Filosofia della corruzione 8898367503, 9788898367504

Il concetto di corruzione si riferisce generalmente all’appropriazione illecita di risorse pubbliche per scopi privati;

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Filosofia della corruzione
 8898367503, 9788898367504

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Thierry Ménissier

Filosofia della corruzione

Cronopio

Il concetto di corruzione si riferisce generalmente all’appro­ priazione illecita di risorse pubbliche per scopi privati; un’ap­ propriazione che rompe la condizione di uguaglianza tra i cittadini. Attraverso l’analisi di casi specifici e il confronto tra diverse metodologie questo libro propone un’indagine filo­ sofica della corruzione, che si muove in un solco teorico di ispirazione machiavelliana e repubblicana. Il presupposto è che il problema della corruzione nelle nostre società non possa essere affrontato con approcci puramente giuridiconormativi, deontologici o moralistici. Le cronache quotidiane mostrano il crescente rilievo che assumono fenomeni plurali e ordinari di “quasi corruzione” che si accompagnano a una crisi profonda della distinzione tra pubblico e privato. Il po­ tere obliquo che si esercita in questi casi rivela un intreccio di legami sociali incomprensibili se interpretati alla sola luce dello scambio di interessi. Nella prospettiva filosofica che anima la riflessione di Thierry Ménissier, la corruzione si ri­ vela, invece, come una vera e propria “forma di vita”. In so­ cietà sempre meno orientate “alla virtù civica”, e attraversate da forme disseminate di potere obliquo, Ménissier tenta di ri­ spondere alla domanda: quale etica pubblica è oggi possibile?

Thierry Ménissier insegna Filosofia politica presso l’Univer­ sità Grenoble Alpes. Ha dedicato molti dei suoi lavori alla filosofia politica del Rinascimento, in particolare Montaigne e Machiavelli; al repubblicanesimo democratico, ai problemi politici ed etici posti dall’intelligenza artificiale. Tra i suoi ul­ timi volumi: La liberté des contemporains. Pourquoi il faut rénover la république (Grenoble, 2011); Machiavel ou la po­ litique du centaure (Paris, 2010).

ISBN 978-88-98367-50-4

9 788898 367504

Euro 18,00

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NOME DEL PROPRIETARIO

Cronopio

Thierry Ménissier

Filosofia della corruzione a cura di

Alessandro Arienzo

Titolo originale Philosophie de la corruption

Pubblicato con contributo Miur Prin 2015 - Trasformazioni della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance in età globale.

Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi “Federico II” di Napoli.

©2018 Hermann Éditeurs © 2020 Edizioni Cronopio Via Broggia, 11 - 80135 Napoli Tel./fax 0815518778 www.cronopio.it shopcronopio.it [email protected] ISBN 978-88-98367-50-4

Indice

Premessa Alessandro Arienzo, Corruzione e filosofia: quale virtù per l’etica pubblica

9

Ringraziamenti

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Introduzione Filosofia politica e corruzione

25

Una concezione della corruzione più civica che deon­ tologica Alla ricerca del repubblicanesimo contemporaneo Come trattare filosoficamente la corruzione nelle democrazie pluraliste?

27 30 35

Parte I. La corruzione secondo la filosofia del diritto I. Dagli equivoci del linguaggio naturale alla tratta­ zione giuridica

43

Limiti e ambiguità dei significati correnti del temine “corruzione” Dagli equivoci del linguaggio verso una definizione generale di corruzione Categorie penali di corruzione

46 50

IL Volontà e responsabilità: le basi filosofiche

56

Deontologia e “debolezza della volontà”

56

44

Filosofia del diritto e fondamenti della responsabi­ lità: Kelsen La “vocazione” dei politici

59 65

Conclusione della parte I

69

Parte IL Analizzare la corruzione alla luce delle scienze sociali III. Un oggetto di studio problematico nel quadro di un’epistemologia specifica

Primo postulato: l’utilitarismo nelle motivazioni dei corruttori Secondo postulato: il funzionalismo nella descrizione Terzo postulato: la sociologia della “percezione” della corruzione

75

76 78 81

IV. Una diversa separazione tra la sfera privata e pubblica

83

Il clientelismo o patronato La venalità delle cariche L’evergetismo

84 93 98

Conclusione della parte II Come mettere in relazione le mentalità “moderna” e “premoderna”'·!

103

Parte III. Corruzione e filosofia politica V.

Il solco antropologico: l’uomo moderno secondo Weber

L’ipotesi: l’autonomia della sfera pubblica e la ra­ zionalizzazione delle condotte Critica dell’interpretazione weberiana: Nietzsche e la responsabilità individuale

107

108 110

L’eterno ritorno della mentalità “premoderna” nel­ le società “statuali”

118

VI. La cultura nell’antropologia politica della cor­ ruzione

121

Il modello del dono e del contro-dono e la sua ap­ plicazione al regime liberale Reinterpretare la concezione machiavelliana della corruzione civica Il modello della gloria e la sua applicazione alla so­ cietà democratica

122 125 133

Conclusioni. Il potere obliquo. Quale etica per le re­ pubbliche dopo la virtù?

143

La tensione tra descrizione e normatività La probità, una virtù pubblica rifondatrice Una virtù sociale da ridefinire

143 148 157

Bibliografia

163

Premessa Alessandro Arienzo

Corruzione e filosofia: quale virtù per l’etica pubblica?

«È necessario a chi dispone una repubblica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbia­ no libera occasione» (2D, I 3). Questa è l’indicazione che Ma­ chiavelli consegna a tutti coloro i quali si dispongano a ordina­ re una repubblica per mezzo della legge: stringendo in un unico assunto una tesi radicale sulla tristizia degli uomini e la conno­ tazione della legge come limite e freno alla loro corruzione. Del resto, la tristizia umana talvolta è il portato della necessità, più spesso dell’ambizione allorquando prende origine dalla spro­ porzione tra l’illimitatezza del desiderio e le possibilità limitate di soddisfarlo: «La cagione è perché la natura ha creati gli uo­ mini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; talché, essendo sempre maggiore il desi­ derio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala conten­ tezza di quello che si possiede, e la poca soddisfazione di esso (ZD, I XXXVII 4)»1. A fronte di queste dinamiche smodate che so­ no proprie degli uomini, la legge è la forma di quel vincolo esterno che impedisce all’uomo di perseguire un desiderio sen-1

1 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, a cura di G. Sasso, Milano, BUR, 2018. Sulla malacontentezza in Machiavelli, cfr. Gian­ franco Borrelli, Non far novità. Alle radici della cultura italiana della conser­ vazione politica, Napoli, Bibliopolis, 2000, in particolare pp. 15 sgg.

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za freno. Oltre alla legge, tuttavia, in Machiavelli si esprime an­ che un vincolo “interno” all’uomo, torsione particolarissima dell’ambizione, che è la gloria, quando essa assume le forme del­ la ricerca di un riconoscimento della propria eccellenza. L’am­ bizione diviene, nelle vesti della ricerca della gloria pubblica, la più importante tra le virtù civili, stringendo insieme la grandez­ za del collettivo e la potenza del singolo. Ed è questo gioco complesso tra desideri e contenimenti che rende possibile per­ seguire non solo il vivere politico, ma anche il vivere libero e ci­ vile. La Firenze del Machiavelli è ormai una città corrotta; rap­ presentazione drammatica di un’epoca complessivamente in de­ clino, in cui forse solo il ricorso alla mano regia può rinnovare un corpo politico degradato. Nella riflessione del fiorentino la questione della corruzione incrocia una pluralità di temi che vanno dagli scorrimenti naturali degli umori e del cosmo (e quindi il posto dell’uomo), alla forma politica repubblicana (le sue istituzioni e leggi) fino alla natura della libertà e della virtù civica e politica. Questa breve premessa machiavelliana è necessaria per in­ trodurre il volume del filosofo francese Thierry Ménissier per­ ché l’attualità della riflessione politica del segretario fiorentino è il vero punto di avvio di uno studio dedicato a indagare filosofi­ camente il tema della corruzione. Del resto, Ménissier è tra i principali interpreti francesi dell’opera del segretario, e il suo impegno storiografico è sempre attento agli usi possibili di Ma­ chiavelli e del suo repubblicanesimo democratico per il nostro presente2. Non è questo il luogo per soffermarvisi, ma prima an­ cora che la riflessione sulla corruzione sono state le questioni del conflitto e dell’innovazione che, nel solco della interpretazione dell’opera del segretario di Claude Lefort, hanno segnato l’iti-

2 Nell’ampia produzione mi limito a segnalare tra i suoi volumi Machia­ vel. Ombres et lumières du politique, Paris, Ellipses, 2017; La liberté des con­ temporains. Pourquoi il faut rénover la république. Grenoble, PUG, 2011; Machiavel ou la politique du centaure, Paris, Hermann, 2010; Enquête sur les conditions théoriques du républicanisme contemporain, Grenoble, Institut d’Etudes Politiques de Grenoble, 2008; Etudes d’histoire des idées politiques et de théorie politique, Grenoble, Institut d’Etudes Politiques de Grenoble, 2008.

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nerario intellettuale dell’autore3. Nel tentativo di riflettere su come pensare l’innovazione politica e sociale oggi, in un quadro culturale chiaramente ispirato al repubblicanesimo, Ménissier vuole accogliere fino in fondo la sfida del pluralismo democrati­ co e delle trasformazioni economiche e sociali della cosiddetta globalizzazione; in tal senso, il suo Machiavelli è sicuramente l’autore che tenta di riattualizzare la repubblica e l’etica civica in tempi di tracollo delle virtù politiche repubblicane. Ed è, allo stesso tempo, anche un repubblicano che non pensa affatto lo spazio civico come uno spazio omogeneo, ma come una com­ plessa articolazione plurale e conflittuale di interessi, passioni, corpi (individuali e collettivi). Questo è il punto della sua attua­ lità e il luogo del suo rilievo: se si vuole ripensare la virtù re­ pubblicana in un’epoca di crisi civica e in società plurali e diffe­ renziate, segnate dalle dinamiche degli interessi, è innanzitutto al Machiavelli delle Istorie (e in parte anche alla lezione della Arendt) che secondo Ménissier è necessario rivolgersi. In fondo, la domanda che si pone alla filosofia politica e alla democrazia oggi non è, per questi rispetti, molto differente da quella del se­ gretario: come può una repubblica corrotta, o parzialmente cor­ rotta, rinnovarsi? Convinzione dell’autore è quindi che sia il nostro presente a riportarci al Machiavelli, e alle questioni che egli discuteva nella Firenze del XV e XVI secolo: non a caso nella fase storica di transizione dalla cultura umanistico-rinascimentale alla primis­ sima modernità. Fasi storiche che sono vissute come momenti di rottura e passaggio, in cui il ruolo della filosofia - il suo beau ge­ ste autoriflessivo e critico - assume un valore decisivo. Tocca in-

3 Cfr. Thierry Ménissier, «Open vs libre. Quel regime de liberté pour l’in­ novation?», Silex IDT, 2017; Id., «Innovation, progrès et utopie. Les sociétés innovantes comme utopies réalisées?», in Jules Verne. Science, crises et utopies, 1st ed. Nantes, Editions Coiffard, 2013. Ma anche: Id., «Lefort lecteur de Ma­ chiavel: le travail continué de l’œuvre», Revue Française d’Histoire des Idées Politiques, 2017, pp. 9-32; Id., «Innovation et Histoire. Une critique philoso­ phique», in Quaderni. Communication, Technologies, Pouvoir, pp. 162-178 (tr. it. in E Palazzi, G. Monti, P. Ametrano, a cura di, Innovazione/I. Percorsi per una strategia disciplinare, Napoli, Guida, 2019); Id., «Philosophie et innova­ tion, ou philosophie de l’innovation?», Klêsis, 2011, pp. 10-27.

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fatti alla filosofia determinare i valori che permettono, attraver­ so il giudizio, di orientare l’azione e la vita associata. In tal sen­ so, la filosofia non può che farsi filosofia pratica e civile, ed as­ sumere non solo la postura di una scienza conoscitiva ma anche quella normativa. Un primo tema, pertanto, che emerge sotto­ traccia in questo volume, è il posto della filosofia nelle società dell’innovazione, in cui l’orizzonte umanistico sembra sempre più ridursi all’economia, al diritto e alle scienze sociali applica­ te. Ed in cui i riferimenti ideali e valoriali sembrano farsi sempre più sfumati e incerti4. Un secondo tema emerge se assumiamo fino in fondo la pro­ blematicità della domanda che i fenomeni corruttivi pongono al­ la filosofia e alla democrazia. Infatti, la varietà dei casi che defi­ niamo “corruzione” mostra la scarsa operatività analitica e nor­ mativa di una sua connotazione “forte”, a fronte dell’ordinarietà di un vivere civile attraversato da molteplici condizioni “gri­ gie”. A ben leggere quanto appare dalle cronache quotidiane, non è tanto la recrudescenza dei grandi casi di corruzione a col­ pirci, quanto il rilievo che fenomeni plurali, disseminati e ordi­ nari di “quasi corruzione” sembrano assumere. Tutti questi fe­ nomeni si accompagnano - e rivelano - la crisi profonda di quel­ la che si potrebbe chiamare la disciplina della cittadinanza e la messa in discussione di una separazione netta tra ciò che è pro­ prio dello spazio pubblico e istituzionale e le sfere del privato o più genericamente del sociale. Il potere obliquo che viene eser­ citandosi in tutti questi casi mostra un intreccio di legami socia­ li, di forme di relazione tra i corpi, che risultano irriducibili alla pura trasparenza e alla moralizzazione, e che sono incomprensi­ bili se interpretati alla sola luce dello scambio di interessi. La corruzione si rivela non tanto una forma degradata dei rapporti sociali, quanto una vera e propria “forma di vita”, che è a suo

4 Cfr. Thierry Ménissier, «Comment assumer l’inconsistance du réel? Pen­ ser avec Arendt la crise de l’autorité politique moderne», in Kostas Nassikas (sous la dir. de), Autorité et force du dire, 1st ed. Paris, PUF, 2016; Id., «Un di­ lemme à relire à travers les transitions contemporaines. Le juste et le bien dans une théorie d’inspiration républicaine pour les “sociétés innovantes”», Éthi­ que, politique, religions, 2017, pp. 119-137.

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modo autentica. Approcci rigidamente giuridico-normativi, deontologici o addirittura moralistici, non ci permetterebbero di cogliere la corruzione come fenomeno umano e sociale com­ plesso. Lo studio e la comprensione della corruzione richiedono un approccio filosofico, poiché i criteri stessi di definizione e di giudizio dei fenomeni corruttivi - la natura della responsabilità individuale e il giusto confine tra sfera pubblica e interessi pri­ vati - sono il risultato di scelte intenzionali, che coinvolgono va­ lori fondamentali per l’esistenza umana e si inscrivono nell’oriz­ zonte di senso della vita collettiva. Il lavoro di Thierry Ménissier vuole insomma dare una ri­ sposta alla domanda su come rispondere all’indebolirsi della vir­ tù civile nelle nostre società. E per farlo ci richiama alla necessi­ tà che la filosofia e la politica, prima ancora che ad un’istanza di analisi del fenomeno corruttivo, debbano aprirsi a una riflessio­ ne su come si possa “accogliere” la corruzione come “fenomeno sociale” e a suo modo “etico”; ossia, quale sia, se esiste, una sog­ gettivazione, una forma di vita, corrotta. Nietzsche in questo ci è di aiuto: se non esistono fenomeni morali, ma solo interpreta­ zioni morali dei fenomeni, siamo obbligati a svestirci di un cer­ to sguardo giuspubblicistico, centrato sul primato della norma, per andare alla radice di quella scelta, tutta storica, che ha fatto della corruzione innanzitutto l’oggetto del diritto. Si tratta, innanzitutto, di cogliere i limiti intrinseci alla casi­ stica giuridica: il primo, e più evidente, è che il diritto si muove in un orizzonte che separa in maniera netta pubblico e privato, e che da questa separazione deriva le classificazioni dei diversi rea­ ti (e del loro peso). Di qui, e in ciò vi è il secondo limite, il reato viene essenzialmente interpretato come un atto che - non con­ forme all’ordinata relazione tra pubblico e privato - può essere sanzionato assumendo gli attori in gioco come “liberi” e piena­ mente responsabili, quindi imputabili. Eppure, attraverso Kel­ sen, Ménissier ci ricorda che la responsabilità e la libertà degli at­ tori, almeno sul piano sociale, sono gli effetti del processo giuri­ dico e dell’imputabilità, piuttosto che i presupposti. E ci mostra come la separazione netta tra pubblico e privato, proprio perché sempre meno adatta a comprendere il funzionamento delle so­ cietà pluraliste, richiede una continua rivisitazione della classifi13

cazione giuridica, rischiando di farla scivolare in un “Sisifo tas­ sonomico”. Peraltro, esiste un approccio diverso al tema della corruzione che, al pari di quello giuridico, presuppone un sog­ getto libero e razionale. In questo diverso approccio libertà e ra­ zionalità sono intese come i presupposti dell’autonoma selezione delle preferenze e della scelta dei mezzi più adatti a massimizza­ re - in funzione delle preferenze - l’utile individuale. La libertà è quella dello scambio, e la relazione tra corruttore e corrotto è es­ senzialmente interpretabile come una transazione tra attori che, sulla base delle rispettive preferenze, vogliono massimizzare il loro utile. Nel riflettere su questo approccio alla corruzione non si deve, secondo Ménissier, ignorare che nelle nostre democrazie di mercato il principio dell’utile economico individuale è uno de­ gli elementi che permettono di interpretare molti tra i fenomeni corruttivi. Neppure si deve però ignorare quanto questa dimen­ sione possa essere parziale e quante relazioni di corruttela diffi­ cilmente possano venire comprese in ragione di una semplice va­ lutazione dei costi/benefici e delle esternalità positive e negative di natura economica. In effetti, un’analisi “comprensiva” dei fenomeni corruttivi ci mostra quanto sia necessario mettere in discussione tutta una modalità di pensare l’uomo che il moderno, o almeno una certa riflessione sul moderno, ha introdotto. In primo luogo, si tratta di dubitare della naturalità di una visione dell’uomo come homo oeconomicus, o comunque soggetto calcolante, il cui orizzonte sociale è dato a partire da uno sforzo di razionalizzazione degli interessi. In secondo luogo, è necessario ridimensionare la cen­ tralità di quella mentalità razionale che sarebbe espressa dell’uo­ mo che vive “della” politica, cioè del burocrate o dell’ammini­ stratore; una visione in cui si ritrovano i fondamenti dell’ap­ proccio deontologico all’etica pubblica. Secondo Ménissier è ne­ cessario “andare oltre Weber” (ossia, da un lato, oltre l’etica pro­ testante, e dall’altro lato, oltre lo spirito del capitalismo) se vo­ gliamo pensare l’etica pubblica partendo dai soggetti e dai per­ corsi della soggettivazione civica, e non dallo Stato. Questo per­ ché nelle nostre società ci sono anche altre economie in gioco, altri ordini di preferenza che ragioni diverse interpretano e che orientano l’azione dei singoli e dei gruppi. In effetti, soprattutto

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nei casi di corruzione che vedono coinvolti pubblici ufficiali o uomini politici, è piuttosto un’economia “simbolica” a svolgere un ruolo decisivo: ciò che si scambia in una relazione di corrut­ tela, spesso non sono semplicemente beni economici, ma favori, relazioni, poteri, influenze. Questa dimensione è innanzitutto colta da quella parte della sociologia della corruzione che assu­ me un approccio funzionalista, per chiedersi - al di là del giudi­ zio morale o dell’oggetto degli scambi corrotti - quale sia la “funzione” di queste relazioni nell’insieme complesso delle re­ lazioni sociali; una funzione che dovrebbe permetterci di com­ prendere le ragioni per cui in qualsiasi società, nonostante il ruo­ lo interdittivo e repressivo dello Stato, si diano sempre forme plurali di relazioni “corrotte”. Ma è anche una dimensione mes­ sa in risalto negli studi storici e antropologici dedicati a quei fe­ nomeni politici e sociali come il patronato, la venalità delle cari­ che, l’evergetismo che permettono di far risaltare le forme mol­ teplici che assume la natura relazionale degli scambi occulti e corrotti. In qualche caso, questi esempi storici mettono in risal­ to la dimensione redistributiva (di ricchezze, poteri, riconosci­ menti) che pratiche “corrotte”, illecite o talvolta illegali hanno in società diseguali, oppure fanno emergere la loro funzione di ge­ stione e contenimenti dei conflitti. In generale, essi mostrano forme di relazione tra individui, gruppi e la comunità politica nel suo complesso in cui non solo non esiste una separazione netta tra pubblico e privato, ma in cui sia la dimensione giuridi­ ca dell’imputazione, sia quella dello scambio economico non hanno alcuna presa. Tutti questi sono sicuramente fenomeni “pre-moderni”, ciò nonostante resta il problema di intendere se le attuali forme di clientelismo, di patronato, di compravendita più o meno occulta di incarichi e funzioni costituiscano un resi­ duo di pratiche antiche nella post-modernità, oppure siano for­ mazioni storicamente determinate di ineludibili “funzioni” so­ ciali e relazionali. Del resto, la sfida posta alle società democra­ tiche dalle grandi organizzazioni criminali, a partire dalla Mafia che ne costituisce forse l’idealtipo, squaderna proprio tutta la complessità di questo quadro di problemi. Ed allora, se la modernità ci ha lasciato due approcci preva­ lenti alla corruzione, quello giuspubblicistico (la legge, l’impu15

tazione, la responsabilità) e quello liberale (lo scambio e gli inte­ ressi), l’attraversamento nella sociologia, nell’antropologia e nel­ la storia permettono di far emergere, secondo l’autore, la neces­ sità di un ritorno ad uno sguardo “repubblicano” sulla corru­ zione. La specificità di questo approccio può essere sintetizzata in rapidi punti. In primo luogo, la dimensione civile (o in termi­ ni più ristretti civica) è attraversata dalle dinamiche del ricono­ scimento sociale che, connesse al gioco complesso del desiderio che regge le forme molteplici dell’ambizione, diviene lo snodo che permette di orientare gli uomini da un’ambizione corrotta (in cui il riconoscimento è connesso ad una affermazione indivi­ duale a fini privati) verso la ricerca della gloria (ossia l’afferma­ zione individuale per fini generali e collettivi). In secondo luo­ go, l’obbedienza alla legge (o la conformità ad un sistema socia­ le e alle sue regole) non può essere compresa solo attraverso la lente teologico-politica e antropologica del homme faible vinco­ lato dal timore della sanzione. Buone leggi, buoni ordini, buoni costumi appartengono ad uno spazio di coesistenza politica in cui la libertà non è solo “libertà negativa” (del resto è l’idea stes­ sa di una separazione tra la “libertà degli antichi” e quella dei “moderni” ad essere sempre meno effettuale) e la virtù non è so­ lo la composizione ordinata dei vizi privati. In terzo luogo, nel solco del repubblicanesimo conflittuale e pluralista del Machia­ velli, sono le relazioni regolate tra i corpi, gli scorrimenti degli umori che attraversano ogni corpo politico a segnare la vita ci­ vile, a partire proprio dalle dinamiche del riconoscimento e quindi dell’ambizione/gloria. In ultimo, benché non possa esse­ re mai netta e chiaramente definita, una qualche separazione tra ciò che è pubblico e ciò che non è pubblico resta comunque ne­ cessaria. Si potrebbe tuttavia azzardare l’ipotesi che proprio la necessità di tener viva la separazione tra pubblico e privato che Ménissier rivendica, in un’epoca come la nostra possa rendersi possibile oltre questa distinzione; e solo pensando uno spazio pubblico “non statuale”, o meglio non esclusivamente statuale. Questo è allora il punto in cui, nel lavoro di Ménissier, si po­ ne il problema di individuare una possibile virtù pubblica dopo “la Virtù”. La linea di taglio è profondamente radicata nella cul­ tura filosofica e istituzionale francese, e si articola intorno alle 16

nozioni di integrità e probità. In particolare, quest’ultima può destare più di un dubbio nel lettore italiano. La probità consiste, secondo l’autore, in una disposizione virtuosa, esercitata attra­ verso quell’osservazione che gli individui fanno sulla propria condotta mentre cercano, nell’esercizio della loro funzione pub­ blica, di renderla conforme a una ragionevole moderazione. Pur essendo una delle tipiche virtù “di Stato”, che entra con forza nella tradizione filosofico-politica francese con la Rivoluzione, il fondamento (anche storico) propriamente “rivoluzionario” del tema della probità, nella lettura di Ménissier, parte da un as­ sunto che è quello della necessità di produrre “il nuovo”. La centralità riconosciuta da Machiavelli al tema del rifondare uno Stato corrotto, e dei costituenti francesi di dare vita ad una nuo­ va etica pubblica per una società e per istituzioni che avevano rotto il modello di Ancien Régime, impone di sottoporre all’in­ dagine critica i presupposti storici e i riferimenti teorici di que­ sto tentativo. A differenza di un più tradizionale approccio eti­ co-normativo, che parte dai valori e tenta di configurare quei comportamenti che ne dovrebbero derivare, la probità è una po­ stura civile che si acquista nella relazione con gli altri nello spa­ zio politico. In questo senso la probità è innanzitutto un model­ lo di soggettivazione, nesso inestricabile di autodisciplina civica ma anche di ricerca di veder riconosciute le proprie ambizioni. Uno sforzo, insomma, che nel solco di quell’approccio aretaico all’etica pubblica proprio del repubblicanesimo, mette in risalto gli affetti considerati virtuosi (come il patriottismo) perché essi sono in grado di consolidare l’interazione tra i cittadini di una stessa comunità civica. Ed allora, se la posta in gioco è sulla ne­ cessità di riformulare una qualche nozione di virtù civica nel contesto di democrazie pluraliste, dominate dal legittimo disac­ cordo di interessi particolari, la prospettiva filosofica presentata nel testo di Ménissier ribadisce, innanzitutto, che non è possibi­ le fare a meno di una “virtù civile”. Ma sottolinea anche che ciò di cui oggi abbiamo bisogno emerge, e si afferma, non tanto nel­ lo spazio morale individuale (l’onestà), ma in quello plurale e conflittuale della vita associata politica. In tal senso, la probità non è una virtù riflessiva e critica, perché queste due dimensio­ ni devono piuttosto emergere del confronto pubblico e rispec-

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chiarsi nella probità. Riflessività e critica sono i presupposti col­ lettivi della vita associata, laddove la probità è la virtù grazie al­ la quale chi esercita una responsabilità pubblica amministra e governa lo stare insieme, il vivere in comune, facendo proprio l’esito del confronto pubblico. Che la strada del repubblicanesimo costituzionale francese indicata da quest’opera possa apparire al lettore italiano stra­ niarne - a partire dalla domanda se una virtù così radicata nella cultura politica d’oltralpe come quella della probità possa essere efficacemente impiantata anche in realtà istituzionali e culturali diverse come quella italiana o anglosassone - non è in fondo il tema di maggior rilievo di questo volume. Il volume di Ménis­ sier è sì il tentativo di restituire alla grande tradizione repubbli­ cana francese un ruolo politico decisivo, ma è anche, e forse so­ prattutto, lo sforzo di restituire alla filosofia una sua funzione civile e politica nel confronto con alcune grandi questioni del nostro presente. Innanzitutto, il dato che la pluralità e la pervasività dei fenomeni corruttivi, o di quasi corruzione, ci obbliga­ no a fare i conti con la difficoltà crescente (forse con l’incapaci­ tà) delle istituzioni liberal-democratiche a governare gli scambi economici, simboli e di potere prodotti dagli animal spirits del capitalismo. Ed allora, se assumiamo la sfida posta da una inter­ pretazione della corruzione come una forma di vita “a suo mo­ do incorrotta”, emerge la sostanza la proposta di Thierry Mé­ nissier che mi pare sia quella di tentare di recuperare un model­ lo di soggettivazione che potremmo definire civica o repubbli­ cana in un contesto storico in cui tanto le soggettivazioni libera­ le e neoliberale, quanto quelle socialiste o rivoluzionarie sono in grave crisi. In definitiva, la filosofia torna a riflettere su se stessa nel luogo che le è proprio: la città.

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Filosofia della corruzione

Per Giulia, Còme e Bianca, tre comete, tre volte l’energia di centomila possibili.

«È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.»

Francesco Guicciardini, Ricordi, § 6 «in uno Stato stravolto dalla corruzione, le leggi si moltiplicavano»

Tacito, Annali, III, 27

Ringraziamenti

Non si è mai completamente soli quando si scrive un libro. Ho infatti beneficiato delle discussioni avute con Fabienne Martin-Juchat, nonché dei consigli di Jérôme Ferrand. Inoltre, invi­ tandomi ai seminari da loro organizzati, Patrick Cingolani, An­ toine Garapon, Etienne Tassin e Feriel Kandil hanno aperto spa­ zi essenziali di discussione e riflessione per approfondire le idee presentate in questo libro. Tutti loro devono essere calorosa­ mente ringraziati. Infine, il libro non avrebbe mai visto la luce senza l’impulso iniziale datogli quindici anni fa dal mio collega, amico e filosofo Robert Damien (1949-2017). La gioia di questa pubblicazione è offuscata dall’infinita tristezza causata dalla sua recente e drammatica scomparsa; ma sui nostri temi preferiti, il dialogo continua con la comunità costituita da coloro che Ro­ bert Damien conosceva e formava. Vivit post furierà Virtus. Un sentito ringraziamento va anche al collega Alessandro Arienzo dell’Università Federico II, che si è assunto il temibile compito di tradurre questo libro in italiano, continuando così la conversazione iniziata molti anni fa tra Grenoble e Napoli.

T.M.

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Introduzione

Filosofia politica e corruzione

Le trattazioni filosofiche della corruzione non sono affatto frequenti, appaiono invero piuttosto rare1. E vi è una impressio­ nante differenza quantitativa tra gli studi che la filosofia ha dedi­ cato a questa nozione e quelli di altre discipline (diritto, scienze politiche, sociologia, storia). Alla base di questo stato di cose vi sono senza dubbio ragioni inerenti alla natura stessa del discor­ so filosofico: a differenza delle scienze umane e sociali, benché come loro si presenti come un discorso governato dall’imperati­ vo della verità, quando la filosofia diventa etica o politica riven­ dica anche un carattere normativo. Vale a dire, si allontana vo­ lontariamente dalla neutralità descrittiva che caratterizza le scienze umane e sociali per assumere la responsabilità di pro­ nunciarsi sui valori che definiscono i princìpi e orientano l’azio­ ne delle istituzioni. Questa è la richiesta che le è stata fatta fin dalle sue origini nell’antichità greco-latina, e questa è l’esigenza che essa oggi esprime. Esiste quindi una effettiva difficoltà a pen­ sare filosoficamente la corruzione dovuta a questa doppia di­ mensione: da un lato, come descrivere adeguatamente i fenome­ 1 Si possono comunque segnalare diversi interessanti contributi filosofici, come quello di Bernard Guillemain, La corruption, in Encyclopedia Universa­ lis, 1990, Symposium, II, pp. 1245-1251; e quello di Jean-François Mattei, L’iìnperfection éthique des systèmes économiques: une approche philosophique, in Jean-Yves Naudet (ed. par.), La corruption. Actes du onzième colloque d’é­ thique économique, Aix-en-Provence, Librairie de l’Université d’Aix-en-Pro­ vence, 2005, pp. 18-32.

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ni per conoscerli nel modo più accurato possibile? Dall’altro la­ to, come determinare i valori che rendono possibile il giudizio? Questo libro è stato scritto avendo presente questa duplice esigenza. La mia riflessione si àncora, più precisamente, allo stu­ dio dell’opera di Machiavelli, che è tra i padri fondatori della moderna concezione della politica. Il segretario e i suoi contem­ poranei (come Francesco Guicciardini citato in esergo) hanno affrontato i problemi posti dalla corruzione in un luogo e in un tempo privilegiati, quello della città-stato fiorentina tra il XV e il XVI secolo, un territorio a lungo caratterizzato da un’intensa vita sociale e politica, ma ormai segnato da una grave crisi. Nei lavori che ho dedicato all’opera del Segretario fiorentino, pur ri­ tenendo il suo pensiero un’elaborazione originale che risponde a questa crisi, ho sottolineato come nel suo sforzo di concettua­ lizzazione la virtù civica svolga un ruolo fondamentale: una del­ le più grandi novità di Machiavelli è il tentativo di “rinnovare” la virtù degli Antichi a partire da un’interpretazione della com­ petenza politica intesa come energia espansiva (conquérante) e presentata come “ferocia”. La competenza politica si presenta quindi con un riferimento all’animalità, ossia alla metafora sul­ l’ibridazione di uomo e animale (perché questo è il significato della figura del centauro nell’opera machiavelliana). E questo ri­ ferimento non appare solo nei suoi consigli ai “principi” della casata dei Medici, ma anche al cuore stesso della sua ridefinizio­ ne di buona repubblica. L’esempio fornito dalle conquiste roma­ ne nell’antichità, specialmente nel contesto della reinterpreta­ zione della storia di Tito Livio, è usato sempre da Machiavelli nel senso di una “virilizzazione” della virtù. Un uso che, dal punto di vista della morale, per la sua singolarità, ci turba: è in­ fatti impossibile isolare nel segretario il “buono” (o il “virtuo­ so”) autore repubblicano dal “malvagio” (o “corrotto”) autore del Principe. Eppure, è in entrambi che Machiavelli avanza l’i­ potesi dell’impossibilità di adottare la virtù degli Antichi: ai suoi occhi, per ragioni morali oltre che “cosmologiche” o “celesti” (dunque legate a una storia sulla quale gli uomini non hanno al­ cun controllo), la condotta eroica e feroce degli antichi romani è per i suoi contemporanei oramai impraticabile. Questi tratti contribuiscono a rendere la sua opera un’eredità profondamen26

te perturbante: non solo Machiavelli ha rinnovato il modo di rappresentare l’operato politico, il suo lavoro ha esposto i pro­ blemi con cui tutta la modernità si è confrontata2. Una delle ragioni che giustificano la scelta del pensiero di Machiavelli come guida della nostra riflessione è che esso parte­ cipa di quella corrente delle idee repubblicane che, all’origine del pensiero politico moderno, hanno costituito un’alternativa al li­ beralismo. Vi ritroviamo quindi l’alternativa tra i due paradigmi proposti da John G.A. Pocock per articolare la storia delle idee politiche occidentali: se il liberalismo è a livello antropologico individualista, perché nel definire la buona condotta privilegia il calcolo economico degli interessi e implica una modalità giuri­ dica di regolazione della politica, il repubblicanesimo valorizza la comunità civile rispetto all’individuo, nella prospettiva di an­ corare l’individualismo moderno ad un olismo sociale che esal­ ta le virtù civiche, e si fonda su una logica di azione basata sugli effetti prodotti dalla dinamica degli eventi politici3.

Una concezione della corruzione più civica che deontologica L’opera machiavelliana si sviluppa in un’epoca di corruzione che essa stessa denuncia in vario modo. Da un lato, più volte e con una grande forza espressiva, il fiorentino mostra la sua im­ pressione di vivere in un’epoca di alterazione dei costumi politi­ ci. Lo testimonia un passaggio emblematico e particolarmente vibrante di emozioni dell’ultimo capitolo del Principe, l’Esorta­ zione a prendere l’Italia e a liberarla dai barbari. In tal senso, il lavoro di Machiavelli costituisce una testimonianza della deca­ denza dei costumi moderni rispetto a quelli dell’antichità. Per questo gli attacchi alla religione cristiana assumono, nei Discor­

2 Cfr. Thierry Ménissier, Machiavel ou la politique du Centaure, Paris, Hermann, 2010. 3 Cfr. John G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, a cura di A. Prandi, Bo­ logna, Il Mulino, 2 voli., 1982; Quentin Skinner, La libertà prima del liberali­ smo, a cura di M. Geuna, Torino, Einaudi, 2001.

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si, tanta importanza: alla luce dei mutamenti nella civilizzazione europea, i promotori di una morale che “disarma i cieli ed effe­ mina il mondo” sono accusati di essere i fautori di un degrado ir­ rimediabile della virtù4. Alla fine di quest’opera, così come nelle Istorie Fiorentine, il Segretario conduce anche una meticolosa in­ dagine sul modo in cui a Firenze il bene pubblico sia stato cor­ rotto a beneficio di interessi personali e di gruppo, e su come il potere pubblico sia stato indebolito con il ricorso alla ricchezza privata. Nel corso della sua narrazione storica, l’antica e venera­ bile patria del vivere politico deve confrontarsi con il progressi­ vo imporsi del commercio moderno, promosso dalle grandi fa­ miglie fiorentine (tra queste i Medici che, tornati al potere com­ missionarono a Machiavelli il suo volume sulla storia della città). Tutto ciò mostra come nell’opera del Machiavelli, patriota fiorentino, la corruzione non sia né un concetto giuridico, né deontologico, ma un concetto politico, inteso tanto in senso isti­ tuzionale (la corruzione delle istituzioni fiorentine), quanto in senso morale (quella della morale civile). E la diagnosi è inequi­ vocabile, tanto a proposito degli ordini che dei modi. Se lo si leg­ gesse superficialmente, si potrebbe credere che, a causa del suo carattere descrittivo o della sua dimensione storica, il lavoro del segretario fiorentino non fornisca alcuna concezione normativa della corruzione. Tuttavia, questa impressione è al contempo esatta e inesatta. Esatta perché, nonostante la presenza in Ma­ chiavelli di un “linguaggio della giurisprudenza”5, egli non guar­ da alla rettitudine della vita politica attraverso il prisma delle ca­ tegorie giuridiche. Inesatta perché la sua opera consiste in una profonda riflessione su un’altra forma di rettitudine, quella della condotta politica in tempi avvertiti come molto instabili. Questa correttezza è propria del paradigma delle arti e dei mestieri6 ed è condizionata dall’infiacchirsi dei costumi politici. Ecco perché la 4 Cfr. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, L.II, 2, a cura di G. Sasso, Milano, BUR, 2018, p. 299. 5 Cfr. Diego Quaglioni, «Machiavelli e la lingua della giurisprudenza. Una letteratura in crisi», Il Pensiero Politico, XXXII, 1999, pp. 171-185. 6 Questa è l’indicazione che si può trarre dall’affermazione di Machiavel­ li indirizzata a Francesco Vettori quando spiega di essersi dedicato all’arte del­ lo stato, vedi la lettera di Machiavelli a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513, in

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costruzione della nozione di virtù, concetto cardine del lavoro machiavelliano, nonché l’analisi approfondita che questi svolge delle ordinarie passioni umane (ambizione, rabbia, pigrizia, invi­ dia, ecc.), costituiscono la materia che gli permette di fornire una concezione normativa della corruzione. Tanto che, in questo qua­ dro, gli elementi caratteristici dell’approccio giuridico tendono a dissolversi a fronte di altri che dovremo analizzare. Il rilievo che assumono le virtù e le passioni nella teoria ma­ chiavelliana ci permette, ancora oggi, di distinguere due approc­ ci alla nozione di corruzione: uno prevalentemente civico e l’al­ tro principalmente deontologico. Come abbiamo spiegato altro­ ve, il primo è tipico del repubblicanesimo, il secondo specifico del liberalismo, le due correnti fondanti del pensiero politico moderno7. Nel mondo del Machiavelli repubblicano, l’antidoto contro la corruzione risiede nella spinta propulsiva rappresenta­ ta dal patriottismo, dall’amore per la propria patria, vale a dire in un elemento che costituisce un criterio di differenziazione netto e chiaramente identificabile tra liberalismo e repubblica­ nesimo. Come messo in risalto da Alasdair McIntyre, il ruolo dell’amore per la patria come categoria morale costituisce, in ef­ fetti, una chiara linea di demarcazione tra le moderne teorie po­ litiche8. Pertanto, se in Machiavelli non esiste un approccio espressamente deontologico alla corruzione, simmetricamente troviamo in lui un forte approccio assiologico. Più in generale, il repubblicanesimo si caratterizza per un approccio all’etica pub­ blica, che, per utilizzare le tre categorie distintive delle diverse etiche non è né deontologico, né consequenzialista ma aretaico. Diversamente dalla ricerca di un’etica del dovere o da quella del calcolo dell’interesse individuale, gli autori della tradizione re­ pubblicana sottolineano l’importanza delle affezioni virtuose, perché queste sono favorevoli a una forte interazione politica tra

Tutte le opere. Secondo Tedizione di Mario Martelli (1971), a cura di P.D. Ac­ cendere, Bompiani, Milano, 2018, pp. 2873-2877. 7 Cfr. il mio: «L’usage civique de la notion de corruption selon le républi­ canisme ancien et moderne», Anabases. Traditions et reception de TAntiquité, n. 6, 2007, pp. 83-98. 8 Cfr. Alasdair MacIntyre, Il patriottismo è una virtù, in A. Ferrara (a cu­ ra di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 55-76.

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individui e sostengono lo sviluppo della libertà pubblica. Del re­ sto, questa virtù civica degli Antichi, questa mescolanza di di­ sposizioni che inducono il cittadino ad agire empaticamente a fa­ vore dell’interesse generale, è stata spesso esaltata dai pensatori repubblicani; e si potrebbe fare riferimento alle testimonianze di Montesquieu e della Arendt. Allo stesso modo, per il fiorentino questo complesso di disposizioni costituisce la precondizione per il rinnovo di quelle categorie etiche che rendono possibile di attribuire un nuovo valore alla vita politica e di valutare la con­ dotta come retta o corrotta9. Alla luce di questi elementi, possiamo ritenere che se Ma­ chiavelli sviluppa una concezione civica della corruzione, piut­ tosto che deontologica, è perché questa nozione, intesa come al­ terazione dei modi e degli ordini, assume il senso di uno scam­ bio occulto. Se ci sono transazioni particolari in grado di inde­ bolire o addirittura rovinare la città è perché le istituzioni non sono più sufficientemente forti da educare “i costumi”, e l’ener­ gia individuale e collettiva (la 'virtù degli individui e gruppi so­ ciali) non è più orientata verso la città.

Alla ricerca del repubblicanesimo contemporaneo Se siamo impegnati in una riflessione sui principi normativi del repubblicanesimo contemporaneo è perché, a fronte del carat­ tere pluralistico delle nostre democrazie, uno dei problemi più importanti con i quali esso deve confrontarsi è la fine del “repub­ blicanesimo della virtù”10. In società culturalmente diversificate e che tendono ad assumere il pluralismo dei valori quale principio fondamentale, la morale repubblicana classica appare eccessiva­ mente unilaterale, frutto di un mondo in cui lo Stato, attraverso le sue istituzioni, ha creduto di poter imporre un canone etico uni­ voco. Altra conseguenza dell’affermarsi della logica democratica è

9 Vedi Jérémie Duhamel, Les Vertus de la liberté. Machiavel et la critique de la domination, Paris, Classiques Garnier, 2016. 10 Thierry Ménissier, La Liberté des contemporains. Pourquoi il faut réno­ ver la république, Grenoble, PUG, 2011.

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che le società contemporanee sono attraversate da molteplici gio­ chi di interesse. Anche su questo piano è necessario cambiare pro­ spettiva e riconoscere che i principi sui quali si è fondata la nostra attività di giudizio sono mutati. In società in transizione come le nostre ci sono una pluralità di usi e di costumi particolari; se il fi­ ne della filosofia normativa non è certamente mutato, esso deve tuttavia essere costantemente riattualizzato. Ad esempio, si do­ vrebbe riflettere con attenzione sul modo in cui una pratica come il lobbying, che per la sua estrema diffusione permette di far emer­ gere le dinamiche molteplici degli interessi, meriti di essere presa in considerazione nell’ambito di una filosofia politica adatta ai nostri tempi. Mi pare anche che sia urgente che la teoria repub­ blicana elabori ipotesi nuove sulle relazioni che nella realtà delle odierne “democrazie di mercato” si instaurano tra l’interesse per­ sonale e l’interesse generale. Ciò che abbiamo chiamato “rinnova­ mento” della Repubblica dipende dalla capacità degli attuali citta­ dini di riscoprire, nel quadro della società democratica, gli ele­ menti fondanti della “libertà degli Antichi” e della “libertà dei Moderni”; in particolare quella “dimensione pubblica” {Öffent­ lichkeit, nel senso in cui Kant e i suoi contemporanei descriveva­ no lo spirito di una società aperta che si nutre del confronto criti­ co) che permette di promuovere i dibattiti e di selezionare le op­ zioni collettivamente preferibili. In questo sforzo, l’assunzione di nuovi usi e di nuovi modi deve affiancarsi ad una rinnovata articolazione delle categorie normative su ciò che è lecito e giusto, e ciò che è illecito e delittuoso, con le quali valutarli. Se considerata nella sua accezione più ampia, nei filosofi an­ tichi come negli autori moderni la nozione di corruzione è per sua natura oscura. “Corruzione” è un termine polisemico e rac­ coglie così tanti significati diversi che è difficile darne una rap­ presentazione chiara e distinta. Inoltre, se la corruzione è defi­ nita come una deviazione da una norma, e si cerca di compren­ derla da un punto di vista normativo (cioè, entro i registri giuri­ dici, morali e teologici) ci si riferisce necessariamente a un qua­ dro filosofico o a una “visione del mondo” in cui le condotte so­ no messe in rapporto ά\Γinteriorizzazione della legge da parte dei soggetti. Di conseguenza, nelle molteplici pratiche che ri­ comprendiamo col termine “corruzione” (tanto inteso in senso 31

giuridico, quanto morale, teologico, politico) c’è un’intenzione a corrompere che dovremo analizzare più da vicino. A queste condizioni, il problema della corruzione acquista senso nell’intersezione tra la condotta dell’agente sociale-razionale e le forme costituite di legislazione o dei “regimi” in cui es­ sa si evolve (che si tratti della comunità civica degli antichi, del­ la società feudale, dello Stato burocratico moderno o della so­ cietà liberale contemporanea). Ciò che si denomina come “cor­ ruzione” non può in alcun caso rivelarsi l’unica scelta di un in­ dividuo astrattamente considerato come un atomo o una mona­ de, né riguardare solo la dimensione mercantile dello scambio occulto. Questo approccio ci limita a ciò che possiamo osserva­ re superficialmente nelle motivazioni dei corruttori, ma non permette di comprendere né le ragioni d’essere di una pratica corrotta, né i determinanti reali (le motivazioni) degli attori. Gli uni e gli altri sono ancorati in culture particolari, secondo le di­ verse caratteristiche della moralità e della politica, persino della teologia. Ciò però significa mettere in discussione una visione profondamente radicata della condotta standard degli individui, interpretata come razionale e universale, e significa anche guar­ dare ai modi in cui sono riconosciuti quegli agenti sociali che operano in modo diverso da quanto si ritiene comunemente: va­ le a dire, in modo oggettivabile e secondo i soli valori monetari. Come ha mostrato Pierre Lascoumes, viviamo in un’epoca pe­ culiare, in cui tutto appare contraddittorio: l’imputazione o un so­ spetto di corruzione portano alle volte a condannare a priori i rap­ presentanti politici. Eppure, la mentalità dominante, in particolare in Francia, mostra anche una forte opacità (ad esempio, una sor­ prendente tolleranza nel mantenere in servizio quei funzionari pubblici condannati per improbità) e rivela in ogni caso quanto og­ gi, più che mai, vi sia nella società una commistione di interessi pri­ vati e pubblici che appare letteralmente inestricabile11. Con ciò vo­ glio dire che è necessario contrastare lo spettro che incessantemen­ te riappare dell’assolutizzazione o dell’essenzializzazione dell’idea11

11 Si veda per esempio Pierre Lascoumes, Une démocratie corruptible. Ar­ rangements, favoritisme et conflits d’intérêts, Paris, Seuil/La République des Idées, 2001.

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di corruzione, ma anche essere consapevoli che riconoscere gli in­ trecci tra gli interessi non comporta necessariamente, ed in alcun modo, sostenere la loro commistione. In altre parole, da un lato, è opportuno diffidare dei nuovi “sicofanti” ed essere assolutamente cauti nei confronti dei tentativi di “messa in trasparenza” dello spa­ zio pubblico12. Dall’altro lato, il problema che dobbiamo fronteg­ giare è: come ridefinire tra le attività umane la facoltà di giudicare? E con questo spirito che, in questo libro, prendo in esame il rapporto tra l’attività politica e la nozione di corruzione attra­ verso un approccio che si potrebbe definire di filosofia pratica, ed in cui l’esercizio del pensiero si basa sull’osservazione, sulla descrizione e sull’analisi concettuale dell’attività umana. Mi è sembrato che la nozione di corruzione, anche se ben indagata (e in modo interessante) dalle varie scienze sociali, solo raramente sia stata colta nella sua complessità e profondità. Credo che i tempi siano maturi per federare i contributi di queste discipline attorno ad un’ipotesi di ispirazione repubblicana secondo la quale la relazione di corruttela, quando restituita ai suoi conte­ sti storici, non può né essere intesa nei termini classici del “cal­ colo degli interessi” - vale a dire dello scambio mercatile per quanto attiene ai suoi princìpi - né ridotta all’illecito/occulto, per ciò che concerne la sua realizzazione. C’è infatti qualcosa d’altro in gioco, che non può essere ridotto ad un modello che, anche se non errato del tutto, è però riduttivo e superficiale. Co­ me vedremo nella seconda parte del libro, lo studio di alcune condotte sociali complesse nelle società premoderne ci mostra quanto questo modello sia chiaramente inappropriato, sia per­ ché troppo limitato, sia perché prodotto di una costruzione sto12 L’analisi storica della pratica della delazione pubblica nel contesto della vita politica ateniese presenta alla nostra indagine filosofica un interessante contrappunto, i cui risultati offrono indicazioni di rilievo. Come ha infatti di­ mostrato Carine Doganis, nel contesto della guerra del Peloponneso si impo­ se una “giuridicizzazione” perversa della vita politica in cui ha avuto un ruolo decisivo il ricorso alle accuse da parte di informatori pubblici (sicofanti)·, un ruolo importante ma con effetti contraddittori: lungi dal risanare la democra­ zia, queste pratiche, più simili al ricatto e all’estorsione, rappresentavano una minaccia permanente all’azione pubblica favorendo, alla fine, comportamenti opportunistici. Vedi Carine Doganis, Aux origines de la corruption. Démocra­ tie et délation en Grèce ancienne, préface, C. Mosse, Paris, PUF, 2007.

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rica troppo recente. Eppure, è proprio l’osservazione delle so­ cietà che si governano secondo una mentalità “moderna” (cioè, razionale “interessata”) a imporre questa critica. Oggi, infatti, ci sono fenomeni numerosi e variegati che ci spiazzano, invitan­ doci a rivedere le categorie con le quali giudicare la correttezza dei comportamenti privati in relazione all’integrità della cosa pubblica. Pensiamo, ad esempio, ai recenti “scandali” in Francia che hanno coinvolto lo Stato (il cosiddetto caso delle “fregate di Taiwan”, il caso Cahuzac13) o il personale politico (scandali ri­ guardanti le campagne elettorali di varie personalità), oppure al­ cuni dei fenomeni sociali ricorrenti e complessi (lobbying, pantouflage di alti funzionari). Nonostante la loro diversità, per il fatto di essere ricorrenti, questi fenomeni mostrano quanto i confini tra lecito e illecito siano strutturalmente sfumati, e come vi sia una sorta di fluttuazione concettuale al cuore delle demo­ crazie consolidate per quanto concerne aspetti complessi e fon­ damentali, quali quelli del potere o della “distinzione” persona­ le. Da qui, un’ipotesi da verificare: l’esistenza di una correlazio­ ne tra questa fluttuazione concettuale e il fatto che, sebbene le istituzioni e i mercati siano governati da procedure di valuta­ zione apparentemente sempre più rigorose, le società contem­ poranee sperimentano forme di corruzione crescenti e sempre più capillari, che non si riescono a definire con precisione e, an­ cor meno, ad arginare. Ed è alla luce di questi sviluppi che pos­ siamo comprendere l’emergere di una riflessione su questo tema a livello mondiale, in particolare grazie al contributo delle prin­ cipali ONG come Transparency International impegnate nella lotta alla corruzione. Tuttavia, allo stesso tempo (e la storia eu­ ropea lo ha ampiamente mostrato a partire dagli anni Trenta), le società contemporanee devono assolutamente evitare l’accresce­ re di un clima di sospetto che, dietro il sempre più forte di­ sprezzo nei confronti dei rappresentanti della classe politica,

13 [N.d.T. - Il primo si riferisce alla vendita nel 1991 di sei navi da guerra francesi a Taiwan le cui transazioni economiche, estremamente opache, hanno coinvolto diversi imprenditori e politici francesi. Il secondo caso si riferisce allo scandalo suscitato dalla scoperta di conti bancari non dichiarati dell’ex ministro del bilancio francese Jéròme Cahuzac, condannato quindi per frode fiscale].

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porta alla diffidenza nei confronti della democrazia e delle sue istituzioni14. Da questo punto di vista, il nostro contributo ri­ sponde ad un’urgenza: come pensare le diverse forme di corru­ zione nelle nostre democrazie, sulla base della loro specifica connotazione morale e politica? La speranza che muove questo questo libro può essere così sintetizzata: integrando il contributo delle diverse discipline del­ le scienze umane e sociali, è possibile ampliare la comprensione delle motivazioni che muovono i corruttori, e con ciò contri­ buire alla comprensione di un fenomeno che i paesi sviluppati conoscono tanto bene (anche se in varie forme) quanto i paesi in via di sviluppo - ed è quindi tanto generalizzato che sembra ac­ compagnarsi alla socialità umana. Certamente, comprendere le dinamiche sociali che muovono la corruzione, e pensarla in rap­ porto alla cultura politica della società in cui essa appare, non si­ gnifica affatto giustificarla, in qualche modo banalizzandola. Al contrario: in una duplice e continua esigenza di comprensione e giudizio, si tratta di riprendere il gesto proprio della filosofia po­ litica. L’intento che anima questo lavoro può quindi essere de­ scritto come terapeutico, ed è guidato da una preoccupazione democratica. In effetti, la corruzione è un male: moltiplicando le relazioni di potere occulto all’interno delle società, essa mina l’autonomia dei cittadini e alla fine distrugge la democrazia. Tut­ tavia, quando la si colga nelle sue condizioni reali e complesse, e se non si vuole cedere all’illusione moralizzante di un suo puro e semplice sradicamento, come possiamo prevenire e arginare questo male?

Come trattare filosoficamente la corruzione nelle democra­ zie pluraliste?

Nel trattare la nozione di corruzione le scienze politiche e altre scienze sociali - sociologia, scienze giuridiche, storia -

14 Vedi a questo proposito Mattei Dogati, «Méfiance et corruption: dis­ crédit des élites politiques», Revue internationale de politique comparée, vol. 10, n. 2003/3, pp. 415-432.

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sembrano molto più attrezzate della filosofia. Le une e le altre possono avvalersi di un approccio quantitativo e sono in grado di misurare il fenomeno della corruzione, un risultato che la fi­ losofia, disciplina principalmente concettuale, non può raggiun­ gere. Tuttavia, l’impresa di oggettivazione quantitativa di un fe­ nomeno come la corruzione presenta alcuni limiti connessi alla natura stessa del fenomeno che si vuole misurare. La corruzione è multiforme, la sua definizione è influenzata dai contesti politi­ ci che la condizionano o che la usano. L’incidenza della corru­ zione non può quindi essere misurata senza un lavoro continuo di determinazione della sua natura e di valutazione dei criteri che permettono di giudicarla15. In sostanza, essa non solo ri­ chiede un approccio descrittivo della realtà sociale, ma anche un processo di qualificazione normativa. Ecco perché, a nostro av­ viso, la filosofia politica può legittimamente essere chiamata ad approfondire questo tema: precisando i concetti, essa permette di distinguere i valori impliciti nei giudizi che orientano l’inda­ gine normativa e quella descrittiva. E con questo spirito che in­ tendo utilizzare gli strumenti della teoria politica normativa, con l’obiettivo di esaminare se, e in quale misura, quello di corru­ zione può essere considerato un concetto filosofico-politico, in particolare nel contesto della democrazia contemporanea. In questa indagine le due dimensioni costitutive della filosofia po­ litica interagiscono e possono influenzarsi reciprocamente: nel condurre una ricerca intorno al significato della nozione di cor­ ruzione - per come questa emerge dalle diverse discipline scien­ tifiche - vorremmo individuare gli elementi utili a comprender­ la come un concetto filosofico-politico. Più specificamente, vor­ remmo comprendere in che modo i principali e più comuni usi di questa nozione siano rilevanti al fine di renderlo un concetto utile all’etica e alla teoria politica normativa. Se “corruzione” si­ gnifica un certo tipo di cattiva condotta, possiamo adattare o tradurre questa idea sul piano dei comportamenti civici, indivi­ duali e collettivi?

15 Vedi ad esempio le osservazioni in tal senso di Silvano Belligni, Il volto simoniaco del potere. Scritti su democrazia e mercati di autorità, Torino, Giap­ pichelli Editore, 1998, pp. 12-19.

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Il nostro approccio si concentrerà sulla relazione tra i com­ portamenti e le norme. Nella sfera collettiva, sono le norme ad orientare i comportamenti. Questa è la condizione civile degli uo­ mini: le azioni sono soggette a leggi la cui influenza è duplice. Se le norme inquadrano e quindi limitano l’attività umana, i com­ portamenti offrono, in cambio, l’accesso a un quadro d’azione “civile”, vale a dire non solamente socializzato ma che riflette va­ lori e fini preferibili; saremmo tentati di scrivere che questo qua­ dro - rendendo possibile uno spazio di civiltà - contribuisce a rendere l’uomo “civilizzato”. Osservata in termini generali, la condizione civile può quindi essere considerata come quella di­ mensione capace di accogliere diversi tipi di attività umane e di promuoverne l’espressione: la vita familiare, le relazioni profes­ sionali, gli scambi commerciali e le modalità del dibattito pubbli­ co sono tutte attività disciplinate dalle leggi. L’interrogativo filo­ sofico che anima la nostra riflessione riguarda in modo più speci­ fico il modo in cui, sull’ultimo dei piani menzionati, quello delle modalità del confronto pubblico, il rapporto degli agenti sociali con la legge diventa attivo. Vale a dire, cosa succede oggi quando la vita civile - l’esistenza degli uomini influenzata dalle leggi - di­ venta una condizione civica, vale a dire implica il coinvolgimento o l’impegno in un’attività che può essere all’orzgzwe delle leggi? In primo luogo, come concepire una condizione civica adeguata ai nostri tempi? L’investimento politico è, come sostiene il liberali­ smo, espressione dell’interesse personale? In tal caso, l’attività dei partecipanti al patto civico è davvero paragonabile all’investi­ mento interessato che si riscontra nel commercio? E quindi la re­ lazione politica è pensabile nei termini della relazione commer­ ciale? Lo spazio comune è una sorta di mercato in cui gli indivi­ dui arrivano collettivamente a “massimizzare” i loro vantaggi particolari? Oppure si dovrebbe pensarne la specificità, e forse persino concepirne la sua autonomia, facendo ad esempio l’ipote­ si di una peculiare “facoltà” (il senso civico) la cui espressione ri­ siederebbe sia nella capacità di mettere in secondo piano gli inte­ ressi privati, sia nella possibilità di agire per obbligo verso l’inte­ resse generale? In questo caso, se la condizione civica si apparen­ ta all’esperienza morale, la virtù civica è simile al dovere? In bre­ ve, su quali elementi si basa nell’essere umano l’ethos civico? 37

Tentare di rispondere a questo vasto ordine di domande è necessario su due livelli. Su di un piano più generale, questa in­ dagine è utile per determinare in cosa consista l’ethos civico più adatto alle nostre democrazie pluralistiche. Su un piano più ri­ stretto, ma che ci sembra altrettanto fondamentale, ci aiuta a svi­ luppare quel discorso che si occupa dell’attività politica e della condizione civica dell’uomo, osservate nella loro autonomia. Nel discorso repubblicano o repubblicanesimo entrambe si rife­ riscono a un ordine di obbligazione irriducibile alle altre dimen­ sioni della vita umana (economica, sociale, familiare), vale a dire a un ordine di obbligazione intrinsecamente superiore per di­ gnità e priorità rispetto a quelle. Lungo questa linea di analisi, per quanto attiene alla nozio­ ne di corruzione, ci si presentano quattro linee di indagine di maggior rilievo. Innanzitutto, in che misura questa nozione può rappresentare in via privilegiata le istanze tipiche del repubbli­ canesimo? In secondo luogo, come possiamo delineare con una maggiore precisione la nozione di corruzione sul piano specifi­ co di quei discorsi che cercano di cogliere ciò che è proprio dell’ethos civile? In terzo luogo, questo duplice approccio ci spin­ ge a interrogare nuovamente la rappresentazione implicita del­ l’essere umano su cui si fonda la nozione stessa di corruzione? In cosa consiste, allora, ciò che si potrebbe definire “antropolo­ gia della corruzione”, ovvero quelle caratteristiche implicite che rendono questa nozione operativa qui e ora? Infine, nella misu­ ra in cui viene ripresa dalle scienze sociali e poi rielaborata dalla filosofia politica contemporanea, questa nozione ci offre risorse teoriche utili ad affrontare alcuni aspetti delicati della vita de­ mocratica contemporanea? Questi livelli di riflessione ci sembrano collegati per quanto attiene il loro ancoraggio all’epoca contemporanea. Se la nostra indagine riesce a dare un’idea di corruzione adeguata alla realtà attuale della vita politica, possiamo allora sperare che si apra una via d’accesso utile al governo di eventi particolarissimi e diffici­ li da giudicare: casi di “quasi corruzione”, come il lobbying non regolamentato, il pantouflage di alti funzionari pubblici, e la se­ lezione di familiari quali addetti parlamentari. Questo approccio rende forse possibile il possibile superamento di due modelli

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ereditati dalla nostra tradizione politica: da un lato, quello della “libertà negativa” del liberalismo (caratterizzato da una defini­ zione puramente deontologica di corruzione, che vede l’attività politica come effetto aggregato delle azioni dei singoli agenti spinti dall’interesse personale) e, dall’altro lato, quella della “li­ bertà positiva” del repubblicanesimo classico (che si basa sul­ l’impegnativa ipotesi della specificità di un virtù civica “impec­ cabile”, perché “immacolata” dalla logiche sociali dell’interesse economico-individuale). Io ritengo che la nozione di corruzione sia un mezzo privile­ giato non solo per far luce su tali questioni, ma anche per decide­ re su di esse. Nella prima parte di questo libro discuto della cor­ ruzione come concetto giuridico, e di come essa designi un parti­ colare tipo di cattiva condotta catturata e repressa dal diritto pe­ nale. Come tale, essa costituisce uno dei dispositivi volti a regola­ re il funzionamento dello spazio pubblico. Il nostro approccio parte da questa dimensione per comprendere la nozione di corru­ zione nel senso più stretto del termine, al fine di uscire dalle insi­ die prodotte dagli equivoci dei suoi attuali usi. Svolto questo la­ voro preliminare, si tratterà di capire se e come questa nozione possa essere utilizzata per ripensare il tema della rettitudine dei comportamenti politici nella democrazia. Dopo aver discusso le condizioni di possibilità che rendono possibile la sua rappresenta­ zione più comune, e quindi come essa si presenti nel diritto fran­ cese, vedremo come la nozione di corruzione è associata al singo­ lo essere umano perché quest’ultimo è pensato come un essere im­ putabile. Questa “proprietà” dell’uomo, “l’imputabilità”, lungi dall’essere innata, ha una lunga storia. Una storia che possiamo paragonare, con Nietzsche, al “disciplinamento” di un essere che, per sua natura, le era invece refrattario16. Max Weber e Hans Kel­ sen ci mostreranno quanto questa storia sia intrecciata a quella del costituirsi dell’uomo moderno. Dovremo però affrontare il pro­ blema che di tutti questi concetti, che sono stati alla base del co­ stituirsi della modernità, non vi sia più alcuna evidenza oggi nelle istituzioni, e che essi non sono più forse comprensibili agli uomi­ ni e alle donne che queste istituzioni servono al loro meglio. 16 Cfr. infra, capitolo V.

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È quindi necessario uno spostamento storico e concettuale se si vuole rinnovare lo spirito di quel quadro concettuale. Da qui la seconda parte di questo lavoro: l’esame di alcune pratiche antiche o premoderne, di cui si occupano le scienze sociali, ci permetterà di cambiare la nostra prospettiva e di modificare il nostro punto di vista. Il patronato {patronage) o il clientelismo nelle società pre-statuali, la venalità delle cariche durante l’Xwcien régime e l’evergetismo nell’antichità, richiamano la necessi­ tà di ampliare la nostra riflessione sulla separazione o sulla linea di demarcazione tra la sfera privata e quella pubblica. La nozio­ ne di corruzione può essere ricollocata all’interno di una teoria, sia filosofica che politica, utile per il nostro tempo, a condizione che si tenga conto non solo dei limiti da porre al fenomeno corruttivo, ma anche - e forse soprattutto - delle condizioni etiche e politiche che garantiscono questi limiti. Oggi, in Francia, i rap­ presentanti eletti della Repubblica che ricoprono un’alta funzio­ ne pubblica dispongono di adeguati indirizzi deontologici (sta­ tuti vari, nomina di un responsabile deontologico per ciascuna delle due Camere)17. Restano da fondare filosoficamente questi indirizzi su una concezione chiara e solida di etica pubblica. Con questo libro, in particolare nella sua parte conclusiva, si spera di offrire un tale contributo18.

17 Vedi, per l’uno e l’altro livello, Jean-Marc Sauvé, «Quelle déontologie pour les hauts fonctionnaires?», Revue française d’administration publique, 3/2013 (n. 147), pp. 725-745; e Alain Anziani, «La déontologie, condition du renouveau du parlement», Pouvoirs, 3/2013 (n. 146), pp. 93-105. 18 II progetto alla base di questo lavoro risale al 2005, e la sua stesura prece­ de la comparsa di quei dibattiti pubblici che, nell’agosto 2017, hanno contribui­ to all’adozione da parte del Parlamento francese della Loi organique pour la con­ fiance dans la vie politique. Questo nuovo quadro legislativo, volto a migliorare le forme della vita pubblica, conferma tuttavia l’importanza e la complessità di questo tema. E fa da eco alle difficoltà connesse alla nostra riflessione: il rappor­ to tra leggi e costumi, la profondità e l’ambiguità degli affetti politici.

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PARTE I

La corruzione secondo la filosofia del diritto

I Dagli equivoci del linguaggio naturale alla trattazione giuridica

Chiunque voglia utilizzare il termine corruzione farebbe be­ ne ad osservare in primo luogo i suoi significati più comuni; que­ sti appariranno plurivoci e ambigui. Secondo Le Littréx, “corru­ zione” significa: 1. alterazione {altération), 2. putrida decompo­ sizione {décomposition putride), 3. depravazione {dépravation per esempio dei costumi), 4. mezzo che si impiega per convince­ re qualcuno ad agire contro il suo dovere e la giustizia. Questa semplice classificazione ci spinge a fare diverse osservazioni. In­ nanzitutto, il primo significato si riferisce al progressivo degra­ do di un corpo. Inscrive quindi un decadimento inevitabile nel cuore della logica naturale e, nello specifico, della logica del vi­ vente: sotto gli effetti del tempo, le pietre si consumano, ma i corpi viventi si corrompono perché le loro funzioni vengono al­ terate e il loro aspetto si degrada in maniera irreversibile. Tutta­ via, anche se rappresenta un movimento verso la distruzione e la scomparsa, la corruzione non costituisce una pura e semplice ne­ gazione del corpo ma un cambiamento di stato più o meno rapi­ do - quando si dice che un corpo si altera, significa che esso si trasforma in altro rispetto a sé stesso, il che implica una certa idea della dinamicità delle cose: la modifica consiste in un cam1 Emile Littré, L.-Marcel Dévie, Dictionnaire de la langue française: con­ tenant... la nomenclature... la grammaire... la signification des mots... la partie historique... l’étymologie..., 5 voll., Paris, Hachette, 1883. Il dizionario è con­ sultabile on-line (https://www.littre.org/).

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biamento di identità. Quindi, l’ordine di esposizione scelto da Le Littré induce a pensare che ci sia un passaggio dai primi due significati al terzo, e tende a suggerire che il termine si sia evolu­ to verso una qualificazione morale, e di conseguenza verso la de­ scrizione di un’azione umana (la quarta accezione). Mentre sem­ brava inizialmente avere a che fare con la fisiologia (la physique), negli ultimi due casi corruzione sembra aver acquisito un signi­ ficato ad un tempo attivo e peggiorativo che si basa sulla valuta­ zione di qualcosa in riferimento a una condizione standard o ideale. Pertanto, i costumi sono considerati corrotti in riferi­ mento a un perfetto stato morale, e l’atto di corruzione è deter­ minato come tale in relazione a un ideale di comportamento mo­ rale (il dovere) e un insieme di regole (la Giustizia). È sulla base di questa valutazione implicita, ma fondante, che la nozione di corruzione lancia per così dire, una sfida alla filosofia, nella sua duplice dimensione di comprensione dell’azione, ma anche di di­ sciplina pedagogica del giudizio umano.

Limiti e ambiguità dei significati correnti del termine “cor­ ruzione”

Questa sfida impegna la riflessione su molteplici fronti. In­ fatti, anche solo a partire da questa semplice classificazione se­ mantica, per la filosofia si aprono simultaneamente tre campi problematici. Il primo di questi riguarda il tema della corruzione dei corpi, che siano naturali o politici. Vale a dire, per quanto attiene ai pri­ mi, al loro ordinario mutare nell’apparire e nell’essere. Per ciò che concerne i secondi, nella loro incessante alterazione da un ti­ po di regime all’altro. Pertanto, è opportuno non accentuare troppo la separazione tra questi due tipi di trasformazioni cor­ poree e seguire l’esempio del pensiero greco che, già dalla sua fonte omerica, ha tessuto legami complessi tra questi due ordini di significato, fino al punto di renderli inestricabili2. In Occiden2 In un recente lavoro Marie-Pierre Krück ha messo in luce come queste due dimensioni fossero articolate nelle opere di Omero, dei tragici, di Socrate,

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te un orientamento simile sembra essere stato dato alle origini della filosofia politica: Le Littré ci segnala che a partire dalla ri­ cezione dei testi canonici di Aristotele, nel XIV secolo, Nicola d’Oresme impiega il termine “corruzione” per tradurre l’altera­ zione dei regimi. L’interesse più generale di questa significazione consiste nel rappresentare la logica umana delle relazioni sociali e politiche sotto la loro veste costituzionale riferendola alla ma­ teria, suscettibile di putrefazione, come in una sorta di “fisiologia della politica”, di cui troviamo echi in tutta la tradizione del pen­ siero politico occidentale, almeno fino agli stravolgimenti causa­ ti dalla Rivoluzione francese nel XIX secolo. Peraltro, l’idea del corrompersi delle forme costituzionali è anche rilevante perché, se la teoria dei regimi ha occupato la riflessione dei filosofi anti­ chi e moderni, ciò è stato possibile grazie al fatto che oltre il suo significato propriamente costituzionale essa ha un sostanziale ri­ lievo anche per comprendere il rapporto tra le leggi e la storia3. Il secondo ambito è quello della degradazione morale. Quest’ultima può essere intesa in due sensi diversi: da un lato, per ciò che riguarda nel modo più ampio i costumi, essa designa un de­ terioramento dei comportamenti sociali e civici. In tal senso, i teorici politici moderni - al cuore di quella modernità europea che è spesso considerata radicalmente progressiva - hanno mes­ so in risalto il pericolo rappresentato dal degradarsi della virtù4. Dall’altro lato, nel descrivere le spinte morali dell’uomo, essa in­ dica un’inclinazione al vizio o alla perversione. “Corruzione” è quindi un termine connotato teologicamente, e che in Occidente assume il suo significato all’interno di una tradizione cristiana se­ gnata dal pensiero dei suoi fondatori, a partire da Agostino di Ippona. Quest’ultimo, impegnato contro i Manichei nello scagio­ nare il Creatore dall’accusa di aver dato origine al male, ne imPlatone e Tucidide. Vedi Marie-Pierre Krück, Discours de la corruption dans la Grèce classique, Paris, Classiques Garnier, 2016. 3 Vedi la sintesi che Norberto Bobbio aveva offerto in uno dei suoi corsi universitari su questo argomento: La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Corso universitario dell’anno accademico 1975-1976, To­ rino, Giappichelli, 1976. 4 Cfr. Ronan Chalmin, Lumières et corruption, Paris, Honoré Champion, 2010.

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putò la responsabilità alle sue creature; forgiando un’immagine estremamente coerente dell’uomo peccatore e fondando un’an­ tropologia dell’uomo fallibile destinata ad esercitare una influen­ za straordinaria5. Piaccia o meno, la rappresentazione comune della corruzione, per come è espressa dal linguaggio quotidiano, porta implicitamente con sé significati culturali di origine teolo­ gica. Beninteso, il retroterra di questa antropologia della fallibili­ tà non è strettamente teologico, poiché, sin dall’antichità greca, i filosofi (Platone, gli Stoici) hanno riflettuto sulla tendenza del­ l’uomo al male, e la nozione di corruzione era uno dei modi per spiegarla. Questi significati comportano che l’indagine sul tema della corruzione trovi necessariamente nella filosofia morale la sua piena esposizione. Ciò significa che, a partire dall’antropolo­ gia, essa ci conduce all’assiologia e alla riflessione sulle regole morali e sul comportamento umano. Infine, l’ultimo significato è quello che prevale nella rifles­ sione giuridica. In questo campo, la corruzione è sia l’atto di corrompere, sia il suo risultato. Indica da un lato “lo scambio occulto” mediante il quale, per mezzo di denaro o altri vantag­ gi, un privato cerca di ottenere determinati servizi o informa­ zioni da un funzionario dell’amministrazione (dello Stato cen­ trale, o periferica di una collettività territoriale o locale), essen­ do questi servizi o queste informazioni preclusi o soggetti a de­ terminate regole di accesso. Dall’altro, si riferisce al reato carat­ terizzato dal risultato di questo scambio.

Dagli equivoci del linguaggio corrente ad una definizione generica della corruzione

In tutte e tre queste dimensioni la nozione di corruzione svolge una duplice funzione: consente di mostrare la non corret-

5 Vedi per esempio Michel Sourisse, «Saint Augustin et le problème du mal: la polémique anti-manichéenne», Imaginaire & Inconscient, 2007/1 (η. 19), pp. 109-124; e Jérôme Laurent, «“Peccatum nihil est”. Remarques sur la conception augustinienne du péché comme néant», Cahiers philosophiques, 2010/2 (n. 122), pp. 9-20.

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tezza o la disfunzionalità di fenomeni particolari o di condotte determinate e, per converso, di riconoscerne la rettitudine. In questa seconda funzione, di fatto, essa giudica la vita dei regimi, la dinamica dei costumi e l’esecuzione dei compiti dell’ammini­ strazione, come se ci si potesse riferire a un modello giusto e le­ gittimo. Per quanto concerne la prima funzione, la corruzione consente di indicare il degrado dei governi, la depravazione dei costumi e l’errata esecuzione dei compiti amministrativi. Questo degrado, a sua volta, è tale perché rinvia a un tipo originale e astratto: la natura, la dignità morale o l’idea del bene, infine la legge comune o il Diritto. In questi tre casi il tipo ideale deriva da una costruzione mentale, sia che essa provenga dall’osservazione e dalla sperimentazione, dalle aspirazioni umane e da un sistema assiologico tradizionale, o dalla razionalità sociale e giuridica. Inoltre, per parlare effettivamente di corruzione è necessario che questo tipo ideale sia concepito come regolatore, vale a dire sia in grado di fornire alla pratica un mezzo per pensarsi come regola­ ta. Quando la consideriamo analiticamente, sembra quindi che la nozione di corruzione mostri come al di sotto del normale fun­ zionamento della vita costituzionale, morale e civica o “civile”, vi siano delle norme più o meno implicite che le regolano. L’analisi approfondita delle condizioni di possibilità della nozione di cor­ ruzione dovrebbe quindi essere in grado di rivelare come le con­ dotte individuali e collettive sono regolate da queste norme. Inol­ tre, una delle principali questioni filosofiche in gioco nella nostra indagine risiede nella determinazione di quello che potrebbe es­ sere definito il “grado di regolazione” della vita sociale e politica nel quadro della democrazia. Per capire come, nonostante le sue ambiguità strutturali la nozione di corruzione sia utile, coerente e pertinente, è quindi necessario tratteggiare quella che possiamo descrivere come una sua definizione “generica”. Quella cioè che ne consente l’uso all’interno di un tipo di discorso che ne assume fino in fondo la complessità, vale a dire il discorso giuridico. Come è stato giustamente osservato, dal punto di vista del Diritto, si definisce come corrotta quella condotta che si confi6 Donatella Della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1992.

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gura come uno scambio occulto tra il corruttore e il corrotto6. Possiamo considerare questo scambio: 1. dal punto di vista del corruttore - colui che ottiene illegalmente un vantaggio (un be­ ne, un servizio, una opportunità) che non avrebbe ottenuto se­ guendo i canali leciti; 2. dal punto di vista della persona corrot­ ta - quest’ultima viene ricompensata per il servizio reso tramite una prestazione finanziaria, “in natura”, o attraverso qualsiasi tipo di beneficio (ad esempio un servizio o una opportunità fa­ vorevole); 3. dal punto di vista della vittima - questa è esclusa senza saperlo dalla transazione illecita. Questa tipizzazione apre a diverse osservazioni. In primo luogo, la corruzione per come è intesa dal diritto penale riguar­ da la relazione tra qualcuno che brama e ciò che si brama, attra­ verso un intermediario, l’individuo corrotto. In secondo luogo, se questa relazione può essere paragonata a uno scambio mercantile di tipo criminale, ciò è possibile solo a determinate condizioni: tale scambio, quando è illegale, è più genericamente definito come “frode” anziché come “corruzio­ ne”. Quest’ultimo termine è riservato invece a quelle transazio­ ni vietate che sussistono tra la sfera privata e la sfera pubblica, tra gli interessi privati e lo Stato. Per corruzione si intende quin­ di l’appropriazione indebita di un bene, di un servizio o di una opportunità connesse agli affari pubblici o che sono di compe­ tenza dello Stato. E in questo scambio, il “corrotto” è in genere un funzionario dello Stato, che si tratti di personale amministra­ tivo (funzionari pubblici e alti funzionari pubblici, personale ministeriale) o personale governativo (ministri, presidenti di as­ semblee, capo di Stato). Il nucleo di questa particolare forma di frode è nella scelta di un funzionario pubblico nominato o elet­ to di comportarsi in modo contrario alla sua missione, violando i suoi doveri deontologici, perché - convinto a monetizzare le sue competenze per una remunerazione determinata - è stato in­ dotto a comportarsi in maniera mercantile7. Di conseguenza, una delle dimensioni costitutive della no­ zione di corruzione deve essere interpretata alla luce di un regi­ 7 Cfr. le osservazioni di Jean G. Padioleau nel suo articolo «De la corrup­ tion dans les oligarchies pluralistes», Revue française de sociologie, vol. XVI,

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stro economico, poiché la relazione di corruttela può essere de­ scritta come uno scambio di valori basato sulla ricerca reciproca di un certo profitto. Questa relazione c dinamica (il prezzo e il valore sembrano essere del tutto relativi alle circostanze); e in questo essa è simile al baratto. Similmente a quest’ultimo, que­ sta relazione è anche profondamente personalizzata (perché as­ sume la forma assegnatale dai partecipanti). Ma a differenza del baratto, la corruzione presuppone la scarsità di ciò che si cerca di vendere e comprare. Questo è il motivo per cui essa prospera nelle economie chiuse e dirigiste, in cui in cui gli affari pubblici sono presi in carico dall’apparato di Stato, così come nei paesi poveri in cui i funzionari dell’amministrazione, per la mancanza di un reddito effettivamente sufficiente a soddisfare ai loro biso­ gni - o per la mancanza di un reddito che considerano adeguato al prestigio conferito dal loro status - sono tentati di monetiz­ zare le loro competenze o di riservare l’accesso al servizio pub­ blico a coloro che possono acquistarlo8. In sostanza, così intesa, la corruzione è la commistione di or­ dini che dovrebbero invece rimanere distinti, e che pertanto istruiscono dei legami occulti tra la sfera pubblica e la logica di

1975, pp. 33-58, contenuto in Id., L’Etat an concret, Paris, PUF, 1982, pp. 173204. Un’analisi ragionata della deontologia del funzionario pubblico si trova in Christian Vigouroux, Deontologie des fonctions publiques, Paris, Dalloz, 1995. Vedi anche le ricerche di Hyacinthe Sarassoro, La corruption des fonctionnai­ res en Afrique: étude de droit pénal comparé, Paris, Economica, 1980. 8 Per quanto riguarda la corruzione intesa dalle scienze economiche, rin­ viamo ai seguenti riferimenti: Jean Cartier-Bresson, «Éléments d’analyse pour une économie de la corruption», Revue Tiers Monde, n. 131, pp. 581-609; «L’é­ conomie de la corruption. De la définition d’un marché de la corruption à l’é­ tude de ses formes organisationnelles: un premier bilan des analyses économi­ ques de la corruption», in Donatella Della Porta e Yves Mény (dir.), Démo­ cratie et corruption en Europe, Paris, La Découverte, 1995, pp. 147-163; Jean Cartier-Bresson (dir.), Pratiques et contrôle de la corruption, Paris, Montchre­ stien, 1997; Arvind K. Jain (ed.), Economies of Corruption, Boston-DordrechtLondon, Kluwer Academie Publishers, 1998; Susan Rose-Ackerman, Corrup­ tion: A Study in Political Economy, New York-San Francisco-London, Acade­ mic Press, 1978; Susan Rose-Ackerman, Corruption and government: causes, consequences and reform, Cambridge, University Press, 1999; Antonio Argandona, «Corruption: the Corporate Perspective», Business Ethics: A European Review, voi. 10, n. 2, apr. 2001, pp. 163-175.

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mercato attraverso la compravendita di beni normalmente inappropriabili. Pertanto, secondo il Diritto penale francese, nella relazione di corruttela si stringe quello che si potrebbe descrive­ re come un patto tra il corruttore e il corrotto, una relazione in cui l’oggetto è l’acquisto privato di un servizio che appartiene in via esclusiva alla sfera pubblica. Il Diritto riconosce quindi la pa­ ri responsabilità penale delle due parti coinvolte.

Categorie penali di corruzione Analizziamo ora più da vicino le categorie che indicano la corruzione nel Diritto francese. Il vecchio Codice Penale, pre­ cedente la riforma del 1994, conteneva una serie di articoli (da 177 a 180) che ne unificavano in qualche modo la nozione, e in­ tendevano per corruzione qualsiasi azione con la quale un atto­ re privato o pubblico ottiene un vantaggio illecito. La corruzio­ ne era quindi intesa come uno scambio occulto che consente l’accesso a risorse che il rispetto delle regole e delle procedure avrebbe precluso, o che avrebbe reso aleatorio. La riforma del diritto penale nel 1994 ha diversificato i casi e reso più comples­ sa la nozione di corruzione9. Ma è interessante notare che, nel­ l’opinione dei penalisti, questa tendenza (risultato di sviluppi nel diritto penale che hanno portato a una maggiore precisione nella determinazione dei reati) ha riprodotto quanto era già ac­ caduto nella fase di passaggio dal diritto antico a quello moder­ no: pur conservandosi l’idea che esiste un reato di corruzione, le categorie penali che lo caratterizzano, nel loro diventare più spe­ cifiche, fanno sempre meno ricorso al termine. Questa tendenza generale la si osserva nel fatto che fin dal diritto penale rivolu­ zionario la corruzione strictu sensu è stata distinta dalla concus­ sione, che consiste nel raccogliere indebitamente dei fondi a ti­ tolo di imposta. Anche oggi sotto il titolo di corruzione il Codice Penale comprende reati diversi, o più precisamente, due sue definizioni 9 Per ulteriori approfondimenti, cfr. Philippe Bonfils, «La corruption en droit pénal», in Jean-Yves Naudet, La corruption, op. cit., pp. 223-240.

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complementari, a seconda che l’autore della corruzione eserciti una funzione pubblica (corruzione passiva)10 o sia un privato cittadino (corruzione attiva)11: - la corruzione passiva è l’atto, da parte di una persona de­ positaria di un’autorità pubblica, e incaricata di una funzione di servizio pubblico o investita di un mandato elettivo pubblico, di chiedere o di accettare, senza alcun diritto, in qualsiasi momen­ to, direttamente o indirettamente, offerte, promesse, donazioni, regali, o qualsiasi sorta di vantaggio per eseguire o astenersi dal compiere un’azione connessa o facilitata dalla sua funzione, mis­ sione o mandato. - la corruzione attiva è l’atto di proporre senza diritto, in qualsiasi momento, direttamente o indirettamente, offerte, pro­ messe, donazioni o regali o vantaggi di qualunque genere, al fi­ ne di ottenere un beneficio da una persona che ricopre un pub­ blico ufficio, incaricata di una missione di servizio pubblico o investito in un mandato elettivo pubblico, indipendentemente dal fatto che compia o si astenga dal compiere un atto della sua funzione, missione o mandato, o facilitato dalla sua funzione, missione o mandato. Si possono fare diverse osservazioni a proposito di queste due definizioni. In primo luogo, va notato che esse costituisco­ no due parti di un’azione che finora abbiamo considerato nella sua totalità, e per la quale, dicevamo, il diritto penale riconosce la corresponsabilità nello scambio dei due partecipanti. In real­ tà, i beni pubblici possono essere venduti, o offerti alla vendita (corruzione passiva) senza che siano effettivamente acquistati, e possono essere acquistati o offerti all’acquisto (corruzione atti­ va) senza con ciò essere venduti. In secondo luogo, si può os­ servare che se il corrotto svolge una funzione di rappresentanza della cosa pubblica, questi può esercitare tale funzione a vario ti­ tolo (o questa può essere intesa in modo molto generale): può essere una persona depositaria dell’autorità pubblica (ministri, prefetti, funzionari pubblici) o una persona investita di un man­ dato elettivo (sindaci, consiglieri generali o regionali) o addirit10 Articolo 432-11 del Codice Penale. 11 Articoli 433-1 e 433-2 del Codice Penale.

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tura incaricata di una missione di servizio pubblico (agente di polizia, ispettore RATP, insegnanti). Ancora, il bene materiale che il funzionario corrotto richiede o riceve non è riducibile al solo denaro, ma è da intendersi in senso molto ampio. In effetti, il testo sottolinea il principio di una transazione a vantaggio pri­ vato di entrambe le parti. Infine, la legge del 30 giugno 2000 ha chiarito che anche la remunerazione a posteriori fa parte di uno scambio censurabile, attribuendo così a questa transazione una notevole estensione temporale. 11 fatto che, oltre alla corruzione propriamente detta, esista­ no reati simili che sono ugualmente caratterizzati da corruzione in senso lato, aumenta l’impressione di frammentazione di que­ sta nozione. Ad esempio: - l’abuso di un patrimonio societario12, vale a dire il fatto che un dirigente di una società per azioni o di una società a respon­ sabilità limitata possa fare cattivo uso del patrimonio o del cre­ dito della società, a scapito degli interessi della stessa, per scopi personali o per favorire un’altra società o impresa a cui è inte­ ressato; - il favoritismo13: ossia che chiunque abbia il potere di inter­ venire nell’assegnazione di un appalto pubblico, procuri o tenti di procurare ad altri un vantaggio ingiustificato con un atto con­ trario alle leggi o ai regolamenti che garantiscono la libertà di ac­ cesso e uguaglianza dei candidati negli appalti pubblici. In caso di favoritismo, non c’è corruzione diretta perché non comporta necessariamente un accordo tra corrotto e corruttore; - la concussione14: come detto sopra, si tratta del caso in cui un funzionario riceva o chieda, a titolo di imposizione o contri­ buto, una somma di denaro, pur conscio del fatto che essa sia in tutto in parte non dovuta; essa consiste anche nell’atto di conce­ dere in qualsiasi forma un’esenzione o uno sgravio da dazi, con­ tributi, tasse o imposte in violazione di norme giuridiche o par­ lamentari. Qui non c’è corruzione in senso stretto perché questa, come abbiamo detto, implica la corresponsabilità dei due parte-

12 Articoli L. 241-3-40 e L. 242-6-30 del Codice del Commercio. 13 Articolo 432-14 del Codice Penale. 14 Articolo 432-10 del Codice Penale.

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cipanti al patto di corruzione, mentre nella concussione il fun­ zionario è l’autore del reato, mentre il contribuente è la vittima; - l’assunzione illecita di interesse (o ingerenza)15: che una persona depositaria di un’autorità pubblica o incaricata di una funzione di servizio pubblico, o una persona investita di un mandato elettivo, si procuri o riceva un qualsiasi beneficio da un’impresa per la quale, al momento dell’atto (o anche entro 5 anni), ha la responsabilità di assicurare la supervisione, l’ammi­ nistrazione, la liquidazione o i pagamenti. Non c’è corruzione, perché in questo reato il funzionario non compie nessuna azio­ ne in contrasto con la sua missione; - l’appropriazione indebita di beni pubblici16: l’atto, da par­ te di una persona depositaria di un’autorità pubblica, di distrug­ gere, appropriarsi indebitamente o alienare un titolo o dei fondi di cui si è in possesso in ragione delle proprie funzioni o della sua missione. Se non si tratta di corruzione, è perché tale reato riguarda solo una persona, mentre la corruzione implica un ac­ cordo tra due persone; - il clientelismo {influence peddingf7: il fatto che una perso­ na depositaria di un’autorità pubblica, incaricata di una missione di servizio pubblico o investita di un mandato elettivo pubblico, richieda o conceda un qualsiasi vantaggio col fine di sfruttare la propria influenza così da ottenere, da un’autorità o da un’ammi­ nistrazione pubblica, trattamenti di favore, posti di lavoro, mer­ cati o qualsiasi altra decisione favorevole (scambio di influenza passivo). È anche il fatto, per un privato cittadino, di proporre, alle stesse condizioni, eventuali vantaggi in modo che il destina­ tario sfrutti la sua influenza (scambio attivo di influenza). Queste categorie hanno una storia giuridica che può essere molto antica (ad esempio il caso della concussione), ma la mag­ gior parte di esse sono state ridefinite con precisione solo con la riforma del 1994. In particolare, l’abuso del patrimonio societa­ rio, l’ingerenza, il clientelismo, sono categorie emerse dalla crisi 15 Articoli 432-12 e 432-13 del Codice Penale. 16 Articolo 432-15 del Codice Penale. 17 Articolo 432-11 del Codice Penale sullo scambio d’influenza passivo, e gli articoli 433-1 e 433-2 per lo scambio di influenza attivo.

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provocata da ciò che si potrebbe descrivere come “l’usurarsi” della nozione classica di corruzione. L’opera di Yves Mény, La corruption de la République^, è una testimonianza interessante del modo in cui, prima della riforma del 1994, diversi autori era­ no preoccupati per la proliferazione di pratiche politiche semi­ istituzionali che, senza essere direttamente legate alla corruzio­ ne come la intendeva il Codice, non potevano tuttavia essere considerate propriamente legittime. Ritorneremo successiva­ mente sul significato di queste categorie (e sui casi a cui esse fan­ no riferimento), ma a questo punto possiamo sottolineare il fat­ to che ciò che si mette in evidenza è la dimensione struttural­ mente problematica di alcuni fenomeni sociali che hanno la loro ragion d’essere nel quadro del nostro sistema democratico. Infine, possiamo aggiungere a questo elenco alcuni reati più specifici, che sono come delle applicazioni particolari del reatomadre di corruzione: - la corruzione implicata nella produzione di certificati fal­ si18 19: in questa variante del falso, una persona che agisce nell’e­ sercizio della sua professione richiede o accetta offerte o altri vantaggi, per creare una certificazione che attesta fatti material­ mente inesatti; - la corruzione di dipendenti20: è il caso in cui un dirigente o un dipendente richiedano, o accettino offerte o altri vantaggi, per intraprendere o astenersi dal compiere un atto proprio della loro funzione, o reso possibile dalla loro funzione, senza avere l’autorizzazione del datore di lavoro; - la corruzione dei magistrati21: che un magistrato o una per­ sona che esercita un’autorità giudiziaria (esperto, arbitro...) ri­ chieda o accetti offerte o altri vantaggi per compiere o astenersi dal compiere un’azione nella sua funzione, così come il fatto di cedere a tali sollecitazioni. È quindi una variante della corruzio­ ne, ma che figura nel Codice penale come uno degli ostacoli al­ l’esercizio della giustizia.

18 Yves Mény, La corruption de la République, Paris, Fayard, 1992. 19 Articolo 441-8 del Codice Penale. 20 Articolo L. 152-6 del Codice del Lavoro. 21 Articolo 434-9 del Codice Penale.

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Nella loro varietà, queste categorie penali, frutto del pazien­ te lavoro del legislatore, si riferiscono a reati diversi. Quali pun­ ti comuni possiamo individuare tra loro? La moltiplicazione delle categorie, la loro rilevanza rispetto ai casi sempre partico­ lari della vita sociale ci consente di discernere una struttura che li accomuna? E l’esame delle basi filosofiche del Diritto che ci permette di rispondere a queste domande.

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II Volontà e responsabilità: le basi filosofiche

In queste tipologie giuridiche è possibile individuare una struttura comune. In primo luogo, se osservata ad un livello più generale e quando considerata lato sensu, la corruzione presup­ pone sempre condizioni strutturali determinate, quali, da un la­ to, il riconoscimento di un’autorità pubblica (ad esempio, nel caso del rilascio di certificati falsi, quello del funzionario che emette questi documenti) e, dall’altro lato, il comprovato tenta­ tivo di abusare di tale autorità per uno scopo particolare o pri­ vato. Questo è il motivo per cui si la può definire genericamen­ te (o a minima') come la deviazione interessata di un rapporto di autorità.

Deontologia e “debolezza della volontà ” In secondo luogo, in ciò che regola l’azione del funzionario di Stato, nonché quella del personale politico, emerge una strut­ tura comune. La condotta corretta dei funzionari e il presunto giusto orientamento degli eletti sono le condizioni tacite e a priori della loro azione. Ovviamente, né il funzionario, né l’elet­ to, sono tenuti a dichiarare espressamente la loro integrità in ogni atto che compiono per conto dell’autorità pubblica, e an­ che di recente non si è fatto realmente richiamo alla deontologia se non in caso di crisi o gravi disfunzioni del sistema: la maggior parte dei casi trattati dall’amministrazione. Così come la mag­ gior parte delle decisioni prese da rappresentanti eletti non im­

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plicano il riferimento diretto a regole che tutelano il servizio pubblico dal rischio di appropriazione del bene comune da par­ te di interessi privati. L’approvazione in Francia di un codice deontologico per ciascuna delle due Camere (Parlamento e Se­ nato) non ha portato, a tal proposito, a grandi cambiamenti. Questa apparente fragilità dei controlli a priori ci spinge a una riflessione: se nonostante tutto il sistema giuridico mostra un’ef­ fettiva efficacia nel regolamentare la vita sociale e civile, ciò è pos­ sibile perché il rapporto tra le norme e le condotte è costantemente e implicitamente rinforzato da uno sforzo di adeguamen­ to che gli individui esercitano sulla base di un principio fondante e attivo. Questo principio è la responsabilità individuale. Le di­ verse tipizzazioni della nozione di corruzione appaiono in, e a fa­ vore di, un sistema normativo che ha come obiettivo quello di far sì che i propri membri possano, con un minimo di coercizione o di costrizione esterna, rispettarne l’ordinamento. Nel contempo, e col coinvolgimento di tutti quelli che sono in grado di gover­ narsi razionalmente, esso deve individuare, giudicare e sanziona­ re le condotte di quegli agenti che mettono in pericolo l’integrità di una sfera pubblica intesa come non appropriabile da privati. L’analisi della nozione giuridica di corruzione rivela quindi che l’idea di responsabilità costituisce la pietra miliare di un edificio che assicura alla sfera pubblica la capacità di resistere all’illimita­ ta appropriazione privata di beni, cariche e vantaggi. Basandosi su questo quadro concettuale, è opportuno notare che la rappresen­ tazione giuridica della corruzione si è imposta nel momento in cui, verso la fine del XVII secolo e all’inizio del XIX, la condi­ zione dell’uomo a fronte della legge (civile) è stata teorizzata as­ sumendo quale principio di riferimento l’autonomia del soggetto: questo è il presupposto che ordina la “filosofia implicita” del Co­ dice Civile del 18 0422. Sebbene sia piuttosto la forma penale del­ la responsabilità ciò che conta per la comprensione della corru­ zione, è comunque interessante far riferimento, in questo conte­ sto, ad alcuni elementi tipici della sua dimensione civilistica. A tal

22 Si veda, ad esempio, Jean-Luc Chabot, «Cartésianisme méthodologique et Code civil», in Jean-Luc Chabot, Philippe Didier e Jérôme Ferrand (dir.), Le Code civil et les droits de l’homme, Paris, L’Harmattan, 2005, pp. 25-42.

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proposito, gli articoli 1382 e 1383 del Codice affermano rispetti­ vamente che: «Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à au­ trui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer», e che «Chacun est responsable du dommage qu’il a cau­ sé non seulement par son fait, mais encore par sa négligence ou par son imprudence». L’ampia giurisprudenza che accompagna questi articoli ci consente di comprendere l’intenso lavoro svolto dal Diritto attorno alla nozione di responsabilità, che pur nella sua semplicità, esige si diano soluzioni precise a problemi molto delicati. Se andiamo al di là di questa giurisprudenza, e ci con­ centriamo sull’idea fondamentale implicata in questi articoli, tali questioni ci appaiono tutte in primo luogo legate a un’importan­ te tema filosofico: esse mostrano che la legge attribuisce in modo inscindibile l’individuo alle sue azioni e alle conseguenze che queste possono avere sull’esistenza degli altri. Ciò detto, questa caratterizzazione del problema filosofico che è implicato nell’idea di responsabilità può essere colta in due modi diversi dal punto di vista del diritto. In un primo senso, essa evoca l’idea che esiste un legame di causalità determinabile tra una persona e un atto, e un altro legame tra questo atto e le sue conseguenze, che potrebbero essere negative (nozioni di “danno” e “colpa”). In un secondo senso, essa designa la possibilità di un equilibrio tra un danno e la riparazione richiesta dalla legge a beneficio di chi subisce l’offesa, e contro l’autore del reato. Queste due idee sono entrambe fon­ damentali per la responsabilità civile (che designa, in generale, l’obbligo.di un soggetto a rispondere dei suoi atti davanti alla leg­ ge) e per la responsabilità penale (che, in un modo particolare, stabilisce una relazione tra un atto illecito, un danno effettivo e una specifica pena). Dietro la nozione di responsabilità, osservia­ mo come appaia quella di volontà, che è altrettanto importante per la pratica sociale, ma anche ugualmente spinosa, quando se ne voglia dare una definizione chiara e distinta. Entrambe le nozio­ ni sono cardinali per il discorso giuridico sulla corruzione poiché, dietro la responsabilità, vi è la debolezza della volontà che opera come un fattore decisivo23. 23 Si veda a questo proposito Alain Anquetil, «Corruption et faiblesse de la volonté», Le journal de l’école de Paris du management, 2005/1, n. 51, pp. 9-15.

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Pertanto, non sorprende affatto che nella sua Dottrina pura del diritto, Hans Kelsen abbia posto un’attenzione particolare alla possibilità data al soggetto di rispondere delle proprie azio­ ni. Le analisi del grande giurista austriaco ci permettono di com­ prendere meglio il significato di questa capacità; inoltre forni­ scono un mezzo per cogliere l’ambiguità che presiede alla defi­ nizione del soggetto di diritto.

Filosofia del diritto e fondamenti della responsabilità: Kelsen

Hans Kelsen definisce il Diritto come un sistema di norme. La norma è una regola umana che obbliga o genera un dovere. In termini kelseniani, la legge risultante dal Diritto si riferisce a ciò che concerne il sollen (in tedesco: il dovere essere), mentre la legge risultante dalla conoscenza della natura si riferisce a ciò che riguarda il sein (in tedesco: l’essere). Il dovere prodotto dal­ la legge deve essere compreso nel suo senso più ampio: quando proibisce (“l’aspetto negativo” dell’ordine giuridico), e quando ordina, autorizza e permette (il suo “aspetto positivo”)24. Que­ sti due aspetti costituiscono l’area di “validità” delle norme: la caratteristica delle norme è infatti che valgono per un determi­ nato gruppo di uomini. Con riguardo alla loro efficacia, quella delle norme non ha certo la stessa validità delle leggi fisiche, poi­ ché queste lo sono in modo universale e necessario mentre le norme giuridiche solo in maniera condizionata: se i fatti natura­ li non possono scegliere di “disobbedire” alle leggi che li regola­ no, gli uomini scelgono di obbedire alle norme e possono sem­ pre disobbedirle. In maniera paradossale, non c’è una validità delle norme se non per quegli esseri che sono in grado di non obbedire25. L’insieme di norme che un gruppo di uomini si dà, forma un ordine sociale. Tuttavia, qualsiasi ordine sociale, es­ sendo un sistema di norme basato sulla loro validità, si manife­

24 Hans Kelsen, La dottrina pura del diritto, a cura di M.G. Losano, Tori­ no, Einaudi, 1990. 25 Ivi, § 4, pp. 12-34.

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sta attraverso le sue possibili sanzioni. Il sistema giuridico si fonda quindi su di un sistema di vincoli che può essere esplicita­ mente reso manifesto mediante sanzioni, ed è questo il contesto in cui la nozione di responsabilità gioca un ruolo fondamentale. Questa nozione funziona finché essa rende il soggetto capace di rispondere delle proprie azioni, vale a dire di poter essere, o di potersi effettivamente riconoscere, come la causa di quelle azioni. L’esame della causalità di Kelsen è contenuto nei capitoli XVIIXXIII della Teoria pura del diritto, che corrispondono significa­ tivamente al capitolo III dedicato a “Diritto e scienza”: dopo aver identificato le condizioni generali per l’espressione del diritto (ca­ pitolo I, “Diritto e natura”), e dopo aver considerato i rapporti tra diritto e morale (capitolo II), Kelsen giunge a riflettere sullo statuto della razionalità giuridica. Con l’esame della causalità si pone quindi la questione cruciale della scientificità del discorso giuridico. Il giurista osserva che la scienza del Diritto non forni­ sce che una conoscenza dell’uomo fin tanto che questi si sotto­ mette alle norme, vale a dire a regole oggettivamente valide, e quindi egli limita la scienza del Diritto alla «conoscenza ed alla descrizione delle norme giuridiche e dei rapporti posti in essere da queste norme tra i fatti da essere regolati»26. Pertanto, egli lo distingue da tutte le altre scienze che mirano alla conoscenza del­ le relazioni causali tra processi reali. La natura, d’altra parte, rap­ presenta «un certo ordinamento delle cose, ovvero un sistema di elementi collegati l’uno con l’altro come causa ed effetto, cioè se­ condo un principio di “causalità”27». Se la natura è il potere di causare fenomeni, il Diritto ha il compito di condizionare le con­

26 Ivi, § 17, p. 93. 27 Ibid. Si può notare la caratterizzazione rigorosamente razionalista di questa idea di natura che può essere fatta risalire alla filosofia kantiana. Per Kant, la natura è un insieme di fenomeni collegati tra loro dalle leggi. La Cri­ tica della ragion pura si propone di chiarire l’idea della natura sulla base del­ l’attività legislativa della conoscenza, un’attività che si basa sulla capacità di collegare tra loro i fenomeni naturali grazie al principio di causalità. Tale fa­ coltà è resa possibile dai “giudizi sintetici a priori” di cui la critica si impegna a comprendere l’origine. Vedi: Critica della ragion pura. Analitica trascenden­ tale, Libro I: Analitica dei concetti, Capitolo II, terza sezione della prima edi­ zione Della relazione dell’intelletto ad oggetti in generale e della possibilità di conoscere questi oggetti a priori, a cura di C. Esposito, Milano, Bompiani, 2004.

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dotte umane e di conseguenza opera, almeno apparentemente, al­ lo stesso modo della natura. C’è infatti una differenza fondamen­ tale tra le due dimensioni. Nel normale corso della natura, se si verifica un fenomeno A ed esso è la causa di B, si produce neces­ sariamente il fenomeno-effetto B. Nel normale corso del Diritto, quando si verifica A non diciamo che B è, ma diciamo che B de­ ve essere (soll sein); il che non implica che B accadrà ogni volta che si verificherà A. Kelsen afferma che, a differenza della scien­ za della natura, la scienza giuridica non osserva nei diversi feno­ meni processi immutabili che operano come agenti necessari, ma essa considera delle norme stabilite dall’autorità giuridica - cioè atti di volontà - che stabiliscono una connessione tra una causa (un reato o un crimine, per esempio) e un effetto (una sanzione)28. Ciò detto, è ancora necessario comprendere (1) in che modo nella scienza giuridica alcuni fenomeni, che si potrebbero nomi­ nare “fenomeni-effetti”, sono collegati ad altri, i “fenomeni-cau­ sa”; (2) cosa questi fenomeni siano esattamente. La fine del ca­ pitolo XVIII fornisce una prima risposta: il collegamento tra A e B non indica una causalità, ma una relazione di imputabilità. Se il fenomeno B è riconosciuto come l’effetto di A, ciò è in virtù della capacità di imputazione che è associata al soggetto che ha commesso A. Se questo soggetto, che è il motore di questo nes­ so, ha una tale capacità allora secondo la scienza del Diritto que­ sta associazione avviene secondo rigore ed è valida. Se invece il soggetto non ha questa capacità, dal punto di vista della scienza giuridica non si può dire che B sia causato da A poiché non si ri­ conosce questo soggetto passibile di imputazione. In termini più concreti, affinché una sanzione sia associata a un reato o a un de­ litto è necessario che si riconosca il soggetto che ha compito l’u­ no o l’altro come capace di commetterlo. Al contrario, se questo soggetto è riconosciuto come incapace, non significa che il cri­ mine non sia stato commesso, ma che a costui non si può attri­ buire una sanzione. Pertanto, l’analisi dei profili specifici della scienza giuridica spiega la nozione di responsabilità soggettiva. L’imputazione è infatti possibile grazie all’esistenza di un principio, quello della responsabilità individuale, inteso come un 28 Hans Kelsen, La dottrina para del diritto, op. cit., § 18, p. 94.

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certo uso della volontà. L’analisi giuridica rinvia qui a una que­ stione di filosofia teoretica nella misura in cui si tratta, secondo Kelsen, di comprendere se la volontà è o non è libera, secondo l’accezione corrente che si dà al termine di libertà, ossia come ca­ pacità della volontà di derogare a una determinazione naturale. La distinzione tra causalità naturale e imputazione umana porta con sé quella tra ordine naturale e ordine umano, cioè la tensione tra necessità e libertà. E quest’ultima è «indispensabile per i rap­ porti normativi fra gli uomini»29. Comprendere allora perché la libertà è cosi essenziale per l’esistenza umana regolata dal Diritto è al cuore di ogni indagine sulla natura della responsabilità civile. In quanto elemento naturale l’essere umano è spinto ad agire in modo causato, e la sua condotta è descrivibile analogamente a quella di un qualsiasi effetto che agisce o per se stesso o perché determinato dalle sue cause. L’uomo non è quindi libero nel sen­ so in cui questo termine è comunemente compreso. Tuttavia, l’i­ dea della libertà umana implicata nella personalità giuridica o morale ha un significato molto diverso dalla rappresentazione comune della libertà. Per comprendere questa differenza è neces­ sario fare una digressione, ed esaminare la questione dell’imputa­ zione o, più precisamente, indagare quel processo al termine del quale si giunge a ritenere che una persona meriti un riconosci­ mento o una punizione. Quando si attribuisce un riconoscimen­ to o una punizione ad un’azione si dice in genere che assegnamo alla persona un riconoscimento o una punizione che risulta dalla valutazione morale o giuridica di tale azione. Si potrebbe quindi credere che ciò che è importante per la morale o per il diritto, in quanto orizzonti normativi del comportamento umano, sia sape­ re chi è l’autore di queste azioni. Ma questa è solo un giudizio sul fatto e non è quanto interessa nel processo di imputazione; ossia, non è ciò che caratterizza realmente l’imputazione. La questione che le sta al cuore è piuttosto: chi dovrebbe rispondere per questi comportamenti? Il che porta a domandarsi: chi dovrebbe essere ricompensato per questa condotta meritoria e chi dovrebbe esse­ re punito per questa condotta biasimevole? L’assegnazione di una ricompensa o di una punizione è fatta rispettivamente sulla 29 Ivi, §23, p. 111.

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base di un giudizio di merito e di colpa. Il comportamento di un individuo meritevole o biasimevole è quindi la prima condizione dell’imputazione, la persona stessa è la seconda condizione; que­ sti aspetti intervengono tuttavia nel processo di imputazione so­ lo come condizioni. È quindi solo a causa di un uso improprio del linguaggio utilizzato nell’ambito giuridico che si attribuiscono delle ricompense o punizioni alle persone. In tal modo, appare come «il problema della responsabilità morale e giuridica è strettamente collegato al problema della retri­ buzione»30. Il principio di retribuzione in effetti collega una con­ dotta che si conforma a una norma con una ricompensa, e vice­ versa collega una condotta che contravviene ad una norma con una punizione. Perché questo è un problema? Per due motivi. (1) Innanzitutto, perché malgrado tutto si giudica una condotta per­ sonale e non un’azione astratta come meritevole di lode o di biasi­ mo, e quindi una ricompensa o una punizione. Ora, una simile af­ fermazione appare legittima perché l’imputazione si effettua dopo che delle norme valutano efficacemente delle condotte individua­ li; in un certo senso, si potrebbe dire che, anche se il diritto non giudica delle persone ma delle azioni, l’azione rivela la persona. (2) In secondo luogo, perché se confrontiamo quanto avviene nel­ l’imputazione con quanto avviene nella causalità naturale osser­ viamo che per quanto riguarda quest’ultima si dice che un effetto B è determinato da una causa A, ma quest’ultima, ad osservare la cosa in maniera rigorosa, è essa stessa solo un effetto: quello di una causa Al. La causa A è detta causa prossima, la causa Al è detta causa lontana o più lontana; e la causa Al è ovviamente essa stes­ sa prodotta da una causa A2 e così via. La regressione causale na­ turale avviene all’infinito. Nella misura in cui è considerata come una serie di fenomeni che si verificano in natura, la condotta uma­ na è suscettibile, al pari dei processi inanimati, di essere considera­ ta in relazione ad una tale regressione causale: è l’«elemento sem­ plice di una serie infinita». Ma questo non è quanto succede se­ condo la logica giuridica. È qui che riappare la questione della li­ bertà dell’uomo come membro di un ordine giuridico o morale. In cosa consiste in effetti questa libertà? In questo: l’uomo è il «pun30 Ivi, §23, p. 112.

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to finale dell’imputazione» che è possibile solo sulla base, e in vir­ tù, dell’esistenza e della validità dell’ordine normativo. La libertà che è alla base della capacità di imputazione non è quindi la stessa che si intende usualmente. Secondo l’idea comune di libertà, un uomo è libero nella misura in cui è in grado di sot­ trarsi all’ordine causale e nella misura in cui la sua volontà è in gra­ do di sfuggire alla determinazione naturale. Una tale rappresenta­ zione, scrive Kelsen, è «in contraddizione evidente con i fatti del­ la vita sociale». La questione è piuttosto in che modo una ricom­ pensa, o una punizione, possano essere associate ad un atto meri­ torio o biasimevole. Tuttavia, l’istituzione di un ordine normativo che regoli la condotta degli uomini (l’unica base possibile per l’im­ putazione) presuppone, al contrario, che la condotta umana rego­ lata possa essere determinata causalmente. In questo senso, questa condotta non è libera, se si intende questo termine secondo la sua rappresentazione consueta: l’ordine normativo che è necessario per l’imputazione condiziona le condotte. L’imputazione giuridi­ ca e morale è possibile anche quando la volontà è causalmente de­ terminata. Ora qui appare un punto molto importante: spesso ri­ teniamo che, a differenza degli animali o delle cose inanimate, ed essendo la libertà umana la capacità di derogare alle leggi della na­ tura, si possano rendere gli uomini responsabili per le proprie azioni. Ma ciò che permette di fare questa distinzione è piuttosto il fatto che l’uomo è in grado di darsi comandi che vincolano la sua condotta a delle regole; e queste permettono giustamente di con­ siderarlo come responsabile, vale a dire, rendono la sua condotta tale da essere imputabile. Pertanto, è la determinazione causale della volontà umana - basata su regole morali o giuridiche, ovvia­ mente, non sotto l’influenza di fenomeni naturali - ad essere il cri­ terio per distinguere tra soggetti la cui condotta è suscettibile di es­ sere imputata come responsabile, e soggetti la cui condotta non lo è. In altre parole, «non si effettua un imputazione nei riguardi di un uomo per il fatto che egli è libero, l’uomo è libero perché nei suoi riguardi si effettua un’imputazione31». Se osservato nella sua piena estensione e complessità (un ordine in cui gli individui si re­ lazionano tra loro e in cui agiscono secondo determinati codici), 31 Ivi, §23, p. 118.

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nell’ordine umano la libertà si confonde con la capacità di essere imputabili per la propria condotta, cioè con la responsabilità. Questa analisi è confermata nel capitolo XXVIII della sezio­ ne IV in cui Kelsen descrive le condizioni effettive della respon­ sabilità civile. In qualsiasi ordine sociale le norme obbligano. Più precisamente, spiega Kelsen, in qualsiasi ordine giuridico gli in­ dividui sono obbligati a una condotta determinata. L’obbligazione giuridica non costituisce tuttavia un’obbligazione morale; la nozione di responsabilità, intesa in modo restrittivo, non è al­ tro che la forma negativa dell’obbligazione giuridica: è conside­ rato come responsabile di un’azione colui la cui condotta è rico­ nosciuta aver causato danni ad un altro - ed è degno di nota che la persona responsabile in senso giuridico non è necessariamen­ te l’agente effettivo del danno, ma la persona che si può dire che l’abbia causato o premeditato, eventualmente utilizzando la condotta di agenti terzi. Essere responsabili significa, quindi, es­ sere obbligati verso la propria condotta; la nozione di responsa­ bilità tende quindi a individualizzare le condotte, sebbene den­ tro un sistema di responsabilità collettiva32.

La “vocazione ” dei politici

La nozione di responsabilità come capacità di riconoscere che si è all’origine di un’azione, assume con Kelsen una dimensione la cui natura dovrebbe essere approfondita. La responsabilità diventa una categoria civile, il che significa due cose: da un lato, la capacità di un individuo di far proprie, in linea di principio o in virtù di una legge, le conseguenze delle proprie azioni, nonché il sistema giuri­ dico che rende la responsabilità personale una condizione assoluta o sine qua non della vita collettiva; dall’altro lato, la capacità di comprendere che una certa azione che egli ha intrapreso, e che sa­ rà considerata illecita, potrà come tale essergli imputata, o che per essa potrà venir sanzionato. Inoltre, e per essere più precisi, non è 32 Kelsen ritorna su questa questione in Teoria generale del diritto e dello Stato, a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, Etas, 1994 {General Theory of Law and State, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1945).

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che la sanzione possa corrispondere all’azione, essa deve corri­ spondervi, tenendo conto del fatto che il sistema delle norme è, co­ me dice spesso Kelsen, “oggettivamente valido”: è valido per un es­ sere razionale e per tutti gli esseri razionali. Questa teoria della re­ sponsabilità civile consente di comprendere perché i vincoli giuri­ dici siano tollerati da coloro che vi si sottomettono, e spiega in co­ sa essi si distinguono dalle minacce criminali. Poiché questi vinco­ li sono applicati a soggetti capaci di disciplinarsi, essi costituiscono una forma della libertà umana: ed è perché possiamo sentirci re­ sponsabili che le leggi non ci appaiono come comandi tirannici ma, quando sono razionali, come ausili alla nostra azione collettiva. Per questi motivi, la responsabilità civile - o la capacità sog­ gettiva di riconoscere le proprie azioni davanti alla legge che le giudicherà valide o che necessitano di venire corrette - gioca un ruolo fondamentale nel processo di costituzione della persona. Si noti, però, la natura circolare dell’argomentazione. Da un lato, infatti, la legge obbliga la persona alla propria responsabilità in­ dividuale: cioè la obbliga alla capacità di poter rispondere delle proprie azioni (la legge rappresenta quindi, in qualche modo, il principio di attivazione pratica di questa possibilità). Dall’altro lato, è nell’esercizio di questa capacità che una persona diventa veramente se stessa: una persona realizza quanto la legge postula in via formale perché essa ha in sé le capacità per una tale azione. Questa capacità soggettiva è allora la condizione a priori affinché la legge possa rendere concretamente le persone giuridicamente tali. Come scriveva Henriot, la legge sulla responsabilità obbliga l’individuo, perché attraverso la responsabilità civile l’obbligato «se fait obligateur de soi33». In quanto tale, la persona giuridica, che è una creazione della legge, rappresenta un mezzo attraverso cui essa può apparire come persona nel pieno senso del termine - vale a dire, come un principio di azione individualizzata, come un’intenzionalità che è in grado di misurare la sua azione e di es­ sere riconosciuta come lucidamente padrona di essa. Tuttavia, questa disposizione preesisteva nell’individualità, e la legge agi­ sce in essa come un attivatore o come un catalizzatore. In effetti,

33 Jacques Henriot, articolo «Responsabilité» in Encyclopédie Universalis, ed. 1990, tomo XIX, p. 948.

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il principio stesso del concetto di responsabilità suppone che questo obbligo non sia un puro vincolo: la coercizione non è mai sufficiente a rendere responsabile qualcuno che non ne è capace, e la sola coercizione non è in grado di fondare questo obbligo. Il responsabile è obbligato solo perché può (e vuole) essere tale. In altre parole, quando la legge impone a chiunque non si compor­ ti in accordo alle prescrizioni di riparare alle conseguenze delle proprie azioni, a ben guardare non è la legge che obbliga i sog­ getti di diritto, ma sono i soggetti di diritto che disciplinano se stessi attraverso la legge. Nella responsabilità, la legge non disci­ plina le condotte dall’esterno, ma incoraggia i soggetti di diritto a disciplinarsi. Ecco perché, come abbiamo scritto sopra, è la re­ sponsabilità ad assegnare all’uomo alla propria razionalità. A un livello differente, questo sistema consente di cogliere il fatto che la responsabilità civile diretta, individualizzata, si ri­ specchia in una forma collettiva indiretta. La responsabilità per­ sonale costituisce un’obbligazione che la legge impone alla per­ sona. Più precisamente, «l’obligation vraie compose une situa­ tion dialectique à l’intérieur de laquelle “obligateur” et “obligé” se déterminent réciproquement» (Henriot)34. Essa ci permette di comprendere lo stato di corresponsabilità che caratterizza la condizione civile dell’uomo nei regimi democratici. Non è ogni responsabilità sempre collegata alle azioni degli altri? Non è ogni responsabilità individuale anche, e in un certo senso, una responsabilità condivisa? Pertanto, in uno Stato di diritto, e en­ tro le condizioni determinate dalla responsabilità civile, doven­ do ognuno rispondere delle proprie azioni e delle loro conse­ guenze non potrà incolpare gli altri per ciò che ha fatto. Ma pur essendo prima di tutto individuale, e proprio perché individua­ lizzata, la legge obbliga gli individui e crea i presupposti per un’autentica corresponsabilità. Si danno così le condizioni per quell’impegno reciproco minimo cui i cittadini acconsentono, sia perché fortemente individualizzati all’interno della filosofia implicita nel Codice civile, sia perché spinti a perfezionarsi in un quadro di responsabilità potenzialmente condivisa. 34 «La vera obbligazione compone una situazione dialettica all’interno della quale l’“obbligante” e l’“obbligato” si determinano reciprocamente»; ibid.

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In altre parole, il moderno sistema del Diritto sancisce sia la responsabilità personale di ciascun individuo, sia il rapporto tra gli individui per mezzo del contratto che li lega reciprocamente in quanto cittadini. Dal primo punto di vista, la naturale comu­ nità umana vede se stessa, per così dire, frammentata o atomiz­ zata in un’infinità di nuclei di responsabilità; dal secondo punto di vista, essa si trova come ricomposta da un artificio, il rappor­ to contrattuale, e quindi si trasforma tramite di esso in una so­ cietà. E opportuno notare che questo stato di cose, che ci è fa­ miliare al punto da costituire il principio della vita sociale della cittadinanza contemporanea e per alcuni aspetti anche del no­ stro rapporto con noi stessi in quanto soggetti, non può essere assunto come spontaneo. Vi sono, inoltre, altri modi di concepi­ re quella relazione di associazione tra gli uomini, così come l’im­ pegno personale verso se stessi, verso gli altri e verso quelle po­ tenze cosmiche, che chiamiamo “responsabilità”. Ad esempio, studi sul diritto romano antico35 mostrano come, senza trascu­ rare il rapporto tra l’agente e i suoi atti, è del tutto possibile non riconoscere il primato del primo nell’ordinamento giuridico moderno. L’idea dell’obbligo personale verso le proprie azioni, così come quella di definire la soggettività sulla base di questo obbligo, sembrano essere estranee al diritto romano, benché an­ che quest’ultimo sia stato un potente vettore di integrazione so­ ciale. Questo sistema sembra addirittura aver proceduto nella direzione opposta al nostro diritto moderno, rendendo il sog­ getto accessorio alla sua azione, cosa che si manifesta nella con­ cezione della colpa legale. Questa panoramica ha un ulteriore pregio: ci mostra che la messa in opera dell’imputazione - il pro­ cesso attraverso il quale la soggettività giuridica moderna ha ac­ quisito il suo rilievo e la sua consistenza - è stata il frutto di un lungo e complesso lavoro intellettuale36.

35 Cfr. Yan Thomas, Fictio Legis, a cura di M. Spanò, Macerata, Quodli­ bet, 2016 («Acte, Agent, Société. Sur l’homme coupable dans la pensée juridi­ que romaine», Archives de philosophie du droit, tomo XXII, op. cit., pp. 63-83). 36 Per una ricerca su questo soggetto nel mondo greco antico vedi lo stu­ dio di Louis Gernet, «Droit et prédroit en Grèce ancienne» [1951], in Anthro­ pologie de la Grèce antique, Paris, François Maspero, 1968, riedito in Droit et Institution en Grèce antique, Paris, Flammarion, “Champs”, 1982, pp. 9-119.

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Conclusione della parte I

Siamo giunti al termine di questo percorso nella filosofia del diritto. Oltre all’analisi delle condizioni di possibilità di utilizzo della nozione di corruzione, è emersa una delle sue dimensioni filosofiche fondamentali: ovvero il fatto che questo uso implica l’esistenza di regole che rendono possibile l’essere liberi. Per quanto concerne, ancora una volta, il caso del funzionario pub­ blico, possiamo concludere che esiste un controllo a priori a contrasto della potenziale corruzione. Ma possiamo anche co­ gliere quanto questo controllo sia invisibile e si confonda con quel principio senza il quale l’ordinamento giuridico sarebbe un ordine assolutamente coercitivo: ossia, la capacità del soggetto di sottomettersi a una legge che è valida allo stesso modo per tutti i suoi soci. Come si è mostrato nella sezione dedicata a Kel­ sen, ciò suggerisce che questo controllo poggia su di un potere di auto-obbligazione che dà forma alla possibilità di un’esisten­ za civile, cioè di un’esistenza governata dal potere regolativo di leggi razionali. Tuttavia, dobbiamo ancora domandarci se que­ sto tipo di esistenza possa darsi solo nella dimensione “civile”. Non si potrebbe aggiungere che esso è determinato anche nel­ l’ordine “civico”? Ammettendo, in altri termini, che l’ordina­ mento giuridico del Codice appare efficace se, e solo se, il sin­ golo fruitore della legge è anche un cittadino che accetta l’idea che la legge abbia una generalità. Sia perché questa si applica in egual misura a tutti i co-membri, sia perché costui si dimostra attivo, cioè capace di comprendere e applicare una legge che ri­ conosce come propria? Questa osservazione generale sul funzionamento del Diritto assume particolare rilievo nel caso in esame: il tema giuridico 69

della corruzione, nonché le diverse categorie tecniche che deri­ vano dalla sua analisi, riguarda la regolamentazione delle rela­ zioni tra la sfera pubblica e l’interesse privato, e mira a garanti­ re che i co-membri rispettino l’integrità della sfera pubblica. Poiché questa appartiene a tutti, essa non appartiene a nessuno; e questo è certamente uno dei fondamenti della legittimità de­ mocratica o repubblicana, cioè di un sistema che assicura il si­ stema di Diritto attraverso il principio dell’assoluta uguaglianza sul piano formale degli individui. Di conseguenza, è possibile ora comprendere a fondo i problemi suscitati dalla nozione di corruzione e apprezzarne la rilevanza a un punto di vista filoso­ fico: in questo sistema, l’acquisizione impropria delle risorse dello Stato in quanto garante della sfera pubblica - che si tratti di un’appropriazione privata dei suoi servizi o di un’appropria­ zione indebita delle informazioni che esso produce - è un atto estremamente grave, perché destabilizza completamente la mo­ dalità di associazione degli individui. Ci si potrebbe spingere fi­ no al punto di dire che i rapporti di corruttela, nelle loro varie forme, reintroducono in realtà un vecchio sistema sociale e giu­ ridico che si basava su una percezione differenziata delle capaci­ tà sociali individuali: “privilegi” piuttosto che “diritti”. Ecco perché la corruzione non consiste solo in una deviazione del rapporto di autorità, né solo in un furto (quello delle risorse pubbliche immateriali): in essa è implicata l’attestazione di una eccezione allo status che, minando il principio di uguaglianza in­ dividuale nella condizione civile, ristabilisce nei fatti un sistema feudale pre-democratico. Abbiamo scritto sopra che lo sforzo del sistema moderno, per così dire, è di essere “autosussistente” (autoporte)·, il ricono­ scimento dei diritti individuali, la loro necessaria conservazione nell’uguaglianza formale, è assicurata dalla volontà degli indivi­ dui, tutti ugualmente capaci di giudicare. Il principio stesso del sistema moderno è di mobilitare le risorse degli individui per obbligarsi reciprocamente in un rapporto razionale basato sul riconoscimento della loro uguaglianza. Al tempo stesso, però, l’esistenza e la validità di un sistema di norme penali in materia di corruzione attesta che questo sistema non si fonda totalmen­ te sugli individui, ai quali però garantisce il riconoscimento dei

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diritti in condizioni di assoluta parità e di darsi la regola di con­ dotta necessarie a adeguarvisi. Pertanto, l’esistenza di questo si­ stema si basa sul postulato della capacità individuale di discipli­ nare la condotta in base al Diritto, vale a dire sulla coscienza ra­ zionale di ciascuno, e rivela la necessità della coercizione per as­ sicurare il rispetto del principio di uguaglianza tra i consociati.

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PARTE II

Indagare la corruzione alla luce delle scienze sociali

Ill

Un oggetto di studio problematico nel quadro di un’epistemologia specifica

Definire la nozione di corruzione in ambito giuridico è ben diverso dal fare della corruzione un oggetto per le scienze socia­ li. Naturalmente, i due livelli non sono privi di relazioni: la sto­ ria, l’economia, la sociologia, l’antropologia e le scienze politi­ che hanno fatto della corruzione l’oggetto di una grande varietà di studi che fanno necessariamente riferimento alla separazione tra condotta lecita e condotta illecita. Cogliere le modalità attra­ verso cui queste discipline si sono avvicinate a queste condotte, nella misura in cui esse rientrano in una specifica discorsività, è di primario interesse per la comprensione completa dei fenome­ ni. In effetti, la ricchezza di questi approcci in termini di cono­ scenza empirica - vale a dire la loro innegabile incidenza nel­ l’ambito delle scienze sociali, così come la loro intrinseca diver­ sità - non nasconde, come vedremo, l’esistenza di molteplici dif­ ficoltà strutturali nell’uso stesso del concetto di corruzione. Il tema della corruzione si propone in effetti all’incrocio di più questioni, e ciò determina che esso sollevi questioni complesse, soprattutto a livello epistemologico - un livello sul quale le scienze sociali dispongono di un’irriducibile specificità rispetto ai canoni metodologici sviluppati dal diritto. Innanzitutto, dal punto di vista delle scienze sociali le norme attraverso le quali si configura la corruzione sembrano essere re­ lative a tre ambiti storicamente determinati: quello dei costumi, quello politico e quello giuridico. Analogamente, in queste di­ scipline, al pari di tutti i reati, la nozione di frode si basa su con-

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figurazioni specifiche determinate attraverso la legge nei singo­ li. E ovviamente non si può parlare di corruzione “in sé”. Que­ sto aspetto è tanto più rilevante perché la nozione di corruzio­ ne, derivata dall’uso metaforico di una rappresentazione menta­ le che ci viene dall’osservazione naturale dell’alterarsi dei corpi fisici è, o è stata, connotata fortemente in maniera morale. E ciò sotto diversi aspetti: l’atto corruttivo è simile alla perversione morale fondamentale, che nel sistema di valori occidentale è la tentazione. Il corruttore viene spesso rappresentato come un es­ sere malvagio; il corrotto come un essere debole, incapace di op­ porre le riserve della sua volontà ai vantaggi illeciti che gli ven­ gono offerti. La nozione moderna di corruzione, così come è stata mo­ dellata dall’opera del Diritto, ci permette di rompere con una si­ mile rappresentazione morale o moralizzatrice. Ma alla ricerca di una caratterizzazione oggettiva delle motivazioni soggettive delle azioni illecite, anche le scienze sociali tentano di andare ol­ tre un approccio “morale” per dotarsi di una base “scientifica” per la loro comprensione. Eppure, e forse logicamente, questo tentativo non può sovrapporsi a quello del Diritto, perché que­ ste discipline non perseguono lo stesso obiettivo: una organizza la vita sociale, permette di distinguere le condotte devianti e consente di sanzionare le condotte considerate illecite; l’altra si propone di descrivere la vita sociale senza giudicarla. La loro epistemologia è quindi contrassegnata da un carattere di irridu­ cibile specificità, e per questo è opportuno caratterizzare meglio anche l’epistemologia delle scienze sociali, isolando quelli che ci sembrano essere i suoi tre postulati fondamentali.

Primo postulato: l’utilitarismo nell’intenzione dei corruttori In primo luogo, quando si prefiggono di comprendere le motivazioni del corrotto che decide liberamente di accettare una transazione occulta, le scienze sociali presentano queste scelte come il risultato di un calcolo di costi-benefici. L’analisi di Jo­ seph S. Nye è particolarmente utile per intendere questo ap­ proccio e per comprendere ciò che possiamo indicare come uno

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dei suoi postulati fondamentali1. Un postulato che definiamo utilitarista: secondo una tradizione ereditata da Bentham e John Stuart Mill l’individuo - socialmente situato - dispone di “pre­ ferenze” la cui espressione si confonde con la sua libertà, e della capacità di calcolare il rapporto tra mezzi e fini. Si costituisce così un’antropologia semplificata basata sulla sua efficacia prati­ ca. Se rappresenta il culmine di una lunga storia filosofica, l’uti­ litarismo può anche essere inteso come un metodo per la risolu­ zione di casi2. Su questa base si potrebbe pensare che il signifi­ cato della costruzione giuridica della nozione cardine di respon­ sabilità non sia pertanto da ricercare in un diverso ordine dei fat­ ti: se la si intende come una nozione deontologica, quella di cor­ ruzione permette al soggetto moderno di valutare i suoi fini e di calcolare i mezzi per la propria realizzazione nell’ambito di uno spazio comune inquadrato da norme giuridiche. Tuttavia, a questa interpretazione se ne oppone un’altra, molto diversa: il fatto stesso che vi sia una rappresentazione del­ la corruzione che permette di farne un oggetto per le scienze so­ ciali - cioè un tema di ricerca che è allo stesso tempo transdisci­ plinare e concernente periodi storici molto diversi - induce a chiedersi se questa nozione non sia in qualche modo basata su un’idea, ben più sostanziale, e che non si esaurisca nei due temi della responsabilità (dal punto di vista del diritto) e dell’uomo oeconomicus (dal punto di vista dell’antropologia filosofica). Formulate schematicamente, le cose potrebbero apparire così: la possibilità della nozione di corruzione trova una delle sue fonti nell’idea dell’intangibilità della cosa pubblica, o in una rappre­ sentazione della sfera pubblica come autonoma perché in linea di principio esterna agli interessi privati, o addirittura ritenuta a loro superiori. Per contro, sono gli interessi che motivano la condotta dell’agente socioeconomico.

1 Cfr. Joseph S. Nye, «Corruption and Politicai Development: a Cost-benefit Analysis», The American Politicai Science Review, voi. LXI, 2,1967, pp. 417-427. 2 Sulla storia filosofica dell’utilitarismo e per caratterizzarla come metodo, cfr. la raccolta di testi curati e tradotti sotto la direzione di Catherine Audard, Anthologie historique et critique de l’utilitarisme, 3 voll., Paris, PUF, 1999.

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Le conseguenze di questa tensione tra gli interessi privati e la sfera pubblica si riflettono in ciò che potremmo chiamare il re­ quisito normativo della filosofia, nel suo farsi filosofia-politica. Infatti, da Platone a Rawls, la filosofia vuole pronunciarsi non solo su ciò che è, ma anche su ciò che dovrebbe essere; ecco per­ ché i suoi oggetti privilegiati sono sia i rapporti tra la legge e la ragione, sia l’idea di giustizia, qualunque siano le espressioni em­ piriche e le forme storiche che questa idea ha assunto. In queste condizioni, esiste un’idea filosofica di corruzione? E quali sareb­ bero le sue condizioni di impiego? Può la nozione di corruzione essere utilizzata dalla filosofia, senza che essa debba rinunciare ad essere filosofica o politica, nella duplice esigenza che la caratte­ rizza tra l’apertura al preferibile e l’analisi della città reale? Questa non è una problematica che ha un rilievo puramente speculativo o interno alla sola disciplina filosofica. Invece, è pro­ prio l’uso della nozione di corruzione da parte delle scienze so­ ciali che, nonostante i suoi innegabili successi, interpella la filo­ sofia in quanto disciplina normativa. Le diverse scienze sociali non possono non far ricorso alla filosofia. Per comprendere in cosa consista questo ricorso è necessario operare uno sposta­ mento e partire dal cuore stesso del modo di procedere tipico delle scienze sociali. Queste discipline (soprattutto la storia, le scienze politiche, la sociologia e l’antropologia) hanno indagato in modo molto dettagliato le forme storiche e sociali della cor­ ruzione, distinguendone i diversi tipi. E poiché appaiono tipi ri­ correnti, la questione è se alcuni di questi non obbediscano a una logica che ci permette di cogliere la loro funzione sociale. Ma se così fosse, dobbiamo trarne che alcune forme di corruzione sa­ rebbero non solo legittime, ma addirittura necessarie (benché sempre illecite in un dato sistema politico-giuridico)?

Secondo postulato: il funzionalismo nella descrizione

Quando si tratta di comprendere a fondo le forme di corru­ zione e la loro ragion d’essere, nelle scienze sociali prevale, in al­ tri termini, quella modalità di analisi che in sociologia è definita “funzionalista”. Ritengo che questo sia il secondo postulato cui

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è opportuno riferirsi per un uso corretto della nozione di corru­ zione. Per comprendere appieno questo punto è utile richiamare un classico della sociologia. Uno dei fondatori di questo modo di analizzare i fenomeni è infatti Robert Merton, che, nel suo Teo­ ria e struttura sociale0 presenta le acquisizioni di questo metodo nel suo procedere attraverso l’identificazione e l’analisi delle fun­ zioni che reggono qualsiasi società. La nozione di funzione è es­ sa stessa tutta da costruire, cosa che hanno fatto i sociologi dopo Merton, ma è quest’ultimo che ha postulato metodologicamente l’unità funzionale della società: questa è un insieme di funzioni che si trovano in interrelazione tra loro, con alcune attività che svolgono più compiti (la religione secondo Merton è un caso par­ ticolarmente rilevante). Merton opera anche una distinzione per noi molto importante3 4: le funzioni sociali sono manifeste o la­ tenti. Prendendo esplicitamente una distinzione fatta da Freud a proposito del sogno, il sociologo elabora un approccio che «chia­ risce l’analisi di modelli sociali apparentemente irrazionali5». Questi riporta l’esempio del consumo ostentativo, su cui si era soffermato all’inizio del XX secolo un altro sociologo, Thorstein Veblen, che, secondo Merton, svolge una funzione latente che nessuna funzione manifesta può svolgere nella società puritana. Questo sembra essere il primo aspetto per il quale la nozione di corruzione, così come descritta dalle scienze sociali, appare chiaramente problematica dal punto di vista della filosofia politi­ ca: le analisi più interessanti che si producono sulla corruzione so­ no effettivamente basate su un principio mertoniano, ossia che la corruzione svolge una funzione sociale latente. Lo possiamo ve­ dere chiaramente nell’interessante lavoro dedicato da Jean-Clau­ de Waquet alla condizione di Firenze tra la fine del XVII e il XVIII secolo6. Lo studio attento di alcuni “casi” rivela come la città-stato italiana, nella sua articolata struttura amministrativa, 3 Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale [1957], trad. it. C. Marietti c A. Oppo, Bologna, Il Mulino, 3 voli., 2000, In particolare il capitolo, Fun­ zioni manifeste e funzioni latenti, pp. 121-224. 4/ω.,ρρ. 188-221. 5 Ibid., p. 192. 6 Jean-Claude Waquet, De la corruption. Morale et pouvoir à Florem e,m \ XVIIe et XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 1984.

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fosse segnata da un enorme fenomeno di appropriazione indebita di fondi pubblici. Tuttavia, nonostante i processi e le esplicite con­ danne morali e religiose, seguite dalle permanenti riforme ammi­ nistrative, nessuno strumento ha mai realmente fermato questo fenomeno; ed è significativo che la società del tempo l’abbia in un certo senso incorporato. Tanto che un attento esame delle prati­ che sociali corrotte ci porta a considerarle nella loro logica come parte di un sistema generale di organizzazione sociale. Quella di­ sfunzione che la corruzione rende manifesta, può essere quindi an­ che intesa come l’espressione di una funzione latente: i funziona­ menti manifesti acquisiscono il loro significato in relazione a fun­ zioni latenti che presentano una loro utilità sociale. In tal modo, le pratiche corrotte rispondono a un bisogno sociale di cui rendo­ no possibile una salutare espressione. Detto più precisamente: il fatto che lo Stato fiorentino possa essere letteralmente acquistato o acquistabile consente una forma di integrazione o regolamenta­ zione sociale che evita l’emergere di malcontenti, violenze e dis­ ordini. Questa lettura socio-storica della corruzione si basa su un funzionalismo metodologico che ha l’effetto paradossale di sem­ plificare il suo oggetto rendendolo tuttavia “efficace”. Anche le condanne nelle due sfere della morale e della religione possono es­ sere comprese da un punto di vista funzionalista se collocate nel “funzionamento” generale della società: mentre le esigenze so­ cioeconomiche si esprimono attraverso pratiche corrotte, queste condanne mettono il singolo agente sociale sotto una forma di tu­ tela che salva le apparenze7. Un tale approccio ci permette anche di mettere in luce il fatto che la corruzione non deriva da un de­ gradarsi dei costumi, né dal carattere passivo della natura umana, ma da una disfunzione sociale che ha una sua ragion d’essere; ben­ ché questi due temi (corruzione dei costumi e debolezza della na­ tura umana) siano quelli usualmente utilizzati per pensarla8. Un’osservazione simile è stata fatta su una scala più ampia, nel quadro di una teoria generale della civilizzazione9: la corru­ 7 Ibid., pp. 204-205. 8 Ibid., p. 236. 9 Samuel P. Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven-London, Yale University Press, 1968, in particolare l’articolo «Moderni­ sation and corruption», pp. 59-71.

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zione può essere sia illecita che benefica, perché può rappresen­ tare un’alternativa alla violenza consentendo a gruppi con una scarsa rappresentanza sociale e politica di accedere a beni e deci­ sioni. Le condotte che appaiono scorrette in un dato sistema giuridico-morale possono persino essere comprese come espressio­ ne di un principio attivo di trasformazione sociale. Questo è il motivo per cui l’esame delle dinamiche della transizione tra “so­ cietà non sviluppate” e “società sviluppate” ha trovato nell’ana­ lisi funzionalista della corruzione una matrice di intelligibilità10.

Terzo postulato: la sociologia della “percezione” della cor­ ruzione

Il terzo postulato delle scienze sociali rinforza il secondo: basandosi su un’analisi comprensiva dello scambio sociale, lo studio della corruzione, a partire da una sociologia della “probi­ tà pubblica”, tende a ridurre la possibilità di riferirsi alla corru­ zione come ad uno scambio “vizioso”. Le ricerche condotte a partire dagli anni ’70 sono profondamente segnate da questa modalità di procedere, una modalità che si limita volutamente allo studio della percezione soggettiva delle condotte che pos­ siamo considerare corrotte. Un articolo fondamentale di Arnold Heidenheimer stabili­ sce i fondamenti di questo metodo11: nel suo approccio costrut­ tivista la qualifica di “corrotto” non riguarda un tipo specifico di condotta politica, ma uno specifico conflitto tra giudizi espressi da individui che, partecipando allo scambio sociale, valutano la condotta pubblica consapevoli che quanto espresso da ciascuno è determinato dal fatto di essere socialmente situato. Molto schematicamente, è possibile distinguere tra élites e cittadini, in 10 Si veda Robin Theobald, Corruption, Development and Underdevelop­ ment, London, The Macmillan Press LTD, 1990. 11 Arnold J. Heidenheimer, «Perspectives on the Perception of Corrup­ tion», in A.J. Heidenheimer (dir.), Political Corruption: Readings in Compara­ tive Analysis, New Brunswick (N.J.), Transactions Books, 1970; anche in Ar­ nold J. Heidenheimer, Michael Johnston, Victor T. LeVine (dir.), Political Cor­ ruption. A Handbook, Brunswick (N.J.), Transaction Publishers, 1989.

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particolare tra coloro che prendono le decisioni sociali e politi­ che e quelli che le subiscono, con la possibilità di poterle solo ac­ cettare o contestare. Questa distinzione consente di far riferimento a una scala nei gradi della corruzione. Chiameremo “corruzione nera” gli atti di corruzione percepiti negativamente e considerati riprove­ voli dai due gruppi che prendono parte allo scambio sociale; “corruzione bianca”, le azioni che nessuno dei due gruppi ritie­ ne condannabili; e “corruzione grigia” le azioni percepite nega­ tivamente e considerate reprensibili da uno dei due gruppi, o dalla maggioranza di uno dei due gruppi. Quest’ultima catego­ ria segna i conflitti normativi che sorgono intorno ai diversi mo­ di di percepire della corruzione, che sono interessanti perché mostrano come essa sia anche una questione di punti di vista e rivelano quanto lo scambio sociale si costruisca a partire da for­ ze antagoniste. Un tale modo di procedere restituisce con gran­ de precisione il carattere socialmente costruito dell’azione poli­ tica e, osiamo scrivere, ha il merito di presentare i casi osservati in un modo decisamente “al di là del bene e del male”. Si po­ trebbe tuttavia affermare che l’approccio sociologico qui utiliz­ zato ha proprio nelle sue qualità i suoi limiti: è efficace per com­ prendere il modo in cui si costruisce lo scambio corrotto, tende però a dissolvere quanto vi è di specifico nel “vizio” a causa del­ le sue stesse modalità di analisi. Pur sottolineando la necessità di tenere conto della dimensione assiologica dei fenomeni di cor­ ruzione, vale a dire insistendo sulla validità delle categorie mo­ rali (bene e male, legittimo e illegittimo, giusto e ingiusto), i re­ centi tentativi di analisi dei giudizi relativi alla “probità pubbli­ ca12” si basano sul presupposto che tali giudizi siano socialmen­ te relativi, e concludono che, pur costituendo un fatto fondamentale del gioco politico democratico, le analisi sociologica e politica abbiano il loro limite nella lotta per determinare gli standard etici per giudicare i comportamenti corrotti.

12 Philippe Bezes e Pierre Lascoumes, «Percevoir et juger la “corruption politique”. Enjeux et usages des enquêtes sur les représentations des atteintes à la probité publique», Revue française de science politique, vol. LV, n. 5-6, 2005, pp. 757-785.

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IV Una differente separazione tra la sfera privata e pubblica

L’approccio utilitaristico, funzionalista e sociologico di guar­ dare alla corruzione “semplice” - per esempio, un “compratore” che acquista attraverso un “venditore” un bene o un servizio che è normalmente di proprietà dello Stato o che appartiene più in generale alla sfera pubblica - è utile per comprendere fenomeni più complessi. Ma poi questi fenomeni si integrano in un’inter­ pretazione generale della logica sociale di cui è opportuno preci­ sare le aspettative, perché queste, il più delle volte, rimangono implicite. Nelle analisi che seguono ci proponiamo di allargare la nostra indagine, analizzando e cercando di comprendere quelle tre funzioni sociali studiate dalle scienze sociali che mettono in gioco e pongono in questione proprio questo approccio: il clien­ telismo o patronato, l’acquisto di uffici e delle cariche civili sot­ to YAncien Régime, e l’evergetismo degli Antichi. Per la loro struttura, agli osservatori che ragionano secondo lo standard epistemologico del diritto moderno questi fatti pos­ sono legittimamente apparire come delle gravi deviazioni dalla divisione netta tra la sfera pubblica e quella privata, o addirittu­ ra come trasgressioni palesi di questa divisione. Tuttavia, per la complessità del loro funzionamento e per le ragioni che le giu­ stificano, questi fenomeni appaiono come fatti sociali coerenti, o che hanno addirittura una portata globale per il tipo di società in cui sono stati concepiti. Nel loro sforzo di comprendere le di­ namiche dei fenomeni che esse studiano, le scienze sociali met­ tono alla prova la portata universale della normatività del Dirit­ to moderno, e aprono a nuove prospettive di comprensione del­

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le motivazioni della corruzione. Così facendo, non solo relati­ vizzano la definizione legale di corruzione, ma suggeriscono an­ che che può esistere la possibilità di una diversa partizione tra la sfera privata e quella pubblica.

Il clientelismo o patronato Con i termini clientelismo e patronato ci si riferisce al siste­ ma di pratiche con cui alcune élite sociali acquistano voti o ser­ vizi personali attraverso i benefici che distribuiscono o si impe­ gnano a distribuire una volta al potere. Un “patrono” approfit­ ta dei suoi mezzi per guadagnare influenza, o una autorità, e di­ spensa benefici a dei “clienti”, che si sdebitano sotto forma di so­ stegno o di servizi. Pertanto, il termine descrive i rapporti di po­ tere informali basati sullo scambio di risorse tra individui o gruppi di status diverso. Il clientelismo può quindi essere inte­ so, secondo questa definizione, come «un rapport de dépendan­ ce personnelle non lié à la parenté qui repose sur un échange ré­ ciproque de faveurs entre deux personnes, le patron et le client qui contrôlent des ressources inégales»13. Questo fenomeno si inserisce in un rapporto sociale molto particolare, di cui è im­ portante cogliere il carattere storicamente ricorrente: nell’antica Roma il clientelismo sembra essersi letteralmente fuso con la lo­ gica del sistema socio-politico con cui l’élite dominante regola­ va i suoi rapporti con la plebe14; nell’Europa di prima età mo­

13 Secondo Jean-François Médard, «Le rapport de clientèle, du phénomè­ ne social à l’analyse politique», Revue française de science politique, vol. XXVI, n. 1, febbraio 1976, pp. 103-131, cit. p. 103; per una caratterizzazione del fe­ nomeno si veda anche Shmuel N. Eisenstadt e Luis Roniger (eds.), Patrons, Clients and Friends, Cambridge, University Press, 1984. 14 In una vasta letteratura, si veda Claude Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris, Gallimard, seconda edizione 1979; Norbert Rouland, Pouvoir politique et dépendance personnelle dans l’Antiquité romai­ ne. Genèse et rôle des rapports de clientèle, Bruxelles, Latomus, 1979; Richard P. Salier, Personal Patronage under the Early Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 1982; Andrew Wallace-Hadrill (eds.), Patronage in Ancient Society, London-New York, Routledge, 1989; Elizabeth Deniaux, Clientèles et pouvoir à l’époque de Cicéron, Roma, Ecole Française de Rome, 1993.

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derna, sembra aver permesso alla società feudale di mantenere un certo dinamismo sociale, nonostante il carattere statico im­ posto dal principio della separazione degli ordini15; infine, in epoca contemporanea, può essere applicato in tre tipi di situa­ zioni: (1) permette di comprendere le relazioni interindividuali all’interno dei gruppi sociali tradizionali16; (2) si riferisce a si­ tuazioni nei paesi in via di sviluppo17; (3) secondo un uso più re­ cente, viene utilizzato per comprendere il reale funzionamento di alcuni sistemi democratici contemporanei in virtù delle loro specificità storiche18. Molte delle caratteristiche distintive del rapporto clientelare sono particolarmente importanti per comprendere la normativa dello scambio sociale corrotto. In primo luogo, il suo carattere storicamente ricorrente rivela l’esistenza di una forma sociale idealtipica, quella feudale, ma anche, dietro di essa, il rapporto diseguale tra gli individui in qualsiasi società gerarchica e carat­ terizzata da una scarsa mobilità sociale: ancora molto tempo do­ po la scomparsa del feudalesimo dall’Europa, hanno continuato ad esserci dei rapporti di “fedeltà” verso le élites sociali, sia ari­

15 Vedi AA.VV., Patronages et clientélismes, 1550-1750: France, Angleter­ re, Espagne, Italie, Lille, Imprimerie de l’université Charles de Gaulle-Lille III, 1995; Yves Durand (dir.), Hommage a Roland Mousnier. Clienteles et fi­ délités en Europe à l’époque moderne, Paris, PUF, 1981. 16 Cfr. Jean-Louis Briquet, La tradition en mouvement. Clientélisme et politique en Corse, Paris, Belin, 1997; Nicolas Giudici, Le crépuscule des Cor­ ses. Clientélisme, identité et vendetta, Paris, Grasset, 1997. 17 Cfr. Jean-François Médard, L’État sous-développé en Afrique noire: clientélisme politique ou néo-patrimonialisme?, Talence, Centre d’étude d’A­ frique noire, IEP, 1982. 18 Jean-Louis Briquet e Frédéric Sawicki (dir.), Le clientélisme politique dans les sociétés contemporaines, Paris, PUF, 1998; Mario Caciagli e Kawata Jun’Ichi, «Heurs et malheurs du clientélisme. Étude comparée de l’Italie et du Ja­ pon», Revue française de science politique, vol. LI, n. 4, agosto 2001, pp. 569586: dossier «Italie et Japon aujourd’hui: deux démocraties “hors normes” à l’épreuve de la crise»; Simona Piattoni (dir.), Clientelism, Interest, and Demo­ cratic Representation. The European Experience in Historical and Comparati­ ve Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; Luis Roniger e Ayse Gunes-Ayata, Democracy, Clientelism and Civil Society, London, L. Rienner, 1994. Cfr. anche Donatella Della Porta e Yves Mény (dir.), Démocratie et corruption en Europe, Paris, La Découverte, 1995.

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stocratiche, che dell’alta amministrazione reale o della borghesia economica19. Se epoche e civilizzazioni molto diverse (questo termine è inteso come uno “stile” di società irriducibili l’una al­ l’altra) hanno sperimentato questo fenomeno per cui alcuni “im­ prenditori” locali o regionali “proteggono” le popolazioni svan­ taggiate guadagnando la loro fedeltà, è perché ciò consolida rap­ porti sociali disuguali in società fisse, qualunque siano le diffe­ renze di dettaglio che esistono, termine per termine, tra aree di civilizzazione. Questo tipo di rapporti sociali ha relazioni pro­ fonde con un sistema di rappresentazioni fortemente struttura­ to, e che si ritrova in contesti storici o in società molto diverse. In secondo luogo, il fatto che il patronato sia una delle espressioni di questo tipo di socialità si riflette nel carattere strutturalmente asimmetrico della relazione dal punto di vista economico. Ciò implica anche che la determinazione utilitaristi­ ca del fenomeno è piuttosto rilevante, e che essa ricongiunge l’e­ same storico del clientelismo con la rappresentazione sociologi­ ca della corruzione. Nella relazione patrono-cliente, infatti, i due partecipanti si scambiano dei beni pur non avendo accesso né alla stessa quantità, né allo stesso tipo di beni, senza, almeno apparentemente, mettere in discussione la logica commerciale del processo. Pertanto, il cliente è sostanzialmente il debitore del patrono, mentre quest’ultimo è il suo creditore. Inoltre, l’“offerta” corrisponde spesso alla “domanda”, pur nella sua molte­ plice e variegata natura: le risorse scambiate possono essere eco­ nomiche, ma anche politiche, religiose, psicologiche, militari, giudiziarie, amministrative e educative. La maggior parte degli aspetti della vita umana sono quindi potenzialmente interessati dal patronato, vale a dire che la maggior parte delle esigenze di una vita normale possono essere soddisfatte in una forma incen­ trata sul cliente.

19 Sul rapporto tra clientelismo e “fedeltà”, vedi Yves Durand (dir.), Hom­ mage à Roland Mousnier. Clientèles et fidélités en Europe à l’époque moderne, op. cit., 1981, in particolare l’articolo dello stesso Durand: «Clientèles et fidé­ lités dans le temps et dans l’espace», pp. 3-24. Per un’inchiesta sulle differenti situazioni nazionali in Europa, vedi il volume collettaneo, Patronages et clientélismes, 1550-1750: France, Angleterre, Espagne, Italie, op. cit..

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Conviene ugualmente rilevare, alla luce dell’esperienza effet­ tiva dello scambio di servizi, e di colui che in questa relazione ha il ruolo della parte obbligata, che questo scambio è sia vincolan­ te che volontario. Sia nel patronato antico che in quello moder­ no, ciò che si “acquista” è un comportamento privato e pubbli­ co. Nello spirito del clientelismo colui che viene acquistato è let­ teralmente “l’uomo” del suo patrono, ed il cliente rende a que­ st’ultimo un servizio che non gli è permesso rifiutare. La lettera­ tura critica evidenzia all’unanimità il paradosso secondo cui (1) non spetta al cliente rifiutare il servizio richiesto: essendo obbli­ gato dal patrono alcuni aspetti della sua esistenza dipendono quindi dalla volontà di questi; (2) anche se tale servizio non è svolto volentieri o spontaneamente, il cliente n ogni caso si as­ soggetta volontariamente ad un potente signore20. In questa pro­ spettiva, il rapporto di clientela mette in discussione il modello di responsabilità individuale come lo abbiamo determinato in precedenza nel quadro dell’analisi del concetto giuridico di re­ sponsabilità. Il principio stesso di imputazione, che è costitutivo di quest’ultimo, è alterato nelle sue condizioni di possibilità per­ ché la volontà del debitore non è mai concepibile sul piano del­ l’autonomia necessaria affinché l’imputazione sia tale da render­ lo un essere libero. Da qui un’osservazione paradossale. Da un lato, senza ovviamente assimilarsi allo schema standard di corru­ zione per come l’abbiamo descritto sopra (la transazione occul­ ta con la quale un agente dello Stato vende un bene o un servizio normalmente riservato al pubblico nella sua generalità), il clien­ telismo è affine alla corruzione: la condotta dei “clienti” viene acquistata dal “patrono” e la loro volontà è sotto l’influenza di quest’ultimo. D’altra parte, l’analisi che abbiamo sviluppato, ti­ pica delle scienze sociali, mostra come il clientelismo non abbia in alcun modo a che fare con la corruzione, vale a dire con qual-

20 Qui lo studio dedicato da Marie-Thérèse Caron alle relazioni di lealtà nella nobiltà borgognona alla fine del Medioevo si rivela molto suggestivo per comprendere la maggior parte delle relazioni di questo tipo. Cfr. Marie-Thé­ rèse Caron, «La fidélité dans la noblesse bourguignonne à la fin du Moyen Age», in Philippe Contamine (dir.), L’Etat et les aristocraties. XlIe-XVIIe siècle. France, Angleterre, Ecosse, Paris, Presses de l’École normale Supérieure, 1989, pp. 103-127.

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cosa di illecito e condannabile, perché rientra in quella che è una pratica sociale regolare. Il clientelismo produce quella che po­ trebbe essere definita come una dispersione o diffusione della re­ sponsabilità individuale. In questo sistema gerarchico, la nozio­ ne di responsabilità è indebolita dal fatto che il singolo, non può pretendere di essere colui che dà inizio alle sue azioni, né di es­ serne la causa piena e completa (tanto meno di avere il pieno controllo delle sue modalità). Poiché si tratta di una relazione di dipendenza, lo scambio clientelare annulla quindi le normali condizioni di imputazione previste dal Diritto. È su questo pun­ to che le scienze sociali e la disciplina giuridica non riescono a unire le loro risorse teoriche nella comprensione di un fenome­ no, per la sua complessità, fondamentale. Un’ulteriore osservazione appare necessaria; un’osservazione che mette in discussione l’altro postulato dell’uso della nozione classica di corruzione: l’opportunità di ricorrere all’idea di un agente economico sovrano nelle sue scelte appare discutibile nella misura in cui nello scambio clientelare né il cliente, né il patrono, beneficiano allo stesso modo della capacità di ritirarsi che è propria dell’individuo in un contesto di mercato. Eppure, anche questa os­ servazione è in qualche modo equivoca. Naturalmente, da un lato, entrambe le parti fanno le loro scelte sotto costrizione; ed è in que­ sta situazione che qualsiasi agente economico si trova a fare le sue scelte in un mercato il cui equilibrio è il prodotto di squilibri per­ manenti tra domanda e offerta dinamica. Ma d’altra parte, la logi­ ca economica ha significati più specifici, che un tale approccio ten­ de a nascondere. Lo scambio clientelare ha una dimensione socia­ le globale che non può essere adeguatamente colta in termini eco­ nomici. Non sono realmente beni economici quelli che le due par­ ti si scambiano, ma sono più propriamente dei segni connessi alla loro condizione sociale, o ancora dei mezzi di identificazione in quanto individui socialmente determinati. Innanzitutto, dal lato del patrono, lo scambio non è solo di interesse, ossia che stando in una posizione relazionale strutturalmente a suo favore il patrono ottiene di più di quanto non dia. Per ragioni diverse, il patronato non deve essere confuso con lo sfruttamento economico. In primo luogo, perché il contenuto dello scambio non è puramente e sem­ plicemente economico, e non ha per fine diretto un certo profitto

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materiale - questa relazione riguarda il potere piuttosto che l’ave­ re, o più precisamente, designa uno scambio che considera l’avere come mezzo di transazione del potere. In secondo luogo, il patro­ no è egli stesso per certi aspetti obbligato nei confronti del cliente: gli deve protezione, si impegna implicitamente in un obbligo di servizio, mettendo con ciò in gioco il suo stesso status (un patro­ no che non può garantire la protezione del proprio cliente perde questo status o comunque indebolisce la sua posizione). Allo stesso modo, anche se appare asimmetrica, la relazione patrono-cliente non è unilaterale, ma deve essere invece concepi­ ta come bilaterale: le due parti sono egualmente coinvolte in que­ sta relazione. Inoltre, si deve ammettere che questo carattere bi­ laterale si fonda su di un’ambiguità strutturale. Per vivere e so­ stenere la sua famiglia, il cliente fornisce alcuni servizi al suo pa­ trono; ma al di là dei servizi concretamente resi, e di cui questi potrebbe aver bisogno, ciò che il patrono cerca e guadagna nello scambio è il riconoscimento del proprio status da parte dei suoi clienti. Letteralmente: lo scambio clientelare conferma lo status del patrono. Ci sono quindi due logiche diverse all’opera in que­ sto scambio, e tutto avviene come se una sola relazione sociale contenesse due relazioni interindividuali tra loro irriducibili ma complementari: mentre si scambiano beni e servizi, il cui valore di mercato è oggetto di una stima costante da parte delle due par­ ti, ciò che viene scambiato in una relazione clientelare non può essere concepito solo in termini di valore d’uso né in termini di valore di mercato, ma deve essere concepito in termini di valore simbolico. Quello che il cliente dà in cambio di quanto il patro­ no gli offre è spesso privo di un valore commerciale (ad esempio quando il patrono nutre la famiglia del cliente per un lungo pe­ riodo), ma il vero oggetto della transazione rimane prezioso per­ ché questo è la sua fedeltà, soprattutto perché spesso questa è se­ mi-pubblica. Se dal punto di vista del valore di mercato il patro­ no è talvolta perdente nello scambio (ciò che scambia ha un va­ lore di mercato inferiore a quello che questi riceve), dal punto di vista del valore simbolico egli è però il vincitore. Si vede quindi che l’asimmetria dello scambio alimenta la natura bilaterale del rapporto. Lo scambio di favori e la fidelizzazione non sono va­ lutabili in termini strettamente economici: non solo non sono

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quantificabili, e sono tra loro incommensurabili, ma siccome tut­ ti i loro rapporti più rilevanti sono l’oggetto di un’attenzione co­ stante da parte del patrono e del cliente ciò qualifica il rapporto in termini diversi da quelli economici. Si può anche affermare che la natura bilaterale della relazio­ ne produca un costo per entrambi i partecipanti: per il patrono è impossibile impiegare nello scambio più di quello che ha (non può impegnarsi a garantire una protezione dei suoi clienti oltre i suoi mezzi, può fare da patrono solo verso alcuni o ha solo un certo numero di obbligati). La sua zona di influenza è sempre, in modo abbastanza specifico, circoscritta. Da un certo punto di vista, la relazione di patronato permette di determinare la capa­ cità o l’area di influenza di un patrono, e costituisce un indica­ tore sociale efficace per assegnare ad ognuno il proprio posto. In effetti, valutare l’estensione dell’area di influenza del patrono permette di determinare il suo potenziale riconoscimento. Per il cliente, si tratta di ricompensare il suo patrono per i benefici ri­ cevuti mostrando la sua lealtà, a volte molto tempo dopo averli ricevuti. Lo scambio clientelare ribadisce la dipendenza del cliente, il servizio che egli deve in qualità di debitore non ha nul­ la a che vedere con la temporalità di uno scambio contrattuale ordinario, e non potrà essere determinato in modo esatto, né so­ prattutto specificato in anticipo. È importante esaminare e discutere il preteso valore sociale dello scambio clientelare in un ambito extra o prestatale, anche al­ l’interno di un contesto in cui la sfera pubblica e lo Stato sono og­ gettivamente corrotti. A questo proposito, ritengo che possa effet­ tivamente darsi un’inversione nei rapporti, perché in caso di di­ sfunzione dell’apparato statale questo tipo di scambio può svolge­ re, in modo paradossale, una effettiva funzione sociale e il cliente­ lismo può operare come “corruzione virtuosa”. Una tesi di questo tipo sembra effettivamente sostenibile all’interno di alcuni paesi dell’Africa21. Nelle pratiche clientelari si metterebbe in pratica una vera comunità tra i partecipanti in una relazione sociale, nonostan-

21 Cfr. Richard Banégas, «“Bouffer l’argent”. Politique du ventre, démo­ cratie et clientélisme au Bénin», in Jean-Louis Briquet e Frédéric Sawicki (dir.), Le clientélisme politique dans les sociétés contemporaines, op. cit., pp. 75-109;

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te il carattere asimmetrico del loro scambio. La reciprocità dello scambio instaura paradossalmente un’effettiva coesione sociale. In questi casi il metodo funzionalista di analisi del fenome­ no della corruzione ci consente di cogliere una delle modalità di legittimazione che viene usata dai corrotti così come dai corrut­ tori: il loro scambio non costituisce un male perché vendendo un bene a un privato, un servizio o un informazione di natura pubblica, si “rende un servizio” alla propria comunità. Spesso, nelle giustificazioni addotte, il corrotto evidenzia il legame per­ sonale che lo lega a colui al quale ha venduto una parte della co­ sa pubblica. Lo scambio commerciale in realtà ricopre «une con­ ception personnaliste de la politique comme échange de fa­ veurs», in cui è in gioco “l’amicizia” tra individui22. Sicuramen­ te differente dalla parentela (che designa lo scambio personale di favori tra membri della stessa famiglia o dello stesso gruppo), la relazione di patronato si distingue dallo scambio economico standard perché mobilita una serie di affetti: amicizia, ma anche sentimenti di riconoscenza, lealtà e affetto23. Ciò nonostante, una simile argomentazione richiede comunque cautela dal mo­ mento che un’organizzazione come quella della mafia la utilizza sia per legittimare il suo potere, sia per impedire il buon funzio­ namento sociale dello Stato, deviandone le risorse per ridistri­ buirle per proprio conto e dopo varie sottrazioni24. Per meglio valutare queste indicazioni, potremmo dire che il fenomeno del clientelismo, inteso nella logica dell’analisi funzio­ nalista, ci permette di cogliere la dimensione sistemica dello scam­ bio corrotto. In altre parole, offre la possibilità di considerare la

Sian Lazar, «Citizens Despite the State: Everyday Corruption and Local Poli­ tics in El Alto, Bolivia», in Dieter Haller e Chris Shore (dir.), Corruption. Anthropological Perspectives, London, Pluto Press, 2005, pp. 212-228. 22 Cfr. Donatella Della Porta, «Corruption et carrières politiques. Réfle­ xion à partir du cas italien», in Comprendre, n. 3-2002, dossier «Les hommes politiques», pp. 165-187, ivi pp. 179-183. 23 Jean-François Médard, «Le rapport de clientèle», op. cit., p. 106. 24 Cfr. Marie-Anne Matard-Bonucci, Histoire de la mafia, Bruxelles, Édi­ tions Complexes, 1994; e soprattutto Salvatore Lupo, Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1993, che evidenzia il modo in cui la mafia produce o devia immagini e discorsi intesi a legittimare la sua azione co­ me opera sociale.

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nozione di scambio occulto come la base di un certo modo di con­ cepire la logica sociale nel suo insieme. Quando abbiamo ripercor­ so gli elementi di base dell’analisi funzionalista, abbiamo sottoli­ neato come le pratiche corruttive potrebbero essere viste non co­ me casi isolati, ma come espressione empirica delle contraddizioni del sistema sociale. Quest’ultimo, fondato su consuetudini tradi­ zionali, su di una morale fissa e di norme giuridiche, ha necessa­ riamente bisogno di un sottosistema nascosto e parallelo per per­ mettere al dinamismo delle forze vive della società di esprimersi. Grazie all’analisi del clientelismo possiamo allora affermare che ciò che passa in un insieme sociale attraverso uno scambio di corruttela - per cui l’individuo rinuncia al principio della sua re­ sponsabilità e al controllo della sua azione personale - può be­ nissimo costituire (o può con una certa probabilità costituire) la base per una comunità sociale. Tanto che nel confronto col Di­ ritto, per la loro natura comprensiva più che normativa, le scien­ ze sociali acquistano una maggiore capacità euristica nell’analisi dei fenomeni di corruzione. Questa osservazione è importante soprattutto se si guarda al clientelismo alla luce di quel “fatto so­ ciale totale” cui fa riferimento Marcel Mauss quando, nel Saggio sul dono, analizza il significato del potlatch degli Amerindi25. Un fatto è totale, spiega Mauss, quando coinvolge la maggior parte degli ambiti della vita collettiva e quando, in un modo o nell’al­ tro, struttura campi che a priori non lo riguardano, o anche quando diventa un fondamento per questi settori. Il clientelismo - poiché designa forse uno scambio speciale di beni o servizi di natura indeterminata - può essere considerato un fatto sociale in grado di influenzare e determinare aspetti molto diversi dell’esi­ stenza umana (si pensi, ad esempio, ad una transazione clientela­ re che opera - seppure in maniera piuttosto superficiale - sul pia­ no molto differente degli effetti della dimensione spirituale del­ l’esistenza, nei casi in cui un patrono offre ai suoi clienti stru­ menti religiosi, come sacrifici, messe e pellegrinaggi).

25 Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle so­ cietà arcaiche, a cura di M. Aime, Torino, Einaudi, 2002; pubblicato inizial­ mente come «Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques», L’Année sociologique, seconda serie, 1923-1924.

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Questo è il motivo per cui c’è qualcosa di seducente nell’af­ fermazione, in sé molto problematica, che il clientelismo induce una “corruzione benefica”; questo tipo di formula viene utilizza­ ta quando gli autori delle scienze sociali sottolineano che, come modalità di redistribuzione parziale di beni e servizi non equa­ mente distribuiti, il clientelismo mostra una capacità di aiutare i più svantaggiati. Possiamo cogliere questo aspetto in un altro modo: esprimeremmo qualcosa di totalmente in linea con lo spi­ rito dell’analisi funzionalista se affermassimo che le relazioni con i clienti, poiché possono essere intese come un fatto sociale, de­ vono rappresentare qualcosa di socialmente ineludibile, addirit­ tura di strutturante per lo scambio sociale. Di conseguenza, sul­ la base di una considerazione che sembra suscettibile di invertire la prospettiva tra il normale e l’anormale, la possibilità stessa del­ la normatività si pone in termini del tutto particolari. Questo te­ ma dovrà essere attentamente esaminato nelle pagine seguenti. Molti altri rilevanti fenomeni sociali possono essere analiz­ zati in questo modo. E impossibile equipararli alla corruzione se si ragiona all’interno del quadro proposto dalle scienze giuridi­ che moderne, almeno in termini rigorosi. D’altra parte, questi fenomeni mettono in gioco alcune caratteristiche specifiche e decisive della definizione giuridica di corruzione, e ci invitano a riflettere sulla portata sociale degli usi ricoperti da quest’ultima. E ciò è rilevante, sia perché si tratta di fenomeni che hanno una considerevole durata (ognuno ha attraversato secoli diversi, mo­ strando una capacità di adattamento a nuove configurazioni so­ ciali), sia perché le questioni che implicano o hanno implicato vanno al cuore della civilizzazione che li ha generati, e circoscri­ ve un problema ricorrente fondamentale.

La venalità delle cariche

Ein efficace esempio di tutto questo è rappresentato dal feno­ meno della venalità delle cariche, vale a dire il loro acquisto da par­ te dei funzionari sia nel mondo antico che in quello moderno26. 26 Per documentare la venalità delle cariche tra i romani, si veda ad esem-

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Se riprendiamo l’analisi paradigmatica di questo fenomeno attraverso le opere classiche di Roland Mousnier possiamo co­ gliere la specificità dell’ufficio d’Antico Regime e possiamo di­ stinguerlo da altre funzioni pubbliche quali, ad esempio, un feu­ do o una commissione. Nel primo di questi casi, il pieno pos­ sesso di un territorio include anche l’esercizio di giustizia e po­ lizia; per esempio, il diritto di locazione che pertiene al feudo permette riscuotere tasse, affitti, imposte e multe. Il contadino svolge il suo lavoro, paga un’imposta, raccoglie i profitti e li tie­ ne per sé. Nel secondo caso, il potere è affidato dal re per un pe­ riodo determinato, e questi può revocare la commissione a sua discrezione. A differenza della commissione, l’ufficio ha una propria natura ed esistenza riconosciute dalle lettere patenti ri­ lasciate in via ufficiale dal re, con la possibilità di una successio­ ne familiare. A differenza del feudo, l’esistenza dell’ufficio è conferita dall’editto che lo crea mediante “lettere di provisione” (lettres de provision) redatte in cancelleria e sigillate in udienza con il sigillo reale dal cancelliere. L’ufficio è remunerato con un salario o con onorari, ed è affidato in custodia all’ufficiale: se l’ufficio fa profitti, questi appartengono al re, ed è solo per una concessione che il sovrano che l’ufficiale si retribuisce in parte “per sua mano”. Nonostante la clausola “tant qu’il nous plaira” delle lettere di provisione, l’attribuzione all’ufficiale è però sta­ bile. All’ufficio è allegato il titolo, un attributo onorifico che i funzionari possono mostrare e associare al loro nome. La carica conferisce quindi onore e rispetto ed è accompagnata da immu­ nità e da privilegi. Può essere cumulabilc con altri incarichi e per ottenerla il candidato deve acquistarla dal re. Nel sistema della venalità delle cariche il re vende parti di po­ tere pubblico che sono connesse a determinate funzioni “conce­ dendole” a soggetti privati che ne hanno pagato “un costo” (la fi­ nance), cioè un prezzo. Questo costo è legato ad un ufficio che può essere rivenduto (o, in caso di morte dell’ufficiale, è la fami­ pio Paul Veyne, «Clientèle et corruption au service de l’État: la vénalité des of­ fices dans le Bas Empire romain», Annales E.S.C., XXXVI, n. 3 (maggio-giu­ gno) 1981, pp. 339-360; per la modernità europea cfr. Roland Mousnier, Ζ.Λ vé­ nalité des offices sous Henri IV et Louis XII, Paris, PUF, seconda edizione 1971.

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glia che può decidere di venderlo). Così “provvisti”, quindi “inca­ ricati” (reçus en leur charge), gli ufficiali sostituiscono il re e pos­ sono legittimamente esercitare l’incarico a suo nome, anche se sot­ to forma di esercizio personale e beneficiando direttamente degli effetti di questo incarichi, siano essi finanziari o di altra natura. Nella nostra prospettiva, è possibile fare due osservazioni sul funzionamento del sistema della venalità delle cariche. In primo luogo, l’ufficio «apparaît comme une fonction publique devenue objet de commerce et revêtant certains aspects de la propriété privée27». È per questo motivo che, pur rientrando in un uso so­ ciale consolidato e durevole, questo sistema si avvicina alla cor­ ruzione intesa alla maniera del Diritto moderno: essa opera come se quelli che sono per noi i funzionari pubblici - esattori delle tasse, presidi di scuola, prefetti regionale o generali dell’aviazio­ ne - fossero in prima persona possessori delle loro cariche28. Gli affari pubblici sono acquisiti come cose private, e il proprietario dell’ufficio è il beneficiario diretto del servizio reso. Nel norma­ le esercizio dell’ufficio la mediazione dello Stato interviene solo in secondo grado, ad esempio nel caso di un malfunzionamento grave ed evidente. In questi casi, l’appropriazione privata del ser­ vizio pubblico, che come abbiamo detto sopra denota la forma generica della nozione giuridica di corruzione, diventa essa stes­ sa un principio generalizzato. Tutti gli affari pubblici possono appartenere, in modo frammentato o parcellizzato, a individui cui è permesso di acquistarne una parte; e la macchina pubblica opera secondo il principio dell’interesse personale. Naturalmen­ te, nella dimensione storicamente concreta della venalità delle ca­ riche, il potere regale esercita un controllo, e tutto avviene come se la proprietà ultima dell’ufficio sfugga al suo titolare, che agisce sempre sotto la supervisione del re; ma in pratica, ciò fa sì che l’o­ perato della macchina amministrativa poggi sulla volontà interes­ sata dei notabili locali o regionali - il cui interesse è sia sociale che economico. In cambio di questa appropriazione privata degli uf­ 27 Roland Mousnier, La vénalité des offices sons Henri IV et Louis XII, op. cit., p. 8. 28 Nel moderno sistema francese, le funzioni di banditore e notaio sono funzioni comparabili: colui che esercita questa funzione la acquista dallo Sta­ to ed esercita il suo godimento.

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fici pubblici, questo sistema ha la paradossale virtù di far funzio­ nare efficacemente lo Stato: i titolari delle cariche assicurano l’ef­ ficienza delle funzioni che hanno assunto, sia per motivi di gua­ dagno (ciò serve ad ammortizzare il prezzo di acquisto della ca­ rica), sia per motivi simbolici e di prestigio personale. In secondo luogo, venalità delle cariche, è legata al posiziona­ mento sociale dell’ufficiale. Infatti, non è la compravendita ad as­ sicurare la dignità dell’ufficiale, perché per poter acquisire la cari­ ca è innanzitutto necessario averne la capacità sociale e finanziaria. Questa osservazione è stata fatta da Paul Veyne per l’antichità ro­ mana a proposito dei notabili della regione di Timgad durante il Basso Impero. Reclutati tra una popolazione di maggiorenti loca­ li costituenti una élite, gli ufficiali dell’Impero si comportarono co­ me “funzionari fantasma”: usavano effettivamente la loro carica amministrativa a loro vantaggio (e quindi beneficiavano di un’am­ pia influenza con i loro amministrati che erano anche loro clienti), ma la consideravano più una dignità che una professione e, dal punto di vista sociale, essa non consisteva ad esempio che in una fonte di reddito secondaria. Due osservazioni possono essere provvisoriamente fatte alla fine di questa analisi, volta a sottolinea­ re l’ambiguità fondamentale di questo sistema di organizzazione. La prima si basa essa stessa su di un’ambiguità: da un lato, la vena­ lità delle cariche si fonda su precise condizioni sociali, cioè su di una disuguaglianza di status e di patrimonio tra individui che essa rinnova e legittima; dall’altro lato, essa assicura un’efficace funzio­ ne di circolazione dei beni all’interno di una società divisa29. In al­ tre parole, evoca tanto una statica quanto una dinamica sociale. La seconda osservazione sembra poter aprire una pista sug­ gestiva dal punto di vista antropologico rimettendo in discus­ 29 A questo proposito, gli studi dedicati da Robert Descimon all’interpretazione del significato sociale del sistema di uffici: «La vénalité des offices comme dette publique sous l’ancien régime français. Le bien commun au pays des intérêts privés», in La dette publique dans l’histoire, convegno organizza­ to dal Centre de recherches historiques nel novembre 2001, atti riuniti da Jean Andreau, Gérard Béaur e Jean-Yves Grenier, Paris, Comité pour l’histoire éco­ nomique et financière de la France, 2006, pp. 177-242; e «Il mercato degli uf­ fici regi a Parigi (1604-1665). Economia politica ed economia privata della fun­ zione pubblica di antico regime», Quaderni storici, ()b/ò, 1997, pp. 685-716.

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sione il postulato utilitarista. Non è affatto certo che in un’eco­ nomia di beni materiali e simbolici, come quella della venalità delle cariche, gli agenti sociali debbano essere intesi come «massimizzatori razionali». La venalità sembra rinviare a un’altra di­ mensione umana; ed in ogni caso, essa sembra orientata in mo­ do molto diverso, antropologicamente parlando, rispetto all’in­ terpretazione liberale delle relazioni sociali. Lo si può cogliere da una importante fonte teorica riguardante il sistema di venalità delle cariche, vale a dire la riflessione del giurista Charles Loyseau (1566-1627). Nei Cinq livres du droit des offices del 161330, Loyseau definisce l’ufficio come la «dignité ordinaire avec fonc­ tion publique» (dignità ordinaria con funzione pubblica), e in tutto il suo trattato mette in risalto la dignità, nozione che non designa solo il rango sociale che conferisce o che condiziona l’e­ sercizio dell’ufficio, ma che suggerisce, nell’ordine simbolico, se non morale, la sua capacità di rappresentare la persona. La dina­ mica sociale indotta dal sistema degli uffici non può essere com­ presa senza la restituzione di un contesto teorico particolare: quello dell’emergere di una forma di affermazione degli indivi­ dui che non va affatto confusa con quella, tipicamente moderna, propria dell’“individualismo possessivo” che si sviluppa, a par­ tire dalle influenze inglesi, dal diciassettesimo secolo31. Robert Descimon ha sottolineato questa duplice dimensione, sociale e morale, e ha suggerito che dovrebbe essere interpretata in fun­ zione della nozione di identità32. La dinamica sociale presuppo­ 30 Vedi le Oeuvres de M. Charles Loyseau, parisien contenans les cinq li­ vres du droict des offices, avec autres livres, tant des seigneuries, des ordres, du deguerpissement et délaissement par hypothèque, que de la garantie des rentes, et des abus des justices de village. Nouvelle édition, suivant la correction & augmentation de l’autheur, Paris, chez François Targa, 1640, 2 voll. 31 Nel suo ormai classico studio {La teoria politica dell’individualismo possessivo. Da Hobbes a Locke, trad, di S. Borutti, Milano, Mondadori, 1982) Crawford Brough Macpherson ha messo in risalto la connessione tra i poten­ ti cambiamenti sociali che l’Inghilterra conosce nel diciassettesimo secolo e i temi filosofici derivanti dalla moderna legge naturale, connessione che ha de­ terminato le condizioni mentali di apprensione del rapporto dell’uomo con le cose che sono ancora in gran parte le nostre. 32 Cfr. Robert Descimon, «The Birth of the Nobility of the Robe: Dignity versus Privilege in the Parlament of Paris, 1500-1700», in Michael Wolfe (dir.),

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sta dal sistema di acquisto delle cariche nell’ambito della “stati­ ca nobiliare” sembra più specificamente legata all’emergere di individui “meritevoli” (dal punto di vista della capacità di svol­ gere la funzione legata all’ufficio), nel delicato contesto sociale, intellettuale e morale del XVI secolo33. Questo quadro ci per­ mette di migliorare la comprensione delle fonti originarie. Ad esempio, quando si legge il Trattato degli uffici di Loyseau si è tentati di accogliere il tentativo implicito di costituire un’etica dell’ufficiale attraverso il corretto funzionamento del suo officio·, nel sistema della venalità delle cariche sembra che lo schema che dalla “proprietà di sé”, attraverso la “proprietà pri­ vata” concepita come “proprietà delle cose” (riferendosi alle no­ zioni recentemente esaminate da Robert Castel e Claudine Haroche), possa riconfigurarsi. Anche se è “interessato” al corretto adempimento della sua carica, l’agente non ne beneficia direttamente. Da questo punto di vista, la fonte di giustificazione del­ l’ufficio è nel suo fornire i mezzi per costituire o per rafforzare un’identità in ragione di un istanza di riconoscimento sociale. L’analisi della venalità delle cariche conferma quindi la fecondi­ tà dell’analisi funzionalista, ma suggerisce anche una pista alter­ nativa di comprensione della dimensione antropologica dei fe­ nomeni di commistione tra la sfera privata e la sfera pubblica.

L’evergetismo

Sebbene provenga da una configurazione ancora più antica, possiamo fare delle osservazioni analoghe a proposito del sistema noto come “evergetismo”, termine con cui si designa un fenome­ no sociale dell’antichità greco-romana basato su pratiche suntua­ rie (o “evergetiche”) di individui che, grazie alle loro donazioni, contribuivano alla città o all’organizzazione di grandi feste pubChanging Identities in Early Modem France, Durham and London, Duke University Press, 1997, pp. 95-123. 33 Cfr. lo studio di Jonathan Powis, «Aristocratie et bureaucratie dans la France du XVIe siècle: État, office et patrimoine», in Philippe Contamine (dir.), L’Etat et les aristocraties. Xlle-XVlle siècle. France, Angleterre, Ecosse, op. cit., pp. 231-245.

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bliche34. Questo termine non è stato coniato dagli antichi, ma è l’adattamento della formula impiegata nei decreti onorifici dell’e­ poca ellenistica con i quali le città riconoscevano che certi cittadi­ ni, con i loro doni e i loro favori, “avevano fatto del bene alla cit­ tà” (euergétein tèn polin'). Più specificamente, sembra che ci fos­ sero due forme di evergetismo: quello che si fa al di fuori di una carica, e quelle che viene effettuato nell’ambito di una carica o di un mandato, e che è considerato come un obbligo morale legato a “l’onore” di servire la città. Paul Veyne propone di nominare que­ st’ultimo “evergetismo ob honorem”. È necessario distinguere l’e­ vergetismo dalle liturgie, obblighi imposti ai ricchi di contribuire economicamente alle feste pubbliche o alla difesa della città; le li­ turgie sono obbligatorie, non le pratiche evergetiche. Le prime as­ solvevano la funzione che nel mondo moderno sono ricoperte dai contributi fiscali versati a carico dello Stato; anche se il mondo an­ tico non ha mai conosciuto l’obbligo fiscale come lo conosciamo noi. L’evergetismo si distingue ugualmente dalla relazione di clientela, perché, secondo le parole di Veyne, «l’evergeta non mantiene una clientela: rende omaggio alla città, cioè al corpo dei suoi concittadini»35. Nello spirito di questa istituzione sociale, si dà corruzione solo nei casi in cui il donatore ritenga che il suo do­ no sia riservato solo a una parte specifica della città. Inoltre, nel diritto pubblico della Repubblica Romana, si riteneva che ci fos­ se corruzione se un candidato che compiva pratiche evergetiche durante la sua campagna elettorale invitasse solo una parte dei suoi concittadini alla festa. Nonostante le apparenze, possiamo quindi considerare l’evergetismo come un servizio civico. Anche questo fenomeno merita di essere inteso come un “fatto sociale totale”. Lo attestano i suoi effetti indiretti sulla sfera morale, o più esattamente, sull’espressione sociale della sfera morale. Per riprendere le parole di Aristotele - che sembra aver concepito questa categoria con l’esplicito scopo di prospet­ tare una giustificazione morale della pratica delle spese suntua­ rie civiche - la munificenza (mégaloprépeia) è una virtù sociale

34 Paul Veyne, Il pane e il circo. Sociologia storica e pluralismo politico, a cura di A. Sanfelice di Monteforte, Bologna, Il Mulino, 1984. 35 Ivi, p. 213

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eminente36. Essa consiste nel sostenere le spese necessarie per le onorificenze collettive come le pratiche di sacrificio religioso, la costruzione e la manutenzione di luoghi di culto, l’organizzazio­ ne di cori, l’equipaggiamento delle navi e l’organizzazione di banchetti pubblici. Essa si oppone, come chiarisce lo Stagirita, sia alla meschinità che alla volgarità, la banausìa. E interessante far riferimento a questi due difetti opposti. Il primo rinvia al proble­ ma della valutazione della quantità di spesa necessaria, problema decisivo nel quadro di un’economia suntuaria: la quantità della spesa da impiegare nei casi in cui è in gioco la magnificenza è ne­ cessariamente esorbitante e sproporzionata, sia per quanto con­ cerne le enormi somme spese per il servizio che celebra, sia per­ ché questa non produce alcun valore come accadrebbe in un’e­ conomia di mercato. Poiché lo scopo della spesa non può essere valutato in termini di redditività, «il decoro è relativo quindi a chi spende e in che cosa e per chi spende»37. Pertanto, Aristotele af­ ferma che la munificenza implica una sorta di conoscenza intui­ tiva della spesa eccessiva adeguata alla situazione: Il magnifico [ho mégaloprépès] è poi simile ad un uomo esperto [in una sua nota, il traduttore francese J. Tricot usa questa espressione: «un ar­ tiste en fait de dépense»]. Egli infatti sa vedere ciò che conviene e fare convenientemente grandi spese3S.

La munificenza è quindi la capacità di valutare accuratamen­ te una spesa considerevole, e in un certo senso sempre eccessiva, ma senza che essa diventi davvero sproporzionata: Bisogna che le spese siano rapportate a chi agisce, riguardo cioè a chi egli è e di quali mezzi dispone: infatti bisogna che le spese siano degne di ciò e che siano convenienti non solo all’opera, ma anche a chi agisce39.

Poiché la spesa può essere valutata solo in relazione all’agente (e non all’azione), più di ogni altra virtù la munificenza permette di co-

36 Aristotele, Etica Nicomachea, IV, 4-6, 1122 a 15 sq. 37 Ivi, 1122 a 25-27, trad. Tricot leggermente modificata. 38 Ivi, 1122 a 33-35. 39 Ivi, 1122 b 2-5.

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noscere «anche chi agisce»40. Peraltro, è anche l’insieme delle possi­ bili spese dell’agente a specificare questa virtù; e anche se volesse un povero non potrebbe essere munificente. Ciò nonostante, sembra che la dimensione psicologica della distinzione individuale prevalga su quella della quantità materiale. E questo è confermato dall’analisi del secondo opposto carattere. La banausìa evoca infatti una carat­ teristica delle persone di condizioni mediocri o provenienti da una tale condizione: essa comprende la mancanza di gusto, la rusticità, ma anche prima di tutto il lavoro manuale, i compiti meccanici in­ degni di un cittadino, e può essere tradotta come “rozzezza” o “vol­ garità”. Il rozzo, o l’uomo volgare, può benissimo essere ricco e so­ stenere spese considerevoli, ma queste sembreranno per l’appunto sproporzionate e mostreranno la sua mancanza di gusto invece del­ la distinzione41. In tal modo, è possibile comprendere la dimensione sociale di questa virtù liberale - la qualità morale che si lega alla ca­ pacità di fare doni suntuari alla città assume un significato all’inter­ no di un sistema mentale in cui il ricco è apprezzato per i suoi sfor­ zi di mettere parte della sua fortuna al servizio dei concittadini, sen­ za fare distinzioni. Il cittadino ricco è onorevole e degno di lode per­ ché «non è dispendioso per se stesso, bensì per la comunità42». Questo fenomeno ci introduce a quell’insieme di pratiche di sontuosità attraverso cui i cittadini ricchi, concorrendo tra loro in liberalità, da un lato giustificano la loro ricchezza e mitigano il po­ tenziale risentimento dei loro concittadini, dall’altro lato, colpi­ scono l’immaginazione di questi ultimi per la magnificenza dei lo­ ro doni guadagnandosi una sorta di “gloria materiale” con cui rin­ novare la loro influenza. Questa influenza non opera tanto nella sfera civica, intesa in senso stretto, quanto nella sfera sociale nel suo complesso, che è una superficie molto più ampia, ma i cui con­ fini sono anche molto più sfumati43.

40 Ibid., IV, 5, 1122 b 25. " Ibid., IN, 6, 1123 a 19-27. 42 Ibid., 1123 a 4-5. 43 Nell’ambito di un’analisi in termini di psicologia politica, Narciso Benbenaste e Gisela Delfino hanno fornito dettagli interessanti sulla concezione ari­ stotelica della cittadinanza (pur tentando di riferirla al mondo contemporaneo) nel loro studio «El concepto de Corrupción, sus formas de vigencia en la sociedad contemporanea», Les cahiers psychologie politique, η. 6, gennaio 2005.

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Conclusione della parte II

Come mettere in relazione le mentalità “moderna ” e “pre­ moderna”? I fenomeni che abbiamo fin qui analizzato, se affrontati in maniera comprensiva (vale a dire, mettendo in relazione le azio­ ni alle giustificazioni offerte dagli stessi attori), illustrano bene l’utilità dell’analisi funzionalista, mettendo in risalto la sua gran­ de attenzione alle dinamiche sociali. L’utilizzo di questa meto­ dologia offre infatti molteplici vantaggi. In primo luogo, quello di affrontare il tema delle relazioni tra “società in via di svilup­ po” e “società sviluppate”; in secondo luogo, di evidenziare il fatto che anche queste ultime non possono sottrarsi a fenomeni sociali di vasta portata, in cui sono in gioco la distribuzione o la ridistribuzione parziale dei beni materiali e di denaro (parziale perché in tutti i casi considerati, i ricchi rimangono i ricchi e per­ ché, per contro, nessuno degli usi discussi mira all’abolizione della differenza sociale) e, di conseguenza, la notevole influenza - sebbene con limiti sfumati - che i ricchi si assicurano su colo­ ro che sono loro debitori. Se intesi come sistemi sociali di ridistribuzione e d’influen­ za, i tre fenomeni esaminati (la relazione clientelare degli “im­ prenditori” antichi e moderni, così come lo scambio suntuario dell’evergetismo antico e la venalità delle cariche) tendono a so­ stituirsi ad un funzionamento “oggettivo” come quello dello Stato, privatizzando alcune funzioni pubbliche. Di conseguenza, questi fenomeni ci portano a interrogare il postulato fondamen­ tale che regge le nostre società “moderne” o “razionali”, perché essi mettono in discussione il grado di autonomia della sfera

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pubblica rispetto alla società. E poiché anche queste società han­ no una struttura politico-amministrativa differenziata, e sono costituite da individui che dimostrano una condotta “civica” o “regolare”, siamo costretti a interrogarci tanto sull’emergere della mentalità moderna, ossia sull’emergere di questa condotta “regolare” (razionale), quanto sullo svilupparsi di un sistema normativo che permetta di identificare, giudicare e arginare la corruzione. Da un punto di vista sociologico e antropologico, quale fun­ zione svolge concretamente il potere politico nelle sue diverse forme? In ragione dell’analisi delle categorie giuridiche contem­ poranee (cioè dell’acquisizione privata di beni pubblici all’inter­ no di un quadro strutturalmente regolato dalla responsabilità in­ dividuale), dobbiamo pertanto ritenere che il sistema autoritativo statale, quale garante della “cosa pubblica” sia davvero in con­ trasto con quei sistemi sociali che incorporano alcuni dei criteri decisivi di ciò che abbiamo identificato come corruzione? Oppu­ re, nella misura in cui il sistema moderno soddisfa in maniera esplicita quelle funzioni che i sistemi antichi realizzano implici­ tamente, possiamo ritenerlo in qualche forma di continuità con esse? Se accogliamo questa seconda opzione, su quali basi pos­ siamo definire la possibilità di passare da un sistema sociale po­ tenzialmente corrotto - se ragioniamo secondo quelle categorie moderne che rendono però impossibile analizzare compiutamente lo spirito dei sistemi antichi - ad un sistema regolato, in cui diviene possibile giudicare qualcosa come corrotto? In questo contesto sembra quasi che per salvare le condizio­ ni di possibilità della nozione di corruzione si debba assumere il fatto che la capacità descrittiva dell’analisi funzionalista entra in conflitto con l’esigenza di normatività del Diritto. Pertanto, i confini apparentemente definiti tra le mentalità premoderne e quelle moderne sfumano e, di conseguenza, i criteri per identifi­ care e valutare la corruzione divengono meno netti. E ora ne­ cessario provare dissipare questa confusione.

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PARTE III

Corruzione e filosofia politica

V Il solco antropologico: l’uomo moderno secondo Weber

Per uscire da questa impasse, è forse possibile interrogarsi in modo più specifico sul “momento” cui comunemente ci si rife­ risce con l’espressione “la nascita dello Stato” o “la comparsa della mentalità moderna”. Per diventare operativa, vale a dire, per poter dispiegare una portata normativa, la nozione di corru­ zione deve essere indagata nel suo rapporto con la storia dello Stato, e con la storia della condotta “disciplinata” del cittadino, cioè dell’amministrato e dell’amministratore. Si tratta di un compito di ricerca di una considerevole ampiezza che, nei limiti di questa opera, ci accontenteremo di formulare nei termini più circoscritti della sociologia weberiana, perché quest’ultima pro­ pone un’interpretazione fondativa del significato della nascita dello Stato. La questione è allora di intendere se sia possibile fa­ re nostra l’ipotesi della nascita della mentalità razionale moder­ na nell’uomo che vive “della” politica, cioè del burocrate o del­ l’amministratore la cui disciplina personale condiziona l’auto­ nomia della sfera pubblica1.

1 Max Weber, «La politica come professione» [1919], in Id., La scienza co­ me professione. La politica come professione, Torino, Einaudi, 2001, pp. 45-121; Id., Economia e società. L’economia, gli ordinamenti e ipoteri sociali: Comuni­ tà-Comunità religiose-Diritto-Dominio-La città [4a ed. 1955], a cura di M. Pal­ ina, Roma, Donzelli, 2019.

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L’ipotesi: l’autonomia della sfera pubblica e la razionaliz­ zazione delle condotte Weber ipotizza che la modernità abbia portato a un cambia­ mento nelle condotte degli agenti sociali individuali correlato al graduale costituirsi di una burocrazia razionale, centralizzata e gerarchizzata, che rendeva possibile una sempre più estesa regola­ mentazione. Nella storia occidentale, indipendentemente dalle spe­ cificità nazionali, l’autorità è andata progressivamente esercitando­ si in modo impersonale. Un processo che tende ad annullare l’ap­ propriazione privata dello spazio pubblico, poiché i funzionari re­ tribuiti non sono più intesi come proprietari del loro ufficio, ma solo come i depositari di quelle “competenze” che, verificate attra­ verso concorsi, li legittimano al buon esercizio del loro incarico. Come si produce questo sostanziale cambiamento nella di­ mensione sociale dell’esercizio del potere? E qual è il suo rap­ porto con altri fondamentali processi della modernità ugual­ mente interpretati da Weber come quel “disincantamento del mondo” per cui le condotte degli agenti sociali si allontanano dal tipo di conoscenza “magica” a favore della capacità raziona­ le di effettuare scelte in ragione di una relazione tra mezzi e fini individuali? Infine, in che misura il tipo di condotta “legale-ra­ zionale” del funzionario amministrativo è collegata a quest’altro mutamento fondamentale - descritta dal sociologo sul terreno della scienza dei comportamenti religiosi - che opera tra “l’etica protestante” e “lo spirito del capitalismo”? Se l’autonomia della sfera pubblica rispetto alla sfera privata è legata all’affermarsi al vertice dello Stato di un corpo di amministratori che agisce ra­ zionalmente, come valutare quest’ultimo fatto in considerazio­ ne del progressivo affermarsi di tali condotte razionali? La nozione di “autonomia della sfera pubblica”, per come noi la intendiamo, non indica solo l’indipendenza da quella degli inte­ ressi privati, ma anche il fatto che l’amministrazione che anima la sfera pubblica deve disciplinare le imprese, e segnare i confini tra ciò che è legittimo e ciò che è illegittimo acquisire: lo Stato, servi­ to e animato da un corpo di professionisti reclutato collegialmen­ te sulla base di competenze oggettive, circoscrive lo spazio legale del mercato, tutelando con ciò il servizio pubblico. Allo stesso

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modo, l’adozione e la generalizzazione di comportamenti giuridico-razionali nell’ambito statale non è estranea all’attuazione siste­ matica del diritto moderno, che si basa, come si è detto, sul princi­ pio della responsabilità civile e penale (personale e collettiva). In ogni caso, il mutamento descritto da Weber riguarda la possibilità stessa di cogliere la nozione di corruzione come categoria in grado di descrivere adeguatamente, quando non di governare, la vita so­ ciale. È dal punto di vista di questo cambiamento che questa no­ zione può acquistare un significato positivo e tecnico, lontano da quelli immaginari legati alla sua doppia origine metaforica (corru­ zione intesa sia come decomposizione dei corpi fisici che come de­ pravazione morale). È quindi necessario comprendere meglio le ragioni dell’emergere di un comportamento razionale in ambito politico, nonché la profondità dello sconvolgimento che esso ha prodotto nei comportamenti individuali e collettivi. Weber fa due osservazioni diverse su questo tema. In primo luogo, egli osserva che lo Stato, e di conseguenza il dominio le­ gale-razionale, sono nati sotto la spinta della pressione demo­ grafica: l’aumento della popolazione in Europa ha costretto il potere ad adottare una nuova tecnica di organizzazione dei rap­ porti umani e della gestione delle risorse materiali che si chiama Stato. Si comprende quindi perché la messa in opera di un com­ portamento legale-razionale è contemporanea sia all’emergere del sistema di Diritto - che fa della capacità di rispondere delle proprie azioni una condizione sine qua non della vita individua­ le nello spazio sociale - sia della moderna scienza dell’ammini­ strazione - che obbliga i produttori a misurare le loro spese e, eventualmente a calcolare, ed a moderare, il godimento dei loro beni (e troveremmo qui una caratteristica della rottura introdot­ ta dalla connessione tra la religione riformata e l’etica capitali­ sta). La razionalizzazione della condotta laica (sotto la doppia influenza dell’amministrazione e della legge) sembra essere con­ temporanea ad un cambiamento di condotta direttamente ispi­ rato dal sentimento religioso, o che è più o meno legato ad esso. In secondo luogo, Weber sviluppa l’idea che nella maggior par­ te dei paesi europei l’emergere di un corpo di funzionari pub­ blici abbia sostenuto il potere monarchico dominante nella sua lotta contro le tradizionali aristocrazie feudali. Infatti, le prero-

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gative rivendicate dalle aristocrazie costituivano un potente ostacolo all’unificazione dei regni e alla centralizzazione del co­ mando, e l’amministrazione è stata il mezzo per raggiungere en­ trambi questi obiettivi nel contesto di una lotta plurisecolare. Questa duplice tesi si comprende nel quadro di un’analisi della genesi dello Stato che si può descrivere sia come “empiri­ ca” (la pressione demografica da organizzare), sia come “reali­ stica” (la lotta per il monopolio del comando). La rilevanza sto­ rica di questa tesi è innegabile. Ciò nonostante, essa non sembra in grado di rendere conto di un’ambiguità fondamentale. La te­ si di Weber è infatti duplice e implicitamente circolare: l’emer­ gere della burocrazia razionale si basa su una razionalizzazione delle condotte che si traduce in autodisciplina nello spazio so­ ciale e nella “professione”, e allo stesso tempo essa deve genera­ re la disciplina che è espressa dal singolo agente individuale. La stessa possibilità di una condotta che potremmo descrivere co­ me regolare (e alla quale è lecito opporre quella corrotta) sem­ bra essere la causa e la conseguenza del cambiamento operato nella modernità. La disposizione individuale del funzionario pubblico che Weber chiama “l’onore del funzionario”, e che considera in diversi luoghi assolutamente decisivo nella nuova configurazione della società moderna2, costituisce indistinta­ mente nella modernità tanto il principio quanto l’effetto.

Critica dell’interpretazione weberiana: Nietzsche e la re­ sponsabilità individuale

Al termine di questa sintesi dell’interpretazione weberiana ci si presentano due linee di sviluppo della nostra riflessione. In primo luogo, il processo di razionalizzazione descritto da We­ ber si basa in maniera paradossale su quella che può essere iden­ tificata come “la crisi della Ragione”. Si tratta della radicale mes­ sa in discussione dell’ideale illuminista di una società politica di individui capaci di una condotta eticamente corretta, da cui con2 Vedi Max Weber, «La scienza come professione» [1917], in Id., La scien­ za come professione. La politica come professione, op. cit.

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segue la teoria politica pessimistica di Weber segnata dalla “guerra degli Dei”, cioè dall’impossibilità nella modernità di ri­ vendicare uno stile di vita razionalmente preferibile e una nor­ ma di vita collettiva giusta3. Su questo piano, il lavoro del socio­ logo tedesco sembra far proprio un concetto di corruzione pro­ prio della scienza sociale. Se c’è invece un divario notevole tra l’effettiva capacità euristica di questo concetto, e la debolezza del suo ambito normativo, è perché Weber ha rinunciato ad ac­ cogliere la dimensione politica del concetto; meglio ancora, è co­ me se avesse del tutto rinunciato a dargli una dimensione pro­ pria nel campo della filosofia politica. Per questa ragione, riten­ go necessario riattivare l’impegno filosofico; ad esempio rianno­ dando il filo della tradizione continentale. In secondo luogo, è l’analisi di alcuni fenomeni - dalla varia natura, talvolta anche in contraddizione tra loro - che rende ne­ cessario ritornare sull’ipotesi weberiana. In primo luogo, se il processo di razionalizzazione è efficace, è forse necessario adot­ tare ipotesi eziologiche più fini e complesse per rendere conto delle sue origini. Su questo tema si potrebbero rivolgere a We­ ber le osservazioni di Norbert Elias che trova le ragioni delle “dinamiche dell’Occidente” nell’emergere di una “civiltà delle buone maniere” in cui i processi di autocontrollo individuale so­ no meno correlati all’attuazione di nuove tecniche politiche che a una nuova rappresentazione delle norme sociali e politiche dell’obbedienza. Secondo i termini usati da Elias, la costituzio­ ne della struttura razionale deve essere intesa secondo un’idea di civilizzazione che comporta l’ipotesi di «trasformazioni struttu­ rali dell’economia psichica»4. Su questo aspetto, la critica della responsabilità formulata da Nietzsche nel suo tentativo di redigere una genealogia dei valo­ ri è di notevole importanza nella nostra prospettiva. Nella Ge­ nealogia della morale, il filosofo tedesco formula il suo proget-

3 Come Philippe Raynaud ha ben dimostrato in Max Weber et les dilem­ mes de la raison moderne, Paris, PUF, 1987, Quadrige 1996, si veda in partico­ lare il capitolo II, § 3: «Les limites de l’analyse wéberienne», pp. 176-205. 4 Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere [1939, 1969], tr. a cura di G. Panzieri, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 75 e pp. 297-298.

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to in termini di “nuova domanda”5: l’impresa genealogica si pre­ senta come un interrogativo che pone le condizioni per un nuo­ vo inizio della conoscenza morale. Invece di ammettere che i va­ lori sono dati a priori, è necessario in primo luogo esaminare le loro condizioni di possibilità in quanto valori (come è possibile, ad esempio, stabilire una gerarchia tra due tipi di comportamen­ to, affermando che un tipo di comportamento è moralmente preferibile ad un altro), e in secondo luogo esaminare la genesi dei valori che governano la nostra civiltà. Ecco come si deve in­ tendere il progetto genealogico: stabilire la genealogia di qualcu­ no significa risalire a tutti i suoi antenati e assumere la sua esi­ stenza singolare in funzione di un lignaggio che si sviluppa nel­ la lunga durata, osservando da vicino lo svolgersi storico delle esperienze passate per trovare materiale per la comprensione di questa singolare esistenza che ne è il culmine. La genealogia nietzschiana mostra, in particolare, come molti fenomeni mora­ li e sociali che se considerati superficialmente appaiono come cause, sono solo effetti, o più precisamente sono solo l’effetto di successive interpretazioni che gli uomini hanno prodotto di se stessi. Considerati da un punto di vista metafisico, questi effetti interpretativi sono tutti radicati in un unico principio la cui espressione è complessa e oscura: la volontà di potenza [Wz'Z/e zur Macht] è una forza “strutturante” che prende una pluralità di forme. Essa è sia la materia indefinita dell’interpretazione, sia la fonte che interpreta quando prende la forma dell’umano. La morale - vale a dire l’insieme dei comportamenti per i quali la condotta è soggetta a una regola basata su di una gerar­ chia di valori - è essa stessa quindi considerata una forma speci­ fica della volontà di potenza. Essa non si riferisce affatto a feno­ meni che sarebbero per loro natura morali: costituisce piuttosto un’attività che deriva da un’interpretazione morale delle forme 5 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico [1887], Prefazione, § 6: «Abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valo­ ri - e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circo­ stanze in cui si sono attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e mo­ dificando, in Opere, vol. VI, tomo II, trad. F. Masini, Milano, Adelphi, 1972, pp. 213-367: p. 218.

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della volontà di potenza6. Questa forma particolare in cui si esprime la volontà di potenza che è la morale, è di difficile com­ prensione per il fatto che, grazie ad essa, la ragione o il senti­ mento pretendono di auto-fondarsi, e di rivelare valori fondanti eterni. Nella morale, la causa reale dei fenomeni è letteralmente occultata. Inoltre, se la morale è un sintomo tra gli altri della vo­ lontà di potenza, si può dire che essa è un sintomo decadente poiché il suo scopo è quello di limitare la volontà di potenza che ne è il suo “sostegno”. Essa tende persino a indebolire questo so­ stegno, negandone la sua forza creatrice in nome di valori coer­ citivi e poveri di potenzialità. Ciò mostra come la posta in gioco nell’approccio nietzschiano non sia puramente intellettuale, per­ ché ha una finalità pratica: consiste nel sollevare la cappa di piombo che la morale pone sulla volontà di potenza, per far emergere nuovamente le ricche possibilità di quest’ultima. La responsabilità non è quindi un fenomeno morale tra gli altri; essa è un fenomeno morale d’importanza fondamentale poiché funziona da principio per molti altri fenomeni analoghi, e perché quando la si interpreta genealogicamente essa rivela con chiarezza il meccanismo stesso della moralità. Il percorso segui­ to da Nietzsche nella seconda stesura della Genealogia permet­ te quindi di dare una nuova visione di questo particolare feno­ meno che è la responsabilità morale, e di fornire le chiavi che ci permettono di comprendere altri fenomeni dello stesso genere. L’impresa genealogica, da parte sua, ha a che fare con l’inter­ pretazione storica poiché si basa sulla comprensione del costi­ tuirsi dei fenomeni morali. A questo proposito, Nietzsche pro­ cede distinguendo i diversi momenti necessari a integrare nell’a­ nimale umano i complessi comportamenti coperti dal termine “responsabilità”. Il primo momento di questa integrazione sem­ bra essere la creazione di una memoria, un’opera che, sul lungo periodo, consiste nel modificare profondamente le disposizioni corporali innate di un animale che è per contro incline a dimen­ ticare7. L’uomo che fa propria la responsabilità morale è adde-

6 Cfr. Al di à del bene e del male [1886], § 108, in Opere, vol. VI, tomo II, op. cit., pp. 3-210: p. 93: «Non esistono fenomeni morali ma solo una inter­ pretazione morale dei fenomeni».

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strato a sopportarla, e a non liberarsene; nel corso della lunga storia dell’umanità è stato necessario un lento condizionamento sociale per raggiungere questo duplice obiettivo. Come Nietz­ sche spiega nel § 2, la moralità dei costumi è il frutto di un lun­ go addestramento pulsionale. Ma è soprattutto la forma stessa di questo addestramento che permette di percepire le vere poste della responsabilizzazione morale dell’uomo. L’uomo è stato abituato a promettere, cioè a dare la sua pa­ rola impegnandosi a restituire a tutti i costi ciò che gli è stato prestato. Egli è stato spinto a credere che per essere rispettabile ai propri occhi e a quelli degli altri dovrà onorare domani gli im­ pegni presi oggi, anche se il prezzo è esorbitante. Questo equi­ vale ad alienare la sua libertà futura in nome di un patto conclu­ so nel presente: il dispositivo originale di responsabilità consiste, quindi, nel legare il futuro al presente. La difficoltà di questa im­ presa - far acquisire la capacità di essere responsabili, questa «potenza sovra se stesso e sul destino78» - è estrema, perché si ap­ plica a un essere che per natura si mostra particolarmente incli­ ne a dimenticare. La storia delle procedure penali serve da ma­ trice interpretativa per comprendere come è stata interiorizzata la disposizione all’auto-costrizione: lo spettacolo delle più san­ guinarie punizioni aveva la funzione di colpire l’immaginazione per provocare tramite la paura l’interiorizzazione del dispositi­ vo che impone il mantenimento delle promesse. Il senso del­ l’imputazione è stato impresso nella memoria dell’animale uma­ no nei modi più crudeli. Ma una volta che l’integrazione di que­ sto dispositivo innaturale ha avuto successo, esso è giunto a rap­ presentare un elemento di distinzione tra gli individui che ne erano dotati e gli altri. Il paradosso è che ciò che è stato interio­ rizzato supera di gran lunga la capacità di affrontare le conse­ guenze delle proprie azioni: consiste nello sperimentare la “cat­ tiva coscienza”, intesa come quell’impressione di essere sempre in dovere di qualcosa, o di essere colpevoli di qualcosa che nes­ suno sforzo potrà riscattare.

7 Si tratta quindi di «allevare un animale, cui sia consentito far delle pro­ messe», Genealogia della morale, II, § 1, p. 256. 8 Ivi, p. 258.

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Allo stesso modo, il secondo elemento fondamentale dell’inte­ riorizzazione della responsabilità è rivelato dall’analogia che esiste tra la capacità di rispondere delle proprie azioni e la struttura inte­ rindividuale del debito9. Questa analogia ci spinge a comprendere come la matrice dell’interiorizzazione della responsabilità si collo­ ca, in ultima analisi, in un uso arcaico le cui condizioni relative so­ no state assunte come un assoluto: la struttura contrattuale con la quale il debitore si impegnava in un modo o nell’altro ad estingue­ re il proprio debito, se necessario offrendo in cambio della somma che non poteva pagare qualcosa che era ancora in suo potere (il suo corpo, quello di qualcuno della sua famiglia, il suo lavoro, o la sua vita), o che rischia di perdere anche se non lo possiede (la beatitu­ dine post mortem o la salvezza della sua anima). Le punizioni fisi­ che e morali accompagnavano la violazione del contratto e il fatto che si potesse essere crudeli in accordo alla legge, spiega Nietzsche, dava ai creditori la piacevole impressione di essere padroni. In ma­ niera molto schematica, la nozione di responsabilità si basa su una relazione speciale, e di grande intensità, che si stabilisce sia tra sog­ getti (quando ci facciamo carico degli altri, ad esempio nel caso della responsabilità genitoriale) sia a all’interno delle soggettività (quando accettiamo gli imperativi della legge o del dovere, come nella responsabilità penale e morale). Tuttavia, l’interpretazione fornita da Nietzsche suggerisce che queste due modalità semplifi­ cate di responsabilità, vale a dire, da un lato, la capacità di farsi ca­ rico del destino di qualcuno, e dall’altro lato, la facoltà di rispon­ dere delle proprie azioni, hanno una radice comune: vale a dire, la violenza fatta all’individuo a causa di un debito che egli deve a qualcuno altro da sé. Ecco perché, da un punto di vista nietzschia­ no la responsabilità è in realtà inseparabile dal senso di colpa. Questa affermazione può essere però intesa sia in modo più ri­ stretto che più ampio. Modalità ristretta: l’istituzione della struttu­ ra della responsabilità implicava che nell’uomo primitivo, sensibile solo alla crudeltà, il senso di colpa - ben più duro della sola re­ sponsabilità - dovesse venire impresso nella sua memoria, e che

9 Ivi, II, § 4, pp. 260-262. Come ci ricorda Patrick Wotling nella sua edi­ zione francese della Genealogia, tale analogia è inoltre favorita dalla lingua te­ desca, a causa del collegamento tra Schuld (la colpa) e Schulden (i debiti).

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quindi dovesse apprendere a pagare un alto costo per la sua rela­ zione con gli altri. Modalità più ampia: il sentimento di colpa è la matrice inscindibile della responsabilità e tutte le forme di respon­ sabilità, si sviluppano da questa. Sono possibili entrambe le opzio­ ni interpretative. Da un lato, infatti, la relazione debitore-creditore è servita come uno schema fondamentale attraverso il quale l’uomo ha imparato a relazionarsi con gli altri: essa è una forma originale di intersoggettività. Tuttavia, allo stesso tempo, poiché la relazione indotta non è affatto neutra, questa ha insegnato all’uomo come misurarsi con gli altri, a valutare se stesso nella relazione con gli al­ tri. Fin dall’inizio, quindi, sotto l’influenza di questa forma prima­ ria i legami interpersonali hanno incluso una dimensione sospetta, poiché sono stati costruiti a partire da un rapporto di potere volto a sminuire l’uomo primitivo, che è generoso e intemperante, che spontaneamente dispiega le sue forze in modo sovrabbondante, senza preoccuparsi dei costi. È proprio questa generosità a causare la sua sconfitta, perché il rapporto che diverrà dominante sarà quel­ lo in cui prevale chi calcola con attenzione i crediti e i debiti. D’altra parte, la seconda interpretazione è valida se non per­ diamo di vista la dimensione metafisica dei fenomeni considera­ ti, vale a dire il fatto che la responsabilità implica il rapporto del­ l’esistenza umana con il tempo. Il vissuto del sentimento di re­ sponsabilità consiste nel sentirsi totalmente sopraffatti dal far­ dello che si porta (al punto che, in questa condizione, si antepo­ ne questo fardello alla nostra stessa vita), così come in senso me­ tafisico essere colpevoli significa percepire se stessi come peren­ nemente indebitati verso qualcosa che non si possiede, e che per definizione nessuno può possedere: il futuro. Per questo moti­ vo, la teoria della responsabilità assume la forma di una “storia della punizione” che deve essere intesa alla luce di una cauta in­ dagine sul lavoro che la cultura opera sugli individui. La domanda posta da Nietzsche, filosofo del sospetto, è in ef­ fetti: chi è che guadagna da questa struttura (analogamente a quanto noi diciamo di un crimine)? La sua risposta è che a bene­ ficiarne è un gruppo di uomini determinati a mettere gli altri sot­ to la propria tutela grazie al potere più influente e sottile che esi­ ste, quello sacerdotale. E in questa prospettiva che concepiamo i § 11-15 della seconda tesi della Genealogia·. Nietzsche spiega che 116

il sistema di sanzioni e penalità, che egli chiama con il termine ge­ nerico “punizione” ha la funzione di assoggettare radicalmente gli individui; e ciò non tanto sottoponendoli a pene determinate caso per caso, ma imprimendo un senso di colpa che li mantiene a priori socialmente e moralmente soggetti all’ordine dominante. Da questo punto di vista, Nietzsche si oppone a qualsiasi tenta­ tivo di giustificazione razionalista dell’ordine penale sul modello di quello che Hegel aveva formulato con uno spirito vicino quel­ lo dell’Illuminismo10. O più precisamente, interpreta questo or­ dine come un dispositivo che non serve affatto agli scopi che so­ stiene di servire. Essendo uno strumento di potere, non ha lo scopo di permettere di reintegrare una persona condannata a un ordine civile e che gli permetterebbe di riacquistare una dignità; funziona invece come un sistema di regolazione delle pulsioni e, lungi contribuire a ristabilire la “dignità” di una persona, la smi­ nuisce radicalmente, in particolare nel suo stimare se stessa, e nel modo in cui essa rappresenta le proprie forze11. Pertanto, il sistema penale si presenta come il simbolo stesso del lavoro della cultura, o più esattamente come il lavoro di una certa cultura, il cui fine corrisponde a tale “addomesticamento12”. La critica nietzschiana sottolinea che la responsabilità è come un corsetto che si fa indossare alla soggettività, e mostra come questa è stata tanto accostumata a indossarla da avere l’impressione che non ne possa più fare senza. Più precisamente, l’interpretazione nietzschiana stabilisce una relazione intima tra le forme di respon­ sabilità giuridica (civile e penale) e la responsabilità morale. Nel quadro della sua genealogia dei fenomeni morali, Nietzsche ritie­ ne che queste siano originariamente prodotte da dispositivi sociali volti a frenare la forza dei forti; tuttavia l’invenzione e l’implementazione di questi dispositivi stessi hanno un’origine morale: corrispondono a un’interpretazione della volontà di potenza che è piena di risentimento. E questi dispositivi hanno una finalità mo-

10 Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato [1820], a cura di V. Cicero, Milano, Bom­ piani, 2006, § 100. 11 Genealogia della morale, II, § 15, op. cit. 12 Cfr. ivi, I, § 15.

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rale: per usare una metafora che Nietzsche non avrebbe rifiutato, la responsabilità morale è come la croce che la soggettività deve portare. Essa accompagna l’esistenza che si trasforma così in un calvario. L’uomo tiranneggiato dal dovere ha intimamente perso sia la sua libertà, sia la sua creatività. L’addestramento realizzato dalla cultura del risentimento non annulla del tutto e semplicemente gli istinti impetuosi, esso li interiorizza e rivolge la loro vio­ lenza contro l’individuo13. 14 La “cattiva coscienza” - cioè l’effettiva vita psichica dell’uomo reso colpevole dalla cultura - costituisce al­ lora la modalità soggettiva autentica della coscienza morale. E ciò non è altro che l’effetto della disciplina, che appare come una co­ strizione inizialmente imposta alla soggettività, e poi da essa inte­ riorizzata come una regola di condotta. L’analisi nietzschiana non è quindi solo in totale contraddizione con la tesi kantiana per cui la disposizione ad agire secondo la legge morale, l’autonomia, ma­ nifesta la forza della soggettività razionale; ma ancora, molto pri­ ma della genealogia politica di Michel Foucault, essa apre la strada a una rinnovata interpretazione delle tecniche che permettono di assoggettare l’uomo dotandolo di un equipaggiamento intellettua­ le che fa di lui una soggettività, nel senso moderno della parola. Sfuggire a queste catene, se si concorda con Nietzsche, dà la spe­ ranza di vivere con l’innocente leggerezza di un bambino: questa è la promessa rivelata a Zarathustra^.

L'eterno ritorno della mentalità “premoderna” nelle società “di Stato”.

La decostruzione fatta da Nietzsche della logica che presie­ de la condotta “razionale” trova un suo riscontro nell’osserva­ zione del nostro mondo. In effetti, come un eco alle sue critiche

13 Ivi, II, § 16, p. 74. 14 Genealogia della morale, II, § 25, p. 87: «- Ma che cosa sto dicendo ora? Basta! Basta! A questo punto una cosa sola a me si conviene, il silenzio: altri­ menti mi arrogherei ciò che unicamente a chi è più giovane è consentito, a un “venturo”, a uno più forte di quanto sia io - ciò che unicamente è consentito a Zarathustra, a Zarathustra il senza Dio...».

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alle costrizioni della modernità, le attuali società statalizzate o differenziate - in cui gli scambi sono determinati sia dalla forma generale dell’economia di mercato, sia dal principio della re­ sponsabilità individuale e dalla regola della prevalenza dello spa­ zio pubblico rispetto all’interesse privato - mostrano forme evi­ denti di clientelismo che si declinano in maniera diversa e sotti­ le15. In altre parole, ciò che viene negato dal permanere di que­ ste pratiche è che, come ritiene Weber, l’ordine legale razionale possa da solo, e con le sue proprie forze, produrre quella “gran­ de trasformazione”. Pertanto, il clientelismo nelle società “sta­ tuali16” sembra entrare in contrasto con l’aspirazione ad una ra­ zionalizzazione integrale dello scambio politico. In effetti, l’e­ mergere e quindi l’affermarsi dello Stato, non cancella le più an­ tiche reti di influenza; le strutture sociali preesistenti si conser­ vano e, pure tra loro in concorrenza, si organizzano per cattura­ re a loro beneficio parte della sua azione. Lo Stato non è mai ri­ uscito a convertire del tutto alla sua nuova morale gruppi interi di individui e gruppi socialmente distinti. Pertanto, per comprendere le specificità della nozione di cor­ ruzione è senza dubbio necessario superare gli steccati discipli­ nari, e guardare a quanto accade nelle società “con una struttura sociale razionalizzata e con uno Stato” alla luce degli strumenti utilizzati per indagare le società “in cui la struttura sociale non è razionalizzata ed è senza uno Stato”. Dobbiamo interrogarci sui punti in comune tra le pratiche considerate come corrotte e le lo­ ro “analoghe” in campo etnologico: in tal modo, la questione dello scambio di corruttela apparirà sotto luce nuova. Inoltre, è opportuno prendere in considerazione questo insieme di feno-

15 Vedi i contributi di Jeanne Becquart-Leclercq: «Réseau relationnel, pou­ voir relationnel», Revue française de science politique, vol. XXIX, 1979, n. 1, pp. 102-128; e «Paradoxes de la corruption politique», Pouvoirs, dossier «La cor­ ruption», n. 31,1984, pp. 19-36. E Bernard Guillemain, «La corruption», op. cit. 16 Cfr. il lavoro già citato di Jean-Louis Briquet, Frédéric Sawicki, Le clientélisme politique dans les sociétés contemporaines·, cfr. anche Simona Piat­ toni (dir.), Clientelism, Interest, and Democratic Representation. The european experience in historical and comparative perspectives, op. cit.; Luis Roniger e Ayse Gunes-Ayata, Democracy, Clientelism and Civil Society, op. cit.

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meni sociali: (1) il clientelismo generalizzato antico (sotto forma di patronato); (2) il clientelismo occidentale moderno e contem­ poraneo, associato alla modalità di comportamento “legale-ra­ zionale”, (3) l’acquisto di cariche pubbliche così come l’abbiamo visto in opera nel sistema della venalità delle cariche, (4) i com­ portamenti suntuari grazie ai quali le élites guadagnano prestigio presso i loro concittadini. Queste pratiche mettono in gioco al­ cuni dei criteri decisivi per distinguere quell’atteggiamento che la modernità ha nominato, nel senso giuridico del termine, col ter­ mine di corruzione. Il fatto che queste pratiche siano o siano ri­ maste molto comuni, al punto che alcune di esse vengano confu­ se con lo “stile” della civiltà che le ha prodotte e possano essere considerate “fatti sociali totali”, impedisce tuttavia che possano essere puramente e semplicemente assimilate a ciò che oggi si in­ tende con “corruzione”. Questa situazione paradossale ci obbli­ ga ad esaminare la possibilità di concepire oggi la corruzione dal punto di vista etico e filosofico politico in funzione della specifi­ cità della nostra situazione “moderna”, e nel rispetto delle deter­ minanti della nostra cultura. Ma prima di procedere, è opportu­ na un’osservazione che ci offre un’apertura originale sulle con­ dotte suntuarie dell’agente sociale. Il punto comune a questi casi così diversi sembra risiedere nel fatto che gli “imprenditori” svolgono i loro affari facendo af­ fidamento sui vantaggi offerti dall’acquisto di informazioni o di servizi da funzionari pubblici, o anche facendo propria una spe­ cifica parte dell’autorità pubblica. Allo stesso tempo, il successo di queste “imprese” assicura a una parte della popolazione mez­ zi di sussistenza diretti (sotto forma di distribuzione di alimen­ ti) o indiretti (assegnazione di posti di lavoro) o dei beni di go­ dimento (le feste, i banchetti e i giochi offerti come pratiche evergetiche). L’agente di tali vantaggi può essere considerato un “imprenditore sociale”, al quale lo sviluppo delle sue imprese garantisce un potere concreto ed effettivo, sebbene difficile da valutare, perché la sua capacità di influenza è per natura sottrat­ ta al sistema formale di valutazione dell’autorità. Vale la pena ri­ flettere su questo duplice punto: è sempre una questione, in que­ ste pratiche, da un lato della realtà di un tessuto socio-economi­ co, dall’altro della costituzione di un sistema di potere.

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VI La cultura nell’antropologia politica della corruzione

Queste linee di riflessione ci spingono a ripensare le pratiche clientelati, venali ed evergetiche facendo riferimento a delle strutture di organizzazione della vita sociale che accolgono scambi differenti da quelli strettamente “razionali”, nel senso che l’economia moderna dà a questo termine. E ci stimolano an­ che a considerare sotto una luce diversa il modello corrente di definizione e valutazione della corruzione. Alla luce delle ambi­ guità della relazione sociale in cui essa si sviluppa, è quindi ne­ cessario rivedere il nostro punto di vista e riconsiderare la logi­ ca deontologico-economica che, sin dall’affermarsi della moder­ nità, ha segnato la definizione delle forme di corruzione. Ciò che rende le cose complesse e l’analisi più affascinante è che la dimensione culturale che costituisce lo snodo dei valori fondamentali di cui si nutrono i sistemi sociali gioca in questo conte­ sto un ruolo fondamentale17. Tuttavia, anche se l’aspetto della dimensione culturale della ricerca sulla corruzione non è mai ve­ nuto meno, esso oggi non costituisce uno degli assi principali nella lotta contro questo fenomeno, poiché questa è dominata sia dall’approccio puramente deontologico-giuridico, sia da 17 Contribuiscono a questa visione alcune opere degne di nota, come quel­ le di Philippe Decraene («La corruption en Afrique noire», Pouvoirs, n. 31, no­ vembre 1984, pp. 95-104) o quelle di Jean-François Bayart {L’État en Afrique. La politique du ventre, Paris, Fayard, 1989) per l’area africana; due studi inte­ ressanti possono essere citati a proposito dell’area anglosassone: Mokhtar Ben Barka, «Sexe et pouvoir aux États-Unis», E-rea, 1.1, 2003, e Franck Lessay, «Éthique protestante et éthos démocratique», Cités, 4/2002 (n. 12), pp. 63-80.

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quella morale. Tanto che la sottovalutazione dell’analisi della corruzione in termini di radicamento sociale e culturale rivela la debolezza dell’approccio dominante. E quindi necessario porre rimedio a questa debolezza se vogliamo ristabilire le condizioni per un approccio più completo alla corruzione, nel quadro di una filosofia che sia al contempo comprensiva e normativa. Nel­ le pagine seguenti, ci proponiamo di discutere in successione una serie di fenomeni attraverso schemi diversi di interpretazio­ ne che, a nostro avviso, sono in grado di chiarificarli con la do­ vuta profondità. Come vedremo, questi modelli rappresentano dei modi per ripensare la dimensione antropologica ed etica dei fenomeni che ci interessano.

Il modello del dono e del contro-dono e la sua applicazione al regime liberale Innanzitutto, il modello del dono e del contro-dono di cui in molti hanno approfondito le condizioni di possibilità sociali e morali, offre una visione singolare delle logiche di scambio18. Sappiamo che Marcel Mauss, esaminando il potlatch, questo strano rituale suntuario e agonale eseguito dagli indiani dell’Alaska, ha proposto un’alternativa all’idea che qualsiasi economia si basi sul principio dello scambio finalizzato ad un guadagno, nel senso di un surplus che si realizzerebbe tra i doni iniziali e l’esito dello scambio. Egli ha quindi ipotizzato che il valore del­ lo scambio non sia solo di mercato, ma sia sociale e simbolico, e che in queste condizioni uno scambio apparentemente in perdi­ ta non sia né irrazionale, né svantaggioso. A dispetto dell’im­ pressione percepita soggettivamente dall’individuo che oggetti­ vamente perde un certo valore. Da un punto di vista “olistico” - cioè nell’interesse di tutto il gruppo - questo tipo di scambio ha una sua ragion d’essere, e presenta persino una forma innega­

18 Marcel Mauss, Saggio sul dono, op. cit.; Maurice Godelier, L’enigma del dono, trad. G. Carbonelli, Milano, Jaca Book, 2013; Marcel Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, tr. R. Cincona, Roma, Troina, Cit­ tà Aperta, 2006.

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bile di fecondità. La sequenza completa di dono e contro-dono obbliga i partecipanti a donare, ad accettare di ricevere e a “contro-donare”, garantendo così la circolazione di beni in società che non danno il primato allo scambio mercantile. Inoltre, tra gli individui, il dono promuove legami sociali che hanno una gran­ de forza e che sono, in prima battuta, invisibili all’osservatore dominato dallo spirito commerciale: il dono rinnova la solida­ rietà tra i partecipanti, e designa una relazione di superiorità tra colui che dona e colui che riceve attraverso la competizione tra donatori reciprocamente obbligati19. Il sistema della donazione offre quindi gli elementi per una comunità dinamica e allargata, e il punto discusso dagli autori citati è se questa doppia istitu­ zione riguardi solo forme di scambio agonistico, o tutte le for­ me di scambio sotto forma di donazione. Si è tentati di fare l’ipotesi che, alla luce della prospettiva aperta della circolazione di beni e servizi a fini del riconosci­ mento, si possano comprendere tutte le pratiche sociali che mu­ tuano le caratteristiche della nozione giuridica moderna di cor­ ruzione, nonostante la diversità delle situazioni storiche, sociali e politiche in cui esse si sviluppano. Infatti, il clientelismo, la ve­ nalità delle cariche e l’evergetismo sono tutti fenomeni in cui la cosa pubblica è presa o intesa privatisticamente, e in cui la re­ sponsabilità individuale è sempre riferita in un modo o nell’altro all’esistenza di élites sociali potenti e attive: l’affermazione indi­ viduale e la capacità di rispondere delle proprie azioni sono vi­ ste in relazione al riconoscimento della propria situazione socia­ le, quando non della propria capacità di distinguersi. L’impossi­ bilità di oltrepassare queste forme all’interno dello stesso siste­ ma razionale e al termine del processo di razionalizzazione dei costumi deriva dal fatto che la relazione di corruzione ci condu­ ce all’enigma stesso del sociale: come si relazionano tra loro in­ dividui che sono tutti uguali di fronte alla legge, ma che stabili­ scono un confronto volto a rapportarsi l’un l’altro nella modali­ tà del differenziamento? Siccome nella relazione di corruttela si dà ciò che non è legale dare, e poiché in essa si scambia ciò che è

19 Maurice Godelier, L’enigma del dono, op. cit.

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protetto alla pari di un bene supremo (la cosa pubblica che non appartiene a nessuno in particolare, ed è di tutti in generale), per questo carattere di “sacrilegio profano” essa rende possibile una paradossale distinzione. Infatti, essa stabilisce tanto una nuova solidarietà sociale, quanto una forma di riconoscimento della su­ periorità di alcuni rispetto ad altri. Secondo questa ipotesi, mutatis mutandis, nel quadro di una “società aperta”, lo scambio corrotto avrebbe un ruolo paragonabile a quello dello scambio agonale del dono e del contro-dono nella società tradizionale. Osservazioni più precise possono però essere fatte se, all’in­ terno della dinamica sociale così interpretata, guardiamo alla di­ mensione morale del potere personale o, come diciamo oggi, della leadership. Nel suo libro su Le grazie del potere in Senofonte, Vincent Azoulay ha suggerito che il modello di buona condotta del capo politico proposto dallo scrittore greco nel quadro della socialità antica si basa su una donazione di benefi­ ci realizzata con discernimento20. Anche se evoca la capacità in­ dividuale di produrre carisma e munificenza, la charts che è la base del potere personale non dipende tanto dalla disposizione carismatica a farsi riconoscere come capo (sul modello weberiano del potere carismatico), quanto della capacità di concedere favori senza cadere nella pura e semplice corruzione. In questo modo, Azoulay suggerisce che il modello del dono e del contro­ dono è utile per pensare alle relazioni di scambio di prestigio nella sfera politica. Esiste una forma di correttezza politica nell’agire in questo modo, nel senso che questa pratica manifeste­ rebbe effetti sociali benefici e potrebbe persino essere valorizza­ ta eticamente presentandosi come moralmente esemplare. Tali ipotesi devono essere approfondite, valutate e soprattutto esa­ minate alla luce della nostra tradizione di società politica. Cosa che è possibile fare attraverso il pensiero machiavelliano.

20 Vincent Azoulay, Xénophon et les grâces du pouvoir. De la charis au charisme, Paris, Publications de la Sorbonne, 2004.

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Reinterpretare la concezione machiavelliana della corru­ zione civica E in funzione di un paradigma neoromano di virtù civica che, nell’opera del Segretario, le repubbliche sono descritte co­ me superiori a qualsiasi altra forma di regime21. Questo para­ digma, evidentemente molto presente nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, è declinato come un canone valido ai fini di una disciplina delle condotte individuali. L’insegnamento ma­ chiavelliano si basa sull’arte di orientare le condotte individuali in funzione del bene pubblico. In tal modo, il Fiorentino discu­ te la questione delle “repubbliche ben ordinate” in ragione del­ la loro capacità di assegnare ricompense e punizioni ai cittadini con il giusto grado di appropriatezza22. Questa trattazione del tema del comportamento corretto pone il problema della retri­ buzione morale della condotta pubblica in considerazione della differenza della virtù civica, come antitesi alla propensione ver­ so l’interesse particolare e come antidoto alla corruzione. Se questo problema appare centrale per il repubblicanesimo, è per­ ché in effetti qui si gioca in qualche modo la possibilità stessa di una civiltà politica, di cui Machiavelli era chiaramente consape­ vole, come possiamo leggere in questo passaggio: che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti con gli meriti de’ suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii a una buona ope­ ra e le pene a una cattiva, e avendo premiato uno per avere bene opera­ to, se quel medesimo opera dipoi male, lo gastiga sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene osser­ vati, una città vive libera molto tempo; altrimenti rovinerà tosto. Perché se a un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter sanza temere pena fare qualche opera non buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si risolverà ogni civilità23.

21 Cfr. questa affermazione: «non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio questo bene comune non è osser­ vato se non nelle repubbliche», Discorsi, II, 2, op. cit., p. 297. 22 Ivi, I, 24: «Le Republiche bene ordinate costituiscono premii e pene a’ loro cittadini, né compensono mai l’uno con l’altro», p. 118. 23 Ivi, p. 119.

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Qualsiasi forma di vita civile, scrive in questo passaggio Ma­ chiavelli, usando una formula iperbolica, è destinata a scompari­ re se regna all’interno della città uno spirito di impunità tale da permettere agli uomini eccellenti di commettere azioni malvage. La confusione tra lecito e illecito, amplificata dalla reputazione di eccellenza che maschera il vizio, sembra quindi tale da pro­ durre disastri in termini di vita pubblica giusta. In altre parole, il tema della corruzione è importante nell’opera machiavelliana perché rinvia a quello del sistema di equilibrio tra i meriti civici degli individui e le loro azioni biasimevoli, e implica quindi la possibilità stessa di regolamentazione etica dei costumi pubbli­ ci. Tanto che per questo repubblicanesimo la corruzione appare meno un disordine sociale che una forma di barbarie morale. Tuttavia, la concezione machiavelliana della virtù civica è tan­ to più importante in quanto si sviluppa all’interno di una rappre­ sentazione dell’uomo che si conforma a quell’antropologia che, di solito, costituisce la base delle dottrine repubblicane. Da un la­ to, infatti, l’uomo è per Machiavelli fondamentalmente governa­ to da un appetito che si fonde in lui con un impulso vitale: la spinta permanente che ha un leader d’intraprendere conquiste, ci spiega II Principe, rivela il desiderio di acquisire che, scrive, è «davvero molto naturale e ordinario24», e ciò vale nel cuore di ogni uomo che ne abbia il talento e l’opportunità. D’altra parte, l’essere umano è anche animato da un desiderio di riconoscimen­ to inestinguibile: gli uomini sono mossi da una pulsione fatal­ mente insoddisfatta, basata sull’asimmetria tra il desiderio di pos­ sedere (illimitato) e la capacità di accontentarsi di ciò che si pos­ siede (molto limitato25). Il peso di quella che Machiavelli chiama “ambizione” è in ciò fondamentale, un vero e proprio “seme cat­ tivo” che è la causa del male sopportato dall’uomo nella storia, per usare i termini del Capitolo dell’Ambizione26. Con il tema dell’ambizione, Machiavelli mostra che nel cuore dell’uomo esi-

24 Si veda II Principe, a cura di G. Inglese, Roma, Treccani, 2013, III, p. 78: «è cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di acquistare». 25 Si veda Discorsi I, 37, e II, in primo luogo il passaggio relativo alla malacontentezza. 2b Capitolo Dell’ambizione, in Opere, op. cit., pp. 2481-2486.

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ste per natura un potere contrario al bene pubblico, inteso come realtà collettiva irriducibile all’interesse individuale. In questo modo, agli occhi dell’autore del Principe, ogni uo­ mo è potenzialmente corruttibile. Come spiegato nei Discorsi, I, 42 (intitolato Quanto facilmente gli uomini possono essere corrot­ ti), anche se gli individui sono buoni e ben istruiti possono essere facilmente guastati: ciò è quanto attesta l’episodio dei Decemviri nella storia romana per come la riporta Tito Livio27. Nonostante il desiderio di agire a favore della causa popolare, i protagonisti di questo importante episodio della storia romana hanno assunto condotte contrarie al bene pubblico e finalizzate, in ultima anali­ si, a soddisfare la loro ambizione personale, cosa che, ritiene il Fiorentino, «farà tanto più pronti i dattori di leggi delle repubbli­ che o de’ regni a frenare gli appetiti umani, e tórre loro ogni spe­ ranza di potere impune errare28». Questa inclinazione malevola, o meglio ancora, questa fatale inclinazione alla corruzione è ancor più evidente nell’episodio più che paradossale della Legge agra­ ria29. Promossa dai fratelli Gracchi, questa legge permetteva al po­ polo di appropriarsi di una parte del suolo pubblico, cui legitti­ mamente aspirava data la sottomissione in cui era tenuto dal si­ stema patrizio degli affitti e dei debiti (fermages et de la dette). Ora, spiega Machiavelli, {’evoluzione sociale consentita o sempli­ cemente resa possibile dalla Legge agraria (per usare in maniera anacronistica termini contemporanei) è stata per Roma l’inizio della fine. Attraverso il commento di Machiavelli di questo episo­ dio storico vediamo come, nonostante l’autore sposi la causa del “popolo” piuttosto che quella dei “grandi”, l’appetito naturale degli uomini sia per lui fonte di corruzione. A punto tale che per salvare lo spirito repubblicano, si deve frenare il desiderio del po­ polo. Possiamo anche osservare che uno dei punti di forza del­ l’approccio machiavelliano alla corruzione della virtù repubblica­ na risiede nel fatto che è la frustrazione (malacontentezza), e non il richiamo diretto del guadagno, a guidare il sovvertimento dello

27 Cfr. Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione (Ab Urbe condita), III, 35; Niccolò Machiavelli, Discorsi, I, 40ss. 28 Niccolò Machiavelli, Discorsi, I, 42, p. 153. 29 Cfr. Tito Livio, III, 1; Niccolò Machiavelli, Discorsi, I, 37.

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spirito civico, o persino l’appropriazione indebita del bene pub­ blico. Nonostante la forza e la pregnanza del “desiderio di acqui­ sire”, si devono cercare altrove i motivi nascosti dello spirito di frode caratteristico della corruzione. L’analisi machiavelliana sug­ gerisce che il corruttore non mira tanto all’arricchimento perso­ nale quanto alla appropriazione di uno Stato; e che se esiste effet­ tivamente uno “scambio occulto”, questo è in ultimo meno com­ prensibile in termini commerciali, e valutabile in termini finanzia­ ri, che non in quelli della circolazione dei segni sociali o dei sim­ boli di potere. Questo è il motivo per cui i “grandi”, desiderosi di incarnare questi segni o simboli, sono più propensi del popolo a corrompere lo spirito pubblico; essi sono più avidi ma anche più frustrati, e ordiscono incessantemente complotti nella speranza di porre fine alla loro malacontentezza30. Di fronte al pericolo combinato della tentazione di arric­ chirsi con il bene pubblico sotto la duplice spinta del desiderio di acquisire e di questa frustrazione attiva che distrugge lo spiri­ to civico, Machiavelli risponde con un tema classico del repub­ blicanesimo: lo stimolo del desiderio di gloria31. Aristotele e Ci­ cerone, in particolare, avevano già sviluppato questo tema. Tut­ tavia, in una città estremamente corrotta questo tipo di risorsa morale si rivela inutilizzabile, perché anch’essa è traviata dall’ef­ fetto di leggi cattive32. La logica neoromana implementata da

30 Vedi Discorsi, III, 6, a proposito delle congiure: se vuole impedire che l’a­ vidità frustrata dei grandi destabilizzi completamente la sua organizzazione dei poteri, il leader repubblicano deve imperativamente creare situazioni in cui i possibili cospiratori possano investire il loro desiderio, costruendo relazioni tra loro e con lui in cui vi sia «qualche cosa da desiderare» [«e che vi sia in mezzo qualche cosa da desiderare», p. 475]. Questi oggetti di transazione (onorificen­ ze, missioni gratificanti, beni materiali di pregio) sono destinati a tenere occu­ pato il desiderio dei grandi, e quindi a distoglierlo dal fine del potere supremo. 31 Vedi ad esempio le osservazioni fatte in Discorsi, I, 43: Quelli che com­ battono per la gloria propria sono buoni e fedeli soldati', vedi allo stesso modo gli inviti fatto nel Principe al Duca di Urbino ad adottare una condotta che possa essere riconosciuta come orientata alla gloria, in particolare nell’ultimo capitolo (XXVI, pp. 148-151). 32 Questo caso è previsto nell’importante capitolo XVIII del I libro dei Discorsi, intitolato In che modo, nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo, ordinarvelo.

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Machiavelli trova qui il suo limite, cosa di cui egli sembra essere consapevole: il fiorentino spiega che la virtù civica può arrivare a mancare ad un punto tale che l’unico atteggiamento per il prin­ cipe responsabile consiste nel prendere il potere e esercitarlo in modo regio - quando la via “ordinaria” del cambiamento diven­ ta impraticabile, è necessario ricorrere allo “straordinario33”. Ovviamente, i critici del fiorentino non mancheranno di accu­ sarlo per la contraddizione che appare nel pretendere di “salva­ re la libertà” monopolizzando il potere; i suoi meno numerosi sostenitori gli daranno credito per aver prodotto uno dei para­ dossi più impressionanti della logica politica. Inoltre, chi non sa che in medicina i rimedi sono anche dei veleni? In ogni caso, Machiavelli ha avuto il merito di aver posto questa domanda con incredibile franchezza: quando lo spirito pubblico è compietamente corrotto, come si deve agire politicamente? La via “straordinaria” che mira a porre fine alla corruzione ordinaria, rappresenta la corruzione suprema dello spirito civico oppure no? Forse è così, ma c’è anche il paradosso di una virtù politica che è ai più incomprensibile, e che prende le strade di ciò che è “ordinariamente” considerato vizio. Si delinea così un’inversio­ ne tra corruzione e probità: ciò che sembra corruzione ai più è la salvezza dello Stato, e ciò che sembra probità mette, quando la crisi è arrivata, lo Stato in grande pericolo. Machiavelli non sembra offrire altro, alla soluzione al pro­ blema del degrado generalizzato della virtù, che questo ricorso allo “straordinario”, cioè l’affidamento temporaneo del potere a una tirannia salvifica. Tuttavia, è importante sottolineare che ac­ canto a questo modello la sua opera prevede anche un’altra va­ lutazione dello stesso fenomeno. Lo scopriamo nella “seconda traversata” dei problemi posti dalla Repubblica, vale a dire nella sua narrazione delle Istorie fiorentine. Il paradigma “politico”

33 «Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà o impossibilità che è, nelle città corrotte, a mantenervi una republica o a crearvela di nuova. E quan­ do pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio che verso lo stato popolare, acciocché quegli uomini i qua­ li dalle leggi per la loro insolenzia non possono essere corretti, lusserò da una potestà quasi regia in qualche modo frenati» (ivi, p. 111).

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dell’antica virtù romana esplorato nei Discorsi viene sostituito da un paradigma “storico” della vita sociale fiorentina, e que­ st’ultimo si rivela molto diverso perché integra il gioco dei con­ trasti tra gli interessi come un fatto insuperabile dell’attività po­ litica. Così le Istorie fiorentine aprono ancora più esplicitamen­ te alla considerazione di una forma non ortodossa di repubbli­ canesimo. Quindi tutto avviene come se, nel pensiero machia­ velliano, si trovassero all’opera due logiche differenti - ma sono queste due logiche tra loro irriducibili? Nonostante le apparenze, non è esattamente questo il caso. Infatti, ritengo che le Istorie fiorentine riprendano e portino alle estreme conseguenze una delle tesi più forti sviluppate nei Di­ scorsi. Questa tesi è quella della disunione creatrice di libertà34. Le Istorie fiorentine spingono all’estremo il riconoscimento della contraddittoria vitalità del sociale, e danno un significato origina­ le al tema della libertà delle repubbliche tumultuarie per come è presente nei Discorsi. In effetti, contro una rappresentazione ire­ nica e pacificata dello “spazio pubblico”, le Historie permettono di comprendere come il dissenso sia utile alla qualità dello spirito civico; sebbene questa condizione, in sé desiderabile, non accada senza che siano soddisfatte condizioni determinate. Questo è il te­ ma di meditazione che l’autore offre al suo lettore nel primo ca­ pitolo del libro VII35. Machiavelli spiega che alcune divisioni so­ no utili alla città e altre nocive; le prime sono quelle che sono fat­ te «senza sette né partigiani», le seconde quelle che prevedono en­ trambi. Il fondatore accorto di una repubblica, se non riesce a im­ pedire che si producano inimicizie, può almeno impedire la nasci­ ta di fazioni. Per raggiungere questo obiettivo, aggiunge Machia­ velli, è necessario capire in che modo un cittadino acquisisce re­ putazione; la questione è quindi capire come un individuo ottie­ ne l’attenzione dei suoi concittadini grazie a un’influenza cari­ smatica sapendo che in questa c’è un allontanamento dello spirito

34 Cfr. Discorsi, I, 4: Che la disunione della Plebe e del Senato romano fe­ ce libera e potente quella repubblica. 35 «Ma prima voglio alquanto, secondo la consuetudine nostra ragionando, dire come coloro che sperano che una republica possa essere unita, assai di que­ sta speranza s’ingannano», Istorie Fiorentine, VII, 1, in Opere, op. cit., p. 2031.

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pubblico che è dannoso alla libertà di tutti. Un uomo del genere, impresario della propria reputazione, può raggiungere i suoi sco­ pi in due modi: con mezzi pubblici o privati. Con i primi («vin­ cendo una battaglia, conquistando un luogo, svolgendo con sag­ gezza il ruolo di ambasciatore, consigliando la repubblica con giu­ dizio»), i suoi successi contribuiscono al benessere della sua pa­ tria; con i secondi («favorendo un tale cittadino o un altro, difen­ dendolo contro i magistrati, aiutandolo economicamente, aiutan­ do a raggiungere cariche immeritati, e offrendo alla popolazione spettacoli e doni»), egli favorisce alcune parti, indebolendo la pa­ tria, perché questi mezzi si basano su azioni che vincolano i suoi sostenitori alla sua persona. Nel primo caso, conclude il fiorenti­ no, tali successi, pur suscitando l’invidia e la gelosia dei concitta­ dini, generano una dinamica sociale virtuosa: E benché ancora tra i cittadini così fatti non si possa per alcuno modo provedere che non vi sieno odii grandissimi, non di meno, non avendo partigiani che per utilità propria li seguitino, non possono alla repubbli­ ca nuocere; anzi conviene che giovino, perché è necessario, per vincere le loro pruove, si voltino alla esaltazione di quella, e particolarmente os­ servino l’uno l’altro, acciò che i termini civili non si trapassino36.

È degno di nota il fatto che prendere in considerazione in tal modo le dinamiche dell’interesse personale fa parte di una teoria politica che può essere descritta come “olismo civico”. Tutto av­ viene come se Machiavelli prendesse atto della pluralità e della varietà delle attività particolari che animano lo spazio della città e che contribuiscono alla sua grandezza. Senza fare di Machia­ velli il precursore del “pluralismo dei valori” tipico delle nostre democrazie contemporanee, va notato che con la sua analisi ne­ ga la possibilità di una morale pubblica univoca. Tanto che è ne­ cessario ricorrere a un repubblicanesimo paradossale (almeno ri­ spetto alle più tipiche concezioni repubblicane continentali), perché integra la dimensione liberale dell’interesse personale. Può, l’attività politica, porre rimedio alla corruzione dei co­ stumi? Su questo punto, le opinioni generalmente divergono in

36 Istorie Fiorentine, VII, 1, in Opere, op. cit., p. 2032.

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base alla divisione, che struttura il pensiero politico moderno, tra liberalismo e repubblicanesimo. La prima corrente risponde in senso negativo, proponendo un approccio a valori più deontolo­ gici che civici, e conferendo il primato, in materia di educazione degli individui, ed a risorse altre e diverse da quelle mobilitate dallo Stato (vale a dire la moralità familiare o educazione religio­ sa). La seconda corrente, espressione più immediata del moder­ no progetto di secolarizzazione, risponde in senso affermativo affidando allo Stato il compito di responsabilizzare gli individui. Esiste tra queste una strada intermedia ed è proprio quella anti­ cipata da Machiavelli, e che è proseguita nella tradizione del pen­ siero politico occidentale in varie forme, da Hannah Arendt a Jürgen Habermas e Claude Lefort. Questi autori hanno la parti­ colarità di aver sviluppato una dottrina di tipo repubblicano, ma in grado di integrare elementi tipicamente liberali, come l’irriducibilità della libertà della coscienza individuale a qualsiasi forma di dogmatismo (religioso o politico) e la rivendicazione della plu­ ralità democratica di valori. In questa prospettiva, il lavoro della teoria politica mira a educare e responsabilizzare politicamente gli individui, ed è ciò che Machiavelli riesce a fare analizzando la corruzione in modo complesso e non riduttivo. In questo contesto si chiarisce lo strano rapporto che esiste in Machiavelli tra l’affermazione del paradigma neoromano della virtù civica e la valorizzazione “liberale” del desiderio di acqui­ sire (o il riconoscimento dell’interesse individuale). Nella tensio­ ne tra questi due termini si gioca, in un certo senso, l’impresa di ridefinire, nel repubblicanesimo eterodosso del Segretario, cosa si intende con i termini cardinali di “bene pubblico” e “interesse generale”. L’altro problema che ereditiamo da questa analisi è an­ cor più complesso: quali sono gli indicatori che permettono di valutare la virtù civica e che permettono di giudicare se essa è o meno corrotta? È indicativo che Machiavelli offra una sorta di si­ stema a duplice entrata. Per il responsabile politico, “principe” o leader di una repubblica, il criterio della virtù sta nella sua capa­ cità di mantenere lo stato, o nella sua capacità di “conservare il suo stato (o il suo Stato)”; e, poiché tutte le cose naturali sono de­ stinate a deteriorarsi, l’indicatore di corruzione risiede nella du­ rata di questo mantenimento. Per quanto concerne i cittadini, 132

nonostante il carattere peculiare della loro naturale avidità, il gra­ do di corruzione civica si mostra nell’attenzione che essi portano alla loro città; di conseguenza è dovuto alla cura con cui questi circondano la società politica di cui sono membri e, meglio an­ cora, l’impegno che dimostrano a favore del collettivo. Il primo fattore di corruzione nella città risiede quindi nell’indifferenza dei cittadini nei confronti della cosa pubblica. Come possiamo contrastare questa pericolosa tendenza? Come possiamo tenere costantemente viva l’attenzione nei confronti della cosa pubblica nei cuori avidi degli uomini? La società pubblica non può dura­ re senza il consenso attivo delle persone; e una cosa sembra cer­ ta: la manifesta mancanza di esemplarità dei responsabili della co­ sa pubblica provoca effetti così disastrosi che non è sbagliato af­ fermare che «gli peccati de’ popoli nascono dai principi»37.

Il modello della gloria e la sua applicazione alla società de­ mocratica La tematica teologica, morale e politica della gloria, così co­ me si è trasformata nella modernità, a questo punto della nostra indagine sembra far luce sulla dinamica della rigenerazione del­ la virtù civica; ed è anche in grado di fornire piste preziose di analisi per la riformulazione antropologica del nostro problema. Quella di gloria costituisce in effetti una categoria potente e complessa su cui è opportuno soffermarsi prima di prendere in considerazione le sue relazioni con la nozione di corruzione. Per poi, in un secondo momento, indagare come essa possa aiutarci a instituire dei nuovi criteri di valutazione della vita pubblica o di regolazione morale della politica. Ampiamente valorizzata dagli Antichi, la gloria è anche al centro degli studi degli scrittori moderni, come testimoniano le fonti letterarie fondanti di entrambe le tradizioni38. Più precisa-

37 Discorsi, III, 29. 38 Si veda l’opera di Maria Rosa Lida de Malkiel, La idea de la fama en la Edad Media Castellana, Sección de Obras de Lengua y Estudios Literarios, Fondo de Cultura Econòmica, 1952.

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mente, sotto l’influenza del paradigma teologico cristiano e più esattamente cattolico, i Moderni si sforzarono innanzitutto di contestarne la rilevanza, senza tuttavia riuscire a sradicarne l’u­ so. Si potrebbe persino affermare che, contrariamente ai suoi obiettivi, l’ostinazione teologica nel denunciare la ricerca della gloria ha prodotto l’aumento di interesse verso di essa. Il tenta­ tivo cristiano di screditarla non ha impedito in alcun modo, nel­ l’Europa del XVII, di reinterpretare questa nozione in maniera forte e originale. Tanto che «trascurare la gloria, [sarebbe] sotto­ valutare le principali questioni intellettuali, religiose, politiche, sociali [...] dell’epoca moderna. Perché la gloria è difatti un “far credere”, un brillante espediente propagandistico finalizzato a un’ipotetica “fabbricazione del Re”»39. La denuncia della gloria è il frutto di ciò che si può indicare come una rivalità tra paradigmi antropologici: il modello del peccato originale è contrapposto al modello antico della gloria. Mentre il secondo si basa sull’apprezzamento del mondo, il pri­ mo esalta il potere di Dio. Il secondo consente di “risaltare” il valore dell’individuo, il secondo umilia l’uomo sottoposto al potere divino. Inoltre, in Dio risiede il solo fondamento della gloria su cui l’individuo può appoggiarsi nelle difficoltà40. Il do­ vere dell’uomo è riconoscere e celebrare la gloria divina. Co­ stantemente ripetuta nell’Antico Testamento, questa afferma­ zione porta a riconoscere nelle manifestazioni naturali e sopran­ naturali di Dio la testimonianza della sua gloria41. Il Nuovo Te­ stamento considera il Cristo come il «Signore della gloria42», il

39 Olivier Chaline, premessa al numero monografico «La gloire à l’époque moderne», Histoire, économie et société, η. 2, secondo trimestre 2001, pp. 147148. Vedi anche dello stesso autore «De la gloire», Littératures Classiques, η. 36, 1999, pp. 95-108. 40 Cfr. Salmi 62, 6-8: «Solo in Dio riposa l’anima mia, / da lui la mia spe­ ranza. / Lui solo è mia rupe e mia salvezza, / mia roccia di difesa: non potrò vacillare. / In Dio è la mia salvezza e la mia gloria; / il mio saldo rifugio, la mia difesa è in Dio». 41 Cfr. Donatien Mollat, «Gioire» in Xavier-Léon Dufour (dir.), Vocabu­ laire de théologie biblique, Paris, Cerf, 1977, § 3: «La gloire de Yahweh», pp. 505-507. 42 San Paolo, Prima epistola ai Corinzi, 1, 8.

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Figlio che porta sulla sua faccia «la gloria di suo padre43». Le fonti bibliche che tendono a negare all’uomo la possibilità di es­ sere fonte di gloria, o che si impegnano a denunciare la gloria umana come falsa o vana, trovano un forte supporto nell’inter­ pretazione agostiniana della storia romana. Il vescovo di Ippona, fine conoscitore delle fonti antiche, utilizzò le ambiguità del­ la gloria per farne una delle cause della rovina della grandezza di Roma44. L’interesse filosofico nei confronti della nozione di glo­ ria nell’epoca classica non è meno ricco di quello teologico. Questa duplice ricchezza è evidenziata da Blaise Pascal, che adotta una posizione volutamente ambigua: La più gran bassezza dell’uomo è la ricerca della gloria; ma è altresì il più gran segno della sua eccellenza: che per quanti beni esso possegga, per quanta salute e agi sostanziali, se non gode della stima degli altri uo­ mini, non è soddisfatto. Esso tiene in tal pregio la ragione umana che, per quanti titoli di superiorità abbia sulla terra, se non è onorevolmen­ te allogato in modo onorifico anche in essa, non è contento. È, per lui, il più bel posto del mondo: nulla può far sì che cessi di desiderarlo; ed è questa la più indelebile caratteristica del suo cuore45.

L’analisi pascaliana della gloria si trova in un punto di equili­ brio tra la sua confutazione degli autori cattolici della tradizione, e il suo favore verso alcuni filosofi del suo tempo. Come vedremo, queste sono le stesse ragioni che portano alcuni ad affermare che la gloria offre all’individuo, avido di stima, solo una soddisfazione immaginaria il cui effetto è di aggravare socialmente lo smarri­ mento metafisico della creatura di Dio, e altri a considerarla la via possibile per una costituzione della soggettività attraverso la giusta comprensione del valore morale delle relazioni sociali.

43 Id., Seconda epistola ai Corinzi, 4, 6. 44 Agostino d’Ippona, La Città di Dio, V, 13-20. 45 Blaise Pascal, Pensieri, n. 404 (ed. Brunschvicg), a cura di P. Scrini, To­ rino, Einaudi, 1962, pp. 175-175. Si noti che la nozione di corruzione è tratta ta dal filosofo giansenista con la stessa ambivalenza. Su questo argomento, ve­ di Gerard Ferreyrolles, Pascal et la raison du politique, Parigi, PUF, 1984, in particolare il cap. Ili: «La concupiscence collective», pp. 93-146; e Anne I rostin, «Vie et belle santé de la corruption dans la pensée politique de Pascal··, Anabases. Traditions et réceptions de TAntiquité, n. 6-2007, pp. 53-65.

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La categoria di gloria è complessa per definizione, non è af­ fatto univoca ed esprime una molteplicità di significati. Cicero­ ne propone di definirla come segue: frequens de aliquo fama cum laude’'1', unendo la fama all’elogio degli uomini giusti. In questa accezione, la gloria è il riconoscimento ricevuto legitti­ mamente da un personaggio considerato eccellente dalle perso­ ne oneste, ed è una ricompensa di merito per ciò che si è fatto in favore di tutta la città o, per lo meno, di una comunità esterna a quella cui appartiene la persona cui essa è riconosciuta. Possia­ mo dire che questo approccio alla nozione offre una definizione estrinseca della gloria. Ma la gloria può anche essere intesa dal punto di vista dell’individuo virtuoso; esiste una definizione in­ trinseca di gloria, di cui San Paolo - in una prospettiva tipica­ mente cristiana che mira a adattare la gloria degli uomini alla grazia di Dio - ne offre in prima battuta la misura46 47. La prima parte della citazione rivela che, in questo senso, la gloria deriva dalla stima di sé e non dipende dal riconoscimento pubblico. Quando nelle Passioni dell’anima Cartesio distingue la glo­ ria dalla soddisfazione interiore riprende i due poli della nozio­ ne48. Come la stima di sé, la gloria rafforza la soggettività; ma, sebbene quest’ultima sia in linea di principio totalmente indipendente dal riconoscimento esterno, questa non può esserne separata. Nel caso della gloria, come nel caso della passione con­ traria, la vergogna49, lo sguardo degli altri, l’impressione che

46 Marco Tullio Cicerone, De Inventarne, II, 4, 66. 47 «[·■·] Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio», San Paolo, Seconda epistola ai Corinzi, I, 12. 48 «Quella che chiamo qui col nome di Gloria, è una specie di Gioia, fonda­ ta sull’Amore che si ha per se stessi, e che nasce dalla convinzione o dalla spe­ ranza che si ha d’esser lodati da altri. Così essa è diversa dalla Soddisfazione in­ teriore, che viene dalla convinzione che si ha di aver fatto qualche buona azione. Qualche volta infatti siamo lodati per cose che non crediamo affatto siano buo­ ne, e biasimati per quelle che si crede siano migliori. Ma esse sono entrambe spe­ cie della stima che si fa di se stessi, altrettanto bene che specie di Gioia. Infatti, è motivo per stimare noi stessi anche vedere che si è apprezzati dagli altri», Carte­ sio, Le passioni dell’anima, a cura di S. Obinu, Milano, Bompiani, 2015, p. 423. 49 «La vergogna, al contrario, è una specie di Tristezza anch’essa fondata sul­ l’Amore di se stessi, e che viene dalla convinzione o dal timore che si ha di esse-

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questi ci guardino e ci giudichino (l’impressione che ci conside­ rino [considèrent], nei due significati del termine), gioca un ruo­ lo dinamico nel produrre l’immagine che il soggetto ha del pro­ prio valore. Le osservazioni di Cartesio sono estremamente in­ teressanti dal punto di vista di un’antropologia filosofica capace sia di cogliere le radici etiche della tentazione della corruzione, sia i mezzi per contrastare i suoi effetti. L’articolo 206, che si apre con la considerazione riguardante “l’uso” delle passioni della gloria e della vergogna, e su questo notevole punto:

Articolo 206: dell’uso di queste due passioni.

Ora la gloria e la vergogna hanno la stessa funzione nel senso che ci in­ citano alla virtù, l’una con la speranza, l’altra con il timore. Bisogna so­ lo formare il proprio giudizio, riguardo a ciò che è veramente degno di rimprovero o di lode, per non vergognarsi di fare il bene, e non mena­ re vanto dei propri vizi, come capita a molti. Ma non è bene spogliar­ si del tutto di queste Passioni, come un tempo facevano i Cinici. Infat­ ti anche se la gente giudica molto male, tuttavia, dato che senza di essa non possiamo vivere, e ci interessa esserne stimati, spesso dobbiamo seguire le sue opinioni invece delle nostre, relativamente alle nostre azioni pubbliche50.

In questa analisi, gloria e vergogna sono intese come mezzi per sviluppare a beneficio della soggettività una dinamica mora­ le che trova la sua origine nel gioco del riconoscimento sociale. Ciò è possibile perché nella rappresentazione cartesiana il desi­ derio di stima offre al soggetto un termine di riferimento per la conoscenza di sé e per la direzione esistenziale. Per un soggetto il cui rango non è chiaramente assegnato, pur senza costituire un fine in sé, la ricerca della gloria è senza dubbio una via d’acces­ so ad un’esistenza saggia e felice51. In considerazione della mu­

re disapprovati. Essa è, inoltre, una specie di modestia o di umiltà e sfiducia di se stessi. Infatti, quando ci stimiamo tanto da non riuscire a immaginarci d’essere disprezzati da alcuno, non si può essere facilmente vergognosi» [ibid., art. 205). 50 Cartesio, Le passioni dell’anima, op. cit., pp. 423-425. 51 Vedi Pascal, Pensieri, n. 385 (n. 427 ed. Brunschvicg): «L’uomo non sa

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tevolezza fondamentale entro cui l’uomo evolve, la ricerca della gloria può portare a ciò che viene chiamata in termini cartesiani un’esistenza “generosa”. In effetti, ciò che gli scettici sembrano ignorare è il valore dello sguardo degli altri per potenziare la sti­ ma di sé. Ora, «[...] uno dei principali aspetti della saggezza è co­ noscere in che modo e per quale motivo ciascuno si deve stima­ re o disprezzare52». Quindi la “generosità”, regina tra le virtù, (art. 153) si basa su un giudizio di adeguatezza circa la propor­ zione tra ciò che dobbiamo a noi stessi e ciò che dobbiamo agli altri, tra i nostri meriti e nostri doveri. Poiché è basata sull’elo­ gio o sul biasimo pubblico, la gloria del mondo produce effetti convergenti. Paradossalmente, lungi dal distoglierci da noi stes­ si, e favorire la perdita di un sé già frammentato e disorientato dalle immagini riflesse dagli specchi sociali, essa mette la sogget­ tività nella posizione di determinare in essa le giuste relazioni. Benché non rappresenti un sostituto della grazia, che conserva un suo peculiare valore in un essere decaduto, la gloria è piutto­ sto una “via esterna” che permette di raggiungere l’autenticità propria di una soggettività generosa. Dalle considerazioni che sulla categoria della gloria possia­ mo trarre dal complesso culturale cristiano, ne deriva una ulte­ riore pista di lavoro: la gloria può essere considerata come una delle chiavi di comprensione della relazione di corruttela. Il paradigma utilitarista riduce la corruzione a uno scambio mer­ cantile; presupponendo quindi l’esistenza di una soggettività co­ stituitasi prima del rapporto sociale e, per quanto queste siano culturalmente definite, rendendo le relazioni di scambio econo­ mico oggettive e univoche. Invece, il paradigma teologico a uni­ versalizza, facendo della condizione umana l’effetto di una cor­ ruzione ontologica. Il paradigma socio-morale offerto dalla no­ zione di gloria produce degli effetti euristici interessanti per quanto concerne la descrizione dei fenomeni e la prescrizione delle condotte. Per affrontare il primo livello (quello della de-

qual grado attribuirsi. È evidentemente smarrito, e caduto dal suo vero luogo dal non poterlo ritrovare; e lo cerca in ogni luogo con inquietudine e senza esi­ to tra tenebre», op. cit., p. 176. 52 Cartesio, Le passioni dell’anima, op. cit., n. 152, p. 349.

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scrizione dei fenomeni), è necessario ricorrere nuovamente alla critica pascaliana, aggiungendo al nostro quadro filosofico mi elemento essenziale per la comprensione della nozione di gloria: è utile restituire l’operato dell’immaginazione a partire dalla grandezza fondatrice {grandeurs d’établissement). Poiché la glo­ ria «dispensa la reputazione» e «procura rispetto e venerazione alle persone, alle opere, alle leggi, ai grandi», essa supplisce i li­ miti della ragione che è incapace di «dare un prezzo alle cose53». L’immaginazione accresce agli occhi degli uomini i valori stabi­ liti, spingendoli così alla ricerca della stima pubblica. La sogget­ tività è stimolata dal desiderio di gloria54 e chi la ottiene si sente ingrandito e gode di autorità su se stesso perché la stima pubbli­ ca gli procura autorità sugli altri55. Per contro, anche gli effetti che essa produce sul corpo sociale devono essere compresi nella loro potenza costituente. La gloria offre una reputazione peri­ colosa perché, mondana e storica, essa dipende dalle aspettative di un pubblico il cui gusto è contingente; ma allo stesso tempo, la reputazione di grandezza non si riduce a una pura e semplice illusione, perché i suoi effetti sono reali. La corruzione, per come l’abbiamo discussa nella prima par­ te del libro, è intesa in termini generali come un’appropriazione della cosa pubblica da parte di una volontà particolare. L’ap­ proccio ristretto al fenomeno la intende come l’acquisto o la vendita di parte della cosa pubblica; l’approccio ampio deve ag­ giungere la dimensione suntuaria, che offre ad un individuo abi­ le i mezzi per stabilire un rapporto di influenza tra la sua volontà e la decisione pubblica. I due paradigmi di intelligibilità discussi in precedenza sono meno efficaci qui di quello della gloria. In effetti, il paradigma utilitarista è privo di fenomeni di natura

53 Pascal, Pensieri, n. 235 (n. 82, ed. Brunschvicg), op. cit., p. 116. 54 Ivi, n. 264 (n. 151, ed. Brunschvicg): «La vanagloria - L’ammirazione guasta ogni cosa sin dall’infanzia: “Oh, com’è ben detto! Come ha fatto bene. Quant’è giudizioso” ecc. I fanciulli di Port-Royal, ai quali si ricusa questo pungolo di emulazione e di vanagloria, cadono nell’indolenza», p. 129. 55 Ivi, n. 380 (n. 400, ed. Brunschvicg): «Grandezza dell’uomo. Così eie vaio è il nostro concetto dell’anima umana che non possiamo tollerare ili es seme disprezzati, e di non godere la stima di un’anima. Tutta la felicita degli uomini consiste in questa stima», p. 174.

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suntuaria (perché per quale motivo, mirando alla soddisfazione degli interessi attraverso lo scambio di mercato, si sacrifichereb­ be la propria proprietà senza alcuna garanzia di contropartita?). E il paradigma teologico ha esteso così tanto la relazione di cor­ ruttela che ha considerato l’uomo come una creatura incapace di cogliere il suo vero interesse. Il paradigma sociopolitico - che potrebbe anche essere chiamato “paradigma immaginativo” - ci consente invece di comprendere come il corruttore (che sarebbe colui che dona, colui che “perde”) afferma se stesso per mezzo della stima pubblica. Strido sensu, la corruzione inizia con l’at­ testazione pubblica della grandezza, perché il suo effetto equi­ vale a porre il giudizio personale sotto un’influenza tutelare. Nella normale vita sociale - ad esempio nelle nostre democrazie moderne, nel quadro di un regime mediatico ormai permanente e senza misura - la figura del personaggio importante attira l’im­ maginazione di tutti56. Quando adottiamo il paradigma immaginativo, la comprensio­ ne del rapporto di corruttela si arricchisce e si innova. Ci si pre­ sentano, infatti, prospettive nuove: in primo luogo, possiamo co­ gliere gli effetti dell’immaginazione nella costruzione della perso­ nalità pubblica; in secondo luogo, grazie a esso, emerge la dimen­ sione fondamentalmente suntuaria della relazione di corruttela, vale a dire la sua natura non strettamente economica - se si inten­ de con questo termine come un guadagno oggettivo che può esse­ re valutato tramite delle quantità misurabili; in terzo luogo, ne vie­ ne l’idea che gli scambi sociali siano irriducibili al vantaggio degli interessi particolari che, tuttavia, a prima vista sembrano costituire la loro origine. Un approccio più ampio alla corruzione offre pu­ re gli strumenti per intendere la nascita della politica come il pro­ dursi di uno spazio simbolico in cui ciò che si cerca non è tanto di plasmare le relazioni sociali, quanto è riferibile ad un tentativo di ricerca di senso. La grande indeterminatezza dell’oggetto della glo­ ria mostra come essa sia un importante vettore morale e politico, un bene superiore al valore stesso dell’esistenza57. E come osserva

56 Ivi, n. 235 (n. 82, ed. Brunschvicg): «Bisognerebbe essere dotati di una ragione molto scaltrita per considerare un uomo come gli altri il Gran Signo­ re, circondato, nel suo superbo serraglio, da quarantamila giannizzeri», p. 118.

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Pascal, poiché ogni attività, o quasi, può portare alla gloria, allo stesso modo, qualsiasi attività è in grado di cristallizzare il deside­ rio umano e politico di senso. La stima pubblica su cui si basa la gloria è certamente un effetto dell’immaginazione, ma è anche pro­ mozione di grandezza - di conseguenza, la gloria conferisce al cor­ po sociale una misura la cui virtù è quella di dimensionare i meriti e i talenti. Falsa gloria, senza dubbio, dal punto di vista dei valori puramente o autenticamente morali, la “gloria del mondo” si ma­ nifesta, tuttavia, attraverso la potenza di configurazione del gioco immaginativo sulla sfera sociale, un dinamismo che la apparenta al­ l’esistenza umana concreta, al punto che quest’ultima è meno de­ terminabile dalla logica oggettiva del calcolo58. Allo stesso tempo, questa dinamica non manca di senso e non può essere ridotta all’opera di una creatura fin dalle sue ori­ gini corrotta, credula e influenzata del male. Ed è per questo che agli occhi di Pascal un approccio teologico limitato alla conside­ razione dell’ordine superiore delle cause divine è decisamente parziale. Benché la gloria derivi dalla natura indiscutibilmente ambigua della condizione umana, essa è significativa sul piano antropologico ed esprime, pur tenendo conto dei suoi effetti più contraddittori, una dimensione fondamentalmente politica della condizione umana, ed il bisogno di grandi immaginari è costitu­ tivo della sua dinamica. In tal modo la gloria fornisce alle relazioni che la vedono im­ plicata una misura della grandezza socio-morale. L’effetto che ha sui costumi del mondo è rilevante, perché il mondo necessita di una serie di parametri di riferimento per misurare l’azione pubblica. Non sorprende allora che la revisione di questi parametri avvenga in momenti di crisi storiche profonde. Ed è proprio nel rapporto tra la politica e la storia che si pone la questione della grandezza, e

57 Ivi, n. 267 (n. 158, ed. Brunschvicg): «Mestieri. - La dolcezza della glo­ ria è così grande che a qualunque oggetto la si colleghi, anche alla morte, la si ama», p. 130. 58 A tal proposito, sarebbe interessante guardare alle azioni di grandi uo­ mini (cioè uomini che volevano essere grandi) al di fuori della logica del calco­ lo del vantaggio tattico. Pericle, Luigi XIV, Churchill e De Gaulle, per citare solo alcuni politici per i quali la ricerca della gloria era una fonte ovvia, forni­ rebbero in questo caso indicazioni importanti.

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che emerge (o non emerge), il grande uomo, colui che capace at­ traverso le sue imprese di restituire senso al rapporto con i suoi si­ mili. La “verità storica” si fonda in parte su questa promozione im­ maginativa. Il disaccordo tra ciò che, da un lato, si può chiamare ri­ gorosamente la verità dei fatti, e, dall’altro, l’emergere di una scala di grandezza basata sull’immaginazione (e l’illusione) collettiva, può sconcertare o turbare il filosofo troppo legato a un’idea non sociale della condizione umana. Ma non sorprenderà chi, adottan­ do uno sguardo comprensivo verso l’azione pubblica, la consideri dal punto di vista di quel bisogno di senso che è nutrito dall’im­ maginazione. Tanto più che anche da sola l’aspirazione alla gran­ dezza politica produce effetti rilevanti. In primo luogo, effetti in termini di costituzione della riflessività: il desiderio di gloria resti­ tuisce l’uomo al suo luogo sociale, gli fornisce quegli elementi per diventare se stesso, e getta una luce sulla propria rivendicazione di senso, permettendogli di orientarsi nella storia in tempi di crisi. Quindi, produce effetti in termini di etica pubblica: la ricerca della gloria si fonde con un ideale morale quale è la grandezza dell’ani­ ma, capace di forgiare quel valore di “magnanimità” che l’etica an­ tica riconosceva come una virtù superiore59, e che è rilevante anche per una filosofia morale e politica valida per il nostro tempo. Nel solco dell’approccio di Hannah Arendt, in questo vi è la possibili­ tà di una rivalutazione della vita pubblica attraverso un’etica che mette in primo piano la vita adiva. In una prospettiva che vede l’attività politica capace sia di includere i suoi aspetti tattici, sia di andare ben oltre la sua dimensione strettamente politica60. Pertanto, indagare le relazioni di corruzione o quasi-corruzione alla luce della tematica della ricerca di gloria permette di far risaltare quanto la sua importanza sia proporzionale all’im­ barazzo che genera. Così come le inevitabili ambiguità dell’atti­ vità politica costituiscono una parte non trascurabile del suo ri­ lievo per la vita umana.

59 Cfr. René-Antoine Gauthier, Magnanimité. L’idéal de la grandeur dans la philosophie païenne et dans la théologie chrétienne, Paris, Vrin, 1951. 60 Cfr. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, a cura di A. Dal Lago, Milano, Bompiani, 2009.

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Conclusioni

Il potere obliquo. Quale etica per le repubbliche dopo la virtù?

Nelle pagine precedenti abbiamo intrapreso un cammino di­ scorsivo intorno la nozione di corruzione. “Discorsivo” nel senso in cui Michel Foucault ha inteso il termine discorso: la costituzio­ ne disciplinare di un tipo di verità che esprime un rapporto con il mondo peculiare ed irriducibile ad altri61. Abbiamo successiva­ mente discusso la corruzione in base all’analitica giuridica, quin­ di l’abbiamo caratterizzata in funzione delle scienze sociali (scien­ ze politiche, storia e sociologia), infine l’abbiamo ricondotta ad aspetti problematici sollecitati dall’antropologia e dalla filosofia etica e politica. I risultati di questo percorso che voglio mettere in risalto riguardano due dimensioni: da un lato, un nuovo approc­ cio allo studio del fenomeno della corruzione; dall’altro, le acqui­ sizioni a favore di un’etica pubblica utile per l’oggi.

La tensione tra descrizione e normatività

Il cammino dalla filosofia del Diritto alle scienze umane e sociali pone una questione importante: l’analisi delle condizioni teoriche della nozione di corruzione, a partire dai discorsi che la istituiscono, rivela l’esistenza di uno iato incolmabile tra la ten­ denza normativa del Diritto e le capacità descrittive o euristiche

61 Si veda Michel Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, a cura di A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, Torino, Einaudi, 2004.

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della storia, della sociologia e delle scienze politiche. Finché lo iato tra queste discipline conserva una certa tensione tra queste due istanze, possiamo sperare di conservare una nozione di cor­ ruzione non riduttiva e operativa. D’altra parte, se una delle due esigenze prevale sull’altra, si ottengono una disciplina giuridica che, senza la necessaria apertura storica, non ha una effettiva co­ noscenza della realtà; oppure una scienza sociale che, pur po­ tendo descrivere le condotte individuali e collettive, non è più in grado di giudicarle né di riconoscerle come corrotte, se non in riferimento alla percezione soggettivo e contingente di coloro che le vivono. In altri termini, o la nozione di corruzione viene in qualche modo assolutizzata, oppure tende a dissolversi. Ciò premesso, al termine della nostra indagine possiamo dare per acquisiti tre elementi. In primo luogo, essa mostra che è pos­ sibile andare oltre un approccio puramente descrittivo e a-normativo. Poiché la corruzione consiste in uno scambio che è tanto intenzionale (individualmente) quanto in un certo qual modo so­ cialmente strutturante (sia quando distribuisce i beni, sia quando ne trae un potere), essa non è solo una questione di “punti di vi­ sta” che la qualificherebbero come “nera”, “grigia” o “bianca”. In secondo luogo, è altrettanto importante rifiutare l’identi­ ficazione della corruzione con l’alterazione; infatti, nonostante il carattere etimologicamente originario di questo significato, questa induce una rappresentazione falsa e illusoria fondata sul­ l’idea che la corruzione si riferisca ad un processo di decadenza da una condizione paradigmatica, migliore e ideale. Tuttavia, il nostro percorso discorsivo nelle scienze sociali ci ha suggerito che la corruzione non consiste tanto in un deterioramento, quanto in una vera forma di vita, che è a suo modo autentica e non degradata. Lungi dal corrispondere a una situazione di ano­ malìa, essa costituisce un rapporto sociale, anche se questo è per lo più illecito e induce relazioni moralmente viziate62. Più preci­ samente, questo rapporto è costituito da elementi della vita so­ ciale strettamente articolati tra loro, coerenti, e in cui, dal punto di vista dei suoi attori, si gioca qualcosa di umanamente impor­

62 Sulla corruzione come rapporto sociale, cfr. Alain Morice, «Corruption, loi et société: quelques propositions», Tiers-Monde, t. 36, n. 141,1995, pp. 41-65.

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tante. In questo senso, quando diciamo che esiste una “cultura della corruzione” dobbiamo soffermarci sul fatto che la corru­ zione è davvero una questione di cultura. Per questo motivo, in terzo luogo, possiamo comprendere la profondità dell’interpretazione proposta da Silvano Belligni con il titolo del suo II volto simoniaco del poterebi. Si ricorderà che la simonia consiste, nella teologia cattolica, nel peccare attraver­ so l’acquisto e la vendita di beni spirituali, in particolare dei sa­ cramenti e di cariche ecclesiastiche. Ciò che il simoniaco acqui­ sta, in breve, sono dei segni. E l’analisi del peccato di simonia non solo ci porta a comprendere la profondità della relazione umana con i segni; ci fornisce i mezzi per descrivere i fenomeni di corruzione o quasi-corruzione come una forma originale di potere sociale. Nella corruzione, come abbiamo spiegato in par­ ticolare per ciò che riguarda la relazione patrono-cliente nella pratica clientelare, si dà effettivamente una strutturazione delle identità attraverso una relazione con i segni sociali. Tanto che possiamo persino parlare di una strutturazione semiotica delle identità, come dimostrato dalle ricerche che si fondano sulle espressioni impiegate nelle relazioni di corruttela. Questi segni si comprendono alla luce di una logica che spezza quella condi­ zione di uguaglianza che, in una democrazia, regola i rapporti tra gli individui; questa logica può essere legittimamente perce­ pita come degradante per una delle parti, quella che, in una con­ dizione di inferiorità dal punto di vista della proprietà o del con­ trollo dei mezzi per l’azione, richiede l’attenzione di quelle éli­ tes che invece ne sono dotate. Oltre all’essere illecita essa è vi­ ziata dal fatto che gli obbligati non hanno modo di emanciparsi dall’obbligante. Poiché essa corrisponde di fatto a una messa sotto tutela degli individui, l’affermarsi di queste élites corrotte o quasi corrotte costituisce una negazione del valore fondameli tale della modernità, vale a dire l’autonomia dei cittadini. Allo stesso tempo, la relazione di corruttela acquisisce un e minente funzione sociale, perché tende a modellare le identità sociali degli individui coinvolti nel processo di reciproca idcnti

63 Silvano Belligni, Il volto simoniaco del potere, op. cit.

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ficazione. Questo è il motivo per cui con corruzione parliamo di un vero e proprio potere sociale, un potere che per alcuni aspet­ ti appare occulto, ma che per altri si mostra come pienamente evidente e riconoscibile, tanto da coloro che ne beneficiano quanto dalle vittime. Ecco perché Jean-Pierre Olivier de Sardan ha ragione nel parlare dell’economia morale della corruzione: il rapporto sociale illecito e corrotto modella i costumi dei parte­ cipanti allo scambio64. Possiamo ancora meglio definire questo potere “obliquo”. La corruzione può essere intesa come un po­ tere obliquo perché i fenomeni di appropriazione indebita della cosa pubblica generano una spinta sociale che, nel suo movi­ mento, procede trasversalmente rispetto alle regole stabilite, ed è costantemente sovrapposta alle linee di forza che compongo­ no la socialità lecita. Il riconoscimento di questa spinta porta a contrastare l’illu­ sione virtuosa della “trasparenza” e ancor più della “moralizza­ zione” della vita pubblica. Ciò induce anche a interrogarsi in modo nuovo su come contrastarla efficacemente. L’ipotesi che ha mosso questo lavoro è allora confermata: la filosofia politica è in grado di rispondere alle due esigenze costitutive di un di­ scorso effettivo sulla corruzione, perché unisce un’ambizione prescrittiva a una potente capacità analitica. La nozione di cor­ ruzione richiede anche un approccio filosofico, poiché i criteri stessi per la sua valutazione - la natura della responsabilità indi­ viduale e il giusto confine tra sfera pubblica e interessi privati sono il risultato di scelte intenzionali che coinvolgono valori fondamentali per l’esistenza umana e si inscrivono nell’orizzon­ te di senso della vita collettiva. Pertanto, il problema è di sapere se e come sia possibile, og­ gi, un’etica pubblica nel contesto difficile delle repubbliche “do­ po la virtù”, dominate dal paradigma liberale della pluralità legit­ tima di interessi. Ciò che rende necessari i tentativi di riflessione sull’etica pubblica, tuttavia, è anche la profonda crisi di fiducia espressa dai cittadini nei confronti di coloro che esercitano re­ sponsabilità politici e talvolta delle istituzioni. Questa crisi si ba64 Cfr. Jean-Pierre Olivier de Sardan, «L’économie morale de la corruption en Afrique», Politique africaine, n. 63, 1996/3, pp. 97-116.

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sa sulla sensazione che le società siano attraversate da un potere obliquo, e che questo potere riguardi il desiderio delle élites di godere di sempre più benefici in termini, se non materiali, alme­ no di riconoscimento; con l’effetto quindi di indebolire la forza del legame politico. Ciò che rende significativo il contributo del repubblicanesimo è, come spiegato sopra, il fatto che esso è ca­ ratterizzato dal suo approccio aretaico all’etica pubblica: mette in risalto gli affetti considerati virtuosi (come il patriottismo) per­ ché essi sono in grado di consolidare l’interazione tra i cittadini di una stessa comunità civica. Uno dei temi in gioco nel dibatti­ to odierno ruota proprio attorno alla riformulazione della no­ zione di virtù nel contesto delle democrazie pluraliste, dominate dal legittimo disaccordo di interessi particolari65. In esso, la virtù civica non può più essere definita né in maniera univoca, né da valori indotti da una “morale di Stato”. I suoi contenuti, quando cerchiamo di precisarli, risultano effettivamente problematici per gruppi sociali che sono radicalmente segnati dall’irriducibilità dei propri punti di vista etici. Tuttavia, è forse possibile individuare una strada che permetta di lavorare alla definizione di una virtù civica se si cerca di concepirla in maniera deliberatamente mini­ malista, affinché un “nucleo” prenda forma. La virtù civica ri­ guarda soprattutto la capacità di pensare e agire politicamente, vale a dire di pensare e agire avendo a riguardo l’interesse gene­ rale, piuttosto che a quello particolare, o anche semplicemente avendo riguardo verso un “interesse allargato”. Ciò non ha stret­ tamente a che fare con una politica istituzionale espressa (votare, rappresentare il popolo, elaborare le leggi, prendere delle deci­ sioni all’interno dello Stato), ma concerne varie attività sociali (svolgere un compito nel ambiente di lavoro, dirigere un’associa­ zione, ecc.). A partire da un tale nucleo, il contributo della no­ zione di probità sembra particolarmente stimolante per operare una ridefinizione dei contenuti dell’etica pubblica. Questa no65 Si veda ad esempio le tesi di Shelley G. Burtt e la loro recente discus­ sione: Shelley G. Burtt, «La psyché du bon citoyen: sur la psychologie de la vertu civique», Les ateliers de l’éthique, vol. 10, n. 1, inverno 2015, pp. 83-99; Christopher Hamel, «Vertu civique, intérêts personnels et bien commun. Re­ penser la politique de la vertu», Les ateliers de l’éthique, vol. x, n. 1, inverno 2015, pp. 100-128; e Jérémy Duhamel, Les Vertus de la liberté, op. cit.

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zione, che abbiamo precedentemente menzionato nel suo uso al­ l’interno della metodologia sociologica66, possiamo ora qualifi­ carla sul piano dell’etica pubblica.

La probità, una virtù pubblica rifondatrice

Le nostre osservazioni si fondano su quattro constatazioni: nel francese corrente la probità rappresenta una nozione che sembra intuitivamente ovvia. Di solito indica il senso di ciò che appare come legittimo e onesto ad un soggetto specifico. Tutta­ via, essa è anche caratterizzata da un significato morale forte e complesso. Infine, questa nozione è presente in senso normati­ vo dal Diritto penale francese, e viene utilizzata dai giudici per qualificare le azioni degli imputati, e per determinare se questi sono colpevoli o meno in casi difficili da valutare in base alla so­ la norma della legge. Essa ricopre quindi un ruolo nella classifi­ cazione della corruzione, poiché, nel sistema penale in vigore nella Francia continentale, la constatazione della probità o della non probità dell’imputato permette al giudice di dichiarare col­ pevole o meno un imputato. A queste osservazioni si può aggiungere la constatazione che la caratterizzazione o la definizione di questa nozione non è fa­ cile: nessuno dei dizionari usati oggi nella filosofia morale con­ tiene una sua voce, e il Codice Civile, ritenendola apparente­ mente evidente, si accontenta di un approccio sinonimo o antinomico. La probità sembra quindi costituire una nozione tanto cruciale per la sua importanza, quanto poco precisa riguardo al­ la sua definizione. Come tale, utilizzata dal Diritto senza che sia tematizzata o definita esattamente, essa si presenta come un con­ cetto metagiuridico. Volendo chiarirne il significato, tenterei di collegare la probità al campo della filosofia morale, nella con­ vinzione che la genealogia di una nozione ne permette la com­ prensione. Questa nozione, segnata da una forte ambiguità, do­ vrebbe tanto essere inclusa in una morale sociale, quanto essere

66 Cfr. Arnold J. Heidenheimer, «Perspectives on the Perception of Cor­ ruption», op. cit.

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intesa come una virtù che è parte di un progetto molto più am­ bizioso, tanto sul piano politico quanto nel registro morale: quello espresso dai Costituenti nella Rivoluzione. Tra le epoche che sono state segnate da questo approccio fi­ losofico, il periodo intermedio dello stoicismo si distingue per un’etica sociale della convenzione. Se il primo stoicismo, quello dei fondatori Zenone, Cleante e Crisippo, è prevalentemente fo­ calizzato su questioni logiche e ontologiche; l’ultimo, quello dei “direttori di coscienza” come Seneca ed Epitteto, era incentrato sulla ricerca dell’ideale della felicità del saggio. Cicerone, uno dei suoi più eminenti rappresentanti nel periodo storico della crisi nella Repubblica Romana, promuove una morale “dell’o­ nestà” o “della bellezza morale” (honestum) tesa a consentire agli esseri umani di vivere in armonia con la loro propria natu­ ra, così come con la Natura: questo kosmos ben ordinato che racchiude l’esistenza di tutti gli esseri viventi. Uno dei punti for­ ti dello stoicismo è rappresentato dall’importanza che ha dato all’universalità del diritto naturale, comune agli esseri viventi, e che, in particolare, lega gli esseri umani formando una sorta di base generale comune che consente a tutti, nonostante le diffe­ renze, di comprendere e valutare reciprocamente le rispettive azioni morali67. In quanto vero e sovrano bene68, “l’onesto” è quell’ideale che funge da orizzonte di vita per il saggio. Sebbene il fine di questo ideale rappresenti la preoccupazione verso una vita autenticamente filosofica, il filosofo romano offre spazio a un’altra nozione che definisce come “conveniente” ^convena­ ble)·. V officium, un termine che vale quale criterio assiologico utile all’esistenza dell’uomo comune. Se l’onestà costituisce un bene supremo, il vivere in conformità con ciò che appare social mente doveroso non è da trascurarsi se si ricerca una vita urna na pienamente realizzata. Infatti, se l’onestà si basa sull’uso ilei le facoltà razionali, il dovere mobilita anche altre facoltà del sag gio, e può essere esso stesso utile nel quadro degli esco i.-i di

67 Si veda a questo proposito Leo Strauss, Diritto n,ilio.ile c i/uua, t t ma di N. Pierri, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2009 INiilui.il lliehl uhi //■·