoanalisi non è una ermeneutica), piuttosto, come scrive la psicoanalista lacaniana Colette Soler, «cercare l’analfabeta»56 nel   Miller, Pezzi staccati, cit., p. 105.   Ibid. 56  C. Soler, Lacan. L’inconscient réinventé, Paris 2009, p. 40. 54 55

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corpo che parla. È in questo paradosso la sfida dell’animalità: cercare nel «parlêtre», cioè nell’animale linguistico, quel nucleo affatto individuale e trasformativo che sfugge al linguaggio. L’obiettivo diventa così quello di scoprire il vero «nome proprio»57. Ma che nome è quello che ci si può assegnare? È un nome che nessuno può comprendere (come le poesie di Y nel racconto di Landolfi), perché un nome che sia davvero privato non si può usare nella pubblica comunicazione con gli altri, e quindi sarà affatto incomprensibile (anche a chi se lo attribuisce, ovviamente). E sarà un nome che non designa un “io”, perché “io” in realtà è sempre costretto ad indossare «gli abiti dell’Altro»58. È quindi il nome proprio di un corpo che non è un “io”. È la assoluta e radicale singolarizzazione che solo Homo sapiens può provare a raggiungere; perché un animale privo di linguaggio non conosce io, e quindi nemmeno il problema del suo assoggettamento o del suo affrancamento. Mentre solo un animale linguistico può provare a liberarsi di “io” senza per questo rinunciare ad essere qualcosa di affatto individuale: soltanto un “io”, cioè, può arrivare alla «coscienza dell’insignificanza del proprio attribuirsi importanza»59. Il passaggio dal corpo linguisticizzato, diviso in “io”/soggetto e carne/oggetto, al corpo immanente, non illuso né attratto dalla trascendenza, Lacan lo tematizza attraverso la distinzione fra «sintomo freudiano» – quello che cerca un senso e una interpretazione – e «sinthomo» che «è al di là   Ivi, p. 92.   Ivi, p. 121. 59  E. Tugendhat, Egozentrizität und Mystik. Eine anthropologische Studie, München 2003; trad. it. Egocentricità e mistica, Torino 2010, p. 43. 57 58

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della decifrazione»60. Il «sinthomo» è un uso originale e creativo del corpo e delle sue potenze. Il «sinthomo» non è il trionfo di “io”, al contrario, può apparire solo laddove scompaiono “io” e l’Altro, e quindi egoismo (“io” > altri) e altruismo (“io” < altri). Il «sinthomo» è oltre il linguaggio, è finalmente «un lembo di reale»61: «incarnare il sintomo è il contrario di significantizzare. Quando si parla della presa del significante, è sempre per dire in definitiva che il dettaglio, l’incontro, il singolare, viene trasposto come per miracolo nell’universale del significante. Qui si tratta di un movimento esattamente inverso, di un’incarnazione che conduce [...] a una struttura che è quella dell’uomo»62. Un «uomo» come solo l’artista può essere (per Lacan il modello di questo processo è James Joyce), ossia come colui che è capace di trasformare il sintomo in un nuovo modo di fare esperienza: l’artista accoglie «il suo sintomo per farne uso. [...] [I]l sintomo non è da interpretare, ma è da ridurre, [...] non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso. Qui non c’è nessuna risonanza che sia di rassegnazione. Al contrario, c’è l’idea che si fa con il resto, che il resto è fecondo, che il resto è la risorsa»63. Il «resto» è proprio ciò che il linguaggio non riesce a significantizzare, è ciò che resiste e blocca l’ingranaggio semiotico; ecco, si tratta di attenersi strettamente a quel resto perché è lì la verità del corpo. L’animalità dell’uomo si concentra qui:   Miller, Pezzi staccati, cit., p. 25.   J. Lacan, Le séminaire. Livre XXIII. Le synthome, Paris 2005; trad. it. Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-1976, Roma 2006, p. 135. 62  Miller, Pezzi staccati, cit., p. 38. 63  Ivi, p. 32. 60 61

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bisogna lasciare un resto, [...] un resto rimane sempre nella misura in cui ciascuno è senza pari, e che la sua differenza risiede nell’opacità che rimane sempre. Questo resto non è lo scacco della psicoanalisi, ma è precisamente ciò che costitui­ sce il vostro valore, per poco che sappiate farlo passare allo stato di opera. Senza dubbio è lì che ciascuno pecca, inciampa, zoppica, ma è anche lì che per ciascuno si costituisce la propria differenza o la propria nobiltà64.

Incarnare sé stessi, è questo il «sinthomo». Passare attraverso la trascendenza che il linguaggio trascina con sé, per arrivare, infine, ad «un secondo risveglio, un risveglio che sarà al di là di quel risveglio che è solo la continuazione del sonno sotto un’altra forma»65. Artista è chi riesce a compiere questo percorso, per “io” oltre “io”. Alla fine c’è di nuovo, e soltanto, il corpo, ma non più come possesso di una soggettività, c’è il corpo «che è quanto vi è di singolare in ciascun individuo»66. È questa la meta di questo tragitto, diventare corpo, diventare animale, diventare artista: «egli è colui che ha il privilegio di essere arrivato al punto estremo per incarnare in sé il sintomo, ragion per cui egli sfugge a ogni morte possibile»67. Il massimo di individualità coincide così con una sorta di eternità, perché se muore solo il vivente individuato da un nome (cfr. supra, § 3.2), allora l’artista che ha un nome che in realtà non è un nome di fatto non muore; è come se la traccia unica della singolarità si aggiungesse alle altre tracce che il tempo lascia sulla terra. L’artista non ha alcun “io” da difendere, per questo non muore, e per questa stessa ragione ha la du  Ivi, p. 43.   Ivi, p. 114. 66  Lacan, Il sinthomo, cit., p. 164. 67  Ibid. 64 65

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rata – allo stesso tempo infinita e finita – che ha la vita di un animale, di una pietra, di una nuvola: essere all’ora del mondo. Ecco il legame fra impercettibile, indiscernibile, impersonale, le tre virtù. Ridursi a una linea astratta, un tratto, per trovare la propria zona di indiscernibilità con altri tratti ed entrare così nell’ecceità come nell’impersonalità del creatore. Allora, siamo come l’erba: abbiamo fatto della gente, di tutta la gente, un divenire, poiché abbiamo costruito un mondo di comunicazione inevitabile, perché abbiamo soppresso in noi tutto quel che ci impediva di scivolare tra le cose, di crescere nel mezzo delle cose. Abbiamo combinato il “tutto”, l’articolo indefinito, l’infinito-divenire, e il nome proprio al quale ci si riduce. Saturare, eliminare, mettere tutto68.   Deleuze, Guattari, Mille piani, cit., p. 392.

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Indice dei nomi

Abraham, Nicolas, 137. Agamben, Giorgio, 17-18, 22, 24, 88, 95, 125. Baysinger, Craig M., 118. Benjamin, Walter, 106. Benveniste, Émile, 42. Bermond, Bob, 6. Bever, Thomas G., 108. Bonaparte, Maria, 135. Bradbury, Jack W., 107. Brandalise, Adone, 79.

Derrida, Jacques, viii, 68, 88-89, 92-97, 99, 102, 108, 113, 159. Descartes, René, 7. Despret, Vinciane, vii, 47, 65, 107, 118, 138. Diamond, Cora, 169. Engstler-Schooler, Tonya, 126. Esposito, Roberto, 18, 101.

Calarco, Matthew, vii, 17, 73. Calligaris, Anna, 160. Celan, Paul, 93. Chomsky, Noam, 85. Ciccarelli, Roberto, vii. Cimatti, Felice, vi, 4, 29, 42, 66, 71, 109, 124-125, 127, 143, 155-157, 184. Coetzee, John Maxwell, 134. Davis, Whitney, 146. De Carolis, Massimo, 66. de Fontenay, Élisabeth, 17, 64, 96, 169. de Saussure, Ferdinand, 183. Deleuze, Gilles, 80, 101, 146, 150, 154, 181, 190.

Falzone, Alessandra, 88. Feldman, Marcus W., 53. Ferrari, Armando, 183. Filippi, Massimo, 116. Fitch, Tecumseh, 85. Flaubert, Gustave, 165-166, 170. Freud, Sigmund, 40, 79, 83-84, 136-138, 184. Fusco, Giuseppe, 98. Gajdon, Gyula K., 129. Gallese, Vittorio, vi. Gardner, Allen, 109. Gardner, Beatrice T., 109. Gehlen, Arnold, 121. Genosko, Gary, 79. Gibson, Jerome, 32. Ginzburg, Carlo, 145. Gordon, Deborah, 163.

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Grandin, Temple, 125-128, 143144. Guattari, Felix, 80, 101, 146, 150, 154-157, 190. Harlow, Harry, 65, 117-118. Hauser, Marc, 85. Hegel, Georg Wilhelm, 60-63, 65, 67, 88. Heidegger, Martin, 14-23, 26-33, 38, 47, 51-58, 66, 69-70, 81, 87, 99, 101-102, 107, 118-125, 128, 137, 157, 160. Huber, Ludwig, 129. Johnson, Catherine, 125. Kafka, Franz, 106, 113, 115-116, 137, 139. Kant, Immanuel, 163-164. Köhler, Wolfgang, 130, 132-133. Krovitz, Gail, 35. Lacan, Jacques, 40-41, 45, 67, 74, 81-87, 92, 110-111, 114, 162, 166, 179, 181-182, 188-189. Laland, Kevin N., 53. Landolfi, Tommaso, 175. Lawrence, David Herbert, 139, 143. Leopardi, Giacomo, 50. Lévinas, Emmanuel, 73, 94. Linden, Eugene, 109. Lurija, Aleksandr R., 46, 48, 57, 121, 130. Macola, Erminia, 79. MacPhail, Euan, 35. Malaparte, Curzio, 71-73, 75. Marcoaldi, Franco, 78. Maurizi, Marco, 57. Mazzeo, Marco, 65. Miller, Jacques-Alain, 38, 85, 111, 182, 184-185, 188. Minelli, Alessandro, 98.

Nagel, Thomas, 4. Nancy, Jean-Luc, 172. Nelson, Andrew, 35. Obholzer, Karin, 145, 185. Odling-Smee, John, 53. Ostrander, Elaine A., 135. Ovidio, 103-104. Pankëev, Sergej C. (l’uomo dei lupi), 79-80, 82-85, 89-91, 93, 99, 145-146, 152-153, 185. Parker, Heidi G., 135. Pascuzzo, Giuseppina, 79. Patterson, Charles, 56, 72. Pennisi, Antonino, 88. Pepperberg, Irene, 108. Petitto, Laura A., 108. Plubell, Philip, 118. Ponge, Francis, 101. Pontalis, Jean-Bertrand, v. Ray, Nicholas, 179. Rilke, Rainer Maria, 159-160. Rizzolatti, Giacomo, 34, 47. Safran Foer, Jonathan, 6. Salomè, Lou, 137. Sanders, Richard J., 108. Schooler, Jonathan, 126. Silvertown, Jonathan, 163. Simondon, Gilbert, 147. Singer, Peter, 6. Sinigaglia, Corrado, 34, 47. Soler, Colette, 186. Terrace, Herbert, 108. Thompson, Jennifer, 35. Torok, Maria, 137. Tugendhat, Ernst, 187. Valery, Paul, xi, 135. Vehrencamp, Sandra L., 107.

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von Frisch, Karl, 119. von Uexküll, Jakob Johann, 7-16, 21, 24-30, 44, 56, 61, 64, 121. Vygotskij, Lev S., 46, 48, 54, 5758, 126, 130, 180.

Wallman, Joel, 106. Wiese, Heike, 178. Wittgenstein, Ludwig, 3. Zambon, Francesco, viii.

Indice del volume

Introduzione  Gli animali non esistono

v

1. L’animale è mancante

3

1. L’animalità umana, p. 3 - 2. «Mondo» e «ambiente», p. 7 - 3. Che cosa è l’animale?, p. 17

2. La macchina antropogenica

24

1. La zecca e la noia, p. 24 - 2. Addomesticarsi, p. 33 - 3. Alla fine c’è “io”, p. 41

3. Rabbia e nostalgia

50

1. Perché loro sì e noi no?, p. 50 - 2. L’animale è infelice, p. 59 - 3. Sigfrido e il salmone, p. 68

4. Farsi vedere

78

1. I lupi ci guardano, p. 78 - 2. «Visti visti dall’animale», p. 87 - 3. L’animale oltre l’animot, p. 98

5. Divenire-umano

106

1. L’«unità rattiera» e il labirinto, p. 106 - 2. La foresta senza gli alberi, p. 118 - 3. In gabbia, p. 128

­195

6. Divenire-animale

135

1. L’indiano e il cavallo, p. 135 - 2. Divenire-lupo, p. 145 - 3. La creatura e l’immanenza, p. 154

7. Figure dell’animalità

162

1. Il santo, p. 162 - 2. Il corpo, p. 171 - 3. L’artista, p. 182



Indice dei nomi

191