Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma
 9788857519920

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Il caffè dei filosofi n. 46 Collana diretta da Claudio Bonvecchio, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio Comitato scientifico Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Matteo Giovanni Brega (IULM, Milano) Antimo Cesaro (Università degli Studi di Napoli, Federico II) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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Lucrezia Ercoli

FILOSOFIA DELLA CRUDELTÀ Etica ed estetica di un enigma

MIMESIS Il caffè dei filosofi

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© settembre 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana Il caffè dei filosofi n. 46 Isbn: 9788857519920 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

Introduzione Crudus Cruor et sanguis Il monstrum della ragione

7 11 14

1. La crudeltà in scena Il mistero Artaud Tutto ciò che agisce è crudeltà Idolatria della cultura Sulla scena Sussurri e grida Kathartikos Parresia

17 19 23 25 28 32 36

2. Figure della crudeltà La crudeltà è una terra straniera Revenant Il gioco degli opposti Una cresta che trema al vento L’uno che eravamo Opera al nero Far danzare l’anatomia La cattiva novella L’anarchico incoronato

41 45 49 52 57 62 67 74 81

3.

Per un’est-etica crudele Scrivere con il sangue Senza alibi Le lacrime di Eros

89 96 102

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Dépense Mischiatemi a voi, pirati! Direttamente alla carne Fuori dal museo Caosmos

111 115 118 122 126

Conclusione

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Bibliografia

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INTRODUZIONE L’enigma della crudeltà

Che cosa vuol dire “crudele”? E dove comincia la crudeltà? Jacques Derrida

Crudus La crudeltà ci sommerge. Siamo circondati da comportamenti crudeli, inorridiamo di fronte a immagini crudeli, stigmatizziamo personaggi bollandoli come crudeli. La parola “crudeltà” è utilizzata con incredibile frequenza: dai titoli dei giornali alle relazioni interpersonali, dagli atti giudiziari ai litigi coniugali. Crudeli sono i tempi, i rapporti, le persone, perfino i libri. La realtà odierna esibisce una crudeltà insostenibile anche sotto forma di eventi simbolici che sgretolano – senza pietà – i luoghi sacri che custodiscono il cuore della contemporaneità: basti pensare alla demolizione dei Buddha di Bamyan, all’attentato delle Twin Towers o alle immagini della prigione di Abu Ghraib. La casistica di azioni e comportamenti ascrivibili al segno della crudeltà, insomma, si allarga in modo indiscriminato. Questo moltiplicarsi di fotografie, riprese, suoni e notizie che caratterizzano la crudeltà contemporanea ha portato una sorta di narcosi del pensiero1. L’eccesso di immagini determina l’incertezza e l’equivocità del significato di crudeltà. La reiterazione quasi ossessiva di questo termine, scritto e pronunciato quotidianamente, non corrisponde a una radicale messa in questione del suo senso. Rimane impensata, cioè, l’idea che corrisponde alla compiuta definizione di crudeltà che tutte queste azioni sottendono.

1 �������������������������������������������������������������������������������� Contro questa anestetizzazione la filosofa Adriana Cavarero ha coniato un neologismo: orrorismo (cfr. A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007).

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Filosofia della crudeltà

Dietro alla quotidiana e disordinata enumerazione di azioni crudeli c’è un nodo problematico intorno al quale la filosofia non ha ancora debitamente investigato: che cos’è la crudeltà? Torniamo a interrogare la parola stessa. Iniziamo, per tratteggiarne il profilo filosofico, dalla sua etimologia. Crudeltà (così come in inglese cruelty, in francese cruauté e in spagnolo crueldad) deriva dal latino crudelitas. L’etimo della parola latina è crudus, crudo. E crudo vuol dire “duro, acerbo”, ma anche “non cotto”, “non cucinato”, “non preparato”2. Il cibo crudo, nella riflessione antropologica, è una vera e propria “forma simbolica”3. Nel saggio Il crudo e il cotto, Claude Lévi-Strauss – rilevando le assonanze tra le diverse versioni di mito dell’origine del fuoco4 – mette in rilievo le valenze culturali e simboliche del “cibo crudo”. Il pensiero simbolico indigeno contrappone il crudo, ciò che è allo stato di natura e che non ha subito alcun intervento da mano umana, al cotto, ciò che è segnato, invece, da un’elaborazione culturale. L’asse che unisce il crudo e il cotto – spiega Lévi-Strauss – è caratteristico della cultura, quello che unisce il crudo e il putrido lo è della natura, giacché la 2

Secondo la definizione del Calonghi: «non ancora preparato col fuoco; […] non passato alla fornace; […] non ancora ridotto a maturità dal calore del sole». Anche in greco il termine omos (parallelo del latino crudus) è la radice etimologica di omotes (crudezza, ma anche crudeltà). 3 ��������������������������������������������������������������������������������� Con “forma simbolica” mi riferisco all’ormai codificata espressione di Ernst Cassirer (cfr. E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen (1923-29); trad. it. Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1966). 4 Lévi-Strauss fa riferimento al mito relativo all’origine del fuoco che ha il suo corrispettivo nel Prometeo occidentale. Li riassume efficacemente Guido Ferraro: «raccontano infatti questi miti che una volta quando gli uomini ancora non conoscevano il fuoco, accadde che un indigeno invitò il cognato a salire su di una roccia (o su di un albero), per catturare alcuni pappagalli che lassù avevano il loro nido. Ma poiché il ragazzo, una volta raggiunto il nido con una lunga scala, cerca di ingannarlo negando che lassù vi sia alcun uccello, l’altro si vendica portandosi via la scala e lasciando il giovane cognato bloccato sulla roccia. Dopo un po’ di tempo il ragazzo viene salvato dall’intervento del giaguaro, il quale lo conduce poi alla propria dimora, ove può offrirgli da mangiare della carne arrostita: perché a quei tempi il giaguaro era il signore del fuoco. Il racconto infine si conclude con la fuga del ragazzo dalla casa del giaguaro, al quale egli però sottrae un tizzone acceso: grazie ad esso la società umana potrà accedere all’uso del fuoco» (G. Ferraro, Il linguaggio del mito: valori simbolici e realtà sociale nelle mitologie, Meltemi, Roma 2001, pp. 47-48).

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Introduzione

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cottura compie la trasformazione culturale del crudo, come la putrefazione ne è la trasformazione naturale5.

Ciò che non è cucinato, quindi, si trova allo stato naturale, non ha subito alcuna trasformazione, non è stato lavorato e modificato dall’attività umana. Il passaggio dal cibo crudo al cibo cotto simboleggia il passaggio dalla natura alla cultura. Se la cottura rappresenta il mutamento culturale che l’uomo impone alla natura, allora mangiare cibi cotti vuol dire fondare la civiltà, uscire dallo stato naturale e riconoscersi come appartenenti all’umanità. Il mito ricostruito da Lévi-Strauss si situa proprio nel punto di passaggio dal livello animale al livello umano; traduce, sul piano immaginativo, i problemi che discendono dalla necessità di questo passaggio. La crudeltà, quindi, è cruda perché riporta a uno stadio pre-civile. L’atteggiamento crudele è una deviazione dal lineare percorso che conduce dal crudo al cotto, dalla natura alla cultura. Se ci atteniamo a questa interpretazione e usiamo la civiltà come unico orizzonte ermeneutico, la crudeltà non è una realtà vera e propria. È soltanto una passione involutiva, una malattia regressiva che rievoca il passato ancestrale. Una definizione confermata dalla grande tradizione filosofica. Per Aristotele la crudeltà è una forma di “bestialità”. Nel libro VII dell’Etica Nicomachea designa i comportamenti crudeli classificandoli come malattie o stati morbosi che non sono assimilabili allo stato “normale”: Voglio dire gli stati abituali bestiali, come quella femmina che, dicono, apre il ventre delle donne incinte e ne mangia i feti, o ciò di cui, si narra, godono alcuni abitanti delle rive del Mar Nero: alcuni amano le carni crude, altri carni umane, altri si scambiano reciprocamente i figli per farne banchetto, o quello che si racconta di Falaride. Questi sono stati abituali bestiali, altri invece derivano dalle malattie e in certi casi dalla follia, come nel caso di quello che offrì in sacrificio la madre e poi la mangiò, o di quello che mangiò il fegato del suo compagno di schiavitù; altri sono morbosi o derivano dall’abitudine, per esempio, lo strapparsi i capelli, il mangiarsi le unghie o il rosicchiare il carbone e la terra6.

5 6

C. Lévi-Strauss, Le cru et le cuit (1964); trad. it. Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 191. Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, libro VII, parte V, 1148b, 17-29.

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Filosofia della crudeltà

Se ne deduce che la crudeltà è frutto di “bestialità”, “morbosità” di vario genere, “abitudine” mai arginata. L’istinto distruttivo della crudeltà non rientra nell’“umano”, non ha “gradazioni” perché le bestie «non hanno né possibilità di scelta né capacità di ragionamento»7: gli uomini crudeli, quindi, sono fuori dai confini della loro natura come «i dementi»8. La bestialità – continua Aristotele – è «inferiore al vizio, ma è più da temere: la parte migliore non viene corrotta, come nell’uomo, anzi non c’è»9. In pieno Rinascimento, Michel De Montaigne dedica un capitolo dei suoi Essais alla crudeltà, «il più grave di tutti i vizi»10. Anche il filosofo francese stigmatizza la disumanità del comportamento crudele che ha i caratteri della “mostruosità”: A fatica potevo persuadermi, prima di averlo veduto, che si trovassero anime così mostruose che, per il solo piacere dell’assassinio, volessero commetterlo: tagliare a pezzi e dilaniare le membra altrui; aguzzare il proprio cervello per inventare tormenti inusitati e morti nuove, senza odio, senza profitto, e per questo solo scopo, di godere del piacevole spettacolo dei gesti e dei movimenti miserevoli, dei gemiti e delle voci lamentose di un uomo che muore fra gli strazi. Poiché questo è l’estremo limite che la crudeltà possa toccare. Ut homo nomine, non iratus, non timens, tantum spectaturus, occidat11.

L’uomo è un animal rationale12, ma per esserlo compiutamente deve vigilare sulla tendenza regressiva dell’istinto. Così, in due semplici mosse, è stato sancito che ciò che è crudele non è umano e ciò che è umano non deve presentare segni di crudeltà.

7 8 9 10

Ivi, 1150a, 1-3. Ibid. Ibid. «Fra gli altri vizi, io odio crudelmente la crudeltà, e per natura e per ragionamento, come il più grave di tutti i vizi» (M. De Montaigne, Essais (1580); trad. it. Saggi, Adelphi, Milano 1998, vol. I, p. 554). 11 Ivi, p. 559. 12 Secondo la definizione kantiana: «per poter, dunque, attribuire all’uomo il suo posto nel sistema della natura vivente, e così caratterizzarlo, non rimane altro che dire che ha quel carattere che egli stesso si procura, in quanto sa perfezionarsi secondo fini liberamente assunti; onde egli come animale fornito di capacità di ragionare (animal rationabile) può farsi da sé un animale ragionevole (animal rationale)» (I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798); trad. it. Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 216).

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Introduzione

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Cruor et sanguis La riflessione sulla radice etimologica di crudeltà rimanda anche a un altro termine, altrettanto interessante dal punto di vista filosofico: cruor, sangue13. In latino, la parola cruor designa il “sangue sparso”, la “carne sanguinante”. Si potrebbe sbrigativamente concludere che la crudeltà sia legata al piacere provocato dallo scorrere del sangue e dalla sofferenza fisica che scopre la carne viva e smembra il corpo. Ma ciò sarebbe parziale. Il sangue è anche l’energia vitale (in latino, sanguis), il liquido indispensabile che anima il corpo. Sangue come indizio elementare della vita. Il riferimento al sangue, quindi, genera coppie antitetiche: morte e nascita, violenza e generazione. C’è una duplice valenza di sangue versato (nella violenza del combattimento) e di sangue custodito (nelle funzioni vitali del corpo). Non è possibile, quindi, dare un’univoca interpretazione a questa etimologia sanguinosa di crudeltà. Il fluire del sangue – ricorda la sociologa Barbara Ehrenreich – «è uno spettacolo impressionante. Il colore in sé cattura l’attenzione e richiama alla mente gesti violenti, come pungere o tagliare, e fa riflettere sulla sconvolgente uguaglianza, sotto la pelle, di tutte le creature viventi»14. La crudeltà è, contemporaneamente, simbolo della violenza e simbolo del sacro. Lo spargimento del sangue, infatti, rievoca il rituale del sacrificio che fonda la comunità. Un momento di elevata crudeltà, ma anche di massima purificazione dove si ricongiungono gli estremi di vita e morte. Facciamo appello alla riflessione di un altro antropologo francese, René Girard, che ha ricostruito l’originaria simbiosi tra la violenza e il sacro: Il sacro […] è anche e soprattutto […] la violenza degli uomini stessi, la violenza posta come esterna all’uomo e confusa oramai con tutte le altre forze che gravano sull’uomo dal di fuori. È la violenza che costituisce il vero cuore e l’anima segreta del sacro15.

13 Il Calonghi riporta per il lemma cruor: «umor sanguigno, denso = sangue che cola, versato, proveniente da ferita (mentre sanguis = sangue che circola nei vasi sanguigni, umore che sostiene la vita)». Significativo il riferimento al greco kreas che, invece, significa propriamente “carne”. 14 B. Ehrenreich, Blood rites, origins and history of the passions of war (1997); trad. it. Riti di sangue, all’origine della passione della guerra, Feltrinelli, Milano 1998, p. 32. 15 R. Girard, La violence et le sacré (1972); trad. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992, p. 53.

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Filosofia della crudeltà

Il sacrificio è violenza “trasfigurata”, “ritualizzata”: i cerimoniali appaiono crudeli perché spargono il sangue di vittime innocenti, ma sono forme simboliche che incanalano e regolamentano la violenza della comunità. Gli uomini non si abbandonano alla violenza indiscriminata, ma – per sopravvivere – la direzionano sulla vittima sacrificale, sul capro espiatorio. Gli uomini non possono far fronte all’insensata nudità della loro stessa violenza senza rischiare di abbandonarsi a tale violenza; essi l’hanno sempre misconosciuta, almeno parzialmente, e la stessa possibilità di società propriamente umane potrebbe in realtà dipendere da tale misconoscimento16.

La crudeltà non è un istinto animale sopprimibile con la civiltà, ma – al contrario – si configura come «il destino della nostra specie»17. Non scompare, ma si modifica: cambiano soltanto «le forme, i luoghi e i tempi, l’efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante»18. La psicologia del Novecento si è lungamente interrogata su questa insopprimibile radice sanguinaria analizzandola nelle sue differenti declinazioni. Un esempio paradigmatico è l’esperimento realizzato dallo psicologo Stanley Milgram nel 1961. Milgram recluta una serie di cavie di varia estrazione sociale e assegna loro un compito: recitare la parte di insegnanti che valutano la capacità di apprendimento di un allievo, con la possibilità di correggere gli errori impartendo delle scosse elettriche. I risultati sono incredibili: la maggior parte dei soggetti esaminati accetta di utilizzare questa violenta punizione e rimane indifferente di fronte alle espressioni di sofferenza dell’allievo-attore. Nella stessa tipologia di indagine si inserisce l’esperimento carcerario di Philip Zimbardo19, una delle figure più autorevoli della psicologia sociale contemporanea, che ha rivelato come la dinamica relazionale del carcere possa innescare comportamenti crudeli20. Zimbardo assegna ai volontari 16 Ivi, p. 121. 17 W. Sofsky, Traktat über die Gewalt (1996); trad. it. Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, p. 193. Con un taglio sociologico e con molti riferimenti alla cronaca e alla politica del Novecento, Solfksy analizza la violenza come forma connaturata all’uomo. La civiltà ne modifica semplicemente la forma, ne costruisce un senso a posteriori. 18 Ibid. 19 Per una ricostruzione dettagliata cfr. P. Bocchiaro, Psicologia del male, prefazione di P. Zimbardo, Laterza, Roma-Bari 2009. 20 Zygmunt Bauman, commentando questi esperimenti, conclude che la crudeltà ha un’origine sociale più che caratteriologica. Gli individui coinvolti negli esperimenti compiono atti di crudeltà all’interno di un sistema ordinato e riconosciuto

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Introduzione

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che si sottopongono all’esperimento un preciso ruolo da interpretare in un carcere simulato: la guardia o il prigioniero. Ma già dopo due giorni, in questo contesto deindividualizzante e deresponsabilizzante, iniziano a verificarsi i primi episodi di violenza: i volontari/guardie diventano sadici carcerieri, i volontari/prigionieri iniziano a manifestare sintomi evidenti di depressione e stress. I ricercatori interrompono l’esperimento dopo soltanto sei giorni, per evitare ulteriori conseguenze. Milgram e Zimbardo hanno dimostrato come siano sufficienti pochi e semplici fattori per trasformare chiunque in un sadico o in un freddo esecutore. Ecco allora che la radice etimologia che lega la crudeltà al “sanguinante” conduce a una conclusione diversa da quella emersa precedentemente. La crudeltà non è separata dall’umano, non è una deviazione dal percorso che conduce dalla natura alla cultura, non è una pericolosa follia aliena alla normalità. Ma appartiene già da sempre all’umanità: è legata indissolubilmente agli eventi che caratterizzano la parabola dell’esistere, quali la nascita e la morte; è quanto di più vicino alla radice originaria della vita. Lo spettro semantico della crudeltà si rivela inaspettatamente più ampio. Non si tratta più dell’aggressività dell’uomo allo “stato di natura”, di un istinto condizionato biologicamente che si può “sradicare” con la civiltà. La violenza regna nell’universo animale, ma solo la crudeltà si annuncia come volontà di causare deliberatamente sofferenza. L’animale senza coscienza e libero arbitrio non è crudele, non prova piacere nel lacerare la carne e nel far uscire il sangue. La crudeltà è pathos: piacere e, dato il percorso di codificazione che le è proprio, lucida volontà. Si configurano, quindi, due definizioni contrapposte: da un lato crudeltà come regressione alla bestialità, dall’altro crudeltà come desiderio dell’umanità. L’opera di Escher, Illusione con angeli e diavoli21, rende visivamente questo concetto: la barriera tra la crudeltà e il suo contrario si fa permeabile e sfumata. come legittimo (cfr. Z. Bauman, Modernity and the Holocaust (1989); trad. it. Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 1992). 21 Lo psicologo statunitense Zimbardo, per spiegare la dialettica biunivoca tra la crudeltà e il suo contrario, usa proprio l’opera di Escher Limite del cerchio IV, Illusione con angeli e diavoli dalla quale «emergono tre verità psicologiche. Anzitutto, il mondo è pieno di bene e di male – lo è stato, lo è e lo sarà sempre. In secondo luogo, la barriera tra il bene e il male è permeabile e sfumata. E in terzo luogo, gli angeli possono diventare diavoli e, cosa forse più difficile da concepire, i diavoli possono diventare angeli» (P. Zimbardo, The Lucifer Effect. Understand-

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Filosofia della crudeltà

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Il monstrum della ragione Il logocentrismo di gran parte del pensiero occidentale aggrava il problema: nel tentativo di rimuovere la crudeltà dall’orizzonte del pensabile, non ha fatto altro che riproporla sotto nuova veste. Il logos, infatti, genera un ordine che implica l’utilizzo sistematico della crudeltà. La cancellazione “razionale” della dimensione crudele passa per la violenza e per il sangue. La ragione – in quanto prodotto umano – non è estranea alla crudeltà, anzi può esserne il veicolo privilegiato. Per comprendere questo passaggio affidiamoci alla ricostruzione della “mitologia della cultura” di due filosofi della scuola di Francoforte, Horkheimer e Adorno. Nei numerosi e complessi passaggi della Dialettica dell’Illuminismo, infatti, viene messo in atto un vero e proprio processo alla “ragione illuministica”: quell’atteggiamento conoscitivo che pretende di superare la soggezione alla natura e di liberarsi dalla sua crudeltà “irrazionale”. Questo superamento – secondo Horkheimer e Adorno – è illusorio: «l’Illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia»22. L’Aufklärung – che sarebbe opportuno tradurre con “rischiaramento”, piuttosto che con “Illuminismo” – è il movimento del pensiero che, da una radicale messa in questione della superstizione e dei miti irrazionali (e, potremmo aggiungere, crudeli), giunge allo sviluppo della scienza “pura”. L’obiettivo del “rischiaramento”, quindi, è una lotta per «liberare il mondo dalla magia»23. La materia dev’essere dominata al di fuori di ogni illusione di forze trascendenti e occulte: ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, ciò che è eccessivo e fuori misura, deve essere espunto da un ordine razionalizzato. Il rapporto con la natura deve basarsi sul dominio: l’uomo si libera dalla natura sottomettendola24. ing how Good People Turn Evil (2007); trad. it. L’effetto lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 1). 22 M. Horkheimer – Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung (1947); trad. it. Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 8. 23 Ivi, p. 11. 24 Il mito e la magia, infatti, definivano il rapporto originario fra uomo e natura: un’identificazione immediata con le forze, le qualità, gli eventi naturali. Nel mondo mitico non c’è un vero e proprio rapporto di un soggetto (uomo) e oggetto (la natura): la soggettività è un carattere comune a entrambi; non c’è un’alterità tra il dominatore e la cosa dominata. La magia interagisce – con riti sanguinosi e grotteschi – con una natura personificata, divinizzata, animata e non estranea al soggetto.

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Introduzione

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Ma la soluzione non è che una riproposizione del problema: proprio questa emancipazione del pensiero dalla crudeltà della “natura mitica” instaura un dominio altrettanto opprimente. L’Illuminismo – criticando il mito – non fa altro che realizzarlo. Il Rischiaramento della logica, della scienza e del progresso assolutizza se stesso e si ripropone in veste ‘mitica’: il mito moderno della ragione è diventato impermeabile alla possibilità di critica. L’emancipazione e la liberazione dal retaggio crudele che legava l’uomo all’irrazionalità si trasforma in un’oppressione e coercizione (più cieche di prima) su se stesso e sulla natura. La ragione che vuole dominare completamente la crudeltà è destinata a diventare crudeltà: «chi lotta con i mostri, badi a non diventare un mostro a sua volta. E se scruti a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»25. Per scandagliare le ambiguità emerse da quest’indagine preliminare bisogna abbandonare il “pensiero calcolante” che analizza la crudeltà separandola dalla sua radice umana e si limita a definirla come inumana, irrazionale, immorale. Il pensiero – dice Deleuze – separa dalla forma vivente: La codardia, la crudeltà, la bassezza, la stupidità non sono semplicemente potenze corporali, o fatti caratteriali e sociali, ma strutture del pensiero come tale. […] Tutte le determinazioni divengono crudeli e malvagie, in quanto sono colte da un pensiero che le contempla e le inventa, scorticate, separate dalla loro forma vivente, già fluttuanti in questo cupo fondo. Tutto diviene violenza in questo fondo passivo, razzia su questo fondo digestivo26.

C’è un’altra via che sfugga da questo “fondo digestivo”?

25 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse (1886); trad. it. Al di là del bene e del male; Rizzoli, Milano 2004, p. 120. 26 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 244-247.

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1. LA CRUDELTÀ IN SCENA

Ho detto “crudeltà” come avrei detto “vita” o “necessità”. Antonin Artaud

Il mistero Artaud La ricerca di una definizione di crudeltà, ci obbliga a incontrare una delle personalità più complesse e polimorfe del Novecento, Antonin Artaud. Nella sua produzione labirintica, infatti, hanno grande rilievo le riflessioni sulla crudeltà. A differenza dei filosofi “di professione”, Artaud si fa carico di tutte le ambiguità e di tutte le contraddizioni evocate da questo termine. Antonin Artaud nasce a Marsiglia nel 1896 e nella sua breve vita attraversa tutte le forme intellettuali, artistiche ed esistenziali della sua epoca. Jacques Derrida, in uno dei suoi saggi dedicati ad Artaud, ammonisce: «se lo comprendiamo realmente, non dovremo aspettarci da lui una lezione»1. L’arcipelago senza centro dei suoi scritti lascia al lettore una responsabilità insostenibile: la lettura è una vera e propria riscrittura che informa di senso questi frammenti2. Non si può affrontare la lettura dei suoi lavori senza fare almeno un rapsodico riferimento alla sua esperienza esistenziale: «l’opera – dice Carlo Pasi, acuto interprete del pensiero di Artaud – non può sussistere disinne-

1 J. Derrida, Artaud: la parole soufflée (1965), in Id., L’écriture et la différence (1967); trad. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002, p. 225. 2 Come dice Luca Berta: le aporie «si presentano non appena si cominci a leggere l’opera di Artaud. E queste aporie percorrono tutti i suoi testi come una faglia, che minaccia di sgretolare la loro leggibilità e che si estende al testo di chi, dopo la lettura, voglia scrivere su Artaud» (L. Berta, Derrida e Artaud, decostruzione e teatro della crudeltà, Bulzoni, Roma 2003, p. 25).

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Filosofia della crudeltà

scata dall’esperienza che la fonda. Sarebbe una menzogna, un prodotto fabbricato per ingannare il lettore»3. Artaud, infatti, subisce e pratica la crudeltà sul e con il proprio corpo: non c’è differenza tra la sua vita e la sua arte. Le sue opere non sono un rifugio né una sublimazione, ma una vera e propria trascrizione estrema dell’esperienza, una testimonianza che minaccia il lettore. La crudeltà diventa una pratica esistenziale e artistica: un esercizio rischioso che si scontra necessariamente con la possibilità di perdere la capacità di esprimersi. Maurice Blanchot4 – il primo critico a interessarsi della figura di Artaud già nel 1956 – menziona lo spettro di Artaud come protagonista di un combattimento tra il pensiero come niente e la pienezza della sua disperazione5: Che la poesia sia legata a quell’impossibilità di pensare che è il pensiero, è una verità che non può essere scoperta perché essa cambia continuamente strada e lo costringe a sperimentarla al di sotto del punto in cui la sperimenterebbe davvero. […] Attraverso un approfondimento certo e doloroso, [Artaud] perviene a rovesciare i termini del movimento e a mettere in primo piano la privazione, e non più la “totalità immediata” di cui quella privazione pareva dapprima come la semplice mancanza. Quel che viene prima, non è la pienezza dell’essere, ma l’incrinatura e la fessura, l’erosione e la lacerazione, l’intermittenza e la privazione corrosiva: l’essere non è l’essere, è questa mancanza dell’essere, mancanza viva che rende la vita vacillante, inafferrabile ed inesprimibile, salvo che nel grido di un’astinenza feroce6.

3 C. Pasi, Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud, in Id., La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 10. 4 Nel commentare l’analisi di Blanchot, Carmagnola sintetizza efficacemente: «la sua scrittura “testimonia” l’incontro del linguaggio con una possibilità radicale. Il linguaggio di Artaud non è pura espressione sintomale, e nella sua insufficienza di forma espone, manifesta, porta alla luce un pensiero. Questo pensiero pensa la perdita. Di che cosa? Di se stesso. Per pensare radicalmente la perdita – il fuori, l’altro, l’informe, il reale – il pensiero stesso deve perdersi. […] Il punto chiave della lettura di Blanchot consiste nel determinare la posizione di Artaud sfuggendo all’alternativa tra critica e clinica» (Aa. Vv., L’estrema prossimità. Cinque letture sulla follia nell’opera letteraria, a cura di F. Carmagnola, Mimesis, Milano 2008, p. 35). 5 Cfr. M. Blanchot, Le livre à venire (1959); trad. it. Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969, pp. 44-50. Derrida prenderà le distanze dall’interpretazione di Blanchot che, a suo parere, non dà peso alla valenza filosofica dell’avventura di Artaud che si scaglia contro la metafisica, la struttura stessa del sapere nella cultura occidentale. 6 Ivi, pp. 46-48.

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La crudeltà in scena

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Blanchot associa il nome di Artaud a quelli di Nietzsche e Hölderlin. In questi autori, il pensiero della mancanza è costantemente esposto al rischio di perdersi: È vero che Artaud ha sofferto nella mente e per la mente. È vero che il suo pensiero è stato dolore e il suo dolore l’infinito del pensiero. Ma la violenza da lui sopportata con uno strano tormento innocente, la rivolta affermata dalla sua parola, ben lungi dal rappresentare un impulso particolare e personale, indicano l’insurrezione che sorge dalle profondità dell’essere: come se l’essere nel suo intimo fosse già non solo l’essere ma “lo spasmo dell’essere” e il “rapace bisogno d’involo” da cui furono sollevate senza posa la vita e la poesia di Antonin Artaud7.

È a questo “spasmo dell’essere” che ci rivolgiamo per continuare la nostra esplorazione della crudeltà. La ricerca di un’arte che, esponendo il rovescio oscuro della sfera luminosa della cultura, chiarisce i contorni di una passione indicibile. La letteratura come male – nota Perlini parlando delle analisi di Blanchot – è ricerca della verità (che celebra il proprio scacco sul piano del mondo) nella dismisura, nella sregolatezza, nell’insubordinazione, nell’eccesso. L’arte tende a porsi, nei grandi ribelli, come il mondo rovesciato8.

Tutto ciò che agisce è crudeltà Artaud, come è noto, è stato principalmente un uomo di teatro9.

7

L’articolo uscì nel numero speciale del maggio ‘58 dei Cahiers de la Compagnie Renaud-Barrault, n. 22-23, in occasione del decennale della morte di Artaud. Cfr. M. Blanchot, L’Entretien infini (1969); trad. it. L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1981; cit. in E. Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano 2002, p. 179. 8 T. Perlini, L’opera come presenza-assenza, in M. Blanchot, Lautréamont et Sade (1963), trad. it. Lautréamont e Sade, Dedalo, Bari 1974, p. 13. 9 Nel 1920, arrivato a Parigi da Marsiglia, inizia la sua esperienza di attore nel teatro laboratorio denominato L’Atelier diretto da Charles Dullin, allievo di Jacques Copeau. Sul modello di Stanislavskij, lavora sulla capacità creativa di improvvisazione dentro la partitura del testo scenico. Nel 1926 fonda, con Roger Vitrac e Robert Aron, il Théâtre Alfred Jarry. Un teatro di sperimentazione che – opponendosi ai manierismi del teatro francese del tempo – lavora sul corpo e sul gesto dell’attore.

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Filosofia della crudeltà

Nel 1932, mentre gli spettatori iniziano ad allontanarsi dal teatro e ad avvicinarsi al cinema10, Artaud sente la necessità di un radicale rinnovamento che eviti la morte definitiva del teatro11: pubblica il primo manifesto del “teatro della crudeltà”. Fino al 1936 si dedica a mettere in atto questo progetto teorico. La raccolta Il teatro e il suo doppio, uscita nel 1938, riunisce i testi eterogenei della complessa esperienza teatrale di Artaud. Manifesti programmatici, articoli, lettere, progetti di messa in scena, recensioni che delineano un profilo – filosofico ancor prima che teatrale – del suo “teatro della crudeltà”. Artaud afferma in tono lapidario: «tutto ciò che agisce è crudeltà»12. Una frase epigrafica che renderebbe la nostra ricerca sull’essenza della crudeltà apparentemente più unitaria, ma incredibilmente più ampia. Che cosa significa questa enigmatica espressione? Non si sta più parlando di un numero limitato e circoscrivibile di fenomeni crudeli, di azioni episodiche che si caratterizzano per una violenza distinta dal comportamento retto e razionale. La crudeltà non è una forma di pazzia, una deviazione folle dalla “normalità”, una “perversione” della ragione: Adopero [crudeltà] non in un’accezione episodica, accessoria, per gusto sadico e perversione dello spirito, per amore del sensazionale e degli atteggiamenti malsani, insomma non in senso circostanziale; non si tratta affatto di crudeltà come vizio, di crudeltà come proliferazione di appetiti perversi espressi in gesti sanguinosi, come escrescenze malate su una carne già infetta […]13.

L’arte della crudeltà di cui Artaud vuole farsi portavoce non è un’esaltazione della violenza che stupisca lo spettatore annoiato. «Né di sadismo, né di sangue»14 si tratta, ma di riattivare la complessità di un significato dimenticato: 10 Rimangono sporadiche le sue interpretazioni cinematografiche, in particolare il Marat nel Napoléon di Abel Gance e il monaco Massieu nella Passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer. Cfr. A. Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum fax, Roma 2001. 11 Determinante, per comprendere il percorso di Artaud, è l’esperienza del Grand Guignol: sul palcoscenico di questo famoso teatro parigino va in scena un trionfo dell’orrore e del macabro. Con la violenza realistica e parossistica del Grand Guignol la funzione del teatro come catalizzatore delle angosce collettive arriva alle sue estreme conseguenze. 12 Id., Il teatro e la crudeltà, in Id., Le théâtre et son double (1938); trad. it. Il Teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, p. 200. 13 Id., Lettera a J. P. del 9 novembre 1932, in Ivi, p. 228. 14 Id., Lettera a J. P. del 13 settembre 1932, in Ivi, p. 216.

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La crudeltà in scena

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La parola “crudeltà” deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. E rivendico, scegliendola, il diritto di farla finita col consueto significato del linguaggio, di spezzare una buona volta l’armatura, di far saltare la gogna, di tornare finalmente alle origini etimologiche della lingua che, attraverso concetti astratti, evocano sempre un elemento concreto. Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale15.

La crudeltà non si identifica con una coltivazione sadica dell’orrore. Al contrario, la crudeltà è «un sentimento distaccato e puro», è l’«autentico movimento dello spirito ricalcato sul gesto stesso della vita»16: Partendo dall’idea che la vita, metafisicamente parlando, in quanto ammette l’estensione, lo spessore, la pesantezza e la materia, ammette di conseguenza il male e tutto ciò che è inerente al male, allo spazio all’estensione e alla materia. La vita non può fare a meno di mettersi alla prova, altrimenti non sarebbe più vita; ma è il rigore, la vita che supera ogni limite e si mette alla prova nella tortura e nel calpestamento di tutte le cose, è questo sentimento puro e implacabile ciò che io chiamo crudeltà17.

Artaud utilizza il termine tradizionale e perfino usurato di “crudeltà” per riscrivere il suo significato in un nuovo orizzonte. Opera quella che Derrida definisce una paleonimia: conservare un vecchio nome per un concetto nuovo18. Liberando la parola dal suo significato abituale – crudeltà come espressione di violenza inumana – Artaud si riconnette alle idee metafisiche che riguardano la vita e la morte. La crudeltà è iscritta nello statuto stesso della vita che, in quanto annette la materia e l’estensione, ammette anche il male e con esso la crudeltà. All’interno di questa cosmologia, la crudeltà è la legge che regola ogni creazione perché «il male è legge permanente, il bene uno sforzo, dunque

15 16 17 18

Ibid. Id., Lettera a J. P. del 9 novembre 1932, cit., p. 228. Ibid.,p. 228. Cfr. J. Derrida, Positions (1972); trad. it. Posizioni, Ombre corte, Verona 1999, pp. 86-87. Come sottolinea Luca Berta, «non c’era nessuna altra parola che potesse rendere conto altrettanto rigorosamente della sua idea di teatro come azione diretta sullo spettatore (diretta nel senso fisico di un intervento chirurgico), come liberazione di quel Pericolo di fronte al quale si trova ognuno nelle situazioni estreme e reali: ancora più reali perché accadono sul palco» (L. Berta, Derrida e Artaud, cit., p. 51).

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Filosofia della crudeltà

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una crudeltà supplementare»19. Un quadro metafisico in cui la crudeltà è la massima espressione di una struttura deterministica: Il determinismo filosofico più corrente, dal punto di vista della nostra esistenza, è una delle immagini della crudeltà. È un errore attribuire alla parola “crudeltà” un senso di spietata carneficina, di ricerca gratuita e disinteressata del male fisico. […] Crudeltà non è sinonimo di versamento di sangue, di carne martoriata, di nemico crocifisso. […] C’è infatti nell’esercizio della crudeltà una sorta di determinismo superiore che persino il carnefice-seviziatore è soggetto e che, all’occorrenza, deve essere determinato a sopportare20.

Un “determinismo superiore” a cui tutti siamo soggetti e a cui nessuno può sfuggire. La crudeltà «significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta»21. Dalla carne martoriata a un’espressione di lucidità: la crudeltà è «prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità»22. Si identifica addirittura con la stessa “coscienza”: «non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata»23. È l’esercizio della coscienza che conferisce a ogni atto della vita il colore del sangue perché «è chiaro che la vita è sempre morte di qualcuno»24. La crudeltà mette in luce, quindi, il necessario determinismo a cui è sottoposto ogni nostro atto di vita, che, per la sua decisione di esistere, genera morte. Per questo, ritornando all’epigrafe iniziale, ogni azione è – in se stessa, proprio in quanto azione – crudele. Tutto ciò che agisce è crudeltà. L’arte può e deve appellarsi alla crudeltà come «turbine di vita che squarcia le tenebre», come «dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere»25. Crudele non è soltanto questa indigestione di vita, questa legge deterministica imprescindibile, ma anche il suo stesso riconoscimento. Crudeltà come svelamento messo in opera da un’arte che non teme di guardare la legge che governa la vita:

19 A. Artaud, Lettera al signor R. de R. del 16 novembre 1932, in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., p. 218. 20 Id., Lettera a J. P. del 13 settembre 1932, in Ivi, pp. 216-217. 21 Ivi, p. 216. 22 Ivi, p. 216-217. 23 Ibid. 24 Ibid. 25 Ivi, p. 217.

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La crudeltà in scena

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Crudeltà, sanguinosa se necessario, ma non di proposito, si identifica dunque con una sorta di severa purezza morale che non teme di pagare la vita al prezzo cui deve essere pagata26.

Idolatria della cultura Non sempre si ha la forza di guardare la legge che governa la vita: la legge della crudeltà. È necessario, quindi, uno svelamento violento e spietato. Ma chi impedisce e falsifica la logica della vita che si vuole riportare alla luce? Secondo Artaud c’è un colpevole: la Cultura. La Cultura è diventata una forma di passività e di consuetudine del pensiero, un Sapere che conduce a un agire statico, fondato su stereotipi, strutturato su gerarchie accademiche. La cultura è «ormai troppo lontana dalla vita» anzi «è fatta per dettare legge alla vita»27. È una religione28 autoreferenziale che non entra in contatto con i problemi della vita da cui, anch’essa, è nata: «tutte le nostre idee sulla vita – dice Artaud – devono essere riesaminate, in un’epoca in cui niente aderisce più alla vita»29. È proprio questa Cultura che impedisce lo svelamento, che ostacola il riconoscimento della legge che governa la vita, che non consente l’esplicitazione della “crudeltà”. Artaud non vuole produrre «una collezione d’immagini scadute, da cui l’Epoca, fedele in questo a tutto il sistema, poteva tutt’al più trarre idee per manifesti e modelli da couturiers»30. La crudeltà teorizzata da Artaud – al contrario – è un «mezzo raffinato per comprendere ed esercitare la vita»31, è uno strumento per «spezzare il linguaggio»32 della prigione culturale e ricongiungersi al corpo: «nella 26 Id., Il teatro della crudeltà, secondo manifesto, in Ivi, p. 236. 27 Id., Il teatro e la cultura, in Ivi, p. 127. 28 «Idolatria della cultura, nel senso in cui le religioni idolatre racchiudono nei Pantheon i loro dei» (Ivi, p. 129). 29 Ivi, p. 128. 30 Artaud utilizza queste parole nel resoconto del suo viaggio inquietante in Messico. Continua: «ormai bisognava che quel qualcosa di sepolto dietro quella pesante triturazione e che uguaglia l’alba e la notte, quel qualcosa venisse tirato fuori, e servisse, servisse appunto con la mia crocifissione» (Id., Voyage au pays des Tarahumaras (1937); trad. it, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, Milano 1966, p. 86). 31 Id., Il teatro e la cultura, cit., p. 130. 32 Ivi, p. 132.

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Filosofia della crudeltà

fase di degenerazione in cui ci troviamo solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica degli spiriti»33. L’arte della crudeltà, quindi, comporta una revisione radicale del concetto di cultura: è un modo nuovo di agire e di pensare che veicola un messaggio dirompente e che conduce a una vera e propria rifondazione antropologica dell’Occidente. La crudeltà artaudiana è una forma alternativa e ribaltata di conoscenza che si oppone consapevolmente all’ipocrisia dei dogmi e alle omissioni della cultura ufficiale34. La crudeltà artaudiana è, a suo modo, socratica. Ma il capovolgimento antropologico non è soltanto un’opera di distruzione del vecchio modello culturale. La crudeltà di Artaud si contrappone all’asfittica cultura del suo tempo rifornendola di nuova vita. La distruzione di tutti i valori – dice Florinda Cambria in uno dei suoi saggi dedicati ad Artaud – è anzitutto una interrogazione sulla genealogia di quei valori medesimi: non solo ‘filosofia con il martello’, ma anche esercizio di sapiente equilibrio in posture inedite, sul precario punto di trapasso verso nuove figure (o ‘nuove tavole’) di senso35.

La crudeltà dell’artista, quindi, “agisce” in modo dinamico, abbatte senza pietà la facciata rassicurante che incarta la realtà e riannoda il legame perduto. Se “tutto ciò che agisce è crudeltà”, soltanto una vera e propria azione crudele può ristabilire il contatto con le forze che dominano la vita. La crudeltà ci consente di non essere «semplici organi di registrazione»36, ma di «sondare la nostra intera vitalità», ci mette «di fronte a tutte le nostre possibilità»37. L’utopia – sottolinea il critico teatrale Franco Ruffini – è raggiungere un «livello estremo della coscienza, quando anche l’ultimo residuo di automatismo è bruciato […] e l’azione diventa integralmente azione volontaria»38.

33 Id., Il teatro della crudeltà, Primo Manifesto, cit., p. 214. 34 Artaud partecipa in prima persona alle novità culturali della Parigi del tempo. In un primo momento aderisce anche al movimento surrealista e cura il n. 3 della «Révolution Surréaliste» intitolato 1925: fine dell’era cristiana che si scaglia contro figure emblematiche dell’attualità come il papa o i rettori delle università. Ma anche la sua adesione al Surrealismo è temporanea: gli schematismi cerebrali e freddi degli adepti di Breton diventano una prigione dogmatica. 35 F. Cambria, Far danzare l’anatomia. Itinerari del corpo simbolico in Antonin Artaud, Jaca Book, Milano 2007, p. 49. 36 A. Artaud, Il teatro e la cultura, cit., p. 133. 37 Id., Il teatro e la crudeltà, cit., p. 202. 38 F. Ruffini, I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, Il Mulino, Bologna 1996, p. 178.

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La crudeltà in scena

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La vita autentica rimane un «nucleo fragile e irrequieto, inafferrabile dalle forme»39 che si sottrae alla ripetizione e alla chiusura in una cultura pietrificata. Se raggiungiamo la consapevolezza di essere parte di una trasmutazione incessante e brutale è possibile una riconciliazione definitiva «con il Divenire»40. Per vivere – per non limitarsi a esistere come «una macchina abbassata di tono» che «si corica, dorme, si alza, passeggia, mangia, scrive, inghiotte, respira, caca»41 – bisogna “alzare il sipario” sulla crudeltà che si nasconde dietro la violenza accettata e regolamentata della Cultura. Sulla scena Il Teatro della crudeltà creato e teorizzato da Artaud è un teatro totale, un teatro che crea e ricrea il mondo a partire da una nozione ribaltata di crudeltà. La sua esperienza entra di diritto nella storia del teatro, influenza e indirizza tutta la produzione successiva: da Peter Brook42 a Jerzy Grotowski fino a Carmelo Bene43. Derrida, nella prefazione a Il teatro e il suo doppio, definisce il teatro di Artaud un «sistema di critiche che fa vacillare il tutto della storia dell’occidente, più che un trattato di prassi teatrale»44. Qual è questo “sistema di 39 A. Artaud, Il teatro e la cultura, cit., p. 133. 40 Id., Lettera al signor B. C. del 15 settembre 1931, in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., pp. 223-224. 41 «Questa infernale morsa in cui ammuffiscono le coscienze, in cui l’uomo passeggia, mangia, scrive, inghiotte, respira, caca come una macchina abbassata di tono, come un rassegnato seppellito nella terra e sottoposto a letture, buongiorno, buonasera, come sta, il tempo è bello, la pioggia rinfrescherà, dicono i bollettini d’informazione» (Id., Lettera a Henri Parisot (Rodez, 9 ottobre 1945), in Id., Al paese dei Tarahumara, cit., p. 181). 42 «Nel 1964 […] non avevo la più pallida idea di chi potesse essere Artaud, perché ero lontanissimo, come al solito, da qualsiasi riferimento teorico sul teatro. […] Un giorno andai in libreria, vidi un libro di Artaud e lo comprai: fu così che cominciai a conoscerlo. Senza che io me ne fossi reso conto, per anni il terreno era stato preparato; ecco perché ero pronto a esserne toccato così in profondità» (P. Brook, The Shifting Point (1987); trad. it. Il punto in movimento, 1946-1987, Ubulibri, Milano 1988, p. 43). 43 «Che cosa ho fatto?, nelle mie tante vite. […] Superamento d’Artaud e della “lingua degli angeli” mistico-espressiva» (C. Bene, Autobiografia di un ritratto, in Id., Opere, Bompiani, Milano 1995, pp. XI-XII). 44 J. Derrida, Le théâtre de la cruauté et la clôture de la représentation (1966); trad. it. Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, in Id., La scrittura

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Filosofia della crudeltà

critiche” che – con il suo teatro rivoluzionario – Artaud pone alla riflessione filosofica? Il teatro della crudeltà è angosciante per il pensiero perché vuole imporsi come istanza generativa, etica e conoscitiva45. Impatta sulla realtà e la trasforma. Nessuna mimesis, imitazione, rappresentazione della vita46. La vita, per sua natura, non può raccontarsi con un altro linguaggio. Il teatro della crudeltà – argomenta Derrida – è «la vita stessa in ciò che essa ha di irrappresentabile. La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione»47. Il teatro – come la cultura occidentale – è distante dalla sua originaria essenza affermativa. Per ritrovarla di certo non bastano modifiche parziali o riforme locali: è necessario un totale sovvertimento di prospettiva. Bisogna seppellire il teatro del testo scritto, frutto della separazione dalla purezza dell’oralità48. Il teatro della crudeltà non vuole «illustrare un logos», non vuole agire sotto dettatura: vuole essere un puro gesto crudele. Questo sovvertimento inizia da un’azione, da un assassinio, «l’assassinio di Dio, cioè, in primo luogo, dell’uomo-Dio»49. Il teatro della crudeltà scaccia Dio dalla scena. Non mette in scena un nuovo discorso ateo, non dà parola all’ateismo, non offre lo spazio teatrale ad una logica filosoficante che proclami una volta di più, per aumentare la nostra noia, la morte di Dio. È la pratica teatrale della crudeltà che, nel suo atto e nella sua struttura, abita o meglio produce uno spazio non-teologico […]. Un assassino, tuttavia è sempre all’origine della crudeltà, della necessità che si chiama crudeltà. È prima di tutto un parricidio. […] Colpo di mano contro il detentore abusivo del logos, contro il padre, contro il Dio di una scena sottoposta al potere della parola e del testo50.

e la differenza, cit., p. 301. 45 Il teatro della crudeltà è un’«istanza rigenerativa di ordine etico, politico e conoscitivo che chiamava in causa l’esperienza dei corpi viventi e vissuti come attori della messa in scena del senso, su un palcoscenico senza più quinte e senza sipario» (F. Cambria, Far danzare l’anatomia, cit., p. 10). 46 Cfr. J. Derrida, Il teatro della crudeltà, cit., p. 301. 47 Ivi, p. 302. 48 La nuova scrittura, però, rimane un enigma, un limite costitutivo. Secondo Derrida, infatti, non esiste uno stato di innocenza che precede la scrittura. Cfr. J. Derrida, De la grammatologie (1967); trad. it. Della Grammatologia, Jaka Book, Milano 2012. 49 Id., Il teatro della crudeltà, cit., p. 314. 50 Ivi, pp. 303-307.

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La crudeltà in scena

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Questo primordiale parricidio è possibile solo se si esclude la ripetizione51: il teatro della crudeltà si esaurisce nel tempo presente della scena, è un «gesto vivo che ha luogo una sola volta»52 e non può essere replicato. Come ogni atto della vita non può ripetersi, così il gesto crudele deve essere irripetibile53. Non deve imitare la vita, ma compierla. Le cose che agiscono su di noi con crudeltà non sono né sogno (pura e astratta interiorità), né storia (fatti avvenuti del passato)54: la crudeltà opera e si compie proprio nel tempo reale della sua azione. Il linguaggio della crudeltà, quindi, è performativo: gli enunciati sono evenemenziali, non possono essere separati dal contesto, dall’azione-evento del loro accadere. Il teatro di Artaud è una festa crudele perché «elimina le ribalte e le balaustre di fronte al “pericolo assoluto” che è “senza fondo”»55. Non c’è più un rapporto di senso tra superficie e profondità: il gesto dell’attore è gratuito, cioè non rimanda a qualcos’altro (che sia una preistoria o un aldilà). Parola incarnata che sfugge al rigor mortis della rappresentazione. Gesto violento, svincolato da ogni ragionevolezza, da ogni legame tra l’effetto e la causa. Un gesto che permette di sperimentare la forza dell’energia vitale: il gesto è un taglio che, imponendosi nell’esperienza quotidiana, riattiva la sensibilità di chi lo compie e di chi lo subisce. Trapassa la funzione e supera l’intenzione, va oltre la ragione. Il teatro della crudeltà comporta una rischiosa esposizione: è il ritorno al sangue, all’essenza della vita e, contemporaneamente, al suo annientamento. La vita è colta nel suo aspetto universale: Il teatro deve farsi uguale alla vita, non alla vita individuale, a quell’aspetto individuale della vita in cui trionfano i caratteri, ma a una sorta di vita liberata, che spazza via l’individualità umana e in cui l’uomo non è più che un riflesso56.

51 L’impresa di Artaud è contro un teatro che «non si esaurisca completamente nell’atto e nel tempo presente della scena, che non si identifichi con quest’ultima, che possa essere ripetuto senza di essa» (Ivi, p. 317). 52 Ivi, p. 320. 53 «Irripetibile come qualsiasi atto della vita… con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene» (A. Artaud, Teatro Alfred Jarry (primo anno – stagione 1926-1927), in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., p. 8). 54 Cfr. F. Cappa, Un teatro così crudele, in Aa. Vv., L’estrema prossimità, cit., pp. 177-207. 55 J. Derrida, Il teatro della crudeltà, cit., p. 316. 56 A. Artaud, Lettera a J. P. del 9 novembre 1933, cit., pp. 230-231.

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Filosofia della crudeltà

Un teatro che bandisce ogni pacifica riconciliazione57 ristabilisce il contatto crudele con le forze primordiali che danno origine alla vita. Uno spettacolo così concepito ha l’effetto “incantatorio” del rito magico. Uno spazio sacro dove non c’è differenza tra attore e spettatore, tra vita e conoscenza. «Non siamo filosofi o ricostruttori – ricorda Artaud – siamo uomini, cerchiamo di vibrare e di far vibrare, vibrare in coro»58. Sussurri e grida Questo spazio sacro necessita di una nuova espressione «attiva, palpabile, per nulla filosofica»59. Un’espressione di segni, di gesti, di atteggiamenti dotati di valore ideografico. La parola del teatro della crudeltà – dice Derrida – «ha lo stesso statuto che ha nel sogno»60 dove le associazioni non rispondono a una logica statica, dove nulla ha un significato univoco. La parola convive con il gesto: la trasparenza del pensiero logico discorsivo viene messa in discussione dalla sonorità, dalla forza magica del grido che ha un effetto senza mediazione. Il grido rompe le frasi e crea una musica, una danza che restituisce la dinamica del corpo e fa esplodere il ritmo. Il “linguaggio” della crudeltà è una regressione che ritrova gli automatismi delle espressioni del fanciullo. Le parole-cadavere del linguaggio ordinario sono sostituite dalle paroleviventi del linguaggio pre-verbale. La lingua della crudeltà è geroglifica: Adopero gli oggetti, gli elementi dello spazio, come immagini come parole, raccogliendoli e facendo sì che si rispondano a vicenda secondo le leggi del simbolismo e delle analogie viventi. Leggi eterne che sono quelle di ogni poesia e di ogni linguaggio vitale61. 57 «Il teatro della crudeltà, in quanto figura del dramma, non può rinviare ad alcuna ‘purezza’ originaria. Esso, al contrario, implica che l’origine stessa sia di natura rappresentativa, che sia divaricata e doppiata come tale» (F. Cambria, Far danzare l’anatomia, cit., p. 75). 58 A. Artaud, Il teatro di Alfred Jarry (stagione 1928), in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., p. 18. 59 Ivi, p. 18. 60 J. Derrida, Il teatro della crudeltà, cit., p. 309. Quello di Artaud – nelle parole di Derrida – è un «teatro del sogno, ma del sogno crudele, cioè assolutamente necessario e determinato, di un sogno calcolato, orientato, contrapposto a ciò che Artaud credeva fosse il discorso empirico del sogno spontaneo» (Ivi, p. 312). 61 A. Artaud, Lettera a J. P. del 28 settembre 1932, in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., p. 224.

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Questa comunicazione estrema non è filtrata da schematismi ideologici, ma è immanente. Gesti di crudeltà che arrivano anche agli analfabeti: Il linguaggio sarà parlato e non si trascurerà nulla di ciò che costituisce gli elementi ordinari del successo. Saranno evitati il lirismo immaginifico, le lungaggini filosofiche, le oscurità, i sottintesi eruditi62.

Artaud è un logoteta, il fondatore di una nuova lingua che scaturisce dal vuoto che la precede. Roland Barthes parla di una “fondazione senza fondamento”: Se la logothesis si fermasse all’impianto di un rituale, cioè sostanzialmente di una retorica, il fondatore di lingua non sarebbe nulla di più che l’autore di un sistema (quello che comunemente si dice un filosofo o uno scienziato o un pensatore) [...] per fondare ‘fino in fondo’ una lingua nuova, occorre la ‘teatralizzazione’. Che cos’è la teatralizzazione? Non è decorare la rappresentazione, è illimitare il linguaggio63.

Artaud, quindi, “illimita il linguaggio” evocando uno spazio – anteriore al pensiero – dettato dai desideri del corpo64. Il linguaggio della crudeltà, quindi, si affranca dal testo scritto dove la parola è soufflé, cioè “soffiata via”, «sottratta da un possibile commentatore che la riconosca per disporla in un ordine, ordine della verità essenziale o di una struttura reale, psicologica o altra»65. Per evitare questo “furto” della parola, Artaud si affida a una «scrittura rigorosa del grido», a «un sistema codificato delle onomatopee, delle espressioni e dei gesti»66. Il lavoro di decostruzione crudele del linguaggio va oltre l’esperienza del teatro della crudeltà. Lo testimonia – dieci anni più tardi – la pratica

62 Id., Il teatro di Alfred Jarry nel 1930, in Ivi, cit., p. 30. 63 R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971); trad. it. Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 1977, p. X. 64 Sono le parole esplose descritte da Deleuze in Logica del senso: «ogni parola è fisica, investe immediatamente il corpo. Il procedimento è del tipo seguente: una parola, spesso di natura alimentare, appare in maiuscole stampate come in un collage che la fissa e la destituisce del suo senso; ma allo stesso momento in cui la parola appuntata perde il suo senso, esplode in pezzi, si compone di sillabe, lettere, soprattutto consonanti che agiscono direttamente sul corpo, lo penetrano e lo dilaniano» (G. Deleuze, Logique du sens (1969); trad. it. Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2011, p. 83). 65 J. Derrida, Artaud: la parole soufflée, cit., p. 226. 66 Ivi, p. 249.

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Filosofia della crudeltà

dell’Artaud-traduttore67. Dopo sei anni di internamento e continui trasferimenti da un ospedale psichiatrico all’altro, Artaud giunge al manicomio di Rodez nel ‘43. Qui inizia la traduzione di un capitolo del libro Through the Looking-Glass di Lewis Carroll68. Il passaggio a un linguaggio vivente (già tentato sul palcoscenico) avviene tramite la ri-scrittura dell’opera di un altro scrittore: «solo appoggiandosi all’altro, nella dipendenza affettiva, o specularmente, nell’atto di tradurre, è possibile riconquistare la propria libertà di scrittore»69. Artaud mette in pratica una vera e propria invenzione linguistica reinventando il testo originale. La rielaborazione linguistica operata sul capitolo Humpty Dumpty è una vera impresa “anti-grammaticale”. Nel testo originale di Carroll emerge più volte il problema dell’invenzione delle parole e del potere incarnato dal linguaggio: Il problema è sapere – dice Alice – se lei ha il potere di far sì che le parole abbiano tanti significati differenti. Il problema è sapere chi è il padrone – dice Humpty Dumpty – e nulla più70! 67 Artaud si era già dedicato al rifacimento del romanzo gotico The Monk di Matthew Gregory Lewis, pubblicato nel 1796. La crudeltà delle scene de Il Monaco è una sonda gettata in profondità. Questo romanzo fa dell’orrore la sua categoria estetica. Il severo monaco Ambrosio e la donna tentatrice Matilde ingaggiano una battaglia tra amore e morte, diventando vittime e carnefici di loro stessi. Artaud descrive una scena con queste parole: «la scena del sotterraneo, per chi vuole vederla nella sua vera luce, si spoglia del suo apparente romanticismo, del suo flusso e riflusso di cadaveri, del suo odore abietto e troppo puramente fisico, per apparire come un colpo di sonda gettato in tutti i bassifondi del caso e della sorte e, rivestita della più sfavillante veste metafisica, diventare un appello angoscioso e frenetico all’amore nella libertà» (A. Artaud, Premessa, in M. G. Lewis – A. Artaud, Le moine (1931); trad. it. Il Monaco, Bompiani, Bologna 2000, pp. 5-6). 68 L. Carroll, Humpty Dumpty, testo originale inglese, traduzione francese di A. Artaud (L’arve et l’aume), versione italiana di G. Almansi e G. Pozzo (Bindolo Rondolo), a cura di C. Pasi, Einaudi, Torino 1993. 69 C. Pasi, Antonin Artaud: impresa anti-grammaticale su Lewis Carroll e contro di lui, in L. Carroll, Humpty Dumpty, cit., p. 90. 70 Il testo originale recita: «“When I use a word, – Humpty Dumpty said in rather a scornful tone, – it means just what I choose it to mean – neither more nor less”. “The question is, – said Alice, – whether you can make words mean so many different things”. “The question is, – said Humpty Dumpty, – which it to be master… that’s all”». Nella traduzione di Artaud: «“La question est de savoir, – dit Alice, – si vous avez le pouvoir de faire dire aux mots tant de choses équidistantes, multiples et bourriglumpies de variantes infinies”. “La question est” – c’est ce qu’Alice dit. “La question est – dit Dodu Mafflu, – de savoir qui est le Maître… et c’est tout”» (Ivi, pp. 26-27).

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Ma lo scrittore inglese – secondo il famoso confronto deleuziano – si era fermato alla superficie: Artaud considera Lewis Carroll come un perverso, un piccolo perverso che si attiene all’instaurazione di un linguaggio di superficie e non ha sentito il vero problema di un linguaggio in profondità – problema schizofrenico della sofferenza, della morte e della vita71.

Artaud vuole andare “in profondità”. La traduzione non può essere mera riproduzione, ma evento crudele e differente che rompe la prigione della lingua. Nella ricerca delle parole con cui rianimare il testo c’è tutto il rigore e la necessità della crudeltà che spezza la ripetizione. Il titolo scelto da Artaud è: L’arve et l’aume. L’arve, la materia matrice, il nucleo vitale, la massa magmatica embrionale e l’aume, ciò che la vita diventa dopo la pietrificazione operata dal linguaggio e dalla cultura72. Guardandosi allo specchio di Lewis Carroll, – sottolinea Carlo Pasi nel commento al testo – Artaud ha visto se stesso. Penetrando dall’altra parte, nei territori del doppio, ha affrontato il rischio della perdita, del crollo, lo sprofondamento nella notte73.

Anche nella traduzione, come nel teatro della crudeltà, è in gioco la vita: le parole non possono rimanere sulla superficie dello specchio, devono mettere in discussione i presupposti ideologici dell’ordine del discorso. 71 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 81. 72 «L’arve trova infatti nella sua origine latina arvum, terra arata, ma anche in un’accezione particolare, arva muliebra, i genitali femminili, quel significato di una materia matrice solcata dagli impulsi sadico-conoscitivi dell’Homo, homme che s’immette con tale atto trasgressivo nella sfera della creazione. Comincia così ad animarsi la dinamica oppositiva che lega i due termini spostandoli su diverse aree semantiche che ne accresceranno le tensioni reciproche. Allora L’arve con l’apostrofo interno per alludere in forma parodistica all’originale inglese, diventa una volta consumata tale allusione Larve = larva, embrione, spettro, fantasma, maschera. Evidenzia così da un lato, in quanto embrione, “forma transitoria degli animali soggetti a metamorfosi”, il suo nesso ironico con il personaggio di Humpty Dumpty, visto come uovo, come larva a cui si contrappone Alice Aume, versione femminile della razza-uomo; dall’altro, come spesso nel testo ogniqualvolta ci saranno interventi linguistici più decisi, evoca, sempre in tale ottica “metamorfica”, l’esperienza stessa di Artaud, considerata nel suo aspetto di prova, di passaggio (tra-duzione) verso la rinascita» (C. Pasi, Antonin Artaud: impresa anti-grammaticale su Lewis Carroll e contro di lui, cit., pp. 78-79). 73 Ivi, p. 66.

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Filosofia della crudeltà

Ogni scrittura – anche la traduzione – deve rimanere una creazione crudele che intenzionalmente tradisce e ferisce. Artaud scardina la razionalità stanca delle istituzioni partendo dalla grammatica, dall’aggressione alla propria lingua fino a «intaccarla nelle sue forme corrette e compiute, operando fratture rischiose, devianti, sugli aspetti perfettamente realizzati, riusciti (aboutis)»74. La traduzione è «la transizione da una scena buia, a un’altra terribilmente illuminata ove è possibile rimodellare il corpo – la nuova anatomia – nelle posture più farsesche e triviali, cupe e violente con acuti spasmi sonori nell’emersione di una nuova voce che dica il suo percorso accidentato verso la rinascita»75. Kathartikos Nulla è più lontano da un’arte “morale” che utilizza concetti astratti per stigmatizzare atteggiamenti negativi. Artaud odia «ogni teatro ideologico, ogni teatro di cultura, ogni teatro di comunicazione, d’interpretazione, […] che si sforzi di trasmettere un contenuto, di diffondere un messaggio»76. Nessuna ideologia da veicolare, nessun messaggio pedagogico da diffondere: la crudeltà non è concettualizzabile. Il teatro della crudeltà non insegna contenuti determinati, ma produce effetti sovvertitori. È un «teatro ieratico»77, che ha un carattere di sacralità, di rivelazione. Si tratta di un’«operazione magica»78 che ristabilisce il rapporto intimo con la realtà che aveva l’antica magia. Il linguaggio “scardinato” della crudeltà ha un’efficacia materiale, una forza che agisce sui corpi e sugli oggetti utilizzando «tutti gli antichi e sperimentati mezzi magici atti a raggiungere la sensibilità»79. È capace di imporre «una sorta di alterazione organica»80. Spinto dal parossismo di un’azione materiale violenta, alla quale nessuna sensibilità resiste, lo spettatore vede affinarsi il suo sistema nervoso generale, diviene più atto a ricevere le onde delle emozioni più rare, delle idee sublimi, 74 Ivi, p. 77. 75 Ivi, pp. 87-90. 76 J. Derrida, Il teatro della crudeltà, cit., p. 317. 77 Ivi, p. 313. 78 A. Artaud, Teatro Alfred Jarry (1928), cit., p. 17. 79 Id., Il teatro della crudeltà. Secondo Manifesto, cit., p. 239. 80 Id., Lettera a J. P. del 28 maggio 1933, in Ivi, p. 235.

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dei grandi miti che attraverso questo spettacolo cercheranno di colpirlo con la loro forza fisica di deflagrazione81.

Un effetto incantatorio che racchiude un potere terapeutico: da malattia della ragione, la crudeltà diventa cura per il corpo e per lo spirito. Théâtre de curation cruelle82. La teatralizzazione della crudeltà porta alla luce (letteralmente, mette sotto i riflettori) ciò che rimane nell’ombra. «Quanto c’è di oscuro nello spirito, di occultato, di irrivelato» si manifesta sulla scena «in una specie di proiezione materiale, reale»83. Sono «messi a nudo gli impulsi più segreti del cuore»84. Il teatro, quindi, è benefico «perché, spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia; scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma persino i dati più chiari dei sensi»85. La crudeltà che ha luogo sulla scena non è diversa da ciò “che siamo tutti”. Lo spettacolo è uno svelamento che riporta alla luce tutto ciò che di «sudicio e infetto» risiede in noi86: produce lo scatenamento delle forze oscure che l’uomo sopporta ma che non ha inventato. Le immagini cruente – che risiedono in noi – sulla scena travolgono e ipnotizzano lo spettatore87: Un’azione violenta e concentrata è una forma di lirismo: suscita immagini soprannaturali, un’emorragia di immagini, un getto sanguinante di immagini sia nella testa del poeta sia in quella dello spettatore. […] Propongo perciò un teatro in cui immagini fisiche violente frantumino e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori88. 81 Id., A proposito di un testo perduto, in Ivi, pp. 120-121. 82 C. Pasi, Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud, cit., p. 138. 83 A. Artaud, Manifesto per un teatro abortito, in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., p. 13. 84 Id., Manifesto per un teatro abortito, in Ivi, p. 14. 85 Id., Il Teatro e la peste, in Ivi, p. 150. 86 «È qualcosa di più di un’opera teatrale, per quanto audace e scandalosa, è come la verità stessa della vita, considerata nella sua acuità. Nel lavoro c’è una perversità incontestabile, ma niente di peggiore di quello che siamo tutti in tal senso. Tutto ciò che è sudicio e infetto ha un senso e non dev’essere inteso direttamente» (Id., Lettera a Ida Mortemart alias Domenica, in Ivi, p. 52). 87 «L’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali adeguate sia per lo spirito infinitamente più terribile della realizzazione di quello stesso delitto» (Id., Il teatro e la crudeltà, cit., p. 201). 88 Id., Basta con i capolavori, in Ivi, p. 199.

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Filosofia della crudeltà

Non si tratta propriamente della catarsi del teatro classico. C’è, però, una purificazione – riprendendo il senso etimologico di kathartikos – che ingenera un superamento dell’individualità e arriva alla forza crudele che produce la vita. Il teatro non è un’attività ricreativa, ma un “gioco serio” dove è in palio la realtà stessa. Lo spettacolo del teatro della crudeltà è «una sorta di avvenimento»89 che scuote e sconvolge90: Vogliamo arrivare a questo: che ad ogni spettacolo allestito è per noi in gioco una partita grave, e che tutto l’interesse del nostro sforzo sta in questo carattere di gravità. Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. […] Lo spettatore che viene da noi sa di venire a sottoporsi a una operazione vera, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne. Andrà ormai a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. Con lo stesso stato d’animo, pensando evidentemente di non morire per questo, ma che è una cosa grave e che non ne uscirà integro91.

La purificazione che avviene tramite questa «pantomima non pervertita»92 – fatta di parole esplose e di grida inumane – non passa attraverso la riflessione. Il rito teatrale libera lo spettatore attraverso «il riso assoluto, il riso che va dall’immobilità bavosa alla risata irrefrenabile fino alle lacrime»93. Lo strumento della “catarsi crudele” è il riso: «l’unico atteggiamento compatibile con la dignità dell’uomo per cui il tragico e il comico siano divenuti una falsa alternativa»94. 89 Id., Il Teatro Alfred Jarry (1926), in Ivi, p. 5. 90 «Sarà scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo, e questo dinamismo sarà in diretta relazione con le angosce e con le preoccupazioni di tutta la sua vita» (Ivi, p. 7). 91 Ibid. 92 «Per “pantomima non pervertita” intendo la Pantomima diretta, in cui gesti […] rappresentano idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura, e ciò in modo effettivo, concreto, vale a dire evocando sempre oggetti o particolari naturali, al modo di quell’alfabeto orientale che rappresenta la notte come un albero sul quale un uccello ha già chiuso un occhio e incomincia a chiudere anche l’altro» (Id., La messa in scena e la metafisica, cit., p. 157). 93 Id., Il teatro di Alfred Jarry nel 1930, cit., pp. 30-31. 94 «Come tema: l’attualità intesa in tutti i sensi; come mezzo: l’humour, in tutte le sue forme; e come fine: il riso assoluto, il riso che va dall’immobilità bavosa alla risata irrefrenabile fino alle lacrime. Affrettiamoci a dire che per humour intendiamo lo sviluppo di quella nozione di ironia (ironia tedesca) che caratterizza una certa evoluzione dello spirito moderno. […] Non ammetterà che la poesia di fatto, il meraviglioso umano, cioè svincolato da ogni aggancio religioso, mitologico o

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La crudeltà in scena

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Anche George Bataille parla del riso come di una forma embrionale di sacrificio. Il riso – mostrando l’insufficienza e i limiti dell’altro – rompe l’ordine abituale del mondo e apre all’esperienza del sacro: Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per la loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve95.

Il riso, secondo Artaud, infrange lo schermo della cultura imbiancata che ha sepolto la vita96; è lo strumento indispensabile per generare lo spazio sacro in cui esplode la crudeltà: Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto da una parte il senso del serio, dall’altra quello del comico. Perché ha rotto con la gravità, con l’efficacia immediata e mortale – in una parola col Pericolo. Perché d’altra parte ha perduto il senso autentico dell’umorismo e del potere di dissociazione fisica e anarchica del riso97.

Per definire questo progetto – che affonda le radici nella crudeltà originaria – Artaud sceglie la metafora della peste. Il teatro della crudeltà è un’epidemia che agisce sulla collettività e la sconvolge, che si appropria di un disordine latente e spinge i gesti al limite estremo, che «scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso»98. È una rivelazione che lascia uscire le forze oscure e mostra una disumanità latente solitamente mascherata o trascurata: fiabesco, e l’umoristica, unico atteggiamento compatibile con la dignità dell’uomo per cui il tragico e il comico siano divenuti una falsa alternativa» (Ibid.). 95 G. Bataille, L’expérience intérieure (1943); trad. it. L’esperienza interiore, Dedalo, Bari 2002, pp. 148-149. 96 A questo proposito citiamo la riflessione di Carlo Sini: «se il riso, dunque, e il senso del comico emergono in antitesi al formalismo sociale del significato, che obbliga l’uomo a comportamenti rispettosi dei modi e delle finalità della convivenza intersoggettiva, il pianto e il senso del tragico emergono a loro volta di fronte alla catastrofe delle difese sociali volte a governare, per quanto è possibile, gli eventi luttuosi del vivere. Il comico infrange lo schermo delle regole formali e delle norme di comportamento sociale; il tragico constata come questo schermo sia fragile e inefficiente di fronte alla violenza della vita e alla crudele casualità del destino. Non c’è riparo di fronte a morte, malattia, sventura, tradimento, abbandono, oblio; le leggi e le gerarchie sociali non possono farci nulla» (C. Sini, Il comico e la vita, Jaca Book, Milano 2003, p. 45). 97 A. Artaud, La messa in scena e la metafisica, cit., p. 159. 98 Id., Il Teatro e la peste, cit., p. 146.

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Filosofia della crudeltà

Il teatro essenziale è come la peste, non perché è contagioso, ma perché come la peste è la rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito. […] Il teatro, come la peste, è modellato su questo massacro, su questa separazione essenziale. Scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita99.

Parresia «A quali condizioni un autentico “teatro della crudeltà” potrebbe cominciare a esistere?»100 – si chiede Derrida. Il teatro della crudeltà, infatti, sembra irrealizzabile101; la sua grammatica è ancora «da trovare»102. C’è una distanza incolmabile tra il progetto teorico e la realizzazione pratica. Il rigore implacabile della crudeltà di Artaud si rivela un ideale regolativo irraggiungibile piuttosto che un manuale pratico di regole. Il Teatro della crudeltà è segnato dall’insuccesso103.

99 Ivi, pp. 147-149. 100 J. Derrida, Il teatro della crudeltà, cit., p. 302. «Alcuni spettacoli che oggi vanno sotto il segno di Artaud sono forse violenti, sono cioè sanguinosi, ma non per questo crudeli» (Ivi, p. 307). 101 Artaud è «sul limite della possibilità teatrale», vuole «nello stesso tempo produrre e annullare la scena» (Ivi, p. 322). 102 Ivi, p. 320. Derrida conclude: «se non può aiutarci ad organizzare una prassi teatrale, ci permette forse di pensare l’origine, la vigilia e il limite, di pensare il teatro oggi, a partire dall’apertura della sua storia e nell’orizzonte della sua morte» (Ivi, p. 321). 103 Anche il primo atto del teatro artaudiano è un fallimento. Il 6 maggio del 1935 Artaud riesce a far rappresentare, fedele ai canoni del nuovo teatro della crudeltà, la tragedia I Cenci. Artaud, sulla scia di Shelley, riprende la storia di una nobile famiglia romana della fine del Cinquecento e la trasforma in gioco crudele senza vittime e colpevoli. Una storia di incesto e di parricidio in cui tutti muoiono e nessuno è innocente. «I Cenci, che saranno rappresentati alle Folies-Wagram dal 6 maggio prossimo, non sono ancora il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano. […] Ci sarà fra il Teatro della Crudeltà e I Cenci la differenza che c’è fra il rimbombo di una cascata o lo scatenarsi di una tempesta naturale e ciò che può restare della loro violenza in una registrazione. […] I Cenci sono una tragedia nel senso che per la prima volta dopo tanto tempo ho cercato di far parlare, non uomini, ma esseri; esseri che sono come grandi forze incarnate» (A. Artaud, Appendice III, in Id., I Cenci, Einaudi, Torino 1972, pp. 80-81).

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La crudeltà in scena

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Nelle sue ultime produzioni la crudeltà teorizzata nei manifesti de Il teatro e il suo doppio diventa corporale, morde la realtà e si incarna come una ferita non cicatrizzabile. La crudeltà – commenta Carlo Pasi – è andata oltre se stessa: Una parola così avida come “crudeltà” sembra rimasta appiccicata a una voglia di significare qualcosa di orrendo che però svanisce e la vanifica non essendo che l’applicazione di un’idea. E le idee sono morte. La parola crudeltà, sopravvissuta d’altro mondo, non ha senso. Eppure occorrerà trovargli un altro senso che la dirotti da se stessa104.

La trasfigurazione dell’ultimo Artaud aderisce a una sorta di materialismo assoluto105. Il suo corpo recepisce la crudeltà del mondo, elabora su se stesso il lutto della storia. La sua pelle diventa lo spazio che dilata il dolore collettivo, il contenitore che raccoglie le forze sparse dell’insubordinazione106. Artaud conserva su di sé la traccia di tutte le vittime azzittite: il suo volto martoriato dall’esperienza manicomiale diventa il simbolo della violenza di tutte le istituzioni coercitive: quelle che mentre cancellano il cadavere, estirpano anche la memoria. «La sua ferita, la sua segregazione, la sua follia sembrano aver coinciso col trauma che ha lacerato il Novecento: la guerra, lo sterminio. Al cuore della tragedia dell’olocausto»107. Artaud è un frammento, una traccia di ciò che la storia ha cancellato: un martire che testimonia un destino universale. Il manicomio è il suo forno crematorio personale, dove ridere fino alle lacrime. Nel Préambule al primo tomo dell’edizione completa delle sue opere, scritto nell’agosto del 1946, Artaud rilegge il passato con gli occhi del presente:

104 C. Pasi, Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud, cit., p. 123. 105 Cfr. M. De Marinis, La danza alla rovescia di Artaud. Il Secondo Teatro della Crudeltà (1945-1948), Battello Ebbro, Bologna 1999. 106 «Nel delirio escrementizio che caratterizza gli ultimi scritti di Artaud vi è un tentativo di esorcizzare l’impossibilità di esprimere con un linguaggio convenzionale qualcosa che non si può esprimere, come l’esperienza del dolore e dell’umiliazione» (P. Di Palmo, Lei delira, signor Artaud. Un sillabario della crudeltà, Stampa Alternativa, Roma 2011, p. 145). 107 C. Pasi, Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud, cit., p. 122.

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Filosofia della crudeltà

Una discesa a picco nella carne svezza dal chiamare la crudeltà sempre nello stesso modo, la crudeltà o la libertà. / Il teatro è il patibolo, la forca, le trincee, il forno crematorio o il manicomio. / La crudeltà: i corpi massacrati108.

Il 13 gennaio del 1947, dopo l’internamento a Le Havre e a Rodez durato nove anni, Artaud tiene una conferenza al Vieux Colombier, L’Histoire vécue d’Artaud-Mômo. Una delle ultime apparizioni prima della morte avvenuta nel 1948. Questa sua conferenza-confessione sarà un evento insostenibile al quale il pubblico reagisce in modo scomposto. Artaud espone la sua sofferenza personale e universale con grida atroci e gesti straziati: il più grande spettacolo del teatro della crudeltà e il suo estremo fallimento109. André Gide commenta questa esposizione intollerabile: Del suo essere materiale non restava più nulla che non fosse espressivo: la sua alta figura dinoccolata, il suo volto consumato dalla fiamma interiore, quelle mani di chi sta per annegare, mani tese verso un inafferrabile aiuto, che ora si torcevano dall’angoscia ed ora, più spesso, circondavano il viso, nascondendolo e svelandolo a un tempo: tutto in lui parlava della spaventosa miseria umana, di una specie di dannazione senza altro rifugio, senza altro sfogo possibile che in un lirismo forsennato di cui al pubblico non pervenivano che sprazzi osceni, imprecativi e blasfemi110.

Il teatro della crudeltà è un supplizio, l’attore è un suppliziato. L’artista è un capro espiatorio111 che calamita le crudeltà della propria epoca: L’operazione non consiste nel sacrificare il proprio io di poeta, e, in quel momento, d’alienato, a tutti, ma di lasciarsi penetrare e violentare dalla coscienza di tutti in modo tale da essere nel proprio corpo solo il servo delle idee e reazioni di tutti – poeta reso rabbioso dalla verità112.

108 A. Artaud, Préambule, cit. in Ivi, p. 126. 109 In questi atti finali – sottolinea il critico Marco Dotti – «il suo processo di insurrezione si estremizza, l’unità dei contrari diviene caos generativo, intensità reiterata, volontà assolta di giustizia, possibilità concreta di potenza: è il corpo ritrovato (dopo il furto, vol, da parte di dio) e rinnovato (dopo lo stupro, viol, da parte degli uomini)» (M. Dotti, Il corpo e il suo doppio, in A. Artaud, CsO, il corpo senz’organi, Mimesis, Milano 2006, p. 18). 110 A. Gide, Feuillets d’automne (1949); trad. it. Pagine d’autunno, Garzanti, Milano 1952; cit. in P. Di Palmo, Lei delira, signor Artaud, cit., p. 236. 111 La stessa etimologia di “tragedia” (dal greco tragodia) rimanda al capro espiatorio. Letteralmente (o meglio, originariamente) la tragedia nasce come ode al “capro” (tragos). 112 A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, cit., pp. 226-227.

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La crudeltà in scena

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La crudeltà – subita e trasmessa dall’uomo, ri-subita e ri-trasmessa dall’artista – non è una “virtù” senza conseguenze. C’è un prezzo da pagare: Vivere è sopravvivere a sé eternamente rimasticando il proprio io d’escremento, senza nessuna paura della propria anima fecale, forza affamante di seppellimento. Perché l’intera umanità vuole vivere, ma non ne vuole pagare il prezzo, e questo prezzo è il prezzo della paura. Per essere si deve vincere questa paura, senza ricorrere a nessun dio dietro di sé, e senza dimenticare niente di sé113.

Ne deriva una duplicità irriducibile. Da un lato, parresia: coraggio di “parlar chiaro”, di gridare la verità anche quando la verità è crudele. Il pensiero della crudeltà non si appiglia ad alcun sistema valoriale, non si appella ad alcun sistema classificatorio. Produce inquietudine generativa: partorisce la tensione e l’incertezza che provoca il dubbio. La crudeltà si manifesta nella mancanza di qualsiasi censura, nel dispiegamento di ogni possibile attributo dell’umano. Dall’altro, supplizio: testimonianza, esempio, esposizione al dolore in prima persona. Da qui l’impossibilità di un pensiero coerente che trasferisca sul logos/linguaggio l’impulsività di un corpo che testa su se stesso la crudeltà. Crudeltà pericolosa e rischiosa. Non rende immuni dal dolore e dalla morte, dischiude all’eventualità di restare feriti: «“teatro della crudeltà” vuol significare teatro difficile e crudele anzitutto per me stesso»114. Gli artisti sperimentano la duplicità della crudeltà e «debbono abitare le strutture stesse che stanno abbattendo e nascondervi un desiderio indistruttibile di presenza piena, di non-differenza: nello stesso tempo, vita e morte»115. 113 Id., Lettera a Henri Parisot (Rodez, 6 ottobre 1945), in Ivi, p. 173. 114 Id., Basta con i capolavori, cit., p. 196. 115 J. Derrida, Artaud: la parole soufflée, cit., p. 253. La crudeltà teorizzata da Artaud è impraticabile perché implicherebbe – direbbe Heidegger – un vero e proprio oltrepassamento della metafisica. È costitutivamente esposta al fallimento. Derrida nei saggi di La scrittura e la differenza si concentra proprio sulle difficoltà di questa impresa di distruzione che rimane impigliata nel sistema che vuole distruggere: «prende in considerazione pensatori che si vorrebbero collocare fuori dalla tradizione metafisica occidentale. Ne risulta che le pretese di oltrepassamento della metafisica da parte di questi pensatori appaiono altrettanto soggette a contaminazioni rispetto a ciò che essi vorrebbero escludere: se l’identità pura è un mito metafisico, l’alterità e la differenza assolute lo sono altrettanto, e ricadono inevitabilmente in quella tradizione cui intendevano sottrarsi» (L. Berta, Derrida e Artaud, cit., p. 26).

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2. FIGURE DELLA CRUDELTÀ

Dobbiamo sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro: dobbiamo stare sulle frontiere. Michel Foucault

La crudeltà è una terra straniera La storia della civiltà rimuove l’inquietante duplicità costituita dalla crudeltà, il desiderio inumano dell’umanità. La crudeltà come “pratica estetica” filtrata dall’esperienza di Artaud ci pone di fronte a un rovesciamento: la crudeltà diventa uno strumento per illuminare le tormentose forclusioni che fondano la civiltà. Ma come? Se la filosofia non ha saputo pensare la vita dell’uomo, penetrarne la ‘metafisica concreta’, tocca al romanzo occupare questo terreno vuoto sul quale nulla potrebbe sostituirlo, il che è stato confermato dalla filosofia esistenzialista come una prova a contrario: l’analisi dell’esistenza non può infatti diventare sistema, l’esistenza non è sistematizzabile1.

Il romanzo può contenere la “metafisica concreta” della vita, può rischiarare l’essenza oscura di questa crudeltà iscritta nell’esistenza umana. Per trovare altre parole è necessario, quindi, un “pretesto estetico”2: un’opera simbolica e paradigmatica che apra l’orizzonte della storia ufficiale, che sveli – con un linguaggio crudele – anche gli aspetti indicibili. 1 M. Kundera, Les testaments trahis (1993); trad. it. I testamenti traditi, Adelphi, Milano 1994, pp. 168-169. 2 «Il fatto di essere costruito intenzionalmente su ‘pretesti’ estetico-letterari, la cui ‘occasionalità’ stabilisce e fonda nello stesso tempo la specificità dell’approccio saggistico. Il singolo ‘pretesto’ scopre e manifesta indirettamente, in quanto solo ‘indirettamente’, attraverso la mediazione dei pre-testi-forme lo spirito saggistico esercita le proprie finalità, sempre dunque da una angolazione specifica, quello che è lo spazio teorico che viene privilegiato, la forma-saggio, lo ‘specchio’ per eccellenza» (E. Matassi, Il giovane Lukàcs, saggio e sistema, Mimesis, Milano 2011, pp. 52-53).

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Filosofia della crudeltà

Eliogabalo, l’anarchico incoronato – il romanzo che Antonin Artaud scrive nel 1934 – è l’ipertesto che stiamo cercando. Il protagonista è un imperatore romano vissuto nel 200 d. C.: un campione di crudeltà di ogni genere che la storia ufficiale ha rimosso e addomesticato. Attraverso la “biografia romanzata” costruita da Artaud si possono attraversare tutte le sfaccettature della crudeltà. Il romanzo è una tela di ragno che unisce una polifonia di nuclei tematici “crudeli”. Prima di addentrarci nell’analisi di questo epifenomeno letterario, facciamo un passo indietro. Chi è Eliogabalo per la Storia? [Eliogabalo] fu assalito e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Per colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non avesse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo3.

Così terminano, l’11 marzo del 222 d.C., la vita e il regno dell’imperatore più crudele delle storia di Roma, Marco Aurelio Antonino, ricordato come Eliogabalo. Quattro anni prima, col sostegno della madre, Giulia Soemia, e della nonna materna, Giulia Mesa, viene acclamato imperatore dalle truppe orientali all’età di quattordici anni4. L’impero romano, simbolo della ragione e del controllo, per quattro anni diventa preda delle stravaganze (politiche, religiose e sessuali) di un giovane di origine siriana, sacerdote del dio sole di Emesa. La vita di Eliogabalo, nelle fonti antiche, comincia con la sua morte: lo scempio del suo cadavere da parte dei pretoriani corrisponde allo scempio della sua memoria. Diventa imperatore autoproclamandosi (con l’appoggio di sua nonna e di sua madre) figlio illegittimo di Caracalla. La sua candidatura a successore del trono imperiale è percepita dal senato come il frutto di un delirio. In 3

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«Post hoc in eum impetus factus est atque in latrina, ad quam confugerat, occisus. Tractus deinde per publicum. Addita iniuria cadaveri est, ut id in cloacam milites mitterent. Sed cum non c[a]episset cloaca fortuito, per pontem Aemilium adnexo pondere, ne fluitaret, in Tiberim abiectum est, ne umquam sepeliri posset. Tractum est cadaver eius etiam per circi spatia. Priusquam in Tiberim praecipitaretur» (Historia Augusta, XVII, 1-3). Giulia Mesa, giunta in Siria, grazie all’enorme ricchezza e al potere religioso dalla sua famiglia, trama per spodestare Macrino. Sfrutta l’insoddisfazione dell’esercito e fa proclamare suo nipote Eliogabalo imperatore con il nome di Caracalla.

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Figure della crudeltà

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questo gesto folle è racchiusa tutta la sua breve vita: ogni suo gesto, perfino la morte in una latrina fuori dai palazzi imperiali, è un delirio. De-lirare vuol dire, seguendo l’etimologia della parola, uscire dalle lirae, dai solchi tracciati, dai confini stabiliti5. Superare il limes, la frontiera simbolica e geografica, vuol dire eccedere i contorni dell’identità di una comunità, andare al di là della linea di demarcazione che separa l’uguale dal diverso. Il confine non ha soltanto uno statuto ontologico, non è soltanto una linea (spesso individuabile materialmente) di separazione geografica. Il confine ha anche un valore epistemologico: è insieme concetto e immagine, contribuisce a determinare la nascita dell’identità. Il confine ha un carattere istituzionale, ma anche relazionale. La vita di Eliogabalo è una vita “oltre il confine”. Rappresenta, per le fonti che ne narrano la storia, l’incursione dell’estraneità che sconvolge l’equilibrio. È uno straniero. Straniero dal punto di vista culturale. Erede di un’importante famiglia orientale, nasce a Emesa, nell’attuale Siria. L’Oriente che egli rappresenta è guardato con sospetto dall’Occidente, è un’«alterità assai distante e piuttosto minacciosa»6. Nella cultura greco-romana, i caratteri orientali sono schedati e contrapposti ai caratteri occidentali. La costruzione dell’Oriente serve ai greci e ai romani per definirsi; è l’esterno su cui si costituisce l’identità occidentale: le virtù dell’impero romano sono il corrispettivo dei vizi dell’Oriente barbaro. Eliogabalo, quindi, è portatore di un “virus culturale” proveniente da una terra straniera che può infettare la purezza della ragione romana. Con la sua corte orientale, a Roma arrivano gli estranei che, non rispettando il mos maiorum locale, sconvolgono le gerarchie culturali. Straniero dal punto di vista politico. Il giovane siriano si prende gioco delle istituzioni e delle tradizioni che mantengono unito l’impero. Arriva persino a vendere le cariche di tribuno militare, di legato e di generale7. Le sue decisioni politiche sono manovrate da due donne orgogliose e potenti, che, con grande scandalo dei senatori, sono invitate ad assistere alle sedute

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Per una riflessione sul confine cfr. P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 2000. 6 E. Said, Orientalism (1978); trad. it. Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2010, p. 29. 7 «Eliogabalo – dice lo storico Robert Turcan – non cercava nemmeno di salvare le apparenze. “Bastava che uno dei suoi schiavi o liberti si distinguesse per qualche turpitudine scandalosa – scrive Erodiano – perché egli lo nominasse proconsole in una provincia dell’Impero”» (R. Turcan, Héliogabale et le sacre du soleil (1985); trad. it. Eliogabalo e il culto del sole, a cura di E. Rovida, ECIG, Genova 1991, pp. 149-150).

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Filosofia della crudeltà

del Senato8. Senza alcun rispetto per le tradizioni, Eliogabalo crea per loro il senaculum mulierum, il “Senato delle donne”. Straniero dal punto di vista religioso. Da quando ha quattro anni, Eliogabalo è l’alto sacerdote del dio sole di Emesa, la sua città natale. Il suo stesso nome parla della sua origine: El-Gabal deriva da due parole siriache, El (“dio”) e gabal (“montagna”), e significa “il dio [che si manifesta in una] montagna”. Fin da subito, la sua politica religiosa è osteggiata dal Senato. Eliogabalo introduce nel pantheon romano El-Gabal – rinominato Deus Sol Invictus – e ha la pretesa di renderlo la divinità principale dell’impero. Costruisce un tempio, Elagabalium, sul pendio orientale del Palatino nel quale fa trasportare i simboli più importanti della religione romana9. Le fonti storiche sono contrastanti: Eliogabalo è spinto da motivazioni sincretiche o vuole imporre una sorta di monoteismo orientale10? Il forestiero Eliogabalo, in ogni caso, infrange la pax deorum della patria. Straniero dal punto di vista sessuale. I suoi costumi amorosi sono scandalosi e inammissibili. Eliogabalo si sposa cinque volte; si unisce in matrimonio con la vergine vestale Aquilia Severa, infrangendo la tradizione romana. I suoi giovani amanti sono chiamati a corte e ricevono incarichi lucrativi e influenti. Anche i suoi atteggiamenti quotidiani sono “anormali”: si dipinge le palpebre, si depila e indossa parrucche prima di prostituirsi nei bordelli di Roma. «Si riservò – riporta Cassio Dione – una stanza nel palazzo e lì commetteva le sue indecenze, standosene sempre nudo sulla porta 8

«Deinde ubi primum diem senatus habuit, matrem suam in senatum rogari iussit. [...] Quae cum venisset, vocata ad consulum subsellia scribendo adfuit, id est senatus consulti conficiendi testis, solusque omnium imperatorum fuit, sub quo mulier quasi clarissima loco viri senatum ingressa est» (Historia Augusta, IV, 1-2). 9 «Sed ubi primum ingressus est urbem, omissis, quae in provincia gerebantur, Heliogabalum in Palatino monte iuxta aedes imperatorias consecravit eique templum fecit, studens et Matris typum et Vestae ignem et Palladium et ancilia et omnia Romanis veneranda in illud transferre templum et id agens, ne quis Romae deus nisi Heliogabalus coleretur» (Ivi, III, 4). 10 Così commenta lo storico Robert Turcan: «la figura e il comportamento di Eliogabalo variano sensibilmente da autore ad autore e, anche in uno stesso autore, da una frase all’altra. Talvolta l’imperatore sembra rivendicare per il suo dio l’egemonia cultuale, una specie di preminenza. Talvolta egli appare animato da motivazioni sincretiche o sintetiche, allorché raccoglie tutti i supporti sacri del divino attorno al betilo, facendo intendere che essi ricordassero tutti la stessa devozione, e che la triade elagabaliana corrispondesse alla triade capitolina. In altri casi gli si attribuisce la volontà di imporre l’adorazione di un dio unico. Enoteismo? Sincretismo? Monoteismo?» (R. Turcan, Eliogabalo e il culto del sole, cit., pp. 130-131).

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della camera, come fanno le prostitute, e scuotendo le tende che pendevano da anelli d’oro, mentre con voce dolce e melliflua sollecitava i passanti»11. Straniero dal punto di vista morale12. Vero campione del vizio e della lussuria: i suoi atteggiamenti sono sempre contrassegnati dall’eccesso e dalla dismisura. La lussuria diventa crudeltà, quando è legata al piacere provocato dalla violenza. Secondo il più famoso degli aneddoti – immortalato nel dipinto di Lawrence Alma-Tadema Le rose di Eliogabalo – l’imperatore uccise molti degli ospiti del suo palazzo soffocandoli con una massa di petali di fiori profumati fatta cadere dal soffitto: «facendo azionare il soffitto girevole di certi triclinii, sommergeva i suoi parassiti con una pioggia di viole e altri fiori, tanto che alcuni, non riuscendo a risalire alla superficie, vi morirono soffocati»13. Lo storico Lampridio, addirittura, accusa Eliogabalo di aver ordinato numerosi sacrifici umani14. Cultura, politica, religione, sessualità, morale: Eliogabalo è “oltre il confine” secondo tutti i punti di vista. Un’incarnazione perfetta, quindi, della natura indefinibile e polimorfa della crudeltà. Revenant Eliogabalo subisce la stessa sorte della crudeltà: viene rimosso. La damnatio memoriae postuma ha distrutto tutti i segni materiali del suo passaggio: i ritratti sono stati rimodellati, le statue distrutte, il nome cancellato dai documenti e dalle iscrizioni. Fin dalle modalità dell’assassinio, si intuisce la volontà di cancellazione totale dell’identità di Eliogabalo. Argomenta Gualerzi nella sua monografia dedicata all’imperatore siriano:

11 Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, LXXX, 13. 12 «Egli non rispettò nulla del mos maiorum. Il suo capriccio esuberante e sconcertante sconvolse gerarchie umane, sociali e morali. A questa disinvoltura si accompagnava la dismisura nella luxuria in tutti i sensi del termine latino: lusso e lussuria» (R. Turcan, Eliogabalo e il culto del sole, cit., p. 146). 13 Cfr. Historia Augusta, XVII, 21, 5. 14 «Caedit et humanas hostias lectis ad hoc pueris nobilibus et decoris per omnem Italiam patrimis et matrimis, credo ut maior esset utrique parenti dolor» (Ivi, VIII, 1).

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Filosofia della crudeltà

Pure il macabro trattamento riservato al cadavere di Elagabalo pare motivato non tanto dal disprezzo, quanto dall’accanito tentativo di cancellare del tutto, tramite lo strazio, lo smembramento e l’eliminazione finale, l’identità umana di quell’imperatore che già in vita non era considerato homo bensì belua. [...] A ciò si aggiunga che il particolare tipo di tortura inflitto al cadavere di Elagabalo prima della sua precipitazione nel Tevere, cioè l’essere trascinato pubblicamente (sin dai tempi omerici atto coincidente con la massima forma di oltraggio) attraverso le strade di Roma, era anche il metodo privilegiato per annullare ogni residuo di identità del defunto15.

Le fonti scritte a cui possiamo fare riferimento sono soltanto tre: i libri LXXVIII-LXXIX della Storia Romana di Cassio Dione Cocceiano; il libro V della Storia imperiale dopo la morte di Marco Aurelio di Erodiano; la Vita di Eliogabalo, il capitolo dell’Historia Augusta attribuito a Elio Lampridio. Cassio Dione è un contemporaneo e riporta il punto di vista della classe senatoriale che sostiene il successore al trono, Alessandro Severo. Erodiano, malgrado la sua origine siriana, rimane un rappresentante dell’ordo senatorius, ferocemente ostile all’imperatore. L’Historia Augusta – la famosa raccolta di biografie imperiali probabilmente composta da sei autori diversi in epoca tetrarchica e costantiniana – è un testo disseminato di falsificazioni, oggetto di dispute storiografiche fin dall’Ottocento. La parte dedicata a Eliogabalo risulta scritta da Elio Lampridio16 e la fonte contemporanea dovrebbe essere quella, ora perduta, del senatore e storico Mario Massimo (160 circa – 230 d.C.). Con pennellate diverse e aneddoti fantasiosi, le tre narrazioni si dilungano nel tratteggiare un ritratto perverso, nell’enfatizzare i comportamenti anomali e le abitudini inconsuete. Ne esce un quadro di dissipazione e di lussuria, dove i vizi privati non corrispondono alle pubbliche virtù. La Storia, insomma, condanna senza appello i quattro anni dell’imperatore «Impuro»17: le sue atroci nefandezze colorano uno dei paesaggi più oscuri della storia di Roma. Eliogabalo, all’interno della vulgata storiografica, diventa l’exemplum negativo: l’imperatore crudele e immorale.

15 S. Gualerzi, Né uomo, né donna, né dio, né dea. Ruolo sessuale e ruolo religioso dell’imperatore Elagabalo, Pàtron, Bologna 2005, pp. 52-53. 16 «Vitam Heliogabali Antonini, qui Varius etiam dictus est, numquam in litteras misissem, ne quis fuisse Romanorum principem sciret, nisi ante Caligulas et Nerones et Vitellios hoc idem habuisset imperiu» (Historia Augusta, I, 1). 17 «Appellatus est post mortem Tiberinus et Tractatitius et Inpurus et multa, si quando ea erant designanda, quae sub eo facta videbantur» (Ivi, XVII, 5).

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Il ritratto nefasto si cristallizza per sempre nell’immaginario. La sentenza degli storici moderni ratifica il giudizio degli antichi. Perfino nelle parole del più influente storico della Roma antica, Edward Gibbon: [Eliogabalo] era corrotto dalle passioni della gioventù, dai costumi della patria e dalla sua propria prosperità, si abbandonò ai piaceri più grossolani con sfrenato furore, e nei godimenti trovò presto la sazietà e la nausea. […] Il senato bollò la sua memoria di perpetua infamia, e i posteri hanno ratificato questa giusta sentenza18.

Un despota da odiare unanimemente. Le ragioni dell’infamia sembrano non trovare oppositori: Eliogabalo è per tutti l’antitesi del buon romano, del buon politico, del buon sacerdote, del buon marito, del buon uomo. Si macchia di azioni che non sono ammesse né dalle leggi pubbliche, né dalla morale privata: sospende il codice etico che fonda la società, sovverte le tradizioni religiose e stravolge le istituzioni politiche. Incarna, senza sfumature, la crudeltà intesa come istinto crudo e precivile: una ricerca del male per puro piacere personale che, se applicata al potere, distrugge i legami (politici, sociali e religiosi) di una comunità. La storia lo condanna come la filosofia condanna la crudeltà. Si giunge a un’unica sentenza. La pena serve a ristabilire l’ordine: Il fondamento della colpa – dice Massimo Cacciari – è hybris, l’atto di prepotente superbia di chi pretenda di infrangere i métra di Dike. […] La pena ristabilisce l’ordine. Tutto è contesa e guerra. Tutto è polemos-polis. Ma attraverso la stessa contesa, Dike mantiene ogni cosa nella misura, nel suo Nomos19.

La Storia, come un tribunale, giudica e punisce il colpevole. Ogni narrazione (come ogni ricostruzione filosofica) è funzionale a un’interpretazione. Le pratiche discorsive non sono mai neutre e oggettive, ma, come abbiamo già ricordato, si costruiscono a partire da una pratica di potere. Le fonti su Eliogabalo non sono un’eccezione. Sono orientate verso un fine: la ri-costruzione simbolica di un cosmos in equilibrio. L’ordine si isti18 E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1976-1989); trad. it. Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, Einaudi, Torino 1967, vol. I, pp. 140-141. 19 M. Cacciari, Due passi all’inferno. Brevi note sul mito della pena, in Aa. Vv., Diritto penale minimo, a cura di U. Curi e G. Palombrini, Donzelli, Roma 2002, pp. 224-225.

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tuisce con il superamento della fase di caos, con il ritorno del diritto dopo l’anarchia. Le lenti della storiografia (e della filosofia) superano – dialetticamente – la negatività all’interno di una totalità da preservare. Il vulnus-Eliogabalo, come la singola azione crudele, non diffonde un’infezione mortale. È una malattia che, una volta debellata, favorisce l’unificazione e la fortificazione di tutto il corpo. La Storia ristabilisce i confini e punisce il crimine cancellandone la memoria. In effetti – se la nostra analisi si fermasse alle fonti storiografiche – la crudeltà di Eliogabalo sarebbe stata adeguatamente debellata. La modernità, però, mette in discussione le definizioni della storiografia. La forza di questa “leggenda nera” non si esaurisce con la damnatio memoriae della Storia Ufficiale: Eliogabalo continua a suscitare interesse e inquietudine. È evocato da Verlaine nella poesia Rassegnazione20, citato nel Ritratto di Dorian Grey21 di Oscar Wilde, ripreso da D’Annunzio nel suo Libro segreto22, è l’interlocutore privilegiato di Des Essentes di Huysmann, è il protagonista della raccolta di poesie Algabal23 di Stefan George. Per la letteratura, la poesia e l’arte figurativa24 Eliogabalo è una figura che svela il carattere perturbante della realtà. 20 Cfr. P. Verlaine, Résignation (1866); trad. it. in Poesie e prose, a cura di D. Grange Fiori, Mondadori, Milano 1992, p. 26. 21 O. Wilde, The picture of Dorian Grey (1890); trad. it. Il ritratto di Dorian Grey, trad. it. di R. Calzini, Mondadori, Milano 1982, cap. IX, p. 187. 22 G. D’Annunzio, Prose di ricerca, di lotta, di comando e di conquista, Mondadori, Milano 1950, vol. II, p. 172. 23 I caratteri negativi di Eliogabalo nei versi del simbolista tedesco si sublimano nel loro opposto. L’arbitrio diviene autonomia, la crudeltà diviene estetismo, la stravaganza diviene singolarità. L’Eliogabalo di George è una figura orgogliosa e tragica. L’enfasi del poeta cade sulla passione e sul misticismo. Algabal è un sacerdote, più che un sovrano. Divenuto imperatore, egli rimpiange l’infanzia in Siria, quando poteva dedicarsi esclusivamente al culto divino: «Giorni grandi, quando il mio spirito imperava, / giorno infausto quando i templi ripudiai della mia patria» (Cfr. S. George, Algabal (1892); trad. it. Algabal, a cura di B.M. Bornmann, Le Lettere, Firenze 2003, p. 62). 24 Argomenta lo storico Icks alla fine della sua monografia dedicata all’imperatore siriano: «the imperial rebel we encounter in plays and novels from the last decades, celebrating his homosexuality and breaking free from traditional role models, seems a far cry from the debauched slave of his own lusts painted by the Vita Heliogabali. […] This shift in values has brought about a change in meaning, turning an ancient exemplum malum into a modern role model» (M. Icks, Crimes of Elagabalus, the like and legacy of Rome’s decadent boy emperor, Tauris, London 2011, pp. 217-218).

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La storia e la filosofia seguono il “cammino degli avvenimenti” e procedono dalla natura alla cultura: la crudeltà è ciò che sta “prima” e deve essere superato (o perlomeno controllato, sorvegliato). L’arte non segue questa direzione. I comportamenti crudeli condannati della ratio diventano domande martellanti che mettono in discussione la consistenza granitica delle certezze. Qui entra in gioco il romanzo di Antonin Artaud: la vita di Eliogabalo (una vicenda storica) diventa un testo letterario (un’opera d’arte). L’imperatore crudele, quindi, diviene un “pre-testo” per un’interrogazione radicale sulle implicazioni filosofiche della crudeltà: La vita di Eliogabalo è la dimostrazione di questa teoria che vuol che la Storia non si faccia da sola e che intelligenze industriose premeditino gran tempo innanzi e con un senso sbalorditivo delle più sottili strategie dello spirito, immerso nella vita, il cammino degli avvenimenti. Non è questa la sola precisazione che la sua vita consenta25.

Il gioco degli opposti Se intorno al cadavere di Eliogabalo, morto senza tomba, e sgozzato dalla sua polizia nelle latrine del proprio palazzo, vi è un’intensa circolazione di sangue e di escrementi, intorno alla sua culla vi è un’intensa circolazione di sperma26.

Inizia così il romanzo Eliogabalo o l’anarchico incoronato. Parole che evocano una nascita e una morte crudele. Artaud compie una lunga ricerca d’archivio, analizza meticolosamente le fonti che ricostruiscono la vicenda dell’imperatore “senza tomba” e le rielabora in un nuovo percorso visionario. Il racconto degli storici diviene il supporto di una nuova chiave di lettura metafisica e religiosa. Ne esce un’opera paradossale: un libro documentato e, contemporaneamente, immaginifico e poetico. L’Eliogabalo è un’opera di difficile definizione. La narrazione storica si intreccia con l’autobiografia, con la critica della civiltà europea, con spregiudicate riflessioni filosofiche ed ermetiche. Il libro è diviso in tre capitoli che corrispondono a un contenuto rigidamente tripartito: il primo, La culla di sperma, inquadra la regione e la 25 A. Artaud, Héliogabale ou l’Anarchiste couronné (1934); trad. it. Eliogabalo, Adelphi, Milano 2007, p. 140. 26 Ivi, p. 7.

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famiglia di origine; il secondo, La guerra dei princìpi, si concentra sulle implicazioni religiose del suo ruolo di sacerdote del dio Sole di Emesa; il terzo, L’anarchia, ricostruisce i quattro anni del giovane siriano a Roma fino alla crudele morte nella latrina. Si aggiungano tre appendici che approfondiscono le implicazioni esoteriche della tradizione religiosa orientale: Lo scisma d’Irshu, La religione del sole in Siria, Lo zodiaco di Ram. La struttura razionale dell’indice, però, offre una precomprensione distorta delle intenzioni dell’autore. Il testo artaudiano non corrisponde, infatti, all’analisi graduale tipica dell’approccio storico: il contesto, l’approfondimento, la biografia. La forma lineare della narrazione è solo superficiale. La trama delle argomentazioni, il rincorrersi dei riferimenti, la circolarità dei rimandi trasforma un romanzo storico in una costruzione labirintica. Lo stesso Artaud avverte: Io [non] mi sono impegnato in nulla di preciso, e soprattutto non a condurre il mio racconto in un modo piuttosto che in un altro, e se la mia è una redazione circolare e a spirale in cui il pensiero ha l’aspetto di ritornare senza posa sul pensiero, bisogna prendersela prima di tutto colla forma del mio spirito che già di per sé mi dà abbastanza filo da torcere27.

Il pensiero ritorna senza posa su di sé in un movimento “circolare e a spirale” che pervade il romanzo. Potremmo definirlo, usando un termine di Gilles Deleuze, un esempio di romanzo rizomatico28. Come un rizoma, infatti, il pensiero di Artaud rincorre se stesso, cresce e si moltiplica in mille piani senza centro e sfugge alle gerarchie arboree delle classificazioni tradizionali. Il romanzo non è finalizzato a una ricostruzione lineare dei fatti. Non importa quanta verità storica ci sia in questa riscrittura. La finalità è esattamente opposta: per trovare il filo autentico della storia si deve prima “dimenticarla”. La narrazione della vita di Eliogabalo – dice Artaud – aiuta «coloro che la leggeranno a disimparare un poco la Storia: trovandone tuttavia il filo»29. Questo fil rouge non assomiglia alla versione narrata nei manuali, ma si avvicina alla vita vissuta. La cronologia degli avvenimenti passa in secondo piano per far emergere la plasticità di una vita che si ribella ai fatti: In una vita di cui è impossibile stabilire la cronologia, ma in cui gli storici, che narrano minuziosamente le sue crudeltà senza data, vedono un mostro, io 27 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 157. 28 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie (1980); trad. it. Mille piani, capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010. 29 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 187.

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vedo, invece, una natura di prodigiosa plasticità, che risente l’anarchia dei fatti e insorge contro i fatti. Io vedo in Eliogabalo un’intelligenza fremente che trae un’idea da ogni oggetto e da ogni incontro d’oggetti30.

Uno scrittore selvaggio che vive le stesse lacerazioni del protagonista può inoltrarsi nella foresta insanguinata: Vero o falso che sia, il personaggio di Eliogabalo vive, credo, fino alle sue profondità, siano quelle di Eliogabalo personaggio storico o quelle di un personaggio che sono io31.

La rivalutazione etica ed estetica enfatizza, polemicamente, tutti i tratti sgradevoli, degradati e degradanti della vicenda dell’imperatore siriano. Le parole si addentrano nelle crudezza di argomenti proibiti come l’incesto e il parricidio, lo stupro e l’infanticidio. Le perversioni, rivivificate dal processo osmotico dell’arte, diventano grandiosi affreschi barocchi. Eliogabalo – nelle mani di Artaud – si trasforma in un moderno Lucifero: un angelo ribelle che precipita all’inferno per pagare la sua superbia. La vittoria di Dio e la caduta nelle tenebre sprigionano, però, un’energia liberatrice che grida «né Dio, né padrone, me soltanto»32. Lucifero33, come dice letteralmente il suo nome, è un “portatore di luce”, è il “figlio del mattino”: la sua disobbedienza è emblema della sfida della conoscenza, immagine della tensione della vita umana che vuole oltrepassare i limiti consentiti. Questa duplice energia – crudele e luminosa – pervade le pagine del romanzo che provocano un autentico scompiglio fisico ed emotivo. La nar30 Ivi, p. 99. 31 A. Artaud, Lettera a Jean Paulhan (1934), cit. in P. Di Palmo, Lei delira, signor Artaud, cit., p. 58. 32 Id., Eliogabalo, cit., p. 110. 33 Emanuele Severino paragona la filosofia stessa a Lucifero: «Lucifero è una buona metafora per indicare la filosofia. […] L’orgoglio è una qualità di chi è impotente. È dal punto di vista di Dio che Lucifero pecca di orgoglio. Ma la vittoria di Dio su Lucifero è un’illusione di Dio. […] Se si interpreta il rapporto tra Dio e Lucifero con le categorie dell’ontologia occidentale, Dio è l’eterno e Lucifero è il divenire, la volontà di trasformarsi e di diventare Dio. […] E se così stanno le cose, è inevitabile che Lucifero distrugga Dio. Come appunto accade con la filosofia contemporanea, che nel proprio sottosuolo invincibile è capace di distruggere la tradizione dell’Occidente. La tradizione di Dio – se mi si passa questo modo di esprimermi – si illude di aver vinto l’orgoglio di Lucifero. In realtà Lucifero è il vincitore potente, e proprio per questo non è orgoglioso… Non è orgoglioso ma l’Errore, è la Follia» (E. Severino, La follia dell’angelo. Conversazioni intorno alla filosofia, Mimesis, Milano 2006, p. 151).

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razione suscita “pietà e terrore”; ha un effetto catartico che scuote e, contemporaneamente, libera. Eliogabalo mette in scena una crudeltà liberatrice che ha una dirompente forza est-etica: è puro Teatro della crudeltà. Sottolinea Florinda Cambria: Il testo è costruito come una sorta di romanzo storico e, nella forma apparentemente piana della narrazione, procede con un continuo alternarsi di momenti argomentativi, di approfondimenti tematici e di elencazioni di indizi, tessendo un ordito concettuale che, scavalcando di molto il piano della ricostruzione storica, non solo ribadisce le urgenze, ma anche specifica la peculiarità teoretica della prospettiva teatrale che Artaud veniva frattanto delineando negli scritti sulla Crudeltà34.

Artaud nel sottotitolo avvicina due antagonismi: anarchico e incoronato. “Anarchico” rimanda all’assenza di ordine, alla mancanza di fondamento, al rifiuto di qualsiasi istituzione; “incoronato” invece evoca la cerimonia simbolica di un potere assoluto. L’intero romanzo di Artaud è un susseguirsi di pariglie antinomiche che accompagnano il ritmo della crudeltà: Uno strano ritmo interviene nella crudeltà di Eliogabalo; questo iniziato fa ogni cosa con arte e tutto in doppio. Voglio dire tutto su due piani. Ciascuno dei suoi gesti è a doppio taglio. Ordine, Disordine / Unità, Anarchia / Poesia, Dissonanza / Ritmo, Discordanza / Grandezza, Puerilità / Generosità, Crudeltà35.

L’Eliogabalo di Artaud – fin dal sottotitolo – rivela una visione duplice e complessa che procede per contraddizioni e abbinamenti antitetici. Attraversando il ritmo ossimorico del romanzo, la crudeltà si delinea ulteriormente fino a diventare una “peste” che intacca tutte le certezze. La rassegna dei nodi concettuali – eterogenei e discordanti – intorno ai quali si costruisce l’Eliogabalo di Artaud corrisponde ai “mille piani” su cui agisce la crudeltà. Una cresta che trema al vento L’identità non è una datità predeterminata: è un prodotto, un risultato, una relazione. L’“Io” racchiude il frutto delle interazioni tra l’interno e l’esterno. 34 F. Cambria, Corpi all’opera: teatro e scrittura in Antonin Artaud, Jaca Book, Milano 2001, p. 135. 35 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 120.

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Eliogabalo è nato in un’epoca in cui tutti fornicavano con tutti; né si saprà mai dove e da chi fu realmente fecondata sua madre. Per un principe siriano, quale egli fu, la filiazione avviene attraverso le madri; – e, in fatto di madri, vi è intorno a questo figlio di cocchiere, appena nato, una pleiade di Giulie; – e ch’esse influiscano o no su un trono, tutte queste Giulie sono delle fiere puttane36.

È circondato da una “pleiade di Giulie”. Le figure femminili della famiglia, le sue madri, dominano tutta l’esistenza: Giulia Domna, Giulia Mesa, Giulia Soemia, Giulia Mamea. Il femminile è centrale nel paese che gli ha dato i natali. In Siria – questa provincia misteriosa ai confini dell’impero – la madre è il genitore primo37, il femminile genera il maschile, la donna ha gli attributi sociali del padre e trasmette il sacerdozio al figlio. Le donne perpetuano “la razza del Sole”. Un’unione conflittuale tra i sessi pervade i riti iniziatici di Emesa: avviene uno scambio tra caratteri che tradizionalmente si attribuiscono ai due sessi, una sorta di «ermafroditismo psichico»38 rituale. Il simbolo intorno a cui avvengono tutte le cerimonie religiose è il betilo39, una pietra nera «dalla forma di verga d’uomo, con sopra cesellato un sesso femminile»40. Il femminile è determinante per la vita di Eliogabalo: grazie agli intrighi delle donne diventa imperatore, grazie ai complotti delle stesse cade in rovina. «Eliogabalo è stato fatto dalle donne»: pensa attraverso la loro volontà41 e costruisce la sua identità attraverso la loro virilità. 36 Ivi, p. 7. 37 Ivi, p. 12. 38 X. Gauthier, Eliogabalo, travestimento, in Aa. Vv. Artaud, verso una rivoluzione culturale, Dedalo, Bari 1974. 39 Il belito – secondo la terminologia usata dallo storico delle religioni Mircea Eliade – è una “ierofania”, una manifestazione del sacro in un oggetto che esce dal mondo profano della realtà ordinaria: «non si insisterà mai abbastanza sul paradosso costituto da qualsiasi ierofania, anche la più elementare. Nella manifestazione del sacro, un oggetto qualsiasi diventa un’altra cosa, senza cessare di essere se stesso, in quanto continua a far parte del proprio ambiente cosmico che lo circonda. Una pietra sacra rimane una pietra; apparentemente (o più esattamente: da un punto di vista profano) nulla la distingue da tutte le altre pietre. Al contrario, per coloro ai quali una pietra si rivela sacra, questa tramuta la sua realtà immediata in realtà soprannaturale. In altre parole, per coloro che hanno un’esperienza religiosa, tutta la Natura può rivelarsi come sacralità cosmica. Il Cosmo nella sua totalità può diventare una ierofania» (M. Eliade, Le sacré et le profane (1965); trad. it. Il sacro e profano, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 15). 40 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 16. 41 Ivi, p. 13.

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Filosofia della crudeltà

Artaud evoca i tratti di queste figure femminili virili e prevaricatrici. Un posto centrale spetta alla nonna, Giulia Domna. Le fonti antiche gettano ombre sull’immagine di quest’imperatrice-filosofa moglie di Settimio Severo e madre di Caracalla e Geta42. Artaud non rovescia la denigrazione faziosa della storia ufficiale con una rivalutazione “morale” di questa affascinante figura femminile: enfatizza la spregiudicatezza dei suoi atteggiamenti che uniscono sessualità e potere. Nell’assecondare questa lettura negativa, però, ne ribalta il significato. Le perversioni di Giulia Domna non sono comportamenti innaturali che inficiano la rispettabilità di un’imperatrice, ma sprigionano un’ancestrale potenza creatrice. Giulia Domna incarna, prima ancora di Eliogabalo, la guerra tra opposti. È la custode crudele e determinata del sangue della stirpe che conduce all’incesto: Giulia Domna fa l’amore con Caracalla nel sangue di suo figlio Geta, assassinato da Caracalla. Ma Giulia Domna non ha mai fornicato che con la regalità, quella del sole prima, di cui essa è figlia; quella di Roma poi, ch’essa ricopre come un cavallo copre una giumenta43.

La “mollezza” orientale – che secondo gli storici corrompe i costumi dei romani – è, in realtà, un’energia vitale, «non è che la schiuma della forza: una cresta che trema al vento»44. Artaud dedica riflessioni ancor più crude al rapporto viscerale e incestuoso che unisce Eliogabalo a sua madre Giulia Soemia45. Anche in questo caso, i comportamenti sessuali spregiudicati cambiano di segno: hanno un legame con l’unità, acquistano una «specie di logica misteriosa non priva di crudeltà»46. 42 È nominata dalle fonti con l’appellativo di “filosofa” perché mossa da un viscerale “amore per la conoscenza”: dà vita a un importante circolo intellettuale della Roma severiana. Nell’ambiente di corte, attorno alla sovrana gravitano intellettuali come lo storico Dione Cassio e il medico Galeno, poligrafi e sofisti come Eliano e Filostrato, esponenti della cosiddetta Nuova Sofistica. Una donna colta, politicamente attiva e, proprio per questo (così lasciano intendere le fonti), immorale: Giulia Domna è, con il suo corpo e con il suo spirito, “contro natura”. L’Historia Augusta, in particolare, descrive una Giulia Domna impudica e lasciva che seduce suo figlio Caracalla (cfr. Historia Augusta, XIII, 10,1). 43 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 33. 44 Ibid. 45 Così lo descrive Lampridio: «Hic tantum Symiamirae matri deditus fuit, ut sine illius voluntate nihil in re p. faceret, cum ipsa meretricio more vivens in aula omnia turpia exerceret» (Historia Augusta, II, 1). 46 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 73.

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La crudeltà di Giulia Soemia non è irragionevole, ma nitidamente calcolata, segue una logica amorosa che prevede le conseguenze delle sue scelte: si finge adultera per confermare la discendenza del figlio da Caracalla, sceglie i suoi amanti – Gannys «il sottile» e Eutichiano «il grottesco»47 – per affiancare il figlio e bilanciarne le scelte. La sua malvagità intelligente aderisce e lavora sui fatti per orientarne lo svolgimento. Eliogabalo, insomma, è stretto in questa morsa di donne dominanti che uniscono amore e guerra, sesso e politica, maternità e dominio. Sarebbe lecito aspettarsi, come conseguenza di questa supremazia materna, un carattere totalmente eterodiretto. La personalità di Eliogabalo non sarebbe altro che il risultato della loro egemonia: nessun corpo differenziato, nessuna volontà autonoma, nessun desiderio soggettivo. C’è, però, un atto crudele compiuto da Eliogabalo che contraddice questa conclusione. Un’azione eroica e spietata che esce dall’indolenza e si caratterizza come una decisione indipendente: È senza dubbio per eroismo che Eliogabalo commette quell’atto di crudeltà insigne e che è stato considerato da tutti come empio e come abominevole, perché immotivato e perché gratuito; l’atto che gli fa uccidere di propria mano Gannys, il suo precettore, ch’egli ama ma che ostacola i suoi eccessi48.

La prima azione non eterodiretta è il parricidio. Uccide Gannys, il padre putativo e il fidato precettore. Il figlio-Eliogabalo ha il coraggio di assassinare l’eunuco che l’ha consigliato e guidato in tutte le decisioni. Qual è il significato di questo gesto spietato? Nella tradizione filosofica, l’atto emblematico del parricidio segna l’emancipazione del pensiero, la fuoriuscita dalla sudditanza filiale e il passaggio intellettuale all’età adulta. Nel Sofista di Platone i due giovani protagonisti – Teeteto e lo Straniero – per difendere il loro diritto di parola attaccano e torturano il discorso del padre Parmenide fino a giungere al parricidio. La patraloia è necessaria, pena la possibilità stessa di esistere come soggetti dotati di logos49. Eliogabalo, però, non compie fino in fondo l’atto terribile e liberatorio del parricidio. Non uccide né si oppone violentemente al discorso del suo vero tutore: la madre “veneranda e terribile”. La presenza incombente di

47 Ivi, p. 77. 48 Ivi, p. 85. 49 Per un’analisi dettagliata del dialogo platonico cfr. U. Curi, Polemos, filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

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Giulia Domna gli impedisce, infatti, di uscire pienamente dalla minorità intellettuale e di pensare con la propria testa50. Fin dal primo capitolo, Artaud ci presenta un personaggio duplice, stretto tra emancipazione e dipendenza. Da un lato, Eliogabalo è una “cosa” da manovrare, uno strumento per ottenere il potere, un medium sottomesso al principio materno che lo divora51. Dall’altro, un’intelligenza plastica che «lavora per sé, ma in una maniera che avrebbe assai stupito gli storici dell’epoca, se si fossero arrischiati a guardar le cose più da vicino»52. Attraverso l’uso spregiudicato della crudeltà “gratuita e immotivata” riesce a sfuggire, almeno temporaneamente, alla tirannia che cancella la sua personalità. Libera il proprio corpo e il proprio desiderio con un processo di differenziazione, carico di decisioni sanguinose e crudeli. Con il parricidio si sottrae alla «maschera che il dover essere ha forgiato per lui» e diventa «un campo mutante in cui le intensità e le Voci vibrano fino al parossismo, tentando di scongiurare la coercizione di un gioco per esse previsto»53. La temporanea ribellione al dominio delle madri gli evita di ridursi «a entità simulacrale [che] non evoca più nulla, [...] che perde ogni aura sacrificale e si predispone come corpo-macchina, tassello di una circolazione tesa a nullificare gli affetti»54. La sua lotta tra identità e differenza non è mai conclusa: da un lato, è sottomesso al volere delle sue madri; dall’altro, compie azioni che ne delineano l’imprescindibile singolarità. Le cattiverie delle Giulie e le brutalità di Eliogabalo complicano la definizione di identità e di libertà. Ogni identità è limitata e condizionata, scissa tra la costitutiva dipendenza dagli altri e il frustante desiderio di autonomia: il luogo principale di uno scontro con l’alterità e la differenza. Un gioco crudele di azione e passione, di movimento e passività. 50 «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro» (I. Kant, Beantwortung der Frage: Was is Aufklärung? (1784); trad. it. Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, Mimesis, Milano 2012, p. 9). 51 I riti di castrazione, a cui vengono sottoposti tutti i tutori di Eliogabalo, sottolineano ulteriormente l’atto di sottomissione al principio del materno. 52 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 87. 53 T. Villani, Una scrittura di carne e sangue, in Aa. Vv., Il sistema della crudeltà, gli affetti, le intensità, il linguaggio dei corpi, in «Millepiani», n. 11 (1997), pp. 67-69. 54 Ibid.

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La crudeltà diviene il riverbero di una ribellione faticosa e coraggiosa, di un movimento di liberazione da quella che Kant definisce «permanente minorità»: Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. […] È dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una seconda natura. È giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova55.

L’uno che eravamo Eliogabalo, giunto a Roma, inverte la polarità maschile-femminile che fonda il potere virile del Senato e dell’esercito. Artaud estremizza i riferimenti delle fonti: [Eliogabalo] caccia dal Senato gli uomini e pone le donne al loro posto. Per i Romani questa è anarchia, ma per la religione dei mestrui, che ha fondata la porpora tiria, e per Eliogabalo che l’applica, non vi è in questo che un ristabilire l’equilibrio, un ritorno ragionato alla legge, poiché è alla donna, la nata prima, la prima giunta nell’ordine cosmico che tocca fare le leggi56.

Il ciclo di contrapposizione e unione tra il Maschile e il Femminile su cui si fonda «la religione dei mestrui», si ripete e si incrina in ogni aspetto della vita di Eliogabalo: dal rapporto esistenziale con le sue madri virili al rapporto politico con il potere maschile dei senatori. Ma l’esteriorità di questa lotta bipolare riflette una lacerazione interna che avviene tra Eliogabalo e se stesso. I suoi tratti esteriori richiamano le fattezze di una donna: un efebo dalla bellezza femminea57. Anche il suo comportamento tende all’imitazione del femminile: indossa abiti da donna, vuole essere chiamato “signora” e “regina”, celebra, in veste di sposa, regolari unioni matrimoniali. 
La teatralizzazione del mito di Paride e Venere riportata da Lampridio58 e rielaborata da Artaud è un esempio del suo atteggiamento: 55 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, cit., p. 10. 56 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 111. 57 «Efebo che farà uso della propria bellezza» (Ivi, p. 71). 58 «Agebat praeterea domi fabulam Paridis ipse Veneris personam subiens, ita ut subito vestes ad pedes defluerent, nudusque una manu ad mammam altera

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Si compiaceva di far rappresentare la favola di Paride; egli stesso vi interpretava il ruolo di Venere, e lasciando improvvisamente cadere sino ai piedi le vesti, interamente nudo, una mano sul seno, l’altra sui genitali, s’inginocchiava, e, sollevato il posteriore, lo offriva ai compagni di corruzione59.

Queste storie “immorali” utilizzate dagli storici per demolire Eliogabalo non sono semplici notazioni esteriori. Riflettono piuttosto una paura profonda: Per Lampridio, questa rappresentazione al naturale e davanti a centomila persone della favola di Venere e di Paride, con lo stato febbrile ch’essa crea, coi miraggi che suscita, è un esempio d’anarchia pericolosa60.

Perché il comportamento sessuale di Eliogabalo è considerato pericoloso? La determinazione sessuale – ciò che, letteralmente, “taglia e separa” – è alla base dell’ordine della società. Non è ammessa la confusione dei ruoli: l’indeterminazione dei generi è una pericolosa minaccia di caos. La sessualità di Eliogabalo sfida lo statu quo. Ma non si tratta solo di una stravaganza che ha lo scopo di stupire la società romana. Eliogabalo ritualizza un mito religioso e filosofico: l’androgino originario. L’androgino contiene in sé elementi maschili e femminili, è sia andros (uomo) che gyne (donna): partecipa compiutamente di entrambe le sessualità. La fusione tra i due sessi dà origine a una figura perfetta che è simile alla divinità nella quale tutti gli attributi coincidono: la frammentazione delle identità separate si armonizza in una piena completezza. L’androgino è studiato dall’antropologia come mito cosmogonico in una pluralità di culture e religioni. L’androginia divina ha un valore metafisico: esprime – in termini biologici – la coincidenza dei principi cosmologici nella divinità. Il mito dell’androginia umana, invece, è paradigma dell’esperienza religiosa: rappresenta l’archetipo dell’uomo perfetto ed esprime l’aspirazione religiosa alla totalità, alla riconciliazione con l’assoluto61. Molte cerimopudendis adhibita ingenicularet posterioribus eminentibus in subactorem reiectis et oppositis» (Historia Augusta, V, 4). 59 A. Artaud, Eliogabalo, cit., pp. 107-108. 60 Ivi, p. 108. 61 Per una ricostruzione antropologica e un’analisi della permanenza del mito dell’androgino nel romanticismo tedesco cfr. M. Eliade, Traité d’histoire des religions (1948); trad. it. Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1976.

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nie rituali62 (la circoncisione iniziatica, il rito dello “scambio dei vestiti”) tendono a restaurare – all’interno della comunità – il dio androgino e l’uomo originario bisessuale. Il riferimento filosofico primario è il Simposio di Platone. Durante il convivio, infatti, il commediografo Aristofane racconta il famoso mythos sulle origini della natura umana: In antico, la nostra natura non era quella ch’è ora, ma diversa. Dapprima, infatti, eran tre i generi degli uomini, non due come sono ora, il maschile e il femminile, essendocene in più un terzo, che accomunava in sé entrambi i precedenti, e di cui ora è rimasto solo il nome, mentre esso è sparito: ed era questo, allora, l’androgino, unico e composto del maschile e del femminile così nel nome come nell’aspetto reale, mentre ora non ne esiste più che il nome, che si usa in senso infamante63.

Questa è l’aspirazione dell’imperatore siriano. Eliogabalo non vuole trasformarsi in una donna, né interpretare una donna: vuole diventare (o meglio tornare a essere) un androgino, donna e uomo insieme. «Il re pederasta e che si vuole donna – ricorda Artaud – è un sacerdote del Maschile»64: in virtù della sua identità personale e religiosa deve essere un androgino. Lo esige la sua religione: «la religione dell’UNO che si taglia in DUE per agire. Per ESSERE. La religione della separazione iniziale dell’UNO. UNO e DUE riuniti nel primo androgino»65. Eliogabalo, quindi, riunisce la dualità: attraverso la metamorfosi del suo corpo traccia un ponte che mette in comunicazione con il suo altro66. Questa riunificazione sessuale e spirituale non è pacifica. Per realizzare in se stessi il ritorno all’identità dei contrari (all’originario caos) è necessaria una lotta ostinata e faticosa: [Eliogabalo] realizza in se stesso l’identità dei contrari, ma non la realizza senza fatica, e la sua pederastia religiosa non ha altra origine che una lotta ostinata e astratta tra il Maschile e il Femminile67. 62 L’androgino è anche un simbolo alchemico. La Rebis, la “cosa doppia”, è il risultato del matrimonio alchemico che unisce il maschile e il femminile e dà origine alla pietra filosofale (cfr. E. Zolla, L’androgino alchemico, in Aa. Vv. L’Androgyne (1986); trad. it. L’androgino, ECIG, Genova 1991, pp. 173-200). 63 Platone, Simposio, trad. di G. Calogero, Laterza, Roma-Bari 1946, 189d-e. 64 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 66. 65 Ivi, p. 95. 66 Cfr. S. Sivelli, L’androgino e il simbolo, in «Itinera», n. 1 (2010), pp. 77- 78. 67 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 66.

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Per capire il significato di questo combattimento crudele e sanguinoso ritorniamo al mito narrato da Platone. Aristofane rievoca, con nostalgia, una condizione originaria irrimediabilmente perduta. Gli dei – crudeli – hanno rotto l’armonia “sferica” dell’uomo primordiale: temendo la hybris di questi esseri perfetti e compiuti, li hanno divisi in due parti, in due symbola. Ciascuna metà è destinata a desiderare eternamente di ricongiungersi con la propria parte mancante. L’uomo brama, cioè, di tornare a quell’uno originario, ma la frattura che lo ha dimidiato è irreversibile. Il mito dell’androgino narrato da Platone – seguendo l’interpretazione che ne dà Umberto Curi ne La cognizione dell’amore – non parla di una possibile riunificazione, ma di una radicale incompletezza che caratterizza la condizione umana: «ciascuno di noi è soltanto un simbolo – non un holon, un intero in sé compiuto, ma piuttosto una parte»68. Eliogabalo confligge con questo limite insuperabile. L’androgino, inteso come unità originaria dell’essere, come origine che precede il conflitto, non può essere compiutamente raggiunto se non ritualmente. L’androgino impersonato da Eliogabalo è lontano dalla perfezione atarassica del dio. Il corpo simbolico, riverbero del momento originario, si scontra con l’univocità del corpo diabolico, scisso nella determinatezza della sua struttura reale. Il crudele travaglio della metamorfosi è destinato a perpetuarsi, a travolgere e sconvolgere il corpo dall’interno. Il tentativo di superare il conflitto attingendo all’unità originaria è destinato al fallimento. Non è possibile una ricomposizione dialettica delle due polarità sessuali, c’è uno scarto ontologico insuperabile: la realtà originaria è perduta. L’androgino si rivela una figura ambivalente e oscura69 che manifesta comportamenti crudeli che riflettono la drammaticità di una scissione interna. Mircea Eliade mette in luce questa tendenza analizzando la differenza tra la figura mitica dell’androgino originario e l’“l’ermafrodito concreto”70, protagonista di tanta letteratura moderna: Negli scrittori decadentisti, l’androgino è concepito unicamente come un ermafrodita nel quale i due sessi coesistono dal punto di vista sia anatomico 68 U. Curi, La cognizione dell’amore, Feltrinelli, Milano 1997, p. 82. 69 Cfr. J. Libis, L’androgino e il notturno, in Aa. Vv., Androgino, cit. 70 «Per molto tempo gli ermafroditi furono dei criminali, o dei figli del crimine, poiché la loro disposizione anatomica, il loro stesso essere confondeva la legge che distingueva i sessi e prescriveva la loro unione» (M. Foucault, La volonté de savoir (1976); trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 38).

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che fisiologico. Si tratta non di una pienezza dovuta alla fusione dei sessi, ma di una sovrabbondanza di possibilità erotiche. Non rappresenta quindi l’apparizione di un nuovo tipo di umanità, nel quale la fusione dei sessi produrrebbe una nuova coscienza priva di polarità, ma di una pretesa perfezione sensuale, risultante dalla presenza attiva dei due sessi71.

L’androginia mitica è simbolica di una potenza non separata che ingloba i contrari, mentre l’androginia concreta è una condizione irrealizzabile che si scontra con l’insuperabilità della determinazione corporea. Marie Miguet, distinguendo tra le varie specie di androgini presenti in letteratura, sintetizza: L’essere bisessuato può essere pietra dello scandalo o modello di perfezione (che quest’ultima sia da conquistare oppure da ritrovare). Tra queste due vie c’è l’uomo addolorato o il modello equivoco; il primo può vivere nella lacerazione, ma senza rinnegare la sua bipolarità sessuale; può anche sentirsi definitivamente escluso dall’integrità primordiale; in ogni caso fa l’esperienza di una mancanza. Il secondo assume un’iniziativa deliberatamente presuntuosa: quella di congiungere ciò che dovrebbe essere disgiunto72.

L’androginia di Eliogabalo, quindi, non è peculiare – come volevano i commentatori antichi – di una “anormalità”. Il personaggio di Artaud rappresenta, al contrario, una tensione costitutiva: l’uomo aspira alla completezza, ma vive nella mancanza. L’identità sessuale è il terreno prolifico della crudeltà: la violenza (piacevole e consapevole) compiuta su se stessi è l’esteriorizzazione di un conflitto interno irresolubile. La natura “matrigna” ha isolato i sessi e la morale ha cristallizzato questa chiusura impedendo ogni riavvicinamento. Soltanto una crudeltà raddoppiata può rompere la prigione del genere e mettere in discussione l’identità sessuale culturalmente costruita. La ferocia di Eliogabalo contesta la legge naturale e la morale istituita. La riunificazione sperata – l’unità dell’androgino originario – è irraggiungibile, ma rimane il penoso e doloroso travaglio che conferma l’insuperabilità della differenza73: «la ragione è questa, che tale era la nostra 71 M. Eliade, Méphistophélés et l’Androgyne (1962), trad. it. Mefistofele e l’androgine, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, p. 91. 72 M. Miguet, Androgini, in Av. Vv., Dizionario dei miti letterari, a cura di P. Brunel, Bompiani, Milano 1996, p. 62. 73 «The double is both desired and disdained through its separation of distinct forces, a separation which Artaud wishes at time to maintain, at others to overcome. In a

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antica natura, e che noi eravamo interi: ed è dunque la tendenza e la corsa verso la totalità che ha nome amore»74. Opera al nero Se continuiamo l’analisi andando ancora più in profondità, la simbologia dell’Eliogabalo di Artaud si complica ulteriormente. Si apre un vortice di riferimenti ermetici che rimandano a una tradizione dimenticata: l’alchimia. Basta qualche esempio per rintracciare una lettura esoterica del testo. Prendiamo la cruda descrizione della castrazione dei Galli: Di quei Galli che gettarono il loro membro correndo, e perdono sangue in abbondanza sugli altari del dio pitico, le donne improvvisamente s’innamorarono. E i mariti, gli amanti di queste donne rispettano quegli amori sacri. Quelle esplosioni amorose non hanno che breve durata. Le donne abbandonano ben presto i cadaveri di quegli uomini coperti di vesti femminili, che hanno ricevuto durante la loro corsa mortale75.

Una teatralizzazione estrema della Rebis Ermafrodita, il simbolo alchemico dell’unione dei contrari. Il sangue della castrazione e l’innamoramento panico sono simbolici del desiderio di superamento della differenza, della ricerca di unità nell’indeterminazione di maschile e femminile76. Anche il colore rosso sangue – che ha una funzione centrale all’interno del romanzo – è un simbolo alchemico. È emblema del sesso femminile e del sesso maschile: il sangue mestruale è purificato attraverso il sacrificio, mentre l’uomo accede alla funzione mestruale attraverso la castrazione. Un fiume di sangue produce la figura vivente del dio solare. similar fashion, the One is both desirable and unacceptable: desirable because it overcomes the separateness of forces, but unacceptable because it extinguishes the double» (L. A. Boldt-Irons, Anarchy and Androgyny in Artaud’s “Héliogabale”, in «The Modern Language Review», vol. 92, n. 4 (1996), p. 867). 74 Platone, Simposio, cit., 193a. 75 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 30. 76 Lo stesso rituale che Artaud descrive dopo il suo viaggio in Messico: «i partigiani del Maschio naturale inalberarono il colore bianco, quelli della Femmina il colore rosso. […] E se la razza dei Tarahumara porta una benda ora bianca ora rossa non è per affermare la dualità delle due forze contrarie, è per sottolineare che all’interno della razza tarahumara il Maschio e la Femmina della Natura esistono simultaneamente, e che i Tarahumara beneficiano delle due forze unite. Portano insomma la loro filosofia sulla testa, e quella filosofia riunisce l’azione delle forze contrarie in un equilibrio quasi divinizzato» (Id., Al paese dei Tarahumara e altri scritti, cit., p. 92).

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Nei gesti rituali dell’imperatore vibra il desiderio di sopprimere la contraddizione, di riunire l’uomo e la donna, di fonderli in Uno: lo stesso obiettivo della Grande Opera di cui parlano gli alchimisti. L’odissea di Eliogabalo si inserisce all’interno dell’astrologia caldea che, sempre secondo questa antica tradizione, presiede al destino di ogni essere. Ciascuna delle quattro donne corrisponde a un pianeta e a un elemento, la madre possiede gli attributi maschili solari, il padre ha gli attributi femminili: Eliogabalo è l’ultimo stadio del processo di unificazione alchemico. Nel 1932 Artaud scrive un saggio dal titolo Teatro Alchemico dove fonde l’esperienza della crudeltà espressa dal suo teatro e l’esperienza della crudeltà affrontata dalla trasformazione alchemica: I conflitti che il cosmo in ebollizione ci presenta in forma filosoficamente alterata e impura, l’alchimia ce li propone in tutta la loro rigorosa intellettualità, poiché ci permette di ritrovare il sublime, ma attraverso un dramma, dopo una minuziosa ed esacerbata polverizzazione di ogni forma insufficientemente affinata, insufficientemente matura; poiché è nella natura stessa dell’alchimia non permettere allo spirito di prendere lo slancio se prima non ha percorso tutti i canali, tutti i sostrati della materia esistente, e se non ha ripetuto quest’operazione nei limbi incandescenti del divenire77.

Secondo l’interpretazione di Artioli – che nel suo saggio ripercorre tutte le opere di Artaud alla luce del filtro alchemico – il teatro della crudeltà artaudiano è «percosso dalla potenza dissociatrice delle immagini, lo spettatore sente la propria forma, sin qui principio di coesione, polverizzarsi sotto la spinta di una forza assoluta dove si ritrovano al vivo tutte le potenze della natura»78. Con l’Anarchico incoronato, la relazione di Artaud con i temi dell’alchimia diventa osmotica. La crudeltà di cui è protagonista Eliogabalo è un processo che scioglie le pietrificazioni che impediscono il fluire della vita: è necessaria «una fase “anarchica”, un movimento di “putrefazione”, che cancelli il “fisso” e liberi il “volatile”»79. Non c’è liberazione senza «una parabola invertita [che] ha accettato la degradazione, il “basso”, il soffio della femminilità impura»80. Alchimia, quindi, come metafora della crudeltà. 77 Id., Il Teatro alchimistico, in Id., Il Teatro e il suo doppio, cit., p. 168. 78 U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso: saggio su Antonin Artaud, Feltrinelli, Milano 1978, p. 209. 79 Ivi, p. 86. 80 Ivi, p. 140.

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Filosofia della crudeltà

Le ricerche intraprese da Carl Gustav Jung agli inizi del Novecento forniscono una ulteriore spiegazione di questa curiosa associazione. L’alchimia – dice Jung – non è semplicemente il precedente pseudoscientifico della chimica moderna, ma un complesso movimento di natura religiosa. L’alchimia è una scienza immaginaria che vuole modificare la materia. Il processo alchemico corrisponde al percorso di purificazione necessario per raggiungere l’opus magnum. L’opera alchemica, infatti, prende avvio dalla più profonda oscurità: il primo stadio del processo è la nigredo, lo stato di dissoluzione che precede la sintesi. La “materia al nero”81. Durante il processo – che avviene al ritmo del solve e coagula, della distruzione e della ricomposizione – la materia subisce un vero e proprio martirio. Ma cambiare alchemicamente il mondo significa cambiare se stessi. Il martirio della materia rappresenta il supplizio che avviene nella psiche: la trasformazione esteriore è il corrispettivo di una trasformazione interiore. Per questo Jung ha accostato simbolicamente l’alchimia82 alla psicologia. Con il recupero di questa antica e dimenticata tradizione, l’eretico allievo di Freud ha rimesso in discussione tutta la storia filosofica e religiosa dell’Occidente. L’alchimia – secondo Jung – è l’erede della speculazione gnostica dei primi secoli dell’era cristiana: il lavoro di redenzione della materia degli alchimisti è legato alla riabilitazione simbolica del “male”, al quale gli gnostici danno realtà ontologica. L’alchimia riproduce il rapporto inquietante tra opposti che rappresentano la realtà processuale della Totalità: luce / tenebra, bene / male. E la ricomposizione a cui mira è simbolica della forza che toglie dall’isolamento della determinazione i singoli elementi. Jung crea un parallelismo tra la sua teorizzazione psicologica dell’Ombra e il processo alchemico: Così un alchimista (e si tratta di un chierico) prega: “Horridas nostrae mentis purga tenebras, accede lumen sensibus!” In queste parole si esprime pro81 Il secondo gradino è l’albedo, indicata dal colore bianco. Il terzo è la citrinitas, contrassegnata dal giallo. La fase finale è la rubedo: il colore che le corrisponde è il rosso. Il “passaggio al rosso” rappresenta il momento delle nozze chimiche, il sorgere dell’astro solare, l’apparizione della pietra filosofale, dell’araba fenice. 82 Cfr. C. G. Jung, Psychologie und Alchemie (1944); trad. it. Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

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babilmente l’esperienza della nigredo, della prima fase dell’opera, che veniva sentita come melancholia, e che corrisponde psicologicamente all’incontro con l’Ombra83.

L’Ombra – secondo Jung – è la parte oscura della nostra coscienza che non è fuori di noi né come ipostasi metafisica né come persona fisica. L’Ombra è l’altro in noi: un lato oscuro e minaccioso che ci completa. La presa di consapevolezza di questa mutua correlazione di positivo e negativo – paragonabile all’inizio del processo alchemico – ci preserva dall’unilateralità, dalla fissazione in uno stadio determinato. La psiche umana è un perpetuo moto oscillatorio tra due parti opposte e complementari. L’Ombra junghiana pone il problema della riconciliazione con l’esistenza corporea. Il confronto con la nostra parte oscura significa l’incontro con la propria corporeità materiale: Mediante l’assimilazione dell’ombra l’uomo diventa per così dire corporeo: la sfera animale dei suoi istinti, nonché la psiche primitiva e arcaica si trovano esposte anch’esse al fascio luminoso della coscienza84.

Il “negativo”, quindi, sorge dalla negazione di questa ineliminabile relazione che ci costituisce: l’Ombra ha una innegabile positività ontologica che deve essere affrontata. Negare l’Ombra – isolarla, reprimerla, rimuoverla – significa mancare il confronto con l’Altro, in tutta la sua negativa effettività: Sarebbe molto più produttivo compiere un serio tentativo di prendere coscienza dell’ombra della nostra civiltà e dei suoi terribili misfatti. Se potessimo vedere la nostra ombra (cioè il lato oscuro della nostra natura), riusciremmo a immunizzarci da qualsiasi infezione e penetrazione sia morale che mentale. Allo stato attuale delle cose, noi ci rendiamo invece disponibili per ogni infezione poiché ci comportiamo praticamene nello stesso modo in cui essi agiscono. Solo che a nostro ulteriore svantaggio c’è il fatto di non vedere né di voler capire ciò che noi stessi veniamo facendo con le nostre mani, mascherandoci sotto il manto delle buone maniere. […] La triste verità è che la vita dell’uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure esser certi che l’uno prevarrà sull’altro, che il bene sconfiggerà il male, 83 Ivi, p. 40. 84 Id., Praxis der Psychotherapie (1958), trad. it. Pratica della psicoterapia, in Opere, vol. 16 II, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 246.

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Filosofia della crudeltà

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o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: se così non fosse finirebbe la vita85.

Ritorniamo al confronto tra l’Ombra è la nigredo alchemica: gli alchimisti avevano scoperto l’esistenza di un’Ombra che si contrappone e compensa la figura positiva della coscienza. L’Ombra non è semplice privatio lucis, ma è una realtà concreta, una matrice che ha una densità materiale. Il paradigma positivo proposto dalla pratica alchemica è la trasformazione vitale del tutto. Il negativo è la materia nera o – in altri termini – l’isolamento, la riflessività astratta, la mancanza di relazione. Il processo di individuazione junghiano è simile a un processo alchemico di trasformazione che introietta l’Ombra: soltanto così l’individuo può “diventare ciò che è”. Il razionalismo dell’uomo moderno, invece, «ha distrutto le sue capacità di rispondere ai simboli ed alle idee soprannaturali», è «alla mercé del mondo sotterraneo della psiche»86. La riflessione junghiana illumina la nostra indagine: la crudeltà è l’opera al nero, la crudeltà è l’Ombra. Il viaggio alchemico di Eliogabalo è un’esplorazione rovinosa della nostra tenebra. Per questo possiamo accostarlo alle inquietudini sulla crudeltà: per “fare l’uomo” bisogna scavare in profondità, mostrare le contraddizioni87, confrontarsi con l’Ombra, dissolvere le identità binarie. La crudele ossessione alchemica non vuole – aggiunge Artioli – «separare le tenebre dalla luce con un gesto che finirebbe col privare l’elemento radiante della sua forza d’espansione, ma riassimilare la tenebra, dove giace un’energia sanguinosa ma fecondatrice di vita»88. La crudeltà come cifra di un cammino che conduce alla presa di coscienza del proprio corpo e delle proprie lacerazioni. Pensare attraverso il corpo – e vivere con brutale lucidità l’impulso irrazionale delle forze ctonie che ci abitano – vuol dire aderire all’immanenza e al divenire: 85 C. G. Jung, Man and his symbols (1964); trad. it. L’uomo e i suoi simboli, Casini, Firenze-Roma 1967, p. 84. Per un’analisi approfondita cfr. P. A. Rovatti, Riflessioni sull’ombra, in «Aut Aut», n. 229-230 (1989). 86 Id., L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 93. 87 La figura dell’alchimista è anche un simbolo dell’artista-creatore che si esprime modificando il mondo tramite il gesto dell’opera. Significativi, infatti, sono i legami che uniscono l’alchimia all’esperienza surrealiste. Breton – nel Secondo Manifesto del Surrealismo – riporta addirittura le parole del leggendario alchimista medioevale Nicolas Flamer che descrivono l’illustrazione del trattato a lui falsamente attribuito Le livre des figures hiéroglyphiques. 88 U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 141.

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Il Male è in tutte le cose, e io, uomo, non posso più sentirmi puro. Vi è in me qualcosa d’orrendo che sale e non proviene da me, ma dalle tenebre che sono in me, là dove l’anima dell’uomo non sa dove l’Io incomincia e finisce, e quel che gli ha permesso d’incominciare così come lui si vede89.

Far danzare l’anatomia Dalla contrapposizione tra la storia e il romanzo emerge un’altra coppia antitetica: Oriente e Occidente. Artaud ricostruisce – con febbrile immaginazione – una Siria mistica ed esoterica: parte dalle fonti storiche con il solo fine di eccederle. L’Oriente geografico descritto in queste pagine è “concettualizzato” a partire dalla contrapposizione antinomica con la tradizione occidentale. Artaud ricostruisce la genealogia del binomio civiltà/barbarie che – come tutte le coppie “esclusive” – ha un’origine culturale e storica. Il dualismo Oriente/Occidente non è assoluto. La definizione degli altri come “barbari” serve a rafforzare l’identità: «i civilizzati – dice Artaud – siamo noi stessi, e tutto il resto, ciò che dà la misura della nostra universale ignoranza, s’identifica con le barbarie»90. L’itinerario di Eliogabalo è volto alla ricerca di un universo perduto: l’Oriente è il mondo prima della scissione, prima della tradizione umanistica e illuministica che affligge l’Europa. L’origine dell’Occidente, però, non è un “dato” o un “evento” individuabile cronologicamente: la nascita dell’Europa parte da un inabissamento e da un oblio. Ed è nell’«instabilità tempestosa dei cieli»91 del paganesimo che va ricercata la dimenticanza che ha dato origine all’Europa. Proprio il Cattolicesimo, dice Artaud, è responsabile di una rimozione: ha letteralmente chiuso la porta alle religioni antiche in cui la vita dell’uomo conservava una dimensione altra, transumana, aperta al cosmo92. Artaud istituisce una contrapposizione tra il modo di pensare “non dualistico” delle antiche religioni e la forma mentis legata alla “modalità” del mondo occidentale: 89 A. Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, cit., p. 145. 90 Id., Eliogabalo, cit., p. 10. 91 Ivi, p. 51. 92 Nelle antiche religioni – dice Mircea Eliade – «è evidente che la sua vita ha una dimensione in più: non è soltanto umana, è anche “cosmica” per il fatto di avere una struttura transumana. Si potrebbe chiamarla un’esistenza aperta, non essendo particolarmente limitata al modo d’essere dell’uomo» (M. Eliade, Il sacro e profano, cit., p. 105).

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Filosofia della crudeltà

[Pensiamo] soltanto in base a delle modalità, [abbiamo] inventato dei sistemi psicologici unicamente basati su ciò che lo spirito può cogliere di percettibile, d’immediatamente percettibile e di concreto [e abbiamo] rimorso di risalire sino alle percezioni93.

La logica pagana, invece, è basata su un’intimità profonda con le forze cosmiche: il divino è immanente, non è separato dalla natura né dall’uomo. L’Occidente ha dimenticato questo contatto: Ciò che differenzia i pagani da noi, è che all’origine di tutte le loro credenze vi è un terribile sforzo per non pensare in quanto uomini, per mantenere il contatto con l’intera creazione, cioè con la divinità. […] Non hanno separato il cielo dall’uomo, l’uomo dalla creazione intera, sin dalla genesi degli elementi. E si può dire anche che, all’origine, esse hanno visto chiaro sulla creazione94.

Nelle religioni antiche c’è un rapporto totale – un’adesione completa, addirittura “amorosa” – con la guerra dei principi che è all’origine della creazione. Mentre la tradizione occidentale – mettendo in atto una scissione del corpo in organi – impedisce questo rapporto osmotico tra uomo e cosmo: Noi abbiamo disimparato ad amare, sotto l’azione di una specie di legge mortale che proviene dal peso stesso e dalla ricchezza della creazione. Siamo immersi nella creazione sino al collo, lo siamo con tutti i nostri organi: i solidi e i sottili. Ed è duro risalire a Dio per la via graduale degli organi, quando questi organi ci fissano nel mondo in cui siamo e tendono a farci credere alla sua esclusiva realtà95.

I culti siriaci «in cui il maschio e la femmina contemporaneamente si divorano, si mescolano, e separano le loro facoltà»96 celebrano e ritualizzano l’origine che l’occidente ha dimenticato. I riti segreti di Emesa avvengono nelle camere sotterranee dei templi. Ma i templi della Siria di Eliogabalo – dice Artaud – non sono semplici luoghi di culto, sono autentici teatri di verità, luoghi «risonatori di meraviglie reali, di magia esteriorizzata»97: 93 94 95 96 97

A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 166. Ivi, pp. 53-55. Ivi, pp. 54-55. Ivi, p. 67. Ivi, p. 22.

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Questo lato teatrale, espansivo della religione del sole, questo formicolare fisico, questa germinazione, questo pullulare erettile di forme, sono come un segno delle aderenze che la religione solare conserva con i fluidi del suolo98.

Gesti teatrali e grida ostentate. I romani (gli “occidentali”) non capiscono il senso dei riti sacri; si limitano a considerarli aberranti e barbari99: Si può disprezzare a distanza la sanguinosa aspersione dei Tauroboli, alla quale, su di una sorta di linea mistica, il cui tragitto non è mai stato sorpassato, e che va dagli altipiani dell’Iran alla cinta chiusa di Roma, si abbandonano gli adepti del culto di Mitra; ci si può turare il naso d’orrore di fronte all’emanazione mischiata di sangue, di sperma, di sudore, di mestrui, congiunta a quell’odore intimo di carne corrosa e di sesso sporco che sale dai sacrifici umani; si può gridare di disgusto di fronte al prurito sessuale delle donne, che la vista di un membro strappato di fresco getta in amore; si può abominare la follia di un popolo in trance che dall’alto delle case nelle quali i Galli hanno gettato i loro membri getta loro sulle spalle vesti femminili invocando i propri dèi; ma non si potrà pretendere che tutti questi riti non contengano una somma di spiritualità violenta che sorpassa i loro eccessi sanguinosi100.

Il comprensibile disgusto per questa crudele e sanguinosa ritualità non elimina il suo significato spirituale101 che risponde a «un’idea della purificazione»102. C’è qualcosa che oltrepassa la mera esposizione crudele, una dimensione trascendente che scorre e vive «nel sangue degli individui»103. Le crudeltà rituale è una necessità che non riusciamo più a concepire. Il rito non è un’idea esteriore, ma una realtà, un’azione che modifica il mondo e se stessi. Anche l’identità di Eliogabalo ne risulta modificata, 98 Ivi, p. 162. 99 «Giudicando una società “selvaggia” non bisogna dimenticare che anche le azioni più barbare, i comportamenti più aberranti hanno modelli transumani, divini. È un problema assolutamente diverso […] sapere perché, in seguito a quali degradazioni e incomprensioni, alcuni comportamenti religiosi si deteriorano, diventano aberranti. […] L’uomo religioso voleva e credeva di imitare i suoi dei anche quando si lasciava trascinare a commettere azioni che sfioravano la follia, la turpitudine, il crimine» (M. Eliade, Il sacro e profano, cit., pp. 68-69). 100 A. Artaud, Eliogabalo, cit., pp. 48-49. 101 Ne Il teatro e la peste Artaud dice: «Ed è per questo che tutti i grandi Miti sono neri, e che fuori da una atmosfera di strage, di torture e di sangue versato non si possono immaginare le splendide Favole che raccontano alle folle la prima divisione sessuale e il primo massacro di essenze che appaiono nella creazione» (Id., Il Teatro e la peste, cit., p. 149). 102 Id., Eliogabalo, cit., p. 38. 103 Ivi, p. 134.

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anch’essa è percorsa dal «magnetismo dei contrari»104, da «questa specie di dissociazione dei principi»105. La guerra dei principi avviene nelle «cavità doppie» del corpo del sacerdote della religione del Maschile e del Femminile, «immagine di tutte le contraddizioni umane, e delle contraddizioni nel principio»106. C’è un’identificazione completa tra dio e uomo: Eliogabalo assorbe il suo dio; lo mangia come il cristiano mangia il proprio; e ne separa nel proprio organismo i princìpi; mostra questa lotta di princìpi nelle cavità doppie della propria carne107.

Nell’identificazione rituale di Eliogabalo con il suo Dio il nome ha un ruolo fondamentale: Eliogabalo ha avuto presto il senso dell’unità, che è alla base di tutti i miti e di tutti i nomi; e la sua decisione di chiamarsi Elagabalus, e l’accanimento ch’egli pose a far dimenticare la sua famiglia e il suo nome, e a identificarsi col dio che li copre, è una prima prova del suo monoteismo magico, che non è solo verbo ma azione108.

In questo caso il nome proprio non qualifica il soggetto soltanto nell’ordine del simbolico e del linguaggio. Il nome – spiega Artaud – «non è cosa che si pronuncia di testa, è cosa che si forma nei polmoni e risale nella testa»109. Le parole pronunciate nei polmoni sono connesse con il pneuma, con il soffio vitale che anima il corpo. Soltanto un progressivo allontanamento e fraintendimento ha portato a considerare i nomi come entità separate dagli oggetti e dai corpi. In origine il nome scaturisce da una «misteriosa fusibilità»; identifica la «contrazione di due forme, fatte, sembra, per divorarsi l’una l’altra»110. Le parole, quindi, hanno un legame con la terra e con la vita: Eliogabalo, proprio «per restare fedele a un nome», «dovette sacrificar la vita»111.

104 105 106 107 108 109 110 111

Ivi, p. 95. Ivi, p. 67. Ibid. Ivi, p. 96. Ivi, p. 43. Ivi, p. 88. Ivi, p. 53. Ivi, p. 139.

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Il suo nome112, infatti, racchiude la coscienza e l’orgoglio di un re: l’etimologia si può scomporre in mille derivazioni, contiene la potenza di tutte le divinità e di tutte le forme che queste hanno assunto. Eliogabalo non è un semplice sacerdote, letteralmente “colui che offre a dio le cose sacre”, un mediatore che interpreta i voleri del dio. Eliogabalo è il dio. I gesti, le azioni e le parole di Eliogabalo non sono le fantasie di un idolatra: hanno il potere creatrice e trasformatrice della magia113, la forza primigenia che plasma la creazione, l’energia immanente a tutte le multiformità della natura114. Per Artaud, quindi, il corpo di Eliogabalo non è un semplice “organismo”, un corpo organizzato, diviso in organi. Sfugge alla “tirannia del giudizio” di cui parla Deleuze. La logica dell’occidente – secondo il filosofo francese – è costituita da un vero e proprio “tribunale del giudizio” al quale solo pochi pensatori115 sono stati in grado di opporsi: Il giudizio non è apparso su un suolo che ne avrebbe favorito lo sviluppo; ci è voluta rottura, biforcazione. È stato necessario che il debito venisse contratto 112 Per la lunga etimologia inventata da Artaud cfr. Ivi, pp. 87-93. 113 «Una materialità di fasti, di sonorità e di gesti effettivi o di segni lo accompagna senza sosta, mescolando, a diversi livelli, il concreto e l’astratto e in cui circola sempre l’energia di una forza creatrice e trasformatrice» (M. Borie, Antonin Artaud. Le theâtre et le retour aux sources (1989); trad. it. Antonin Artaud: il teatro e il ritorno alle origini: un approccio antropologico, Nuova Alfa, Bologna 1994, p. 138). 114 «Dans le texte biblique, EL désigne une nuance, une qualité très particulière de dieu, c’est dieu comme force, comme énergie animant la création, immanent aux formes multiples de l’être ; cette circulation de l’un dans le multiple, le multiple unifié par l’énergie divine perpétuellement mobile, provoque la mise au pluriel de nom EL, ce qui donne ELOHIM, le nom de dieu comme force explosant en forces plurielles» (R. Dadoun, Le nom d’Héliogabale dans le texte d’Artaud, in «Littérature», n. 3 (1971), p. 67). 115 Secondo Deleuze l’inventore della vera critica del giudizio è Spinoza, che rompe con la tradizione ebraico-cristiana. I discepoli ideali di Spinoza sono Nietzsche, Lawrence, Kafka e Artaud. Quattro figure emblematiche che hanno subito sulla loro pelle la violenza del giudizio. Nietzsche, in particolare, parte dalla coscienza dell’uomo cristiano che ha contratto dalla nascita un debito impagabile verso la divinità: «l’uomo non si appella al giudizio; è giudicabile e giudica solo in quanto la sua esistenza è sottoposta a un debito infinito. L’infinità del debito e l’immortalità dell’esistenza rimandano l’una all’altra per costruire la dottrina del giudizio e la sua tirannia» (G. Deleuze, Critique et clinique (1993); trad. it. Critica e clinica, Cortina, Milano 1996, p. 169).

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con degli dei. È stato necessario che il debito non fosse più in rapporto a forze di cui eravamo depositari, ma in rapporto a divinità che si considera ci diano tali forze. La dottrina del giudizio prevede che l’esistenza sia suddivisa in lotti e distribuita da Dio agli uomini. Gli affetti distribuiti in lotti sono rapportati così a forme superiori116.

Il giudizio, dice Deleuze, si esercita attraverso gli organi. È necessario, quindi, liberarsi degli organi, anche a costo della distruzione: «farsi un corpo senza organi, trovare un corpo senza organi è la maniera di sfuggire al giudizio»117. Il CsO, il “corpo senza organi”: la formula della sovversione del corpo, il materialismo assoluto e senza sconti. Un corpo pieno, privo di vuoti e, quindi, sottratto al simbolico, sottratto al giudizio di dio che organizza i corpi rendendoli organismi, dei corpi-ad-organi in cui la singolarità è sussunta in un ordine generale e trasformata in una semplice e pacificata particolarità. Nel dolore – nell’accettazione crudele della sofferenza – il corpo è uno, è immanente a sé, è pieno. La crudele “danza alla rovescia” inaugurata dagli scritti di Artaud è l’invenzione di un corpo nuovo: La realtà non è ancora costruita perché i veri organi del corpo umano non sono ancora stati combinati e sistemati. / Il teatro della crudeltà è stato creato per portare a termine / quest’opera / e per iniziare con una nuova danza del / corpo dell’uomo un ribaltamento di questo mondo di microbi / che non è un niente coagulato. / Il teatro della crudeltà vuol far danzare le palpebre / coppia a coppia con gomiti, rotule, femori, / alluci e che lo si veda118.

Su di un CsO non può esercitarsi la violenza del giudizio. Al contrario, la vitalità non-organica riesce a entrare in contatto e a impadronirsi di forze impercettibili: La vitalità non organica è il rapporto fra il corpo e delle forze o potenze impercettibili che se ne impadroniscono o di cui esso s’impadronisce, come la luna s’impadronisce del corpo di una donna: Eliogabalo l’anarchico continuerà a essere, nell’opera di Artaud, la dimostrazione di questo scontro delle forze e delle potenze, come altrettanti divenire minerali, vegetali, animali119.

Il corpo di Eliogabalo sfugge alla tirannia del giudizio; è il veicolo di un’energia fluida, è pervaso da ritmi, canti, odori e idee molteplici. Il no116 Ivi, p. 168. 117 Ivi, p. 171. 118 A. Artaud, CsO: il corpo senz’organi, cit., p. 79. 119 G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 171.

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made e anarchico scorrere della sua vita trova la propria giustificazione nella fedeltà a se stesso, senza il bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio. Il flusso vitale che percorre i riti di Emesa e che si incarna in Eliogabalo costituisce il sistema della crudeltà che si contrappone alla prigione repressiva del giudizio: Il sistema della crudeltà enuncia i rapporti finiti del corpo e le forze che lo investono, mentre la dottrina del debito infinito determina i rapporti dell’anima immortale con dei giudizi. È il sistema della crudeltà che dappertutto si oppone alla dottrina del giudizio120.

Questo è lo scopo che trascende la crudeltà dei templi di Emesa. Il teatro della vita, in quanto è reale, «è cosa che merita il sangue, che giustifica che si versi del sangue»121. La lezione della crudeltà deve superare il disgusto iniziale. Dietro queste azioni crudeli si cela una rivoluzione che scardina i presupposti del pensiero occidentale. Un tentativo coraggioso e sublime che – come ogni tentativo radicalmente rivoluzionario – appare incomprensibile e inattuale: Il fatto che egli non vi sia riuscito nulla toglie alla sotterranea perfezione, al sublime del suo tentativo. Ciò dimostra semplicemente ch’esso veniva troppo tardi, o troppo presto, e in ogni caso non nelle forme opportune122.

La morte di Eliogabalo è l’ultimo rito di questo drama. La riscrittura che ne fa Artaud diventa un epocale affresco pestilenziale, tanto degradante quanto catartico: Il Tevere è troppo lontano. I soldati troppo vicini. Eliogabalo, folle di paura, si getta a un tratto nelle latrine, si tuffa fra gli escrementi. È la fine. La truppa, che lo ha visto lo raggiunge; e già i suoi stessi pretoriani lo afferrano per i capelli. È una scena da macello, uno scempio ripugnante, un antico quadro di mattatoio. Gli escrementi si mescolano al sangue, scivolano a un tempo col sangue sulle spade che frugano nelle carni di Eliogabalo e di sua madre123.

Artaud ristabilisce il nesso tra la vita e la morte di Eliogabalo, ma ne dà una lettura di segno opposto rispetto a quella tradizionale. Il brutale assassinio, dicono gli storici ufficiali, è una meritata punizione. Non si può sfuggire alla cristallina consequenzialità sulla quale si fonda 120 Ivi, p. 168. 121 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 109. 122 Ivi, p. 146. 123 Ivi, p. 129.

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l’idea stessa della sanzione: al “crimine” deve corrispondere una “pena” adeguata. Per Artaud, invece, la morte di Eliogabalo non è una condanna, ma il coronamento della sua vita. È una morte cercata e desiderata da un’esistenza che ha messo in gioco se stessa. Questa fine (terribile, ma senza terrore) è la posta in gioco di ogni adesione autentica alla guerra dei principi. La crudeltà di cui parla Artaud è una forma di vita acrobatica, è una postura «estrema e paradossale»124, un modo per rendere ogni attimo una questione di vita o di morte, per soggiornare in quel “dominio oscuro” dove l’essere, eccedendosi nella dismisura della morte, ritrova il tutto-pieno della vita125. Il sistema della crudeltà non è altro, in fin dei conti, che il mondo della molteplicità triturata e infiammata della vita che soltanto un’arte “senza giudizio” può svelare: In ogni poesia vi è una contraddizione essenziale. La poesia è molteplicità triturata e che restituisce fiamme. E la poesia, che riporta l’ordine, risuscita dapprima il disordine, il disordine dagli aspetti infiammati; essa fa scontrare tra loro degli aspetti che riconduce a un unico punto: fuoco, gesto, sangue, grido126.

La cattiva novella Eliogabalo «riesce a trasformare l’oscenità in abitudine» esibendo «all’aperto, ostinatamente, come un ossesso e un maniaco, ciò che d’abitudine si tien nascosto»127. C’è, quindi, un’urgenza esibizionistico-comunicativa: la comunicazione crudele diventa esposizione (ossessiva e ostentata) di se stessi. Una necessità febbricitante che si brucia nell’attimo, che si glorifica nell’immediato, nel gesto vissuto e consumato allo scoperto. Nessuna censura: l’oscenità è “di cattivo gusto” perché i desideri e le passioni più turpi sono esaltati sulla scena. La profanazione dei confini tra il pubblico e il privato, tra il lecito e l’illecito è una conquista violenta 124 Cfr. F. Cambria, Corpi all’opera, cit., p. 142. 125 U. Artioli, F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso, cit., p. 65. 126 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 98. 127 Continua Artaud: «Nei festini, racconta ancora Lampridio, amava porsi di preferenza accanto a uomini abituati a prostituirsi, si compiaceva delle loro palpazioni, né da alcuno riceveva più volentieri la coppa che dalle mani loro, dopo che essi vi avevano bevuto» (Ivi, p. 117).

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contro gli altri e contro se stessi. E più intensa è la carica esplosa, più si possono rompere gli strati di protezione dell’ordine delle proibizioni. Il romanzo “osceno” di Artaud e i comportamenti del suo protagonista richiamano alcune pagine incendiarie de La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade. Sade – inserendosi in un filone già in voga nella Francia del 1795 – compendia ateismo e anticlericalismo nella parodia di un trattato pedagogico: l’educazione sentimentale e sessuale di Eugénie de Mistival. Il dialogo tra la giovane Eugénie e il libertino Dolmancé si svolge nel “delizioso boudoir” della casa di campagna di Madame di Saint-Ange: uno spazio separato e privato, un palcoscenico dietro le quinte della società. Nel terzo dialogo, Dolmancé elogia l’immaginazione senza confini: ognuno può diventare tutto ciò che riesce a immaginare, può raggiunge tutti gli eccessi che riesce a desiderare. Proprio qui compare il nome dell’imperatore Eliogabalo: Non ci fermeremo ad analizzare la crudeltà nei piaceri lubrichi degli uomini; voi all’incirca vedete, Eugénie, i diversi eccessi cui può condurre, e la vostra accesa immaginazione deve farvi facilmente capire che, in uno spirito fermo e stoico, essi non possono avere confini. Nerone, Tiberio, Eliogabalo immolavano bambini per avere un’erezione. […] La nostra costituzione, i nostri organi, il corso degli umori, l’energia degli spiriti animali, ecco le cause fisiche che fanno, nella medesima ora, dei Tito o dei Nerone, delle Messalina o delle Chantal […]128.

Secondo questa logica, il significato ordinario di crudeltà è torturato e capovolto. La crudeltà è un comportamento “naturale” che soltanto la civiltà definisce “vizio”: In base alla mia esperienza e ai miei studi, [...] la crudeltà, ben lontana dall’essere un vizio, è il primo sentimento che imprime in noi la natura. Il bambino rompe il suo giocattolo, morde la mammella della nutrice, strangola un uccellino, molto prima di aver raggiunto l’età della ragione. La crudeltà è impressa negli animali, nei quali, come credo di avervi già detto, le leggi della natura si manifestano ben più energicamente che in noi; la crudeltà è presso i selvaggi ben più vicina alla natura che presso l’uomo civilizzato: sarà dunque assurdo sostenere che essa è conseguenza della depravazione129.

128 D.-A.-F. de Sade, La philosophie dans le boudoir ou Les instituteurs immoraux

(1795); trad. it. La filosofia nel boudoir, a cura di V. Finzi Ghisi, Dedalo, Bari 1982, p. 105. 129 Ivi, p. 104.

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La civiltà corrompe la crudeltà e non viceversa. L’educazione che imbriglia il comportamento non è “naturale” e «nuoce ai suoi effetti più sacri quanto la coltura nuoce agli alberi»130. Il nostro agire – sostiene Dolmancé – deve accordarsi con i desideri che imprime in noi la natura, con le pulsioni che nascono dal nostro corpo. La logica “civile” della colpa-punizione è la vera depravazione: La crudeltà non è altro che l’energia dell’uomo che la civilizzazione non ha ancora corrotto: essa è dunque una virtù e non un vizio. Abrogate le vostre leggi, le vostre punizioni, i vostri costumi, e la crudeltà non avrà più effetti pericolosi, poiché la sua azione non si esplicherà mai senza che si possa nello stesso tempo respingerla per le stesse vie; è con la civilizzazione che essa diviene pericolosa, perché chi ne è leso è quasi sempre privo o della forza o dei mezzi adatti a respingere l’offesa [...]131.

La crudeltà – se non è rimossa e negata – non è pericolosa. Anzi, può diventare una risorsa da utilizzare con intelligenza e consapevolezza per raggiungere il piacere. L’anarchia ragionata degli istinti – continua Dolmancé – è lo stato più vicino all’umanità liberata: Noi distinguiamo in generale due specie di crudeltà: quella che nasce dalla stupidità, che, mai ragionata, mai analizzata, assimila l’individuo nato così alla bestia feroce: questa crudeltà non dà alcun piacere perché chi vi è incline non è atto a nessuna ricerca; le brutalità di un tale essere sono raramente pericolose: è sempre facile mettersene al riparo; l’altra specie di crudeltà, frutto dell’estrema sensibilità degli organi, è propria degli esseri particolarmente delicati, e gli eccessi cui porta non sono che raffinatezze della loro delicatezza; è appunto questa delicatezza, troppo facilmente emozionabile per la sua estrema acutezza, che, per scuotersi, mette in atto tutte le risorse della crudeltà132.

In queste pagine, la conoscenza è spietata e disincantata concretezza: scende sul piano della materia, entra nei corpi, supera le incrostazioni della morale. Si ritorna alla pienezza delle pulsioni originarie. Si tratta di una vera e propria rivolta etico-conoscitiva: l’uomo «non deve più inchinarsi ai piedi di un essere immaginario né a quelli di un vile impostore; le sue uniche divinità debbono essere ora il coraggio e la libertà»133. 130 131 132 133

Ibid.

Ivi, p. 105. Ivi, p. 106.

D.-A.-F. De Sade, Français, encore un effort pour être républicains (1795); trad. it. Francesi, ancora uno sforzo se volete essere veri repubblicani, in Id., Opere

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Avvicinandosi alla necessità che lega l’universo, l’uomo mette in discussione tutti i tabù; l’anomalia contamina gli astratti pudori della conoscenza134 e la riflessione erompe nelle zone proibite. La crudeltà filtrata dalla scrittura di Artaud e di Sade – dice Carlo Pasi – è il sintomo di un questa presa di coscienza: Il problema della conoscenza è agitato a livelli istintuali. Nasce dal fondo investe la vita e il disotto della vita. All’inizio è la volontà sadica di penetrazione che acuisce la curiosità. L’impulso di aggressione è spostato sull’oggetto. Conoscere è dalla parte del male. Una forma di violenza ai valori conclamati. Una rivolta contro la virtù del già noto. Si scuote con rabbia ciò che è stabilito nel tempo135.

Il conte di Dolmancé, infatti, ci pone una domanda ineluttabile: perché no? In altri termini: perché il mio diritto al godimento deve essere negato? L’imperativo categorico di Sade – la cieca volontà di soddisfare il proprio desiderio – ha i caratteri dell’inderogabilità136. Questa “filosofia dell’osceno” è orientata a rovesciare il senso comune con il gusto del paradosso. Una logica – ineccepibile e inaccettabile – che conduce all’assurdo per illuminare le zone oscure della riflessione. La messa in discussione del confine tra la crudeltà e la sua punizione accede a un territorio di tutti e di nessuno, dove è sepolta «la verità di quello scatenamento che l’uomo è nella sua essenza, ma che è obbligato a frenare e a tacere»137.

scelte, a cura di G.P. Brega, Feltrinelli, Milano 1962, p. 160. 134 «Il pensiero di Sade si tende contro la paura. Strappando alla vita i suoi fantasmi ne smaschera l’orrore. E dà forma all’ignoto. Nel conflitto con i mostri si affila la lama della ragione. […] Nel basso il pensiero si involve alle spire sessuali. Contamina i suoi astratti pudori. L’eros erompe dalle zone immonde, proibite alla riflessione» (C. Pasi, Sade Artaud, Bulzoni, Roma 1979, p. 34). 135 Ivi, p. 69. 136 La Legge morale di Sade – secondo la famosa formulazione di Lacan – suona così: «chiunque può dirmi che ho il diritto di utilizzare il tuo corpo ed io eserciterò questo diritto, senza che alcun limite fermi le richieste, per quanto capricciose, che desidero soddisfare» (J. Lacan, Kant avec Sade (1963); trad. it. Kant con Sade, in M. De Sade, La filosofia nel boudoir, Newton Compton, Roma 1974, pp. 58-59). Continua Lacan: «il precetto di Sade, pronunciato dalla bocca dell’Altro, è più onesto che attraente per la voce interiore, poiché smaschera la scissione del soggetto, che solitamente viene fatta svanire» (Ivi, p. 59). 137 G. Bataille, Le Littérature et le Mal (1957); trad. it. La letteratura e il male, SE, Milano 2006, p. 100.

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Filosofia della crudeltà

La natura “prima” (il regno della crudeltà) si contrappone alle esigenze della natura “seconda” (il regno della legge). Soltanto l’anarchia come istituzione – e non la tirannia che presuppone ancora le leggi – può superare questa impasse: «il suo modello superiore e impersonale è situato piuttosto nelle istituzioni anarchiche di movimento perpetuo e di rivoluzione permanente»138. Deleuze – nel saggio Il freddo e il crudele in cui analizza simmetrie e dissimmetrie tra sadismo e masochismo – utilizza l’umorismo e l’ironia come chiavi di volta per comprendere questa visione. Persino i termini del diritto – la legge, la pena, il contratto – diventano elementi romanzeschi che danno vita a una parodia139 della filosofia della storia: «questo pensiero dell’istituzione è, nella sua interezza, ironico, perché sessuale e sessualizzato, è innalzato al rango di provocazione contro ogni tentativo contrattuale e legalista di pensare la politica»140. Se è vero che il contratto è una mistificazione, se è vero che la legge è anch’essa una mistificazione che serve il dispotismo, se è vero che l’istituzione è la sola forma politica che in natura differisce dalla legge e dal contratto, quali devono essere allora le istituzioni perfette, ossia quelle che si oppongono a qualsiasi contratto, e che presuppongono soltanto un minimo di leggi? La risposta ironica di Sade è che, a queste condizioni, l’ateismo – la calunnia, il furto – la prostituzione, l’incesto e la sodomia – e perfino l’assassinio – sono istituzionalizzabili e, ancor meglio, sono l’oggetto necessario delle istituzioni ideali, delle istituzioni di movimento perpetuo141.

La letteratura della crudeltà, quindi, produce un mondo “allo specchio” capace non solo di nominare, ma anche di capovolgere il significato dell’“eccesso”: Si dice che quanto vi è di eccessivo nell’eccitazione viene in qualche modo erotizzato. Da ciò deriva la capacità dell’erotismo di fungere da specchio del mondo, riflettendone gli eccessi, estraendone le violenze, pretendendo di “spiritualizzarle” nella misura in cui le pone al servizio del senso […]. e le parole

138 G. Deleuze, Présentation de Sacher Masoch. Le froid et le cruel (1967); trad. it. Il freddo e il crudele, ES, Milano 1996, p. 96. 139 Anche Bataille afferma: «niente sarebbe più vano che prendere Sade alla lettera, sul serio. […] Delle diverse filosofie che attribuisce ai suoi personaggi, non possiamo prenderne in considerazione alcuna […]» (G. Bataille, La letteratura e il male, cit., p. 101). 140 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., p. 88. 141 Ivi, p. 87.

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di questa letteratura formano, a loro volta, nel linguaggio una sorta di doppio del linguaggio, in grado di farlo agire direttamente sui sensi142.

Queste performance letterarie crudeli – aggiunge Bataille – portano «la cattiva novella di una connessione dei viventi con ciò che li uccide, del Bene con il Male: si potrebbe dire dell’urlo più forte con il silenzio»143. Le pagine di Artaud, come quelle di Sade, turbano il filosofo costretto a confrontarsi con gli stati d’animo “pericolosi” e con i desideri “invincibili”. Lo spirito umano non ha mai cessato di obbedire all’esigenza che porta al sadismo: ma ciò avveniva furtivamente, nella tenebra che nasce dall’incompatibilità fra la violenza, che è cieca, e la lucidità della coscienza. […] Sade per primo, nella solitudine della sua prigione, diede una espressione ragionata a questi impulsi incontrollabili, sulla cui negazione la coscienza ha fondato l’edificio sociale – ed ha fondato anche l’immagine dell’uomo. Sade, a tale scopo, ha dovuto rovesciare e contestare tutto ciò che gli altri consideravano come incrollabile144.

Anche Eliogabalo, su questa linea, è artefice di un’esplosione violenta del negativo, di una trasgressione che non prevede superamento. Artaud mette in scena, al pari di Sade, una vera e propria distruzione: «non solamente la distruzione degli oggetti, delle vittime messe in scena (che vi si trovano solo per soddisfare la furia negatrice), ma anche dell’autore e della sua stessa opera»145. Ogni battaglia contro le convenzioni apre all’infinito delle possibilità, ma comporta una lacerazione sanguinosa che non lascia illesi146. Il sangue di Eliogabalo incarna simbolicamente la ferita di una scrittura che incide la carne: E sempre nel parossismo, nella frenesia, al momento in cui le voci si alternano, si trasformano in un acuto genesico e femminile, Eliogabalo, avendo sul pube una sorta di ragno di ferro le cui zampe gli scorticano la pelle, fanno sgorgare il suo sangue a ogni movimento eccessivo delle sue cosce incipriate di zafferano; con il membro immerso nell’oro, ricoperto d’oro, immutabile, 142 Ivi, p. 41. 143 G. Bataille, La letteratura e il male, cit., p. 101. 144 Ivi, p. 110. 145 Ivi, p. 100. 146 «Egli piange, come quel bimbo che è, di fronte al tradimento di Ierocle; ma lungi dall’esercitare la propria crudeltà contro questo cocchiere di basso rango, rivolge la propria rabbia verso se stesso, e si punisce, facendosi flagellare a sangue, d’esser stato tradito da un cocchiere» (A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 123).

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rigido, inutile, inoffensivo; arriva, con la tiara solare, col mantello sovraccarico di gemme, divorato dal fuoco147.

Eliogabalo è divorato dal fuoco perché vuole raggiungere uno stato di mescolanza, in cui limite e trasgressione convivono. In questa natura originaria non c’è separazione tra luce e tenebra, non c’è legge che divide l’universo in “parti”. La crudeltà è l’eccesso che vuole tornare al caos originario. Ma i concetti di limite e di trasgressione esistono soltanto nella reciproca compresenza: il limite esiste in quanto attraversato dal gesto, la trasgressione esiste in quanto inosservanza del confine. La crudeltà propriamente umana – il piacere conseguente alla violazione di un limite – esiste solo all’interno dell’ordine “limitato e limitante” della civiltà. Il piacere crudele148 – l’evasione che libera dalla civiltà – non è altro che una conseguenza della civiltà. L’uomo realizza un perverso incantesimo che sfugge (momentaneamente) all’autorità disciplinata e alla gerarchia sociale: La natura ignora, a rigor di termini, il piacere: essa non va al di là della soddisfazione del bisogno. Ogni piacere è sociale, negli impulsi non sublimati non meno che negli altri. […] Anche dove il piacere non sa nulla del divieto che infrange, ha pur sempre origine dalla civiltà, dall’ordine stabile, onde aspira a ritornare alla natura da cui quell’ordine lo protegge149.

La rivendicazione di una libertà “naturale” può realizzarsi soltanto all’interno di un ordine “culturale”. La crudeltà da istinto primordiale diventa la conseguenza di un lucido e logico ragionamento che Blanchot riassume in questi termini: La sola regola di condotta è dunque quella di preferire tutto ciò che serve alla mia felicità, senza tener conto delle conseguenze che una tale scelta potrebbe comportare per gli altri. Il maggiore dei dolori altrui conta sempre meno del mio piacere. Che importanza ha se devo acquistare il più modesto dei godimenti con un insieme inaudito di delitti, poiché la mia gioia mi lusinga, è in me, mentre l’effetto del crimine non mi tocca, è fuori di me?150 147 Ivi, pp. 112-113. 148 In Sade – dicono Horkheimer e Adorno – «il piacere si allea, anziché con la tenerezza, con la crudeltà, e l’amore sessuale diventa ciò che per Nietzsche è stato sempre, “nei suoi mezzi la guerra, nel suo fondo l’odio mortale dei sessi”» (M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 118-119). 149 Ivi, p. 110. 150 M. Blanchot, Lautréamont e Sade, cit., p. 72.

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È questo, in fondo, il messaggio spietato di queste pagine: la crudeltà è inscritta nella civiltà, la perversione si fonda sulla normalità. Secondo Horkheimer e Adorno – che dedicano un intero capitolo di Dialettica dell’illuminismo proprio al marchese De Sade – soltanto gli scrittori “neri” hanno tentato di liberare l’umanità dal bozzolo dell’utopia151 mostrando la forza distruttiva della razionalità: Non hanno dato ad intendere che la ragione formalistica sia in rapporto più stretto con la morale che con l’immoralità. Mentre i chiari o sereni coprivano, negandolo, il vincolo indissolubile di ragione e misfatto, società borghese e dominio, gli altri esprimevano senza riguardi la verità sconcertante152.

L’anarchico incoronato Nella prima riunione un poco solenne [Eliogabalo] domanda brutalmente ai grandi dello Stato, ai nobili, ai senatori disponibili, ai legislatori di ogni ordine, se anch’essi hanno conosciuta la pederastia da giovani, se hanno praticato la sodomia, il vampirismo, il succubato, la fornicazione con gli animali153.

Dalla pederastia alla fornicazione con gli animali: la prima domanda che Eliogabalo pone ai senatori non è di natura politica. Piuttosto assomiglia a uno sberleffo sarcastico, a una canzonatura irrisoria verso il Senato e il potere virile che questo rappresenta154. Le parole “solenni” di Eliogabalo 151 «Il fatto di non aver mascherato, ma proclamato ad alta voce l’impossibilità di produrre, in base alla ragione, un argomento di principio contro l’assassinio, ha alimentato l’odio di cui proprio i progressisti perseguitano ancora oggi Sade e Nietzsche. Diversamente dal positivismo logico, l’uno e l’altro hanno preso in parola la scienza. La loro insistenza sulla ratio, ancora più decisa di quella del positivismo, ha il senso segreto di liberare dal bozzolo l’utopia che è racchiusa, come nel concetto kantiano di ragione, in ogni grande filosofia: quella di un’umanità che, non essendo più deformata essa stessa, non ha più bisogno di deformazioni. Proclamando l’identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia» (M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 124). 152 Ivi, p. 123. 153 A. Artaud, Eliogabalo, cit., pp. 115-116. 154 Artaud riprende Lampridio: «Quaerebat deinde a philosophis et gravissimis viris, an et ipsi in adulescentia perpesse essent, quae ipse pateretur, quidem inpudentissime; neque enim umquam verbis pepercit infamibus, cum et digitis inpudicitiam ostentaret, nec ullus in conventu et audiente populo esset pudor» (Historia Augusta, X, 6).

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istituiscono – da subito – un governo che non è un governo: un governo “anarchico”. L’etimologia greca del termine “anarchia” chiarisce (o meglio, complica) il significato. Letteralmente “anarchia” vuol dire “mancanza di archia”. Il verbo greco archein, si traduce con “comandare, guidare, condurre”; archia, nelle parole composte, significa “governo, dominio” (mon-archia designa il “governo di uno”; olig-archia il “governo di pochi”). Quindi, anarchia viene solitamente tradotta con le espressioni come “senza comando”, “senza governo”. Ma la radice arch- è la stessa del termine arché che, prima ancora di “comando”, significa “principio”, “origine”, “fondamento”. Anarchia, quindi, significa anche “senza archè, senza fondamento”. Questi due significati, apparentemente lontani, sono inscindibili: l’“assenza di governo” è anche un’“assenza di fondamento”. Senza governo non si può fondare un ordine, non ci sono i presupposti per creare una società. L’anarchia, quindi, non è una mera “mancanza di comando”: bensì presuppone delle azioni che decostruiscano il “fondamento”; che aggrediscano il “principio”; che corrodano l’“ordine”. L’analisi etimologia devia dal contesto politico: l’anarchia non è semplicemente un’assenza del politico, una forma (per forza negativa) di “non governo”, di “disordine amministrativo”, di “mancanza di organizzazione”. L’anarchia, intesa nel suo duplice significato, implica una riflessione sull’archè, sul “principio”, sull’“origine”, sulla “prima causa”. E l’essenza o l’assenza del “fondamento ultimo” è la questione filosofica e metafisica per eccellenza. L’anarchia di Eliogabalo è, contemporaneamente, “assenza di governo” e “messa in questione del fondamento”: Eliogabalo è un anarchico-nato, che sopporta male la corona, e tutti i suoi atti di re sono gli atti di un anarchico nato, nemico pubblico dell’ordine, che è un nemico dell’ordine pubblico155.

La sua anarchia è duplice: nemico pubblico dell’ordine e un nemico dell’ordine pubblico. Il suo sbeffeggiare l’ordine, il suo prendersi gioco del potere è un atto propriamente pubblico e politico. La crudeltà sistematica di cui si rende protagonista l’anarchico incoronato, quindi, non è un distacco dalla realtà: Eliogabalo, proprio in quanto anarchico, non è disinteressato alla prassi politica, non si allontana da155 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 97.

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gli affari pubblici. La sua dismisura, però, non si accanisce, ciecamente, sull’altro: «il popolo non è mai sfiorato, mai toccato dalla sua tirannia sanguinaria»156. Con la corona in testa, Eliogabalo «rovescia l’ordine precostituito, le idee, le nozioni comuni delle cose»157, ma lo fa esponendosi in prima persona al pericolo, mettendo a rischio la propria vita. La sua anarchia è esposta, rischiosa prima di tutto per lui stesso «poiché si scopre agli occhi di tutti», «giuoca la propria pelle»158. Eliogabalo è un «anarchico coraggioso»159. La sua anarchia colpisce talmente in profondità da risultare pericolosa per la sua stessa vita: L’anarchia che introduce nel governo di Roma […] la predica con l’esempio e […] l’ha pagata con il prezzo dovuto. […] Colui che risveglia questa anarchia pericolosa ne è sempre la prima vittima160.

Dietro il suo atteggiamento sfrontato, dietro le domande impudenti c’è la volontà di chi intende manifestare la propria individualità senza compromessi. Non è la follia di un giovane dissoluto: «il desiderio di demoralizzazione concentrata»161 che serpeggia in queste pagine è «degradazione sistematica di un ordine»162. Non è «un pazzo, ma un insorto»163. La ribellione dirige «tutto il suo comportamento», governa «tutte le sue azioni sino alle più infime durante il suo regno di quattro anni»164. L’anarchia di Eliogabalo – riprendendo la duplice etimologia – fa tremare il “fondamento” e si traduce in una prassi anarchica che è “azione in rivolta”. L’anarchia – vissuta nelle viscere e non semplicemente pensata165 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165

Ivi, p. 123. Ivi, p. 117. Ibid. Ibid. Ivi, pp. 97-98. Ivi, pp. 115-116. Ibid. Ibid. Ibid. La metafora dell’anarchia vissuta è associabile all’intera produzione di Artaud che «si accorge che il pensiero è un cancro che chiude le cose e le costringe in passaggi morti (i linguaggi); che il pensiero separa (dal corpo) e sabota l’azione» (W. Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna, Quodlibet, Macerata 2008, p. 99).

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– rompe la tirannia di un ordine che si è allontanato dalla vita, che ha congelato il sangue per impedirgli di scorrere: Vi è del sangue umano, non del sangue astratto, del sangue irreale e che si immagina, ma del sangue vero, che è colato, che può colare; e se Eliogabalo non lo ha versato per la difesa del territorio, è con esso che ha pagato la sua poesia e le sue idee166.

Eliogabalo, così, istituisce una tensione produttiva che ha una funzione ricostruttrice: mira alla creazione di un nuovo ordine che ristabilisca «la natura qual è»167. Il punto di partenza rimane decostruttivo. L’ordine precedente ha segmentato la realtà, sistematizzando il disordine naturale per avere un controllo totale sulle parti. Questo ordine deve essere distrutto. Ma lo scopo finale è costruttivo. L’anarchico ripristina la tensione fondativa che unisce i contrari in una «unificazione divaricante»168. La costruzione di Eliogabalo è appoggiata sulle rovine, come i templi della Siria sono costruiti sui resti dei precedenti: una fondazione “senza fondamenta”169. Gli eccessi crudeli di Eliogabalo sono la manifestazione esteriore della rottura e della ricongiunzione di questi legami. Sono necessari affinché sia possibile – al di là del conflitto di meri poli contrapposti – una ritrovata uni166 Ivi, p. 98. 167 Ivi, pp. 115-116. 168 Il principio – dice Florinda Cambria – «è originariamente duplice – tensione tra – guerra permanete che è dissoluzione di ogni fissità – tale tensione polare, a sua volta, non deve essere intesa semplicemente come la consistenza frontale di due princìpi, ma come il ritmo infinito di una divaricazione unificante e di una unificazione divaricante che richiama quello alchemico del solve et coagula, là dove fondativo non è nessuno dei due momenti di per sé preso, esattamente come non lo sono i “due principi” in quanto tali. Fondativa è invece solo la loro “dualità combinata”, cioè l’apertura che li oppone e li compone originariamente nell’accadere di un mondo come tensione e come transito irriducibili» (F. Cambria, Corpi all’opera, cit., p. 138). 169 «The temples of Héliogabale, like Artaud’s novel, are founded on the ruins of former construction. It is in these ruins, piled on upon the other according to a strict temporal order, that the arché-o-logist, the scientist of the arché, expects to find highly structured traces of the past; but building on a foundation of ruins means building “without foundations” and the seeker after truth finds the hierarchical levels levelled» (C. Jacobs, The Assimilating Harmony: The Image of Interpretation in Nietzsche, Rilke, Artaud and Benjamin, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1978, p. 75).

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tà nella separazione dei contrari, un’unificazione della «polvere di aspetti» del reale: Aver il senso dell’unità profonda delle cose, è aver il senso dell’anarchia, – e dello sforzo da compiere per ridurre le cose riconducendole all’unità. Chi ha il senso dell’unità ha il senso della molteplicità delle cose, di quella polvere d’aspetti attraverso cui occorre passare per ridurle e distruggerle170.

La pars destruens e la pars construens sono, in realtà, due aspetti dello stesso percorso. La distruzione nichilista delle leggi e dei costumi romani si traduce in una transvalutazione liberatoria di tutti i valori: «quel che è anarchico dal punto di vista romano, è per Eliogabalo la fedeltà a un ordine»171. In altri termini, l’aspirazione al disordine non è altro che «l’applicazione di un’idea metafisica e superiore dell’ordine, cioè dell’unità»172. Il cammino verso l’unità non può evitare i pericoli della distruzione. Il viaggio173 verso il nuovo ordine implica l’attraversamento del negativo che spesso si traduce in lacerazione carnale. In questo attraversamento arrischiato, la nozione di crudeltà diventa il paradigma centrale. Il concetto di anarchia rimanda a una metafisica e a un’etica che si fondano sulla crudeltà come manifestazione necessaria del travaglio della riunificazione. Soltanto in questa complessità – dice Florinda Cambria – il concetto di crudeltà «potrà finalmente farsi carico dell’apertura metafisica cui chiama, [...] come istanza etica che informa la postura di un soggetto di nuovo genere»174. L’unità a cui tende l’anarchia non può manifestarsi se non nel sangue. Soltanto un anarchico incoronato può tentare di ridurre la molteplicità all’unità «col sangue, la crudeltà, la guerra»175: Eliminazione della guerra e dell’anarchia, ma per mezzo della guerra, ed è anche, su questa terra di contraddizioni e di disordine, la messa in opera dell’anarchia. […] Ricondurre la poesia e l’ordine in un mondo ove l’esistenza stessa è una sfida all’ordine, è ricondurre la guerra e la permanenza della guer170 171 172 173

A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 43. Ivi, p. 109. Ibid. «Tutta la vita [di Eliogabalo] non è altro che una strana attraversata del molteplice per giungere all’unità. Quell’anarchia delle cose e degli aspetti, quella confusione del molteplice che Eliogabalo non cessa di suscitare, di far esplodere in tutta la sua violenza, sono, in realtà, il suo cammino verso l’unità» (M. Borie, Antonin Artaud: teatro e il ritorno alle origini, cit., p. 132). 174 F. Cambria, Corpi all’opera, cit., p. 136. 175 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 43.

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ra; è portare uno stato di crudeltà preciso, è suscitare un’anarchia senza nome, l’anarchia delle cose e degli aspetti che si risvegliano prima di sprofondare di nuovo e di fondersi in unità176.

L’unità di Eliogabalo non è l’unità indifferenziata dell’Uno. È un’unità che ha bisogno dell’anarchia e della guerra, un’unità «che si dice soltanto del molteplice»177. Con queste parole la descrivono Deleuze e Guattari: È vero che Artaud presenta ancora l’identità dell’Uno e del molteplice come un’unità dialettica e che riduce il molteplice riconducendolo all’Uno. Fa d’Eliogabalo una specie di hegeliano. Ma è un modo di parlare, perché la molteplicità supera fin dall’inizio ogni opposizione e destituisce il movimento dialettico178.

La permanenza della guerra prende il posto del giudizio: l’anarchia crudele riesce a destituire il movimento dialettico che la tradizione occidentale ha imposto al presente. Il conflitto instaurato dalla crudeltà, però, non è una guerra intesa come respingimento, come annientamento e distruzione di una forza esterna. È una contrapposizione costitutiva, un divenire permanente che rimette in gioco – decostruendoli – tutti i rapporti di forza. Il messaggio racchiuso nell’Eliogabalo di Artaud si proietta sull’attualità del lettore contemporaneo. La crudeltà anarchica è una chiamata alle armi. Invita a mettere radicalmente in discussione i presupposti che fondano il nostro presente. Un anarchico couronné diviene presto découronné: le forze decostruttive si scontrano con i limiti in cui dimorano e non possono aspettarsi comprensione179. La carica sovversiva di queste riflessioni crudeli si rivela 176 Ivi, p. 98. 177 «Eliogabalo e la sperimentazione hanno la stessa formula: l’anarchia e l’unità sono una sola, una stessa cosa, non l’unità dell’Uno, ma una più strana unità che si dice soltanto nel molteplice» (G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 214). 178 Ivi, nota 10, p. 214. 179 «Héliogabale is an anarchiste couronné, having enclosed within the symbol of the crown or circle the forces of the masculine and the feminine, of the divine and the human. But his tendency toward anarchy leads him, as well, to the dangerous state of the anarchiste découronné, in which the warring forces collide and explode the limits in which they had resided. The circle having been rent apart, the anarchiste découronné lies haemorrhaging in a sewer, and the vibrations of antagonistic tones, once constitutive of a strange and dissonant harmony, are replaced by silence» (L. A. Boldt-Irons, Anarchy and Androgyny in Artaud’s “Héliogabale”, cit., p. 877).

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– oggi come ieri – tanto imprescindibile quanto inattuale. Artaud, infatti, apre il romanzo con questa dedica: E per sottolineare la sua inattualità profonda, il suo spiritualismo, la sua inutilità, lo dedico alla anarchia e alla guerra per questo mondo180.

180 A. Artaud, Eliogabalo, cit., p. 3

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3. PER UN’EST-ETICA CRUDELE

Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col suo sangue. Scrivi col sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito. Friedrich Nietzsche

Scrivere con il sangue Quasi quarant’anni prima dell’Eliogabalo di Artaud, nel 1887, Friedrich Nietzsche scriveva Genealogia della morale. Gli aforismi martellanti di questo Trattato sulla crudeltà1 – composto di tre dissertazioni: la genesi di “buono” e “malvagio”; il concetto di colpa e di cattiva coscienza; gli ideali ascetici – fanno da eco alle parole di Artaud2. Genealogia della morale – dice Nietzsche nella sua autobiografia – è «ciò che di più inquietante è stato scritto finora»3. Si tratta di una messa in 1 2

3

Cfr. F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere: il tema dell’altro in Nietzsche, Dedalo, Bari 2000. Camille Dumoulié, nel suo saggio Nietzsche et Artaud, pour une éthique de la cruauté, trova i punti di convergenza tra questi due autori proprio a partire dalla nozione di crudeltà intorno alla quale si articola «une vision de l’homme et du monde, une réflexion sur notre civilisation considérée comme celle de la décadence, un refus de la métaphysique et de l’ontologie traditionnelles, de la religion et de la morale, la volonté de trouver dans l’art, et dans le théâtre en particulier, le remède à nos maux, c’est enfin une pratique originale de l’écriture» (C. Dumoulié, Nietzsche et Artaud. Pour une éthique de la cruauté, Presses universitarie de France, Paris 1992, p. 10). «Dioniso è, si sa, anche il dio dell’oscurità. Tutte le volte, un principio che si deve indurre in errore, freddo, scientifico, perfino ironico, messo in rilievo con intenzione, tirato in lungo con intenzione. A poco a poco l’agitazione cresce: guizzano singoli lampi; da lontano, delle verità molto spiacevoli si fanno sentire con un cupo brontolìo; finché da ultimo si arriva ad un tempo feroce in cui ogni cosa incalza con una formidabile tensione. In chiusura, tutte le volte, fra denotazioni spaventose appare tra dense nubi una nuova verità» (F. Nietzsche, Ecce Homo. Wie man wird, was man ist (1888); trad. it. Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 1996).

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Filosofia della crudeltà

pratica – filosofica e illuministica – della crudeltà della ragione: una violenza senza ironie, senza sarcasmi e senza eroi al di là dei confini dell’inconfessabile. Una ragione crudele – nel duplice senso di spietata violenza e di salvifica demistificazione – smaschera e distrugge la dolcezza consolatoria delle certezze. La crudeltà nietzschiana porta allo scoperto il fondo oscuro dell’umano che il narcotico della morale impedisce di vedere. La crudeltà – avverte Nietzsche in un aforisma di Al di là del bene e del male – non è un atteggiamento in cui ci si imbatte per caso, non è un comportamento che si sperimenta saltuariamente, come vittime o come carnefici: Quel che il Romano prova nell’arena, il cristiano nelle estasi della croce, lo Spagnolo di fronte ai roghi e alle corride, il Giapponese di oggi che fa ressa per assistere alla tragedia, l’operaio dei sobborghi parigini che ha nostalgia di rivoluzioni cruente, la wagneriana, che sospendendo la propria volontà, si lascia “passare addosso” Tristano e Isotta – quel che tutti costoro godono e con segreto ardore tentano di assorbire in sé, sono le pozioni della gran Circe “crudeltà”4.

La crudeltà è un istinto primario che ha a che fare con l’originario5: è «uno dei più antichi e più necessari fondamenti della civiltà»6; è «la più grande gioia festiva dell’umanità più antica»; è «mescolata a guisa d’ingrediente, a quasi tutte le sue gioie». La «“cattiveria” disinteressata» è una «qualità “normale” dell’uomo: qualcosa dunque, al quale la coscienza “dice sì” con tutto il cuore!»7. Anche gli dei delle comunità più antiche sono esseri che traggono piacere dalla visione della sofferenza umana. Le divinità crudeli non sono altro che la proiezione della crudeltà degli umani: Non è poi trascorso molto tempo da quando non si riusciva a immaginare nozze di principi e feste popolari in grandissimo stile senza esecuzioni capitali, torture e sinanco un autodafé, e neppure un governo aristocratico senza esseri 4 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 191. 5 «L’uomo – dice nel Così parlò Zarathustra – è il più crudele degli animali. Finora egli si è sentito bene sulla terra soprattutto assistendo a tragedie, corride e crocifissioni; e quando si inventò l’inferno, ecco che ciò divenne il suo paradiso in terra» (Id., Also sprach Zarathustra (1883-1885); trad. it. Così parlo Zarathustra, Adelphi, Milano 2003, p. 256). 6 Id., Ecce Homo, cit. 7 Id., Zur Genealogie der Morale (1887); trad. it. Genealogia della morale, Newton Compton, Roma 2012, I, 6.

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Per un’est-etica crudele

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sui quali si potesse spregiudicatamente dar libero corso alla propria cattiveria e alle proprie beffe crudeli […]. Veder soffrire fa bene, far soffrire fa ancora meglio – questa è una massima dura, ma una massima fondamentale, antica, potente, umana – troppo umana […]. Senza crudeltà non c’è festa: questo insegna la più remota, la più lunga storia dell’uomo – e anche la pena ha in sé molto di “festivo”8.

Ma Nietzsche non parla soltanto di una logica primordiale. La crudeltà è il fondamento della storia passata, ma è anche la radice del nostro presente, anche se si è trasformata ed è diventata irriconoscibile: “Ogni male è giustificato, il cui spettacolo serva a edificazione di un dio”: questa era la remotissima logica del sentimento – e in verità, era solo quella dei primordi? Gli dèi visti come appassionati di spettacoli “crudeli” – oh, quanto affonda ancora nella nostra umanizzazione europea questa antichissima idea! […] E come ho già detto, anche nel grande castigo è insito molto di festivo9.

La crudeltà contemporanea si è spiritualizzata: prima era materiale e corporea, ora ha per oggetto l’anima. La civiltà superiore – avverte Nietzsche – non ha cancellato la belva, ma l’ha divinizzata. Una «crescente spiritualizzazione e “divinizzazione” della crudeltà […] corre attraverso tutta la storia della civiltà superiore (e, vista in un’accezione significativa, addirittura la costituisce)». Il “senso di ogni civiltà” è «riuscire ad allevare la bestia feroce “uomo” trasformandola in un animale mansueto e civilizzato, “un animale domestico”»10. Nessuna morale riesce a estirpare gli istinti, la belva non è stata ammazzata. La crudeltà si è interiorizzata, si rivolge contro l’uomo libero e randagio che abita in ciascuno di noi. L’uomo diventa prigioniero di se stesso e della sua falsa “cattiva coscienza”: L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’attacco, delle mutazioni, della distruzione – tutto quello che si rivolta contro i possessori di tali istinti: “questa” è l’origine della “cattiva coscienza”. L’uomo che in mancanza di nemici esterni e resistenze, costretto nelle oppressive strettoie e regolarità di costumi, dilaniava impaziente se stesso, si perseguitava, si torturava, si punzecchiava, si maltrattava, questo animale che si butta contro le sbarre della sua gabbia ferendosi, […] diventò l’inventore della “cattiva coscienza”11. 8 9 10 11

Ivi, I, 6. Ivi, I, 7. Ivi, I, 11. Ivi, I, 16.

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Filosofia della crudeltà

La crudeltà, dentro le barriere che gli impone la civilizzazione, si riposiziona e diventa colpa. Nietzsche, quindi, decostruisce la morale per svelarla come massima forma di dominio: «quanto sangue e quanto orrore è al fondo di tutte le “cose buone”!»12. Nel capitolo dedicato al concetto di colpa analizza le radici crudeli della venerata coppia colpa-pena. Nessuna nobile volontà perfezionatrice: la pena è un risarcimento del danno che nasce da una pulsione vendicativa e violenta che non si allontana molto dalla colpa che vuole punire. Nel sistema penale non c’è un principio di giustizia che differisce dal principio di vendetta: si tratta di una redistribuzione, di una reciprocità violenta. Una vendetta pubblica che si sostituisce a una vendetta privata. La concatenazione di idee “colpa e punizione”, “colpa e dolore” è intrinsecamente crudele: In che misura il dolore può essere una compensazione dei “debiti”? Nella misura in cui “far” soffrire procurava grandissimo piacere, nella misura in cui il danneggiato scambiava il danno, con in più l’irritazione per il danno, con un contropiacere straordinario: il “far” soffrire – vera e propria “festa”13.

La coscienza che fonda questo rapporto tra la colpa e la pena è la conversione interna dell’istinto della crudeltà che non può più sfogarsi all’esterno: Questa è una sorta di follia del volere nella crudeltà interiore che non ha certo uguali: la volontà dell’uomo di sentirsi colpevole e riprovevole tanto da non poter più espiare le sue colpe, la sua “volontà” di pensarsi punito, senza che la pena possa mai adeguarsi alla colpa14.

La morale, quindi, è un altro modo di esercitare la crudeltà, questa volta su se stessi e sui propri istinti: ciò che è fuori di sé è positivo, mentre ciò che è umano, la propria natura, diventa il negativo. Questa scissione, per Nietzsche, è la più grande malattia dell’uomo: Con ciò, però, si aprì la strada alla più grave e oscura malattia, da cui, sino ad oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha di “sé, dell’uomo stesso”: come conseguenza di un distacco violento dal suo passato animale, di un salto, di una caduta quasi, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti su cui fino ad allora aveva fondato la sua forza, il suo piacere e la sua temibilità15. 12 13 14 15

Ivi, II, 3. Ivi, I, 6. Ivi, I, 22. Ivi, I, 16.

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Per un’est-etica crudele

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Il fine ultimo di queste argomentazioni crudeli è, di nuovo, terapeutico: svelare la malattia che affligge l’umano. La valutazione della crudeltà che si annida alle radici dell’umanità e che fonda le istituzioni è anch’essa un esercizio di crudeltà, una crudeltà terapeutica. La vera conoscenza – che sia l’analisi genealogica della morale o il racconto delle imprese di Eliogabalo – è crudeltà. Nietzsche, come Artaud, ha sublimato l’istinto crudele in volontà conoscitiva: un dato naturale – la crudeltà originaria – diventa uno strumento emancipativo di conoscenza. Crudeltà, in questa interpretazione rovesciata, vuol dire conoscere in contrasto con il senso comune. Nietzsche – in Al di là del bene e del male – parla di un vero atto di violenza contro la superficie della realtà: Alla fine si consideri che finanche l’uomo di conoscenza, in quanto costringe la mente a conoscere contro la tendenza della mente stessa e abbastanza spesso anche contro i desideri del cuore – cioè a dire no, dove vorrebbe affermare, amare, adorare – si comporta da artista e trasfiguratore della crudeltà; già ogni prendere le cose in profondità e alle radici è una violenza, un voler far male alla volontà fondamentale della mente, che mira incessantemente all’apparenza e alla superficie – già in ogni voler conoscere c’è una goccia di crudeltà16.

Al di là del bene e del male. Nietzsche non conia una formula equivalente a “tutto è permesso”, non vuole ritrovare un’innocenza perduta, ma vuole andare “al di là”, accedere alle condizioni di tutte le etiche di verità. L’uomo della conoscenza – colui che si spinge al di là della superficie – è un vero artista, un trasfiguratore della crudeltà «semprechè abbia temperato e aguzzato abbastanza a lungo, come si conviene, lo sguardo per se stesso e si sia abituato a una severa disciplina e anche a severe parole»17. La rottura dei vincoli e delle recinzioni implica delle conseguenze. Bisogna “scrivere con il sangue” e rischiare la vita18 per poter affermare: «di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col suo sangue. Scrivi col sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito»19.

16 Id., Al di là del bene e del male, cit., pp. 191-192. 17 Ivi, p. 193. 18 «L’écriture fut ainsi, pour Nietzsche et Artaud, le moyen indépassable de se maintenir dans l’ouverture, d’empêcher de retombée et de repousser la contrainte de la clôture. Mais par cette exigence éthique, qui suppose de se tenir à la limite du monde, elle implique à la fois d’accepter le plus grand risque et de supporter de vivre la perte de vivre» (C. Dumoulié, Nietzsche et Artaud, cit., p. 164). 19 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 40.

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Filosofia della crudeltà

La crudeltà di questa operazione filosofico-estetica attacca tutte le identità monolitiche20 e si rivela un prezioso medicinale che ci rende immuni (o per lo meno guardinghi) dai pericoli e dalle costrizioni di ogni ideologia. L’eroismo del pensiero testimoniato richiede un atto di decostruzione pericoloso che sveli la realtà e che scopra ciò che sta dietro le quinte. È una prova straordinaria della soggettività, un’esperienza dolorosa che rende l’artista-filosofo un palombaro della conoscenza crudele: Il grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che vuole tempo, in cui, per così dire, veniamo bruciati come con legna verde, costringe noi filosofi a discendere nelle nostre intime profondità e a sbarazzarci di ogni fiducia, d’ogni bontà d’animo, d’ogni palliativo, d’ogni mansuetudine, d’ogni via di mezzo, di tutto ciò in cui forse una volta riponemmo la nostra umanità. Dubito che un tale dolore “renda migliori”; eppure so che esso ci scava in profondo21.

Questo eroismo è l’etica della crudeltà: una pratica che de-costruisce le false prospettiva e si espone, a sua volta, alla furia di chi non vuole vedere né ascoltare queste rivelazioni crudeli22. L’etica della crudeltà è un’etica della demistificazione come rivolta; un atteggiamento di dissidenza in con-

20 «Tale analisi metta anche a nudo – mette in evidenza Sergio Moravia – una precisa immagine dell’uomo moderno. Un uomo fragile e nevrotico, preda di sentimenti mediocri e di risentimenti abnormi. Un uomo senza obiettivi, senza ideali, senza significati connessi con la propria esistenza autentica. Un uomo senza identità, senza volto, senza padre. Un uomo, insomma, pronto a obbedire a qualsiasi padrone, a seguire qualsiasi bandiera, a credere in qualsiasi parola d’ordine purché gli diano “consistenza”, radicamento, sicurezza» (Cfr. S. Moravia, Morale come dominio, per una rilettura della “Genealogia della morale”, in F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit.). 21 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); trad. it. La gaia scienza, Adelphi, Milano 1965, p. 17. 22 «L’héroïsme de la pensée, en quête du réel, exige un geste cruel de decostruction, dangereux aussi de dévoilement, qui abatte rideaux et décors afin de mettre à nu ce qui se cache derrière la scène, de dévoiler l’ob-scène pour en dénoncer la stratégie. [...] A l’héroïsme cruel, accomplissement de l’éthique de la cruauté, Nietzsche et Artaud confèrent une triple tache destructrice: déconstruire le théâtre du monde et ses fausse perspectives, le théâtre du moi et son illusoire profondeur, le théâtre du corps et son unité factice. Mais celui qui, par cette déconstruction, réveille l’archi-violence du sacré et s’avance, en deçà de l’obscène, dans les territoires de l’abject, suscite en retour l’acharnement cruel des «suppôts» qui le hantent, et la violence du groupe qui fait cercle autour de lui pour reconstituer un théâtre rituel, une tragédie dont il risque de devenir le héros» (C. Dumoulié, Nietzsche et Artaud, cit., pp. 81-82).

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Per un’est-etica crudele

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traddizione con il fondamento stesso della morale; un conflitto aperto con il senso comune e con “l’etica dei Filosofi”23. La crudeltà della ragione di cui parla Nietzsche è il progetto di un nuovo illuminismo. Un progetto destinato a rimanere aperto, un desiderio di vigilanza, di veglia lucida e crudele. L’illuminismo crudele – come sottolinea Derrida – è una delucidazione che si estende anche allo stesso razionalismo; una ragione che vigila su se stessa. Se la luce è l’elemento della violenza, è necessario battersi contro la luce con una certa altra luce, per evitare la violenza peggiore, quella del silenzio e della notte che precede o reprime il discorso. Questa vigilanza è una violenza scelta come la violenza meno grave […]. Il filosofo (l’uomo) deve parlare e scrivere in questa guerra della luce nella quale si sa sempre già impegnato e da cui sa che non potrebbe sfuggire, se non rinnegando il discorso, vale a dire rischiando la violenza peggiore24.

L’analisi “senza alibi” della crudeltà con la crudeltà è necessaria per sfuggire alla degenerazione della Metafisica perfetta e definita, per evitare la presunzione del razionalista compiuto. L’illuminismo “crudele” – e quindi radicale e rigoroso – è un progetto liberatorio, un’assunzione di responsabilità, una vigilanza senza quartiere, una sfida che si fa carico di tutte le sfaccettature dell’umano (anche di quelle meno nobili). La filosofia abbandona il desiderio pericoloso di diventare “edificante”, sfugge al dogmatismo e all’oscurantismo25. Su questo modo “critico” di fare filosofia si pronuncia anche Michel Foucault: Di certo, non bisogna considerare l’ontologia critica di noi stessi come una teoria o una dottrina, e nemmeno come un corpo permanente di sapere che si accumula; bisogna concepirla come un atteggiamento, un ethos, una vita filo-

23 «L’éthique de la cruauté, en effet, aboutit à une attitude existentielle en contradiction avec le fondement même de la morale commune, voire de toute morale, fut-ce celle des philosophes» (Ivi, p. 241). 24 J. Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 148. 25 Afferma giustamente Rodolphe Gaschè, commentando le parole di Derrida: «La domanda di lucidità che caratterizza questa vigilanza è accompagnata dalla consapevolezza di limiti inevitabili – cioè strutturali o essenziali – che si accompagnano alla possibilità della luce e della lucidità. E, dunque, una simile vigilanza include anche la consapevolezza dei propri limiti» (R. Gaschè, Senza titolo, in AA. VV., L’avvenire della decostruzione, a cura di F. Vitale e M. Senatore, Il Melangolo, Genova 2011, p. 27).

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Filosofia della crudeltà

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sofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile26.

Il vero filosofo-artista deve conquistare questo ethos. Il suo compito è affrontare i propri limiti, guardare in faccia i propri mostri, anche i più crudeli. Può essere questo, un compito strano e pazzo, ma è pur sempre un compito – chi vorrebbe negarlo? Perché noi lo abbiamo scelto, questo pazzo compito? O detto altrimenti: “Perché mai la conoscenza?” – Ognuno ci domanderà questo. E noi, messi in tal modo alle strette, noi che la domanda ce la siamo fatta già da noi cento volte, non abbiamo trovato e non troviamo nessuna risposta migliore...27

Senza alibi La morale della crudeltà si contrappone alla morale civile: è anarchia senza riguardo per il bene pubblico, senza scopo pedagogico o punitivo. Gli istinti violenti non sono canalizzati in una gloriosa guerra contro il comune nemico, ma ricadono all’interno. All’inizio degli anni ‘3028, anche Sigmund Freud – con gli strumenti critici della psicoanalisi – mette in atto una decostruzione dissacrante che porta alla luce i nessi dialettici tra motivazioni pulsionali e richieste sociali che sono alla base della “Civiltà”.

26 M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières? (1984); trad. it. Che cos’è l’illuminismo?, Mimesis, Milano 2012, pp. 46-47. 27 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 194. 28 Già nel 1913 – con la pubblicazione di Totem e tabù – Freud affronta i rapporti tra individuo e storia collettiva che sono all’origine della civiltà. Attraverso l’analisi del totemismo e della proibizione e della trasgressione nel tabù, Freud mette in atto un confronto serrato tra il complesso di Edipo e le strutture sociali nucleari studiate dall’antropologia di fine ’800. Il sistema totemico degli aborigeni australiani diventa una simbolizzazione del parricidio e dell’incesto. Al totem – il padre della comunità – sono associati due tabù: il divieto sacro di uccidere e di mangiare l’animale-totem (parricidio) e l’interdizione dei rapporti sessuali con i membri dello stesso clan totemico (incesto). Le popolazioni “primitive” – generalizza Freud – puniscono con severità i rapporti sessuali endogamici: l’orrore per l’incesto fonda la comunità (Cfr. S. Freud, Totem und tabu. Einige Übereinstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker (1913); trad. it. Totem e Tabù, Boringhieri, Torino 1969, p. 22).

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Per un’est-etica crudele

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Nel famoso saggio Il disagio della civiltà, Freud sottopone a una crudele (nel senso di lucida e rigorosa) interrogazione i principi che fondano la Kultur. La civiltà – come somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella degli animali – ha due scopi: «proteggere l’umanità contro la natura» e «regolare le relazioni degli uomini tra loro»29. La creazione di una morale delle comunità, quindi, risponde alla domanda di aiuto sollevata dall’impotenza del singolo, costretto a stabilire legami sociali per sopravvivere. La Kultur, però, ha dei costi insopportabili per l’individuo. Per istituirsi, infatti, deve operare una costante sottrazione alle pulsioni del singolo che, attraverso processi di rimozione e sublimazione, vengono poste al servizio della società. La morale non ha un’origine “trascendentale”, ma si costruisce (culturalmente e storicamente) in base alle necessità del vivere insieme. La sessualità e l’aggressività dell’uomo civile sono regolamentate per il bene della comunità, mentre l’uomo primordiale «ignorava qualsiasi restrizione pulsionale»30: La più profonda essenza degli uomini è costituita da moti pulsionali che sono di natura elementare, comuni a tutti, miranti al soddisfacimento di certi bisogni originari. Tali moti pulsionali per se stessi non sono né buoni né cattivi. Noi classifichiamo in tal modo questi moti e le loro manifestazioni soltanto in base alla loro relazione con il bisogno e le richieste della comunità umana31.

Il fine dell’attività umana – dice Freud – è sempre il raggiungimento della felicità: come fruizione di piacere e come assenza di dolore. La natura fugace del piacere, però, rende l’acquisizione di una felicità positiva fragile e frustrante: «la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua»32. Evitare il dolore è la via per la felicità maggiormente percorribile. Addomesticare le pulsioni è un investimento più proficuo e redditizio: «l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza»33. 29 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1930); trad. it. Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, pp. 225-226. 30 Ivi, p. 250. 31 Ivi, p. 41. 32 Ivi, p. 250. 33 Ibid.

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Filosofia della crudeltà

La civiltà – un ordine «che decide, mediante una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come, una cosa debba essere fatta» – comporta dei benefici incontestabili che danno «all’uomo la possibilità di utilizzare nel modo migliore il tempo e lo spazio, risparmiando le sue forze psichiche»34. Ma quest’ordine – dimostra Freud – non è originario, non è «inserito fin dall’inizio e senza coercizione nell’attività umana»: l’uomo continua a manifestare «una tendenza innata alla negligenza, all’irregolarità e alla confusione del lavoro»35. La libertà individuale, infatti, subisce una severa limitazione a causa dell’incivilimento: La libertà individuale non è un frutto della civiltà. Era massima prima di qualsiasi civiltà, benché in realtà a quel tempo in gran parte priva di valore, poiché l’individuo difficilmente era in grado di difenderla. La libertà subisce delle limitazioni ad opera dell’incivilimento e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano tutti. […] Non sembra possibile influire sull’uomo fino a indurlo a cambiare la sua natura in quella di una termite; egli difenderà sempre la sua esigenza di libertà individuale contro il volere della massa36.

Le pulsioni fondamentali che animano la vita del singolo sono due. Da un lato la pulsione di vita, dall’altro la pulsione di morte: Noi supponiamo che vi siano due specie essenzialmente diverse di pulsioni: quelle sessuali […] e quelle aggressive, la cui meta è la distruzione. A sentirvelo dire così, stenterete a ravvisarvi una novità; sembra un tentativo di trasfigurare teoricamente la banale antitesi fra amore e odio, che forse coincide con quell’altra polarità di attrazione-repulsione che la fisica ipotizza per il mondo organico37.

Anche la crudeltà – secondo Freud – fa parte del corredo pulsionale dell’uomo:

34 35 36 37

Ivi, p. 229. Ibid. Ivi, pp. 231-232. Id., Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung (1932); trad. it. Introduzione alla psicanalisi (nuova serie di lezioni), in Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1979, vol. 11, pp. 211-212.

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[L’uomo] vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi bene, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?

La civiltà ripresenta questa contrapposizione dualistica. L’evoluzione civile, quindi, è un campo di battaglia di forze pulsionali eterogenee, «indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione […]. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana»38. L’insieme delle norme e delle istituzioni che determinano la sopravvivenza di una società contiene e razionalizza le spinte centrifughe del singolo: ricanalizza la libido e reprime l’aggressività. L’aggressività – a livello collettivo – è convertita in strumento di incivilimento39. Lo stato – esplicita Freud in un saggio del 1915 dal titolo Considerazioni attuali sulla guerra e la morte – non ha cancellato la crudeltà, ma ne ha assunto il monopolio: Lo Stato ha interdetto al singolo l’uso dell’ingiustizia, non perché intenda sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla, come il sale e i tabacchi. Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero il singolo privato40.

Mentre – a livello del singolo – l’aggressività viene repressa e introiettata, diventando una minaccia rivolta al proprio Io: L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Super-io al rimanente, ed ora come “coscienza” [Gewissen, coscienza morale] è pronta a dimostrare contro l’Io la 38 Id., Jenseits des Lustprinzip (1920); trad. it. Al di là del principio del piacere, Bruno Mondadori, Roma 2007. 39 La crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi più benigni. In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano d’operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie (Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, cit., p. 246). 40 Ivi, p. 39.

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Filosofia della crudeltà

stessa inesorabile aggressività che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. […] La civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata41.

Ciò che oggi definiamo “crudeltà” è l’esplosione di un “disagio della civiltà”. Un urlo di protesta che porta allo scoperto una contraddizione ineliminabile: l’impossibilità di vivere isolati e l’insofferenza per la vita di gruppo. Ma la crudeltà ha una natura ricorsiva. Lo stesso “discorso sulla crudeltà” – che rivela la «tendenza innata dell’uomo al “male”, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà»42 o la natura della civiltà che reprime l’individualità come una guarnigione che controlla una «città conquistata»43 – è recepito come crudele. Nel lettore di Freud, sorge uno spontaneo atteggiamento di rifiuto e di negazione. La razionalizzazione freudiana è indesiderata: includere la crudeltà «nella costituzione umana sembra un sacrilegio, contrasta con molti presupposti religiosi e con molte convenzioni sociali»44. La psicanalisi di Freud è una profanazione della presunta natura bonaria dell’uomo: secondo questa superficiale interpretazione «l’uomo dev’essere per natura buono, o quanto meno bonario. Se, all’occasione, si mostra brutale, violento, crudele, si tratta di turbamenti transitori della sua vita emotiva»45. La demistificazione46 freudiana svela l’oscurità della natura umana e dei suoi strumenti di sopravvivenza. La crudeltà è radicata all’origine della vita e la civiltà non può estirparla. La Kultur è una sublimazione – ancora 41 Ivi, pp. 258-259. 42 Ivi, p. 255. 43 Ivi, pp. 258-259. 44 S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, cit., pp. 211-212. 45 Ivi, pp. 211-212. 46 «Un abbozzo della teoria della soggettività – argomenta Paolo Vinci nell’introduzione a una delle traduzioni italiane del saggio – costruita a partire dalla messa a fuoco di una contraddizione interna a ogni singolo individuo, fra l’indipendenza e la dipendenza, la relazione a sé e la relazione all’altro. [...] Quel che viene auspicato è che la consapevolezza della loro inscindibilità possa favorire un seppur precario equilibrio fra la dipendenza individuale e il legame con gli altri [...]. Il messaggio più importante che mi sembra venire dalla psicoanalisi si configura come un invito a non fuggire, a non nascondere la nostra situazione con pratiche di autoillusione, ma a prenderne atto, così da renderci capaci di “sopportare la contraddizione”» (P. Vinci, Freud: desiderio e riconoscimento, in

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più cruenta – di quella pulsione originaria e la morale “civile” è uno strumento crudele di repressione. A questo proposito, Jacques Derrida – in una conferenza pronunciata davanti agli États Généraux de la Psychanalyse nel 2000 – afferma che la grande questione che la psicanalisi ha tentato di chiarire è proprio “la crudeltà”. La psicanalisi è – prima di ogni altra cosa – un approccio “sans alibi”: Si, pour cette tâche, la psychanalyse n’est peut-être pas le seul langage possible, elle serait la seule approche possible, et sans alibi, de toutes les traductions virtuelles entre les cruautés du souffrir “pour le plaisir”, du faire-souffrir ou du laisser-souffrir ainsi, du se-faire ou du se-laisser-souffrir, soi-même, l’un l’autre, l’une l’autre, les uns les autres, etc., selon toutes les personnes grammaticales et tous les modes verbaux implicites — actif, passif, voix moyenne, transitif, intransitif, etc47.

Un discorso “senza alibi” può inseguire l’enigma della crudeltà capace di trasformarsi, di adattarsi, di mimetizzarsi. La pulsione della crudeltà non può essere sradicata, ma si può tentare – senza alibi – di indagarne la radice: S’il y a quelque chose d’irréductible dans la vie de l’être vivant, dans l’âme, dans la psyché […], et si cette chose irréductible dans la vie de l’être animé est bien la possibilité de la cruauté [...], alors aucun autre discours – théologique, métaphysique, génétique, physicaliste, cognitiviste, etc. – ne saurait s’ouvrir à cette hypothèse. Ils seraient tous faits pour la réduire, l’exclure, la priver de sens. Le seul discours qui puisse aujourd’hui revendiquer la chose de la cruauté psychique comme son affaire propre, ce serait bien ce qui s’appelle, depuis un siècle à peu près, la psychanalyse48.

Questo approccio more psychanalytico può confrontarsi con gli eventi che costituiscono una mutazione crudele della crudeltà, una mutazione tecnica, scientifica, giuridica, economica, etica e politica. Quello che resta da pensare – dice Derrida – è una possibilità di un im-possibile al di là della pulsione di morte, al di là della pulsione di potere, al di là della crudeltà e della sovranità, “un au-delà inconditionnel”.

S. Freud, L’avvenire di un’illusione – Il disagio della civiltà, a cura di R. Finelli e P. Vinci, Newton Compton, Roma 2010). 47 J. Derrida, États d’âme de la psychanalyse, Galilée, Paris 2000, p. 83. 48 Ivi, p. 12.

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Ma questo al di là sarà ancora un alibi? Oppure anche un’indagine “senza alibi”, un’indagine che rifiuta tutte le consolazioni, non può che essere un’indagine crudele? Sono del tutto alieno dal dare una valutazione della civiltà umana, per vari motivi. […] I giudizi di valore degli uomini sono guidati esclusivamente dai loro desideri di felicità, sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni. […] Mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti49.

Le lacrime di Eros Se l’eccitazione si affianca alla morte, la fisicità non si distingue dallo spirito, il piacere va di pari passo con la violenza, allora l’erotismo stesso è crudeltà. Attardarsi su questo aspetto non è perverso voyeurismo. Una storia lontana nel tempo e nello spazio ci costringe a indagare – con lucida malvagità – che cosa si nasconda dietro al mondo attraente-respingente dell’erotismo. «L’erotismo – dice Bataille – può essere fatto oggetto di indagine solo se, indagando su di esso, si indaghi sull’uomo»50. Per comprendere il legame che unisce crudeltà ed erotismo ci affidiamo proprio alla riflessione di un altro «degli scrittori più importanti del suo secolo»51:

Lo spirito umano è esposto alle più sorprendenti ingiunzioni. Ha sempre paura di se stesso. I suoi impulsi lo terrorizzano. [...] Non penso che l’uomo sia in grado di illuminare e di dominare ciò che lo spaventa. Non credo che l’uomo possa sperare in un mondo in cui non vi sia più motivo di aver paura, in cui l’erotismo e la morte si trovino sul piano delle concatenazioni meccaniche. Ma l’uomo può superare ciò che lo spaventa, può guardarlo in faccia. A questo prezzo egli sfuggirà alla singolare ignoranza di se stesso che finora lo ha caratterizzato52.

49 S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, cit., pp. 279-280. 50 G. Bataille, L’érotisme (1957); trad. it. L’erotismo, ES, Milano 2009, p. 9. 51 Michel Foucault – che ha curato per le edizioni Gallimard la pubblicazione dell’opera completa di Bataille – lo definisce così nella prefazione del primo volume: «on le sait aujourd’hui: Bataille est un des écrivains les plus importants de son siècle» (in G. Bataille, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol. I). 52 G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 9.

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Che cos’è l’erotismo secondo Bataille? È sessualità separata dal proprio fine naturale, staccata dalla riproduzione. La riproduzione cessa di essere il fine della sessualità: «l’erotismo si definisce attraverso l’indipendenza dalla riproduzione e del godimento erotico come fine»53. L’erotismo, quindi, non appartiene all’animale, ma è proprio soltanto dell’uomo: la sessualità dell’animale non «mette il suo essere in questione»54. Quando parliamo di erotismo, parliamo di dépense55: dispendio senza contropartita, spreco senza scopo. Un’esperienza svincolata da ogni finalità e da ogni funzione; qualcosa che esce dal sistema dell’utile in cui normalmente viviamo. Erotismo come fusione, come superamento del personale e dell’individuale, come «possibilità di sostituire all’isolamento dell’individuo, alla sua discontinuità, un sentimento di profonda continuità»56. L’atto sessuale è sintetico di tutte le contraddizioni, rompe la discontinuità tra due persone: «il passaggio dallo stato normale a quello del desiderio erotico presuppone in noi la dissoluzione relativa dell’essere costituito nell’ordine del discontinuo»57. Passaggio, stato di con-fusione, di indistinguibilità delle forme: Ciò che viene messo in gioco nell’erotismo, è sempre una dissoluzione delle forme costituite […], una dissoluzione di quelle forme della vita sociale, disciplinata, che fondano l’ordine discontinuo delle individualità definite che noi siamo58.

Una rottura panica del principium individuationis. La fusione erotica è un’infrazione della discontinuità che annulla la distanza tra un essere e un altro, accede a una totalità59 che può darsi solo nella lacerazione dell’individuo. Una deflagrazione del soggetto che è anche una violazione, una 53 Ivi, p. 14. 54 Ivi, p. 29. 55 La dépense è parola intraducibile in italiano, che forse può avere un equivalente in “dispendio”. Bataille trae la nozione di dépense, lo “spreco sacro”, dalla lettura del Saggio sul dono dell’antropologo Marcel Mauss (cfr. Saggio sul dono, forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002). La nozione di dépense venne utilizzata anche da Lévi-Strauss nella reinterpretazione dei rituali del Kula e del Potlatch, popoli di alcune isole del Pacifico Occidentale e delle native tribù americane. 56 G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 17. 57 Ivi, pp. 18-19. 58 Ivi, p. 19. 59 «Ossessione di una totalità originaria che ci unisca all’essere complessivo» (Ivi, p. 17).

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crudeltà che fa a pezzi la carne e rompe con l’integrità del singolo soggetto. Erotismo come distruzione e costruzione, violazione delle individualità che si scopre incompiuta: Nella misura in cui gli esseri sembrano perfetti, restano isolati, chiusi in se stessi. Ma la ferita dell’incompiutezza li apre. Attraverso ciò che si può chiamare incompiutezza, nudità animale, ferita, i diversi esseri separati comunicano, prendono vita perdendosi nella comunicazione dall’uno all’altro60.

Ma da che cosa nasce questa “esperienza interiore”61 prossima all’Impossibile? L’erotismo nasce dalla sessualità inibita, dal gioco dei divieti e delle proibizioni: fonda l’umanità e la fonda nella trasgressione. Nell’uomo che ha edificato l’universo razionale sussiste un fondo ineliminabile di violenza: La natura stessa violenta e, per ragionevoli che noi si divenga, possiamo sempre cadere preda di una violenza che non è la violenza naturale, ma la violenza di un essere che ragiona, che ha tentato di obbedire alla ragione, ma ha finito per soccombere a impulsi che egli non è riuscito nel suo intimo a ridurre alla ragione62.

Il mondo profano, quindi, si struttura sul divieto della violenza. Le due interdizioni fondamentali che riguardano la violenza, per Bataille, sono la funzione sessuale e la morte. Anche i tabù che interessano il sangue mestruale e il parto sono fondati – come il divieto dell’incesto – «sull’orrore informe della violenza. Questi liquidi sono generalmente ritenuti manifestazioni di una violenza interna. Già il sangue è simbolo di violenza»63. 60 G. Bataille, Le coupable / L’alleluiah (1973); trad. it Il colpevole / L’Alleluia, Dedalo, Bari 1989, p. 39. 61 «Per esperienza interiore intendo ciò che abitualmente vien detta esperienza mistica: gli stati di estasi, di rapimento, quanto meno di emozione meditata. Ma penso meno all’esperienza confessionale, cui si è dovuti sinora attenere, che a un’esperienza nuda, libera da legami, anche di origine, con qualsiasi confessione. Ecco perché non mi piace la parola mistica. […] L’esperienza interiore risponde alla necessità in cui mi trovo – l’esistenza umana con me – di porre tutto in causa (in questione) senza ammettere tregua» (G. Bataille, L’esperienza interiore, cit. p. 29). 62 G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 39. 63 Ivi, p. 51.

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Violenza e riproduzione, morte e vita, ma anche crudeltà ed eccitamento sessuale: il disgusto per la materia immonda da cui nasce la vita ha un’affinità profonda con il desiderio erotico64. Coppie antitetiche indissolubilmente legate: Se noi individuiamo nei divieti fondamentali il rifiuto che oppone l’essere alla natura concepita come orgia di energia vivente e opulenza di annientamento, non possiamo più avvertire differenze tra la morte e la sessualità65.

L’erotismo come esperienza interiore, quindi, prende forma proprio «a partire dall’angoscia che accompagna il divieto e dal desiderio che spinge alla trasgressione del divieto»66. Due movimenti contraddittori si contrappongono e si fondono: «l’uno di terrore, che respinge, l’altro di attrazione, che comanda il rispetto affascinato»67. L’umanità contrasta l’esuberanza sessuale perché si fonda su una “laboriosità” che ha subordinato tutte le forme che sfuggono alla logica dell’utile68: L’umanità del tempo umano, anti-animale, del lavoro, costituisce, in noi, ciò che ci riduce a cose e l’animalità è invece ciò che conserva in noi il valore di una esistenza del soggetto in sé e per sé. […] L’“animalità”, ovvero l’esuberanza sessuale, è in noi ciò per cui non possiamo essere ridotti a cose. L’“umanità”,

64 «Il disgusto che provocano la decomposizione della carne, – commenta Mario Perniola – il sangue mestruale, le deiezioni alvine, il brulicare immondo delle materie mobili, fetide e tiepide in cui finisce e da cui nasce la vita, presenta un’affinità profonda col desiderio erotico, per quanto difficile da cogliere e da determinare nella sua essenza» (M. Perniola, L’iconoclasma erotico di Bataille, in G. Bataille, Le lacrime di Eros, Arcana, Roma 1973, p. 141). 65 G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 59. 66 Ivi, p. 37. 67 Ivi, p. 65. 68 «Mi sembra tuttavia difficile affrontare il passaggio dalla natura alla cultura attenendosi ai limiti della scienza obiettiva, la quale isola, astrae i propri punti di vista. Con tutta probabilità, il desiderio di tali limiti si manifesta nel fatto di parlare non già dell’animalità, bensì della natura, e non già dell’uomo, bensì della cultura. Ciò significa passare da un pensiero astratto a un altro, significa escludere l’istante in cui la totalità dell’essere è coinvolta in un mutamento. Mi sembra difficile cogliere tale totalità in uno stato, o in più stati enumerati l’uno dopo l’altro, e il mutamento determinato dall’avvento dell’uomo non può essere isolato dal divenire dell’essere complessivo, di ciò che entra in gioco se l’uomo o l’animalità si contrappongono in una lacerazione che esprime la totalità dell’essere lacerato» (Ivi, p. 201).

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al contrario, in ciò che essa ha di specifico, nel tempo del lavoro, tende a fare di noi delle cose, a spese dell’esuberanza sessuale69.

Il desiderio erotico, quindi, rimane come traccia di una straziante nostalgia per questa dimensione perduta per sempre: L’uomo è l’animale che non si limita ad accettare il dato naturale, che giunge a negarlo. In tal modo egli modifica il mondo naturale, ne ricava utensili e fabbrica oggetti che costituiscono un mondo nuovo, il mondo umano. Parallelamente, l’uomo nega se stesso, si educa, rifiuta ad esempio di dare alla soddisfazione dei propri bisogni naturali quel libero sfogo a cui l’animale non poneva alcuna riserva. È inoltre necessario riconoscere che le due negazioni dell’uomo, da un lato quella del mondo esterno e dall’altro quella della sua stessa animalità, sono strettamente legate70.

L’erotismo e la morte – misteri rivestiti di crismi attrattivo-repulsivi – sono il ricordo di questa dimensione naturale: La sessualità e la morte non sono che le fasi culminanti di una festa che la natura celebra con la moltitudine infinita delle creature viventi; e l’una e l’altra danno il senso dello spreco illimitato che la natura contrappone al desiderio di sopravvivere, proprio di ogni essere71.

La trasgressione del divieto che fonda la civiltà – specifica, però, Bataille – «non è il “ritorno alla natura”: essa sospende il divieto senza eliminarlo»72. È una trasgressione organizzata. Il divieto, quindi, è intrinsecamente legato al sacro: «il divieto non può sopprimere le attività necessarie alla vita, ma può conferir loro il senso della trasgressione religiosa»73. Il mondo profano dei divieti si contrappone e si completa con il mondo sacro che si apre alle trasgressioni limitate74. Bataille riprende le riflessioni di Roger Callois sulla dicotomia sacro-profano che organizza e scandisce la vita comunitaria. Il sacro – le forze misteriose alle quali si chiede protezione, ma dalle quali è necessario proteggersi – va mantenuto separato dal profano: ogni mescolanza minaccia l’ordo rerum. Un rigido sistema 69 70 71 72 73 74

Ivi, p. 151. Ivi, p. 202. Ivi, p. 59. Ivi, p. 35. Ivi, p. 72. Ivi, p. 65.

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di tabù e di riti mantiene la separazione che impedisce il ritorno al caos primigenio. Ma per rivivificare queste strutture e impedire che si allentino è necessaria una provvisoria reimmersione nel caos: la festa. Nella festa il sacro interrompe il profano: ogni divieto è infranto, il mondo è capovolto, ogni trasgressione è prescritta75. La festa – punto culminante dell’attività religiosa – disciplina ritualmente gli impulsi, dà forma alla trasgressione. La trasgressione della festa non è «il ritorno alla libertà primitiva. La trasgressione è la caratteristica dell’umanità che l’attività laboriosa organizza. La trasgressione stessa è organizzata»76. L’erotismo ha un carattere sacro77, è un «desiderio che trionfa sul divieto» che contrappone l’uomo a se stesso78. L’erotismo, sotto questo aspetto, non è molto diverso dalla crudeltà. La crudeltà, infatti, non è violenza animale79, è una violenza mediata e specificamente umana che organizza l’oblio del divieto: La violenza, che non è in se stessa crudele, lo diviene nella trasgressione specifica di chi l’organizza. La crudeltà è una delle forme della violenza organizzata. Essa non è necessariamente erotica, ma può scivolare verso altre forme di violenza organizzate dalla trasgressione. Come la crudeltà, anche l’erotismo è mediato. La crudeltà e l’erotismo si ordinano nello spirito di chi è risoluto a oltrepassare i limiti del divieto. […] La crudeltà può scivolare verso l’erotismo, così come eventualmente il massacro dei prigionieri può concludersi con il cannibalismo80.

75 Cfr. R. Callois, L’homme et le sacre (1939); trad. it. L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001. La società moderna – secondo Callois – ha ridotto e interiorizzato lo spazio del sacro: la festa non esiste più, i riti sono totalmente de-sacralizzati. L’uomo moderno, orfano del sacro, ritrova il contatto con questa dimensione dimenticata nel momento della guerra: le sconvolgenti testimonianze riportate descrivono la guerra come un’esperienza di esaltazione, di ebbrezza, di vertigine (cfr. R. Callois, La vertige de la guerre (1951); trad. it. La vertigine della guerra, a cura di U. Curi, Città Aperta, Roma 2002). 76 G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 103. 77 «Il carattere sacro dell’erotismo ha potuto farsi luce giacchè il sentimento sacro dominava la vergogna» (Ivi, p. 129). 78 «Il desiderio dell’erotismo è il desiderio che trionfa sul divieto. Esso presuppone la contrapposizione dell’uomo a se stesso» (Ivi, p. 237). 79 «Crudeltà di cui gli animali sono incapaci […] Questa crudeltà è l’aspetto specificamente umano della guerra» (Ivi, p. 75). 80 Ivi, p. 77.

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Erotismo e crudeltà non sono un vero e proprio ritorno all’animalità, ma sospendono il divieto senza eliminarlo81: «permane sempre una riserva che afferma il carattere umano della violenza, per quanto sfrenata essa sia»82. Il sacrificio è una forma sacra di crudeltà. Il sacrificio non è altro che una sospensione legittima del divieto dell’omicidio. Il rito solenne rappresenta83 la morte di un essere incompleto; rivela finalmente la dimensione perduta della «totalità dell’essere»84: la realtà del sacrificio consiste nel ravvicinare vita e morte, «nel conferire alla morte il trasalimento della vita, alla vita la pesantezza, la vertigine e l’apertura della morte»85. Il sacrificio istituisce un rapporto nuovo tra il soggetto e l’oggetto che non è più fondato sul consumo produttivo, la vittima è strappata al suo essere oggetto ed è restituita al mondo sacro. Lo stesso brulichio degli organi che affiora nel sacrificio avviene tramite la convulsione erotica: Essa libera organi pletorici i cui ciechi giochi continuano al di là della volontà riflessiva degli amanti. I movimenti animali degli organi gonfi di sangue prendono il posto di questa volontà riflessiva. Una violenza che la ragione più non controlla anima questi organi, li tende fino allo spasimo e all’improvviso la gioia dei cuori cede al superamento di questa tempesta. Il movimento della carne è, in noi, quest’eccesso che s’oppone alla legge della decenza86.

81 «Non è il “ritorno alla natura”: essa sospende il divieto senza eliminarlo» (Ivi, p. 35). 82 Ivi, p. 77. 83 «La letteratura si situa infatti al seguito delle religioni, di cui è erede. Il sacrificio è un romanzo, un racconto, illustrato in maniera cruenta. […] Il rito è la rappresentazione, ripresa a date fisse, di un mito, ossia in sostanza della morte di un dio» (Ivi, p. 84). 84 Ivi, p. 80. 85 «Noi mangiamo ormai soltanto carni preparate, inanimate, astratte dal brulichio organico che in esse si manifestava all’inizio. La realtà del sacrificio legava il fatto di mangiare alla verità della vita rivelata nella morte» (Ivi, p. 89). 86 Ibid.

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Anche le orge rituali87 si inseriscono in questa esperienza sacra dell’eccesso che scardina i divieti su cui si fonda la civiltà. L’orgia88 – argomenta Bataille – è il luogo dell’«effusione religiosa»: Anzitutto disordine dell’essere che si perde e non oppone più nulla alla scatenata proliferazione della vita. Questo immenso scatenamento parve divino, tanto innalzava l’uomo al di sopra delle condizione a cui s’era volontariamente condannato. Disordine di grida, disordine di gesti violenti e di danze, disordine di amplessi, disordine infine di sentimenti, che suscitava una convulsione senza misura. Le prospettive della perdita rendevano necessaria questa fuga nell’indistinto, in cui gli elementi stabili dell’attività umana scomparivano, in cui non v’era più nulla che rimanesse saldo89.

L’erotismo è in sé stesso una trasgressione. Una trasgressione dell’interdetto in cui anche la scrittura diventa denudamento. E la nudità non è altro che una forma oscena e crudele di incrinatura consapevole della nostra incompiutezza: L’azione decisiva è il denudamento. La nudità si oppone allo stato di chiusura, vale a dire allo stato di esistenza discontinua. È uno stato di comunicazione, che rivela la ricerca di una possibile totalità dell’essere al di là del ripiegamento su se stesso. I corpi si aprono alla continuità grazie a quegli organi celati che ci fanno conoscere il sentimento dell’oscenità. L’oscenità è lo squilibrio che sconvolge uno stato dei corpi conforme al possesso di sé, al possesso di una individualità solida e duratura90.

La bellezza si realizza pienamente solo nel momento della sua profanazione91: nell’esposizione spudorata della sua nudità davanti ai senatori, ma

87 «L’erotismo orgiastico è per sua stessa essenza un eccesso pericoloso. Il suo contagio esplosivo minaccia indistintamente tutte le possibilità vitali. Il rito primitivo voleva che le Menadi, in una crisi di ferocia, divorassero vivi i loro piccoli. Più tardi, la cruenta onofagia dei capretti, che prima le Menadi allattavano, ricordava questo atto abominevole» (Ivi, p. 108). 88 «L’origine dell’orgia non va ricercata nel desiderio di abbondanti raccolti. L’origine dell’orgia, della guerra e del sacrificio è la stessa: è determinata dall’assenza di divieti che s’opponevano alla libertà della violenza omicida o della violenza sessuale» (Ivi, p. 109). 89 Ibid. 90 Ivi, pp. 18-19. 91 «La bellezza ha soprattutto valore perché la bruttezza non può essere profanata, laddove l’essenza dell’erotismo risiede appunto nella profanazione. L’umanità, significativa del divieto, è trasgredita nell’erotismo: è trasgredita, profanata,

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soprattutto nello smembramento del suo corpo che mette in mostra la vita oltre la pelle. Le superfici dei corpi sono soltanto la parvenza, l’immagine, la maschera; egli porta così alle estreme conseguenze il movimento erotico del denudamento: portare all’esterno, aprire, scorticare e viceversa essere esposti, aperti, scorticati, significa perdersi in un abisso che spezza la quieta rotondità ingannevole dei corpi92.

La nudità ha un carattere perturbante di disordine e di violenza: la bellezza del nudo è sempre impura, rimanda a una lacerazione, anzi, impone di essere crudelmente “aperta” e profanata. L’apertura del corpo è duplicemente intesa: apertura come infinità del possibile e apertura come ferita, squarcio che attenta all’integrità. La forma del nudo non può essere separata dall’inquietante presenza del desiderio93: l’esibizione della nudità è legata alla pulsione crudele della sua apertura e profanazione. Ritorna la necessità/impossibilità di unificare universi contrastanti. È possibile – si chiede Didi-Huberman nel suo saggio Aprire Venere – «pensare insieme – senza speranza di poterle mai unificare – l’armonia o la bellezza da una parte e l’effrazione o la crudeltà dall’altra? Struttura o ferita? Forma o informe? Accordo o conflitto?»94. Anche l’“oscenità”, quindi, ha un’origine convenzionale: Non esiste un’ “oscenità” in sé, come esiste il “fuoco” o il “sangue”, ma solo come esiste, ad esempio, un “oltraggio al pudore”. Una certa cosa è oscena se una particolare persona la giudica tale: non si tratta esattamente di un oggetto, bensì della relazione tra un oggetto e lo spirito di una persona95.

Lo dimostrano le immagini sconvolgenti dell’ultimo Bataille. Il filosofo ricostruisce una storia alternativa dell’erotismo in un catalogo eterogeneo della storia dell’arte universale: dalle misteriose immagini delle grotte di guastata. Maggiore è la bellezza, più profonda è la profanazione» (Ivi, pp. 139-140). 92 M. Perniola, L’iconoclasma erotico di Bataille, cit., p. 143. 93 Non si può, cioè, «mantenere il giudizio e dimenticare il desiderio, mantenere il concetto e dimenticare il fenomeno, mantenere il simbolo e dimenticare l’immagine, mantenere il disegno e dimenticare la carne» (G. Didi-Huberman, Ouvrir Venus. Nudité, rêve, cruauté (1999); trad. it. Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Einaudi, Torino 2001, p. 8). 94 Ivi, p. 29. 95 Ivi, p. 203.

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Per un’est-etica crudele

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Lascaux alle terribili foto dell’estasi di un suppliziato cinese. Attraverso la pittura, la fotografia e il romanzo siamo esposti – con passione e tremore – al culmine dell’orrore96 che supera le contrapposizioni tra il piacere e il dolore, tra l’erotismo e la morte: una congiunzione crudele che avviene nel disordine delle risate97 e dei singhiozzi, nell’eccesso di dolore e voluttà98. L’essere aperto alla morte, al supplizio, alla gioia, aperto senza riserve, l’essere aperto e morente, dolorante e felice, già appare nella sua luce velata; e questa luce è divina. E il grido che, con la bocca contorta, quest’essere vuol far udire, forse invano, è un immenso alleluia perduto nel silenzio senza fine99.

L’incontro dell’erotismo con la crudeltà – considerato in un primo momento patologico e anormale – è rivelatore di un originario legame che non siamo in grado di guardare senza paura. Dépense Che cosa emerge da questo tormentato itinerario sospeso tra Nietzsche e Freud? La crudeltà, possiamo ormai ammetterlo, è cosa affascinante e terribile. Crudeltà è sanguis: una violenza che scorre sotto la pelle, è sangue del nostro sangue. Il cammino verso la crudeltà va oltre l’epidermide, al di là di ciò che delimita il corpo, supera la membrana che ci protegge. La crudeltà è duplice come la natura dell’uomo che non può mai essere in accordo con il mondo e con se stesso. La crudeltà è contraddittoria come la filosofia che – non potendo pervenire al Sapere Assoluto – rimane interpretazione aperta e inesauribile.

96 «La coscienza umana – nell’orgoglio e nell’umiltà, con passione e con tremore – deve aprirsi al culmine dell’orrore. – aprire la coscienza umana alla conoscenza di sé» (G. Bataille, Les larmes d’Éros (1961); trad. it. Le lacrime di Eros, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 160). 97 Il desiderio sessuale è associato al riso: «il riso non è come sembra il contrario delle lacrime: l’oggetto del riso e l’oggetto delle lacrime si riferiscono sempre a qualche tipo di violenza, che interrompe il corso regolare, il corso abituale delle cose» (Ivi, p. 17). 98 «Nel disordine delle mie risate e dei miei singhiozzi, nell’eccesso dei trasporti che mi spezzano, la similitudine tra l’orrore e una voluttà che mi eccede, tra il dolore finale e una gioia insostenibile» (Ivi, p. 4). 99 G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 250.

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Filosofia della crudeltà

La vita e la filosofia sono costrette a confrontarsi con la crudeltà e a esplorare le reciproche frontiere in modo ostinato e doloroso rinunciando alla loro “purezza”. Soltanto l’esperienza artistica è la bussola di questo confronto oltre i confini della ratio. Gli eccessi crudeli dell’arte avvicinano asintoticamente alla visione del magma che circonda la crudeltà. L’arte – ci insegna Bataille – è una forma di dépense100. Un luogo di contraddizione, di sintesi dei contrari: frammentazione e pienezza, orrore e godimento. Bataille parla di una festa “inutile”: che non è funzionale a uno scopo né è adatta a esigenze conservative. L’arte mette a morte le forme chiuse, mette tutto irrecuperabilmente “in questione”. Consente di oltrepassare il confine tra la polis e la silva, tra la civiltà e la ferinità. Questo stato di transito prende la forma del gioco e della festa: È lo stato di trasgressione che il desiderio vuole, è l’esigenza di un mondo più ricco e prodigioso, l’esigenza, in una parola, di un mondo sacro. La trasgressione si traduce sempre in forme prodigiose: ovvero nella musica, nella poesia, nella danza, nella tragedia e nella pittura. L’arte non ha altra origine che la festa, in ogni tempo, e la festa, che è religiosa, si lega al dispiegarsi di tutte le risorse dell’arte. Non possiamo immaginare un’arte indipendente dal movimento che generò la festa101.

L’emozione festosa viola e tortura la nostra falsa solidità e unità. L’arte, quindi, è un “esercizio di crudeltà” che rompe i limiti, forza le identità, le leggi, le forme. È una festa “crudele” che ci apre alla meraviglia e all’orrore:

100 Bataille individua tutte le attività che determinano un dispendio, una dépense: l’orgia, la festa, l’estasi, lo stato di trance, l’effusione erotica, il riso. Sono “piccole morti” che generano aperture tra gli individui: c’è un contatto tra ferite aperte che sospende la discontinuità tra gli esseri. Nella nota Prefazione a Madame Edwarda: «La vita ci è data in un superamento intollerabile dell’essere, non meno intollerabile della morte. E al momento che nella morte l’esistenza ci viene concessa nell’attimo stesso in cui ci è negata, dovremo cercarla nel senso della morte, negli insopportabili momenti in cui ci sembra di morire, dato che l’essere vi persiste solo per eccesso, allorchè la pienezza del ribrezzo e quella della gioia vengono a collimare» (G. Bataille, Madame Edwarda (1937); trad. it. Madame Edwarda, Gremese, Roma 1998, p. 20). 101 Id., La peinture préhistorique. Lascaux ou la naissance de l’art (1955); trad. it. Lascaux. La nascita dell’arte, Mimesis, Milano 2007, p. 45.

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Per un’est-etica crudele

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Non c’è dubbio che l’arte abbia essenzialmente il senso della festa, e appunto, nell’arte come nella festa, sempre una parte è stata riservata a ciò che sembra l’opposto del festeggiamento e del piacere. [L’arte] resta aperta alla rappresentazione di ciò che ripugna102.

Un orrore ripugnante che ha il potere di trasformarsi nel suo opposto: «quando l’orrore è proposto alla trasfigurazione di un’arte autentica, quel che è in gioco è un piacere, un piacere forte»103. Questo strano “piacere” è ciò che ci inquieta, ciò che dobbiamo mettere in questione senza pudori e censure104: «dobbiamo riflettere sulla fascinazione che proviamo per poter scoprire il mondo di lassù e quello che siamo, in una prospettiva che superi il tranello»105. Per operare questa scoperta dobbiamo interrogare l’essenza della crudeltà che governa questa attrazione-repulsione. Naturalmente va abbandonata ogni definizione superficiale: Ciò che ci sconcerta è l’idea troppo semplice che ci facciamo della crudeltà. In generale chiamiamo crudeltà quel che non abbiamo il coraggio di sopportare, e quel che sopportiamo facilmente, quel che per noi è comune non ci sembra crudele. Tanto che chiamiamo sempre crudeltà quella degli altri e, non potendo tuttavia fare a meno di crudeltà, la neghiamo non appena è la nostra. Debolezze che non sopprimono niente, ma rendono difficile il compito di colui che cerca nei suoi percorsi il movimento del cuore umano106.

La crudeltà è diventata un giudizio di valore utile per esorcizzare ciò che suscita terrore. Crudele è ciò che non corrisponde al nostro sentire personale e al nostro contesto culturale: «l’azteco avrebbe negato la crudeltà degli omicidi sacri commessi a migliaia. Il sadico al contrario, si dice e si ripete con delizia che la flagellazione è crudele»107. Bataille mette in guardia da ogni facile stigmatizzazione: negare l’esistenza di una radice crudele – che non riusciamo a comprendere e a razionalizzare – non significa eliminarla108. Gli elementi caotici, legati alla cru102 Id., L’Art, exercise de la cruauté (1949); trad. it. L’arte esercizio di crudeltà, in L’Aldilà del serio e altri saggi, Giuda, Napoli 2000, p. 232. 103 Ivi, p. 231. 104 «Bisogna scegliere la via ardua, movimentata – quella dell’“uomo intero”, non mutilato» (Id., L’esperienza interiore, cit., p. 57). 105 Id., L’arte esercizio di crudeltà, cit., p. 233. 106 Ivi, p. 233. 107 Ibid. 108 «A seconda dei nostri mezzi (le nostre usanze, la nostra forza), amiamo distruggere solo oscuramente, ricusiamo le distruzioni terribili e rovinose, o almeno quelle

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Filosofia della crudeltà

deltà, non sono riducibili ai principi idealistici della ragione: nella materia c’è qualcosa di refrattario a qualsiasi riduzione intellettuale. L’arte è in grado di porci di fronte a questo abisso: ci mostra – senza metterci in pericolo, senza ucciderci109 – una distruzione che ci affascina e ci spaventa. Risponde al nostro desiderio di cogliere qualcosa al di là delle apparenze ponendoci in un tempo sospeso, consegnandoci a una sorta di temporaneo rapimento110 in cui si sospendono i giudizi di valore. Ebrezza moltiplicata, che attraversa l’opacità del mondo con lampi apparentemente crudeli, dove la seduzione si lega al massacro, al supplizio, all’orrore non è apologia di fatti orribili. Non è un appello affinché tornino. Ma nell’impasse inspiegabile in cui ci muoviamo, questi momenti folgoranti – che sono promesse di soluzione solo per falsa apparenza, che ci promettono solo che finiremo in trappola – invano portano in sé nell’istante del rapimento tutta la verità dell’emozione111.

Bisogna sfuggire alla tentazione di interpretare questa emozione crudele – che racchiude il senso di una vita, che non può essere chiusa nei limiti della ragione – come un invito a compiere un’azione crudele. L’arte è al di là delle categorie di “bene” e “male”. Invita a una comprensione al di là di ogni giudizio: «il suppliziato dei quadri non tenta di correggerci. L’arte non assume mai i compiti del giudice. Non è neanche immaginabile che essa guidi di per sé il nostro interesse verso un qualche orrore»112. Nei saggi de La letteratura e il male Bataille indaga la natura profondamente “irresponsabile” di testi che denudano il cuore crudele dell’esistenza: La letteratura è l’essenzialità o non è niente. Il Male – una forma acuta del Male – che si esprime in essa, ha per noi, credo, valore sovrano. Tuttavia questa concezione non esige un’assenza di morale: essa esige piuttosto una “ipermorale”113. che ci sembrano tali. Ci accontentiamo dell’impressione poco cosciente di distruggere» (Ivi, p. 234). 109 «Doppia impasse: da un lato il soggetto deve essere distrutto, dall’altro dalla distruzione totale si giunge alla soppressione – arte ci lascia sulla via di un completo scomparire – e lasciandoci là per un tempo di sospensione – propone all’uomo un rapimento che è il più chiuso dei tranelli» (Ibid.). 110 «Un trionfo è promesso a chi salta nell’irrisolutezza dell’istante» (Ibid.). 111 Ivi, p. 236. 112 Ivi, p. 231. 113 G. Bataille, La letteratura e il male, cit., p. 11.

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Per un’est-etica crudele

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La letteratura svela «l’esistenza di un impulso di divina ebbrezza, che il mondo ragionato del calcolo non può sopportare»114. L’esercizio della crudeltà oltre i limiti della ragione, oltre l’ordine della civiltà115 è un compito ineludibile: Alla vita qualche volta è necessario non il fuggire le ombre della morte, ma il lasciarle ingrandire in sé, fino ai limiti dell’esistenza, fino alla morte stessa. […] A questo fine servono le arti, il cui effetto, nelle sale di spettacolo, è di portarci al più alto grado di angoscia. Le arti – o almeno alcune di esse – ci evocano incessantemente questi disordini, questi strazi e questi decadimenti, che tutta la nostra attività ha lo scopo di evitare116.

La letteratura consente la contemplazione della crudeltà. Un’esposizione che ci ricongiunge all’intimità della vita: la contemplazione del sacrificio cruento, della mancata fusione erotica, dell’oscenità che distrugge il bello. Si ristabilisce una comunione sacra e terribile. Il terreno di una comune percezione del male che unisce autore e lettore non conduce al perseguimento del crimine, ma al sacrificio del proprio utile. La dépence dell’arte della crudeltà traccia un tempo in cui non esiste l’ordine della razionalità utilitarista. Mischiatemi a voi, pirati! Anche Alain Badiou dedica un capitolo del suo Il Secolo alla crudeltà e al suo rapporto con l’arte del Novecento. La vera passione del Novecento – afferma il filosofo francese – è il reale inteso come «antagonismo»117. Uno scontro che attraversa la storia come un’Iliade soggettiva: la crudeltà «è stata spesso constatata e denunciata, ma sempre per quanto riguarda il campo avverso»118. L’arte del Novecento ha filtrato questa crudeltà esponendola come “finzione reale”, come “maschera” identitaria della realtà. Gli artisti compiono 114 Ivi, p. 21. 115 «In questa coincidenza dei contrari, il Male non è più, come è dentro i limiti della ragione, il principio opposto in modo irrimediabile all’ordine naturale. [...] L’essere non è votato al Male, ma deve, se lo può, non lasciarsi chiudere nei limiti della ragione» (Ivi, p. 28). 116 Ivi, p. 61. 117 A. Badiou, Le siècle (2005); trad. it. Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 51. 118 Ivi, p. 64.

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Filosofia della crudeltà

un’effrazione rivelante che si limita a indicare – non a spiegare né a giustificare – la crudezza del reale. L’arte è ovunque «poiché l’intera esperienza umana è attraversata dallo scarto tra la dominazione e l’ideologia dominante, tra il reale e la sua finzione»119. La crudeltà è il tema privilegiato di questo “scarto” e si impone come una vera e propria “categoria estetica” ineludibile: Potremmo anche ricollegare questa insistenza della crudeltà nelle arti all’onnipresenza della crudeltà negli stati, ma sarebbe un po’ sommario. Il punto da considerare è la crudeltà sia come materia, sia come sorgente di produzione letteraria. Nel secolo, la crudeltà è stata meno una questione morale che una questione estetica120.

Secondo Badiou, i versi dell’Ode Marittima di Ferdinando Pessoa sono un esempio privilegiato di questa estetica crudele. Il poeta portoghese si firma con lo pseudonimo di Alvaro de Campos121, un ingegnere navale, un uomo tranquillo e metodico la cui vita è scandita da orari precisi, dai ritmi del quotidiano dovere. Una mattina presto, però, sulla banchina del porto, un piroscafo entra nell’estuario del Tago: inizia il sogno allegorico descritto nella lirica. La voce del poeta ricostruisce le brutalità di cui l’uomo si è reso protagonista, i crimini compiuti dall’umanità contro se stessa. Ma alla denuncia si accompagna un piacere irrefrenabile per queste crudeltà, un desiderio di assumersene la colpa e il merito. L’“io” esprime una volontà di arrivare in porti straordinari, svestire il proprio abito civilizzato, subire e compiere le più atroci violenze. Il sogno diventa un incubo liberatorio: la crudeltà è temuta e desiderata. Cadono le inibizioni ed esplode una irreprimibile vitalità che si esprime nelle forme più estreme e crudeli, nel desiderio di un contatto fisico con il male e con il dolore del mondo. Il poeta non vuole sottrarsi e dimenticare: vuole mescolarsi ai pirati. Ah pirati, pirati, pirati! Pirati, amatemi e odiatemi! Mischiatemi a voi, pirati! / La vostra furia, la vostra crudeltà parlano al sangue / di un corpo di donna che un tempo fu mio e la foia del quale sopravvive! / […] E c’è una sinfonia di sensazioni incompatibili e analoghe, / c’è nel mio sangue un’orchestra di una baraonda di crimini, / di strepiti spasmodici di orge di sangue nei mari, / furio119 Ivi, p. 65. 120 Ivi, pp. 130-131. 121 F. Pessoa, Ode marítima (1915); trad. it Ode marittima (1915), in Poesie di Álvaro de Campos, Adelphi, Milano 2000, pp. 66-127.

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Per un’est-etica crudele

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samente, come una tempesta di calore nell’anima, / nube di polvere calda che offusca la mia lucidità / e che mi fa vedere e sognare tutto questo con la pelle e le vene! […] Ah, essere tutto nei crimini! essere tutti gli elementi componenti / degli assalti alle navi e dei massacri e degli stupri! / Essere quanto accadde nel luogo dei saccheggi! / Essere quanto visse o giacque nel luogo delle tragedie di sangue! / Essere il pirata-sunto di tutta la pirateria nel suo apogeo, / E la vittimasintesi, ma in carne e ossa, di tutti i pirati del mondo! […] La carne dilaniata, la carne aperta e sventrata, il sangue che scorre! / Adesso, nell’apogeo conciso del sogno di ciò che voi fate, / mi perdo da me stesso, non vi appartengo più, sono voi, / la mia femminilità che m’accompagna è essere le vostre anime122!

Badiou contrappone la solitudine dell’“io” all’appello collettivo del “noi”: l’io si sottomette volontariamente – con piacere e non per passivo consenso – alla furia del noi «animato dall’ansia delle cose assolutamente crudeli e abominevoli»123. In questi versi c’è «una sorta di naturalizzazione cosmica dell’“io” nel “noi” della crudeltà orgiastica»124. L’“io” entra in connessione con il “noi”, ma vi sussiste come problema interno. L’energia liberata dalla dissipazione dell’“io” nello sprofondamento nella crudeltà si contrappone all’inerzia della vita pacifica. L’abbandono estatico è la negazione della comune vigliaccheria: L’ostacolo al divenire estatico del “noi” furente è la vita “pacifica” o “seduta”. Ora, è precisamente questa la vita che oggi viene glorificata. Niente merita che ci si strappi alla vigliaccheria quotidiana, e meno che mai l’Idea o il “noi”, sempre a rischio di venire liquidati come “fantasmi totalitari”125.

A questo abbandono – crudele e liberatorio – tra le braccia di un’Idea potente126 corrisponde un rischio altrettanto crudele127. La verità, impassibile e inesorabile, si incarna in singolarità sofferenti. L’arte denuda la crudeltà di questa infernale dialettica tra l’“io” e il “noi”128: 122 Ivi, pp. 101-103. 123 A. Badiou, Il secolo, cit., p. 138. 124 Ivi, p. 139. 125 Ivi, p. 140. 126 Ivi, p. 142. 127 Badiou cita La linea di condotta di Bertold Brecht: la forza creatrice può trasformarsi di nuovo in passività, più tornare a essere accettazione e tolleranza. Brecht porta sul palcoscenico la giustificazione razionale della crudeltà messa in opera dagli “agitatori” del Partito Comunista – il “noi” – che decidono di liquidare il “giovane compagno” che non è d’accordo – l’“io”. 128 «Solo nell’Idea c’è vera crudeltà, ed è appunto questo l’assetto della crudeltà che tanto affascina i nostri artisti. Oggi sappiamo che quando l’Idea è morta, muore anche il carnefice. Resta da sapere se, dal legittimo augurio che il carnefice muoia,

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Filosofia della crudeltà

La vera dialettica si situa quindi tra crudeltà e impassibilità, l’impassibilità della verità. Il XX secolo sostiene che l’idea impassibile, universale, trascendente, è incarnata in un corpo storico composto di corpi non impassibili, di corpi sofferenti. Come processo, una verità è un corpo nello stesso tempo sofferente (per ciò che lo compone) e impassibile (in quanto idea). A questo punto, la crudeltà non è un problema, ma un momento: quello della congiunzione paradossale tra corpo sofferente e corpo impassibile129.

Gli artisti riscrivono la crudeltà multiforme del secolo prodotta dall’intersezione di una formula e di un istante attraversando fino in fondo questo dolore: Da cosa dipende, in effetti, che oggi si parli pesantemente dell’uomo solo in forma di suppliziato, massacrato, affamato e genocidiato, se non dal fatto che l’uomo non è altro che il dato animale di un corpo la cui attestazione più spettacolare e l’unica vedibile (e noi stiamo nel grande mercato) è, fin dai tempi dei giochi circensi, la sofferenza? Diciamo che ciò che le “democrazie” contemporanee intendono imporre al pianeta è un umanesimo animale. L’uomo vi esiste solo in quanto degno di pietà. L’uomo è un animale che fa pietà130.

Direttamente alla carne Il racconto di Kafka Nella colonia penale del 1914 è breve e fulminante. Descrive un supplizio crudele e atroce. Un soldato, accusato di non aver rispettato l’ordine di un superiore, viene condannato a una terribile morte: una macchina inciderà sul suo corpo il comando non rispettato, “onora il tuo superiore”. Un ago bucherà la pelle del colpevole come un foglio di carta fino a ridurla a brandelli sanguinanti: È una macchina curiosa, disse l’ufficiale all’esploratore, abbracciando con uno sguardo in certo senso ammirato la macchina, che pur conosceva bene. Ma l’esploratore sembrava aver ceduto soltanto per cortesia all’invito del comandante di assistere all’esecuzione capitale di un soldato condannato per insubordinazione e oltraggio al superiore131.

si debba inferire l’imperativo: “Vivi senza Idea”» (A. Badiou, Il secolo, cit., p. 133). 129 Ivi, p. 132. 130 Ivi, p. 193. 131 F. Kafka, In der Strafkolonie (1919); trad. it Nella colonia penale, in Id., Tutti i racconti, vol. II, Mondadori, Milano 1970, p. 26

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Per un’est-etica crudele

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Il supplizio che gli viene inflitto trasforma il suo corpo in un testo dove la legge è iscritta sulla pelle e la giustizia passa per la sofferenza. La macchina «vibrando, trafigge con le sue punte il corpo, che vibra per conto suo nel letto. Per rendere possibile a tutti di controllare l’esecuzione della condanna, l’erpice è fatto di vetro. [...] Ed ora, tutti possono vedere, attraverso il vetro, come l’iscrizione venga segnata sul corpo»132. Il corpo del condannato è ridotto a inerte superficie, a pura estensione, a oggetto manipolabile, a mera aggregazione di organi. La scrittura non si pone più come ingresso dell’interpretazione, ma come strumento mortifero che traccia sulla carne i segni di un potere annientante. Le autorità si servono di una macchina «che incide lettere arabescate sulla schiena dei colpevoli, moltiplica i fori, accumula gli ornamenti, finché la schiena dei colpevoli diventa chiaroveggente, e perviene a decifrare direttamente lo scritto, dalle cui lettere apprenderà il nome della sua colpa sconosciuta»133. Nella società disciplinata – rappresentata dalla colonia penale – c’è la chiusura di qualunque spazio relazionale. Il racconto mette in scena la crudeltà subita da un corpo vivente ridotto a un mero fascio di funzioni slegate tra loro. Il corpo marchiato del suppliziato fa esplodere il sistema “razionale” su cui si fonda la società. La corrispondenza tra la colpa e la pena – la sacra legge della redistribuzione su cui si fonda la civiltà – rivela la sua natura crudele: La macchina della perfetta retribuzione, il perfetto supplicium, si sfascia, si disintegra, impazzisce. La sua mano non incide più sul corpo del condannato, in pazienti, sistematiche volute, la Norma trasgredita, ma affonda come un pugnale assassino. Non retribuisce, ma assassina selvaggiamente. Il condannato non si illumina più, dopo la sesta ora, finalmente redento dalla stessa pena […], ma muore come un cane. […] L’idea retributiva rivela il proprio volto terribile – e lo rivela, come è giusto, sul corpo del proprio stesso ultimo fedele134.

Questa racconto kafkiano intuisce – con bruciante chiarezza – l’essenza dell’arte come esercizio di crudeltà. Il suppliziato è l’artista che decide di incarnare la crudeltà, di esporsi, con la sua vita e la sua opera, per diventare criminalis dramatis personae.

132 Ivi, p. 36. 133 W. Benjamin, Franz Kafka (1955); trad. it. Franz Kafka, per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus, cit., p. 298. 134 M. Cacciari, Due passi all’inferno. Brevi note sul mito della pena, cit., p. 251.

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Filosofia della crudeltà

L’artista è il colpevole; è l’oggetto di riprovazione da parte del pubblico, che – attraverso il vetro – può assistere all’esecuzione e vedere con i suoi occhi l’iscrizione mortale sulla pelle. L’opera d’arte – che sia un quadro, un romanzo, uno spettacolo teatrale o cinematografico – racchiude l’essenza delle azioni crudeli: è cruda, perché proviene da uno spazio e da un tempo che non conoscono la logica della ratio; è sanguinante perché si espone come una vittima sacrificale davanti alla violenza del pubblico. Le metafore surrealiste usate da George Bataille nella Storia dell’occhio riescono a evocare la forza erotica e dolorosa di questo spettacolo sanguinante e crudo: Parlando di corride, Sir Edmond raccontò un giorno a Simone che ancora di recente era abitudine di spagnoli virili, toreri dilettanti d’occasione, chiedere al custode dell’arena i coglioni arrostiti del primo toro. Se li facevano portare al proprio posto, cioè in prima fila, e li mangiavano guardando morire il seguente. Simone fu visivamente interessata a questo racconto e siccome, la domenica successiva, dovevano andare alla prima grande corrida dell’anno, chiese a Sir Edmond i coglioni del primo toro. Ma aveva un’esigenza, li voleva crudi135.

L’arte crudele ha il coraggio di esporre l’oscenità rompendo la forma di un’estetica che non prevede (o meglio, non prevede consapevolmente) la forza dirompente del brutto. Il filo comune è la crudeltà di uno sguardo imbarazzante e abissale. Ogni argomentata indignazione morale, ogni logos che pretenda di dare un ordine raziocinante alla realtà viene violentemente smembrato da un orrore abbagliante. La crudeltà così rappresentata è una critica insostenibile alla forza rocciosa della retorica, del senso comune e delle ovvietà bidimensionali nemiche della vera filosofia. Il terreno dell’arte si trasforma in un luogo “barbaro”, che mette fine alle gerarchie e alle classificazioni: La crudeltà è il cinismo violento che rompe con una dimensione classificatoria, rompe con un’ideologia rappresentata dal linguaggio nell’atto in cui sperimenta nessi reali136.

135 G. Bataille, Histoire de l’œil (1928); trad. it. Storia dell’occhio, Gremese, Roma 2000, p. 97. 136 E. Sanguineti, Per una letteratura della crudeltà, in Id., Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 2001.

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Per un’est-etica crudele

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Nell’opera d’arte la crudeltà assume, quindi, un ruolo determinante e necessario in quanto riesce a rompere un equilibrio e a spezzare un ordine assunto come normale. La crudeltà s’impone strappando, con violenza brutale, il velo dell’esaustività e i vincoli della completezza: rompe, cioè, con ciò che ha il potere di illudere e conservare nel tempo una speranza fallace. Doppiamente crudeli sono tutte le opere che non temono l’esposizione alla sofferenza per recidere le oniriche illusioni e mutilarci dai dolci inganni137. Decostruito il delirio di onnipotenza di progetti pedagogici e politici, sventato il pericolo di rovinose utopie, messe al bando tutte le retoriche filosofiche, rimane il disincantato e crudele spettacolo della nostra finitudine. L’estetica del crudele apre una tensione etica che rifugge dal dogmatismo degli stereotipi, che non pretende un redde rationem, ma lascia bruciare la carne dell’artista e quella dello spettatore. Secondo l’insegnamento di Artaud: Ogni cosa m’importa solo in quanto assale la mia carne, coincide con essa in quel punto in cui la sconquassa, e non oltre. Niente mi tocca, niente m’interessa che non si rivolge direttamente alla mia carne138.

L’arte crudele che asperge gli orli del vaso «non di “soave licor”, bensì di amaro accumulo di sofferenze da cui scaturisce»139, «deve scalzare alla base tutte le ideologie dominanti, che (quasi per definizione) hanno sempre tutelato apparati simbolici apologetici dell’esistente o segretamente subordinati ad esso, propagandando un’arte superficiale, consolatoria, fatua, oppure falsamente ribelle»140. Un frammento dei Diari intimi di Baudelaire testimonia la crudeltà necessaria all’artista per capovolgere ogni “impudente utopia”: Una volta fu chiesto in mia presenza in che cosa consisteva il più grande piacere dell’amore. Qualcuno rispose naturalmente: nel ricevere,- e un altro: nel darsi. – Uno dice: piacere d’orgoglio! – e l’altro: voluttà d’umiltà! Tutti quei 137 Su questa linea Rosset descrive un’etica della crudeltà che appartiene alla filosofia che si compone di due principi: le principe de réalité suffisante e le principe d’incertitude. La crudeltà dell’incertezza è la crudeltà propria della filosofia: ogni verità che pretendesse di essere certa, smetterebbe di essere filosofica, la verità della filosofia è sempre negativa e critica. La filosofia non serve a produrre “il vero”, ma a distruggere il falso (cfr. C. Rosset, Le principe de cruauté, Les éditions de Minuit, Paris 1988). 138 A. Artaud, Pèse-nerfs (1925-1927), trad. it. Pesa-nervi, in Id., Al paese dei Tarahumara e altri scritti, cit., p. 58. 139 R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995, p. 113. 140 Ivi, p. 112.

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Filosofia della crudeltà

maiali parlavano come L’imitazione di Cristo. – Infine si trovò un impudente utopista che affermò che il più grande piacere dell’amore era quello di fabbricare dei cittadini alla patria. Ma io dissi: la voluttà unica e suprema dell’amore consiste nella certezza di fare il male. – E l’uomo e la donna sanno dalla nascita che nel male si trova ogni voluttà141.

Soltanto queste imprese imprudenti e spudorate – che eccedono la mera riflessione antropologia, psicologia e filosofica – affondano nell’enigma della crudeltà. Fuori dal museo Gli artisti cercano di sconvolgere lo spettatore attraverso un’esibizione della crudeltà: una violenza (non necessariamente fisica) senza giustificazione morale che provoca disapprovazione e sconcerto. La comunicazione crudele è l’esposizione della ferita, del liquido organico, dell’organo interno, del rifiuto corporeo. Si apre un orizzonte di possibili esempi. Non bisogna imporre un’essenza comune alla costellazione disomogenea delle manifestazioni che un’estetica autenticamente “crudele” può contemplare. Al contrario, l’eterogeneità dei fenomeni artistici è significativa per il modo disorientante e inaspettato con cui la crudeltà si manifesta. Non bisogna aver paura delle declinazioni contemporanee che non corrispondono al canone della storia dell’arte tradizionale. Gli esempi, infatti, possono andare dalla carne esposta nelle macellerie di Francis Bacon142 ai rituali sadomaso delle foto di Mapplethorpe; dall’umorismo perverso delle caricature di Daumier alle vignette satiriche di Sparagna sulla rivista

141 C. Baudelaire, Journaux intimes (1887); trad. it. Diari intimi, Mondadori, Milano 1970, p. 47. 142 Per una lettura “filosofica” cfr. G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation (1981); trad. it. Francis Bacon, logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995.

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Per un’est-etica crudele

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«Il Male»143 o «Frigidaire»144; dai gesti mortiferi di Tadeusz Kantor nello spettacolo La classe morta145 alle violenze insensate di Arancia meccanica; dai corpi disfatti di Ciprì e Maresco di Cinico tv146 alle mutilazioni crudeli delle vittime della fiction Dexter; dalle provocatorie esposizioni di Maurizio Cattelan147 alla campagna pubblicitaria sull’anoressia di Oliviero Toscani148. Tutti questi esempi mettono in mostra un corpo violento e violato: stravolgono la razionalità e perfino il buonsenso del pubblico. Ma di certo – nell’arte del secondo Novecento – gli esempi indiscutibili dell’arte della crudeltà sono le performance della body art. Dietro all’idea stessa della “performance” c’è la volontà di esercitare una crudeltà: 143 Rivista satirica italiana, fondata nel 1977 e attiva fino al 1981, che utilizzava una crudeltà senza quartiere, contro figure istituzionali della politica e della religione. I redattori con fotomontaggi e false impaginazioni riproducono le testate dei maggiori quotidiani italiani e stranieri introducendo nel dibattito notizie totalmente infondate e destabilizzanti (dallo scoppio di un nuovo conflitto mondiale, all’arresto di Ugo Tognazzi come capo delle BR). Un ribaltamento ironico della realtà che esce fuori dalle leggi della legittima contestazione e mina i presupposti di una critica nei limiti del civile dibattito. 144 Nell’inserto allegato al primo numero, uscito nel 1980, dal titolo «Freezer» nel quale vengono documentati, con la riproduzione (si dice nel testo) di foto autentiche dell’archivio della polizia, incidenti mortali durante attività erotiche. 145 L’opera teatrale “aperta” del regista polacco Tadeusz Kantor, La classe morta, andò in scena per la prima volta nel 1975 a Cracovia. La sceneggiatura non può essere definitivamente trascritta. È possibile riprodurre le note di regia in continua evoluzione lasciando che il testo si dilati a contatto con l’esperienza degli attori, che sia vissuto e modificato dal contatto con il corpo e con la voce del suo autore sempre presente sul palcoscenico. Le parole vivono nella rappresentazione, crudele e brutale, che avvolge e sconvolge lo spettatore (cfr. T. Kantor, La classe morta, a cura di L. Marinelli e S. Parlagreco, Libri Scheiwiller, Milano 2003). 146 L’esempio insuperato di crudeltà in televisione è rappresentato dall’incredibile (e forse irripetibile) impresa di Cinico tv di Daniele Ciprì e Franco Maresco andata in onda dal 1989 su RaiTre e poi frammentata nelle trasmissioni Blob e Fuori Orario. La crudeltà irrisoria, oltraggiosa e perfino disgustosa della serie di Ciprì e Maresco, utilizzata come modello estetico e filosofico da critici come Carmelo Bene o Enrico Ghezzi, è un esperimento estremo dell’estetica audiovisiva del Novecento. La crudele esposizione dei corpi nudi in disfacimento dei personaggi (dal ciclista Fracesco Tirone al cantante Giovanni Lo Giudice, dal petomane Giuseppe Pavigliani alle “schifezze umane” di Carlo e Pietro Giordano) ci impone di guardare un’umanità bestiale e barbara (cfr. Cinico tv, collana «Documenti del presente», Cineteca di Bologna, 2011). 147 Per esempio, la crudele installazione dal titolo I bimbi morti, esposta nel maggio del 2004. 148 La campagna anti-anoressia ideata da Oliviero Toscani e interpretata dalla francese Isabelle Caro, ex-modella di 31 chili, ha suscitato reazioni contrastanti arrivando a essere proibita in molte città.

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un’azione lucida e rigorosa che porta l’imprevisto nel quotidiano; un comportamento che diventa significativo solo attraverso la comunicazione a una collettività. La body art è una pratica crudele – nel senso di violenta e consapevole – che fa esplodere l’attenzione intorno al corpo come soglia e limite. Il confine tra finzione e realtà, tra crudeltà provocata e crudeltà subita si fa labile e indeterminabile. La crudeltà è una presenza disturbante che, tramite la performance, entra sul palcoscenico del reale svelando le atrocità “fuori dal museo”. L’arte non è pura mimesi della realtà: non può scindere materia e spirito per rappresentare la superficie del reale, deve esserne l’esperienza. Ne è un esempio estremo l’Azionismo Viennese149 – attivo negli anni ’60/’70 – che mette in scena sconcertanti performance di autolesionismo e masochismo consapevole. Hermann Nitsch, per citare l’esempio più famoso, è autore di riproduzioni di antichi rituali sacrificali dove i performer sventrano animali vivi e si coprono con le loro viscere. L’artista è un sacerdote che inizia i suoi fedeli con riti modellati sui sacramenti del battesimo e della comunione, dove il sangue e la carne sono reali. Le kermesse sanguinolente di Nitsch rievocano l’energia terribile e redentrice del sacro; danno corpo al rimosso: gli archetipi e i miti fondamentali dell’esistenza – tutti fondati sul sacrificio cruento – sono finalizzati a ristabilire l’unità fra l’uomo e le forze primigenie. Il pubblico – anestetizzato dalla quotidiana esposizione alla violenza – è risvegliato dalla performance che mette in pericolo il corpo dell’artista, che annulla la distanza tra il palcoscenico e lo spettatore. In Rhythm 0 – performance realizzata nel 1974 a Napoli da Marina Abramovic – si invertono provocatoriamente i ruoli: l’artista è solo uno strumento passivo, il pubblico è il creatore dell’opera d’arte. Durante la performance, infatti, il corpo della Abramovic diventa un oggetto a disposizione degli spettatori. Per sei ore i visitatori giocano e maneggiano il suo corpo totalmente inerme utilizzando gli strumenti posati sul tavolo: oggetti scelti per provocare dolore o piacere, coltelli, cinte, catene, una pistola e un proiettile. “Arte come crudeltà” significa vulnerabilità e pericolo. Lo testimoniano le performance di Gina Pane, famosa artista francese morta nel 1990. Il corpo è l’opera che viene proposta al pubblico: 149 Per la produzione scritta (manifesti, interviste, documenti) cfr. Aa. Vv., Writings of the Vienna Actionists, Atlas press, London 1999. Per una documentazione audiovisiva cfr. http://www.ubu.com/film/vienna_actionists.html

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Per un’est-etica crudele

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Con queste azioni – ha confessato l’artista – volevo indicare radicalmente il “segno del corpo, di “questa” carne. Mi era impossibile ricostruire un’immagine del corpo senza che la carne fosse presente, senza che essa fosse posta frontalmente, priva di veli e di mediazioni150.

Il corpo post-organico è oggetto dell’arte di Orlan – famosa esponente della body art francese – che si confronta con le nuove possibilità di metamorfosi (bio)tecnologica. Il corpo organico – custode “naturale” della persona – in realtà è determinato culturalmente da una gerarchia di significati e funzioni codificate. Orlan disintegra le concezioni oppositive di identità/ alterità, naturale/artificiale, privato/pubblico, maschile/femminile: il suo corpo è offerto alla pubblica visione, è un materiale plastico che diviene opera. L’artista si è sottoposta a svariate operazioni chirurgiche con cui ha trasformato crudelmente tutto il suo corpo. La chirurgia estetica – simbolo della conformazione a un unico modello – diventa uno strumento necessario per la costruzione di sé, per il transito identitario. Le pulsioni e i desideri più crudeli non sono rimossi e occultati, ma accettati e messi in relazione – non più rigida e scontata – con la propria identità. Il masochismo di queste azioni è il marchio della sincerità e il sigillo di una autentica esperienza. L’uso del proprio sangue ha un effetto spiazzante. Un frammento di Novalis concentra in poche righe questa con-fusione che unisce il sangue all’esperienza artistica: Chi sa quale simbolo sublime sia il sangue? Proprio il disgusto nelle parti organiche fa supporre che ci sia qualche cosa di molto sublime. Davanti ad esso noi rabbrividiamo come davanti a spettri, e, con un brivido infantile, intuiamo in quella strana mistura un mondo misterioso che potrebbe essere un vecchio conoscente151.

C’è qualcosa oltre alla pura spettacolarizzazione della violenza, oltre la patologica esposizione del sangue al solo fine di stupire. Questi esercizi di crudeltà estetica ed etica rappresentano la prosecuzione della religione nell’era della tecnica: i mutamenti non avvengono più nell’anima, ma sono veicolati dal sangue che scorre nel corpo. La crudeltà – ha detto Artaud – è il grido della carne: 150 M. Baudson, V. Debò, Gina Pane. Opere 1968-1990, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Chiostro di San domenico, 1998), Charta, Milano 1998, p. 66. 151 Novalis, Frammenti, con un’introduzione di E. Paci, Rizzoli, Milano 1976, fr. 1783.

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Filosofia della crudeltà

Queste forze informulate che mi assediano, occorrerà che la mia ragione un giorno le accolga, che si installino al posto del pensiero elevato, queste forze che al di fuori hanno la forma di un grido. Ci sono gridi intellettuali, gridi che provengono dalla sottigliezza delle midolla. È ciò che chiamo la Carne. Io non separo il mio pensiero dalla mia vita. A ogni vibrazione della mia lingua, io rifaccio tutti i percorsi del mio pensiero nella mia carne152.

La crudeltà fa diventare il corpo una reliquia, un luogo spettacolare dove si espone la vita senza veli. La ritualità della pura finzione si intreccia con il dolore reale: c’è un cortocircuito in cui scompaiono i confini che – mantenendo la distanza tra il lecito e l’illecito, tra il sublime e il disgustoso, tra il bello e il brutto – rassicurano e tranquillizzano lo spettatore. L’arte come esercizio di crudeltà è un’esibizione intima e al contempo pubblica. Un confronto senza mediazioni che apre un’ambigua relazione tra l’artista e il pubblico: il passaggio dal disagio alla riflessione è un transito rischioso e mai scontato. Caosmos L’arte – secondo la scrittrice americana Susan Sontag – ha per oggetto ciò che, per il pensiero, è intollerabile: Molta arte moderna si dedica ad abbassare la soglia di ciò che è terribile. Facendoci abituare a quello che, in precedenza, non potevamo tollerare di guardare o di ascoltare, perché troppo sconvolgente, doloroso, o imbarazzante, l’arte cambia i costumi dell’insieme di consuetudini psichiche e sanzioni pubbliche che gettano un vago confine tra quello che è emotivamente ed impulsivamente intollerabile e quello che non lo è153.

L’arte diventa crudele perché – come dice Adorno – «per sussistere in mezzo ai momenti estremi e più cupi della realtà, le opere d’arte che non vogliono vendersi come consolazione devono farsi eguali a quelli»154. 152 A. Artaud, CsO: il corpo senz’organi, cit., p. 23. 153 S. Sontag, Regarding the Pain of Others (2003); trad. it. Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2006. Il titolo del suo saggio si carica di ulteriore problematicità dopo la scomparsa della scrittrice avvenuta nel 2004. Due anni dopo, infatti, la sua compagna, la famosa fotografa Annie Leibovitz, pubblica una raccolta fotografica che include immagini che ritraggono la Sontag nelle ultime fasi della sua deabilitante malattia, con il suo corpo crudelmente trasformato sul letto di morte. 154 Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie (1970); trad. it. Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, trad. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975, p. 58.

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Per un’est-etica crudele

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Tramonta il carattere contemplativo dell’esperienza estetica155: l’opera si fa carico del vissuto corporeo156, è un evento che sovverte ogni percezione abituale. Walter Benjamin parla di “shock” come caratteristica fondamentale dell’opera nell’epoca della riproducibilità tecnica: «il bisogno di esporsi a effetti di shock è un tentativo di adeguazione dell’uomo ai pericoli che lo minacciano»157. Secondo Heidegger, sulla stessa linea, l’esperienza artistica provoca sull’osservatore un “urto” (Stoss) che lo destabilizza. L’opera produce una vibrazione che si propaga oltre se stessa: un effetto di totale spaesamento158. Insomma, l’arte è crudeltà perché, come un “proiettile”159, rompe la corazza protettiva, passa sotto il livello epidermico, accede alla materia dell’identità sotterranea senza consentire la cicatrizzazione della ferita. La via estetica ci consente di uscire dall’impasse iniziale, perché è contemporaneamente un fenomeno naturale (ha accesso al livello più intimo e recondito della vita umana) e un atto culturale (interferisce con le forme simboliche della contemporaneità). Non scioglie, ma ricrea la contraddizione che spiega la crudeltà. L’estetica – dice Quirino Principe – è lo spazio sacro in cui continua la ricerca intorno a quest’enigma: Non alla ragione, dunque, né alla fede, non alle filosofie né alle religioni ci volgiamo nella speranza di vedere più distintamente il Bene e il Male […]. La visione giusta, quella messa a fuoco con precisione finalmente accettabile, è guidata da criteri estetici. […] Se l’estetica è lo strumento primario e decisivo per individuare e definire il Bene e il Male, le arti sono il luogo deputato e il 155 Cfr. F. Vercellone, Oltre la bellezza, Il Mulino, Bologna 2008, p. 139. 156 L’opera è «un istinto di vita, mentre il pensiero astratto di ascendenza platonica si attarda nell’elaborare teorie metafisiche o etiche che sorvolano il vissuto corporeo» (M. Vozza, Perché i poeti e non (piuttosto) i pittori o i romanzieri?, in Aa. Vv., Perché i poeti e non i romanzieri?, a cura di M. Vozza, Ananke, Torino 2006). 157 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936); trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, pp. 55-56. 158 Secondo Vattimo sia in Heidegger sia in Benjamin è presente l’idea dello spaesamento suscitato dall’incontro con l’opera d’arte che non va superato, ma mantenuto. Cfr. G. Vattimo, Opere complete: ermeneutica, Meltemi, Roma 2008, pp. 157 e ss. 159 «L’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile» (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 43).

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terreno proprio (vorremmo dire il témenos, il templum, lo spazio sacro) della ricerca e dell’illuminazione160.

L’analisi della crudeltà filtrata dall’esperienza artistica – svincolata dalla tutela di una razionalità eteronoma – crea un vertiginoso disorientamento161. La crudeltà di queste opere non respinge il caos, ma lo compone e lo trasforma: crea un inquietante quanto seducente caosmos162 che lascia aperto il senso duplice della crudeltà163. La crudeltà, infatti, è un pharmakon164: un veleno e un antidoto, un morbo e una cura, una passione nichilista e una potenza creatrice. La doppia natura della crudeltà, quindi, non può essere detta senza incorrere nella contraddizione. Può essere soltanto vissuta e mostrata. Si apre un compito impossibile e ineludibile: Guardare nel vuoto accecante e cercare di scoprire in esso le striature d’ombra che forse vi sono celate e, attraverso di esse, immagini, forme, figure che ci conducano più prossimi all’enigma che cerchiamo di indagare, al mistero che vogliamo esplorare e capire165.

160 Q. Principe, Invito al Male, in Aa. Vv., Il Male. Esercizi di pittura crudele, a cura di V. Sgarbi, Skira, Milano 2005, pp. 39-41. 161 «Liberatasi dal gioco che la teneva congiunta e sottomessa alla filosofia, l’arte conquista finalmente la propria emancipazione. […] L’opera è ora certo svincolata dalla tutela della razionalità filosofica che la voleva sotto di sé, ma ha perduto anche ogni criterio trascendente di valutazione del proprio essere. Deve capirsi e proporsi da sola. Non senza produrre su di sé e sui suoi fruitori un notevole disorientamento del quale siamo a tutt’oggi testimoni» (F. Vercellone, Oltre la bellezza, cit., p. 148). 162 Questo termine coniato da James Joyce è stato utilizzato spesso da Deleuze (cfr. G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 7). 163 «Provoca infatti, nello stesso tempo, il riconoscimento – sempre peraltro oscuramente presentito – del caos insormontabile da cui parte e su cui campeggia la ricerca di senso dell’esperienza» (R. Bodei, Le forme del bello, cit., pp. 102-103). 164 «Socrate paragona a una droga (pharmakon) i testi scritti che Fedro ha portato con sé. Questo pharmakon, questa “medicina”, questo filtro, insieme rimedio e veleno, si introduce già nel corpo del discorso con tutta la sua ambivalenza» (J. Derrida, La pharmacie de Platon (1972); trad. it. La farmacia di Platone, Jaka book, Milano 2007, p. 57). 165 F. Rella, Figure del male, Feltrinelli, Milano 2002, p. 34.

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CONCLUSIONE

Siamo immersi nella crudeltà. La crudeltà è ineliminabile: un istinto inumano e bestiale che precede la civiltà e, al contrario, un istinto “umano, troppo umano” che fonda la civiltà. La filosofia arretra di fronte a questo gioco di specchi. Si rifugia nel dogmatismo e tenta di imporre una sua monolitica verità. Per sfuggire all’inquietudine rappresentata dalla crudeltà, genera una crudeltà doppia. La crudeltà coincide con quel nucleo fragile e inafferrabile, sanguinante e corporeo che è la vita umana. Se si vuole entrare in contatto con questo magma bisogna avere il coraggio di rompere la prigione della cultura che impedisce il fluire caotico dell’esistere. Occorre un linguaggio aderente alla vita (un linguaggio “ancora da trovare”) che possa scardinare e forsennare1 il linguaggio formale della mera rappresentazione. Avvicinare la crudeltà significa riappropriarsi della vita, in tutta la sua purezza e in tutto il suo orrore. Non ci siamo rivolti al logos che spiega la natura della crudeltà, ma al mythos – una forma plastica e aperta di narrazione – che riesce a nominarla senza giudicarla. Ci hanno aiutato i “filosofi del sospetto” che hanno guardato in faccia la Gorgone della crudeltà senza rimanerne impietriti. Non emerge ancora una definizione univoca e compiuta a cui fare appello. Si può parlare solo di interpretazioni (spesso parziali) e di giudizi morali (spesso tendenziosi). L’“idea di crudeltà” non esiste: è sempre una definizione a posteriori di ciò che non riusciamo a comprendere, di ciò che non riusciamo a incasellare nella “normalità”. L’analisi della crudeltà si rivela una pratica indispensabile per svelare l’“ombra” che si cela dietro alle certezze “chiare ed evidenti”. Concetti 1

Cfr. J. Derrida, Forcener le subjectile (1986); trad. it. Antonin Artaud, forsennare il soggettile, a cura A. Cariolato, Abscondita, Milano 2005.

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Filosofia della crudeltà

consolidati – come l’identità, la sessualità, la civiltà, la morale, la coscienza, il potere – si sgretolano. La crudeltà come pratica estetica e l’arte come esercizio di crudeltà aprono un universo celato alla filosofia. Si genera un grido liberatorio che «atterrisce e fa tremare l’universo»2. Riuscire ad ascoltarlo vuol dire posizionare la filosofia nel mezzo di una selva oscura che ci costringe a essere attenti e sospettosi.

2 L’espressione è tratta da un crudele e disperato aforisma di Cioran: «I più infelici sono coloro che non hanno diritto all’incoscienza. Avere una coscienza sviluppata, sempre vigile, ridefinire senza tregua il proprio rapporto con il mondo, vivere nella perpetua tensione della conoscenza significa essere perduti per la vita. La conoscenza è una piaga, e La coscienza una ferita aperta nel cuore della vita. [...] In questo preciso istante sento il bisogno di gridare, di cacciare un urlo che atterrisca e faccia tremare l’intero universo» (E. Cioran, Pe culmile disperării (1933); trad. it. Al culmine della disperazione, Adelphi, Milano 1998, p. 57).

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BIBLIOGRAFIA

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IL CAFFÈ DEI FILOSOFI Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

1. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli 2. Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo 3. Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente 4. Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! 5. Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico 6. Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia 7. Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, luogo dello spirito 8. Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola 9. Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo 10. Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità 11. Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro 12. Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce 13. Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosoficopolitico 14. Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere 15. Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano 16. Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno 17. Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta 18. Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping 19. Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte 20. Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia 21. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones 22. Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione francese 23. Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari 24. Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione

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25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica dell’identico 26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella 27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università 29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica 30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso Menegazzi 31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo 32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore 33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore 34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio 35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo 36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea 37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese 38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai 39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spettacolo postmoderno 40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga, Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione, un carattere 41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere 42 Carmine Castoro, Filosofia dell’osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del Nulla, 2013, pp. 202, Isbn 9788857516899, Euro 16,00 43 Roberto Masiero (a cura di), Pensare l’Europa, 2013, Isbn 9788857518824 44 Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos, 2013, pp. 286, Isbn 9788857517599, Euro 20,00 45 Donato Ferdori, Stefano Marino (a cura di), Filosofia e popular music

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