Figli di un Io minore. Dalla società aperta alla società ottusa 9788831787116

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Figli di un Io minore. Dalla società aperta alla società ottusa
 9788831787116

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Marsilio ancora

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PAOLO ERCOLANI FIGLI DI UN IO MINORE DALLA SOCIETÀ APERTA ALLA SOCIETÀ OTTUSA PREFAZIONE DI

LUCIANO CANFORA

Marsilio ancora

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© 2019 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: marzo 2019 ISBN 978-88-317-8711-6 www.marsilioeditori.it Realizzazione editoriale: Nicola Giacobbo

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Indice

7 Prefazione di Luciano Canfora Figli di un Io minore 15 Introduzione 27 L’uomo senza pensiero 85 Il Dio cattivo 125 La gaia incoscienza 159 La notte della democrazia 199 I pilastri di un nuovo umanesimo 273 Epilogo. L’uomo davanti alla porta 277 Note al testo 297 Riferimenti bibliografici 331 Indice dei nomi

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Prefazione di Luciano Canfora

Il suffragio universale è entrato a far parte dei nostri costumi nonostante tutte le obiezioni di principio che si ha ben il diritto di rivolgere a tale pratica e che non si è esitato a rivolgergli, e nonostante l’esperienza che se n’è fatta. Il fatto è che, una volta introdotto nelle cose umane un procedimento semplificativo, è difficile poi estrometterlo. Nel caso del suffragio universale, la semplificazione ha avuto come effetto di svilire progressivamente, di fronte al suffragio del numero [cioè di una maggioranza numerica], ciò che ancora sopravviveva di influenza legale delle antiche fonti dell’autorità sociale; e vi ha sostituito un’unica fonte di potere: soverchiante grazie alla sua apparente grandezza, rassicurante data l’impossibilità di trovare – dietro di essa – diritti più generali che possano cercare di farsi valere con la violenza contro le sue decisioni. Ciò ha munito lo Stato democratico di una maestà incontestabile e ha, inoltre, prevenuto o leviato il fenomeno della sommossa e l’ha rimpiazzata con la scheda elettorale messa nelle mani di ciascun cittadino, foss’anche il più umile. Il che ha consentito al potere esecutivo di far rispettare, nel nome della maggioranza numerica della nazione, le decisioni del suo governo.

Questo scriveva, nell’anno 1895, Eugène d’Eichtal (1844-1936), presidente della Compagnia delle ferrovie del Midi e direttore della parigina École libre des scien7

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ces politiques, nel saggio, molto tocquevilliano, Souveraineté du peuple et gouvernement. Eugène era figlio dell’ebreo convertito, e appassionato seguace di Auguste Comte, Gustave d’Eichtal (1804-1886). È notevole come questa pagina così perplessa e ricca di sfumature costituisca la parte centrale della voce Suffrage della Grande Encyclopédie, monumento del sape­re tardo-positivistico nella Francia dei primi del Novecento. In questa pagina molto elaborata – e che il massimo strumento culturale generalista della Francia alla vigilia della Grande Guerra assume come propria presa di posizione sul delicato tema – confluiscono vari elementi: la ribadita sfiducia rispetto ai non chiari fondamenti logici del suffragio universale; la rassegnazione rispetto alla sua inevitabilità; il riconoscimento, al tempo stesso, del suo valore positivo come calmiere sociale o valvola di sfogo alternativa alla «rivolta» nonché strumento, per i governi, quanto mai opportuno per fondare la perentorietà erga omnes dei propri atti. Uno dei sottintesi di questa presa di posizione, di fronte all’irresistibile fenomeno, è la quasi certezza che – ormai messo alla prova – quello strumento (in origine paventato come eversivo) non avrebbe poi dato a una (ipotizzata) maggioranza «rivoluzionaria» (o protesa a mutamenti radicali) la possibilità di prendere il potere per vie legali. Si potrebbe dire, in altri termini, che il suffragio universale è stato, alla fine, man mano concesso (in Italia molto tardi rispetto agli altri paesi d’Europa) quando era stata acclarata la sua innocuità. Innocuità derivante da molti fattori: dalla proliferazione delle classi medie con conseguente fioritura dei partiti moderati e centristi in primo luogo, che è stata non a caso concomitante alla creazione di imperi coloniali alle dipendenze delle nazioni (Francia e Inghilterra prima, Germania e Italia poi) che da tale moderna forma di «schiavismo» hanno tratto vantaggi materiali 8

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da condividere (in parte modesta) con i rispettivi ceti proletari. A tal proposito un notevole studioso italiano di recente scomparso, Domenico Losurdo (di cui l’autore del presente volume fu discepolo), ha felicemente parlato di una dialettica storica fra «emancipazione e de-emancipazione», intendendo descrivere con tale espressione fenomeni opposti ma strettamente interdipendenti, che si alternano nel corso della vicenda umana. Tale alternanza di momenti di estensione e di contrazione delle libertà concerne la tormentata storia dei circa due secoli di democrazia che abbiamo alle spalle. Oggi, all’indomani della storica sconfitta del socialismo dopo settant’anni di eroismi, e dopo la creazione di un’Europa sovranazionale e rigorosamente sottoposta al comando del capitale finanziario, questa sembra storia antica. L’epoca della democrazia politica, fondata sullo Stato-nazione, è finita. In questo lavoro, l’autore racconta e spiega perché la nostra epoca sta vivendo un radicale processo di regressione (de-emancipazione) rispetto alle conquiste delle democrazie occidentali come le abbiamo conosciute nella seconda metà del Novecento. Giungendo a una proposta solo all’apparenza paradossale: limitare la democrazia formale (il diritto al voto) per salvare la democrazia sostanziale. Perché vi sono tempi così bui in cui può rivelarsi opportuno (o perfino necessario?) indebolire nella forma ciò che si vuole preservare nel contenuto. Lo scenario che abbiamo di fronte è quello del nuovo autoritarismo plebiscitario (Usa, Russia), della lotta di potenza e di classe priva di qualunque fondamento ideologico e morale (com’era invece quando esisteva il socialismo in quanto forza organizzata). L’interrogativo al quale nessuno, per ora, sa dare una risposta è: quali strumenti sapranno (se lo sapranno) trovare i ceti meno forti e, indipendentemente da loro, i nuovi schiavi per non finire sotto il «tallone di ferro»? 9

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A Sara, adorata protettrice della mia ottusità

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Figli di un Io minore

Ti dico che non c’è per l’uomo preoccupazione più tormentosa che quella di trovare qualcuno al quale restituire, il più presto possibile, quel dono della libertà che il disgraziato ha avuto al momento di nascere. Ma si può impadronire della libertà degli uomini solo colui che tranquillizza la loro coscienza. Fëdor Dostoevskij 1879-1880 Gli iGen sembrano così felici in Rete, con le loro espressioni buffe su Snapchat e i sorrisi sulle foto di Instagram. Ma se si scava più in profondità, la realtà non è così confortante. Questa generazione è sull’orlo della più grave crisi di salute mentale giovanile degli ultimi decenni. In superficie, però, va tutto bene. Jean Marie Twenge 2017 L’uomo si è talmente sviluppato attraverso forme linguistiche, immagini artistiche, simboli mitici o riti religiosi, da non riuscire più a conoscere nulla se non per il tramite di questi medium artificiali [...]. In questo modo egli non vive più in un mondo di fatti concreti, in accordo con i suoi bisogni e desideri più immediati. Egli vive piuttosto immerso in emozioni immaginarie, in speranze e paure, in illusioni e disillusioni, tra le sue fantasie e i suoi sogni. «Ciò che disturba e allarma l’uomo – affermava Epitteto – non sono le cose, ma le sue opinioni e fantasie intorno alle cose». Ernst Cassirer 1944 Posso benissimo concepire l’uomo senza mani né piedi né testa (perché solo l’esperienza ci insegna che la testa è più necessaria dei piedi). Ma non posso concepire l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto. Blaise Pascal 1669

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Introduzione

Non dobbiamo forse, nel nostro tempo, fare i conti con la possibilità che la mente umana, come fatto sociale, si deteriori qualitativamente e si abbassi ad un livello culturale inferiore, senza che tuttavia molti se ne accorgano, sopraffatti come siamo dalla massa delle piccole invenzioni tecnologiche? Non è forse questo uno dei significati della frase «razionalità senza ragione»? Charles Wright Mills 1959

«E pensare che una volta c’era il pensiero», ironizzava Giorgio Gaber nell’indimenticabile opera teatrale Il signor G. Sembra davvero di parlare di un’altra epoca, che ci siamo lasciati ormai alle spalle, quando ancora si credeva che «il sonno della ragione genera mostri». Un tempo in cui la filosofia, e gli studi umanistici in genere, erano tenuti nella giusta considerazione, come un’indispensabile cassetta degli attrezzi con cui provare ad aggiustare le storture e le ingiustizie del mondo complesso in cui ci troviamo a vivere. La nostra epoca, invece, è quella in cui i mostri che noi stessi abbiamo creato generano il sonno della ragione, l’eclissi del pensiero, la progressiva atrofizzazione di quella facoltà specifica dell’uomo che gli permette di non subire passivamente una situazione, ma di analizzarla, sottoporla a critica ed eventualmente modificarla secondo quanto ritiene più utile e giusto. 15

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Prendendo a prestito la terminologia di Karl Popper, possiamo definire l’epoca di chi ci ha preceduto il tempo della «società aperta». Aperta rispetto a cosa? Innanzitutto al pensiero critico, quella facoltà che ci consente di non accettare passivamente dei dogmi imposti da un potere coercitivo o manipolante, ma di procedere alla messa in questione di ogni cosa (compreso il nostro stesso pensiero) seguendo dei criteri logici e tenendo conto del contesto, così da pervenire a un giudizio autonomo e consapevole1. Quindi aperta alla conoscenza, il pilastro fondamentale su cui costruire progetti e conseguire risultati (anche se fallibili e mai compiuti), come la democrazia e la ricerca della verità. Diametralmente opposto è quanto avviene in quella che il grande epistemologo austriaco definiva la «società chiusa», i cui abitanti devono sottomettersi a ordini superiori, considerati «magici» e dunque indiscutibili: di conseguenza agiscono meccanicamente conformando il proprio comportamento a quello della tribù e delle sue regole. Nella società aperta «i singoli si devono cimentare con decisioni personali»2 senza seguire un copione scritto da qualcun altro e, dunque, farsi carico della difficoltà e della responsabilità che ogni presa di posizione comporta. Popper descriveva con precisione gli elementi che connotano una società aperta, in cui, per poter compiere scelte individuali, bisogna che sussistano alcuni presupposti fondamentali. Innanzitutto un contesto di libertà sociale in cui, fatte salve alcune leggi e alcuni doveri che tutti i cittadini sono tenuti a rispettare, ogni individuo abbia la possibilità di ragionare e agire autonomamente. Quindi, la considerazione e l’impegno in favore della conoscenza, facoltà che permette all’essere umano di estendere il campo delle proprie abilità e competenze al di là dell’ambito limitato delle proprie convinzioni e di una tradizione che si impone senza ragionamento. Soprattutto, la consapevolezza che non 16

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esistono verità assolute, un’acquisizione possibile solo in un contesto di apertura e dialogo, in cui le teorie e le idee di ciascuno siano sempre rispettate e, al tempo stesso, passibili di discussione. La società aperta, insomma, è tale perché al proprio interno il progredire della scienza e della conoscenza si fonda su teorie che non sono considerate di per sé né vere né false, ma possono essere suffragate attraverso un percorso di prove e verifiche, che presuppone un contesto dialogico, critico e insofferente rispetto alle asserzioni dogmatiche. Il tutto nella piena consapevolezza che «tanto meglio una teoria può essere corroborata quanto meglio risulta controllabile»3. La democrazia della società aperta è un sistema fondato sul razionalismo critico, che mette al centro della scena sociale la ragione umana, ritenuta la sola in grado di operare per lo sviluppo personale e per la costruzione di una società libera e a misura d’uomo. Una società di questo tipo ha evidentemente bisogno di tenere in altissima considerazione il grado di istruzione, la qualità dell’informazione e, in generale, il livello culturale dei suoi cittadini, chiamati a contribuire con la propria ragione critica al progredire della società stessa. Tali cittadini devono altresì essere educati al rispetto, alla considerazione e all’interesse per le questioni sociali e comuni, ben al di là del gretto egoismo e solipsismo che invece domina nella società chiusa, rendendoli isolati, e quindi deboli, rispetto a qualunque potere. La società aperta è quella che può contare su una comunità di persone autonome, libero-pensanti e critiche, che utilizzano tali facoltà per cooperare in vista del bene collettivo. Solamente in virtù di queste caratteristiche è in grado di fornire il proprio contributo alla costruzione e allo sviluppo di un sistema libero, in cui l’uomo sia fine e non mezzo, attore e non spettatore, persona e non cosa. 17

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A svolgere un ruolo centrale e determinante è il logos, inteso nella triplice accezione di pensiero, conoscenza e parola, ma anche di discorso pubblico (dia-logos) e comunità di persone che siano in relazione effettiva e non solo virtuale, cooperativa e non solo strumentale. Soltanto una volta venuti meno gli dèi, i dogmi indiscutibili, le verità superiori su cui basare ogni pensiero e azione individuale, come anche ogni agire sociale, l’uomo ha la capacità di ragionare con la propria testa e farsi carico delle proprie decisioni, aprendo uno scenario in cui lo sviluppo umano sia il fine ultimo di ogni agire. C’è però un prezzo da pagare. Una società di questo tipo, infatti, genera ansia in quell’essere spaventato e insicuro che è l’uomo. La fatica di dover accrescere continuamente la conoscenza, la ragionevolezza ma anche la cooperazione e l’aiuto reciproci, l’angoscia di doversi assumere la responsabilità del proprio vivere è, secondo Popper, «il prezzo che dobbiamo pagare per essere umani»4. Non a caso, Freud riconduce a queste pressioni la nascita di quella «nevrosi ossessiva universale» che è la religione, altrimenti definita un «palliativo infantile e irrealistico» che ci permette di sopportare la vita, di per sé troppo dura e piena di dolori e disinganni. Così l’uomo concretizza il proprio bisogno di una Provvidenza salvifica nella figura di un «padre straordinariamente elevato», ai cui precetti sottomettersi in maniera tanto illusoria quanto strumentale: «L’uomo ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza», scriveva con estrema efficacia il padre della psicoanalisi5. In altre parole, egli ha sacrificato parte della propria autonomia e libertà sull’altare di divinità superiori, a cui riconosce devozione e ubbidienza in cambio di una futura quanto incerta salvezza. Popper riconosceva nel passaggio dalla società chiusa alla società aperta «una delle più profonde rivoluzio18

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ni attraverso le quali è passato il genere umano»6. Alla luce di questo, possiamo oggi affermare che il nostro tempo è segnato da una nuova rivoluzione di portata epocale: la transizione a uno stadio avanzato dalla società aperta a quella che definisco «ottusa». Intendo qui utilizzare questo termine in un duplice senso: indicando qualcosa di estraneo alla ragione e alla conoscenza (quindi stupida); rimandando alla chiusura rispetto a codici, meccanismi e valori che non siano quelli asettici e impersonali del profitto economico e del progresso tecnologico (quindi disumana). Si badi bene: la società ottusa non va considerata alla stregua di un semplice ritorno alla società chiusa, bensì come un fenomeno contemporaneo e inaudito. Se la società chiusa di Popper escludeva, e in parte rifiutava, il pensiero razionale e, con esso, l’istituzione del mercato, lasciandosi guidare dagli ideali e meccanismi magici e tribali della tradizione, quella ottusa è regolata dalla teologia dogmatica del mercato e dalla cosiddetta (e sedicente) «intelligenza collettiva» generata dalla Rete. La società ottusa è quella in cui si manifesta in modo dirompente la nostra strutturale incapacità di limitarci a una «fede terrestre nella ragione», secondo l’espressione di Karl Popper7. Questa fede è stata soppiantata da quella sconsiderata in altre divinità, terrestri, a cui affidare ogni ambito dell’umano, le due entità che connotano la società ottusa: la tecnica e il mercato. Entrambe trovano nelle nuove tecnologie digitali uno strumento potentissimo attraverso il quale un potere che si declina in termini tecno-finanziari ha potuto imporre il proprio dominio incontrastato. I dogmi affermati da tali divinità sembrano puntare a due scopi convergenti: da una parte l’eliminazione del pensiero critico e della conoscenza autonoma, così da ridurre le persone a «cellule di risposta funzionale» a degli ordini provenienti dai piani alti del19

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la «moderna superorganizzazione», per riprendere le espressioni utilizzate da Max Horkheimer nel 19478. Dall’altra la distruzione della sfera politica e democratica, in seguito alla quale le società e l’intero consorzio umano si ritrovano subordinati a una sorta di indiscutibile teologia finanziaria che non si fa alcuno scrupolo nel ridurre l’essere umano al rango di strumento, da utilizzare in vista del progresso di un sistema che non vede più l’uomo al centro, bensì il profitto monetario indefinito e a ogni costo. A tali obiettivi del sistema tecno-finanziario potrebbero opporre resistenza due istituzioni, che nella società ottusa versano in un evidente stato di crisi. Innanzitutto la scuola, che in seguito a tagli indiscriminati e riforme sciagurate è sempre meno nelle condizioni di esercitare il proprio compito di agenzia che forma ed educa. In secondo luogo una politica che rifiuti di prostrarsi davanti all’ideologia neoliberista, che non ne accetti supinamente i dettami, rigettando il ruolo passivo di notaio di decisioni prese nelle cattedrali della finanza, tradendo i bisogni e gli interessi dei veri componenti della polis: le persone. Il guaio è che una politica di questo tipo risulta latitante e incapace di elaborare modelli sociali alternativi almeno dal 1989; o ancor prima, da quella cosiddetta «decomposizione delle ideologie» o grandi narrazioni che, iniziata negli anni settanta del secolo scorso, ha prodotto, fra le altre cose, la dissoluzione del legame sociale, come anche la trasformazione delle nostre comunità da «collettività sociali» a una massa composta da «atomi individuali»9. Un processo che non ha risparmiato la scuola, fatta oggetto da parte della stessa politica di un attacco volto a trasformarla in agenzia di collocamento di individui addestrati al pensiero convergente e all’agire eterodiretto, in ossequio al paradigma culturale del «capitale uma20

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no»: ogni individuo sarebbe una piccola azienda a cui devono essere fornite le istruzioni per sapersi affermare all’interno del mercato produttivo e competitivo. Se la società aperta vedeva il pensiero, la conoscenza e l’agire politico come volti alla costruzione di una comunità civile libera, quanto più possibile centrata sui bisogni dell’uomo e sulla creazione di un ambito democratico, quella ottusa trova il suo fondamento nella chiusura al e del pensiero, nella mortificazione di tutto ciò che è conoscenza nonché nell’annullamento di quelle condizioni (anche etiche ed educative) che consentono la formazione di individui autonomi e dotati di senso critico. Questa società ottusa, peraltro, assomiglia in maniera inquietante a quella che lo stesso Popper considerava una possibile degenerazione della società aperta già ai suoi tempi (metà del Novecento), e che definiva società «astratta» o «depersonalizzata»: «Una società nella quale gli uomini praticamente non si incontrano mai faccia a faccia, nella quale tutte le attività sono svolte da individui completamente isolati che comunicano tra loro per mezzo di lettere dattiloscritte o di telegrammi e che vanno in giro in automobili chiuse». Una società popolata da «individui che hanno pochissimi o nulli contatti personali, conducendo una vita nell’anonimato e nell’isolamento e, quindi, in uno stato di infelicità»10. Non sfuggirà come, semplicemente sostituendo le lettere dattiloscritte e i telegrammi con i social network, le chat e le email, ma anche le automobili chiuse con quelle scatole ancora più chiuse che sono gli strumenti digitali, in grado di ghermire le menti oltre che i corpi, sia innegabile la somiglianza con quella società di solitudini comunicanti in cui viviamo oggi: individui che, attraverso le interazioni continue e superficiali rese possibili dalle nuove tecnologie, diventano sempre più inca21

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paci di allacciare relazioni sane ed equilibrate tanto con gli altri quanto con se stessi. Viene meno, infatti, la capacità di comunicare con il proprio io profondo, trovandosi a fare i conti con quella che Sherry Turkle chiama «solitudine fallita», non più in grado neppure di confrontarsi con se stessi, attraverso quel dialogo interiore che costituisce un elemento portante della crescita personale11. La società ottusa è quella della logopatia, dove logos individuale e sociale risultano colpiti e debilitati da agenti patogeni che alimentano la sfiducia e il rifiuto rispetto a tutto ciò che è teoria, dialogo, pensiero critico e conoscenza12. Si tratta di un ottundimento che a molteplici livelli costituisce il registro dominante del nostro tempo. Sarebbe un errore pensare che queste siano soltanto mie speculazioni teoriche o, peggio, intellettualistiche, perché in realtà ci troviamo di fronte a un fenomeno le cui ricadute producono effetti dirompenti sulla vita quotidiana. Assistiamo, per esempio, al sorgere o ripresentarsi di forme inquietanti e patologiche di fuga dalla realtà, accompagnate da un costante rifiuto di se stessi e, in generale, di una vita reale percepita come sempre più alienante e soffocante. Proviene dagli Stati Uniti l’allarme per il massiccio ritorno all’uso di oppiacei e derivati che agevolano tale fuga e conferiscono un senso «chimico» a un esistere in cui si è smarrito il senso «naturale»13: Ciò che è accaduto negli ultimi decenni, ha riguardato il crescente venir meno di quei supporti tradizionali che hanno consentito una vita collettiva e fornita di significato, sostitui­ ti con varie forme di distrazione scadente e a buon mercato [...] Vedere questa epidemia come un disturbo di natura chimica o farmacologica, significa non comprendere la disperazione che spinge oggigiorno molte persone a desiderare di volare via14.

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Non va meglio se dalla nazione simbolo della democrazia occidentale ci spostiamo verso l’altra parte del globo, dove la potenza economica del Giappone è colpita da una allarmante crisi psicologica, prima ancora che politica o sociale. Basti pensare all’inquietante proliferare dei cosiddetti hikikomori, persone che, fin dall’adolescenza e spesso per molti anni, decidono di chiudersi in casa ed esistere soltanto nella vita virtuale su Internet. Fuga dalla realtà o ritiro estremo dal vivere sociale sono fenomeni di portata globale: in Europa interessano in maniera significativa paesi come la Francia, la Spagna e l’Italia.

Nel nostro paese troviamo la chat «Hikikomori Italia», rigorosamente riservata ai membri della comunità, dove ragazzi e ragazze si danno appuntamento per un’uscita che in verità è solo virtuale e avviene senza che nessuno debba muoversi dalla propria stanza. Giochi che impegnano questi giovani o giovanissimi fino a più di venti ore al giorno, senza curarsi dei pasti o del sonno15. Cifra distintiva della nostra epoca è poi un sostanziale culto dell’ignoranza che si manifesta in forme sempre nuove e diverse. Basti pensare alla diffidenza – laddove non si tratti di rifiuto – nei confronti delle vaccinazioni, che ha colpito in maniera rilevante l’Italia (ma non solo), in cui il cosiddetto Movimento No vax raccoglie consensi sempre più estesi, contando tra i propri aderenti persino esponenti di governo. Su quali basi vengono portate avanti le tesi anti-vax? Sui dati acquisiti su Internet, ossia estrapolati da quell’opulenza informativa che, in maniera frammentaria e non filtrata, consente di essere informati su tutto nello stesso modo e momento in cui ci fa dimenticare che l’informazione non è conoscenza. La società ottusa è quella in cui ci si può illudere che la mera acquisizione di dati possa sopperire allo studio e alla fatica del ragionare. 23

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Aderire fideisticamente a una tesi, del resto, specie nel mondo dell’aut aut, della complessità del reale ridotta a un «mi piace/non mi piace», comporta uno sforzo assai minore rispetto agli studi necessari per conseguire una laurea in medicina e una specializzazione in virologia, e soprattutto permette di intervenire con malcelata sicumera su quei social network che vivono e prosperano proprio contando sul fatto che manifesteremo desideri, opinioni e probabili motivazioni all’acquisto nel momento in cui ci esprimeremo su qualsiasi aspetto dello scibile umano. Lo aveva spiegato magistralmente Karl Popper, stavolta in un’opera del 1988 composta allo scopo di evidenziare la sapienza critica dei presocratici (e di Socrate), in opposizione al dogmatismo razionalistico di Platone e Aristotele: la scienza più dogmatica e anti-scientifica è quella che si illude di possedere una conoscenza certa e dimostrabile solo perché riesce a trovare conferme empiriche alle proprie informazioni; mentre scienza vera è quella che, consapevole dell’impossibilità di ogni conoscenza certa e definitiva, procede secondo il metodo dello studio costante, del dubbio metodico e del confronto aperto e continuo con le teorie contrastanti16. Tornano alla mente le parole che Isaac Asimov consegnava nel 1980 alla rivista «Newsweek», laddove, denunciando il culto dell’ignoranza che stava prendendo piede negli Stati Uniti, sosteneva che tale fenomeno trova terreno fertile quando «l’anti-intellettualismo si insinua come una traccia costante nella nostra vita politica e culturale, alimentato dalla falsa credenza che democrazia significhi “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”»17. Quelli a cui abbiamo fin qui fatto cenno rappresentano gli effetti estremi e patologici del generale ottundimento della nostra epoca, che costituisce il terreno più fertile per l’affermarsi di fenomeni ideologici e poli24

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tici che traggono beneficio dall’ignoranza generalizzata nel momento stesso in cui ne sono la più degna espressione. Si badi bene però: non si tratta qui di prendere posizione o stigmatizzare il comportamento di una determinata categoria di individui (No vax, sovranisti ecc.) né di riflettere sulle singole derive che si stanno via via manifestando. Il presupposto stesso da cui muove questo libro è ben più radicale: il meccanismo ottundente della società del nostro tempo si configura come un processo che, seppure in forme e con effetti differenti, può colpire tutti quanti noi. Questo poiché nessuno può chiamarsi del tutto fuori dall’onnipresenza semplificante e banalizzante (oltre che «divertente») delle nuove tecnologie mediatiche. Non si tratta (o non solo) del grado di cultura raggiunto, dei libri letti, né tanto meno di etnia, genere o ceto sociale, come di volta in volta si è tentato di sostenere nelle epoche passate. Siamo di fronte a un modello strutturato di società che, a tutti i livelli (politico, culturale, tecnologico, educativo) opera un’influenza tale da omologare e dirigere pensieri, scelte, sistemi valoriali e persino il modo di entrare in relazione con gli altri, strumentalizzando e annullando tutto ciò che è peculiare dell’uomo per sostituirlo con quanto è proprio della tecnica e della finanza. Sono queste, infatti, le presunte forze immanenti e salvifiche ritenute in grado di placare quella condizione di angoscia e incertezza che, oggi come in passato, spinge l’uomo a coltivare una fede acritica e irrazionale nei loro confronti. Come surrogati di idoli e divinità ormai superati, in cambio della sola promessa che interessa all’uomo (la salvezza), il mercato e la tecnica gli impongono un prezzo assai gravoso: rinunciare al proprio pensiero, alla ricerca di una verità non imposta dall’alto e, quindi, alla sua umanità. Ciò che è invece l’inten25

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to di questo libro: provare a recuperare, affrontando i cardini di questo passaggio da società aperta a ottusa, il pensiero di alcuni filosofi e autori per trarne quella cassetta degli attrezzi di cui abbiamo detto all’inizio e con cui affrontare le contraddizioni e le insidie del tempo presente. Ripercorreremo, quindi, le vicende del pensiero critico e della conoscenza, sfere primarie di azione per giungere alla conoscenza e a un’esistenza che non sia subita in nome degli scopi e dei valori materiali e disumanizzanti della tecnica e della finanza, due attori dei quali esamineremo il ruolo per mostrare come, incarnando ragioni «altre» ben diverse da quella dell’uomo, hanno provocato il deperimento dello scopo stesso a cui tende la società aperta, che si rivela a sua volta concetto non privo di ambiguità: la democrazia. Tirando le somme, proveremo infine a chiederci come possa l’uomo attrezzarsi per non restare in balia delle mostruose divinità che egli stesso ha creato. Il tentativo sarà quello di tratteggiare alcune misure concrete attraverso cui operare una riapertura dell’orizzonte umano, in senso cognitivo, educativo, emotivo, relazionale, ecologico e politico. Il presupposto fondamentale da cui partire è lasciarsi alle spalle la deriva operata dalla teoria del pensiero debole, con la sua sfiducia nelle potenzialità della ragione e delle idee umane, per riappropriarsi della consapevolezza che un pensiero forte e critico rappresenta la conditio sine qua non affinché l’uomo possa tornare protagonista della propria esistenza e fine di ogni agire sociale. Non si tratta soltanto di realizzare l’ideale di un neoumanesimo, quanto di comprendere che forse mai come in questo frangente storico è a rischio, e quindi va salvaguardata, l’essenza stessa di ciò che definiamo e riconosciamo come «umano». 26

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I. L’uomo senza pensiero

Non credere a nulla, se prima non lo hai capito. Pietro Abelardo 1130 ca.

Ognuno di noi, in quanto essere umano, è titolare di una doppia cittadinanza. Come persone siamo cittadini del mondo e, più in generale, di un’esistenza che ci accomuna con il suo carico di incognite. In questo primo tipo di cittadinanza ci scopriamo radicalmente soli, seppure in compagnia di altre solitudini gravate dalla nostra stessa incertezza del vivere, affetti da quella che Leopardi chiamava «l’infelicità nativa dell’uomo», l’essere che non sa nulla e non è nulla, e soprattutto sa (o teme) «di non aver nulla a sperare dopo la morte»1. Come individui siamo poi cittadini di quelle realtà artificiali, che chiamiamo società, dove dobbiamo fare i conti con problemi più concreti: la gestione dei rapporti di forza fra individui e gruppi, i diritti concessi e negati, il lavoro, il benessere e la ricerca di un ruolo all’interno della società che ci permetta di essere riconosciuti dagli altri. Nel suo statuto di cittadino del consesso umano l’uomo scopre la legge per cui «la vita è essenzialmente appropriazione, violazione e sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole» da parte del più forte, secondo le parole di Nietzsche, ma anche 27

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quella per cui egli è essenzialmente un animale sociale, perché può acquisire consapevolezza della propria identità soltanto all’interno di un meccanismo dialettico di reciproco riconoscimento, come scriveva Hegel2. In questo secondo tipo di cittadinanza siamo in compagnia di altri individui che condividono con noi la dimensione pubblica, anche se questo non ci impedisce di fare i conti con la nostra irrimediabile solitudine esistenziale ogniqualvolta risultiamo sconfitti o emarginati dal modello competitivo che permea la nostra società. Entrambe le forme di cittadinanza richiedono da parte nostra l’utilizzo dell’unica facoltà che ci qualifica come esseri umani e individui, il pensiero, che ci permette di fare esperienza delle cose e degli altri, regolando e stabilendo il nostro esistere in maniera ragionevolmente autonoma e critica. Il problema è che la nostra è l’epoca dell’assalto frontale al pensiero. La società è organizzata e improntata secondo una modalità radicalmente e scientificamente contraria alla ragione, alla riflessione, al dialogo pensante che dovrebbe accomunare gli individui uniti nel consesso sociale. Volendone dare una definizione puntuale, la nostra è una società «misologa»: etimologicamente contro tutto ciò che è pensiero, conoscenza, dialogo ragionante. Da Socrate a Pasolini, prendere in odio i ragionamenti veniva considerata la sciagura peggiore nonché il più sgradevole peccato che gli uomini potessero compiere3. Tale sciagura è ciò che ci troviamo a vivere all’interno della società misologa. Una società che, in forza del suo apparato organizzativo volto a distruggere il logos umano, finisce con il trasformarsi da prodotto e habitat del pensare e agire consapevole dell’uomo, a sua padrona e legislatrice indiscutibile. Il rapporto che i cristiani hanno con il mondo, secondo le parole di Gesù, è quello di essere nel mondo ma 28

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non del mondo4. Ne facciamo parte per un periodo limitato di tempo, ma portiamo nella nostra essenza una finalità ulteriore, se non altro perché sappiamo fin dalla nascita che la morte, nostro «ultimo nemico»5, prima o dopo ci trascinerà via dall’incombenza dell’esserci. Volendo fare riferimento alla riflessione di Gesù, possiamo dire che il rapporto che noi contemporanei abbiamo con la società misologa è quello di essere in essa ma anche di essa. Ci siamo dentro, la abitiamo, ma siamo anche cosa sua. Questo perché nella società misologa all’indebolimento e alla mortificazione delle nostre capacità di pensare, conoscere e agire secondo dei codici stabiliti da noi stessi, corrisponde l’affermazione di tecnologie e dogmi finanziari che pensano, conoscono e perfino agiscono per nostro conto. O comunque ci dicono come agire e in vista di quali scopi. Ci troviamo di fronte al rischio più grande: perdere tanto la cittadinanza esistenziale che ci qualifica come esseri umani, quanto quella pubblica che ci caratterizza come individui inseriti in un contesto sociale. Senza il pensiero autonomo e critico, rischiamo di non essere più nulla di ciò che un tempo si definiva «umano», quindi di essere ridotti allo stato di apolidi della nostra stessa esistenza. lo specchio infranto C’è un solo specchio in grado di riflettere la nostra immagine autentica. Si tratta di uno specchio interiore, a cui possiamo accedere in quelle sempre più rare occasioni in cui mettiamo in atto l’esercizio del pensiero. La riflessione, quel «dialogo dell’anima con se stessa» di cui parlava Platone, o più precisamente quel bagaglio di facoltà proprie del pensiero che produce nell’intelli29

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genza un tipo di idee e cognizioni che i soli oggetti esterni (e i sensi) non avrebbero potuto fornirle. Tali idee sono quelle che John Locke chiamava «percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare, conoscere, volere». Idee di cui siamo ben consci e che possiamo constatare all’interno di noi stessi6. Questo tipo di pensiero è altresì identificabile con ciò che i greci designavano con il termine logos, declinabile nella triplice accezione di riflessione ragionante, parola dialogante (dia-logos) e studio volto alla conoscenza. L’essere umano in possesso del logos riflette con se stesso, condivide e confronta queste riflessioni con gli altri e, infine, individua nuovi oggetti di studio in grado di alimentare ulteriori meditazioni e rinnovati confronti. Nell’esercizio di queste attività l’individuo si qualifica come consapevole, capace di fare esperienza del mondo attraverso modalità e percorsi scelti autonomamente, condotti verso mete che, almeno nelle intenzioni, non sono imposte da altri7. Ciò si evince dall’origine stessa del termine logos, che deriva dal verbo greco légo¯ e significa «riunire» e «raccogliere» (da cui «religione»), ma anche «scegliere», in entrambi i casi seguendo un ordine razionale che tenta di dare forma all’indefinito8. Non a caso Platone sminuiva, qualificandola come mera «attività empirica», l’occuparsi delle cose senza avere conoscenza della loro natura e si rifiutava di elevare a scienza le azioni svolte «senza ragionamento». Aristotele, per parte sua, riteneva coloro che possiedono una visione d’insieme delle singole arti più degni dei semplici manovali: i primi sono più sapienti perché in possesso del logos e quindi in grado di conoscere le cause di ciò che fanno9. Questo tipo di pensiero non è innato nell’essere umano, non è una facoltà preconfezionata e predefinita di cui dobbiamo semplicemente acquisire consapevolez30

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za allo scopo di usarla per orientarci nel mondo. La possediamo solo in potenza, in una forma grezza e germinale che dobbiamo prima riconoscere in noi, e poi nutrire ed esercitare affinché possa svolgere la sua funzione. Una facoltà, insomma, che impariamo a far nostra grazie a un impegnativo e costante esercizio, che è conditio sine qua non del nostro percorso di crescita, riflettendo sulle cose della vita, e in questo riflettendole come uno specchio. Il pensiero si rivela, dunque, come quello specchio invisibile attraverso il quale prendiamo coscienza di noi stessi e degli altri (persone e cose) che condividono con noi la dimensione che chiamiamo vita. Non a caso la sapienza antica faceva dire a Parmenide che «stessa cosa è pensare (noein) ed essere (einai), dopo che Eraclito aveva precisato che “il pensiero è comune a tutti”»10. Né è un mero accidente che la stessa etimologia del pensare come del riflettere ci rimandi al campo semantico latino dello specchio e del rispecchiamento (speculum, speculari), perché il nostro atto di pensare si rivela come una speculazione che è in grado di restituirci (e quindi farci vedere) non tanto la nostra immagine, come farebbe uno specchio qualunque, quanto la nostra identità profonda. In questo senso, in un’accezione ampia e al tempo stesso radicale di «pensiero», inteso come insieme di facoltà di cui abbiamo coscienza, il filosofo Descartes, alla domanda «cosa sono?», rispondeva «una cosa pensante» (res cogitans), ossia qualcosa «che dubita, che capisce, che afferma e nega, che vuole o non vuole, che immagina e anche che sente». In maniera più schematica e rigorosa Hegel individuava il pensiero come riferito al soggetto, e in quanto tale «Io pensante», mentre, in relazione agli oggetti, lo qualificava come riflessione su qualche aspetto di cui è in grado di cogliere il «valore», l’«essenziale», l’«interno» e il «vero»11. 31

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Concepito in quest’accezione ampia, il pensiero è dunque ciò che struttura la nostra identità profonda e al tempo stesso ci permette di averne consapevolezza. Identità profonda che riconosciamo come tale anche grazie alle proprietà specifiche di questo specchio, che ci restituisce contemporaneamente quello che c’è dietro la nostra immagine e ciò che ci circonda, ma anche il passato che ci ha fatto diventare quello che siamo e che potrà farci decidere in vista di quale obiettivo continuare a essere, così da costruire il futuro che vorremmo vedere riflesso dallo specchio della nostra anima. Ma non c’è dubbio che se da una parte è la fonte più profonda del nostro poter essere liberi, dall’altra il pensiero comporta anche un prezzo da pagare per quell’essere che non nasce libero, l’uomo. In questo senso, poiché ci qualifica quali esseri riflettenti e dialoganti, il pensiero è anche quella facoltà che delimita la nostra specificità di esseri umani, di entità mediana fra gli dèi e gli animali come ben descritto dalle parole del filosofo Plotino: «Il posto dell’uomo è nel mezzo fra gli dèi e le bestie, ed egli inclina talvolta verso gli uni e talvolta verso le altre. Certi uomini sono simili agli dèi, altri alle bestie. I più si tengono nel mezzo»12. Per dèi e animali la vita non rappresenta un problema, termine che deriva dal greco probállo¯, il cui significato è «gettare innanzi», «proiettarsi oltre», in senso lato doversi preoccupare del futuro. Dio, infatti, essendo onnipotente rispetto alle cose della vita – per usare le parole di Descartes – non è solo «autore dell’essenza come dell’esistenza delle creature», è fin da sempre libero di non creare il mondo13. E gli animali, pur occupando il gradino più basso dell’esistenza, non ne percepiscono il problema, forniti dell’istinto che li guida in ogni passo della loro esistenza e li solleva dal peso delle scelte e delle responsabilità. Una condizione, quella dell’animale, al confronto della quale secondo Nietzsche 32

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«l’uomo si vanta della sua umanità», guardandola tuttavia con invidia, dal momento che vorrebbe «vivere come l’animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano»14. Ciò in virtù del fatto che l’essere umano è l’unico per il quale vivere costituisce un «problema», una costante proiezione in avanti che richiede di volta in volta la capacità (e lo sforzo) di elaborare un progetto esistenziale. È dunque questa progettualità che definisce l’essenza stessa dell’uomo, perfino il temperamento e il carattere di una persona, nonché la sua irriducibile libertà di tendere verso fini propri15. L’incombenza originaria di dover esperire la vita come un problema è ciò di cui l’essere umano prende coscienza con l’età della ragione, e di cui è più o meno in grado di occuparsi proprio grazie alla facoltà del pensiero. Quest’ultima risulta imprescindibile, a meno di non volersi condannare a una vita passiva e inconsapevole (in ultima analisi: infelice), in cui di volta in volta il nostro agire è stabilito e regolato dalla natura o da altre entità a noi esterne, come efficacemente riassunto dalle parole che Kant pronunciò nel 1784: La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che va oltre la costituzione meccanica della sua esistenza animale e che non partecipasse ad altra felicità o perfezione se non a quella che egli stesso, libero da istinti, si crea con la propria ragione [...] Essa [la natura] diede all’uomo la ragione e, su di questa fondata, la libertà del volere, e con ciò ha dato un chiaro indizio della sua intenzione circa il modo di dotarlo. Egli cioè doveva essere guidato non dall’istinto e neppure essere fornito di conoscenza innata, ma doveva piuttosto tutto ricavare da se stesso [...] Quasi volesse che l’uomo, dall’estremo della barbarie, si conquistasse col proprio lavoro la più grande abilità, l’interiore perfezione del pensiero e quindi, per quanto è possibile sulla terra, la felicità, in modo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso16.

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È fondamentale comprendere, dunque, che la facoltà del corretto pensare risulta da un nostro sforzo di acquisizione (per nulla scontato), e anche che così come impariamo a farla nostra con impegno e sacrificio, possiamo altresì perderla, per esempio quando moriamo, oppure se veniamo colpiti da una malattia (o patologia, da páthos + logos, leggibile anche come «pensiero sofferente»), o ancora quando perdiamo il senno e ci ritroviamo condannati a poter percepire un barlume di ombre trasfigurate. Dallo specchio allo schermo C’è però un altro caso, ed è quello che ci proponiamo di approfondire qui, in cui l’uomo rischia di perdere la fondamentale facoltà del pensiero: quando un apparato di potere si rivela straordinariamente pervasivo ed efficace nel colpire direttamente tale facoltà. Questo frangente si prospetta oggi ancor più grave perché l’obiettivo non pare più quello di controllare, dirigere o forzare il pensiero in una determinata direzione – intenzioni, queste, manifestate e spesso realizzate da ogni forma di potere nelle epoche precedenti – ma quello, inaudito e ben più radicale, di estirparlo dall’uomo stesso, trasformandolo così in una sorta di automa, di macchina programmata per vivere secondo i dogmi e in vista di scopi stabiliti da una società organizzata sulla base di meccanismi misologi. Rispetto a tale società l’essere umano è chiamato a recitare il ruolo di «mezzo» volto a realizzare fini che non sono i suoi. Perché non sono fini umani. Siamo al tempo stesso abitanti della società misologa e suoi possedimenti, perché è essa stessa a stabilire le norme che legittimano la cittadinanza dell’uomo in questa vita. Chi non si adegua docilmente e passivamente 34

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a tali norme viene emarginato, reso apolide, soggetto alieno di un consesso sociale che di fatto lo esclude. In questo modo la società misologa opera per infrangere il nostro specchio interiore, con lo scopo di metterci di fronte alla dittatura silenziosa del suo specchio esterno, che non ci restituisce più la nostra identità, bensì l’immagine arida, imperscrutabile e impersonale dei dogmi imposti da un’entità che produce e controlla tutte quelle immagini di cui siamo diventati fruitori avidi e passivi. La società misologa agisce senza peraltro lasciar vedere la propria immagine, che si declina in termini tecno-finanziari, impedendo all’essere umano di formare ed elaborare una coscienza critica e quindi un pensiero autonomo. La società del nostro tempo è misologa e difficilmente individuabile al tempo stesso, poiché esercita questo suo potere lobotomizzante e analfabetizzante non solo e non tanto attraverso un meccanismo esteriore imponente ed evidente, ma penetrando nella sfera interiore degli individui, e da lì agendo affinché essi stessi operino volontariamente ed entusiasticamente contro il proprio pensiero autonomo e critico. Non è un caso che il termine «misologia» si ritrovi tanto in un filosofo antico e anti-democratico come Platone (che ne fu l’ideatore), quanto in un intellettuale moderno e schierato dalla parte degli ultimi come Pier Paolo Pasolini. Seppur da posizioni contrapposte e con scopi diversi, entrambi ritenevano fondamentale la difesa del logos affinché l’uomo non cadesse vittima della dittatura e del controllo esercitati da un potere esterno e autoritario. L’atto misologo appartiene per definizione a qualunque tipo di potere intenzionato a esercitare un controllo e un dominio sull’individuo come sulla massa. Quest’operazione può riuscire o meno, e in vari gradi, a seconda dei tempi e dei contesti, come anche delle condizio35

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ni economiche e culturali in cui si tenta di attuarla. Lo ricorda Hannah Arendt quando, analizzando il «grande rivolgimento» avvenuto con l’età moderna e con l’avvento della tecnologia e dell’industria, sottolinea come si sia trattato di un ribaltamento riguardante il pensiero, che da quel momento divenne «ancella dell’azione», come nell’epoca medievale era stato ancilla theo­logiae, cioè subordinato alla contemplazione della verità divina, mentre nell’età antica lo era stato alla verità dell’Essere17. Oggi la questione non è più legata a quale grado di sottomissione a un’influenza esterna la ragione umana abbia raggiunto. Assistiamo a un salto qualitativo. La società misologa del nostro tempo riesce a esercitare di fatto un controllo, una guida e un dominio rispetto alla dimensione interiore dell’uomo. Grazie allo stretto connubio fra ideologia dominante neoliberista e pervasività delle nuove tecnologie digitali, tale società riesce a frantumare lo specchio interiore del pensiero umano, producendo individui in cui lo specchio della riflessione autonoma è stato sostituito dallo «schermo» della finzione virtuale, in grado di affermare ideali, valori, costumi e perfino abitudini (selfie, snapchat, post, condivisioni ecc.) a cui l’essere umano è chiamato ad aderire e omologarsi in nome del profitto e del potenziamento tecnologico. Nella costante e ansiosa ricerca di un’approvazione che quanto più si realizza all’interno della finzione e dello spettacolo, tanto più è il frutto dell’impoverimento della dimensione reale. «Mentre tutti desiderano e hanno bisogno di essere apprezzati da qualcuno per qualche tempo», scrive il sociologo David Riesman, «soltanto il tipo etero-diretto moderno fa di ciò la sua principale fonte di direzione nonché l’ambito principale della propria sensibilità»18.

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La triplice regressione dell’«Homo religiosus» L’essere umano è un produttore seriale di divinità. La sua stessa natura imperfetta, mortale ed esposta a qualunque capriccio del destino lo spinge a cercare costantemente riferimenti superiori, entità confortanti e salvifiche che in qualche modo gli permettano di conferire senso a un tutto che ne è privo. Ciò è vero al punto da aver indotto Nietzsche ad affermare che «nel mondo ci sono più idoli che realtà»19. È profondamente umano il «bisogno psicologico o emotivo di un Dio», tale da farci dimenticare – perché lo bramiamo – che quanto più una cosa è desiderabile tanto più in realtà può essere falsa, e che spesso confondiamo «la credenza in Dio» con la «credenza nella credenza», come ha spiegato il biologo Richard Dawkins. Si tratta di un bisogno incessante e radicale, dal quale non è esente nemmeno chi ha perso la fede o non l’ha mai avuta, ossia coloro che devono fare i conti con la sfida di «sostituirlo [Dio] con qualcos’altro, se non esiste»20. Illusioni, speranze: sono molti i nomi che potremmo dare a ciò che mettiamo in campo nel disperato tentativo che lo specchio interiore non si limiti a restituirci esclusivamente la nostra immagine – insufficiente a sostenere quel tutto oscuro e incontrollabile che è l’esistenza –, ma che ci faccia almeno intravedere la parvenza di altre entità in grado di accompagnare il nostro cammino incerto, sostenere le nostre azioni troppo spesso avvolte dal buio, garantirci una salvezza finale di cui non scorgiamo i presupposti. In questo senso l’essere umano cerca appigli, come ha scritto con efficacia il filosofo Emil Cioran, preferendo sempre «disperare in ginocchio piuttosto che in piedi», aspirando a una salvezza a cui lo spingono solamente la sua viltà e la sua fatica di vivere, incapace di 37

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«innalzarsi all’inconsolabilità e di scorgervi delle ragioni di orgoglio»21. Una condizione che accomuna tutte le creature presenti nel nostro pianeta, ma di cui, come abbiamo visto, esclusivamente l’uomo è consapevole. A questa tragica consapevolezza si aggiunge la peculiarità tutta umana di possedere al proprio interno l’ideale della perfezione, come anche il miraggio e la speranza di un mondo ultraterreno e perfetto, a cui tendere per tutta la vita sapendosi inadeguati e incapaci di raggiungere entrambe le cose (quantomeno senza l’intervento di una forza superiore). Nella sua fase infantile e adolescenziale l’essere umano ricerca queste entità salvifiche e confortanti in figure mondane, all’interno della cerchia della sua stessa esistenza: familiari quali la madre, benevola dispensatrice di cibo e cure, e il padre, autorevole garanzia di sicurezza verso i pericoli del mondo extra domestico. Con il raggiungimento dell’età adulta egli non si accontenta più né ritiene credibile affidare le sorti della propria salvezza a chi gli è troppo vicino, illudendosi che posseggano facoltà sovrannaturali e quindi salvifiche. L’uomo non è soltanto ragione, ma anche un contenitore di volontà e desideri in nome dei quali è disposto sovente a sacrificare la ragione stessa, come spiegato efficacemente da Francis Bacon laddove scriveva: «L’intelletto umano non è qualcosa di arido, ma riceve alimento dalla volontà e dagli affetti, generando in tal modo delle scienze “alla bisogna” [ad quod vult scientias]. Infatti ciò che l’uomo desidera sia vero, tende a crederlo come tale». Un concetto che Sigmund Freud applicava anche alla magia, ritenendo che «i motivi che spingono a esercitare la magia sono facilmente riconoscibili: sono i desideri dell’uomo [...]. In fondo, tutto ciò che egli realizza per via magica deve accadere soltanto perché egli lo vuole»22. 38

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In questo senso l’essere umano adulto non smette di configurarsi come religioso, ossia esistenzialmente desideroso e bisognoso di raccogliere tutti i propri limiti e le proprie angosce, per poterli incanalare in un’entità pensata apposta con delle caratteristiche in grado di accoglierli e superarli. Del resto, all’uomo non rimane che il pensiero mistico o magico per sopperire al grande vuoto non colmabile dalla scienza, che secondo Karl Popper non è in grado di fare «affermazioni sopra questioni ultime come gli enigmi dell’esistenza o sul dovere dell’uomo in questo mondo»23. L’uomo ha bisogno che il suo specchio interiore gli restituisca l’immagine di un’entità onnipotente, confortante e benevola, e per questo è disposto a rinunciare che a essere riflessa sia la propria identità, così insufficiente e inadeguata a fargli affrontare con sicurezza il mare aperto, immenso e imprevedibile della sua stessa vita. Ludwig Feuerbach scriveva nel 1841 che nell’atteggiamento religioso «l’uomo espelle lontano da sé la sua propria essenza [...] sacrificando la cosa all’immagine», cioè annullando se stesso per riconoscersi nell’immaginazione divinizzata: Come Dio non è altro che l’essenza dell’uomo purificata da ciò che appare come limite, come male all’individuo umano, sia nel suo sentimento, sia nel pensiero, così l’aldilà non è altro che l’al di qua liberato da ciò che appare come limite, come male [...] Nella religione l’uomo si divide da se stesso, ma solo per ritornare al medesimo punto dal quale è partito. L’uomo si nega, ma solo per riaffermarsi, e questo anzi in una forma esaltata; quanto più egli si abbassa ai suoi occhi, tanto più si innalza agli occhi di Dio24.

Si tratta del medesimo processo che avviene in maniera più evidente nell’epoca della società misologa, 39

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in cui l’uomo religioso subisce una regressione sostanziale che lo riporta alle fasi della fanciullezza e dell’adolescenza. Egli, infatti, smette di fare riferimento a figure sovrasensibile per tornare ad adorare entità mondane e terrene, proiettando su di esse quel medesimo sentimento di fede e fiducia che lo ha sempre condotto a rinunciare a parte della propria libertà in cambio di un’illusoria sicurezza25. Queste divinità terrene si rivelano ancora più gradite e confortanti per l’essere umano, poiché apparentemente non posseggono quei tratti misteriosi, imperscrutabili e inaccessibili tipici di un’entità trascendente. Siamo nell’ambito di quella psicologia fanciullesca descritta dallo studioso dell’età evolutiva Jean Piaget: un bambino che «prende per assoluto il proprio punto di vista», e ignorandone il carattere soggettivo «si crede al centro del mondo», perché non ha ancora elaborato «il processo graduale di strutturazione o socializzazione» che gli faccia cogliere il legame e la differenza «tra il proprio punto di vista e quello degli altri»26. In questo senso l’uomo religioso è come un adulto bambino che si immagina al centro del mondo ed è incapace di individuare un altro da sé che lo smentisca o faccia resistenza ai suoi voleri: pertanto è disposto a proiettare il proprio sé su un’entità divina chiamata a proteggerlo e salvarlo tramite quelle facoltà sovrumane che egli non possiede. Il cambiamento sostanziale a cui stiamo assistendo consiste in questo: le divinità immanenti in cui l’uomo riponeva fiducia assoluta nella sua fase infantile (innanzitutto i genitori) erano, almeno in teoria, mosse da un amore incondizionato nei confronti del bambino, tese ad alimentarne la crescita o quantomeno non intenzionate a boicottarla o rallentarla. E il bambino, d’altra parte, poteva credere e ragionevolmente contare sul fatto che tali figure fossero lì per lui ed esclusivamente per lui. 40

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Le divinità immanenti in cui l’uomo religioso ripone la sua fede oggi, invece, oltre che richiederne la sottomissione e l’obbedienza come quelle trascendenti, e privarlo di una cospicua parte di libertà in cambio di una protezione del tutto illusoria, sono disinteressate allo sviluppo umano. Un po’ come il Dio distante e autoriferito di cui parlava Aristotele, il cui unico pensiero è il suo stesso pensiero, che lo porta a pensare freddamente a se medesimo per tutta l’eternità27. L’uomo religioso non ha subito una regressione soltanto perché è tornato a venerare ancora più improbabili divinità terrene – che, proprio in quanto terrene, spesso si rivelano più influenti e pericolose di quelle trascendenti. È regredito perché ha consegnato la propria fede (e buona parte della propria esistenza) a divinità immanenti che non vogliono il suo sviluppo e la sua crescita, ma che richiedono il suo asservimento in vista di obiettivi che sono quelli delle divinità stesse. Siamo di fronte a una sorta di trappola esistenziale che non deve sorprenderci visto che già il barone d’Holbach, illustre filosofo ateo e illuminista del XVIII secolo, denunciava il fatto che la religione, abituando gli uomini a temere un sovrano invisibile e a venerare «degli dèi bizzarri, ingiusti, sanguinari e implacabili, li rende vili anche di fronte a quelli visibili»28. Le divinità immanenti e visibili a cui l’uomo sta sacrificando la propria essenza sono quelle che identificano e governano la società misologa. A partire dall’Illuminismo l’uomo della modernità era qualificabile come homo rationalis. Sebbene continuassero a sussistere elementi fideistici tramite i quali individuare entità terrene o metafisiche a cui votarsi in vista di uno scopo superiore, si trattava però di entità filosofiche (l’Essere), politiche (lo Stato democratico e giacobino), economiche (libero scambio, mano invisibile), o strettamente religiose (Dio): la razionalità era 41

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garantita dal fatto che egli, in qualche modo, si sottometteva anima e corpo alle sue stesse produzioni, che non solo riteneva per primo di poter controllare e guidare (magari attraverso la preghiera), ma che erano state concepite per funzionare in vista di scopi specificamente umani. Egli era anche homo politicus nella misura in cui aderiva a un’ideologia, per quanto fideisticamente e persino metafisicamente intesa e collocata, nella prospettiva (fallace o meno) di realizzare un consesso politico e sociale ritenuto giusto e rispondente ai bisogni della collettività e dello sviluppo individuale. Si immolava a un’Idea (o immagine), ma anche a un governo ritenuti capaci di promuovere in senso generale la sicurezza e il benessere della società. Nel suo Trattato teologico-politico Baruch Spinoza sintetizzava in modo efficace che: Il fine ultimo dello Stato non è dominare né costringere gli uomini per mezzo della paura o renderli di un altro tramite il diritto, ma al contrario liberare ciascuno dalla paura affinché viva, per quanto è possibile, nella sicurezza, cioè affinché mantenga nel migliore dei modi il suo diritto naturale a esistere e operare senza danno alcuno per sé e per gli altri. Quindi lo scopo dello Stato non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o automi, bensì, al contrario, che i loro corpi e le loro menti possano compiere in sicurezza le rispettive funzioni e che essi si servano della libera ragione, senza combattersi con odio, ira o inganno né comportarsi reciprocamente con animo ingiusto29.

Persino l’uomo religioso nel senso canonico del termine, che a vario titolo si affida alla benevolenza e alla misericordia di Dio, decide razionalmente di sottomettersi ai dogmi in vista della protezione nella vita terrena e della salvezza della propria anima per il Regno dei cieli30. 42

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La mutazione antropologica che riscontriamo oggi è tale da non essere assimilabile ad alcuna delle pur elastiche (e sovrapponibili) tipologie precedenti. L’uomo di oggi è homo religiosus nella misura in cui egli è consapevolmente creatore e non creatura. Per di più creatore di divinità anch’esse totalmente nuove. Impersonali, ma soprattutto inflessibili e implacabili nel loro rivolgersi contro l’uomo che le ha create. L’etica della Rete e lo spirito del nuovo capitalismo Montaigne sosteneva che chiunque riesca a farci credere nei suoi presupposti «è nostro maestro e nostro Dio»31. Chi vince la battaglia delle idee, infatti, stabilisce quali dèi venerare. Tramite queste divinità riesce poi a imporre la scala di valori e gli obiettivi per cui gli individui sono chiamati a condurre la propria esistenza. In che modo la società misologa persegue e raggiunge questo scopo? In essa il sistema ideologico dominante, il liberismo, ha innalzato i meccanismi (come anche i valori) della tecnica e della finanza al rango di una divinità con caratteristiche del tutto diverse da qualsiasi altra apparsa nella pur lunga e complessa vicenda della religiosità umana. A cominciare dalla sua natura. Se per il cristianesimo essa è una e trina, la divinità misologa è invece una e bina: due attributi di una medesima sostanza. Per definirla si può utilizzare il termine greco «endiadi», en diá duos, un uno che si manifesta attraverso due entità distinte. Differenti ma tutt’altro che diverse, perché pur nella loro distinzione sono riconducibili a un medesimo genere o natura (un po’ come il maschile e il femminile, distinti ma appartenenti a un unico grande: quello umano)32. 43

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La prima emanazione è la finanza, il punto più alto raggiunto dall’evoluzione del sistema di produzione capitalistico. Si dispiega attraverso una teologia economica diffusa per dogmi: onnipotente e onnipresente, in grado di sottomettere e governare la dimensione umana in tutte le sue articolazioni, arrivando al punto da sostituirla con la propria. Con il consenso dell’uomo stesso, che ha finito con l’introiettarne i meccanismi, le dinamiche e i valori, tanto che quasi nessuna azione umana è ormai possibile senza che sia legata allo scopo di tradursi in profitto. In quest’ottica la nostra è l’epoca della mercificazione completa e assoluta dell’essere umano: egli costituisce la merce per antonomasia poiché il suo stesso vivere acquista senso nella misura in cui genera profitto o valorizza altre merci. Non a caso si è arrivati a parlare di «finanziarizzazione della vita quotidiana», ovvero dell’affermazione di un’ideologia che non ha imposto il mercato (luogo dell’attività e della produzione umana) bensì il capitalismo finanziario (dimensione impersonale della logica numerica) alla stregua di principio regolatore di quasi ogni cosa, soprattutto di ciò per cui l’uomo deve spendere le proprie energie e condurre la propria esistenza33. L’uomo è la merce che fa da tramite tra le altre merci e la finanza. Egli risulta impossibilitato a concepire modalità di esistenza e azioni alternative. Privo dello specchio interiore del proprio pensiero e della propria identità autentica, si rivela esecutore passivo delle immagini che gli vengono proposte dallo specchio della forma merce, che: restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di

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quelle cose [...]. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali [...]. Quindi, non più rapporti immediatamente sociali tra persone, ma rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose...

secondo la celebre sintesi che di tale meccanismo aveva fatto Karl Marx34. Non soltanto, dunque, l’individuo si estrania nella merce identificandosi con i valori della mercificazione stessa, ma anche i rapporti fra le persone si spogliano delle caratteristiche umane per trasformarsi in relazioni funzionali tra maschere che rappresentano il solo interesse del profitto economico. È il prosieguo del ragionamento di Marx: Le persone esistono qui l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merce, quindi come possessori di merci. Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà, che le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra35.

Se i criteri del profitto sono diventati l’unico sistema valoriale e di pensiero, fino ad assurgere al rango di abito mentale di un uomo spogliato di ogni possibilità che non si conformi all’esecuzione meccanica dei dogmi imposti dal capitalismo mercificante, vediamo che egli si mostra spesso perfino entusiasta di quei dogmi. In virtù della sua etimologia «entusiasmo» appare il termine più adatto per definire quanto accaduto all’uomo senza pensiero della nostra epoca: il significato originario, «avere Dio dentro», si lega alla specifica tipologia di divinità che caratterizza il tempo presente. Una divinità che è entrata nell’essere umano a danno del 45

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logos, impossessandosi della sua ragione per sradicarla e sostituirla con i criteri esclusivamente strumentali e quantitativi della ragione economica. All’uomo come essere mediano fra gli dèi e gli animali, ossia a colui per il quale l’esistenza costituisce un problema da affrontare mediante la lavorazione e la valorizzazione delle cose esterne, accade che «agendo sulla natura fuori di lui e modificandola» finisce «col modificare al tempo stesso anche la propria natura»36. Ridotto a una piccola barca priva di rotta e in mezzo a un mare dalla potenza oscura e incontrollabile, non resta che affidarsi alla rotta di volta in volta tracciata dalla divinità misologa. Che però lo conduce con gelida sistematicità e scientificità in porti dove non c’è nulla di umano. Se non ulteriore entusiasmo. Ulteriore sottomissione. Specialmente nei confronti di quelle cose e di quei prodotti che, nell’ambito di un mercato in cui gli uomini fossero attori e fruitori dei beni lavorati, dovrebbero avere valore nella misura in cui «sopperiscono alle necessità o servono i comodi della vita umana»37. A suo tempo Marx ha messo in evidenza l’alienazione degli uomini nelle cose, che li induce a «comportarsi, di fronte ai loro prodotti, in modo da perdere il controllo dei loro reciproci rapporti, per cui questi si rendono autonomi di fronte ad essi e la potenza della loro vita acquista la supremazia su di essi»38. Questo processo è giunto a compimento nella nostra epoca, nella quale la società misologa parla all’uomo con un linguaggio subliminale che grazie alle tecnologie digitali cognitivamente intrusive si imprime nella sua anima a mo’ di imperativo categorico. Si è realizzata la trasformazione sostanziale dell’economia, che ha visto contrarsi lo spettro semantico del proprio ambito: da scienza sociale si è infatti mutata in sistema chiuso (e dunque asociale), diventando un apparato arido e impersonale meccanicamente trainato da un primo e unico motore immobi46

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le, il mercato finanziario con la sua logica quantitativa e numerica. In un contesto del genere, all’uomo non resta che sacrificarsi, nell’ottica di operare, regolarsi e in definitiva vivere solo ed esclusivamente in funzione di ciò che il mercato pronuncia, richiede, prospetta. Il pensiero (calcolante) e la parola (monologante e apodittica) sono quelli del capitalismo finanziario. L’uomo è lasciato in balia della sua solitudine comunicante attraverso la gabbia di vetro degli schermi piatti e isolanti delle tecnologie digitali39. Tali schermi, come mai avvenuto prima, lo mettono in comunicazione con l’intero globo, nel momento stesso in cui lo inchiodano davanti a una tecnologia che sempre più si rivela indispensabile intermediario di ogni sua azione e relazione. Schermi piatti, «dis-traenti», tanto più «divertenti» quanto più deputati a distogliere l’uomo dal riflettere sulla propria condizione. Un apparato mediatico e tecnologico che in maniera sempre più pervasiva prende l’essere umano sotto la sua ala avvolgente, organizzando fin nei minimi dettagli (e ormai in totale assenza di «tempo libero», se non forse durante il sonno) il suo intrattenimento e divertimento, riducendo la sua stessa vita a dimensione da consumare al prezzo di una connessione più o meno veloce alla Rete. La distruzione del pensiero critico individuale va di pari passo con l’affermazione del fatalismo rispetto all’ine­ luttabilità di questa nuova configurazione del capitalismo e con la soppressione di quei luoghi pubblici in cui gli individui si incontravano fisicamente, apprendevano, discutevano e ponevano le basi per forme di associazionismo in grado di tutelare i beni comuni. Si tratta di un processo analizzato con estrema efficacia da Luc Boltanski ed Ève Chiapello, i quali scrivono non a caso che: 47

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nessuna epoca, forse, si è immolata alla credenza in un’azione senza soggetto come quella degli ultimi quindici anni, malgrado si sia parlato spesso di un «ritorno del soggetto». Peccato che il soggetto in questione fosse un agente individuale, non un soggetto della storia. Il soggetto con una razionalità economica, completamente dedito ai propri affari e del tutto immerso nel compito di massimizzare i propri interessi individuali [...]. Anche il soggetto della filosofia sociale ci è stato dipinto con i colori dell’ineluttabile, quello dell’insorgere dell’individualismo, ultima delle «grandi narrazioni» a resistere al tramonto delle filosofie della storia. Ora, se questa ascesa nel corso degli ultimi quindici anni è in effetti probabile, tuttavia non può essere vista come il risultato di un’evoluzione che nulla potrebbe ostacolare, ma della decostruzione degli insiemi (classi, imprese, sindacati, partiti ma anche, per un altro verso, chiese o scuole), sui quali si fondava la capacità delle persone di collocarsi all’interno di prospettive collettive nonché di perseguire beni riconosciuti come comuni [...]. Ciò ha considerevolmente innalzato i costi di appartenenza, e contribuito per reazione alla formazione di un sentimento di impotenza, di abbandono e di isolamento, che è oggi prevalente e riscontrabile, fra le altre manifestazioni, dagli indicatori di anomia40.

Come può questa divinità, nella sua prima forma (la finanza), dominare concretamente l’essere umano? Attraverso il suo articolarsi nella seconda manifestazione, in quanto tecnica che si avvale delle nuove tecnologie digitali. Se nella sua occorrenza finanziaria il Dio della società misologa si presenta come dogma, verità assoluta e indiscutibile, necessità rispetto alla quale non è pensabile escogitare alternative né concepire una qualsivoglia opposizione, in quella tecnica assume le fattezze della Benevolenza e della Provvidenza (perché intrattiene l’uomo nel momento stesso in cui gli è anche oggettivamente utile rispetto alle incombenze della quotidianità). 48

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Senza contare il fascino esercitato da una dimensione virtuale che consente l’evasione, il divertimento, la fruizione e la condivisione di contenuti che mai come oggi mettono in comunicazione degli individui sempre in relazione effettiva, ma allo stesso tempo sempre meno autonomi, critici e attivi, poiché «divertiti» (ossia distolti da quanto è realmente essenziale all’uomo) da un favoloso mondo digitale che in cambio richiede l’affermazione di tutto ciò che è meccanico, superficiale e omologante. La distrazione compulsiva in cui siamo immersi, e a cui aneliamo con maggiore o minore consapevolezza, non è altro se non una manifestazione di quel divertissement che, spiegava Blaise Pascal nel XVII secolo, consente di non concentrarci sulla nostra condizione di esseri umani limitati ed esposti inesorabilmente alla crudeltà del destino, ma allo stesso tempo ci rende più ignoranti e manipolabili poiché incapaci di innalzarci a una conoscenza approfondita e autonoma: Gli uomini, non avendo potuto trovare una cura alla morte, alla miseria e all’ignoranza, hanno ben visto, per essere felici, di non pensarci [...]. L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, che tuttavia è la più grande delle nostre miserie, poiché è soprattutto esso che ci impedisce di pensare a noi stessi, e che ci conduce inesorabilmente allo smarrimento41.

L’essenza virtuale in cui si declina buona parte dell’impianto tecnico del nostro tempo consente al medesimo, con estrema semplicità ed efficacia, di tirarsi e tirare fuori l’uomo dal reale senza tuttavia essere tacciabile di falsità. Guy Debord parlerà non a caso di società dello spettacolo come di un «mondo rovesciato» in cui «il vero diventa un momento del falso» e all’interno del quale 49

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ogni cosa, compresa la vita umana e sociale, si afferma come «mera apparenza»42. La società misologa va ancora oltre: in essa la realtà virtuale ha superato tanto la dimensione del vero quanto quella del falso, lasciandosi alle spalle anche l’insidiosa ibridazione compiuta dalla società dello spettacolo. È perciò il regno dell’indistinto e indistinguibile, quel luogo (virtuale, appunto) in cui vero e falso possono coesistere senza essere riconosciuti né separati, perché a venire meno sono i contorni stessi della realtà umana. Grazie al connubio di finanza e tecnica, la società misologa riesce a essere tutto e il suo contrario, ma anche ciò che sta in mezzo fra i due opposti, senza dover mascherare o trasfigurare la dimensione umana, semplicemente sostituendosi ad essa. Così facendo, come Mario Perniola sosteneva a proposito della «comunicazione», questa società si rivela «totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale, perché comprende anche e soprattutto l’antitotalitarismo. È globale anche nel senso che include anche ciò che nega la globalità»43. Se viene a mancare il cielo, tutto ciò che in esso era visibile diventa invisibile, indistinguibile. Allo stesso modo, se viene a mancare il pensiero umano, e la stessa vita degli uomini si trasferisce in una dimensione virtuale filtrata dagli schermi, sparisce ogni possibilità di distinguere vero e falso e di produrre un sistema di valori funzionale all’umanità. Vero è soltanto ciò che la società misologa proclama e codifica; falso è ciò che emargina, oscura. Le due categorie, vero e falso, diventano quindi non tanto e non solo indistinguibili, bensì irrilevanti nella misura in cui, all’interno di un sistema che ha visto «la distruzione della logica», risultano ormai ininfluenti anche la verità e la falsità in quanto tali, specie per un 50

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essere umano che, privato del pensiero, si ritrova per buona parte incapace di coglierle, comprenderle e metterle in questione. Scrive Debord: La distruzione della logica è stata perseguita in base agli interessi fondamentali del nuovo sistema di dominio, con vari metodi che hanno operato sostenendosi sempre vicendevolmente. Molti di questi metodi si fondano sulla strumentazione tecnica sperimentata e resa popolare dallo spettacolo; ma certi sono legati piuttosto alla psicologia di massa della sottomissione [...]. Il flusso delle immagini travolge ogni cosa, e allo stesso modo è qualcun altro a dirigere a suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile; a stabilire dove volgerà la corrente e anche il ritmo di ciò che dovrà manifestarsi in essa, come eterna sorpresa arbitraria, senza voler lasciare tempo alla riflessione, e prescindendo completamente da ciò che lo spettatore ne può capire o pensare44.

La dittatura dei fatti «I fatti non esistono, esistono soltanto interpretazioni [...] sono i nostri bisogni che interpretano il mondo, i nostri istinti e i loro pro e contro». Volendo considerare quest’affermazione di Nietzsche alla luce di quanto detto finora, non possiamo non concludere che un uomo spogliato del pensiero, come anche della consapevolezza dei propri bisogni umani, rappresenta la condizione ideale, e finale, perché si verifichi un’assenza di interpretazioni45. Solo il pensiero consente l’interpretazione, quindi la critica e possibilmente un’azione in grado di modificare i fatti stessi, in quanto permette di immaginare, concepire e provare a costruire una realtà diversa. In assenza di questa facoltà, rimangono soltanto i fatti, quegli stessi fatti che la mistificazione postmodernista aveva creduto e tentato di rimuovere, ma che invece esistono e operano a pieno regime in questo tipo 51

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di condizione, in quanto liberamente ed esclusivamente prodotti e imposti da una società misologa in assenza di contraltari e filtri cognitivi. I fatti – o meglio coloro che a vario titolo sono in grado di controllarli46 – esercitano allora un’influenza assoluta ed esclusiva sulla realtà (sociale, politica, culturale, economica), poiché la ragione umana risulta privata di ogni possibilità di interpretarli, mediarli e modificarli in vista di scopi e obiettivi che siano più confacenti a una società a misura d’uomo. Così avviene che l’uomo senza pensiero accetti passivamente la dittatura dei fatti: «La crescente razionalizzazione della società, la contraddizione tra questa razionalità e la ragione (umana), il crollo della presunta coincidenza fra ragione e libertà, tutti questi sviluppi sfuggono alla consapevolezza dell’uomo fornito di razionalità ma sprovvisto della ragione»47, secondo quanto scriveva Charles Wright Mills nel 1959. Il Dio che si fa finanza impone i suoi dogmi e richiede fede e obbedienza assolute, in cambio della promessa che ha allettato l’uomo di ogni epoca: la salvezza. Gli apostoli liberisti più entusiasti sostengono che il meccanismo salvifico e spontaneo del mercato, se lasciato quanto più possibile libero dalle intromissioni della ragione politica (e umana), è in grado da solo di produrre un’armonia perfetta tra i molteplici interessi ed egoismi individuali che muovono l’agire di ciascuno48. L’agire – ça va sans dire – è solamente e comunque agire economico: gli viene riconosciuta dignità, e senso, nella misura in cui si declina secondo le e risponde alle leggi indiscutibili dell’economia finanziaria. Ogni azione è promossa e giustificata in rapporto alla capacità di produrre profitto. Il Dio che si fa tecnologia digitale, allo stesso tempo, integra l’operato della finanza con il suo potere suadente e conciliante. Un potere che non solo impone l’agen52

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da, ma controlla anche la dimensione del pensiero, facendo sì che, perennemente divertito, venga distratto dall’essenziale: informazioni, conoscenze, incontri, dialoghi, ragionamenti. Tutto ciò viene sostituito dal superfluo che intrattiene e dunque impedisce all’essere umano di trattenere ciò che riguarda veramente i suoi pensieri, la sua crescita (personale, culturale, sociale), il suo agire nel contesto in cui si trova a vivere. È significativo che perfino un autore entusiasta della tecnologia come Kevin Kelly, guru del mondo digitale e fondatore della rivista «Wired», giunga a considerazioni di questo tipo. Malgrado le invenzioni tecnologiche nascano con uno scopo ben definito, infatti, vengono poi colte da quella che Neil Postman chiama «sindrome di Frankenstein», e finiscono con l’imporsi rispetto a molteplici e ulteriori utilizzi: Una volta che la macchina è stata costruita ci accorgiamo, spesso con nostra sorpresa, che essa acquisisce idee proprie, che è perfettamente in grado non soltanto di modificare le nostre abitudini [...] ma anche il nostro modo di pensare. È in questo modo che gli esseri umani sono diventati accessori o, secondo l’espressione di Karl Marx, appendici della macchina [...] la tecnologia sta acquisendo una sua propria autonomia e sempre più sarà in grado di imporre la propria agenda, tuttavia questa agenda include, come principale conseguenza, la massimizzazione delle possibilità a nostra disposizione49.

Le innumerevoli opzioni (tecniche ed economiche) offerte a buon mercato dal sistema tecno-finanziario implicano l’eliminazione della categoria della «possibilità» concepita dalla ragione dell’uomo secondo criteri e scopi che siano quelli dell’essere umano. Ciò perché non si può neppure pensare un mondo umano diverso da quello concesso e dominato dalla società misologa. Se è vero che – come efficacemente espresso da Plato53

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ne – negare a un ente qualsiasi la capacità (dýnamis) di influenzare il reale ed esserne influenzato equivale a negargli l’esistenza50, è facile comprendere quale potere il sistema tecno-finanziario riesce a esercitare sull’intero ambito dell’umano. Espugnato il bastione del logos con una radicalità mai raggiunta sinora, il tracollo dell’intera roccaforte dell’umanità sopraggiunge con limpida consequenzialità. Una volta avvenuta la produzione su larga scala dell’uomo senza pensiero, e con essa la fine della centralità dell’essere umano in ogni agire economico e sociale, la mortificazione della conoscenza e di tutto ciò che è ascrivibile alla categoria «cultura», la subordinazione dell’istruzione e dell’educazione ai valori dell’individualismo assoluto e della cultura d’impresa, l’affermarsi della logica quantitativa (numero di follower, di «mi piace», di caratteri con cui esprimere un pensiero, di crediti formativi...) a spese di quella qualitativa, l’irrilevanza del consenso sociale e quindi della democrazia sono effetti facilmente realizzabili. In estrema sintesi, il capolavoro disumano della società misologa consiste nella distruzione di quella sfera pubblica che, in quanto dimensione prodotta e agita dall’uomo pensante, prevede dei meccanismi di funzionamento progettati e indirizzati al benessere e allo sviluppo dell’essere umano stesso. Attraverso una sorta di contrazione dell’orizzonte reale e speculativo, la sfera pubblica viene sempre più trasformata in uno schermo piatto in cui ogni individuo, pur illudendosi di poter usufruire di potenzialità comunicative infinite, si ritrova di fatto pubblicamente isolato e isolatamente in pubblico. Strumento principe di tale trasformazione è quella Rete che ci mette tutti in comunicazione nel momento stesso in cui ci isola l’uno dall’altro, riducendoci a monadi comunicanti attraverso delle modalità che ci rinforzano nel nostro statuto, ormai inevitabile, di individui separati gli uni dagli altri. 54

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Estirpare il logos e disinnescare il dia-logos si rivelano mosse efficaci: la società misologa può realizzare la sottomissione dell’essere umano agli obiettivi e all’impostazione tecno-finanziaria prediletti dall’ideologia liberista. In questo modo, infatti, si pongono le condizioni per affermare l’insuperabile servitù dell’uomo rispetto a un padrone che governa ogni cosa. La divinità tecno-finanziaria assume le vesti di quel «Dio nascosto» (Deus absconditus) di cui parla l’Antico Testamento, colui oltre al quale non v’è altro potere, perché è lui a formare la luce e creare le tenebre, a fare il bene e creare il male51. È il capovolgimento della dialettica servo-signore descritta da Hegel, in cui il servo riusciva a emanciparsi attraverso il proprio lavoro e il reciproco riconoscimento con gli altri, attività libera e indispensabile al fine di conseguire il passaggio dalla coscienza immediata all’autocoscienza di sé52. Al tempo della società misologa non è più il servo che si emancipa attraverso la propria attività, da lui svolta in maniera passiva e meccanica, solitaria e scollegata da ogni criterio di bene, tanto individuale quanto comune. È invece il padrone, nella sua veste di Dio uno e bino, che si afferma sempre più quale autorità unica e assoluta, raggiunta sottomettendo il servo e arrogandosi il godimento esclusivo dei prodotti del lavoro di costui. La dialettica servo-signore dei giorni nostri si configura in maniera tale per cui quanto più il padrone lavora per la sottomissione del servo non pensante, tanto più quest’ultimo si trova a operare e lavorare per la sua stessa sottomissione. Non c’è più alcuna attività o lavoro, non c’è riconoscimento reciproco con i propri simili che possano prospettare una sua emancipazione. Perché senza logos egli è soltanto un «legno storto» da cui, come scriveva Kant, non si può ottenere nulla di dritto, 55

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privo com’è, a questo punto, anche solo di una vaga idea di cosa sia dritto e di come poter aspirare a diventare tale. ingannevoli Stelle comete La ragione strumentale che pervade la società ottusa sta lavorando in vista di un unico obiettivo: trasformare l’uomo in una «cellula di risposta funzionale» a input che saranno esclusivamente quelli della società misologa e del suo sistema socio-economico53, che a quel punto potrà affermare in maniera incontrastata gli scopi da raggiungere e per cui esistere. Questo tipo di ragione, propugnata da quello che possiamo definire l’«illuminismo tecno-finanziario» del nostro tempo, ha oscurato e sostituito la divinità filantropa (il Dio che è Amore) partorita dall’uomo debole e angosciato, ma almeno pensante, della tradizione cristiana con la divinità misantropa che è una produzione dell’homo technologicus ed œconomicus. Un uomo (apparentemente) forte perché, avendo rimosso la riflessione su di sé e sulla propria condizione, sembra essersi liberato dei lacci esistenziali per concentrarsi sul raggiungimento dei fini indicati dal sistema tecno-finanziario. A fronte di tutto ciò, egli non sente più il bisogno di divinità benevole e amorevoli, perché non è più consapevole della propria condizione di creatura fragile in un mondo infinitamente grande e indifferente alla sua sorte. La forza d’animo di cui l’uomo senza pensiero beneficia gli deriva dall’ignavia, dalla rimozione di quel fardello che è il proprio «Io» autentico, costretto a fare i conti con il mistero della vita, con la complessità del tutto, ma soprattutto con la propria inemendabile inadeguatezza al cospetto di tutto ciò. 56

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Non per questo, però, smette di produrre delle divinità o dei surrogati a cui immolarsi, poiché «anche quando si allontana dalla religione, l’uomo vi rimane assoggettato; si affanna a creare simulacri di dèi, e si precipita poi ad adottarli: il suo bisogno di finzione, di mitologia, trionfa sull’evidenza del ridicolo»54. Come tutte le religioni che si rispettino, anche quella improntata sui dogmi della tecnica e della finanza si avvale di stelle comete a cui spetta il compito di illuminare la strada dei fedeli e anch’essa si basa su una tavola di leggi a cui l’uomo è chiamato ad attenersi scrupolosamente per non cadere nel peccato. Un tipo di sottomissione che avviene a tutti gli effetti in interiore hominis. Velocità La connessione a Internet, i tempi televisivi, le modalità di comunicazione in genere, ogni cosa nella società ottusa deve essere improntata alla massima velocità e stringatezza. L’imperativo categorico della smartness permea l’apparato mediatico a tutti i livelli. In quella trasfigurazione della sfera pubblica che è il teatrino mediatico, si richiede di sacrificare il ragionamento e la spiegazione articolata a beneficio esclusivo dei tempi televisivi, rigidamente contingentati e funzionali alle necessità della programmazione spettacolare e della pubblicità che la sostiene, non certo della comprensione di chi guarda. A questi tempi, con l’ausilio delle potentissime e pervasive tecnologie digitali, deve conformarsi tutta l’esistenza umana. Paradigmatico il caso della multinazionale Google, per cui: qualsiasi cosa si frapponga lungo il percorso verso la raccolta, il sezionamento e la trasmissione dei dati a velocità sempre maggiore è una minaccia non soltanto per Google in quanto

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azienda, ma per la nuova utopia di efficienza cognitiva che essa si propone di costruire su Internet [...]. I profitti di ­Google sono strettamente legati alla velocità nel reperimento delle informazioni da parte degli utenti. Quanto più velocemente navighiamo sulla superficie del Web – quante più pagine vediamo e quanti più link clicchiamo – tanto maggiori sono le opportunità per Google di raccogliere informazioni su di noi e di fornirci pubblicità55.

Se è vero che il tempo rappresenta una fondamentale categoria a priori dell’uomo, grazie alla quale egli riesce ad abitare il mondo circostante e a farne un’esperienza sensata e razionale, ridefinire e riuscire a imporre una nuova modalità di tempo equivale a compiere un passo sostanziale verso il controllo dell’essere umano. Specialmente per quanto concerne la dimensione del logos, infatti, l’uomo utilizza tempi che non sono quelli della comunicazione mediatica. Più il suo scopo è riflettere, comprendere, conoscere ed esercitare un dialogo prolifico con le altre persone, più deve procedere con lentezza, attenzione e impegno. Oggi invece le app sono state concepite per «massimizzare comodità, convenienza ed efficienza»56. Ma a quale prezzo? Se la Rete si comporta come una moltitudine di rubinetti da cui fuoriescono informazioni disorganiche, in quantità enorme e a una velocità inaffrontabile per le facoltà umane, a chi giova un carico cognitivo insostenibile ai fini della nostra memoria a lungo termine? «Quando il carico eccede la capacità della mente di archiviare ed elaborare dati», scrive Nicholas Carr, «non siamo in grado di assorbire nuova informazione o di creare collegamenti con ciò che abbiamo già archiviato nella nostra memoria a lungo termine. Non riusciamo a tradurre la nuova informazione in schemi. La capacità di apprendere ne risente, e la nostra comprensione rimane superficiale»57. 58

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Che si tratti di una notizia, di un testo scritto, di una nozione da acquisire o di una persona con cui entrare in contatto, l’essere umano «funziona» con tempi che non sono quelli richiesti e imposti dalla divinità misologa, che sappiamo declinarsi in termini esclusivamente tecnici e finanziari: tanto la tecnologia progredisce nella misura in cui più realizza dei calcoli e delle procedure improntate alla velocità, tanto l’economia finanziaria si sviluppa quanto più incrementa la quantità (per esempio di denaro, o di profitto), riducendo le varie dimensioni dell’umano a strumento funzionale di questo incremento senza fine. In questo modo all’uomo non è consentito fare esperienza del mondo che lo circonda secondo le proprie caratteristiche specifiche. Sempre meno egli può pensare e vivere in maniera autonoma e critica, poiché la velocità e gli scopi con cui e verso cui tutto il sistema si muove superano di gran lunga le capacità del suo logos di elaborare pensieri e progetti che siano quelli umani. Egli può solo funzionare. Come, perché e in vista di cosa è rigorosamente stabilito dal sistema tecno-finanziario con i suoi dogmi misologi. Del resto, ciò che funziona non pensa. E come abbiamo visto, nella società misologa all’uomo è richiesto soltanto di funzionare secondo criteri pensati da qualcun altro. Superficialità Se la velocità non lascia all’uomo il tempo di cogliere le informazioni con cui viene in contatto, né elaborarle e tradurle in conoscenza autonoma, critica ed effettivamente discutibile (condivisibile) con gli altri, la superficialità con cui vengono trasmesse non gli fornisce lo spazio per andare in profondità e dunque di appropriarsene. 59

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La relazione dialettica che sussiste fra velocità e superficialità è evidente: è la velocità del flusso di informazioni a rendere possibile che queste siano sempre più diffuse, e quindi (non) recepite in maniera superficiale, ossia incompleta, a-critica, immediata e provvisoria. Al tempo stesso, è la permanenza delle informazioni su un piano di superficie a rendere più naturale e agevole la loro diffusione in forma immediata e rapida, quindi omologata e provvisoria. Il flusso repentino degli elementi è reso infatti maggiormente efficace quando gli elementi stessi sono più uniformi possibili, e dunque sostituibili senza che il computo quantitativo finale ne risenta. Il numero invariato delle particelle fornisce l’illusione che ci si trovi sempre di fronte al mare sterminato della conoscenza. Peccato che sia profondo solo pochi centimetri. L’illusione di vedere questo mare invariato nella sua ampiezza, nonché di padroneggiarlo, rende l’uomo odierno apparentemente informato su tutto, senza che conosca nulla in profondità. È l’etica stessa della Rete, sostiene Nicholas Carr, ad alterare la nostra facoltà di pensare in modo approfondito, a cominciare da quell’elemento sostanziale del Web che sono i link. Progettati per catturare la nostra attenzione, ci spingono a entrare e uscire compulsivamente da una serie di testi anziché dedicare la nostra attenzione a uno soltanto. Un processo simile si verifica con Google, poiché il motore di ricerca funziona in maniera tale da concentrare la nostra attenzione (superficiale) su un particolare frammento di testo, sulle poche parole o frasi rilevanti che stiamo cercando in quel dato momento, dissuadendoci dalla possibilità di considerare l’opera nella sua interezza, secondo una visione d’insieme che sola permette la conoscenza approfondita di qualsiasi contenuto: «Ciò che stiamo sperimentando», scrive Carr, «è, in senso metaforico, un ribaltamento della traiettoria originaria operata dal pro60

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cesso di civilizzazione: da coltivatori di conoscenza personale, ci stiamo evolvendo in cacciatori e raccoglitori nella foresta elettronica di dati»58. È il combinato di velocità e superficialità del flusso di notizie, omologate e sostituibili, a produrre l’illusione ottica (e cognitiva) di possedere oggi come non mai un numero sconfinato di informazioni e conoscenze. Spettacolarizzazione Qualunque informazione – che di per sé costituisce la merce principale e più diffusa nell’epoca digitale – oltre a dover scorrere rispondendo agli imperativi categorici della velocità e della superficialità, per compensare l’eventuale senso di disagio e incompletezza derivanti da queste due caratteristiche, deve essere veicolata nella maniera più spettacolare possibile. La spettacolarizzazione realizzata dalla società misologa va intesa in un duplice senso: da una parte come enfatizzazione, banalizzazione e volgarizzazione delle informazioni veicolate; dall’altra come riduzione delle stesse informazioni (e con esse della realtà umana che dovrebbero narrare) a immagini diffuse a mo’ di merci che, invece di raccontare il mondo, ce lo rendono appetibile e «consumabile»59. Per raggiungere tale scopo è richiesto un profluvio di immagini forti in accompagnamento ai testi sempre più ridotti e banalizzati, il dominio della figura retorica dell’iperbole (per esempio nei titoli, dei giornali ma ancora di più dei siti in Rete), la stringatezza estrema di un qualunque messaggio. E non importa quanto quest’ultimo corrisponda ai fatti, quanto sia frutto di una riflessione documentata o quanto in grado di produrre un accrescimento della conoscenza da parte di chi lo riceve. Al contrario, tutto ciò è ignorato a priori, perché richiederebbe di dover contravvenire all’impera61

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tivo categorico imposto dalle potenze commerciali che controllano la televisione e che hanno plasmato Internet, come evidenziato già ai tempi degli studiosi della prima generazione digitale: il profitto60. Ecco allora che qualunque tipo di comunicazione deve sottostare alle modalità dello spettacolo mediatico, rispondendo ai tempi televisivi e agli spazi concessi dalla Rete. Estrema velocità e concisione del contenuto sono caratteristiche irrinunciabili che lo rendono adeguato ai voleri della società misologa, quindi efficace, accattivante, convincente. E soprattutto accettato e diffuso. Perché la società misologa è retta, fra gli altri, dal principio per cui «tutto ciò che appare esiste, tutto ciò che esiste appare», potremmo affermare attualizzando quanto scritto da Guy Debord nel 196761. Ogni tipo di messaggio, informazione, comunicazione, discorso pubblico, contenuto di senso, viene diffuso e lasciato esistere (le due cose ormai coincidono) soltanto nella misura in cui, a seconda dei casi, viene ridotto alla vuota suggestione di uno slogan, di un post o di un tweet. A contare è l’auditel, il numero di follower, like, condivisioni ottenute dai messaggi che intendiamo socializzare. La brevità del messaggio spettacolarizzato è direttamente proporzionale al vuoto di senso e significato che esso esprime, all’assenza di riflessione che lo precede, di conoscenza che produce e di ogni progetto che ne può nascere. Il monopolio dell’apparenza ha istituito una nuova forma di dominio che non si declina più attraverso la degradazione dell’essere in avere, ma dell’avere in apparire. In questo senso Debord coglieva il nodo della questione quando scriveva che «lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da presentarsi sotto forma di immagine». Ossia di senso e significato di ogni cosa, ragione e contenuto di un mondo, quello umano, 62

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in cui «la vita di tutti si è degradata in un universo speculativo»62. Il sistema misologo, che vuole imporsi sul mondo umano a mo’ di divinità a cui sottomettersi integralmente, non solo non è in grado di rappresentare la cura per la vita degradata dell’uomo senza pensiero, ma al contrario intende velocizzarne e radicalizzarne quanto più possibile la malattia, a proprio ed esclusivo beneficio. Pertanto ha tutto l’interesse a venire incontro al desiderio sommo dell’uomo angosciato: permettergli di non pensare. Che ha come corrispettivo il terrore di avere del tempo a disposizione, senza nulla che impegni il corpo e la mente, perché poi, da soli e senza nulla da fare, si finirebbe per pensare. All’anelito perverso, e inconsapevolmente autolesionistico, dell’uomo di non pensare a ciò che veramente è importante e autentico – se stesso, la propria identità, i propri bisogni e obiettivi – la società misologa viene incontro con la «distrazione». Distrazione Riguardo alla propaganda, i primi sostenitori dell’alfabetizzazione universale e della stampa libera considerarono soltanto due possibilità: la propaganda poteva essere vera o falsa. Essi non previdero quello che di fatto è accaduto soprattutto nelle nostre democrazie capitaliste occidentali: lo sviluppo di una enorme industria delle comunicazioni di massa che non è sostanzialmente interessata né al vero né al falso, bensì all’irreale e a ciò che si rivela pressoché insignificante. In una parola, essi commisero l’errore di non tenere nel dovuto conto l’appetito quasi infinito dell’uomo per le distrazioni63.

Così, il grande visionario Aldous Huxley nel 1958 analizzava con lungimiranza il rapporto dell’uomo con le dinamiche dell’industria mediatica nelle società democratiche. 63

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Oggi l’apparato mediatico in generale, con la Rete in prima fila, rappresenta il più grande e ricco bacino di approvvigionamento per l’essere umano in cerca di distrazioni e di informazioni, il cui registro fondamentale sia quello dell’irrilevanza spettacolare. Un unico grande schermo che riproduce una dimensione irreale, al cui interno verità e falsità si fondono e confondono senza alcun problema, poiché non interessano più all’uomo, ormai distratto dalla dimensione reale. Emergono qui quelli che solo apparentemente sembrano due significati diversi della «distrazione», intesa da una parte come «intrattenimento» (e divertimento), dall’altra nel senso etimologico di forza che attrae e trae via da altro. Nel primo caso l’essere umano è intrattenuto e divertito per essere allontanato dal proprio «Io» e dalla riflessione profonda su se stesso. Nel secondo è distolto dal mondo reale in cui diventerebbe evidente la sua condizione di mezzo e strumento a disposizione della società misologa. Questa imponente forza di attrazione che le tecnologie digitali esercitano sull’uomo, «dis-traendolo» tanto dalla propria dimensione interiore quanto da quella sociale, non è priva di effetti di natura patologica. I potenti e costanti stimoli digitali possono essere infatti paragonati a quelli esercitati da droghe e alcol, come anche da cibo e sesso, quando da un comportamento di per sé sano degenerano in dipendenza compulsiva capace di alterare l’equilibrio della persona. Così l’impulso a controllare ossessivamente i social media, secondo il vincitore del premio Pulitzer e giornalista esperto di nuove tecnologie Matt Richtel, rimanda all’«impulso primordiale a rispondere immediatamente a opportunità o minacce». Si tratta di uno stimolo che, provocando una scarica di dopamina64, può creare dipendenza, al punto da far patire una noia insostenibile quando se ne vive l’astinenza. 64

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Molti studi scientifici hanno evidenziato come l’attività multitasking distratta che si compie in Rete dia quale risultato un forte carico di stress e la tendenza delle persone a presentare «un pensiero frammentato e una mancanza di concentrazione», come se il nostro cervello si fosse uniformato al modo di funzionare del computer fino a diventarne un prolungamento65. Attratto da dimensioni esterne e distratto rispetto all’autenticità del proprio sé, l’uomo si ritrova contratto all’interno di un contesto tecnologico che gli impone di funzionare secondo schemi, dinamiche e modalità che sono quelle della tecnica stessa. Sempre più ci informiamo, ci intratteniamo, pensiamo di fare conoscenza delle cose e delle persone, ossia viviamo attraverso l’intermediazione e il filtro di macchine che ci permettono di fare tutto ciò alle loro condizioni e secondo le loro dinamiche di funzionamento. Questa spinta fortissima e quasi irresistibile esercitata dalla Rete sull’essere umano, affinché egli si uniformi alle sue modalità tecniche fino a funzionare allo stesso modo, viene letta dal saggista americano Howard Rheingold come una sfida da cogliere al volo, soprattutto da parte di coloro che egli chiama «multi-tasker strategici»: «Le persone hanno bisogno di governare la propria attenzione con un impegno mai utilizzato prima. Gli utenti del Web che ci riescono, sfruttano questo nuovo ambiente digitale con molta più efficacia rispetto a quelli che si perdono nella loro navigazione o vengono sommersi dalle informazioni in ingresso»66. Il problema, però, è che tale sfida si svolge con modalità assai impari: da una parte un’imponente strumentazione tecnologica, supportata dal potere economico che beneficia dei profitti che ne derivano; dall’altra una grande massa della popolazione che, soprattutto rispetto ai cosiddetti nativi digitali (ma non solo), si ritrova a dover gestire una sorta di giocattolo suggesti65

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vo e coinvolgente, in uno stato di pressoché totale mancanza di formazione che ne consenta un utilizzo critico e consapevole. In questo modo è assai più facile che le persone sviluppino un Io incapace di resistere all’uniformazione con l’ambiente tecnologico. Proprio l’incapacità di resistenza a un ambiente, sosteneva il filosofo e pedagogista John Dewey nel 1934, è alla base di un Io che non riesce a prosperare e a crescere: «Un ambiente che fosse sempre e ovunque congeniale alla realizzazione diretta dei nostri impulsi porrebbe sicuramente termine alla sua crescita, alla stessa maniera in cui uno sempre ostile potrebbe destabilizzarlo e distruggerlo». Del resto, concludeva Dewey, l’unico modo in cui il nostro Io può diventare veramente consapevole della propria natura e dei propri obiettivi è rappresentato dagli ostacoli superati e dai mezzi impiegati per farlo, mezzi di cui occorre essere ben consapevoli che sono soltanto tali e che non devono assurgere a ruoli che non competono loro67. Il nostro modo di rapportarci all’ambiente delle nuove tecnologie digitali appare dirigersi nella direzione opposta a quella descritta dal celebre pedagogista americano. Tanto che la condizione dell’uomo odierno ricorda la figura della «coscienza infelice» tratteggiata da Hegel, costretta a subire una «scissione entro di sé» e incapace di pervenire a un ricongiungimento con l’identità presente al proprio interno68. Tutto ciò, va constatato, si verifica oggi in termini ancora più gravi: la figura dell’homo technologicus, vittima di un apparato tecnico che è altro da sé ma a cui finisce per conformarsi, infatti, appare piuttosto quella di una «incoscienza infelice». Alle passioni tristi di un’umanità privata del proprio futuro si sono aggiunti i pensieri, le azioni e le relazioni incoscienti di un uomo ormai alienato anche dal proprio presente, in quanto ridotto a un «modo deficiente di essere macchina», per riprendere la forte espressione 66

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utilizzata dal filosofo tedesco Günther Anders nel 195669. Mercificazione In ogni ambito, e a qualsiasi livello, si impone il dovere supremo di dare seguito, riconoscere dignità e perseguire solamente gli imperativi esistenziali riconosciuti dal mercato: il primato del «reddito e della ricchezza» finisce così per prevalere sulle caratteristiche proprie della vita umana e sulle libertà sostanziali70. Siamo entrati nell’epoca in cui il paradigma del «capitale umano» ha sostituito quello dello «sviluppo umano», per cui non contano più le conquiste che possono accrescere la persona e ampliare il campo delle sue scelte individuali – con ovvie ricadute sul piano sociale e del bene collettivo –, ma soltanto quelle che incrementano il meccanismo produttivo e il progresso della tecnologia71. Non si tratta più solamente dell’uomo ridotto a merce e strumento, in ossequio a quel denaro che, scriveva Marx, non avendo altro equivalente che se stesso o ciò che è merce, «degrada ogni cosa»72. Ancora una volta, nel caso della società ottusa abbiamo a che fare con un salto qualitativo, un passaggio che porta da una dimensione esteriore a una interiore: l’uomo, privato del suo logos, non è solo mercificato, quindi trattato come merce, ma diventa un uomo che pensa, si comporta e funziona come merce. La merce esiste solo in quanto oggetto di produzione meccanica, possiede valore unicamente in qualità di oggetto di scambio e gli viene riconosciuta dignità soltanto perché titolare (e foriera) di un corrispettivo in denaro. Così avviene anche per l’uomo, a cui la teologia liberista impone di comportarsi come un’azienda il cui valore, anche in termini di educazione, viene misurato 67

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sulla base di abilità (skills) che a loro volta si misurano in relazione ai potenziali guadagni economici (­earnings)73. Non siamo più al prevalere del capitale sull’uomo, ma all’uomo che, non più umano, si trasforma in capitale di se stesso, si riconosce solo in quanto capitale produttivo e vive la propria esistenza secondo modalità e scopi tipici del sistema finanziario. All’uomo che si riconosce e si comporta come merce viene incontro la nuova tecnologia digitale, attraverso cui facciamo esperienza del mondo consumandolo e non più vivendolo. Basta possedere apparecchi digitali e una connessione a Internet per entrare in contatto con il mondo esterno dietro il pagamento di una cifra economica: è possibile espletare le attività più rilevanti della nostra quotidianità attraverso il filtro di schermi piatti e di una tecnologia che ci induce a fare tutto nei suoi tempi, spazi e modalità: L’apparato tecnico, riducendo ogni cosa a puro mezzo, non risparmia in questa riduzione gli stessi contenuti dell’esistenza, che vengono misurati con quella fredda oggettività per cui la personalità, il carattere, l’emotività, l’intelligenza, la creatività, l’ambizione vengono valutati, al pari di tutti i mezzi, in base a quell’unico criterio, l’efficienza, che lega contenuti di vita personali e soggettivi e contenuti oggettivi in quell’unica catena funzionale dove ogni cosa è condizione di ogni altra, senza che un fine ultimo sia più percepibile74.

La nostra volontà di vivere non si declina più attraverso la volontà di potenza, che in estrema sintesi è la «volontà di vita»75, bensì attraverso i sacri dogmi e gli indiscutibili voleri della potenza tecno-finanziaria, che trionfa nel ridurre la vita umana a sistema misurabile rispetto ai parametri del mercato e della tecnica: «Il desiderio di rendere il mondo realmente calcolabile», scrive l’esperto di nuove tecnologie, Ed Finn, «guida 68

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molti dei momenti germinali della storia dell’informatica, dai primi computer balistici che sostituirono gli esseri umani nella difesa missilistica di metà Novecento, fino a Siri e alla barra di ricerca di Google»76. In questa direzione procede anche l’ultimo segno distintivo dell’opera de-umanizzante del sistema tecno-finanziario: quella logica quantitativa che una società così strutturata impone a ogni livello e in ogni ambito. Logica quantitativa La misurazione dello stato di salute di un paese condotta attraverso parametri come il Pil e non il livello d’istruzione, l’efficacia della sanità, dei servizi sociali e della giustizia; il giudizio su una democrazia in base a quanto il governo della stessa è riuscito a rispettare l’austerità imposta da istituzioni finanziarie internazionali non democraticamente costituite ed elette; la valutazione del grado di istruzione individuale attraverso il conteggio arido dei crediti formativi (sulla base dei quali, fra le altre cose, si pretende di calcolare con precisione il numero delle pagine dei libri che gli studenti universitari devono studiare al fine di sostenere l’esame e acquisire quegli stessi crediti); perfino la valutazione della qualità di ciò che pensiamo e scriviamo è ridotta al numero di follower o di like ottenuti sui social network. Inoltre, il profluvio di informazioni che investe l’essere umano a una velocità inaudita, in modo superficiale, senza la possibilità di avvalersi di filtri che ne certifichino l’attendibilità e la pertinenza, gettandolo nella condizione di chi, illuso di poter finalmente beneficiare dell’opulenza informativa, versa in realtà in uno stato di profonda «indigenza conoscitiva»77? Sono soltanto alcuni esempi delle «misurazioni e quantificazioni che diventano sempre più un imperativo, 69

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nelle attuali società dei “big data” guidate dal mercato», come ha constatato Howard Gardner78. Gradualmente ma inesorabilmente veniamo privati di quei parametri e di quelle dinamiche consoni alle persone e non alle cose, al contesto dialogante di ciò che è vivente opposto al «movimento autonomo del non-vivente»79. La qualità della vita reale viene sacrificata sull’altare delle misurazioni quantitative tipiche di quelle realtà aridamente meccaniche e numeriche che connotano tanto il mercato finanziario quanto la Rete governata dagli algoritmi. Gli esseri umani si ritrovano così all’interno di un regno della quantità in grado di renderli uniformi (e quindi sostituibili e intercambiabili), nella misura in cui li riduce a semplici unità numeriche: c’è una tendenza a uniformare non soltanto gli individui umani, ma anche le cose. Se gli uomini dell’epoca attuale si vantano di modificare il mondo in una misura sempre più ampia, e se tutto diviene sempre più artificiale in un tale mondo, è soprattutto in questo senso che essi intendono modificarlo: spostando tutta la loro attività su un terreno quanto più possibile quantitativo. Del resto, poiché si è voluto istituire una scienza tutta quantitativa, è inevitabile che le derivazioni pratiche derivate da tale scienza rivestano lo stesso carattere; sono queste le applicazioni al cui insieme si dà il nome generale di «industria», e si può ben dire che l’industria moderna rappresenta, a tutti gli effetti, il trionfo della quantità, non soltanto perché i suoi procedimenti non fanno appello che a delle conoscenze di ordine quantitativo, e perché gli strumenti di cui essa fa uso, cioè le macchine, sono stabiliti in maniera tale per cui le considerazioni di ordine qualitativo vi intervengono il meno possibile, mentre gli uomini che le mettono in azione sono ridotti essi stessi a un’attività del tutto meccanica, ma anche perché, nelle produzioni stesse di tale industria, la qualità è interamente sacrificata alla quantità80.

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L’eclissi dell’uomo Nella società dello spettacolo, tratteggiata da Guy Debord nel 1967, l’economia conquista e governa ogni dimensione dell’umano, sottomettendo la politica e riconfigurando tutti i meccanismi e i valori che regolano l’agire sociale. Il mercato sottomette lo Stato, innalzando la res privata a cifra portante del consesso sociale, al punto da far perdere di vista o addirittura sacrificare qualunque considerazione della res publica, del bene comune; è la merce, pervenuta a un livello tale di accumulazione da essere diventata punto di riferimento di ogni agire, della sfera privata come di quella pubblica: «Lo spettacolo è il momento in cui la merce è assurta all’occupazione totale della vita sociale», scrive lo stesso Debord81. Ancora una volta, la società misologa e ottusa ci pone di fronte a un ulteriore passaggio: l’economia conquista e governa direttamente l’uomo, erodendone il carattere e sconvolgendone l’organizzazione stessa della vita: «Il problema con cui dobbiamo fare i conti è quello di organizzare adesso le storie delle nostre vite all’interno di un capitalismo che ci prepara solo ad andare alla deriva», scriveva nel 1998 il sociologo americano Richard Sennett82. Abbiamo visto che l’erosione dell’uomo avviene dall’interno, attraverso una riconfigurazione cognitivo-comportamentale che, come mai prima, è resa possibile da quei mezzi totalitari per definizione che sono le tecnologie digitali. L’uso sempre più ampio e capillare di questi mezzi, la connessione con ogni cosa del mondo attraverso l’intermediazione di macchine che funzionano secondo i loro tempi, modi e valori, fa sì che anche gli utenti, che credono di limitarsi a utilizzarli, finiscano con l’acquisire quei modi, quei tempi e quei valori. Valori che sono esclusivamente quelli della 71

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finanza, l’altra faccia del Dio uno e bino, che ha trovato nella sua manifestazione declinata tecnologicamente, ossia nelle nuove tecnologie digitali, lo strumento che finora le è mancato e che rende incontrastato il dominio su tutto ciò che è umano. Siamo di fronte a quella che Paul Virilio chiamava una «tecnoscienza economica all’interno della quale il mercato unico esige la commercializzazione dell’insieme del vivente»83. È all’interno di un contesto siffatto che assistiamo all’estinzione dello Stato inteso come «cosa di tutti», ma anche dell’influenza delle élite nel contesto sociale (nel senso di persone che assurgono a posizioni dirigenziali o elevate in virtù delle proprie competenze) e, in generale, alla scomparsa del concetto stesso di «distinzione» dall’orizzonte di senso dell’umanità. Ma un’umanità privata della possibilità essenziale di distinguersi rispetto agli ordini costituiti o a dogmi meccanici, smette di essere umanità. In questo senso rischiamo di assistere all’estinzione dell’uomo in quanto tale. Cerchiamo di analizzare nel dettaglio questi processi. Dalla res publica alla res privata Lo stesso processo di riconfigurazione che investe l’essere umano – a cui è lui stesso a consegnarsi con entusiasmo, divertito dalla giostra della (non) vita virtuale – colpisce anche lo Stato. Come già aveva intuito Michel Foucault, infatti, «il potere non è localizzato nell’apparato dello Stato, e [...] nulla sarà cambiato nella società se i meccanismi del potere che operano al di fuori degli apparati di Stato, al di sotto di essi, al loro fianco, a un livello molto più infimo e quotidiano, non saranno modificati»84. Nella società misologa l’economia non si limita a recuperare 72

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il proprio dominio sulla politica, arrivando a determinare ogni valore e prassi sociale, ma si sostituisce alla politica stessa, pur mantenendo l’apparenza che sia quest’ultima a prendere misure in realtà pensate ed elaborate in sede finanziaria. Non sono più gli Stati e i governi a concepire e determinare la politica, economica e non, né è propriamente corretto sostenere che le forze economiche hanno compiuto la scalata per la conquista dello Stato. Grazie al processo di globalizzazione e di eclissi della costellazione nazionale, ma anche al tracollo dell’ideologia comunista, le grandi istituzioni finanziarie globali, di concerto con le banche e le élite del potere economico, sono riuscite a imporre una situazione in cui i singoli governi sono stati ridotti a semplici passacarte di misure e decisioni prese a livello finanziario, che nulla hanno a che vedere con la politica e con gli interessi delle popolazioni. La società misologa non si limita più al compito (che ha sempre rappresentato il sogno dei liberisti) di ridurre lo Stato «onnipotente», che interferisce sulle questioni economiche provocando anche guerre, nella condizione di minima influenza possibile, soprattutto in riferimento alla redistribuzione delle ricchezze e al perseguimento della giustizia sociale, ritenendo in questo modo di rispettare i diritti individuali, permettere di scegliere la vita desiderata e realizzare gli obiettivi prefissati85. Attraverso la nuova struttura del governo mondiale seguita al 1989, il sistema tecno-finanziario è riuscito in due imprese cruciali. Da una parte ha fagocitato l’anima stessa della politica, proclamando la fine delle ideologie, ma di fatto costruendo il regno incontrastato dell’ideologia unica e indiscutibile: quella del sistema tecno-finanziario stesso, perfettamente in grado di assorbire tutte le altre al proprio interno, lasciarle sopravvivere 73

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come pallide e farsesche immagini del tempo che fu, e alla fine condurle sino alla naturale consunzione. In breve, le ha disinnescate. Dall’altra parte, ha costituito una sorta di «super-governo» onniveggente ma solo in minima parte visibile, costituito da burocrazie tecnocratiche, lobby finanziarie e istituzioni sovranazionali capitanate da personalità non elette ma perfettamente in grado di dettare l’agenda ai governi delle singole nazioni. Volendo riprendere la sintesi di Manuel Castells, possiamo affermare che la nostra è l’epoca in cui emerge in tutta evidenza che «la gente vive in luoghi, le regole del potere in flussi»86, intendendo con ciò il radicale allontanamento dei processi decisionali e delle dinamiche del potere dalla vita quotidiana e dai contesti concreti delle persone. I governi sono ormai ridotti allo stato di semplici notai chiamati a prendere atto di delibere e decisioni prese a un livello superiore, che non è né politico né democratico: «Le nuove istituzioni non sono né più piccole né più democratiche», mentre è stata ripristinata la centralizzazione del potere, con tanto di nuova separazione fra potere (nascosto ed effettivo) e autorità (formale e irrilevante), come da efficace sintesi del sociologo americano Richard Sennett87. In sostanza, è realizzato il capolavoro a cui aspira ogni forma di potere: occultare la propria esistenza o quantomeno trasfigurare e oscurare i propri connotati, creando le condizioni che rendano impossibile qualsiasi tipo di opposizione realistica e concreta. Del resto, come si potrebbe costruire un’opposizione sensata e credibile a ciò che non è visibile? Senza questa opposizione, i dogmi del sistema tecno-finanziario rimangono l’unico orizzonte di senso identificabile per l’essere umano, sempre più capace di scrutare il proprio mondo soltanto attraverso degli schermi che veicolano contenuti con tempi, modalità e 74

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finalità che non gli sono propri. Attraverso tali schermi, ormai imprescindibili per l’uomo che fa esperienza del mondo, la società misologa ha colonizzato l’interiorità dell’essere umano spogliandola di quegli elementi di pensiero autonomo e critico che rappresentano la precondizione fondamentale ai fini dell’elaborazione di un’opposizione seria e realistica, consentendo così al sistema tecno-finanziario di riuscire in questa impresa. Il pensiero unico della teologia tecno-finanziaria, in questo modo, ha potuto riconfigurare l’impianto del consesso umano, tanto a livello delle singole coscienze e intelligenze quanto a quello della sfera pubblica e dell’agire sociale. All’insegna di un unico grande principio, che racchiude e rende possibili tutti gli altri: la centralità della res privata, che non a caso, fin dalla terminologia, si contrappone al termine con cui la saggezza degli antichi identificava il bene comune per eccellenza, lo Stato (res publica). L’affermazione di tale principio avviene a livello personale, attraverso il dogma dell’individuo-azienda, a cui si chiede di agire e operare soltanto in vista dei propri ristretti confini esistenziali, conformandosi all’ideologia dell’individualismo esclusivo, nonché di un egoismo chiamato a perimetrare i confini ideali e pratici di ciascuno all’interno della sola affermazione di sé. L’uomo della res privata è una monade comunicante attraverso schermi freddi e da un punto in cui è di fatto isolato. Ma l’individuo cui è preclusa la possibilità di essere riconosciuto dagli altri, è un individuo che per ciò stesso smette di conoscere se medesimo. Giunto a questo punto, non gli resterà che affidarsi a chi gli fornirà l’unica forma di riconoscimento ormai possibile, che per lui consisterà nel funzionare come gli viene prescritto. Ma l’affermazione del principio della res privata avviene anche a livello sociale, dove ognuno è chiamato 75

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a «pensare» e agire svincolato da ogni considerazione di ordine pubblico, di interesse collettivo, di bene comune. L’ideologia liberista ritiene che il perseguimento degli interessi egoistici di ognuno, attraverso un meccanismo metafisico di armonizzazione universale, produrrà l’accrescimento spontaneo del benessere della società nel suo insieme. Se il bene comune è garantito da questa caritatevole ma oscura divinità, agli uomini non rimane che svolgere col massimo impegno il loro unico compito: l’affermazione di sé, a qualunque prezzo. L’uomo della res privata, spogliato del proprio logos, si ritrova pervaso da un’insensata e smaniosa «ideologia del fare». Proprio perché senza pensiero, fa esclusivamente quello che ha programmato per lui la società misologa. Agisce ma non pensa. Funziona ma non è cosciente. Chiudendo ogni essere umano all’interno della stanza asettica e senza ossigeno del proprio «Sé», il principio della res privata distrugge all’origine ogni possibilità di dialogo, di incontro e di confronto, privando delle fondamenta l’edificio già fragile e traballante che è la cooperazione umana in vista di un progetto comune, finalizzata allo sviluppo dell’intera compagine sociale. Il fallimento delle élite «Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni degli altri, non può mantenere per molto tempo la propria legittimità», scrive ancora Sennett88. È esattamente quanto possiamo osservare oggi concentrando l’attenzione sulla maggior parte della classe politica e intellettuale. La prima è composta per lo più da due categorie: da una parte coloro che si sono completamente assoggettati alla deriva neoliberista (peraltro rinnegando un passato che hanno dimostrato di non aver né conosciuto a fondo né metabolizzato); dall’altra coloro che si limitano 76

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a scimmiottare ideali ed etichette risalenti a un’epoca ormai dichiarata chiusa dal tribunale della Storia, o a urlare proclami anti-capitalistici in assenza di qualunque progetto alternativo strutturato e credibile. Entrambe queste categorie, nell’assenza più totale di qualsivoglia visione politica di ampio spettro e lungo raggio, finiscono per rivelarsi sterili, quando non funzionali o comunque innocue rispetto all’unico sistema che opera implacabile: quello che impone una società sottomessa alle logiche del mercato. Lo vediamo in particolare nelle cosiddette élite intellettuali, che per definizione dovrebbero essere chiamate a svolgere un ruolo di critica del potere, ma anche di studio allo scopo di individuare soluzioni alternative per il miglioramento delle condizioni esistenti. Da una parte gli accademici, in buona parte beneficiati da familismi, privilegi di nascita e totale assenza di criteri di merito, risultano per lo più accodati, o comunque poco incisivi nel combattere i dogmi del pensiero unico neoliberista, esecutori di compiti prestabiliti e recitatori ininfluenti di giaculatorie destinate a non scalfire l’ordine esistente. Un habitus universitario che ha la sua cifra distintiva nel lasciarsi soggiogare, utilizzando una prosa dallo stile neutro, pacato, piatto e vagheggiando un mondo astratto e ideale, quando dovrebbe invece «gettare le basi di una riflessione concettuale e circostanziata su ciò che il mondo sta diventando (oligarchia, plutocrazia o totalitarismo finanziario)»89. La categoria di intellettuali accademici popola, per lo più in maniera anonima, le università del nostro tempo, non solo rivelandosi ininfluente sul piano della cultura sociale, ma anche incapace di trasmettere agli studenti un sapere critico in grado di andare oltre la specializzazione e il conformismo compilativo. Dall’altra parte gli intellettuali mediatici, quelli che in televisione discettano su ogni ambito dell’umano 77

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sapere e accadere, appaiono generalmente più brillanti, comunicativi e per questo vengono esaltati e ospitati dal sistema, anche se spesso sono tenuti ai margini dell’università, specie quando giovani e non immuni alla macchina stritolante delle invidie accademiche. Per lo più mascherati da dissidenti, indomiti alfieri di quelle verità che secondo loro vengono puntualmente nascoste o censurate da quei media che proprio a loro (e non sarà un caso) concedono spazio per proclamare la fiera opposizione al sistema o al pensiero unico. Pur di beneficiare delle luci della ribalta (con tutto il portato di interessi che ne consegue), non si fanno scrupolo alcuno a lasciarsi trasformare nelle «creature frivole e suggestive del mondo delle celebrità» di cui parlava Charles Wright Mills90. Pronti a sostenere anche quello che non pensano, pur di apparire in quella macchina che ti accetta soltanto se ti rendi macchietta ed etichetta, a servire la giostra mediatica diventando incurante della verità, per immolarsi sull’altare dell’audience, dello spettacolo e della pubblicità. Non per questo meno in grado, anzi, di esercitare un’influenza sull’opinione pubblica, a prescindere dall’immagine simpatica o repellente, autorevole o sguaiata che sono chiamati a fornire di sé. Quest’ultima categoria di intellettuali «dissidenti», se analizzata al di fuori della pur legittima promozione di sé, si scopre facilmente in possesso di slogan tanto roboanti quanto irrealistici, che denotano la negazione dell’esistente in assenza totale di pars construens, di una visione e di proposte concrete rispetto non solo alla trasformazione dell’attuale, ma anche alla credibile costruzione di un futuro alternativo. A questa categoria si riferiva Zygmunt Bauman nel denunciare l’incapacità degli intellettuali di essere «legislatori», per cui tutti i progetti per una società giusta appaiono irreali e ingenui: «Il risultato è quello che è 78

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stato descritto come “una perdita di vigore” o “perdita della capacità di sognare il futuro”. La nostra, decisamente, non è un’epoca di utopie. L’età delle utopie avviene quando esse sembrano fattive e realistiche: la nostra è un’età in cui i programmi intesi in senso pratico risultano utopistici»91. In assenza di una visione alternativa e chiaramente esposta, anche la migliore e più argomentata dissidenza rispetto a un ordine vigente risulta sterile (e quindi persino funzionale allo stesso). Inutile dire che questa categoria di intellettuali mascherati da dissidenti si rivela più gradita al sistema tecno-finanziario: dato che fornisce loro ampia visibilità, esso può proclamare la propria natura tollerante e democratica, quando, a ben vedere, ha trasformato gli intellettuali in immagini intercambiabili dal sistema e rigorosamente interne ad esso (quindi innocue), ben felici di lasciarsi trasformare dietro il pagamento della moneta più ambita in questa epoca di immagini: l’apparire costante, ossia la promozione esclusiva del proprio sé e della propria res privata. Si tratta di un’evidente degenerazione dell’«intellettuale organico» descritto da Gramsci, di colui che appartiene a un gruppo ideologico-sociale e ne rappresenta le istanze su un piano culturale. Quello con cui ci troviamo a che fare oggi, piuttosto, potrebbe essere definito come l’intellettuale embedded, imprigionato all’interno di un sistema che lo riduce a macchietta ininfluente in cambio di redditizie apparizioni mediatiche. Questa tipologia di intellettuale, per riprendere le parole dello stesso Gramsci, rischia pericolosamente di commettere l’errore di «credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere), cioè che l’intellettuale possa esser tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del 79

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popolo». Inaridito dal rapporto esclusivamente strumentale con il sistema mediatico, l’intellettuale embedded smarrisce la connessione sentimentale con il popolo, riducendo i suoi rapporti con esso a faccende di ordine puramente burocratico, formale, trasformandosi così in membro di una casta o sacerdozio deputata a diffondere (o criticare sterilmente, che è la stessa cosa) i dogmi del sistema dominante92. Una società popolata da individui che, non per forza soltanto intellettuali, si rivelano concentrati sul proprio sé e sull’interesse personale, costituisce l’humus ideale per qualunque potere che non voglia correre il rischio di essere messo in discussione. La società misologa realizza il proprio capolavoro attraverso l’affermazione del principio del divide et impera adattato ai giorni nostri: producendo individui affamati di immagini in cui riconoscersi e attraverso cui titillare il proprio Ego traballante. Non a caso, scriveva Georges Bataille, «la consumazione è la via attraverso la quale comunicano degli esseri separati»93. Mentre individui isolati e famelici consumano il freddo pasto virtuale, nella vita reale il potere tecno-finanziario celebra i suoi banchetti più sfarzosi e si compiace del proprio incontrastato trionfo. Il regno dell’indistinto Insieme al pensiero degli esseri umani, la divinità misologa liquida ogni capacità di operare distinzioni in grado di fornire senso alla teoria come alla prassi concreta da parte di un’eventuale opposizione. Da questo punto di vista, fare in modo che teoria e prassi si annullino in un magma indistinto di immagini veicolate da schermi realizza il punto più alto di un sistema totalitario che voglia eliminare alla radice persino la remota possibilità di essere messo in discussione. Ci troviamo 80

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di fronte a un sistema in grado di distruggere la cultura umana, intesa come «l’organizzazione, la disciplina del proprio io interiore», che è al tempo stesso «presa di possesso della propria personalità» e «conquista di una coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri»94. Per poter esercitare quella facoltà al tempo stesso complessa e indispensabile che chiamiamo «critica», soprattutto se la intendiamo come costruttiva e propositiva di fattive e credibili soluzioni alternative, occorre essere in possesso di un’altra facoltà, che la precede e sostanzia: la distinzione. La possibilità e la capacità di distinguere gli elementi del reale costituisce il presupposto fondamentale per comprendere qualunque realtà, per individuarne le contraddizioni e agire di conseguenza. La società misologa è quella in cui, insieme al logos, si sono apparentemente liquefatte anche le stesse distinzioni. Vero/falso, classi dominanti/classi dominate, destra/sinistra, capitale/lavoro, attori/spettatori, reale/ virtuale, sembrano ormai coppie di opposti distanti anni luce rispetto al nostro presente cognitivo. Basti considerare come paradigmatica la distinzione destra/sinistra. Con la presunta fine delle ideologie, in realtà abilissima operazione culturale volta all’affermazione dell’ideologia unica e onnicomprensiva del neoliberismo tecno-finanziario, si è pervenuti nel giro di breve tempo a proclamare l’estinzione delle due categorie, sostenendo la fine della destra e della sinistra. Ma il punto è che queste – esattamente come vero e falso, o reale e virtuale ecc. – non rappresentano nient’altro che due categorie semantiche e convenzionali, contenitori che vanno riempiti attraverso il pensiero aggiornato sui fatti sociali, economici e culturali di una determinata epoca. 81

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È il pensiero autonomo e critico, l’analisi metodica delle contraddizioni che ai più vari livelli caratterizzano una società, a riempire di volta in volta quei contenitori di nuove idee e nuovi progetti concreti in grado di realizzare fattivamente gli ideali regolativi che, in senso altrimenti astratto e generico, si richiamano alla costellazione ideologica della destra come della sinistra. Non sono certo sparite dalla scena sociale le istanze di uguaglianza e giustizia sociale, proprie delle classi e categorie la cui vita e il cui lavoro vengono sfruttati da parte di chi detiene il potere, o il capitale. Né peraltro sono venute meno quelle forme di gerarchia umana e sociale che presumono di individuare uomini, etnie o categorie a cui riconoscere più diritti rispetto ad altri. Resta sempre valido l’anelito generale della sinistra a includere l’altro, il diverso, l’escluso, così come permane l’inclinazione della destra a escludere, a difendere il fortino dei pochi che usufruiscono di benessere e privilegi95. Le istanze di uguaglianza e gerarchia (o inclusione ed esclusione), genericamente rubricabili nel campo ideale della sinistra e della destra, in un’epoca mutata richiedono pensieri nuovi, attrezzi rinnovati e, conseguentemente, progetti e finalità da riconsiderare, se si intende operare su un piano di credibilità e concretezza. Il problema enorme con cui abbiamo a che fare è che questa epoca radicalmente mutata, ossia la nostra epoca ottusa è quella dell’attacco concentrico e scientifico al pensiero critico e autonomo, con tutto ciò che ne deriva a livello di impossibilità di riempire degnamente quei due contenitori. Per riempire i contenitori della destra come della sinistra, del vero come del falso, del reale come del virtuale, occorre proprio quel logos che, in questo caso inteso come studio prima ancora che generico pensiero, 82

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la società misologa sta scientemente anestetizzando ed eliminando dalla scena umana e sociale. Da qui l’errore clamoroso di decretare una tanto sciocca quanto assurda estinzione della categoria di destra o sinistra, ma anche di vero o di falso. Non sono i contenitori a essersi estinti, bensì il pensiero umano. A essere estinta è la capacità di creare contenuti nuovi per un tempo profondamente mutato. Prospera e avanza incontrastato il regno dell’indistinto prodotto dalla società misologa. All’uomo non resta che galleggiare sul flusso delle immagini preconfezionate. Lo spettacolo è pervenuto a un tale livello di potere, intensità e pervasività da aver trasformato ogni cosa in immagine e ogni immagine in cosa. Essendo poi ogni cosa merce e poiché ogni merce, compreso l’uomo, è divenuta immagine, prodotto simbolico di un sistema che impone e ci impone di corrispondere alle sue iconografie, dopo esserci subordinati ai suoi dogmi e averli introiettati, si produce una condizione per cui: «Schermo contro schermo, il terminale del computer domestico e il monitor della televisione arrivano ad affrontarsi per il mercato della percezione globale», scrive Paul Virilio; in questa dinamica risiede «la temibile minaccia di un accecamento, di una cecità collettiva dell’umanità, la possibilità inaudita di una disfatta dei fatti, e dunque di un disorientamento del nostro rapporto con i fatti»96. Ciò perché ormai di ogni individuo e cosa presente nel mondo reale esiste copia in quel mondo delle idee distrutte che è la realtà virtuale. Esattamente come per Platone, secondo cui cose e persone del mondo terreno sono una pallida copia degli archetipi situati nel regno ideale, così nel nostro tempo la società misologa ci riduce, nella vita reale, a copie e immagini di quelle idee de-umanizzate e disorientate che siamo nel mondo virtuale, dove ogni cosa e ogni individuo corrispondono a un codice identificativo e tutto è stato catalogato, regi83

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strato e prezzato; infine gli uomini, veicolati attraverso gli schermi degli apparecchi digitali, sotto forma di profili che navigano, chattano, si informano, acquistano, esprimono i propri pensieri e stati d’animo, ridotti a pallide immagini di un’esistenza reale in cui potevamo fare tutte quelle cose secondo le nostre caratteristiche di esseri umani. «Un tempo», scrive il filosofo Günther Anders, «esistevano immagini nel mondo. Oggi esiste “il mondo nell’immagine”, o meglio: il mondo come immagine, come una parete di immagini che senza sosta cattura il nostro sguardo, senza sosta lo possiede, senza sosta copre il mondo»97. Ogni idea è stata ridotta a immagine, che le restituisce in forma disinnescata, plastificata, sempre meno in grado di esercitare una qualsiasi concreta influenza rispetto alle questioni del mondo reale, lasciato al governo dei numeri, della quantità e degli algoritmi imposto dal sistema tecno-finanziario. È il regno della società misologa, dove ogni cosa e individuo si trasformano in immagini evanescenti. Del resto, il sistema totalitario perfetto è quello in cui l’uomo non muore. Ma sparisce98.

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2. Il Dio cattivo

L’ignoranza è madre dell’industria e della superstizione. Adam Ferguson 1767

L’11 dicembre 2010 l’autorevole «New York Times», in un articolo a firma di una stimata notista economica, dava conto di un evento assai significativo: Il terzo mercoledì di ogni mese, nove membri di un’élite di Wall Street si ritrovano a Midtown Manhattan. Essi condividono un obiettivo comune: proteggere gli interessi delle grandi banche nel vasto mercato dei derivati, uno dei più redditizi e controversi settori della finanza. Essi condividono anche un comune segreto: i dettagli dei loro incontri, come anche le loro identità sono strettamente confidenziali [...]. In teoria, questo gruppo esiste per salvaguardare l’integrità di un mercato plurimiliardario. In pratica esso difende il dominio delle grandi banche.

Il dominio delle grandi istituzioni finanziarie non si limita al solo contesto economico, ma deve farsi ideologia egemone e conquistare tutti gli ambiti del sociale e dell’umano, soprattutto attraverso la colonizzazione del potere politico, che nella storia più recente ha avuto, fra i vari ruoli, quello di limitare e governare l’agire economico. Non si tratta di un proposito complesso, 85

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visto che il Congresso è composto da elementi che in teoria dovrebbero svolgere il compito di rappresentanti del popolo, ma che spesso «hanno ricevuto dai banchieri ingenti contributi per la campagna elettorale», e in virtù di ciò sapranno come ricompensare i propri benefattori al momento di promulgare o abolire leggi e regolamenti statali1. Non è superfluo ricordare che tale subordinazione della politica (e dei politici) ai voleri dei poteri finanziari si è tradotta in effetti concreti, fra i quali l’eliminazione di tutti i vincoli esterni (ossia politici) alle dinamiche spontanee del mercato, producendo un processo di concentrazione monopolistica: «Al primo trimestre del 2011, cinque società di intermediazione mobiliare – JP Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa – e cinque banche – Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merril Lynch, Bnp Paribas – controllavano il 90% dei titoli derivati, per un ammontare di 466.000 miliardi di dollari»2. Se a questo dato, riportato da Carlo Formenti, aggiungiamo i nomi dei nove «misteriosi» uomini di potere che si riuniscono segretamente a Midtown ogni settimana come raccontato dal «New York Times», ci rendiamo agevolmente conto della concretezza di ciò di cui stiamo parlando: Thomas J. Benison di JP Morgan, James J. Hill di Morgan Stanley, Athanassios Diplas di Deutsche Bank, Paul Hamill di Ubs, Paul Mitrokostas di Barclays, Andy Hubbard di Credit Suisse, Oliver Frankel di Goldman Sachs, Ali Balali di Bank of America e Biswarup ­Chatterjee di Citigroup. Se il 2010 ci raccontava una storia vera anche oggi, dobbiamo sapere che la genesi di tutto questo (e molto altro) può essere rintracciata all’inizio degli anni settanta del secolo scorso. Occorre compiere un salto all’indietro di cinquant’anni per accorgersi che negli ambienti influenti della società, e soprattutto dell’economia, 86

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sorgeva l’idea di sovvertire le democrazie occidentali come si erano conosciute fino a quel momento. Dalla fine della seconda guerra mondiale le democrazie occidentali (e, seppure con le dovute differenze, gli Usa stessi) erano state caratterizzate dal cosiddetto sistema keynesiano che, impostato sulle teorie del celebre economista inglese John Maynard Keynes, aveva posto l’economia e la finanza sotto il controllo e la guida dello Stato, il quale, attraverso una consistente legislazione sociale, garantiva un sistema di welfare che aveva ridotto le disuguaglianze sociali, ampliando i diritti dei lavoratori e redistribuendo in maniera significativa le ricchezze prodotte dal sistema economico. Fin da quando Keynes, negli anni trenta del secolo scorso, aveva cominciato a elaborare la propria idea di economia controllata da uno Stato interventista, gli apologeti del liberismo e del mercato avevano storto il naso, dovendosi però arrendere a una teoria e a un sistema che si erano rivelati vincenti fino agli anni settanta. Da un certo momento, tuttavia, hanno potuto prendersi la loro rivincita. L’esempio più eloquente può essere forse rintracciato nel cosiddetto Powell Memorandum. Siamo nel 1971, per la precisione il 23 di agosto, negli Stati Uniti d’America. Una lettera confidenziale che Lewis F. Powell, avvocato e futuro giudice della Corte suprema, aveva inviato a Eugene B. Sydnor Jr., presidente del Comitato educazione della camera di commercio Usa. In questa lettera Powell denunciava che «il sistema economico americano» (chiamato anche «sistema della libera impresa», «capitalismo» o «sistema del profitto») si trovava sotto un «massiccio attacco». Tale attacco, definito anche «coro di critiche», proveniva secondo il futuro giudice dagli «elementi più rispettabili della società», ossia dai college universitari, dai pulpiti, dai media (soprattutto la televisione), da intellettuali e scrit87

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tori come anche da riviste letterarie, artistiche o scientifiche. E naturalmente da scuole e facoltà dei vari livelli educativi. Il paradosso, secondo Powell, è che si trattava di una minoranza della popolazione statunitense, ma molto attiva, preparata e in vista, tanto da esercitare un’influenza determinante che andava assolutamente contrastata in maniera sistematica e capillare. Il proposito espresso dalla lettera consisteva nel mettere in atto una «combinazione di azione politica e pedagogica» con cui riaffermare i principi e le pratiche del liberismo, ridimensionando il ruolo dello Stato e della democrazia in genere, a favore di una società che tornasse a essere strutturata esclusivamente secondo le modalità e i valori rispondenti all’ideologia capitalistica. Mercato, finanza, competizione, individualismo e legge del più forte dovevano riconfigurarsi come le stelle comete tramite cui orientare il cammino del genere umano. Per raggiungere lo scopo bisognava creare le condizioni culturali affinché la popolazione subisse senza protestare lo stravolgimento del sistema keynesiano che aveva regolato le società occidentali fino a quel momento. Qui entrava in gioco il programma capillare suggerito da Powell: agire all’interno delle università – specie nelle facoltà di scienze sociali, dove abbondavano studiosi sinistroidi o liberal come Herbert Marcuse –, pretendere spazi e tempi uguali anche per conferenzieri repubblicani o di destra; intervenire nelle attività delle scuole di ogni ordine e grado, far controllare e valutare i libri di testo da studiosi che «credono nel sistema». Misure analoghe dovevano essere attuate anche per la televisione, la stampa, la radio, le riviste scientifiche e la pubblicità. Il Powell Memorandum proponeva di controllare persino le edicole, accusate di mettere in evidenza troppo spesso pubblicazioni che inneggiano al «libero amore» o alla «rivoluzione», ignorando ogni libro o rivista 88

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che stia «dalla nostra parte»3. Inutile precisare che, nel volgere di qualche decennio, le puntuali misure suggerite nel vademecum furono attuate (e superate) negli stessi Stati Uniti e in Europa, riportando la teoria e la prassi liberista in una posizione dominante all’interno delle società occidentali. Avremo modo di constatare che il caso di Powell è soltanto una delle spie di un’operazione politica e culturale condotta su vasta scala da coloro che non amavano la piega presa dalle democrazie capitalistiche dopo la seconda guerra mondiale. A distanza di cinquant’anni, possiamo dire senza timore di essere smentiti che il programma politico e pedagogico di ridefinizione delle nostre società è stato realizzato ben al di là delle azioni prospettate dai suoi ideatori. La grande operazione iniziata simbolicamente con il Powell Memorandum, infatti, dopo aver ricreato un’«egemonia culturale»4 del liberismo nei decenni finali del XX secolo, a partire dall’inizio del XXI, con la complicità delle nuove e straordinarie tecnologie mediatiche e digitali, è riuscita a creare le condizioni per un risultato all’apparenza definitivo: l’impossibilità di ogni altra cultura. Non si tratta di un complotto attuato da fantomatici «poteri forti», bensì di un’operazione ideologica e di potere condotta in nome di una teoria ben precisa (il liberismo) e a favore di categorie sociali ben definite (finanzieri, banchieri, imprenditori delle multinazionali, classi sociali benestanti in genere). Proviamo a comprendere termini e modalità di tale operazione. La fiera delle illusioni Caratteristica peculiare dell’uomo è quella di essere homo faber, in grado di agire su quanto reperisce nel 89

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mondo che lo circonda allo scopo di creare prodotti in grado di rendergli l’esistenza più agevole e confortevole. Allo stesso tempo egli è anche homo rationalis, la cui razionalità consiste nell’individuare degli scopi per raggiungere i quali si industria, così da procurarsi i mezzi per conseguirli. L’uomo che si limita a un fare senza pensiero, di fatto non sa cosa fa, e in questo modo rischia di provocare danni a se stesso nonché alle cose e persone con cui entra in contatto. Così anche l’uomo che si limiti a un pensiero che non si traduce in azione e produzione, galleggia sulle acque stagnanti di un’esistenza sterile. In questo senso la ragione umana non è soltanto la facoltà che sola ci rende superiori agli animali, come già sosteneva Cicerone, permettendoci di congetturare, argomentare, ribattere, discutere, occuparci di qualcosa e portarlo a termine, ma anche di esercitare una tecnica o un’arte essendo «padroni della nostra mente»5. Per realizzare al meglio questa sua peculiarità, l’essere umano ha dovuto individuare un sistema sociale atto a garantire la libertà di tutti, una ragionevole ed equa parità di condizioni, ma anche una protezione legale che impedisca la coercizione di alcuni su altri e, in generale, il dominio del più forte sul debole. Non può definirsi libera, infatti, quella società in cui il più povero o il più debole è costretto a sottomettere la libertà, il frutto del lavoro o addirittura la propria persona a un soggetto dominante. Né può dirsi libera quella società in cui la condizione di partenza o le origini umili impediscano di conseguire, attraverso i propri talenti e il proprio impegno, degli obiettivi che migliorino la condizione di partenza di un individuo. Considerare gli esseri umani responsabili del raggiungimento dei propri fini, nonché capaci di perseguirli, presuppone alcune condizioni irrinunciabili, fra cui un’«idea razionale del bene» in base alla quale siano garantiti a 90

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tutti i cittadini un’eguale protezione e quei beni primari indispensabili per operare in vista dei rispettivi obiettivi, fornendo una «quota equa dei mezzi per tutti gli scopi necessari»6. Attraverso varie peripezie e non senza contraddizioni ed eccezioni tuttora vigenti, l’essere umano produttivo e razionale ha individuato nella democrazia il sistema migliore, quello che, a conti fatti, gli richiede (e allo stesso tempo gli permette) di utilizzare liberamente la ragione al fine di intraprendere attività che gli consentano di raggiungere i propri scopi come anche di venire riconosciuto all’interno del sistema sociale nel suo complesso. Sarebbe tuttavia troppo semplice, e persino riduttivo limitare a ciò la condizione complessa dell’uomo. La sua natura di essere consegnato a una vita misteriosa e molto più grande di lui, non gli permette di declinare l’esistenza esclusivamente all’interno di un paradigma razionale, produttivo e democratico. L’uomo e la sua ragione, insomma, non sono il centro dell’universo. In virtù di ciò, non possono neanche pensare di padroneggiare quell’universo che al tempo stesso li sovrasta e determina. Lo ricorda con inconsueta crudezza il Platone delle Leggi, laddove definisce l’uomo un essere «misero», che non si accorge di essere solo un «piccolo frammento» di un mondo in cui ogni vita sorge per la felice armonia del tutto: «Ti sfugge, uomo, che il tutto non è stato generato in tua funzione, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica». Un concetto rimarcato anche da Nietzsche, svariati secoli dopo e in chiave anti-razionalistica, evidenziando la tracotanza dell’uomo nel coltivare l’«idea illusoria [...] l’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere»7. 91

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La consapevolezza di rappresentare un’essenza finita, imperfetta e spesso inadeguata, insufficiente a governare un mondo terribilmente vasto e complesso, porta alla luce un’altra peculiarità dell’essere umano: riporre venerazione e fede in divinità richiede lo spegnimento del lume della ragione, perché qualora l’uomo decidesse di lasciarlo acceso esso svelerebbe le zone d’ombra (nonché l’insensatezza) di un atto fideistico assoluto. Del resto, è proprio l’ortodossia cristiana, rappresentata dalle parole autorevoli di Tommaso d’Aquino, ad affermare con forza che la fede non ha nulla a che vedere con la ragione («credere sine cogitatione est»), e che «credere non est cogitare». L’atto di credere non è motivato dall’evidenza del contenuto, ma da un fattore esterno come la volontà, che assurge al rango di facoltà che trascende il mondo umano e mette l’uomo in comunione con la divinità8. In altre parole: per entrare in contatto con la dimensione divina l’uomo deve a vario titolo prendere le distanze dal suo mondo9. Ciò non è mai stato così vero come nella nostra epoca, incline a sottomettersi a idoli le cui caratteristiche essenziali consistono non tanto nel pretendere venerazione e preghiere da parte degli uomini, ma nel richiedere che l’insieme della dimensione umana sia ridotta a strumento e posta al servizio degli scopi e dei valori imposti da quegli stessi idoli a mo’ di diktat. Del resto, il salto decisivo compiuto dal cristianesimo rispetto alle visioni religiose pagane è consistito nell’individuazione di un Dio «buono», mosso da amore tanto nella creazione dell’uomo quanto nell’accoglienza di quest’ultimo una volta terminato il suo viaggio nella vita terrena. Per secoli l’uomo si è più o meno sottomesso alla figura e ai dogmi del Dio che agisce per amore nei suoi confronti. Il Nuovo Testamento annunciava il «Dio che è amore», pronto a dimostrare questo sentimento 92

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nei confronti dell’uomo attraverso l’invio in terra del suo unico Figlio, «affinché noi vivessimo per mezzo di lui». Sant’Agostino suggeriva all’uomo di ricambiare questo sentimento, perché è beato chi ama Dio, al punto da non perdere nessuna delle persone care che ritroverà in Dio e con Dio10. Il nostro tempo, invece, è quello in cui l’uomo si sottomette a una sorta di Dio «cattivo», il quale, lungi dall’essere mosso da sentimenti benevoli, muove l’essere umano. Il connubio fra l’innata essenza religiosa dell’uomo e gli specifici rapporti di forza ideologici e materiali che sussistono in ambito sociale con il trionfo dell’ideologia liberista, si traduce oggi nel dominio di una divinità a due facce. Questa nuova divinità richiede all’uomo di spogliarsi dei suoi panni di individuo potenzialmente autonomo, critico e democratico, per indossare il vestito unico dell’homo œconomicus, ossia di quell’individuo i cui sentimenti naturali sono l’«egoismo» e la «rapacità», come scriveva il padre del liberismo, Adam Smith, mentre il suo unico interesse è il proprio tornaconto e la gratificazione dei suoi «insaziabili desideri». Senza che questo egoismo metta a rischio l’armonia sociale, garantisce il padre dell’economia moderna, perché l’uomo economico è destinato a condividere con i «poveri» il risultato di tutte le sue migliorie. Ciò grazie a quella dimensione, il mercato, la cui natura «provvidenziale» gli permette di armonizzare i vari interessi egoistici, facendo in modo che il risultato finale vada comunque a beneficio della società nel suo insieme11. Questo Dio provvidenziale che è il mercato richiede al suo cospetto un uomo che si affidi alle sue virtù salvifiche, che esegua in maniera acritica i suoi dogmi, tanto sul piano sociale quanto su quello individuale, e che tragga dagli stessi quei valori su cui regolare l’inte93

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ro vissuto. Un uomo che, soprattutto, si sottometta al suo «ordine spontaneo», accettando il fatto che tale ordine regoli il mondo e ciò che vi è contenuto. Negli anni settanta del secolo scorso l’alfiere del neoliberismo contemporaneo, Friedrich Hayek, scriveva: In tutte le società libere il coordinamento delle attività di tutte le organizzazioni separate, come di tutti gli individui, è reso possibile dalle forze che compongono l’ordine spontaneo. La famiglia, la fattoria, l’industria, la corporazione, insieme alle varie associazioni e tutte le istituzioni, compreso il governo, sono organizzazioni integrate all’interno di un più comprensivo ordine spontaneo12.

Idee, quelle di Hayek, fortemente osteggiate da John Maynard Keynes, il liberale che negli anni fra le due guerre mondiali denunciò i «principi metafisici e generali sui quali, di tanto in tanto, si è fondato il l­ aissez-faire». A ridosso della grande crisi economica del 1929, quando (ancora per poco) trionfavano le idee e le pratiche liberiste che avevano condotto le società occidentali al tracollo, Keynes scriveva: Il mondo non è governato dall’alto in maniera tale che l’interesse privato e sociale coincidano sempre. Né è amministrato quaggiù in terra in maniera tale che essi di fatto coincidano. Non è corretto dedurre dai principi dell’economia che l’illuminato interesse egoistico operi sempre nell’interesse pubblico. Né peraltro è vero che l’interesse individualistico sia generalmente illuminato: più spesso gli individui che agiscono separatamente per promuovere i loro propri obiettivi, sono troppo ignoranti o troppo deboli anche per ottenere solo quelli. L’esperienza non dimostra che gli individui, quando escogitano una forma di unità sociale, risultano sempre meno perspicaci di quando agiscono singolarmente13.

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Keynes fu ascoltato nel suo tempo, al punto che l’Occidente liberale abbandonò la concezione del mercato che pretende di autoregolarsi e regolare l’insieme dell’agire sociale (pratica che condusse alla crisi terribile del 1929), adottando un sistema misto di libera competizione e governo dell’economia da parte dello Stato con il quale poté riemergere dalla palude rovinosa in cui era piombato. Ma la Storia non ha allievi alla sua altezza, così che nell’epoca della società ottusa è tornata a prevalere la visione di un mercato divinizzato e a briglie sciolte, in cui l’essere umano, pur di vedersi garantiti la protezione e i benefici promessi dalla teologia economica, finisce con il sottomettersi a una divinità molto simile a quella del Dio dell’Antico Testamento: gelosa, autoritaria, non disposta all’interazione con un uomo a cui venga riconosciuto un significativo margine di libertà individuale; o addirittura al motore immobile di cui parlava Aristotele. Un Dio tirannico e dogmatico, distante dai bisogni umani e incapace di alcun movimento verso il mondo terreno, semmai meccanicamente e aridamente in grado di far sì che ogni cosa sia mossa verso di esso e in sua funzione, senza alcuna forma di reciprocità. Da «homo democraticus» a «homo Œconomicus» Sottomettendosi al Dio cattivo, da homo rationalis, capace di coltivare un pensiero autonomo e critico, da homo faber che agisce e crea prodotti in vista del soddisfacimento dei propri scopi, da homo democraticus, che elabora e condivide le virtù politiche per costruire un contesto sociale più giusto e ispirato al bene sociale, l’uomo del nostro tempo si è trasformato in homo œconomicus, ripiegato su se stesso e disposto a lasciarsi det95

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tare l’agenda esistenziale dai dogmi che quello stesso Dio cattivo gli elargisce. Il primo dei dogmi imposti dalla teologia economica neoliberista, da cui conseguono tutti gli altri, riguarda il fatto che tanto l’individuo quanto una società che siano ben funzionanti (e ciò che funziona non pensa, come per esempio vediamo nel caso delle macchine programmate da altri) vivono e si comportano accettando il principio secondo cui «l’approccio economico fornisce un quadro utile per comprendere tutto il comportamento umano»14. Allo stesso modo, la madre di tutte le idee che stanno alla base del capovolgimento mezzi-fini, rimanda al sovvertimento originario: l’essere umano migliore sarà quello che si comporta come un’azienda, ossia che persegue la massimizzazione del profitto a fronte di una minimizzazione dei costi e degli sforzi per raggiungerlo. Così anche la società migliore presenterà meccanismi di funzionamento quanto più possibile tarati su quelli del mercato. Secondo la concezione liberista, l’homo œconomicus non sarebbe soltanto l’essere umano migliore, ma anche il più felice, poiché massimizza l’utilità «attraverso l’attività produttiva che consiste nel combinare beni e servizi acquistati nel mercato con una parte del tempo di cui il nucleo famigliare dispone». Come a dire che la felicità è quella condizione che si ottiene soltanto in stretta connessione con il mondo degli oggetti, coniugando il possesso delle merci con il tempo necessario alla fruizione delle stesse15. Seguendo questa impostazione, l’essere umano non necessita (e non è neanche opportuno che ne sia fornito) di un pensiero autonomo, informato e critico, nella stessa misura in cui la società non deve essere governata e regolata secondo le norme e le dinamiche del meccanismo democratico. 96

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La società libera, in cui si promuovono il soddisfacimento degli egoismi individuali e la ricerca del profitto, non deve curarsi di questioni collettivistiche (e utopiche) come il benessere comune o la giustizia sociale, perché la realtà autoregolantesi e razionale che risponde al nome di «mercato» si rivela un’entità provvidenziale, in grado di bilanciare i singoli interessi, garantendo l’armonia e soprattutto la crescita complessiva che nessuna ragione umana e nessuna politica democratica potranno mai realizzare. Semmai ostacolare. Friedrich Hayek, ancora negli anni settanta del Novecento, quando fu insignito del premio Nobel per l’economia, pensava di sostituire la democrazia con la «demarchia», un sistema in cui, allo scopo di uniformarsi all’ordine spontaneo del mercato, andavano esclusi dal diritto di voto «impiegati del governo», «coloro che ricevono sussidi o altri supporti finanziari» dallo Stato, «pensionati anziani» e «disoccupati». Questa proposta discendeva dall’idea secondo cui coloro che non contribuiscono ai mezzi della ricchezza di una società, limitandosi a goderne i risultati, non possono beneficiare dei diritti concessi agli altri cittadini. In breve, la produzione di ricchezza posta come prerequisito indispensabile affinché agli individui sia riconosciuta la cittadinanza sociale16. Il mercato è l’origine della società, esattamente come l’homo œconomicus ne è il produttore. Gli individui che abitano questo mondo e vi partecipano a vario titolo non devono occuparsi di altro che di perseguire i propri interessi, e quanto più conformeranno il loro pensare e agire ai meccanismi e ai dettami del mercato, tanto più si riveleranno soggetti liberi all’interno di una società libera. Se la ragione non è più necessaria, decade la principale differenza che rendeva gli uomini esseri mediani tra animali e dèi. 97

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Lo sapevano bene gli Stoici, consapevoli che agli animali era stato dato l’istinto, e quindi per loro vivere secondo natura significava vivere «secondo l’istinto»: «Ma poiché agli animali razionali [cioè all’uomo] è stata concessa la ragione per una più perfetta dignità, per questi, giustamente, il vivere secondo natura coincide con il vivere secondo ragione»17. Alle condizioni imposte dalla società ottusa, per gli uomini che la abitano vivere non è più un problema, poiché non vi sono più conoscenze autonome da acquisire, né scelte critiche per cui optare, ma soltanto le istruzioni del mercato da eseguire passivamente. Influenzare, controllare ed eventualmente indirizzare la ragione umana è sempre stato l’obiettivo di qualsiasi potere che fosse intenzionato a piegare uno o più individui ai propri voleri. Elemento tutt’altro che trascurabile, quello del potere: per Thomas Hobbes l’umanità è mossa da un’inclinazione generale, «un desiderio perpetuo e senza tregua di accumulare potere su potere, che cessa soltanto con la morte». Inclinazione che, avrebbe aggiunto Nietzsche oltre due secoli dopo, non esclude neppure i più deboli, poiché «anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole è indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che è ancora più debole»18. Rispetto al tema del potere e del suo esercizio, va preso atto che il nostro tempo è quello in cui i sacerdoti del mercato hanno operato un salto di qualità determinante: non si tratta più di influenzare, controllare o indirizzare la mente umana, ma di annullarla agendo in modo tale che l’uomo introietti un sistema di pensiero alternativo. Siamo nell’ambito del meccanismo descritto da Michel Foucault, per il quale a partire dal XVII secolo si sono elaborate e messe in opera delle «tecniche per governare gli individui, per “con98

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durre la loro condotta”». Nell’epoca della società ottusa è emersa una tecnica straordinariamente efficace e pervasiva, somigliante a quella che lo stesso filosofo francese chiamava «ragione governamentale»: una nuova razionalità nell’arte di governare, che attraverso dei meccanismi statali arriva a riconfigurare e dirigere la condotta umana anche nella sfera interiore dei desideri, delle convinzioni e dell’orizzonte valoriale19. L’«accumulazione» assurge così a «legge generale dell’esistenza», fatta propria dagli individui come se si trattasse di una libera scelta. Come scrivono Pierre Dardot e Christian Laval, attualizzando il pensiero di Foucault: La libertà di scelta si identifica in effetti con l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, regolamentare, architetturale, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga “in piena libertà” ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse. Il segreto dell’arte del potere, diceva Bentham, è fare in modo che l’individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa20.

Una prova di questo meccanismo di riduzione della vita umana ai parametri del mercato si ritrova nella modalità di misurazione del benessere. Quest’ultimo, infatti, viene ormai fatto coincidere con il tasso di produttività e di incremento economico, nonostante lo stesso inventore del Pil, Simon Kuznets, esprimesse perplessità laddove affermava: «difficilmente il benessere di una nazione [...] può essere dedotto dalla misurazione del reddito nazionale». Perfino nel nostro tempo non mancano alcuni illustri studiosi di economia che tendono a separare il livello della ricchezza nazionale (e personale) dall’effettiva qualità della vita e dal sentimento di soddisfazione della propria esistenza provato dagli esseri umani21. 99

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Eppure sono i parametri del profitto quantitativo a essersi imposti a mo’ di dogmi. Essi riguardano, spiega Pierre Rosanvallon, «la riduzione del commercio al mercato come sola forma “naturale” di rapporto economico. L’occultamento dell’economia del dono e dell’economia regolata. Lo scambio, inteso come necessariamente egualitario, è considerato l’archetipo di tutti gli altri rapporti sociali». È l’economia che «realizza tanto la filosofia quanto la politica», mentre «l’armonia naturale di tutti gli interessi è sufficiente a regolare il cammino del mondo» e «la mediazione politica tra gli uomini è considerata inutile e perfino dannosa. La società civile, concepita come un mercato fluido, si estende a tutti gli uomini e permette di superare le divisioni fra i paesi e le razze». Con questi presupposti, l’utopia dell’estinzione di tutto ciò che in senso lato si può definire politico, «trova la sua formulazione definitiva»22. È nella società ottusa che la ragione economica, meccanica e impersonale, prende il posto di quella umana e politica. Fine della ragione umana La ragione umana è quella facoltà per cui l’uomo tende a concepire e realizzare una vita quanto più possibile impegnata alla ricerca della propria crescita personale e di ciò che gli procura piacere, indipendentemente da quel prodotto fittizio che è il denaro o da quella strumentazione impersonale che risponde al nome di tecnologia. All’interno di questo ordine di cose, la ragione umana permette all’uomo di riconoscere negli altri non solo e non tanto uno strumento, quanto piuttosto degli individui con cui dialogare e collaborare al fine di un riconoscimento reciproco e della costruzione di un ambiente sociale quanto più possibile condiviso. 100

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Inoltre, è la ragione la facoltà imprescindibile con cui l’uomo costruisce, per tentativi ed errori, la sua vita personale e sociale senza accontentarsi di quanto gli è stato concesso dalla natura e, per chi ci crede, dalla Provvidenza: in ambito individuale egli deve combattere con la propria natura egoista, prevaricatrice, anti-sociale; in quello sociale si trova a fronteggiare quegli istinti che possono condurci a un conflitto invece che a una cooperazione con gli altri. Attraverso la ragione l’uomo si fa soggetto e artefice di se stesso e di un se stesso con gli altri che appaga la sua natura umana al di là dei legittimi sentimenti e dei possibili errori. «Non vi è infatti altro che il desiderio, il rimpianto e il pentimento», scriveva Descartes nel 1645, «che possano impedirci di essere contenti; se noi invece facciamo tutto quello che ci detta la nostra ragione, non avremo mai alcun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti dovessero farci vedere che ci siamo sbagliati, poiché ciò non sarebbe per colpa nostra»23. La ragione economica e i sacerdoti che se ne fanno testimoni, invece, affermano la visione di un uomo che, in virtù della «limitatezza costitutiva della sua conoscenza», nonché dell’incapacità di comprendere la complessità della realtà sociale, deve abbandonare il «culto rivoluzionario» della ragione. Quello che, per esempio secondo Hayek, spingeva i rivoluzionari francesi, i marxisti e i filosofi razionalisti in genere a pensare che la società fosse una «creazione consapevole dell’uomo», e non il frutto di un’evoluzione spontanea guidata da istituzioni emerse in maniera perfettamente naturale (il mercato su tutte)24. L’individuo consapevole dei propri limiti, che ha ben chiaro di conoscere soltanto l’ambito ristretto dei suoi scopi e interessi, ignorando quelli di tutti gli altri, deve lasciare che sia l’ordine spontaneo prodotto dal mercato autoregolantesi (attraverso il meccanismo impersonale e 101

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numerico dei prezzi), a costruire in maniera evolutiva la società migliore e più libera per tutti gli uomini25. L’unica che può consentire effettivamente a ciascuno di perseguire i propri scopi e interessi nella massima libertà. Questo poiché la libertà non è il frutto di un «disegno» della ragione umana, e la società libera non funziona seguendo i suoi dettami26. Il frutto del peccato a cui l’uomo non deve cedere, pena l’estromissione dal giardino del Dio cattivo, riguarda l’abuso della sua ragione. Ossia la convinzione presuntuosa di costruire la società umana secondo i dettami di una ragione anch’essa umana e per ciò inadeguata, che pretende di sostituire con le proprie costruzioni il naturale ordine spontaneo assicurato dal mercato. Se il mondo umano è quello del «pensiero meditante», in cui l’uomo svolge il ruolo di soggetto attivo nella costruzione di un ordine personale e sociale proteso al suo benessere e sviluppo, l’ordine valoriale imposto dal Dio cattivo è quello che Martin Heidegger definiva del «pensiero calcolante»: «il mondo appare come un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali, si ritiene, nulla è più in grado di opporsi, mentre la natura si trasforma in un unico gigantesco serbatoio di energia al servizio dell’industria e della tecnica». Il risultato è un pensiero che non sa esprimersi se non in termini efficientistici, che procede attraverso una logica numerica incapace di forza critica. Privato di queste possibilità, scriveva Heidegger, il nostro è «tempo di carenza», abitato e dominato da «un ospite inquietante che si insinua dappertutto: l’assenza di pensiero»27. L’eclissi della ragione come facoltà specifica dell’essere umano non può che portare con sé l’eclissi dell’umano stesso, che spogliato della propria facoltà di pensare finisce con il perdere, insieme ad essa, anche la facoltà di elaborare una resistenza al meccanismo che lo 102

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sta ingabbiando. Lo sapeva bene il sociologo ­Horkheimer che nel 1947 si esprimeva in questi termini: Se la società moderna tende a negare tutti gli attributi dell’individualità, i suoi membri non trovano forse una compensazione nella razionalità della sua organizzazione? [...] La graduale sparizione del pensiero e della resistenza individuali, determinata dal meccanismo economico e culturale del moderno industrialismo, renderà sempre più difficoltosa l’evoluzione verso l’umano28.

Ben lungi dallo svolgere il ruolo di artefice e soggetto, innanzitutto dei propri pensieri e valori su cui fondare la costruzione di una società a misura d’uomo, l’essere umano si ritrova piuttosto ridotto al rango inferiore di strumento di una ragione superiore. Che non ha pensieri per lui, se non nella misura in cui egli si rivela utilizzabile e funzionale. Fine della ragione politica L’essere umano in grado di esercitare un uso sano e corretto del proprio logos (pensiero, discorso, studio) è quello che inevitabilmente si riconosce anche come prodotto del dia-logos, e all’interno di questo inserito. Non esiste elaborazione di un pensiero, né articolazione di un discorso o analisi di una qualsiasi situazione in cui l’individuo non si trovi radicato all’interno di un sistema di relazioni. Questa relazione originaria con «l’altro da sé» è strumentale se si parla di cose e oggetti, ma, almeno in teoria, perfettamente paritetica se riguarda il rapporto con altri esseri umani. Ogni prodotto del nostro logos non solo non avrebbe senso in mancanza di altre persone con cui relazionarlo, ma non potrebbe neppure originarsi poiché il logos non genera dal nulla. Ogni pensiero nasce da altri 103

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pensieri e da pensieri di altri, per poi evolversi o estinguersi nella misura in cui entra in relazione con quelli. Non soltanto il nostro logos, ma tutta la nostra personalità non avrebbe senso, né modo e maniera di esercitarsi, in assenza di una relazione con altre personalità che renda possibile il reciproco riconoscimento. Ciò è vero al punto che, per esempio, lo psicologo Erik Erikson sosteneva che la nostra identità individuale non può essere acquisita in relazione a noi stessi29. Qui risiede l’essenza dell’uomo come «animale politico», colui che, non necessariamente legato agli altri da sentimenti di benevolenza, è comunque vincolato a rapportarsi con loro per trovare conferma dei suoi identità e ruolo nel macrocosmo dell’esistenza e nel microcosmo della società. L’essere umano che esercita un uso sano e corretto del proprio logos è quello che pensa, dialoga e agisce tenendo in considerazione anche gli altri oltre se stesso, i pensieri, la dignità e gli interessi delle persone con cui si trova a condividere una cittadinanza. Ma questo, appunto, vale per l’uomo come «animale politico», non vale per l’homo œconomicus, secondo il pensiero dei grandi teorici del liberismo. «L’uomo economico non è un animale sociale», scriveva nel 1935 Frank Knight, tra i fondatori della Scuola di Chicago, economista venerato da Friedrich Hayek, aggiungendo che «l’individualismo economico esclude la società nel senso propriamente umano del termine». Nella sua visione: I rapporti economici sono impersonali [...]. È il mercato, la possibilità di scambio, ad essere funzionalmente reale, non gli altri esseri umani. Questi non sono neppure strumenti per l’azione. Non si tratta di un rapporto di cooperazione né di reciproco sfruttamento, ma di un rapporto completamente non morale, non umano [...]. L’uomo economico non prova emozioni30!

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L’uomo che opera all’interno del mercato, insomma, non deve considerare di avere a che fare con suoi simili, ma soltanto con meccanismi impersonali che riguardano la domanda e l’offerta. Il miraggio della giustizia sociale Se i meccanismi e le dinamiche del mercato si estendono a tutta la dimensione umana, vincolandola agli scopi e al sistema di valore del mercato stesso, come nelle intenzioni dei liberisti puri, la stessa società diventa un agone dei particolarismi dove non c’è spazio per alcun tipo di giustizia sociale. Quest’ultima emerge, infatti, qualora si consideri la società non come semplice contenitore di individualismi in competizione, ma come consesso umano all’interno del quale la difesa dei più deboli e la garanzia di quella che il filosofo americano John Rawls chiamava un’«equa uguaglianza delle opportunità» sono visti come elementi imprescindibili per assicurare il buon funzionamento della società nel suo complesso, ma anche e perfino dell’attività economica. Siamo di fronte a ciò che Rawls concettualizzava in termini di «giustizia come equità», volendo comprendere in essa tanto l’aspetto della libertà (più vicino alla ragione economica e competitiva) quanto quello della giustizia (più pertinente alla dimensione politica e associativa). Non è un caso che i due concetti che Rawls pone alla base della giustizia intesa come equità siano la «società ben ordinata» e la «persona morale», poiché solo tenendoli entrambi ben presenti si può tendere al tempo stesso a una «società libera» e a «cittadini uguali»31. Ed è qui che intervengono lo Stato e la ragione politica. Proprio perché i sentimenti naturali dell’essere umano nei confronti dei suoi simili non sono necessariamente benevoli, l’uomo politico è colui che è consapevole di dover 105

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ideare e costruire, a seconda dei contesti, un sistema sociale che garantisca la potenziale realizzazione dei bisogni e desideri individuali, ma anche la convivenza civile e pacifica all’interno della collettività. A tutto ciò, sul piano più generale, occorre aggiungere un sistema di funzionamento e di rete sociale tale per cui venga garantita la massima assistenza a coloro che rimangono indietro o si ritrovano sconfitti dal meccanismo competitivo, che riguarda non solo il mercato ma anche il fisiologico entrare in competizione degli esseri umani. Non è però questo l’intendimento di quei pensatori che vedono nella società lo scenario di una selezione naturale darwiniana degli interessi: secondo loro i problemi comincerebbero quando un governo, partendo dal falso assunto per cui ogni sofferenza sociale può essere rimossa, finisca per estendere il suo potere di intervento a tutti quegli ambiti (a cominciare da quello economico) in cui dovesse intravedere un’ingiustizia32. E dire che la giustizia sociale si declina nell’interesse del sistema produttivo, non solo perché – come dimostrano molti studi a cui facciamo riferimento – al crescere della disuguaglianza aumenta il rischio di crisi economiche e conflitti sociali, ma soprattutto perché l’aumentare del benessere diffuso tra la popolazione porta come conseguenza un maggiore potere di acquisto, con conseguente incremento dei profitti per tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nel meccanismo della produzione33. Una ragione politica che operi in vista della giustizia sociale è rivolta al benessere dell’intera società e rispecchia una saggezza antica, già espressa dalle parole di Cicerone, per il quale il concetto stesso di giustizia era legato a quello di pubblica utilità e di sopravvivenza del consesso umano in quanto tale: «Un solo proposito deve accomunare tutti quanti: che l’utile di ciascuno coincida con quello di tutti, perché se ognuno se lo 106

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riserverà solo per sé, tutto il consorzio umano andrà in frantumi»34. Una concezione ben lontana da quella che Richard Sennett ha definito essere la «cultura del nuovo capitalismo». «La disuguaglianza», ha scritto il sociologo inglese, «è divenuta il tallone di Achille dell’economia moderna». Con il benestare di una politica sottomessa e indifferente, l’economia coniuga indissolubilmente le fortissime differenze di ricchezza e una crescente disuguaglianza sociale. Gli economisti più avvertiti, come Geoffrey Ingham, mettono in guardia rispetto al fatto che «non esistono ragioni per respingere la possibilità che la crescente disuguaglianza del capitalismo globale possa riaccendere le classiche contrapposizioni all’interno del capitalismo»35. Ciò renderebbe auspicabile il prevalere della ragione politica, nel suo compito di governare, guidare ed eventualmente correggere i risultati della competizione economica. Dalla consapevolezza che il motivo originario per cui gli uomini si uniscono in società riguarda lo sviluppo e il benessere dell’uomo stesso – rispetto al quale la crescita numerica (profitto) e il progresso tecnologico sono dei mezzi, non il fine –, scaturirebbe la giustizia sociale non solo, e non tanto, alla stregua di un’istanza etica o morale, ma come un ideale regolativo da perseguire costantemente in vista dello scopo principale: una società quanto più possibile libera e giusta, all’interno della quale il conflitto distruttivo fra gli individui e gli interessi di ciascuno sia contenuto. Tuttavia, a prevalere oggi non è la ragione politica, bensì quella economica, che considera la giustizia sociale un miraggio o un ideale totalmente illusorio, poiché all’interno di un sistema fondato sulla libera impresa (quindi sulla proprietà e sui beni ereditari) è scontato che i risultati, come anche le opportunità tra i cittadini, siano estremamente diversi. 107

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Pretendere di forzare tale meccanismo, imponendo la giustizia sociale per via governativa, implicherebbe un intervento invasivo e capillare, raffigurato come un incubo36. Tutto questo è ancora più vero all’interno di un sistema produttivo che si è fortemente modificato, e che vede al proprio centro non più prodotti materiali, ma flussi di denaro e prodotti immateriali e virtuali (informazioni, servizi ecc.)37. È necessario che ogni individuo resti concentrato solo su se stesso, sui propri interessi e su quanto deve compiere per raggiungere il maggior profitto personale. In assenza di qualsivoglia dimensione collettiva e sociale. Perché a pensarci bene, sosteneva nel 1949 l’economista Ludwig von Mises, la società stessa in quanto entità collettiva non esiste: «Tutte le azioni sono compiute da individui. Un’entità collettiva opera sempre attraverso l’intermediazione di uno o più individui, le cui azioni sono collegate all’entità collettiva stessa come a una fonte secondaria». A fronte di tali considerazioni, la scuola liberista conclude che: l’alternativa non è fra un meccanismo morto, un rigido automatismo, da una parte, e una pianificazione conscia dall’altra [...]. La questione non è automatismo contro azione consapevole, ma azione autonoma di ogni singolo individuo contro l’azione esclusiva del governo. Il punto è libertà contro governo onnipotente38.

Volendolo spiegare in termini strettamente filosofici, possiamo dire che la ragione politica è mossa da una visione lineare del tempo, quella per cui all’essere umano spetta il compito di costruire gradualmente il miglioramento della società in cui si trova a vivere e operare, partendo da una situazione problematica e contraddit108

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toria per giungere a soluzioni risolutive, seppure mai definitive. Questa visione, in ambiti e con prospettive differenti, appartiene o è appartenuta alla religione cristiana – si pensi al peccato, al percorso di redenzione della vita terrena, alla salvezza finale nel Regno dei cieli –, alla religione umana dell’Illuminismo – il progresso illimitato della ragione e della scienza – e alla religione politica del marxismo – che prevede il passaggio dallo sfruttamento della società capitalista all’emancipazione totale della società senza classi, passando attraverso un processo di coscienza di classe e rivoluzione. La giustizia (divina, umana o politica) sarebbe dunque l’obiettivo finale di un percorso lineare che avviene nel tempo. E che in tutti i casi assegna all’essere umano un ruolo di soggetto attivo della Storia. Egli infatti può agire – pregare, conoscere o fare la rivoluzione – per modificare lo stato delle cose e costruire un esito diverso. E del resto: «Il “giudizio finale” [...] è la rivoluzione come se l’aspetta anche l’operaio socialista, soltanto pensata un po’ più lontana», scriveva Nietzsche39. La religione economica, invece, si fonda sulla cosiddetta visione circolare del tempo, appartenuta allo stesso Nietzsche e prima ancora agli Stoici. Stando a questa concezione, il tempo umano è un meccanismo circolare, in cui ogni cosa è destinata a ripetersi all’infinito e secondo un disegno imperscrutabile e immodificabile che toglie alla vita quel significato che l’uomo si ostina a volervi cercare, pensando di esserne il centro. Si chiedeva Nietzsche: Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come ora tu la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni

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piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente cosa piccola della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»40.

Questo e nulla più è l’uomo: un granello di polvere; inserito in un meccanismo di cui non costituisce che un semplice ingranaggio, si comporta secondo quanto stabilito da una necessità superiore41. All’interno di questa visione, l’uomo saggio e fornito di ragione deve accettare la supremazia del fato e rassegnarsi al pensiero che il divenire è comunque innocente, anche quando produce la supremazia dei più forti e l’estinzione dei più deboli. O laddove, ai più vari livelli, contempla un mondo umano e naturale regolato secondo il criterio di una gerarchia inemendabile: «La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario – tutto l’idealismo è una continua menzogna di fronte al necessario – ma amarlo...»42. Va da sé che, stando le cose in questo modo, ogni idea di giustizia sociale si rivela un miraggio, come il folle abuso di una ragione umana e politica che invece, secondo i sostenitori di tale visione, dovrebbe affidarsi e rassegnarsi agli esiti imprevedibili e immodificabili del fato economico. Certamente non mancheranno le vittime, ma ci sarebbero state comunque e, almeno, si sarà garantita la massima libertà per tutti gli individui di dedicarsi all’unico obiettivo possibile: il perseguimento dei propri interessi.

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il difficile equilibrio tra Democrazia e libertà Nell’uomo sono presenti caratteristiche contrapposte: l’equilibrio tra queste varia da individuo a individuo, e può naturalmente modificarsi a seconda del periodo storico ed esistenziale come anche del contesto ambientale. Se in generale l’essere umano è mosso da sentimenti di egoismo, invidia e volontà di prevaricazione del più debole, allo stesso tempo manifesta altri comportamenti, che lo inducono alla socializzazione, alla cooperazione, alla solidarietà e perfino a provare compassione verso i simili. Ciò che accomuna queste due correnti contrastanti all’interno del fiume umano è l’inevitabilità della relazione: che sia mosso da sentimenti positivi o negativi, l’uomo entra necessariamente in rapporto con altri individui, con altri volti. Si tratta di una condizione che trascende e precede ogni altra forma dell’umano agire e interagire, arrivando a costituirsi come essenza della società e fondamento imprescindibile di qualunque altra relazione: «Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, è riconducibile alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza alcuna intermediazione di immagini o segni, per la sola espressione del volto», scriveva il filosofo cristiano ­Levinas43. Ciò rende possibile un riconoscimento reciproco, attraverso il quale ciascuno acquisisce consapevolezza della propria identità e del ruolo nella società e nel sistema di relazioni in genere. In tal senso ogni individuo è il frutto anche di queste relazioni instaurate nel microcontesto familiare e nel macrocontesto sociale. Da questo punto di vista risulta astratta e irrealistica la visione dell’individualismo metodologico proclamata dall’ideologia liberista, secondo la quale esistono soltanto i singoli mossi dal perseguimento dei propri scopi e 111

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interessi. Piuttosto, non solo ogni individuo (le sue idee, i suoi progetti, la sua cultura in senso lato) è il frutto del contesto micro e macrosociale in cui si trova ad agire, ma egli deve anche tener conto di quel contesto, nella misura in cui esso costituisce il terreno comune su cui le azioni di ciascuno vengono riconosciute dagli altri all’interno di una dimensione relazionale che le fornisce di senso. Alla fine della seconda guerra mondiale il sociologo dell’economia Karl Polanyi scriveva: La stessa economia dell’uomo è, di regola, immersa nelle sue relazioni sociali. Egli non agisce in modo da salvaguardare il proprio interesse individuale con il possesso di beni materiali; egli agisce in modo da tutelare la propria posizione sociale, le sue aspirazioni sociali, l’approvazione che riceve nella società. Egli valuta i beni materiali solo nella misura in cui servono a questo fine. Né il processo di produzione né quello di distribuzione sono collegati a interessi economici specifici che riguardano il possesso di beni. Bensì, ogni singola fase di questo processo è collegata a una quantità di interessi sociali che eventualmente assicurano che il passaggio desiderato sia ottenuto. Tali interessi saranno molto diversi in una piccola comunità di caccia o di pesca da quelli di una vasta società dispotica, ma in entrambi i casi il sistema economico sarà gestito su motivazioni non economiche44.

Qui risiede il senso della politica intesa come attività in cui gli uomini si impegnano per migliorare la loro posizione e reputazione, all’interno di un meccanismo in cui libertà individuale e libertà sociale non sono scindibili, se non al prezzo di sacrificare una delle due e quindi, alla fine, entrambe. Se, infatti, si garantisce esclusivamente la libertà individuale – ritenendo che quella sociale verrà di conseguenza, come pensano i sacerdoti del liberismo –, il risultato sarà un contesto collettivo ingiusto e squilibrato, dove a predominare sono i più forti a spese dei 112

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deboli. Se ci si limita a tutelare solamente un’astratta libertà collettiva, d’altra parte, si rischia di generare un sistema illiberale, proclamando principi generici che non trovano applicazione nelle vite concrete delle persone. Vite che, in un caso siffatto, possono trovarsi in balia di un sistema teoricamente collettivistico ma all’atto pratico totalitario. La libertà individuale non ha senso se non viene quanto più possibile universalizzata (cioè concepita entro una rete di limitazioni e protezioni tale da essere garantita al più alto numero di persone), almeno nella stessa misura in cui la libertà sociale deve essere declinata individualmente (cioè elaborata in maniera tale da essere resa effettiva per le vite dei singoli individui in carne e ossa)45. È difficilmente negabile che, nella ricerca di un equilibrio tra queste due esigenze contrapposte (ed entrambe insufficienti), la democrazia occidentale contemporanea, seppure non aliena da storture e contraddizioni, si è rivelata la forma di società e di governo migliore al fine di realizzare un consesso umano dove fossero garantite tanto la libertà individuale quanto quella sociale. Principio fondante della democrazia occidentale nel conseguimento di tale risultato è stato quello di «limite», già a partire da quando la democrazia ancora non esisteva, come nel caso della pace di Vestfalia (1648), evento che ha posto fine ai grandi conflitti religiosi e di potenza limitando i confini dell’identità e dell’influenza nazionali. Successivamente il governo e il parlamento democraticamente eletto (con tutte le difficoltà e lungaggini che si sono frapposte al raggiungimento del suffragio universale) hanno limitato la libertà individuale e i poteri non democratici (economici, religiosi ecc.), mentre il diritto e la legge, come realtà collettive che sopravanzano i singoli, hanno limitato la libertà d’azione di questi ultimi impedendo che i più forti subordinassero sempre e comunque i più deboli. 113

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La misura che ha bilanciato gli interessi individuali e delle singole corporazioni con il benessere collettivo è stata quella che in senso lato possiamo definire «politica», che già per Platone rappresentava la tecnica sovrana in grado di guidare e tenere uniti i diversi organi ed elementi del tessuto sociale, garantendo la realizzazione di uno «Stato felice» attraverso il governo di tutte le altre tecniche, che «invece devono eseguire gli ordini»46. Possiamo dire che la democrazia occidentale si è caratterizzata per una serie di istituzioni intermedie, fra cui il parlamento e i sindacati dei lavoratori (per un periodo significativo limite efficace alle brame del potere finanziario), che hanno garantito un bilanciamento dei rapporti tra i vari soggetti, a cominciare dai due estremi della catena sociale (lavoratori e industriali) fino a quelli della catena politica (popolo e governo). Con il passare del tempo, però, e con l’evolversi della democrazia verso l’estensione universale del diritto di voto, essa ha finito con il dotarsi di un’ulteriore caratteristica imprescindibile: un’opinione pubblica critica e attiva, in cui cittadini mediamente informati e impegnati sono forniti di un pensiero autonomo e critico con cui controllare l’operato del governo democraticamente eletto, per valutare se confermargli o negargli la fiducia in occasione della tornata elettorale successiva. Il territorio definito e limitato, un governo politico democraticamente eletto tenuto a rispondere ai cittadini/elettori, la ragione politica dei cittadini istruita e formata dalle istituzioni culturali pubbliche e private, a partire dalla scuola, hanno rappresentato i pilastri della democrazia occidentale almeno fino al 1989. Una democrazia siffatta ha potuto ergersi a garante della libertà politica, per definizione rivolta al più alto numero possibile di cittadini, somma e intreccio di libertà individuale e sociale, nella consapevolezza che l’individuo concentrato esclusivamente sul soddisfacimento dei pro114

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pri interessi è irrealistico e deleterio almeno quanto una società che non tutela le libertà individuali è iniqua e foriera di immani tragedie. A partire dagli anni settanta del Novecento le élite finanziarie e politiche hanno reagito per smantellare questo sistema di partecipazione democratica. Le prime avvisaglie si possono scorgere nel rapporto della Commissione Trilaterale47 sulla «governabilità delle democrazie» (1975), intitolato The Crisis of Democracy. Concepito per esercitare un’influenza determinante sul mondo economicamente e politicamente più sviluppato, vi si legge chiaramente che: le operazioni efficaci di un sistema politico democratico richiedono usualmente un certo grado di apatia e disimpegno da parte di alcuni individui e gruppi. In passato ogni società aveva visto una parte marginale della popolazione, più o meno ampia, che non partecipava attivamente alle questioni politiche. Presa in sé, questa marginalità da parte di alcuni gruppi è intrinsecamente non democratica, ma ha rappresentato anche uno dei fattori che hanno permesso alla democrazia di funzionare con efficacia. I gruppi sociali marginali, come nel caso dei neri, stanno nel nostro tempo diventando dei partecipanti a pieno titolo del sistema politico. Tuttavia permane il pericolo di sovraccaricare il sistema politico con richieste che estendono le sue funzioni e sminuiscono ulteriormente la sua autorità. La minore emarginazione di alcuni gruppi, quindi, deve essere rimpiazzata da una maggiore autolimitazione di tutti i gruppi.

A detta degli illustri autori del rapporto il pericolo impellente per la democrazia consisteva in un eccesso di partecipazione all’interno di una società «altamente istruita, mobilitata e attiva». Se negli anni fra le due guerre mondiali si era usciti dalla grande crisi economica, di fatto salvando le democrazie occidentali, ponendo dei limiti alla libertà 115

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del mercato, con l’ultimo trentennio del XX secolo (in cui stava tornando predominante la concezione liberista) si intendeva «porre dei limiti all’estensione indefinita della democrazia politica»48. Intenzione per larga parte riuscita, visto che a distanza di oltre quarant’anni dal rapporto della Commissione Trilaterale ci ritroviamo a vivere in una società che ha riaperto i confini dello sviluppo economico e della ricerca di profitto individuale, a fronte di una forte contrazione sul piano della democrazia politica e della giustizia sociale. Libertà individuale e libertà sociale, all’interno del quadro democratico in cui l’Occidente ha prosperato fino agli ultimi decenni del XX secolo, si erano limitate vicendevolmente senza permettere che una prendesse il sopravvento sull’altra. La nostra è l’epoca in cui, attraverso la sua teologia neoliberista, il Dio cattivo è riuscito a riconfigurare tanto il sistema valoriale e pratico della libertà individuale quanto quello della libertà sociale. Innanzitutto separandole e dipingendole come antitetiche, quindi riducendo ai minimi termini il ruolo di quella misura (la politica) che le faceva interagire virtuosamente e limitare reciprocamente. Il mondo globale riconfigurato dalla dogmatica finanziaria ha prodotto una costellazione postnazionale che di fatto, e in misura sempre maggiore, sta creando un super-governo finanziario in grado di imporre l’agenda ai governi nazionali più o meno democraticamente eletti. Come? Attraverso apparati burocratici sovranazionali (Fmi, Banca mondiale, Ocse ecc.) le cui sfere dirigenti non devono rispondere ad alcuna popolazione dato che non sono state elette, e per questo operano meccanicamente secondo il verbo liberista, malgrado i loro gravi e ripetuti fallimenti degli ultimi decenni li abbiano resi odiosi alla grande parte del consesso mondiale. Nel 116

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2006 il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha scritto che: Nel corso dei due secoli passati le democrazie hanno imparato come moderare gli eccessi del capitalismo: a incanalare il potere del Mercato in modo che vi fossero più vincitori e meno sconfitti. I benefici di questo processo sono stati considerevoli, aumentando di parecchio e in maniera sorprendente il tenore di vita del Primo Mondo, come non sarebbe stato neppure concepibile nell’Ottocento. A livello internazionale, invece, non siamo riusciti a sviluppare quelle istituzioni politiche democratiche che sono necessarie se si vuole far funzionare la globalizzazione, assicurando che il potere dell’economia globale di mercato conduca a un miglioramento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione mondiale, e non soltanto dei più ricchi nei paesi benestanti49.

Il vero governo del mondo globale è invisibile, indefinito, non territoriale e non eletto dalla volontà popolare: è composto da istituzioni e personaggi imbevuti di ideologia liberista, la quale ha sempre coltivato la pretesa di essere autonoma dalla politica e dalla società, proponendosi di regolare le dinamiche di tali istituzioni. Questa sorta di super-governo opera attraverso una duplice articolazione: da una parte le istituzioni finanziarie e sovranazionali di cui abbiamo appena detto, che si arrogano il potere di stabilire parametri e scopi a cui i governi nazionali devono rigorosamente attenersi, pena l’esclusione dal consesso di quegli Stati tutelati a cui vengono garantiti protezione e finanziamenti. Dall’altra parte le grandi società dell’industria informatica (Google, Apple, Facebook, Amazon ecc.), che riescono a monitorare e dirigere le scelte e le azioni di milioni di individui in ogni parte del globo e in ogni ambito della vita50. Ne emerge un sistema di potere in grado di prendere decisioni che influiscono sull’ambiente, sulle idee e 117

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sui valori dominanti, sulle leggi, sulla politica, in definitiva sull’esistenza di milioni di persone senza che i cittadini possano controllarlo e soprattutto senza dover rendere conto a nessuno. Quando, in realtà, come ci ricorda Stiglitz: la trasparenza è ancora più importante in istituzioni pubbliche come l’Fmi, la Banca Mondiale e il Wto, perché i loro leader non sono eletti direttamente dai cittadini. Pur essendo istituzioni pubbliche, non hanno un dovere diretto di responsabilità verso il pubblico. Sebbene questo fatto dovrebbe comportare che tali istituzioni siano ancora più aperte, di fatto esse sono ancora meno trasparenti51.

È significativo che Samuel P. Huntington, consulente del presidente americano Jimmy Carter, politologo ed esperto di relazioni internazionali, abbia affermato che il potere «resta forte finché rimane nel buio. Esposto alla luce del sole comincia a evaporare»52. I governi, le leggi, l’educazione, l’informazione e in generale tutte le istituzioni in grado di svolgere una funzione mediana fra i cittadini e il potere (che oggi è innanzitutto finanziario), vengono ridefiniti o disinnescati affinché si sottomettano al ruolo di promotori ed esecutori della logica di mercato e degli interessi finanziari. Nella galassia neoliberista del mondo globalizzato i popoli di fatto non nominano, non possono controllare né, meno che mai, destituire coloro che esercitano il potere effettivo. Questi ultimi si configurano alla stregua di agenti del governo finanziario internazionale, che si esprimono in un linguaggio unidirezionale: i loro dogmi giungono ai governi e ai popoli senza che la voce di questi ultimi possa chiedere di modificare quelle politiche ispirate al «fondamentalismo del mercato»53 che stanno producendo una riduzione della democrazia e un aumento esasperato della disuguaglianza sociale. 118

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Il modello democratico mai completamente realizzato e realizzabile, pur con tutti i suoi difetti è stato in grado di garantire una ragionevole libertà politica. Ossia un tipo di libertà che, dovendo conciliare gli interessi individuali con quelli della società, limitava, attraverso una serie di norme e istituzioni tanto il potere del governo politico quanto gli appetiti degli attori economici, senza che alcuno dei due prendesse il sopravvento sull’altro. Il suo regno è stato il regno della misura. Mentre in quel contesto i cittadini democratici, pensando e agendo in modo autonomo e critico, contribuivano allo sviluppo della democrazia stessa, nell’odierna società ottusa gli individui/atomi, ridotti a passivi esecutori dei dogmi e dei bisogni artificiali indotti dal mercato, finiscono con l’incrementare soltanto il potere di quest’ultimo. Alla misura della libertà politica si è sostituita l’illimitatezza di una libertà economica che non conosce confini territoriali, giuridici, morali e sociali. Alla democrazia (idealmente potere del popolo) si è sostituita una timocrazia o plutocrazia (potere della ricchezza e del denaro): a un sistema formato da persone e almeno teoricamente volto allo sviluppo delle stesse, è subentrato un sistema di potere governato dalla finanza e dai suoi numeri, che funziona solo in vista della produzione e del possesso illimitati di profitto e denaro. «Esiste una forma assunta dal capitale, che permette l’accumulazione senza limiti: è la forma denaro», scrive David Harvey54. È però evidente che, a queste condizioni, si tratta di un’accumulazione infinita di capitale che non viene costruita dagli uomini e per gli uomini, ma da loro subita55. Quello stesso denaro che si rivela l’unico metro con cui misurare il valore e l’influenza delle persone, come di tutte le cose e azioni che riguardano il mondo umano. Ma anche l’unico vero parametro e obiettivo con cui e in vista di cui si pre119

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tende di istruire, educare e formare gli individui del nostro tempo. Il capitale disumano Ogni uomo è un capitale. Un capitale di idee, esperienze, emozioni e conoscenze. In senso lato possiamo affermare che è un capitale di cultura, frutto di molteplici fattori ed esperienze. E certamente ogni essere umano tende per natura a scambiare con i simili quel bagaglio di cultura, poiché ognuno assurge al ruolo di persona nel momento in cui è riconosciuto dagli altri, e questo riconoscimento avviene in virtù delle sue peculiarità. Ogni individuo nel corso della sua esistenza lavora per arricchire e affinare il proprio bagaglio teorico ed esperienziale, per poi farlo interagire con quello dei suoi simili. E questo avviene sia a livello razionale che affettivo. Quanto più e meglio l’essere umano riesce a progredire in questo affinamento, tanto più aumenterà il valore delle «merci» (idee, sentimenti, esperienze, affettività, competenze ecc.) che scambierà con gli altri. Il capitale umano è rappresentato da questo ampio ventaglio di peculiarità. Il mercato in cui esso opera si chiama «umanità» e funziona secondo le modalità tipiche dell’essere umano e in vista di obiettivi che sono specificamente umani. Al suo interno l’uomo svolge il ruolo di soggetto agente e di bene primario verso cui deve tendere ogni agire sociale. Certo, si tratta di un ideale mai realizzato né mai completamente realizzabile, ma che è stato almeno perseguito in alcune zone geografiche e in certi contesti storici. Di certo, nell’Occidente più benestante, almeno a partire dalla seconda guerra mondiale e fino agli anni settanta del secolo scorso. 120

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Il ritorno incontrastato dell’ideologia neoliberista ha gradualmente, e inesorabilmente, imposto la sua teologia secondo cui il mercato è una sorta di divinità autoregolantesi e declinata soltanto in senso finanziario, al cui interno gli individui si comportano come agenzie economiche, imprese egoistiche che, in costante competizione fra loro, orientano la propria esistenza in vista della massimizzazione dei profitti monetari, a discapito gli uni degli altri56. Si parte quindi da una visione ristretta dell’essere umano, inteso solo come homo œcono­micus, il cui capitale posseduto (la forza lavoro) o da possedere (il profitto) attiene alla sola sfera economica. Nelle parole di John Stuart Mill, quella presupposta dall’economia politica è «una definizione arbitraria dell’uomo» come «di un essere che invariabilmente agisce in maniera da riuscire a possedere la massima quantità di cose necessarie, convenienti e lussuose, a fronte della più piccola quantità di lavoro e di sacrificio fisico con cui esse possono essere ottenute allo stato attuale della conoscenza»57. Questo modo di considerare l’essere umano rischia di condurre a un suo snaturamento, a una mutazione antropologica destinata a esercitare pesanti ripercussioni sui canoni stessi con cui abbiamo distinto ciò che è umano da ciò che è dis-umano o in-umano. Del resto già Platone faceva notare come gli uomini «tanto più conferiscono valore al denaro, quanto più disprezzano la virtù». Perché virtù (aretè) e ricchezza (plou˜tos) sono come i due piatti di una bilancia. E anche nel suo allievo Aristotele l’attività commerciale, a differenza dell’economia domestica (finalizzata esclusivamente al fabbisogno), suscitava riprovazione in quanto «contro natura» e «praticata dagli uni contro gli altri»58. Non si tratta di aderire a una visione idealistica e irenica dell’essere umano, né di voler regredire a un anacronistico e improbabile «bel tempo che fu», bensì di comprendere che la riduzione dell’uomo a soggetto 121

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totus œconomicus, pervaso da un’indole competitiva e accumulativa, non solo non corrisponde all’intera gamma della sua complessità e ricchezza, ma rischia di porre le basi per un mondo in cui egoismo e conflitto sociale la faranno sempre più da padroni. E ciò a discapito non solo dei talenti dei singoli individui che abitano il pianeta, ma del mercato stesso. Così facendo, infatti, esso viene ridotto a un agone in cui la massimizzazione dei rischi mette a repentaglio il suo funzionamento, innalzandolo al ruolo improprio di principio regolatore del mondo umano, quando in realtà ne costituisce un prodotto che dovrebbe essere al suo servizio. Si può individuare una data precisa che simboleggia l’inizio dell’eccessiva deregolamentazione e trasfigurazione del mercato: il 12 novembre 1999. Quel giorno, dopo anni di pressioni da parte dei poteri finanziari e delle banche, il governo statunitense approvava il Gramm-Leach-Bliley Act, ossia la legge sulla modernizzazione dei servizi finanziari. Esso deregolamentava il settore in merito a due aspetti fondamentali: da una parte eliminava la separazione fra banche commerciali (che prestano denaro) e banche di investimento (che curano la vendita di obbligazioni e azioni); dall’altra consentiva ai funzionari delle banche commerciali, incaricati di gestire i capitali dei comuni cittadini, di intraprendere attività rischiose come quelle delle banche di investimento, il cui obiettivo principale è massimizzare gli introiti di chi è già ricco. A fronte degli elevatissimi rischi innalzati a dogma e della spregiudicatezza finanziaria ormai legalizzata, nel giro di soli tre anni le banche di investimento arrivarono a far registrare un rapporto di indebitamento di 29 a 1, mentre nel 2004 alcune si spinsero fino a un rapporto di indebitamento di 40 a 1, ponendo le basi per quella clamorosa bolla finanziaria che, a partire dal 2008, avrebbe condotto a una devastante crisi economica da cui non 122

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siamo ancora usciti. A farne le spese sono stati i più deboli, compresi molti cittadini le cui tasse sono state utilizzate dai governi per salvare le banche dal tracollo, in barba ai fondamenti del liberismo che postulano il non intervento dello Stato nelle faccende economiche. Checché se ne possa dire e pensare, non vi possono essere dubbi sul fatto che «l’economia mondiale odierna è il prodotto di decisioni esplicite che i governi hanno preso nel passato», come scrive l’economista Dani Rodrik59, naturalmente sotto dettatura dell’unico potere che ha scalzato quello della politica: il potere finanziario. La politica del nostro tempo, subordinata a tale potere e alla sua ideologia totalizzante, immemore dei disastri del 1929, ha spianato la strada a un ritorno prepotente della dogmatica neoliberista, creando le condizioni per l’affermarsi di meccanismi economici che, lungi dall’essere al servizio del mondo umano, gli impongono l’imperativo categorico di un’esistenza degna di essere vissuta solo nella misura in cui genera profitto. Idee, sentimenti, esperienze, istruzione, piacere e divertimento, praticamente ogni dimensione che connota l’umanità in quanto tale risulta ridotta, o comunque indirizzata a creare individui votati a uno scopo che non soltanto è loro estraneo, ma in vista del quale vengono spesso ridotti a mezzi in vista del profitto. Così, secondo la dogmatica neoliberista, umanità e società sono concetti universali e astratti che non trovano alcuna corrispondenza nella realtà. Il mondo del Dio cattivo deve essere popolato da individui egoisti ed ego-riferiti che, esattamente come fanno le aziende, sono pronti (e giustificati) a ignorare o scavalcare la legge, a minare il bene comune e a calpestare la propria dignità, come anche gli altri esseri umani, in nome dei suoi valori e principi supremi. E dire che Keynes, le cui idee guidarono l’uscita dalla grande crisi del 1929, aveva già messo in guardia a 123

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suo tempo l’umanità da questa degenerazione ideologica e antropologica: Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più una così alta rilevanza sociale, avverranno grandi cambiamenti nel codice morale. Saremo capaci di liberarci da molti dei principi pseudo-morali che ci hanno superstiziosamente stregati per due secoli, in nome dei quali abbiamo innalzato alcune delle più disgustose caratteristiche umane al livello delle virtù più elevate. Dovremo essere in grado di assegnare alla motivazione «denaro» il suo vero valore. L’amore del denaro come possesso – distinto dall’amore per il denaro come un mezzo per godere i piaceri reali della vita – sarà riconosciuto per quello che è: una forma di morbosità ripugnante, una di quelle inclinazioni per metà criminali e per metà patologiche, che solitamente si affidano rabbrividendo agli specialisti dei disturbi mentali60.

Volutamente dimentica dell’insegnamento del grande economista inglese, la società ottusa sta costruendo un mondo in cui il capitale umano viene sostituito dal capitale dis-umano, che impone all’uomo di vivere esclusivamente in sua funzione riconoscendogli valore solo in quanto generatore, accumulatore e consumatore di denaro. Questo mutamento operato dal sistema tecno-­ finanziario che predomina all’interno della società ottusa, viene portato avanti con l’arroganza ideologica e dogmatica di chi decide coscientemente di rimuovere le tracce della Storia, che già nel secolo scorso ci ha mostrato gli effetti disastrosi di cui è portatore un meccanismo che subordina la vita umana alla logica del mercato. Del resto, «i fatti non penetrano nel mondo dove abitano le credenze»61, scriveva Paul Valéry. Parafrasando una celebre frase attribuita a Italo Calvino, possiamo dire che nel mondo creato dal Dio cattivo l’uomo è relegato a una finestra attraverso la quale il mercato contempla se stesso. 124

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3. La gaia incoscienza

Il compito di imprimere nelle persone gli ideali guida e le norme della nostra civiltà spetta, prima di tutto, all’educazione. Ma quanto è colpevolmente inadeguato il nostro sistema educativo a tale scopo. Il suo obiettivo primario è quello di fornire agli individui la conoscenza necessaria e funzionale a una civiltà industrializzata, nonché a formare il loro carattere nella modalità richiesta: ambiziosi e competitivi, ma tuttavia cooperativi entro certi limiti; rispettosi dell’autorità, e tuttavia «moderatamente indipendenti», come riportano certi documenti: amichevoli, e tuttavia non profondamente legati ad alcuna persona o cosa. Erich Fromm 1955

Verso la metà degli anni cinquanta del Novecento negli Stati Uniti andava per la maggiore la favola Tootle, la locomotiva. È la storia di una giovane locomotiva che frequenta la scuola per diventare treno. Due sono le regole fondamentali che le vengono impartite: davanti a una bandierina rossa bisogna sempre fermarsi, e guai a uscire dalle rotaie. Solo se si dimostrerà rispettosa di questi due precetti, potrà aspirare a diventare un treno ad alta velocità. Sulle prime Tootle si mostra diligente, ma andando avanti scopre quanto sia divertente abbandonare ogni tanto i binari per annusare i fiori. Le sue piccole trasgressioni, che dovrebbero restare segrete, vengono rivelate dai segni che le incursioni sui prati le lasciano addosso. Il comportamento irrequie125

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to di T ­ ootle mette in allarme tutte le altre locomotive, che si riuniscono per studiare il modo di costringerla a restare sui binari. Si decide di ricorrere a uno stratagemma: quando la piccola locomotiva uscirà dal percorso stabilito, si troverà di fronte a una bandiera rossa. Condizionata a fermarsi, Tootle si volta e cerca un’altra direzione verso cui dirigersi. Ma l’orizzonte le viene chiuso da una serie di bandiere rosse. La locomotiva scalpita, cerca affannosamente delle vie di fuga, ma non riesce ad aprirsi un varco verso i fiori. Angosciata da questa claustrofobica chiusura d’orizzonte, Tootle volge finalmente lo sguardo verso i binari, dove una rassicurante e gioiosa bandiera le segnala il via libera. Rinfrancata, torna sorridente sul percorso prefissato, promettendo di non abbandonarlo più. Non è un caso che all’epoca la favola sia stata ripresa da due sociologi, autori di testi fondamentali. Da una parte David Riesman, che dedica un intero capitolo della Folla solitaria (1950) all’interpretazione della favola, nella quale individua il compendio perfetto delle sue tesi sulla comparsa di un uomo moderno che fa dell’approvazione altrui la sua principale fonte di direzione, nonché «l’ambito principale della propria sensibilità»: «sembra scritta apposta per allevare i bambini secondo un tipo di conformismo eterodiretto. Essi imparano che non conviene uscire dai binari per giocare coi fiori, e che, a lungo andare, chi segue le luci verdi trova non solo il successo e l’approvazione altrui, ma perfino la libertà»1. La servitù volontaria, insomma, come forma virtuosa e suprema di libertà. Dall’altra Vance Packard, autore nel 1957 del pionieristico I persuasori occulti, in cui dimostra come l’alleanza sempre più solida tra psicologia del profondo (motivazionale) e sistema mediatico (soprattutto la pubblicità) stesse producendo una cittadinanza mediamente incapace di formarsi un’opinione libera e, più in 126

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generale, un pensiero autonomo e critico, non soltanto rispetto all’acquisto di prodotti o all’espressione del consenso verso i politici. Packard citava la favola della giovane locomotiva collegandola alla «comparsa nella società americana dell’uomo etero-diretto», che tende sempre più a conformarsi alla vita del gruppo, nonché a intendere l’esistenza come una partita che deve essere giocata con spirito di squadra, muovendosi all’unisono con i compagni. Al divide et impera del mondo romano e pre-industriale i nuovi poteri stavano sostituendo un imperativo assai più soft, adatto alle società democratiche: «conforma e dirigi», efficacemente sintetizzato dalle parole (riportate da Packard) dell’allora ministro della Difesa americano Charles Wilson, il quale non a caso proveniva dal mondo industriale: «Chiunque non faccia il gioco di squadra e provi a tirare fuori la testa, può trovarsi in una situazione difficile»2. Il punto è proprio questo, come peraltro era stato spiegato da Gustave Le Bon nella sua Psicologia delle folle (1895): le persone che si inseriscono in gruppi concepiti a mo’ di branco (o setta) sono quelle più facili da sottoporre alla guida, al controllo e al comando di qualunque generale. Packard, inoltre, faceva riferimento a un numero della rivista «Fortune» risalente ai primi anni cinquanta, sottolineandone il ruolo di diretta emanazione della grande industria americana e che di conseguenza si supponeva avrebbe dovuto rappresentare il pensiero della parte che più beneficiava della diffusione di un’etica omologante. Ebbene, proprio in questa rivista si esprimeva una profonda inquietudine per la tendenza insita nella società americana, per designare la quale si ricorreva al termine orwelliano «pensiero collettivo», inteso come la svalutazione e la mortificazione di ogni forma di pensiero individuale e divergente rispetto al sentire comune. In breve, un articolo su quel numero di «For127

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tune», a firma di William H. Whyte, colpiva al cuore l’ideologia individualistica di cui gli Stati Uniti si sono sempre fatti grandi assertori: «Una cosa molto curiosa è accaduta nel nostro paese senza che quasi ce ne accorgessimo. In un paese dove l’individualismo – nel senso di indipendenza e autonomia – è stato per tre secoli la parola d’ordine, ci si sta avviando ad accettare che l’individuo in quanto tale non possieda alcun valore se non in qualità di membro di un gruppo». Un conformismo razionalizzato, che ricorda molto da vicino quanto avrebbe sostenuto pochi anni dopo Herbert Marcuse parlando della società industriale avanzata, della quale metteva in risalto il «carattere razionale della sua irrazionalità», tipico di un universo in cui la tecnologia (e la finanza) provvedono a «una formidabile razionalizzazione della non-libertà dell’uomo, dimostrando l’impossibilità “tecnica” di essere autonomi e di decidere personalmente della propria vita»3. Questa omologazione e massificazione è stata fin dalla metà del Novecento ricercata e costruita scientificamente attraverso due criteri, ritenuti ormai opportuni e tecnicamente applicabili in società industrialmente avanzate e caratterizzate da un benessere diffuso4. Il primo criterio è il consumo: l’individuo viene spinto a desiderare e a comprare in base a ciò che gli propone la pubblicità e a quello che desiderano e comprano gli altri. Il secondo riguarda l’educazione: l’individuo, specie a partire dall’età più delicata (e plasmabile), l’infanzia, deve essere indirizzato a svolgere il ruolo di «apprendista consumatore», secondo l’efficace espressione di ­Vance Packard. «Del bambino auto-diretto si supponeva che fosse mentalmente indirizzato al lavoro, anche se non era chiaro nella sua mente quale tipo di lavoro. Oggi, la futura occupazione di tutti i fanciulli è quella di diventare abili consumatori», chiosava David ­Riesman. 128

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Tanto più nel XXI secolo, in cui le nuove tecnologie consentono rinnovate e più suggestive modalità di fruizione rispetto alle quali la capacità di controllo e autonomia dei «nativi digitali» è tutta da analizzare e dimostrare5. Quanto messo in rilievo dalla favola Tootle e dagli autori che l’hanno interpretata è che il futuro adulto doveva essere allevato a conformare il pensiero e la volontà, a ciò che veniva proposto dai messaggi pubblicitari e propagandistici diffusi attraverso i media. Ma anche che i buoni cittadini, riconosciuti e accettati dalla comunità, sono coloro che si uniformano alle regole stabilite dall’ideologia dominante. È significativo che tale sorta di conformismo razionalizzato emergesse fin dagli anni cinquanta nel paese guida dell’Occidente, quegli Stati Uniti da cui promanava (e tuttora promana) ogni tendenza destinata a contagiare gli altri paesi che hanno costruito la propria tradizione ideologica sul vero o presunto culto della libertà individuale. Un conformismo razionalizzato poiché costruito razionalmente attraverso la stretta alleanza fra tecnologia mediatica e mercato, allo scopo di ottenere una popolazione quanto più possibile supina ai dogmi finanziari calati dall’alto. La nuova ragione del mondo deve essere di natura economica e sostituirsi alla ragione umana e politica, che è quella a cui spetta il compito di formare degli individui e una società autonomi e liberi. La dittatura o onnipotenza di una maggioranza omologata e massificata, che era stata temuta e rifiutata dall’ideologia liberale per due secoli, poiché considerata terreno fertile per regimi dittatoriali e liberticidi6, veniva ora non soltanto accettata ma perfino incoraggiata da un potere politico ed economico a cui servivano cittadini incapaci di un pensiero indipendente, pronti a esprimere il proprio consenso, attraverso il voto o l’acquisto, verso quei prodotti che il pensiero dominan129

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te imponeva come i più adeguati e consoni al benessere universale. Da questo punto di vista, già nella metà degli anni ottanta del secolo scorso si arrivò a parlare di taylorismo sociale, intendendo con tale espressione il fenomeno per cui il consumismo capitalistico si spingeva fin dentro la sfera domestica e personale, soprattutto con l’ausilio della televisione e delle nuove tecnologie di comunicazione. La stessa pubblicità acquisiva un potere siffatto da ridurre l’intero campo del reale a una totalità consumante (e consumabile). Facendo regredire i consumatori allo stadio di complicità, scriveva nel 1970 il sociologo e filosofo francese Jean Baudrillard, di «collusione immanente» e immediata al livello del medium e del suo codice: «Ogni immagine, ogni annuncio impone un consenso, quello di tutti gli individui virtualmente chiamati a decifrarli, e cioè, nel decodificare il messaggio, ad aderire automaticamente al codice nei quali sono stati codificati»7. Nell’ambito di un’operazione pedagogica di tale portata, era richiesto che si partisse dalle favole per bambini e, indirettamente, da una concezione della scuola come luogo deputato a formare non più cittadini democratici, forniti di pensiero autonomo e critico, bensì di apprendisti consumatori eterodiretti. Disposti a riconoscere, come nel caso della locomotiva Tootle, la libertà più autentica nel sottomettersi volontariamente alle regole superiori. Tali regole, ai giorni nostri, sono quelle dettate dall’ideologia neoliberista e diffuse attraverso un sistema mediatico mai così potente e pervasivo. Oggi, infatti, insieme al mercato dobbiamo fare i conti con l’altra grande forma della divinità: quella tecnologia digitale che entra non più soltanto nelle case delle persone, ma nelle menti («ricablandole», scrive Manuel Castells) e perfino nell’intimità, fin dalla prima giovinezza. Il potere che essa esercita è quello di riconfigurare il modo di pensare, di costruire la propria identità e le 130

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relazioni umane e sociali, nonché il modo di informarsi e conoscere proprio degli esseri umani8. Come già rilevava David Bolter, pioniere degli studi sui nuovi media negli anni ottanta del secolo scorso, il computer e la tecnologia che ruota attorno ad esso occupano un ruolo così preminente rispetto al nostro paesaggio culturale, che gli esseri umani cominciano a percepire se stessi come elaboratori di informazioni, nonché a pensare all’ambiente che li circonda come a un insieme di informazioni da elaborare. Si giunge così a una sorta di «uomo-computer» che svolge per la tecnologia contemporanea il medesimo ruolo che l’«uomo a orologeria» o la «statua vivente» avevano avuto per quelle precedenti: l’essere umano che diventa tutt’uno con la macchina per poterne eseguire gli ordini in maniera meccanica e irriflessa9. Rispetto al tempo della televisione, oggi questo sistema dispone di un’ulteriore arma, ben più raffinata: la Rete e il suo potere quanto mai pervasivo, suggestivo e divertente, che sempre più si sta sostituendo alla scuola come intermediario indispensabile tra i nostri giovani e la loro esperienza del mondo. Di conseguenza, non possiamo più limitarci a parlare di apprendisti consumatori plasmati dalla tecnologia, ma va esaminata quella che risulta essere la formazione di individui entusiasticamente eterodiretti, sempre più incapaci a livello cognitivo ed emotivo di uscire dai binari, per andare verso quei fiori che rappresentano il valore residuale della loro umanità. burattini tecnologici Uno degli errori più grossolani che possiamo commettere, oltremodo gravido di conseguenze, consiste nel pensare che gli oggetti prodotti dal lavoro della mente 131

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e delle mani dell’uomo siano meri strumenti al servizio della sua volontà. La tecnica non è neutra e le cose che sono prodotte dall’abilità tecnica dell’uomo presentano sempre importanti effetti di ritorno sul produttore medesimo. Persino un banale martello, ricorda l’esperto americano di nuove tecnologie Nicholas Carr, non si comporta come un passivo esecutore dei comandi che trasmettiamo. Esso, infatti, produce effetti abbastanza evidenti; se non altro quello per cui la nostra mano, nel momento in cui lo impugna, smette di eseguire le attività alternative in cui potrebbe prodursi (accarezzare, disegnare, scrivere ecc.)10. E già Marshall McLuhan, il pioniere degli studi sui media da cui Carr trae ispirazione, metteva in evidenza come «sul piano fisiologico l’uomo è costantemente modificato dall’uso normale della tecnologia (o del proprio corpo variamente esteso)». Il problema, piuttosto, è che sempre dal punto di vista fisiologico vi sono ragioni per ritenere che qualsiasi «estensione di noi stessi» determina in noi uno stato di torpore (numbness), e del resto «l’incoscienza degli effetti esercitati da ciascuna forza si rivela disastrosa, specialmente se si tratta di una forza che noi stessi abbiamo prodotto»11. Se questo è vero per un oggetto tanto semplice come un martello, possiamo immaginare l’entità degli effetti prodotti da strumenti assai più complessi quali i mezzi di comunicazione, e soprattutto i nuovi media digitali che, rispetto ai precedenti, prevedono, e anzi richiedono, un utente attivo, il quale mette in gioco il corpo e la mente nell’atto di interagire con essi. Siamo all’interno del paradigma prospettato da Marshall McLuhan, che a proposito delle molteplici interpretazioni che ignoravano «gli effetti psichici e sociali dei media», e riguardo ai troppi sostenitori della tesi secondo cui l’influenza dei media stessi si rivela positiva o negativa soltanto in base all’uso che ne facciamo, 132

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parlava di «sonnambulismo» e invitava a riconoscere che «il medium è il messaggio». È il mezzo di comunicazione stesso, infatti, in quanto estensione del nostro corpo e del sistema nervoso, a modificare la struttura essenziale delle nostre facoltà cognitive, relazionali e pratiche, e tutto ciò a prescindere dai contenuti veicolati attraverso quel mezzo o dall’uso che ne facciamo. Chi, per esempio, pensa che la televisione sia buona o cattiva a seconda che la si usi per guardare un contenuto elevato o uno di infimo livello, si comporta a tutti gli effetti come colui che McLuhan definiva «idiota tecnologico», ossia chi neppure immagina di aver subito una profonda e radicale regressione da homo sapiens a homo videns, da uomo che usufruisce di contenuti mediatici e informativi tenendo attivati dei filtri critici e cognitivi a uomo che, limitandosi all’atto visivo, perde gradualmente la capacità di elaborare quanto vede, di cogliere l’essenza di ciò che c’è dietro a quanto gli si presenta in forma di mera immagine. Il risultato è che l’individuo si trova a essere plasmato dalla grande forza di banalizzazione e di omologazione insita nel mezzo televisivo12. Secondo McLuhan, ogni invenzione o tecnologia di cui facciamo uso si rivela al tempo stesso come un’estensione e un’autoamputazione del nostro corpo. In tal modo ogni medium, provocando un’accelerazione della nostra vita sensoriale, influenza contemporaneamente l’intero campo dei sensi. Per poterne fare uso è necessario, quindi, che l’essere umano si comporti a guisa di servo volontario di queste sue estensioni, «come se fossero dèi o religioni minori» incalzava McLuhan, così che il mondo delle macchine possa ricambiare l’amore dell’uomo soddisfacendo le sue volontà e i suoi desideri, in cima ai quali vi è quello della ricchezza. Il problema consiste nel prezzo che l’essere umano deve pagare per la sua – questa volta consapevole – ser133

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vitù al mondo della tecnologia. Tale prezzo ha a che fare con ciò che McLuhan chiamava «principio del torpore», ossia il fatto che dobbiamo intorpidire il nostro sistema nervoso ogniqualvolta esso viene esteso e scoperto tramite l’utilizzo di una nuova tecnologia più sofisticata, poiché «quando il fascino di un’invenzione o di un’estensione del nostro corpo è nuovo, si verifica una “narcosi” o un ottundimento dell’area così amplificata». Questo intorpidimento o ipnosi che subiamo al contatto con la tecnologia mediatica ci ha gettato, secondo il sociologo canadese, nell’«era dell’inconscio e dell’apatia», quella che oggi possiamo definire analfabetismo emotivo e funzionale, una sorta di squilibrio cognitivo, pratico e relazionale che molto ha a che fare con le passioni tristi, con la demenza e con la solitudine digitale che caratterizzano gli individui del nostro tempo secondo alcuni studiosi contemporanei13. Tutto questo, a fronte di quella legge generale che riguarda il potere e l’impatto delle tecnologie nell’isolare i sensi e «ipnotizzare la società»14. Se il rapporto fra uomo e tecnologia, e il ruolo indebolente e diseducativo di quest’ultima, hanno da sempre stimolato la riflessione15, McLuhan segna l’esordio della critica alla tecnologia audiovisiva, i cui prerequisiti di generale intorpidimento avevano portato a un effetto inaudito e più grave: la postura che assumevano i bambini fin dai primissimi anni di scuola, per cui indipendentemente dalle loro facoltà visive tendevano a porsi con il viso a una distanza media di sedici centimetri dalla carta stampata, riproducendo ciò che ormai erano abituati a fare con lo schermo televisivo. Così facendo, secondo McLuhan, si sforzavano di riportare sulla carta stampata quello stesso coinvolgimento di tutti i sensi prodotto dall’immagine televisiva, di cui sono inclini a eseguire gli ordini con perfetta abilità psico-mimetica (cioè uniformando mente e corpo al mezzo e a ciò che esso veicola). 134

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Il risultato è l’insuccesso con cui i bambini si sforzano di leggere in profondità la carta stampata, cercando di riversare su di essa tutti i loro sensi ma venendone puntualmente respinti, poiché la stampa (a differenza della tv) richiede una facoltà visiva denudata e isolata, che lasci le sinapsi o facoltà cognitive indipendenti e libere di funzionare16. Il sonno della ragione e l’utilizzo del solo senso visivo imposti dalla televisione mal si conciliano con la veglia cognitiva, critica e immaginativa richiesta dalla comunicazione scritta. Questo, secondo il sociologo canadese, in maniera conseguente alla legge secondo la quale «quando l’attività di ognuno dei sensi venga acutizzata ad un alto livello di intensità, può fungere da anestetico per gli altri sensi». Un po’ come avviene con l’ipnosi, che si basa sul medesimo principio di isolare un senso (la vista) allo scopo di anestetizzare gli altri17. Il salto qualitativo a cui si è assistito con la comparsa della televisione, negli anni cinquanta del secolo scorso, vede nella nostra epoca un’ulteriore spinta in avanti rispetto agli effetti che la tecnologia mediatica produce sugli esseri umani. A partire dal 1995 il tempo in cui ci troviamo a vivere è quello della Rete e delle tecnologie digitali. Alla televisione si aggiungono altri schermi e coinvolgimenti psico-cognitivi. Gli schermi del mondo digitale, con i sistemi altamente rinnovati di diffondere le immagini, non si limitano a indurre i ragazzi ad avvicinare il viso al display. Se «con la tv lo spettatore è lo schermo»18, come scriveva McLuhan, i display dei dispositivi digitali richiedono alle persone di entrarvi con anima, mente e corpo. Fagocitati da una dimensione, quella virtuale, in grado di stravolgere i meccanismi di quella reale. Già nel 2001 un gruppo di scienziati di Harvard pubblicò sulla prestigiosa rivista «Science» il risultato di quattro esperimenti da cui si evinceva che i media 135

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elettronici hanno un influsso negativo tanto sul pensiero quanto sulla memoria. Mentre da una ricognizione degli studi condotti fino al 2008 non emergeva alcun miglioramento degli individui rispetto alla caratteristica sulla quale le nuove tecnologie dovrebbero esercitare l’influenza più benefica: la capacità di confrontarsi con le informazioni, di gestirle e di elaborarle19. Altri studi sostengono che i libri di testo digitali hanno un effetto didattico ridotto, e che l’apprendimento risulta più scarso quanto più questi libri vengono fruiti in modalità interattiva con le tecnologie mediatiche. Psicologi della Columbia University e di Harvard hanno mostrato che per acquisire conoscenze Google è assai meno efficace di libri e quaderni, mentre Princeton e Silicon Valley, per un altro verso, hanno documentato come la scrittura a mano, stimolando lo sviluppo del cervello, sia molto più efficace di quella su tastiera per fissare nozioni e conoscenze all’interno della memoria a lungo termine20. Dovrebbe indurre a più di una riflessione il fatto che il «New York Times», nel 2011, raccontasse di una scuola nella Silicon Valley dove non era ammesso alcun tipo di alta tecnologia o di schermo, a partire dai computer. Alla base di questo divieto la convinzione che «scuola e computer non dovevano essere mescolati», nella consapevolezza che i computer inibiscono e stravolgono «il pensiero creativo, il movimento, l’interazione umana e i tempi di attenzione». Significativamente, questa scuola era frequentata dai figli del capo del settore tecnologico di eBay, da quelli dei dirigenti e degli im­piegati di Google, Apple, Yahoo! e Hew­lett-Packard21. Le piccole locomotive di chi lavora a stretto contatto con l’alta tecnologia venivano istruite e formate ben distanti dalla tecnologia stessa.

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Figli di un Io minore Il periodo di maggiore fragilità dell’essere umano coincide con i primi anni della sua esistenza, quando non ha ancora affrontato quelle crisi indispensabili alla formazione di un’identità compiuta, fonte di significato ed esperienza e che lo metta in grado di relazionarsi con sé e con gli altri (l’uomo come creatura psicosociale di cui parlava lo psicologo tedesco Erik Erikson), di elaborare un pensiero autonomo e critico rispetto alle influenze esterne, nonché di condurre l’esistenza senza l’intermediazione di filtri o tutele superiori (genitori, insegnanti ecc.)22. L’etimologia stessa della parola «crisi» (dal verbo greco krinein: «separare, valutare, scegliere») ci riporta all’idea del bivio decisivo: essa non rappresenta tanto un momento estemporaneo di difficoltà, quanto una tappa fondamentale e imprescindibile da attraversare perché l’individuo ne esca trasformato «sia dando origine a una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza»23. Nessun individuo che non abbia fatto i conti con se stesso, elaborando e prendendo coscienza di una propria identità indipendente, può interagire con gli altri e con il mondo circostante in maniera equilibrata e costruttiva. Non c’è dubbio che le nuove tecnologie digitali rappresentano una sorta di ospite inquietante che insidia la psiche umana fin dalla giovanissima età, ritagliandosi il ruolo di intermediario pervasivo e irrinunciabile fra la Net generation e tutti gli aspetti della sua esistenza. Il punto fondamentale, però, è che il costante utilizzo delle nuove tecnologie non può non provocare degli effetti molteplici soprattutto sui giovani e giovanissimi che ne fanno uso. Senza peraltro escludere il mondo degli adulti. Tali effetti sono direttamente proporziona137

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li alla quantità di energie cognitive, emotive e relazionali che i giovani utenti impiegano volontariamente (ed entusiasticamente) nell’utilizzare questi strumenti: alla stregua di una seconda vita, che come nella prima (reale) richiede la messa in gioco di tutte le facoltà umane e, quindi, il coinvolgimento dell’utente in tutti gli aspetti della sua personalità. Basta pensare ai social network per comprendere come nel tempo della Rete i meccanismi di formazione dell’identità individuale vengano stravolti. Si assiste al processo per cui una persona non si costruisce la propria identità attraverso un percorso autonomo di esperienza e introspezione; al contrario, è chiamata a rispondere e ad adeguarsi a un’identità preconfezionata dall’esterno secondo le regole e i meccanismi del social network di turno, che al pari di prodotti commerciali in vetrina ci chiede di condividere pubblicamente (ma virtualmente) un nostro essere luminosi e vincenti, inclini a produrci in pensieri, commenti, fotografie ecc., e il cui valore verrà stabilito dalla logica quantitativa del numero dei like, dei follower e degli amici24. Nessuno spazio per la debolezza, per l’errore, per il disagio insito nel mestiere di vivere, e soprattutto nessun margine perché la persona possa crescere attraverso una sana presa di coscienza dei propri limiti che, solo se conosciuti e accettati, consentono di condurre l’esistenza nel modo più armonico possibile. Non v’è margine per questo poiché l’identità che si condivide in Rete non è quella reale, e non è elaborata in uno spazio e in un tempo reali. L’utente del social network, all’interno di un tempo indefinitamente dilatato, ha modo di selezionare cosa omettere, dove tagliare e modificare, come abbellire artificialmente l’immagine di sé da posizionare sulla vetrina del mondo online. In una sorta di delirio in cui l’uomo diventa Dio di se stesso (peraltro fasullo, perché deve rispondere a cri138

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teri stabiliti da altri), finalmente creatore della propria identità e persona senza quelle fastidiose imperfezioni previste dal creatore «originale». Fino al punto di convincersi, specie se non ancora in possesso di un’identità formata, che quella sia la sua effettiva identità, o comunque ciò a cui tendere e aspirare, in un mondo virtuale in cui il tuo valore è misurato dal successo quantitativo dei like. Si tratta di una formidabile evoluzione dell’audience televisiva: non siamo più soltanto semplici numeri che decretano il successo di un prodotto catodico, ma diventiamo noi stessi quel prodotto, per cui una penuria di audience, o di like, può voler dire la nostra fine, con tanto di estromissione dal palinsesto dell’unica vita che sembra contare nella società ottusa: quella virtuale. Di qui la necessità di sottomettersi a una sorta di comandamento virtuale che recita: «Non avrai altro Io all’infuori di te!». Non è un caso che nell’epoca della Rete si registri l’aumento esponenziale del narcisismo, quella patologia che spinge all’ostensione spasmodica di sé e alla ricerca compulsiva di riscontri (notifiche) e gradimenti, come reazione a un irrimediabile senso di inadeguatezza interiore25. Ricostruendo le implicazioni delle nuove tecnologie sulla personalità umana, la psicologa statunitense Sherry Turkle nel 2011 ricordava che il termine narcisismo «non indica persone che amano se stesse, bensì delle personalità così fragili da avere bisogno di un supporto costante» dalle altre persone, intese strumentalmente come pubblico26. Il senso di inadeguatezza è presente più o meno in tutti gli adolescenti, e in una certa misura in tutti gli esseri umani, ma risulta molto più forte e castrante in quelle persone che, lungi dall’essersi formate un’identità autonoma, autoriflessiva e consapevole (anche dei propri limiti e debolezze, in questo modo metabolizzati e accettati), se la sono lasciata plasmare da potenze 139

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esteriori, meccanismi alienanti che impongono all’individuo di seguire schemi e codici di identificazione estranei all’individuo stesso. Del resto, all’interno di un contesto in cui ognuno è chiamato a condividere esclusivamente il «meglio» di sé, nell’ambito di una logica squisitamente quantitativa e commerciale, soprattutto per le personalità più giovani è assai facile cadere nella spirale del disagio e dell’insicurezza patologici, con la convinzione che l’identità (trasformata in profilo) e la vita (trasformata in vetrina) degli altri sia più bella e appagante, costellata da successi e da un numero maggiore di amici, follower e like. Quando in realtà, come scriveva Alexander Lowen: «La comprensione e l’accettazione dei nostri limiti fa di noi delle persone autentiche, e non dei narcisisti»27. Una società che misura il valore delle persone attraverso scale numeriche e impersonali, secondo una logica quantitativa che induce gli individui alla competizione in ogni luogo e situazione della propria esistenza, non può che produrre quell’ansia da prestazione che genera soggetti agitati e aggressivi. Nella dimensione digitale tutto ciò si traduce, per esempio, nel fenomeno del cyber-bullismo, praticato da soggetti che mostrano un più alto grado di narcisismo e bisogno di conferme, a cui sopperiscono strumentalizzando quelle vittime che, invece di mascherare e canalizzare tali sentimenti in forme aggressive, mostrano in maniera evidente angoscia e depressione, nonché una più bassa stima di sé28. La stessa spirale di disagio e insicurezza si ritrova in quella che solo apparentemente sembra l’altra faccia del narcisismo: coloro che non reggono l’ansia del confronto competitivo continuo, della perenne ostensione di un sé bello e vincente solo nella misura in cui soddisfa i parametri tecnici e commerciali che caratterizzano la Rete, finiscono per sviluppare svariate forme di perce140

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zione distorta e rifiuto di sé o del proprio corpo, fino al desiderio di sparire. Attraverso l’eliminazione della propria immagine o del profilo sui social network, oppure tramite modalità più gravi. «L’ansia», ha spiegato Sherry Turkle riflettendo sulle modalità più ossessive e compulsive della Rete (essere sempre connessi, in vetrina, interagire con una miriade di dati e persone, svolgere troppe attività contemporaneamente: il cosiddetto multitasking), «è parte della nuova connettività. Tuttavia è spesso il termine rimosso quando parliamo della rivoluzione nella comunicazione mobile», poiché «esula dalla narrazione trionfalistica in cui ogni nuova offerta tecnologica incontra un’opportunità, mai una vulnerabilità, mai un’ansietà»29. Per molti versi l’uomo davanti allo schermo subisce una regressione che lo conduce allo «stadio dello specchio» di cui parlava Lacan. In tale stadio egli si trova a vivere il dramma che consiste nell’assunzione «dell’armatura di un’identità alienante, che con la sua struttura rigida ne marcherà tutto lo sviluppo mentale»30. La linea che separa l’ostensione compulsiva e tormentata dell’«Ego» dal desiderio di annullarsi e sparire è molto sottile per le persone in possesso di un’identità fragile e distorta. In entrambi i casi siamo nell’ambito di un Io patologico, gravato da un logos che soffre e patisce l’imposizione di codici esistenziali e meccanismi di funzionamento non umani31. Una tale trasfigurazione del logos, inteso come discorso interiore con la propria identità, presenta il conto nell’ambito del dia-logos, del discorso esterno con gli altri. Un’identità oberata dal disagio e dall’insicurezza non fa altro che trasferire queste caratteristiche nel campo della relazione con altre identità. Secondo studi recenti è quanto accade in misura sempre maggiore alla generazione dei nativi digitali. Già confusi e indeboliti nella 141

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formazione della loro identità, si ritrovano sempre più a conoscere gli altri, a interloquire, perfino ad allacciare rapporti sentimentali ed erotici, attraverso l’intermediazione di macchine che li conducono a fare tutto ciò secondo il proprio funzionamento. Così, molti giovani preferiscono scambiarsi messaggi ritenendo questa forma di interazione molto più intima ed efficace rispetto agli incontri faccia a faccia. Il filtro dello schermo, e il fatto che si trovino nell’ambiente protetto della propria camera o di un luogo ritenuto sicuro, fa percepire come meno imbarazzante e rischioso l’atto di condividere sentimenti e situazioni personali con un’altra persona32. Nella confortevole chiusura di una stanza, o comunque all’interno di una dimensione protetta e solipsistica qual è quella tra il proprio volto e lo schermo di vetro, che in realtà si comporta come uno specchio che riflette noi stessi anche quando è acceso, i nativi digitali risultano sempre più ego-riferiti, egocentrici, soli; inclini a considerare in maniera sporadica e strumentale i rapporti con gli altri. Da tutto questo derivano la scarsa propensione al rischio emotivo, la timidezza patologica e la ridotta capacità di empatia, poiché la consuetudine a incontrare e a comunicare con gli altri attraverso la barriera dello schermo o del gioco virtuale, rende problematica e disagevole non soltanto la relazione emotiva e affettiva face to face, ma anche l’autenticità, la profondità e la capacità di durata dei rapporti. E, come sottolineato dagli psicologi americani Howard Gardner e Katie Davis, «l’assenza di empatia è un tratto distintivo della sociopatia»33. Prendendo a prestito la terminologia freudiana, potremmo dire che la generazione dei nativi digitali viene spinta dalle nuove tecnologie ad abbandonare la dimensione antica e noiosa del proprio Io, che si costruisce faticosamente grazie a un lavoro di introspezione e 142

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di acquisizione di un’identità autonoma: «L’alternativa è quella patologica di una falsa vita costruita sulle reazioni agli stimoli esterni», scriveva il pediatra e psicoanalista britannico Donald Winnicott negli anni cinquanta del Novecento. Quegli stimoli esterni provengono oggi dai nuovi media e dai social network che bombardano costantemente la Net generation, catturando e frammentandone le menti impedendole di costruire un Io stabile, definito ed equilibrato34. Questo Io falso e frammentato35 finisce con il consegnarsi entusiasticamente alla servitù nei confronti di un Super-Io che, a differenza di quello definito da Freud, offre un mondo pieno di balocchi e possibilità, ma che impone comunque i suoi dogmi, «il suo dominio sull’“Io” sotto forma di coscienza morale, o forse di inconscio senso di colpa»36. A questi dogmi è necessario attenersi per poter essere accettati nella nuova civiltà tecno-finanziaria. Di che natura è la funzione esercitata da questo nuovo Super-Io? Non più il reprimere pulsioni ataviche, spingendo al rifiuto di una vita condotta come degli infanti, cioè secondo il principio di piacere, ma stravolgere o addirittura annullare quelle caratteristiche specifiche che connotano ogni essere umano e ne consentono lo sviluppo a ogni livello. In altre parole, all’uomo viene chiesto non di crescere e regolare la sua esistenza secondo il principio di realtà, come faceva il Super-Io di freudiana memoria, ma di regredire a un ulteriore stadio in cui egli non cede più alle sue pulsioni, bensì realizza quelle che gli sono dettate dalla società misologa, conformando la propria vita a una sorta di «principio di virtualità»37. Da questo consegnarsi volontario ed entusiastico al Super-Io della Rete e del sistema tecno-finanziario nasce il problema di un’intera generazione, quella dei nati a partire dal 1995, che insieme a molti adulti si ritrova figlia di un Io minore, di un’identità arida e debole, resa 143

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incapace di concentrarsi sugli obiettivi intrinseci del vivere umano (trovare un significato all’esistenza, aiutare gli altri, imparare ecc.), perché ormai programmata per votarsi esclusivamente a quelli estrinseci (accumulare denaro, fama, curare la propria immagine ecc.). Grazie alla complicità di una giostra mediatica che, specialmente attraverso la tv e la Rete, espone soprattutto i più giovani a un numero maggiore di annunci pubblicitari, a modelli di sfavillante e ostentata ricchezza e a minori stimoli intellettuali: «In generale, la Tv di oggi e Internet forniscono solamente brevi e vivide opinioni frammentarie, spesso prive di sfumature, a differenza di quanto contenuto nei libri», sostiene la psicologa americana Jean Marie Twenge. «Ci distraiamo online con cose futili e siamo costantemente “intrattenuti”», è la testimonianza di una ragazza di 22 anni. «Abbiamo smesso di riflettere sulla vita e i suoi significati profondi, lasciandoci piuttosto immergere in un mondo in cui il problema più grande per la gente consiste in quanti “like” ottiene con un post su Instagram»38. Una tale trasfigurazione delle identità soggettive, del pensiero e delle relazioni interpersonali pone le basi per una società di individui isolati, ego-riferiti ed eterodiretti, gli abitanti ideali di una democrazia scaduta al livello di «dementocrazia», in cui i figli di un Io minore finiscono con il dare vita a un Noi sociale inesistente o malato. Dalla democrazia alla dementocrazia Con le nuove tecnologie, Internet e social in particolar modo, assistiamo a un considerevole salto di qualità del già citato meccanismo dei persuasori occulti descritto da Vance Packard negli anni cinquanta. Superando l’unidirezionalità dei vecchi media, che cercavano 144

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di orientare il consenso e i consumi attraverso una programmazione fruita passivamente e studiata da professionisti per raccogliere il massimo dell’audience, i media interattivi chiamano la totalità degli utenti a prendere parte (apparentemente) attiva alla grande giostra della comunicazione globale39. Del resto, una delle principali differenze tra i vecchi e i nuovi media (se non la più importante) consiste nella possibilità che questi ultimi offrono agli utenti tre diversi tipi di interazione: quella medium-utente, laddove il secondo può scegliere ed eventualmente modificare i contenuti, fino a costruirne di propri; l’interazione fra i media, che grazie al comune linguaggio digitale consente la fruibilità dei medesimi contenuti su apparecchi diversi; una più potente interazione fra gli utenti, che possono comunicare, intavolare discussioni, allacciare rapporti e perfino relazioni, condividere contenuti come mai prima. Se la televisione chiamava a raccolta davanti allo schermo masse passive per usufruire di programmi immodificabili, i media digitali attirano e fanno entrare dentro di sé gli utenti, diventando non solo intermediari sempre più pervasivi tra gli individui e l’esperienza che gli stessi fanno della vita (informarsi, conoscere, allacciare relazioni, fare acquisti, divertirsi ecc.), ma investendoli del compito di costruire contenuti, modificare quelli esistenti, condividerli. E, soprattutto, spingendoli a intervenire e socializzare con gli altri ogni aspetto della vita personale come del dibattito pubblico, in una sorta di populismo digitale che rappresenta il terreno più fertile per il riemergere di quello politico. In realtà, avverte Sherry Turkle, «il Web promette di rendere più grande il nostro mondo, ma, visto come funziona oggi, mi sembra restringa anche la nostra ricezione di idee. Possiamo finire in una bolla in cui sentiamo solo le idee che già conosciamo, o che già ci tro145

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vano consenzienti»40. Così Turkle descrive la società di oggi: un mondo in cui la grande maggioranza degli utenti cerca nei contenuti della Rete conferme alle proprie idee di partenza e ai pregiudizi. Ci si iscrive a quei gruppi online e si interagisce solo con persone che rispecchiano il proprio pensiero. Questo meccanismo di rispecchiamento del Sé viene ampiamente favorito da una logica dell’algoritmo che funziona in maniera tale da suggerirci e proporci soltanto contenuti selezionati in base ai nostri gusti, opinioni e interessi registrati in passato, «collocandoci in un mondo particolare che limita in noi la sensazione di ciò che esiste ed è possibile fuori da quel mondo». È in questa bolla che, consapevolmente o meno, si finisce per coltivare l’intolleranza e l’aggressività nei confronti di qualsiasi pensiero difforme. Da lì proviene la sempre più diffusa incapacità di instaurare un dialogo improntato alla correttezza nei modi e nella forma, caratteristica che ormai costituisce un tratto distintivo della società ottusa. Il filosofo e pedagogista John Dewey rintracciava un significato ideale e morale nella democrazia, intesa come quel regime in cui, al tempo stesso, «un ritorno sociale è richiesto a tutti», così come a tutti i cittadini deve essere fornita «l’opportunità di sviluppare capacità specifiche. La separazione di questi due obiettivi educativi è fatale alla democrazia». Lo avrebbe sostenuto, seppur partendo da presupposti diversi, anche Antonio Gramsci, individuando come compito della scuola e di uno Stato regolato quello di promuovere il tipo di democrazia in cui «ogni cittadino può diventare governante», «assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito delle capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine», ossia «formandolo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige»41. 146

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Nella dimensione dei social, che nel nostro tempo si sta sostituendo a quella sfera pubblica che ha permesso lo sviluppo della democrazia come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, non vi è scuola, né cittadini informati ed educati alla conoscenza. Le notizie, come anche le opinioni che si trovano in Rete sono spesso diffuse da siti o blog di cui nessuno può certificare la veridicità e la competenza rispetto alle questioni trattate. Mai come nella dimensione social viene contraddetto quel principio di buon senso secondo cui è opportuno conoscere prima di parlare, lasciando campo aperto allo «sfogatoio» di persone represse o variamente deluse dalla vita, che grazie alle informazioni che trovano (o credono di trovare) su Internet, nonché al contesto omologante e orizzontale che costituisce, si sentono legittimate a intervenire su ogni argomento dello scibile umano. Spesso mettendo in discussione teorie elaborate dalla comunità scientifica o scagliandosi contro professionisti accusati di essere al servizio di qualche multinazionale o potere forte. Quando in realtà i veri poteri forti, genericamente riconducibili a quello che abbiamo chiamato apparato tecno-finanziario, beneficiano del sistema Rete42, in cui vero e falso sfumano nell’indistinto (e indistinguibile), e in cui la sovrabbondanza di informazioni che dicono tutto e il contrario di tutto rende impossibile il conseguimento di una ragionevole verità (una volta il potere agiva indisturbato censurando le notizie, oggi ottiene il medesimo risultato grazie al fatto che l’opulenza informativa genera indigenza conoscitiva). Come argomentato ai giorni nostri dall’antropologo Thomas Hylland Eriksen, il modo in cui selezioniamo, filtriamo e organizziamo le informazioni rappresenta uno degli snodi teorici di maggior rilevanza per le scienze cognitive, che in più occasioni rimarcano il gap fra il sovraccarico di contenuti e la nostra conseguente dif147

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ficoltà nell’approdare a verità ragionevolmente e autonomamente definite43. L’oggettiva impossibilità di individuare ragionevoli verità, in mezzo al mare magnum del rumore prodotto dalla Rete, ben lungi dall’alimentare la ragione scettica e il dialogo costruttivo fra le diverse posizioni, in ossequio al metodo della «razionalità critica» proposto da Popper44, finisce con il promuovere il fanatismo (irrazionalità acritica) e la perentorietà delle posizioni assunte dai movimenti populisti e dai cosiddetti «leoni da tastiera». Il livello e le modalità di interazione fra le persone che emergono dai social network e dalla Rete in genere forniscono sempre più la misura del nostro esserci trasformati in una sorta di villaggio globalizzato della rabbia e dell’ignoranza, in cui regnano l’aggressività non ragionata e l’insulto generalizzato, come anche il narcisismo incapace di dialogo ed empatia. All’interno di un contesto in cui abbondano le cosiddette bufale, pseudo-informazioni che non afferiscono alla sfera analizzabile dell’opposizione vero/falso, bensì a quella astratta, evanescente e intellettualmente disarmante della non-verità o post-verità. Ci troviamo di fronte a un paradosso gravido di conseguenze: l’epoca dell’«iper-verità», quella in cui la sovrabbondanza di informazioni produce un’eclissi della verità, una fattuale impossibilità per gli individui di distinguere con ragionevole certezza il vero dal falso, ciò che è scientifico da ciò che è assurdo. Se tutto è vero, allora tutto può essere falso. Il risultato è che tutto è consentito. Pensare ogni cosa, essere convinti di ogni cosa e battersi per essa. Al limite, anche fare ogni cosa. In questo villaggio globalizzato dei leoni da tastiera, abbiamo sempre più a che fare con quelli che lo psicoanalista Jacques Lacan definiva «gli schiavi che credono 148

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di essere padroni e che trovano in un linguaggio da missione universale il sostegno alla loro servitù insieme ai vincoli della sua ambiguità»45. La lunga marcia verso l’ignoranza La Rete si configura come la dimensione in cui l’assenza di una ragionevole verità produce una moltitudine di indiscutibili convinzioni, portate avanti da un numero crescente di utenti mossi da incompetenza pari soltanto al loro furore ideologico. Internet diventa specchio (o schermo) della nostra epoca cognitivamente e socialmente impoverita ma aggressiva, in cui, al diminuire del dialogo costruttivo e della democrazia nella vita reale, corrisponde una dimensione virtuale in cui viene concessa e perfino richiesta dai social l’opinione e il pensiero di ciascuno su ogni argomento dello scibile umano. A queste condizioni è molto sottile il confine che separa l’analfabetismo funzionale da quello sociale. È del 2008 l’editoriale sul «Washington Post», in cui la scrittrice Susan Jacoby denunciava che l’elemento più disturbante della «marcia americana verso l’ignoranza non è la mancanza di conoscenza in sé, ma l’arroganza rispetto a tale mancanza»: «Il problema non riguarda propriamente le cose che non conosciamo (considerando che un americano adulto su cinque, secondo la Fondazione nazionale per la scienza, pensa che il Sole ruoti attorno alla Terra); ma consiste nell’allarmante numero di americani che hanno concluso in maniera compiaciuta di non aver bisogno di conoscere tali cose in prima istanza»46. Dobbiamo prendere atto che nel frattempo non solo la situazione non è migliorata, ma che la questione non può essere evidentemente circoscritta ai soli Stati Uniti. L’utopia della democrazia diretta e della Rete come luogo di disintermediazione nonché di eliminazione del149

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le differenze (e delle competenze), ha prodotto in tutti i paesi avanzati quella frattura tra esperti e cittadini che figura fra i pericoli più insidiosi per la democrazia stessa: «Il rapporto tra competenti e cittadini», ha scritto Tom Nichols, professore all’Harvard Extension School e autore della Conoscenza e i suoi nemici, «come quasi tutte le relazioni all’interno di una democrazia, è costruito sulla fiducia. Quando questa fiducia viene meno, esperti e normali cittadini diventano due fazioni in guerra. E all’accadere di ciò, la democrazia stessa può entrare in una spirale mortale, che si traduce in un pericolo immediato di degenerare o in un governo della folla, o in una tecnocrazia elitaria»47. Erroneamente prefigurata come luogo dell’intelligenza collettiva48, in grado di mettere in comunicazione le singole intelligenze individuali in vista di un progresso universale del sapere umano, la Rete, soprattutto sul piano politico-culturale, sembra più che altro delinearsi come il luogo in cui trova alimento il delirio connettivo: «I promotori del Web 2.0 venerano l’amatoriale e diffidano del professionale»49. Con il mondo della virtualità ci troviamo di fronte alla più grande e pervasiva invenzione della modernità, per l’uso della quale non è stato previsto alcun momento educativo e formativo (penseremmo mai che i nostri giovani possano affrontare la vita senza l’educazione e la formazione fornite, per esempio, dalla scuola?), che sta fagocitando a tal punto l’essere umano nella sua totalità da influenzare e sconvolgere anche il mondo reale. Riconsegnandoci individui che sempre più, nella realtà fisica, tendono a riprodurre quei meccanismi e quei funzionamenti che attuano in quella virtuale. È in un contesto siffatto, in cui la logica quantitativa e commerciale della comunicazione sta soppiantando quella qualitativa della conoscenza e dell’educazione, che assistiamo al passaggio da una democrazia che tro150

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va la sua massima espressione nel voto reale, a una «oclocrazia»50 (o dementocrazia di massa) che si declina attraverso i post virtuali sui social network. Abbiamo a che fare con la più rilevante e drammatica trasfigurazione, almeno nella modernità, del confine fra epistème (sapere) e dòxa (opinione), fra competenza e improvvisazione, fra il rumore di un flusso enorme e indifferenziato di informazioni e il significato di una conoscenza sistematicamente appresa e comunicata. A risentirne è il livello del discorso pubblico (e dell’opinione pubblica), significativamente rivolto verso il basso e forse mai come prima così impantanato sugli argomenti più frivoli e irrilevanti, quando non falsi e pericolosi per la comunità. Si tratta di una questione affrontata un secolo fa, nel corso di un celebre dibattito tutto americano tra John Dewey e il saggista e giornalista Walter Lippmann. Quest’ultimo vedeva la natura umana (e quindi l’opinione pubblica) come «passiva e fondamentalmente irrazionale», mentre per Dewey si trattava di una realtà «attiva, incline a sperimentare e con una natura razionale»51. Anche volendo assumere la posizione di Lippmann come rispondente all’indole della maggior parte degli individui, il problema legato alla formazione di un’opinione pubblica mediamente istruita e razionale, e quindi di una democrazia sana, è non tanto quello di considerare una presunta natura umana concepita come un dato a priori e immodificabile, quanto sforzarsi continuamente di elaborare un contesto sociale ed educativo che favorisca la formazione di individui inclini al pensiero autonomo e critico, come alla conoscenza. Presupposti fondamentali per raggiungere un livello medio di interesse e impegnarsi sulle questioni riguardanti il bene comune e la collettività:

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Secondo il modello deliberativo di democrazia, per raggiungere la legittimità e la razionalità rispetto ai processi decisionali di gestione collettiva in un sistema politico, è una condizione necessaria che le istituzioni di questa organizzazione politica siano disposte in maniera tale che ciò che è legato all’interesse comune di tutti derivi da processi di deliberazione collettiva condotti razionalmente fra individui liberi e uguali...

erano le parole della filosofa di origine turca, Seyla Benhabib, nel 199652. Si tratta, in breve, di pensare e concepire uno spazio politico in cui i cittadini, a tutti i livelli (educativo, formativo, sociale e lavorativo) abbiano uguali possibilità di raggiungere quella legittimità e razionalità che consenta loro di esprimersi e impegnarsi con ragionevole competenza rispetto alle questioni di pubblico interesse. Il contrario di quanto abbiamo visto realizzarsi con il sistema tecno-finanziario della società ottusa. Un sistema pervasivo e potentissimo, capace di distruggere le forme della democrazia così come le abbiamo conosciute nella contemporaneità: la «democrazia cognitiva» elaborata da John Dewey (dove l’educazione delle menti inclini a pensare scientificamente o criticamente induce una forza trasformativa «capace di esercitare la più rivoluzionaria influenza sugli altri costumi»); la «democrazia critica» delineata da Karl Popper (in cui «al posto di una trasmissione dogmatica di dottrine, troviamo una discussione critica delle stesse»); la «democrazia vigile», teorizzata da Norberto Bobbio, in cui cittadini informati possono attuare un controllo competente e attivo sulle azioni di chi gestisce il potere (e non il contrario, come avviene in regime di «computercrazia»)53. Se all’interno dei vecchi media lavoravano e operavano i persuasori occulti descritti da Packard, la Rete è invece un persuasore palese che coincide con il mezzo 152

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stesso. Il quale, a sua volta, coincide con tutti noi che ne facciamo letteralmente ed entusiasticamente parte. Il passaggio dai persuasori occulti delle intelligenze individuali, al persuasore (e costruttore) palese dell’intelligenza collettiva, segna anche quello dalla democrazia liberale della modernità alla democrazia demagogica e populista verso cui ci stiamo dirigendo in maniera inesorabile. Il trionfo di Mangiafuoco Potremmo dire che oggi il mercato e la Rete svolgono la funzione che Collodi attribuiva al Gatto e alla Volpe, ossia di convincere Pinocchio ad abbandonare il noioso mondo della scuola e dello studio, allontanandosi anche dall’educazione semplice e ricca di buon senso impartitagli da Geppetto, per fuggire nel Paese dei balocchi, dove ci si diverte sempre. Quella terra che è il corrispettivo del nostro essere perennemente connessi alla Rete, dove ogni cosa è possibile con un click, ogni persona conoscibile e fruibile attraverso la barriera protettiva di uno schermo, ogni informazione disponibile, perché non è necessario apprenderla per il tramite dell’esperienza ed elaborarla (così da farla diventare conoscenza), ma soltanto sapere come raggiungerla all’interno di Internet. Volendo utilizzare la terminologia marxiana, il mercato rappresenta la struttura portante, poiché è al suo interno, con i suoi meccanismi e le sue dinamiche, che ogni cosa è possibile e quindi degna di esistere. E ogni cosa si rivela possibile solo se rispetta la logica quantitativa del mercato, ossia se induce al consumo e produce profitto. D’altro canto la Rete, che peraltro funziona secondo la logica propria del mercato (essendo essa stessa un prodotto commerciale nonché uno stru153

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mento di molteplici profitti, a partire dalla misurazione degli accessi), rappresenta una sorta di sovrastruttura ideologica, a cui spetta il compito di legittimare e rinforzare la struttura stessa, escludendo dall’orizzonte del pensiero possibilità alternative. Rendendosi sempre più indispensabile alla vita delle persone, essa entra infatti nella loro dimensione più intima fino a fagocitarle e trasformarle: privandole di un’identità autonoma, come anche dell’alfabeto cognitivo ed emotivo, le porta a funzionare secondo degli schemi numerici e algoritmici. Il termine «algoritmo», peraltro, volendo operare un’etimologia del tutto arbitraria54, rivela dei significati che possono spingerci alla riflessione. Algos, infatti, indicava in greco la «sofferenza», e questo porterebbe a ipotizzare che, insito in questo regno misterioso e incontrollabile degli algoritmi, essi siano in qualche modo degli «automatismi dolorosi» per l’essere umano. L’autore di un testo contemporaneo dedicato all’argomento, lo scienziato americano Ed Finn, ha scritto che, alla maniera di un Dio, essi «sono ovunque» e che la loro caratteristica essenziale è di funzionare e governare «i processi e le formule informatiche che prendono le vostre domande e le trasformano in risposte». In questo modo stanno producendo «un mondo in cui le macchine culturali si stanno prendendo una porzione crescente del lavoro critico che in passato era specificamente e intrinsecamente umano». In questo aspetto, più che in ogni altro, risiede l’elemento patologico degli algoritmi55. Con queste enormi possibilità, al pari della sovrastruttura ideologica descritta da Marx (deputata a convincere le persone che il sistema capitalistico di produzione fosse il più giusto), la Rete persuade le persone che il sistema produttivo fondato sulla tecno-finanza rappresenta il migliore dei mondi possibili. O quantomeno che ad esso non c’è alternativa. 154

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Come per Pinocchio, abbandonarsi a una dimensione di meraviglie comporta un prezzo salato, che nel caso dell’uomo odierno è venire retrocesso da homo sapiens, generatore e padrone delle proprie idee, a homo videns, letteralmente posseduto dalle immagini (di cui non è più soggetto ma oggetto), colonizzate e monopolizzate dalla logica del progresso tecnologico e del profitto economico. In questo senso possiamo parlare di individui mutilati (anche nella loro facoltà di immaginare): «Noi siamo posseduti dalle nostre immagini, soffriamo le nostre proprie immagini. La psicoanalisi lo sapeva bene, e ne conosceva le conseguenze. Tuttavia, conferire all’immaginazione tutti i mezzi di espressione, vorrebbe dire regredire», specie se si tratta del tipo di immaginazione proprio di coloro che sono posseduti da «immagini di dominio e morte», per riprendere le parole di Herbert Marcuse56. O, se si preferisce, il prezzo altissimo che l’uomo si trova a pagare è quello di essere retrocesso da una condizione potenziale di individuo autonomo e pensante a quella di burattino, immerso in una forma di «alienazione che lo rende un idolatra impotente e irrazionale», scrive Erich Fromm, un semplice ingranaggio di un meccanismo che lo circuisce sostituendogli il mondo reale con delle immagini (merci). Immagini che assurgono al rango di esseri reali, di «motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico» che lo spinge a vivere sulla base di valori e desideri che non sono altro che quelli del sistema produttivo dominante57. Fromm aveva individuato nella società industriale il contesto in cui l’uomo cambia dimensione, passando dalla centralità dell’essere a quella dell’avere: «Se uno non ha nulla, non è nulla». E Guy Debord, analizzando quella fase evoluta della società industriale che egli chiamava «società dello spettacolo», notava un ulteriore 155

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«slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire»58. In entrambi i casi l’uomo era ancora, appunto, soggetto del proprio statuto. Il nostro tempo, invece, è quello in cui l’essere umano è regredito ulteriormente allo stadio del funzionare: «Lo scopo degli scopi consiste oggi nell’essere mezzi dei mezzi», scriveva nel 1956 il filosofo Günther Anders59. Il capovolgimento mezzi-fini si ritrova sotto forma di metafora all’interno della dimensione tecnologica in cui, per parafrasare McLuhan, l’uomo non è più il medium che produce, elabora e diffonde ogni contenuto, bensì il messaggio che è veicolato, l’immagine sfruttata, il prodotto della mente e della volontà di qualcun altro. O, per dirla con Baudrillard: «Non siamo più noi a prevalere sul mondo, ma il mondo che prevale su di noi. Non siamo più noi a pensare l’oggetto, è l’oggetto che pensa noi»60. Dall’uomo a una dimensione di Marcuse siamo passati all’uomo senza dimensione, poiché letteralmente ridimensionato all’interno di un grande meccanismo in cui, in quanto oggetto e messaggio, si ritrova al servizio della struttura tecno-finanziaria. A differenza di quanto avveniva con i poteri dispotici del passato, inclini a usare la forza per sottomettere la popolazione, in questo caso, e grazie alle meraviglie messe a disposizione dalla società dei consumi e soprattutto dalla Rete, ci troviamo di fronte a una servitù volontaria e persino entusiastica da parte delle masse popolari. Quella servitù volontaria che, secondo il suo più celebre teorico, Étienne de La Boétie, è in grado di «denaturare» l’uomo, che in realtà è nato per seguire la verità con franchezza61. In un contesto come quello odierno, invece, l’assenza di libertà non sembra avere un «carattere irrazionale né politico, ma sembra piuttosto dovuta alla sottomissione a un apparato tecnico che accresce i comodi della vita e aumenta la produttività 156

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del lavoro». In questo senso è possibile parlare, come faceva Marcuse, di un «totalitarismo razionale», per cui «il logos della tecnica è stato riconfigurato in un logos della servitù costante. La forza liberatrice della tecnologia – la strumentalizzazione delle cose – si tramuta in catena che blocca la liberazione, cioè in strumentalizzazione dell’uomo»62. Un uomo che acconsente e anzi partecipa alla propria strumentalizzazione, mettendosi al servizio della tecnologia, condividendo tramite essa ogni suo pensiero ed elevandola a intermediario irrinunciabile per l’esperienza della sua stessa vita, non può confidare che questa tecnologia, solo in virtù del suo meccanismo decentralizzante, gli fornisca armi reali di dissenso contro qualsiasi potere, né che lo preservi da figure in grado di esercitare su di lui un dominio ancora più pervasivo proprio perché nascosto. Lo aveva spiegato con efficacia già lo studioso di Internet Evgenij Morozov, nel 2011: Se Internet riconfigura la natura e la cultura del dissenso e della resistenza anti-governativa, deviandole dalle pratiche del mondo reale verso spazi anonimi e virtuali, ciò avrà delle conseguenze negative sulla portata e sui tempi del movimento di protesta, non tutte positive [...]. La gente solitamente celebra Internet per le sue tendenze decentralizzanti. Tuttavia, decentralizzazione e diffusione del potere non equivalgono a esercitare un potere minore sugli esseri umani. Né sono la stessa cosa della democrazia. Il fatto che nessuno eserciti il controllo, non significa che ciascuno è libero, scrive Jack Balkin della Yale Law School. Il leone autoritario potrebbe essere morto, ma adesso ci sono centinaia di iene affamate intorno al suo corpo63.

Il totalitarismo razionale messo in atto dall’apparato tecnico-finanziario sembra conseguire almeno uno dei risultati più significativi ottenuti dai sistemi totalitari «classici». Soprattutto se pensiamo a Internet, infatti, ci 157

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troviamo di fronte a utenti al tempo stesso isolati, e massificati, perché omologati all’interno di una presunta intelligenza collettiva uniformante, che divora quella individuale. Esattamente come avveniva all’interno dei regimi totalitari, protagoniste di questa galassia tecnologica sono delle solitudini comunicanti, che non a caso si definiscono «connesse», perché di fatto non unite, non in relazione secondo le modalità specifiche dell’uomo64. Specie quando consideriamo quel tipo di unione, politica e sociale, che implicherebbe il contatto effettivo delle menti e dei corpi, e che costituisce una forza resistente o dirompente rispetto a un potere che pretende di dettare integralmente l’agenda dei valori e delle idee che devono e possono vigere. Scuola e politica, che dovrebbero e potrebbero rappresentare un fortino di resistenza contro questa mutazione antropologica, si ritrovano impotenti perché a loro volta sottomesse, ideologicamente e concretamente, ai dogmi della teologia liberista, al paradigma del capitale umano e all’apparato di dis-alfabetizzazione cognitiva, emotiva e relazionale che è rappresentato dalla Rete. Quelle che abbiamo descritto, più che le condizioni per una democrazia dei cittadini autonomi, pensanti e impegnati, si presentano come i presupposti per una dementocrazia di burattini chiusi in se stessi ma eterodiretti, ignoranti rispetto ai fondamenti della convivenza sociale e incapaci di un agire autonomo che sia effettivamente in grado di pensare e produrre un’alternativa alla galassia della tecno-finanza in cui siamo immersi. Mai come oggi, insomma, assistiamo al ribaltamento della favola di Pinocchio, con il trionfo del signore dei burattini, Mangiafuoco, e la sconfitta della ragione umana.

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4. La notte della democrazia

Che i dominanti non si pentano di aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia quali sono adesso! Antonio Gramsci 1910

Solo mezzo secolo separa due episodi che, avvenuti entrambi nel Novecento, mettono in discussione la visione edulcorata che tendiamo ad avere della democrazia. Il primo ci riporta a un 5 di marzo, giornata elettorale. Non si trattava di elezioni molto diverse da quelle dei giorni nostri. Si registrò una buona affluenza, superiore al 70%, e i sondaggisti sbagliarono le previsioni, avendo assegnato al partito che avrebbe vinto una percentuale di voti ben maggiore rispetto a quella che realmente raggiunse. Vaticinarono, infatti, che avrebbe superato, seppure di poco, il 50%, mentre si fermò al 43,9%: a votarlo furono 17 milioni di persone, con uno stacco di dieci milioni rispetto al secondo partito. Malgrado gli eventi inquietanti che precedettero il voto, nonché il clima di tensione e persino di violenze diffuse che lo caratterizzarono, possiamo parlare di un contesto formalmente democratico. Si trattava però del 5 marzo 1933. Il partito vincente era quello nazional-socialista guidato da Adolf Hitler, il quale, forte di questo successo e dell’appoggio della 159

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destra moderata e del centro cattolico, faceva approvare i decreti con cui da cancelliere uscente veniva nominato Führer del III Reich. Per parecchi anni in Germania non ci sarebbero più state libere elezioni. Paradossalmente è stata la condizione di democrazia, seppure contrastata e non senza episodi discutibili, a produrre il regime più scientificamente criminale della storia umana, nemmeno cento anni fa1. Nel XX secolo, nella culla della democratica Europa, sembrava trovare conferma la controversa concezione che Platone aveva espresso quasi 2500 anni prima: la caratteristica principale della tirannide è di essere prodotta dalla «degenerazione della democrazia». Teoria rafforzata da Aristotele, il quale descriveva la democrazia come una sorta di tirannia egoista, poiché «se [...] si identifica la giustizia con la volontà di una maggioranza di persone, si può essere sicuri che questa maggioranza agirà ingiustamente [...], e che confischerà le proprietà di una ricca minoranza». Del resto, concludeva Aristotele, se basta il potere sovrano della maggioranza a rendere giusta una misura politica, «allora anche gli atti del tiranno devono essere necessariamente giusti, poiché anch’egli fa uso della coercizione in virtù del suo maggiore potere, nello stesso modo in cui i poveri fanno violenza ai ricchi: una democrazia assomiglia in molti punti a una tirannia»2. Un paradosso, quello della democrazia come terreno fertile per la dittatura, la cui portata si ritrova nelle parole con cui Albert Einstein si rivolgeva a Sigmund Freud, nel loro celebre scambio epistolare, cercando nella scienza del profondo quelle risposte che sfuggivano alle scienze della realtà. Com’è possibile, chiedeva il grande scienziato al padre della psicoanalisi, che proprio l’Europa civilizzata e culla della democrazia fosse caduta in una Grande Guerra così sanguinosa e mortale? Come spiegare il folle entusiasmo dei suoi abitanti per 160

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un conflitto così terribile se non con «la brama per l’odio e la distruzione» che l’essere umano coltiva nel proprio animo? Dal canto suo Freud si dichiarava d’accordo con Einstein individuando nel processo di civilizzazione l’elemento a cui l’umanità deve i suoi migliori risultati, ma anche le più terribili sofferenze, a causa di quell’«istinto di morte» insito nell’uomo che si traduce in pulsioni distruttive verso gli altri esseri umani e verso il mondo esterno, e che può essere contenuto e contrastato soltanto attraverso uno «sviluppo della cultura»3. Il secondo episodio, anch’esso capace di scuotere dalle fondamenta una democrazia, ci porta a cinquant’anni di distanza da quelle tragiche elezioni, nella notte del 28 febbraio 1986, in cui viene assassinato il primo ministro svedese Olof Palme. Proveniente da una famiglia altolocata – tanto da attirarsi l’odio dei conservatori, che lo accusavano di essere un traditore della classe sociale di appartenenza –, Palme aveva manifestato tutta la sua contrarietà alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, come anche al regime dittatoriale di Pinochet in Cile, appoggiato dagli Usa con un colpo di Stato che nel 1971 aveva rovesciato nel sangue il governo democraticamente eletto del socialista Allende. Si era inoltre pronunciato contro l’apartheid in Sudafrica e contro la proliferazione delle armi nucleari. In politica interna fu l’ultimo leader del blocco atlantico a difendere la giustizia sociale, le misure umanitarie ed egualitarie a tutela dei lavoratori e delle classi sociali più svantaggiate, nonché quelle che favorivano la gestione congiunta delle grandi imprese da parte di imprenditori e lavoratori. Il suo appoggio al regime di Fidel Castro a Cuba, come al governo comunista in Nicaragua, lo fece finire nella lista nera degli Stati Uniti4. Si può dire che fu l’ultimo capo di un governo occidentale a opporsi ai diktat del potere tecno-finanziario prima che se ne installasse il dominio incontrastato. 161

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A fronte delle sue idee e politiche radicalmente democratiche fu ucciso come, avremo modo di vedere, accadde a Efialte – personaggio che tanta parte ha avuto nelle vicende della democrazia ma che, non a caso, è poco conosciuto –, più di duemila anni prima nell’Atene di Pericle. La storia della democrazia è quella di un’ideologia, di un ideale regolativo cui dobbiamo sempre essere consapevoli di tendere senza mai poterlo raggiungere. Troppe volte, invece, la retorica ideologica e politica ha voluto dipingerla come un sole capace di illuminare ininterrottamente il cielo dell’Occidente, rimuovendo il fatto che più volte quel sole, nel corso dei secoli, si è spento lasciando la nostra civiltà avvolta nel buio della notte. Una notte che stiamo vivendo anche oggi, sebbene stavolta sia assai più difficile da scorgere, e perciò più insidiosa, perché rischiarata da luci artificiali. Tra utopia e ideologia Platone e Aristotele non furono certamente gli unici a manifestare delle perplessità sulla democrazia. Almeno fino al Settecento, i più grandi pensatori politici si sono espressi in termini molto critici verso di essa, ritenendola un sistema che conferiva una pericolosa influenza sul governo a categorie ritenute dannose per qualunque tipo di società: i poveri e gli ignoranti. Né si può sorvolare sul fatto che Jean-Jacques Rousseau, primo a elaborare un’idea di democrazia come potere sovrano che proviene dal popolo, avesse già previsto alcuni elementi che ai giorni nostri risulterebbero alquanto controversi. La teoria democratica di Rousseau, infatti, esposta principalmente nel Contratto sociale, si fondava sull’idea per cui «la sovranità non può essere rappresentata», in 162

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quanto consiste nella «volontà generale» e, quindi, «nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti non è più libero». In un altro suo scritto (in merito al governo della Polonia), questa concezione veniva appena mitigata ammettendo la modalità della rappresentanza, pur limitata attraverso misure che potrebbero richiamare molto da vicino quelle invocate dal Movimento 5 Stelle in Italia, almeno ai suoi albori: convocazione periodica di assemblee parlamentari, mandato imperativo per i deputati, revoca del mandato stesso in caso di tradimento della fumosa e fantomatica «volontà generale»5. A ciò si aggiunga che il pensatore ginevrino si esprimeva in termini di potere che proviene dal popolo e che al bene di quest’ultimo deve rivolgere la propria azione, senza valorizzare nello specifico la libertà individuale dei singoli componenti del popolo stesso, dal quale, peraltro, venivano escluse le donne (prive dei diritti politici e sociali), più propense, secondo ­Rousseau, a dilettarsi in faccende mondane e pettegolezzi che nelle questioni pertinenti alla «volontà generale». Non è un caso che l’evento storico decisivo per la modernità, la Rivoluzione francese di cui lo stesso Rousseau è ritenuto ispiratore, avesse abolito la schiavitù ma non concesso il diritto di voto alle donne, non riconoscendo loro quei diritti universali in nome dei quali una paladina della causa femminile come Olympe de Gouges finì ghigliottinata6. Una teoria, quella di Rousseau, democratica ma non liberale, perché ispirata all’uguaglianza collettiva ma non alla libertà individuale. Allo stesso modo, peraltro, la teoria liberale è stata, almeno fino a tutto l’Ottocento, un ideale modellato sulla libertà individuale, ma incapace di essere declinato in termini di universalità e uguaglianza. Se il motto orwelliano «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri» poteva valere per la democrazia 163

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totalitaria scaturita tanto dalla Rivoluzione francese quanto da quella bolscevica del 1917, basta sostituire l’aggettivo «uguali» con «liberi» per avere un’epigrafe in grado di riassumere l’essenza della democrazia liberale scaturita dalle rivoluzioni del 1689 in Inghilterra e del 1776 negli Stati Uniti, sovente definita come una «democrazia per il popolo dei proprietari e dei signori». Dove, cioè, potevano godere dei diritti formalmente teorizzati per tutti soltanto le classi sociali più abbienti e nobili. In altri termini l’Occidente non è mai riuscito, storicamente e ancora ai giorni nostri, a realizzare una democrazia in cui i liberi fossero uguali nelle loro possibilità di esercitare una libertà effettiva, e ciò malgrado un autore, pur liberale, come Leonard Trelawny Hobhouse avesse messo in guardia sin dai primi del Novecento sul fatto che «la libertà implica l’uguaglianza»7. Come si è passati da secoli e autori in cui la democrazia era malvista nella teoria e certamente non applicata nella pratica, a un importante filosofo del Settecento (Rousseau) e a una fondamentale teoria filosofico-­ politica (il liberalismo) che, pur richiamandosi entrambi all’ideale democratico, hanno finito per produrre una forma gravemente incompleta e contraddittoria di democrazia, ben lontana da quella che si è affermata nella seconda metà del XX secolo? In breve, le due principali radici filosofico-politiche dell’Occidente – quella liberale classica, da una parte, e quella giacobino-socialista, dall’altra – sono state ben lungi dal riuscire a far crescere rigoglioso il grande albero della democrazia. Questo lungo percorso accidentato, non esente da contraddizioni, che l’Occidente ha intrapreso nella contrastata e mai compiuta affermazione dell’ideale democratico, ci mette di fronte all’urgenza di riconsiderare il concetto stesso di democrazia. Essa si rivela come il 164

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sistema di governo più fragile, forse perché il più incerto, indefinibile, bisognoso di continui aggiustamenti, ritocchi e ripensamenti. E questo fin dal nome, che ci riporta a qualcosa che non c’è, non c’è mai stato e che, probabilmente, è pressoché impossibile da realizzare: il potere del popolo. Il desiderabile che non può esistere nella realtà, tecnicamente, viene definito utopia. Se tale utopia, invece che come ideale regolativo a cui tendere, viene spacciata per dato di fatto esistente, appartenente a una civiltà e non a un’altra, ci troviamo di fronte a quella che si configura come un’ideologia nel senso deteriore del termine, ossia una falsa coscienza che non solo si rivela «espressione più di una fede politica che di un argomento compiuto», ma viene utilizzata per dissimulare o giustificare una «tendenza pratico-politica unilaterale, che non può dare fondamento a una scienza», riavendosi piuttosto come «uno strumento di dominio e di egemonia sociale»8. In entrambi i casi, siamo di fronte a quello che il sociologo Karl Mannheim definiva nel 1936 «uno stato della mente incongruente rispetto allo stato di realtà all’interno del quale esso avviene»9. Questa continua oscillazione della democrazia tra utopia e ideologia può essere raffigurata attraverso i due esempi classici della narrazione politica occidentale, fra i quali intercorrono oltre due millenni di storia: quella ateniese e quella americana, entrambe caratterizzate da alcuni aspetti che, seppure nell’ambito di contesti e tempi lontanissimi, le accomunano in maniera significativa e sorprendente. Non a caso il filosofo e politico rivoluzionario Thomas Paine, nato in Inghilterra ma considerato tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, alla fine del Settecento scriveva: «ciò che Atene rappresentava in miniatura, l’America lo diventerà in grandezza naturale. La prima era la meraviglia del mondo antico, la secon165

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da sta diventando oggetto di ammirazione e modello per i tempi presenti»10. Il filo rosso, composto da molteplici similitudini, che lega l’Atene classica a quella che nel pensiero comune rappresenta la più grande democrazia dei tempi moderni, gli Stati Uniti, mostra come quest’ultima sia portatrice di elementi in grado di far emergere contraddizioni e paradossi. Atene Gli autori contemporanei e i manuali di storia si fanno pochi scrupoli a utilizzare il termine «democrazia» riferendolo all’Atene classica – periodo corrispondente a meno di due secoli (594-429 a.C.) –, talvolta senza curarsi di analizzare le notevoli differenze tra quel tempo e il nostro, tra il concetto proprio dell’epoca antica e quello che si è affermato nella seconda metà del Novecento. Basterebbe un’analisi terminologica per accorgersi, ad esempio, che il demos dell’epoca non corrisponde affatto alla nostra concezione di popolo. Si trattava, infatti, di una cerchia ristretta di persone, da cui erano escluse le donne, prive di diritti politici e sociali, e titolari di una cittadinanza puramente formale, finalizzata a mettere al mondo figli maschi, loro sì, effettivamente «cittadini»11. In essa non erano inclusi i nati fuori Atene, e tutti coloro che non raggiungevano un certo censo (seppure in forma graduale, in base al livello di reddito o di proprietà). Oltre, naturalmente, agli schiavi12. A queste rilevanti clausole di esclusione, che di fatto negavano a ben oltre la metà della popolazione ateniese il diritto di prendere parte alla vita democratica, va aggiunta un’altra notevole differenza. Quella ateniese era una democrazia diretta, possibile soltanto all’interno di comunità geograficamente e numericamente ridotte, in cui la minoranza di cittadini in possesso dei titoli 166

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suddetti prendeva parte in prima persona alle discussioni e alle deliberazioni pubbliche. Tali aspetti hanno condotto importanti studiosi a concludere che i membri effettivi dello Stato ateniese, coloro che realmente esercitavano la democrazia diretta, «rappresentavano una minoranza della popolazione», ovvero «un’élite di famiglie ricche e ben posizionate», e per questo si doveva parlare di Atene non come «un esplicito esempio di democrazia», bensì come di un modello che «presentava alcune tipiche caratteristiche democratiche, pur non essendo essa stessa una democrazia»13. Quella del mondo contemporaneo, invece, è una democrazia rappresentativa che, fatti salvi i limiti di età, consente a tutti i cittadini di esprimersi con il voto e, almeno in teoria, di candidarsi a rappresentare la volontà popolare nelle sedi parlamentari. Un percorso lungo e accidentato che ha portato alla conquista di un suffragio effettivamente universale all’interno delle democrazie occidentali. Percorso che si è quasi integralmente risolto solo nella seconda metà del XX secolo, che non può consentirci di rimpiangere né invocare quella democrazia diretta antica in cui più dei due terzi della popolazione si vedevano privati dei diritti politici e sociali. Mentre la democrazia degli antichi prevedeva il governo diretto di tutti quei pochi che facevano parte del demos, quella dei contemporanei presuppone il governo dei pochi che vengono eletti a maggioranza in rappresentanza di tutti gli altri. Né quella antica né quella contemporanea sono riuscite a corrispondere all’ideale insito nel termine stesso di «democrazia», intesa come governo del popolo o almeno rappresentanza degli interessi e dei bisogni di un’ampia maggioranza di esso. Nel caso dell’Atene classica, la memoria storica più diffusa celebra tra i costruttori della democrazia figure 167

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come Solone, Clistene e Pericle. Tutti e tre erano esponenti delle classi più agiate, a conferma del fatto che il concetto di «bello e buono» (kalós kai agathós), che vedeva il proprio corrispettivo nel bonus e lautus della società romana – cioè di colui che è fornito di quei c­ rismi atti a innalzarlo rispetto alla restante popolazione –, implicava necessariamente il prerequisito della ricchezza14. Autorevole conferma di ciò si può rinvenire nel pensiero di Aristotele, secondo cui «il vero fondamento della differenza fra oligarchia e democrazia è rappresentato dalla povertà e dalla ricchezza»15. Alle nobili e agiate origini dei fautori della democrazia hanno corrisposto politiche congruenti. Così, Solone fu sostenitore di una democrazia oligarchica o aristocratica, in cui la rigida divisione della popolazione libera in classi sociali riservava esclusivamente a quelle superiori la possibilità di accedere alle cariche, e quindi alle decisioni politiche. A Clistene si debbono poi l’introduzione dell’isonomia, l’uguaglianza formale davanti alla legge, e dell’isegoria, la libertà di parola in assemblea per tutti i cittadini, pur con le cariche politiche di maggior peso ancora riservate agli esponenti delle famiglie più ricche. In questo senso, sarebbe più corretto parlare di timocrazia, cioè un sistema di potere fondato sul censo. Non a caso un autorevole storico del mondo antico, simpatizzante della democrazia ateniese come Moses Israel Finley, ricordandone le principali figure e le vicende collegate ammetteva i «momenti critici nella preistoria e nella storia della democrazia ateniese»16. Grandi passi in avanti si registrarono infine con il governo di Pericle, anch’egli proveniente da una famiglia abbiente, ma in grado di mostrare una nobile indifferenza al denaro e, con l’eccezione di brevissimi periodi, di godere del favore popolare per circa un trentennio. Leader carismatico e illuminato, volendo riprende168

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re la celebre definizione di Weber, seppe esercitare il potere «mediante il carisma dello spirito e della parola»17. Si distinse anche per i tentativi di bilanciare i poteri e limitare le funzioni a cui potevano accedere le varie classi sociali, operando tuttavia un’obiettiva estensione dei diritti politici, al prezzo di non poche contestazioni da parte degli uomini più illustri del suo tempo. Costoro erano in pressoché unanime accordo nel contestare ogni forma di democrazia, specie quella in cui il popolo si mostrasse entusiasta verso l’abile oratore di turno, capace di piegare a suo favore passioni e conflitti. Nonostante questi indubbi progressi, anche per il governo di Pericle, anzi soprattutto per quest’ultimo, sono opportune almeno due precisazioni di non poco conto. Innanzitutto, il novero degli esclusi dai diritti politici continuava a essere rilevante: schiavi, immigrati, non possidenti e, naturalmente, le donne. Basti pensare alla celebre e famigerata legge introdotta da Pericle nel 451 (o 450) a.C., con cui si punivano i matrimoni tra cittadini e non cittadini, per cui erano previste pene che non colpivano tanto i trasgressori quanto i loro figli, dichiarati «bastardi» e privati per tutta la vita dei principali diritti politici e sociali18. Inoltre, sotto il suo governo si giunse a un rapporto di tre schiavi ogni due cittadini. L’aumento del numero degli schiavi è probabilmente legato al secondo grosso limite imputabile al governo di Pericle: l’oggettiva estensione dei diritti politici era stata possibile grazie a una sorta di esternalizzazione del conflitto sociale, una politica imperialistica e di conquista spesso attuata con violenza, per perseguire la quale Pericle si impegnò nell’allestimento di un’imponente flotta navale. Celebre, in questo senso, la durissima e spietata guerra contro il popolo dei Melii, condotta sulla base del principio per cui: 169

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ciò che è divino e ciò che è umano per necessità di natura comandi sempre quando è più forte [...]. Noi non abbiamo stabilito questa legge [affermavano gli ambasciatori di Atene] né siamo stati i primi ad applicarla dopo che era stata stabilita, ma l’abbiamo ricevuta quando esisteva già, ce ne serviamo, e la lasceremo al futuro, nel quale esisterà per sempre. Sappiamo che anche voi o altri, se raggiungeste la stessa nostra potenza, fareste lo stesso19.

Curiosamente anche Platone, pur essendo un fervente critico di Pericle (e, come abbiamo visto, della democrazia in generale), sembra condividere gli assunti ideologici sui quali si era basata la politica imperialistica della democrazia ateniese. In particolare, laddove fa dire a Callicle, nel Gorgia, che è legge di natura riscontrabile in tutti gli ambiti (fra gli animali come fra gli uomini) quella del più forte che prevale sul più debole, oppure quando, per tramite di Trasimaco, nella Repubblica esprime l’idea per cui è il governo, cioè il potere costituito, ad avere la forza di stabilire per legge ciò che è giusto, facendo sì che «la giustizia non sia altro che l’utile del più forte» e viceversa20. Oltre alla politica espansionistica, riferiva lo storico antico Tucidide, nel caso della rivolta di Mitilene l’esercito di Pericle si spinse a compiere perfino un eccidio di massa, non limitandosi a colpire i rivoltosi, bensì decidendo di «uccidere tutti i Mitilenesi di età adulta e di rendere schiavi i fanciulli e le donne»21. È proprio sotto il governo del democratico Pericle, in breve, che «la fiorente economia ateniese divenne fortemente interconnessa con la trasformazione di una città stato in una potenza imperiale con forte pulsione espansionistica [...] e un entusiasmo per la conquista»22, tanto che Finley si spinge a parlare di quello ateniese come di un «imperialismo che impiegò tutte le forme possibili di sfruttamento»23. 170

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È curioso che il nome di Efialte, salvo negli studi specialistici, sia stato per lo più rimosso dal novero dei governanti democratici ateniesi. Chi era costui? Di origini assai modeste, fu pressoché l’unico ad abolire quasi del tutto ad Atene il monopolio del consiglio di aristocratici in grado di esercitare il potere, l’Areopago, a cui si accedeva per diritto ereditario e soltanto se appartenenti alle classi più abbienti. Definito anche «il Robespierre dell’antichità» in virtù delle sue politiche effettivamente democratiche, Efialte rimase vittima di un misterioso attentato. Una fonte autorevole come Plutarco, biografo e filosofo del I secolo d.C., seppure con dichiarata perplessità ricorreva alla testimonianza di ­Idomeneo di Lampsaco (discepolo di Epicuro e autore di un’opera colma di pettegolezzi) per avanzare l’ipotesi che a far uccidere Efialte, corpo estraneo e anomalia di un potere riservato ai ricchi, fosse stato nientemeno che Pericle, il quale pure aveva compiuto insieme a lui riforme notevoli ma che, nella versione tramandata da Plutarco, si sarebbe stancato di essere considerato il suo secondo. Un’ipotesi alternativa, riportata sempre da Plutarco, riguarda la testimonianza di Aristotele, secondo il quale a uccidere Efialte non sarebbero stati i suoi nemici politici, bensì quelli personali (fra cui, in particolare, un certo Aristodico di Tanagra), appartenenti a quell’aristocrazia che non vedeva di buon occhio la sua inflessibilità nell’esaminare i conti e nel perseguire chi danneggiava il popolo. Comunque siano andate le cose, dobbiamo ritenere non casuale il fatto che subito dopo l’omicidio di Efialte, a prendere il potere in maniera incontrastata attuando una politica centrata sui due cardini dei lavori pubblici e dell’imperialismo bellico sia stato Pericle, celebrato ancora oggi come emblema della democrazia antica24.

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Stati Uniti La storia della democrazia americana inizia senza gli americani. E spesso è la genesi di un fenomeno a permettere di coglierne i tratti fondamentali, che altrimenti resterebbero nell’ombra. Da questo punto di vista non c’è dubbio che la storia americana vede un esordio all’insegna della violenza, quella dei coloni europei che hanno posto le fondamenta per l’edificio contraddittorio e grandioso che sarebbero divenuti gli Stati Uniti d’America. Ecco quanto raccontò Cristoforo Colombo, nel suo rapporto ai reggenti spagnoli che ne finanziarono la spedizione, a proposito degli indigeni Aruachi che corsero ad accoglierlo sulle coste delle odierne Bahamas: Ci portavano pappagalli e matasse di filo di cotone [...] insieme a tante altre cose [...]. Non imbracciano armi né le conoscono, perché mostrai loro le spade ed essi, per ignoranza, si ferivano prendendole per le lame taglienti [...]. Devono essere buoni e ingegnosi servitori [...]. Le Altezze Vostre con una cinquantina di uomini li terranno tutti sottomessi e potranno fare loro tutto ciò che vorranno25.

Il navigatore genovese considerava se stesso come «l’uomo del destino divino in un’età di promesse apocalittiche», ma la questione non si limitava alla sua persona. Egli, in effetti, rappresentava «l’incarnazione dello spirito e della mentalità europea – e specialmente mediterranea – del proprio tempo»: quella di «un fanatico religioso ossessionato dalla conversione, dalla conquista e dall’eliminazione di tutti i non cristiani», secondo le parole dello storico statunitense David Stannard26. Furono queste le basi, al tempo stesso ideologiche e pratiche, della «liberazione» delle terre d’oltreoceano per mano dei conquistatori europei, che facevano con172

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statare al medesimo studioso come già alla fine del Cinquecento la «scoperta del nuovo Mondo aveva provocato fra i 60 e gli 80 milioni di morti». Si trattò di uno «sterminio totale, realizzato di proposito, di interi gruppi sociali, religiosi ed etnici», i nativi Pellerossa e gli afroamericani deportati dai coloni per lavorare quelle terre sterminate27, il «più grande genocidio della storia dell’umanità», che per di più non si limitò al primo secolo di conquista del Nuovo mondo, ma si protrasse dal Seicento fino a quasi tutto l’Ottocento, in forme diverse e sempre più violente e scientifiche: malattie appositamente indotte, razzie, asservimento, guerre e massacri. Alcuni storici, seppure attraverso stime controverse, hanno avanzato l’ipotesi secondo cui nella sola America del Nord la popolazione nativa sarebbe stata soppressa per il 95%28. È oltremodo significativo che a legittimare lo sterminio dei nativi americani sia stato l’autore che meglio di chiunque altro ha saputo celebrare e descrivere la «democrazia in America», ricorrendo in questo caso a toni inusualmente provvidenzialistici, quasi come se la genesi degli Stati Uniti attraverso un genocidio fosse qualcosa di decretato dal giudizio insindacabile della volontà divina: Sebbene il vasto paese fosse abitato da numerose tribù di indigeni, si può affermare con ragione che al momento della scoperta esso non era che un deserto. Gli indiani lo occupavano, ma non lo possedevano, poiché soltanto con l’agricoltura l’uomo si impossessa di una terra, e i primi abitatori dell’America del Nord vivevano dei prodotti della caccia. I loro indiscutibili pregiudizi, le loro passioni incontenibili, i loro vizi e forse più ancora le loro selvagge virtù li esponevano a una inevitabile distruzione. La rovina di queste popolazioni iniziò il giorno in cui gli Europei si affacciarono sulle loro coste, e, sempre proseguita in seguito, oggi è quasi compiuta [...]. Sembra che la Provvidenza, ponendo queste gen-

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ti fra le ricchezze del Nuovo Mondo, ne abbia dato loro solo un breve usufrutto. In un certo senso essi erano là soltanto «in attesa». Quelle coste così adatte al commercio e all’industria, quei fiumi così profondi, quella sterminata vallata del Mississippi, quell’intero continente, apparivano allora come la culla vuota di una grande nazione29.

Sono parole di Alexis de Tocqueville, autore celebrato fra i classici della cultura liberale e occidentale in genere, il quale, mentre esaltava la grandezza della democrazia americana minimizzando l’orribile sorte toccata ai popoli nativi e ai neri, teorizzava e difendeva a spada tratta la legittimità del colonialismo francese nei confronti dei popoli africani e islamici. «Dal momento che abbiamo ammesso questa grande violenza della conquista, credo che non dovremmo indietreggiare di fronte alle violenze di dettaglio che sono assolutamente necessarie per consolidarla», scriveva Tocqueville nel 1846 a un generale delle truppe francesi a proposito delle azioni sanguinose perpetrate nei confronti degli africani. In un altro testo, lo stesso autore si preoccupava di specificare che, dopo aver bruciato le messi e svuotato i depositi, bisognava impadronirsi «di uomini inermi, donne e bambini», «necessità incresciose alle quali, però, qualsiasi popolo che vorrà fare la guerra agli Arabi sarà costretto a sottomettersi». Tutto questo, ovviamente, a beneficio esclusivo della potenza coloniale francese, per la cui forza e grandezza il mantenimento delle colonie si rivelava «necessario». Tanto più che lo stesso Tocqueville, nel Rapporto sull’Algeria (1847), era costretto ad ammettere come il lungo periodo di dominio avesse «reso la società musulmana molto più miserabile, più disordinata, più ignorante e più barbara di quanto non fosse prima di conoscerci»30. Né è opportuno cadere nell’errore di pensare che tali considerazioni siano da circoscrivere alla parte più 174

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conservatrice della cultura occidentale, per di più strettamente compromessa con gli affari coloniali del proprio paese, come nel caso di Tocqueville. La trasversalità del sentimento razzista, come anche del senso di superiorità caratteristico dell’Occidente, si riscontra anche in un autore come Nicolas de Condorcet, precedente rispetto alle campagne coloniali e appartenente alla cultura progressista dei Lumi. Rivolgendosi alle persone di colore, Condorcet scriveva: «la natura vi ha creati per avere lo stesso spirito, la stessa ragione, le stesse virtù dei Bianchi» e affermava che gli uomini di tutti i climi sono stati creati «uguali e fratelli per volere della natura» e che, per questo, costituisce un obiettivo irrinunciabile quello di «distruggere la disuguaglianza tra le nazioni»31. Eppure, quando si trattava di comporre studi più rigorosi rispetto alla condizione umana, lo stesso Condorcet si dichiarava convinto che una sola fosse la scala della civiltà, al cui vertice si trovano i popoli più illuminati, più liberi, più emancipati da pregiudizi: ça va sans dire non erano altri che i francesi e gli anglo-americani, poiché vi è una «immensa distanza che separa questi popoli dall’asservimento delle nazioni soggette a re, dalla barbarie delle tribù africane, dall’ignoranza dei selvaggi»32. Nel caso specifico della democrazia degli Stati Uniti, possiamo davvero dire che le sue vicende si presentano al tempo stesso come il prodotto e il culmine di un’intera tradizione occidentale caratterizzata dal senso di superiorità razziale e di perfetta legittimità nel sottomettere i popoli e le etnie ritenuti inferiori33. In tre secoli e mezzo di colonialismo e imperialismo, più di 12 milioni di africani oggetto della tratta degli schiavi vennero trasferiti nelle zone tropicali e sub-tropicali delle Americhe e oltre quattro milioni di persone persero la propria vita in schiavitù34. Un fenomeno quanto mai significativo che per gravità, dimensioni e conseguenze, ha condotto alcuni studiosi a definirlo non inferiore all’O175

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locausto35, ed esemplificativo di una condizione della democrazia americana che si estende per molti aspetti fino a Novecento inoltrato. A tal proposito risulta emblematico quanto riferito da Hannah Arendt in una lettera del 1960 (all’epoca la Arendt aveva ottenuto la cittadinanza statunitense da ­ qualche anno) indirizzata a Karl Jaspers. Agli alunni di tutte le ultime classi delle scuole medie di New York, veniva assegnato in quel periodo un tema: «Immaginarsi un modo di punire Hitler». «Si dovrebbe mettergli addosso una pelle nera, e poi obbligarlo a vivere negli Stati Uniti», era stata la risposta di una giovane studentessa di ­ eich e l’ideocolore36. La connessione fra il capo del III R logia e la storia americane più recenti non può essere considerata soltanto come il parto di una ragazzina di colore negli Stati Uniti della metà del Novecento. Negli anni venti del secolo scorso, infatti, il Ku Klux Klan e i circoli tedeschi di estrema destra coltivavano rapporti con gli ambienti del razzismo più feroce verso neri ed ebrei. Nel 1937, con il regime di Hitler al culmine, l’ideologo del nazismo Alfred Rosenberg celebrava gli Stati Uniti come uno «splendido paese del futuro», a cui andava riconosciuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», a cui adesso la Germania nazista doveva ispirarsi per realizzare questo progetto anche in Europa «con forza giovanile». Sempre la Germania hitleriana, ispirandosi alla storia statunitense dell’Ottocento – ma anche alla democrazia di Pericle –, vietava per legge la miscegenation, la contaminazione di sangue derivante dai rapporti sessuali e matrimoniali fra i membri della razza superiore, bianca o ariana, e quelle inferiori. Un entusiasmo confermato direttamente dallo stesso Hitler, il quale fin da giovane era stato un avido lettore delle storie western di Karl May, e aveva più volte dichiarato «la propria ammirazione per l’“efficienza” della campagna americana di sterminio contro i nativi 176

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americani». Nel Mein Kampf, inoltre, tesseva l’elogio degli Stati Uniti e della loro politica di Stato nazionale (e razziale) poiché «semplicemente escludeva certe razze dalla concessione della cittadinanza». Che non fossero soltanto attestati di stima teorici, è confermato dalla lettera che lo stesso Führer scrisse al «Daily Mail» il 4 settembre 1937, in cui dopo aver celebrato «l’attitudine coloniale storicamente unica e la forza navale della Gran Bretagna», auspicava un’alleanza con la Germania che successivamente coinvolgesse anche gli Stati Uniti, in modo da tenere alta la bandiera e «gli interessi del popolo bianco». Sentimenti di ammirazione che, soprattutto rispetto alla «grande conquista» del Far West, erano pienamente condivisi anche da Benito Mussolini37. Il Führer in persona, del resto, di cui è documentata la corrispondenza intrattenuta con numerosi scienziati americani fautori dell’eugenetica, riceveva con tutti gli onori Lothrop Stoddard, autore americano elogiato pubblicamente dai presidenti Harding e Hoover per i suoi studi, il quale aveva coniato il termine underman, da cui la traduzione tedesca untermensch, «sottouomo», utilizzata per gli scopi di cui sappiamo. La vicinanza fra gli Stati Uniti della «supremazia bianca» e la Germania del programma razzista ed eugenetico sembra così emergere sia sul piano ideologico che terminologico38. Allo stesso modo, non è un caso che la teoria razzista e l’eugenetica, che raggiunsero l’apice con l’orrore nazista, affondino le radici nella tradizione culturale e scientifica liberale ed europea, a cominciare da Charles Darwin. In una delle sue opere più celebri, lo scienziato inglese sottolineava il paradosso per cui tra i selvaggi i soggetti più deboli nel corpo e nella mente venivano eliminati subito, così che restassero in vita solo coloro che presentavano un «vigoroso stato di salute». «Noi uomini civilizzati, dall’altra parte», proseguiva il grande 177

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biologo, «cerchiamo ogni mezzo per porre ostacoli al processo di eliminazione», costruendo ricoveri per imbecilli, storpi e malati, promulgando leggi per i poveri e spingendo i nostri medici ad operare ogni tentativo per salvare la vita di ciascuno fino a che è possibile. «Nessuno che si sia occupato di allevamento degli animali domestici, dubiterebbe del fatto che ciò sia altamente dannoso per la razza umana», concludeva Darwin; e sempre nessuno, eccettuato il caso dell’uomo stesso, «può essere tanto ignorante da permettere ai suoi animali peggiori di nascere»39. La lezione di Darwin venne acquisita ed elaborata dal cugino Francis Galton, che per molti versi si può considerare il fondatore dell’eugenetica, la scienza che si propone di operare un miglioramento delle «qualità innate» della razza umana attraverso l’«evoluzione e la preservazione delle razze più elevate»40. Facendo suoi gli assunti darwiniani, Galton analizzava l’evoluzione storica delle razze sottolineando come quelle più inadatte (unfit) fossero state sottomesse o spazzate via sotto la pressione di civiltà superiori che imponevano le loro attitudini. Una «terribile lezione» che la Storia ci ha impartito eliminando dalla faccia della terra, nel giro di tre secoli, intere civiltà che popolavano il continente nord-americano, l’Australia, la Nuova Zelanda ecc.41. Fattore determinante, oltre che assolutorio rispetto ai peggiori atti di violenza, della maggiore forza esercitata dalle civiltà dominanti è costituito dall’intelligenza superiore, che per Galton rappresentava un effetto diretto della razza. Non era un caso, infatti, che le etnie sottomesse o scomparse appartenessero a tipologie umane di pelle non bianca. E a quale livello di civiltà poteva mai arrivare, del resto, quella razza nera che, nella migliore delle ipotesi, cioè quando fornita di coscienza, «inorridisce della sua stessa natura selvaggia e impulsiva», esposta agli entusiasmi e alle pulsioni irrazionali 178

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suscitate dal primo predicatore che trova sulla propria strada42? Gli stessi storici americani, infine, ammettono che l’eugenetica nata in Inghilterra dalle teorie di Galton e destinata a prosperare durante il III Reich, aveva trovato i suoi più entusiasti prosecutori (e finanziatori) proprio negli Stati Uniti43. Ciò è vero fino al paradosso, perché quelle misure eugenetiche eclissatesi con il crollo del regime nazista, sopravvissero negli Stati Uniti del periodo postbellico. Ancora nel 1952 una trentina di Stati dell’Unione proibivano i «matrimoni interrazziali», considerando l’incrocio razziale un «delitto di fellonia» (mentre negli altri Stati costituiva «un reato di minore gravità»). Elemento di contaminazione erano non soltanto i neri, ma anche (a seconda dello Stato), i mulatti, gli indiani, i mongoli, i coreani, i cinesi e più in generale «ogni persona di discendenza negra o indiana fino alla terza generazione compresa», ovvero «ogni persona avente 1/8 o più di sangue negro, giapponese o cinese», o anche «avente 1/4 o più» di sangue kanaka (hawaiano)44. Strettamente connesso a questa considerazione vi è, inoltre, un non poco ingombrante scheletro nell’armadio, rifiutato dai governi americani ai tempi della seconda guerra mondiale come anche ai giorni nostri. In tal senso risulta perfino esilarante la lettera che il presidente americano Franklin Delano Roosevelt indirizzava nell’agosto del 1939 a re Vittorio Emanuele III e ad Adolf Hitler, in cui sosteneva perentorio: «il popolo americano è coeso nel suo opporsi alla politica della conquista e della dominazione militare», come anche all’assoggettamento e allo sfruttamento dei popoli. Parole espresse nella convinzione che, a guerra mondiale ormai alle porte, «il disastro non è opera nostra. Nessuno dei nostri atti ha contribuito alla genesi delle forze che stanno dando l’assalto alle fondamenta della civil179

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tà»45. È palese la rimozione del ruolo, in realtà notevole, che la democrazia americana ha ricoperto, tanto sul piano dell’affermazione di teorie razziste quanto su quello pratico di discriminazione e assoggettamento di etnie e popolazioni non bianche, in patria come all’estero. L’esercizio di una politica imperialista mette in evidenza una similitudine molto rilevante tra l’antica democrazia ateniese e quella americana. Fra Otto e Novecento gli Stati Uniti, oltre a esercitare un ruolo di egemonia anche militare su tutte le Americhe del Centro e del Sud, invadevano o conquistavano il Messico (fra l’altro, per ripristinarvi la schiavitù), Cuba, le Filippine, la Repubblica Dominicana, Grenada, Panama, il Vietnam e, ai giorni nostri, sono stati e sono tuttora impegnati a «esportare democrazia, benessere e civiltà» anche in molti paesi del Medioriente, non a caso tra i più ricchi di petrolio e materie prime. Tutto ciò all’insegna della formula programmatica «What we say goes» (Si fa quello che diciamo noi), secondo il principio guida della politica internazionale che è la Rule of Force, la regola della forza, e con la compiacenza degli intellettuali impegnati a dissimulare la realtà per venire incontro ai bisogni del più forte, stando all’amara considerazione di Noam Chomsky46. Ciò è vero al punto che uno dei più influenti e apprezzati opinion makers americani, Charles Krauthammer, in maniera assai compiaciuta, ha rilevato che «nessun paese [come gli Stati Uniti] è stato altrettanto dominante dal punto di vista culturale, economico, tecnologico e militare dai tempi dell’Impero Romano»47. Ma che tipo di democrazia è, si chiedeva nel 2008 il filosofo della politica americano Sheldon Wolin48, un paese come gli Usa che, nato da una «rivoluzione contro il potere imperiale», porta ben impresse le «stimmate dell’impero»? Potremmo rispondere che è una demo180

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crazia talmente convinta del ruolo, della forza e della missione di cui si sente investita, da rimuovere dalla propria coscienza collettiva l’aver contribuito a, ed essere stata protagonista di, alcuni degli episodi più tristi e drammatici della storia umana. Valeva nel 1939, quando era presidente Roosevelt, ma si tratta di un discorso ancora attuale nel XXI secolo. Si pensi soltanto agli eventi seguiti al tragico episodio dell’11 settembre 2001. Se l’allora presidente George W. Bush si dichiarava «dispiaciuto per l’incomprensione che il nostro paese vive presso i popoli che ci odiano», poiché lui, come del resto molti americani, sapevano bene «quanto siamo buoni»49, in un contesto molto più tecnico come il Documento sulla strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, elaborato quando era già in corso la «guerra infinita» contro il terrorismo internazionale, i toni assumevano contorni al tempo stesso più inquietanti e chiarificatori: Per gran parte del XX secolo il mondo è stato diviso da una grande battaglia delle idee: concezioni totalitarie distruttive contro libertà e uguaglianza. La grande battaglia è finita. Le concezioni militanti di classe, nazione e razza che promettevano l’utopia e hanno portato miseria sono state sconfitte e screditate [...]. Nel corso della storia, la libertà è stata minacciata dalla guerra e dal terrore; è stata messa in pericolo dalle volontà contrastanti delle potenze e dai progetti perversi dei tiranni ed è stata messa alla prova da povertà e malattie. Oggi l’umanità ha nelle sue mani l’opportunità di favorire il trionfo della libertà su tutti questi avversari. Gli Stati Uniti accettano la responsabilità di mettersi alla guida di questa grande missione50.

Parole che non possono non suscitare apprensione, ma anche notevoli perplessità, soprattutto laddove si fa riferimento alla «nazione» e alla «razza», concetti che hanno avuto un peso determinante nell’ideologia ame181

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ricana e occidentale ben prima che emergessero i regimi nazista e stalinista, ritenuti modelli storici da combattere, ma anche prima che si affacciasse il terrorismo fondamentalista di matrice islamica. Nel prosieguo del documento si specificava, inoltre, che «è essenziale riaffermare il ruolo centrale della forza militare americana», con l’intenzione di intervenire militarmente ovunque, anche in forma preventiva e indipendentemente dalle decisioni di amici e alleati, sulla base di «quando lo richiederanno i nostri interessi e le nostre uniche responsabilità». Il tutto, però, non senza la rassicurante precisazione che gli Stati Uniti avrebbero agito «con spirito umanitario»51. Che si fosse di fronte a un palese autoconferimento di supremazia, non soltanto rispetto ai paesi che appoggiavano il terrorismo ma anche rispetto a tutte le altre nazioni della comunità internazionale, veniva chiarito dalla precisazione secondo cui gli ufficiali, i militari e gli agenti statunitensi «non devono essere soggetti alle possibilità di indagini, inchieste e azioni giudiziarie da parte della Corte penale internazionale, la cui giurisdizione non si estende al continente americano e che noi non accettiamo»52. Infine, se a tutto questo aggiungiamo che, sulla scorta degli attentati dell’11 settembre 2001, il governo americano varò svariate misure (molte delle quali tuttora in vigore e persino aggiornate), che non solo violavano e limitavano la privacy e la libertà dei cittadini, americani e non, ma consentivano anche la promulgazione di leggi fiscali e di mercato che, a detta del quotidiano economico «The Wall Street Journal», curavano esclusivamente gli interessi delle grandi società finanziarie, e delle classi sociali più abbienti, sommando tutti questi dati riusciamo a farci non solo un’idea del perché uno studioso americano si sia spinto a parlare di «imperialismo domestico», ma anche a definire gli aspetti quan182

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to mai problematici e contraddittori che hanno connotato la democrazia americana lungo tutto il corso della sua storia53. Una storia che, come quella della democrazia ateniese e della democrazia in genere, rappresenta il vertice raggiunto dal genere umano. Ma, allora come oggi, non senza che a farne le spese siano molti di quegli esseri umani che una democrazia propriamente detta dovrebbe preservare da regimi assai peggiori. Le quattro date che sconvolsero il mondo Malgrado gli aspetti problematici e le contraddizioni che abbiamo evidenziato in quest’analisi sommaria dei due paesi simbolo della democrazia occidentale antica e moderna, non v’è dubbio che essa rappresenti il punto più alto dello sviluppo di quei governi in grado di estendere al massimo i diritti e le possibilità della popolazione. Da questo punto di vista, il trentennio tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni settanta del Novecento ha rappresentato una sorta di età dell’oro per i paesi socialmente e culturalmente più sviluppati. In questo tornante della Storia, quantomeno occidentale, abbiamo assistito a una considerevole estensione dei diritti politici e sociali, alla diffusione di un welfare state in grado di garantire giustizia sociale e tutela delle fasce più deboli, nonché all’affermazione di Stati democratici i cui governi hanno risposto nella maniera ragionevolmente più ampia alle istanze provenienti dai cittadini-elettori. La lunga e tormentata vicenda della democrazia occidentale ha raggiunto in questo periodo il suo massimo splendore, tanto da spingere lo storico Eric Hobsbawm a parlare di un «mondo del capitalismo avanzato che 183

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aveva attraversato una fase del tutto eccezionale, se non unica, della propria storia», caratterizzata da una «specie di matrimonio fra il liberalismo economico e la socialdemocrazia, con elementi sostanziali presi in prestito dall’Unione Sovietica, che per prima aveva sperimentato l’idea della pianificazione economica»54. Tuttavia, si tratta di un periodo sorprendentemente limitato rispetto a quello secolare per cui si utilizza il termine «democrazia». Soprattutto, è una fase che, a partire dalla metà degli anni settanta del Novecento, ha visto una netta regressione delle teorie come delle politiche democratiche, tanto che alcuni autori hanno fatto riferimento a un’epoca postdemocratica55, volendo indicare un tornante di significativa retrocessione della democrazia, come anche della giustizia sociale. È possibile ripercorrerla attraverso quattro date simboliche corrispondenti ad altrettante tappe di questo cammino. 1974 Friedrich August von Hayek riceve il premio Nobel per l’economia. Hayek può essere considerato a tutti gli effetti il «profeta del neoliberismo», teoria economica che vede nel mercato e nei suoi meccanismi l’istituzione fondamentale di ogni società, nonché il legislatore e produttore di ogni valore umano e sociale. Secondo il pensatore austriaco, il mercato è un’istituzione perfettamente in grado di conciliare in maniera armonica gli interessi egoistici e concorrenziali dei singoli individui. In questo senso, la società libera è quella che limita quanto più possibile l’intervento del governo sulle questioni economiche, lasciando che gli individui perseguano i propri interessi all’interno di un meccanismo concorrenziale che si regola unicamente attraverso gli apparati impersonali della domanda e dell’offerta e del sistema dei prezzi. 184

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Allo scopo di ottenere un sistema di questo tipo, Hayek postulava l’inadeguatezza della ragione umana nel costruire società che fossero governate da leggi difformi rispetto a quelle della naturale evoluzione economica e sosteneva che l’ideale della giustizia sociale – e quindi di una legislazione volta a tutelare le classi sociali più deboli – fosse un miraggio funesto, in grado di scatenare malcelate tendenze totalitarie. In perfetta conseguenza con le suddette idee, infine, ancora negli anni settanta del secolo scorso delineava un sistema alternativo a quello della democrazia, che definiva «demarchia», il quale di fatto escludeva dal diritto di voto tutti i dipendenti dello Stato, i pensionati, coloro che percepivano un qualsiasi sussidio statale e forse anche le donne56. Conferirgli il premio Nobel assumeva evidentemente un valore simbolico, rivelatore di quello che stava diventando lo spirito del tempo. Ma non di solo valore simbolico si parla, perché anche nella realtà i governi di Ronald Reagan negli Usa e di Margaret Thatcher in Inghilterra furono i primi di una lunga serie a operare la svolta neoliberista, ispirandosi alle tesi del pensatore austriaco, per smantellare il sistema keynesiano di diritti e tutele sociali, con cui si era fino a quel momento garantita una certa giustizia sociale57. Il sistema ispirato al nuovo corso di Keynes, negli anni d’oro del capitalismo (1945-1975), grazie all’incremento della tassazione progressiva (chi più possedeva più pagava) e della spesa sociale, non solo non aveva distrutto il capitalismo, come temuto da Hayek e dai teorici liberisti, ma lo aveva reso più forte, facendo registrare nei paesi capitalisti più ricchi un tasso di crescita senza pari58. Malgrado ciò, alla fine degli anni settanta ebbe inizio la lunga fase di distruzione del modello keynesiano che, attraverso politiche di deregolamentazione della finanza, di privatizzazione, di tagli allo Stato sociale, di contra185

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zione dei diritti politici e sociali dei lavoratori, ma anche di indebolimento della democrazia, è giunto fino a oggi. Ai nostri giorni registriamo un nuovo allargamento della forbice sociale, come avvenuto fino al periodo precedente la seconda guerra mondiale, ossia di una disuguaglianza sempre più ampia e intollerabile fra pochissimi sempre più ricchi e moltissimi sempre più in difficoltà. Quando a detenere il 20% della ricchezza mondiale è lo 0,1% della popolazione del pianeta, e ancor più quando l’1% degli abitanti della Terra possiede il 50% del patrimonio totale, succede che la dinamica dell’accumulazione e della distribuzione delle ricchezze a livello globale si avvia inesorabilmente verso «traiettorie esplosive e spirali di disuguaglianza fuori da ogni controllo»59. Risulta fin troppo evidente che il dominio della finanza si è sostituito al governo democratico della politica, quello che, per quanto possibile e senza colpire le libertà individuali, mira a realizzare una giustizia sociale e un’equa distribuzione delle opportunità, ma anche un’equa distribuzione delle ricchezze e dei guadagni. È il governo ispirato dal criterio della giustizia di cui parlava il filosofo americano John Rawls, che ammette le «disuguaglianze economiche e sociali» soltanto «per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati» e quando sono connesse a «cariche e posizioni aperte a tutti», in una condizione di «giusta uguaglianza delle opportunità». Il governo democratico della politica ha ben presente che la personalità morale, propria di ogni essere umano, è la condizione sufficiente per avere diritto a una giustizia uguale, e che non esiste razza o gruppo umano riconosciuto che manchi di tale attributo60. È sotto gli occhi di tutti, infine, come il predominio della logica neoliberista e del potere finanziario abbia prodotto quella disuguaglianza economica che il politologo americano Robert Dahl, già nel 1985, conside186

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rava così manifesta da creare violazioni della libertà politica e della democrazia, arrivando a invocare per l’economia statunitense «misure molto ampie di giustizia distributiva»61. 1989 Con il tracollo repentino e fragoroso dell’Unione Sovietica (e del cosiddetto comunismo realizzato) viene meno il contraltare ideologico e politico che di fatto aveva garantito anche nelle democrazie liberali un bilanciamento tra economia di mercato (libertà) e giustizia sociale (uguaglianza). Il ruolo di puntello critico e fattivo del sistema capitalistico, storicamente svolto dai partiti socialisti e comunisti, nonché dai sindacati, aveva reso possibile durante il trentennio d’oro l’affermazione delle cosiddette liberal-democrazie, sistemi di governo che conciliavano liberalismo e socialismo, economia di mercato e diritti politici e sociali dei lavoratori. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che il 1989 ha rappresentato la grande frattura o addirittura, secondo la definizione del politologo americano Francis Fukuyama, la «fine della storia», poiché ormai il capitalismo liberale rimaneva l’unico soggetto dominante della scena mondiale, perfettamente in grado di affermare i propri dettami e valori a livello globale senza alcun intralcio da parte dei suoi avversari storici (nazismo e comunismo) e, soprattutto, senza alternative realisticamente praticabili all’orizzonte62. Due aspetti in particolare ci permettono di cogliere l’effettiva portata trasformatrice del 1989. Il primo riguarda il fatto che «le società che ritengono che la propria storia sia finita [...] solitamente sono quelle la cui storia si sta avviando al declino», per cui alla comprensibile soddisfazione per il trionfo di certi ideali non 187

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può non accompagnarsi l’inquietudine per il futuro prossimo63. Il secondo, strettamente legato al primo, concerne il tipo di società verso cui ci stiamo dirigendo. Lo stesso Fukuyama esprimeva preoccupazione su questo tema, concludendo con la sconcertante prospettiva per cui «la fine della storia sarà un momento molto triste», in cui non assisteremo più alle sfide dell’immaginazione umana e alle eroiche battaglie dei principi astratti, in cui le idee, gli ideali e il coraggio giocano un ruolo di primo piano. Tutto questo sarà infatti sostituito dal puro calcolo economico e dall’infinita risoluzione di problemi tecnici volti a soddisfare le richieste sempre più sofisticate di un uomo che non si assume più le proprie responsabilità né i rischi delle scelte che opera, ma è ridotto a consumatore la cui vita sarà sempre più simile a quella di un «cane»64. Escludendo che l’uomo sia riuscito a costruire un tipo di società in cui è stata abolita nientemeno che l’ingiustizia, su tutto il resto è difficile non concordare con il politologo americano. La fine della contrapposizione ideologica fra comunismo e liberalismo, che per molti versi è stata anche la loro sintesi, ma soprattutto il trionfo di un sistema regolato unicamente dai meccanismi tecno-finanziari, ha lasciato campo libero al governo della teologia neoliberista, che in questo modo è stata in grado di imporre i suoi dogmi e il suo spettro di valori in maniera ormai incontrastata. 1995 È in questo contesto che assume senso e rilievo la data simbolica in cui venne lanciato sul mercato il software Windows 95 che, con la sua interfaccia oltremodo semplificata rispetto ai precedenti, ha agevolato la dif188

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fusione capillare dei personal computer (e di Internet) nei paesi sviluppati. Quella della Rete è stata una rivoluzione che ha significativamente modificato tutti gli aspetti della dimensione umana, sul piano individuale e sociale. Rispetto a quest’ultimo, emerge nettamente la stretta connessione fra tecnologie digitali e nuova economia, tramite l’affermarsi di una networked economy, o economia dell’informazione in rete che, fornita di un sistema nervoso elettronico, sta sostituendo la vecchia economia dell’informazione industriale, fino ad arrivare al punto in cui il network è l’impresa. Ciò ha avuto un’immediata ricaduta sul piano più strettamente politico, ponendoci di fronte al «passaggio da una sfera pubblica di massa a una sfera pubblica in Rete»65. La Rete era stata presentata dai suoi apologeti come una grande occasione di potenziamento della democrazia: più informazioni accessibili a tutti, rapporti alla pari nella dimensione online, maggiori possibilità di conoscenza e di intervento pubblico per i cittadini, più estese opportunità di controllo del potere politico da parte del popolo. A distanza di oltre vent’anni, invece, scopriamo che le cose sono andate diversamente. Le tecnologie mediatiche hanno conferito più influenza e potere di sorveglianza ai governi che alle popolazioni, contravvenendo alla nota definizione della democrazia secondo cui essa rappresenta «quel regime in cui i governati hanno il potere di controllare i governanti, e non il contrario». Le stesse tecnologie hanno prodotto cittadini mediamente meno informati e meno impegnati nelle questioni pubbliche e sociali, a esclusione di quello sfogatoio virtuale, il più delle volte inquinato da notizie false e linguaggio triviale, che sono i social network. Oltre ad aver impoverito tanto la dimensione della conoscenza e del dibattito pubblico, conducendo a un 189

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analfabetismo funzionale (persone che sanno leggere, ma non comprendere ed elaborare ciò che leggono), oltre ad aver trasfigurato la democrazia in senso populista, la Rete si è rivelata anche il più fedele alleato dell’ideologia neoliberista e dei poteri finanziari. Del resto essa rappresenta per i fanatici della teologia economica il migliore dei mondi possibili: in Rete non vi è uno Stato, non vi sono leggi né norme o anche solo filtri qualitativi in grado di garantire ragionevolmente elementi come la veridicità delle informazioni, la giustizia e la protezione dei più deboli. In Rete non vi è potere pubblico e politico in grado di tutelare il bene comune, tanto che essa si presenta di fatto come un luogo socialmente indefinito in cui si incontrano e interagiscono virtualmente delle solitudini comunicanti. In Rete, infine, non esiste l’idea di scuola ed è fisiologicamente assente ogni intento educativo rivolto agli utenti. Considerando che sono soprattutto gli adolescenti a trascorrere la maggior parte del proprio tempo in questa dimensione, da cui traggono informazioni e, in generale, fanno esperienza e conoscenza di molti aspetti della vita reale, possiamo cogliere tutta la drammaticità di un luogo che si configura come il più grande e suggestivo avversario della scuola, ma anche dell’essere umano, visto che la scuola è, o dovrebbe essere, l’istituzione deputata a formare individui forniti di un pensiero autonomo e critico, cittadini attivi di una democrazia. La Rete sta invece per lo più fabbricando individualità problematiche, egoistiche e disinteressate a ogni verità che non sia già quella che credono di possedere, e quindi sostanzialmente incapaci di prendere parte in maniera competente e fattiva alle questioni pubbliche e sociali. Tornano alla mente le parole con cui il massmediologo Henry Jenkins concludeva la sua Cultura convergente nel 2006: «La cultura convergente è il futuro, ma 190

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sta prendendo forma soltanto oggi. I consumatori saranno più potenti, all’interno della cultura convergente, soltanto se riconosceranno e utilizzeranno quel potere al tempo stesso come consumatori e cittadini, come partecipanti attivi della nostra cultura»66. Un quadro del genere, che va in direzione opposta rispetto a un potenziamento della democrazia, ricorda l’anarchia propria dello stato di natura di cui parlava Thomas Hobbes, dove gli uomini, in assenza di un potere che li tenga soggiogati, vivono la condizione chiamata «guerra», e questa guerra è tale che «ogni uomo è contro ogni uomo»67. A prevalere non è dunque il più giusto o sapiente, bensì il più forte, che ancora una volta ai giorni nostri è anche il più ricco. Si ritorna, in questo modo, a quella forma di governo antica che, fondata sul censo, Aristotele chiamava «timocrazia» e considerava una forma degenerata di democrazia68. 2001 In un certo senso l’11 settembre, data del terribile e tragico attentato di New York, insieme a ciò che ne è seguito, costituisce la sintesi e il punto di approdo della grande trasformazione che abbiamo descritto. Quello che ci è stato presentato come un improvviso e immotivato attacco al paese guida dell’Occidente da parte del terrorismo islamico, a ben vedere con il tempo si è rivelato la reazione – violenta e ingiustificabile, sia chiaro – di una parte del mondo che per secoli ha subito il colonialismo e la dominazione occidentale in genere e statunitense nello specifico. Una reazione che, per di più, ha beneficiato di inquietanti errori di distrazione o consapevole sottovalutazione del pericolo terrorista da parte degli stessi Stati Uniti, che da quel drammatico episodio hanno 191

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tratto spunto per iniziare una nuova guerra imperialistica. Dai proclami teorici fino alle modalità esecutive, il conflitto è stato condotto in maniera tale da salvaguardare la tutela e la promozione degli interessi statunitensi come ai tempi della dottrina Monroe, autoproclamatisi intestatari di una missione divina volta a esportare la pace e la democrazia contro il nuovo nemico che si è sostituito al comunismo, l’Islam fondamentalista. Con un elemento ulteriore che collega in maniera significativa, e forzata, la data del 2001 a quella del 1989, nonché il pericolo Islam a quello comunista: fin dal documento sulla Strategia per la sicurezza nazionale, redatto dall’amministrazione di Bush Jr. subito dopo gli attentati, gli Usa sostenevano di voler affermare a livello mondiale il sistema del libero mercato, in nome della difesa e della promozione degli interessi del paese che ne rappresentava il baluardo, ossia gli Stati Uniti stessi. Fu su queste basi che il governo americano scatenò la infinity war contro i paesi accusati di appoggiare il terrorismo, che poi erano i paesi con maggiori riserve petrolifere a disposizione, adducendo come argomenti inoppugnabili le armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein69. Alla forzatura delle regole internazionali, anche attraverso misure che privilegiavano i militari americani rispetto al Tribunale internazionale, che di fatto non può metterli sotto inchiesta, si aggiungevano quelle esercitate sulla democrazia interna degli Usa, soprattutto attraverso il Patriot Act, emanato il 26 ottobre 2001, che consente «incursioni nelle libertà personali» e la «riduzione del potere di controllo da parte dei magistrati sui funzionari governativi troppo zelanti». Ma anche, in generale, per mezzo della concessione al governo del potere di controllare e limitare pensieri, parole e azioni dei cittadini statunitensi in nome della 192

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sicurezza nazionale contro il terrorismo: si è calcolato che in seguito all’entrata in vigore del Patriot Act più di 1200 immigrati siano stati detenuti senza motivo, molti attivisti contro la guerra spiati e incarcerati senza giustificazione, le loro attività legittime interrotte ­dall’Fbi e, in generale, le loro ragioni divulgate poco o per nulla da una stampa ostile70. Hanno destato profonda inquietudine le rivelazioni dell’ex tecnico della Central Intelligence Agency, Edward Snowden, che ha inteso dimostrare come la National Security Agency del governo americano abbia escogitato un sofisticato sistema tecnologico per monitorare il traffico pubblico e privato di Internet e non solo, consentendo di ascoltare, leggere e intercettare email, telefonate e navigazione in Rete dei privati cittadini in tutto il mondo, compresi i capi di governo delle nazioni nemiche e anche di quelle alleate. Il «New York Times» è arrivato a scrivere senza mezze misure che i documenti svelati da Snowden «rendono manifesto che la Nsa considera la sua stessa abilità di decrittare informazioni una facoltà di vitale importanza, in cui essa compete con la Russia, la Cina e altre agenzie di intelligence»71. Il tutto messo in atto dai vari governi americani tramite campagne di disinformazione e con la complicità di un’opinione pubblica in larga parte passiva e acquiescente, che si è lasciata porre sotto controllo e privare dei più elementari diritti politici senza quasi battere ciglio. Si pensi soltanto all’elezione di Bush Jr. a presidente, decretata dalla Corte suprema contro il responso popolare. Approfittando degli attacchi dell’11 settembre la sua stessa amministrazione, per di più quando l’economia era già in forte recessione, approvava sul piano sociale leggi e misure a favore di poche grandi imprese legate al mercato della guerra e di una ristretta minoranza di cittadini abbienti. Provvedimenti che non era 193

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riuscita a far passare prima degli attentati terroristici e che, a fronte del rapido ed enorme arricchimento delle classi privilegiate, ponevano le basi per l’impoverimento della maggioranza del popolo americano, nonché per una crisi globale oggi sotto gli occhi di tutti. Non erano trascorse neppure quarantotto ore dagli attacchi di New York e Washington, quando il governo di Bush Jr. tentava di far approvare un drastico taglio alle tasse sui redditi da capitale, mentre un mese dopo passava alla Camera una disposizione che, per ammissione del «Wall Street Journal», faceva gli interessi delle grandi società72. È forse in conseguenza di quanto abbiamo ricordato che Naomi Klein, per descrivere il legame fra tutto ciò che ruotava attorno all’11 settembre e il predominio dell’economia neoliberista, richiamava le parole di un consulente dell’amministrazione Clinton, Peter Swire, sulla convergenza di forze dietro la guerra al terrore: «C’è un governo con la sacra missione di potenziare la raccolta di informazioni, e c’è un’industria delle tecnologie informatiche alla ricerca disperata di nuovi mercati. In altre parole, c’è il corporativismo: il Big Business e il Big Government uniscono i loro formidabili poteri per regolare e controllare la cittadinanza»73. La somma di queste date simboliche, con gli eventi che le hanno segnate e quelli che ne sono scaturiti, racconta di un’epoca in cui la democrazia e la giustizia sociale hanno subito notevoli contraccolpi e un brusco arretramento. Ciò malgrado vi siano autori, come il politologo indiano naturalizzato americano Fareed Zakaria, che denunciano piuttosto un’«ondata democratica» a cui attribuire l’abbattimento delle gerarchie, la quale avrebbe conferito potere ai singoli e trasformato le società ben oltre la politica, in virtù del presunto carattere democratico del capitalismo, grazie al quale centinaia di milioni di persone hanno potuto arricchirsi74. 194

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Ma la realtà appare molto diversa. La finanza sta di fatto dettando l’agenda alla politica, i suoi interessi vengono tutelati e promossi in misura assai maggiore di quelli dei cittadini, mentre le burocrazie sovranazionali di espressione non democratica (Fmi, Banca mondiale, Ocse, Banca europea) impongono dogmi indiscutibili a cui gli organi democraticamente eletti (i governi) si devono sottomettere con scarsi margini di libertà. I soldi pubblici vengono utilizzati per salvare dal tracollo le banche, a fronte di una contrazione vistosa delle politiche sociali a tutela dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli. Partiti e sindacati, in aggiunta, risultano privi di idee e progetti alternativi a questo modello tecno-finanziario di governo della popolazione mondiale, incapaci di incidere sulla realtà e correi, oppure isolati, ricattati e costretti a sottomettersi agli imperativi categorici della teologia finanziaria, come nel caso di Alexı¯s Tsipras in Grecia75. Siamo agli antipodi della lettura fornita da Zakaria, considerato fra i più influenti esperti di politica internazionale, il quale, dopo aver portato come esempio di governo efficace e imparziale proprio le grandi istituzioni finanziarie (Fmi, Banca mondiale, Wto, Federal Reserve e Banca centrale americana), conclude: «quello che serve oggi in politica non è più democrazia, ma meno»76. In realtà, il dominio della finanza internazionale sulla politica e sulla democrazia si realizza proprio mentre l’opinione pubblica, in larga parte, sfoga le sue frustrazioni e il suo disagio sui social network e in Rete, e così facendo si preclude la possibilità di operare quel controllo e quella influenza reali sui governi che, insieme alle elezioni, rappresentano il momento fondamentale della democrazia come l’abbiamo intesa in epoca contemporanea. Nel corso della Storia il potere ha cercato di limitare quanto più possibile il controllo e l’influenza della 195

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popolazione sulle sue operazioni. Lo abbiamo visto per la democrazia antica ateniese, ed è vero per quella del nostro tempo. Ma con una differenza sostanziale. L’aristocratica e limitata democrazia ateniese, infatti, richiedeva con forza di essere abitata da individui informati, saggi e impegnati sul fronte del bene comune, evitando accuratamente il paradigma del cittadino superfluo, come emerge dalle parole di Pericle riportate da Tucidide: In ogni cittadino non fa distinzione la cura degli affari politici e quella per le faccende domestiche e private, e anche se ognuno si occupa di attività diverse è viva in tutti la predisposizione a formarsi giudizi sugli affari pubblici in modo adeguato: siamo infatti i soli a considerare un cittadino che si disinteressa alle questioni sociali non tranquillo, bensì superfluo [achreio¯n]. Siamo noi stessi a prendere direttamente le decisioni o almeno a ragionare correttamente sulle vicende politiche, non considerando dannoso l’essere informati prima di procedere con l’azione a ciò che è necessario compiere77.

Siamo ben lontani dalla democrazia aristocratica ateniese descritta con enfasi da Pericle, ma anche da quella pedagogica descritta da John Dewey nel 1916: La devozione della democrazia all’educazione è un fatto acquisito. La spiegazione superficiale consiste nel fatto che un governo che poggia sul suffragio popolare non può avere successo se coloro che eleggono e che obbediscono ai propri governanti non sono educati [...]. Una democrazia è ben più di una forma di governo. È primariamente una modalità di vita associata, è un’esperienza congiunta e comunicata [...]. È evidente che una società alla quale la stratificazione in classi separate sarebbe fatale, deve prevedere che le opportunità intellettuali siano accessibili a tutti in maniera equa e agevole78.

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Ciò che è assente al tempo della società ottusa è proprio questa «equa e agevole» opportunità di conoscenza, che peraltro fa il paio con la mancata uguaglianza delle opportunità economiche di cui parlava John Rawls. A trionfare oggigiorno è piuttosto il modello pedagogico di Leo Strauss, fenomeno filosofico della comunità accademica nord-americana del secondo Novecento, pensatore cult circondato da seguaci tenaci e zelanti. Fin dalla sua scrittura esoterica, ossia volutamente oscura ai più, egli mostrava di considerare la scienza e la filosofia come discipline a cui doveva essere educata una ristretta élite, nella convinzione che la democrazia intesa come governo della massa fosse un’assurdità, in quanto «la massa non può governare». Per la maggior parte della popolazione la verità, lungi dall’essere qualcosa di salutare, si rivela un elemento «mortale», poiché le società stesse necessitano di «miti e illusioni» se vogliono sopravvivere79. Quello che emerge è, in definitiva, un modello pedagogico e culturale oltremodo aristocratico e lontano dall’idea di diffondere conoscenza, in maniera più ampia possibile, presso la grande maggioranza dei cittadini. Rispetto al rapporto fra società e conoscenza, assai distante dalla posizione di Dewey, Strauss affermava nel 1959: La filosofia o scienza, la più alta attività dell’uomo, è il tentativo di sostituire l’opinione su «tutte le cose» con la conoscenza di «tutte le cose»; ma l’opinione è l’elemento della società; la filosofia o scienza è dunque il tentativo di dissolvere l’elemento nel quale la società respira, e quindi mette in pericolo la società. Ne segue che la filosofia o scienza deve rimanere la riserva di una piccola minoranza, e che filosofi o scienziati devono rispettare le opinioni su cui riposa la società. Rispettare le opinioni è qualcosa di interamente diverso dall’accettarle come vere.

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Filosofi e scienziati, dunque, nella consapevolezza che la verità è una faccenda per pochi, un peso assai grave che non può essere emotivamente e cognitivamente sostenuto dalla moltitudine – la quale pertanto deve essere lasciata nelle proprie convinzioni fallaci ma utili al potere –, devono distinguere tra il «vero insegnamento», rivolto a una ristretta minoranza, e un insegnamento «socialmente utile», che nel suo rispetto delle convinzioni popolari fallaci deve essere accessibile a ogni lettore80. È su queste basi, delineate da Leo Strauss e rivalutate a danno del modello di democrazia pedagogica di Dewey, che la nostra epoca risulta improntata a un’anarchia emotiva di matrice egoistica. Un popolo che per larga parte naviga sul mare emotivo della realtà virtuale, quella Rete che sempre più assomiglia alla «scuola popolare» di cui parlava Gramsci, esclusa da ogni sapere scientifico riservato alla formazione della classe aristocratica, perché rivolta alla massa delle classi subalterne per convincerle che la loro funzione non è produrre idee e fornire direttive, bensì «seguire le idee degli altri» e «ascoltare a bocca aperta le altrui opinioni»81. In Rete l’essere umano sbraita, si sfoga, inveisce, si abbrutisce, si indebolisce cognitivamente ed emotivamente, cessa di conoscere e approfondire, smarrisce le più elementari regole dell’educazione e della relazione sana e costruttiva con l’altro. Condannato, ma forse autocondannandosi entusiasticamente, al ruolo di uomo senza pensiero e dunque senza alcuna possibilità di esercitare una qualche influenza sulla realtà.

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5. I pilastri di un nuovo umanesimo

È all’intelligenza, nonché al suo costante e crescente incremento, che dobbiamo guardare per la soluzione dei mali di cui soffre il nostro mondo. Bertrand Russell 1928

Disumano, troppo disumano «Nihil inimicus quam sibi ipse». In queste parole di Cicerone è contenuta una verità ben nota ai sapienti antichi, e cioè che l’essere umano può essere il peggior nemico di se stesso1. L’istinto autolesionistico lo ha spinto dapprima a ferire il proprio orgoglio narcisistico, quindi a sottomettersi agli stessi prodotti della sua mente, in almeno tre modi, declinati attraverso secoli di storia. Inizialmente, riconoscendosi una centralità di cui obiettivamente non abbiamo le prove, all’interno di quel sistema complesso che chiamiamo mondo o vita. In questo primo caso, a smentire la presuntuosa idea di centralità coltivata dall’uomo ci hanno pensato Copernico e Darwin: l’uno dimostrando che il pianeta degli umani non è il centro dell’universo; l’altro mostrando come l’uomo non rappresenti il centro della creazione né dell’evoluzione biologica, di cui occupa un’infima parte preceduta e, probabilmente, seguita da forme e 199

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specie che poco o nulla hanno a che vedere con l’homo sapiens come oggi lo conosciamo. In secondo luogo, l’uomo ha scelto di sottomettersi a divinità – Marx le definiva «prodotti della propria testa» – a cui sacrificare buona parte della libertà, in cambio di protezione e salvezza che risultano incerte perlomeno quanto la reale esistenza (ed efficacia) delle divinità stesse. Lo smantellamento dell’idilliaca costruzione umana è toccato a Feuerbach e Freud: il primo affermando che non è Dio ad aver creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, bensì il contrario, che l’uomo stesso a cominciare dal Dio della religione, si è creato delle divinità ultraterrene o terrene riconoscendo loro tutti i poteri salvifici e provvidenziali che egli non possiede, ma che queste userebbero a esclusivo beneficio del mondo umano. Freud, d’altro canto, ha rivelato che ogni individuo non è neppure Dio di se stesso, perché il suo Io non è «padrone in casa propria», essendo una costruzione che in realtà soggiace a pulsioni, istinti e, in generale, forze che richiamano a una dimensione inconscia e destabilizzante2. Infine, l’uomo ha creato congegni tecnologici talmente potenti e pervasivi da rivelarsi capaci di capovolgere il rapporto di forza con il produttore, ridotto a mezzo e ingranaggio di una mega-macchina che non lavora più, ammesso che lo abbia mai fatto, in vista del benessere né dell’interesse umani, ma anzi lo priva della sua facoltà più importante (il pensiero) per poterlo strumentalizzare. L’essere umano si trova in questo stadio a partire dalla modernità tecnologica, rispetto alla quale il nostro tempo, in cui la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale hanno raggiunto un progresso mai visto in precedenza, rappresenta il momento storico di massimo dominio da parte del sistema tecno-finanziario sulla ragione umana e sulla democrazia politica. 200

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Come abbiamo visto, dobbiamo principalmente a Marshall McLuhan l’aver decostruito il narcisismo umano per cui le «macchine intelligenti», cioè i mezzi di comunicazione di massa che richiedono la nostra interazione cognitiva ed emozionale, sarebbero semplici strumenti della nostra volontà, deputati a veicolare passivamente contenuti di cui possiamo usufruire a piacimento e senza alcuna ricaduta sulle facoltà umane. In realtà la loro potenza è tale che, per poterle utilizzare, dobbiamo ridurci a servitori di queste estensioni di noi stessi, «come se fossero dèi o religioni minori»3. Ciò perché il mezzo tecnologico, ben più del messaggio che veicola, rappresenta un’entità attiva e influente al punto tale che ogni sua evoluzione richiede all’uomo che ne fa uso una trasformazione conseguente, i cui effetti sono tutt’altro che padroneggiabili e conoscibili, come invece ci piace pensare. Fino alla comparsa dell’intelligenza artificiale, insomma, ci siamo potuti cullare nell’illusione che «il nostro posto speciale nell’Universo non riguardasse l’astronomia (Copernico), la biologia (Darwin) o la chiarezza della mente (Freud)», ma che fosse almeno riferito a una «superiore capacità di pensiero» rispetto agli altri abitanti del nostro pianeta, che fossero esseri viventi o cose inanimate4. Oggi non ci è più possibile neanche questo. Persino il bastione del pensiero è stato espugnato e sottratto all’illusorio monopolio di quel fenomeno egocentrico per antonomasia che è l’essere umano. Nietzsche ha trionfato su Pascal, il quale aveva riconosciuto nel pensiero nientemeno che l’elemento di dignità essenziale che l’uomo poteva conservare di fronte alla potenza dell’universo, dando la celebre definizione per cui: L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’Universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’ac-

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qua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’Universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’Universo ha su di lui; l’Universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire5.

Una visione idealistica e castrante, quella di Pascal, da respingere totalmente secondo Friedrich Nietzsche, per il quale quell’essere illuso e disperato che è l’uomo non ha trovato niente di meglio da fare che innalzare la ragione a tiranno della propria esistenza, gettandosi con fanatismo tra le braccia di una razionalità con la quale respingere ogni cedimento all’istinto, all’inconscio e a tutto ciò che porta a fondo. In realtà, secondo il filosofo tedesco, «in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino a oggi, di verità, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita», tutti aspetti che l’uomo malato si ostina a rimuovere e reprimere aggrappandosi al gancio illusorio e fallace della ragione6. La nostra epoca è quella che sembra a tutti gli effetti fornire un puntello decisivo a sostegno delle tesi di Nietzsche, a partire dal fenomeno dei computer e dell’intelligenza artificiale, che ci sta mettendo di fronte a macchine che per certi versi pensano in maniera più efficiente, complessa e veloce rispetto a quanto è in grado di fare l’uomo. Il rischio che queste macchine si sostituiscano all’essere umano, o che comunque lo riducano in una posizione di subordinazione strumentale sia sul piano del lavoro manuale che dell’attività intellettuale, ha smesso di far parte delle fantasie futuristiche proprie degli scrittori di fantascienza. Ecco allora che, volendo integrare le categorie freudiane dell’Io consapevole e morale, dell’Es o inconscio misterioso e immorale, del Super-Io autorevole e civi202

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lizzante, possiamo dire che con la realtà virtuale ci troviamo di fronte a una quarta dimensione dell’umano, che rispetto alle altre tre si configura come una negazione dell’umano stesso. Una dimensione che egli abita senza essere, o quantomeno senza poter essere, se stesso, poiché non si trova più di fronte al proprio inconscio con cui misurare la sua identità, né davanti al Super-Io capace di limitare le pulsioni ancestrali, ma è irretito in quello che a tutti gli effetti si presenta con le caratteristiche di un «anti-Io» disumanizzante e votato alla destrutturazione delle facoltà peculiari dell’uomo (la ragione, il pensiero, l’identità, la virtù sociale indirizzata al bene collettivo e politico, le relazioni affettive ed empatiche). Questa quarta dimensione, peraltro, costituisce una summa delle altre tre: l’Io che decide consapevolmente di immergersi nella realtà virtuale, si ritrova a fare i conti con elementi dell’inconscio più primitivo e pulsionale, ma anche con una forma di Super-Io che è data dal sistema mediatico stesso, in grado con la sua autorità tecnologica di stravolgere e riconfigurare l’identità, la capacità cognitiva e le modalità relazionali dell’uomo in una direzione che è funzionale all’apparato tecno-finanziario. È nella quarta dimensione, che pervade l’epoca della società ottusa, che ci troviamo a subire non più l’ennesima ferita narcisistica al nostro Ego, quanto piuttosto un annullamento del medesimo e delle sue caratteristiche peculiari. L’«Altro» di cui parlava Lacan, cioè l’ambito misterico e inconscio («l’altra scena») che, essendo oggetto del desiderio dell’uomo («il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro»)7, assurge al ruolo di legislatore incondizionato, sembra essersi concretizzato attraverso l’anti-Io in cui l’essere umano si abbandona e si perde fino a identificarsi con quella stessa alterità, eseguendone docilmente i dettami e smarrendo così la propria 203

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identità autonoma. L’altra scena si è impossessata dell’umano e lo governa fin nei dettagli della sua esistenza. Realtà virtuale e intelligenza artificiale stanno rispettivamente assorbendo e colonizzando la realtà reale e l’intelligenza naturale che hanno caratterizzato il mondo e l’essere umano fino al nostro tempo. Ennesimi prodotti del lavoro mentale e materiale dell’uomo, sotto il governo del Dio mercato hanno acquisito la forza sufficiente per soggiogare e sfruttare l’ambito dell’uomo nella sua totalità. L’umanità sta ponendosi sotto il dominio di un padrone che essa stessa ha prodotto, e a cui si è entusiasticamente consegnata. Ci troviamo probabilmente allo stadio ultimo, e più gravido di conseguenze nefaste, di quella fuga dalla ragione che si è rivelata in grado di aprire le porte al male più estremo, come ha saputo spiegare magistralmente Hannah Arendt: Ciò che comunemente chiamiamo persona o personalità, come entità distinta da un mero essere umano, che può anche essere un nessuno, è in realtà ciò che emerge da quel processo di radicamento che è il pensiero [...]. Se è un essere pensante, radicato nei propri pensieri e ricordi, per cui sa che deve vivere con se stesso, ci saranno limiti a ciò che permetterà a se stesso di fare, e questi limiti non gli si imporranno dall’esterno ma saranno come se fossero stabiliti da lui stesso; questi limiti possono cambiare considerevolmente e in maniera fastidiosa da persona a persona, da paese a paese, da secolo a secolo. Ma il male radicale e senza limiti è possibile soltanto dove questi radicamenti autoprodotti sono completamente assenti. Ed essi sono assenti ovunque gli uomini si limitano a scivolare sulla superficie degli eventi, dove permettono a se stessi di essere superficiali senza mai addentrarsi in quella profondità di cui sarebbero capaci8.

La nostra epoca, quella della società ottusa, testimonia con desolante chiarezza che la lotta contro la ragio204

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ne è risultata vincente. Vano si è rivelato il tentativo di tenere l’essere umano ancorato al pensiero scientifico e razionale, alla fine dei conti la più potente arma di difesa contro le molteplici spinte irrazionali e autodistruttive che lo connotano. Incapace di superare le ferite narcisistiche inferte dal pensiero razionale e scientifico, l’homo religiosus ha creduto di poter continuare a coltivare le sue illusioni costruendo un sistema tecnologico che elimina la ragione e, con essa, la sperimentazione e la conoscenza dall’orizzonte delle sue possibilità. Così facendo, però, non soltanto si è immerso nell’ennesima illusione di poter essere al centro del mondo e dei meccanismi che lo regolano, ma ha servito su un piatto d’argento alla pletora del sistema tecno-finanziario la possibilità di privarlo del pensiero e della conoscenza, ma anche dei più elementari diritti sociali e di quelle tutele che dovrebbero caratterizzare qualunque dimensione in cui l’essere umano sia il fine e non il mezzo. Come ebbe a scrivere Bertrand Russell, sarà per tutta la vita uno schiavo quell’individuo che pure avrà conseguito il conforto materiale, però «attraverso il sacrificio dell’integrità mentale», poiché quest’ultima è il pilastro portante che sostiene tutto l’edificio della sua libertà9. Si tratta di un esito inquietante e de-umanizzante intuito, al tramonto della sua vita, da quello stesso Nietzsche che pure aveva impiegato ogni sua energia intellettuale per distruggere la ragione e, con essa, la coscienza che l’individuo ha di sé come soggetto: «La coscienza ha un ruolo di secondo piano, è quasi indifferente, superflua, forse destinata a sparire e a far posto a un completo automatismo»10, scriveva il filosofo tedesco a fine Ottocento. Ci stiamo trovando a pagare il prezzo altissimo di un narcisismo patologico in assenza di Io. Un errore 205

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umano, certo, troppo umano. Così grave da produrre un’assenza di umanità. Se non ci adoperiamo per rimediare a questo errore, potremo solamente abitare un mondo disumano. Troppo disumano. contro la mediocrazia La critica radicale e rigorosa della società odierna non può fondarsi su una visione apologetica del passato. Non è mai esistito un tempo in cui la grande maggioranza della popolazione fosse votata alla conoscenza, né alla formazione di un pensiero autonomo e critico che, per di più, venisse utilizzato nel campo sociale e dell’interesse pubblico. A partire dall’epoca moderna, inoltre, con la nascita degli Stati-nazione e il progressivo ampliamento del diritto di voto, si è dovuto prendere atto dell’effettiva impossibilità di costituire delle democrazie nel senso proprio del termine. Un po’ per l’oggettiva difficoltà tecnica di realizzare all’interno di nazioni grandi e popolose un sistema in cui la maggioranza potesse partecipare direttamente alle decisioni politiche, un po’ per l’incompetenza e il disinteresse della stessa verso le questioni sociali, quelle che abbiamo chiamato sempre col nome di democrazie occidentali si sono rivelate a conti fatti delle «repubbliche», sistemi di governo in cui la gran parte dei cittadini si limita a designare i propri rappresentanti i quali, direttamente nelle repubbliche presidenziali, o indirettamente nelle parlamentari, si occupano dell’amministrazione della cosa pubblica in forza di un mandato popolare e dietro un compenso. Tale sistema, unito alla libera discussione, garantisce un compromesso fra le istanze della maggioranza e quelle della minoranza, anche se il prezzo da pagare è avere delle democrazie rappresentative, che tali non sono 206

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del tutto, poiché gli eletti possono deviare rispetto al mandato dei propri elettori senza subire le conseguenze insite in un vincolo legale11. Malgrado ciò, all’interno della democrazia rappresentativa emerge con chiarezza il ruolo fondamentale dell’opinione pubblica: esercitare un potere di controllo informato e critico sui governanti, in maniera tale da decidere se confermare o meno la fiducia in una successiva tornata elettorale. Questo è l’obiettivo che giustifica il ruolo, distinto ma complementare, di specifiche istituzioni. Innanzitutto il sistema scolastico, cui spetta l’obiettivo di istruire, educare e formare cittadini culturalmente ed eticamente in grado di inserirsi nel contesto democratico. Poi il sistema dei media e dell’informazione, cui spetta il duplice compito di controllare criticamente e diffondere le notizie che riguardano l’operato della classe governante, ma anche di informare onestamente e senza censure la vasta schiera dei governati. Infine il ruolo della cultura in genere, di cui fanno parte associazioni, fondazioni, mondo intellettuale ecc., quello di tenere quanto più elevato possibile il tenore del discorso pubblico, su cui provare a coinvolgere e impegnare una parte sempre più ampia della popolazione. Il sistema dell’istruzione, insieme a quello dei media e della galassia cultura in genere, da cui dipende la qualità dell’opinione pubblica e del dibattito sociale, versano oggi in una drammatica crisi12, prodotta dal predominio incontrastato delle due entità, il mercato e la Rete. Il sistema scolastico ed educativo, come quello dell’informazione e della cultura in genere, sono finiti sotto il dominio esclusivo del profitto, dell’audience e della logica quantitativa. Tutto è pensato e condotto secondo una misurabilità che tiene conto esclusivamente del profitto economico e del progresso tecnico. Entrambi da intendersi senza limiti, compresi quelli etici e umanistici. La débâcle totale dell’umano, dimensio207

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ne finita e limitata, è riscontrabile nel suo essere sacrificata e subordinata a ciò che si pretende infinito e senza limiti. Anche il sistema scolastico ed educativo viene subordinato al paradigma del capitale umano: la scuola stessa è concepita secondo una logica sempre più aziendale e manageriale, in virtù della quale le viene richiesto di sfornare consumatori funzionali al mercato, piuttosto che cittadini pensanti e per questo in grado di fornire un contributo alla polis e all’umanità stessa: Non asservire la cultura all’ideologia del mercato ma restituirla al suo più autentico significato formativo vuol dire emanciparla da quel ruolo di «grande meretrice» in cui la modernità l’ha confinata riducendola a evasione, informazione, intrattenimento, erudizione o evento [...]. Solo se libera da ogni egemonia politica, sociale ed economica, la cultura si dà come forma dell’umanizzazione che carica d’umanità ogni mondo infondendogli vita [...]. Tanto la formazione di un mondo quanto il mondo di una formazione si riconducono all’uomo [...]. Ebbene, questo è anche un uomo politico che non cede al conformismo trasgressivo né alla trasgressione conformista, ma fa della libertà l’elemento attorno a cui si coagulano i mondi della realtà umana e non umana, della realtà soggettiva e intersoggettiva. Una libertà che in ogni momento va costretta a ridefinirsi, a rimodularsi in ragione della necessità di «un mondo condiviso» dove l’altro sia considerato per il rispetto che – a priori e mai a posteriori – merita13.

Allo stesso modo, subordinato alla logica del profitto commerciale e dell’audience è il sistema dei media, rinchiuso in una sorta di circolo vizioso per cui si rincorrono e allo stesso tempo si alimentano i gusti più disimpegnati e triviali del pubblico. L’informazione scade a comunicazione, mentre la conoscenza sparisce dall’orizzonte mediatico per lasciar posto all’intrattenimento. 208

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In questo contesto è evidente che la Rete svolge un ruolo fondamentale fagocitando gli altri mezzi di informazione che sono costretti ad adeguarsi ai suoi meccanismi e alle sue logiche. Come abbiamo avuto modo di argomentare, il ruolo di «manipolazione, indottrinamento e controllo al servizio dei potenti e dei privilegiati»14 dei mass media è noto da tempo. Ma quando a prevalere erano i mezzi scritti (libri, giornali, riviste ecc.), a fronte di utenti in percentuale più colti e in grado di articolare un pensiero riflessivo rispetto a oggi, i media lavoravano attraverso una complessa opera di manipolazione di tale pensiero. Già con la televisione le immagini riuscivano a distorcere e addormentare il pensiero, producendo un effetto narcotico per cui questo veniva ridotto a facoltà, seppure ancora presente, sopita e passiva. Internet, da questo punto di vista, rappresenta un ulteriore innalzamento dell’asticella: le nuove tecnologie digitali, infatti, non operano più una manipolazione, né sostanzialmente addormentano il pensiero – al contrario, per certi versi lo iper-attivano con un eccesso di informazioni e stimoli –, ma lo immergono all’interno di una gabbia virtuale in cui esso è portato a funzionare come le macchine stesse, eseguendone degli input pur nell’illusione di operare in piena autonomia. In questo senso possiamo dire, allora, che il pensiero umano non c’è più, sostituito da un’intelligenza artificiale che pensa e opera per tutti gli individui. Virtualità, meccanicismi e logica quantitativa, ma anche commercializzazione, sensazionalismo, linguaggio triviale e scarsa qualità delle informazioni, che invece abbondano per quantità, sono le caratteristiche preponderanti della Rete, a cui si adegua l’intero sistema mediatico. Volendo riprendere le considerazioni che Neil Postman applicava a quella sorella minore della Rete che è la televisione, ci troviamo in un contesto comu209

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nicativo in cui emerge «la natura del medium che deve sopprimere il contenuto delle idee per soddisfare le esigenze dell’interesse visivo; cioè per compiacere i valori dello spettacolo»15. La deformazione del sistema educativo e l’impoverimento di quello informativo si inseriscono nel contesto più generale che riguarda la mortificazione e l’annichilimento del «settore» che meno si ritiene possa contribuire al profitto economico e al progresso tecnologico: la cultura. Nella sua connotazione umanistica, essa è amore per un sapere che non sia per forza di cose funzionale a qualcos’altro rispetto alla crescita della persona che la fruisce. Si tratta di un sapere dell’uomo che è al tempo stesso per l’uomo, ossia, nelle parole di Immanuel Kant, «la cultura è la realizzazione, in un essere ragionevole, della capacità di scegliere i propri fini (quindi di essere libero)»16. È il presupposto irrinunciabile di formare individui e persone che, ispirandosi al paradigma dello sviluppo umano, siano capaci di pensare e operare in vista della centralità e della crescita di tutto ciò che è specifico dell’uomo. La qualità del suo vivere e pensare, del suo relazionarsi agli altri e al mondo esterno, del suo costruire delle società in cui l’uomo sia la misura delle cose e non queste ultime misura dell’uomo. Tutto ciò non produce profitto misurabile e monetizzabile, per cui viene espulso dall’ordine di senso contemplato da una società che promuove e valorizza soltanto ciò che produce profitto monetario e progresso tecnologico. La drammatica crisi delle galassie educativa, informativa e culturale è alla base di un’opinione pubblica sempre meno all’altezza di svolgere il proprio ruolo. Tutto questo, sommato all’impoverimento etico e culturale generalizzato, sta contribuendo alla trasformazione 210

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delle nostre democrazie repubblicane in dementocrazie populistiche17. Evitare inutili apologie di un passato immaginario, in cui la democrazia in senso stretto non ha mai trionfato – abbiamo visto i casi paradigmatici di Atene e degli Usa –, non deve però impedire di acquisire consapevolezza del disastro attuale, che ci mette di fronte allo scadimento della democrazia, da cui deriva anche il contesto di «mediocrazia» in cui siamo piombati18. Si tratta di un effetto coerente, poiché in una dimensione come quella dementocratica, sono i soggetti mediocri, intercambiabili e impossibilitati a rappresentare una difformità di pensiero o un valore aggiunto, a risultare graditi al sistema ideologico dominante. Tale sistema tende a premiare quelle figure umane e professionali che si adeguano al suo codice valoriale e che, da qualunque posizione di influenza ricoperta – in politica, all’università, nell’informazione, nella pubblica amministrazione ecc. – non prendono neppure in considerazione l’ipotesi di mettere in discussione l’ideologia neoliberista oggi tornata vincente. In cambio della loro sottomissione volontaria, il sistema imperante le ha premiate con ruoli di prestigio e potere19, emarginando e riducendo ad «apolidi della ragione» tutti coloro che resistono nell’intento di coltivare le facoltà umane e attive della democrazia, piuttosto che le funzionalità meccaniche e passive della dementocrazia. Dovunque l’uomo sia ridotto a ingranaggio omologato e uniformato, egli diventa in ogni momento sostituibile, e dunque ininfluente. Dementocrazia e mediocrazia si alimentano reciprocamente, mettendo in scena uno spettacolo da cui è esclusa ogni persona che non sia disposta a recitare il copione stabilito e che pretenda di tornare ad abitare la casa di Sofia.

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Ritorno alla casa di Sofia Secondo la più antica tradizione mitologica e religiosa, l’uomo si è costruito questa abitazione andando contro la volontà divina e pagando un prezzo altissimo. Solo in questo modo aveva potuto emanciparsi e allontanarsi dalla casa di Dio, da una dimensione in cui eseguire meccanicamente gli ordini superiori in cambio della possibilità di sedere al banchetto divino. Questo volevano significare tanto il mito di Prometeo nella tradizione pagana quanto la parabola del peccato originale in quella cristiana, dove però, per bocca di uno dei suoi esponenti più illustri, sant’Agostino, si ammetteva che, malgrado la degradazione ad abitante della terra, in questo «eguagliato agli animali», a svelare il fatto che l’uomo è stato creato «a immagine di Dio» è quella «scintilla della ragione» che egli mantiene dentro di sé nella vita mondana20. Soltanto a costo della perdita dell’immortalità e della protezione da ogni male l’uomo poteva guadagnarsi la possibilità di edificare la sua città sulla terra, luogo assai meno sicuro e protetto del giardino celeste, «valle di lacrime» in cui è esposto ai capricci del destino e al fardello della morte, ma almeno per buona parte titolare della propria esistenza, in quanto misura delle cose, legislatore in grado di distinguere giusto e sbagliato, codificatore degli scopi della sua vita come della scala di valori su cui fondarla. Qui risiede la dignità dell’uomo, come emerge dalle parole che Pico della Mirandola attribuiva a Dio: Non ti ho assegnato un posto determinato – o Adamo – né un volto specifico o una prerogativa tua, affinché quel posto, quel volto e quella prerogativa che desidererai, tu li possegga come tuoi propri in base al tuo desiderio e alla tua volontà. La natura limitata degli altri è vincolata entro leggi

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da me prescritte. Tu, che non sei limitato da alcuna barriera, te la stabilirai in base al tuo arbitrio, alla cui tutela ti consegnai. Ti ho posto al centro del mondo, perché da lì meglio potessi scorgere tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi libero artefice e modellatore di te stesso, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Secondo la volontà del tuo animo, potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono brute, oppure rigenerarti tendendo a quelle superiori, che sono divine21.

La casa di Sofia ha sede nel mondo terreno ed è quella del sapere e della conoscenza, uniche chiavi che l’uomo ha a disposizione per plasmare la sua persona e scegliere la direzione del suo percorso. Qui egli può acquisire un pensiero autonomo e critico, ma anche una conoscenza tecnica specifica con cui realizzare in maniera ragionevolmente libera la propria esistenza terrena di individuo e di essere sociale. A differenza della città di Dio, infatti, la città dell’uomo è quella dimensione in cui la verità non pre-esiste al sapere, non è data a priori e garantita dal sigillo dell’autorità divina. Nel mondo governato da Sofia ogni scoperta dev’essere raggiunta attraverso un «fare che sa», un’intelligenza che scava dentro le cose, poiché «gli uomini non sanno scorgere le cose nascoste per il tramite di quelle evidenti», scriveva Ippocrate, essendo gli dèi ad aver ordinato il tutto22. Un concetto ripreso secoli dopo da Giambattista Vico laddove afferma che, mentre la mente divina contiene tutte le cose e quindi è in grado di conoscere il loro dispiegarsi, quella umana è «partecipe della ragione, non padrona», per cui «il vero umano è quello che l’uomo compone e fa nel momento stesso in cui lo apprende». L’uomo conosce veramente soltanto ciò che fa, dunque23. Con questo non si intende certificare il primato 213

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del fare sul conoscere, ma il compito tutto umano di intrecciare, e mai separare, teoria e prassi: fare conoscendo ciò che si fa e conoscere ciò che si dovrà fare. Non era più sufficiente il sapere assoluto e contemplativo della divinità (absolutus in quanto separato dal mondo delle cose), poiché all’uomo spettava sporcarsi le mani con la realtà determinata e incerta del mondo terreno. Un concetto magistralmente sintetizzato da Kant quando affermava che una teoria senza la prassi è sterile almeno quanto è cieca la prassi senza una teoria che la fondi. Del resto già Platone aveva connesso sapere (epistème) e potenza (dýnamis)24, anticipando la sentenza del fondatore della scienza moderna, Francis Bacon: «scientia est potentia»25. Nella vita terrena l’uomo smette di essere ospite passivo e ubbidiente della casa di Dio, dove nulla c’è da fare se non contemplare la magnificenza e la perfezione della costruzione divina. Egli è chiamato a essere abitante operoso della casa di Sofia, ad acquisire un sapere teorico e una potenza pratica. Solo se mai separate, ma virtuosamente fuse, queste due facoltà si rivelano come «tecnica», ossia scienza, che per Platone va distinta tanto dalla fede (pístis) non verificabile, quanto dall’opinione (dòxa) non supportata da alcuna conoscenza e competenza specifiche26: «Io non chiamo tecnica, ma semplice pratica quell’attività che non sa spiegare razionalmente la natura del suo oggetto né dei suoi strumenti e, incapace di dar ragione dei fatti, non è assolutamente in grado di collegarli alla loro causa»27. Poiché a stabilire i fatti e le cause non è un Dio onnisciente e onnipotente, e neppure un animale incosciente, che grazie all’istinto può fare a meno di dar ragione dei fatti e conoscerne le cause, l’uomo deve fare i conti con quella che Hegel chiamava la «fatica del 214

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concetto», ossia lo sforzo di superare il dato sensibile, di non arrendersi alla superficialità e all’autorità delle cose esterne, che vorrebbero imporgli una verità non pensata28. Egli non può solamente conoscere (come è concesso a Dio) né soltanto fare (com’è d’obbligo per l’animale), ma, aggiunge Aristotele, deve conoscere e saper imprimere la direzione alle singole tecniche – su tale argomento perfettamente in linea con il suo maestro, che proprio per questo scriveva di preferire gli architetti ai manovali, poiché questi ultimi «agiscono senza sapere quello che fanno»: «Perciò consideriamo i primi come i più sapienti, non in virtù della loro attività pratica, ma perché possiedono una teoria e conoscono le cause»29. L’uomo che abita la casa di Sofia è in possesso di un sapere la cui caratteristica fondante è di poter essere spiegato e insegnato, a conferma della natura di «animale sociale» tipica dell’essere umano. Ciò che distingue chi sa da chi non sa, scrive Aristotele, è la capacità di insegnare; anche Platone paragonava ai ciechi che camminano diritti per la strada coloro che hanno un’opinione pur vera su qualcosa senza però saperla spiegare razionalmente30. Questo tipo di sapere proprio dell’uomo, quello che lo rende capace di conoscere le dinamiche ma anche le cause di ciò che accade, e quindi di padroneggiare i fatti, al punto di «fare ciò che vuole quando lo vuole»31, emerge come téchne inseparabile dal logos, «tecnologia» declinabile in un senso che oggi abbiamo evidentemente smarrito. Questo statuto della conoscenza umana si rivela quanto mai fondamentale anche ai fini della scienza politica, che Platone definiva «tecnica regina», deputata a farsi carico degli uomini valorosi ed equilibrati per condurli a una vita comune in concordia e amicizia, all’insegna di una città ragionevolmente felice32. Del resto, qual è la ragion d’essere della tecnica, intesa alla 215

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maniera di Platone, se non il porre rimedio ai «molteplici mali»33 che infestano il mondo umano e ne minano la sopravvivenza? Da questo punto di vista, la politica si presenta come fondamentale (e fondante) tra le tecniche, una virtù, perché copre quel tipo di sapere che manca alle altre scienze, le quali si rivelano inutili, o persino dannose, se non accompagnate dalla «scienza di ciò che è meglio»34. Il semidio mitologico Prometeo, rubando il fuoco agli dèi, ha donato agli uomini le tecniche del saper fare, indispensabili per emanciparsi dal mondo divino, ma del tutto controproducenti se non integrate dall’arte primaria della politica, che è innanzitutto la facoltà di trovare un accordo, di ispirarsi al bene e alla giustizia per realizzare una società virtuosa e armonica. L’uomo tecnologico potrà costruire le macchine più formidabili, ma le userà per combattere e distruggere il proprio simile, se non saprà essere anche uomo politico: Ti sembra che una città, un esercito o una banda di ladri e delinquenti, o qualsiasi altra associazione che si formi allo scopo di delinquere, potrebbe riuscire in qualcosa se al proprio interno fosse assente ogni principio di giustizia? TRASIMACO: Certamente no. SOCRATE: Infatti, Trasimaco, vi è l’ingiustizia all’origine delle sedizioni, degli odi e dei conflitti fratricidi, mentre la giustizia genera concordia e solidarietà35.

SOCRATE:

La sapienza tecnica appartiene in potenza a tutti gli uomini, ai quali spetta il compito di impegnarsi, con l’aiuto degli insegnanti giusti, per portarla a uno stato di consapevolezza e affinarla36. Platone, lo abbiamo visto, non è favorevole alla democrazia e, anche in virtù di questo, è stato ferocemente criticato da Karl Popper, che ha visto in lui uno dei padri 216

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del pensiero totalitario. Eppure, il grande epistemologo del Novecento fonda buona parte della sua idea di democrazia su assunti per certi versi simili a quelli che abbiamo appena letto nel filosofo dei Dialoghi. La società aperta o democratica, infatti, è per Popper quella che si avvale del contributo di tutti i suoi componenti. Un contributo che si manifesta primariamente a livello di confronto e dibattito pubblico, nella consapevolezza che nessuno è depositario della verità e, per questo, la ragione critica di ciascuno può rappresentare un fattore di progresso e avanzamento della conoscenza. Tale progresso non solo non esclude, ma anzi fonda e rende possibile anche il progredire della società intera nei suoi meccanismi democratici. Pur con notevoli differenze, ad accomunare i due grandi pensatori è l’idea per cui la dimensione epistemologica e quella politica sono strettamente connesse: chi conosce può fare bene, e chi fa deve conoscere. Una società politicamente ben organizzata e governata è composta da cittadini e politici che prima si sono cimentati nel campo altrettanto ostico, ma propedeutico, della conoscenza e del confronto critico fra le rispettive posizioni. È in virtù di questi presupposti che Popper, elogiando le democrazie occidentali, sottolineava come la loro caratteristica più importante è quella per cui, all’interno di esse, «siamo pronti ad ascoltare le critiche informate e siamo certamente felici se vengono formulati suggerimenti ragionevoli per il miglioramento della nostra società. Infatti la nostra società non è soltanto aperta alle riforme, ma ansiosa di riformare se stessa»37. Partendo da questo comune intendimento, possiamo giungere a delineare ciò che caratterizza il pensiero sull’arte politica tanto di Platone come di Popper. Per Platone la politica rientra fra quelle tecniche che prestano molta attenzione a non eccedere o venire meno 217

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rispetto alla «giusta misura», virtù che le consente di realizzare tutte le cose buone e belle. L’arte politica apprende questa misura attraverso la conoscenza dell’«idea del Bene», ossia per il tramite di quella «scienza suprema» senza il possesso della quale non riusciremmo a trarre alcun vantaggio neppure dalla conoscenza esatta di tutte le altre scienze38. Per Popper, invece, l’arte politica, al pari della conoscenza, si fonda sulla negazione di verità assolute e definitive. Piuttosto è l’uomo, con il suo impegno e dialogo incessante basato sul «metodo della prova e dell’errore», quindi su un’«ingegneria sociale gradualistica», ad avanzare sia verso un grado più alto di conoscenza (e di capacità di pensiero) sia verso una società più giusta e libera39. Eppure, giusta misura e anti-dogmatismo sono le due caratteristiche fondamentali della politica che vengono negate oggigiorno all’interno della società ottusa. Come il Dio del cristianesimo garantiva all’uomo la vita beata nel suo giardino celeste, purché non si azzardasse a mangiare il frutto della conoscenza, così il Dio proposto dalla teologia finanziaria promette profitti illimitati e diffusi, purché l’uomo rinunci al pensiero critico e alla ragione politica. Egli è chiamato a fare senza discutere e a funzionare senza pensare, perché tanto le regole procedurali e la gamma di valori sono quelli già stabiliti dal mercato e rigorosamente interni ad esso. Un discorso simile vale anche per le nuove tecnologie digitali, che ben lungi dall’applicare il significato che al termine «tecnica» conferiva la saggezza antica, richiedono e producono un utilizzo cognitivamente ridotto ai minimi termini da parte degli utenti. Nell’ambito tecnologico non mancano i sacerdoti che si affrettano a istituire delle similitudini vagamente religiose. È il caso di Kevin Kelly, il quale ci invita ad accogliere questa tecnologia come un dono, ma anche 218

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come un destino che ci si pone davanti in termini di «inevitabilità»40. Considerando che il technium (come lo chiama Kelly) è a tutti gli effetti «la forza più potente del mondo», che in tal senso ha perfettamente oscurato il cervello umano. Da qui l’invito piuttosto eloquente (e inquietante) del fondatore di «Wired»: Il potere della mente può essere accresciuto solamente di poco attraverso una consapevole autoriflessione; riflettere sul pensiero non ci renderà molto più intelligenti. Il potere del technium, al contrario, può essere incrementato all’infinito riflettendo su se stesso la propria natura trasformatrice [...]. La tecnologia, in definitiva, deriva la propria supremazia non dal fatto di essere nata nella mente umana, ma dal fatto di originarsi dalla stessa autorganizzazione che ha generato le galassie, i pianeti, la vita e la mente41.

Gli ingredienti, a ben vedere, ci sono tutti: dai toni religiosi ed escatologici, alla mortificazione della ragione umana, ridotta a mero prodotto e segmento di quella forza cosmica chiamata technium, passando attraverso l’invito ad abbandonare il pensiero e la riflessione per concentrarsi sull’utilizzo di questo potentissimo dono che, al contrario della mente dell’uomo, promette una crescita infinita. A differenza di quanto sosteneva la saggezza antica, insomma, la nostra è l’epoca in cui è stata operata la frattura fra téchne e logos, in cui l’uomo si è consegnato alla scienza che «non pensa»42. A regolare la vicenda umana non sono più quelle tecniche che presuppongono e implicano l’utilizzo di logos (la politica, l’etica, la filosofia), ma quelle che ne fanno volentieri a meno o, addirittura, ne teorizzano un’opportuna riduzione. Il risultato di questa sciagurata separazione sta comportando il passaggio da democrazie composte da cittadini ragionevolmente pensanti, 219

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a dementocrazie abitate da servi irragionevolmente «postanti». Il guaio è che quell’umanità «che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttar via»43. Un uomo di tal fatta è ormai incapace di un agire strutturato sulla domanda più essenziale e consona al mondo umano: è un agire giusto o sbagliato (l’idea del Bene di cui parlava Platone)? L’uomo per primo, con la sua dignità e centralità rispetto al contesto vivente, smette di essere quel limite oltre il quale profitto e progresso non possono (o meglio: non dovrebbero) spingersi. Egli non è più misura delle cose, ma piuttosto sulla base delle cose viene misurato senza che vi sia un limite al suo essere strumentalizzato e sacrificato in nome delle cose stesse. In questo modo non fa il proprio interesse e non cura lo sviluppo del mondo umano, l’unico che gli è dato di abitare se vuole restare uomo. Il «pensiero forte» come antidoto Negli ultimi anni del Novecento abbiamo dovuto fare i conti con l’affermarsi di una visione culturale che, sotto il nome di «postmodernismo», ha decretato la fine di tutta una serie di elementi che avevano caratterizzato la modernità. Prima fra tutte, la fine delle ideologie o narrazioni, intendendo con ciò il tramonto della possibilità di elaborare nuove idee in grado di sovvertire l’ordine delle cose44. Crollato il comunismo, si teorizzava l’affermazione a livello planetario della democrazia liberale e di mercato, ossia di un ordine che, in quanto sistema dimostratosi migliore e vincente per le sorti dell’umanità, smetteva di contemplare opzioni alternative. Non si trattava più di criticare ed eventualmente migliorare il regi220

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me liberale e capitalistico, semmai di estenderlo a ogni angolo del pianeta, così da esportare la democrazia, la libertà e il benessere economico al di fuori dei confini dell’Occidente e dei paesi industrializzati, nella profonda convinzione che «il mercato è nella natura umana»45. Questa decretata fine delle ideologie, che in realtà ha lasciato campo libero al pensiero unico dell’ideologia neoliberista, si accompagnava, e al tempo stesso era il risultato, dell’indebolimento di altri fondamenti tipici della modernità. Innanzitutto l’indebolimento di un essere umano che, sulla scia di Descartes, si riconosce in quanto «essere pensante», fornito di una ragione che è «strumento universale» di controllo e dominio rispetto alle proprie passioni e alle cose del mondo46. Gianni Vattimo ha spiegato quest’indebolirsi con il fatto che l’uomo possiede la facoltà di pensare in termini «ermeneutici» e non «epistemici»: pensare equivale sempre a interpretare più che a conoscere scientificamente, e il vero non è un oggetto che l’uomo può prendere (o com-prendere), bensì il risultato di un processo di verifica incessante, mai definitivo e in grado di raggiungere risultati certi. «Com’è venuta al mondo la ragione?», si chiedeva polemicamente Nietzsche. «Come è giusto che arrivasse, in un modo irrazionale, attraverso il caso. Si dovrà indovinare questo caso, come un enigma»47. Questo ridimensionamento dell’uomo e della sua facoltà di pensiero è alla base dei processi di irrazionalismo, omologazione e massificazione tipici della società mediatica del nostro tempo. Ad esso si aggiunge l’indebolirsi di una verità conseguibile attraverso la ragione, poiché in realtà, sulla scia di una notevole influenza esercitata dalla filosofia di Nietzsche, abbiamo appreso che «non esistono fatti ma soltanto interpretazioni» e lo stesso «mondo vero» (quello delle verità raggiungibili attraverso la ragione o la fede) è in realtà inattingi221

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bile, indimostrabile, sconosciuto, una consolazione e un imperativo che non serve più a nulla, un’idea divenuta inutile e superflua: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!»48. Con la scomparsa del mondo vero e di quello apparente di cui parla Nietzsche, viene meno lo stesso concetto di realtà, e al suo posto si afferma l’idea di un mondo che somiglia a un incessante e mutevole flusso di eventi a cui diamo dei nomi ma che, di fatto, sono imprevedibili e impalpabili, oltre che quasi per nulla controllabili. Risiede in tutto questo l’essenza di quello che Gianni Vattimo ha concettualizzato come «pensiero debole», che ha permeato l’epoca postmoderna di cui il nostro tempo rappresenta il risultato più maturo49. In questo elogio del nichilismo, con tanto di messa in discussione della realtà e della capacità della nostra ragione di padroneggiarla, risiede la crisi dell’umanesimo e prende piede il mercato come ordine spontaneo e autoregolantesi che si sostituisce alle entità metafisiche (Dio, la conoscenza, la verità, il logos, l’Io) rendendosi indipendente dalla volontà e dal controllo della ragione umana, la quale finisce per esserne colonizzata e dominata. Su queste basi si è affermata anche l’idea della Rete e del virtuale come luogo in cui la verità è abolita e le opinioni dilagano e degradano al livello di chiacchiericcio spesso falso o fondato su notizie non attendibili. Non è un caso che l’Oxford Dictionaries, principalmente in seguito alle vicende legate all’elezione di Donald ­Trump negli Usa e al voto del popolo britannico per la Brexit, abbia scelto «post-verità» come parola dell’anno 2016, intendendo questo termine come correlato a, o denotante, «circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare la pubblica opinio222

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ne rispetto agli appelli alla sfera emozionale e alla credenza personale»50. A essere certificata è la formazione di un’opinione pubblica mediamente irrazionale e in balia delle sue passioni, come anche delle proprie convinzioni aprioristiche, ossia delle superstizioni. Quando ciò accade, scrive Bertrand Russell, siamo davanti a individui che sono pessimi cittadini: soggetti a ciò che proviene dalla tradizione o dalle emozioni, risultano irretiti in un contesto educativo che li spinge a prendere decisioni in base a fondamenti tutt’altro che razionali51. L’individuo si ritrova così inserito all’interno di una collettività (e connettività) che, in quanto priva di pensiero critico, risulta facilmente massificante e omologante: Si è sempre uomini-massa o uomini collettivi. La questione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo-massa di cui si fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente, ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro52.

Di fronte all’affermarsi del postmodernismo e del pensiero debole, perfino l’oggettiva estensione dei diritti democratici che ha interessato il mondo occidentale nella seconda metà del Novecento viene di fatto depotenziata attraverso l’annichilimento di quelle facoltà umane che della democrazia rappresentano il fondamento sostanziale. Un demos, o un’opinione pubblica in possesso di più ampi diritti politici risulta esposta al dominio dei pochi che detengono il potere, se gli individui che la compongono si ritrovano indeboliti rispetto al proprio Io pensante e alla possibilità di una conoscenza effettiva, ovvero le due facoltà umane maggiormente colpite dal pensiero debole della cultura postmoderna. 223

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Ancora una volta il punto di partenza di tale processo si riscontra nella filosofia di Nietzsche. Questi, infatti, negava l’esistenza stessa di un Io che pensa, considerandolo una «costruzione del pensiero», quindi solo una finzione regolativa con il cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di conoscibilità. Al tempo stesso il filosofo tedesco sminuiva l’atto stesso del conoscere riducendolo a «riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare». Esattamente in questo trova alimento la superstizione di coloro che si illudono di poter conoscere: «vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza». Questa avversione per la conoscenza e per la scienza era destinata ad avere un lungo corso, come ad esempio nel pensiero di Emil Cioran, il quale ancora nella seconda metà del Novecento sosteneva che «siamo nati per esistere, non per conoscere», e che anzi il sapere, stimolando e irritando la nostra volontà di potenza, «ci condurrà inesorabilmente alla rovina»53. Tutto estremamente suggestivo, certo, ma abbracciare una simile teoria ha voluto dire spogliare l’essere umano di quei fondamenti e facoltà che gli consentono di fare un’esperienza equilibrata tanto della sua esistenza personale quanto di quella sociale. Ciò al punto che anche il potenziamento della democrazia (di cui Nietzsche si dichiarava grande nemico) è stato disinnescato dalla dimensione dementocratica in cui sono relegati i cittadini che la abitano. Il risultato è l’epoca del «post»: post-identità, post-pensiero, post-verità e post-conoscenza, in cui siamo informati su tutto senza conoscere nulla in maniera approfondita. Ecco perché in questo nostro tempo della società ottusa non si tratta primariamente di riscoprire e perseguire valori pur centrali come la democrazia, 224

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la libertà individuale, l’uguaglianza e la giustizia. Sarebbe infatti un’impresa vana e sterile, se prima non ci si preoccupasse di rifondare e riportare al centro dell’agire sociale l’elemento che anticipa tutti quei valori, rendendoli sensati e possibili: l’uomo pensante, non alienato, frammentato e sottomesso dalla logica numerica e impersonale tipica del mercato e della Rete. Si rivela quanto mai urgente la ricostruzione di quella che Plotino chiamava la «statua interiore»54 dell’uomo, in quanto essere fornito di un’identità forte e autonoma, non sottomessa ai dogmi della tecnologia e della finanza ma in grado di coltivare il pensiero, la conoscenza e la virtù. Un uomo capace, soprattutto, di vivere e realizzare la sua esistenza individuale, come anche quella sociale, secondo gli imperativi categorici kantiani aggiornati al nostro tempo: 1) È profitto, e quindi da perseguire, tutto ciò che contribuisce al benessere e allo sviluppo dell’essere umano, tutto ciò che lo vede come fine e non come mezzo; 2) È buona e utile ogni invenzione e cosa il cui utilizzo è finalizzato allo sviluppo e alla crescita del mondo umano nel suo complesso (a partire proprio dalla tecnologia e dal mercato). Non si tratta di ricominciare a concepire ideologie totalizzanti ed escatologiche i cui disastri sono conclamati, bensì di tornare a elaborare idee e visioni alternative al dominio incontrastato della monocrazia neoliberista. Occorre, piuttosto, un’umanità che abbia il coraggio di andare oltre il nichilismo esistenziale e intellettuale che la pervade e contro quei sistemi e valori che ne stanno spogliando l’essenza e l’esistenza. Una nuova umanità consapevole del fatto che, per riprendere le parole di Albert Camus, «la vera generosità verso l’avvenire sta nel dare tutto nel presente», e dare tutto significa anche riscoprire quella rivolta che è «il movimento stesso della vita», un movimento che non può essere ignorato o negato senza rinunciare a vivere55. 225

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Non può esservi alcuna democrazia in quest’epoca logopatica senza una previa «demologia», senza la ricostruzione di un demos pensante, di un discorso pubblico che non si rassegni al livello infimo e ininfluente cui l’ha ridotto la società ottusa. Tutto questo passa necessariamente per la formazione e la ricostruzione di un uomo fornito di «pensiero forte» e, quindi, di un’identità in grado di non lasciarsi dettare l’agenda da poteri esterni. Si tratta, per riprendere Bertrand Russell, di combattere «l’influenza di poteri ostili o freddamente impersonali», che possono essere rimossi con l’ausilio della scienza e della tecnica moderne, purché queste siano usate «in uno spirito di umanità e in seguito alla comprensione dei motivi veri della vita e della felicità». Senza tale comprensione, il rischio sarà quello di creare una nuova prigione, magari giusta (perché nessuno ne sarà escluso), ma «intellettualmente morta»56. Occorre dunque un uomo in grado di individuare nuovi fondamenti, su cui progettare una società in cui essere soggetto vivente della sua stessa esistenza, piuttosto che oggetto vissuto dalle forze impersonali della tecnica e del mercato. I mostri che hanno messo a dormire la sua ragione, e con essa ogni possibilità di riscatto. Per una società a misura d’uomo L’uomo che pensa, nutrendo un amore naturale per la conoscenza e la ricerca della verità, si rivela prezioso in ogni epoca, di cui egli saprà farsi interprete se non altro per coloro che verranno dopo. Non a caso la filosofia, disciplina che per antonomasia si realizza e declina attraverso il pensiero, è stata definita da Hegel come «il proprio tempo appreso col pensiero»57. Precludersi questo tipo di comprensione equivale a configurarsi come apolidi e orfani della società in cui si 226

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vive. Il guaio è che nell’epoca in cui ci è dato vivere prevale un sistema ideologico e sociale che sembra aver eletto a suo nemico giurato la facoltà umana del pensiero, fino a dichiarare inutile e persino dannosa la filosofia e lo studio che se ne fa a scuola o nelle università. Ciò al punto che in molti paesi si è cominciato a discutere seriamente sull’ipotesi di un forte ridimensionamento del ruolo della filosofia, e in generale delle materie umanistiche, all’interno del sistema scolastico. Ridimensionamento incoraggiato e perfino sovvenzionato dal potere finanziario e da quello tecnologico, interessato a una più ampia diffusione degli studi tecnici58. Il nostro è il presente della società ottusa e misologa, che conduce l’essere umano ad abbandonare la casa di Sofia (il cui prezzo è molto alto: la conoscenza comporta costi elevati, specie a livello esistenziale), per andare a dimorare nella chiesa neoliberista in cui apparentemente non gli viene richiesto alcun dazio, perché la merce di scambio richiesta è ben diversa: la perdita della sua essenza. Quest’essenza consiste nel suo qualificarsi come entità pensante, innamorata della conoscenza (letteralmente: filosofo) e, per questo, intenzionata a conoscere e comprendere anzitutto se stessa e il proprio tempo. Così da rendere possibile un’esperienza più appagante della vita, nell’ambito di una dimensione individuale e sociale più umana e giusta. L’epoca in cui viviamo è costellata da forze e orientamenti che cospirano contro tutto ciò. Se c’è un insegnamento impartito dalla filosofia, a prescindere dalle diverse scuole, è che l’uomo ha il potere e il dovere di cospirare contro il presente. Si tratta della lotta essenziale di ogni essere umano veramente libero, specialmente quando il proprio tempo lo avversa mettendo a repentaglio le sue facoltà più specifiche e fondamentali. Mai come oggi è necessario reagire a un meccanismo dominante che riduce l’essere umano a mezzo e ingra227

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naggio senza pensiero né conoscenza, totalmente immerso nell’unico orizzonte esistenziale che gli viene consentito, che consiste in quello che Marcuse chiamava «principio di prestazione»59: competere con gli altri uomini in una gara a chi realizza meglio e in maggior misura gli scopi del sistema tecno-finanziario. Questa reazione non può che prendere le mosse da un nuovo pensiero forte, che non si limiti a vivere passivamente il tempo presente, eseguendone i dogmi e adeguandosi ai valori che propugna, ma che coltivi la ragionevole ambizione di saper costruire verità e valori alternativi con cui trasformare l’ordine esistente della società ottusa. Sono dunque necessarie nuove narrazioni in cui l’essere umano torni a essere fine e non mezzo, in cui il pensiero e la conoscenza siano considerati strumenti benefici ed essenziali, non orpelli antiquati e dannosi. Un mondo in cui la giustizia sociale sia un ideale da perseguire in vista del bene di ciascuno, e non un miraggio da sacrificare in nome degli egoismi in concorrenza fra loro. Nell’Ottocento Marx lamentava il fatto che i filosofi, fino a quel momento, si fossero limitati a interpretare il mondo, mentre si trattava di «cambiarlo»60. La nostra epoca è persino più infausta, perché l’uomo sprovvisto di pensiero non è più in grado di interpretare né di mettere in discussione il proprio tempo, allo scopo di preparare il terreno per modificarlo nella pratica. Il compito a cui siamo chiamati risulta, quindi, enormemente gravoso e radicale al tempo stesso. Se Protagora affermava che «l’uomo è misura di tutte le cose»61, deve essere ben chiaro che l’epoca ottusa è quella che ci ha allontanato come mai prima da quell’ideale, e che si tratta di ricostruire un mondo a misura d’uomo. Nella società ottusa sono le cose a essere misura dell’uomo, oggi soltanto una comparsa, ospite inquieto su quella scena esistenziale e sociale che pur dovrebbe appartenergli. 228

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Proviamo a individuare le linee guida di un percorso in grado di condurre alla realizzazione di un tale obiettivo, anche alla luce delle considerazioni avanzate lungo tutto il libro. Il ritorno dell’Io «Una volta i giovani utilizzavano l’Lsd per fuggire dalla realtà. Ora vanno direttamente online. Ora non ci si fa per sentirsi carichi. Ora si scarica. Ora si scarica il punto di vista specifico che corrisponde ai propri pregiudizi e li alimenta. E il mondo piatto rende tutto questo molto più semplice»62. Questo allarme lanciato da Thomas Friedman nel 2007 è solo una spia del livellamento planetario, dell’ottusità collettiva e connettiva spacciata per intelletto generale. Il compito immane che ci si pone innanzi in quanto individui è quello che il filosofo e teologo Raimon Panikkar, riformulando una tradizione che parte da Socrate ma declinandola in termini teologici, chiamava «metánoia», intendendo con questo termine un cambiamento radicale nel modo di pensare, la capacità di assumere una nuova prospettiva con cui ribaltare le vecchie credenze e aprirsi a una dimensione di dialogo interiore autenticamente umana63. Premessa irrinunciabile è riprendersi dalla sbornia postmodernista e decostruzionista che ha postulato l’inesistenza dell’Io, la non pertinenza della ragione e l’impossibilità del linguaggio di produrre significati, sostituendoli con concetti fumosi e insidiosi come istinto, vita, struttura, contingenza, immediatezza, Altro. In una parola, occorre liberarsi dell’«irrazionalismo», la corrente di pensiero che, culminata con Nietzsche e Heidegger per poi infestare il nostro secolo attraverso i loro allievi dichiarati o mascherati, ha ordito una sorta di fuga dalla ragione il cui risultato è stato uno solo: 229

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rinchiudere l’uomo in una specie di penitenziario in cui la sua capacità di pensare, conoscere e dialogare è stata gradualmente mortificata e annichilita. Il necessario ritorno alla ragione passa inevitabilmente attraverso un processo di presa di coscienza del problema a livello individuale, che porti ciascuno a scoprire l’alto valore del «dialogo dell’anima con se stessa». Non è possibile, né è nostra intenzione, pensare di eliminare il chiacchiericcio vuoto e impersonale che, oggigiorno, avviene sui social network e sulla Rete, ma anche tramite lo spettacolo e il cosiddetto mondo dello star system veicolato dalla televisione. Ogni persona dev’essere consapevole che solo attraverso un lavoro di introspezione, autocritica e analisi del sé potrà acquisire un’identità autonoma e conscia delle proprie potenzialità come dei limiti. Questa è l’identità sana ed equilibrata che, salvo patologie di natura psicologica o medica, appartiene all’essere umano fornito di logos. Nessuna relazione con gli altri e nessun rapporto con il mondo circostante può avvenire in termini sani ed equilibrati se prima non si è imparato a relazionarsi con se stessi. La nostra epoca si caratterizza per il terrore con cui le persone evitano ogni occasione che le obblighi a stare da sole, a riflettere sulle domande fondamentali e sulle questioni radicali che caratterizzano l’esistenza umana a livello interiore ed esteriore. Internet e le nuove tecnologie digitali hanno colonizzato ogni minuto di libertà che riusciamo a ritagliarci dalle occupazioni della vita quotidiana, privandoci di quei momenti che sono fondamentali per la nostra essenza di entità temporalmente definite: il tempo per noi stessi. Quello in cui ricostruiamo lo specchio infranto della nostra riflessione, combattendo affinché la coscienza, come scriveva Freud, non si riduca a una sorta di Io ideale predisposto da chi «non vuole essere privato della perfezione narcisistica della sua infanzia»64. 230

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Nella nostra società ottusa, in cui tutto cospira per distrarci dall’analisi, dalla cura e dalla costruzione di un’identità autentica, gli adulti sono chiamati a riscoprire, e i ragazzi a imparare, che la facoltà essenziale dell’uomo, senza la quale egli non può aspirare a un’esistenza libera e individualizzata, consiste nel recuperare il logos smarrito. L’uomo pensante, libero e autonomo nelle sue scelte come nei suoi giudizi, è colui che riesce nell’impresa più ardua, in quest’epoca in cui la tecnologia impone una distrazione di massa senza limiti né sosta: ritagliarsi spazi e tempi per la riflessione, la conoscenza e lo studio attento di sé come del mondo in cui abita. Solo così può formarsi un atteggiamento generale che gli consenta di differenziarsi rispetto alle influenze ambientali, ai convincimenti acquisiti e a quelle idee collettive che ogni forma di potere si incarica di imporre per poter beneficiare dell’omologazione e della de-individualizzazione dei suoi sottoposti65. Non è in questione solo la nostra libertà di individui, perché strettamente connessa a quella libertà è anche il tipo di società libera e democratica in cui potremo vivere, come ebbe a intuire nel 1941 lo psicologo Erich Fromm: Il futuro della democrazia poggia sulla realizzazione di quell’individualismo che ha rappresentato l’obiettivo ideologico del pensiero moderno a partire dal Rinascimento. La crisi culturale e politica del nostro tempo non è dovuta al fatto che vi è troppo individualismo, ma al fatto che quello che crediamo essere individualismo è diventato un guscio vuoto. La vittoria della libertà è possibile soltanto in una società in cui l’individuo, il suo sviluppo e la sua felicità, siano l’obiettivo e il proponimento della cultura dominante, in cui la vita non abbia bisogno di trovare alcuna giustificazione nel successo o in altre cose, e in cui l’individuo non sia subordinato a (o manipolato da) alcun potere a lui esterno,

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che si tratti dello Stato o della macchina economica. Infine una società in cui la sua coscienza e i suoi ideali non siano il frutto dell’interiorizzazione di ordini esterni, ma che siano realmente suoi ed esprimano gli obiettivi derivanti dalla peculiarità del suo essere66.

Se il nostro tempo è quello in cui ci hanno insegnato che a parlare da soli sono i folli, bisogna essere consapevoli che è arrivato il momento di riscoprire l’alto valore insito in questo tipo di follia. Idee, non dogmi L’uomo che pensa produce anzitutto delle idee. Attingendo alle fonti indispensabili della conoscenza e della critica, tali idee dovrebbero essere elaborate in maniera autonoma e suffragate da una ragionevole informazione rispetto all’argomento trattato. In questo senso egli è chiamato a liberarsi dalla gabbia postmodernista che vorrebbe convincerlo della sua inadeguatezza rispetto a tale compito, e tornare ad avere fiducia nella capacità che le proprie idee siano in grado di comprendere il reale, di individuarne le contraddizioni nel contesto sociale e di provare, attraverso un metodo costante di prove ed errori, a costruire soluzioni migliorative. Queste, a loro volta, paleseranno limiti e contraddizioni che richiederanno nuove idee e nuovi avanzamenti, senza soluzione di continuità. La «nottola di Minerva», ossia la ragione filosofica nella metafora hegeliana, giunge sul far della sera, ma ne è consapevole. Per questo non può coltivare la pretesa di conseguire verità assolute, né di profetizzare il futuro. In tal modo, delle idee ben costruite possono uscire dall’ambito ristretto dell’individualità e divenire ideologie nel senso gramsciano del termine, visioni generali che assurgono a una dimensione politica, che 232

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coltivano la ragionevole ambizione di cogliere le storture del tempo presente («gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie») e proporre soluzioni per superarle67. L’essere umano che torna a coltivare un pensiero forte è colui che aspira a costruire una democrazia cognitiva, all’interno della quale le proprie idee e ideologie riprendono a svolgere un ruolo fondamentale, stavolta nella consapevolezza che nessuna teoria è alimentata da una struttura oggettiva, e quindi non può aspirare a soluzioni altrettanto oggettive, infallibili e definitive. L’elaborazione di nuove idee passa inevitabilmente per l’accantonamento delle vecchie ideologie, peraltro superate già dagli eventi e da un contesto storico, sociale ed economico terribilmente mutato. L’uomo che pensa e produce idee è colui che non si è liberato soltanto dai mostri generati dal sonno della ragione, ma anche da quelli prodotti da un’eccessiva e immotivata fede in una ragione oggettiva, rivoluzionaria e infallibile. Occorre sottrarsi al «culto dell’idolo di una conoscenza certa o infallibile», acquisendo la consapevolezza che «evitare l’errore è un ideale meschino»68. Tutto questo, per giunta, nella consapevolezza che non esistono più, almeno nel senso tradizionale in cui li si è intesi, soggetti storici della rivoluzione (il proletariato di cui parlava Marx), né moderni principi (il partito, secondo la definizione di Gramsci) che si facciano interpreti privilegiati ed esecutori di quella medesima rivoluzione. Come del resto non esistono più intellettuali organici a una causa ideale e politica, poiché siamo inseriti in un contesto spettacolare ed ego-riferito in cui esistono piuttosto delle «celebrità»69, secondo l’espressione del sociologo americano Charles Wright Mills, impegnate nella ricerca della visibilità e della pubblicità di sé e delle proprie idee. 233

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Poiché risulta cieco un agire che non sia illuminato da un’idea ben definita, quanto risulta sterile una teoria che non sia concepita e costruita in maniera tale da esercitare un’influenza effettiva sulla realtà sociale e materiale del proprio tempo. Famiglia e Scuola: i piani dell’educazione I più recenti studi neurologici hanno dimostrato che il cervello umano è plastico ma non elastico: specie nell’età più giovane si lascia modellare, ma non può ritornare allo stato originario. Da questo punto di vista non v’è dubbio che le giovani e giovanissime generazioni sono quelle più esposte agli effetti deleteri prodotti dalla società misologa. Anche perché sono quelle che fanno un uso maggiore delle nuove tecnologie digitali e la cui mente, non ancora formata, è più esposta alle riconfigurazioni che quelle stesse tecnologie stanno operando. Occorre, dunque, riconsiderare il ruolo delle due istituzioni cui spetta il compito di curare l’istruzione, la formazione e l’educazione di persone in grado di fornire il proprio contributo alla crescita democratica e culturale di una società: la famiglia e la scuola. Per quanto riguarda la prima, urge indirizzare un richiamo etico a coloro che, a vario titolo, interpretano la funzione genitoriale. Il messaggio deve essere chiaro: non si ha cura della crescita sana ed equilibrata dei propri figli, ma al contrario li si espone ai rischi più gravi, nella misura in cui li si abbandona alla televisione e alle tecnologie digitali. In tal senso si era espresso con parole inequivocabili già papa Wojtyła, che nel 1994 affermò: «I genitori che si servono abitualmente e a lungo della televisione come di una specie di ­bambinaia elettronica, abdicano al ruolo di primari educatori dei 234

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propri figli»70. Non si tratta di voler utopisticamente (e ingiustamente) eliminare dall’orizzonte dei figli il divertimento mediatico, né le indubbie possibilità che esso offre, ma spetta ai genitori limitarne l’uso (in senso quantitativo e qualitativo), nonché di promuovere e insegnare altre attività. Tutto questo non sulla base di considerazioni moralistiche, ma di molteplici studi scientifici che, anche laddove segnalano elementi positivi nell’uso dei nuovi media, sottolineano come specialmente in tenera età «i bambini necessitano di stimolazioni che possono ottenere solamente nell’interazione con persone in carne e ossa e con oggetti reali». Oggi, invece, ci troviamo di fronte a giovanissimi che dichiarano di «non saper più come fare a separare la vita digitale e quella reale»71. Insegnare il dialogo con se stessi (auto-analisi) e con gli altri (a partire dai genitori stessi), favorire la lettura di un buon libro adeguato all’età dei ragazzi, l’attività fisica e sportiva e le relazioni umane e sociali svolte al di fuori del claustrofobico e limitante filtro di uno schermo, devono affermarsi alla stregua di imperativi categorici morali dell’azione genitoriale. Perfino tornando a valorizzare l’imposizione di una certa disciplina, da non intendersi né declinarsi in termini autoritari, bensì all’insegna della riscoperta di quell’autorevolezza genitoriale (anche scomoda e onerosa, specie in questi tempi di disagio sociale ed economico diffuso), che sappia guidare i figli attraverso percorsi integrativi o alternativi rispetto a quelli imposti dallo spettacolo mediatico e da ciò che il mercato considera valori unici da perseguire e a cui conformarsi. Mai come in quest’epoca incline all’omologazione e all’isolamento, infatti, occorre trasmettere alle giovani generazioni «i valori dell’autonomia e dell’individualità», e in genere un’educazione che «li prepari a essere membri pienamente cooperativi della società», incorag235

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giandoli a quelle «virtù politiche» che facciano desiderare loro di «onorare i giusti termini della cooperazione sociale nelle [...] relazioni con il resto della comunità», per riprendere le parole del filosofo americano John Rawls72. Occorre essere chiari su questo punto: è il momento di smetterla con la retorica generica sul valore della famiglia, messa in campo solitamente da chi intende sfruttare tale istituzione per averne un ritorno di natura politica. La famiglia non possiede questo valore a priori; al contrario, mai come oggi è chiamata a realizzarlo attraverso figure genitoriali disposte ad affrontare la delicatezza e la responsabilità del proprio ruolo, impegnandosi a crescere i figli quanto più possibile in prima persona, proibendo loro di dedicare troppo tempo (e risorse) a ciò che offre la tecnologia e accresce il mercato, e incoraggiandoli a praticare (anche) delle attività che arricchiscano a vari livelli la loro personalità e la qualità delle relazioni con gli altri. Si tratta di una scelta che devono compiere i genitori, che come tale non può essere imposta da alcuna legge né diretta da alcuna norma universale. Nessun altro come chi decide di generare o crescere una nuova vita deve essere conscio che «oggi è in gioco la natura stessa dell’uomo». Spetta alla loro responsabilità individuale far crescere ed educare persone in grado di condurre una vita autonoma e appagante, sia individualmente che socialmente. L’alternativa è quella di attuare l’opzione più agevole e deresponsabilizzante, l’affidare i figli a quei comodi e suadenti baby sitter elettronici che faranno di loro dei «docili robot»73. Inconsapevolmente ed entusiasticamente pronti a esaudire ogni desiderio del mercato, della tecnologia e del potere di turno.

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L’educazione sentimentale «Una generazione sull’orlo della più grave crisi di salute mentale giovanile degli ultimi decenni». È la drammatica denuncia della psicologa americana Jean Marie Twenge74. Se mai come oggi le giovani generazioni hanno la possibilità di essere «social», di fatto lo sono solamente nella vita virtuale, che per larga parte è una finzione governata da logiche commerciali. Nella vita reale, i ragazzi sono sempre più soli, depressi, incapaci di empatia e privi degli strumenti con cui allacciare relazioni concrete, profonde, durevoli ed equilibrate con gli altri esseri umani. Alla base di questo analfabetismo relazionale c’è quella che abbiamo definito come una dimensione di solitudini comunicanti, in cui i ragazzi vivono sempre più connessioni e sempre meno relazioni. Incapaci di staccare lo sguardo (e con esso l’empatia, l’affettività, l’attenzione) dagli schermi dei propri smart­ phone, per alzarli verso l’umanità delle persone in carne e ossa che stanno loro accanto o di fronte, vedono quello che trasmette loro lo schermo, o che desiderano trasmettere attraverso di esso. In questa dimensione ipertecnologizzata e ossessivamente votata al profitto, ci si sta concentrando troppo sul creare macchine capaci di «sentire» e per nulla sui nostri giovani che, sempre più «iper-connessi»75, quella capacità la stanno smarrendo. Basti fare riferimento, a titolo di elemento esemplificativo di quanto stiamo sostenendo, che in un paese come l’Italia sono svariati decenni che si tenta di introdurre nelle scuole l’educazione sessuale. Ogni tentativo è andato fallito. Sennonché, oggigiorno l’educazione sessuale rischia di rivelarsi perfino disfunzionale, se prima non si interviene sulla capacità relazionale che la precede e ne rende possibile una realizzazione equilibrata. 237

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Nella società in cui tutto, a cominciare dalle relazioni, avviene sempre più per mezzo dell’intermediazione tecnologica, si tratta di rendere consapevoli di un compito al tempo stesso più radicale e complesso: educare persone in grado di elaborare e gestire il vasto campo dei sentimenti, dell’affettività e della capacità relazionale, riuscendo a prescindere da quei collanti riduttivi e disumanizzanti rappresentati dagli strumenti mediatici. Occorre prevedere, possibilmente all’interno dei programmi scolastici, momenti dedicati all’educazione sentimentale in senso lato, nonché operare per il ripristino di una cultura del sentire la vita reale piuttosto che del guardare (o del farsi guardare) in quella virtuale attraverso schermi trasfiguranti. Momenti, cioè, in cui fornire a ragazzi e ragazze gli strumenti adeguati a nutrire e vivere la dimensione sentimentale e affettiva con se stessi e poi con i loro simili. Con l’obiettivo di formare individui che sappiano farsi carico di rapporti umani reali e consapevoli (di qualunque genere e durata), nella convinzione che, per riprendere le parole di Howard Gardner, «meno una persona conosce i propri sentimenti, più cadrà preda degli stessi [...]. Quanto meno una persona comprende i sentimenti, le risposte e il comportamento di altri, tanto più facilmente agirà inappropriatamente con loro, quindi fallendo nell’assicurarsi un proprio posto all’interno della comunità in generale»76. Per questo si rivela umanamente e socialmente fondamentale contrastare con un’educazione specifica le interazioni superficiali e fredde agevolate dalle nuove tecnologie, in cui si consumano incontri, chiacchiere, condivisioni rigorosamente a distanza e con modalità che sono quelle imposte dal modo di funzionare dei mezzi digitali. Convincere i ragazzi che le ragazze sono quelle che vedono costantemente nei siti porno, e che il funziona238

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mento dell’interazione con loro avviene secondo quelle specifiche modalità strumentali e mercificanti; ancora, incentivare la cultura dello hook-up (letteralmente, «agganciamento»), favorita dalle molteplici app e occasioni online, che sta provocando un’apocalisse relazionale fra i giovani, sempre più imbevuti di una visione strumentale dell’altra persona e di una prassi dell’usa e getta, si traduce nel «fare sesso spinto restando emotivamente freddi»77. L’aver attribuito un’importanza centrale e ormai quasi unica all’intelligenza logico-razionale ci ha portato a dimenticare che in quanto esseri umani siamo portatori sani di emozioni, sentimenti e affettività. Tutte facoltà di cui abbiamo bisogno per vivere un’esistenza piena, che si rivelano centrali nel gioco complesso e delicato delle relazioni fra esseri umani (amicali, amorose o di qualunque altra natura). Recuperare l’essere umano pensante, in questo senso, significa recuperare individui in grado di elaborare e gestire con ragionevole misura una sfera fondamentale, nella consapevolezza che la saggezza non consiste nel rimuovere le emozioni o le passioni, ma nel viverle con equilibrio per non esserne disorientati o schiacciati: Una sana padronanza di sé, nell’essere capaci di resistere alle tempeste emotive a cui la sorte ci sottopone senza finire «schiavi delle passioni», è stata celebrata come una virtù sin dai tempi di Platone [...]. I momenti difficili, così come quelli positivi, danno sapore alla vita, ma devono essere vissuti con equilibrio. Nella conta delle faccende del cuore, è il bilanciamento ragionato delle emozioni positive e negative a determinare il senso di benessere [...]. La gestione delle nostre emozioni è un lavoro a tempo pieno: molte delle cose che facciamo, specialmente nel nostro tempo libero, rappresentano un tentativo di controllare il nostro stato d’animo [...]. La teoria ci insegna che i bambini emozionalmente equilibrati imparano a confortarsi da soli imitando le persone che

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si sono prese cura di loro, diventando in questo modo meno vulnerabili ai perturbamenti del cervello emozionale78.

L’autore di Intelligenza emotiva, Daniel Goleman, sottolinea così l’importanza del tempo libero, dell’interazione sana e profonda che abbiamo con persone in carne e ossa. La freddezza, la superficialità, l’utilitarismo, l’aggressività, l’impoverimento sentimentale e affettivo agevolati e quasi promossi da una società che si declina in senso prevalentemente tecnico e finanziario, vanno combattuti attraverso una seria e ponderata operazione culturale di ri-alfabetizzazione relazionale. Una società abitata da individui in grado di sviluppare empatia e capaci di allacciare relazioni di intimità sane con il prossimo è una società migliore, sia per la salute e l’armonia dei singoli sia per il benessere comune. Questo perché «se la facoltà di pensare obiettivamente è ragione, l’atteggiamento emotivo che accompagna tale ragione è quello di umiltà». In tal senso, «essere obiettivi e usare la propria ragione è possibile soltanto se si è raggiunto un atteggiamento di umiltà, se ci si è liberati dai sogni di onniscienza e onnipotenza che si hanno da bambini», per aprirsi all’esistenza degli altri e di altri punti di vista con cui venire a contatto in maniera armonica. Tutto il contrario di quell’atteggiamento egoistico e narcisistico che abbiamo visto essere incoraggiato e prodotto dalla società ottusa e dalle tecnologie che la pervadono. Ciò permette di prendere coscienza del fatto che «la discussione sull’arte di amare non può essere confinata solo alla sfera personale» di acquisizione e conquista di determinate facoltà e attitudini, perché in realtà si rivela «indissolubilmente connessa alla sfera sociale»79. Nella fattispecie dei rapporti amorosi, poi, che si rivelano come quelli più intensi e problematici al tempo 240

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stesso, la formazione di ragazzi e ragazze che sappiano gestire ed elaborare la propria sfera sentimentale, ma anche farsi carico di quella delle persone con cui decidono di entrare in relazione (con il senso di responsabilità che ciò comporta), significa provare a combattere la deriva verso cui ci sta portando un sistema imperniato sulla logica strumentale e quantitativa. Uomini che non sanno riconoscere e rispettare nella donna un’alterità egualmente degna e paritetica, che la dominano con la violenza che si sostituisce all’incapacità del dialogo. Uomini che non riconoscono l’autonomia esistenziale della donna, e che perciò non accettano che essa possa lasciarli o innamorarsi di qualcun altro senza reagire in maniera talvolta squilibrata e patologica. Ma anche donne e ragazze incapaci di riconoscere la propria specificità e dignità di esseri umani indipendenti, che non sanno gestire una fase di solitudine senza rassegnarsi a una compagnia sbagliata ma vissuta come necessaria, o che si pongono in relazione all’altro in una modalità errata, volta a compiacere in tutto e per tutto il compagno oggetto del desiderio. Quasi in una gara a chi si annulla in modo più completo ed efficace pur di soddisfare gli egocentrismi e i narcisismi di individui a loro volta affettivamente impreparati80. Sono solo alcuni esempi di modalità relazionali fondate su una diseducazione sentimentale ed emotiva che le nuove tecnologie mediatiche, malgrado si presentino come straordinari mezzi di comunicazione e relazione, finiscono con l’alimentare e peggiorare. È forse il caso di avanzare l’ipotesi, per esempio, che quella che da più parti viene presentata come una crisi dell’istituzione familiare, si riveli come il risultato di una crisi emotiva e affettiva diffusa: non si vede, infatti, come individui diseducati possano dare luogo a unioni sane, equilibrate, capaci di resistere agli urti del tempo e di crescere le nuove generazioni in maniera adeguata. Del resto, 241

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come precisava Erich Fromm, «la pratica di un’arte richiede disciplina», e l’arte di amare non fa eccezione: «il fatto è che l’uomo moderno ha acquisito un’autodisciplina eccessivamente ridotta al di fuori della sfera del lavoro»81. In tale direzione deve inserirsi l’attività di una scuola che, rinnovata nella sua stessa idea, nell’organizzazione e nei programmi, possa compensare questa «degenerazione dell’umano» che passa anche attraverso un sempre più diffuso analfabetismo emotivo, al quale si affianca quell’analfabetismo funzionale in grado di operare una «mutazione antropologica», destinata a trasfigurare le caratteristiche peculiari del genere umano. Invito chi ritenesse tale prospettiva eccessivamente fosca a riflettere, per esempio, sul fatto che dal 2013 sono stati lanciati i servizi InvisibleGirlfriend e Invisible­ Boyfriend attraverso i quali, dietro il pagamento di una quota mensile, si può disporre di un «dialogo» costante con una persona virtuale le cui caratteristiche specifiche sono scelte dall’utente stesso (nome, carattere, aspetto, tipi di risposta ecc.). Dopo i primi approcci «conoscitivi», la conversazione può diventare molto intima e il rapporto sostituire quelli reali, più rischiosi, incerti e forse persino meno appaganti82. Anche nella dimensione sentimentale e affettiva, insomma, il mondo virtuale si pone come in grado di risucchiare quello reale, fino a trasfigurare le connotazioni e i comportamenti peculiari dell’essere umano. Ancor più urgente appare dunque porre nuovamente l’accento sul compito della famiglia che non può che declinarsi se non insieme al patto educativo che intercorre con l’altra grande agenzia formativa della nostra società: la scuola. Nei rispettivi ambiti e con le proprie modalità, entrambe devono mettere in atto una missione educativa volta non a eliminare l’uso delle nuove tecnologie e dei social (sarebbe irrealistico quanto scioc242

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co, anche solo pensarlo), bensì motivare i ragazzi rispetto a tutte quelle esperienze (la lettura di un libro, l’attività sportiva, l’incontro effettivo con le persone ecc.) che prescindano dalle tecnologie stesse e che permettano loro di essere sempre meno delle solitudini comunicanti e sempre più delle compagnie che si incontrano. In nessun altro ambito come questo, probabilmente, vale l’assunto secondo cui una società che rinuncia all’educazione si auto-condanna a essere popolata da barbari. O da alienati. L’educazione fisica Nessun’altra società al pari di quella ottusa ha funzionato in maniera tale da contrastare la massima antica «Mens sana in corpore sano». Se infatti essa è organizzata in maniera tale da mortificare tutto ciò che richiede o comporta pensiero, conoscenza e dialogo costruttivo, l’utilizzo sempre più pervasivo delle nuove tecnologie spinge un numero crescente di persone a privilegiare le attività online. Giochi sempre più sofisticati e realistici, software di messaggistica, gruppi di discussione e social network in genere, si rivelano valide e comode alternative all’uscire di casa e compiere una sana attività fisica, magari insieme ad altre persone. Per non parlare di coloro che utilizzano le nuove tecnologie per le più svariate forme di sesso online. Pur non trattandosi di un attacco indirizzato ad annullare l’attività e quindi la salute fisica dell’uomo, è comunque importante rilevare che uno dei due principali attori della società ottusa (le nuove tecnologie mediatiche) sta producendo un’ampia gamma di effetti deleteri sul corpo degli esseri umani. In Italia permane una certa ritrosia a parlare di educazione fisica e cultura del corpo, specie a livello sco243

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lastico e istituzionale, forse perché abbiamo avuto il fascismo che invece ne aveva fatto uno dei suoi baluardi pedagogici. All’inadeguatezza del tempo e delle risorse dedicate a tale disciplina, si aggiunge un’emergenza sociale che dovrebbe spingere, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni immobili davanti ai loro schermi digitali, a colmare questa lacuna e valorizzare la cultura dello sport e della salute fisica. Meno sportivi in tv o sui giochi elettronici e più ragazzi e ragazze che si impegnano in prima persona in un’attività fisica che li metta in contatto con i loro coetanei, aiutandoli a crescere e a fare i conti con le sconfitte e le vittorie della vita, come anche con l’impegno e la disciplina che occorrono per riuscire a ottenere i propri obiettivi. Consapevoli che non dobbiamo per forza indurre i più giovani a svolgere un’attività sportiva di per sé (anche se si tratta di un’esperienza che li forma ed educa a molteplici livelli: disciplinare, relazionale, motivazionale ecc.), ma anche soltanto a uscire di casa, fare una passeggiata al mare, in un parco o fra la natura, vedere gli amici dal vivo e giocare con loro senza l’intermediazione di un device. Larry D. Rosen, esperto di nuove tecnologie e dei loro effetti sugli esseri umani, racconta di un esperimento condotto su trentotto studenti dell’Università del Michigan, alcuni dei quali invitati a camminare per un’ora in un orto botanico, mentre altri per le vie di un centro urbano trafficato. Prima e dopo questo esperimento, agli studenti è stato somministrato un test sulla memoria di lavoro, dal quale si sono riscontrati notevoli miglioramenti nelle persone che avevano passeggiato in mezzo alla natura. Più in generale, lo stesso autore riferisce di risultati assai significativi, in seguito all’esposizione alla natura, anche su bambini affetti da Adhd (iperattività, disturbi dell’attenzione e atteggiamenti 244

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oppositivi), da depressione e in generale da patologie che fanno registrare dei peggioramenti in soggetti abituati a un uso notevole delle nuove tecnologie. Ancora più formidabili i risultati degli studi e delle meta-analisi sui benefici a livello cognitivo e neuronale, come anche rispetto all’ansia, alla depressione e perfino alla schizofrenia (in aggiunta a tutti i più noti benefici in ambito fisico e organico), che si riscontrano su persone che praticano una sana attività fisica o perfino uno sport. «I bambini meno tonici fisicamente», ha concluso lo studioso americano, «possono avere maggiori difficoltà rispetto a quelli in una forma fisica maggiore nella modulazione flessibile dei processi di controllo cognitivo come anche nella risoluzione dei problemi. Di questa medesima relazione è stata dimostrata l’esistenza anche negli adulti in età universitaria»83. Una buona salute della mente passa necessariamente per quella del corpo, in un meccanismo di influenza reciproca che non dovrebbe consentire di trascurare nessuno dei due ambiti. Lo aveva compreso già Platone che, pur celebre per la sua concezione negativa del corpo a livello esistenziale – visto come tomba o prigione dell’anima – tuttavia nell’ambito della quotidianità si preoccupava di sottolineare il ruolo centrale della ginnastica (a fianco della musica) nell’educazione a tutto tondo di un cittadino curato nella bellezza dell’anima quanto in quella del corpo. L’educazione del buon cittadino, dunque, passa anche per la ginnastica intesa come «medicina preventiva» di un indebolimento generalizzato della persona. Parole inascoltate nel nostro tempo, ancora più significative perché provenienti da un pensatore severo che conferiva all’educazione un’importanza centrale nella vita dello Stato, al punto da escludere curiosamente solo per insegnanti ed educatori incapaci la punizione pena245

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le, attribuita a tutte le altre figure di primo piano che si fossero rivelate inadeguate84. A fronte dell’insegnamento impartitoci dal grande filosofo, suffragato dagli studi contemporanei, vale la pena impegnarsi per una rivalutazione dell’educazione fisica a partire dalle scuole, che si estenda a tutto l’ambito della cultura in generale. Un’attenta cultura del corpo e della sua salute è l’antidoto più efficace contro il «macchinismo» che sta inchiodando i nostri ragazzi sulle sedie e davanti agli schermi dei loro apparecchi elettronici. Affinché un corpo sedentario non diventi una zavorra per la mente e per le attività cognitive più importanti per l’essere umano. In questo senso l’uscita dalla società ottusa passa anche per il sentiero dell’educazione fisica. L’educazione ecologica Il fatto di non considerare le implicazioni sociali da parte della teoria economica corrente, è strettamente collegato alla considerevole incapacità da parte degli economisti di adottare una prospettiva ecologica. Il dibattito fra ecologisti ed economisti si è protratto per due decenni fino a oggi, mostrando in maniera molto chiara che il corpo principale del pensiero economico contemporaneo è intrinsecamente antiecologico [...]. Dieci dollari di carbone per gli economisti sono uguali a dieci dollari di pane, di trasporti, di scarpe o di educazione. L’unico criterio per determinare il valore di questi beni e servizi riguarda il loro valore monetario sul mercato: tutti i valori si riducono all’unico criterio della produzione di profitto privato85.

Già nel 1982 lo scienziato Fritjof Capra metteva in risalto il contrasto fra la logica quantitativa imposta dal mercato e la necessità di recuperare una dimensione umana del vivere sociale. Oggi è ancor più evidente che 246

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il concetto stesso di ricchezza, così come portato avanti dalla dogmatica economica, non tiene conto, anzi contrasta con l’unica vera ricchezza che rende possibile ogni altro tipo di sussistenza e di sviluppo umano: il benessere e la tutela dell’ecosistema in cui viviamo. Eppure il rispetto e la considerazione dovuti al «padrone della festa»86, il nostro pianeta, oggi appaiono talmente cruciali che i due termini della questione sono diventati inversamente proporzionali: all’aumentare della ricchezza finanziaria e produttiva, infatti, corrisponde l’impoverimento crescente delle risorse naturali presenti sulla Terra che, a cominciare dall’ossigeno, garantiscono la sopravvivenza e la salute degli esseri viventi che la abitano. Emerge in tutta evidenza l’incompatibilità fra la logica economica (quantitativa) e quella umana, che dovrebbe ispirarsi alla qualità. La qualità della nostra salute, come del pianeta intero, è messa sempre più a repentaglio da una dogmatica che considera soltanto produzione e consumo, a prescindere da ciò che si produce e consuma e dagli effetti che questi prodotti avranno sulla stabilità del nostro ecosistema. L’utilizzo dei carboni fossili e l’emissione di gas serra, ma anche il fenomeno impressionante dell’innalzamento dei mari, che sta facendo sprofondare città costiere come Alessandria d’Egitto, Jakarta e Dubai, senza contare le numerose in cui avviene la contaminazione acqua dolce-acqua salata (con gravi ripercussioni sulla salute delle persone)87, ci sbattono in faccia il fallimento della logica mercatistica. Il suo principale strumento di coordinamento, ossia il sistema dei prezzi, fornisce un’indicazione profondamente sbagliata del costo che per tutti noi comporta l’utilizzo di alcuni prodotti al posto di altri. «I prezzi, del petrolio o dell’alluminio prodotto con energia “sporca”, per esempio, non riflettono il costo 247

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effettivo che la società deve sostenere per la produzione e per l’utilizzo di questi beni»88. A fronte di ciò, considerando che l’anidride carbonica che emettiamo resta nell’atmosfera circa un paio di secoli (mentre una parte di essa permane per un millennio), e che il clima sta mutando come risultato di circa duecento anni di emissioni, emerge la responsabilità dei paesi che hanno fondato le proprie economie sui carburanti fossili. Una responsabilità assai maggiore rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo, che hanno visto potenziare le loro economie (e con esse le emissioni) nell’ultimo ventennio, se per esempio teniamo presente che ancora oggi soltanto gli Stati Uniti (il 5% della popolazione mondiale) sono responsabili del 14% di tutte le emissioni planetarie. In questo senso si comprende benissimo la richiesta, che proviene dai paesi più poveri, di un «Piano Marshall per la Terra»89 di cui dovrebbero farsi carico le nazioni industrializzate, con lo scopo di pagare il loro debito verso la restante (e maggioritaria) popolazione mondiale, ma anche di permettere alle nazioni in fase di sviluppo di utilizzare sistemi di produzione più eco-compatibili di quanto non si sia fatto in passato. Occorre andare oltre i limiti di questa proposta. Se vogliamo pensare a una sorta di Piano Marshall per il pianeta, infatti, dobbiamo superare la visione ristretta che si limita, ancora una volta, al solo ambito economico. Non si tratta di risarcire la popolazione mondiale che ha subito per secoli il dominio occidentale, né di costruire le basi perché le nascenti potenze economiche non ripetano gli errori di quelle che le hanno precedute90. Occorre anche, e soprattutto, finanziare un’operazione pedagogica e culturale, che parta dalla scuola e dall’università, con materie e corsi dedicati. L’obiettivo deve essere il ricostruire un sistema di valori alternativo rispetto a quello «economico-centrico», e con esso un’opinione pubblica consapevole e disposta a impegnarsi a 248

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livello individuale (con il voto), ma anche in maniera collettiva nella società civile e nelle organizzazioni non governative, per esercitare una pressione sui rispettivi governanti, affinché adottino politiche sul clima e si adoperino concretamente per la stipula e il rispetto degli accordi globali91. È evidente che, per provare a ottenere questo risultato, bisognerà passare attraverso «mutamenti profondi nel nostro sistema di valori», come già aveva provato ad avanzare il fisico Fritjof Capra nel 1982. Ciò richiederà un impegno concreto, capillare e globale che coinvolga l’ambito dell’educazione e dell’istruzione, affinché non sia sottomesso ai dogmi della teologia economica ma, piuttosto, si trovi nella condizione di poter diffondere una nuova mentalità e una cultura diffusa ispirate al rispetto e alla tutela del nostro ecosistema. Solo un’opinione pubblica consapevole e impegnata potrà spingere la politica, e quindi l’economia, verso l’adozione di misure responsabili nei confronti del genere umano e delle generazioni future: L’idea stessa di ricchezza, centrale nella dimensione economica, è inestricabilmente connessa alle aspettative, ai valori e agli stili di vita umani. Definire la ricchezza all’interno di una cornice ecologica vorrà dire trascendere le sue connotazioni attuali di accumulazione materiale, conferendole il senso più ampio di arricchimento umano. Un tale intendimento di ricchezza, insieme a quello di profitto e di altri concetti connessi, non sarà suscettibile di una quantificazione rigorosa, e quindi gli economisti non potranno più avere a che fare con valori declinati in termini esclusivamente monetari. All’atto pratico, i nostri attuali problemi economici rendono del tutto evidente che il denaro da solo non fornisce più un adeguato criterio di misura92.

Termini come ricchezza, valore, sviluppo, profitto ecc., dovranno tornare a essere declinati anche e soprat249

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tutto in un’ottica, e all’interno di un sistema valoriale, che veda l’uomo e l’ecosistema in cui esso abita al centro di ogni considerazione primaria. Pensare che tutto ciò sia utopistico e irrealizzabile rispetto alla forza travolgente della consuetudine, equivale ad arrendersi all’idea di continuare a fare del male al «padrone della festa» come se nulla fosse. Andando avanti di questo passo potremmo trovarci a fare i conti con una spiacevole eventualità. La fine della nostra festa. Pedagoghi vs demagoghi Un «sinonimo del comunismo». Così Friedrich Nietzsche, tra i più accesi contestatori della scuola pubblica, che per la prima volta consentiva un’istruzione anche ai figli delle famiglie non nobili né benestanti. Coloro che parlano di istruzione popolare – sosteneva il pensatore tedesco – desiderano rovesciare «l’ordinamento più sacro dell’ordine dell’intelletto, ossia la soggezione della massa, la sua obbedienza sottomessa, il suo istinto di fedeltà nel servire sotto lo scettro del genio»93. La grande maggioranza del popolo è nata per servire e per ubbidire, e allora «perché lo Stato ha bisogno di quel numero esorbitante di scuole e di insegnanti? A che scopo questa istruzione popolare e questo illuminismo popolare?». È ovvio, rispondeva Nietzsche: «si cerca di sfuggire alla severa e dura disciplina delle grandi guide, facendo credere alla massa che essa troverà da sola la strada, sotto la guida dello Stato, vera stella polare!»94. Non a caso il filosofo tedesco era un teorico ­dell’otium come attività intellettuale (studio, arte, musica) riservata a un gruppo ristretto di aristocratici, mentre il resto della popolazione doveva occuparsi del vile e prosaico lavoro, persino di natura servile o schiavisti250

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ca, per pagare la sofisticata inoperosità di questi oziosi «benriusciti». Nietzsche non era certo solo in questo giudizio: alle sue spalle aveva lavorato una tradizione lunga e ideologicamente trasversale, se è vero che anche Sieyès, autore del più celebre manifesto della Rivoluzione francese, contrapponeva a «un piccolo numero, veramente piccolo, di teste libere e pensanti», «la maggior parte degli uomini», definiti come «macchine da lavoro», «strumenti di lavoro», «strumenti umani della produzione» o anche «strumenti bipedi»95. Perfino l’illuminista Kant, di cui è noto il proverbiale invito all’uomo («Sapere aude!»), scriveva che «la cultura non può essere ben sviluppata nella specie umana che per mezzo della disuguaglianza fra gli uomini». Riassumendo la logica di questa tradizione, Nietzsche faceva suo il motto dell’«Otium et bellum» (cultura e guerra), uniche occupazioni in cui «risiedono la nobiltà e l’onore», riservate alla ristrettissima aristocrazia presente nel genere umano96. Una radice aristocratica può essere del resto rintracciata nel termine stesso, e originario, di «scuola», che deriva dal greco scholé e vede l’equivalente latino nel termine otium. Indicava il tempo libero, in cui, dopo aver espletato le incombenze quotidiane, ci si poteva dedicare allo studio e al ragionamento. Era evidente la connotazione non per tutti: le attività legate alla conoscenza si ritenevano riservate a pochi eletti, per lo più appartenenti alle classi agiate. Ciò peraltro, con le dovute differenze insite nel salto temporale, è stato vero almeno sino alla fine dell’Ottocento, quando in Europa nasce la scuola pubblica come la intendiamo oggi e molti autori ne contestavano l’impianto di fondo, vista come un elemento di omologazione dei ragazzi, un fattore di uniformazione delle intelligenze e quindi di livellamento delle menti geniali. 251

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La concezione della scuola come luogo del tempo libero, «riposante» attività intellettuale rivolta a pochi privilegiati che possono far conto sul lavoro servile della grande massa, non rientra per nulla nell’idea che ne abbiamo oggi; al contrario, risulta paradossale ai nostri occhi. Con il tempo, infatti, la scuola si è affermata come un’istituzione fondamentale per la democrazia, proprio perché aperta a tutti indistintamente, ma anche come un luogo di studio e di fatica concettuale non certamente riconducibile all’intendimento antico del termine scholé, che ne risulta anzi rovesciato. Eppure, nella nostra epoca assistiamo a un contro-ribaltamento, per cui la dimensione del sapere e dell’educazione sembra essere tornata al significato originario. Ciò è vero se, per esempio, consideriamo che la Rete (ormai divenuta anti-scuola) sta di fatto assurgendo al ruolo di luogo in cui i ragazzi non solo passano il proprio tempo libero, ma da cui attingono le maggiori informazioni e un presunto sapere. Nonché la dimensione privilegiata attraverso cui allacciano o mantengono la maggior parte delle relazioni sociali. Se a questo aggiungiamo l’elemento per cui, in un’ottica globale, stiamo parlando di tecnologie riservate a una porzione molto ristretta e benestante della popolazione mondiale, ci accorgiamo che gli elementi di contiguità con il mondo antico e premoderno non sono poi così aleatori. La scuola sta subendo ormai da decenni tagli indiscriminati, mentre viene sottoposta a una riconfigurazione in termini aziendalistici e improntati a una rigida logica del mercato e del capitale umano (a totale discapito, per esempio, della cultura umanistica). Ciò in palese contrasto con l’ideale che il filosofo ed economista inglese John Stuart Mill aveva espresso già nell’Ottocento, in occasione del suo discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico alla St. Andrews University, quan252

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do affermò che l’università (ma in genere la scuola) «non è un luogo concepito per insegnare la conoscenza professionale specifica richiesta a uomini che devono guadagnarsi da vivere», che «il suo compito non è di sfornare abili avvocati, medici o ingegneri, ma esseri umani capaci e educati»97. Infine, se consideriamo i programmi e le modalità di insegnamento, inadeguati e anacronistici rispetto al fascino, all’utilità e alla semplicità che Internet comunica alle nuove generazioni, possiamo avere un quadro più o meno completo (e lugubre) dello stato di salute di quella galassia, complessa ma fondamentale, che concerne la trasmissione dei saperi e la formazione delle nuove generazioni. Già Pier Paolo Pasolini, nel 1975, ragionando su scuola e televisione (ma oggi potremmo aggiungere tranquillamente Internet), parlava di un «genocidio culturale» che stava imbevendo soprattutto le classi subalterne dell’unica cultura consentita: quella del «modello di vita consumistico». Con la complicità della tv, infatti, ogni cittadino veniva ridotto a spettatore, a «tapino che vede e ascolta, tanto più represso quanto adulato»98. A fronte di un tale scenario, si afferma a livello di imperativo politico il ridisegnare l’istituzione scolastica (con tanto di riforma effettiva della stessa), in termini tali da renderla un luogo deputato alla formazione di produttori funzionali al mercato, piuttosto che di individui forniti di pensiero autonomo e critico, che sappiano svolgere all’interno della società anche quel ruolo di cittadini in grado di controllare e selezionare la classe politica, così come di candidarsi eventualmente in prima persona all’amministrazione della cosa pubblica: «La critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta di un’infinità di idoli». A cominciare dall’insegnante stesso e dal suo insegnamento, ammoniva Pier Paolo Pasolini99. 253

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A tal proposito risulta quanto mai urgente, presso le scuole di ogni ordine e grado, l’introduzione dell’«educazione alla cittadinanza» (o la reintroduzione fattiva dell’educazione civica), con l’obiettivo di fornire agli studenti quelle conoscenze e competenze che, a livello teorico e pratico, consentano loro l’esercizio di una cittadinanza consapevole, attiva e votata al bene collettivo. È un imperativo politico devolvere una parte congrua di quello che in fondo è denaro pubblico a tutti quei settori in cui, a vario titolo, ci si occupa del sapere, della ricerca e della formazione. Si tratta di un investimento nazionale, di cui erano persuasi anche gli economisti più avvertiti come Alfred Marshall, nella convinzione che un generoso contributo dello Stato in questo settore cruciale permette di avere cittadini migliori, prima ancora che lavoratori competenti. Più in generale, occorre comprendere che vi è una sorta di equivalenza fra «capitale materiale» (beni, denaro) e «capitale immateriale» (conoscenza, educazione), di cui una buona società non può fare a meno, tenuto conto del fatto che «i motivi che inducono un uomo ad accumulare capitale personale in vista dell’educazione di suo figlio, sono simili a quelli che dirigono la sua accumulazione di capitale per quel figlio stesso»100. Se non sarà la politica a prendere atto di tale equivalenza, rimettendo in sesto la conoscenza e l’istruzione emancipate dal giogo della logica finanziaria (ossia innalzando il livello culturale medio dei cittadini che abitano la polis), non potremo certo aspettarci che lo faccia il mercato nella configurazione dogmatica assunta oggi. Il ritorno prepotente di fenomeni come il populismo, la xenofobia, il disinteresse per la collettività e il bene comune, ma anche la sfiducia verso scienziati, giornalisti e politici (il cosiddetto fenomeno della disintermediazione), oltre al fallimento (e spesso alla corruzione) 254

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della politica tradizionale, è certamente da imputarsi alle sempre più evidenti carenze negli ambiti della conoscenza e dell’educazione civica. Non possiamo continuare a ignorare l’importanza della qualità degli uomini e delle donne che abitano le nostre società, né lasciare che anche l’istruzione, l’educazione e la formazione vengano modellati sulla logica quantitativa tipica del mercato. Non è più sostenibile la sciagurata sostituzione della democrazia pedagogica con una di impianto demagogico, in cui l’opinione pubblica si trova in balia del primo avventuriero che la illude e imbonisce tramite messaggi e propositi illusori e dannosi. Perfino un pedagogo «reazionario» come don Lorenzo Milani, in uno scritto sui condizionamenti dell’informazione, parlava di un’«opinione pubblica spaventosamente immatura», precisando che una persona «di un certo livello morale e culturale» non si lascerebbe giocare dalle furbizie propagandate dal potere e veicolate da un’informazione al soldo di quello101. Né possiamo permetterci il paradosso distruttivo di lasciare che le giovani generazioni imparino il difficile mestiere di vivere e dell’entrare in relazione con gli altri e con il mondo esclusivamente all’interno di quella dimensione non viva e impersonale che è la tecnologia mediatica, con il suo veicolare modalità e messaggi dettati esclusivamente dal padrone economico. Un padrone denunciato già a suo tempo da don Milani (insieme ai suoi studenti di Barbiana), quando in Lettera a una professoressa scriveva: «Spesso c’è venuto fatto di parlare del padrone che vi manovra. Di qualcuno che ha tagliato la Scuola su misura vostra. Esiste? Sarà un gruppetto di uomini intorno a un tavolo con in mano le fila di tutto: banche, industrie, partiti, stampa, mode? Noi non lo sappiamo. Sentiamo che a dirlo il nostro scritto prende un che di romanzesco. A non lo dire bisogna far gli ingenui»102. 255

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Lasciare le nuove generazioni in balia dei poteri influenti e pervasivi delle nuove tecnologie e della logica finanziaria implicherebbe il prezzo altissimo di una società di fatto senza scuola, che rinuncia ai pedagoghi per abbandonarsi alla guida sciagurata dei demagoghi. Gli stessi che, attraverso il mito della disintermediazione o della democrazia diretta (che si traduce, in sintesi, nell’eliminare le figure competenti o deputate), illudono il popolo di poter esercitare un ruolo come mai prima attivo e influente, quando in realtà lo stanno soggiogando nella maniera più subdola e totalizzante. Ecco allora che oggi come non mai occorre ripensare tale istituzione in maniera da renderla in grado di rispondere efficacemente alle istanze del tempo che ci troviamo a vivere. Prima fra tutte quella di veicolare conoscenze indispensabili per avere dei buoni cittadini, al di là delle occupazioni specifiche che poi andranno a svolgere all’interno del mercato. Quel mercato dalla cui dittatura ideologica e valoriale occorre separare nettamente il momento più delicato per l’essere umano: quello in cui acquisire gli abiti mentali e quindi gli strumenti per diventare un adulto in grado di mantenere rapporti equilibrati con se stesso, con gli altri e con la società in cui si trova a operare. In questa direzione è necessario lasciarsi alle spalle la rigida suddivisione fra materie umanistiche e scientifiche, e istituire lo studio della filosofia in tutte le scuole, a partire da quella primaria. Occorrerà valutare attentamente le modalità, ma è evidente che non si tratta di «imporre» anche alle scuole tecniche e scientifiche lo studio della storia della filosofia, bensì di fornire quell’educazione al pensiero autonomo e critico che si rivela indispensabile in ogni ambito e contesto dell’agire umano, ai fini della formazione di individui in grado di costruirsi un’identità definita, di saper comprendere ed elaborare a propria volta idee autonome e sensate, 256

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nonché di allacciare relazioni dialogiche equilibrate e costruttive con le altre persone. Esattamente le caratteristiche che ogni potere si sforza di mortificare e reprimere in quei cittadini che esso desidera quanto più possibile docili, passivi e di fatto isolati. Mai come oggi, con la Rete che fornisce un numero infinito di informazioni che provano tutto e il contrario di tutto, compito di ogni agenzia educativa e culturale è formare individui dotati di quella capacità critica che permetta loro di selezionare, elaborare e costruirsi un’idea autonoma rispetto al mare magnum di notizie indistinte che li sommerge. Laddove prevale la quantità, a poter fare la differenza sono delle menti formate alla qualità. In questo senso il compito che ci troviamo di fronte consiste nel combattere la razionalizzazione, intesa come manipolazione sociale degli individui trattati come cose a esclusivo beneficio dei principi ordinativi di economia ed efficienza. Di fronte a tale inondazione di mitologie e razionalizzazioni tecno-finanziarie, è necessario adoperarsi in tutte le sedi opportune per salvaguardare e promuovere, piuttosto, la razionalità «intesa come attitudine critica e volontà di controllo logico», aggiungendovi l’educazione all’autocritica e alla consapevolezza dei limiti insiti in ogni logica103. Per realizzare tali propositi, occorre ripensare in primis la formazione degli insegnanti, che dovranno essere chiamati a stimolare non tanto uno studio nozionistico e schematico, bensì a formare menti desiderose di sapere e aperte alla conoscenza personale, permettendo agli studenti, per quanto possibile, di percorrere il mare del sapere attraverso una navigazione autonoma e orientata (anche) secondo i propri gusti e inclinazioni, tentando di costruire un valido contraltare rispetto alla navigazione anarchica e culturalmente improduttiva che il più delle volte esercitano in Rete. 257

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Quella che si ha davanti è senza dubbio una sorta di rivoluzione copernicana che coinvolge le modalità di formazione e valutazione di coloro che saranno i docenti, come di coloro che sono i discenti. Anche qui, andrà combattuta ed eliminata quanto più possibile la logica quantitativa dei crediti formativi, dei test e dei quiz, e in generale di tutte quelle modalità con cui si pretende di misurare sapere e talenti come se le persone fossero robot o contenitori passivi. «Teste ben fatte»104: è questo, secondo la celebre espressione di Montaigne ripresa da Edgar Morin, il compito di una scuola degna di questo nome. Tutto questo in base all’ideale «che nel bambino sia in potenza tutto l’uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, senza coercizioni»105. Per evitare il trionfo dei demagoghi, che pretendono di guidare il popolo in base ai loro assunti furbi e manipolatori, è necessario fornirsi di pedagoghi che accompagnino le menti, fin dalla giovanissima età, nel solcare il mare sterminato, e spesso tempestoso, della conoscenza. Facendo in modo che, alla fine del percorso formativo, siano padrone della rotta di navigazione e uniche designatrici nella scelta dei porti in cui attraccare. il compito dello Stato: chiudere i conti con il liberismo Nemico giurato della teoria liberista, è lo Stato. Quanto più una società deve essere plasmata sulle modalità di funzionamento del mercato, tanto meno va concesso spazio a quell’istituzione che, con le sue leggi e le sue assemblee legislative (i parlamenti), nel corso della storia ha limitato gli effetti di un’economia competitiva lasciata allo stato selvaggio e ha operato a favore di una ragionevole giustizia sociale. 258

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Per riprendere le parole del sacerdote americano del liberismo, Milton Friedman, non solo «la libertà economica è un fine in sé», ma rappresenta «uno strumento indispensabile per il conseguimento della libertà politica»106. In nome di questo assunto di fondo l’ideologia liberista, ha costruito un tipo di società in cui predominano le modalità e i valori tipici del mondo tecnologico e finanziario, mentre l’azione dello Stato, e in generale di tutto ciò che è proiettato all’interesse collettivo della cittadinanza, viene sminuito o annullato. Per evidenziare l’errore gravido di conseguenze nefaste contenuto in questa operazione basterebbe ricordare come storicamente, quando ha prevalso la teoria liberista, gli effetti sulla stessa economia e su tutta l’organizzazione sociale sono stati talmente drammatici da condurre, un secolo fa per esempio, all’impoverimento diffuso, all’esasperazione delle popolazioni e a due conflitti mondiali che hanno segnato per sempre la memoria del mondo industrializzato. Anche volendo prescindere dai periodi più drammatici, è bene sapere che quando il mercato è stato maggiormente deregolamentato sono aumentate disparità e disuguaglianze anche nei paesi industrialmente più avanzati, generando un indebolimento del potere d’acquisto che ha arrecato danno alla salute dell’economia in generale. Viceversa, la forte riduzione della disuguaglianza, per esempio nell’Europa postbellica, si spiega con il ruolo decisivo giocato dallo Stato nel controllo dell’economia, che ha consentito di adottare misure come il potenziamento del welfare state, l’ampliamento della previdenza sociale e in generale la costituzione di un’ampia rete sociale di protezione delle fasce più deboli. Tutto questo è stato possibile grazie alla tassazione progressiva dei guadagni e delle rendite, ma sta inesorabilmente esaurendo i suoi effetti positivi a partire 259

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dagli ultimi decenni del XX secolo, con il ritorno del mercato deregolamentato e la retrocessione dell’intervento statale, che concorrono ad allargare la forbice delle disuguaglianze sociali107. A un’analisi più approfondita, del resto, quest’avversione dei fautori del mercato nei confronti dello Stato risulta inspiegabile perfino mettendosi dal loro punto di vista. Nel corso della storia moderna e contemporanea sono molteplici gli elementi che ci svelano come lo Stato abbia rappresentato un fattore di crescita decisivo per la stessa economia, aspetto che peraltro viene messo in rilievo da autorevoli storici del capitalismo. Non solo, infatti, il libero movimento di beni, persone e denaro, che si sviluppò sotto l’egemonia britannica tra il 1870 e il 1913 – secondo l’economista Chang Ha-Joon «il primo episodio di globalizzazione» – fu reso possibile grazie al potere militare (e quindi statale) e non grazie alle forze del mercato, ma i massimi fautori del libero commercio – la Gran Bretagna vittoriana e gli Stati Uniti post seconda guerra mondiale – sono stati fortemente protezionisti durante la propria fase di sviluppo, dovendo all’intervento dello Stato il loro formidabile successo economico108. Prendiamo il caso più eclatante e per noi attuale, quello delle nuove tecnologie informatiche, giustamente considerato il più grande affare economico del nostro tempo. È opportuno sapere che Microsoft, Apple e le più importanti aziende informatiche hanno potuto ottenere profitti esorbitanti con l’ausilio determinante degli investimenti statali e, in tempi a noi ancora più vicini, è sempre grazie all’intervento dello Stato che le aziende del comparto informatico ed elettronico hanno potuto superare agevolmente la grande crisi finanziaria, a cominciare dall’amministrazione di Barack Obama che, non unica nel panorama internazionale, ha rubricato l’operazione di acquisto di tecnologie e attrezzature 260

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informatiche sotto la voce «spesa per l’istruzione», concedendo notevoli agevolazioni fiscali e incrementando la vendita di computer, tablet e software. Secondo il parere dell’economista Mariana Mazzucato, è facile «perseguire quello che amate» senza perdere l’«avventatezza» (come da celebre slogan di Steve Jobs), «se vivete in un paese in cui lo Stato si fa carico dello sviluppo delle tecnologie più rischiose, effettua gli ingenti e audaci investimenti iniziali e poi sostiene queste tecnologie fino alla fase in cui gli operatori privati sono in grado di “entrare in gioco e spassarsela”»109. È appena il caso di dire che, complice il ritorno in auge dell’ideologia liberista, tanto lo Stato americano quanto i governi di altri paesi che si sono resi protagonisti di simili politiche, hanno ottenuto benefici assai scarsi dall’esplosione di un mercato, quello delle nuove tecnologie, che pure hanno contribuito in maniera determinante a lanciare, sovvenzionare e proteggere. Senza contare la quantità di soldi pubblici (provenienti dalle tasse dei cittadini) e i decreti legislativi ad hoc utilizzati per salvare le banche dalla crisi finanziaria del 2008. È una costante storica del liberismo considerare il bene comune e la società nella misura in cui possono tornare utili, salvo infrangerli o ridurli ai minimi termini in tutte le operazioni per cui non serva il loro supporto. Si potrebbe dire che alla socializzazione della miseria ha sempre corrisposto una privatizzazione dei profitti. Ciò a costo di sacrificare molti degli aspetti che riguardano il bene della collettività e dell’essere umano in genere. Ce lo rivela con particolare nettezza il caso dell’industria farmaceutica, comparto fondamentale per la salute dell’umanità. In questo settore accade spesso che farmaci creati grazie alla ricerca finanziata con i soldi dei contribuenti vengano messi in commercio a prezzi che la maggioranza degli stessi non può permettersi, 261

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evidenziando in maniera drammatica il primato del profitto sulla salute delle persone110. Ecco perché, anche con il supporto della memoria storica, mai come oggi occorre fare i conti con il liberismo, ridimensionare il suo strapotere ideologico attraverso una rivalutazione della centralità e del ruolo dello Stato nella costruzione di una società che veda l’essere umano e i suoi bisogni al centro di ogni azione. Tutto ciò nella consapevolezza che si tratterà di un compito tutt’altro che agevole, perché l’ideologia liberista si è imposta a mo’ di «dottrina totalitaria che si applica alla società intera e non ammette critiche», come avvenuto con i totalitarismi comunista e nazista, e a nulla sono valsi finora i suoi fallimenti, perché insieme a tale dottrina è stata diffusa la convinzione che quando la realtà la contraddice, è la realtà a sbagliarsi, colpevole di non aver applicato quella medesima teoria nelle giuste dosi. I fanatici, i cultori di una verità ritenuta assoluta e infallibile, e fra questi rientrano indubbiamente i sacerdoti della dogmatica liberista, nella loro convinzione imperterrita di proseguire su una teoria malgrado sia stata più volte smentita dai fatti, si rivelano affetti da quello che potremmo chiamare il «complesso di donna Prassede», il noto personaggio minore dei Promessi sposi che Manzoni descriveva in questi termini: «Tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello»111. Più il liberismo miete fallimenti, più i suoi apologeti ne propongono una versione radicalizzata che, nelle loro profezie, sarà destinata a smentire quegli stessi fallimenti. Tali apologeti provengono spesso dal mondo accademico, sia negli Usa che in Europa ormai dominato da economisti (e non solo) che hanno abbracciato la fede liberista in maniera assoluta e acritica, al punto da 262

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spingere più studiosi della medesima disciplina, di fronte all’ulteriore e gravissima débâcle avvenuta con la crisi finanziaria del 2008, a parlare di «un fallimento sistemico dell’economia accademica»112. La strada per il superamento di questa teologia dovrà passare per una rivalutazione del ruolo dello Stato, non inteso come sistema assistenziale, ma governo e guida dell’economia. Per esempio, a fronte delle pesanti disuguaglianze sociali riemerse negli ultimi decenni, prevedendo delle tasse sui patrimoni e sulle rendite, come anche sulle grandi aziende e sui responsabili dell’inquinamento, così da pervenire a una ragionevole e virtuosa redistribuzione delle ricchezze: ripristinando la tassazione progressiva, finanziando e agevolando le imprese nascenti, la ricerca e l’istruzione in genere, creando posti di lavoro grazie all’utilizzo di denari pubblici per nuove infrastrutture e lavori socialmente utili, nonché attuando quelle politiche sociali volte a tutelare una maggiore uguaglianza e giustizia, con i diritti del lavoro e della dignità della persona in primo piano rispetto agli interessi di banche e multinazionali. L’utopia possibile Un discorso a parte andrà fatto sul comparto bancario, definito dal sociologo Luciano Gallino «un sistema che è tutt’insieme troppo grande, troppo complesso e per oltre la metà operante nell’ombra». Fra banche effettive e «non banche che operano come banche», questo colosso per buona parte invisibile vale il 600% del Pil dell’intera Eurozona, senza contare che «le principali banche europee hanno un volume eccezionale a paragone del Paese in cui risiedono». Ne deduce Gallino: Le dimensioni gigantesche oltre a rendere un gruppo bancario di fatto tecnicamente incontrollabile, hanno altri due

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effetti: per un verso lo pongono nella posizione di un’entità finanziaria «troppo grande per essere lasciata fallire»; per un altro gli assicurano, in solido con gli altri gruppi analoghi, un dominio pressoché assoluto del processo politico e dell’opinione pubblica113.

Una classe governante che abbia a cuore il benessere dei cittadini, di cui essa è chiamata a curare bisogni e interessi, per giunta dietro un congruo compenso, non potrà più tollerare il dominio assoluto del processo politico e dell’opinione pubblica da parte di un potere finanziario interessato esclusivamente al proprio accrescimento e per questo incurante dei mali arrecati alle popolazioni. In tale direzione dovranno essere formulate e attuate profonde riforme del sistema finanziario, volte alla separazione strutturale (non solo legale o organizzativa) delle banche commerciali dalle banche di investimento, e alla riduzione delle dimensioni dei maggiori gruppi bancari, non soltanto per contrastare il dominio e la strumentalizzazione operate dalla sfera finanziaria su quella politica e sociale in genere; né solo in vista della riduzione dei rischi o perché più diventano grandi più le banche si concentrano sulle attività speculative e non su quelle di supporto all’economia reale; ma anche e soprattutto per evitare, o comunque contenere, future crisi finanziarie come quella del 2008, per lo più dovuta al mix di «irresponsabilità sociale, avidità sfrenata, operazioni ad altissimo rischio, manovre finanziarie a dir poco discutibili, contributo allo sviluppo e al consolidamento dell’economia reale pressoché inesistente o negativo, compensi astronomici ai dirigenti pur in presenza di bilanci disastrosi». Una tempesta perfetta resa possibile dalla grandezza mastodontica degli istituti finanziari e dal loro conseguente potere di muoversi in totale spregio dei vincoli di singoli Stati e governi114. 264

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Non c’è dubbio che in un mondo globalizzato questo cambio di rotta andrà intrapreso di concerto fra più Stati, all’interno di un’ottica complessiva di governo politico, quando oggi in realtà i termini della globalizzazione prevedono esclusivamente un governo economico del globo, non politicamente controllabile perché rispondente agli assunti delle grandi istituzioni finanziarie. Mai come oggi è necessario recuperare il secondo significato attribuito al termine utopia, quello di «buon luogo». Se il non-luogo non esiste, e in quanto tale non può rappresentare una reale alternativa alla galassia liberista, il buon luogo può essere inteso a mo’ di ideale regolativo, da provare a raggiungere con il coraggio delle idee e la forza dell’impegno. Nella consapevolezza, però, che un problema non può essere affrontato, e tantomeno risolto, restando all’interno del sistema valoriale che lo connota. Si tratta di mettere in atto quel tipo di apprendimento che lo psicologo inglese Gregory Bateson individuava come il più arduo per l’essere umano, quello «di terzo tipo», in cui si impara a cambiare le abitudini acquisite smettendo di esserne schiavi115. Non si può prescindere dall’abbandonare l’orizzonte dogmatico e valoriale imposto dal pensiero unico liberista, e riaprire scenari di possibilità per l’intervento e la guida della ragione umana e politica sui meccanismi impersonali della galassia tecno-finanziaria entro cui siamo ingabbiati. Una patente per la democrazia Quando ormai diversi anni fa Karl Popper, nell’ambito del discorso sulla televisione, lanciò l’ipotesi di selezionare con criteri rigidi coloro che avessero facoltà di lavorarci attraverso il conferimento di una «patente» 265

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– da rilasciare a seguito di un esame che ne verificasse capacità e valore etico a seguito116 –, quella proposta destò un certo scalpore. Naturalmente, rimase lettera morta, come dimostra l’ulteriore degrado e scadimento culturale e morale che ne sarebbero seguiti e che sono sotto gli occhi di tutti, coinvolgendo anche gli altri mezzi di comunicazione di massa, con ripercussioni importanti sul livello del dibattito pubblico e sulla qualità culturale e civile delle classi dirigenti e in generale della popolazione. Nella nostra epoca ottusa è ormai troppo tardi per pensare di poter correre ai ripari attraverso una sorta di «certificazione di qualità» che si limiti all’ambito dei mass media. Con la comparsa della Rete, infatti, la società ha contratto un male che non consente di limitare la somministrazione del farmaco al solo regno della finzione. Tale malattia si manifesta con un sintomo tanto evidente quanto inquietante: la finzione ha invaso la realtà fino a trasfigurarne i contorni, producendo un magma indistinto al cui interno diventa impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, poiché verità e falsità si sono mescolate al punto da aver generato una «grande rappresentazione», dal cui palcoscenico risulta assente proprio la realtà. Anche a voler prendere per buona l’affermazione di Lacan secondo cui «quando abbiamo a che fare con il reale, il vero è in divergenza»117, possiamo essere certi che nel momento in cui il reale viene trasfigurato o colonizzato dalla finzione e dal virtuale, il vero risulta quantomeno invisibile. Ciò impedisce alla gran parte del pubblico di pervenire a un giudizio informato, meditato e sensato rispetto ai fatti del mondo in cui vive. È giusto nel tempo in cui la finzione ha colonizzato la realtà che si rivela indispensabile agire su quest’ultima, mettendo da parte il proposito tecnicamente irrealizza266

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bile di porre limiti alla prima (tanto più che Internet, per sua natura, rende impossibile anche solo ipotizzare una misura di questo tipo). Occorre pertanto studiare i termini per il conferimento di un’«abilitazione» alla politica, per garantire che la ragione politica (e quindi umana) torni a svolgere una funzione di controllo e guida della ragione economica (quindi tecnica). Ciò presuppone come minimo il ripristino di quella medesima ragione umana e politica mortificata dalla società misologa e ottusa. Il rischio di fare riferimento a entità astratte e fumose è però elevato, e si rivela necessario munirsi di arnesi materiali con cui ricostruire l’edificio democratico in maniera solida. Per questo, al lavoro di ognuno di noi come individui, a quello della famiglia, della scuola e di tutte le realtà e istituzioni che si occupano di formazione e trasmissione del sapere, occorre fornire una sorta di certificazione oggettiva da realizzarsi in ambito sociale: una «patente per la politica», un sistema attraverso il quale certificare l’idoneità di ciascun individuo tanto a esprimere il proprio voto quanto a candidarsi in prima persona. Lo stesso termine «elezioni» (dal latino eligere) riconduce a una selezione, una scelta che è stata fatta sulla base di criteri distintivi che si vorrebbero seri e meditati. Non è più tollerabile assistere a tornate elettorali che, nel caso della spesso manifesta inadeguatezza dei candidati, regrediscono a una sorta di concorso pubblico che fornisce un lavoro ben remunerato a chi, per giunta, quel lavoro sarà destinato a svolgerlo male. Così come, anche se può risultare sgradevole a dirsi, non è più tollerabile la presenza di un’opinione pubblica votante spesso completamente priva degli strumenti basilari con cui valutare le proposte politiche sul piatto, risultando in balia del primo imbonitore o venditore di illusioni che passa sullo schermo televisivo o del pc. 267

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Ciò comporta la messa in discussione di una delle conquiste fondamentali della contemporaneità: il suffragio universale. Oltre il suffragio universale Si tratterà di escludere dal diritto di voto (ma anche dal diritto di essere eletti) quelle persone che non risulteranno in possesso di una basilare conoscenza rispetto al funzionamento della macchina amministrativa, come anche di nozioni elementari della storia e della teoria politica e costituzionale, nella consapevolezza che «la libera elezione dei padroni, non abolisce la divisione fra padroni e schiavi»118, ma al contrario vede le basi di un proprio superamento nella creazione di condizioni per cui vi siano individui in possesso di quegli strumenti cognitivi e conoscitivi atti a non relegarli a priori nella posizione di schiavi di chi più e meglio conosce. O di chi addirittura non ha bisogno di conoscere, perché in una posizione privilegiata, magari in virtù della ricchezza. È una proposta non priva di rischi, poiché i criteri valutativi per il conferimento di questa patente dovranno essere studiati con estrema cura e attenzione, senza che emergano discriminazioni aprioristiche slegate da conoscenza e competenza. Un obiettivo pericoloso e potenzialmente in grado di accendere polemiche feroci, ma non più rinviabile, perché il circolo vizioso di una classe politica e dirigente sempre più inadeguata (sul piano etico come su quello delle competenze e capacità) e di una popolazione che ne soffre ma a sua volta risulta culturalmente ed eticamente impreparata a produrre un’alternativa seria, sta riportando alla luce una situazione che solamente un secolo fa è culminata in due guerre mondiali devastanti. Hitler fu eletto democraticamente, come abbiamo visto. 268

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È necessario sgombrare il campo da fraintendimenti, e a tal fine chiarire fin d’ora un punto fermo: oltre al rispetto di criteri oggettivi e universali attraverso cui conferire la «patente», non andrà tollerata alcuna negazione della stessa sulla base dei pregiudizi con cui storicamente si è impedito il diritto al suffragio119. Dall’esercizio del diritto di voto, attivo e passivo, non potrà essere esclusa alcuna persona sulla base dell’appartenenza razziale ed etnica, del genere sessuale né in merito al reddito o alla ricchezza. Non lo si potrà fare, in generale, neppure sulla base delle idee, dei costumi o dei gusti personali rispetto ad alcuna tematica. Ci si dovrà limitare a valutare esclusivamente le conoscenze e le competenze basilari delle persone rispetto alla storia, alla teoria e prassi politica (conoscenza delle cariche istituzionali e del funzionamento generale dei meccanismi elettorali e amministrativi, ma anche dei rudimenti basilari del diritto costituzionale), nonché ai fondamenti elementari dell’educazione civica. Tali conoscenze e competenze potranno essere acquisite all’interno di un percorso scolastico radicalmente riformato (con alcune materie comuni alle scuole di ogni ordine e grado), o attraverso dei corsi specifici e gratuiti allestiti al di fuori della scuola, per quelle persone che hanno superato l’età degli studi obbligatori senza averli potuti svolgere a tempo debito. Compito e obiettivo dello Stato non dovrà essere quello di indottrinare in un senso o nell’altro, né di formare dei «professionisti della politica», bensì dei cittadini in possesso di conoscenze e competenze tali da rendere critica e consapevole l’espressione del proprio consenso, ma anche possibile e produttivo un eventuale impegno in prima persona e a vario titolo. L’esperienza nel percorso di politica attiva sarà eventualmente prolungata previa sottomissione a una verifica periodica del consenso dei cittadini, a loro volta in 269

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grado di valutare con ragionevolezza proposte e operato degli eletti. Si tratta di riprendere il suggerimento di Platone, integrandolo con quella seconda parte che di solito viene rimossa: «Non si libereranno dai mali, le generazioni umane, fino a che coloro che praticano la filosofia con verità e rettitudine non saranno giunti ad occupare le cariche politiche», o fino a che quelli che sono detti re o sovrani non cominceranno, «per una sorta di artificio divino», a praticare la filosofia «in modo veritiero e completo»120. Non solo e non tanto «filosofi governanti», dunque, quanto piuttosto «governanti filosofi», non investiti di un potere assoluto ma sottomessi al controllo e al consenso di cittadini altrettanto «filosofi», forniti di conoscenze e competenze sufficienti a renderli adatti a esercitare tale controllo. Non è il caso di aspettare «l’artificio divino», alla maniera del comprensibilmente scettico Platone, ma di operare affinché un tale ideale venga quanto più possibile realizzato. Una necessità urgente e non ulteriormente rinviabile, poiché il generale impoverimento cognitivo e culturale sta producendo quel tipo di masse di cui parlava lo scrittore e filosofo statunitense Eric Hoffer nel 1951: «Masse che bramano non una libertà di espressione e di realizzazione personale, ma una libertà dall’intollerabile fardello di un’esistenza autonoma»121. La massa delle persone inadeguate a una cittadinanza attiva sta aumentando in maniera rapida ed esponenziale, come il numero di politici e figure dirigenti impreparati ed eticamente irresponsabili di fronte al bene comune. Non mancheranno contestazioni a questa proposta, avanzate da chi la ritiene elitaria o riesuma l’argomento dello Stato che si arroga un potere eccessivo sull’educazione, o che si rivela dispotico nel negare i diritti 270

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politici ad alcuni cittadini. Bisognerà impostare delle regole che evitino accuratamente tali distorsioni. A queste persone si può rispondere segnalando il fatto che nel mondo si sta diffondendo una rete di scuole di élite, chiamate «Whittle School & Studios»122, originatesi negli Stati Uniti e poi anche in Cina, la cui retta di 40 mila dollari annui consente l’ingresso esclusivamente ai figli delle famiglie ricche e potenti. Scuole private che fin dall’inizio operano una selezione degli studenti su base censitaria, permettendo solo a questi di divenire la classe dirigente del futuro. Su tali fondamenti assisteremo alla formazione di una ristretta pletora di giovani destinati al governo dei rispettivi paesi, a fronte di una grande massa di persone relegate a vivere nella società ottusa che abbiamo descritto. Al momento risulta riduttiva e tendenziosa la dicotomia che ci viene propinata dai media, per cui vi sarebbe un populismo anti-politico che si oppone al sistema della politica tradizionale. In realtà ci troviamo di fronte all’eclissi della ragione umana e politica in quanto tale, un fenomeno i cui sintomi di degradazione etica e cognitiva colpiscono tanto le classi dirigenti quanto la popolazione (del resto, l’una è il prodotto dell’altra). Si tratta di decidere se vogliamo contrastare questo fenomeno in maniera democratica e quindi diffusa, oppure lasciare che siano le scuole private per ricchi a selezionare su base censitaria coloro che comporranno la classe dirigente di domani. Occorre prendere atto del fatto che siamo prigionieri, a livello planetario, di una «democrazia plebiscitaria in stile audience», per utilizzare l’efficace definizione di Nadia Urbinati, che ha relegato in cantina l’idea che la politica sia un mix di decisioni e giudizi, riducendola a «un’opera di partecipazione visiva» da parte di un’opinione pubblica secondo cui, ormai, «la questione fondamentale riguarda la qualità della comunica271

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zione tra il governo e i cittadini, o ciò che le persone conoscono delle vite dei loro governanti» attraverso i social network123. Una mutazione antropologica, prima ancora che politica, a totale ed esclusivo beneficio di quella ragione economica che nell’essere umano ridotto a strumento per i propri fini impersonali vede il suo motivo sostanziale di sviluppo. Ragione economica che, come abbiamo visto, non sta comunque rinunciando ad approntare delle nicchie di alta formazione riservata ai pochi che compongono le classi più abbienti. Come pensa di reagire a tutto questo la politica? È ora che essa si adoperi coinvolgendo il numero più alto possibile di persone sulla base delle conoscenze e del merito, così da poter ripristinare la mobilità sociale e riprendere il controllo del sistema tecno-finanziario. Il dominio incontrastato tecno-finanziario richiede, e sta producendo, individui sempre meno in grado di essere uomini pensanti (democrazia cognitiva), sempre meno capaci di controllare e contrastare il potere (democrazia critica), e sempre meno abilitati a svolgere la funzione di cittadini (democrazia pedagogica)124. Pensare di non provare a fermare tutto questo, invertendo il trend dementocratico anche a costo di ridefinire termini e capisaldi della democrazia, potrebbe comportare in tempi più o meno brevi la rinuncia alla democrazia tout court. Tenendo conto che fino ad ora non è mai stato trovato un sistema più equo ed efficace di governo delle società umane, si può avere un’idea chiara del genere di rischio a cui andiamo incontro.

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Epilogo. L’uomo davanti alla porta

Il capolavoro della politica dei despoti è di impadronirsi della ragione dell’uomo per renderla complice della schiavitù. Maximilien de Robespierre 1793-1794

«Non c’era in lui alcun segno di stabili convinzioni ideologiche o di specifiche motivazioni malvagie, e la sola caratteristica di rilievo che si poteva riscontrare nel suo comportamento passato, come anche in quello durante il processo e per tutte le indagini di polizia che lo precedettero, era qualcosa di interamente negativo: non stupidità, ma assenza di pensiero»1. Così Hannah Arendt descriveva Adolf Eichmann, il grigio e inquietante funzionario nazista che, durante il processo a suo carico del 1961, difese il proprio operato. Eichmann gestiva le esecuzioni nei campi di sterminio, ma sostenne con candore di avere semplicemente eseguito gli ordini (da cui l’espressione divenuta celebre che dà il titolo al saggio della Arendt, La banalità del male). Un meccanismo decisamente simile, è riscontrabile analizzando l’altro grande regime che ha insanguinato il Novecento: quello stalinista. Lazar’ Kaganovicˇ, tra i più stretti collaboratori di Stalin, si era guadagnato la stima del dittatore per l’assenza di qualsiasi forma di pietà nell’organizzare la collettivizzazione delle terre 273

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(sua la responsabilità delle numerose morti avvenute nel corso della deportazione dei kulaki e delle purghe). Questa reputazione gli valse un buon numero di cariche durante tutto il periodo staliniano, malgrado le sue origini ebraiche. Poiché Stalin aveva deciso di bloccare qualsiasi avanzamento di carriera degli ebrei all’interno del partito, Kaganovicˇ si occupò personalmente di ottenere le dimissioni di Trašunov dalla direzione di un giornale di Kiev, per via delle sue origini. Quando la moglie di Kaganovicˇ, Maria, lo rimproverò ricordandogli le sue medesime origini ebraiche, e dicendogli: «Ma non hai un po’ di buon senso, né alcuna compassione o sentimento tuo proprio?! Quell’uomo è uno del tuo popolo, non Stalin!», lui replicò: «Io sto facendo ciò che devo. Il mio Dio è Stalin!». Piuttosto eloquente il commento dello storico Jonathan Glover, che ha riferito l’aneddoto: «Alcuni dei collaboratori di Stalin credevano nel terrore che stavano imponendo, ma ciò che emerge principalmente è il loro stesso terrore, la sensazione di trovarsi intrappolati all’interno di un incubo. Ipnotizzati dalla paura, a volte sembrano essere stati come dei sonnambuli che eseguivano nel sonno le cose che venivano loro ordinate»2. In entrambi i casi, la Storia ha parlato chiaro. Assenza di pensiero, sonnambulismo, fede cieca in forze o figure superiori a cui attribuire tutta la responsabilità dell’agire umano, sono stati i semi che hanno prodotto i frutti più avvelenati e insanguinati che l’uomo abbia sperimentato. Estirpare quei semi, e lavorare per il ripristino di una centralità dell’essere umano autonomo e critico, non è una questione intellettuale che riguarda esclusivamente gli ambienti angusti dell’accademia e del sapere. Bisogna essere consapevoli che non si tratta di un compito agevole, poiché l’idea stessa dell’uomo come soggetto in grado di essere padrone delle proprie idee e azioni viene messa in discussione da molteplici pen274

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satori, a cominciare dall’illustre epistemologo Ludwig Wittgenstein3. Ne va della libera e dignitosa esistenza di tutti noi. È l’ultimo baluardo, prima che si aprano nuovamente le porte della barbarie. A noi tutti, singolarmente e come collettività, il compito di tenerle ben chiuse, riaprendo invece quelle della ragione. Si tratta di non fare come l’uomo di campagna davanti alla porta della legge, protagonista della celebre parabola di Kafka4. Quest’uomo, pur vedendo la porta aperta ed essendo convinto che tutti hanno il diritto di aspirare alla legge, inaspettatamente si vede impedire l’accesso da un guardiano potente e minaccioso. «Non è ancora il tuo momento», gli ripete in continuazione il guardiano. Mosso dalla curiosità, l’uomo prova a gettare lo sguardo oltre la porta aperta, e il guardiano si fa beffe di lui, lo sfida a entrare contravvenendo al suo divieto e ad affrontare gli altri potentissimi guardiani che si metteranno fra lui e la legge. Passano in questo molti anni. L’uomo di campagna è ormai vecchio e in punto di morte. Desidera almeno togliersi una curiosità. «Tutti aspirano alla legge», dice rivolgendosi al guardiano, «ma allora perché nessun altro oltre me ha mai provato a passare da questa porta durante il lungo tempo della mia attesa?». La risposta del guardiano è fulminante: «Nessun altro poteva entrare, perché questa porta era destinata soltanto a te. Ora vado a chiuderla!». Tutti noi siamo di fronte alla porta della legge, della giustizia, della libertà. E tutti ci troviamo davanti uno o più poteri frenanti, che vogliono impedirci di esercitare il nostro diritto a passare attraverso quella porta. Il pensiero autonomo e critico, ma anche la conoscenza libera e incessante, sono il nostro più forte e indiscutibile passe-partout. Ancor più al tempo della società ottusa. 275

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Note al testo

introduzione 1 In questo senso, il filosofo e pedagogista americano Matthew Lipman (2003: 206-207, 209 e 211-212) sosteneva che il pensiero critico ci consente di eliminare gli errori dovuti a pregiudizi, stereotipi, fallacie, appelli alle emozioni ecc., fornendoci un buon grado di protezione contro le forme più capziose di lavaggio del cervello. 2 Popper 1945: I, 173. 3 Popper 1959: 248 e 268. 4 Popper 1945: I, 176. 5 Freud 1924: v. 10, 133; Id. 1929: v. 10, 566-567 e 602. Incapaci di sostenere il peso della «catastrofe di esistere», rispetto alla quale «siamo tutti quanti superstiti della nascita», non riusciamo a trovare il «coraggio» di una vita autonoma e responsabile, «senza basarsi su nessuna religione e nessuna filosofia», aggiungeva su un piano filosofico Emil Cioran (1957-1972: 731). 6 Popper 1945: I, 175. 7 Ibid.: II, 258. Un’espressione che ricorda molto l’accorato monito dello Zarathustra nietzschiano, che seppure scettico rispetto alla ragione intimava: «Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!» (Nietzsche 1883-1885: v. VI, I, par. 3). Un monito costantemente ignorato dal genere umano, gravato dal fardello insopportabile, per riprendere le parole dell’antico filosofo epicureo Lucrezio (De rerum natura: V, vv. 198-199), di dover constatare dietro a ogni angolo che «assolutamente non per noi fu divinamente concepita la natura delle cose». 8 Horkheimer 1947: 98. 9 Lyotard 1979: 31 e 63. 10 Popper 1945: I, 174-175. 11 Turkle 2011: 288. 12 Cfr. Popper 1945: I, 185. 13 L’autorevole «New York Magazine», con un articolo a firma di Andrew Sullivan (2018), documenta il ritorno all’uso e abuso di oppioidi sintetici e potenti antidolorifici. Si calcola che nel solo 2017 siano morti per overdose più americani che durante la guerra del Vietnam. Le morti per overdose hanno superato quelle causate dall’Aids durante il picco dell’epidemia, e

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sono molte di più di quelle dovute a incidenti stradali. Il «Washington Post», in un articolo firmato da Christopher Ingraham (2018), conferma che gli Usa, a causa dell’epidemia di oppioidi, stanno attraversando uno dei più lunghi periodi di declino nell’aspettativa di vita dalla prima guerra mondiale, con una situazione sanitaria generale definita «scoraggiante». Negli Usa più di 70 mila persone l’anno muoiono utilizzando sostanze che illudono di poter evadere dalla prigione della realtà. 14 Sullivan 2018. 15 Tamamoto 2009; Piquet 2018; Butet-Roch 2018; Testi 2017. 16 Popper 1988: 275. 17 Asimov 1980: 19. I. L’uomo senza pensiero Leopardi 1817-1832: v. 2, 1179 e 1188. Nietzsche 1886: v. VI, II, par. 259 e Hegel 1807: v. 2, 154-155. 3 Platone, Fedone: 89d; Pasolini 1966: 137-138. 4 Biblia Sacra: Gv. 17, 11-14. 5 Ibid.: Prima Corinzi 15, 26. 6 Platone, Teeteto: 190e, 191a; Id., Sofista: 264e; Locke 1824: v. 1, II, 1, 4. 7 Lo storico della scienza Thomas Kuhn (1962: 167-168) scriveva che «ogni civiltà di cui abbiamo avuto notifiche ha posseduto una propria tecnologia, un’arte, una religione, un sistema politico, delle leggi e così via. In molti casi tali aspetti di queste civiltà hanno visto sviluppi simili ai nostri. Ma soltanto le civiltà che discendono dalla Grecia ellenica hanno posseduto una scienza che fosse più che rudimentale». Ebbene, l’elemento che distingueva la civiltà ellenica da tutte le altre consisteva nel possesso e nell’uso centrale del logos, che stiamo specificando. 8 Chantraine 1999: 625-626; Carofiglio 2010: 110. 9 Platone, Gorgia: 465a; Aristotele, Metafisica: I, 981a, 30 e 981b, 5-6. 10 Diels, Kranz 1966: 22, B, 113 e 28, B, 3. 11 Descartes 1641: v. 7, 28; Id. 1644: v. 8, 7; Hegel 1817: 33 e 36. 12 Plotino, Enneadi: III, 2, 8. 13 Descartes 1630: v. 1, 152. 14 Nietzsche 1874: III, I, par. 1, 262. 15 Heidegger 1927: par. 31, 185-186; Sartre 1943: 596. Tale condizione problematica dell’uomo è il frutto delle molteplici carenze che lo contraddistinguono, come l’assenza di rivestimento pilifero (che protegge gli animali dal freddo), la mancanza di organi difensivi naturali, di una struttura somatica atta alla fuga e di un’acutezza di sensi e istinti minimamente paragonabile a quella degli animali. Tutti aspetti che ci fanno cogliere come radicalmente sbagliata l’operazione di individuare nell’intelligenza la differenza essenziale fra gli animali e l’uomo. Anche Platone, del resto, raccontando la genesi del mondo terreno attraverso il mito di Epimeteo, sosteneva che questi, avendo donato tutte le facoltà agli animali, ne lasciò «sprovvisto (akosme¯ton)» il genere umano (Gehlen 1940: 60 e 190; Platone, Parmenide 321c). 16 Kant 1784: Tesi III, 126. 17 Arendt 1958: 291-292. 18 Riesman 1961-1989: 22. 19 Nietzsche 1888: v. VI, III, 53. Scriveva Norberto Bobbio (1982: 167): «Proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso nonostante tutti i processi di demitizza1 2

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zione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea». 20 Dawkins 2006: 352. 21 Cioran 1956: 931. È a partire da questa condizione che «l’uomo sente sorgere in sé dei bisogni, dei desideri, dei problemi, ai quali la pura ragione non reca né soddisfazione, né risposta, né rimedio: il sentimento e l’immaginazione prendono il loro posto» (Ribot 1907: 193-194). 22 Bacon 1620: v. 1, par. XLIX, 257; Freud 1912-1913: v. 7, 89. Nietzsche non mancava di imputare anche agli scienziati della ragione per eccellenza, i filosofi, le contraddizioni operate dall’intelletto desiderante: «Fanno tutti le viste di aver scoperto e raggiunto le loro proprie opinioni attraverso l’autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei, giacché parlano “d’ispirazione”): mentre invece, in fondo, una tesi pregiudizialmente adottata, un’idea improvvisa, una “suggestione”, per lo più un desiderio interiore reso astratto, e filtrato al setaccio, vengono sostenuti da costoro con ragioni posteriormente cercate» (Nietzsche 1886: v. VI, II, par. 5). 23 Popper 1978: 342. 24 Feuerbach 1841: 48 e 195-196. 25 «La libertà non è che un bisogno secondario rispetto al bisogno primario della sicurezza», scriveva il filosofo del potere Bertrand de Jouvenel (1972: 550). 26 Piaget 1926: 131 e 1966: 102. 27 Aristotele, Metafisica: XII, 1074b, 34 e 1075a, 10. 28 D’Holbach 1770: I, XIX e 1773: III, par. 12 ss. 29 Spinoza 1670: v. 3, XX, 1, 240-241. 30 Ercolani 2011: I, 2 e 3, e III, 3; ibid.: II, II, 1, 2, 3 e 5. 31 Montaigne 1580-1588: 395. 32 Aristotele, Metafisica: V, 9, 1018a, 12-13. 33 Friedman 1999; Martin 2002 e Graeber 2011: 376. 34 Marx 1867-1883: v. 1, I, I, 104-105. 35 Ibid.: v. 1, I, II, 117-118. 36 Ibid.: v. 1, I, V, 211-212. «La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura, l’immediato processo di produzione della sua vita, e quindi anche dei suoi rapporti sociali vitali e delle rappresentazioni sociali che ne scaturiscono» (Marx 1861-1883: v. 1, I, XIII, 414). 37 Locke 1691: v. 4, 42. 38 Marx, Engels 1845-1846: v. 5, 72. Il bilancio di Marx è avvilente quanto esaustivo, soprattutto se letto con la lente del nostro tempo, in cui è giunta a somma compiutezza l’essenza della sua analisi sulla reificazione dell’uomo: «Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengano fornite di vita spirituale e l’esistenza umana sminuita a forza materiale [...]. L’umanità diventa signora della natura, mentre l’uomo diventa schiavo dell’uomo o schiavo della propria infamia» (Marx 1866: v. 10, 42). 39 Carr 2014. 40 Boltanski, Chiapello 1999-2011: 705 e 707. 41 Pascal 1669: parr. 213 e 217. 42 Debord 1967: parr. 9 e 10. 43 Perniola 2004: 9. 44 Debord 1988: par. 10. 45 Nietzsche 1885-1887: v. VIII, I, par. 7. 46 Che si stia costituendo di fatto un’élite finanziaria è dimostrato per esempio da Thomas Piketty (2013: 478), il quale documenta come le pro-

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fessioni a vario titolo legate alla finanza occupino un posto due volte maggiore rispetto alla media sia nella fascia dei redditi più alti sia all’interno dell’economia nel suo complesso. 47 Wright Mills 1959: 169. 48 Ercolani 2012: cap. I. 49 Kelly 2010: 194 e 352; Postman 1994: 24. 50 Platone, Sofista: 247d-e. 51 Biblia Sacra: Isaia 45, 7 e 45, 15. 52 Hegel 1807: v. 1, 153-162. 53 Horkheimer 1947: 98. 54 Cioran 1949: 581. 55 Carr 2010²: 184 e 189. 56 Gardner, Davis 2013: 97. 57 Carr 2010²: 153-154. 58 Carr 2008: 60; Id. 2010: 118 e 138. 59 «Il modo più semplice per descrivere l’irrealtà del mondo moderno sta nel definirlo stregato dalle immagini», scriveva lo psicoanalista Alexander Lowen (1985: 221). 60 Ercolani 2012: 188-189 e Palfrey, Gasser 2008: 267-268. 61 Tale principio è la versione aggiornata, e al tempo stesso estremizzata, di quello che regolava la società dello spettacolo: «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare» (Debord 1967: par. 12). 62 Ibid.: parr. 12, 17, 34 e 19. 63 Huxley 1958: 35-36. 64 Gli scienziati hanno evidenziato come nell’interazione con la Rete entri in gioco un’altra sostanza chimica stimolante, oltre alla dopamina. L’ossitocina, l’ormone dell’amore e dei legami forti in genere. Essa crea al tempo stesso un legame distorto con i mezzi tecnologici e con gli stimoli che essi producono in continuazione, una sorta di «dipendenza affettiva». Nello studio su un caso singolo Paul J. Zak, pioniere degli studi sulla neuro-economia, scoprì che già solo dopo dieci minuti di utilizzo di Twitter si verifica una scarica di ossitocina (in Penenberg 2010). 65 Richtel 2010. 66 Rheingold 2012: 215. 67 Dewey 1934: 59. 68 Hegel 1807: v. 1, 174. 69 Anders 1956: 93. 70 Sen 1999: 19. 71 Ibid.: 292-293; Nussbaum 2010: capp. II, III e IV; Nussbaum, Sen 1993: I e IV. 72 Marx 1850-1859: v. 2, 623. 73 Becker 1964-1993: 97-98. 74 Galimberti 1999: 671. 75 Nietzsche 1886: VI, II, par. 259. 76 Finn 2017: 26. 77 Maldonado 1998: 89-91; Ercolani 2012: 179-180. 78 Gardner, Davis 2013: 73. 79 Debord 1967: par. 2. 80 Guenon 1945: 55-57. 81 Debord 1967: par. 42. 82 Sennett 1998: 118. 83 Virilio 1998: 146. 84 Foucault 2001: v. 2, 406-409. 85 Nozick 1974: 26-28 e 333-334; Mises 1944: 269-270; Hayek 1982: v. 2.

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Castells 1989: 349; Estulin 2011. Sennett 2006: 181. Sennett 1998: 148. 89 Deneault 2015: 59-61. 90 Wright Mills 1959: 345. 91 Bauman 1987: 122 e 194. 92 Gramsci 1975: 1505. Non siamo poi così lontani da quello che ­Nietzsche, qualche decennio prima di Gramsci, chiamava il «don Giovanni della conoscenza», colui a cui «manca l’amore per le cose che conosce», che è ingegnoso, formicolante di desiderio, «finché non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella conoscenza è l’assolutamente nocivo» (Nietzsche 1881-1887: par. 327). 93 Bataille 1967: 96. 94 Gramsci 1916: 24. 95 In un celebre pamphlet Norberto Bobbio (1994: 76 ss.) riteneva di istituire la distinzione sulla base di questi termini: la sinistra possiede una visione egualitaria degli uomini (rappresentata in maniera esemplificativa da Rousseau), la destra afferma che a regnare nel mondo umano è il principio di gerarchia e, quindi, di disuguaglianza fra gli individui (di cui il portavoce più emblematico è stato Nietzsche). Di sinistra «inclusiva» e destra «esclusiva» ha parlato Luciano Canfora (2002: 31). Per una panoramica teorica della distinzione destra/sinistra, e al tempo stesso per un’analisi del suo sfaldarsi contemporaneo, si veda Parentau, Parentau (2008). 96 Virilio 1998: 126 e 128. 97 Anders 1956: 231. 98 L’eclissi dell’uomo è stata concettualizzata e appoggiata dal cosiddetto pensiero postmoderno. Si pensi a Michel Foucault: «A tutti coloro che pongono delle domande sull’uomo e la sua essenza, a tutti coloro che vogliono muovere da lui per avere accesso alla verità, a tutti coloro che, in compenso, riconducono ogni conoscenza alle verità dell’uomo stesso, a tutti coloro che non vogliono formalizzare senza antropologizzare, che non vogliono mitologizzare senza demistificare, che non vogliono pensare senza subito rendersi conto che è l’uomo che pensa, a tutte queste forme maldestre e distorte non si può che opporre un riso filosofico, cioè, in parte, silenzioso» (Foucault 1966: 353-354). 86 87 88

2. Il Dio cattivo 1 Story 2010. Ci troviamo di fronte a un tipo di dominio in grado, per riprendere le parole di Gramsci, di ridurre il «popolo lavoratore» a «preda buona per tutti», a semplice «materiale umano» per le élite, quindi a «materiale grezzo per la storia delle classi privilegiate» (Gramsci 1916²: 175; 1920: 520). 2 Formenti 2013: 15. 3 Powell 1971: in particolare le pp. 1-2, 9, 18-20. 4 Cfr. Ercolani 2015. 5 Cicerone, De legibus: I, 10, 30; Platone, Cratilo: 414 b-c. 6 Rawls 1982: 370. 7 Platone, Leggi: X, 903c; Nietzsche 1872: III, I, par. 15, 100-101. 8 Tommaso d’Aquino 1256-1272: Q 14, art. 1. 9 Non a caso il pensatore cristiano Gabriel Marcel (1935: 196-197) era consapevole di sfidare l’ortodossia quando sosteneva che «Dio non vuole essere amato da noi contro il creato, ma glorificato attraverso il creato e a

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partire da esso [...]. Questo Dio concepito come contrario al creato e in qualche modo geloso delle proprie opere non è ai miei occhi altro che un idolo». 10 Biblia Sacra, Primo Giovanni: 4, 8-9; Agostino d’Ippona, Confessiones: IV, 9. 11 Smith 1759: v. 1, 184-185. Questa visione provvidenzialistica del mercato contrasta non poco con quanto lo stesso padre del liberismo ebbe a scrivere quindici anni dopo, nel suo capolavoro dedicato all’economia. Qui, infatti, parlando della classe di «coloro che vivono di profitto» (al tempo artigiani e imprenditori, oggi dobbiamo aggiungere i finanzieri), sosteneva che i loro interessi non soltanto non coincidono con quelli del pubblico, ma addirittura gli sono opposti. Per esempio, è loro interesse ampliare il mercato ma restringere la concorrenza. Limitare la concorrenza mette in grado gli uomini di affari di imporre, nel proprio esclusivo tornaconto, un’imposta assurda sul resto dei concittadini, accrescendo i profitti in una misura superiore al naturale. Stiamo parlando, insomma, non di una classe dedita solamente al perseguimento dei propri interessi, «ma che ha generalmente un interesse a ingannare e perfino opprimere il pubblico, e che in molte occasioni lo ha conseguentemente sia ingannato che oppresso» (Smith 1776: v. 2.1, 276-277). 12 Hayek 1982: v. 1, 46. 13 Keynes 1926: 312. 14 Becker 1976: 14. 15 Ibid.: 132. 16 Hayek 1982: v. 3, 119-120. L’economista austriaco riprendeva un’idea diffusa all’interno della tradizione liberale. Per esempio da Constant (1815: 1146-1149, in particolare 1148), che ai primi dell’Ottocento sosteneva che «in tutti i paesi forniti di assemblee rappresentative è indispensabile che queste, quale che sia la loro organizzazione ulteriore, siano composte da proprietari». Infatti, «una nazione presuppone sempre che degli uomini riuniti siano guidati dai propri interessi». 17 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi: VII, 1, 86. 18 Hobbes 1651: I, XI, 66; Nietzsche 1883-1885: v. VI, I, 138-139. 19 Foucault 2001: v. II, 944 e 1401; Id. 2004: 327 e 333. 20 Dardot, Laval 2009: 315. 21 Kuznets 1934; Pickett, Wilkinson 2009: 51 e 217-218; Deaton 2013: 54 ss. e 169 ss. 22 Rosanvallon 1989: 221-222 e 225. 23 Descartes 1645: v. IV, 266. Un illustre contemporaneo di Descartes, Baruch Spinoza, riteneva che gli uomini, pur in possesso della ragione, seguono assai di più le passioni, che spesso li conducono a entrare in conflitto fra di loro, quando in realtà il buon senso li dovrebbe rendere consapevoli del bisogno di aiuto reciproco. Certo, la ragione può moderare le passioni, ma la via che essa indica è impervia, al punto che coloro che si illudono di poter condurre il popolo o gli amministratori pubblici a seguire unicamente il dettato della ragione, sognano l’età aurea dei poeti o le favole (Spinoza 1677: v. 2, IV, prop. 37, Scolio II, 237; Id. 1677²: v. 3, I, par. 5, 275). 24 Hayek 1948: 14-15; Id. 1989: 172. 25 Secondo Karl Polanyi l’utopia del liberalismo economico di istituire un mercato autoregolantesi è stata alla base del cataclisma che si scatenò negli anni fra le due guerre mondiali, con la grande crisi economica del 1929 e quello che ne conseguì. Ma anche a proposito del tracollo economico del nostro tempo (cominciato nel 2007 e per molti versi attivo ancora oggi), gli economisti più avveduti tirano in ballo le élite politiche degli ultimi vent’anni,

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che hanno operato nella ferma e disastrosa convinzione che i mercati finanziari fossero meccanismi efficienti e in grado di autoregolarsi. Quando in realtà bisogna prendere atto del fatto che il capitale monetario libero da costrizioni «possiede un immenso potere autodistruttivo» (Polanyi 1944: 31; Ingham 2008²: 246; Id. 2008: 226). 26 Hayek 1960: 54. 27 Heidegger 1959: 34 e 29; Id. 1944: 57. Il testo completo di Heidegger contiene questa espressione: «Il nostro è tempo di carenza, perché esso si trova in una doppia mancanza, e in un doppio non: nel “non più” degli dèi fuggiti e nel “non ancora” degli dèi venienti». 28 Horkheimer 1947: 104-105. 29 Erikson 1956. 30 Knight 1935: 282. 31 Rawls 1980: 520. Il fatto che uno dei più illustri filosofi americani sia stato ignorato nella sua patria è dimostrato dal fatto che quello degli Stati Uniti come terra delle uguali opportunità e del benessere diffuso è un mito che si trascina da decenni, ma che non trova riscontro nei dati osservati dagli economisti. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, per esempio, informa che la disparità di ricchezze, benessere e opportunità fra i bambini americani non ha eguali nel mondo. Il 20% di essi (circa 15 milioni) vive in povertà, mentre la percentuale sale al 38% quando si parla di bambini neri e al 30% per gli ispanici. Senza contare l’elevatissimo tasso di malattie financo mortali fra questi bambini che evidentemente pagano il prezzo spesso drammatico di un’enorme disuguaglianza di opportunità. Sempre Stiglitz ci informa che negli Usa l’uguaglianza di opportunità è inferiore a quella di qualsiasi altro paese industriale avanzato, con una mobilità sociale ridotta al lumicino per le classi più basse, e comunque inferiore a quella della maggior parte dei paesi europei e di tutti i paesi scandinavi. A tutto questo si aggiunga pure che tra il 2007 e il 2013 il numero di americani che ha usufruito dei buoni alimentari erogati dallo Stato è aumentato dell’80% (Stiglitz 2014, 2013 e 2013²). 32 Spencer 1892: 297 e 308. 33 Putnam 2000: 440; Id. 2001: 26; Id. 2002; Pickett, Wilkinson 2009. 34 Cicerone, De officiis: III, 26. 35 Sennett 2006: 54 e 164; Ingham 2008: 110. 36 Hayek 1944: 134; Id. 1982: v. 2, 84-85. 37 «Anche le epoche precedenti hanno assistito all’ascesa del dominio relativo della finanza, ma mai nella misura in cui è avvenuto nella nostra epoca. In tutte queste occasioni, e specialmente oggi, l’espansione della finanza in rapporto alla produzione è stata accompagnata da una significativa emersione della disuguaglianza» (Ingham 2008: 174). 38 Mises 1949: 42 e 731. 39 Nietzsche 1888: v. VI, III, Scorribande di un inattuale, par. 34. 40 Nietzsche 1882: v. V, II, par. 341. 41 Losurdo 2002: v. 1, 503-513; Eliade 1949. 42 Nietzsche 1888²: v. VI, III, Perché sono così accorto, par. 10. 43 Levinas 1961: 235. 44 Polanyi 1944: 48. 45 Ci stiamo riferendo a una formula desumibile dalla Logica hegeliana, quella per cui l’universale è autentico solo nella misura in cui sa abbracciare il particolare. Ripresa anche da Karl Marx e ritenuta «eccellente» da Lenin (1955-1979: v. 38, 98), esponenti di una tradizione politica che non ha saputo realizzarla concretamente, lasciando che la formula universale (società di uguali) non riuscisse ad abbracciare il particolare (libertà dei singoli individui).

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Platone, Politico: 311c e 305d. La Commissione Trilaterale, fondata nel 1973 dal miliardario David Rockefeller, era composta come da statuto da duecento «cittadini illustri», cioè membri selezionatissimi dell’élite politico-finanziaria provenienti dalla triade che a quel tempo governava il mondo (Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone). Scopo fondativo di tale associazione era quello di analizzare e influenzare il governo politico, culturale ed economico di quelle zone del pianeta. 48 Crozier, Huntington, Watanuki 1975: 114-115. 49 Stiglitz 2006: 276. 50 Foer 2017. 51 Stiglitz 2002: 227. 52 Huntington 1981: 75. 53 Stiglitz 2002: 35-36 e 219-221. 54 A questo proposito l’economista Robert Heilbroner parlava di «carattere insaziabile» del processo capitalista (cfr. Boltanski, Chiapello 1999-2011: 36). 55 Harvey 2014: 233; Charolles 2006: 42, 125 e 229-230. 56 In realtà esistono molti studi condotti da sociologi, filosofi e, recentemente, anche da economisti, in cui si dimostra l’importanza di fattori come la fiducia, l’altruismo e la costruzione di un’identità di gruppo nel consentire a relazioni complesse di svilupparsi o a una nazione di progredire economicamente (Gambetta 1990; Fukuyama 1996; Knack, Keefer 1997; Barrett 1999; Bowles, Gintis 2005; Ben-Ner, Putterman 2009; Gintis 2008; Béteille 2006; Lin, Harris 2008). 57 Mill 1844: v. 4, 326. 58 Platone, Repubblica: VIII, 550e; Aristotele, Politica: I, 10, 1258a 40 e 1258b 1-3. 59 Crouch 2011: 98-99 e 122; Stiglitz 2010: 234-236; Duménil, Lévy 2011: 133, 289 e 298; Quiggin 2010: 37; Rodrik 2018: 273. 60 Keynes 1930: 369. 61 Cit. in Ziegler 2002: 26. 46 47

3. La gaia incoscienza Riesman 1961-1989: 22 e 106. Packard 1958: 188. 3 Ibid.; Marcuse 1964: 11 e 162. 4 «La “psicologia della scarsità”, tipica di molte persone auto-dirette e socialmente opportuna durante il periodo di elevata accumulazione del capitale che aveva accompagnato la transizione demografica, necessita di lasciare il passo [con l’affermarsi della società opulenta] a una “psicologia dell’abbondanza” capace di dissipare i beni voluttuari del tempo libero e del surplus produttivo» (Riesman 1961-1989: 18). 5 Packard 1958: 153; Riesman 1961-1989: 79; Stenger 2015. 6 Stuart Mill 1859: v. 18, 219-220; Tocqueville 1835: 493 ss. e 1856: 1077-1078. 7 Robins-Webster 1986; Baudrillard 1970: 192. 8 Castells 2009: 412-413; Turkle 1984-2004: 155-156; Ercolani 2012: cap. IV. 9 Bolter 1984: 8-9, 13 e 210. 10 Carr 2010²: 246-248. 11 McLuhan 1964: 46 e 42; Id. 1962: 248. 12 Sartori 1997; Bourdieu 1996: 50-51. 1 2

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Benasayag, Schmit 2003; Spitzer 2012 e 2015. McLuhan 1964: 11, 18, 45-47, 149; Id. 1962: 272. Già Socrate e Platone ritenevano la tecnica della scrittura un volgare impoverimento del sapere, nonché della trasmissione del medesimo, rispetto alla tradizione orale che invece ne mantiene viva l’essenza incontaminata e aristocratica. 16 McLuhan 1964: 308. 17 McLuhan 1962: 24. 18 McLuhan 1964: 313. 19 Sparrow, Liu, Wegner 2011; Rowlands et al. 2008. 20 Daniel, Willingham 2012; Sparrow, Liu, Wegner 2011; Müller, Oppen­ heimer 2014; James, Engelhardt 2012; Longcamp et al. 2005, 2008 e 2011. 21 Richtel 2011. 22 Erikson 1968: 135 e 141; Castells 2000-2010: v. 2, 6-7. 23 Jaspers 1913-1959: 748. 24 Gardner, Davis 2013: 66 ss. 25 Ibid.: 77. 26 Turkle 2011: 177. Freud descriveva il narcisismo come quella condizione tipica dei primitivi e soprattutto dei bambini, in cui il soggetto sopravvalutando i propri desideri e atti psichici, coltiva una sorta di «onnipotenza dei pensieri» con cui si illude di poter esercitare un dominio e controllo sugli altri e sulle cose del mondo. Nell’uomo adulto la persistenza del narcisismo segnala un «arresto dello sviluppo psichico», per cui l’individuo, non riuscendo a fare a meno di quella «perfezione narcisistica della sua infanzia», si sforza di riconquistarla costruendosi un «Io ideale» che sostituisca quello del tempo andato. Il guaio, però, è che il narcisista è condannato a vivere il dramma di ferite destinate a frustrare tutta la sua volontà di potenza sul mondo: a cominciare dall’impotenza sessuale nel realizzare ogni pulsione e dal grande e misterioso potere che esercita su ognuno di noi la vita psichica inconscia (Freud 1914: v. 7, 445 e 464; Id. 1917: v. 8, 663-664). 27 Gardner, Davis 2013: 73-74; Lowen 1983: 226. 28 Wallace 2016: 253. 29 Turkle 2011: 242. 30 Lacan 1966: 97. 31 Al di là delle teorie psicologiche, numerosi sono gli studi che documentano, per esempio, l’insorgere di ansia, voti più bassi e in generale una maggiore insoddisfazione della vita in coloro che fanno un uso più intensivo del cellulare; ma anche un significativo incremento di agitazione e in generale fobie sociali su chi deve incontrare persone dal vivo dopo averle «conosciute» su Facebook. A tutto questo aggiungiamo pure la meta-analisi degli studi condotti nel decennio 1998-2008, da cui emergeva che l’utilizzo di media digitali e di Internet va di pari passo con un ridotto benessere ed evidenti stati depressivi. Correlazione avvalorata anche da analisi più recenti, da cui emergono sentimenti di insoddisfazione della vita, ridotto rendimento scolastico e universitario: uno studio prospettico a lungo termine ha evidenziato un rischio di cadere in depressione di 2,5 volte più alto in quegli individui compresi fra i 13 e i 18 anni che fanno un uso intensivo di Internet (Pavot, Diener 2008; Lepp, Barkley, Karpinski 2014; Rauche et al. 2013; Huang 2010; Lam, Peng 2010). 32 Walther 1996; Bonetti, Campbell, Gilmore 2010; Schouten, Valkenburg, Peter 2007. 33 Wallace 2016: 167, 210-211 e 253; Gardner, Davis 2013: 110-111; Richards 2010; Castells 2000-2010: v. 1, 387; Kraut et al. 1998. 34 Winnicott 1958: 33; Turkle 2015: 81-82. 13 14 15

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35 Di Ego «falso» o «diviso» parlava lo psichiatra Ronald Laing, per connotare quell’Io schizoide che, in profonda e contrastata dissociazione con il proprio corpo e con gli altri, vive un processo patologico che culmina «nel desiderio di liberarsi da una consapevolezza di sé divenuta intollerabile e mortale: al punto che il prospetto di diventare una cosa passiva, penetrata e controllata dagli altri, viene vissuto come un sollievo gradito» (Laing 1960: 113). 36 Freud 1922: v. 9, 497. 37 Secondo la teoria freudiana insieme al principio di piacere, quello di realtà è uno dei due che regolano la psiche umana. Il passaggio a una vita regolata dal principio di realtà segna la crescita cognitiva e pulsionale dell’uomo, che in questo modo rinuncia a voler soddisfare ogni istinto come avveniva quando era un bambino. Il principio di piacere rappresenta per Freud «la tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosa in genere», poiché caratterizzato da uno sforzo costante volto a «eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli». Dall’altra parte, l’individuo adulto che aderisce al principio di realtà è quello che si è risolto a «rappresentare a se stesso anziché le condizioni proprie, quelle reali del mondo esterno», sforzandosi semmai di modificare la realtà invece che rifugiarsi in s­ cappatoie ideali o di tipo allucinatorio (Freud 1920: v. 9, 241; Id. 1911: v. 6, 454). 38 Twenge 2017: 167 e 169. 39 Van Dijk 2006: 10-14. 40 Turkle 2015: 363-364. 41 In Hickman, Alexander 1998: v. 1, 263; Gramsci 1975: Q 12, 15471548. 42 Uno studio recente e ben documentato, in cui si analizza il ruolo che il capitalismo sta giocando nello spingere Internet a funzionare contro la democrazia, parla di «matrimonio» fra il capitalismo realmente esistente e la Rete. Rete nella quale sono emersi dei «giganti digitali» che si rivelano come «i padroni di Internet» ma anche di molta parte della nostra vita sociale. Proprio Internet, nata come il campione della crescita del potere dei consumatori, nonché della concorrenza spietata, si è rivelata «uno dei più imponenti generatori di monopolio della storia economica». Senza contare il fatto che le grandi imprese finanziarie della Rete possono monitorare e acquisire i dati più sensibili degli utenti mantenendo del tutto intoccabile il loro sistema di tracciamento dei dati stessi. Nel 2012 l’amministrazione Obama sosteneva che le norme sulla privacy sono importanti, ma si doveva «permettere al commercio elettronico di crescere» (McChesney 2013: 130, 147 e 153; Wyatt 2012: B1). 43 Eriksen 2005. 44 Quello secondo cui, partendo dall’«intuizione che siamo tutti fallibili e soggetti all’errore», solo discutendo razionalmente e pacificamente potremo «correggere alcuni dei nostri errori» e «avvicinarci reciprocamente alla verità». Il motto della ragione critica è «parole invece delle spade [word instead of sword ]!» (Popper 1981: 314, 321-323). 45 Lacan 1966: 293. 46 Jacoby 2008. 47 Nichols 2017: 216. 48 Levy 1994. 49 Lovink 2008: xi. 50 Il primo a usare il termine (che letteralmente significa «comando della folla»), fu lo storico greco antico Polibio (circa 206 a.C. - 124 a.C.), descrivendo un meccanismo che ricorda molto da vicino il nostro tempo. Quello del popolo che, deluso dai governanti precedenti, decide di assume-

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re direttamente su di sé «la cura dei pubblici interessi». L’utopia di tale soluzione, dovuta soprattutto all’incompetenza della maggior parte dei cittadini rispetto a un incarico tanto gravoso, produce un regime di competizione violenta e spregiudicata fra i cittadini stessi, tra i quali emergono i più ricchi, che possono «dilapidare le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi». In questo modo la democrazia viene abolita, trasformandosi in una «violenta demagogia». Chissà se Polibio ha fatto propria la lezione del commediografo Aristofane, che descrivendo la parabola di un salsicciaio che aspirava a governare, definì per primo l’idea di «mettersi alla testa del popolo» come non più appartenente a «uomini istruiti e di buoni costumi, ma ignoranti e infami» (Polibio, Storie: VI, 9; Aristofane, Cavalieri: vv. 191-193). 51 Per Lippmann, l’individuo medio non riesce a trascendere la propria «casuale esperienza», restando vittima dei «pregiudizi violenti» ma anche dell’«apatia», della preferenza per le «curiosità triviali» rispetto a quelle «importanti ma noiose». Di contro, Dewey vedeva nella democrazia l’opportunità per tutti i cittadini di autorealizzarsi e costituire una reale comunità: «La democrazia non è soltanto un mezzo in vista di un fine, ma un fine in sé, esattamente come l’idea della vita comunitaria in quanto tale» (Lippmann 1922: 365; Dewey 1927: 117; Whipple 2005). 52 Benhabib 1996: 69. 53 Dewey 1922: 77-78; Popper 1972: 347-348; Bobbio 1984: 19. Del resto, la celebre definizione di democrazia fornita da Karl Popper (1962: 344 ss.), secondo cui è democratico il sistema in cui i governanti possono essere messi liberamente in discussione e quindi sostituiti, risulta svuotata di significato in un contesto in cui è il potere a poter controllare i cittadini ma non il contrario. 54 L’etimologia effettiva del termine segue la latinizzazione del nome del celebre matematico persiano Mu¯sa¯ al-Khwa¯rizmı¯ , vissuto nel IX secolo d.C., considerato uno dei primi autori ad aver elaborato dei procedimenti che richiamano al concetto. 55 Chantraine 1999: 55; Finn 2017: 15, 17-18 e 181. 56 Marcuse 1964: 254. 57 Fromm 1963: 96 e 101-102; Debord 1967: par. 18. Sempre secondo lo psicologo Erich Fromm, la società industriale è quella in cui l’essere umano è minacciato da «potenti forze sovra-personali» (il capitale e il mercato). All’interno di una società di questo tipo risiede l’ambiguità della «libertà dei contemporanei», per cui da una parte l’uomo «è stato liberato dalle autorità tradizionali ed è diventato un “individuo”», ma dall’altra, al tempo stesso, si è ritrovato «isolato e impotente», «strumento di scopi a lui esterni, alienato da se stesso e dagli altri» (Fromm 1942: 53-54 e 232). Abbiamo visto quanto tale meccanismo di alienazione e riduzione dell’essere umano a strumento risulti più efficace nell’epoca della società tecnologica, in cui l’uomo, sottomesso alla mega-macchina, viene ridotto di volta in volta ad agente di produzione, consumatore passivo, elettore manipolato, utente dei servizi pubblici, ingranaggio della grande macchina tecno-burocratica. Insomma, mero elemento passivo e strumentale nei confronti del potere tecno-finanziario detenuto dai pochi (Latouche 1995: 56-57 e 41-42). 58 Fromm 1976: 13; Debord 1967: par. 17. 59 Anders 1956: 250. 60 Baudrillard 1995: 105. 61 La Boétie 1576: 122. 62 Marcuse 1964: 162-163. 63 Morozov 2011: 28 e 256.

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64 Nel suo celebre studio sul totalitarismo, la filosofa Hannah Arendt (1951: 407 e 474) sosteneva che non solo «l’isolamento di individui atomizzati fornisce la base di massa per il dominio totalitario», ma che può rappresentare l’inizio del terrore e certamente il suo terreno più fertile.

4. La notte della democrazia   In realtà il crollo della Repubblica di Weimar (e con essa della democrazia tedesca) fu ovviamente più complesso. Peraltro non senza inquietanti similitudini con la situazione odierna di molte democrazie europee (forte disoccupazione, sfiducia nei sindacati e nei partiti, rabbia popolare contro le classi dirigenti, emersione di movimenti portatori di idee demagogiche, crisi del liberalismo e debolezza delle sinistre ecc.). A questo aggiungiamo pure le violenze e i colpi di mano operati dalle destre e dai reazionari ben prima delle fatidiche elezioni del 5 marzo 1933. Malgrado tutto questo, però, non v’è dubbio sul fatto che il partito nazional-socialista di Hitler raccolse sempre moltissimi voti. Tanto da poter sostenere che il collasso di quel guscio vuoto a cui ormai si era ridotta la democrazia tedesca avvenne formalmente in maniera democratica, cfr. Neumann 1942: 29-34. 2 Platone, Repubblica: VIII, 562a; Aristotele, Politica: III, 10, 1281a e VI, 3, 1318a. 3 Einstein, Freud 1933: 11-12, 18, 45, 54 e 57. C’è da chiedersi, piuttosto, a quale tipo di cultura si riferisse il padre della psicoanalisi, visto che nel 1915 denunciava il fatto che, con lo scoppio della Grande Guerra, fosse caduta un’altra delle speranze umane: «Dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo, alle cui mani è affidata la guida del genere umano, che sapevamo intente a perseguire interessi estendentesi al mondo intero, e a cui erano dovuti i progressi tecnici per il dominio della natura nonché i valori della cultura, dell’arte e della scienza, da questi popoli, almeno, ci aspettavamo che giungessero a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti d’interesse» (Freud 1915: v. 10, 124). Evidentemente il complesso di superiorità razziale non escludeva neppure quegli studiosi del profondo che pur prendevano atto con costernazione della barbarie di cui era stato capace l’Occidente (stavolta all’interno dei propri confini). 4 Bondeson 2005: 1 e 3. 5 Rousseau 1959-1969: III, 428-431 e 978-981. 6 Per la concezione della donna in Rousseau cfr. Ercolani 2016: 101 e 102-113. 7 Losurdo 2005: 107; Ercolani 2016²: 31. 8 Eagleton 1991: 12; Gramsci 1975: 958 e 1007. 9 Mannheim 1936: 173. 10 Paine 1792: 233. 11 Held 2006: 19; Dickenson 1997: cap. 2. 12 Non per caso un autorevole storico dell’antichità ammetteva che ad Atene (come del resto a Roma) «il corpo dei cittadini era composto da minoranze che sfruttavano il grande numero di uomini, liberi e schiavi», e che uno degli aspetti caratterizzanti la storia della Grecia classica è stato proprio quello che ha visto avanzare a braccetto libertà (per pochi) e schiavitù (Finley 1983: 84 e 1981: 115). 13 Harrison 1993: 17 e 23; Held 2006: 23. 14 Goodman 1987: 125; Cicerone, Epistulae ad Atticum: VIII, 1, 3. 15 Aristotele, Politica: III, 8, 1279b-1280a. 16 Finley 1981: 84. 1

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Weber 1922: v. 2, 448. Finley 1981: 87. Tucidide, Le storie: v. 2, V, 105, 2. 20 Platone, Gorgia: 483 b-d; Repubblica: I, 338c-339a. 21 Tucidide, Le storie: v. 1, III, 36, 2. 22 Wolin 2008: 243. 23 Finley 1981: 61 e 41-42. 24 Plutarco, Vita di Pericle: 10, 7-8; Aristotele, Costituzione di Atene: 25; Canfora 2011: 119 e 121. 25 Zinn 1980: 1. 26 Stannard 1992: 195 e 199. 27 Ibid.: 95 e 151; Losurdo 1996: 236. 28 Todorov 1982: 7; Stannard 1992: 281; Diamond 1997: 563 e 567. 29 Tocqueville 1951 ss.: I, 1, 25. 30 Jardin 1984: 304; Tocqueville 1951 ss.: III, 1, 226-227; III, 1, 84 e III, 1, 323. 31 Condorcet 1847-1849: VII, 63; VIII, 183 e X, 252. 32 Condorcet 1793: 254. 33 Il più rilevante autore a definire la teoria razzista moderna fu Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), diplomatico e scrittore francese che intrattenne rapporti di amicizia e corrispondenza con Alexis de Tocqueville. Nella sua celebre opera sulle razze, il nobiluomo d’oltralpe suddivise le razze in «nera», «gialla» e «bianca», non soltanto qualificando la nera come quella intellettualmente più limitata e senza alcuna possibilità di sviluppo, ma anche espungendo di fatto la «rossa» dal novero delle razze umane degne di questo nome. Razze umane che derivano tutte da quella superiore e più illustre che è la bianca, e che degenerano in tutti i sensi quanto più si allontanano cromaticamente da essa. Gobineau da una parte evidenziò le caratteristiche negative dei nativi americani quali malvagità, crudeltà ed egoismo anche all’interno della propria tribù e famiglia, dall’altra ammise che i colonizzatori europei li avevano saccheggiati, e molto spesso massacrati, ma giustificò tutto ciò come la naturale operazione di una razza dominante e superiore che in tal modo realizzava una «considerevole rivoluzione» (Gobineau 1853-1854: v. I, I, XVI, 214 e 220; v. II, VI, VII, 498-499; v. II, VI, VIII, 526 e 532). 34 Drescher 1999: 314; Lovejoy 1989: 387. 35 Walvin 1994: ix. 36 In Young-Bruehl 1982: 361. 37 Stannard 1992: 153; Lukacs 1998: 237; Toland 1976: 702; Losurdo 2007: 96-97; Hitler 1925-1926: 368; Kilzer 1994: 122. 38 Kühl 1994: 86; Losurdo 2007: 100. 39 Darwin 1871: I, 168. 40 Galton 1909: 35 e 49. 41 Galton 1869: 337 e 344-345. 42 Ibid.: 350. Sempre in Inghilterra, ma stavolta negli anni venti del Novecento, fa riflettere la vicenda della paleontologa e femminista Marie Stopes, che nel suo Radiant Motherhood (1920) si pronunciava a favore della sterilizzazione come misura per impedire a quelli «di stirpe marcia e malata» di mettere in pericolo «le forme superiori e più belle della razza umana». Convinta che l’umanità avrebbe compiuto un balzo in avanti quando si fosse riusciti a essere «circondati solo da giovani belli e raffinati», proponeva di «porre un freno al proliferare di questa corruzione» (rappresentata dalle razze e dai tipi inferiori, ma anche dai proletari; Stopes 1920: 223, 225 e 220). 43 Kühl 1994; Black 2003: 385-409. 44 Montagu 1966: 386 ss. 17 18 19

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Roosevelt 1928-1950: VIII, 445 e 521. Chomsky 1993; Id. 1996: 172 e 217. Cit. in Mann 2003: 10. 48 Wolin 2008: 189. 49 Lieven 2004: 53. 50 Usa Administration 2002: 3. 51 Ibid.: 22, 2, 6, 11 e 13, 24 e 18. 52 Ibid.: 23. 53 Ercolani 2012: 151; Ahmed 2002: 275-276. 54 Hobsbawm 1994: 257-258 e 270. 55 Crouch 2004; Ercolani 2015: 225-227. 56 Ercolani 2006, 2008, 2013 e 2016²: cap. 4. 57 Harvey 2005: 9. 58 Chang 2010: 87. 59 Piketty 2013: 698 e 701. Contrariamente ai miti spacciati dalla teoria liberista, oggigiorno non v’è neppure spazio per la speranza meritocratica, poiché in realtà si assiste al trionfo di un «capitalismo patrimoniale largamente fondato sulle dinastie famigliari e sulla trasmissione ereditaria della ricchezza» (Piketty 2013: 221 e 671). 60 Rawls 1971: 83 e 506. 61 Dahl 1985: 60 e 138. 62 Fukuyama 1989: 8 e 14. 63 Huntington 1996: 301. 64 «Un cane è contento di dormire sotto il sole ogni giorno a patto che sia nutrito, perché in questo modo non è insoddisfatto della propria condizione. Egli non si preoccupa che altri cani stiano meglio di lui, o che la sua carriera di cane sia stagnante, o che altri cani vengono oppressi in qualche parte lontana del mondo. Se l’uomo raggiunge una società in cui è riuscito ad abolire l’ingiustizia, la sua vita assomiglierà a quella del cane» (Fukuyama 1989: 18 e Id. 1992: 311). 65 Castells 2001: 65 e 67; Benkler 2006: 3 e 10; Lovink 2003: 76-77. 66 Ercolani 2012: capp. I e IV; Carr 2010; Gardner, Davis 2013: capp. IV e V; Jenkins 2006: 260. 67 Hobbes 1651: I, XIII, 63. 68 Aristotele, Etica Nicomachea: VIII, 10, 1160a 34-35 e 1160b 20-21. 69 Ercolani 2012: cap. III; Ahmed 2002: 68-69; Wolin 2008: cap. 5; Krugman 2007: 199-200. 70 Wolin 2008: 215; Seymour 2008: 7. 71 Peltrot et al. 2013: A1. 72 Ercolani 2012: 151. 73 Klein 2007: 307. 74 Zakaria 2003: 14 e 15. 75 Gallino 2013. 76 Zakaria 2003: 20, 242-243 e 246. 77 Tucidide, Le storie: v. 1, II, 40, 2. 78 Dewey 1916: 93-94. 79 Drury 2005: 1, 7, 16 e 20. 80 Strauss 1959: 221-222. Risulta evidente la consonanza con un altro grande interprete del pensiero reazionario come Friedrich Nietzsche. Il quale, dopo aver celebrato l’elogio della cultura esoterica (rivolta ai pochi spiriti elevati), di contro a quella essoterica (per il popolo-gregge), sottolineava che «vi sono libri che hanno per l’anima e la salute un valore opposto, a seconda che se ne serva un’anima ignobile [nieder], un’inferiore forza vitale, oppure invece quella più alta e più possente: nel primo caso sono libri peri45 46 47

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colosi, frantumanti e dissolventi, nel secondo sono appelli d’araldo, che invitano i più prodi alla loro prodezza» (Nietzsche 1886: v. VI, II, par. 30). 81 Gramsci 1975: 533; Id. 1971: 60. 5. I pilastri di un nuovo umanesimo Cicerone, Epistulae ad Atticum: X, 12a, 3. Freud 1915-1917: v. 8, 446. McLuhan 1964: 46. 4 Floridi 2014: 91. 5 Pascal 1669: par. 264. 6 Nietzsche 1888: 67; Id. 1882: 16. 7 Lacan 1966: 628. 8 Cit. in Bernstein 1997: 320. 9 Russell 1928: 193. Come evidenziato dal pensatore cristiano ­Tommaso d’Aquino, soltanto l’intelletto, che ha per oggetto il verum, può determinare la ratio boni, cioè il criterio per valutare giusto e sbagliato e agire di conseguenza. Riflessione condivisa, e anzi anticipata, da un autore pagano come Cicerone, secondo il quale una volontà che si alimenta di cupidigia sfrenata, quindi contraria alla ragione, è quella che si trova negli «stolti» (Tommaso d’Aquino 1259-1273: I, Q 82, a. 3; Cicerone, Tusculanae disputationes: IV, 6, 12). 10 Nietzsche 1888-1889: par. 14, 118. 11 Kelsen 1949: 288-289. 12 Si tratta di un problema iniziato ben prima dei giorni nostri. Già nel 1956, infatti, il sociologo Charles Wright Mills, parlando del ruolo dell’opinione pubblica come di quello, altrettanto centrale, delle élite intellettuali nel tenere alto il livello culturale in una democrazia, denunciava che «l’esponente caratteristico delle alte sfere odierne è intellettualmente mediocre, qualche volta in maniera consapevole, ma pur sempre mediocre». Decisamente inquietante la descrizione dell’intellettuale, che sembra un’anticipazione dell’«uomo mediatico» dei giorni nostri: «Aperto soltanto a idee abbreviate e volgarizzate, preventivamente riassunte e deformate: è il condottiero dell’epoca della chiamata telefonica, del memorandum e del riassunto» (Wright Mills 1956: 353-354). 13 Gennari 2012: 648-649. 14 Chomsky, Herman 1988: 207. 15 Postman 1985: 92. 16 Kant 1790: par. 83, 356. 17 Nelle democrazie il potere cercava di manipolare il pensiero dei cittadini raccogliendo consensi attraverso la propaganda, oppure per mezzo di una censura rispetto alle notizie considerate sensibili. In regime di dementocrazia, il pensiero è già stato disinnescato all’origine dai meccanismi che abbiamo analizzato, tanto che il potere può consentire un eccesso di informazioni, ben sapendo che buona parte dell’opinione pubblica non avrà gli strumenti per selezionarle ed elaborarle in maniera autonoma e critica. Si tratta del fenomeno a cui è stato dato il nome di «analfabetismo funzionale». Quello che, con un notevole ruolo esercitato dai nuovi media digitali, prevede persone che tecnicamente sanno leggere (e scrivere), ma che non sono in grado di intendere, elaborare e riferire argomenti più complessi rispetto al livello elementare. Questo, fra le altre cose, le espone alle cosiddette fake news, a sciocchezze, falsità, chiacchiericcio e superficialità di cui la Rete abbonda. Si tratta di un fenomeno che veniva denunciato già nel 2001, 1 2 3

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quando uno studio rivelava che fra i giovani inglesi (compresi tra i 15 e i 21 anni) il livello di analfabetismo funzionale (functional illiteracy) aveva raggiunto la percentuale del 15%, ben superiore al 2% del 1912 (McVeigh 2001). Oggigiorno questo problema si riscontra abbondantemente negli Usa, dove moltissime persone avevano dato credito alla falsa notizia secondo cui papa Francesco appoggiava Trump nelle elezioni presidenziali (Willingham 2017). Un aumento del fenomeno si registra nel Regno Unito e in Spagna, dove le persone dedicano molto meno tempo alla lettura rispetto a paesi come la Thailandia, l’India e la Cina, in cui Internet è meno diffuso o subisce delle restrizioni («El Ibérico» 2014). In Italia, l’autorevole quotidiano «La Stampa» annunciava con un certo clamore che «il 70% degli italiani è analfabeta (funzionale): legge, guarda, ascolta, ma non capisce» (Candito 2017). 18 Deneault 2015. 19 Possiamo tranquillamente sostenere che nel nostro tempo consiste in questo premio alla propria mediocrità la domanda che si poneva Étienne de La Boétie nel Cinquecento, quando quasi incredulo affermava: «Ma buon Dio, che può essere questo? Come dovremmo chiamarlo? Che disgrazia è questa, che vizio o, piuttosto, che disgraziato vizio vedere un numero infinito di persone non ubbidire ma servire, non essere governate ma tiranneggiate?» (La Boétie 1576: 106-107). Deve trattarsi di un’attitudine mostruosa che ancora non ha trovato nome, ne deduceva. Forse quel nome è proprio «mediocrità». 20 Agostino d’Ippona, De civitate Dei: XX, 24, 2. 21 Pico della Mirandola 1486: 10. 22 Ippocrate 1839-1861: Il regime, I, par. 11, v. 6, 486-487. 23 Vico 1710: I, I, 63. 24 «Si potrebbe fare qualcosa che né si sa, né si ha potenza alcuna per farlo?», chiede Socrate. Gli risponde Ippia: «Assolutamente no. Come si potrebbe fare quello che non si sa, né si è in grado di fare?» (Platone, Ippia maggiore: 296b). 25 Bacon 1620: v. 1, I, par. 3, 241. 26 Socrate: «Ti sembra che siano la stessa cosa il sapere e il credere, come pure scienza e opinione, oppure pensi che siano cose diverse?». Gorgia: «Per conto mio ritengo che siano due cose diverse» (Platone, Gorgia: 454d). 27 Ibid.: 465a. 28 Hegel 1807: v. 1, 48. 29 Aristotele, Metafisica: I, 981a 30 e 981b 9. 30 Ibid.: I, 981b, 7-10; Platone, Repubblica: VI, 506c. 31 Platone, Ippia minore: 366b. 32 Platone, Politico: 311 b-c. 33 Ibid.: 273d. 34 Platone, Protagora: 323a; Id., Alcibiade minore: 146e. 35 Platone, Protagora: 320d-323c; Id., Repubblica: I, 351 c-d. 36 «Questa virtù non è un dono della natura né della sorte, ma è insegnabile e chi la possiede l’ha raggiunta grazie all’impegno» (Platone, Protagora: 323c). 37 Popper 1992: 233. 38 Platone, Politico: 284 a-b; Id., Repubblica: VI, 505a-b. 39 Popper, Eccles 1977: 429, 431 e 433; Popper 1945: v. 2, 222. 40 Kelly 2010: 173. 41 Ibid.: 68-69. 42 Heidegger 1954: 41.

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Anders 1980: 35. Bell 1960; Rehmann 2013: 210-219; Jameson 1991: cap. 2. Jameson 1991: 263. 46 Descartes 1641: v. 7, 78; Id. 1637: v. 6, 57. 47 Vattimo 1985: capp. VII e X; Nietzsche 1881-1887: v. V, I, II, par. 123. 48 Nietzsche 1888: v. VI, 3, 75-76. L’idiosincrasia nietzschiana per la verità (ottenibile tramite la ragione), a fronte di una predilezione per il flusso mutevole, irrazionale e vitale delle cose, si è tradotta in aforismi in cui il grande filosofo tedesco sosteneva che «la verità è quel genere di errore senza di cui un determinato genere di esseri viventi non potrebbe vivere. Alla fine decide il valore della vita». Ma anche: «Che cos’è la verità? Inertia, l’ipotesi che ci soddisfa; minima spesa di forza mentale ecc.» (Nietzsche 18841885: v. VII, III, par. 34, 182; Id. 1885-1887: v. VIII, I, par. 2, 112). 49 Vattimo, Rovatti 1983: 12-29. 50 Wang 2016. 51 Russell 1932: 425. 52 Gramsci 1975: 1376. 53 Nietzsche 1884-1885: v. VII, III, par. 35, 203; Id. 1885-1887: v. VIII, I, par. 5, 177; Cioran 1960: 1008. 54 Plotino, Enneadi: I, 6, 9. 55 Camus 1951: 380. 56 Russell 1949: 63. 57 Hegel 1821: 16. 58 Preston 2015; Taglietti 2014; Esposito 2014; Aunión 2013. 59 Marcuse 1955: 129. 60 Marx 1845: 446. 61 Diels, Krantz 1966: 80, B 1. 62 Friedman 2007: 598. 63 Panikkar 2015: v. I, 61, 119, 197 e 437. 64 Freud 1914: v. 7, 464. 65 Jung 1921: v. 6, par. 825, 463-464. 66 Fromm 1941: 297. 67 Gramsci 1975: 1595. 68 Popper 1972: 186. 69 Wright Mills 1959: 345. 70 Wojtyła 1994: 51. 71 Wallace 2016: 241 e 250. 72 Rawls 1993: 199. 73 Wright Mills 1959: 171. 74 Twenge 2017: 93. 75 Twenge 2017. 76 Gardner 1983: 269. 77 Twenge 2017: 204 e 213. 78 Goleman 1995: 56-57. 79 Fromm 1957: 94 e 101. 80 Si tratta di una palese contraddizione, quella della coercizione nelle faccende affettive. Chiunque voglia essere sinceramente amato, infatti, ha bisogno che l’altro possa volere e sia libero. Occorre che l’altro sia libero per decidere di amarmi e per vedere in me l’infinito. Ciò implica che l’altro si mantenga come «pura soggettività, come l’assoluto per il quale il mondo viene all’essere» (Sartre 1943: 416-417). 81 Fromm 1957: 84-85. 82 Wallace 2016: 154. 83 Gazzaley, Rosen 2016: 200 e 203. 43 44 45

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84 Platone, Repubblica: II, 376e ss.; Id., Gorgia: 493a; Id., Cratilo: 400 b-c; Id., Fedone: 61c-e; Id., Repubblica: III, 405a ss., per la centralità dell’educazione fisica e per la concezione del corpo. Id., Leggi: VII, 808e; Id., Timeo: 87b per l’esclusione dei cattivi insegnanti dalle punizioni penali. 85 Capra 1982: 225. 86 Riprendiamo questa espressione, «padrone della festa», dal titolo di un album di successo di tre cantautori italiani (Daniele Silvestri, Max Gazzè e Niccolò Fabi). Un brano dell’omonima canzone ricordava che «il sasso su cui poggia il nostro culo è il padrone della festa». Il sasso, ovviamente, è il nostro pianeta. 87 Stando all’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni unite (Ipcc), molti paesi, città e comunità a ridosso dei mari verranno sommersi se non si prenderanno misure urgenti per limitare l’aumento delle temperature (Cooke 2018). 88 Stern 2009: 11. 89 Klein 2014: 541. 90 Di questo fatto era già consapevole il celebre teologo latino Gustavo Gutiérrez (fondatore della «teologia della liberazione»), il quale nel 1971 affermava che gli uomini dei paesi del Terzo mondo fossero consapevoli delle condizioni inaccettabili in cui viveva la maggior parte dei loro connazionali, ma che «non è interesse dei paesi poveri replicare il modello di quelli ricchi [...]. Si tratta certamente per loro di superare i limiti materiali, la miseria, ma per arrivare a un tipo di società che sia più umana» (Gutiérrez 1972: 44). 91 Stern 2009: 131. Esempi virtuosi di opinione pubblica critica e impegnata si sono dati, per esempio, in California e in Australia nel primo decennio del XXI secolo. In California, il governatore Arnold Schwarzenegger lanciò l’ambizioso progetto di ridurre entro il 2050 le emissioni dell’80%, riportandole ai valori del 1990, e per questo, nella tornata elettorale successiva, venne rieletto con una maggioranza superiore a quella precedente. Nel novembre del 2007, in Australia, la popolazione votò compatta contro il governo in carica di John Howard, colpevole di aver portato avanti una politica decisamente antiambientalista (rifiutandosi di aderire al protocollo di Kyoto). Tale governo fu sostituito da quello di Kevin Rudd, che ratificò il protocollo dopo poche settimane e si impegnò in ambito globale per concordare ulteriori misure a tutela dell’ambiente. Oggi, invece, il presidente americano Donald Trump, eletto a furor di popolo, fra le prime misure ha adottato quella di ritirare gli Usa dall’accordo di Parigi sul clima (sottoscritto da 194 nazioni di tutto il mondo), facendosi beffe dell’accordo stesso e negando che l’aumento della temperatura globale sia dovuto alla mano dell’uomo (Ahrens 2017). 92 Capra 1982: 230. 93 Nietzsche 1872: v. III, II, 144; Losurdo 2002: v. 1, 197. 94 Ibid.: v. III, II, 158. 95 Sieyès 1789: 236; Id. 1985: 75 e 81. 96 Kant 1790: par. 83, 357; Nietzsche 1882: v. V, II, par. 329, 190. 97 Stuart Mill 1867: v. 21, 218. Cfr. Raimo (2017): a pagina 136 l’autore ricorda il great decoupling (termine traducibile con «grande disaccoppiamento»), quel fenomeno per cui oggi assistiamo a una crescita esponenziale della produttività globale, a un’innovazione che non è mai stata più veloce, alle quali si accompagna una caduta del reddito mediano e una crescita della disoccupazione. Dunque, conclude Piero Bevilacqua citato nel libro, «piegare la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno in giorno è pura insensatezza». Cfr. anche Rotman (2013), in cui,

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fra gli altri dati, si riporta che in Cina e negli Usa, le due più grandi industrie manifatturiere del mondo, oggi gli operai che lavorano in questo settore sono meno che nel 1997. Ciò è dovuto al processo di automazione, che mette in risalto il contrasto fra lo sviluppo tecnologico e quello umano. 98 Pasolini 1975: 696-698. 99 Pasolini 1947: 56. 100 Marshall 1890-1920: 549 e 596-598. 101 Milani 1965: v. 1, 1315 e 1318. 102 Milani 1967: v. 1, 741. 103 Morin 1990: 150 e 156. 104 Morin 1999: cap. 2. 105 Gramsci 1996: 301. 106 Friedman 1962: 8. 107 Atkinson 2015: 65-66; van Zanden 1995; van Zanden et al. 2014. 108 Chang 2008: 24 e Landes 1998: 265-266. 109 Mazzucato 2013: 123-125 e 157. Cfr. Ercolani 2012: 98-106. 110 Vallas, Kleinman, Biscotti 2011. 111 Manzoni 1827-1842: cap. XXV, 385. 112 Gallino 2013: 251 e 258-259; Colander et al. 2009. 113 Gallino 2013: 299-300. 114 Ibid.: 303, 311-312 e 317. 115 Bateson 1972: 303-304. 116 Il filosofo austriaco, era il 1994, si concentrava in particolar modo sugli effetti pericolosi della televisione nei bambini. Questi, scriveva Popper, vengono al mondo con un obiettivo su tutti gli altri: adattarsi all’ambiente in cui vivono. Essendo evolutivamente strutturati per la vita, i bambini possono adattarsi a molteplici ambienti. La loro evoluzione mentale, pertanto, dipende in misura considerevole dall’ambiente a cui capita loro di adattarsi. Ciò che noi chiamiamo «educazione» rappresenta una dimensione che influenza l’ambiente in una maniera che giudichiamo buona per i bambini. Quello che imparano a scuola, e in generale in tutte le occasioni educative della vita, si rivela decisivo per il loro ruolo futuro di cittadini, lavoratori, genitori ecc; come generazione adulta siamo responsabili di offrire loro il migliore ambiente educativo possibile. La televisione rappresenta una parte fondamentale di un ambiente di cui noi dobbiamo sentire la responsabilità soprattutto quando essa veicola messaggi violenti, degradanti e infimi culturalmente. Occorre un livello specifico di apprendimento e di intelligenza da parte delle «vittime della televisione» perché esse siano in grado di distinguere ciò che è fiction e ciò che invece rappresenta la realtà (Popper 1994: 420-421, 423 ss.). Nel 2004, uno studio dedicato al rapporto fra bambini e televisione riferiva come diverse ricerche condotte su larga scala negli Stati Uniti, intorno agli anni ottanta del secolo scorso, documentassero che l’uso prolungato della televisione si associava a punteggi inferiori nei test di lettura, scrittura e calcolo. Ciò in tutti i gruppi di età e indipendentemente dal sesso e dalla condizione socio-economica (van Evra 2004: parte II). Del resto, una studiosa di comunicazione ci ricorda che oggi, mentre il sistema scolastico ha come primo obiettivo quello di fornire educazione e istruzione, i media tendono a respingere ogni impegno educativo o responsabilità, conservando come «ragion d’essere primaria quella di produrre profitto, attraen­ do ascolti quanto più ampi possibile per poi vendere i prodotti pubblicizzati» (Lemish 2015: 73). 117 Lacan 1976: 21. 118 Marcuse 1964: 10. 119 cfr. Losurdo 1993.

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Platone, Lettere: VII, 326b; Id., Repubblica: V, 473d. Hoffer 1951: 140. Mamberto, Pieri 2019; Anderson 2018. 123 Urbinati 2014: 172. 124 Lo scrittore Paul Valéry affermò che «i fatti non penetrano nel mondo dove abitano le credenze» (cit. in Ziegler 2002: 26). Ripristinare una democrazia cognitiva equivale a restituire all’uomo la possibilità di comprendere i fatti che gli accadono, e provare ragionevolmente a indirizzarli verso scopi umani. 120 121 122

Epilogo. L’uomo davanti alla porta Arendt 1971: v. 1, 3. Glover 2001: 248. Egli si spingeva addirittura a scrivere che «non esiste alcuna cosa come un soggetto che pensa o contiene idee», e che del resto non esiste il soggetto stesso, in quanto «non appartiene al mondo ma è un limite del mondo, come un occhio che vedendo tutto non riesce a vedere se stesso, risolvendosi esclusivamente negli oggetti veduti» (Wittgenstein 1921: 69). 4 Kafka 1914: 238-240; Id. 1925: 518-520. 1 2 3

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Ringraziamenti

Il mio primo ringraziamento va a Luciano Canfora, non solo per aver impreziosito questo libro con un suo testo, ma per le tante occasioni di confronto, stimolo e insegnamento. Senza di lui molte cose di questo mio lavoro non sarebbero state possibili. Un senso di gratitudine commossa va al mio compianto maestro, Domenico Losurdo, recentemente scomparso, ma ben presente nella mia esistenza di uomo e studioso. Insieme a lui, in ambito accademico oltre che umano sento profonda gratitudine per Stefano Giuseppe Azzarà, Massimo Baldacci, Fabrizio Battistelli, Giorgio Calcagnini, Antonio Cantaro, Thomas Casadei, Piergiorgio Grassi, Berta Martini, Stefano Petrucciani e Marco Rocchi. Un grazie fondamentale, per tante ragioni, agli amici Franco Arceci, Giuliana Ceccarelli, Antonio Cecere, Marcello Di Bella, Antonio Meloni, Gabriele Molinari, Marco Pacini, Massimiliano Panarari, Marcella Tinazzi. Per troppi motivi, impossibili da riassumere qui, grazie a Silio Bozzi, fratello acquisito e fonte inestimabile di ispirazione e sapere. Con un pensiero commosso alla memoria di Cesare De Michelis, ringrazio Marsilio Editori per la rinnovata fiducia. Senza Ottavio Di Brizzi, con cui ho avuto scontri epici e confronti indimenticabili, questo libro non sarebbe stato possibile, e in ogni caso sarebbe stato assai peggiore.

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L’affetto più grande e immortale per Anita, Chiara, Lucio, Milena e Nella, insieme a tutti coloro che ci hanno preceduti e ci seguiranno nel legame più forte: quello famigliare. Come da tradizione consolidata, non posso esimermi dal ringraziare Muttley, il mio piccolo/grande assistente a quattro zampe e pelo lungo. Senza di lui la mia scrittura sarebbe stata più silenziosa, tranquilla, concentrata, veloce e con meno errori. Ma la mia vita sarebbe decisamente più triste...

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Indice dei nomi

Agostino d’Ippona (santo), 93, 212 Allende S., 161 Anders G., 67, 84, 156 Arendt H., 36, 176, 204, 273 Aristodico di Tanagra, 171 Aristotele, 24, 30, 41, 95, 121, 160, 162, 168, 171, 191, 215 Asimov I., 24 Bacon F., 38, 214 Balali A., 86 Balkin J., 157 Bataille G., 80 Bateson G., 265 Baudrillard J., 130, 156 Bauman Z., 78 Benhabib S., 152 Benison T.J., 86 Bentham J., 99 Bobbio N., 152 Boltanski L., 47 Bolter D., 131 Bush G.W., 181, 192-194 Callicle, 170 Calvino I., 124 Camus A., 225 Capra F., 246, 249 Carr N., 58, 60, 132 Carter J., 118 Castells M., 74, 130 Castro F., 161

Chang H.J., 260 Chatterjee B., 86 Chiapello È., 47 Cicerone M.T., 90, 106, 199 Cioran E., 37, 224 Clistene, 168 Collodi C., 153 Colombo C., 172 Comte A., 8 Condorcet M.J.A. (de), 175 Copernico N., 199, 201 Dahl R., 186 D’Aquino T. (santo), 92 Darwin C., 177, 178, 199, 201 Davis K., 142 Dawkins R., 37 Debord G., 49, 51, 62, 71, 155 D’Eichtal E., 7 D’Eichtal G., 8 Della Mirandola P., 212 Descartes R., 31, 32, 101, 221 Dewey J., 66, 146, 151, 152, 196-198 D’Holbach P.H.T., 41 Diplas A., 86 Efialte, 162, 171 Eichmann A., 273 Einstein A., 160, 161 Epicuro, 171 Eraclito, 31 Erikson E., 104, 137 331

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Feuerbach L., 39, 200 Finley M.I., 168, 170 Finn E., 68, 154 Formenti C., 86 Foucault M., 72, 98, 99 Frankel O., 86 Freud S., 18, 38, 143, 160, 161, 200, 201, 230 Friedman M., 259 Friedman T., 229 Fromm E., 155, 231, 242 Fukuyama F., 187, 188 Gaber G., 15 Gallino L., 263 Galton F., 178, 179 Gardner H., 70, 142, 238 Goleman D., 240 Gouges O. (de), 163 Gramsci A., 79, 146, 198, 233 Hamill P., 86 Harding W.G., 177 Harvey D., 119 Hayek F.A. (von), 94, 97, 101, 104, 184, 185 Hegel G.W.F., 28, 31, 55, 66, 214, 226 Heidegger M., 102, 229 Hill J.J., 86 Hitler A., 159, 176, 179, 268 Hobbes T., 98, 191 Hobhouse L.T., 164 Hobsbawm E., 183 Hoffer E., 270 Hoover H., 177 Horkheimer M., 20, 103 Hubbard A., 86 Huntington S.P., 118 Hussein S., 192 Huxley A., 63 Hylland Eriksen T., 147 Idomeneo di Lampsaco, 171 Ingham G., 107 Ippocrate, 213 Jacoby S., 149

Jaspers K., 176 Jenkins H., 190 Jobs S., 261 Kafka F., 275 Kaganovicˇ L., 273, 274 Kant I., 33, 55, 210, 214, 251 Kelly K., 53, 218, 219 Keynes J.M., 87, 94, 95, 123, 185 Klein N., 194 Knight F., 104 Krauthammer C., 180 Kuznets S., 99 La Boétie É. (de), 156 Lacan J., 141, 148, 203, 266 Le Bon G., 127 Leopardi G., 27 Levinas E., 111 Lippmann W., 151 Locke J., 30 Losurdo D., 9 Lowen A., 140 Mannheim K., 165 Manzoni A., 262 Marcuse H., 88, 128, 155-157, 228 Marshall A., 254 Marx K., 45, 46, 53, 67, 154, 200, 228, 233 May K., 176 Mazzucato M., 261 McLuhan M., 132-135, 156, 201 Milani L. (don), 255 Mill J.S., 121, 252 Mises L. (von), 108 Mitrokostas P., 86 Montaigne M. (de), 43, 258 Morin E., 258 Morozov E., 157 Mussolini B., 177 Nichols T., 150 Nietzsche F.W., 27, 32, 37, 51, 91, 98, 109, 201, 202, 205, 221, 222, 224, 229, 250, 251

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Obama B., 260 Packard V., 126-128, 144, 152 Paine T., 165 Palme O., 161 Panikkar R., 229 Parmenide, 31 Pascal B., 49, 201, 202 Pasolini P.P., 28, 35, 253 Pericle, 162, 168, 169-171, 176, 196 Perniola M., 50 Piaget J., 40 Pinochet A., 161 Platone, 24, 29, 30, 35, 53, 83, 91, 114, 121, 160, 162, 170, 214-217, 220, 239, 245, 270 Plotino, 32, 225 Plutarco, 171 Polanyi K., 112 Popper K., 16, 18, 19, 21, 24, 39, 148, 152, 216-218, 265 Postman N., 53, 209 Powell L.F., 87-89 Rawls J., 105, 186, 197, 236 Reagan R.W., 185 Rheingold H., 65 Richtel M., 64 Riesman D., 36, 126, 128 Rodrik D., 123 Roosevelt F.D., 179, 181 Rosanvallon P., 100 Rosenberg A., 176 Rosen L.D., 244 Rousseau J.J., 162-164 Russell B., 205, 223, 226

Strauss L., 197, 198 Swire P., 194 Sydnor E.B. (Jr.), 87 Thatcher M., 185 Tocqueville A. (de), 174, 175 Trasimaco, 170 Trump D., 222 Tsipras A., 195 Tucidide, 170, 196 Turkle S., 22, 139, 141, 145, 146 Twenge J.M., 144, 237 Urbinati N., 271 Valéry P., 124 Vattimo G., 221, 222 Vico G., 213 Virilio P., 72, 83 Vittorio Emanuele III (re d’Italia), 179 Weber M., 169 Whyte W.H., 128 Wilson C., 127 Winnicott D., 143 Wittgenstein L., 275 Wojtyła K. (Giovannni Paolo II, papa), 234 Wolin S., 180 Wright Mills C., 52, 78, 233 Zakaria F., 194, 195

Sennett R., 71, 74, 76, 107 Smith A., 93 Snowden E., 193 Socrate, 24, 28, 229 Solone, 168 Spinoza B., 42 Stalin I., 273, 274 Stannard D., 172 Stiglitz J., 117, 118 Stoddard L., 177

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