Filologia e libertà. La più eversiva delle discipline, l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità

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Filologia e libertà. La più eversiva delle discipline, l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità

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LUCIANO CANFORA FILOLOGIA E LIBERTÀ LA PIÙ EVERSIVA DELLE DISCIPLINE, L'INDIPENDENZA DI PENSIERO E IL DIRITTO ALLA VERITÀ

MONDADORI

Luciano Canfora

FILOLOGIA E LIBERTÀ La più eversiva delle discipline, l'indipendenza di pensiero e il diritto alla verità

MONDADORI

Dello stesso autore in edizione Mondadori Esportare la libertà

e

www.librlmondadorl.lt

«Filologia e libertà» di Luciano Canfora Collezione Frecce ISBN 978-88-Q4-57849-9

©2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione aprile 2008

Indice

Prologo Il latino dei moderni Filologia e libertà Gli eretici degli eretici Non avrete altro testo che la Vulgata «Viva Pio IX!» Una Rerum novarum per la critica dei testi La condanna del modernismo e l'esplicita condanna della critica testuale 46 VIII Pacelli bifronte 60 IX Il «metodo del Lachmann» 76 X Lotta intorno a un libro Epilogo 84 Il sogno di Machiavelli

3 5 9 II 14 III 21 IV 25 V 29 VI 36 VII

91 93

Appendice Concilio di Trento. Sessione IV - Bibbia (8 aprile 1546) Concilio Vaticano I. Sessione III (24 aprile 1870)

95 111 112 128 136 137 145

Leone XIII. Enciclica Providentissimus Deus (18 novembre 1893) Leone XIII. Uso di edizioni acattoliche della Sacra Scrittura (25 gennaio 1897) Pio X. Enciclica Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907) Pio XII. Enciclica Divino afflante spiritu (30 settembre 1943) Concilio Vaticano Il. Sessione VIII - Dei verbum (18 novembre 1965)

Note Indice dei nomi

Filologia e libertà

Prologo

Due «fatti di cronaca» hanno riportato il latino all'attenzione dei moderni. Da un lato il ripristi­ no, opzionale, della messa in latino; dall'altro le cicliche e da ultimo insistenti escandescenze dei falsi riformatori, impegnati a sostenere che per giovare alla nostra scuola bisogna mettere alla porta i classici (intendendosi con ciò gli antichi greci e romani) e nutrire i futuri insegnanti di op­ pio pedagogico. Sembrerebbero due posizioni opposte. Da un lato un pontefice che pian piano vanifica i risultati del Vaticano II: spettacolare la sua uscita, in stile «battaglia di Lepanto», secondo cui quelle lutera­ ne non sarebbero neanche vere e proprie Chiese. Dall'altro l'innovatore scalmanato che - come si diceva ai tempi del sessantottismo militante - del passato vuol fare «table rase», tabula rasa: e non già nel senso economico-sociale del celebre canto proletario, ma nel senso letterale, di propugnata e teorizzata dimenticanza del passato, della storia. Eppure non sono così lontani i due. Il latino 3

FILOLOGIA E UBERTÀ

immobile ed extrastorico della liturgia, pro­ grammaticamente destinato a non esser compre­ so dai destinatari, è l'emblema di uno stile acriti­ co nella percezione del passato, e contribuisce ad alimentare le grossolanità dei propugnatori del­ la «tavola rasa».

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I

Il latino dei.moderni

Alessandro Manzoni fu il più autorevole e per­ suasivo derisore del «latinorum», cioè del latino usato come barriera culturale oltre che come stru­ mento di sopraffazione intellettuale, se non di in­ ganno. Nella celebre scena del secondo capitolo del romanzo, don Abbondio snocciola gli «impe­ dimenti dirimenti» che gli suggeriscono di rinvia­ re il matrimonio di Renzo (errar, conditio, votum, cognatio, crimen etc.) e Renzo già furioso risponde: «Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?»; e l'al­ tro: «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pa­ zienza e rimettetevi a chi le sa». Le reazioni a questo uso sopraffattorio del sa­ pere sono due: o rifiutare quel sapere qualifican­ dolo come inutile o cercare di conquistarlo, di renderlo accessibile a molti (ai più). Questa se­ conda strada era un tempo quella tipica del mo­ vimento volto all'emancipazione, a spezzare la plurisecolare esclusione dei molti da un sapere «elitario». Un grandissimo filologo, in politica as­ sai conservatore, chiamato al tempo suo il «prin-

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FILOLOGIA E LIBERTÀ

cipe dei filologi», Ulrich von Wilamowitz-Moel­ lendorff, diceva (in questo collimando con atteg­ giamenti mentali del Nietzsche dell'Avvenire delle nostre scuole) che il fascino dello studio delle let­ terature classiche è nella consapevolezza, in chi le pratica, eh'esse sono, per la barriera linguisti­ ca, accessibili a pochi. Tra alti e bassi il destino della conoscenza delle lingue classiche è stato segnato appunto da que­ sta polarità: da un lato il piacere elitista da parte dei detentori (quelli davvero tali, intendo) di tali competenze, e, sul versante opposto, la liquida­ toria derisione della loro «inutilità». Questi alti e bassi si sono ciclicamente abbattuti come bufere (cioè come riforme) sugli ordinamenti delle «strutture educative»: le attuali discussioni sono soltanto una tappa di questa lunghissima storia. Negli anni Cinquanta incrociarono le armi intor­ no alla permanenza del latino nella scuola del1'obbligo due grandi studiosi comunisti, tra loro molto diversi, Antonio Banfi e Concetto Marche­ si, scrivendo entrambi sulle pagine dell'«Unità» (sotto l'occhio attento di Togliatti, intimamente pro-Marchesi). Dopo la «rivoluzione culturale europea» del 1968, Francia, Germania e Inghilterra (molto più tardi la Spagna, quando alfine uscì dal franchi­ smo) detronizzarono il latino dai rispettivi ordi­ namenti scolastici: chi prima, chi poi. Del greco è anche superfluo dire. L'Italia restò un caso a parte e tuttora lo è, anche se in larga misura la nostra

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IL LATINO DEI MODERNI

«anomalia» è dovuta alla italica ipocrisia, per cui l'insegnamento delle lingue antiche si finge sia ancora effettivamente impartito laddove è noto che quasi completamente e quasi dovunque esso di fatto viene eluso magari con qualche penosa «doppiezza» in sede di esami di maturità. Forse prima o poi qualcuno prenderà atto della realtà e la sanzionerà esplicitamente. Ma non è detto. Ciò che sorprende in tutta questa vicenda, e nelle discussioni appassionate che l'hanno ac­ compagnata e alimentata, è che non s'è mai chia­ mato in causa un fenomeno, pur macroscopico e certo significativo: il fatto cioè che fino al secolo XVIII (e oltre), nonostante la necessaria vittoria dei «moderni» (e la conseguente ribellione contro il latino, di cui l' Encyclopédie è in certo senso il simbolo), il latino ha seguitato a essere anche una delle lingue dei moderni. Di quei moderni, da Gior­ dano Bruno a Galileo allo stesso Kant, che hanno continuato a servirsene accanto alle altre e vigo­ reggianti lingue. Per non dire della lunga durata di un caposaldo della civiltà quale il diritto ro­ mano; e per non parlare della Chiesa cattolica in Occidente e di quella ortodossa in Oriente, le quali hanno continuato a usare il latino e il greco come loro lingua fondamentale per rivolgersi ai moderni. Come negare che quelle due istituzioni abbiano avuto parte, come soggetti, nella storia delle età che definiamo moderne? La discussione si è sempre focalizzata sulla domanda: «A che "serve" ormai la letteratura degli antichi a fronte

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FILOLOGIA E LIBERTÀ

della ricchezza dei contenuti dei moderni?», mentre conveniva tener conto della lunghissima durata e vitalità delle due lingue antiche fattesi moderne accanto ai moderni e tra i moderni. Nei programmi scolastici il latino dei moderni manca del tutto. Forse sarebbe un nutrimento ricchissi­ mo per rinsanguare le nostre scuole.

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II Filologia e .libertà

È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato di­ spiegarsi della libertà di critica sui testi che l'au­ torità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l'antagonista tenace, quan­ do non minacciosamente repressivo, di tale li­ bertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accet­ tarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell'inizia­ tore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all'irresistibilità della critica testuale dopo circa quattro secoli con l'enciclica di Pio XII Divino afjlante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legit9

FILOLOGIA E LIIJERTÀ

timo l'esercizio della critica testuale sul corpus antico e neotestamentario. Il cammino fu molto accidentato e il riconosci­ mento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice furono: «Oggi dunque, poiché quest'arte [cioè la critica testuale] è giunta a tanta perfezione, è onori­ fico, benché non sempre facile, ufficio degli scrittu­ risti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sa­ cri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme».t E subito preci­ sava: «[edizioni] tali cioè che con una somma rive­ renza al sacro testo congiungano una rigorosa osser­ vanza di tutte le leggi della critica».2 Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l'assurdità, basta immaginarla applicata ad altri te­ sti che abbiano anch'essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si compren­ derà l'effetto insensatamente contraddittorio del­ l'invito a coniugare «riverenza al sacro testo» e «ri­ gorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniti­ camente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico). Ovviamente c'è un sofisma cui affidarsi per 10

FIWLOGIA E LIDERTÀ

cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com'è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che per­ fetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato a rigore coincidano. Infatti è assio­ ma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver rico­ struito il testo si dovrebbe approdare (eventual­ mente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso - eq esso soltanto - contiene la verità. Invece qui c'è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non al­ trove) ci sia la verità. Una «verità» data e preco­ stituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi in­ fatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle dif­ ferenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati ac­ compagnati, nel corso della tradizione, da nume­ rosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «cano­ ne». Il che - oltre a rappresentare un'ulteriorepe­ titio principii - per giunta accadde in un'epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nem­ meno dei libri inclusi nel «canone». In tali condi­ zioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prellt

FILOLOGIA E LIBERTÀ

stabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico. Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un pe­ so e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale). Quando si ricostruisce questa vicenda, si com­ prende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Nove­ cento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro me­ morabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe de­ plorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo ini­ ziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il meto­ do filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi - una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda - si sia venuto for­ mando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione - e quindi la let­ tera - del Nuovo Testamento. Una lotta nella qua­ le i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, 12

FILOLOGIA E LIBEIUA

ma che vide anche le Chiese protestanti persegui­ ta re i loro adepti che, studiando criticamente il te­ sto greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fonda­ tori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento del­ lil lotta fu, allora come sempre, la filologia.

13.

III Gli eretici degli eretici

Quando si parla di «eretici degli eretici» non si in­ tendono soltanto Pierre Bayle (1647-1706), il suo Dictionnaire e la sua cerchia, o Johann Jakob Wet­ stein, il dotto protestante di Basilea (1694-1754), che, come scrive Pasquali, col suo lavoro di critica neotestamentaria si espose consapevolmente al ri­ schio di perdere l'ufficio, cioè troppo spesso il pane e la patria. Anche lui dovette rifugiarsi ad Amster­ dam, quando la sua libertà di critica divenne intol­ lerabile nella sua pia città. Scrive Pasquali: Le Chiese riformate avevano canonizzato il testo, fon­ dato su codici di poco valore, che del Nuovo Testamento aveva dato Erasmo da Rotterdam, e vigilavano l'integri­ tà di esso con cura ancora maggiore e ancora più sospet­ tosa che non i cattolici quello dell'edizione Sistina della Vulgata. Anche s'intende che sia stato così: per la Rifor­ ma, diversamente che per il cattolicismo, il libro sacro è l'unica fonte di verità, ed è insieme, ben altrimenti che nel cattolicismo, l'unica lettura di tutto il popolo. Che avverrà, se la certezza prima, quella dalla quale sgorga­ no tutte le altre, diverrà incerta? Chi, spinto da senso storico e insieme animato da una più alta religiosità, la

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GLI ERITICI DEGLI ERETICI

quale sapeva distinguere lo spirito dalla lettera, aveva il coraggio di combattere contro questo pregiudizio, si esponeva consapevolmente a perdere l'ufficio, cioè trop­ po spesso il pane e la patria.1

C'è un nome capitale - forse anche più capitale di quello di Erasmo e forse dello stesso Valla - che va qui pronunciato perché è da lui che ha inizio la storia dei testi, cioè la comprensione storica della trasformazione che va di pari passo con la tradizio­ ne: è il nome di Spinoza (1632-1677). Della sua opera vanno qui ricordati - e andrebbero posti al centro di ogni moderna storia della filologia - i capitoli VII e VIII del Trattato teologico-politico. «Tutte le difficoltà nell'interpretazione della scrit­ tura» scrive Spinoza «sono derivate non tanto da un difetto di forze del lume naturale, quanto dal­ la trascuratezza (per non dire la malizia) di uomi­ ni che neglessero la storia della scrittura».2 Ed è istruttivo, a mo' di esempio, ricordare al­ meno il titolo del capitolo VIII: In cui si mostra cl1e il Pentateuco e i libri di Giosuè, dei Giudici, di Ruth, di Samuele e dei Re non sono autografi. Si chiede poi se gli scrittori di tutti questi libri siano stati molti o uno solo, e chi sia stato. L'ortodossia contro cui Spinoza dovette scontrarsi fu quella rabbinica. Nel 1656 Spinoza fu espulso dalla si­ nagoga per le sue opinioni eterodosse e «atti mo­ struosi» ( ! ) . Scrisse alcun tempo dopo Pierre Bayle che gran parte dell'apologia redatta in oc­ casione della propria uscita dalla sinagoga, scrit­ ta ma non edita da Spinoza, «apparve, in segui15

FILOLOGIA E LIUEIITÀ

to, nel Trattato teologico-politico» (voce Spinoza del Dictionnaire historique et critique, 1697). Se si con­ sidera quanto vigoreggi la tendenza - negli am­ bienti ortodossi delle tre confessioni che ancora oggi occupano la scena - a proclamare la letterale verità, e dunque intangibilità testuale, di quanto si legge nei libri dichiarati «sacri», viene da chie­ dersi se, come antidoto a un così costante fluire del dogmatismo, gli studi filologici non debbano essere potenziati, altro che archiviati! Dal Tractatus di Spinoza discende, come logico sviluppo, l'Histoire critique dell'Antico (1678) e poi del Nuovo Testamento (Rotterdam, 1692) dell'orato­ riano in odore di giansenismo Richard Simon (1638-1712), considerato eretico, per la sua visione critica della storia del testo delle Scritture, sia dai giansenisti che da Jacques-Bénigne Bossuet (16271704), e ben presto anche dai protestanti. Partiamo proprio da questi ultimi. Colpisce che l'attacco a Simon provenisse da ambienti di vedute ben più larghe che non quelle di Bossuet o dell'austera Gi­ nevra. Ci riferiamo a Jacques Basnage (1653-1722). Pastore protestante, devotamente vicino a Pierre Bayle, ma allarmato anch'egli per le implicazioni dottrinali della critica testuale di Simon, Basnage attaccava nell'Examen des méthodes (1684) e nell'Ad­ versus doctissimum Simonium (Rotterdam, 1694) proprio la ricostruzione della storia del testo pro­ posta dall' «eretico» oratoriano e in particolare le argomentazioni filologiche su cui quella ricostru16

GLI ERETICI DEGLI ERETICI

zione poggiava. Correttamente però le riassume, prima di attaccarle: a) Mosè, Giosuè, Samuele etc. non sono gli autori dei li­ bri che portano il loro nome. [È il tema centrale dell'ottavo c.1pitolo del Tractatus di Spinoza]. Mosè, seguendo un co­ stume orientale, specialmente dei Persiani e degli Egiziani, isti tuì, nel cuore di Israele, degli scribi i quali mettevano pL'r iscritto, in registri pubblici, tutto quello che accadeva di rilevante nello Stato e nella Chiesa. Di questi registri si fece­ ro in seguito degli estratti secondo necessità e circostanze: donde la confusione e gli anacronismi, nelle opere storiche dl'll'Antico Testamento, in materia di genealogie. b) Gli originali non furono riprodotti fedelmente dai co­ pisti; furono introdotte parole caldee; i farisei, pur essendo i tutori della tradizione, non si sono da.ti pensiero della esat­ ta fedeltà del testo, mentre per parte loro i sadducei erano piuttosto uomini di Stato, non di chiesa. Infine l'aggiunta, avvenuta molto dopo, delle vocali da parte dei Masoreti ren­ de assai sospetta l'esattezza della vocalizzazione. c) I testi si persero al tempo della cattività e la Scrittura fu recuperata solo in seguito, per opera di Esdra. d) L'ebraico antico è lingua mal conosciuta, sulla base unicamente di quaranta libri. Le traduzioni antiche, quel­ la dei Settanta e la Vulgata, sono piene di errori e di conse­ guenza non aiutano a chiarire il testo.3

Questo, in sintesi, il pensiero di Simon. Le obie­ zioni di Basnage a tale lucido profilo della storia del testo dell'Antico Testamento e delle condizioni ma­ teriali in cui essa si svolse sono in realtà piuttosto modeste. L'anno dopo Simon ristampò la sua Hi­ stoire critique dell'Antico Testamento con una nuo­ va prefazione, polemica contro Basnage, e malizio­ samente la attribuì a un «anonimo protestante»

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FILOLOC.IA E LIBERTÀ

stupefatto che proprio un protestante (quale Basna­ ge) si fosse rivelato, sul piano critico, inferiore «à ceux de l'Èglise Rornaine ». Eppure - seguitava il finto protestante - proprio i protestanti si piccano di applicare con cura «la critique à ces Llvres».4 Richard Sirnon combatteva su due fronti e con­ tro due dogmatismi. Per navigare tra questi scogli, e in tempi assai poco tolleranti, adottò una strate­ gia tortuosa, che però non gli garantì la tranquilli­ tà: attaccare il dogmatismo protestante opponen­ dogli una (immaginata) apertura mentale cattolica intorno ai terni scottanti che a lui stavano a cuore. Contro certo immobilismo protestante nel cam­ po della libertà di critica sui testi «sacri» Sirnon ave­ va buon gioco. E poteva perciò scrivere, al principio dell'Histoire critique du Vieux Testament, che i cattoli­ ci, proprio perché convinti che il fondamento della loro religione «non sono unicamente i testi della Sa­ cra Scrittura ma anche la tradizione della Chiesa», possono senza difficoltà prendere atto degli effetti dell'«inclemenza del tempo e della negligenza degli amanuensi» sulla buona conservazione di quei testi, «incorsi - audacemente precisava - nelle stesse tra­ sformazioni che si incontrano negli scritti profani». «Solo dei protestanti prevenuti e incolti» soggiunge­ va «possono trovarsi in difficoltà. » Ma questa abile dialettica, se inchiodava il dogmatismo testuale dei protestanti, non poteva però ingannare - e infatti non ingannò - il censore cattolico, che colpì dura­ mente le opere del filologo oratoriano. 18

GLI ERETICI DEGLI ERETICI

Ancor più difficile fu, per lui, tener testa a un'al­ tra corrente critica, quella di ispirazione arminiana e sociniana, che portava alle logiche conseguenze le sue stesse premesse. Fu un teologo e filologo come Jean Ledere (1657-1736), passato attraverso il protestan­ tesimo ma approdato a una posizione di distacco dai dogmatismi delle varie confessioni, a riprende­ re il filo del lavoro critico di Simon. Ben si comprende allora perché proprio Ledere - il quale condensò le implicazioni teoriche del suo li:lvoro filologico in una Ars critica (1696) - sia stato fonte di ispirazione per gli esponenti di punta del­ izi critica illuministica alle religioni. L'illuminismo rappresenta perciò il culmine e il punto di approdo di questo lungo cammino critico. Così Voltaire non si ispirerà più a Simon, ma alla critica di Ledere a Simon. L'opera di Ledere intitolata Sentiments de 1111clqucs Théologiens de Holland sur l'Histoire Critique d11 Vieux Testament composée par le père Richard Si111011 "> è alla base, ad esempio, della brillante voce Mosé del Dictionnaire philosophique (1764-1769). Lì Voltaire demolisce la leggenda - già fatta oggetto di critica da parte di Spinoza - dell'autenticità mo­ sai ca del Pentateuco adoperando, nella sostanza, gli argo menti di Simon, però attraverso il saggio criti­ c o d i Jean Lederc.6 Respinta da tutte le Chiese, la critica filologica pr a tica ta da Simon e Ledere trovò nell'illumini­ s mo e nell'alta sua opera di divulgazione la neces­ sa ria e