Figli fragili 8858127358, 9788858127353

«Una madre esce dal colloquio con gli insegnanti. Pare che la figlia di otto anni sia irrequieta, incostante, faccia con

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Figli fragili
 8858127358, 9788858127353

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i Robinson / Letture

Di Stefano Benzoni nelle nostre edizioni:

L’infanzia non è un gioco. Paradossi e ipocrisie dei genitori di oggi

Stefano Benzoni

Figli fragili

Editori Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2017

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Edizione 5 6

Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2735-3

Indice

1. L’accelerazione dei figli in una società accelerata

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2. Un piccolo trauma non si nega a nessuno

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3. L’epidemia della felicità e il mito della salute mentale dei figli

54

4. Gettare il bambino con l’acqua sporca

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5. Se ci dite come, ce li riprendiamo

100

6. Fuori dal vicolo cieco

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Riferimenti bibliografici 141

Figli fragili

1.

L’accelerazione dei figli in una società accelerata

1. Pronti per lo psichiatra (o forse no?) Una madre esce dal colloquio con gli insegnanti. Pare che la figlia di otto anni sia irrequieta, incostante, disturbi, faccia continue battute e si distragga. Lei, probabilmente, come decine d’altri nella scuola. Ma per qualche motivo le maestre hanno pensato che proprio per lei potrebbe essere indicato un consulto psicologico. Dicono che potrebbe essere iperattiva, avere quella cosa come si chiama adhd (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder, disturbo da deficit di attenzione con iperattività), che va molto adesso. La madre è incerta. Non saranno le maestre ad aver travisato i segnali della bambina? Non sarà solo una moda, questa dei problemi psichici? Non sarà che, conducendo la figlia da uno psicologo o da uno psichiatra, aumentiamo i problemi della piccola? Una specie di profezia che si autoavvera o qualcosa del genere? Renderla malata ancor prima che lo sia? E poi, anche se fosse, sarà opportuno rivolgersi a uno psicologo o a uno psichiatra? E cosa dovremo aspettarci dall’uno e dall’altro? In cosa consisterà una buona cura? Un’altra storia vera. Il padre di Gregorio muore quando il ragazzino ha appena quindici anni. Una famiglia borghese senza eccessi, la sua, genitori professionisti, scuole pubbliche. Greg si rifiuta di rimanere a vivere con la madre, che è una donna molto impegnata sul lavoro, e chiede di potersi trasferire dagli zii paterni. Nel frattempo smette di andare a scuola, rimane spesso fuori casa, non torna la sera, risponde svogliatamente, si comporta male. Il classico repertorio di un adole3­­­­

scente con molti problemi in famiglia. La psichiatra Numero Uno lo vede e gli dice che dovrebbe entrare in un programma per ragazzini difficili, in un vicino centro diurno: un posto neppure messo male, con parquet lucidati e divani Ikea, dove si organizzano terapie di gruppo e laboratori di arti marziali. Ma siccome appunto è un posto discretamente figo, è overbooked. Allora Greg viene spedito dalla psichiatra Numero Due, che dice che forse sarebbe meglio prescrivergli farmaci per metterlo tranquillo. I farmaci però non lo tranquillizzano, e allora lo psichiatra Numero Tre (perché nel frattempo la Numero Due è in congedo per maternità) gli dice che, vista la gravità della situazione, visto che non frequenta più la scuola, non sopporta di stare a casa e gli zii non riescono a prendersi cura di lui, è il caso di provare a farlo entrare in una comunità terapeutica. Mentre la macchina burocratica dei certificati, delle autorizzazioni e delle carte bollate si inerpica verso l’incerta meta, Greg decide di buttar giù una dose creativa dei farmaci che dovevano tranquillizzarlo, come gesto dimostrativo dello stallo dei dispositivi di cura. A questo punto, siccome nella città dove vive Greg non esistono posti letto dedicati a bambini o adolescenti con problemi psichiatrici, non si trova niente di meglio che sistemarlo per qualche giorno in un bel reparto psichiatrico per adulti: camera singola, almeno, ma comunque quel genere di situazione che – se sei mai andato a trovare un amico ricoverato – ti chiedi in che senso esattamente si dica che i manicomi sono stati chiusi. Fortunatamente il ricovero dura poco e Greg viene spedito su una Punto bianca del Comune (gli zii sui sedili posteriori) in una comunità in Veneto. In Veneto, perché in Lombardia ci sono pochissimi posti letto nelle comunità terapeutiche, e ovviamente sono tutti al completo. La comunità però è pessima e Greg non ci sta. Alla prima occasione prende e scappa: dopo qualche ora di ricerca i carabinieri lo beccano su una stradina qualsiasi, su una collina qualsiasi, dietro il lago di Garda. Fortuna che è aprile e fuori c’è il sole, ci sono i fiori e gli uccellini cinguettano. Allora lo portano per qualche 4­­­­

giorno in un ospedale locale, ancora in reparto psichiatria, poi in un’altra comunità, e poi di nuovo in una clinica privata in Emilia – 400 euro di retta giornaliera tutto escluso. Alla fine madre e zii decidono di rivolgersi nuovamente alla psichiatra Numero Due (nel frattempo rientrata dal congedo per maternità), la quale pensa che gran casino, e propone un trattamento presso un centro privato che offre anche terapie di gruppo e altre attività sociali e riabilitative. Dopo tre settimane, Greg smette di seguire le terapie, riprende la scuola e nel pomeriggio frequenta laboratori che lo aiutano a socializzare e a recuperare il tempo perduto. È passato un anno da quando tutto è iniziato, e a Greg sono stati diagnosticati, nell’ordine: un disturbo oppositivoprovocatorio, l’adhd, un disturbo bipolare, un disturbo d’ansia e una depressione atipica. Alla fine – senza sapere nient’altro di lui che queste poche notizie – sembra perfettamente chiaro che cosa, in tutta questa storia, non ha funzionato. 2. I disturbi psichici hanno a che fare con problemi molto seri, ma anche con i titoli dei giornali e con le biografie dei vip Stando alle statistiche ufficiali, i problemi psichiatrici in età evolutiva sono un fenomeno comune e sempre più diffuso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara che ne soffre un bambino su cinque – senza contare il ritardo mentale, l’autismo e i disturbi neurologici – in modo più o meno costante in tutti i Paesi d’Europa. Più o meno: perché contare davvero i bambini che soffrono di questi problemi è molto difficile e i dati a disposizione, per esempio in Italia, sono spesso parziali e disomogenei. In ogni caso, il fatto che un terzo dei bisogni di salute di bambini e adolescenti abbiano a che fare con la salute mentale non potrebbe spiegare meglio l’importanza di occuparsi della sua promozione e della sua cura. Un compito certamente arduo, specialmente se si considera che in una grandissima quantità di casi, le patologie psi5­­­­

chiche si presentano in situazioni familiari problematiche e complesse. Con il risultato che oggi quasi la metà dei bambini e degli adolescenti seguiti da un servizio di salute mentale ha più di una diagnosi psichiatrica, cui puntualmente si sommano anche problemi di natura psicosociale. A ciò si deve aggiungere che circa la metà degli adulti che hanno un problema psichiatrico manifestavano già da bambini uno o più disturbi psichici. Non sarebbe forse stato meglio prendersi cura dei loro bisogni di salute mentale durante l’infanzia? Questa della “sofferenza mentale” infantile è una realtà sommersa, poco visibile e certamente poco attraente, poco cool. Ma periodicamente dà notizia di sé. Nell’agosto del 2002, per esempio, il “Time” pubblica una cover story, scritta da Jeffrey Kluger, intitolata Giovani e bipolari. Perché il disturbo un tempo chiamato “depressione maniacale” ora colpisce i bambini?. La storia nasce da un best seller del genere, il libro di Demitri e Janice Papolos, The Bipolar Child1, ed è ripresa in un lungo articolo pubblicato dal “New Yorker” nel 2007. The Bipolar Child spiega ai genitori come riconoscere precocemente i segni di quella che l’autore descrive come la nuova malattia del futuro, e che è in effetti il nostro presente. I bambini bipolari possono essere molto intuitivi e creativi, scrivere in modo eccentrico e disordinato, annoiarsi spesso, manifestare intenso disagio quando si separano dai genitori, comportarsi male, fare i dispetti, essere divertenti, arrabbiarsi con facilità, non tollerare i ritardi. Tutti questi atteggiamenti potrebbero perciò essere intesi come segnali precoci del terribile disturbo bipolare. Il caso dei disturbi bipolari in età evolutiva è particolarmente rilevante: negli Stati Uniti il loro numero è aumentato di 40 volte in pochissimo tempo, dopo che nel 2001 una pubblicazione scientifica ufficiale ha “stabilito” che il disturbo 1 D. Papolos, J. Papolos, The Bipolar Child: The Definitive and Reassuring Guide to Childhood’s Most Misunderstood Disorder, Broadway Books, New York, 2002.

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può insorgere anche nell’infanzia e ne ha descritto le caratteristiche cliniche. La stessa sorte era toccata all’adhd, che nel giro di pochi anni aveva visto quintuplicate le diagnosi: anche in questo caso, grazie alla nuova “attenzione clinica” suscitata dai cambiamenti introdotti nei criteri diagnostici. Siamo così sicuri – si chiede Jeffrey Kluger nell’articolo del “Time” – che i bambini che presentano queste caratteristiche debbano essere necessariamente sottoposti ad accertamenti clinici? Qual è il confine tra un comportamento desiderabile e un comportamento che è a tal punto indesiderabile da dover essere considerato clinicamente anormale? In che modo la nostra propensione ad attribuire a certi comportamenti un significato clinico ha a che fare con la medicina e non piuttosto con altre e più ampie trasformazioni culturali? La storia delle malattie psichiatriche, in effetti, è anche la storia della loro immagine pubblica, di come ne parlano i media, di quello che se ne dice, di come vengono rappresentate. E niente meglio dei “matti eccellenti” riflette il modo in cui questi temi acquistano senso nella società. Il disturbo bipolare, per esempio, gode di una sua articolata mitografia pop. Furono, si racconta, “bipolari eccellenti” Lord Byron, Poe, Lincoln, Churchill, Roosevelt, Goethe, Balzac, Händel, Beethoven, Schumann, Tolstoj, Dickens, Virginia Woolf e Hemingway. Il filosofo Althusser assunse litio (il principale farmaco utilizzato nel trattamento dei disturbi bipolari) almeno dal 1978. Il regista Coppola, tra i protagonisti della “nuova Hollywood” degli anni Sessanta/Settanta, iniziò la terapia nel 1979 (anno in cui lavorava ad Apocalypse Now) e la proseguì per almeno quattro anni. Larry Flynt, re del mensile porno “Hustler”, pare fosse un grande amante del litio. E come dimenticare poi, nel mondo del rock, il compianto Cobain, che al litio dedicò pure uno splendido pezzo?2 P. Adamo, S. Benzoni, Psychofarmers. Dizionario illustrato della felicità e dell’oblio, Isbn Edizioni, Milano, 2013. 2

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Ogni diagnosi ha un Pantheon di nomi illustri. E per ogni vip che surfa l’onda, la cresta schiumante della massa anonima ribolle e si rifrange, così che il racconto collettivo del “bipolare” è diventato utile a spiegare ogni dialettica del vivere sociale: la creatività e i suoi “vuoti”, l’amore e le sue falle, il senso del dovere e i colpi di testa, la vertigine del potere e i suoi crolli. O, nel caso dell’infanzia, la pazienza e i capricci, la noia e la creatività, l’obbedienza e il comportamento provocatorio. Insomma, dici quel bambino è bipolare e non hai bisogno di spiegare, di ragionare, di aggiungere: è chiaro a tutti di che cosa stai parlando, anche se nessuno, forse nemmeno gli psichiatri, ha capito esattamente che cosa siano i disturbi bipolari nei bambini. I disturbi bipolari sono, infatti, un perfetto esempio di quel tipo di cose di cui parla la psichiatria, capaci allo stesso tempo di diventare l’argomento caldo di qualunque rispettabile consesso di madri e padri, e di mettere a nudo alcuni aspetti piuttosto problematici della scienza medica. La adhd è un altro ottimo esempio. 3. L’adhd e i molti aspetti incerti, scivolosi o decisamente opachi, della psichiatria Forse nessuna malattia meglio dell’adhd evidenzia con tanta chiarezza il modo in cui i presunti criteri medici, che stabiliscono come devono comportarsi le persone per essere considerate sane, hanno in realtà a che fare con questioni che travalicano di gran lunga i confini della medicina. Questioni che toccano da vicino i cambiamenti culturali in cui viviamo e mettono in gioco i valori delle famiglie, la loro visione del mondo e il modo in cui distinguiamo ciò che è normale da ciò che non lo è. Come nel caso delle altre malattie mentali, anche qui la psichiatria ufficiale offre la propria versione dei fatti: il sistema di classificazione delle malattie – sostiene – non risente di alcuna “teoria” o condizionamento ideologico né di alcuna impostazione “valoriale”. Vengono “semplicemente” etichet8­­­­

tati come malati di adhd quei bambini la cui irrequietezza e agitazione sono causate da una serie di “svarioni” nei meccanismi che regolano specifici equilibri chimici del cervello. E un discorso analogo vale anche per il disturbo bipolare. Avrebbero probabilmente corso un serio rischio di ricevere una simile diagnosi molti geni del Novecento, tra cui – se è lecito credere alle biografie – Einstein, Edison e Newton. La malattia, infatti, è stata ufficialmente inclusa nelle classificazioni mediche a partire dal 1980, ma è presente sotto altri nomi almeno dal 1902, quando venne descritta come “iperattività infantile”. Dunque niente di nuovo. Senonché alla sua recente riesumazione è seguito un vero e proprio boom di diagnosi: si calcola che, negli anni Novanta, in ogni classe elementare e media americana ci fosse almeno un bambino affetto da questo disturbo. Una specie di epidemia che neanche l’epatite B e l’aids messe insieme. Il problema, tuttavia, non avrebbe stimolato tanto l’accesissimo dibattito critico, se la “scoperta” di questa patologia non avesse parallelamente alimentato il mercato del Ritalin, il medicinale a base di una sostanza anfetaminica, il metilfenidato, che ha rappresentato per molti anni il farmaco universalmente adottato per il trattamento dell’adhd. Con almeno due bambini su cento trattati con il Ritalin, tra il 1990 e il 2000 il farmaco valeva circa il 7% dell’intero mercato statunitense degli psicofarmaci. Il fenomeno ha assunto proporzioni enormi, tanto che la “storia” del Ritalin ha rapidamente superato gli argini dei discorsi sanitari invadendo le produzioni culturali di massa. Anche perché, in fin dei conti, il Ritalin è un’anfetamina e dunque si presta a un uso “ricreativo” che ha alimentato lo sviluppo di un importante mercato illegale. La cronaca degli anni Novanta è costellata di storie di insospettabili mogli, manager, infermiere, tassisti, insegnanti e ragazzini colti a rubare il farmaco o a falsificare prescrizioni. Sino al caso di Gerald Smith, preside di una scuola elementare nella cittadina di Orem, che, nella primavera del 2000, 9­­­­

decide di somministrare il farmaco agli alunni, mescolandolo al pasto, forse per migliorare il rendimento dell’intera scuola. Di fatto, alla fine degli anni Novanta negli Stati Uniti mancano all’appello circa 700.000 pillole di Ritalin che avrebbero dovuto invece trovarsi presso i farmacisti. Roba seria, se si pensa che il consumo totale della Francia, nel 1998, era ammontato complessivamente a circa 100.000 pillole. Il farmaco è diventato in breve tempo protagonista di talk show e produzioni letterarie e musicali, facendo la sua comparsa anche in molte serie tv. In un memorabile episodio dei Simpson (Brother’s Little Helper), i genitori di Bart sono convocati a scuola perché il figlio – affermano gli insegnanti – ha l’adhd. Dopo molte resistenze Bart viene persuaso ad assumere il fantafarmaco Focusyn, che in effetti riesce a trasformarlo in un diligente piccolo genio. Ma la situazione sfugge rapidamente di mano: Bart diventa dipendente dalla sostanza, inizia a essere paranoico, cerca di rubare il farmaco, e infine s’impossessa di un carro armato. Rientrato nei ranghi a causa dello shock, Bart torna a casa e Homer lo rassicura: “Niente più droghe strane per il mio bambino... d’ora in poi, aria fresca, tante coccole e il buon vecchio Ritalin”. Oggi il Ritalin non è più l’unico farmaco impiegato e si trovano in commercio altre sostanze meno suscettibili di pratiche d’abuso (ma anche molto più costose). Anche se negli Stati Uniti l’adhd continua ad essere circa dieci volte più frequente che in Europa, la diffusione del disturbo è divenuta rilevante anche in Italia, dove se ne parla soprattutto da quando esiste un programma di cura molto rigoroso (regolato dal Ministero della Salute con la collaborazione di alcuni istituti di ricerca e alcuni servizi pubblici di neuropsichiatria infantile) che contempla anche il ricorso al trattamento farmacologico, purché ciò avvenga esclusivamente in centri specializzati e autorizzati, in condizioni cliniche molto restrittive condivise dalla comunità scientifica e con l’iscrizione dei “casi” in un registro speciale dedicato, 10­­­­

così che si possa monitorare regolarmente sia il consumo dei farmaci che i trattamenti. In ogni caso, è molto preoccupante che la “diffusione” del disturbo sia stata agevolata dalle progressive modifiche apportate ai criteri diagnostici: poiché impulsività e disattenzione sono sintomi molto comuni ad altri problemi mentali, fino ad alcuni anni fa era “vietato”, per così dire, diagnosticare l’adhd in presenza di altri disturbi, proprio per evitare di confondere gli effetti di altri problemi psichici sul comportamento del bambino. Da quando quel “divieto” è venuto meno e le maglie della diagnosi si sono allargate, il risultato è stato prevedibile e paradossale. Si calcola infatti che una percentuale compresa tra il 50 e il 90% di bambini trattati per adhd “soffra” anche di altri disturbi mentali (per lo più di disturbo oppositivo-provocatorio, spesso di disturbo bipolare o altri disturbi simili). Possibile che la comunità scientifica non trovi nulla di strano, di assurdo e contraddittorio nell’immaginare che esista una “patologia” che va misteriosamente in tandem – spesso o quasi sempre – con un’altra diversa “patologia”, così che i sintomi dell’una e dell’altra si sovrappongono e si confondono tra loro? Le ragioni economiche di questi orientamenti non sono difficili da comprendere, dal momento che quanto più vasta è la rete entro cui si raccolgono i malati, tanto più è ricco il mercato dei possibili consumatori di medicinali e di servizi connessi alla cura. Non a caso, alcuni studi recenti mostrano chiaramente che quando un bambino è in trattamento con più di uno psicofarmaco, l’indice che maggiormente correla con il numero di medicine assunte non è la gravità della malattia, la situazione culturale o sociale di provenienza, l’età di insorgenza, ma proprio il numero di diagnosi. La moltiplicazione delle diagnosi è il fattore che più incide sulla probabilità che quella persona assumerà farmaci diversi e in quantità maggiore. Un dato che non potrebbe chiarire meglio quali sono gli interessi di una comunità scientifica che accetta di chiamare con un certo nome una presunta malattia 11­­­­

(l’adhd) che, per “strana” coincidenza, si associa spesso ad altre malattie psichiche. Un altro aspetto peculiare e assai problematico dell’adhd è che, al pari di molte altre patologie mentali, è presentata dalla psichiatria come una condizione “categoriale”: o ce l’hai o non ce l’hai. Questo è chiaramente assurdo, se si pensa che un certo grado di disattenzione o iperattività può essere presente in diversa misura in moltissimi bambini, ed esprimersi nelle varie fasi della loro vita con gradi d’intensità, significati ed effetti differenti. Si tratta di una questione fondamentale, che sta al centro di molte discussioni scientifiche e filosofiche sui disturbi mentali in genere: se la definizione che diamo di malattia è rigida, allora accetteremo i compromessi che essa implica – cioè la divisione netta tra persone affette da un disturbo e persone che non ne sono affette – sulla base di una soglia definita arbitrariamente. Ma disporremo anche di un indicatore rigoroso in grado di stabilire chi ha bisogno di cure e chi no. Se invece adottiamo un’idea morbida o sfumata di “malattia mentale” – forse più coerente con l’idea che certi “problemi” si presentano nelle persone sotto forma di tratti o qualità continue che possono essere deficitarie in varia misura in tutti gli individui –, allora la nostra definizione sarà forse più realistica, ma anche molto meno comoda. Correremo infatti il rischio, tutt’altro che trascurabile, di definire una zona grigia molto ampia in cui non è affatto chiaro chi necessiti di cure e chi no, chi possa esigere quelle cure come un diritto alla salute e chi possa invece farne a meno3. Come si vede, stiamo parlando di questioni tutt’altro che astratte, dal momento che riguardano da vicino quell’assottigliarsi del confine tra normale e patologico, tra “strano” e deviante che sta al centro del modo in cui le famiglie vivono sulla loro pelle la salute mentale dei figli. Un confine sottile e spesso 3 C. Perring, L. Wells, Diagnostic Dilemmas in Child and Adolescent Psychiatry: Philosophical Perspectives (International Perspectives in Philosophy and Psychiatry), Oxford University Press, Oxford, 2014.

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scivoloso dove – al contrario di ciò che la psichiatria continua a ripetere – i “valori” di ogni famiglia e le diverse priorità che ciascuno di noi attribuisce all’idea stessa di benessere mentale, contano molto più delle statistiche, delle teorie scientifiche e degli studi di efficacia farmacologica. Il fatto che la psichiatria insista nel voler proporre una versione biomedica rigida di patologie come l’adhd costitui­ sce così il riflesso di una deriva preoccupante. Un bambino – dichiara la scienza ufficiale – si ammala di adhd quando per qualche motivo si instaurano nel suo cervello meccanismi patologici tali per cui alcune aree cerebrali, che dovrebbero occuparsi di mantenere l’attenzione, la concentrazione e l’autocontrollo, smettono di funzionare come dovrebbero. Non si tratterebbe, in parole povere, di banale e semplice sofferenza psicologica connessa all’ambiente e alla società, ma di un vero e proprio “stato patologico” provocato a livello cerebrale da anomalie che causano i comportamenti o gli stati emotivi problematici. La malattia mentale è ridotta a malattia fisica – come lo sono appunto la polmonite e l’appendicite – radicata in precise e specifiche disfunzioni cerebrali “universali”. Questo processo di “naturalizzazione” riguarda, con poche eccezioni, tutti i principali capitoli della psicopatologia dell’adulto e del bambino, dalla depressione alle psicosi, dai disturbi di personalità alle patologie d’ansia, dai disturbi post-traumatici da stress (dpts) all’adhd. Tuttavia, nonostante l’adhd sia una delle malattie psichiche più studiate al mondo, ancora non esiste alcuna teoria convincente su cosa sia “in realtà”, né su cosa renda davvero diverso un bambino considerato iperattivo rispetto a un bambino semplicemente irrequieto. In altre parole: pur essendo state evidenziate varie “anomalie” neurobiologiche correlate al disturbo, non c’è accordo su queste anomalie ed esse non sembrano comunque giustificare pienamente i sintomi (esserne cioè la sola causa). La psichiatria non definisce nel dettaglio quali siano le zone cerebrali incriminate, come funzionano o non funzionano “in realtà”, né per quale moti13­­­­

vo mai dovrebbero smettere di funzionare. Non dice da che cosa si distingua un cervello che funziona normalmente da un cervello che funziona da adhd. Non lo dice perché non si sa. E non si sa per il semplice fatto che il modello di spiegazione adottato nasce da una “capriola”, da un’inversione logica che rischia di far abdicare qualunque possibilità di un saldo ragionamento scientifico. Sarebbe come cercare di spiegare un incidente stradale ricostruendo come funzionava il motore prima del fatto – cioè prima che la vettura finisse contro un palo, con un guidatore ubriaco, su una strada piena di curve in una notte di pioggia. E sarebbe come tentare di spiegare tutto ciò osservando una foto dell’automobile scattata a quattro metri di distanza. La realtà è che, in campo psichiatrico, siamo ancora troppo lontani dal conoscere i meccanismi di funzionamento del cervello, per comprendere anche solo vagamente il nesso tra ciò che fa il motore e ciò che succede all’automobile nel suo complesso. Il che non significa che il cervello non abbia a che fare con i nostri comportamenti, né che sia inutile cercare di capire meglio cosa accade. Al contrario. Il vero paradosso, qui, non è tanto che la psichiatria immagini che alla base dei comportamenti umani vi sia­no particolari “modi” di funzionamento (o disfunzionamento) del cervello. La questione, infatti, è ormai pacificamente acquisita come una verità sacrosanta e indiscutibile del nostro progresso scientifico: il cervello è l’organo che rende possibile la nostra vita mentale, e il suo funzionamento è costantemente regolato dagli ormoni, dallo stress, dagli scambi con l’ambiente, dal dna dei neuroni, dalla qualità dei nostri rapporti affettivi, in un gioco di relazioni che è tra i fenomeni più complessi di cui la scienza si sia occupata dopo la meccanica quantistica. Il punto vero della discussione è che quand’anche si dimostrasse che certi particolari tipi di bambini iperattivi presentano tutti una qualche identica “avarìa” cerebrale, questa “evidenza” scientifica sarebbe forse molto più utile al mercato della ricerca sanitaria che non a capire i “veri motivi”, 14­­­­

le “cause” per cui quei bambini hanno iniziato a manifestare problemi nella loro vita. La scena del crimine, in effetti, pullula di indizi che dovrebbero spingerci in una direzione molto diversa, e se un bambino fa fatica a prestare attenzione e si agita in molti contesti diversi, forse ci sono luoghi più interessanti in cui indirizzare l’acume della nostra esplorazione “scientifica” (e i soldi che la società spende in queste ricerche) che non sia nelle imperscrutabili pieghe del chimico e dell’ultrasottile, alla disperata ricerca dell’ennesima sindrome. Se la domanda cui stiamo cercando di rispondere è quale sia l’origine dell’iperattività e della disattenzione dei figli, forse non è zoomando sui neuroni che troveremo la risposta giusta. 4. Parentesi necessaria (ma il più breve possibile) sulle molte e diverse accelerazioni cui sono esposti i nostri figli Non c’è bisogno di analisi sociologiche complicate per rendersi conto che viviamo immersi in un brodo prestazionale continuo che riguarda ogni piega dell’esistenza. Ci sentiamo spesso costretti a moltiplicare obiettivi inarrivabili che ci fanno sentire in ritardo su tutto, sempre sommersi da nuove incombenze, urgenze e traguardi. Questa qualità della nostra vita, dominata da una vera e propria accelerazione sociale, è diventata a tal punto pervasiva da costituire a tutti gli effetti un nuovo tipo di “dittatura” di sistema ideologico totalitario. Viviamo in una società accelerata – dice Hartmut Rosa4 –, e ciò non solo grazie all’accelerazione tecnologica, che pure ha modificato radicalmente il nostro rapporto con il tempo, lo spazio e i ritmi di lavoro. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito infatti anche a una potente accelerazione dei mutamenti sociali: mentre due generazioni fa le coordinate valoria-

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H. Rosa, Accelerazione e alienazione, Einaudi, Torino, 2015.

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li e di “funzionamento” delle persone cambiavano nell’arco temporale che intercorreva tra i figli e i nonni, oggi esse si modificano all’interno della stessa generazione, tra fratello maggiore e minore. Questo dato, tra le altre cose, fa sì che mentre un tempo la costruzione dell’identità dei figli era legata all’aspirazione dei genitori che essi somigliassero a loro, che ereditassero qualcosa di loro (per esempio dal punto di vista professionale), oggi invece i genitori, se vogliono avere una qualche speranza di interagire e di riconoscersi nei figli, devono inseguirli sul loro stesso terreno: quello del continuo cambiamento e di una diversa e costante accelerazione del funzionamento di vita. Un secondo aspetto fondamentale dell’accelerazione sociale è infatti l’accelerazione del ritmo di vita, e cioè la percezione diffusa che ci “manchi il tempo” necessario per fare ciò di cui abbiamo bisogno quotidianamente. Mangiamo più in fretta, impieghiamo un infinitesimo di secondo per recapitare una lettera a destinazione, dormiamo meno, facciamo più cose in un solo minuto di quante ne potessimo fare in un giorno appena dieci anni fa. Eppure ci manca il tempo. Male faremmo, dice Rosa, a ritenere che l’unica ragione di questi fenomeni sia da ricercare nei miglioramenti tecnologici. In primo luogo viviamo in una società in cui la competitività tra individui è attiva ad ogni livello fin dalla tenera età, soprattutto in quel campo – strettamente legato al tema del raggiungimento della felicità – che è il successo personale, oggi misurato attraverso la quantità di contatti, di like e approvazioni pubbliche. Questo fenomeno ci induce a credere che le qualità che consentono di ottenere il riconoscimento e l’approvazione altrui siano virtù migliori e più importanti delle altre. Tutto questo influisce profondamente sul modo in cui le famiglie intendono una “vita buona” e dunque sul tipo di esperienze e di sentimenti che esse sperimentano quando pensano di non averne una. È come essere in uno sciame vorticoso dove ciascun membro decide volontariamente di 16­­­­

rinunciare alla propria privacy e alla propria individualità, a ogni segreto e a ogni più recondita intimità, a patto di riceverne in cambio la sensazione vacua di un’appartenenza riconosciuta. Significa rinunciare alla propria identità come unico mezzo per “esistere realmente”5. Il secondo motore di questa accelerazione è costituito da un elemento che tendiamo a sottovalutare e che invece riveste, proprio in rapporto alla salute mentale, un’importanza straordinaria. Mentre un tempo la promessa dell’eternità era un dispositivo di motivazione sociale potentissimo, oggi – decaduta in larga parte la visione sociale del futuro delle grandi narrazioni ideologiche o religiose – essa è stata sostituita dalla promessa di una continua mutevolezza dell’esistenza. Se la “vita buona” non può essere eterna, che almeno sia eternamente mutevole. La “vita buona” diventa così una “vita realizzata”, ossia un’esistenza piena di esperienze (buone). L’accumulo di esperienze è dunque il naturale sfondo etico di una società in cui il mito della realizzazione personale ha interamente sostituito quello della lotta dedicata a un bene comune. Questo aspetto, va da sé, comporta che mentre ancora negli anni Novanta la competizione sociale era di tipo posizionale (ciascuno sgomitava per raggiungere una determinata posizione sociale), oggi questo principio, già assai precario, è stato sostituto da una competizione di tipo puramente performativo: se proprio non posso “collocarmi” al pari degli altri, almeno posso in ogni istante sentirmi migliore degli altri, fare cose che siano effimere ma almeno riconosciute da molti, nel tempo mutevole di un click, di un refresh. Una condizione che insinua nelle persone, a cominciare proprio dai bambini e dagli adolescenti, un senso di insicurezza e confusione identitaria che può diventare insostenibile. La condizione essenziale per una “vita buona” e felice si

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B.C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma, 2015.

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trasforma così nell’appagamento individuale, che si persegue non più con la tensione a una “rendita posizionale”, ma nella ricerca di uno stato di continuo, mutevole e frenetico adattamento al “nuovo”. È evidente infatti che più questo meccanismo è acquisito precocemente nello sviluppo, più l’identità della persona sarà incline a fondersi con l’identità del giovane consumatore, autonomo e indipendente, alla ricerca di appagamenti continui e diversi, di mutevoli intrattenimenti. Sempre pronto a indossare nuove vesti e abitudini pur di essere abbastanza cool. 5. Mille buone ragioni per essere iperattivi e disattenti Non è forse probabile che tutte queste trasformazioni sociali abbiano precisamente a che fare con quel tipo di malessere dei figli, che si esprime attraverso l’accelerazione dei loro comportamenti e la difficoltà a rispondere alle richieste performative? Una specie di intolleranza nei confronti di quella rete di coercizioni e regole continuamente poste e negate, moltiplicate e inutili che fanno semplicemente da sfondo alla vita normale dei figli di oggi? Non ha forse di gran lunga più senso ipotizzare che la patologia per eccesso di accelerazione dei figli sia la necessaria conseguenza di una società stanca e accelerata? E questa realtà, non si è forse essa stessa dispiegata in molti contesti diversi, in forme che perfettamente spiegano l’adhd? Il sistema scolastico è stato esposto, dagli anni Ottanta in poi, a crescenti e intollerabili pressioni da parte della società, in una realtà che ha costantemente sottratto risorse umane e materiali ai programmi educativi. Gli ambienti scolastici sono divenuti così allo stesso tempo più competitivi, più disomogenei (frequentati da bambini di estrazioni sociali molto differenti tra loro, anche a causa dell’aumento dell’immigrazione) e più caotici. Siamo così sicuri che tutto questo non abbia prodotto nuovi tipi di “anormalità”, nuove crisi, nuovi problemi, nuovi 18­­­­

“disadattamenti”? Eppure sono gli studi psichiatrici più ortodossi a dirci che un bambino classificato come adhd grave “funziona” in realtà come un adhd lieve – cioè l’intensità dei suoi sintomi si riduce in modo netto – se è inserito in una classe ordinata, equilibrata e “sana”. Contemporaneamente, anche le famiglie hanno attraversato una crisi progressiva che ha rimodulato la loro funzione sociale, anche attraverso cambiamenti profondi del ruolo dei genitori. Sempre più in difficoltà nel proporre modelli validi per i figli, nel definire coordinate educative e valoriali chiare e stabili. Cambiamenti ormai divenuti parte di una vastissima produzione culturale, che ha invaso la carta stampata, le soap, le serie tv e ovviamente il cinema. Tutto questo non solo ha interferito con la capacità dei genitori di gestire attivamente il loro ruolo, e con esso le intemperanze e le irrequietezze dei figli, ma anche con la percezione che ci fosse sempre meno tempo per farlo. Che cioè le eventuali intemperanze e instabilità dei figli facessero crescere in modo esponenziale l’insofferenza di tutti, poiché da loro ci si attende che siano infinitamente riconoscenti, docili e appagati. La nostra apparente benevolenza e cura per l’infanzia, l’enfasi con cui rappresentiamo le qualità di purezza, bellezza e “dolcezza” dei bambini nei nostri spettacoli pubblici, è la naturale controparte di una crescente insofferenza nei confronti di molte delle caratteristiche tipiche di un bambino. A una società fatta di genitori spesso impegnati nel lavoro, alle prese con gli effetti angoscianti della crisi economica e tentativi maldestri di autoconsolazione – bordate tardive di giovanilismo e crisi variegate di identità – interessa che i bambini diventino quanto prima autonomi, se la cavino da soli, si facciano rispettare, sappiano gestire i loro contatti social, si intrattengano sul tablet (nel pieno rispetto del parental control, per carità) e che, possibilmente, affilino le armi del buon consumatore. Che sa che cosa vuole e sa come ottenerlo. Il fatto che qualità come l’autonomia, l’intraprendenza e l’indipendenza siano diffusamente apprezzate nei bambini 19­­­­

ha ben poco di “naturale” e riguarda invece l’aspettativa che essi crescano secondo le regole del contesto – e possibilmente in fretta. Ha a che fare con i bisogni della società, non con i loro bisogni6. E se queste sono le aspettative, si capisce come un figlio che è meno “sul pezzo”, un figlio un tantino recalcitrante, incline più alla corsa che alla chat, amante più dell’altalena che del divano, diventi potenzialmente un figlio poco adattato, poco intonato ai ritmi dell’ambiente, poco interessato a ciò che gli si propone e, dunque, in un circolo vizioso, sempre più incline a distrarsi, a frammentare i propri interessi, a moltiplicare le iniziative in modo frenetico e distruttivo. Pretendiamo che le azioni dei bambini siano determinate da un fine chiaro, esplicito, prevedibile e possibilmente iscritto in comportamenti finalizzati a raggiungere risultati vantaggiosi. E qualunque comportamento che non si pieghi a questa rigida griglia di norme e “valori” e sfugga dalle maglie, rischia di precipitare nella morsa della psichiatria. Senza contare che sono i bambini e gli adolescenti stessi a vivere sulla propria pelle il confronto con un’autorità costantemente messa in scacco. Ne fanno esperienza nel contatto con quelle persone “rea­li” che la dovrebbero incarnare (l’insegnante, il genitore, l’allenatore, la baby-sitter, il prete, ecc.), e sono invece costantemente messe in discussione, troppo spesso avviluppate e ripiegate in ruoli azzoppati da quella tipica posa tardo-moderna che confonde l’impotenza con l’autoironia, l’irresponsabilità con il giovanilismo. Oppure semplicemente mutilate dalle pressioni sociali cui sono esposte: il genitore assente per impegni di lavoro, l’allenatore soverchiato dai genitori arroganti, l’insegnante confinato dal sistema scolastico in un ruolo vieppiù sbiadito. In altre parole assistiamo allo smantellamento di quelle coordinate immateriali della società, attraverso cui si dovrebbe A. James, A.L. James, Constructing Childhood. Theory, Policy and Social Practice, Palgrave Macmillan, New York, 2004. 6

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estrinsecare la forza simbolica della legge: il senso del dovere, il rispetto delle regole, del prossimo, dell’inviolabilità dei diritti fondamentali degli individui. Tutti principi che sappiamo essere sempre più sotto lo scacco del nostro sistema ideologico (la cosiddetta “società post-ideologica”), e il cui carattere specifico si colloca nel disconoscimento sistematico di quei principi che sono invece pubblicamente esibiti come coordinate valoriali “assolute” e fondanti il patto sociale7. Questo meccanismo spiega bene per quale motivo chiamiamo fondamentalismo l’identificazione troppo immediata tra i valori privati e la loro espressione pubblica. Credere nella democrazia sì, ma a patto di accettare che si basi su una pura finzione della rappresentanza. Credere nella giustizia sì, ma a patto che sia chiaro che rischi di più a rubare un’auto che non a portare due milioni in Svizzera. Credere nei valori dello sport sì, ma sapendo che una spintarella ormonale non si nega a nessuno. Credere nei diritti umani sì, purché possiamo temporaneamente sospenderli quando ci sembri più opportuno. Si veda per esempio il mezzo milione di morti della nostra guerra numero uno pro-democrazia in Iraq, poi rivelatasi ingiustificata. O almeno così dice il rapporto ufficiale della commissione di inchiesta britannica. Siamo dunque certi che questo sistema non intacchi in alcun modo i meccanismi che definiscono, nel corso dello sviluppo, il senso dell’autorità, dei confini e dei limiti? Non bastasse, bambini e adolescenti che crescono in questo sistema finiscono per assomigliare molto in fretta agli adulti che si occupano di loro, così che la qualità di ogni “buona maturazione” diviene l’acquisizione precoce di un distacco disincantato e cinico rispetto al tema dell’identità personale, del ruolo sociale, degli interessi collettivi. Valori sempre più scambiati con il miraggio dell’identità mutevole – il mezzo per ottenere appagamenti sempre nuovi – meglio

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S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano, 2011.

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se coniugata con il valore “dell’individualità pubblica”, cioè quella forma d’intimità senza privacy che è il carattere specifico dell’orgia sociale via web8. Se queste ragioni possono non apparire sufficienti, esistono molte possibili “teorie” che spiegano l’epidemia di disattenzione e iperattività9. Viviamo in una società che propina continuamente materiali culturali e intrattenimenti focalizzati sull’azione, sulla violenza e sull’iperstimolazione. O ancora: i genitori sono troppo sotto pressione. Si chiede loro di imporre disciplina, ma la loro capacità pedagogica è in crisi, perché sono stati di fatto moralmente messi al bando tutti i metodi coercitivi (castighi, sculacciate, ecc.) un tempo “accettati” all’interno della cultura popolare. O ancora: i genitori tendono a delegare alla scuola e ad altre istituzioni i doveri di educazione anche comportamentale dei figli, e questo dà spazio all’insorgere di comportamenti disfunzionali. O ancora: i bambini consumano grandi quantità di cibi e bevande energetiche o ricche di additivi, zuccheri e caffeina: questo può renderli iperattivi e agitati. O ancora: i sistemi educativi moderni nelle scuole tendono ad essere iperstimolanti, offrono troppe scelte e quindi favoriscono la scarsa concentrazione. O ancora: il sistema scolastico pone molta enfasi sulle capacità di autoregolazione e autocontrollo dei bambini, ma ha poche capacità di determinare condizioni strutturali di contenimento, ordine e “controllo”. L’elenco potrebbe proseguire. Siamo così certi, dunque, che alcuni tra i nostri figli – forse più deboli, con molte buone ragioni sociali e affettive, forse anche sofferenti dal punto di vista psichico – diventino ipercinetici, irrequieti e disattenti perché affetti da una malattia dei neuroni determinata geneticamente, specifica, selettiva e indipendente da tutti questi fattori contigenti? Han, Nello sciame, cit. S. Timimi, Pathological Child Psychiatry and the Medicalization of Childhood, Brunner-Routledge, New York, 2002. 8 9

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6. Altri aspetti nascosti nel modo in cui la psichiatria spiega e classifica i comportamenti dei figli irrequieti Come si è già detto, la psichiatria difende l’idea che le classificazioni diagnostiche siano svincolate da valori “sociali” o ideologici contingenti – il che, ovviamente, dovrebbe corroborarne il carattere “medico” e dunque oggettivo e universale. La questione è tuttavia smentita dallo stesso Manuale diagnostico, proprio là dove, per citare solo uno dei possibili esempi, definisce il “disturbo antisociale di personalità” come una patologia connotata da comportamenti pervasivi di violazione dei diritti altrui e delle norme sociali (dunque un sintomo che ha a che fare precisamente con i valori del contesto, e che necessariamente cambierà da cultura a cultura)10. In ogni caso, ci viene chiesto di immaginare la psichiatria come legata a un linguaggio tecnico asettico e neutro, perfettamente oggettivo e scientifico: la psichiatria sta al cervello come la geologia ai sassi. Viene chiesto ai medici che si specializzano in psichiatria e in neuropsichiatria infantile. Viene chiesto anche agli psicologi, seppure non siano medici, che vedono la loro formazione sempre più presa d’assalto da discipline di tipo medico. In fin dei conti viene chiesto a tutti. La psichiatria è diventata un prodotto globalizzato e la sua idea della malattia viene esportata come un dato di fatto assoluto e incontestabile. Nonostante ciò, l’attenzione della psichiatria per gli aspetti cross-culturali ed etnici è da sempre notoriamente lacunosa e approssimativa. Si tratta di un argomento complesso che non sarà possibile affrontare in questo libro. Basti sapere che la psichiatria è poco o per nulla in grado di spiegare le manifestazioni della sofferenza mentale peculiari di diverse culture in diverse parti del mondo, perché esse non sono riconducibili ad alcuna “etichetta” inclusa nel manuale internazionale. Allo stesso tempo, però, la conAmerican Psychiatric Association, dsm-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione, Raffaello Cortina, Milano, 2014. 10

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vinzione che le malattie si manifestino in modo più o meno simile in tutto il mondo è approssimativa e “forzata”11. Per esempio, i disturbi isterici e le manifestazioni catatoniche delle psicosi sono quasi scomparsi nei Paesi occidentali, mentre sono ancora molto presenti in India e in Pakistan – segno che è il contesto culturale a modellare “la malattia”, non viceversa. E ancora, si ricordi che, se in molti Paesi orientali – a iniziare dal Giappone – esiste oggi qualcosa come il concetto di “depressione”, ciò è solo ed esclusivamente perché tale concetto (non la parola, ma l’idea stessa della depressione) vi è stato “esportato” negli anni Novanta al seguito del florido mercato dell’antidepressivo Prozac. Inoltre, l’intera partita della psichiatria biologica si gioca attorno a convinzioni spesso opache, poco esplicite, ma assai presenti e operative. La convinzione, per esempio, che la classificazione diagnostica debba essere facilmente utilizzabile dai medici, e che lo stesso manuale dsm – osserva John Sadler12 – sia costruito attorno a principi estetici (l’essere “elegante”), principi di conoscenza (“lucidità, coerenza, precisione, semplicità, riproducibilità”), principi etici (essere proposto come un trattato “autonomo” e “coraggioso”), eccetera. La convinzione che il sentire soggettivo degli individui sia meno utile degli aspetti oggettivamente osservabili, perché meno misurabile e dunque meno pubblicabile nelle riviste scientifiche, che servono per stabilire se un certo farmaco è efficace oppure no. La psichiatria – sottolinea ancora Sadler – predilige le persone che basano le proprie convinzioni sulle esperienze “oggettive”, più che sulle intuizioni e sulle rivelazioni; e predilige i sintomi (come sto, di cosa mi lamento) al “romanzo” personale (cosa mi è successo, da dove vengo, perché penso che B. Saraceno, Discorso globale, sofferenze locali. Analisi critica del Movimento di salute mentale globale, Il Saggiatore, Milano, 2014. 12 J.Z. Sadler, Values and Psychiatric Diagnosis, Oxford University Press, Oxford, 2005. 11

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la mia vita sia così), perché è sui sintomi, e non sulle storie umane, che si fanno le diagnosi. Sotto la veste di una classificazione “non ideologica”, la psichiatria promuove l’idea che certi comportamenti siano preferibili ad altri: per esempio, che distaccarsi senza problemi dai genitori sia preferibile a dipendere da un legame stretto, o che diventare autonomi precocemente sia preferibile a ritardare il momento di uscire definitivamente di casa. O ancora, la psichiatria promuove l’idea che l’umore cupo sia di per sé “negativo” e disfunzionale, che certi comportamenti o interessi sessuali siano preferibili ad altri, eccetera. Infine, il discorso pubblico sulla devianza e la malattia mentale è fortemente individualista e non c’è bisogno qui di studiarsi tediosi manuali di critica filosofica. Basta lo spettacolo della follia nel cinema, da sempre connotato da alcuni stereotipi costanti che ben riflettono il modo in cui “si può” o è lecito rappresentare la sofferenza. A partire da Qualcuno volò sul nido del cuculo in poi, si è affermata l’idea del folle come di un soggetto senza radici, senza storia, solo con la propria sofferenza intesa come un “marchio”, una “colpa” sociale. Una condizione di fondamentale isolamento e disperazione, che si accompagna quasi sempre, almeno nel caso dei maschi, alla percezione di una “pericolosità” sociale. Un quadro che Umberto Eco aveva ben descritto nel suo Elogio del Franti, personaggio del libro Cuore, che De Amicis dipinge come un ragazzino venuto dal nulla, senza radici, senza “storia” familiare, se non quella che possiamo desumere dai calzoni bucati e dalla sua “faccia tosta e trista”. Franti sarebbe stato un perfetto paziente, completo di sintomi, facile da “inquadrare”, perfettamente integrato nel canovaccio che ogni bravo psichiatra si sarebbe atteso da lui. Così anche se esiste un vastissimo corpo di saperi clinici che hanno ampiamente mostrato come alcune “malattie” si instaurino in particolari “nuclei” di affetti – cioè esistono proprio in quanto fenomeni condivisi da persone legate da relazioni disfunzionali –, per la psichiatria le patologie con25­­­­

tinuano a essere accidenti che “accadono a un individuo”, per lo più a causa di qualche difetto neuronale. Rappresentano cioè la perfetta condizione di solitudine e “sofferenza” cui una società fondata sull’individualismo relega le persone fragili. È la cultura sociale che dà spazio ai cortocircuiti della psichiatria, non viceversa. Se tutto questo è possibile, è precisamente perché ciò che chiamiamo disturbi mentali (anche del bambino e dell’adolescente) sono oggetti ibridi, fluidi e imprendibili, che nascono a metà tra le scienze umane e le discipline della salute, che condensano linguaggi e tradizioni complesse, che non possono essere semplificate nella formula puerile dello squilibrio chimico di un certo neurotrasmettitore13. 7. Alcuni buoni motivi per non perdere coraggio Un’analisi di questo genere potrebbe risultare molto scoraggiante. Ma è forse preferibile conoscere le ambiguità che ci circondano piuttosto che coltivare idee irrealistiche o inseguire miraggi. Le richieste e le aspettative che il mondo là fuori propone alle famiglie sono fonte sicura di un continuo stress. E le discussioni sui possibili disturbi mentali dei figli – sistematicamente esposti alla pesa pubblica di una incombente diagnosi – trasmettono l’impressione che non siamo più in grado di comprendere che cosa è normale e che cosa non lo è, quando dovremmo preoccuparci e quando no, se è necessario rivolgerci a un professionista e, in questo caso, che cosa temere. Il rischio più forte che corriamo, in questa frenetica moltiplicazione di illazioni cliniche, di commenti psicologici da bar, di consigli dell’esperto in ogni pagina di giornale, è di smarrire la consapevolezza della nostra esperienza personale:

K.S. Kendler, J. Parnas, Philosophical Issues in Psychiatry II: Nosology, Oxford University Press, Oxford, 2012. 13

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ma è soltanto da essa che può nascere una richiesta d’aiuto sensata, focalizzata cioè su di noi, sui nostri valori, e non su quelli che ci sono imposti, indotti o presentati come “naturali” e obbligati. Sembra avere ragione German Berrios14 quando dice che una delle caratteristiche universali dei sintomi mentali è che essi si manifestano a un certo punto della storia di una persona (e di una famiglia): vi è dunque un momento di rottura in cui un disturbo prima inesistente improvvisamente si palesa. Così, qualunque sia la nostra definizione di malattia mentale, normalmente ci rivolgiamo a uno psicologo o a uno psichiatra quando percepiamo che alcuni cambiamenti significativi nella nostra quotidianità ostacolano la nostra aspirazione a mantenere o raggiungere una “vita buona”. Questo processo richiede almeno quattro elementi. Prima di tutto, è necessario disporre di una rappresentazione ideale, esplicita o implicita, di “vita buona”. Senza un’idea precisa del nostro orizzonte di desideri e aspirazioni, senza un termine di paragone circa un “buon modo di essere”, nessuna consapevolezza di malessere è soggettivamente possibile. In secondo luogo, è necessario saper riconoscere un certo stato esistenziale personale come negativo e problematico, e dunque ammettere che esiste una certa discontinuità temporale tra “un prima” in cui il problema non c’era, e un momento a partire dal quale tale problema si è manifestato. Terzo, è indispensabile riconoscere che il problema – che siano sentimenti, affetti, idee o comportamenti – ci riguarda direttamente, così che per risolverlo possiamo agire su noi stessi. Tuttavia questi tre passaggi non sono sufficienti. Il quarto step necessario per rivolgersi a uno psichiatra è quello di riconoscere che questo genere di problemi può essere affrontato in un ambito clinico. Un genitore che senta che la vita del figlio è divenuta intollerabile per colpa di una stregoneria e G.E. Berrios, Per una nuova epistemologia della psichiatria, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013. 14

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dunque ha bisogno di un esorcismo, non si rivolgerà a uno psichiatra. Si tratta di quattro passaggi tutt’altro che astratti: essi costituiscono il nucleo che determina il campo di libertà della famiglia nel suo accesso alle cure psichiatriche. Ci sono del resto molti modi in cui un professionista della salute mentale potrebbe sostenere le famiglie rispetto a quanto abbiamo detto fin qui. In primo luogo dovrebbe essere un dovere preciso della psichiatria aiutarle a comprendere che il pantano delle diagnosi e le molte ambiguità in questo campo non possono e non devono costituire un ostacolo alla cura: la salute mentale è troppo importante per rinunciare a occuparsene, nel timore che la macchina della cura si prenda la nostra libertà. Si può e si deve reagire. Essere più consapevoli dei limiti delle scienze psicologiche e psichiatriche non può che aiutarci a cercare le terapie giuste, le persone giuste, le soluzioni che fanno per noi. Forse ci renderà meno fiduciosi di fronte alle spiegazioni e alle “teorie” ufficiali della medicina, ma sicuramente saremo più in grado di sapere cosa aspettarci, quali domande porre, che cosa pretendere dagli psichiatri. Così, anche se l’adhd non dovesse essere esattamente il disturbo che ci è venduto dalla cultura medica dominante, ciò nondimeno il modo in cui un certo comportamento è inteso, visto e percepito dalle persone che vivono con i nostri figli è rilevante, a prescindere dalle sue cause puramente biologiche. Sapere che i disturbi di cui abbiamo discusso finora non sono semplicemente patologie basate su disfunzioni cerebrali, ma, piuttosto, condizioni a metà tra domini di sapere e pratiche di cura diverse, non è un buon motivo per non occuparcene. Dovremmo piuttosto comprendere che per problemi complessi difficilmente esistono risposte “semplici”. E che quei professionisti che propongono risposte semplici di solito stanno bluffando. In secondo luogo la psichiatria potrebbe avere un ruolo cruciale nel promuovere una nuova e più sana attenzione al tempo che dedichiamo alla nostra salute mentale. Abbiamo 28­­­­

visto infatti che diventare consapevoli che “qualcosa non va” nella vita di un figlio, comporta sempre la percezione di una certa “discontinuità” nella storia di una famiglia. Non si fatica a comprendere come la sovrapposizione frenetica di impegni, doveri, stimoli, interessi, sollecitazioni, messaggi nella vita delle persone, ormai spesso in una stato di permanente multitasking, sia il primo motore di quelle molte “disattenzioni” reciproche nell’ambito domestico che, seppure non ne sono la causa, almeno rendono possibili le forme più disparate di accelerazione e irrequietezza dei figli. La percezione del tempo e delle molte e sottili discontinui­ tà che connotano i momenti di crisi costituisce una questione che dovrebbe tornare al centro della vita delle famiglie ed essere cruciale anche nell’approccio clinico stesso, qualunque sia la tecnica o il metodo con cui uno specialista sceglie di operare. Recuperare la consapevolezza del tempo presente è infatti un buon modo per affrontare il vortice di una progressiva e disorientante accelerazione. Un professionista della salute mentale dovrebbe allora aiutare a trasformare la domanda un certo comportamento è normale? in una questione più radicale e complessa: che cosa è accaduto prima e dopo? Che cosa è cambiato? Che cosa è sopraggiunto nella famiglia che ha reso possibile che si generasse una discontinuità tra “un prima” in cui non c’era il problema e “un poi” in cui tale problema si è manifestato? E, soprattutto, come ci si sente ora? Come si sta? Essere in grado di percepire come stiamo è il solo modo per capire se i nostri figli hanno bisogno di qualcosa, se è opportuno ascoltare chi ci propone di svolgere approfondimenti clinici, se è possibile ricorrere a un trattamento e se quel trattamento in effetti ci farà bene o male. Le professioni connesse al cambiamento personale, quando sono solide e radicate in un’attenzione scrupolosa alle persone, sono in grado di aiutarle a fare prima di tutto questo: fermarsi un attimo.

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2.

Un piccolo trauma non si nega a nessuno

1. Uno dei tanti vasi di coccio Una madre imbocca la figlia di due anni. L’omogeneizzato, il cucchiaino, i sorrisi, il bavaglino sporco. All’improvviso si accorge che il bordo del vasetto è sbeccato e che un frammento di vetro è finito nella polpa di mela. La donna infila immediatamente due dita in bocca alla bimba. Stringendole il mento con l’altra mano, esplora e fruga come si fa con i carcerati per accertarsi che non nascondano nulla. Pochi istanti e la foga materna è premiata da una goccia scarlatta e da quello che sembra essere un piccolo taglio, o forse solo un graffio, sulla lingua della figlia. Un’ora dopo la madre attende con la bambina il suo turno in un pronto soccorso qualsiasi; tiene in mano il vasetto come fosse l’arma di un delitto. Una breve ispezione da parte del medico e l’esercizio burocratico dei fonendoscopi, dei timbri e dei certificati permettono di espletare nel giro di dieci minuti le funzioni altissime della salute pubblica – accettazione e dimissione – senza che alcuna cura particolare sia richiesta o prescritta. Tutto finisce per il meglio. Senonché, tre anni dopo, la signora fa causa alla multinazionale degli omogeneizzati. Ha in pugno la relazione clinica di una neuropsichiatra infantile che, come si dice, “in scienza e coscienza” ha redatto tre pagine fitte di teorie su come il grave trauma subito dalla bambina e la minaccia mortale cui era stata esposta siano all’origine di incubi notturni ricorrenti e di una grave fobia per i cibi solidi. Tanto che la poveretta ancora si alimenta al biberon, è sottopeso, è ansiosa, insicura, disadattata e c’è da 30­­­­

scommettere che il futuro le si dipanerà dinanzi in una concatenazione inenarrabile di sfighe. Un insieme di sintomi, quelli elencati, che la scienza medica riconosce come “disturbo post-traumatico da stress”, e che nel mercato assicurativo, soprattutto nel caso di una bambina così piccola, può valere anche alcune decine di migliaia di euro. Durante l’infanzia ogni accidente è buono per causare una patologia post-traumatica. Negli anni Ottanta si discuteva molto sul ruolo e sui pericoli rappresentati dalla tv. Poi fu la volta dei videogiochi: si diceva che erano traumatizzanti perché violenti, ma anche perché affaticavano le menti vergini dei bambini. Negli anni Novanta è stata la volta dei rischi connessi alla sessualizzazione dei programmi tv. In seguito tutti i timori sono confluiti nel connubio di sesso e violenza (e quindi anche nella pedofilia), per finire, negli anni Duemila, con l’orgia paranoica dei traumi connessi al bullismo. Ora, per tenerci aggiornati, un nuovo filone di studi si appresta a descrivere le mille sfaccettature del traumatismo psichico indotto dal diffuso mantra della violenza mediatica e del terrorismo planetario. Da dove nasce la convinzione che bambini e adolescenti siano esposti al rischio costante di rimanere traumatizzati da qualche accidente? Siamo proprio sicuri che le radici di questa cultura vadano cercate nella psichiatria, nel suo sapere, nei suo interessi e nelle sue mode? 2. Il disturbo post-traumatico da stress come esempio di altri aspetti poco cristallini della psichiatria La storia è arcinota, ma vale la pena spendere due parole per chi non l’ha mai sentita. Gli psichiatri chiamano disturbo post-traumatico da stress un insieme di sintomi che dal 1980 sono stati registrati con questo nome nel manuale diagnostico delle malattie mentali – il dsm. Prima non esisteva. O meglio: il disturbo era in real31­­­­

tà già stato descritto in forme diverse circa un secolo prima da un certo Erichsen, e poi ripreso in altre varianti all’inizio del Novecento da Charcot, Janet e Freud. È però solo con la guerra del Vietnam e la pressante richiesta di risarcimenti da parte dei reduci, che lamentavano gravi disturbi d’ansia e crolli nervosi, che l’American Psychiatric Association decide che quell’insieme di sintomi è una vera e propria malattia. Come è spesso accaduto nella storia della psichiatria, nelle successive edizioni del dsm la descrizione del disturbo è gradualmente cambiata. Così, mentre in un primo momento la diagnosi di disturbo post-traumatico da stress prevedeva che il paziente avesse vissuto esperienze realmente rischiose per la propria vita, in seguito è subentrata una versione più morbida – e per questo molto più permissiva – dei criteri diagnostici: è ora sufficiente che i sintomi siano associati non a un rischio vero e proprio, bensì alla percezione di un rischio. In altre parole: non conta quanto un evento possa essere definito oggettivamente stressante – conta l’intensità con cui si è vissuto quello stress. Sta di fatto che, anche se la sindrome – così come molte altre in psichiatria – è nata per pura convenzione e per questioni dettate da fattori politici e sociali (e in particolare per la pressione delle lobby legate ai reduci di guerra), la scienza medica si è poi adoperata a dimostrare che i soggetti che ne sono affetti soffrono di una serie di manifestazioni neurobiologiche e neurochimiche che “spiegano” la diagnosi1. È forse superfluo sottolineare che la diffusa sensibilizzazione nei confronti dei disturbi post-traumatici è anche (e per fortuna) espressione di uno sviluppo molto positivo della psichiatria e della psicologia. È infatti un indubbio progresso il fatto che la nostra consapevolezza sui potenziali rischi connessi ai traumi subiti nell’infanzia si sia accresciuta, e con essa anche la nostra percezione delle possibili correlazioni K. Farrell, Post-Traumatic Injury and Interpretation Culture in the Nineties, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1998. 1

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tra questi traumi (per esempio le violenze e i maltrattamenti) e lo sviluppo di patologie psicologiche nell’adolescente e nell’adulto. Si tratta di un campo di studi molto importante, soprattutto se si considera che, nonostante la maggior parte degli individui che hanno subito traumi non manifesti patologie psichiche, molti adolescenti che hanno disturbi del comportamento, del pensiero o delle emozioni hanno subito esperienze effettivamente traumatiche in età infantile. Per questo motivo, come sottolinea anche Allen Frances2 (uno degli estensori del dsm e oggi tra le voci più critiche in materia), i disturbi da stress rischiano di essere al tempo stesso tra i più sovradiagnosticati (soprattutto quando ci sono di mezzo le assicurazioni) e tra i più sottodiagnosticati (quando le persone, per ignoranza, poca consapevolezza oppure per le gravi conseguenze dei traumi subiti, non riescono a lasciare che i sintomi “affiorino” e possano essere curati). È bene precisare che una mole tanto imponente di studi sul ruolo delle esperienze traumatiche nell’infanzia è segnata anche da profonde divisioni di “impostazione” scientifica, che derivano da valori e visioni ideologiche molto differenti. Semplificando in modo un po’ brutale, possiamo affermare che la psichiatria tende a porre l’accento sulle predisposizioni genetiche degli individui alla “fissazione” delle memorie traumatiche attraverso una maggiore o minore suscettibilità del cervello di ciascuno a determinati ormoni liberati durante un trauma. Si tratta di un modello medico perfettamente “in linea” con gli altri tipi di spiegazioni ufficiali sulla depressione, l’adhd e altri tipi di “patologie”. A questo modello medico si contrappone l’impostazione della tradizione psicologica, la quale sostiene che un determinato evento diventa traumatico non tanto per le conseguenze 2 A. Frances, Saving Normal. An Insider’s Revolt Against Out-of-Control Psychiatric Diagnosis, dsm-5 Big Pharma, and the Medicalization of Ordinary Life, William Morrow, New York, 2013.

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meccaniche che impone al corpo o al cervello della persona che lo subisce, ma, piuttosto, per il particolare valore – affettivo o simbolico – che quell’evento comporta nella sua vita, nelle sue relazioni e nel suo sviluppo. In ogni caso, è evidente che questa nuova sensibilità clinica, qualunque sia l’angolo di visuale da cui guarda alle persone, ha contribuito in modo significativo alla diffusione dei discorsi pubblici sulla “traumatizzabilità” dei bambini. Oggi i disturbi post-traumatici sono un capitolo della psicopatologia ancora molto di moda. E si capisce che se le malattie mentali sono – con poche eccezioni – quei particolari tipi di prodotti culturali che vantano un massiccio apparato di marketing sanitario annesso, i disturbi da stress sono senza dubbio tra i prodotti più semplici da “vendere” in questo mercato, la gioia di ogni esperto di comunicazione e pubblicità. Nella teoria del disturbo post-traumatico vale più o meno la logica lineare del colpo e della ferita. Tanto hai preso, tanto restituisci. Tanto hai subito, tanto ti tocca soffrire. È un modello di spiegazione che in un certo senso “fa comodo” a tutti – e prima di tutto proprio ai medici (neuropsichiatri infantili e psichiatri) e agli psicologi. In una disciplina in cui è pressoché impossibile rispondere con chiarezza a un genitore che chieda per quale motivo suo figlio ha quello che ha (è triste, confuso, iperattivo, incasinato), c’è chi è tentato di cercare nel trauma l’asso pigliatutto delle spiegazioni eleganti: una causa, un meccanismo patologico, una malattia e una cura. Economico, senza fronzoli, senza dubbi, con buona pace dell’inconscio, delle relazioni, degli affetti e di tutto quel che si sa della complessità delle interazioni tra ogni essere umano e l’ambiente che lo circonda. Una moda, questa del disturbo post-traumatico da stress, che è iscritta in una precisa retorica della cura e della malattia, in cui ogni cosa ha un posto ben definito: il paziente è una vittima, la causa è un accidente (l’incidente, il bullo, il maniaco, il terrorista, il terremoto), la conseguenza è una certa malattia 34­­­­

esatta e circoscritta. Il medico e lo psicologo, infine, sono la parte buona della società che ripara il malcapitato – o almeno ci prova. Se poi l’accidente, il trauma, accade per colpa di qualcuno (è causato, come si dice, “da un fatto antigiuridico”) ecco allora pronta la ricetta perfetta per il risarcimento: il ricorso agli ingranaggi delle agenzie assicurative. Se il tuo yorkshire è stato morso dal cane lupo del vicino e tu hai assistito alla scena, se nel montare la libreria dell’Ikea un’anta difettosa ti è caduta sul piede sfiorandoti la fronte e hai pensato sarei anche potuto morire, se hai assistito a un incidente stradale e hai immaginato che avrebbe potuto coinvolgere anche te, se un lontano parente ha molto sofferto per un trauma e tu o uno dei tuoi figli con lui, allora potrai presentarti a un’agenzia assicurativa, dolente nella psiche, affossato negli affetti. Premurati però di esibire un buon certificato specialistico (se lo sguardo scavato è quasi sempre sufficiente per un clinico distratto, non lo è sicuramente per gli uffici burocratici) che attesti la presenza di quei sintomi che la scienza medica classifica come disturbo da stress: rievocazione diurna del fatto stressante, flashback, incubi ricorrenti, ansia diffusa, eccetera. Meglio ancora se il trauma riguarderà tuo figlio: ché un’invalidità anche minima frutta di più se colpisce un giovane. In tal caso, istruiscilo a ripetere la lezione, perché è questo ciò che si chiede al buon reclamante che voglia intascare un assegno. Negli anni Ottanta funzionava così per il colpo di frusta. Chi non ne aveva avuto uno, o non aveva un familiare o un amico che ne avesse sofferto? Oggi il suo posto l’ha preso il dpts. La società ha scelto la propria strada. Bando alla meccanica dei corpi reali, alle desuete collisioni di cofani, paraurti e poggiatesta, alla pantomima dei collari e delle distorsioni cervicali: meglio la sfera impalpabile e certa di un tanto di psicologico per tutti. Un disturbo post-traumatico, insomma, non si nega a nessuno, e ancor meno ai bambini: ché – lo sappiamo bene – la cura per l’infanzia è una delle qualità che 35­­­­

distinguono le società evolute, e mai un impiegato del pubblico ufficio vorrebbe passare per insensibile ai bisogni infantili. Se uno volesse pubblicare un libriccino di facile successo, potrebbe scrivere una provocazione su quanto sia facile strappare un’invalidità al 10% a un’assicurazione. Si potrebbe intitolare Fregare le assicurazioni. Un manualetto breve, che spieghi che basta presentarsi, dopo circa un anno da un torto subito – da un fatto insomma che possa essere considerato traumatizzante –, con un paio di certificati di psicologi e psichiatri che attestino una diagnosi di dpts e garantiscano che ne è seguita una cura. E il punto è che non c’è bisogno che i clinici redigano relazioni false: basta che il paziente abbia ben chiari quali sono i sintomi in grado di persuaderli. Non puoi rivolgerti a un ortopedico dicendo di avere una gamba rotta se non ce l’hai – ma puoi tranquillamente indurre uno psichiatra distratto a diagnosticarti un disturbo da stress raccontandogli per filo e per segno sintomi che non hai. Ti capita di svegliarti di notte sudato e angosciato? Sì. Hai incubi ricorrenti legati a questo trauma? Sì. E di giorno come stai? Hai per caso il timore che ti possa riaccadere? Sì. Andata. Forse sarebbe un libro molto criticato. Ma alcuni psichiatri (e pure alcuni psicologi e neuropsichiatri infantili) farebbero bene a leggerselo. Potrebbero rendersi conto di quanto può essere burocratico e assurdo il loro lavoro, se si limita a ratificare in diagnosi i rosari di lamentazioni dei genitori e della loro santissima prole. A volerla guardare in termini costruttivi, si direbbe che siamo alle prese con una di quelle “falle” teorico-pratiche che evidenziano i limiti, i paradossi e le contraddizioni di una disciplina – nella fattispecie la psichiatria. Se ciò su cui si basa la psichiatria sono i sintomi mentali, e i sintomi mentali sono per lo più i resoconti delle persone coinvolte, ovvero fatti puramente soggettivi, destituiti di alcun fondamento di “realtà” obiettiva, allora si danno due casi: o la psichiatria non è una scienza medica nel senso in cui lo sono invece la 36­­­­

gastroenterologia, l’oncologia e la pediatria, oppure non può fondarsi solo sui resoconti soggettivi delle persone. Non bastasse, la questione è resa ancora più seria da un altro aspetto rilevante. Che tipo di opinione avremmo di una scienza i cui mattoni concettuali di base, gli elementi che costituiscono il suo impianto teorico, non sono mutati da oltre cento anni a questa parte? È come se in fisica ancora si parlasse del flogisto e dell’etere – le misteriose entità che dovevano spiegare il calore e la propagazione dell’energia elettromagnetica. Questo è in effetti lo stato della psichiatria e della neuropsichiatria infantile: sono discipline che poggiano ancora oggi su fondamenta (i sintomi mentali appunto) in tutto sovrapponibili a quelle già descritte oltre un secolo fa. Come accade per la legge, e al contrario di quello che dovrebbe accadere nella scienza, la “novità”, in psichiatria, non sembra costituire un valore positivo. Vale forse la vecchia battuta che gli arabi hanno molti nomi per i cammelli e gli eschimesi molti nomi per la neve. Curiosamente invece gli psichiatri continuano ad accontentarsi di pochi nomi per descrivere molte cose. E utilizzano gli stessi da circa centoventi anni. Strano vocabolario, per una disciplina che sembra rivendicare con sempre maggiore supponenza il suo presunto statuto di scienza medica hardcore. Non solo. Il sistema della descrizione dei sintomi è a tal punto “chiuso” – cioè non suscettibile di aperture a novità e cambiamenti – che quando i sintomi di un individuo non sono tutti ricompresi nell’elenco tipico di una diagnosi nota, lo psichiatra agisce di solito in senso opposto a come agirebbe qualsiasi altro clinico in ogni altra disciplina medica. Se i sintomi non corrispondono alla patologia ipotizzata, ci si immagina che la diagnosi debba essere rimessa in discussione, o che i sintomi debbano essere capiti e “spiegati” in altro modo, o, ancora, che ci troviamo di fronte a una nuova malattia che presenta sintomi che non conoscevamo. 37­­­­

Al contrario, in psichiatria non esistono sintomi “sbagliati”: tutti i sintomi, proprio perché soggettivi, sono “veri”, reali. Dunque, se i conti non tornano, nella peggiore delle ipotesi saranno attribuite al paziente più diagnosi3. Questo è in effetti ciò che si verifica, tanto che la moltiplicazione delle diagnosi per ogni paziente è diventato uno dei problemi più ingenti nell’ambito delle discipline psichiatriche anche infantili: esaminate una qualsiasi cartella clinica di un adolescente ricoverato in un reparto di neuropsichiatria infantile, e constaterete che, come minimo, era dislessico a otto anni; dislessico, iperattivo e ansioso a undici; dislessico, bipolare, iperattivo e ansioso a quindici. In ogni caso, per tornare alla diffusione dei disturbi posttraumatici in età infantile, il problema risiede nel fatto che l’elenco “ufficiale” dei sintomi psicopatologici (l’ansia, i deliri, le allucinazioni, ecc.), la cui collezione variamente assortita permette di definire le diagnosi, è entrato a far parte del vocabolario comune. È un fenomeno che non ha a che fare soltanto con la psichiatria e con i suoi “poteri”, ma che riguarda anche il modo in cui le lingue tecnico-scientifiche si impossessano della coscienza delle persone, come è del resto già stato descritto da una dottissima tradizione di critica culturale, da Pasolini in giù (e in su). I paradossi interessanti sono qui almeno due. Primo, la psichiatria si basa su resoconti non solo viziati da un forte carattere di soggettività, ma anche profondamente influenzati dalla cultura medica dominante. Non si tratta di racconti “puri” e “neutri”: essi sono ricompresi in un linguaggio e in una prospettiva che già includono lo “sguardo” medico come una componente indispensabile a dare un senso a ciò che proviamo4. Non si potrebbe altrimenti spiegare come sia possibile che bambini di quattro o cinque anni si 3 G.E. Berrios, Per una nuova epistemologia della psichiatria, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013. 4 K.S. Kendler, J. Parnas, Philosophical Issues in Psychiatry. Explanation,

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presentino in uno studio medico spiegando di avere un disturbo d’ansia o gli attacchi di panico, di essere traumatizzati o depressi. Esattamente con queste parole. Se poi si chiede loro che cosa è per te un attacco di panico?, ciascuno racconterà una storia diversa. Per esempio questa: quando vedo mio fratello di sette anni con il tablet io faccio la pazza e grido e mi butto per terra e mia madre dice che ho l’attacco di panico. Oppure questa: sono traumatizzato e ho l’ansia perché sono vittima di bullismo e sono vittima di bullismo perché il mio compagno mi ha tirato la gomma da masticare nei capelli anzi me l’ha tirata sette o otto volte. Secondo. Se i sintomi mentali sono resoconti soggettivi delle persone rispetto a come stanno e a come si sentono, nel caso dei disturbi infantili abbiamo un problema in più, e molto rilevante. Quando un bambino è condotto da un medico o da uno psicologo, di solito sono i genitori a raccontare come il figlio si sente e come si dovrebbe sentire. I “sintomi del bambino” sono per lo più costruiti intorno alle parole che provengono dalla lingua e dall’esperienza personale dei suoi genitori. La stessa lingua (appunto) che ha usato la madre all’inizio di questo capitolo, per spiegare al pronto soccorso e poi alla neuropsichiatra in che cosa consisteva il terribile trauma psichico subito dalla figlia. Un fatto che avrebbe costretto la piccola a bere dal biberon per i successivi tre anni e a vedersi forse riconosciuta un’invalidità permanente – lieve, per carità, ma che pur sempre certifica che dal terribile trauma di quel dannato granello di vetro la bambina non potrà guarire mai. Anche senza tediose disquisizioni psicologiche, si capisce qui che le parole che i genitori usano per descrivere i problemi presunti o reali dei figli hanno spesso molto a che fare con quello che i genitori pensano e con che cosa si aspettano dal mondo per loro stessi e per i propri figli. Phenomenology, and Nosology, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2008.

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Ciò non significa che il disturbo post-traumatico da stress non sia “reale”. I bambini che ne soffrono, sperimentano “davvero” ciò che lamentano, ma il punto è che i disturbi psichici sono manifestazioni soggettive fortemente influenzate dall’ambiente circostante, dalle esperienze che è lecito vivere e dal linguaggio che utilizziamo per descriverle. Questa interazione è radicale e interferisce non solo con il modo in cui raccontiamo agli altri il nostro malessere, ma con il modo stesso in cui lo viviamo5. Perciò, quando parliamo di disturbi post-traumatici dei figli parliamo di cose che esistono, nell’ordine naturale delle cose, prima di tutto come racconti elaborati dai genitori e filtrati da un vocabolario medico condiviso da tutta la società. Cos’hanno a che fare i disturbi post-traumatici con la proliferazione dei discorsi pubblici sul trauma e con il significato che essi assumono nella vita delle famiglie? A cos’è dovuta la convinzione diffusa che i nostri figli siano sempre vulnerabili, cagionevoli e suscettibili d’ogni peggiore conseguenza psichica, anche al minimo accidente? E che ruolo ha in tutto ciò la psichiatria infantile? 3. Le radici ideologiche del trauma psichico di massa Il disagio psichico, la sofferenza e il malessere sono esperienze piuttosto comuni nella storia di ogni famiglia. E il fatto che i disturbi post-traumatici si distinguano come fenomeni particolarmente evidenti nell’ambito opaco della medicina delle assicurazioni non dovrebbe trarre in inganno, se si considera che in tale contesto le persone – sarebbe a dire i pazienti – possono essere mosse da un chiaro interesse a dimostrare di soffrire della malattia che denunciano. Ciascuno di noi attinge al vocabolario del trauma anche quando non c’è in ballo

I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Boroli Editore, Milano, 2005. 5

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alcun interesse economico, e la proliferazione della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress anche nell’infanzia e nell’adolescenza è un fatto del tutto indipendente dal suo eventuale utilizzo “sporco”. In ogni caso, non c’è dubbio che la cultura medico-psicologica in cui siamo immersi abbia contribuito a divulgare questo “vocabolario”, oliando i meccanismi che ci inducono a pensare che ogni disagio sia una vera e propria malattia, verosimilmente causata da un’esperienza traumatica. Sta di fatto che il disturbo post-traumatico da stress ha finito per diventare una specie di star delle patologie psichiatriche, al punto che la sua diffusione capillare nella vita di tutti i giorni è stata anche oggetto – soprattutto negli ultimi anni – di un’accesa critica antipsichiatrica che spiega questi fenomeni come l’effetto di un collettivo mind fucking ad opera della lobby delle case farmaceutiche. Su questi temi è possibile reperire in ogni angolo della rete spiegazioni comode e “facili”, nonché una narrativa infinita sull’idea che le scienze psichiatriche non siano altro che un grande dispositivo commerciale al soldo dell’industria degli psicofarmaci e al servizio dei governi, per il controllo e la repressione dei creativi e dei “diversi”. Della “fondatezza” di queste critiche e del modo in cui esse possano rivelarsi molto pericolose per i genitori e i loro figli discuterò più a fondo nel capitolo 4. Quello che mi preme dire qui è che alle famiglie non basta – e soprattutto non serve – spiegare che la diffusione della diagnosi di disturbo da stress e di tutti i disturbi correlati allo stress è la pura espressione della medicalizzazione della società, operata dalla psichiatria a fini puramente commerciali. Una versione dei fatti di questo genere è arcaica, grossolana e – appunto – del tutto inutile, dal momento che non tiene conto del modo in cui le famiglie contribuiscono attivamente a modulare “dal basso” l’idea stessa di “vulnerabilità”. Non lascia dunque, né alle famiglie né ai singoli, alcuno spazio per una libera scelta, 41­­­­

alcuna alternativa che non sia il frutto di una vittimistica ruminazione del complotto. Sarebbe come dire che la diffusa passione per il jogging altro non è che un’abitudine imposta dalle multinazionali delle scarpe da tennis. Piuttosto è vero il contrario: è la nostra stessa ossessione per la forma fisica – ossessione che fa da sfondo a un desiderio condiviso di eterna giovinezza – a far sì che possa esistere un fiorente mercato di accessori per lo sport e il tempo libero. Se il dpts ha potuto diffondersi a tal punto nella lingua comune, ciò non è dovuto tanto (o comunque non solo) agli interessi dell’industria sanitaria, quanto al fatto che esso fornisce una spiegazione scientifica a un sentimento cupo, primitivo e diffusissimo. A guardare le cose con un po’ di attenzione si deve ammettere che i disturbi post-traumatici rientrano in quel tipo di argomenti intorno ai quali si condensano molte tra le più problematiche spinte ideologiche che governano la società. Una di queste spinte è appunto la convinzione che le persone siano in pericolo, vulnerabili, e perennemente esposte a rischi e minacce incombenti. Per rendersi conto di ciò basta immergersi nel magma dell’informazione pubblica, che è sempre più simile a una specie di mantra collettivo sulla violenza, gli accidenti, le sfighe più varie e le loro indelebili conseguenze psicologiche. Un mondo in cui tutti siamo traumatizzati è un mondo in cui siamo tutti affetti, almeno potenzialmente, da un disturbo psichico. È un mondo in cui è necessario ricavare uno spazio sempre maggiore per terapie, trattamenti, diagnosi e controlli. Un mondo in cui è sottratta agli individui, per statuto ideologico, la capacità che ogni essere vivente ha per natura di adattarsi alle asperità dell’ambiente e di superarle, trovando di volta in volta nuove strade per aggirare gli ostacoli. Il dpts è dunque una patologia che si adatta perfettamente alla società in cui viviamo. La sensazione d’essere in costan42­­­­

te pericolo, l’assenza di sicurezza, la crescente paranoia nei confronti degli altri, dei “diversi”, degli estranei, il timore d’aver perso il controllo del proprio futuro e del proprio presente sono infatti contemporaneamente le colonne portanti dell’ideologia del nostro tempo e i principali motori del “discorso” sul trauma. Si tratta di una narrazione collettiva che ha radici antiche, e che si è scatenata in Occidente già nella potenza visionaria delle pagine di Orwell, dove un mondo in cui il Grande Fratello manipolava le coscienze faceva leva sullo stato di collettiva dissociazione post-traumatica di una popolazione devastata dagli orrori della seconda guerra mondiale. Ma, come sempre, lo spettacolo della realtà supera la fantasia. E la nuova ondata del trumpismo (ogni democrazia occidentale che si rispetti ha il suo Trump, con o senza riporto) sembra ormai l’incarnazione tracotante e dopata di quella retorica violenta e oscura che in molti hanno descritto come la politica della paura. Un racconto della realtà – attraverso i media, le campagne politiche e la grande fiera dell’ego via tweet, blog, ecc. – tutto incentrato sulla vulnerabilità e sul trauma. Vivere in uno stato di minaccia permanente (la minaccia dei cambiamenti climatici, del terrorismo, dell’inquinamento, delle epidemie e – perché no – degli alieni) è una delle forme più riuscite di racconto collettivo, perché vi convergono interessi diversi e sensibilità che registrano i cambiamenti cupi cui siamo esposti. Un fenomeno che non a caso si accompagna a una certa diffidenza talvolta addirittura paranoica nei confronti degli estranei, degli stranieri, degli “altri” in genere. Ma c’è di più. È evidente che il disturbo post-traumatico da stress si innesta in una delle radici più problematiche delle trasformazioni sociali in cui viviamo, cioè quell’accelerazione sociale di cui si parlava nel capitolo precedente. Abbiamo la sensazione di avere sempre meno tempo a disposizione per fare ciò che è indispensabile, e ci sentiamo perennemente soverchiati da improrogabili impegni e sca43­­­­

denze. Tutto ciò disorienta profondamente anche i bambini e gli adolescenti, che finiscono per sentirsi impotenti di fronte a trasformazioni brutali e imprevedibili. Un mondo in cui i cambiamenti si verificano troppo in fretta è anche un mondo in cui il senso stesso del tempo presente perde di significato. L’accelerazione sociale, infatti, ha comportato un assottigliamento drastico di quella finestra esistenziale entro cui il tempo è percepito come una dimensione che dà ai valori e ai parametri di riferimento una stabilità tale da consentirci di fare affidamento sulle nostre esperienze per anticipare il futuro. E se non è possibile anticipare ciò che ci accadrà, allora ci sentiremo in balìa di eventi indipendenti da noi, governati da istanze che provengono da fuori, dagli altri, da ogni sorta di possibile imprevisto. Come animali da esperimento, chiusi in una scatola di plexiglas, nell’angosciosa attesa di una nuova prova, di un nuovo stimolo, di un nuovo tranello. È, questo, lo sfondo perfetto per un disturbo, il dpts, che non a caso Allan Young ha definito “malattia del tempo”6. Esso ha infatti a che fare con il modo in cui il trascorrere del tempo reale e percepito ci aiuta a dare senso a ciò che ci accade, ricollocandolo come parte di una “storia”. Per chi soffre di dpts, ad essere compromessa è proprio la continui­ tà di questa storia, come un orologio che segna sempre la stessa ora. Anche se non si tratta di una malattia biologica in senso classico, essa è pur sempre la sofferenza di chi perde la capacità di guardare al futuro, di percepire il divenire delle proprie azioni nel mondo come parte di un possibile “sviluppo” e di una possibile trasformazione migliorativa. La mente si ferma all’istante del trauma e ogni percorso successivo è svolto a ritroso, con lo sguardo rivolto a quell’evento. A. Young, The Harmony of Illusions. Inventing Post-Traumatic Stress Disorder, Princeton University Press, Princeton, 1995. 6

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Si comprende bene quanto tutto ciò sia oggi legato al nostro modo di vivere il presente, e quanto poco abbia invece a che fare con il potere delle case farmaceutiche. 4. I figli come vittime ideali Nel caso dei traumi infantili c’è poi un altro elemento che influisce in modo particolarmente rilevante, e questo elemento riguarda i genitori. La cura dei figli è una di quelle qualità che caratterizza la società occidentale, uno dei fiori all’occhiello che spesso pensiamo ci distinguano dai Paesi meno civilizzati. Tuttavia, proprio perché ne facciamo una bandiera, il modo in cui ci prendiamo cura dei figli condensa molti dei valori e delle contraddizioni che caratterizzano le coordinate ideologiche dominanti. Così, se la diagnosi di dpts è comoda per i professionisti della salute mentale perché “facile da comunicare”, ciò non è solo e banalmente perché l’argomentazione è semplice (suo figlio ha questo problema a causa di questo accidente o questo insieme di accidenti). L’efficacia del messaggio si fonda anche su almeno altri due elementi, che riguardano chi ascolta. Innanzitutto esso solleva i genitori dalla responsabilità di quanto è accaduto. Se la causa sta da un’altra parte, allora significa che non è colpa mia. In secondo luogo, i discorsi sulla vittimizzazione dei figli funzionano bene perché il modo attraverso cui la società costruisce la funzione e l’immagine pubblica dei bambini è quello delle “vittime ideali”. Tale rappresentazione nasce dal mito romantico della loro fragilità e purezza, e va a braccetto con l’idea che, in quanto creature “pure” e innocenti, i bambini siano anche estremamente vulnerabili. È, questa, una costruzione assai poco “naturale” – frutto, piuttosto, di stratificazioni culturali complesse fondate sul “posto” tutto particolare occupato dai figli nelle società tardo-moderne. Il fatto che non vi sia ambito della loro vita che sia protetto e sicuro, e che le rap45­­­­

presentazioni collettive dell’esistenza dei figli siano popolate dall’immagine di possibili eventi traumatici che avranno conseguenze potenzialmente dirompenti e fatali, costituisce il naturale sviluppo di questa cultura e di questa funzione simbolica dell’infanzia7. Pressoché ogni giorno i media ci propongono episodi di vittimizzazione dei figli, e la narrazione collettiva dell’infanzia abusata e maltrattata è diventata una specie di nuovo genere letterario di facilissimo successo, dotato anche – come ogni racconto pubblico – di una sua precisa iconografia. Da Kim Phúc – la bimba che fugge ustionata sulla Route 1 durante la guerra in Vietnam (scatto che valse un Pulitzer) – alle recenti foto di bambini inermi e coperti di polvere tra le macerie di Aleppo, dalle vittime del terrorismo ceceno a Beslan fino alla sposa bambina di Nouakchott, in Mauritania (foto dell’anno Unicef 2007), dal close-up dell’orfana dodicenne Sharbat Gula – la bambina afgana con gli occhi verdi (foto copertina per il “National Geographic” di Steve McCurry) – alle molte vittime dell’immigrazione nel Mediterraneo: una specie di genere giornalistico a sé stante, ottimo dispositivo per la pancia affamata della retorica del potere. Tutti questi bimbi, di cui spesso non conosciamo neppure il nome, sono esattamente quel che serve per oliare l’indignazione, per suscitare le nostre emozioni, per smuovere i cuori quel tanto che basta a distogliere lo sguardo da una politica scomoda, da un’iniziativa impopolare, da qualche magagna pubblica. La retorica della vittima indifesa ha il pugno serrato sulle parti nobili della nostra incerta morale, e non a caso è diventata il cavallo di battaglia di ogni iniziativa benefica che si rispetti. Dall’adozione a distanza alle donazioni per la costruzione di scuole e ospedali, ogni democrazia occidentale vanta un apparato di fondazioni e iniziative umanitarie pub-

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S. Benzoni, L’infanzia non è un gioco, Laterza, Roma-Bari, 2013.

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bliche e private, la cui principale funzione simbolica è quella di tenere impegnate le coscienze dei giusti cittadini: possiamo pure fregarcene della politica estera e dei problemi connessi alla globalizzazione, tanto comunque qualcosa di buono per i poveri bimbi d’oltremare lo abbiamo già fatto (così che, tra l’altro, possano starsene a casa loro). Questi bambini porteranno per sempre i segni di quello che è accaduto sulla loro pelle, dice accigliato l’Esperto, intervistato da un quotidiano nazionale, all’indomani dell’arresto della maestra del nido che maltrattava e insultava i suoi giovanissimi “clienti”. Accettiamo che i nostri figli siano rappresentati proprio così: inermi e indifesi, magari già scossi, strattonati e pesti a causa di accidenti fortuiti (meglio se attribuibili a qualche deviato, a qualche matto, a qualche straniero, o a varie permutazioni dei tre). Un racconto pubblico indifferente alla realtà del miglioramento diffuso della qualità di vita dei figli – dall’istruzione alla nutrizione, dalle opportunità di socializzazione a quelle di accesso alle cure mediche e a una rete di supporti sociosanitari che un secolo fa sarebbero stati impensabili. Così, nonostante le scienze psicologiche abbiano dimostrato quanto siano articolate le capacità di recupero dei più piccoli di fronte a eventi avversi, oggi si tende comunemente a credere – dice Frank Furedi8 – “che i bambini non siano in grado di fare i conti con le loro esperienze negative e che siano poco capaci di recuperare i traumi precoci”. Si tratta di un paradigma ormai così radicato da passarci davanti agli occhi quasi fosse trasparente, quando è invece in grado di distorcere la realtà. Oggi non avremmo alcun dubbio nel parlare di un trauma psichico potenzialmente indelebile e “permanente” nel caso di un bambino che, per esempio, abbia perso la propria casa in seguito a un terremoto. E saremmo pronti a

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F. Furedi, Paranoid Parenting, Continuum, London, 2008.

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sciorinare fior fior di teorie cliniche sul perché e sul per come di queste ferite psichiche indelebili, sia che le si voglia spiegare con il linguaggio “tecnico” che scomoda neuroni e ormoni dello stress, sia che si voglia ricorrere alla più elegante narrazione (vintage) dei fatti inconsci, delle rimozioni e delle nevrosi d’ansia. Nessuno di noi applicherebbe tuttavia un metro di giudizio analogo ai milioni di persone che, scampate alla seconda guerra mondiale, ci hanno fatto da nonni o da genitori senza rivendicare in alcun modo lo status di generazione martirizzata e traumatizzata. Una generazione che, al contrario, è stata in grado di dimostrare quanto in fretta gli esseri umani siano in grado di risollevarsi e raccogliere le macerie (anche d’intere città) per ripartire di nuovo. È, né più né meno, quel che racconta Furedi9 rispetto ai cambiamenti che negli ultimi trent’anni hanno caratterizzato quasi ovunque, in Occidente, la retorica delle omelie funebri: dominate un tempo da parole quali orgoglio, onore e coraggio, esse cedono oggi alla prostrata retorica del compianto, del dolore, della tragedia. Così che la percezione che i figli siano esposti a minacce costanti, sempre in pericolo, sempre sul punto di scontrarsi con la natura brutale e traumatica della realtà, prepara il terreno all’ideologia della traumatizzazione di massa. Senza contare che questa paranoia collettiva per le minacce cui sono esposti i figli ha messo presto nel mirino anche la stessa autorità genitoriale e il ruolo di papà e mamma: troppo impegnati nel lavoro, troppo assenti, troppo generosi, troppo distanti, troppo apprensivi, troppo menefreghisti. Cosa dovrebbe fare dunque un genitore di fronte agli eventuali traumi del figlio? Esiste la possibilità di rifiutare le teorie della vittimizzazione di massa, le quali, come si è già detto, prima ancora di essere ratificate dalla “scienza F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2008. 9

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psichiatrica” sono radicate nella società? È possibile essere consapevoli dei rischi di questi allarmismi e allo stesso tempo rimanere genitori responsabili, che non trascurano i segnali di sofferenza dei figli in seguito a un trauma subito? 5. Più di ferro che di coccio A questo punto potremmo certo tentare di redigere – nella migliore tradizione del self-help – un catalogo dei sintomi che dovrebbero preoccupare un genitore. Ma il mondo è pieno di manualetti e articoli per ogni gusto che raccontano proprio questo genere di cose e spiegano per filo e per segno tutto quello che in teoria sarebbe utile sapere per allarmarsi al punto giusto. In queste pagine mi sembra invece molto più utile impegnarmi a promuovere una visione più nitida dell’influenza che la cultura dominante può esercitare sul nostro modo di guardare alla salute mentale dei figli e alle loro possibili fragilità. Certo, quando il cielo si rabbuia e la nuvolaglia del trauma si addensa sulle loro teste, non è facile capire sempre che cosa stia accadendo, se sia il caso di preoccuparsi o meno, e soprattutto come si debba agire. A volte è davvero utile chiedere consiglio a professionisti esperti. Ma abbiamo anche visto che il contatto con l’ambiente di cura non è mai “neutro”, e anzi spesso risente in modo massiccio delle mode culturali del momento, delle sensibilità mutevoli dei medici, delle specializzazioni stagionali. Con il risultato che non è così semplice “proteggersi” nemmeno dalla tendenza pessimistica dei professionisti – psichiatri o psicologi che siano – a ritenere che i bambini esposti a esperienze traumatiche non abbiano i mezzi per superarle da soli. E se si capita in certi ambienti clinici, il piccolo paziente rischia di beccarsi una diagnosi di disturbo post-traumatico anche se è il più coriaceo e corazzato caterpillar che madre natura abbia posto in terra. È quella che molti studiosi dei meccanismi in ambi49­­­­

to sanitario, e in particolare nel campo della salute mentale, chiamano “sindrome del chiodo e del martello”10. Ogni clinico affronta il paziente con una serie di pregiudizi e convinzioni di massima sulla realtà delle cose, e con una serie di dispositivi nella manica per curare le persone. Spesso il clinico è del tutto inconsapevole che il proprio angolo di visuale è limitato, e crede dunque di vedere la “realtà” proprio così com’è, in termini oggettivi. Ci sono gli esperti di trattamenti cognitivi, gli esperti di tecniche di rilassamento, di psicologia del profondo, di terapie di gruppo, e anche gli esperti di farmaci. Ciascuno brandisce il proprio martello, e appunto perché in mano ha un martello, il rischio più grave che corre è di scambiare per un chiodo chiunque entri dalla porta del suo studio. Il pericolo, in altre parole, è che egli non abbia a disposizione abbastanza strumenti per comprendere quando l’azione perentoria della sua scienza dovrà abdicare, indirizzando il paziente a chi abbia competenze diverse dalle sue, e magari una visione più ampia. Si tratta di un meccanismo estremamente diffuso, che tocca tutte le figure professionali nel campo delle relazioni di aiuto (compreso il sottoscritto) e che tende ad essere più tenace nel caso di professionisti esperti. Vale a dire di professionisti che s’identificano totalmente con la propria professione, facendo del proprio personale martello uno strumento di vanto e riconoscimento sociale. D’altra parte si è anche mostrato come il meccanismo chiodo-martello rifletta a livello individuale uno degli aspetti più problematici della diffusione istituzionalizzata del modello biomedico delle scienze psicologico-psichiatriche. L’idea – certo molto discutibile – che le condizioni di sofferenza siano malattie e che le malattie siano “archetipi” costruiti su costanti biologiche universali, buone per tutte le latitudini e per tutti gli angoli della terra (un bambino deJ.S. Lyons, Redressing the Emperor. Improving Our Children’s Public Mental Health System, Praeger, Westport, 2004. 10

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presso ha più o meno gli stessi sintomi in Argentina, Angola e Germania) ha anche finito per promuovere l’adozione di programmi trattamentali standardizzati. Sebbene un servizio di salute mentale (per esempio, in Italia, la neuropsichiatria infantile) debba essere teoricamente in grado di rispondere all’intero spettro di bisogni della salute neuropsichica, di fatto il sistema dei finanziamenti pubblici e dell’accreditamento funziona in modo tale da privilegiare pochi programmi (cioè percorsi clinici privilegiati) di trattamento, sviluppati su tecniche terapeutiche specifiche e su aree cliniche più o meno circoscritte. Così che gli utenti di quel servizio – che è in grado di offrire solo una gamma ristretta di percorsi clinici – avranno maggiori probabilità di diventare chiodi sotto l’azione del martello sbagliato. Così, per tornare al trauma, è esperienza comune di molti di coloro che lavorano nel campo della salute mentale notare che le équipe o i centri specializzati nel trattamento di disturbi post-traumatici sono molto più esposti al rischio di considerare traumatizzati bambini che in altri centri meno specificamente orientati (vale a dire meno selettivi sul tipo di strumento da impugnare, sul tipo di martello) avrebbero forse ricevuto un altro tipo di ascolto, di risposte, di diagnosi e di cure. Non solo. Le persone, in un contesto di cura, sono indotte a comportarsi da bravi pazienti; acquisiscono rapidamente le competenze per dire ai clinici ciò che essi si aspettano di sentirsi dire, per usare le parole corrette, per essere come l’istituzione li vuole. E questo meccanismo è ancora più complesso, “vero” e scivoloso nel caso di bambini e adolescenti, fra i quali il fenomeno è reso più opaco dalla “mediazione”, operata dai genitori, nel racconto della loro sofferenza. Così, il rischio maggiore che corre chi insieme a un figlio si rivolge a un centro iperspecializzato è quello di fare la fine del chiodo. Cosa sarebbe lecito attendersi dunque da un professionista che ascolti un genitore preoccupato per un possibile trauma del figlio? 51­­­­

Le risposte a questa domanda potrebbero essere moltissime. Tuttavia se uno dei rischi maggiori connessi al tema dei disturbi post-traumatici è che la psichiatria ponga un’enfasi eccessiva sul trauma e sulle sue indelebili conseguenze, allora un approccio “positivo” all’idea di salute mentale dovrebbe promuovere non già la domanda quali sono le conseguenze negative di un evento possibilmente traumatico?, ma piuttosto che cosa è stato l’evento in sé? Che tipo di visione del mondo ha presentato? In che modo è possibile utilizzare questo evento come punto di forza nella vita del figlio? I bambini e le loro famiglie possiedono uno straordinario potenziale di energie per superare le asperità più dure della vita. Una psichiatria e una psicologia che non sappiano affrontare questi temi con le famiglie, e che non sappiano investire sulla loro capacità di trasformare in opportunità di miglioramento i momenti anche faticosi connessi ai traumi, rischiano di diventare discipline che lavorano alla promozione attiva della cultura della traumatizzabilità di massa. Investire sulle risorse degli individui non è semplice. Richiede di dedicare un’attenzione specifica ai loro punti di forza e necessita di una sensibilità rivolta prima di tutto a comprendere in che senso un certo evento, che è stato vissuto come traumatico, abbia intaccato l’idea di “vita buona” di quella famiglia, cioè le aspirazioni del figlio e dei genitori, le relazioni tra questi diversi tipi di “orizzonti” e la possibilità che sulle loro intersezioni si creino appoggi saldi per i passi futuri. Per fare ciò è necessario che genitori e clinici resistano all’idea facile, oggi di moda, che ogni piccolo evento, anche il più insignificante, di certo segnerà un figlio a vita. È perciò essenziale che non ci si accontenti di una diagnosi burocratica, raccolta con lenti sfocate, attraverso la somma di qualche sintomo e qualche lamentela. Rifiutare questo approccio non significa affatto proporre una sorta di cultura marziale pseudospartana, che inneggi a temprare i figli a furia di botte e umiliazioni. Si tratta piuttosto di comprendere che la cura per le possibili conseguenze 52­­­­

di un evento “traumatico” passa prima di tutto attraverso un’attenzione scrupolosa e responsabile alle parole che usiamo tutti i giorni, alle frasi che scegliamo per descrivere ciò che ci accade. Pensare a un figlio come a un vaso di coccio tra vasi di ferro significa già predisporre le condizioni del suo fallimento. Significa relegarlo alla triste carriera di un personaggio che in altri tempi fu letterario, ma che oggi sarebbe più adatto a calcare la scena di molta commedia italiana, nel ruolo di una donna nevrotica (con nevrosi prese a prestito da malattie di cinquant’anni prima) o di un uomo più scemo dei suoi peggiori stereotipi. Sta a noi scegliere la sceneggiatura che vogliamo vivere. La consapevolezza che ogni ferita psichica può potenzialmente essere guarita è la fonte di un riscatto e di uno “sviluppo” duraturo e solido.

3.

L’epidemia della felicità e il mito della salute mentale dei figli

1. Di cosa parliamo, a volte, quando parliamo della felicità Il maestro di tennis sostiene che il biondino di undici anni – voti scricchiolanti a scuola ma apparentemente molti follower su Instagram e molti amici su Facebook – è scarso non perché, dice, sia mongoloide, ma perché non si impegna, è svogliato e, se si cerca di scuoterlo, quello si ritira ancora di più, rinuncia, si oscura. E riferisce tutto questo al padre del biondino, davanti al biondino, dopo avergli lanciato la racchetta contro le reti di protezione, nel vano tentativo di svegliare i suoi nervi, di cavarne una reazione. Invece no. Dice: è qualcosa di più del semplice non avere le palle – qualunque cosa voglia dire esattamente “non avere le palle” –, e i genitori lo portino da qualcuno, ma da qualcuno serio, che qui sotto se non è depressione poco ci manca. Comunque sia, il padre – che da tempo si era persuaso che sarebbe stato forse il caso di orientare il figlio verso qualcosa di più tranquillo (magari la passione per il golf) – si risolve a parlarne con la moglie. Presto il conciliabolo si spande a macchia d’olio tra parenti, amiche di lei, colleghi di lui, lo psicologo scolastico e le altre mamme dei compagni di scuola, così che il giro concitato dei consigli e delle ammonizioni si risolve infine in un foglietto di carta piegato sul quale è trascritto il numero di uno psichiatra infantile. In che senso è lecito attendersi che i figli siano felici? E fino a che punto possiamo sperare che lo siano senza dover ricorrere a cure psicologiche o psichiatriche? 54­­­­

A osservare gli spettacoli pubblici, si direbbe che l’asticella della felicità sia stata posizionata piuttosto in alto. Prendi il film d’animazione Inside Out per esempio, grande successo da molti osannato come raffinata metafora sulla fine dell’infanzia. Gli occhi della neonata Riley si aprono su una scena familiare appena sfocata, ed ecco che, sull’orizzonte mentale della piccola fa subito la sua comparsa la Gioia. La situazione è chiara fin dall’inquadratura iniziale del film: la nostra esistenza è, o meglio, dovrebbe essere, fondata sulla felicità. In realtà, il film è costruito come una tesi sulla positività della Tristezza, raffigurata però come una ragazzotta bruttina e in sovrappeso che irrompe nella scena appena pochi istanti dopo la sua controparte fighetta (tanto per chiarire a tutti i bambini che grasso è sempre e comunque brutto). La tristezza, propone il film, non sarà bella, ma almeno è utile. In ogni caso, sempre meglio essere tristi che arrabbiati. Senza tristezza non ci può essere pensiero, riflessione, pentimento, ma solo rabbia e impulsività. Nondimeno questi elementi di psicologia da magazine non bastano a cancellare il messaggio subliminale che inevitabilmente si afferma: la “vita buona” della Riley di Inside Out non è semplicemente una vita in cui tristezza e gioia intrattengono un equilibrio “neutro” bilanciandosi a vicenda. La positività della tristezza, infatti, ha senso solo ed esclusivamente a condizione di accettare che la felicità sia lo stato mentale “di base”, atteso e desiderato. Il minimo sindacale per una “vita buona”. Anzi, in termini ancora più radicali, il nucleo essenziale delle esperienze umane. Come spesso accade, sotto la veste di una verità inconfutabile si celano compromessi insidiosi: chi di noi, in fondo, potrebbe pensare che l’assenza di felicità sia compatibile con una “vita buona”? E chi potrebbe affermare che la felicità possa trovarsi in contrasto con una “vita buona”? Ma, potremmo dire rovesciando l’argomento, quali sono le condizioni per cui una persona dominata dal sentimento 55­­­­

della “felicità” ottiene di costruire una “vita buona”? In che senso la felicità dei figli è una condizione imprescindibile a una “vita buona”? In che modo, cioè, la qualità della loro vita dipende da quanto si sentono felici? E felici di cosa, per cosa, in rapporto a cosa? Nel film Matrix il mondo “reale” – quello che si rivela allo sguardo di Neo, dopo che ha ingoiato la pillola rossa – è una dimensione oscura dove le macchine hanno schiavizzato gli umani, riducendoli a larve imprigionate in celle ovoidali, attaccate a elettrodi che ne sfruttano l’energia psichica ed elettrobiologica. Per “tenerseli buoni”, le macchine fanno vivere agli umani una realtà virtuale che ai loro occhi sembra semplicemente in tutto e per tutto “reale”. Ma, si chiedeva già nel 1974 il filosofo Robert Nozik1, “immaginatevi ci sia una macchina in grado di farvi vivere l’esperienza che volete voi [...] e naturalmente, mentre la vivete, non sapete di essere attaccati a una macchina. Passereste la vita sospesi in una bolla, attaccati a degli elettrodi [...]?”. Sceglieremmo di attaccarci a una macchina, purché ci riservi solo ed esclusivamente esperienze positive? Saremmo e ci definiremmo felici? La maggior parte delle persone forse risponderebbe di no, dal momento che la felicità non è uguale al godimento: non si riduce e non si limita a un’esperienza piacevole. 2. Una vita piena di esperienze positive è una vita felice? La felicità, argomenta David Sosa2, sembra simile a una forma di conoscenza più che alla pura emozione. Non è lo stato di piacere raggiunto dal tossicomane cronico che – per sua fortuna o sfortuna – non abbia mai patito nessun effetto colIn R. Nozik, Anarchia Stato Utopia, Il Saggiatore, Milano, 2008. D. Sosa, The Spoils of Happiness, “The New York Times”, 20 ottobre 2010. 1 2

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laterale o nessuna crisi di astinenza. Ha bisogno del mondo circostante, per esistere: non dipende solo dall’individuo. Una realtà esterna fatta di relazioni sociali è necessaria affinché i sentimenti possano prendere la forma della “felicità”, in una narrazione che necessariamente include “l’altro” come parte integrante del racconto. Lo sostiene del resto anche uno studio, condotto dall’Università di Harvard, durato per oltre settantacinque anni e attualmente diretto da Robert Waldinger: il fattore in grado di predire con maggiore accuratezza il nostro livello di felicità nel futuro non è la ricchezza, bensì la qualità delle relazioni affettive rilevanti. In un certo senso, la felicità dipende dagli altri. Naturalmente la questione centrale qui è: che cosa serve oggi ai nostri figli per essere felici e non vi è dubbio che ogni famiglia abbia una propria personale visione della felicità. Tuttavia, è sin troppo facile comprendere come il nostro modo di definire la felicità dipenda in buona parte dalle coordinate ideologiche che governano la società. Dalle relazioni che ogni famiglia intesse con gli altri e dalle “priorità” su cui si fondano. Se l’idea di “vita buona” è per ogni famiglia un fatto intimo, essa però inevitabilmente dipende anche da un insieme di “valori” pubblici che definiscono che cosa è giusto aspettarsi e a che cosa ciascuno di noi dovrebbe aspirare. I sociologi e i filosofi lo hanno detto a chiare lettere: viviamo in una società che è passata dal modello del dovere a quello della possibilità. Il giogo che domina la nostra felicità non è più l’obbligo morale connesso a determinati doveri, bensì l’imperativo d’essere apprezzati, cool e di successo, alla ricerca costante di una nuova identità. Il sistema che misura il nostro grado di felicità ha le sembianze di un tagadà che gira a velocità doppia, sul quale è possibile mantenere l’equilibrio solo cambiando posizione ogni pochi istanti. Questo meccanismo gioca un ruolo importante nella formulazione di cosa sia oggi la salute mentale per ciascuno di 57­­­­

noi e per i nostri figli. La nebbia digitale in cui sono immersi bambini e adolescenti sta dissolvendo l’idea stessa di spazio come luogo dove esistere, come elemento che demarca, delimita e circoscrive. E allo stesso modo si dissolve anche l’idea di tempo, dimensione sempre più compressa dai nuovi moltiplicatori che la rendono reversibile: undo, redo, refresh, cancella la cronologia. La natura stessa dell’azione, intesa come cambiamento che incide sulla realtà e genera nuovi inizi, è così minata alla base. Proprio per questo motivo agire è divenuto un’ingiunzione morale che incarna l’idea stessa di come ci si aspetta che siano le persone felici: sempre attive, piene di iniziative, interessi, amicizie, contatti, programmi. Chi si ferma è perduto. Una rete di coordinate nelle quali – come abbiamo visto – non si fatica a scorgere le radici delle molte irrequietezze dei figli, ma anche, allo stesso tempo, di un senso di profonda e angosciante alienazione. Si tratta di un sentimento diffuso e pervasivo, che trascende il campo delle esperienze individuali dei figli e riguarda ormai la società nel suo complesso. Non a caso, il marketing ha adottato il mito delle isole di decelerazione (le dolci strade dell’Alaska o dell’ambìto Chiantishire, sulle quali scivola il nostro suv, nel vuoto pneumatico) come riferimento aspirazionale per prendere alla gola lo spirito mesto dei consumatori accelerati. Una dialettica potente e contraddittoria, dove l’oggetto del desiderio – l’isola felice dove tutto è tornato ad essere calmo, pacifico, naturale e “a misura d’uomo” – può essere ottenuto solo al termine di una corsa convulsa verso obiettivi sempre nuovi (ottenere lo stipendio che mi consentirà di guadagnare abbastanza per comprarmi un fuoristrada, una villa sperduta, una muta di levrieri). Una dialettica frustrante e puntualmente fallimentare, dal momento che il suv consentirà, nella migliore delle ipotesi, di nascondere dietro lo schermo di una calma apparente una vita incasinata. Miracoli dell’immaginazione in una società che vive di consolazioni fittizie. 58­­­­

Non a caso, la retorica decelerazionista del chilometro zero, del naturale e del bio si sposa alla perfezione con quelle nicchie di consolazione a colpi di tisana, salus per aquam e molte fibre, che ormai costituiscono la vetta delle esperienze afrodisiache del borghese tardo-moderno. Il momento di relax – meglio se esclusivo o esclusivissimo – come apice tristemente rassegnato alle pratiche di un individualismo che è al tempo stesso la matrice fondamentale dell’accelerazione sociale e il suo approdo esausto. Possibile dunque – si chiede Rosa – che la diffusione di malattie come la depressione non sia altro che la conseguenza naturale al mandato ideologico dell’accelerazione sociale? La forma che l’alienazione sociale imprime alla vita delle persone, nelle sue varianti di tristezza, umore biliare, accidia e melancolia? 3. Sul modo in cui quello che ci aspettiamo dai bambini rende la loro felicità obbligata e irraggiungibile Quando tali dinamiche toccano il dominio dell’infanzia e il modo in cui la società intende i valori di cura e tutela della salute mentale dei figli, si scatena un corto circuito che le amplifica enormemente. La felicità è l’imperativo esistenziale di ogni bambino proprio nella misura in cui il suo “posto idea­ le” nella società è quello del fanciullino intoccabile, l’angelo innocente, infinitamente buono e appagato. Come la Riley di Inside Out, appunto, nata sotto forma di un’istanza di pura “felicità”. Questa rappresentazione romantica dell’infanzia è così radicata nel nostro modo d’intendere la distinzione stessa tra adulti e bambini da apparire ovvia e priva di qualunque fardello ideologico. Al contrario, esiste ormai un’imponente tradizione sociologica e di critica culturale che mostra come non vi sia nulla di naturale nel nostro modo di rappresentare l’infanzia. Non c’è niente di ovvio nel modo in cui le persone immaginano le cosiddette “cure parentali”, e l’idea che i figli 59­­­­

siano creature incorruttibili, oggetti d’amore cui va dedicata la più devota attenzione, non è il frutto scontato e banale della nostra presunta “civilizzazione”3. Piuttosto, una simile immagine funziona oggi particolarmente bene perché i bambini incarnano a pieno l’“Altro” cui nascondere lo spettacolo osceno della realtà degli adulti, l’Altro che creda ai valori e ai principi che ostentiamo in pubblico, così che possiamo continuare a trasgredirli in privato. Le cose peggiori possono essere dette o fatte, in nome dell’infanzia. Un padre sa bene che le tasse che evade oggi domani ricadranno sul debito del figlio. Sa bene che la plastica disciolta nel mare oggi se la rimangerà domani il figlio, o i suoi nipoti. Ma proprio lo scollamento tra il figlio reale e la sua funzione astratta e nobile di un Altro che ci giudica “da fuori” consente al genitore di continuare a trasgredire nel privato la legge che ufficialmente appoggia per il figlio, schierandosi nel dibattito pubblico contro qualunque possibile minaccia all’integrità della creatura. Ciò rende ragione del fatto che ciò che affermiamo di fare per loro lo facciamo in realtà prima di tutto per noi. Prendersi cura dei figli infatti costringe a rapportarsi con l’immagine ideale dell’infanzia. Ma questa immagine ha ben poco a che fare con il modo in cui i figli realmente sono. La controparte ovvia di questo meccanismo è la convinzione che i bambini siano vittime ideali da proteggere. L’infanzia minacciata da infiniti traumi e violenze è il complemento necessario della sua rappresentazione patinata pronta per la pubblicità. Non a caso, la sola alternativa possibile alla rappresentazione dei bambini-vittime è quella dei bambini “aumentati” del marketing. Ammiccanti come bambole, agghindati come fotomodelli, capricciosi quel tanto che basta da spremere negli adulti sino all’ultima goccia del loro “virtuosismo P. Jones, Rethinking Childhood. Attitudes in Contemporary Society, Continuum, London, 2009. 3

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parentale” – che poi altro non è che il motivo per cui la vista di un cucciolo qualunque di una qualunque specie induce in noi un istinto apparentemente naturale di cura e tenerezza. Ciò spiega come la sacrosanta aspettativa che il bambino viva una vita sana finisce per confondersi con l’aspettativa che il bambino sappia vivere una vita ricca di appagamenti – gli stessi appagamenti frenetici, volatili e inconsistenti che caratterizzano il mondo degli adulti. Non a caso, l’industria dei bisogni infantili è ancora una delle poche economie in espansione nei Paesi occidentali, e i discorsi su questi bisogni sono al centro delle discussioni politiche, culturali ed economiche di ogni società evoluta. Chi, del resto, potrebbe contestare l’affermazione che “i figli hanno bisogno d’amore” o che i figli (i bambini) “meritano una vita felice”? In realtà, ciò che chiamiamo “bisogni dei figli” non è qualcosa che i bambini possiedono “per natura” e che viene sottratto loro, bensì qualcosa che, nella maggior parte dei casi, è attribuito loro in modo del tutto arbitrario. Quando parliamo di bisogni dei figli – sostiene Woodhead4 – parliamo di almeno quattro diversi tipi di bisogni. Il bisogno di avere genitori capaci e presenti – indispensabile per come intendiamo uno sviluppo psicologico sano. Il bisogno di garantire esperienze che in base ai nostri valori culturali riteniamo “adattative”, per esempio vivere in una città con molte aree verdi. Il bisogno di raggiungere obiettivi socialmente desiderabili, come riuscire nello sport e avere tanti amici. Il bisogno, infine, di avere a disposizione tutti quegli strumenti che, in base alla cultura sanitaria dominante, possono contrastare l’insorgenza di problemi psicologici – per esempio proteggendosi dai traumi. Non sfugge così che proprio perché l’infanzia è un costrutto fortemente mediato dal punto di vista culturale, l’idea 4 In A. James, A. Prout, Constructing and Reconstructing Childhood. Contemporary Issue in the Sociological Study of Childhood, Routledge, LondonNew York, 1997.

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stessa di uno sviluppo normale dei figli, di una evoluzione “sana” della loro crescita psicologica, ha sempre posto questioni immediatamente rilevanti anche sul piano delle politiche sociali e sanitarie. Stabilire quante parole è “giusto” che in terza elementare un bambino riesca a leggere nell’arco di un minuto a partire da un brano standardizzato determinerà quanti bambini nella sua classe dovremo considerare dislessici, ossia quanti soldi la società dovrà sborsare per ogni classe, per i programmi di riabilitazione, di logopedia e per l’erogazione delle cure. Ed è facile dunque comprendere come questo campo dei “bisogni” infantili (percepiti come tali perché legati, secondo criteri sanitari, ai comportamenti attesi) sia un dominio ove si sono condensate pressioni e distorsioni molto tenaci. Non esiste forse salute mentale senza una sensazione personale di appagamento tale da indurre in noi anche sentimenti di felicità. Ma il “luogo” in cui ci collochiamo rispetto ai valori che determinano questi appagamenti dipende da noi, da ciascuna famiglia. Le famiglie sono il posto dove si costrui­ sce, in ogni società, l’idea – e la possibilità stessa – di una cura adeguata per la salute mentale. E il rischio principale che corriamo è quello di saturare la vita di aspettative distorte che, seppure “funzionali” e in linea con le coordinate ideologiche dominanti, finiscono per contribuire a far sentire noi e i nostri figli sempre più disorientati e insicuri, insoddisfatti e tristi. Un ottimo modo per diventare in prima persona artefici di quella patologizzazione della normalità tanto denunciata dalle associazioni antipsichiatriche come effetto degli interessi dell’industria farmaceutica a danno dei cittadini. Non sarà, così, che l’epidemia di tristezza che secondo molti ha colpito i bambini e gli adolescenti delle società evolute – quella forma di tristezza diffusa che li colpisce nonostante facciamo di tutto per renderli felici5, e che ha S. Palmer, Toxic Childhood. How the Modern World Is Damaging Our Children and What We Can Do About It, Orion Books, London, 2007. 5

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fatto sì che nei Paesi occidentali la diagnosi di depressione infantile sia in costante crescita – esista invece proprio perché facciamo di tutto per rendere i figli felici? Non sarà, in altre parole, che la percezione di una crescente tristezza dei figli abbia a che fare con l’aspettativa irrealistica che debbano essere perennemente satolli, appagati, ed euforici? Che alla speranza di essere felici si rinunci nel momento stesso in cui la felicità è imposta come imperativo morale? Che la martellante ingiunzione ideologica godi! divertiti! comprometta la possibilità stessa di un orizzonte di felicità, così che ciascuno di noi vive sulla propria pelle la sensazione bruciante e quotidiana di una mancanza fondamentale e irreparabile? In Gattaca (un film di Andrew Niccol del 1997) una società del futuro che pare uscita da una sfilata di Armani è governata da caste sociali che si distinguono per la qualità del codice genetico. Pagando la giusta somma di denaro, ogni coppia di genitori può decidere a tavolino quali saranno le caratteristiche del figlio futuro, dall’aspetto fisico alle inclinazioni, dall’intelligenza al carattere. Che tipo di personalità sceglieremmo per i nostri figli, se avessimo la possibilità di farlo? E che rapporto avrebbe questa nostra scelta con la loro “felicità”? Questo scenario distopico ci costringe a constatare che l’imperativo della felicità – che così pericolosamente s’insinua nell’idea stessa di salute mentale – diventa un dispositivo opaco e “mostruoso” proprio nel momento in cui viene “naturalizzato” e interpretato come una sorta di qualità obbligata e necessaria dell’esistenza. Si fa presto a comprendere come una vita meno che “felice” e appagata (qualunque cosa sia a questo punto, per ogni famiglia, la felicità) rischi di essere percepita come un’esistenza potenzialmente sinistra e insidiosa. Da sottoporre cioè, con ogni opportuna sollecitudine, all’esame di un esperto di salute mentale.

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4. Il limite ambiguo tra salute e disturbo mentale e il modo in cui la psichiatria non aiuta davvero a distinguere le cose Lo dice anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità: è necessario non confondere il campo della salute mentale con quello della cura delle patologie psichiche. Trattare le malattie psichiche dovrebbe essere solo una parte della cultura sociale che sostiene e promuove la salute mentale. Nondimeno abbiamo visto che il confine tra i discorsi sulla salute mentale e l’idea che abbiamo dei disturbi psichici è molto labile: i due campi se ne stanno gomito a gomito, si confondono e si sovrappongono come la figura e lo sfondo in un disegno di Escher. E certo non si può negare che la psichiatria e la neuropsichiatria infantile abbiano giocato un ruolo particolarmente insidioso in questa “incertezza”. Negli ultimi sessant’anni si è assistito a una vera e propria moltiplicazione delle diagnosi psichiatriche (il numero di malattie riconosciute dal dsm), che sono passate dalle 182 dichiarate nella seconda edizione del manuale alle 265 della terza edizione (1994), fino a raggiungere il numero di ben 392 nel dsm-5. Tutto ciò senza che in realtà alcuna di esse sia il frutto di una vera e propria “scoperta scientifica”6. Il metodo con cui queste patologie sono organizzate e classificate dipende infatti pressoché esclusivamente dagli orientamenti dell’American Psychiatric Association, ove un comitato scientifico mette letteralmente al voto l’inclusione o l’esclusione di una certa patologia dall’elenco ufficiale. Sui fondamenti scientifici di questa pratica pesa il giudizio definitivo espresso da Allen Frances, membro, sino a pochi anni fa, dell’American Psychiatric Association: “Purtroppo ho letto alcune decine di definizioni di disturbo mentale [...] E posso dire che nessuna ha il benché minimo valore. [...] A. Frances, La diagnosi in psichiatria. Ripensare il dsm-5, Raffaello Cortina, Milano, 2014. 6

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Inoltre il concetto di disturbo mentale è così amorfo, multiforme ed eterogeneo che sfugge strutturalmente a ogni possibile definizione. È un buco al centro della classificazione psichiatrica”7. Come abbiamo visto, non vi è praticamente nessuna delle cosiddette “patologie psichiatriche dell’infanzia” – nemmeno quelle pomposamente ribattezzate malattie del “neurosviluppo” (che dovrebbero cioè dipendere da anomalie nell’organizzazione e nel funzionamento del cervello), come l’autismo e l’adhd – sulle quali vi sia un comune consenso sulle cause e sui presunti meccanismi patologici coinvolti. Bisognerebbe dunque avere l’onestà di ammettere che la psichiatria ha finora fallito nel progetto di determinare con precisione le cause cerebrali dei disturbi mentali. Scrive Frances: “È probabile che ci siano centinaia di percorsi che portano alla schizofrenia, non soltanto uno o pochi, e forse non hanno nemmeno un esito finale comune”. Questo stato di cose è alla base di una condizione molto ambigua. Attualmente, per essere considerato affetto da depressione, un bambino o un adolescente deve manifestare per un certo numero di settimane una serie di sintomi. Tra gli altri, sono adottati come criteri diagnostici la tristezza prolungata, la perdita di capacità di apprezzare le cose di tutti i giorni e una generale stanchezza. Nel caso dei bambini si aggiungono anche l’intrattabilità e l’instabilità emotiva. Tuttavia è evidente che non vi sono ragioni “forti” o scientificamente solide per cui una certa quantità o insieme di sintomi ricorrenti per un determinato numero di settimane diventi “una malattia”, mentre la manifestazione degli stessi sintomi (magari attenuati) per un periodo inferiore corrisponda a una generica “tristezza”. Tutti i bambini e gli adolescenti sono o possono essere tristi, per pochi istanti o anche per periodi In M. Colucci (a cura di), Aut Aut. La diagnosi in psichiatria, Il Saggiatore, Milano, 2013, p. 105. 7

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prolungati. Ma solo pochissimi tra loro soffrono di una vera depressione. Il paradosso qui è che anni di ricerche cliniche in campo psichiatrico e neuropsichiatrico infantile sembrano aver confuso ancora di più le carte rispetto a ciò che è normale e ciò che è patologico. Se infatti i sintomi che ci rendono malati sono presenti in gradi minimi anche nella nostra vita normale, allora la differenza tra le due condizioni – salute e malattia – si fa sfumata e incerta. Così se il sintomo tristezza (la manifestazione di un bambino depresso) e il deficit tristezza (il sentimento di un bambino “normale” ma triste) sono l’espressione continua dei diversi possibili modi di essere di ogni individuo, rischieremo di radicare il patologico nel normale, con buona pace di ogni classificazione medica8. Si riproduce qui lo stesso dilemma che abbiamo visto anche per l’adhd nel capitolo 1. Se adottiamo un criterio rigido per distinguere normale e patologico sarà tutto più chiaro, forse, ma non avremo tenuto conto del fatto che il sentimento di tristezza è comune e appartiene alla vita di ogni persona, presentandosi per gradi, in una specie di “scala continua”. Se d’altra parte accettiamo che una tristezza prolungata e intensa possa comportare un deficit e uno svantaggio, rischieremo di accedere alle cure non in quanto malati ma, più semplicemente, per migliorarci in qualche cosa, alleggerirci di un peso, smussare un difetto. Rischieremo di tentare di curare ciò che in realtà è del tutto normale, e non una patologia nel senso rigido e “biologico” che vorrebbe prospettarci la medicina. È evidente che il passo tra una psichiatria che si propone di curare le persone ammalate e una psichiatria che sceglie invece di lenire le infinite e personalissime declinazioni degli intoppi esistenziali è molto breve e incerto. Così, nonostante lo sforzo delle scienze mediche di definire i margini entro i quali sia “giustificata” una diagnosi di depressione (un certo numero

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Ibidem.

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di sintomi per un certo numero di settimane, con conseguente senso di disagio in molti contesti diversi), il confine tra normalità e patologia continua a rivelarsi alquanto ambiguo. Il neuropsichiatra infantile (e lo psichiatra) potrebbe qui obiettare che la psichiatria si mette al riparo dal rischio di elargire diagnosi con eccessiva facilità, attraverso la somministrazione di test specifici. Se il risultato del test è positivo, allora sarà probabile che quella persona sia ammalata. Ma anche qui affiorano le contraddizioni e le fragilità di questa disciplina. Infatti, poiché non esistono (per quasi nessuna patologia psichiatrica) test medici “obiettivi” in grado di produrre una diagnosi certa (non esiste alcuno scan cerebrale o esame del sangue o altro dispositivo tecnologico utile), la psichiatria ha elaborato questionari, dedicati ai pazienti e ai genitori, i cui punteggi finali suggeriscono l’appartenenza a determinate categorie diagnostiche. Le falle di questo sistema sono però palesi. In primo luogo, i resoconti dei pazienti riguardano stati mentali privatissimi e soggettivi che nei questionari finiscono inevitabilmente per perdere quel carattere di individualità e unicità che avrebbe invece garantito un libero racconto. Come descrive con grande chiarezza Sami Timimi9, lo psichiatra finisce così per tradurre la storia umana del paziente in una sua versione “standardizzata”, ove si stabilisce a priori quali parole, quali stati d’animo sono ammessi e quali invece saranno ignorati. Un procedimento nel quale non si fatica a scorgere i pericolosissimi cortocircuiti tipici dei meccanismi di potere, dove la lingua tecnico-scientifica interferisce sul modo stesso con cui le persone si raccontano e interpretano le proprie esperienze. In secondo luogo, per ragioni statistiche, i questionari sono tanto più accurati quanto più è ristretto il loro campo d’indagine, cioè quanto più è ridotto l’angolo di visuale da S. Timimi, A Straight Talking Introduction to Children’s Mental Health Problems, pccs Books, Monmouth, 2009. 9

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cui guardano il paziente. I questionari migliori vedono poche cose, e di solito vedono ciò che il clinico sta cercando. In tal modo si riproduce qui, sulla carta, il meccanismo del chiodo e del martello di cui si è parlato nel capitolo precedente. Infine, se un certo test serve per stabilire, per esempio, quante persone tristi sono depresse e dunque quante di loro potrebbero aver bisogno di una terapia farmacologica, non si fatica a immaginare che esistano interessi molto rilevanti per chi “inventa” i test e stabilisce i valori “soglia” che consentono di discriminare chi è normale da chi non lo è. Del resto, la storia della psichiatria è anche la storia di un mercato in cui le case farmaceutiche hanno flirtato a lungo con l’ambigua distinzione tra malattia e disagio, tra terapia e lenimento, tra farmaco ed elisir della felicità. La stessa definizione di Mother Little Helper (Piccolo aiutante di mamma), utilizzata nei Sixties per indicare gli ansiolitici, la dice lunga su quanto, nell’immaginario collettivo, essi rappresentassero non già una terapia specialistica prescritta per curare una certa malattia, ma piuttosto il lenimento sacrosanto in una vita stressante. Non una cosa da poco, se si considera che tra il 1969 e 1982 il Valium (il patriarca di tutti gli ansiolitici “pop”) è il farmaco più prescritto negli Stati Uniti, e che la maggior parte delle prescrizioni sono effettuate da medici generici, ginecologi e pediatri, e non da psichiatri. Nel solo 1978 si consumano 2,3 miliardi di dosi, e nel 1980 la fda (Food and Drug Administration, l’agenzia americana che regola il mercato dei farmaci) impone alla casa farmaceutica di indicare nel foglietto illustrativo che “l’ansia e la tensione associate allo stress della vita di tutti i giorni generalmente non necessitano di una terapia con farmaci ansiolitici”. Con il risultato che, due anni dopo, il Valium passa al secondo posto della classifica dei farmaci più venduti, soppiantato da una medicina contro il mal di stomaco10. P. Adamo, S. Benzoni, Psychofarmers. Dizionario illustrato della felicità e dell’oblio, Isbn Edizioni, Milano, 2013. 10

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Dare un’occhiata alle pubblicità degli psicofarmaci degli ultimi cinquant’anni (in Europa sono vietate, ma negli Stati Uniti sono state a lungo permesse) rende l’idea meglio di qualunque discorso: si troveranno immagini di donne sole e disperate, che dopo l’assunzione della pillola magica sorridono liete in campi fioriti; anziani signori inquieti che grazie a poche gocce di medicinale sono ricondotti al mite (e socialmente “opportuno”) ruolo di nonni e giocano con i nipoti; manager esausti e stressati cui il portentoso farmaco restituisce cravatta e smagliante performatività. Si scorgono qui, peraltro, le radici di quella profonda ambiguità della psichiatria sul cosiddetto “stigma”, cioè la denigrazione che i cittadini “normali” riserverebbero ai poveri malati psichici – per timore della follia, perché li sentono “diversi”, ecc. –, i quali soffrirebbero così due volte: per la malattia, e per il cattivo trattamento che riserva loro la società, facendoli sentire, appunto, “stigmatizzati”. Benedetto Saraceno11 fa notare qui acutamente come l’operazione della psichiatria su questo tema sia molto ambigua per almeno due motivi. Innanzitutto, parlare dello stigma significa di fatto spostare le responsabilità della “solitudine” e della sofferenza delle persone con disturbi psichici sulla “gente e la società”; il sottotesto implicito di ogni buona campagna sulla lotta allo “stigma” è: sono gli altri che stigmatizzano i malati, noi psichiatri invece li sappiamo far sentire accolti e compresi. Una posizione il cui carattere autoassolutorio va di pari passo con l’assenza di alcuna sfumatura autocritica. Inoltre l’idea della lotta allo stigma condensa in fondo tutte le ambiguità della distinzione tra normale e patologico che abbiamo illustrato sino ad ora. Il messaggio fondamentale della lotta allo stigma: i malati psichici sono persone come tutti noi implica infatti anche la sua versione complementare: c’è B. Saraceno, Discorso globale, sofferenze locali. Analisi critica del Movimento di salute mentale globale, Il Saggiatore, Milano, 2014. 11

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un pochino di matto in ogni persona normale. Non è questa esattamente l’idea che non c’è bisogno di avere una malattia psichiatrica per meritarsi una terapia farmacologica? e non è precisamente questa proposta culturale che, negli ultimi decenni, ha anche reso possibile la proliferazione spregiudicata dell’industria dei farmaci? Possiamo pure essere molto critici circa i criteri della psichiatria ufficiale su quanto deve essere intensa la tristezza di un figlio affinché abbia senso dargli delle medicine. Ma la cosa non ci renderà affatto più facile comprendere sino a che punto ha senso tollerare la sofferenza, oppure cedere all’idea che essa possa essere alleviata con qualche goccia giusta. Come si vede, il complesso rapporto tra felicità e tristezza, appagamento e frustrazione, normalità e patologia, cura e lenimento, tradisce anche la crisi del nostro modo di concepire la salute mentale. Diventa chiaro così che uno degli aspetti più paradossali degli sviluppi recenti delle scienze psichiatriche è il fatto che nei Paesi in cui sono più diffuse le pratiche di cura è aumentata l’incidenza dei disturbi mentali, anche in ambito infantile. E questo non solo – come si sarebbe forse tentati di pensare – perché in questi Paesi la maggiore attenzione sanitaria riservata a questi ambiti consente diagnosi più “accurate” e tempestive (non è la depressione infantile ad essere più frequente nei Paesi occidentali, è solo che abbiamo migliori strumenti per diagnosticarla e dunque per “contare” i pazienti): in realtà non è aumentata solo l’incidenza delle malattie psichiche, ma anche la percezione complessiva del malessere, l’insofferenza rispetto ai temi della salute, le lagnanze rispetto alla capacità di cura della medicina. Si dovrebbe forse ammettere che le patologie mentali non sono in aumento a causa di un’epidemia nel senso medico hardcore del termine, come potrebbe essere per il colera. È piuttosto assai più probabile che il loro aumento derivi dalla combinazione di due fattori tra loro interconnessi, e di cui abbiamo ampiamente discusso: la sensazione condivisa che le condizioni che consentono il raggiungimento di una “vita 70­­­­

buona” siano fragili e minacciate, e il carattere sempre più incerto di quella condizione che chiamiamo “disturbo mentale”. Depressione, ansia e attacchi di panico sono diventate parole del linguaggio comune. Il sapere psichiatrico e psicologico si è da tempo trasformato in discorso culturale di massa, e il racconto collettivo della “follia” come fatto che traspira dalla superficie porosa della “normalità” vive ormai da tempo di vita propria e gode di una visibilità degna di uno spettacolo pubblico che si rispetti. Basterebbe applicare il gioco pericoloso della diagnosi fatta in casa ai personaggi dei cartoni animati per accorgersi di quanto il nostro modo di rappresentare i comportamenti delle persone nella società possa essere saturato di parole che avrebbero invece a che fare con la cura, gli ospedali, i camici bianchi e le malattie. Charlie Brown: disturbo di personalità evitante; Helga Pataki: disturbo bipolare; SpongeBob: sindrome di WilliamsBeuren; Calvin: schizofrenia; Batman: disturbo schizoide di personalità e disturbo post-traumatico da stress; Hulk: disturbo dissociativo; Minions: adhd; Homer Simpson: disturbo esplosivo intermittente. Gli esempi si sprecano. Non sarà che, oggi, essere persone normali presupponga come controparte necessaria, come variante autoriflessiva, problemi mentali e infelicità? Una specie di elogio collettivo della devianza e dell’insoddisfazione, ormai perfettamente ritualizzato, una sorta di trasgressione controllata della legge, così privata della propria autorità? Non sarà, in altre parole, che ammettere di soffrire di un problema psicologico o psichiatrico sia semplicemente uno dei modi attraverso cui ci adattiamo alle regole della realtà che ci circonda? Un segno, per così dire, che almeno “ci stiamo provando”, che siamo inseriti in un contesto sociale, in un “tessuto” che prevede di necessità non solo trama e ordito, ma anche qualche doveroso rammendo? Non sarà, insomma, che ci sembri quasi rassicurante poter dichiarare che nostro 71­­­­

figlio è dislessico, così che almeno gli altri sappiano che l’ha visto uno psicologo, e che in effetti nostro figlio qualcosa ha, ma che tutto sommato non è niente di che, quasi che dovessimo guardarci da quelli che dicono che va semplicemente tutto bene? Il racconto personale di quelli a cui tutto va bene è accolto con diffidenza e sospetto, forse perché osano sottrarsi al mantra collettivo dell’acciacco psicologico, dell’accisa obbligata sulla nostra esistenza che – come le tasse – mal tolleriamo, ma che ci rende almeno cittadini a pieno titolo. Cittadini onesti e docili pazienti psichiatrici. È evidente ormai che la proliferazione delle diagnosi psichiatriche e la diffusione degli antidepressivi non hanno reso le persone più felici, ma, al contrario, sembrano costituire il riflesso di quella “stanchezza”, molto diffusa tra le persone e comune nelle famiglie, che oggi è diventata uno dei caratteri fondamentali dell’esperienza di ciascuno rispetto al tema della felicità e dell’appagamento personale12. Una qualità legata a doppio filo con l’accelerazione sociale e con le sue ricadute sulla vita delle persone. 5. Riprendersi una “vita buona” Un figlio in crescita è come un palazzo in costruzione. Se qualcosa interferisce con il lavoro del cantiere, il rischio è che l’edificio vacilli, oppure magari venga su storto. E quanto più tempo il palazzo trascorre in balìa di queste interferenze, tanto più i danni potranno essere strutturali e sarà difficile porvi rimedio. Per questo motivo un genitore non dovrebbe attardarsi a cercare aiuto per il figlio quando il suo malessere, comunque si presenti, comporta per lui una prolungata sofferenza e uno svantaggio personale o sociale tangibili. Si tratta di criteri seri 12 P. Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016.

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e largamente condivisi che, se “pesati” di volta in volta sui valori particolari di ogni famiglia, di solito aiutano molto a comprendere quando un certo malessere può giustificare una cura. Tuttavia per i genitori non è sempre facile decidere quale sia il momento giusto per chiedere aiuto, e ciò accade anche perché, non di rado, quanto più le famiglie sono unite, tanto più ampi sono i margini di tolleranza e compensazione “interni” alle mura domestiche. Così che, paradossalmente, di fronte alla sofferenza di un figlio i genitori prima pazientano, poi sopportano, quindi arretrano e infine si arrendono. Ed è pressoché la regola, in questo campo, che la sofferenza grave (a volte anche gravissima) di un figlio venga portata all’attenzione di un clinico quando si è già mangiata gli spazi di “vita buona” della famiglia, quando ne ha già consumato le risorse, quando ha ormai occupato ogni centimetro possibile della casa e tutti hanno alzato bandiera bianca. È un fenomeno serio e assai complesso, in cui entrano in gioco molti aspetti diversi. Ha a che fare con il livello culturale, con la sensibilizzazione ai problemi psicologici, con l’abitudine o meno a rivolgersi agli altri per chiedere aiuto, con la disponibilità a fare degli psicologi e degli psichiatri i propri interlocutori. E bisogna pure ammettere che l’immagine pubblica della psichiatria non aiuta le famiglie a compiere questo passo. Essere un poco più consapevoli del rapporto sottile e delicato che sussiste tra la ricerca di una “vita buona” e la cura della sofferenza mentale può aiutare a pretendere che psichiatri e psicologi non si limitino a riempire le caselline delle loro burocratiche griglie di sintomi, con il mero scopo di compilare alla bell’e meglio una diagnosi, una sorta di formula magica e impersonale dalla quale scaturisca, per obbligata concatenazione, una determinata terapia. Una psichiatria consapevole dei limiti in cui opera è una disciplina di aiuto che sa interrogarsi in modo limpido ed esplicito sulle molte ambiguità dei propri strumenti, nonché sulla capacità 73­­­­

di comprendere le famiglie e aiutarle a vivere una “vita buona” secondo i loro valori. Adoperarci per una cultura positiva della salute mentale non significa promuovere una sorta di relativismo naïf secondo cui quelli che la cattiva cultura medica, influenzata dagli interessi della grande industria, chiama “sintomi” vengano rietichettati con nuovi nomi, e così trasformati come per magia in qualità positive. Significa piuttosto aiutare le famiglie a riconoscere prima di tutto i punti di forza dei figli. Rivolgersi a un esperto di salute mentale significa forse incontrare qualcuno che sia anche in grado di aiutare a riformulare la domanda: mio figlio è abbastanza felice?, in domande del tipo: come vuole essere mio figlio? Quali sono le sue qualità? Su quali punti di forza può costruire la sua identità attuale e futura?. Ogni intervento di cura dovrebbe avere infatti come primo obiettivo quello di non nuocere ai punti di forza del paziente. Come secondo obiettivo, promuovere il loro sviluppo.

4.

Gettare il bambino con l’acqua sporca

1. Non mi fido di te neanche quando dico che mi fido Gli ultimi genitori che ho incontrato avevano letto in internet tutto quello che si poteva leggere, su quanto sono pericolose le medicine e su quanto ci fregano le case farmaceutiche. Dicevano che è risaputo che la ricerca clinica è finanziata per il 90% dall’industria. Che ci sono interessi commerciali enormi dietro la vendita degli psicofarmaci. Che gli antidepressivi sono poco efficaci, aumentano il rischio di suicidio, e non si conoscono con certezza i loro effetti a lungo termine. Che creano dipendenza. Dicevano: non si offenda non è nulla di personale, anzi se siamo qui è proprio perché ci fidiamo... cioè ci vorremmo fidare, ma in generale in realtà non ci fidiamo per niente. Si aspettavano forse che io dicessi che no, che in realtà è tutto falso, che esistono studi scientifici chiarissimi e incontrovertibili. Che lo stato delle nostre conoscenze è cristallino e il campo sanitario in cui operiamo è tutto rose e fiori. Che difendessi la categoria, insomma. Rimasero sorpresi invece scoprendo che, per molti tra coloro che fanno il mio lavoro, le medicine sono considerate l’ultima spiaggia. E che, se proprio occorre prenderle, bisognerebbe iniziare con una alla volta. Con la minor dose possibile. Per il minor tempo possibile. E che prima che abbia senso e sia un atto responsabile prescrivere farmaci, è necessario rispettare criteri molto rigorosi che vanno al di là delle semplici indicazioni scritte nei manuali. La cosiddetta “letteratura scientifica” serve a stabilire quali sono le conoscenze ufficialmente licenziate dalla comunità 75­­­­

scientifica. La base di cui è sempre in qualche modo necessario tener conto e da cui si deve “partire”. Ma la pratica clinica è un’altra cosa. E infatti la comunità internazionale si è data certe regole per passare dai dati della ricerca e dalle mille visioni discordanti e frammentarie a “buone pratiche” condivise. Queste regole sono scritte nelle linee guida e nelle linee operative fornite da associazioni scientifiche internazionali o da organi ufficiali di sorveglianza sanitaria. Si tratta di raccomandazioni in merito al modo in cui i medici devono comportarsi in situazioni cliniche specifiche. Per esempio, nel caso della psichiatria infantile, esistono linee guida per l’autismo, la dislessia, l’adhd, l’anoressia, la depressione, eccetera. L’idea è che nelle linee guida siano sintetizzati i punti su cui la comunità scientifica si trova concorde, sia sul piano delle diagnosi (che cosa è una certa patologia psichica) sia su come si dovrebbe affrontare la malattia. Sono pressoché sempre documenti pubblici, disponibili nei siti ufficiali degli enti sanitari e delle principali associazioni professionali. Si potrebbe obiettare che queste raccomandazioni risentono probabilmente delle molte ambiguità della psichiatria ufficiale. È vero, ma del resto è inevitabile. Le linee guida non sono quasi mai l’esito di laboratori critici dove si discute apertamente e “dal basso” in merito alla natura delle patologie. Esse sono pur sempre il prodotto di una parte della società che è prevalentemente composta da maschi bianchi occidentali laureati in medicina, i quali hanno fatto carriera negli ambienti accademici e ospedalieri: sono dunque l’espressione – sebbene per quanto possibile “autonoma” – di un certo inevitabile sistema culturale, che è anche un sistema di poteri1. E il modello di medicina che propongono non può certo non risentire del fatto che poggia su una base di ricerca

C.I. Cohen, S. Timimi, Liberatory Psychiatry. Philosophy, Politics, and Mental Health, Cambridge University Press, Cambridge, 2008. 1

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scientifica per la maggior parte finanziata da aziende private che hanno interessi nel mercato sanitario2. Tuttavia, chi avesse la pazienza di leggersi qualcuno di questi documenti scoprirebbe che la posizione che esprimono è di solito molto prudente rispetto alla questione della diagnosi e molto rigorosa riguardo alle prospettive terapeutiche. Pressoché in ogni capitolo dedicato alla psicopatologia, per esempio, è chiaramente indicato che il ricorso ai farmaci è lecito – sempre entro condizioni di dosaggio e indicazioni terapeutiche molto precise e vincolanti (quale farmaco, per quale patologia e a quali condizioni) – solo in condizioni acute o gravi (che quindi comportano un disagio e uno svantaggio personale e sociale significativo e prolungato per il bambino o il ragazzo, o un rischio effettivo per la sua incolumità o il suo sviluppo), e a patto che siano già stati tentati altri interventi di supporto psicologico, i quali si sono però dimostrati inefficaci. È inoltre spesso specificato che il trattamento deve avvenire sempre parallelamente a una cura psicoterapeutica, dal momento che per quasi tutte le patologie psichiche è dimostrato che l’associazione di terapia farmacologica e altri trattamenti di “sostegno psicologico” costituisce il tipo di approccio più opportuno e vantaggioso. La terapia farmacologica a sé stante è infatti solitamente poco efficace – o comunque non molto più efficace di altri tipi di trattamento non farmacologico. Infine è di solito espressamente indicato che l’assunzione del farmaco deve avere una durata limitata. Queste precauzioni possono bastare? Certo che no.

J. Moncrieff, The Bitterest Pills. The Troubling Story of Antipsychotic Drugs, Palgrave Macmillan, New York, 2013. 2

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2. Il timore che faccia troppo effetto La diffidenza da parte dei genitori rispetto alla possibilità di somministrare psicofarmaci ai figli si radica in preoccupazioni molto serie, spesso sensate e comprensibili, che dovrebbero sempre essere affrontate apertamente. I genitori – e non di rado anche i bambini – temono che il fatto stesso di accettare una terapia nel caso di un problema psicologico comporti l’avvilimento della propria persona, una specie di onta, l’ammissione di una sconfitta o di una mancanza di volontà. Si tratta di un sentimento complesso che – per certe culture – cela a volte il timore che una terapia per la mente possa risultare disturbante, moralmente impropria o addirittura inaccettabile. La questione è certo rilevante anche nella “nostra” cultura occidentale, poiché nonostante il ricorso a lenimenti fisici d’ogni natura sia ormai una pratica diffusa e “di massa”, il nostro rapporto con quel particolare tipo di sofferenza individuale che è il malessere psichico resta controverso e sovraccaricato di pressioni morali, che in medicina si presentano solo in pochissimi altri domini – quello delle cure palliative, del cosiddetto “fine vita”, degli accertamenti e delle “terapie” genetiche prenatali e forse pochi altri. La preoccupazione che gli psicofarmaci modifichino la nostra identità, “alleggeriscano eccessivamente lo spirito” e ci rendano dipendenti sembrano radicate nel timore che, accettando una terapia psicofarmacologica, finiremo per alterare per sempre le nostre coordinate morali e identitarie. Così, paradossalmente, è proprio l’idea che i farmaci siano in grado di produrre un “cambiamento” – una specie di aberrazione mostruosa e sempre peggiorativa dell’individuo e delle sue qualità – a frenare le persone e a renderle diffidenti. Accade, per esempio, che molti adolescenti si presentino chiedendo che siano loro prescritte terapie farmacologiche per risolvere problemi circoscritti: chiedono di riuscire a dormire la notte; di cessare di dedicarsi anche molte ore al giorno 78­­­­

a rituali ossessivi di ordine, pulizia o accumulo; di poter mettere fine agli attacchi di panico; di far sì che la sensazione di tristezza che li tiene incollati al letto la mattina e li fa piangere per ogni sciocchezza possa finalmente dissolversi. Tuttavia quasi sempre questi ragazzi – e, con loro, spesso anche i genitori – sono molto preoccupati che i farmaci possano cambiare il loro carattere e la loro visione del mondo. Non voglio essere diverso, dicono, voglio solo stare meglio. O ancora: sono contento di essere cinico, non voglio diventare ottimista. Oppure: non voglio che poi, tipo, esco e mi vanno bene tutti, mi piacciono tutti, divento una “positive”, una “presa bene”. Certo, potrebbe apparire contraddittorio che ragazzini che fumano, bevono e non di rado assumono pure sostanze stupefacenti possano temere gli effetti di una medicina della quale conoscono il dosaggio esatto e, almeno in teoria, gli effetti positivi e negativi. Su questo apparente paradosso pesa il fatto che mentre le pratiche d’abuso di stupefacenti sono radicate in un immaginario pubblico legato a comportamenti socialmente consolidati e spesso condivisi con i compagni, l’assunzione di una terapia medica è un fatto sotterraneo e nascosto, per il quale raramente l’imitazione dei propri amici riesce a essere un “motore” efficace. Ma in questo timore paradossale che le medicine alterino “in peggio” ciò che invece le droghe o l’alcool lasciano intonso, vi è anche un altro aspetto cruciale. La diffidenza, per la pillola di psicofarmaco, è legata anche al fatto che, accettando di assumere la sostanza, la famiglia si appresta ad “immergersi” in un discorso sanitario che definisce le regole, discerne e giudica, e che alla fine stabilirà arbitrariamente che cosa è buono e che cosa è cattivo, che cosa è ammesso e che cosa no; che dirà, al posto nostro, come stiamo e se stiamo abbastanza bene per vivere senza psicofarmaci3.

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K.T. Kalikov, Your Child in the Balance, cds Books, Durham (NC), 2006.

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Questo spiega anche per quale motivo, quando un clinico informa i genitori e i figli che la maggior parte degli antidepressivi, degli stabilizzatori e degli antipsicotici non causa dipendenza o assuefazione, la sua rassicurazione sarà recepita con sospetto. Perché mentre il medico sta parlando di fenomeni chimici (cioè del fatto che non porterà a crisi di astinenza, ecc.), la principale preoccupazione di “dipendenza” che assilla i suoi interlocutori riguarda invece quella parte della vita privata che viene consegnata all’esperto nel momento stesso in cui si accetta di assumere il farmaco. Il loro timore è cioè legato all’idea che quando ammettiamo che uno “specialista” sia in grado di stabilire se stiamo abbastanza bene o no per meritarci una terapia, quella parte della nostra vita privata non sarà più solo nostra, ma dipendente da qualcun altro. Non a caso, questa “tensione” genera anche un’altra preoccupazione molto comune, vale a dire il timore che – nel caso in cui la terapia dovesse rivelarsi efficace – le persone possano perdere non solo la volontà d’interrompere l’assunzione del farmaco, ma anche la capacità stessa di capire se si sta abbastanza bene da provare a farne a meno. Come si vede, queste preoccupazioni sono motivate in fin dei conti dalla prospettiva che accettare di sottoporsi a una terapia comporti in qualche modo prendere parte ai discorsi collettivi sulla malattia mentale. E ciò è complicato dal fatto che tali discorsi prendono senso e forma all’interno di coordinate ideologiche più ampie di cui siamo spesso inconsapevoli, ma che nondimeno influiscono sulle priorità e i valori attraverso i quali intendiamo una “vita buona”, e dunque anche una vita caratterizzata da una condizione di salute mentale. Proprio per queste ragioni è fondamentale che lo psichiatra sia in grado di comprendere che la prescrizione di una terapia psicofarmacologica, anche quando non si accompagna a obiezioni o resistenze apparenti, è un “passaggio” sempre molto delicato nella storia di una famiglia, e chiama in cau80­­­­

sa dilemmi profondi, a volte persino difficili da verbalizzare. Contemporaneamente – e per gli stessi motivi – non sfugge che lo sfondo culturale su cui si giocano queste obiezioni e queste resistenze, rischia inevitabilmente di avere un impatto cruciale. 3. Tutti contro la psichiatria, ma tutti in favore di che cosa? Genitori e ragazzini già preadolescenti cercano in rete informazioni che riguardino il loro stato di salute mentale, ma quel che trovano rischia non di rado di aumentare sfiducia e confusione. Ci si può infatti imbattere in un labirintico sottobosco di movimenti, associazioni e blog antipsichiatrici che da anni attaccano con violenza il campo della psichiatria, e in particolare la psichiatria infantile (con alcune puntate variopinte anche nel campo della psicologia), rea d’essere asservita – dicono – agli interessi dell’industria farmaceutica e prona ai meccanismi di potere finalizzati al controllo della popolazione, alla repressione di ogni “diversità”, all’internamento di massa e alla censura4. Sarebbe forse il caso di non dimenticare che – su questo punto – la posizione assunta dai paladini dell’antipsichiatria si poggia su una tradizione di critica filosofica, fondamentale nella storia del Novecento, che incarnò una visione del mondo fortemente avversa al sistema capitalistico e al modo in cui le sue “radici del potere” intaccavano l’integrità, l’autonomia e la libertà dei corpi e delle menti5. La tradizione antipsichiatrica ha infatti origini nobilissime e argomenti

C. Gazzola, Divieto d’infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, bfs Edizioni, Pisa, 2008 e N. Crossley, Contesting Psychiatry. Social Movements in Mental Health, Routledge, London-New York, 2006. 5 Per una sintesi vedi anche G. Crimella, La critica psichiatrica nelle opere di Szasz e Foucault, Sensibili alle foglie, Roma, 2015; R. Cooper, Psychiatry and Philosophy of Science, Acumen, Stocksfield, 2007. 4

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molto validi, e sebbene abbia dato espressione ad anime e sensibilità molto diverse, e ad argomenti che oggi risultano in parte superati, essa è stata tuttavia in grado di fondare con precisione linee critiche ancora oggi centrali, tra cui le seguenti. In primo luogo, l’idea che le malattie psicologico-psichiatriche – ad eccezione forse di poche entità cliniche gravi e fortemente legate ai geni, come l’autismo – non siano oggetti naturali del mondo come lo sono un balcone, un quaderno o un albero di cocco. Non esistono “nella realtà”, pronte per essere “scoperte” e descritte con gli strumenti neutri e oggettivi di una disciplina scientifica, ma sono parte di un discorso culturale che ha a che fare con i comportamenti attesi, cioè con il modo in cui ci aspettiamo che sia o debba essere una persona che si comporti normalmente, in rapporto alla legge e alle norme condivise a livello sociale. In secondo luogo, l’idea che la medicalizzazione della devianza, della follia e ogni genere di disadattamento sociale di adulti e bambini sia l’espressione di meccanismi di potere, legati al controllo, alla coercizione e all’esclusione più che alla promozione della salute mentale, all’inclusione e alla realizzazione personale di una “vita buona”, in base a sistemi di valori che ciascuno sceglie di prendere a riferimento6. Si tratta di due “fatti” che, uniti agli interessi commerciali legati all’industria farmaceutica e alle molte collusioni degli ambienti sanitari, hanno finito per esporre psichiatria e neuropsichiatria infantile a critiche molto severe e spesso non del tutto ingiustificate. Sono state e ancora sono idee molto potenti, che fanno parte di un patrimonio culturale vastissimo e dentro il quale si scorgono le tracce di una passione illuminata per la ragione e la critica. Idee tutt’altro che confinate alla teoria e alle discussioni eleganti e astratte dei convegni F. Codato, Che cos’è l’antipsichiatria? Storia della nascita del movimento di critica alla psichiatria, Edizioni Psiconline, Francavilla al Mare, 2013. 6

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universitari, e che hanno invece prodotto un impatto concreto nella vita di tutti, rendendo possibile – tra i primi Paesi proprio in Italia, grazie al movimento promosso da Basaglia – il superamento del modello repressivo della psichiatria e la chiusura dei manicomi. Storie oggi forse sbiadite, ma che hanno il volto dei bambini dell’Istituto Santa Rita di Grottaferrata, del Santa Maria della Pietà di Roma, del Corberi di Limbiate, vicino Milano. Luoghi entrati nella triste cronaca dei tribunali a causa delle pratiche cui venivano sottoposti i pazienti: spesso in ricoveri coatti prolungati, spesso disadattati e senza famiglia, non di rado vittime di soprusi e violenze proprio da parte di chi avrebbe dovuto occuparsi di loro. Che se uno pensasse che le narrazioni hollywoodiane della vita manicomiale siano enfatiche e pompate, si ricrederebbe subito leggendo la cronaca dei quotidiani dell’epoca o guardando documentari come Nessuno o tutti di Agosti, Fortezze vuote di Serra, Matti da slegare di Bellocchio7. A distanza di ormai quasi cinquant’anni possiamo dire che questa tradizione critica sembra aver perso in parte la sua spinta positiva, diventando il gigante sulle cui spalle può saltare qualunque nano – benzina buona per qualsiasi teoria apocalittica o complottista sul potere delle multinazionali del farmaco e sulle malefatte di quel braccio armato e cieco del potere che sono psichiatri e neuropsichiatri infantili. Certo la psichiatria infantile ha non poche responsabilità nell’ambiguità che ancora connota le sue pratiche e la sua immagine pubblica. Tuttavia, la visione proposta dal variegato mondo dell’antipsichiatria contiene parecchie contraddizioni sulle quali varrebbe forse la pena di riflettere.

P.M. Furlan, Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia, Donzelli, Roma, 2016. 7

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4. Falle e approssimazioni di chi rischia di gettare il bambino con l’acqua sporca In primo luogo è evidente che ciò che s’incontra nel mondo indifferenziato della rete è spesso un collage di informazioni lacunose e scelte a caso tra le più sensazionali e d’effetto. Per esempio, è diffusa l’idea che si scelga di prescrivere psicofarmaci ai bambini con troppa facilità. Tuttavia nel nostro Paese ci sono state successive e ripetute iniziative volte al monitoraggio di questi fenomeni, e una ricerca pubblicata nella primavera 2016 e condotta dal Dipartimento di salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano ha chiaramente dimostrato che in Italia il consumo di psicofarmaci è dieci volte inferiore a quello rilevato negli altri Paesi europei (più o meno due bambini ogni mille, circa venticinquemila bambini in totale), e il suo aumento negli ultimi anni è stato molto modesto. Lo studio mette in luce anche una problematica disomogeneità nelle pratiche di cura tra le diverse regioni italiane, ma in ogni caso, come si vede, il quadro non giustifica allarmismi. Un altro tema molto discusso presente in rete è quello del rischio di suicidio associato al consumo di alcuni antidepressivi, e le notizie che circolano sono spesso tra le più assurde e disparate. Tuttavia la posizione ufficiale della comunità scientifica è su questo punto molto rigorosa e chiara da tempo, persino nei vituperati Stati Uniti, dove – la storia è nota – sono scoppiati scandali sulle manipolazioni operate da alcune case farmaceutiche allo scopo di indurre ad aggiustare risultati sperimentali e condizionare la ricerca scientifica. L’allarme è nato, in effetti, in seguito a ripetuti casi di suicidio di alcuni individui che erano sottoposti al trattamento con antidepressivi. Dopo analisi statistiche e studi molto complicati, il quadro del rischio associato alla terapia farmacologica è oggi molto più chiaro. Si è compreso che l’assunzione di un antidepressivo comporta spesso una fase iniziale insidiosa, in cui non si registrano 84­­­­

ancora effetti positivi sull’umore (perché gli antidepressivi, al contrario delle droghe euforizzanti, non agiscono in fretta, ma anzi molto lentamente). In questa prima fase, che dura alcune settimane, le persone possono sentirsi talvolta più agitate e inquiete, soprattutto nel caso di alcuni farmaci di nuova generazione (chiamati ssri – Selective Serotonin Reuptake Inhibitors, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). In pratica, nel caso della depressione infantile vi è oggi un solo farmaco “sconsigliato” (la paroxetina). Per il resto, sono ovviamente indicate note di indirizzo e di “cautela” all’utilizzo di altri farmaci, con la sollecitazione dei medici a monitorare attivamente i pensieri e il rischio di suicidio. E poi ci sono studi multicentrici molto complessi, osservatori internazionali, istituiti di ricerca che tengono aggiornati sui risultati delle ricerche scientifiche, enti nazionali e sovranazionali di controllo. Eppure, per la retorica dell’antipsichiatria, il problema dei “suicidi” legati all’assunzione degli psicofarmaci è ancora una grave urgenza. Ma se davvero gli antidepressivi inducono al suicidio, non sarebbe forse stato lecito attendersi che, dal 1987 in poi, quando esplose il consumo di antidepressivi come il Prozac (la categoria “incriminata”), il tasso di suicidi aumentasse in modo netto? Al contrario, tra il 1987 e il 2004 il tasso di suicidi negli Stati Uniti è costantemente diminuito in tutta la popolazione di bambini e adolescenti tra i dieci e i diciannove anni. Come spiegano questo fenomeno i sostenitori dell’equivalenza antidepressivi-suicidio? E come si spiega che, quando, nel 2003, la fda ha emesso il fatidico messaggio di allerta per la somministrazione di antidepressivi in età pediatrica e, di conseguenza, le “nuove” prescrizioni in età pediatrica si sono drasticamente ridotte per il timore dei medici di incorrere in cattive pratiche, il tasso di suicidi nel successivo anno ha conosciuto l’incremento maggiore mai registrato prima (14%)? E lo stesso è accaduto in Olanda tra il 2003 e 2005: calo di prescrizioni di ssri in seguito all’allerta, e impennata di suicidi. 85­­­­

Se la cosa non convince, basterà forse leggere quel che hanno fatto in Svezia. Le autorità sanitarie svedesi eseguono di routine un esame del sangue per individuare tracce eventuali di circa duecento sostanze, tra cui anche gli antidepressivi, su chiunque sia deceduto per cause ignote o violente (incidente, suicidio o altro). I dati di questi esami, raccolti tra il 1992 e il 2000, hanno permesso di chiarire molte cose. Si contarono circa 15.000 suicidi mentre circa 26.000 persone erano decedute in circostanze violente ma senza che la causa fosse chiaramente ascrivibile a un suicidio. Il risultato? Nessuno dei 52 ragazzini (bambini e preadolescenti) che si erano suicidati assumeva antidepressivi di nuova generazione (quelli, per intenderci, sotto l’attacco delle critiche e soggetti ora a limitazioni). E dei 326 adolescenti suicidati, solo il 2% assumeva quelle sostanze. Le conclusioni dello studio furono che gli antidepressivi erano sottoutilizzati, cioè che, se tra i ragazzini che si erano suicidati un numero maggiore rispetto a quello effettivamente accertato avesse assunto antidepressivi, il numero dei suicidi sarebbe stato probabilmente inferiore. Sarebbe interessante capire cosa direbbero i moderni esperti di antipsichiatria a quei circa trecento genitori che hanno perso un figlio senza tentare la strada delle cure. La realtà è che, come osserva acutamente McCain8, nessun tipo di evidenza sperimentale e nessun nuovo e più solido dato potrà mai togliere, ai genitori che hanno perso un figlio per suicidio dopo che aveva da poco preso ad assumere antidepressivi, la convinzione che la terapia abbia causato o favorito la morte. Ma questo genere di sentimenti, certamente comprensibile e perfettamente legittimo, non può guidare la ricerca scientifica e le politiche sanitarie. Ed è assolutamente lecito chiedersi se sia sensato che – di fronte a un figlio mol8 J.A. McCain, Antidepressants and Suicide in Adolescents and Adults. A Public Health Experiment with Unintended Consequences?, https://www. ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2799109, 2009.

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to sofferente e che più volte ha minacciato di suicidarsi – i genitori possano davvero rifiutare cure potenzialmente “vitali”, solo perché condizionati da una cultura allarmistica e approssimativa. D’altra parte, l’idea stessa che un certo farmaco possa di per sé far insorgere propositi di suicidio nelle persone e determinarle ad ammazzarsi, sembra richiamare argomenti e fantasie circa gli psicofarmaci che hanno il sapore di un racconto di Philip Dick. Tra le molte cose assurde che si possono trovare in rete riguardo alla psichiatria, ci sono, per esempio, i blog in cui si sostiene che vi sia un legame frequente tra le cosiddette “stragi familiari” – à la “Shining”, per intendersi, ma calate nelle realtà degli appartamentini piccolo borghesi, degli chalet e delle villette con garage – e il consumo di psicofarmaci. Sulla stessa scia, l’ultimo trend del complottismo spinto è la teoria delle cause nascoste degli eccidi di massa. Su naturalnews. com (un portale scientista con molte suggestioni new age), per esempio, la pagina dedicata alla psichiatria è fitta di teorie secondo cui l’abuso di psicofarmaci spiegherebbe la proliferazione di stragi compiute dai fanatici di armi automatiche. Si tratta, è vero, di esempi particolarmente bizzarri, ma che bene riflettono il modo in cui le teorie più bislacche non solo possono diffondersi, ma alimentano un amplissimo mercato di prodotti culturali facilmente accessibili. Il che, quando si tratta della cura della salute, rischia di causare danni enormi alle persone. Sarebbe importante distinguere le diverse voci critiche in questo campo, perché esse originano spesso da ambienti eterogenei, esprimono sensibilità talora diametralmente opposte e attingono a tradizioni culturali anche molto distanti. Si va dalle associazioni “storiche”, derivate dal movimento antipsichiatrico (l’opposizione alla psichiatria infantile è qui una campo particolare dell’opposizione alla psichiatria in genere), a quelle connesse a forme di associazionismo politico (legate per esempio a partiti e movimenti di area progressi87­­­­

sta, conservatrice o populista) o a comunità “confessionali” (come per esempio Scientology). C’è poi un vasto mondo di associazioni, enti o gruppi professionali e culturali (nelle scuole di formazione per psicologi, negli istituti scolastici privati, nell’ambiente delle onlus e delle cooperative sociali) che, anche quando non intraprendono attivamente iniziative connotate da un’aperta contrapposizione alla psichiatria, spesso partecipano o si associano a iniziative culturali e politiche che promuovono idee espressamente contrarie alla psichiatria infantile. Il paradosso, tuttavia, è che nonostante il corpo di voci critiche sia in realtà costituito da cose molto diverse tra loro, spesso gli argomenti usati contro la psichiatria, le critiche e le campagne finiscono per assomigliarsi molto, al punto che è difficile distinguere le diverse voci in campo. Il caso dell’adhd e dell’allarme per la diffusione della terapia farmacologica, a base di Ritalin o altri farmaci, è un esempio molto efficace. Il primo argomento tipico della critica antipsichiatrica è che l’adhd non esiste, ma è un’invenzione asservita agli interessi delle case farmaceutiche per mere questioni commerciali, e dunque ogni trattamento farmacologico non solo è ingiustificato ma anche certamente dannoso. Il punto verso cui spinge questo argomento è molto insidioso e rischia di non fare i conti con la realtà, a danno dei bambini. Come si è visto nel capitolo 1, ci sono molte buone ragioni per diffidare dell’idea che, qualunque cosa “abbiano” i bambini iperattivi, ipercinetici e disattenti, il loro problema sia solo o soprattutto riconducibile a una vera e propria malattia, determinata dai geni e legata a qualche disfunzione del cervello. È infatti probabile che dentro al “contenitore” adhd includiamo aspetti molto diversi tra loro, difficoltà e problemi che hanno origini e concause complesse, molte delle quali sono legate a questioni sociali, culturali, affettive e relazionali. Tuttavia sappiamo anche che il cervello umano “risente” e interagisce in modo continuo, diretto e “fisico” al variare degli stress ambientali, in ogni istante della nostra esperienza. 88­­­­

Nulla vieta dunque che, anche se l’adhd non è causata da una vera e propria malattia che nasce a livello neuronale, alcuni bambini possano trarre beneficio da farmaci che agiscono sui loro neuroni. Del resto nemmeno la paura di volare è causata da una malattia dei neuroni, eppure gli ansiolitici spesso funzionano benissimo. La storia della Scienza con la S maiuscola – quella che i critici dell’antipsichiatria invocano fideisticamente in contrapposizione alle malefatte della psichiatria – è piena zeppa di spiegazioni errate che però funzionano. Persino la fisica è basata su teorie sbagliate, o in parte incomplete, che però per la maggior parte dei casi funzionano. Del resto è prima di tutto vero e inconfutabile che spesso non abbiamo bisogno di sapere come funziona esattamente una cosa, anche molto complessa, per agire in modo efficace su di essa. Il radicalantipsichiatrico sa che fare benzina è necessario per andarsene in giro in auto anche se non ha la benché minima idea di come funzioni il suo motore ecologico a basse emissioni. Il che ci porta a un secondo tipo di critiche contraddittorie rispetto alla terapia. Nel caso dell’adhd, una delle critiche sollevate è che le terapie servono a “sedare” o a tenere sotto controllo i pazienti. Si tratta di un argomento del tutto privo di senso. Uno degli argomenti “forti” della psichiatria in merito alle origini biologiche dell’iperattività nei bambini è infatti che le condizioni di questi bambini migliorano quando si somministrano loro delle anfetamine (il Ritalin o farmaci ad esso analoghi), sostanze solitamente in grado di indurre proprio irrequietezza, iperattività, impazienza e instabilità. Curiosamente, certi bambini molto iperattivi, impulsivi e disattenti tendono invece a beneficiare della terapia perché queste sostanze rendono più efficaci quei sistemi cerebrali, per lo più localizzati nei lobi frontali, che servono a regolare l’autocontrollo, l’attenzione e a “modulare” le nostre azioni nel tempo. Dunque il farmaco “tranquillizza” questi bambini non attraverso la sedazione, ma aiutandoli a concentrarsi in modo 89­­­­

più stabile su ciò che stanno facendo (a giocare più a lungo allo stesso gioco, per esempio): fatto che di solito si accompagna anche a una diminuzione dell’iperattività. I bambini per i quali la terapia risulta efficace riescono, in un certo senso, a controllarsi da soli, a godere di più di quel che stanno facendo, a regolarsi autonomamente. E questo li fa sentire meglio. Naturalmente ciò non significa che la terapia farmacologica sia sempre “buona”, quando funziona. Ma certo dovrebbe farci riflettere sull’opportunità che in certi casi, a certe condizioni, possa essere sensato proporre una terapia, quando non si riescono a individuare altre strade efficaci per affrontare il problema. Anche quando non conosciamo esattamente il motivo per cui la terapia funziona. Un altro argomento critico rispetto alle terapie è che in realtà non sono mai efficaci perché, anche quando curano i sintomi, comunque non eliminano o “guariscono” la causa. Nel caso del Ritalin l’obiezione è fortemente contraddittoria. Innanzitutto perché se c’è una cosa che il Ritalin riesce a fare (proprio perché si tratta di un’anfetamina) è “funzionare” in un’alta percentuale di casi. Anzi, è così “efficace” da rischiare di divenire una sostanza d’abuso, tanto che è stato gradualmente sostituito da farmaci più sicuri e anche molto più costosi. Del resto, ci sono ragioni molto valide per limitare il ricorso a questi farmaci, che non sia la loro presunta “inefficacia”. È infatti necessario un rigorosissimo monitoraggio della somministrazione, perché l’esempio degli Stati Uniti insegna che il rischio di una deriva commerciale incontrollata è sempre molto insidioso. Tuttavia, il programma ministeriale avviato da alcuni anni in Italia ha dimostrato che è possibile promuovere un ricorso al farmaco attento e scrupoloso, riservato solo ai casi più gravi in cui le terapie psicologiche si rivelano inefficaci, sotto la cura di personale specialistico e in centri monitorati. Quanto all’effettiva efficacia di tutti gli altri psicofarmaci, è un fatto noto – e ufficialmente dichiarato proprio dalla 90­­­­

vituperata psichiatria ufficiale (non senza inevitabili finzioni e riluttanze) – che il grado di efficacia degli antidepressivi è piuttosto basso, che è più facile dire in quali aspetti falliscono piuttosto che in quali aspetti hanno successo, che funzionano meglio come ansiolitici e come farmaci contro le ossessioni, piuttosto che contro i disturbi dell’umore. D’altra parte molte terapie farmacologiche causano una grande varietà di effetti collaterali potenzialmente letali e raggiungono gradi di efficacia scarsi o persino scarsissimi, anche di molto inferiori a quelli degli antidepressivi: per esempio alcune terapie “ultima spiaggia” (terapie cui si ricorre cioè in situazioni ormai critiche), come la chemioterapia. Avrebbe senso dire a una persona malata di cancro: è inutile tentare questa soluzione, dal momento che ha successo solo nel 35% dei casi? Certamente no. Se tua figlia di tredici anni non si alza più dal letto e da alcune settimane ripete che vuole ammazzarsi, e non ti lascia entrare in camera, e ha mollato la terza media da sei mesi, e non vede e non sente più gli amici, e dallo psicologo ci andava da un anno ma ora ha smesso, non ti giocheresti forse quel trenta per cento o poco più di probabilità anche, se sotto sotto, in lontananza, ci sono pure gli interessi delle multinazionali farmaceutiche? Quantomeno gli antidepressivi, se utilizzati sotto stretto controllo medico e seguendo un programma di cura attento, sono farmaci abbastanza “sicuri”, assunti da milioni di persone da quasi quarant’anni, con scarsa tossicità a lungo termine, con pochissimi effetti collaterali. Se non si è allergici al farmaco e i controlli medici periodici attestano che il fisico del paziente è idoneo ad assumerlo, la cosa peggiore che possa capitare è che non faccia effetto. Il che, di nuovo, non significa affatto che quel farmaco può essere assunto senza indicazioni mediche: si tratta pur sempre di medicine, che in quanto tali hanno un inevitabile profilo di “tossicità”, per cui vanno assunte nelle minori quantità possibili, e solo se strettamente necessario. 91­­­­

Non bastasse, l’argomento contro la scarsa efficacia degli psicofarmaci comporta un’altra contraddizione evidente. Il solo modo per stabilire se una certa terapia è efficace o no è quello di condurre studi scientifici possibilmente controllati, cioè studi in cui si confrontino due popolazioni statisticamente identiche di bambini, in cui però solo una delle due assuma il farmaco (oppure assuma un farmaco diverso dall’altra). Qui la questione è complicata anche dal fatto che simili studi sono operativamente molto lunghi e costosi, e che dunque spesso possono essere realizzati solo con contributi finanziari privati, dunque talvolta “interessati”. Non solo. L’unico modo per condurre uno studio di efficacia è dividere la popolazione in due gruppi nettamente distinti: chi è malato e chi no. Per capire in modo rigoroso se un farmaco è efficace, la sola strada possibile è dunque applicare categorie diagnostiche rigorose. Ma molta critica alla psichiatria contesta precisamente che debbano esistere delle categorie diagnostiche, oppure che esse riguardino e identifichino individui realmente esistenti. Come si concilia allora l’obiezione sull’inefficacia presunta degli psicofarmaci con il rifiuto di qualsiasi categorizzazione dei pazienti? Come dovremmo fare per capire se una certa medicina funziona? Se ha un qualche effetto benefico? Ci accontenteremo di correre il rischio che non funzioni? Dovremmo forse rinunciare a sperimentare i farmaci? Gli esseri umani si distinguono dalle altre specie animali perché attribuiscono nomi alle cose. Dare i nomi, attribuire etichette è un modo straordinariamente proficuo per conoscere il mondo. Ciò non significa che i nomi che scegliamo siano sempre corretti. A volte chiamiamo con un unico nome cose diverse. A volte il contrario. Ma questo non è un buon motivo per smettere di “nominare le cose” e rinunciare a studiare i modi più “sensati” per farlo. La depressione è nata proprio così: nel 1956 gli psichiatri Kuhn e Kline studiavano pazienti che credevano schizofrenici e scoprirono che le molecole che stavano sperimentando 92­­­­

erano efficaci solo su un tipo particolare di pazienti (che allora appunto non avevano ancora un “nome”): quelli che – semplificando – se ne stavano tutto il giorno a letto a dirsi che la vita era tremenda e priva di senso, e tutto faceva schifo9. Ancora oggi non sappiamo che cosa sia esattamente la depressione, e forse non ci aiutano le notizie sensazionalistiche che ci dicono, per esempio, che abbiamo scoperto 12 o 20 geni che si associano ad essa. Né ci aiuta la puntuale revisione dei criteri diagnostici elencati dal manuale ufficiale. Né, ancora, ci ha aiutato il fatto che su quel nome abbia lucrato un sacco di gente. Ma certo iniziare a dare un nome alle cose è il primo passo per arrivare da qualche parte. Un passo malfermo, per così dire, eppure il solo fattibile. La moderna antipsichiatria si rifà inoltre all’idea che siccome gli psicofarmaci non “curano” le malattie psichiche perché non ne trattano la causa, allora sono soltanto strumenti per “rincoglionire” e annullare il paziente, e dunque sono sempre dannosi. Ma, a ben vedere, nemmeno le pillole per il mal di testa “curano” le origini primarie della cefalea: il loro compito è quello di alleviare il dolore – questo è ciò che conta. L’insulina, allo stesso modo, non guarisce dal diabete, ma senza insulina la maggior parte dei pazienti morirebbe in poco tempo. E si potrebbero portare ancora moltissimi esempi. Il radical-antipsichiatrico sappia allora che quando correrà al pronto soccorso con un dito del piede rotto – o anche solo la dannata unghia del piede rotta – e implorerà l’infermiere per un antidolorifico, allora sappia – dicevamo – che la risposta logica del vituperato “potere medico” dovrebbe essere che no, l’analgesico non toglie la causa del suo male, e che è una pessima abitudine, questa di domandare analgesici, certamente frutto dell’operato delle multinazionali. Amen. I ragazzini che assumono antidepressivi sono in effetti molto preoccupati che prendere psicofarmaci comporti necesE. Shorter, Storia della psichiatria. Dall’ospedale psichiatrico al Prozac, Masson, Milano, 2000. 9

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sariamente diventare rincoglioniti. Mezzi zombie, insensibili, apatici, con lo sguardo spento e la bava alla bocca, come nella migliore iconografia del cinema della follia, da Frances a Ragazze interrotte. E invece no: gli antidepressivi, quando sono efficaci, rischiano al massimo di tirarti un po’ troppo “su”. E, nei rari casi in cui danno sonnolenza, si può sempre smettere di assumerli, oppure provare con un altro farmaco. Ed è pur vero che ancora oggi i farmaci antipsicotici – la vecchia guardia della psicofarmacologia hardcore, quelli usati per le psicosi gravi (il tipo di malattie per cui chi ne è affetto parla a voce bassa perché – dice – lo stanno spiando da un’altra città, oppure smette di lavarsi perché è convinto di essere morto) sono farmaci che effettivamente comportano un significativo grado di rallentamento, perdita d’interesse e appiattimento dell’umore. E provocano anche seri effetti collaterali a breve, medio e lungo termine. Tuttavia, appunto, si tratta di scegliere se preferiamo il delirio, le allucinazioni, la paranoia e l’agitazione motoria ai pure indesiderabili effetti collaterali causati da venti gocce di haloperidolo o di olanzapina; se preferiamo che nostra figlia di undici anni trascorra ogni giorno – letteralmente – quattro ore a lavarsi le mani e due sotto la doccia per decontaminarsi da imprecisati agenti infettivi contratti attraverso lo sguardo degli altri, oppure se non valga la pena di rischiare qualche effetto collaterale per restituirle il senso di una vita normale. 5. Alcuni aspetti particolari della critica alla psichiatria dell’infanzia Sarebbe forse una semplificazione pensare che l’appiattimento su posizioni comuni – o comunque molto simili – di tutte queste diverse voci critiche sia né più né meno il riflesso di ciò che tipicamente accade quando un argomento “delicato” o “serio” passa attraverso il tritacarne delle più strampalate rifrazioni sul web. 94­­­­

Questa coincidenza degli opposti, questa singolare sovrapposizione delle voci di deputati di destra, sinistra, e movimentismi vari (in Italia, ma anche altrove), di intellò rea­zionari e freak controculturali, di neoadepti alla new age e integralisti spinti d’ogni fede, sembra infatti rimandare a qualcosa di più profondo. Attorno al ruolo della psichiatria, e in particolare a quello della psichiatria infantile, si mettono infatti in gioco spinte molto arcaiche che “svelano” a vario livello la coperta corta dei nostri compromessi ideologici. In primo luogo si gioca in questo campo la potente retorica collettiva della difesa dell’“infanzia” che, abbiamo visto, pesca dentro a questioni molto radicate sulla funzione “simbolica” dei bambini nella nostra società. Come li vediamo, quali sono le qualità che riteniamo “naturali” e per quali motivi ci paiono sempre le vittime ideali. In secondo luogo, sembra essere in gioco qualcosa che riguarda più in generale il nostro rapporto con l’idea stessa della scienza e della sua funzione pubblica. La capillare diffusione di una pseudolingua tecnica nella cultura di massa, il disperato ricorso all’idea utopica di una “scienza vera” come ultimo vano tentativo di trovare risposte autentiche e definitive sui dilemmi che ci attanagliano, rendono pienamente ragione dell’utilità sociale e dei meccanismi profondi che alimentano questi “movimenti”. Non vi è praticamente ormai questione, anche la più banale, che non sia investita da una mole di versioni e teorie contraddittorie. Si pensi per esempio al recente assurdo dibattito sulla natura cancerogena delle carni “lavorate”, o alla moltiplicazione di teorie sul rapporto tra i vaccini e l’autismo. Così, è ormai sotto gli occhi di tutti il fatto che non solo i comuni cittadini non sono nella posizione di effettuare scelte “aggiornate” e “informate” sulle diverse teorie e conoscenze in campo, ma – osserva Žižek – gli stessi scienziati si trovano in una con95­­­­

dizione di stallo10. Non solo il ritmo di produzione di nuove informazioni eccede le capacità dei singoli di potersi a tutti gli effetti aggiornare, ma lo stesso dispositivo di produzione di queste informazioni è ormai contaminato dall’interno da “forze” (per lo più interessi economico-politici) tali da renderle sempre meno trasparenti e affidabili. Ciascun medico sa quanto è difficile comprendere esattamente i “risultati” delle nuove ricerche, se siano attendibili o no, se siano utili, se e in che modo cambieranno la nostra pratica. E non a caso i medici stessi sono costretti ad affidarsi a fondazioni, associazioni e istituti di ricerca che periodicamente “rivedono” gli studi, ne fanno una sintesi, e cercano di cavarne – al minimo comun denominatore – qualche cosa di affidabile e sensato. La cosiddetta “autorità medica” (ma lo stesso vale per la scienza in generale) finisce così per essere sempre più ridotta a una sorta di finzione simbolica consensuale, la pura messa in scena di un sapere che sta lì per dare senso al magma delle posizioni individuali e definire un qualche significato e valore per pura convenzione pubblica. Un dispositivo che è operativo e “reale”, proprio in quanto si limita ad operare a un livello puramente virtuale e simbolico. Che è di utilità pratica proprio nella misura in cui il suo sapere è del tutto fittizio; stabilito per convenzione, per contratto. Pertanto, il paradosso delle posizioni critiche nei confronti delle scienze psichiatriche e psicologiche è che non solo non rifiutano il “discorso scientifico”, ma lo “rilanciano” semplicemente immaginando di poterlo radicare in altri “fatti reali”, in “verità più vere”, in “scoperte scientifiche più rigorose e oneste”. Un sapere medico reificato, una specie di cosa reale del mondo, che possa utopisticamente sfuggire alla sua – invece inevitabile – connotazione simbolica, e a quelle radici ideologiche che definiscono i valori e la funzione S. Žižek, Enjoy Your Symptom!: Jacques Lacan in Hollywood and Out, Routledge, London-New York, 2007. 10

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sociale stessa della medicina, i suoi mandati etici, i confini deontologici, le prerogative dei medici e quelle dei pazienti, eccetera. 6. Filtrare l’acqua sporca e riprendersi la cura dei figli Forse dovremmo più umilmente accettare l’idea che non esiste nessuna altra scienza psichiatrica alternativa “più vera” di quella che abbiamo ora a disposizione, fondata su evidenze “più oggettive”, che le multinazionali del farmaco ci tengono nascoste. Si tratta piuttosto di capire a fondo come ripartire dai nostri saperi – per quanto zoppi siano – per renderli più aperti, più liberi al confronto “dal basso”, più permeabili alle istanze che provengono dalle persone. Più sensibili all’ascolto delle famiglie e ai loro bisogni di cura. Per comprendere meglio la depressione, l’adhd, il disturbo post-traumatico da stress, forse non abbiamo bisogno di più informazioni su come funziona il cervello. E, per le stesse ragioni, è assai improbabile che, nei prossimi anni, la ricerca sui neuroni produrrà scoperte utili alle famiglie in ambito psichiatrico. Piuttosto, sarà di gran lunga più importante impegnarsi a ricostruire il senso di quei disturbi che abbiamo finora chiamato “depressione” e “adhd” ripartendo da un ascolto autenticamente aperto e disponibile dei figli e dei genitori. Provando dunque ad operare, avvicinando la scienza medica alle persone e non le persone alla medicina. È evidente che su questo punto la psichiatria infantile è giunta a un bivio molto delicato. Da una parte vi è la prospettiva di un avvitamento sempre più burocratico sul perno della medicalizzazione. Dall’altra vi è la possibilità di ricostruire una cultura della salute mentale, con un’ottica che includa il punto di vista delle famiglie come elemento fondante nella costruzione del sapere clinico. In tutto ciò, evidentemente, anche le famiglie hanno un ruolo fondamentale. Dovrebbero infatti potersi sentire non più vittime passive di un sistema piegato a interessi distanti e 97­­­­

a meccanismi poco trasparenti, bensì farsi protagoniste attive del cambiamento. Sia per gli esperti di salute mentale che per i genitori, occuparsi oggi della salute mentale dei bambini ha a che fare non soltanto con le pratiche di cura sanitaria, ma anche, e in misura sempre maggiore, con le aspettative dei genitori – e dei figli – legate all’imperativo dell’appagamento individuale e al mito dell’eterna giovinezza, variamente combinati all’ingiunzione di essere felici e di tutelare l’infanzia. Le linee guida sulle buone pratiche in ambito clinico possono segnare le fondamenta dell’agire medico, secondo principi condivisi dalla comunità scientifica, e aiutare le famiglie e gli specialisti a comprendere meglio cosa dovremmo curare, e cosa invece merita aiuti o supporti di altro tipo. Ma ogni contatto terapeutico è necessariamente diverso, poiché ogni bambino ha bisogni e punti di forza speciali, e ogni famiglia aspira a valori particolari che definiscono il campo in cui è possibile passare dall’idea che una medicina sia indicata in teoria, a pensare che essa sia la cosa utile in questo caso. Solo quando siamo consapevoli dei diversi e complessi fattori che accompagnano le resistenze ad assumere farmaci possiamo ricollocare la terapia nel campo delle scelte pienamente libere, autonome e consapevoli. E questo vale sia per i genitori che per gli psichiatri. Per questo motivo è giusto che un genitore si aspetti che lo specialista sappia aiutarlo a comprendere a che cosa serve la cura farmacologica che propone, quali sono i suoi rischi, i suoi limiti, i vantaggi e gli svantaggi. Questo significa che i genitori devono poter pretendere che gli psichiatri assumano una posizione critica chiara, che facciano i conti con la realtà delle cose e sappiano in qualche modo collocare la proposta terapeutica entro coordinate che includano i limiti dell’operato medico come una condizione esplicita, aperta, accessibile al giudizio delle persone. I professionisti che fanno cadere le proposte terapeutiche dall’alto, come fossero dettami imposti da una sorta di legge infallibile, riproducono nella loro pratica il medesimo 98­­­­

“errore” di ragionamento da cui è affetta tanta critica antipsichiatrica, quando invoca una scienza medica “più vera e più oggettiva”. I genitori dovrebbero inoltre potersi aspettare che un professionista prospetti sempre in modo chiaro ed esplicito quali sono le alternative alla cura farmacologica proposta. Scegliere le cure è un diritto, ma è un diritto difficile da esercitare quando l’autorità medica, incarnata dalla figura del professionista che abbiamo di fronte, non dice espressamente se esistono alternative, e quali possono essere. A volte le alternative sono poche. Ma questo non significa che esse non vadano esposte con umiltà e chiarezza. Infine, un genitore dovrebbe aspettarsi che lo specialista sia consapevole che le conoscenze della medicina sono solo uno dei tanti modi di guardare alla sofferenza psichica, una delle tante voci in campo. E non necessariamente sempre la migliore, la più forte, la più saggia, la più utile, la più convincente.

5.

Se ci dite come, ce li riprendiamo

1. Altra storia minima di un tipo cattivo Il problema principale di Diego è che quando perde la pazienza tira il banco contro le maestre. Alle elementari, per tirare banchi, devi essere un bel po’ incazzato e anche piuttosto grosso. E Diego è tutt’e due le cose. In più disturba. Arranca in italiano, ma se la cava molto bene in disegno. Insomma, è un bambino difficile ma gestibile, se non fosse per quel suo problemino quando perde la pazienza. Quando incontra la psichiatra in una sede di neuropsichiatria infantile della zona, Diego le racconta per filo e per segno per quale motivo a scuola lo fanno incazzare. Lo prendono in giro, gli dicono zingaro di merda, e quando poi se ne torna al “campo” (vive in città, in un campo nomadi di rom italiani), anche lì lo sbeffeggiano perché suo padre non c’è più e sua madre – dice – non va d’accordo con nessuno. “Prendere in giro”, al campo nomadi, vuol dire cose del tipo che ti pisciano nello zaino, ti tirano ceffoni che altrove sarebbero da denuncia, ti bruciano, di tanto in tanto, la porta della roulotte. Così, per scherzo. Anche se è chiaro che il problema non è lui, ma il mondo variopinto che lo circonda, è comunque il caso che venga “seguito” da un neuropsichiatra. Nessuno sa più a che santo votarsi, e non si può certo dire al bambino il problema non è tuo ma di quelli che ti stanno intorno. Non lo si può dire a lui, ma soprattutto non lo si può dire alle maestre, né agli assistenti sociali, che insistono a sfinimento perché qualcuno se lo prenda in cura, sollevandole dalla responsabilità di non averle tentate tutte. 100­­­­

Diego si becca una di quelle diagnosi che comprendono tutto e niente, un “disturbo misto della condotta e della sfera emozionale” che sembra inventato ad hoc per dire che qualcuno ha qualcosa ma non sappiamo bene cosa. Rimane in cura per qualche anno, ogni tanto assume farmaci, di quelli che lo rallentano al punto giusto da fermarlo con il banco in mano (ma vai a sapere se poi è vero che le sta prendendo, le medicine... o magari il banco non lo tira più perché hanno capito che non è il caso di fargli perdere la pazienza), e si presenta alle sedute psicologiche di sostegno dove si dedica a bellissimi disegni. Per lo più ritratti e piccoli paesaggi urbani. A sedici anni, finalmente, subito dopo aver concluso la terza media, quando non vede la psicologa da ormai due anni, gli dà il benvenuto l’Istituto penale minorile Cesare Beccaria – che è poi il carcere per ragazzi della sua età. Dicono che ha tentato di ammazzare qualcuno a pugni. È una storia del tutto ordinaria, e con vicende simili si potrebbero riempire pagine intere, senza il bisogno di andare a pescare ai margini della società. C’è il figlio di un direttore commerciale, che vive con una madre depressa che da tre anni se ne sta reclusa in casa con le tapparelle abbassate e le luci spente. E lui non fa che ingrassare e ingrassare, e non vuole uscire di casa nemmeno lui. C’è la figlia di bancari sposati, separati, risposati e riseparati, con sempre nuovi figli a carico, alcuni dei quali hanno tentato il suicidio – così che ora vuole tentare il suicidio anche lei. E si potrebbero raccontare molte altre storie ancora. La rete psicosociale dentro cui cadono i figli più sfortunati spesso impone alla psichiatria infantile di occuparsi di tutti coloro i cui denti sono troppo affilati per la medicina di base, per i servizi sociali e per i pannicelli caldi dello psicologo scolastico, del volontario di quartiere, dell’educatore dell’oratorio o della cooperativa dell’angolo. I ragazzi che spaccano, rompono o si sottraggono alle tappe dei percorsi obbligati. Quelli che dormono quando si deve stare svegli e 101­­­­

parlano quando si deve tacere1. E l’unico modo lecito in cui la psichiatria può occuparsene è accertarsi se questi ragazzini soffrano di un qualche disturbo psichico. Insomma, la tanto vituperata diagnosi risulta indispensabile alla psichiatria, perché il sistema dell’accreditamento sanitario funziona attraverso “prestazioni” giustificate e rimborsate dallo Stato solo di fronte a fatti sanitari comprovati, cioè a malattie. Ma la diagnosi è anche il dispositivo attraverso cui la società scarica il barile di queste storie umane, con la richiesta esplicita che una rete di problemi psicosociali articolati (che affondano le radici nella povertà, nella crisi della funzione familiare, nell’accelerazione sociale, nell’immigrazione, nella mancanza di supporti di contesto, nell’isolamento, nell’ignoranza, nella solitudine) sia trasformata dallo psichiatra di turno in un problema individuale, nella malattia di un bambino o un adolescente che, proprio in quanto “disturbato”, potrà almeno ricevere dalla società in cui vive qualcosa – i rimasugli, quel che resta in cassa –, prima che gli si aprano le porte di un’altra e forse funesta strada2. La psichiatria infantile fa dunque parecchio comodo alla società, e se si prendesse sul serio la storia di Diego e le migliaia di storie che ogni giorno passano dall’ambulatorio dei neuropsichiatri infantili, forse altre carceri dovrebbero aprirsi, e non quelle minorili. Altre autorità dovrebbero rispondere della solitudine disumana in cui viene a trovarsi una famiglia – anche benestante – quando qualcosa, nella sua storia, non va. E così, quando l’assessore di turno alle politiche sociali si sogna di patrocinare le kermesse antipsichiatriche di questa o quella organizzazione – giusto per raccattare voti facili sbanM. Lombardo Radice, Una concretissima utopia, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010. 2 F. Pelligra, F. Tognassi, Bambini fuori-Legge. L’infanzia e la crisi delle relazioni, Di Girolamo Editore, Trapani, 2009. 1

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dierando la propria sensibilità contro le multinazionali del farmaco e in favore dei santissimi diritti dell’infanzia – farebbe meglio piuttosto a starsene a casa a studiare le statistiche della sofferenza, la complessità dei malanni familiari, le difficoltà in cui versa una coppia di genitori quando ha un figlio che per i motivi più vari è davvero incasinato, la scarsità di risposte sociali che riceve (anche grazie alle politiche sociali di quel Comune o di quella Regione) e il modo spesso improprio in cui queste storie umane approdano sulla spiaggia consumata della psichiatria infantile. Tuttavia, in questa ossessione positivista e “scientista” che vive nel miraggio di una medicina “assoluta” e “vera”, che piove dal cielo con le sue buone pratiche ispirate a principi cristallini, ci siamo forse dimenticati che anche la psichiatria infantile è nata in un rapporto molto stretto con il potere giudiziario. 2. Breve ma doverosa parentesi sulla storia della neuropsichiatria infantile e i suoi rapporti con le famiglie Secondo molti, la neuropsichiatria infantile è nata a Chicago nel 1899, quando fu creato il primo Tribunale per i minorenni sulla scorta di un crescente allarme sociale legato alla delinquenza minorile. Dieci anni più tardi si inaugurava il Juvenile Psychopathic Institute, un centro dedicato ai giovani delinquenti, dove lavoravano fianco a fianco psicologi, operatori sociali e, per la prima volta, anche un neurologo. Da allora, in Europa, e in particolare in Francia, Italia, Inghilterra e Scandinavia, la disciplina si è gradualmente costituita come un campo misto che risentiva delle influenze della psicologia evolutiva, della pedagogia e della neurologia, e che “insisteva” soprattutto su due domini: i riformatori e le altre istituzioni di internamento dei giovani delinquenti o degli orfani, e gli istituti o scuole speciali per i bambini con ritardo mentale grave. La cura degli “anormali” si concentrava 103­­­­

dunque sui ritardati (la follia o la deficienza come espressione di anomalie fisiche) e sugli intemperanti (l’anormalità come espressione di deficit nell’organizzazione morale, nella volontà, nel senso civico, ecc.). Nonostante le trasformazioni radicali sopravvenute negli strumenti pratici e teorici utilizzati nella cura, questi due campi, anche se sotto altre denominazioni, restano tuttora “centrali” nell’ambito della psichiatria infantile e dell’adolescenza, e per molti versi costituiscono anche due filoni distinti. Da un lato, la psichiatria infantile si occupa di tutte quelle condizioni congenite o acquisite, con una forte base organica, che comportano svantaggi cognitivi e del movimento. Sono incluse le disabilità semplici e complesse di vario livello e i disturbi dell’apprendimento, cui si aggiungono – solo in Italia, dove la disciplina è fusa con la neurologia infantile – tutte le malattie neurologiche congenite e acquisite. Dall’altra parte c’è il vasto campo dei disturbi psichiatrici che, con l’eccezione di alcuni domini circoscritti che sorgono specificamente durante l’infanzia (l’autismo, l’adhd, ecc.), costituiscono per lo più la versione infantile delle patologie dell’adulto: disturbi d’ansia, schizofrenia, disturbi alimentari, dell’umore, della personalità, del comportamento. Nonostante si tratti di un dominio molto complesso, le diverse discipline di cui si compone stanno progressivamente convergendo intorno a una visione comune della “natura” dei problemi clinici. Il nucleo centrale di questa visione condivisa (oggi normalmente chiamata “psicopatologia evolutiva”) è che l’approccio clinico dovrebbe riuscire sempre a “tenere insieme” i fattori relazionali, sociali, affettivi, biologici e genetici, dal momento che essi interagiscono continuamente, dando forma alle manifestazioni complesse della sofferenza individuale. Abbiamo visto tuttavia che la “risonanza” con la più generale impostazione culturale della psichiatria degli adulti ha fatto prevalere, soprattutto negli ultimi vent’anni, orien104­­­­

tamenti meno “ecologici”, meno “aperti” al contributo della psicologia e delle scienze psicosociali, e invece più fortemente focalizzati sull’idea che le malattie psichiatriche dell’infanzia abbiano per lo più origine organica, e in alcuni casi – per esempio nel caso dell’adhd – addirittura una forte base genetica. Queste trasformazioni hanno riguardato molto da vicino le famiglie e hanno contribuito a designare i limiti e le coordinate entro cui si muovono oggi i genitori di un figlio problematico. La storia della psichiatria infatti è anche la storia di come la funzione delle famiglie ha interagito con il potere psichiatrico, proprio in ragione del fatto che esso si è inizialmente costituito come la “sponda” sociale per l’internamento e la “cura” dei bambini abbandonati, indigenti, delinquenti o a tal punto “anormali” da non trovare più possibile “accoglienza” entro la rete naturale di rapporti familiari. Qualcosa, a ben vedere, di non troppo diverso da quel che è accaduto a Diego. Queste interazioni tra l’istituzione familiare e quella medico-sanitaria e giudiziaria sono state forse spesso sottovalutate, ma si sono riprodotte anche in altri campi, in modo estremamente rilevante. Per esempio la crisi dei sistemi educativi primari cui si assiste in tutto il mondo occidentale non può essere banalmente “risolta” con l’idea che il problema nasca dalla scarsità di risorse pubbliche dedicate alla scuola dell’obbligo, o alla qualità forse più modesta del personale docente o dei programmi di istruzione (ammesso che sia così). Oggi infatti si scarica sull’educazione pubblica la pressione enorme di un sistema familiare in crisi. Crisi che, come è noto, riguarda la capacità di educare i figli, contenerli, proporre modelli educativi solidi e stabili, e che si accompagna alla tendenza, da parte dei genitori, a delegare alla scuola una serie di compiti e funzioni una volta interamente assolti dalla famiglia. Così, allo stesso modo, le istanze, i limiti, le difficoltà provenienti dall’istituzione familiare sono da sempre la sponda con cui in modo più o meno esplicito interagisce la psichiatria. 105­­­­

La storia della legge 180, promulgata nel 1978, e della chiusura dei manicomi in Italia fu del resto anche la storia drammatica di centinaia, forse migliaia di pazienti anche minorenni che furono liberati dalla loro condizione di detenzione obbligata “a sfondo sanitario”, senza che però vi fossero “contenitori sociali”, reti naturali di supporto, e soprattutto realtà familiari, effettivamente in grado di accoglierli. Una storia che riguardò anche moltissimi bambini, e che è ben raccontata in Neanche i genitori li vogliono, la seconda parte di un’inchiesta condotta da Liliana Madeo e pubblicata da “La Stampa” il 21 luglio 19783. L’inchiesta riporta le voci dei genitori di bambini “internati”, i quali erano stati di fatto costretti ad allontanare da sé i propri figli, in mancanza di mezzi e capacità di prendersi cura dei loro particolari bisogni: dateci sussidi decenti e ce li riprendiamo subito, dicono alla giornalista le madri dei bambini ricoverati – si fa per dire – al Santa Maria della Pietà in Roma in condizioni di degrado, abbandono e violenza. Situazioni non diverse da quelle note, nello stesso periodo, alle cronache giudiziarie: istituti dove la degenza era spesso senza scopo, senza un termine, senza alcun altro beneficio se non quello di allontanare i diversi dalla società; luoghi dove le coercizioni fisiche e le punizioni mentali si moltiplicavano, talvolta con l’intensità e con la foga che è propria solo della tortura. “Il potere psichiatrico e il suo discorso non possono essere rappresentati senza il rapporto che essi stringono con la famiglia”, scrive Gabriele Crimella4, e l’accesso alle cure, la reclusione in un reparto, il ricovero, anche solo il contatto con uno psichiatra si accompagnano sempre alla crisi di una rete di relazioni sociali al centro delle quali c’è la famiglia. P.M. Furlan, Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia, Donzelli, Roma, 2016. 4 G. Crimella, La critica psichiatrica nelle opere di Szasz e Foucault, Sensibili alle foglie, Roma, 2015. 3

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3. “La famiglia è importante per noi psichiatri, ma fino a un certo punto...” Il paradosso è che nonostante l’evidente centralità della famiglia nei meccanismi che producono “l’anormalità”, il disadattamento e la sofferenza, la psichiatria (anche infantile) ha spesso svolto il suo ruolo in modo solo molto settoriale, marginale o indiretto. Secondo molti studiosi di questo campo (tra cui per esempio David Jones5) tale paradosso sembra principalmente legato al fatto che la psichiatria tende in un certo senso a rifarsi a un’idea solo astratta e teorica della famiglia. Della famiglia, in altre parole, interessa più la sua rappresentazione stereotipata attraverso modelli sociologici o psicologici, piuttosto che la sua funzione reale, concreta, attuale. Non è che la famiglia sia stata ignorata dagli studi di psichiatria. Essa è stata per esempio esaminata all’interno del paradigma della terapia familiare, in base all’idea che i disturbi psichiatrici siano patologie che nascono (e sono causate) da particolari disfunzioni delle relazioni familiari. Nel tempo, tuttavia, questo paradigma è gradualmente passato di moda, dal momento che per molte patologie, quali per esempio la schizofrenia, si è scoperta una forte base “individuale”, poco sensibile all’influenza delle relazioni. Poi è stata la volta dell’approccio psicoeducativo. In questo caso, la famiglia è presa in considerazione non in quanto possibile causa della patologia, bensì come possibile interlocutore che può giocare un ruolo nella gestione della malattia di uno dei suoi membri, modificando determinati stili o codici di comportamento o educativi. Infine, la famiglia è stata presa in considerazione come “vittima” della presenza di un familiare psicopatico e studiata per comprendere come la sofferenza indotta dalla malattia D.W. Jones, Myths, Madness and the Family. The Impact of Mental Illness on Families, Palgrave Macmillan, New York, 2002. 5

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– per esempio – di un figlio, possa modificare le relazioni interne alla famiglia stessa. La maggior parte di questi approcci, come si vede, ha dato poca importanza al punto di vista soggettivo dei membri della famiglia, in rapporto all’esperienza della malattia e della cura. Molti studi sperimentali – tra cui appunto quello raccontato da Jones – hanno invece dimostrato come le famiglie dei pazienti psichiatrici siano attive protagoniste dell’intero processo attraverso cui un certo insieme di problemi relazionali, sociali, personali si rivela come qualcosa per cui è utile rivolgersi a uno psichiatra. È emerso che i genitori tendono a vedere gli esperti come poco attenti ai loro bisogni di ascolto e poco interessati a comunicare compiutamente il senso del loro operato clinico: i criteri adottati, i principi che ne sono alla base, e i limiti. Quando poi i genitori acquisiscono informazioni di tipo medico, di solito le attingono da molte fonti diverse, così che la “malattia” di cui si parla in famiglia non è quasi mai identica alla “cosa” che è condivisa e rappresentata nello studio del medico o dello psicologo. La famiglia è il luogo fisico in cui il dispositivo astratto della diagnosi si incarna nella vita delle persone. È sulla loro pelle che la diagnosi può essere compresa e “vissuta”, che una terapia può essere accettata e accolta, oppure modificata e interrotta a piacimento. Questa situazione ha poi evidenti ricadute sull’efficacia della cura perché, come abbiamo già detto, è stato dimostrato che la fiducia nel terapeuta è una delle variabili che più influisce sull’esito di un certo trattamento, indipendentemente dalla tecnica impiegata. È forse esperienza di ogni neuropsichiatra infantile constatare come questi passaggi nel rapporto con le famiglie siano centrali. Sono in gioco sentimenti di preoccupazione, vergogna, desiderio di riscatto, senso di pudore nell’esternazione di fatti spesso molto intimi e privati, talvolta poco piacevoli. Tuttavia questa consapevolezza spesso non basta. È ve108­­­­

ro infatti che, come osserva correttamente John Lyons6, gli esperti di salute mentale, che hanno dedicato molti anni della propria vita allo studio della scienza psichiatrica, sono certamente persone dotate di conoscenze di psicologia e psichiatria più approfondite di ogni altro comune cittadino, ma è anche vero che, per le stesse ragioni, i professionisti tendono ad avere la presunzione di capire, più di chiunque, le emozioni, gli stati d’animo, le relazioni e gli affetti – aspetti che invece sono sperimentati e comprensibili anche agli altri. In tal modo spesso dimenticano che i pazienti e i loro genitori sono sempre e comunque depositari di una conoscenza di gran lunga più approfondita riguardo alla propria vita e agli elementi rilevanti che definiscono il loro benessere o il loro disagio. La lingua tecnica della clinica – quand’anche capace di approdare alla più cristallina delle diagnosi – rischia di ridurre lo spazio possibile della comunicazione e della conoscenza, di produrre esclusioni e censure, di togliere “voce” al malessere. Questo atteggiamento rende il profilo professionale dell’esperto meno credibile agli occhi delle persone comuni. La sofferenza – anche dei bambini e degli adolescenti – si nasconde a volte tra le pieghe di ciò che dicono, è bisbigliata o muta, parla una lingua privatissima che non può essere tutta contenuta e spiegata dal sapere psichiatrico. Una specie di rumore di fondo che ha bisogno di molto silenzio e attenzione per essere captato, e che è importante che i clinici siano disponibili ad ascoltare, senza bisogno di sfoderare in continuazione il proprio arsenale di conoscenza, sforzandosi continuamente di “capire”. L’esatto opposto della foga performativa di molta pratica clinica ambulatoriale, freneticamente infarcita di questionari, raccolte di informazioni, domande e capriole burocratiche, appesa come è al cappio obbligato delle diagnosi, come visto tanto vituperate, ma poi tanto J.S. Lyons, Redressing the Emperor. Improving Our Children’s Public Mental Health System, Praeger, Westport, 2004. 6

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comode alla società stessa, alle aziende sanitarie, al sistema dell’accreditamento, ai servizi sociali e al sistema educativo. La base per ogni buona pratica basata sull’evidenza che si rispetti. Così buona per la riproducibilità dei risultati, ma anche così scivolosa per il contatto personale. Certo è innegabile che i cambiamenti occorsi nella psicopatologia dello sviluppo negli ultimi cinquant’anni abbiano modificato sensibilmente il rapporto del “sapere” psichiatrico con le famiglie. Si è passati infatti da una lettura dei disturbi dell’infanzia che tendeva a colpevolizzare i genitori – fondata quindi sulle loro responsabilità psicologiche e affettive – a un modello medico che tende a porre l’accento sul carattere biologico degli accidenti e della sofferenza. È perciò innegabile che per molti genitori sia stato certo un sollievo apprendere dalle grandi narrazioni scientifiche collettive che, per esempio, se il figlio faticava nei compiti ciò poteva forse essere dovuto a qualche difetto nei meccanismi cerebrali che regolano la lettura; che la sua continua disattenzione, testimoniata da una lunga lista di note sul registro scolastico, poteva essere giustificata da una patologia dei lobi frontali “fortunatamente” responsiva a un trattamento a base di anfetamine; che la sua depressione era causata da un qualche squilibrio neurochimico a livello cerebrale. Queste trasformazioni hanno forse modificato le geometrie del rapporto tra famiglie e psichiatria. Ma il legame resta strettissimo e, sebbene i manicomi siano stati chiusi da tempo e gli orfanotrofi ufficialmente non esistano più, oggi le crisi familiari si confrontano, nel contatto con la psichiatria, con altri tipi di “internamenti”, di allontanamenti, di esclusioni7. Il caso delle comunità terapeutiche è in questo senso particolarmente esemplificativo.

7 D. Barazzetti, A. Cammarota, S. Carbone, Incolpevoli... però. La famiglia nelle rappresentazioni degli operatori dei servizi di salute mentale, Aracne Editrice, Roma, 2014.

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4. Uno dei tappeti sotto cui nascondere le briciole scomode della società In Italia, il numero di bambini e adolescenti inseriti in strutture residenziali terapeutiche è da alcuni anni in costante aumento (per esempio, in Lombardia, nel solo 2011 si è registrato un aumento pari al 16%). Si stima che nel 2008 sia­ no stati inseriti poco più di un migliaio di minorenni, ma il numero esatto è impreciso e il censimento complessivamente disomogeneo. I dati della Lombardia, recentemente aggiornati in seguito a un censimento approfondito, attestano che nel solo 2011 sono stati inseriti in comunità terapeutiche oltre 400 ragazzini, dei quali più della metà affetti da una patologia psichiatrica caratterizzata da problemi del comportamento e condotte aggressive. Molti di loro hanno alle spalle situazioni familiari complesse di degrado o disagio molto grave. Nella maggior parte dei casi è intervenuto il Tribunale per i minorenni, con decreti a favore del bambino. L’immagine che se ne ricava è alquanto preoccupante. Non solo non è chiaro quanti siano esattamente i ragazzini che sono ospitati in comunità, ma il crescente aumento dei collocamenti (come desunto dalle statistiche di alcune regioni) lascia anche intendere che il calderone della sofferenza psichiatrica infantile e adolescenziale è in piena ebollizione e trabocca a velocità sempre maggiore, e che il contenitore naturale che normalmente funge da primo argine, la famiglia, ha da tempo alzato bandiera bianca. Questa situazione ha radici articolate, che vanno ricercate a partire dall’attuale organizzazione dei servizi sanitari a livello nazionale e locale. La neuropsichiatria infantile denuncia da tempo una grave carenza di mezzi e investimenti. A fronte di un costante aumento della domanda e dei bisogni di salute mentale (aumento medio degli utenti seguiti dai servizi di npia – Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza – del 7% l’anno; aumento complessivo degli utenti seguiti negli ultimi cinque anni del 45%; aumento degli accessi di adolescenti 111­­­­

con acuzie psichiatrica in pronto soccorso del 21% nell’ultimo anno), le risorse di personale e le infrastrutture sono in continua diminuzione8. La situazione dei posti letto negli ospedali non potrebbe rappresentare meglio i vuoti del sistema: si stima che nel 2012 ve ne fossero poco più di 300 in tutta Italia (di cui poco meno di 80 dedicati ai disturbi psichiatrici e i restanti a tutte le altre patologie di cui si occupa la neuropsichiatria infantile, per lo più disturbi neurologici, epilessia, paralisi infantili, ecc.), e il loro numero è diminuito del 30% nell’arco di solo quattro anni, nonostante la patologia psichiatrica infantile si manifesti con sempre maggiore frequenza. In ben sette regioni non esiste alcun “letto” per ricovero neuropsichiatrico infantile. A Milano, per esempio, non esiste ancora nessun reparto di neuropsichiatria infantile, e forse, se non si cambierà idea ancora una volta, ne sarà aperto uno tra qualche mese, quando questo libro sarà già uscito. Il risultato è che quando un bambino o un adolescente ha bisogno di un ricovero, per esempio nel caso di una crisi “acuta”, spesso è costretto ad “appoggiarsi” alle pediatrie per i più piccoli o, sempre più spesso, ai reparti di psichiatria degli adulti. L’anno scorso, per fare solo un esempio, una bambina di undici anni o poco più è stata ricoverata nel reparto di psichiatria per adulti di un noto ospedale milanese. Che tipo di esperienza avrà vissuto, la piccola? Siamo proprio sicuri che Milano non possa garantire di meglio ai suoi figli? Certo il ricovero non risolve il problema della crisi familiare, ma non si può negare che, quantomeno, esso costituisce a volte un passaggio fondamentale, che può incanalare le sorti di una crisi verso una prospettiva di cura sana. Purché questo avvenga in un luogo adatto e dotato di personale specializzato. È tuttavia evidente che anche i dati provenienti dal censimento delle comunità terapeutiche – dove la maggior parte Cfr. dati ufficiali della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile, http://www.sinpia.eu/appello_npia.pdf. 8

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dei bambini e adolescenti ricoverati sembrano provenire da situazioni sociali complesse, di disagio o difficoltà – indicano con chiarezza che lo scopo da perseguire è quello di lavorare intensamente per prevenire il malessere psichico e porre le famiglie nelle condizioni di fare i conti con problemi sempre crescenti. Il fatto che, nonostante la diffusa sensibilizzazione al disagio adolescenziale e infantile, i problemi psicologici dei figli possano giungere a un punto di crisi tale da spingere sempre più spesso i genitori a chiedere che il figlio sia spedito in una comunità, non può che destare intensa preoccupazione. È del resto curioso come, in questo caso, proprio la psichiatria – così orientata a “individualizzare” la sofferenza mentale, a ridurla a un fatto privato che riguarda appunto un individuo, un paziente – finisca per essere l’istituzione che attesta il principio opposto. L’allontanamento da casa di un minorenne sofferente è in fondo una sorta di ammissione che suona più o meno così: abbiamo fatto di tutto per trattare questa vicenda umana come un problema di squilibri biochimici del cervello e di meccanismi psichici personali. Ma la realtà è che anche in questo caso a fare la differenza è l’ambiente. Ed è chiaro che in assenza di programmi in grado d’investire in modo incisivo sull’ambiente, cioè soprattutto sulla capacità delle famiglie di affrontare i momenti di crisi in modo per quanto possibile autonomo, la sola via d’uscita risulta quella di allontanare il figlio. Così, alla fine, a essere introdotti nelle comunità sono quei figli che presentano condizioni troppo gravi per essere trattati con le poche, a volte pochissime, risorse della psichiatria pubblica ambulatoriale. Ed è una fortuna che prima non si aprano, come nel caso di Diego, le porte degli istituti di pena. In tutto questo, ciò che preoccupa ancora di più è che ad oggi non sono state stabilite neppure a livello internazionale linee guida che precisino in quali casi a un bambino o a un adolescente debba essere prescritto un trattamento comunitario, né quali tipi di trattamento siano utili o efficaci in una comunità terapeutica e quali invece inutili e dannosi. 113­­­­

Ciò significa che, a patto che siano rispettati i criteri locali di accreditamento (le condizioni igieniche degli spazi, il numero di operatori professionali qualificati, ecc.), in una comunità, più o meno, ci si può mettere di tutto: i corsi di cucina e la lotta greco-romana, i gruppi psicoeducativi e la psicoterapia individuale. Le ripetizioni scolastiche e un po’ di sano cazzeggio. La solitudine e un po’ di psicofarmaci. E poi, chi controlla come stanno veramente i ragazzini in comunità? Gli stessi medici che ce li hanno inviati, spesso con un personale senso di sollievo per aver “scaricato” un caso difficile, a volte impossibile? Gli stessi medici che, nell’inviare un paziente in comunità, nutrono non di rado la malcelata e paradossale speranza che il fatto che dalla comunità il paziente non sarà dimesso in tempi rapidi sia anche l’attestazione che l’invio in comunità era clinicamente “indicato”? Oppure dovrebbero svolgere i controlli gli stessi operatori che ci lavorano, che ovviamente non hanno alcun interesse a farlo? È possibile che un’istituzione che funziona a tutti gli effetti come un sistema di “internamento” non abbia metodi di monitoraggio ufficiali, che non siano le sporadiche puntate dei nas o qualche sparso controllo delle unità sanitarie locali? Quante sono, per esempio, ad oggi, le comunità terapeutiche per minorenni dove si pratica ancora la contenzione fisica? Quali altri tipi di “contenzioni” (per esempio farmacologiche) vengono in effetti praticate? E senza spingersi sin lì: quante sono le comunità in cui è impedito ai ragazzini di comunicare con i propri familiari per periodi prolungati? In che senso questi “ricoveri”, che spesso avvengono su bambini o adolescenti che in comunità non ci vorrebbero stare, non sono a tutti gli effetti degli internamenti coattivi? In che senso sono tutelati i diritti fondamentali di questi figli, il diritto d’essere ascoltati, il diritto di dire la propria nei procedimenti che li riguardano e soprattutto il diritto alla salute?9 Non soA. Banfi, G. Del Giudice, P.A. Rovatti, Slegalo! Usi e abusi della psichiatria, Becco Giallo, Sommacampagna, 2016. 9

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lo. Il collocamento in comunità dovrebbe essere un passaggio temporaneo (possibilmente il più breve possibile), finalizzato a rientrare quanto prima nell’ambito della famiglia naturale. Tuttavia, il sistema di cura funziona in modo tale per cui, una volta che i ragazzi sono stati “inviati” in comunità, di solito cessa sul territorio di origine qualunque programma d’intervento o supporto alla famiglia. Così che l’allontanamento non è quasi mai breve, e anzi rischia di durare a lungo: le statistiche dicono che in media duri almeno un anno, ma molto spesso più di due anni. È dunque lecito chiedersi: se sono state proprio le condizioni ambientali a far “saltare” il sistema di relazioni familiari, come ci si attende che il bambino o l’adolescente possa far ritorno a casa, senza che si svolga un lavoro intensivo proprio sulla famiglia, e senza un lavoro attivo di recupero della relazione genitori-figlio o delle condizioni sociali che hanno determinato la crisi familiare? La situazione è resa ancor più grave dal fatto che anche il numero di comunità terapeutiche è insufficiente. E ciò principalmente perché si tratta di un business rischioso, spesso poco conveniente per chi lo conduce. Il risultato è che spesso i collocamenti avvengono a parecchia distanza dal luogo di origine, e ciò complica di molto gli effetti dell’allontanamento, sia perché i ragazzi sono sradicati dal loro ambiente di vita (così che perdono le loro amicizie e la possibilità di proseguire i percorsi scolastici che avevano intrapreso), sia perché per i familiari può essere molto difficile sostenere il peso anche economico di visite periodiche frequenti. Infine, anche nel momento in cui pare possibile – a discrezione dei curanti – fare rientro a casa, non è affatto chiaro quali siano i criteri utili alla dimissione dalla comunità, così come non erano chiari quelli all’ammissione, né esistono indicatori condivisi per comprendere cosa sia cambiato e perché. Insomma, la società si attiva in un’operazione dispendiosissima che coinvolge molteplici professionisti, che comporta una rottura dei legami familiari, che costa a Regioni e Comuni 115­­­­

alcune decine o centinaia di euro al giorno per ogni ragazzino ricoverato, ma i cui benefici sono a dir poco incerti. È pur vero che secondo alcune ricerche i ragazzi introdotti nell’ambiente comunitario – con certi tipi di intervento psicoterapeutico e farmacologico – migliorano e sembrano “stare meglio”. Ma non esiste praticamente alcuno studio che dimostri se e come questi miglioramenti siano “mantenuti” quando i ragazzi fanno ritorno nel contesto familiare, che dovrebbe invece essere l’obiettivo principale dell’allontanamento. Le disuguaglianze che si nascondono all’interno di questo sistema sono molteplici e sono forse condensate nella realtà paradossale per cui – in base ai dati sino ad oggi disponibili – un figlio adottivo ha dieci probabilità in più, rispetto a un figlio naturale, d’essere collocato in una comunità (i bambini adottati sono dieci volte più numerosi in comunità che nella popolazione generale). Questo significa che all’esperienza spesso drammatica dell’adozione si aggiunge anche quella traumatica dell’allontanamento. Non si tratta forse di un dato che scopre la penosa solitudine delle famiglie “a rischio” in questa società – sia che vivano nelle periferie accalcate delle città sia che abitino negli attici alberati del centro? I figli adottivi non dovrebbero essere i primi a vedersi garantita una tutela da parte della società, così che sia loro risparmiato un nuovo allontanamento, una nuova perdita della famiglia, un nuovo internamento? Il fatto incredibile è che la nostra pomposa retorica della difesa dell’infanzia, buona per i convegni, i comizi e qualunque altro spettacolo pubblico, poi si dimentica con estrema facilità di questi altri figli, lasciati sgocciolare via dal secchio dei normali, instradati a un futuro certamente molto ripido e scivoloso. 5. Bimbi grulli chi li ha fatti se li trastulli In questo difficilissimo scenario la psichiatria infantile – e, in modo per certi versi simile, anche la psichiatria degli adulti – ha iniziato da molti anni a investire nel consolidamento di un 116­­­­

sistema integrato di cura fortemente centrato sull’intervento territoriale. Ciò è accaduto in molte realtà del Canada e degli Stati Uniti, così come anche in molti Stati d’Europa, inclusa l’Italia. L’idea di fondo è che la cura dovrebbe essere “erogata” nel territorio di appartenenza della famiglia, poiché solo così è possibile investire in modo efficace sulle risorse personali e del contesto, familiare e sociale, rinforzando le reti naturali di supporto. Si tratta di un cambiamento lento, ma potenzialmente molto positivo, che purtroppo, come abbiamo visto, si scontra con vincoli politici e “di sistema” anche legati alla scarsità dei fondi dedicati alla salute mentale. Tuttavia questa “comunitarizzazione” della clinica psichiatrica, questa spinta al decentramento e alla territorializzazione, rischia di alimentare nuove tensioni10. Essa esercita infatti, inevitabilmente, una certa pressione sulle famiglie, che si vorrebbero investite di sempre più onerosi ruoli di compensazione e di cura, nonostante non si sia ancora consolidata una base stabile di programmi psicosociali, una rete d’interventi e finanziamenti dedicati e di strutture professionali qualificate e sufficientemente numerose11. Non si fatica a scorgere, in questo scenario, l’esito di una dinamica ambigua in cui la società sembra chiedere alle famiglie – attraverso le proprie istituzioni sanitarie – di riaccollarsi il peso sociale dei figli difficili, senza tuttavia metterle di fatto in condizione di farlo. Teneteveli pure! – sembra dire il Sistema – che a noi costano troppo e che allontanarli in fondo non serve. Ma cosa si faccia esattamente perché le famiglie diventino in grado non solo di tenerseli, ma anche di crescerli e di superare con loro le difficoltà, questo non è sempre chiaro. Una dinamica che, come si vede, ricorda da vicino quanto accadde appunto all’indomani della legge 180, con molti geniG. Davidson, J. Campbell, C. Shannon, C. Mulholland, Models of Mental Health, Palgrave Macmillan, New York, 2016. 11 R. Freeth, Humanising Psychiatry and Mental Health Care. The Challenge of the Person-Centred Approach, Redcliffe, London-New York, 2007. 10

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tori posti nella condizione di non sapere come “riprendersi” quei figli che avevano, spesso a malincuore, abbandonato al triste destino di internati. Così, la stessa famiglia che la svolta “medica” della psichiatria aveva sollevato dalle responsabilità morali della malattia – con mille variegate teorie sul modo in cui gli squilibri neuronali giustifichino questo o quel comportamento problematico dei figli – rischia di trovarsi di nuovo in balìa delle acque burrascose del biasimo e della colpevolizzazione. Noi sappiamo cosa vi serve per essere buoni genitori. Questo è il messaggio che le famiglie rischiano di trovare scritto sul portone di un reparto di psichiatria infantile. Nell’istituzione psichiatrica c’è il rischio d’incontrare un sistema di saperi che si aspetta dalle famiglie cambiamenti che in effetti i genitori non chiedono, necessari a renderli adatti a seguire programmi di cui a volte non hanno bisogno. Programmi e trattamenti che siccome funzionano per molti, devono per forza funzionare anche per il loro figlio. Nonostante l’accesso ormai diffuso alla cultura medica attraverso internet, è molto difficile per i genitori disporre di tutti gli elementi necessari a compiere scelte pienamente libere e consapevoli, e non di rado prevale la sensazione che il rapporto di cura sia poco permeabile a uno scambio aperto e paritario, imbrigliato in forme di subalternità che minano alla radice la relazione di fiducia e di collaborazione su cui dovrebbe invece fondarsi la cosiddetta “alleanza” terapeutica. Quello che molti psichiatri e psicologi non comprendono è che molto spesso (quasi sempre, forse) le famiglie, se solo avessero a disposizione una scelta valida, non vorrebbero ciò che abbiamo da offrire loro. Quando invece la scelta non ce l’hanno, si limitano a far buon viso a cattivo gioco. Il rapporto di cura – soprattutto in quelle situazioni in cui la sofferenza è molto intensa e complessa – finisce così, spesso, per saturarsi di aspettative contrapposte molto delicate che, se non sono riconosciute e gestite apertamente, portano 118­­­­

in breve allo stallo, al fallimento degli interventi terapeutici e, a volte, a possibili ulteriori crisi. 6. Partecipare attivamente alle cure Esiste evidentemente l’esigenza di investire di più in una strada alternativa, in cui diventi rilevante conoscere a fondo il punto di vista delle famiglie per definire dal basso gli obiettivi possibili di ogni intervento clinico, il loro senso, le risorse su cui essi poggeranno. Due genitori che si rivolgano a uno specialista o a un servizio di salute mentale per un problema del figlio, stanno cercando di condividere una parte delicatissima della loro esistenza e delle loro esperienze, per chiedere che quelle persone li aiutino a cambiare qualcosa di rilevante nella loro vita e nella vita del figlio. È dunque lecito che si aspettino che gli esperti a cui si sono rivolti siano in grado di ascoltare ciò che hanno da dire, senza la presunzione di conoscere a priori o di giudicare il loro punto di vista. È indispensabile anche che le famiglie si sentano coinvolte attivamente in ogni discussione e ogni scelta che riguarda la loro storia personale. Solo se tutti gli “attori” in campo partecipano è possibile interrompere i circuiti disfunzionali che hanno generato gli strappi e le lacerazioni, oppure che semplicemente complicano la sofferenza già esistente. In questo senso la partecipazione non è, né può essere, l’adesione forzata oppure compiacente a un programma imposto dall’alto. Le persone possono essere attivamente coinvolte in un lavoro trasformativo solo se si sentono responsabilizzate. Devono poter percepire che l’intervento di supporto e la rete professionale che si attiva intorno a loro non possono sostituirsi all’autonomia e alla responsabilità dei singoli, ma piuttosto devono promuoverne l’espressione efficace e libera. Investire fortemente sulla responsabilità è forse un buon modo per affrontare insieme i variegati malanni che si coltivano in una società spesso ammalata del tutto sempre possi119­­­­

bile, un imperativo che, come abbiamo visto, sta svuotando, sempre di più, il senso stesso della parola “agire”. In questo quadro è anche evidente che genitori e figli possono sentirsi molto più responsabilizzati se l’équipe che si dispone ad “aiutarli” si impegna a individuare e a valorizzare le loro qualità e risorse (oltreché a focalizzare eventuali problemi e criticità), a definire obiettivi chiari e condivisi sugli interventi possibili, a valutare insieme le strategie per raggiungerli, a operare in modo collaborativo e rispettoso in questa direzione in tempi certi, a valutare periodicamente i progressi realizzati. Non esiste una sola “ricetta” buona per fare tutto ciò, un solo strumento o metodo, e gli approcci possibili sono molti. Tuttavia, sia all’estero che in Italia, si sta gradualmente costruendo una cultura fatta di programmi a forte connotazione istituzionale (come nel caso del lavoro su vasta scala promosso dalla Praed Foundation negli Stati Uniti e in Canada, delle iniziative promosse dal ministero della salute inglese e accessibili attraverso il portale Youngminds.org.uk o del programma “Getting it right for every child” promosso in Scozia) che hanno al centro del loro operato alcuni principi fondamentali: l’idea che sia necessario ripartire dal punto di vista dei figli e dei genitori; e l’idea che un progetto di cura è efficace solo se è costruito sulla collaborazione e sulla fiducia, e se è in grado di rispondere in modo concreto e trasparente ai bisogni reali delle persone.

6.

Fuori dal vicolo cieco

1. Oltre il mito di “quello bravo” Una delle caratteristiche tipiche dei film su psichiatri e psicologi è che spesso vince la messa in scena di una dialettica molto netta tra il professionista buono e l’istituzione sanitaria cattiva, corrotta e violenta. Naturalmente questa dialettica include anche la sua variante complementare in cui è lo psichiatra (o lo psicoterapeuta) il cattivo di turno, da Mabuse a Hannibal Lecter. Curiosamente, in questi casi lo psichiatra diviene quasi sempre cattivo proprio nella misura in cui è egli stesso un folle, un deviante, un matto. Un suo potenziale paziente1. In tutti gli altri casi gli spettacoli pubblici prediligono la dialettica opposta. Qui di solito le qualità esaltate nell’esperto di salute mentale sono l’umanità (contrapposta alla disumanità dell’istituzione), l’empatia, il coraggio; quasi mai l’acume scientifico e la professionalità, nel senso della capacità “tecnica”. Le cose sembrano andare così anche nella vita reale e, nonostante l’enfasi che la società ripone nella scienza e nel potere dei dispositivi tecnici e delle cure basate su procedure standard, le professioni d’aiuto restano anse molli del ventre sociale dove il confine tra cura e sopruso, tra beneficialità e libertà, tra competenza e ciarlataneria, tra scrupolo e improvvisazione, è comunque appeso al cappio delle “qualità uma1 M. Del Vecchio, G. d’Aquino, A. Pisapia, Specchi rotti e lanterne magiche. Il mondo della follia al cinema ed in televisione, Mattioli 1885, Fidenza, 2000.

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ne” individuali di ciascun operatore. Molto più, forse, che per ogni altra professione sanitaria. Ogni relazione di cura si basa su rapporti umani, personali e individualizzati. Devi poterti fidare di chi ti segue e questo, dicono le statistiche, influisce sulla prognosi, sugli esiti della cura, molto più delle tecniche e dei metodi di cura. Tuttavia ciò lascia un po’ di amaro in bocca a una società che investe tanto nell’illusione che la scienza e il progresso possano effettivamente migliorare la vita delle persone, e che questo accada attraverso criteri standardizzati e procedure “oggettive”, possibilmente uguali per tutti. Del resto, questo mito dell’importanza della figura individuale del terapeuta – specie se in contrapposizione a istituzioni vissute come distanti e governate da interessi “occulti” o poco trasparenti – evoca un sinistro ritorno al mondo indifferenziato delle pratiche di aiuto fai da te. Se, in fondo, ciò che conta è fidarsi di chi ci cura, questo non implica forse dare il via libera a un ritorno in massa a guru e stregoni variamente assortiti? Si tratta di un rischio molto serio, soprattutto perché questa tendenza riguarda sempre più anche quel dominio ormai vastissimo che sono le pratiche di cura per la mente, ove si assiste a un vero e proprio carnevale di offerte e proposte di aiuto, complice forse anche l’atteggiamento troppo permissivo di una “psicologia” sempre più prona a confondere la flessibilità dei propri modelli teorici con il marketing. Un ambito potenzialmente insidiosissimo, dove al rigore professionale non di rado si sostituisce la buona volontà, alla responsabilità il coraggio (o forse solo il pelo sullo stomaco), alla prudenza l’ottimismo e un po’ di sana fede nella sorte. Un fenomeno che, soprattutto nel campo dei disturbi psicologici infantili e adolescenziali, rischia di fare danni enormi. Molte famiglie alle prese con i problemi psicologici di un figlio, hanno conosciuto la faticosa esperienza della trasmigrazione da un professionista all’altro, da una consultazione all’altra, spesso senza la possibilità di cavarne un’immagine chiara. Senza poter pretendere che il professionista (come è 122­­­­

preciso obbligo deontologico e professionale) redigesse una relazione scritta di quanto aveva fatto, capito e compreso. Senza – in fin dei conti – una vera “diagnosi”, per quel che vale. Un fenomeno grave proprio nella misura in cui è noto che arrivare tardi alla cura, di solito, vuol dire arrivarci con molte meno possibilità di “guarire” o comunque di uscirne indenni e in fretta; ancora più grave, se si considera che, di tutti i bisogni di “salute mentale” dell’infanzia, meno della metà (e in adolescenza circa solo un terzo) giungono alle cure dello psichiatra. Ciò significa appunto che ci sono quasi due terzi di bambini e adolescenti con problemi psicologici potenzialmente gravi, che o non avranno alcuna cura, oppure si affideranno al mare incerto dei centri privati. 2. Così va il mercato Se ciò accade non è certo “per colpa” dei singoli professionisti privati – competenti o meno che siano – che esercitano il loro mestiere nel pieno diritto. La realtà è che questo complesso e dispendioso fenomeno interroga il modo stesso in cui la società promuove la salute mentale dei figli, si cura di proteggere le famiglie circa i “percorsi” di cura più accreditati e “sicuri” e tutela di fatto quelle realtà professionali (prima di tutto pubbliche) in grado di offrire risposte sanitarie adeguate, secondo criteri di qualità condivisi e trasparenti. Non sfugge che se il tempo di attesa medio per una consultazione presso una struttura sanitaria pubblica è di qualche settimana o mese, a volte di molti mesi, spesso non resterà altra scelta alle famiglie che vagare in cerca di un’offerta più pronta. La carenza di risorse in questo campo è una cosa molto grave. Una società che non investe sui figli che stanno peggio e sulle famiglie più a rischio, moltiplica le conseguenze e il costo sociale della sofferenza, del malessere e del disagio, e lascia che il tessuto si frammenti in molti tipi diversi di future “invalidità”, “inabilità” e cronicizzazioni. Si facciano un giro, 123­­­­

assessori e direttori generali, meglio se con i loro figli bisognosi di aiuto, in una qualsiasi delle strutture sanitarie pubbliche “territoriali” (che siano neuropsichiatrie infantili, consultori familiari, ecc.) delle grandi città, da Milano a Roma, da Palermo a Bari, per comprendere quali sono le situazioni “medie” in cui gli operatori normalmente lavorano: spesso in condizioni di abitabilità e idoneità degli spazi del tutto precarie e approssimative, in locali in cui fa freddo d’inverno e troppo caldo d’estate. E, ad andare bene, che siano stati bonificati dall’amianto, dal momento che la maggior parte delle strutture è vecchia di quaranta, cinquant’anni, con gli operatori a disputarsi le sedie, le scrivanie, le stanze, i pc e la carta per scrivere, insomma il minimo sindacale di ciò che dà forma e dignità a un “posto” per il lavoro. Senza contare il problema della carenza di risorse umane, in parte “compensato” dalla diffusione dei contratti “a progetto”, che comportano che una quota consistente del personale che lavora in un servizio di neuropsichiatria infantile sia spesso assunta nell’ambito di “progetti” (per lo più regionali), che scadono ogni due-tre anni e che forse saranno rinnovati, forse no. Come se i pazienti che gli operatori hanno in carico potessero scadere ogni due anni e non sapere se la persona con cui hanno costruito un rapporto di cura e di fiducia – appunto – ci sarà ancora o svanirà nel nulla burocratico di un rinnovo di contratto mancato, di un intoppo amministrativo, di un cambio di giunta o di direttore generale. Ciò nonostante, le lagnanze per l’assenza di risorse, pure sacrosante e fondamentali, rischiano di essere insidiosissime se servono solo a nascondere le molte incertezze che gravano sulla psichiatria infantile. Lo abbiamo visto in tutti i capitoli precedenti. In molti diversi ambiti questa disciplina si confronta oggi con una crisi storica senza precedenti, che non può in alcun modo essere elusa o aggirata, e che necessita di risposte forti e convincenti. Una crisi le cui conseguenze riguardano prima di tutto le famiglie. 124­­­­

3. Il binario morto della psichiatria come la conosciamo oggi (sintesi breve di cose in parte già dette, ma utili per capire come rimettere le famiglie al centro della cura) La strada che è stata imboccata rischia di non portare da nessuna parte. La psichiatria ufficiale propone che la maggior parte delle malattie mentali, anche di bambini e adolescenti, sia radicata in disfunzioni cerebrali. Tuttavia il numero di “malattie mentali” catalogate è quadruplicato negli ultimi trent’anni senza che alcuna scoperta scientifica solida oggi consenta di affermare con rigore scientifico la natura incontrovertibilmente organica di alcuna delle 392 patologie esistenti. Come abbiamo visto, questo implica che le classificazioni che utilizziamo per descrivere come stanno i pazienti (le diagnosi) sono frutto di compromessi molto ambigui. Una specie di “sedimentazione di incidenti storici” (per dirla ancora con Allen Frances2), che lasciano il legittimo sospetto d’essere più utili ad ampliare il mercato dei disturbi e delle cure farmacologiche annesse, che non ad aiutare figli e genitori a comprendere quale è il problema e come si può “risolvere”. Del resto, queste grossolane approssimazioni dell’impianto “scientifico” della psichiatria spiegano bene l’enorme incertezza circa le presunte cause delle molte patologie psichiche “identificate” – sulle quali ancora per lo più non c’è alcun accordo – e circa i meccanismi che spiegherebbero l’efficacia di certi farmaci. Come hanno osservato molti autorevoli studiosi3, gli psichiatri sono i primi professionisti che dovrebbero temere la medicalizzazione della psichiatria, perché questo processo A. Frances, Saving Normal. An Insider’s Revolt Against Out-of-Control Psychiatric Diagnosis, dsm-5 Big Pharma, and the Medicalization of Ordinary Life, William Morrow, New York, 2013. 3 K.W.M. Fulford, M. Davies, R.G.T. Gipps, G. Graham, J.Z. Sadler, G. Stanghellini, T. Thornton, The Oxford Handbook of Philosophy and Psychiatry, Oxford University Press, Oxford, 2013. 2

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sta conducendo la disciplina su un pericolosissimo binario morto. In questo clima le famiglie non possono certo stare serene. Tanto più che – come abbiamo detto – quando genitori e figli cercano di informarsi autonomamente, per capirci qualcosa, per farsi un’idea più chiara, si imbattono in una narrazione collettiva che rischia di confondere e scoraggiare ancora di più. La diffusa critica all’operato della psichiatria infantile rischia d’essere molto fuorviante e pericolosa, talora, come si è detto, è costruita su argomenti strampalati e illogici, non di rado è poco informata, oppure condizionata da pregiudizi massimalisti del tutto controproducenti. Tuttavia è pur sempre l’espressione di una dialettica culturale che tocca punti delicatissimi dell’operato della psichiatria infantile e che questa disciplina non può ignorare. Siamo proprio sicuri che la sola possibile conseguenza di un approccio critico sia un ritorno all’esercizio autarchico delle pratiche alternative, l’adesione fideistica e ancora più aberrata che “naturale” sia necessariamente “buono”? Che “bio” sia necessariamente “sano”? Che la soluzione sia, appunto, gettare il bambino con l’acqua sporca? Esiste un’alternativa al modello individualistico della salute mentale, per cui – in un simile clima di sfiducia – la sola cosa che si salva sono le presunte e insindacabili qualità taumaturgiche del “terapeuta”? Non sarebbe forse più sano pretendere che il sistema delle cure operi – prima di tutto – per garantire alle famiglie la possibilità di affidarsi a persone e istituzioni in grado di prendersi cura del desiderio di cambiare qualcosa di rilevante nella loro vita, in modo collaborativo e trasparente, senza che ciò automaticamente inneschi il tritacarne delle cure standardizzate, dei programmi un tanto al pezzo, della psichiatrizzazione medicalizzante che comporta senso di esclusione, giudizio e vergogna?

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4. Alcune cose che la psichiatria infantile potrebbe cambiare in favore delle famiglie (e che le famiglie farebbero bene a pretendere) Per fortuna nulla si può sostituire all’importanza delle qualità umane di un terapeuta, psichiatra o psicologo che sia. Ma i molti e diversi problemi che caratterizzano questo campo necessitano di una risposta di sistema, non della fiducia nel guru di turno. Come abbiamo accennato, la psichiatria infantile non può alzare le spalle di fronte al muro di critiche che da molti ambiti vengono sollevate. È indispensabile una prospettiva culturale condivisa, disponibile all’autocritica, permeabile ai cambiamenti, centrata sulle molte, moltissime cose buone che appartengono alla tradizione psichiatrica infantile; una prospettiva disponibile a rimettere le famiglie al centro del lavoro, dell’ascolto e “dei tempi” stessi della clinica. Nel corso degli ultimi anni, molti dei temi critici – trattati anche in questo libro – sono stati oggetto di discussione nei convegni finanziati da piani sanitari nazionali e regionali, in Italia e all’estero (gli stessi “poteri” che dovrebbero invece – secondo i critici radicali – promuovere la sola espressione degli interessi delle lobby farmaceutiche) e un corpo articolato di iniziative di ricerca e studio sono all’opera – in molte diverse realtà accademiche e istituzionali – per individuare nuove linee di orientamento, nuovi approcci ai molti vicoli ciechi della salute mentale e le sue pratiche di cura. Tuttavia questa dimensione critica “positiva” dà scarsissimi segni pubblici di sé, sia perché tende ad essere facilmente soverchiata – come visto – dalla ben più “facile” e penetrante retorica delle critiche radicali, sia per ragioni storiche legate alla scarsa capacità della classe medico-sanitaria – e in particolare degli psichiatri infantili – di porsi come un soggetto culturalmente attivo e unitario. In ogni caso, sarebbe troppo semplice se si trattasse esclusivamente di un problema di “comunicazione”. Piuttosto, il problema principale sembra risiedere nel fatto che, nono127­­­­

stante a chi operi in questo campo sia sempre più evidente l’esigenza di un rinnovamento profondo della psichiatria infantile, gli orientamenti e le direzioni che un simile rinnovamento dovrebbe prendere non sono ancora delineate con precisione, o quantomeno trasformate in strategie esplicite e “di sistema”. Che cosa può fare dunque la psichiatria infantile per affrontare questa crisi e rimettere le famiglie al centro della cura? Naturalmente ci sono molte risposte buone a questa domanda. Una è forse che la psichiatria infantile dovrebbe avere il coraggio di raccogliere apertamente, in modo assertivo e chiaro, la lezione tracciata da quel movimento – nato nel mondo anglosassone più o meno alla fine degli anni Novanta – conosciuto come psichiatria critica o, in formulazioni successive, post-psichiatria. Essa rappresenta la sola formulazione teorica in qualche modo strutturata, che sia contemporaneamente alternativa alla psichiatria “ufficiale” e all’antipsichiatria4. Costituisce dunque una via di mezzo che parte dal presupposto che non ha senso “buttare” via tutto quello su cui è costruita la nostra esperienza sino ad ora, ma non ha nemmeno senso continuare a commettere gli stessi errori grossolani di prima. Come osserva Lewis, sarebbe assai più utile se l’ossessione positivista della psichiatria per “la verità” assoluta delle malattie psichiatriche come oggetti reali del mondo si sostituisse a un più sano e sobrio pragmatismo che parta dalla costatazione che, anche se le malattie mentali non sono oggetti “reali”, il lavoro della psichiatria è nondimeno fondamentale. Esso si costituisce infatti come un dispositivo provvisorio ma indispensabile per comprendere la realtà della sofferenza delle persone. Così, anche se le diagnosi sembrano per lo più sistemi arbitrari che cambiano a ogni chiaro di luna (e dunB. Lewis, Moving Beyond Prozac, dsm, and the New Psychiatry. The Birth of Postpsychiatry, The University of Michigan Press, Ann Arbor, 2006. 4

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que è vero che il linguaggio ufficiale delle diagnosi è inaccurato e limitante), è anche vero che “nominare” gli oggetti del mondo, anche sbagliando, ci aiuta a fare i conti con questioni fondamentali che altrimenti non avremmo la possibilità di affrontare: il linguaggio evoca e “abilita”. Per esempio, abbiamo visto che la nozione di adhd è utile anche ipotizzando che la teoria sulle sue cause biologiche sia in tutto o in parte sbagliata. E a volte è possibile curare farmacologicamente in modo “efficace” – cioè con buona e sacrosanta soddisfazione delle persone che ne beneficiano – condizioni cliniche che magari non capiamo, o chiamiamo con il nome sbagliato5. Collocarsi esplicitamente rispetto a questo “terreno”, in modo più chiaro, “aperto” e forse anche onesto è tutt’altro che una faccenda meramente teorica. Riguarda infatti direttamente i genitori e i figli. Se infatti la psichiatria accetta l’idea che la sofferenza delle persone non è un dato “neutro”, un fatto scientifico o puramente “sanitario”, allora ciò comporterà necessariamente anche riconoscere che questa sofferenza “interagisce” continuamente con il sapere psichiatrico, ne è influenzata e lo influenza, contribuisce a determinare le mode e i campi della cura, le parole chiave che determineranno il senso stesso del “sentirsi bene” o “sentirsi male”6. Le persone, i pazienti, anche bambini e adolescenti, sono depositari di una conoscenza che fonda il sapere psichiatrico, cioè permette al linguaggio medico di avere un senso, una qualche presa sulla realtà. Per lo stesso motivo è assai probabile che, se qualche novità o qualche scoperta utile alle famiglie verrà compiuta nel campo della psichiatria nei prossimi anni, essa difficilmente passerà (solo) per lo studio dei geni o dei neuroni, e molto più probabilmente dipenderà dal modo in cui sapremo riaprire dal basso il “vocabolario” dei K.T. Kalikov, Your Child in the Balance, cds Books, Durham (NC) 2006. D.B. Double, Critical Psychiatry. The Limits of Madness, Palgrave Macmillan, New York, 2006. 5 6

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sintomi per ascoltare davvero, in modo “nuovo” e aperto, di cosa parliamo quando parliamo di sofferenza mentale. È forse solo da un’attenzione scrupolosa – svincolata da pregiudizi e disponibile alle novità – che è possibile aprire il discorso chiuso della “psichiatria medica”, alla realtà mutevole dei suoi fenomeni sociali7. In termini pratici questo significa non solo coltivare questo tipo di sensibilità nel contatto con ogni singola famiglia (vedremo nel prossimo paragrafo in che senso), ma anche trasferire questi principi al campo della ricerca, dello studio e della programmazione su vasta scala delle politiche sanitarie e dei programmi. Le associazioni delle famiglie dovrebbero sempre poter avere voce nei convegni, negli istituti di ricerca, nelle commissioni “pubbliche”, nei “tavoli” istituzionali, come interlocutori stabili, autorevoli e centrali. Si tratta di una pratica già consolidata in alcuni campi in ambito psicosociale infantile, ma dovrebbe forse trasformarsi in una norma radicata in una visione “d’insieme” più esplicita e coraggiosa8. Infine, e per le stesse ragioni, le discipline mediche in questo campo dovrebbero interrogarsi apertamente e “in pubblico”, circa il modo in cui le trasformazioni sociali e ideologiche cui assistiamo (per esempio il fenomeno dell’accelerazione sociale di cui si è ampiamente parlato) influiscono sulle condizioni stesse attraverso cui prendono senso parole quali sofferenza, funzionamento, adattamento, alienazione, normalità, patologia, benessere, felicità, eccetera. Queste “parole”, infatti, fanno parte del bagaglio tecnico della psichiatria come fonendoscopi e cardiogrammi lo sono per la medicina. Le parole con le quali formuliamo le diagnosi stabiliranno quali bambini potranno accedere alle cure e quali no, quali di loro

7 P. Bracken, P. Thomas, Postpsychiatry. Mental Health in a Postmodern World, Oxford University Press, New York, 2005. 8 J. Tew, Social Perspectives in Mental Health. Developing Social Models to Understand and Work with Mental Distress, Jessica Kingsley Publishers, London, 2005.

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saranno considerati “normali” e “a posto” e quali “disturbati” e “problematici”. Non è una disciplina neutra. Comporta giudizi morali e valoriali, anche quando non li formula esplicitamente, o non sa di formularli9. Questo significa che ogni ambito di ricerca e di produzione scientifica dovrebbe coinvolgere anche esperti delle scienze umane (sociologi, filosofi della scienza, psicologi, ecc.) che si occupano della mente, delle persone, delle famiglie, e di come questo complesso insieme di cose genera l’idea stessa di una “vita buona”. 5. Alcune cose “in pratica”, che genitori e figli dovrebbero aspettarsi dall’incontro con esperti della salute mentale Il tempo per le discussioni filosofiche o sociologiche può essere pure indeterminato. Il tempo per genitori che debbono decidere per la salute mentale dei loro figli invece non lo è. Le famiglie necessitano di risposte immediate e chiare da parte del sistema di cura oggi disponibile, e in questo libro ho provato a formulare alcune riflessioni semplici. Non si tratta, per lo più, di proposte “nuove” o “originali”, dal momento che di tutte queste cose si discute da tempo in contesti diversi. Molte di esse fanno parte di programmi sperimentali attualmente in corso, o di “buone pratiche” consolidate in tanti luoghi diversi. Altre sono riflessioni che vengono da esperienze straniere, ma che bene si applicano anche al nostro contesto. Ci sono, dunque, molte cose buone che la psichiatria infantile può fare per trasformare questi principi teorici in una pratica che sappia tenerne conto. In fondo, non si tratta di cambiare molto. Numerosi professionisti già operano secondo questi principi, magari senza nemmeno saperlo. E la

S. Timimi, B. Maitra, Critical Voices in Child and Adolescent Mental Health, Free Association Books, London, 2005. 9

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psichiatria infantile, sia su scala nazionale che in molte real­ tà locali, ha intrapreso parecchie utili iniziative, dettate da un’attenzione rigorosa ai bisogni delle persone e animate da uno spirito critico rispetto a molte delle questioni affrontate in questo libro. È possibile tuttavia che sia necessaria più consapevolezza, più “coraggio” e una strategia comune più esplicita, pubblica e chiara. Le persone che si rivolgono a un esperto di salute mentale infantile dovrebbero prima di tutto aspettarsi di trovare una persona disponibile a un ascolto libero, aperto e consapevole. È cruciale che genitori e figli non si sentano giudicati e che lo psichiatra (ma il discorso vale ovviamente anche per gli psicologi) faccia il possibile per togliere dalla propria porta l’iscrizione qui dentro sappiamo tutto su come deve essere un bravo genitore, e sappiamo tutto su cosa è normale e cosa non lo è. Uno psichiatra consapevole della complessità e dell’enorme responsabilità del proprio ruolo, della natura opaca e traballante dei suoi strumenti, deve prima di tutto sapere che la sua posizione nel contatto con genitori e figli è – nel migliore dei casi – quella di un’attenzione gentile, paziente e accogliente, che non abbia in mente modelli precostituiti, ma che sappia disporsi a comprendere quale è l’idea di “vita buona” per quella particolare famiglia, per quella persona. Il punto di partenza di ogni buon terapeuta dovrebbe essere quello di una profonda neutralità, dell’ammissione aperta e umile di non conoscenza e ignoranza, l’unico strumento che può permettergli di affrontare, senza pregiudizi e con la dovuta “cura”, ogni diversa esperienza umana. Il sapere clinico può aiutare ad orientarci nel difficile mondo delle terapie, delle tecniche di intervento, delle strategie di aiuto, delle ipotesi prognostiche, ma rischia di essere un pericolosissimo filtro che mette la sordina alle cose che le persone hanno da dire, e alle cose su cui non riescono a proferire parola. Coltivare un’attenzione scrupolosa al fatto che le “parole” che scegliamo per descrivere come stiamo influiscono 132­­­­

su come in effetti ci sentiamo, è un passaggio fondamentale per avere rispetto dell’autonomia delle famiglie e della loro visione del mondo. La funzione sociale forse più delicata di un esperto di salute mentale è quella di fare in modo che sia la scienza medica ad adattarsi a ogni realtà individuale, non che le persone si adattino alla medicina. I genitori dovrebbero inoltre potersi aspettare che i professionisti di salute mentale si confrontino apertamente sui limiti e sul senso dei loro ragionamenti clinici. La diagnosi, come abbiamo visto, è un passaggio necessario alla pratica clinica di un medico e definisce anche in senso legale il carattere di responsabilità, perizia e prudenza del suo lavoro. È dunque un passaggio per molti aspetti “obbligato” e i professionisti non possono rifiutarsi di comunicare ciò che pensano. Così, anche se la diagnosi è solo un punto di partenza, uno schema di lettura possibile, un genitore dovrebbe sempre pretendere che gli specialisti che seguono il figlio siano in grado di formularne una. Ed è giusto che pretenda – se lo ritiene utile o necessario – che questa cosa sia messa nero su bianco, in una relazione clinica scritta che dica qualcosa di chiaro. Troppo spesso si incontrano genitori che hanno vagato in lungo e in largo e si sono visti rifiutati, da molti professionisti privati, un certificato in cui si dicesse che cosa è stato fatto e perché. Tuttavia un professionista dovrebbe anche essere molto chiaro circa il fatto che il sistema delle diagnosi è ad oggi complicato da molti compromessi poco utili alle famiglie e, dunque, può fornire solo la cornice generale, può permettere di definire alcune coordinate approssimative, il “campo” dentro cui poi, necessariamente, si deve giocare una partita che è sempre personale e individualizzata. La diagnosi ci aiuterà a comprendere grosso modo ciò che ci dovremmo aspettare da una certa situazione, forse permetterà di comprendere quali saranno le terapie con maggiori chances di successo. Ma poi ogni cosa va compresa caso per caso. E per ogni storia, ogni persona, le traiettorie possono essere diver133­­­­

sissime. Una diagnosi è sempre una lettura “possibile”, con un certo grado di probabilità. Chi spaccia diagnosi come verità assolute sta probabilmente bluffando, a volte per coprire la propria ignoranza. Un altro punto fondamentale è che le persone spesso temono che il contatto con uno psichiatra porterà necessariamente a un percorso clinico “obbligato”, e che perderanno così la libertà di determinarsi nelle scelte che riguardano fatti privatissimi della vita di ciascuno. È un timore comprensibile, radicato, come abbiamo visto, nelle problematiche immagini pubbliche connesse alla psichiatria e alla sua funzione. Un professionista della salute mentale, pertanto, dovrebbe sempre essere consapevole che la reputazione di cui gode non è andata necessariamente di pari passo con la fatica e il sudore che ci ha messo nel diventare un medico specialista. Per questi motivi è fondamentale che genitori e figli possano confrontarsi apertamente con il professionista, affinché sia possibile approdare a una lettura condivisa di cosa va e cosa non va in un figlio o in una famiglia, e di quali sono le prospettive. Leggere insieme le prospettive significa potersi attendere che l’esperto di salute mentale ci aiuti a comprendere quali sono gli ambiti su cui abbiamo chiesto un cambiamento, quali i punti di forza e le risorse su cui possiamo fare perno per raggiungerlo, quali gli obiettivi che abbiamo in mente. Quali quelli ragionevoli, quali quelli forse irraggiungibili dal punto di vista medico. Stare mentalmente bene è una delle condizioni fondamentali per perseguire quella che, per ciascuno di noi, è una “vita buona”. Ma stare mentalmente bene non significa solo non avere disagi psicologici. Significa anche saper affrontare le difficoltà della vita, trasformandole in occasioni per migliorare la nostra esistenza. Uno psichiatra infantile dovrebbe dunque poter rassicurare i genitori circa il fatto che il primo obiettivo di ogni trattamento deve essere quello di non nuocere ai punti di forza del figlio e della famiglia. Il secondo è quello di valorizzarli. 134­­­­

Ciò potrebbe permettere di ottenere che ogni percorso di cura sia prima di tutto l’occasione per promuovere nel figlio, nella famiglia, ma anche nell’ambiente che lo circonda, l’idea che i momenti negativi della vita sono occasioni per mettere mano alle nostre risorse e ai nostri punti di forza per farne il dispositivo che guiderà il miglioramento. È forse una possibile via d’uscita alla diffusa immagine dei figli traumatizzati, sulla graticola di nuovi possibili accidenti e malattie, fomentata da una società sempre più appesantita dalla paura e dall’insicurezza. Una volta definiti gli obiettivi, in una prospettiva condivisa, sarebbe indispensabile che la “strada” per raggiungere questi obiettivi venisse scelta insieme ai genitori e al figlio. A tal fine, è indispensabile che bambini e genitori si sentano attivamente coinvolti a partecipare, in una logica di negoziazione, non di cooptazione aziendale10. Questo permetterebbe di migliorare la qualità dell’organizzazione dei sistemi di cura, avvicinandoli ai bisogni reali delle persone, in percorsi entro i quali le famiglie passino dal sentirsi stigmatizzate o giudicate, all’essere oggetto di un investimento che valorizzi le loro qualità naturali. Partecipare significa essere a tutti gli effetti attori del processo trasformativo che porta al cambiamento personale, non utenti passivi di un set di servizi acquistati come “pacchetti”, come si fa con le schede telefoniche. Un approccio partecipativo alla salute mentale è ciò che può permettere agli attori in campo di assumere attivamente la responsabilità della cura, come esperienza di autentica emancipazione dagli schemi disfunzionali della sofferenza e della crisi. Investire sulla responsabilità diventa così anche un modo sano di affrontare il diffuso disorientamento, il senso di perdita della capacità di autodeterminarci, di governare le cose anche più elementari della nostra vita, che spesso si L. Altieri, Valutazione e partecipazione. Metodologia per una ricerca interattiva e negoziale, Franco Angeli, Milano, 2009. 10

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accompagna al malessere psichico e che, più in generale, in misura sempre maggiore, contraddistingue questa società accelerata. Naturalmente, alcuni aspetti dei percorsi di cura riguardano strade che fanno parte di programmi o schemi di lavoro in qualche modo “preordinati”: un certo tipo di psicoterapia, un laboratorio educativo, una terapia farmacologica, eccetera. In tutti questi casi, e per gli stessi motivi, è indispensabile che genitori e figli (questi ultimi in un modo appropriato alla loro età e alle diverse capacità di discernimento), ricevano informazioni accurate sulla eventuale proposta terapeutica, sui suoi rischi, sui suoi possibili benefici. In particolare, nel caso di una terapia farmacologica, è indispensabile che le persone abbiano la possibilità di esprimere tutte le loro perplessità e preoccupazioni e che ricevano dallo psichiatra ogni utile informazione. Queste informazioni dovrebbero includere anche i limiti delle conoscenze mediche sul come e perché funzionano i farmaci e l’esigenza che ogni terapia duri il meno tempo possibile e al dosaggio più basso possibile. Una psichiatria che non applica il sistema del chiodo e del martello (abbiamo un martello, un set di programmi o tecniche preconfezionati, e tutti i nostri clienti diventeranno “chiodi” buoni per quelle tecniche) è una disciplina che sa sedersi al tavolo con le famiglie e definire insieme a loro la strada migliore per raggiungere obiettivi condivisi. Meglio ancora se si dota di strumenti “strutturati” e “aperti” per farlo. È indispensabile che gli psichiatri spostino il loro focus da dimmi che sintomi hai, a dimmi come pensi di poter essere aiutato, di cosa hai bisogno, cosa vorresti diventare, come vorresti essere e come pensi che io possa aiutarti. In questo senso è importante che i genitori siano posti esplicitamente nella condizione di poter scegliere tra possibili alternative. A volte non è facile prospettare alle famiglie molte scelte, perché le frecce all’arco della clinica sono limitate. Nessun professionista o servizio pubblico è esperto in tutto e 136­­­­

può offrire tutto. Per questo “la strada” sarà pur sempre scelta entro un ambito di cose possibili. Ma confrontarsi apertamente sulle strade praticabili è un buon modo per trovare un terreno comune. Le persone dovrebbero inoltre sentirsi libere di rifiutare la proposta di una certa terapia senza percepire che il loro rifiuto le “squalifichi” ulteriormente, le renda “anormali due volte”. La prima per aver chiesto aiuto, la seconda per essersi dimostrati “persino inadatti” alle proposte della medicina ufficiale. L’autonomia della scelta a volte è una cosa molto difficile. Le persone non sempre sanno di poter scegliere, e dunque è indispensabile che siano gli esperti a sollecitarli su questo tema, a dire loro esplicitamente che scegliere è un diritto. Inoltre la libertà della scelta potrebbe essere molto favorita se le persone si sentissero alleggerite dal giudizio morale connesso all’idea del rifiuto. Sapere che lo psichiatra che abbiamo di fronte è consapevole che la medicina non è sempre la risposta migliore, la più saggia, la più “giusta” o la più efficace per ogni tipo di malessere può permettere alle persone di gestire con maggiore serenità il momento della scelta delle cure. Per gli stessi motivi, le persone dovrebbero essere sollecitamente informate del fatto che il consenso alle cure (il famigerato “consenso informato”) così come liberamente lo si presta, lo si può anche in ogni istante revocare. Il consenso non è un assegno in bianco, un patto di fiducia eterno dal quale si potrà scivolare via solo dandosi alla macchia o all’anonimato. Vale per tutte le discipline sanitarie, ma vale in particolare per la psichiatria infantile, dove il tema della “dipendenza” dal patto di cura genera preoccupazioni che influiscono sull’idea stessa di come ci sentiamo mentalmente. Rispettare l’autonomia di scelta delle famiglie è una condizione necessaria per promuovere la responsabilizzazione e dunque per passare dal modello medico della “adesione” alla terapia, a quello della partecipazione attiva. Ciò significa riconoscere che al centro dell’operato della psichiatria ci 137­­­­

sono “valori” che riguardano, in fin dei conti, la libertà delle persone di discernere il modello di “vita buona” che meglio corrisponde alla loro visione del mondo. La “responsabilizzazione” comporta inoltre il riconoscimento del proprio ruolo e dunque anche del ruolo degli altri, e questo permette di rendere più aperte e trasparenti quelle tensioni che nascono quasi costantemente nelle famiglie, dal momento che le decisioni e le scelte dell’uno spesso sono diverse, o addirittura opposte, a quelle dell’altro. Spesso accade che una madre sia favorevole a un trattamento e un padre no. Oppure che i genitori concordino ma il figlio, magari adolescente, dissenta. Le famiglie dovrebbero trovare nell’esperto di salute mentale una persona in grado di dare ascolto alle ragioni di ciascuno con la finalità di rimettere al centro del discorso – prima di tutto – le richieste di aiuto che provengono dal figlio. È per lui che la famiglia si attiva, ma non sempre per i genitori è facile ascoltare i figli. Bambini e adolescenti hanno precisi diritti di essere ascoltati in ambito sanitario e, ove possibile, di scegliere per la loro salute. Si tratta di un esercizio delicatissimo ma doveroso, necessario, fondamentale, che può essere salvaguardato solo in un’ottica in cui l’ascolto degli altri si coniughi a un profondo e autentico rispetto per la loro autonomia e le loro prerogative. Infine, le persone che partecipano a un processo di cura non lo seguono per routine o perché non hanno di meglio da fare. Lo seguono perché stanno cercando di cambiare in qualche modo la loro vita e si aspettano che ciò accada. Una disciplina che opera nel campo delle trasformazioni personali dovrebbe saper dire “come stanno andando le cose”, saper “misurare” gli esiti di ciò che fa. Dovrebbe potersi dotare di una strategia utile per confrontarsi periodicamente con le famiglie e il figlio e fare il punto della situazione in modo sistematico ed esplicito, per comprendere se e come gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti oppure no, se è il caso di cambiare strada o se vi siano altre opzioni possibili. Questo 138­­­­

è fondamentale nel contatto personale tra le famiglie e gli esperti di salute mentale e, se dovesse essere svolto in modo sistematico e diffuso in ambito pubblico, potrebbe costituire una svolta radicale nel funzionamento di tutti i servizi di cura dedicati a bambini e adolescenti. Troppo spesso si assiste a situazioni familiari complesse e multiproblematiche seguite per periodi lunghissimi da molti operatori diversi, magari con l’intervento di diverse “agenzie”, un dispendio di energie enormi, senza che sia possibile – dopo anni di interventi, terapie e “lavoro” clinico – dire esattamente cosa sia cambiato e perché. Se cioè le trasformazioni apparentemente riscontrate siano stato l’esito delle cure o dei supporti erogati, oppure siano il frutto del tempo che passa, dei cambiamenti naturali, dell’influenza di altri fattori esterni. Nello stesso modo, per le medesime ragioni, spesso non è nemmeno chiaro cosa non ha funzionato e perché, e dunque se certi “percorsi” possano essere continuati e come si sentano il bambino e la famiglia al riguardo. Il rischio è che i percorsi di cura vengano interrotti perché il servizio non se li può più permettere oppure perché, come accade nella maggior parte dei casi di utenti di un servizio pubblico nell’ambito della salute mentale, la famiglia e il bambino, a un certo punto, senza dire nulla, non si presentano più. Dotarsi di strategie e di strumenti per dire cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato è fondamentale nel contatto sanitari-famiglie, ma anche e forse soprattutto nell’ambito del sistema di cura nel suo complesso. È infatti il solo modo per dire perché facciamo quello che facciamo e a cosa serve, per condividere questa informazione con le famiglie e le agenzie che si stanno occupando del caso “in ogni momento” in cui dovrà essere presa una decisione fondamentale. Ed è il solo modo per poter spiegare per quale motivo mai la società dovrebbe investire di più sul nostro lavoro. In tal senso, sarebbe fondamentale avere presente che gli unici risultati che ha senso misurare sono quelli davvero rile139­­­­

vanti per le famiglie e per gli utenti. Rimettere i valori dei genitori e dei figli al centro dei percorsi di cura è forse una delle sfide fondamentali della psichiatria infantile per il futuro. È, certamente, un approccio che chiede alla psichiatria di “cedere” parte della tradizionale supponenza e arroganza dei suoi presunti principi medici “oggettivi”. Ma sarebbe tuttavia una strada in cui vi è “molto da guadagnare”, per la società e per i bambini e, con ogni probabilità, anche per la psichiatria stessa. Si tratta infatti di reinvestire sulle capacità naturali delle persone di contribuire a definire attivamente come si sta, cosa funziona e cosa non funziona, in un modo che sia rispettoso dei valori e delle scelte individuali dei bambini e delle loro famiglie. Solo un sistema di cura che investe sulla responsabilizzazione delle persone può promuovere il consolidamento di una cultura autonoma della salute mentale, mutuamente responsiva, partecipativa e generativa, che sappia costruire reti “naturali” di supporto per le persone e per la società.

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