Fidia. L’uomo che scolpì gli dei

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Fidia. L’uomo che scolpì gli dei

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Storia e Società

Massimiliano Papini

Fidia L’uomo che scolpì gli dei

Editori Laterza

© 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Prima edizione gennaio 2014

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Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0992-2

Introduzione Come dar corpo a un fantasma Marzo 1958: durante una campagna di scavo degli archeologi tedeschi nel santuario di Zeus a Olimpia, nel settore di un edificio identificato con l’officina di Fidia, riemerge una brocchetta a vernice nera1 dell’altezza di 7,7 cm; una scoperta sensazionale, perché sul fondo esterno è graffita un’iscrizione parlante di possesso: «Io sono di Fidia» (fig. 1); e ancor più clamorosa poiché dal terreno di Olimpia non è uscita quasi nessuna delle migliaia di statue bronzee di atleti che ne costituivano il vanto. Con quella razione di un quartino Fidia si centellinava la gloria, commentò Cesare Brandi, benché gli scavatori abbiano pensato a un uso sacrale del vaso. Qui il libro può già finire, perché questa è l’unica testimonianza personale dello scultore ateniese nel «secolo di Pericle», il più puramente «classico» del passato «classico»; il Maestro considerato spesso dai moderni un genio universale, pari a Michelangelo, a sua volta esaltato come uno dei tanti «nuovi Fidia» (come l’italo Fidia, Canova, e quello del Nord, Thorvaldsen), o a Leonardo, immaginato dal pittore e trattatista Giovanni Paolo Lomazzo su un’isola greca a discutere con lui un po’ di tutto nel Libro dei Sogni (1560). «C’è qualcosa di comparabile alle opere di Omero, a una statua di Fidia, a un quadro di Raffaello, a una tragedia lirica di Gluck, a un quartetto o a una sonata di Haydn?» chiese Ingres, convinto di come non ci fosse più niente da trovare nell’arte dopo Fidia e Raffaello se non perpetuare la tradizione del bello; «giovani che aspirate a essere i sacerdoti della bellezza... amate con devozione i 1   Provienente dal cosiddetto Annesso T: Mallwitz, Schiering 1964, p. 169, n. 1, tav. 64, fig. 45.

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Fig. 1. Olimpia, brocchetta strigilata con iscrizione «Io sono di Fidia» (440/30 a.C.). Olimpia, Museo.

maestri che vi hanno preceduto. Inchinatevi dinanzi a Fidia e dinanzi a Michelangelo. Ammirate la divina serenità dell’uno, l’angoscia violenta dell’altro», così Rodin nelle Conversazioni del 1911. Chiaro che Fidia sia il massimo. Purtroppo anche nell’elusività. Le statue in oro e avorio, in bronzo e in marmo? Scomparse, salvo la decorazione del Partenone: ma egli vi mise davvero mano? La perdita non stupisce, poiché con il crollo della civiltà grecoromana pochissimi sono i grandi scultori greci dei quali si siano trasmessi frammenti originali (ancor peggio è andata ai pittori), e, se la storia dell’arte antica è un’archeologia delle assenze, dopotutto lo stesso è capitato alla letteratura: su novanta tragedie di Eschilo sette sono quelle conservate; in più, le maestose statue crisoelefantine (in oro e avorio) in due templi, l’Atena chiamata Parthénos nel Partenone e lo Zeus seduto in trono di Olimpia, grazie alle quali Fidia ha guadagnato la fama di più alto banditore della religiosità greca, già nell’antichità cominciarono a guastarsi, un po’ per il trascorrere del tempo, un po’ per colpa degli uomini. Vediamo come, a partire dalla Parthénos, almeno dal 385/4 a.C. sottoposta a un’ispezione (a ritmo penteterico?) con modalità non precisata da parte dei tesorieri di Atena che ne comunicavano ai successori l’integrità, operazione registrata su una stele in bronzo nel «Partenone»2. A giudicare dagli inventari, la Nike sulla sua mano destra portava in testa una corona,   Donnay 1968, p. 22, nota 1; Roux 1984, pp. 312-314; Prost 2009, p. 252.

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segnalata sin dal 428/7 e danneggiata prima del 402/1 a.C.; da quel momento sino al 385/4 a.C. quattro sue foglie d’olivo in oro vengono registrate a parte3. Nel 295 a.C. un certo Lacare, un democratico radicale divenuto tiranno di Atene con un colpo di Stato, è detto da un comico del III secolo a.C. aver spogliato Atena, mentre per altri scrittori più tardi depredò l’«ornamento» in oro asportabile della statua e arraffò dall’acropoli alcuni scudi nello stesso materiale per il pagamento delle truppe mercenarie; incalzato dagli avversari sostenuti da Demetrio Poliorcete, re di Macedonia, l’empio fu costretto l’anno dopo a fuggire in Beozia, dove venne però ucciso perché sospettato di possedere grandi ricchezze4. Capitavano, simili ruberie: nel 396 a.C. anche Dionisio I, tiranno di Sicilia, sottrasse allo Zeus Olimpio di Siracusa il mantello d’oro e gliene fece indossare uno di lana, commentando: «D’estate l’oro è pesante, d’inverno tiene freddo: una veste di lana si adatta a tutte le stagioni»5. Per la Parthénos i racconti possono però adombrare gli oggetti preziosi accumulatisi nella cella del tempio piuttosto che le placche rimovibili in oro di vesti e attributi; d’altronde, nel caso di un loro effettivo furto che avrebbe denudato il manichino ligneo sottostante, sostituirle sarebbe costato moltissimo agli Ateniesi, allora bisognosi di un appoggio finanziario da parte di un ricco sovrano ellenistico; eppure, mancano testimonianze al riguardo, mentre il viaggiatore della Grecia in un «autunno dorato» (nel terzo quarto del II secolo d.C.), Pausania, che pur connette il trafugamento dell’ornamento alla statua, ad Atene pare vederla inviolata. Più tardi poté subire qualche danno ancor più grave, suggerito dal rifacimento e dal leggero ridimensionamento del piedistallo, a causa di un incendio desumibile per via archeologica che sconvolse la cella del tempio, e per il quale svariate sono le proposte di datazione, anche in eventuale connessione con la calata degli Eruli (267 d.C.) o con il raid dei Visigoti (396 d.C.)6:

3   Per maggiori dettagli si vedano: Donnay 1968 (un’aggiunta alla statua?); Harris 1995, pp. 132 sg. 4   Ateneo IX,405f; Pausania I,25,7; 29,16; Plutarco, Moralia 379d: Harris 1995, p. 38; Scheer 2000, pp. 279-283. 5   Cicerone, N.D. III,34,83; Valerio Massimo I,1 ext. 3; Clemente Alessandrino, Protr. 4,52,2; Eliano, V.H. I,20. 6   Dinsmoor 1934 (160/50 a.C.); Stevens 1955, pp. 276 sg. (età romana); Korres 1994, pp. 140-146 (non prima del III secolo d.C.). Sintesi in Lapatin 2001, pp. 88 sg., e Davison 2009, I, pp. 144-147.

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l’opera si rovinò per essere rimpiazzata da una meno sontuosa? Ma come poterla sostituire senza restare insoddisfatti? Fatto sta che la Parthénos, probabilmente ormai malconcia, venne rimossa con la conversione del Partenone in tempio cristiano, nella seconda metà del V secolo d.C., in una fase di disgregazione irreversibile della città e di dura offensiva contro la religione tradizionale. Al filosofo neoplatonico Proclo (412-485 d.C.) parve in sogno che gli si avvicinasse una donna di magnifico aspetto, avvertendolo di preparare al più presto la casa, perché la dea voleva dimorare presso di lui, quando la statua dal Partenone fu spostata «da coloro (i Cristiani) che muovono anche ciò che non deve esser mosso»7; dopodiché se ne perdono le tracce, a meno che una notizia su un fuoco divino che coinvolse anche una Minerva ad Atene non ne implichi la definitiva distruzione in un incendio8. Pure lo Zeus di Olimpia nel tempo subì parecchi traumi. A uno scultore dell’inizio del II secolo a.C., Damofonte di Messene, come Fidia specializzato in immagini di divinità, fu richiesto di ripararne l’avorio spezzatosi per cause non specificate; seppe restaurarlo con tanta accuratezza da meritare «onori» non meglio precisati dagli Elei; il privilegio di rimettere in sesto la creazione del predecessore (Canova non ardì toccare con lo scalpello i marmi del Partenone) poté magari appagarlo tanto da non esigere un pagamento, come fece a Leucade in Arcadia dopo aver riparato una statua in un santuario di Afrodite, il che gli fece meritare diversi onori da parte della città, tra cui un’effigie bronzea9. Non solo restauri però: da Pausania e da qualche testimonianza epigrafica non anteriore al II secolo d.C. si apprende che i discendenti di Fidia erano detti i «lucidatori» per aver ricevuto dagli Elei il compito di togliere ogni deposito prima di cominciare a ripulire la statua; la carica fu probabilmente instaurata non con il capostipite ancora vivente o poco dopo la sua morte, bensì in tempi di mania per la ricostruzione   Marino, Procl. 30: commento in Di Branco 2009.   Acta Martyrum, Passio Philippi 5.   Per il presunto terremoto del II secolo a.C. si vedano: Dinsmoor 1941; Younger, Rehak 2009, pp. 93 sg. Per le operazioni invece considerate correlabili a un terremoto o nel 402/1 o nel 373 a.C. si vedano: Hennemeyer 2012, p. 125; Mallwitz 1999, pp. 245-251. Per l’intervento di Damofonte si veda Pausania IV,31,6; per il decreto della città di Leucade IG IX, 12, 4, 1475 si veda Sève 2008, pp. 125 sg. 7 8 9

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di genealogie prestigiose, vere o fittizie che fossero (ai giorni dell’imperatore filelleno Adriano?)10. Certo, malgrado ogni cura, contro i sacrileghi c’era poco da fare. Sempre all’inizio del II secolo d.C. il retore greco Luciano ricorda un recente episodio di due ladri che avevano tosato due riccioli dello Zeus, ciascuno del peso di 6 mine (= 2,856 kg), mentre una figura sul regolo anteriore del trono era scomparsa al tempo di Pausania, non si sapeva più come11. In precedenza, un «Cesare pazzo», Caligola, poco prima di morire ne aveva vagheggiato il trasferimento a Roma per sostituire al volto barbato il suo, imberbe, ma il piano megalomane fallì: si narra che la statua del dio si fosse messa a ridere in modo così fragoroso da far collassare le intelaiature e fuggire gli operai; la nave spedita per il suo trasferimento fu poi colpita da un fulmine; infine, i tecnici per la rimozione si convinsero che, se mossa, l’opera si sarebbe distrutta, e P. Memmio Regolo, il sovrintendente alle operazioni, pospose lo spostamento anche a causa dei suddetti portenti12. Se lo Zeus fidiaco a Roma non arrivò, giunse forse a Costantinopoli, trasporto eventualmente favorito dagli editti di Teodosio I nel 391/2 d.C. sulla chiusura dei templi pagani e anteriore al 425 d.C., allorché il tempio a Olimpia fu danneggiato da un incendio; nella «nuova Roma», nel cosiddetto distretto di Lauso, poté finire insieme ad altri capolavori, come l’Afrodite Cnidia di Prassitele, per essere lì distrutto da un incendio nel 475 d.C., ma le incertezze in merito sono tante13. D’altronde, i Bizantini amarono le «meravigliose» statue greche, funzionali a proclamare negli spazi pubblici la grandezza e la legittimità del potere imperiale: Costantinopoli ospitava altre opere di Fidia? Nel X secolo d.C. il vescovo di Cesarea in Cappadocia, Areta, redasse un commento a un discorso pronunciato a Smirne nel 170 d.C. da un retore greco, Elio Aristide; secondo lui un’Atena di Fidia si trovava nel foro di Costantino all’ingresso del Senato, dove, denominata «Terra», era esposta quale pendant   Pausania V,14,5: Donnay 1967.   Luciano, JTr 25; Tim. 4; Pausania V,11,3.   Svetonio, Cal. 22; 57; Giuseppe Flavio, AJ XIX,1,8-9; Cassio Dione LIX,28,3. 13   Viene lì citato come Zeus in avorio (di qui l’illazione gratuita che la statua fosse stata ormai spogliata dell’oro) da una fonte dell’XI-XII secolo d.C., Cedreno, Compendium Historiarum I,564 (il cosiddetto Cedreno A), malgrado lo scetticismo dei bizantinisti su tale testimonianza; sintesi in Stevenson 2011. 10 11

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di un’altra scultura raffigurante Teti, madre di Achille, battezzata «Cielo» e distrutta dai Costantinopolitani al tempo della IV crociata nel 1203/4; Niceta Coniate, storico bizantino, informa sulla fabbricazione in bronzo e sull’altezza di circa 30 piedi (tra i 6/9 m: insieme o senza la «base»?), oltre che sui dettagli di chioma, vestiario, posizione della mano sinistra intenta a sollevare un lembo della veste e dell’altra protesa verso sud, gesto interpretato dal popolo alla stregua di un segno magico per invitare i Franchi in città: ecco il motivo della demolizione14. Peccato che il vescovo rimanga l’unico ad attribuire a Fidia quell’Atena, designata quale «Lindia» da altri, a loro volta responsabili di qualche confusione; siccome anche gli azzardi moderni di identificazione con l’Atena cosiddetta Prómachos o con la Lemnía lasciano molti punti in sospeso, il parere di Areta desta dubbi, tanto più che a Fidia si erano cominciate ad ascrivere statue nell’Ippodromo e nel Palazzo di Costantinopoli che sue senz’altro non erano15. Quello delle attribuzioni fuorvianti, imputabili alla fama dell’artista, è un problema emerso non per la prima volta in tempi di scarsa comprensione storica di un passato ormai remoto, ma già in epoca greco-romana. Per esempio, un Asclepio in oro e avorio a Epidauro realizzato all’inizio del IV secolo a.C. da Trasimede di Paro è assegnato a Fidia da un apologeta cristiano della seconda metà del II secolo d.C.16, e non è difficile capire perché: l’artista ateniese veniva considerato il campione nel campo delle statue in oro e avorio, tanto più che quell’Asclepio nello schema generale era ricalcato sul suo Zeus. Ma lasciamo stare gli scrittori cristiani, ansiosi di polemizzare contro le immagini divine plasmate da mani umane, perché anche svariati autori più affidabili – ma sempre a tanta distanza dai giorni di Fidia – scivolano in contraddizioni non sempre sbrogliabili. Così, all’agorá di Atene, nel santuario della Madre degli Dèi, la frigia Cibele, si trovava una statua ascritta da Pausania e dagli informatori locali a Fidia e da Plinio il Vecchio all’allievo Agoracrito17; come decidere per l’uno o l’altro? Il culto

  Scolio ad Aristide, Or. 34,28; Niceta Coniate, Chronike Diegesis 558-559.   Scettico Stichel 1988 (versus Linfert 1989); si vedano anche: Bassett 2004, pp. 188-192; Davison 2009, I, pp. 283-286. 16   Atenagora, Legatio pro Christianis 17,4. 17   Pausania I,3,5 (Fidia; ma si veda anche Arriano, Peripl. M. Eux. 9,1); Plinio, 14 15

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pare esser stato accolto in Attica verso la fine del V secolo a.C., in un clima di precarietà (la peste scoppiata intorno al 430 a.C., sommata alla Guerra del Peloponneso) che favorì la diffusione di nuove pratiche religiose; ma è plausibile che in quegli anni Fidia non fosse più in vita, per cui stavolta pare più credibile Plinio. Proprio quest’ultimo, lo scrittore romano della seconda metà del I secolo d.C. che nei libri XXXIV-XXXVI della vasta opera enciclopedico-compilativa, la Storia Naturale, utilizza «scritti d’arte» anteriori anch’essi perduti, elogia Fidia come sommo artista e ne elenca le opere, seppur in modo succinto e talora per noi criptico, come un «altro» colosso nudo; alcuni suoi bronzi, a dargli retta, erano visibili a Roma, nel Campo Marzio meridionale. Il luogo di maggiore concentrazione era il tempio della Fortuna di Questo Giorno (aedes Fortunae Huiusce Diei), identificabile con un periptero circolare nell’area sacra di Largo Argentina, votato il 30 luglio del 101 a.C. da Q. Lutazio Catulo per la vittoria sulla tribù germanica dei Cimbri: nei pressi si trovava un’Atena/Minerva offerta da un Paolo Emilio (il L. Emilio Paolo vincitore a Pidna nel 168 a.C. su Perseo di Macedonia?), e nello stesso edificio due figure vestite di pallio erano state dedicate da Catulo in persona18. Erano veramente di Fidia? Risposta impossibile, pur con l’avvertimento che sbandierare tale paternità poteva conferire maggior lustro all’ornamento e al suo dedicante, e quel nome doveva talora essere pronunciato senza fondamento al cospetto di statue molto apprezzate, tanto più nei casi di assenza/perdita di basi iscritte con la firma. No, anzi, addirittura in presenza delle basi. È sintomatico un epigramma di Marziale, l’acuto osservatore dei tipi e dei comportamenti sociali della Roma del I-II secolo d.C., dove si chiede di chi sia un bronzetto di Ercole seduto, transitato per mani illustri (Alessandro Magno, Annibale e Silla) e finito nella «collezione» di un pretenzioso perito d’arte, Nonio Vindice, tanto abile da saper conferire il nome dell’autore a opere prive di firma: beato lui, giacché a Roma i capolavori erano tanti e non sempre ben identificabili, e per contemplarli ci volevano luoghi silenziosi Nat. XXXVI,4,17 (Agoracrito). Per le proposte divergenti di suo recupero: Strocka 2005, pp. 138-140 (Fidia); Despinis 2005 (Agoracrito). 18   Così Plinio, Nat. XXXIV,19,54. Per il tempio si veda Atlante di Roma 2012, p. 503, tav. 216 (M.T. D’Alessio).

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e tranquillità, presupposti intralciati dall’accumularsi dei più svariati affari19. La statuetta si mette a ridere e in un dialogo fittizio gli domanda: orbene tu, poeta, il greco non lo sai? Poiché la base è iscritta e reca il nome. La replica: leggo di Lisippo [un altro grande scultore sì, ma del IV secolo a.C.], avevo creduto di Fidia!20 Fingere l’autografia di Fidia è una massima lode e un sinonimo di perfezione (Lisippo non ne sarebbe stato contento): in definitiva, egli fu l’artefice per eccellenza, un «classico» anche per gli Antichi, pur senza una parola codificata per qualificarlo come tale. A Roma, più avanti nel tempo il dilemma Fidia-Lisippo si ripropone. Uno storico bizantino del VI secolo d.C., Procopio di Cesarea, su una fontana nel Foro della Pace, il monumento più bello che il mondo avesse visto e ospitante molte opere illustri in parte già razziate da Nerone in Grecia per decorare la Domus Aurea e poi lì trasferite da Vespasiano, ricorda l’esistenza di un bue di bronzo, a suo dire di Fidia o di Lisippo, un’incertezza derivante dall’assenza di iscrizione e dal fatto che «molte delle statue che trovansi in quel luogo sono opera di questi due»; è però a stento concepibile l’assegnazione a Fidia, il quale, a differenza di Mirone, artefice di una famosa vacca anch’essa nel Foro della Pace, non pare aver mai lavorato a figure di animali a tutto tondo. Sempre secondo Procopio un’altra statua di sua mano si trovava nello stesso complesso, come assicurato stavolta da un’epigrafe, presumibilmente alla stessa maniera di quelle trovate nel corso dei recenti scavi dei Fori imperiali e rifatte dopo un incendio nel 192 d.C., con il nome di un artista seguito dall’etnico («ateniese»: Athenaîos)21. Inoltre, a quei tempi nell’area del Quirinale doveva essere nota un’altra opera «di Fidia», che ne ha incarnato l’immagine più vulgata sino al progressivo recupero storico della «vera» Grecia dalla fine del Settecento (fig. 2). Al centro dei basamenti rifatti dei celebri Dioscuri in marmo in atto di domare i cavalli campeggiano le iscrizioni opus Phidiae e opus Praxitelis, incise nel 1589, quando sotto la guida di Domenico Fontana furono spostati nel luogo attuale e restaurati; si tratta tuttavia di copie rinascimentali di antiche «didascalie»,   Plinio, Nat. XXXVI,4,27.   Marziale IX,44. 21   Procopio, Goth. IV,21,12. Sul Templum Pacis e sulle basi si veda La Rocca 2001, pp. 195-207. 19 20

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Fig. 2. Dioscuri del Quirinale: opus Phidiae e opus Praxitelis (II-III secolo d.C.).

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ricondotte con una cauta ipotesi a un’operazione di ripristino della prima metà del V secolo d.C. Dopo un’interpretazione allegorica di Fidia e Prassitele come filosofi indovini trasmessa dalla «guida medievale di Roma», i Mirabilia Urbis Romae, per primo fu Petrarca a ravvisarvi un certamen per la fama tra gli scultori22. Ma cosa c’entravano con i Dioscuri? Niente, se non a incrementarne il prestigio come bellissimi ornamenti di un luogo pubblico: i colossi furono scolpiti solo verso la fine del II secolo d.C.23, sfruttando spunti formali e motivi eterogenei, tra cui una fiammeggiante chioma, le cui fonti di ispirazione sono inconcepibili prima del IV-III secolo a.C.; magari l’associazione a Fidia venne in mente più tardi a un presunto conoscitore, non tanto perché memore delle pose di qualche figura sul frontone ovest e sul fregio del Partenone quanto piuttosto per il grande formato, evocativo dei nomi di due supremi scultori proverbialmente accoppiati. Tante difficoltà insomma: gli originali? Chimerici. Le «fonti» letterarie? Contraddittorie. L’epigrafia? Non sempre fededegna. Gli elementi cronologici inconfutabili? Il 438/7 a.C., anno della erezione/dedica della Parthénos nel Partenone, mentre le altre date vanno affiancate da un «pressappoco». Così due monografie fondamentali su Fidia in lingua tedesca24 e italiana25 presentano un titolo inquietante già in partenza: Problemi fidiaci. Di nuovo alla domanda iniziale: com’è possibile scrivere su di lui senza le statue? Perché di alcune conosciamo le repliche. Nelle tante rinascenze del «classico», prima i sovrani ellenistici e poi la classe dirigente romana e i gruppi sociali che ne scimmiottavano i costumi negli spazi pubblici e «domestici» collocavano le autorevoli opere d’arte dei Greci per intenti politici (la rivendicazione dell’eredità di Atene), per esigenze di autorappresentazione (sfoggio di un’educazione alla greca e del rango) e per la comunicazione di determinati messaggi tramite i soggetti 22   Per la genesi della leggenda degli scultori come filosofi si veda Thielemann 1993; per il certamen si veda Petrarca, Africa VIII,908-910; per dettagli sulle iscrizioni e per l’ipotesi di datazione si veda Gregori 1994. 23   A dispetto di Furtwängler 1893, pp. 128-137, il quale vi vide repliche di originali coevi al Partenone un tempo a Taranto (quello di Fidia allora identificabile con il colosso nudo ricordato a Roma da Plinio; si veda anche Moreno 2010). 24   Langlotz 1947. 25   Becatti 1951.

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consoni ai luoghi, finalità comunque conviventi anche con il godimento estetico degli ornamenti: non ci furono però mai «musei» frequentati da visitatori interessati alle origini storiche delle forme. Se nel II-I secolo a.C. quella domanda fu soddisfatta dal trasferimento nell’Urbe di tesori artistici frutto di bottini di guerra sempre più ricchi raccolti dai generali trionfatori in Grecia e in Asia Minore, le spoliazioni divennero in seguito più episodiche e limitate a iniziative imperiali. Il febbrile mercato d’arte – non mancarono i «collezionisti» e gli intenditori con competenza vera o presunta disposti a spendere cifre da capogiro e nemmeno i falsari – trasse alimento anche dalle riproduzioni di creazioni precedenti, implicanti una decontestualizzazione e una perdita parziale dei significati iniziali, coperti da altri: fermo restando il contenuto sacro di un’immagine in cui la dea si incarnava, un conto era la Parthénos nel Partenone, un altro la sua riproposizione dentro un vano rappresentativo nella probabile biblioteca del santuario di Atena a Pergamo nel II secolo a.C. e un altro ancora in una casa di Atene, dove nel III secolo d.C. (?) pare essere stata occultata una delle repliche per noi più rilevanti, eventuale segno di come il proprietario volle risparmiarle ogni danno; più in linea con l’originale, invece, l’impiego di una (presunta) «copia» verosimilmente del II secolo a.C. all’interno del tempio di Atena Poliás a Priene. Anche all’arte «classica» non fu estranea la prassi dei duplicati e delle ripetizioni: arte e serialità non sono termini qualitativamente opposti. Eppure, dal II secolo a.C. e in particolare da Augusto in poi, con l’affermazione di orientamenti culturali che condussero a una cristallizzazione dell’arte greca e dei suoi soggetti in base alle convenienze «decorative» e all’espressione di determinati valori etici nell’attualità romana, l’attività dei copisti si incrementò a tal punto da divenire quasi un’industria orientata alla vendita sul mercato. L’esistenza di più repliche della medesima opera, componenti un tipo statuario, attesta la celebrità di un originale, talora riprodotto in miniatura su monete e gemme; deduzione non strettamente aritmetica, perché la casualità della documentazione superstite non può far escludere che un unico esemplare sinora conosciuto rimandi a un originale famoso. Produzione massificata non equivale poi a dire riproduzione meccanica. Anzitutto, gli scultori in tutto l’impero ricorrevano sì a calchi in gesso, integrali o parziali, dall’originale, ma le repliche, anche quando precise o

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di grande qualità, non sono mai prodotti neutri e nei panneggi e nei nudi risentono degli stili correnti all’epoca dell’esecuzione; grazie a quei peculiari stili, da tenere distinti dal linguaggio formale dell’originale sottostante (separazione non facile persino per un occhio molto addestrato), anch’esse possono essere datate; ciò consente allora di comprendere in quale periodo un modello greco ebbe più successo: l’Apollo nel tipo cosiddetto Kassel attribuito a Fidia fu molto amato specie in età adrianea. In parecchi casi gli archetipi di partenza potevano poi essere modificati per quanto riguarda dettagli, attributi, dimensioni e addirittura identità per sofisticate scelte da parte dei copisti o dei committenti oppure per semplificazioni e impoverimenti. Quando perciò si ha la fortuna di disporre di più repliche, c’è bisogno di una loro recensione – come si fa in filologia con più manoscritti con lo stesso testo –, nella maggior parte dei casi già compiuta negli studi del Novecento, per capire quali permettano il più consono recupero di un archetipo, con la seguente consapevolezza però: che, come le traduzioni, sono sempre delle belle infedeli, e senza il «ma». In aggiunta, le repliche sono per lo più in marmi bianchi con un trattamento pittorico limitato, quando conservato o recuperabile, per cui non danno che un’idea approssimativa dei connotati degli originali, spesso in bronzo (il discorso cambia qualora anch’essi in marmo, in una relazione comunque filtrata dai calchi); il rapporto originale-copia si allenta ancor più per le statue in oro e avorio, impedendo di afferrare uno degli scarti più vistosi tra Fidia e gli scultori contemporanei; ciononostante, se da una parte le riproduzioni non possono far rivivere l’effetto antico di un’opera come la Parthénos, dall’altra, pur immiserendola, almeno ne rendono nota la sagoma esterna. Spetta poi ai moderni rimediare con l’immaginazione o con le ricostruzioni, come quelle grafiche di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1755-1849), il quale all’inizio del XIX secolo fece scoprire ai contemporanei la ricca policromia delle statue greche, ben distante dal vagheggiamento di un’antichità candida e per così dire virginale e dal mito di una Grecia bianca, oggi all’opposto persino confrontata con i colori psichedelici del movimento «Peace and Love» degli anni Sessanta (Philippe Jockey)! Quali le opere scelte? Per lo più quelle di un canone relativamente ristretto dal V al II secolo a.C., e alla diffusione e commer-

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cializzazione dei modelli concorsero le officine di Atene e le loro filiali in Italia; diverse sono le firme di copisti accompagnate dall’etnico Athenaîoi quale marchio di qualità, tanto che una copia della Parthénos al Museo Nazionale Romano all’inizio del I secolo d.C. reca la firma di un Antioco Athenaîos, senza indicare, perché scontato, il nome dell’autore dell’originale, mai presente, eccetto casi non limpidissimi: su due basi di statuette dalla Cilicia e da Paphos (Cipro) compare l’aggettivo «fidiaco», in un caso abbinato al termine cháris, grazia26; su un frammento di colonnetta in calcare (del II secolo d.C.?) da Timgad in Algeria un’iscrizione latina maldestramente incisa segnala poi che lì sopra si trovava un signum in avorio di Eros fatto ad Atene da Fidia, ma al massimo ne sarà stata una copia in formato ridotto, effettiva o spacciata per tale27. È naturale quindi che parecchie sculture nell’agorá e sull’acropoli di Atene, mete per eccellenza dei viaggiatori antichi e moderni, e in Attica, fossero state replicate: una statua dell’agorá si lamenta di essere costantemente imbrattata di pece su petto e dorso per i calchi giornalieri tratti dagli scultori!28 Di qui la chance che il patrimonio di repliche includa quelle di Fidia esposte ad Atene o in altre città dove fiorirono le officine di copisti, come Efeso in Asia Minore; più saltuarie invece le riproduzioni di statue un tempo altrove ubicate, in siti sì di alta rilevanza storica e culturale, ma ai margini del circui­ to copistico, come Platea, Delfi e finanche Olimpia. Ma come riconoscere Fidia tra le sculture romane giunte fino a noi nell’anonimato? Nell’ambito di un confronto con la sapienza, l’arte di tutte le arti, che palesa il vero aspetto immutabile soltanto a chi ha la vista acuta, stando a Filone di Alessandria29 si diceva che tutte le opere di Fidia in bronzo, avorio, oro e altri materiali mostrassero i segni di una sola arte (téchne), a tal punto che sia gli esperti sia gli ignoranti potevano subito accorgersi del suo tocco. Eppure, le cose sono più complesse che per l’on dit di Filone, un 26   Linfert 1981; Linfert 1982, pp. 60 sg. (collegamento con la Lemnía?); Davison 2009, II, pp. 1164 sg. 27   Signum de ebo/re Cupidinis dei/ quot aput Athe/nas fabrica/tum per Phidiam: Le Glay 1979. Si vedano anche: Davison 2009, II, pp. 1161 sg.; Pellegrini 2009, pp. 146 sg. 28   Si veda il conteggio compiuto da Despinis 2008, pp. 301-317; per la statua si veda Luciano, JTr. 33. 29   Filone di Alessandria, De Ebrietate 88-89 (inizio del I secolo d.C.).

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commentatore di testi biblici che si astiene dallo specificare in che cosa consista quell’arte irripetibile; non esiste – o non siamo in grado di distinguerla – una persistente e inconfondibile cifra di Fidia (come il modo di tracciare una piega), il quale non lavorò sempre alla stessa maniera: sarebbe irragionevole attenderselo per la molteplicità dei soggetti affrontati e per i cambiamenti in una carriera lunga circa cinquant’anni. Un primo aiuto può venire da qualche informazione iconografica delle «fonti» più descrittive. Ma se le indicazioni, per quanto significative, restano per noi generiche (la pulchritudo, ossia la bellezza da loro tanto decantata non è un’esclusiva di Fidia per occhi moderni ai quali tante statue greche e romane paiono «belle»)? Può soccorrere l’attribuzionismo, la pratica del conoscitore sin dall’Ottocento vigente nella storia dell’arte e consistente nel supporre autore e cronologia relativa di un’opera basandosi sul linguaggio formale desumibile da altre sue sicure creazioni, sullo sfondo del panorama figurativo del tempo; nella mente dei conoscitori si forma una sorta di mappa mnemonica di carattere eminentemente visivo, in cui sono distribuiti e incasellati i caratteri distintivi di ogni segmento temporale e di ciascun artista. Un metodo approssimativo, perché le datazioni tendono a essere calamitate dagli anni tondi, per esempio, intorno al 500, al 450 o al 400 a.C., con poco o niente negli intervalli; e tutt’altro che infallibile, perché talora esposto alla soggettività dei singoli studiosi e un po’ banalmente concentrato sui soliti scultori più famosi, con colleghi sì dai nomi meno risonanti ma in grado di ricevere committenze altrettanto lusinghiere e di servirsi di analoghi stilemi e formule. Indicativo è un tipo statuario (cosiddetto Medici) di un’Atena alta circa 3 m, con lancia nella mano destra e scudo sollevato nella sinistra, che, trasmessa da parecchie repliche in marmo, rinvia a un’opera senz’altro di matrice ateniese o attica, somigliante alla Parthénos nel viso e nelle pieghe del peplo; pensare che gli studiosi vi hanno riconosciuto a turno diverse statue fidiache di Atena, la Areía, la Lemnía e la cosiddetta Prómachos, quand’essa per varie ragioni non sembra identificabile con nessuna delle tre!30 D’altra

30   Sintesi sulle attribuzioni in Chamoux 1944-1945, e Lundgreen 1997, pp. 1317, ambedue con controindicazioni tecniche o iconografiche per lo più condivisibili.

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parte, non si può neanche essere troppo risoluti a escluderne la paternità fidiaca, ma, allo stato delle conoscenze, fissarsi sull’opzione è inutile; conviene piuttosto accontentarsi della nozione di «fidiaco» in senso più largo, tanto più che la Parthénos nel giro di poco divenne una delle immagini più autorevoli della dea in grado velocemente di ispirarne altre. Per queste ragioni l’attribuzionismo conta ormai molti detrattori tra gli archeologi, oggi presi quasi da un’ideologia anticonoscitiva e più propensi a esaminare le repliche nel loro tempo, ossia come prodotti romani in nuovi contesti, che a ricostruire gli originali perduti, in ogni caso condannati a rimanere degli amati senza possibilità di essere rivisti, per dirla con Winckelmann; inoltre, l’«arte romana» non è riducibile a mera arte dei copisti, e il graduale affinamento degli studi ha consentito di misurare le capacità di riformulazione talora eclettica del patrimonio formale greco. Tuttavia, al di là dei tanti appunti ora legittimi ora meno, è tramite l’attribuzionismo che la storia dell’arte antica ha acquisito al catalogo degli artisti opere capitali come il Doriforo di Policleto. Un esempio riguarda anche l’Atena Lemnía di Fidia, nel 1893 riscoperta da Adolf Furtwängler31 in un tipo con l’ausilio delle «fonti» e con la combinazione di sottili osservazioni stilistiche e iconografiche, logiche e tuttora valide, malgrado gli sforzi per sottolinearne la fragilità (anche la migliore ipotesi non è immune da uno o più punti deboli) da parte di critici incapaci però di proporre alternative migliori. Le premesse scoraggiano, ed è in parte vero che ognuno ha il Fidia che si merita, per riprendere il motto scherzoso di uno studioso, Ernst Buschor. Ciononostante, ci serviremo talora delle migliori acquisizioni dell’attribuzionismo, senza però ennesimi tentativi in questo senso, in fondo ormai tutti già azzardati e indimostrabili, sbagliati o giusti che siano. Tracceremo un profilo di Fidia nel contesto artigianale e culturale del tempo, senza trasformare l’individuo in un semplice pretesto per raccontare di nuovo il V secolo a.C. – anche se le opere si calano sempre in concrete situazioni storiche, politiche e religiose – e senza appianare le lacune, separando ciò

31   Furtwängler 1893, pp. 3-76, con attribuzione poi a Fidia di altre statue che oggi nessuno più oserebbe.

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che si sa da ciò che si crede di sapere o non si sa; e parleremo di un artista «interiormente pieno di figure», secondo il motto di Dürer riferito a un buon pittore, non solo immerso nella tradizione figurativa, ma in grado anche di crearla; un artista attivo nei decenni cruciali per gli svolgimenti dell’arte greca e dell’arte occidentale; un artista-regista, infine, che, senza limitarsi alla creazione dei modelli, ebbe un’altissima capacità esecutiva, perché la sua bottega con la mobilitazione di collaboratori e gregari competenti in vari tipi di lavorazione si lanciò in imprese «statali» dall’avanzata cultura tecnologica con ovvie ricadute formali. Sin qui l’artista, al quale proveremo a guardare pressappoco con gli occhi d’un tempo. E l’uomo? Una sua biografia antica, se mai esistita, non la conosciamo; e anche Buschor nel 1948 intitolò un libro Fidia l’uomo, precisando sin dalla prima pagina che a interessarlo non ne era la vita quotidiana, comune anche ad altre persone; meglio studiarne l’importanza per la storia dell’umanità quale interprete di primo piano del suo secolo, cui dette un contributo determinante nella visione e nelle rappresentazioni di divinità, eroi, mortali e animali, attinte «a sfere primordiali dell’essere e del divenire». Una bella scappatoia, perché della biografia più spicciola poco o niente sappiamo: si conoscono i nomi del padre e del fratello; inoltre, mentre l’allievo Alcamene era solito frequentare le agoraì con un seguito di tirapiedi, amanti e seguaci, Fidia le detestava, perché appassionato solo d’arte: splendida immagine di una vita assorbita dalla téchne, presa chissà dove e trasmessa da un filologo bizantino del XII secolo, Giovanni Tzetzes32. Sono poi tante le domande senza risposta o quasi. Ad Atene dove abitò? Ebbe mai una moglie e dei figli (in età matura fu però attratto dalla gioventù di allievi e atleti)? Quando nacque e morì? Sulla morte se non altro si può speculare. Cominciamo dalla fine e da un giallo scandaloso, un punto di partenza essenziale anche per fissare la sequenza delle sue opere; un giallo legato a una grande statua, a un grande politico e a una grande guerra.

32   Chiliades VIII,343-352; per esempio, anche di Nicia, pittore ateniese della seconda metà del IV secolo a.C., si racconta che fu tanto preso dalla realizzazione di una sua opera molto celebrata (la Nekyia omerica) da dimentircarsi di mangiare: Plutarco, Moralia 1093e (commento in Corso 2013, pp. 378, 388).

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I Il processo a Fidia: un «furto d’autore» Ad Atene, alla fine del VI secolo a.C., la riforma «isonomica» delle istituzioni determinò la nascita della democrazia formale, la sfida accettata dai ceti alti1. Clistene al posto di quattro tribù ioniche di tipo genetico introdusse dieci tribù territoriali, comprensive delle circoscrizioni di base, i demi, il nuovo sistema alla base dell’organizzazione delle istituzioni e del calendario, con un’appartenenza dipendente dalla residenza e non più dal rapporto familiare e personale; si istituì il Consiglio dei Cinquecento, cittadini d’età superiore ai trent’anni sorteggiati ogni anno in numero di cinquanta per ciascuna delle dieci tribù, con la funzione di sorvegliare l’amministrazione e le finanze, di formulare le proposte di decreto e di preparare l’ordine del giorno da sottoporre al voto dell’Assemblea popolare, investita degli essenziali poteri decisionali su ogni affare; fu infine escogitato uno strumento di risoluzione dei conflitti politici, l’ostracismo, una procedura preventiva contro il pericolo di tirannide volta a denunciare e a esiliare per dieci anni chi costituisse una minaccia per la democrazia. In seguito, contemporaneamente alla crescita della potenza di Atene, prima con Efialte, un inflessibile Robespierre avant la lettre, e poi con Pericle, si allargò e radicalizzò la partecipazione dei cittadini alla vita civica mediante l’introduzione di una retribuzione (misthόs), comunque al di sotto della soglia di sussistenza, per svolgere gli uffici di giudice dei tribunali e di membro del Con1   Per la delicata convivenza tra massa popolare ed élite ad Atene si veda Canfora 2011, pp. 4-15.

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siglio, benché le magistrature più importanti, come la strategia, una carica a vocazione militare e con notevole peso sulla politica della città, restassero riservate agli aristocratici con un’eccellente formazione anche culturale e oratoria; un apparato ossessivo di controlli imponeva inoltre ai magistrati e ai membri del Consiglio la verifica dell’adempimento dei compiti e il rendiconto gestionale alla fine del mandato. In una celebre orazione funebre per i caduti nel primo anno della Guerra del Peloponneso parafrasata da Tucidide – innegabile la sua fondamentale storicità –, Pericle dà un’immagine virtuosa e idealizzata del «governo nell’interesse della maggioranza» a mo’ di «manifesto» della democrazia reale: egli vi divenne «il primo» non solo per mezzo della carica di stratego in cui fu eletto pressoché continuamente per trent’anni, ma anche attraverso l’influenza sua e degli amici sull’Assemblea, e incentrò il programma di governo sulle imprese pubbliche e sull’aggressività «imperialistica». Malgrado la stabilità politica e sociale, Atene non era una città facile. Pericle aveva dei rivali, e sui suoi comportamenti pubblici e privati – non nettamente scindibili per l’intreccio carico di tensione dei due poli – circolavano tante voci riecheggiate dalla commedia attica (una quarantina circa i passi riservatigli tra 450 e 410 a.C.): Pericle il tiranno, Pericle il demagogo dalla retorica altisonante, Pericle l’inetto in campo militare, Pericle il dongiovanni. A proposito di eccessi sessuali. Fidia fu invidiato perché si diceva che ne organizzasse i rendez-vous con donne libere in visita agli edifici in costruzione: se la debolezza per le donne unisce molti «uomini illustri» del V secolo a.C., a non piacere era non tanto il tipo di relazione non illecito con etere, quanto piuttosto il segreto di quegli incontri, quando invece il popolo esigeva dai propri capi trasparenza assoluta, soprattutto in una città del face to face. È quel che si apprende dalla Vita di Pericle di Plutarco, biografo e retore greco del I-II secolo d.C.: dopo la riflessione sulle calunnie contro Pericle sia dei commediografi, malelingue che «hanno una punta affilata che ferisce e morde», sia degli storici, scatta il lamento: «È difficile per lo storico trovare la verità, quando i posteri hanno nel tempo l’ostacolo che si frappone alla conoscenza dei fatti, mentre chi è contemporaneo delle azioni e della vita dei personaggi contamina e distorce la verità, ora adulando,

I. Il processo a Fidia: un «furto d’autore»

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ora compiacendo, ora invece cedendo all’invidia e alla cattiva disposizione d’animo»2. Con pari difficoltà fanno i conti gli storici di oggi nel trattare del destino di Fidia. Le informazioni biografiche in genere scarne sul suo conto si infittiscono per il coinvolgimento in un processo dopo il quale perì (per alcuni con un rapporto di causa-effetto); eppure, già gli Antichi non avevano le idee chiare sui dettagli, perché le svariate fonti, attingendo per lo più ad altre di rado specificate – mancavano le note a piè di pagina! – e scritte a distanza di tanto tempo, comunicano e rielaborano molte versioni dei fatti misti a pettegolezzi, maldicenze e stereotipi, e la coerenza non ne è sempre la qualità fondamentale. A domande del genere «Quando si svolse il processo? Quali furono gli esatti capi d’imputazione? Come morì?» anche noi rispondiamo con ipotesi, solo in parte confortate e anzi talora complicate dalla lettura dei dati archeologici. Furto d’oro e/o avorio da una statua; clima avvelenato da invidie; giochi di potere con annessi colpi bassi e complicazioni per uno statista; le donne: questi gli intrighi intuibili dietro vicende narrate in modo pur tanto discorde. Presentiamo le fonti in ordine temporale, cominciando dalla più vicina all’episodio3. In una commedia di Aristofane, la Pace, messa in scena nel 421 a.C., a dieci anni dall’avvio della Guerra del Peloponneso, un contadino, Trigeo, vola in cielo per chiedere ragione agli dèi dei mali che affliggono gli uomini; questi, disgustati dal loro comportamento, non vogliono più avere a che farci; dovranno essere essi stessi a disseppellire la Pace da un mucchio di pietre, metafora del cumulo dei loro errori. In risposta a una domanda del Coro sul perché la Pace sia rimasta tanto a lungo lontana, Ermes fornisce agli Ateniesi un ragguaglio dettagliato: tutto era iniziato quando Fidia si trovò a mal partito, per cui Pericle, nel timore di condividerne la disgrazia, innescò la «piccola scintilla» con un decreto contro Megara4, emanato forse nel 433/2 a.C.5. Stupito, Trigeo esclama: «Per Apollo,

  Plutarco, Per. 13,14-16.   Per quelle relative al processo, con relativa traduzione italiana, si veda Falaschi 2012, pp. 219-221. 4   L’affaire megarese diventa qui un diversivo per sviare l’attenzione (differente la versione negli Acarnesi: 425 a.C.). 5   Pax 605-611. 2 3

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questa non l’ho mai sentita dire, che avesse a che fare con Fidia». Lo stesso vale per il Coro, che con ironia conclude che se la Pace è congiunta di Fidia, si spiega perché abbia un volto così bello: evidentemente, nel sentire comune era proverbiale l’abbinamento tra l’artista e la bellezza, nella quale si compenetrano aspetti estetici ed etici. Meno criptico è il grande scrittore di storie attiche del IV-III secolo a.C., Filocoro6, in un brano però trasmesso e forse manipolato da uno scolio proprio al verso 605 della Pace: nell’anno dell’arcontato di Pitodoro (432/1 a.C.; ma è un errore per Teodoro, arconte nel 438/7 a.C.), con Pericle sovrintendente, la statua di Atena fu «installata» nel tempio, e Fidia venne processato (o condannato?) per aver defraudato l’avorio delle placche di rivestimento della statua7; si diceva che, «fuggendo» in Elide, avesse realizzato lo Zeus a Olimpia per essere alla fine messo a morte dagli Elei; sotto l’arcontato di Scitodoro, nome però inesistente nella prosopografia attica e stavolta correggibile in Pitodoro, l’arconte del 432/1 a.C., i Megaresi si lamentarono a Sparta del decreto ateniese, mentre secondo un’opinione Pericle, nel timore di farsi compromettere nell’affare di Fidia dopo il processo e l’annesso esilio, insisté nel non ritirarlo per sottrarsi all’esame contabile; a questo punto lo scoliasta interviene per giudicare assurdi i sospetti contro Pericle, poiché gli eventi concernenti Fidia si sarebbero svolti sette anni prima l’inizio della guerra. Un altro scolio ai versi 605-606 della Pace, spesso a torto liquidato quale parafrasi del primo, riporta una versione con qualche divergenza: scrive Filocoro che sotto l’arcontato di Pitodoro (432/1 a.C.), dopo la fabbricazione della Parthénos, Fidia aveva rubato l’oro dai suoi serpenti, donde il processo e la conseguente condanna per esilio; dopo aver ultimato lo Zeus, anche a Olimpia fu condannato per malversazione. 6   Scholia vetera in Aristophanis Pacem 605-606a Holwerda: le più fini analisi della genesi degli scolî in Lendle 1955 (in accordo, pur se con qualche riserva, Prandi 1977, p. 17, nota 26), e Falaschi 2012, pp. 212 sg. (anche per l’identità dell’erudito dietro la loro composizione). 7   La frase introdotta da kaì non necessariamente è da legare a quell’anno o allo schema cronologico degli arcontati, sebbene spesso così intesa (sulla rielaborazione del testo filocoreo a partire da kaì si veda Falaschi 2012, p. 214). Sul senso di pholídes si vedano: Lapatin 2001, pp. 66 sg., nota 55; Falaschi 2012, p. 212, nota 42.

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Per lo storico greco Diodoro Siculo8 (I secolo a.C.) alcuni aiutanti di Fidia, sobillati dagli avversari di Pericle, si sedettero come supplici sugli «altari degli dèi»; invitati a spiegare l’azione, affermarono di voler mostrare come l’artista avesse preso possesso di grandi quantità di fondi sacri con la connivenza del politico come supervisore. Quando l’Assemblea si radunò per affrontare la questione, i suoi nemici persuasero il popolo ad arrestare Fidia e a inoltrare un’accusa di furto di proprietà sacre (hierosylía) contro Pericle stesso. Più articolata la versione nella Vita di Pericle di Plutarco9, che cerca di operare una sintesi tra numerose fonti, anche documentarie: se, come già opportunamente notato, il montaggio è suo, il ripieno dei vari strati, come in una torta millefoglie, è quello dell’epoca classica. Dopo aver rammentato come tutti additassero Pericle come unico responsabile della guerra a causa del decreto contro Megara, il biografo osserva come l’accusa peggiore, corroborata da numerosi testimoni10, chiamasse in causa Fidia. Lo scultore, molto amico di Pericle e con una straordinaria influenza su di lui, aveva nemici personali che lo invidiavano; «altri», bramosi di testare per suo tramite il giudizio da parte del popolo sul governante, incitarono uno dei collaboratori, un certo Menone, a presentarsi come supplice nell’agorá e a chiedere garanzie per denunciarlo e accusarlo di furto. Il popolo accettò, ma in un processo pubblico non si arrivò a provarlo, e nell’occasione Pericle ingiunse agli accusatori di staccare l’ornamento mobile in oro dalla Parthénos per verificarne il peso11. Continua Plutarco: la fama delle sue opere gravava su Fidia e generava invidia, soprattutto perché nell’effigiare sullo scudo della dea un’Amazzonomachia aveva inserito una raffigurazione di se stesso e di Pericle. Fu dunque incarcerato e morì di malattia; 8   XII,38-40 (ma anche 41,1). Egli, oltre a citare alla fine i versi di Aristofane, rielabora e seleziona il materiale di un altro storico, Eforo di Cuma (IV secolo a.C.): analisi in Parmeggiani 2011, pp. 417-458. Si veda Aristodemo (II-IV secolo d.C.: FGrHist 104,16-19), anche lui forse dipendente da Eforo, sulle quattro cause della Guerra del Peloponneso. 9   Per. 31-32. 10   Altrove (Moralia 856a) egli attribuisce la colpa di tale malignità ai poeti comici. 11   Ma è a stento concepibile che Pericle durante il processo potesse intervenire dando ordini agli accusatori, né in qualità di stratego, né in qualità di sovrintendente della statua: Marginesu 2010, p. 73.

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alcuni sostengono che fu avvelenato dai nemici di Pericle decisi a scaricargliene addosso la responsabilità. Infine, Glaucone (figlio di quel Leagro del quale parleremo tra poco?) ordinò ai magistrati di garantire la sicurezza al delatore Menone e propose l’esenzione dalle tasse, concessa dal popolo – un onore attribuito soprattutto, ma non esclusivamente – a non cittadini benemeriti nei confronti del popolo. L’attacco a Pericle per interposta persona non si esaurì, perché prese di mira altri personaggi appartenenti a un «circolo di spiriti eletti», un quadretto sì caro al filellenismo romantico ma senz’altro già sfruttato dagli avversari politici e ripreso dalla commedia per renderlo sospetto di inclinazioni tiranniche. «Nello stesso periodo», secondo Plutarco, Aspasia, la bella straniera originaria di Mileto a metà strada tra l’«intellettuale» (sapiente, esperta di politica e maestra di retorica) e l’etera/prostituta, fu accusata di empietà dallo scrittore di commedie Ermippo, che la incolpò anche di accogliere donne libere per incontri con Pericle: fu da lui adorata con un attaccamento amoroso ostentato in pubblico, perché ogni giorno l’abbracciava e la copriva di baci quando usciva di casa o rientrava dall’agorá. Questo è fra tutti il processo oggi più discusso, perché la sostanza storica di Aspasia tende un po’ a svanire sotto la massa di tanti discorsi, in quanto spauracchio su cui proiettare i timori maschili nei confronti delle donne orientali lascive e manipolatrici e invisa al moralismo conservatore del popolo minuto. Diopite, forse un indovino, propose poi che venisse giudicato dal popolo chi non credeva agli dèi e insegnava dottrine relative ai fenomeni celesti per colpire il filosofo naturalista Anassagora di Clazomene12 e indirettamente Pericle, che da lui aveva appreso tra l’altro la scienza delle cose celesti, le speculazioni più alte e il senso della misura. Il popolo approvò le proposte e condivise le accuse13, ma alla fine Aspasia fu discolpata perché Pericle abbandonò la pro-

12   In altre versioni fu incriminato di medismo, e gli accusatori sono Tucidide di Melesia o il demagogo Cleone. 13   Quanto al decreto di Dracontide e a un relativo emendamento ricordati da Plutarco, sono talora riportati al 430 a.C., a un momento di crisi di popolarità in cui Pericle fu tra l’altro multato e destituito (Banfi 1999, pp. 42 sg.; Giuliani 1999, p. 35), o meglio a una fase pre-bellica (Marginesu 2010, p. 84).

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verbiale impassibilità e durante il processo versò per lei molte lacrime supplicando i giudici, mentre per paura allontanò Anassagora, ritiratosi a Lampsaco, città della Lega delio-attica in Ionia; siccome aveva ormai perso la considerazione del popolo proprio per l’affare di Fidia – lui no, non era riuscito a salvarlo – e temeva di essere processato, nella speranza di poter fugare le accuse diede inizio a una guerra che già covava sotto le ceneri. Questi si diceva fossero i motivi per cui non consentì al popolo di cedere agli Spartani, ma – chiude un po’ sconfortato Plutarco – la verità rimane oscura. A seconda del credito concesso all’uno o all’altro autore si dividono gli studiosi, dal che dipende la data del processo (438/7437/6 o 433/2 a.C.14). Chi crede a Filocoro, specie nella versione trasmessa dal primo scoliasta15, si trova costretto a negare, seppur talora non per intero, la validità delle testimonianze di Diodoro e Plutarco16, incolpati di aver preso alla lettera e amplificato la deformazione grottesca delle cause della guerra in Aristofane; l’evidenza documentaria prodotta da Plutarco può poi risultare non autentica; infine, benché la storicità del processo sia fuori discussione, Fidia poté aggirare con facilità le accuse, ma è quel che tutte le fonti escludono. L’equivoco consiste nel preferire in maniera univoca l’una o l’altra testimonianza, senza appurare quanto ciascuna rifletta in realtà una situazione del V secolo a.C. e quanto abbia invece di costruito in seguito. Rimangono tantissime imprecisioni nei dettagli, non sinonimi però di inattendibilità complessiva, e nessun argomento da solo è risolutivo; nondimeno, si può provare a disegnare un quadro il più possibile congruo, anche se la verità rimarrà ancor più oscura che per Plutarco.

14   Escludibile la data del 435/4 a.C. proposta da Triebel-Schubert 1983, pp. 107-112 (con prudenza seguita anche da Banfi 1999, p. 38; ma si vedano le giuste reazioni di Wesenberg 1985, e Ameling 1986, pp. 63-65). 15   Schrader 1924, pp. 26 sg.; Bloch 1959, pp. 495-498; Frost 1964, pp. 394 sg.; Frost 1964a; Donnay 1968a; Schwarze 1971, pp. 139-155; Mansfeld 1980; Pesely 1989, p. 200; Raaflaub 2000, pp. 101-107. 16   Invece difesi da: Furtwängler 1893, pp. 59-63; Byvanck 1946; Lendle 1955, in part. pp. 299-302; Fitts 1971, pp. 104-141; Prandi 1977; Bauman 1990, pp. 3742; Strocka 2004, p. 213; Davison 2009, I, pp. 623-628. Inclini a tale opzione anche Himmelmann 1977, pp. 86 sg., e Podlecki 1998, pp. 101-109.

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Anzitutto, che il processo a Fidia fosse stata la miccia della Guerra del Peloponneso senz’altro distorce la realtà, benché non vadano sottovalutati i problemi di politica interna. Nulla al proposito racconta lo storico contemporaneo ai fatti, Tucidide, il quale oltretutto al decreto megarese fa solo cenno, pur lasciando intuire in controluce l’esistenza di una polemica in atto attraverso la difesa indiretta dell’integrità di Pericle: per lui, spinto dalla voglia di rimuovere il tema della responsabilità individuale e dalla ricerca della «causa verissima», la rottura della pace dei Trent’anni fu inevitabile per i timori spartani davanti alla crescente potenza ateniese. Per converso, non può essere frutto della pur fertile fantasia di un commediografo la stretta vicinanza tra processo a Fidia e decreto di Megara: la Pace di Aristofane è del 421 a.C., per cui a soli dieci anni dallo scoppio della guerra non si poteva favoleggiare sul nesso temporale dei due eventi per non togliere efficacia alla maligna insinuazione17. Fidia fu accusato del furto sacrilego di beni sacri dagli aiutanti o meglio da uno solo, Menone. Furto dell’oro applicato alla statua, non provato, per Plutarco; falsificazione dei rendiconti dell’avorio per Filocoro (nel primo scolio, contraddetto però dal secondo), accusa per i moderni più plausibile: siccome nei rendiconti ufficiali l’avorio era registrato solo per il totale delle spese rispetto alla minuzia impiegata per l’oro, si poté così incastrarlo meglio18, ma è preferibile non esserne troppo sicuri. Plutarco enfatizza inoltre l’invidia generata dai criptoritratti nell’Amazzonomachia sullo scudo dell’Atena Parthénos (ne discuteremo più avanti), che non poté però sostanziare un’eventuale accusa di empietà19; anzi, la sua introduzione un po’ alla maniera di zeppa pare servirgli per allontanare da Fidia il sospetto di sacrilegio. Eppure, per quanto sia difficile la ricostruzione del processo sul piano giuridico20, l’Assemblea, esercitando i propri diritti costituzionali, può aver rifiuta17   Kienast 1953, p. 212; Prandi 1977, p. 26; Banfi 1999, p. 33; Giuliani 1999. Versus Mansfeld 1980, pp. 36, nota 40, 39 sg.; Bertelli 2001, pp. 83-85. 18   Kienast 1953, p. 212; Donnay 1967a, pp. 77 sg.; Mansfeld 1980, p. 29. In precedenza si vedano anche: Frickenhaus 1913, pp. 351, 352, nota 3; Schweitzer 1967c, p. 206. 19   Così, a ragione, Di Cesare 2006, p. 147; versus Bauman 1990, p. 38. 20   Falaschi 2012, pp. 208 sg.

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to di considerare nulle le accuse contro di lui, rimettendo il caso a un dicastero incaricato di pronunciare un giudizio dopo un’investigazione più approfondita della materia; e alla fine lo ritroviamo in prigione, dove morì per malattia, afferma sempre Plutarco. Molti specialisti si ostinano a non credergli, immaginando una rocambolesca fuga di Fidia dalla custodia preventiva ad Atene21, fortificati da Filocoro, che pare attestare un trasferimento a Olimpia, rispondente però, come si può leggere nella versione del primo scolio, a una diceria. Ebbene, se avesse davvero trovato rifugio a Olimpia, perché non chiedere il diritto di cittadinanza agli Elei? Senonché un’iscrizione sullo Zeus ne sottolineava l’origine: «Fidia figlio di Carmide, ateniese, mi fece». La causa della morte a Olimpia per mano degli Elei è stata poi stimata da tutti o quasi un doppione dell’accusa mossagli ad Atene; un’invenzione degli Ateniesi a distanza di tempo dovuta a motivi «patriottici» per togliersi di dosso la macchia di aver provocato la morte di uno dei loro più illustri rappresentanti?22 Un primo risultato. Fidia morì ad Atene dopo il processo del 432 a.C. circa, e non sussistono ragioni per sfiduciare Plutarco, pur molto vago nell’informare se fu pronunciata una sentenza definitiva; ma la citazione del decreto a favore del delatore Menone può suggerire che fu dichiarato colpevole da un apposito tribunale; e la tradizione gemella confezionata per Olimpia pare in aggiunta implicare che fu mandato a morte23. Chi poté manovrare le accuse accomunate da una «costante» sacrale?24 È concepibile la ripresa di vecchie contese interne, magari alimentate da Sparta con l’intenzione di minare le certezze del nemico? Forse gli istigatori di Menone poterono di nuovo contare 21   Schrader 1924, p. 27; Mansfeld 1980, p. 47; Stadter 1989, p. 295; Raaflaub 2000, p. 104; Sinn 2004, pp. 213-216. 22   Eccellenti le riflessioni di Lippold 1923-1924, pp. 152-154 (versus Frickenhaus 1913, pp. 344-346); Falaschi 2012, p. 217, intravede invece un possibile nucleo di verità storica riguardante la morte di Fidia in Elide nell’invenzione retorica del processo a Olimpia. 23   D’altronde, la pena per hierosylía, cui accenna Diodoro seppur in relazione a Pericle, era proprio la morte. 24   Sull’identikit dei loro promotori si vedano Kienast 1953, pp. 222 sg.; versus Donnay 1968a, pp. 33 sg. Si vedano anche: Frost 1964, pp. 71 sg.; Klein 1979, pp. 508-511; Prandi 1977, pp. 22 sg.; Mansfeld 1980, in part. p. 80; Banfi 1999, pp. 60-66.

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sull’appoggio di un ostinato rivale di Pericle, Tucidide di Melesia, il quale aveva già avuto modo di attaccarlo per lo sperpero delle entrate cittadine nel programma di monumentalizzazione urbana25; invano, perché fu ostracizzato nel 444/3 a.C. Possibile e logica obiezione: se la Parthénos fu dedicata nel Partenone nel 438/7 a.C., perché non saggiare subito il giudizio del popolo su di lui? Possibile contro-obiezione: la fazione avversa poté attendere un momento più favorevole per la ripresa degli attacchi in sede istituzionale con il ritorno della guida carismatica di Tucidide dopo i dieci anni di prammatica, quindi nel 434/3 a.C. Le manovre di disturbo non scalfirono però la linea politica di Pericle, ed è emblematico che gli oppositori ci avessero provato con i personaggi dell’entourage, senza osare un attacco frontale. Peccato solo per la morte di Fidia! Almeno si risparmiò di assistere all’inizio della Guerra del Peloponneso, e con lui la Pace svanì. Morte poco epica, la sua, e neppure sappiamo dove fu sepolto ad Atene, al contrario per esempio non solo di Pericle, morto nel 429 a.C., la cui tomba sulla strada che portava all’Academia era meta dei «turisti» antichi al tempo di Cicerone, ma anche del pittore ateniese Nicia, «il migliore della sua epoca», scomparso alla fine del IV secolo a.C., le cui spoglie giacevano accanto a quelle dei cittadini più insigni26. La tempistica del processo non è irrilevante, perché ha effetti sulla sequenza delle opere: malgrado il trasferimento ad Olimpia fosse una diceria, dagli Antichi la lavorazione dello Zeus era ritenuta posteriore alla Parthénos. Ci sono altri dati per avvalorarla? Sì, perché che Fidia fosse ad Olimpia prima del 433/2 a.C. trae conferma da Pausania27, il quale, nel vedere una statua di Pantarce, un fanciullo eleo che nella LXXXVI Olimpiade (436 a.C.) ottenne la vittoria nella lotta tra i fanciulli, asserisce: ne fu l’amante. Nel descrivere le statue sul regolo anteriore del trono su cui sedeva la statua di Zeus, sempre lui annota: dicono che il personaggio che si cinge il capo con una benda assomigli nei tratti all’amasio Pantarce. Qualcos’altro si ricava dalle polemiche degli apologeti cristiani contro la ridicola   Per. 14,1: Banfi 1999, pp. 56-62; Piccirilli 2000, pp. 54-63; Tuci 2008.   Cicerone, Fin. V,2,5; Pausania I,29,3, e 15.   VI,10,6; 11,3.

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adorazione di quelle statue pagane che gli artisti destinavano a ritrarre le loro passioni: Fidia scrisse su un dito dello Zeus un’iscrizione in omaggio alla bellezza dell’efebo (Pantárkes kalòs), perché ai suoi occhi ad essere bello era il fanciullo, non il dio28. Come giudicare gli aneddoti per noi afferrabili sin dal II secolo d.C.? Solo storielle delle guide locali per abbindolare i visitatori, condite di ulteriori particolari nel tempo? Se i rapporti omosessuali erano una forma di eros del tutto lecita tanto da entrare nella biografia di parecchi uomini politici – altro che passione oscena! –, negli agoni di Olimpia il pubblico maschile doveva divorare con gli occhi gli splendidi atleti dai corpi nudi nella qualità di potenziali erómenoi, così che la combinazione di atletica e pederastia non sorprende. Che dire poi dell’iscrizione sul dito della statua? Un’invenzione degli scrittori cristiani? Difficile. Le acclamazioni dipinte e graffite con kalòs («il tale è bello») ricorrono sui vasi principalmente da simposio dall’età tardo-arcaica al terzo quarto del V secolo a.C. nonché su tegole, muri e metope: quando non anonime, chiamano in causa giovani molto desiderati per la loro bellezza, come un eccezionale atleta tre volte vincitore ai giochi pitici a Delfi, Faillo di Crotone, che dovette soggiornare a lungo ad Atene e fu il solo occidentale a partecipare alla Battaglia di Salamina; e soprattutto il pluriacclamato Leagro, un rampollo dell’aristocrazia ateniese senza dubbio conosciuto da Fidia, perché nel 465/4 a.C. rivestì la carica di stratego29. In più, iscrizioni del genere ricorrono sui vasi dall’area dell’officina fidiaca a Olimpia30. Fatto sta che mai sapremo se quell’acclamazione si trovasse o meno su un dito d’avorio dello Zeus; ma, anche volendo ridurla a una frottola, non c’è ragione di dubitare del nucleo storico sotteso, della familiarità di Fidia con un giovane vincitore alle Olimpiadi e perciò della sua presenza in Elide nel 436 a.C.31. Vediamo se le evidenze archeologiche consentono qualche precisazione.

  Clemente Alessandrino, Protr. 4,53,4; Arnobio, Adversus Nationes VI,13.   Da ultima si veda Catoni 2010, pp. 206-215, 300-302. 30   Dove compare, ad esempio, il nome Lachare: Mallwitz, Schiering 1964, p. 153, nn. 35-36, tavv. 55 (30/35)-56 (35-36). 31   Tra tanti pareri pro e contro, non la pensa così Morgan 1952, pp. 330-332. 28 29

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Al margine occidentale del santuario di Zeus, Pausania vede un edificio chiamato officina (ergastérion) di Fidia, ai suoi giorni rifunzionalizzato perché contenente un altare comune a tutti gli dèi32. L’indicazione topografica ne ha consentito l’identificazione con una struttura in parte conservatasi grazie al continuo riadattamento, l’ultimo in chiesa bizantina: ne riparleremo. La ceramica più recente scoperta nei riempimenti «D» a sud e a sud-est in connessione con la costruzione dell’atelier, di cui il testimone più prezioso è la brocchetta con l’iscrizione di Fidia, è stata riferita al 440/30 a.C.33. Con la supposizione della morte dopo il processo non si concilia il pensiero degli scavatori tedeschi dell’ergastérion. Nella loro visione egli poté solo avviare i lavori a Olimpia, allora interrotti proprio intorno alla fatidica data del 432 a.C. a causa del processo, dopodiché vi avrebbe fatto ritorno per completare lo Zeus non prima del 425 a.C. Le difficoltà aumentano a causa dell’indagine di tracce correlabili a un’attività di fusione del bronzo al centro dell’edificio appartenenti a un livello omogeneo sotto il pavimento supposto a lastre in calcare: l’installazione, di durata effimera, è stata correlata all’eventuale arresto dei lavori all’ergastérion, magari durante l’assenza di Fidia recatosi ad Atene per il processo34. La ricostruzione denota però una precisione illusoria e qualche contraddizione. Come figurarsi Fidia a Olimpia dal 436 a.C. e poi di nuovo lì a lavorare tranquillamente a una statua in oro e avorio con una grave accusa sulle spalle da cui non pare essersi discolpato? Ancora: l’archeologia è capace di datare la ceramica all’incirca al venticinquennio e se va bene al decennio; ma quando cinque anni in più o in meno fanno la differenza? Sebbene i dubbi non siano eliminabili, conviene far coincidere la fabbricazione della statua di Zeus (e non la costruzione dell’officina) con un periodo precedente alle vicende giudiziarie della fine degli anni Trenta; altri indizi in questo senso emergeranno capitolo dopo capitolo.   Pausania V,15,1.   Mallwitz, Schiering 1964, pp. 103, 272-274: la brocchetta sarebbe finita nei riempimenti «D» prima del compimento dell’ergastérion, durante un’ispezione preliminare di Fidia intorno al 436 a.C. (dubbi in Broneer 1965, p. 818; Fehr 20012002, p. 55, nota 73; Holtzmann 2003, p. 110). 34   Datato però a torto al 435/4 a.C. nella speculazione di Heilmeyer, Zimmer 1987, p. 277, nota 114. 32 33

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Finiamo con il rapporto tra Fidia e Pericle. Un vincolo, quello tra arte e potere, sempre strettissimo, ma qui c’è qualcosa in più: la particolare vicinanza a un leader politico. Eppure, l’amicizia (philía) tra i due35 è stata contestata da qualche studioso36 in virtù di un pregiudizio gravante sull’attività degli artigiani/artisti, ripreso da Plutarco37 all’inizio della stessa Vita di Pericle per spiegare il motivo del proposito di scrivere biografie di personaggi di rilievo: perché le loro azioni virtuose sono emulabili, mentre «nessun giovane ben dotato desiderò diventare Fidia dopo aver visto a Pisa (Olimpia) lo Zeus, o Policleto dopo aver visto la Era di Argo, e nemmeno Anacreonte o Filemone o Archiloco dopo aver provato piacere delle loro poesie. Se un’opera dà piacere perché gradevole, non per questo ne discende che chi l’ha composta meriti ammirazione». Una scissione tra opera e artefice che unisce in questo caso gli artisti eccellenti e i poeti, gli artigiani della parola. Della lettura del brano profittò l’erudito Vincenzo Borghini in una lettera inviata il 15 agosto del 1564 per avvertire Vasari del fatto che il fine delle sue fatiche era di scrivere non delle vite e delle imprese dei pittori, ma solo delle loro opere; la descrizione della vita attiva si attagliava solo a principi e politici. Tempo dunque di approfondire la relazione tra artigiani e committenti per farsi un’idea sulla condizione dei primi nella società greca e per verificare il grado di realtà o meno dell’amicizia tra Fidia e Pericle.

35   Enfatizzata anche da un altro retore greco del I-II secolo d.C., Dione Crisostomo (Or. 12,55). 36   Wilamowitz 1893, p. 100, nota 36; sulla sua scia Ameling 1985, pp. 56 sg., e Banfi 1999, p. 67. Si veda però anche Himmelmann 1977, p. 86. 37   Plutarco Per. 2,1.

II Chi ha mai sognato di diventare Fidia? Un retore greco, subito dopo la fine della scuola, giunse al bivio a tutti noto: che fare? In un’esibizione sofistica nella città natale sulla riva destra dell’Eufrate, Samosata, il Sogno, ossia vita di Luciano (163 d.C.?), Luciano fa rivivere quel momento pieno di dubbi, invitando i giovani a ricalcarne le orme per riscattarsi dalla povertà. Il punto era che gli studi letterari presupponevano fatica, tempo e agiatezza, quando invece le possibilità della sua famiglia erano modeste. Il padre lo affidò allo zio materno che aveva fama di essere un ottimo lapicida, sovvenendosi delle inclinazioni del figlio: quando i maestri lo lasciavano libero, giocava con la cera a plasmare buoi, cavalli e figure umane. Appena entrato in bottega per il tirocinio, gli capitò un infortunio da principianti: la frattura di una lastra con un colpo troppo secco fece imbestialire lo zio che lo prese a randellate! A questo punto Luciano racconta una visione onirica in cui due donne si mettono a tirarlo di qua e di là con violenza: una dall’aspetto di lavoratrice, mascolina e incolta nei capelli, con le mani piene di calli e con la veste succinta, e coperta di gesso come lo zio quando raschiava; l’altra all’opposto molto bella, elegante e ricercata nel panneggio. La prima, personificazione della Scultura, in un discorso appassionato ma un po’ sgrammaticato, lo incita a non disgustarsi della semplicità della persona o del sudicio dell’abito: anche il grande Fidia aveva realizzato il suo Zeus e l’altrettanto grande Policleto la sua Era (un’altra statua crisoelefantina) partendo da umili inizi, ed entrambi ricevono ora omaggi inferiori solo agli dèi; perché non emularli per ottenere celebrità? Ma la personificazione dell’Educazione retorico-letteraria (Paideía) ribatte rimarcando i tanti svantaggi del

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mestiere di lapicida: chi lo pratica è condannato a faticare con il corpo e a riporvi ogni speranza, riducendosi a personaggio oscuro e dai modesti guadagni (tradizionale, l’abbinamento tra povertà e artigiani1), trasandato nelle comparse in pubblico, inutile agli amici, né temibile per i nemici, né invidiabile per i concittadini, in una parola uno della massa, che, sempre preda del più forte, fa la corte ai conoscitori dell’arte del dire. Anche raggiungendo il livello di Fidia o Policleto e realizzando opere meravigliose, continua l’Educazione, la tua arte saranno tutti disposti a elogiarla, ma nessuna persona assennata potrà augurarsi di divenire come te, perché sarai considerato un operaio (bánausos: letteralmente uno che lavora sul forno) e uno che con le mani opera (cheirônax) e che con le mani si guadagna la vita (apocheirobíotos): lo stesso pensiero di Plutarco, in forma più articolata. Rincara la dose la Paideía: diventare scultore equivale a disdegnare le imprese splendide, i discorsi elevati2, l’aspetto dignitoso, l’onore, la gloria, la preminenza, il potere e gli incarichi pubblici e per converso a indossare un camiciotto sporco, assumere un aspetto servile e maneggiare leve, scalpelli, martellini e subbie; lo scultore, curvo sulla propria opera, prostrato a terra e spregevole in ogni modo, mai alzerà il capo e immaginerà qualcosa di forte o generoso, tutto preso dal come potranno riuscire le sue opere belle di proporzioni e di forme e meno invece dal come aver esso stesso una figura armoniosa ed elegante. D’altronde, anche Socrate, secondo una tradizione scalpellino o scultore, non appena intuito che c’era qualcosa di meglio, intraprese un’altra strada. Di fronte a simili aspettative Luciano non poté che optare per l’Educazione, tanto più memore delle botte prese in bottega. Una premessa. Gran parte dell’arte figurativa greca va rubricata sotto l’aspetto di un alto artigianato, per cui l’intensità artistica del disegno su un vaso può uguagliare una metopa del Partenone, ha ben scritto Ranuccio Bianchi Bandinelli; se nel vocabolario greco manca la nozione di arte come totalità astratta e categoria estetica autonoma, i plurimi termini dalle diverse sfumature,   Ad esempio, si veda Aristofane, Pl. 617-618.   Bánausos e cheirônax, tra cui rientrano anche gli scultori Alcamene e Nesiote e l’architetto del Partenone, Ictino, non possiedono l’arte oratoria: Plutarco, Moralia 802a. 1 2

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tra cui quello più antico e nobile demiourgòs e poi cheirotéchnes, cheirônax, bánausos e technîtes, non distinguono tra artigiani e artisti figurativi. Nondimeno, la parola «artista» è oggi pronunciata di fronte ai manufatti di maggiore qualità, naturalmente riconosciuti come tali anche dagli Antichi; l’osservazione più esplicita al riguardo è in un’orazione dell’oratore ateniese Isocrate, il quale, per rispondere alle accuse riduttive dei sofisti di scrivere semplicemente per il pubblico dei tribunali, sosteneva con sprezzo che era un po’ come voler considerare Fidia un banale coroplasta3. I brani non privi di qualche esagerazione retorica di Plutarco e di Luciano hanno alimentato una visione moderna relativa a un pregiudizio costante e strutturale nei confronti di tutti gli artigiani, a onta della loro progressiva acquisizione di consapevolezza e di qualche profondo mutamento dal tempo di Alessandro Magno (IV-III secolo a.C.); di qui la maledizione del lavoro manuale, sprovvisto di un momento creativo quale entità maggiormente retribuita, l’emarginazione sociale, la condanna a una vita di stenti e la dipendenza economica da re, tiranni e póleis, il tutto in opposizione specie ai poeti, superiori per prestigio culturale grazie all’accesso alla verità garantito dalle Muse4. Per altri studiosi, inclini a quadri meno foschi, le innegabili denigrazioni delle attività banausiche vanno ridimensionate o imputate a determinati gruppi ristretti o a utopie di filosofi in specifici momenti, senza troppa incidenza sulla realtà5. Conclusioni in parte divergenti e ricalcanti un po’ le argomentazioni della diatriba tra Scultura ed Educazione in Luciano e favorite dall’uso parziale di un numero relativamente ristretto di fonti, utilizzabili strumentalmente ora in un senso ora nell’altro6. Eppure, l’antichità non va mai considerata in blocco compatto; piuttosto, conviene sia distinguere tra i diversi periodi e le peculiarità delle città greche, sia tener conto della grande varietà delle committenze e delle attività, dei diseguali gradi di specializzazione   Antid. 2 (l’orazione è del 354/3 a.C.).   Schweitzer 1980; concorde Bianchi Bandinelli 1980.   Guarducci 1980; Lauter 1980 (criticato a ragione da Himmelmann 1980, pp. 140-152); Philipp 1968; Philipp 1990. 6   Maggior equilibrio in: Himmelmann-Wildschütz 1970; Coarelli 1980; Weiler 1997; Tanner 1999; Valdés Guía 2005, pp. 13 sg.; Weiler 2007; Graepler 2008; Catoni 2010, pp. 132-143. 3 4 5

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e delle differenze interne al mondo degli artigiani, economiche, sociali e giuridiche, tanto più che nessuna professione fu esclusiva di una classe (liberi, stranieri residenti – meteci –, schiavi)7. Sebbene la madre sia ignota, Fidia fu un libero cittadino ateniese, come recita la firma sullo Zeus di Olimpia, con indicazione di filiazione ed etnico: peccato non sapere null’altro del padre al di fuori del nome raro, Carmide, altresì attestato nel V secolo a.C. per un olimpionico appartenente all’aristocrazia; e poiché si chiamava così anche lo zio di Platone che partecipò al governo dei Trenta, l’abitudine alla ripetizione degli stessi nomi all’interno di una famiglia ha stimolato l’indimostrabile suggestione che il papà di Fidia ne fosse un membro8. La tendenza nella valutazione degli artigiani restò sempre improntata a un’ambivalenza di fondo. Il loro «dramma»9 affonda le radici nello statuto mitico di Efesto, il prototipo divino del fabbro al servizio di dèi ed eroi, che, artefice sì di manufatti prodigiosi e ammirati, per la condizione anormale, figlio di un solo genitore, e per l’aspetto fisico – ha una deformità congenita nel piede, e le sembianze suscitano il riso – si pone però in antitesi all’ideale aristocratico del gentiluomo bello e buono, kalòs kaì agathòs, l’accoppiata affacciatasi nella seconda metà del V secolo a.C. con Erodoto e Aristofane: Omero lo descrive così come peloso, ripugnante, sudato e zoppicante10. D’altro canto, nell’Iliade e nell’Odissea gli eroi-artigiani e gli specialisti itineranti al servizio della comunità (demioergoì, con uno spettro semantico ampio, comprensivo di indovini, medici, carpentieri, aedi e ambasciatori), detentori di conoscenze tecniche non facilmente reperibili, non hanno una posizione inferiore e non sono biasimati. Ma il modello dell’eccellente cittadino-oplita, refrattario all’idea del lavoro in cambio di denaro, significava: nascere nobilmente; possedere la terra – l’agricoltura non era un mestiere; essere autosufficiente; seguire la conduzione della casa e del patrimonio; rivestire incarichi politici e servirsi dell’oratoria per il bene della pólis; cavarsela con le armi; essere versato in diversi tipi di

  Su qualche specificità produttiva degli schiavi si veda Feyel 2006, pp. 323-325.   Muller-Dufeu 2011, pp. 136 sg. 9   Vidal-Naquet 1981, p. 308. 10   Il. XVIII,410-418: D’Agostino 2001. Da ultimo sul doppio volto di Efesto si veda Natale 2008, pp. 15-22. 7 8

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sport; aver ricevuto un’educazione poetica e musicale; in breve, dedicarsi alle attività connesse con il valore. V’è da stupirsi che da simile prospettiva ogni specializzazione manuale allettasse poco? Era inutile andare a cercare i gentiluomini tra gli eccellenti (agathoì) architetti, fabbri e pittori, tra gli scultori e tutti gli altri con analoghe occupazioni; presso di loro al massimo si potevano contemplare i lavori considerati belli11. Perciò un termine dalla fortissima accezione negativa, bánausos, è attestato sì per la prima volta in forma aggettivale nel V secolo a.C., soprattutto in Erodoto12, anche se non fu probabilmente lui a coniarlo, perché il suo brano sottintende un’attitudine – non solo greca – assodata nei confronti degli artigiani. Lo storico rammenta la divisione della popolazione egiziana in sette classi, che prendevano il nome dai mestieri, tra cui coloro che, dediti esclusivamente alla guerra, mai avevano imparato una professione (Calasiri ed Ermotibi); egli dubita del fatto che i Greci avessero appreso ciò dagli Egiziani, ché anche i Traci, gli Sciti, i Persiani, i Lidi e quasi tutti i popoli barbari ritenevano meno degni di stima i cittadini istruiti in un mestiere e i loro discendenti, considerando invece nobili quelli liberi da lavori manuali e votati alla guerra. Un modo di pensare, seguita Erodoto (che non a caso mai usa il termine demiourgoì), molto diffuso perché adottato da tutti i Greci, in particolare dagli Spartani, mentre a disprezzare meno gli artigiani erano i Corinzi, il che è da correlare all’intraprendenza artigianale e commerciale di Corinto. La questione si fa più differenziata rivolgendosi ad altre testimonianze: se a Sparta in effetti per il leggendario legislatore Licurgo fu facile tenere liberi i concittadini dai lavori manuali affinché si esercitassero solo nell’arte delle armi13, un artigiano lì nato, Giziada, architetto, scultore e persino compositore di canti nel VI secolo a.C. (prima metà?), fu senz’altro libero e dotato di uno stato elevato, anche culturale, nella società laconica, come prova la sua competenza nella sfera musicale; inoltre, due scultori altresì ignoti dell’inizio del VI secolo a.C., Syadras e Chartas, sono detti Spartiati, ossia pieni cittadini14. Infine, con un salto in avanti nel tempo, nel   Per parafrasare le parole di Socrate in Senofonte, Oec. 6,13.   II,164-167; si veda anche Sofocle, Aj. 1121. 13   Così Plutarco, Sol. 22,2. 14   Si veda Pausania III,17,2 (Giziada), e VI,4,4 (sui due scultori). 11 12

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IV secolo a.C., a Sicione in Argolide prima e nell’intera Grecia poi, grazie all’autorità del pittore Panfilo, maestro di Apelle versato in ogni scienza, specie l’aritmetica e la geometria, e dunque esponente di un’arte che non richiedeva più il mero apprendimento tecnico, i ragazzi nati liberi prima di tutto imparavano la pittura su legno, la graphiké, inclusa al primo stadio delle arti liberali ed esercitata dai cittadini liberi e poi da persone di rango, mentre ne fu per sempre interdetto l’insegnamento agli schiavi15: la pittura quale lavoro lieve esentava dal contatto con la fornace e godeva di una speciale considerazione. Su Atene Erodoto tace, un silenzio compensato da altre fonti e dalle conoscenze archeologiche. Lì il percorso degli artigiani fu di una graduale integrazione nella comunità, che pur non portò mai alla costituzione di un gruppo sociale circoscritto, a una coscienza di «classe» o alla formazione di corporazioni capaci di azioni politiche autonome16. Per cominciare, un altro grande legislatore, Solone, all’inizio del VI secolo a.C., nell’ambito di riforme miranti a una pacificazione sociale, dette tra l’altro dignità alle arti (téchnai) e ordinò all’Areopago di esaminare donde ciascuno traesse i mezzi di sussistenza e di punire gli sfaccendati; emanò poi una legge sulla concessione della cittadinanza a coloro che fossero stati banditi dalla loro patria o si trasferissero ad Atene per esercitarvi un mestiere; e Solone in un’elegia definisce l’artigiano come colui che, istruito nelle opere di Atena e dell’abilissimo (polytéchnes) Efesto, si procura da vivere con le mani, mentre i poeti, istruiti nei doni delle Muse, conoscono il metro dell’amabile saggezza17: entrambe le professioni apprendono le loro arti, ma nel primo caso si sottolinea la fatica, nel secondo il piacere. Dopo una «dittatura» da parte dell’arconte Damasia nel 580 a.C., due demiourgoì si trovarono eletti in un arcontato decemvirale accanto a cinque Eupatridi (l’élite cittadina) e a tre ágroikoi (abitanti della campagna)18. La durezza delle differenze tra élite e demos durante il VI secolo   Plinio, Nat. XXXV,36,77.   Per il VI secolo a.C. si vedano: Valdés Guía 2005, pp. 17 sg.; Valdés Guía 2005a. 17   Plutarco, Sol. 22,3; 24,4; Solone, fr. 1 G.-P.2 = 13 W2,49-52. 18   [Aristotele], Ath. 13,2: ma sulla storicità della tripartizione dell’arcontato gravano pesanti perplessità. 15 16

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a.C. si smorzò sotto la tirannide di Pisistrato, che, appoggiata dal popolo della città (per lo più fatto probabilmente di artigiani e/o teti) e dai demi, promosse lo sviluppo dell’artigianato e in particolare della produzione vascolare; l’orientamento proseguì alla fine del VI secolo a.C. con le riforme di Clistene e nel secolo seguente con il regime democratico a sovranità popolare sotto Pericle. Proprio quest’ultimo propose al popolo uno spettacolare progetto di costruzioni a lunga durata coinvolgente moltissimi mestieri, in modo tale, dichiara Plutarco, da far partecipare anche i cittadini non inquadrati nell’esercito alla distribuzione dei profitti e al godimento degli utili: secondo un calcolo approssimativo gli operai per i cantieri si aggirarono sulle duemila unità e per il solo Partenone sulle ottocento. Pericle, oltre a voler cambiare faccia alla città dopo le guerre persiane, con l’immissione nel flusso economico di capitali tesaurizzati nei templi e la redistribuzione dei proventi derivanti dalla posizione di supremazia poté perseguire un incremento dell’attività produttiva anche per sottrarre il demo a situazioni di povertà e ingraziarselo suscitando consenso: un obiettivo politico, dunque19. Anni, quelli, in cui Anassagora, definito come un vero e proprio ideologo delle classi in ascesa della democrazia, esaltò l’uomo come il più intelligente degli animali per il possesso delle mani, un equipaggiamento biologico-organico tramutatosi in una qualificazione culturale idonea per lo sviluppo delle sue capacità razionali, con la conseguente valutazione positiva delle abilità tecniche e del lavoro20. Ad Atene gli artigiani, sfruttando le potenzialità economiche del lavoro, sapevano poi raggiungere fama e ostentare segni di prosperità, come provato tra gli ultimi decenni del VI e l’inizio del V secolo a.C. da alcuni doni sontuosi offerti ad Atena sull’acropoli come decima (dekáte) o primizia (aparchè), non inferiori a quelli degli aristocratici: il ceramografo Onesimo dedicò alla dea sette bacini di marmo (e quattro statue bronzee su un unico pilastrino?),

19   Plutarco, Per. 12,5-6: Gallo 1987, pp. 47 sg.; Marginesu 2010, p. 123; meno conviene la posizione di chi, come Bodei Giglioni 1974, pp. 35-50, ritiene che Plutarco abbia sovrapposto al passato una griglia di lettura più conforme ai suoi tempi, perché il nesso lavori pubblici-occupazione si riscontra per lo più negli scrittori dei primi due secoli dell’impero. 20   Cambiano 1971, pp. 55 sg.

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mentre Antenore, lo scultore del primo gruppo dei Tirannicidi, realizzò intorno al 520/10 a.C. per il ceramista Nearco un’imponente statua femminile; ancora, su una stele votiva un facoltoso vasaio/ proprietario di un’officina si fece effigiare non al lavoro, ma seduto in modo composto su uno sgabello, a torso nudo e con un mantello intorno ai fianchi, in atto di esibire i propri prodotti21. Ciononostante, lo sfoggio della ricchezza acquisita non implicava una maggiore stima sociale; anzi, le tradizionali diffidenze nei confronti dei bánausoi erano sempre dietro l’angolo, quando i signori perbene, i cittadini di primissimo piano, «i più ricchi, i più nobili, i più virtuosi», minacciati nell’identità, nei privilegi e nello stile di vita, si vedevano costretti a ribadire più apertamente la propria superiorità, data l’incompatibilità di fondo della produzione e della funzione tecnica con l’azione e la funzione politica22. Sicché, tra fine V e IV secolo a.C., fomentato dalle esperienze di forme più radicali di democrazia ma senza rispondere semplicemente a un’ideologia anti-democratica, lo stigma sociale e morale verso gli aspetti più bassi e degradanti dell’impegno manuale e delle attività artigianali si infiltrò nell’analisi teorica sullo stato di cittadino23. Le posizioni si diversificano a seconda dei tempi e persino delle opere di uno stesso autore nonché dei mestieri presi in considerazione, ma impressiona un verdetto senza appello di Senofonte nell’Economico, un dialogo che, incentrato su scottanti questioni (la legittimità dell’oikonomía connessa con la paga per l’opera prestata), contribuisce anche a codificare il valore del sintagma kalòs kaì agathòs. Secondo Socrate le arti chiamate manuali (banausikaì) sono del tutto screditate nelle città e rovinano il corpo di coloro che le praticano e di chi li sorveglia, costringendoli a rimanere seduti nell’ombra e talora a passare tutto il giorno presso il fuoco; una volta effeminati i corpi, anche le anime perdono vigore; quelle arti non lasciano il tempo neppure per dedicarsi agli amici e alla 21   Per le tipologie dei doni votivi, non tutti sfarzosi, da parte degli artigiani si vedano: Scheibler 1979; Williams 2009, pp. 310 sg. Iperscetticismo sull’autopromozione dei vasai in Laurens 1995, pp. 168-170. 22   Meier 1986; Philipp 1990, p. 100; Giuliani 1998, p. 630; critiche a Philipp in Himmelmann 1994, pp. 31-34; Spahn 2008. 23   Platone, R. VI,495d-e; Alc. 131b, Gorg. 512c (sullo statuto ambiguo degli artigiani nella città platonica si veda Vidal-Naquet 1981); Aristotele, Pol. III,1278a (si veda Lévy 1991, pp. 15-18). In sintesi, Mansouri 2010, pp. 37-83.

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pólis – sembra un preludio alle parole della Paideía di Luciano –, e in più tali persone non sanno difendere bene la patria, per cui, in alcune città, specie quando dotate di una valida organizzazione militare, non è permesso ad alcun cittadino di praticarle, palese l’allusione a Sparta. Lo dimostra il fatto che, nel caso di un’invasione nemica del territorio, gli artigiani (technítai) risponderebbero diversamente dagli agricoltori alla domanda sulla convenienza della sua difesa o del suo abbandono per custodire le mura: se i secondi voterebbero per proteggerlo, i primi, imbelli, per l’educazione ricevuta, preferirebbero non esporsi a fatica e rischi24. Anche l’ascesa di nuovi politici, come i demagoghi degli ultimi decenni del V secolo a.C., i responsabili della deriva populistica post-periclea e dell’avvicinamento tra le sfere del commercio e della politica, fu osteggiata dai «migliori»; e la commedia antica abbonda di attacchi satirici contro i personaggi ambiziosi dell’ultima ora e senza una gloriosa tradizione familiare alle spalle, arricchitisi grazie alla proprietà di impianti produttivi spesso gestiti da schiavi-sovrintendenti, come Cleone, bollato come venditore di cuoio e conciapelli e in realtà figlio di un corega, o il successore Iperbolo, venditore e fabbricante di lampade. Chi pertanto tra i «cresciuti in mezzo a palestre, danze e musica»25 sognò mai di diventare Fidia nell’Atene del V secolo a.C. e oltre? Nessuno; dopotutto, neppure i «lucidatori» dello Zeus di Olimpia, suoi presunti discendenti, seguirono le orme del capostipite e preferirono la carriera politica, dato che almeno uno di loro fu arconte eponimo ad Atene all’inizio del III secolo d.C. Semmai, lo desiderarono forse i colleghi o i suoi collaboratori invidiosi, a dar retta al racconto del processo. Fatto sta che Fidia non dovette mai o quasi ricevere l’etichetta dispregiativa di bánausos, anche perché, se la condizione di kalòs kaì agathòs gli fu preclusa, almeno la poté sfiorare. Platone26 fa dire a Socrate che egli è un eccellente artista (agathòs demiourgòs) e conoscitore del 24   Luciano Oec. 4,2-3; 6,6-7. Sulle posizioni non univoche di Senofonte davanti ad artigiani e commercianti si veda Mansouri 2010, pp. 85-108. 25   Questa la definizione dei kaloì kaì agathoì in Aristofane, Ra. 729. 26   Platone Hp. Ma. 290a-b. In un brano dei Memorabilia di Senofonte (I,4,3), in una sorta di «canone» della fine del V secolo a.C., è il solo Policleto a spiccare per sophía nella statuaria, accanto a Zeusi nella pittura, a Omero nella poesia epica, a Melanippide nella tragedia e a Sofocle nella tragedia.

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Bello, come già per Aristofane, mentre per Aristotele gli scultori di maggior acribia, Policleto e Fidia, meritano l’epiteto di sophoì, laddove la sophía equivale al valore (aretè) nella téchne27; ed è emblematico che un bronzista, Onata, in un donario a Olimpia, del 460/50 a.C., sullo scudo di una delle figure avesse scritto: «Come molte altre opere anche questa è dell’abile (sophòs) Onata di Egina che Micone generò come figlio»28. Tutto ciò non consente ancora di pronunciarsi sulla philía tra Pericle e Fidia: è attendibile, o gli avversari politici l’avevano gonfiata per calunniare il politico, oppure ancora si tratta di una leggenda congegnata a distanza di tempo per dare il merito delle costruzioni acropolitane a due sole dominanti personalità? Prima di tutto, un altro indizio a favore del coinvolgimento nell’alta società di un artista di condizione libera nella prima metà del V secolo a.C. riguarda sempre un affare di donne: si diceva che il pittore Polignoto di Taso, coetaneo di Fidia, arrivato ad Atene grazie a Cimone, il protagonista sulla scena politica prima di Pericle, avesse una relazione con la sua dissoluta sorellastra, Elpinice; d’altronde, aggiunge Plutarco29, Polignoto non era un bánausos e dipinse senza compenso un edificio dell’agorá denominato Stoà Poikíle (Portico Variopinto), per l’ambizione di ornare la città, un comportamento come da evergete che secondo alcuni gli permise di ottenere la cittadinanza ateniese. Il legame tra Fidia e Pericle si spiega poi in Plutarco con la loro preminenza sui cantieri dell’acropoli, in che forme lo stabiliremo più avanti. Una stretta vicinanza, non importa come la si voglia definire, è immaginabile per la competenza tecnica dell’artista nella fabbricazione di una statua che costò più del tempio e nell’apporto al progetto del Partenone tanto voluto dallo statista: lui, «amante» della città, ne aveva assolutamente bisogno per abbellirla; e gli Ateniesi erano anch’essi dei buoni intenditori della bellezza, in quanto suoi «equilibrati amanti», assicura Pericle nel celebre epitaffio. Secondo Teleclide, poeta comico del V secolo a.C., quest’ultimo, quando angustiato dagli affari, era solito sedere sull’acropoli con il capo appesantito e ciondoloni; e allora,   EN. 6,7: commento in Settis 1973, pp. 305 sg.   Pausania V,25,10.   Plutarco Cim. 4,6-7.

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con una integrazione un po’ romanzata (all’affabulazione non inclinano già le biografie antiche?), immaginiamocelo lì a riflettere insieme allo scultore intorno ai progetti futuri con il Partenone in mente, non ancora davanti agli occhi. Ma i due poterono mai condividere per esempio uno dei momenti cruciali della vita aristocratica, cioè il banchetto? Probabilmente no, giacché, per dedizione al popolo, per tutto il tempo in cui fece politica, Pericle scelse di rifiutare ogni tipo di vita comportante lo stare in società e di non andare a pranzo da nessun amico, salvo eccezioni30, uno «stile» scelto per non aizzare le insinuazioni degli avversari. In fondo, sarebbe stato poi poco appropriato farsi vedere in compagnia di Fidia in ambiente simposiale: Socrate nella Repubblica di Platone31 descrive il paradosso di una città squilibrata a causa della non conformità delle funzioni, proponendo tra l’altro l’esempio di un artigiano (un vasaio però) che smette di esser tale quando reclina banchettando, brindando e trascurando la ruota. Oltretutto, non sembra che Fidia, «amante» dell’arte, avesse la minima intenzione di darsi alla mondanità e farsi distrarre dagli impegni artistici! Tuttavia, al decennio 510-500 a.C., anni in cui egli stava per nascere o era appena nato, risalgono pochi vasi eseguiti nella nuova tecnica a figure rosse da uno straordinario e vivace gruppo di vasai e pittori, come Eufronio, Smikros, Eutimide, Phintias e Sosias, molto orgogliosi di se stessi in quanto innovatori in chiave formale e tecnologica e tanto coesi per i reciproci botta e risposta attraverso le iscrizioni da essere stati considerati quasi un cosciente movimento d’avanguardia, il primo nella storia dell’arte occidentale e con qualche anomalia32. Essi si rappresentano giovani e belli (anche acclamati come tali) e si calano in scene di simposio, educazione musicale e corteggiamento. Smikros su un vaso (stámnos) si riproduce a banchetto nella posa ispirata del cantore disteso su un letto in legno pregiato con intagli e dipinti, insieme a compagni ed etere; lo stesso Smikros torna forse su un lato di un cratere a calice, stavolta attribuito a Eufronio,   A dar credito a Plutarco, Per. 7,5.   Platone R. 420d-e. 32   Descrizione più dettagliata dei vasi qui menzionati in Catoni 2010, pp. 291361, figg. 1-3, 10, 16, 18. 30 31

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Fig. 3. Psyktér attribuito a Smikros (fine VI secolo a.C.) con Eufronio in atto di corteggiare Leagro (?). The J. Paul Getty Museum, Villa Collection, Malibu (California), inv. 82.AE.53.

sempre a banchetto insieme ad altri personaggi, tra cui uno dal nome aristocratico, mentre sull’altro, con due inservienti, in alto corre la proverbiale iscrizione «Leagro è bello». Sulla pancia di un’idria, ascritta a Phintias come pittore, un giovane chiamato Eutimide, nome di un pittore, prende lezioni di musica da un maestro di lira barbato, Smikithos; sulla sua spalla le etere seminude alla maniera dei simposiasti si dedicano al gioco tipico del simposio, il cottabo, e si apprestano a lanciare in suo onore l’ultima goccia di vino rimasta nella coppa, una pratica con la valenza di invito sessuale. Infine, su un vaso per raffreddare il vino (psyktér), ascritto con qualche dubbio a Smikros, Eufronio pare realizzare l’inaudito33 (fig. 3); tra le cinque coppie di erastès ed erómenos con vari gradi di intimità spicca il partner senior che, appoggiato al bastone da passeggio simbolo della frequentazione dell’agorá, allunga le mani verso il giovinetto amato; il primo ha il nome del ceramografo Eufronio, 33   Almeno secondo la lettura più tradizionale contestata da Laurens 1995, pp. 176 sg.; altra soluzione, però impraticabile, in Denoyelle 1998, p. 9.

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se a lui si riferisce l’iscrizione in arco di cerchio che sta davanti al viso, e l’amasio è accompagnato da kalòs Léagros. Eufronio poté davvero permettersi di corteggiare il più bel dandy della jounesse dorée del tempo? Forse no, ma più di sessant’anni dopo Fidia ebbe un bell’amasio altolocato a Olimpia. Da tempo si discute su queste scene di artigiani lontani dalle bassezze dell’impegno manuale e mimetizzati tra gli uomini dabbene: lo stravolgimento del decoro rispondeva a un gioco scherzoso con intento parodico conforme all’atmosfera del convivio? Immagini invece da prendere sul serio, perché la maggiore permeabilità delle barriere sociali aveva reso lo stile di vita aristocratico alla portata di un numero più ampio di cittadini di una middle class?34 O, come asserito dai più35, la fiction ugualitaria, senza rivendicazioni politiche, tutt’al più esprimeva la voglia di quegli artigiani di trasgredire almeno nell’imagerie i limiti della propria condizione? In breve, sogno o realtà? In completa assenza di informazioni sull’uso originario dei vasi e sull’identità dei loro fruitori (destinazioni privilegiate delle opere di questo gruppo sono l’Etruria e l’acropoli di Atene), qualsiasi risposta è insoddisfacente; anche nel caso di un sogno, non è meno significativo che alla fine del VI secolo a.C. potesse sfogarsi nell’imagerie; e a quel presunto sogno più o meno tinto di realtà Fidia e gli artisti più grandi della sua generazione e della seconda metà del V secolo a.C. poterono dare più concretezza. Scelta eccentrica, quella dei cosiddetti Pionieri. Viceversa, altri vasi ateniesi spesso scoperti in necropoli etrusche e attinenti al simposio, concentrati tra la fine del VI e i primi decenni del V secolo a.C. e molto più rari dopo le guerre persiane, ritraggono al lavoro – non sempre giovani e belli – pochi calzolai e carpentieri, diversi tipi di metallurghi, qualche scultore e principalmente l’industria ceramica con più vasai che pittori36; non è vero, come 34   Philipp 1990, pp. 96 sg.; Giuliani 1991, pp. 16 sg.; Grimm 2001; più sfumato Williams 2009, p. 311. 35   Con diverse idee: Ziomecki 1975, p. 133; Scheibler 1990, p. 104; Robertson 1992, p. 26; Laurens 1995, pp. 170-179; Tanner 1999, p. 144; Neer 2002, pp. 87134; Steiner 2007, pp. 206-211, 255 sg.; Catoni 2010, pp. 333 sg., 356 sg. 36   Basilari Ziomecki 1975, e Vidale 2002; si veda anche Chatzidimitriou 2005. Nel complesso non convince Himmelmann 1994, pp. 23-48 (versus Williams 2009, p. 307; Haug 2011).

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a volte si legge, che le scene prediligono una raffigurazione enfaticamente banausica degli artigiani, perché quei tratti tipologici, quando compresenti, rimangono riservati alle figure subalterne all’interno delle scene più articolate di officina. Per chi furono prodotti questi vasi? La mancanza di dati sul primo contesto d’uso di nuovo ostacola la risposta; ma al di là delle soluzioni proposte37, per lo più poco persuasive, assistere a un lavoro poteva rientrare nelle esperienze quotidiane dei cittadini nelle vesti di committenti/clienti e di curiosi osservatori, tanto da giustificare l’appetibilità di simili raffigurazioni anche ad Atene per fruitori benestanti, senza che niente ci fosse da ridere o da disprezzare. Un vaso dipinto da un «realista» greco, il Pittore della Fonderia, da una necropoli di Vulci38, datato all’incirca al 490 a.C., consente di entrare nella bottega di un team di bronzisti (figg. 4-6). Sul fondo interno della coppa, Efesto, in atto di consegnare le armi di Achille a Teti, istituisce un parallelo con gli emuli umani, dato che sulle pareti esterne si scorgono le fasi di fusione e rifinitura di statue in bronzo. Su un lato, un individuo con il cappello a punta in feltro attizza il fuoco in una posa a gambe allargate poco dignitosa, che, di norma caratterizzante gli schiavi negri e i sileni, ne denota lo status inferiore nella gerarchia interna; a uno dei giovani apprendisti è riservato il lavoro del mantice presso la fornace, mentre un altro, nudo, si prende una pausa appoggiandosi a un martello ed è sormontato dall’iscrizione acclamatoria Diogénes kalòs; un barbato, con il mantello intorno ai fianchi, è intento a martellare il braccio destro di una statua ancora senza testa, adagiata su un appoggio provvisorio, un letto di stucco funzionale alla lavorazione; a braccia sollevate e stante sulle sole punte dei piedi, raffigura un atleta, con ogni probabilità un lottatore; nel campo sono sospesi oggetti vari, tra cui gli strumenti di lavoro (martelli, sega, raspe) e al centro una mano e un piede destro, simili a quelli della scultura: modelli preliminari in argilla impiegabili per nuove fusioni? Sull’altro lato, davanti a una struttura, forse un’intelaiatura per il trasporto, di nuovo due barbati stanno ultimando – raschiando37   Ad esempio, si vedano: Vidale 2002, pp. 507-512; Pugliara 2002, p. 147. Errata l’impostazione di Lewis 2008. 38   Fondamentali: Beazley 1989; Vidale, Prisco 1997; Neils 2000.

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Figg. 4-6 (sopra e nella pagina a fronte). Coppa del Pittore della Fonderia da Vulci (490/80 a.C.). Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung, inv. F 2294.

ne le superfici? – una statua colossale di un guerriero eroico in posa aggressiva secondo uno schema iconografico molto diffuso tra VI e V secolo a.C. per immagini di Zeus e Poseidone; uno indossa un mantello intorno ai fianchi, e l’altro, nudo e con il cappello, siede su uno sgabello e presenta stavolta un profilo non greco, altro segnale della subalternità al collega. Di lato, appoggiati al solito bastone, assistono all’operazione due uomini maturi con indosso dei mantelli, connotati come «buoni cittadini» pure dagli attributi del ginnasio appesi lì vicino. Chi sono? Tanti i pareri: tra quelli meno fuorvianti, i proprietari del laboratorio o, meglio, i visitatori o i committenti. Sia come sia, essi avvertono che quel che osservano si trova al centro del pubblico interesse – anche dei fruitori di vasi come questo –, e che le capacità tecniche dei bronzisti sono degne di curiosità e di meraviglia, senza bisogno di provare ammirazione nei loro confronti. 490 a.C. circa: anni in cui Fidia stava dando le prime prove di un talento in grado di stupire il padre Carmide (giocava

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con la cera appena possibile, come poi Luciano, e si divertiva a dipingere insieme al fratello?); anni elettrizzanti per compiere l’apprendistato; anni in cui nelle arti figurative stava deflagrando una «rivoluzione». Sì, perché una «principessa addormentata nel bosco» si stava risvegliando.

III Fidia giovane e il risveglio di una «principessa addormentata nel bosco» L’apprendistato presso artisti famosi pare che dovesse costare1, e Fidia ebbe degli insegnanti d’eccezione nel ventennio compreso tra il 500 e il 480 a.C. circa, ma non sappiamo se e che tipo di contratto stipulò. Forte fu in famiglia la vocazione per le arti figurative: il fratello Paneno si specializzò nella pittura, con la quale anche Fidia si tramanda avesse iniziato, mentre il mestiere del padre Carmide è ignoto2. Egli ebbe buon fiuto a scegliere soprattutto la scultura, e per fortuna l’Educazione non gli apparve in sogno per sviarlo; fu più accorto di Luciano a evitare ogni maltrattamento in bottega, prassi confermata all’inizio del IV secolo a.C. da una toccante lettera privata dall’agorá di Atene, iscritta su una tavoletta di piombo e indirizzata da un giovane di nome Lesis – un meteco? – alla madre e al suo eventuale patrono ateniese, un certo Xenokles: brutalmente pestato in un’officina per la lavorazione del bronzo e forse vincolato a un contratto che ne prevedeva la permanenza presso gli insegnanti sino alla conclusione del tirocinio, egli implorava disperatamente madre e patrono di trovare qualcosa di meglio per lui3. A che età mosse i primi passi? Risposta impossibile, perché la documentazione sull’apprendistato in Grecia è scarsa e sparsa: un certo Eutichide di Mileto, morto a 16 anni ad Atene, in un’iscrizio  Come poi presso lo stesso Fidia e Policleto: Platone, Prt. 311c.   Plinio, Nat. XXXV,34,54. Per Fidia egregius pictor nel De Pictura di Leon Battista Alberti si veda Aurenhammer 2001. Per un’ipotesi sul padre come pittore si veda Koch 2000, pp. 73 sg. 3   Jordan 2000; Muller-Dufeu 2011, pp. 99 sg. 1 2

III. Fidia giovane e il risveglio di una «principessa addormentata nel bosco» 33

ne sepolcrale vagamente riferita all’età romana viene commemorato persino come lapicida non inferiore al grande Prassitele4. E dove svolse il tirocinio ad Atene? Forse in una casa-laboratorio?5 Piuttosto, è possibile che avesse anche girato un po’ per impratichirsi, perché sembra aver avuto ben due maestri6, di cui solo il primo ateniese, Egia/Egesia; le sue opere, irrecuperabili, sono dette contrassegnate da un «antico modo di fare» e poi compresse, nervose, dure e definite con acribia nei loro contorni; infine, con un po’ di confusione cronologica, egli è considerato, assieme ad Alcamene, Crizio e Nesiote, contemporaneo e rivale di Fidia, il cui apogeo è fissato alla LXXXIII Olimpiade (448-445 a.C.)7. Qualcosa in più si sa sull’altro maestro, il bronzista Agelada di Argo. Molto lavorò per il santuario di Zeus a Olimpia, per cui realizzò effigi di vincitori; sua fu una statua di Zeus combattente per i Messeni profughi a Naupatto (460-455 a.C.), nello stesso schema aggressivo del guerriero incontrato sulla coppa del Pittore della Fonderia a giudicare da una riproduzione monetale; infine, gli è stato persino attribuito il bronzo A di Riace a causa delle terre di fusione compatibili con la provenienza dal territorio di Argo. Oltre a Fidia egli vantò altri due insigni allievi, quali Policleto, anche lui di Argo, e Mirone di Eleutere in Beozia8. Malgrado la sfuggevolezza dei maestri, una cosa è certa: furono gli anni migliori per impratichirsi nella professione. Il confronto è poco pertinente ma può servire a un chiarimento preliminare: uno scultore arcaico nel VI secolo a.C. non poté mai fare l’esperienza dell’attraversamento di metamorfosi stilistiche come un artista moderno del genere di Piet Mondrian, passato dal realismo, trami­te il simbolismo e la fase cubisteggiante, alla purezza dell’astrattismo. Per tutto quel secolo le statue, al di   IG II2, 9611: Burford 1972, pp. 90, 180.   Sulle botteghe di scultori ad Atene nel V-IV secolo a.C. in sintesi Nolte 2009, pp. 272 sg. 6   Suida, s.v. Geladas; Tzetzes, Chiliades VIII,317; Dione Crisostomo, Or. 55,1 (Egia, frutto di emendamento): si veda Corso 2013, pp. 372 sg. 7   Si vedano: Luciano, Rh. Pr. 9; Quintiliano, Inst. XII,10,7; Plinio, Nat. XXXIV,19,49. Per una base dall’acropoli da lui firmata del 490/80 a.C., un tempo con una statua bronzea (di Atena?), si veda Kissas 2000, pp. 105 sg., n. 32. 8   Pausania VI,14,11; 10,6; 8,6; X,10,6: Plinio, Nat. XXXIV,19,55,57: Strocka 2002, p. 83. Si veda anche Moreno 2001 (con improvvida scissione in due artisti omonimi, nonno e nipote, sulla scia comunque di molti altri studiosi). 4 5

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là delle «scuole» regionali, non importa se raffiguranti mortali, eroi o divinità e se collocate in spazi pubblici e santuari o presso sepolcri, obbedivano costantemente agli schemi del kouros (fig. 7) e della kore, raffiguranti giovani uomini e donne, tutti o quasi con il «sorriso arcaico» e con variazioni limitate a singoli dettagli. Il kouros, che rielabora prototipi egizi, prevede il corpo nudo, il piede sinistro avanzato, le braccia abbassate e strette ai fianchi e le mani strette a pugno; la kore è sempre vestita, con ornamenti sfarzosi, e può recare in mano attributi di vario genere. La dipendenza da tipi codificati, benché con un allargamento graduale dei soggetti, è segno di mancanza di creatività? No, perché servivano benissimo a esprimere anche un sistema di virtù e valori distintivi della vita aristocratica, come l’ostentazione della prestanza fisica e della felicità/prosperità, e ci voleva poi del coraggio per spezzare la routine di una tradizione. Eppure, tra VI e V secolo a.C. la cultura figurativa, a velocità lievemente sfasate a seconda dei media – con la pittura un po’ più avanti rispetto alla scultura –, si rinnovò. Poche volte nella storia dell’arte antica e moderna si è assistito a uno spettacolo altrettanto emozionante di quel risveglio, la «rivoluzione» o il «miracolo» greco cui Fidia poté dapprima guardare dalla posizione di giovane aiutante di bottega. È l’epoca cosiddetta dello stile severo, categoria storico-critica per la statuaria dell’inizio del V secolo a.C., sì scaturita da una periodizzazione moderna, ma nutrita dall’applicazione già nella critica d’arte antica di aggettivi come durus, rigidus e austerus alle creazioni del periodo. In base alla scansione temporale più convenzionale la si fa spesso iniziare dagli anni intorno al 480 e finire verso il 450 a.C., in coincidenza con l’avvio dei lavori al Partenone e del trionfo del più genuino «classico»; meglio però includervi i primi stadi della trasformazione un ventennio prima, ovvero intorno al 500 a.C., un momento di trapasso in cui si compì la decisione epocale di infrangere le convenzioni arcaiche, poi quasi definitivamente superate circa due decadi più tardi. In parecchi furono i responsabili della «rivoluzione»; tuttavia, le loro opere, citate nella letteratura antica, soltanto di rado sono oggi riconoscibili tra i tipi trasmessi da repliche; d’altro canto, neppure gli originali superstiti in marmo e in bronzo consentono abbinamenti a nomi precisi, per cui le tentazioni attribuzionistiche risultano quasi sempre indimostrabili o gratuite, come inse-

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gnano le traversie critiche dei bronzi di Riace. In che consisté la nuova visione formale panellenica, diffusa nella Grecia continentale, in Occidente (Etruria, Magna Grecia e Sicilia) e in Oriente? Si irradiò da Atene, dove la documentazione è più cospicua? Secondo quanto già suggerito dalle fonti, le presentazioni manualistiche descrivono le novità nei termini di «progresso»: dalla presunta rigidità – che non impediva a un osservatore del VI secolo a.C. di percepire le statue come meno «vive» –, dalla giustapposizione paratattica di diverse parti anatomiche e dalle tendenze ornamentali alle conquiste del naturalismo, della varietà espressiva, del colorismo e dello scorcio. Altro mutamento poi vincolante nella rappresentazione del corpo nell’arte occidentale: il contrapposto o la ponderazione, con un’interdipendenza tra gli elementi costitutivi dell’organismo, uno dei pensieri intorno ai quali più si arrovellarono gli artisti sino alla sua formulazione più razionale o meglio «canonica» nel Doriforo di Policleto. Quale esempio di contrapposto incipiente prendiamo una statua efebica in marmo dall’acropoli di Atene intorno al 480 a.C.9 (fig. 8), dubbiosamente ascritta a Crizio, l’artefice insieme a Nesiote di una seconda versione del gruppo dei Tirannicidi per l’agorá di Atene in cui qualche specialista ravvisa la presunta data di nascita legale dello stile severo. È la prima, almeno tra quelle conservate, a rinunziare al parallelismo delle due metà longitudinali del corpo, sebbene le spalle rimangano orizzontali; la gamba destra è avanzata e flessa al ginocchio, il che introduce una spinta riecheggiata da tutta la figura; all’avanzare del ginocchio destro corrisponde la tensione del fianco sinistro, spinto in alto dalla estensione della gamba relativa; una trama di rispondenze nelle curvature dei contorni risalta di profilo; la testa non è più fissa di prospetto e si gira a destra10 a riprendere il motivo del ginocchio destro avanzato; i piedi mancano, ma entrambi dovevano essere ancora piantati a terra (solo verso la metà del secolo si diffonderà il motivo del «passo», con un

9   Subito dopo l’invasione persiana, in virtù dell’analisi dei dati ambigui sul suo rinvenimento secondo Hurwit 1989, e Stewart 2008, pp. 391 sg., 409, n. 10, fig. 4. Ancora una cronologia pre 480 a.C. in Rolley 1994, p. 324; si vedano anche le osservazioni di Fittschen 2003, p. 15, nota 33. 10   Sul nuovo rapporto tra spettatori e immagini senza più sguardi reciproci, con qualche esagerazione, si veda Elsner 2006.

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Fig. 7. Kouros del Sunio A (inizio VI secolo a.C.). Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. 2720.

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Fig. 8. Efebo cosiddetto di Crizio (intorno al 480 a.C.). Atene, Museo dell’Acropoli, inv. 698 (calco Museo dell’Arte Classica, Università di Roma La Sapienza, inv. 159).

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piede sollevato); infine, la corta chioma a ciocche come cesellate e l’inserzione degli occhi un tempo in altro materiale tradiscono una mano avvezza al bronzo. Nella prima metà del V secolo a.C. l’incremento nell’uso del bronzo, rifinito a bulino e lavorato a freddo – il livello tecnico della fusione era già notevole sin dalla metà del secolo precedente –, favorì nuovi schemi di movimento e cambiamenti ritmici, e al riguardo sono istruttive le statue così differenti dipinte sulla Coppa del Pittore della Fonderia: le composizioni più libere necessitavano di un lungo sperimentare sul modello in creta per poter prestare alle figure una statica più sciolta rispetto a quanto consentito dal marmo, tanto che i copisti si videro poi costretti ad aggiungere alle repliche sostegni e puntelli. E commenta Plinio, probabilmente ispirato da uno scritto anteriore: a ragione Fidia era giudicato come colui che aveva rivelato le possibilità, dandone un modello, della statuaria in bronzo, condotta alla perfezione da Policleto11; forse le cose non andarono così semplicemente, ma qui si ha un assaggio dell’antica trattatistica che all’arte guarda come a una storia di problemi figurativi prima individuati e poi magistralmente risolti a tappe. La sostituzione del tipo del kouros mediante figure più differenziate comportò un affinamento della caratterizzazione delle specifiche qualità dei diversi soggetti divini e mortali; come i nuovi raggiungimenti si prestassero anche a intenti narrativi è mostrato dalla straordinaria decorazione del tempio di Zeus a Olimpia, sulla quale è utile soffermarsi, perché la sua «scultura architettonica» pone di fronte a problemi abbastanza affini al Partenone in relazione all’esistenza o meno di un Maestro. Il tempio dorico, iniziato nel 471/0 e forse concluso nel 457/6 a.C., aveva un tetto di circa 8.200 tegole, 14 sculture circa per frontone, 12 metope e 102 gocciolatoi leonini, tutto nel pregevolissimo marmo a grana fine dell’isola di Paro, lontana circa 450 km. È Pausania, accompagnato da un esegeta locale, a informare sulla decorazione12. A parte le metope con il ciclo delle dodici fatiche di Eracle, il frontone orientale, con Zeus al centro, rappresenta i preparativi   Plinio, Nat. XXXIV,19,54,56.   Pausania V,10,3-10,10. Inaccettabile revisione tematica in Patay-Horváth 2007; si veda ora Kyrieleis 2012-2013. 11 12

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alla gara delle quadrighe tra Enomao, re di Pisa, e lo sfidante Pelope, eroe eponimo del Peloponneso, che con la vittoria ottiene la mano di Ippodamia e il regno, una saga locale con un pregnante valore simbolico in un luogo dedicato agli agoni panellenici (fig. 9). Nel frontone occidentale, con al centro l’epifania di Apollo con un gesto perentorio distintivo della potenza divina, si svolge una Centauromachia tessala, la mischia sorta alle nozze di Piritoo, re dei Lapiti, con i semiferini Centauri, violenti, smodati e impulsivi che, convitati, pongono mano alle donne, difese tra gli altri dall’eroe ateniese Teseo; soggetto che, con il vantaggio di qualche coloritura locale appresa da Omero secondo Pausania (Piritoo era figlio di Zeus, e Teseo il quarto discendente di Pelope), e mediante il legame tra Tessaglia ed Elide sul piano della tradizione regale, comunica l’essenziale valore panellenico della punizione della tracotanza (hýbris) in una sede di sacra ospitalità come Olimpia (fig. 10). Pausania prosegue ricordando l’attribuzione del frontone orientale a Peonio di Mende in Tracia, un presumibile malinteso: intorno al 420 a.C. egli scolpì a Olimpia una celebre Nike in marmo su un alto pilastro provvisto di un’iscrizione, da cui si apprende come vinse il concorso per gli acroteri del tempio (un lebete dorato a ogni estremità e una Nike al centro anch’essa dorata); di qui poté generarsi l’equivoco, a meno di non voler prendere in considerazione la remota eventualità di una sua opera giovanile. Ciò basta a rendere sospettosi sull’altra assegnazione del frontone occidentale ad Alcamene di Atene/Lemno, «contemporaneo di Fidia e solo a lui secondo per abilità scultoria» per Plinio; a esser più precisi, lui era il pupillo di Fidia13. Donde l’alternativa: o l’allievo, allora molto giovane, a inizio carriera seppe ottenere l’incarico, forse grazie alla mediazione dell’officina fidiaca in quegli anni già appieno funzionante a Olimpia14, un’opzione molto problematica; oppure anche stavolta qualcosa non torna, e il nome illustre di Alcamene fu forse causato dalla presenza dello Zeus di Fidia nel tempio. Queste le informazioni raccolte sul luogo

13   Plinio, Nat. XXXIV,19,72; XXXVI,4,16-17. Per la sua attività sino alla fine del V secolo a.C., segnalata da un gruppo a rilievo di Atena ed Eracle a Tebe non anteriore al 402-401 a.C., si veda Pausania IX,11,6. 14   Così Lippolis, Vallarino 2010; altri espedienti per salvare Alcamene in Barron 1984, e Becatti 1987, pp. 123-126.

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Fig. 9. Olimpia, frontone orientale (470/60 a.C.). Olimpia, Museo.

Fig. 10. Olimpia, frontone occidentale (470/60 a.C.). Olimpia, Museo.

da Pausania a distanza di sei secoli circa dalla realizzazione dei frontoni; lo si può criticare, ma è inutile illudersi: gli studiosi non potranno mai saperne di più, malgrado i tanti azzardi che hanno scommesso su tutti i candidati possibili per fare del Maestro di Olimpia un personaggio in carne e ossa (Pitagora di Samo/ Reggio, Agelada o Dioniso di Argo, Callone di Elide, Gorgia di

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Sparta, Onata di Egina, Fidia giovane15 e persino i pittori Micone e Paneno). Neppure l’analisi stilistica può aiutare per la riscoperta dell’identità del Maestro o dei Maestri, perché tuttora le sculture di Olimpia rimangono abbastanza isolate in assenza di confronti nell’insieme puntuali; nulla di sorprendente, tanto più che nei centri fuori da Atene il materiale conservato è più sporadico, per cui si fa ancor più fatica a delineare il profilo di «scuole» dai netti contorni, già di per sé non troppo facilmente riconoscibili. Una precisazione. Avvalersi della nozione moderna e quindi un po’ fuorviante di Maestro per i diversi ornamenti figurati non significa ovviamente che un solo individuo li abbia eseguiti tutti di propria mano; ad Olimpia è stato così calcolato che la realizzazione delle statue dei frontoni poté impegnare tra i dieci e i tredici scultori e aver previsto più stadi, arguiti dalla presenza di punti ancora esistenti e scalpellati all’ultimo momento su alcune teste per la misurazione dei modelli: esecuzione di un bozzetto non in scala, modello (in terracotta?) al naturale ed esecuzione finale in marmo. Siccome a stento si può dare una designazione univoca di uno stile dove si intrecciano valenze peloponnesiache, attiche e soprattutto ioniche (o più precisamente parie, come in aggiunta implicato dal tipo di marmo)16, il dilemma è: il Maestro poté acquisire esperienze formali eterogenee anche grazie agli spostamenti per soddisfare diverse commesse, e i suoi modelli plastici furono tradotti in modo fedele e meccanico da abili assistenti che sotto la sua stretta sorveglianza ne rispettarono il personalissimo stile? O piuttosto furono le maestranze al suo servizio a potersi prendere delle libertà e a determinare le differenze stilistiche nella restituzione dei bozzetti? O è meglio abbandonare la nozione di un’unica personalità a favore di più mani alla fine in grado di partorire uno stile in cui è vano voler ricostruire le testimonianze, l’entità e la forma del progetto generale di partenza, visto che i passaggi intermedi in cui prese corpo sono perduti? Tutti dubbi 15   Ad esempio, si veda Dörpfeld 1935, pp. 476-481 (F. Weege), o Ross Holloway 1968-1970, pp. 53-56; versus Becatti 1987, p. 120. 16   Esemplari i tanti pareri divergenti in Olympia-Skulpturen 1987, in part. pp. 203-338. Per l’origine peloponnesiaca del cosiddetto Maestro si vedano, ad esempio, Becatti 1987, pp. 117-121, e Dörig 1987; per l’opzione paria, da ultimo, si veda Kyrieleis 2006; si veda anche Younger, Rehak 2009, in part. p. 50, secondo cui le sculture furono lavorate a Paro e ultimate (non tutte però) a Olimpia.

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in larga parte irrisolvibili che si riproporranno per la segmentazione più complessa dei lavori nell’officina del Partenone e per la questione dell’apporto di Fidia alla sua decorazione. A ogni modo, numerose sono a Olimpia le novità che segnano il culmine dello stile severo: varietà di pose che consentono in modo sottile di raccontare il prima e il dopo di un’intera storia e i singoli destini; descrizione degli stati fisici e psicologici (tristezza, preoccupazione, dolore fisico, rabbia), con la distinzione tra eroi e mostri e tra vincitori e perdenti; molteplicità dei visi, delle chiome e della carne dei corpi, anche vecchi; spontaneità e varietà nei panneggi che concorrono alla drammaticità della rappresentazione; introduzione di gruppi nel vero e proprio senso della parola. Specie nella prima metà del Novecento la decorazione di Olimpia ha così evocato sommari «-ismi», ancora resistenti, impiegati come sinonimi (senza esserlo), come verismo, realismo o naturalismo, sino a provocare indignazione in studiosi accecati dallo pseudo-concetto moderno della «bellezza ideale» – nel senso di sovratemporale e spirituale – di stampo sì winckelmanniano, ma alimentato da brani dell’antica retorica incentrati, come vedremo, su Fidia. In particolare, una figura accovacciata di «giovane» nel frontone orientale presenta un atteggiamento ritenuto volgare (fig. 9), un’invasione di «verismo» e una sete sguaiata di natura che per fortuna avrebbe costituito un episodio senza seguito immediato soprattutto grazie all’esplosione di un altro «genio», Fidia, verso la metà del secolo17. Ma già Ranuccio Bianchi Bandinelli18 domandò: se l’opera non rientrava nelle concezioni che ci eravamo fatte dell’arte e del gusto dei Greci, non poteva darsi che queste fossero errate e che ad aver ragione fosse l’artista? Erano peraltro gli stessi anni in cui a Olimpia stava realizzando statue di vincitori Pitagora di Samo/Reggio, celebrato per essere stato il primo a riprodurre i tendini e le vene – ben visibili per esempio anche sui bronzi di Riace – e a trattare i capelli con maggiore acribia rispetto ad altri colleghi; lo stesso scultore per Siracusa fece uno Zoppo tale che a chi lo guardava pareva

17   A titolo esemplificativo, si veda Loewy 1911, pp. 25-38; per quella figura e il possibile significato del gesto si veda ora Kyrieleis 2012-2013, p. 79. 18   Bianchi Bandinelli 1943, p. 32.

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di sentire il dolore della piaga19; ed erano gli anni in cui i visi cominciarono a esser resi in maniera più personalizzata, il che portò alla nascita del ritratto individuale. Nella stessa favolosa decade dei Settanta-Sessanta operò inoltre il già citato Polignoto – con lui lavorarono sia Fidia, sia il fratello Paneno –, al quale si attribuiva il merito di aver fatto progredire la pittura, dipingendo le donne con veste trasparente, coprendo il loro capo con mitre di vari colori, aprendo la bocca e mostrando i denti delle figure e variando l’espressione dei volti scostandosi dall’«antica rigidità»; e fu un pittore «etico»20 per la capacità di rivelare il nobile carattere dei personaggi. Sin qui si è insistito sul come – non sul perché – del distacco dalle consuetudini arcaiche. Di conseguenza, il momento esplosivo della storia dell’arte greca l’abbiamo raccontato alla solita maniera, un po’ come l’episodio della principessa addormentata nel bosco in cui il bacio di un principe spezza d’un colpo un incantesimo durato migliaia d’anni, come osservato da Ernst Gombrich. Chi dette però il «bacio» del risveglio? Per lo storico dell’arte viennese in Grecia fu la scoperta di una libertà altrove sconosciuta nella narrazione degli episodi mitici, come nei gruppi narrativi dei frontoni, a esigere che fosse ricreata in forma plausibile una situazione, un’esigenza in grado di innescare una reazione a catena e di portare a più sciolte costruzioni dei corpi. Splendido saggio con risposta, salvo eccezioni, trascurata o ignorata. E quali per gli archeologi i moventi più profondi? Un altro studioso viennese, Emanuel Löwy, chiamato in causa ed elogiato dallo stesso Gombrich per aver ben descritto almeno i modi di conseguimento del naturalismo, una rapida risposta l’aveva trovata: l’arte tardo-arcaica, sin troppo leziosa e stilizzata, finì per stancare perché povera di soggetti e motivi. Più articolato il pensiero di Bianchi Bandinelli, ma sempre dentro il mondo figurativo: la predilezione arcaica per la forma unitaria aveva fatto il suo tempo, e il rischio era la caduta nel «manierismo»; a questo punto furono l’abbandono della prevalenza delle linee di contorno e le ricerche coloristiche a condurre la scultura attica a una

  Plinio, Nat. XXXIV,19,59.   Plinio, Nat. XXXV,35,58; Aristotele, Pol. VIII,5,21 (1340a).

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visione formale più sensibile alle ricerche prospettiche, al rilievo anatomico e allo scorcio21. Nel dibattito più recente si preferisce però concedere più importanza ai fattori extra-figurativi: committenza, pubblico, sviluppi storici, politici, sociali e in dose minore religiosi, soprattutto dell’Attica e di Atene. Furono le riforme di Clistene e le istanze democratiche a dettare i cambiamenti di costume e stile, per cui gli artisti elaborarono forme visuali più capaci di fare appello ai bisogni espressivi del demos piuttosto che dell’élite? L’introduzione della ponderazione con la costruzione razionale e la scoperta di una funzionalità organica furono una sorta di equivalente dell’affermazione democratica, per cui, come ogni cittadino partecipa allo Stato e ne è parte integrante, così ogni forma singola nella dipendenza dalle altre determina il tutto? Oppure, una frattura storica, le guerre persiane (490/80 a.C.), costituì uno spartiacque per la più matura apparizione dello stile severo ad Atene, causando una sorta di tabula rasa e favorendo una ripartenza con nuove forme e nuovi contenuti?22 Va bene che la creazione artistica non è mai autonoma, ma i cambiamenti figurativi «non escono dalla storia e dalla società come un pulcino esce dall’uovo, ma come il coniglio esce dal cappello del prestigiatore, che è l’artista»23. Piuttosto, senza instaurare nessi immediati di causa ed effetto o senza cadere in parallelismi prefabbricati, in diversi fenomeni conviene limitarsi a cogliere degli isomorfismi. Per esempio, la nuova morfologia dei corpi si accompagna alla speculazione sulle leggi della natura: nella figura ponderata le forze fisiche sono esibite nei loro contrasti, con spinte e controspinte in rapporto dinamico; e secondo l’idea della natura in Eraclito «gli opposti si combinano, dalla divergenza emerge l’armonia più bella, e tutto scaturisce nel contrasto»24. In fondo, molte ragioni, quando non monolitiche e a seconda di qua21   Gombrich 2008, pp. 117-143; Loewy 1911, pp. 31 sg.; Bianchi Bandinelli 1943, pp. 3-55 (in part. p. 44). 22   Per le cosiddette pressioni sociali: Tanner 1999, p. 149; Tanner 2006, pp. 92-96. Per sincronismi più sfumati si vedano Martini 1990, p. 284, e Walter-Karydi 2001, p. 69. Guerre persiane: Morris 1992, in part. pp. 288-317; Stewart 2008a, pp. 605-610. 23   Questa la condivisibile riflessione di Veyne 2009, p. 679, pur se riferita a un altro contesto storico. 24   Per Eraclito si vedano: Borbein 1989, p. 94; Hölscher 2008, pp. 113-115.

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le dei molteplici aspetti figurativi si consideri, possono essere valide; i fattori furono concomitanti, ed entrano in gioco i complessi rapporti reciproci tra arte, sue funzioni e linfa storica e sociale, con confini fluidi e non distinguibili. Non vanno dunque trascurati i processi extra-figurativi in grado di generare opportunità che potevano esser colte anche inconsciamente dagli artigiani, che avrebbero però potuto ignorarle se non fossero stati di per sé già ben predisposti. Gli artigiani appunto: che fine fanno? In talune delle visioni più recenti sembrano ridursi a passivi traduttori di idee, principi teorici o concezioni del mondo aleggianti intorno; basta forzare appena, e subito si riaffaccia il rischio della caduta nello «spirito del tempo». Un caso esemplare: la mimica a prima vista imbronciata e seria delle statue di divinità, eroi e mortali davvero riflette una consapevolezza del rischio di sventura cui è esposto l’uomo come nel coro dell’Antigone di Sofocle? Eppure, anche quella mimica rientra in una dinamica formale quale condizione di partenza per il superamento del «sorriso arcaico» e per la creazione di una nuova formula, a prima vista neutra, ma nei fatti buona a veicolare più sottili tenori emozionali variabili a seconda dei contesti (in una violenta battaglia, in una processione, nella statua di un vincitore e così via); condizione di partenza anche per ottenere una maggiore varietà di espressioni: una volta scomparso il «sorriso arcaico», e tramite la tappa intermedia delle labbra serrate, le bocche si possono aprire, una delle novità dello stile severo percepita come tale già dalle fonti. Un frammento di Senofane di Mileto («non tutto gli dèi hanno sin dall’inizio mostrato agli uomini, sono questi che via via hanno trovato, cercando, il meglio») fonda una concezione dell’attività umana orientata verso un futuro migliore del passato e vale non solo per gli uomini in generale, ma anche per gli artigiani25; il naturalismo non fu quindi un fine, ma un mezzo «per cercare il meglio», ossia per lasciarsi alle spalle norme ormai stabili da un secolo e più, per incidere in modo autonomo sull’aspetto di una statua o di una figura dipinta e per meravigliare in forme mai viste. La smania di sperimentazione degli artigiani dalla fine del VI secolo a.C. pare anche una conseguenza degli scatti graduali

  Senofane, fr. 18 (Diels-Kranz): Hölscher 1974, p. 102.

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della confidenza nell’eccellenza della propria intelligenza pratica, cui si affiancano i processi già ricordati nel precedente capitolo relativi al successo economico e ai miglioramenti sociali, reali o vagheggiati che fossero; confidenza insita nella psicologia del demiurgo greco, caratterizzata dalla ricerca dell’opera eccezionale e dell’atto di bravura che dà la vittoria nella prova tecnica; e atto di bravura semplicemente non più soddisfacibile dalla tradizione arcaica. L’audacia artigianale consentì finalmente la declinazione personale di soluzioni ritmiche, formali ed espressive che nel giro di poche decadi portò persino all’esibizione di una téchne tesa alla ricerca di motivi insoliti quasi indipendenti dai contenuti e dalle occasioni nonché alla tronfia ma illusoria coscienza di essere riusciti a stabilire limiti ormai invalicabili all’arte26. Insomma, ecco perché in seno al V secolo a.C. si succedono almeno tre grandi blocchi stilistici, cosiddetto severo, classico e ricco, con molteplici intersezioni: nel primo Fidia si formò e del secondo fu ed è sentito come l’esponente di punta, mentre dal terzo sembra non aver fatto in tempo a essere toccato (ma vi contribuirono i suoi allievi). Ecco poi perché all’interno di quei blocchi il percorso e le sue inclinazioni tematiche, formali e tecniche si discostarono da quelle di Agelada e dagli altri suoi allievi bronzisti, mai o quasi cimentatisi con la statuaria in oro e avorio: Mirone fu versato specie negli atleti, in testa il Discobolo, e negli animali, anche se raffigurò la dea Atena in un gruppo con Marsia dedicato sull’acropoli di Atene, noto da repliche, e in un altro con Zeus ed Eracle a Samo; Policleto rappresentò atleti, eroi e divinità soprattutto maschili e giovanili, tanto che si diceva persino che avesse evitato di scolpire soggetti in età avanzata; inoltre, in un libro destinato a larga fortuna presso un pubblico non esclusivamente di artisti, il Canone, di cui sono trasmessi magri frammenti, per primo illustrò le misure e le proporzioni del corpo umano a legittimazione di una statua (il Doriforo); finalmente anche la scultura si stava scavando la propria nicchia teorica, ma in cima ai pensieri di Fidia stavano altre priorità. La polemica filosofica sin dal VI secolo a.C. aveva preso di mira le immagini degli dèi a causa del carattere antropomorfico e per

26   Per il vanto di Parrasio, pittore del V-IV secolo a.C., si veda Ateneo XII,543c-e.

III. Fidia giovane e il risveglio di una «principessa addormentata nel bosco» 47

la dicotomia tra esterno e sostanza interna: secondo Senofane, se i cavalli ne avessero raffigurato l’aspetto, avrebbero dato loro la forma di quadrupedi. Per un contemporaneo di Fidia, Protagora, era difficilissimo provare l’esistenza fenomenica degli dèi, sia per l’impossibilità di una loro esperienza sensibile, sia per la brevità della vita umana, un tollerante agnosticismo teologico a stento accettabile per uno scultore che con le mani nei circa settant’anni di vita più volte seppe dar forma alle divinità. Ma c’era un altro problema: come renderle. Fu Eschilo (525-456 a.C.) a criticare e autocriticarsi27: confrontare le mie composizioni a quelle insuperabili di Tinnico, un lirico corale del VII secolo a.C. (?), sarebbe lo stesso che comparare le nuove statue alle antiche; le nuove suscitano sì ammirazione per la loro eccellente fattura, ma a differenza delle antiche, realizzate con semplicità, rendono meno bene l’impressione della divinità; in una parola, l’eccesso di téchne, anche la propria, poteva nuocere al divino. Non sorprende, il parallelo: del resto, la poesia si stava configurando come il frutto di un elaborato processo di costruzione, ed è sufficiente pensare alle metafore di Pindaro tratte dal mondo dell’artigianato e dall’architettura per definire la propria arte. Ma la riflessione di Eschilo introduceva una distinzione nella statuaria: nel senso di una separazione non tanto tra stili arcaico e severo quanto tra le immagini di divinità più sofisticate dei suoi giorni e quelle più semplici d’un tempo, magari di formato modesto, spesso in legno e direttamente coinvolgibili in rituali festivi – potevano essere portate nelle processioni e pulite e vestite e nutrite –, delle quali talvolta si narrava anche un’origine miracolosa. Siccome Fidia eccelse nelle rappresentazioni colossali degli dèi, e per lui Atena fu un po’ come le Madonne per Raffaello, le parole del tragediografo poterono martellargli in testa, con il conseguente dubbio: come generare l’effetto di meraviglia derivante da un saper fare in parte «laicizzato» senza sottrarre alle statue l’aura divina e sminuire l’effetto dell’epifania? Volgiamoci alle opere, anche se è un peccato che Eschilo non sia vissuto abbastanza per dire la sua sull’Atena Parthénos.

27   Secondo la risposta di Eschilo invitato dai Delfi a scrivere un peana in onore di Apollo (Porfirio, De abst. 2.18 = T 114 Radt): Hölscher 1974, pp. 103-105; Hallett 1986, pp. 79 sg.; Hölscher 2010, pp. 106-108; Platt 2011, p. 106.

IV Fidia e Atena: gli anni della consacrazione Cominciamo col dire che recuperare le opere di Fidia sino alla metà del V secolo a.C. non è facile; ma, del tutto sfuggenti all’inizio, via via prenderanno un profilo sempre più concreto. Due gli eventi che sconvolsero la Grecia all’inizio del secolo e che portarono alla maturazione di una coscienza identitaria di segno oppositivo. 490 a.C.: un esercito di ventimila Persiani sbarcò in Attica nella piana di Maratona, dove gli Ateniesi, usciti dalla cerchia delle mura, decisero di fronteggiare il nemico; fu l’affermazione della tattica oplitica, con circa diecimila combattenti comandati dal polemarco Callimaco e dai dieci strateghi, fra cui Milziade, il più importante; in aiuto, all’ala sinistra, accorsero mille uomini da Platea, città della Beozia meridionale confinante con l’Attica, sotto il comando di Arimnesto, in nome di un’alleanza difensiva stretta sin dall’intervento degli Ateniesi in sua difesa dall’aggressione di Tebe (nel 519 a.C.?). 480 a.C.: i Persiani guidati da Serse dilagarono in Grecia centrale e bruciarono Tespie e di nuovo Platea; ad Atene si decise di evacuare la città, abbandonata alle devastazioni dei barbari nell’agosto del 480 e nel giugno del 479 a.C., e di trasferire donne, bambini e suppellettili a Salamina, a Egina e a Trezene. La svolta si verificò prima con la vittoria della flotta greca a Salamina grazie al piano di Temistocle e poi con la scelta di affrontare la battaglia finale sulla terra «offerta» da Platea: di nuovo comandati da Arimnesto, sempre all’ala sinistra del contingente greco si schierarono seicento soldati plateesi.

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Con il successo i Greci si liberarono da ogni minaccia e acquisirono grande gloria, e ciascuna città ottenne una prosperità tale che ogni uomo ammirò quel mutamento di fortuna tanto radicale e insperato: nei successivi cinquant’anni si svilupparono le téchnai grazie all’abbondanza, e fiorirono i più grandi artisti, Fidia incluso; oltre allo sviluppo dell’educazione, della filosofia e dell’oratoria, vissero individui gloriosi per il loro comando, come Milziade, Temistocle, Aristide e Cimone: questo il giusto bilancio di uno storico antico1. In effetti, grazie alle guerre persiane (ma qualcuno preferisce la nozione di guerre greco-persiane) la scoperta del tempo presente acquisì rilevanza pari alla preistoria mitica, mentre la conseguente proliferazione di monumenti «politici» e militari contribuì a innescare nell’ambiente artigianale quella concorrenza in grado in ogni epoca di creare i migliori presupposti per il raggiungimento dell’eccellenza; tanti cantieri, tanti artigiani, tante maestranze itineranti; rigoglio quantitativo e qualitativo, insomma: bei tempi per le arti figurative. Dalla vittoria del 480 a.C. derivò un ingente bottino in oro e argento dal quale i Greci prelevarono una decima parte per la dedica di un tripode dorato su una colonna serpentiforme ad Apollo a Delfi, un’altra decima per una statua di bronzo di Poseidone all’Istmo di Corinto, alta poco più di 3 m, e un’altra ancora per uno Zeus sempre bronzeo a Olimpia, alta 4,5 m circa (realizzato da Anassagora di Egina, ne rimane la base); fu inoltre proclamata l’inviolabilità e la sacralità dei Plateesi, incaricati dei sacrifici commemorativi comuni a nome di tutta la Grecia, forse celebrati sin dai primi tempi, e del ruolo di custodi delle tombe dei caduti. Per Plutarco2, subito dopo la battaglia la coalizione si spaccò intorno alla questione della concessione del premio al valore (tò aristeîon); poiché gli Ateniesi si rifiutarono di assegnarlo agli Spartani, per conciliare le parti i Corinzi intervennero a favore dei Plateesi, una proposta cui aderirono Aristide e il condottiero spartano Pausania; e con gli 80 talenti tratti dal premio al valore – visto il silenzio 1   Diodoro Siculo XII,1,3-5; si veda anche Elio Aristide, Or. 1,191, sull’acropoli di Atene. 2   Plutarco Arist. 20,3. Per Pausania IX,4,1-2, lo stesso tempio fu però edificato con parte del bottino di Maratona attribuito dagli Ateniesi agli alleati, un’indicazione tutt’altro che fededegna (v. infra).

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in merito da parte di Erodoto si è però pensato all’alternativa di un particolare donativo – i Plateesi ricostruirono o meglio costruirono il santuario urbano di Atena Areía (bellicosa), lo adornarono di iscrizioni e vi eressero una statua polimaterica realizzata da Fidia, della quale Pausania specifica le caratteristiche: in legno dorato e con volto, mani e piedi in marmo pentelico e di poco inferiore alla sua Atena bronzea sull’acropoli di Atene alta più di 7 m (v. infra). Se esempi del genere si conoscono dalla Grecia, dalla Sicilia, dalla Magna Grecia e da Cirene sin dalla seconda metà del VI secolo a.C., la tecnica cosiddetta acrolitica poté svilupparsi per emulare in materiali meno costosi le sculture in oro e avorio. Nella cella ai piedi della statua della dea si trovava quella del generale Arimnesto3, mentre nel pronao erano i dipinti murali di Polignoto (Odisseo dopo l’uccisione dei Proci) e dell’altresì sconosciuto Onasia (prima spedizione dei Sette sotto il re di Argo, Adrasto, contro Tebe, ed Eurigania, seconda moglie di Edipo, afflitta per la morte dei figli Eteocle e Polinice). Nell’antica Grecia i miti, un mondo di «supervalori», erano polifunzionali e intrattenevano con il presente relazioni variabili a seconda di tempi, luoghi ed esigenze, con una sovrapposizione spesso parziale e mai in rapporto 1:1; così continuavano a vivere e ad accrescersi, al che concorrevano anche le immagini. In questo caso gli episodi paiono alludere alla punizione della tracotanza (hýbris) di una città medizzante, Tebe, acerrima nemica di Platea – d’altro canto, con l’assunzione dell’appellativo di Areía, legato alla sfera militare, Atena esalta anche il proprio dominio su Ares, protettore tradizionale di Tebe: la giusta vendetta di Odisseo sui Proci per averne usurpato l’autorità familiare e politica può rimandare al tradimento perpetrato da nemici infidi interni; il soggetto dei Sette contro Tebe4 sottintende il concetto di una giusta spedizione greca contro una città traditrice e di nuovo la divisione dei Greci durante le guerre persiane. Ciononostante, l’aria pesantemente anti-tebana respirata a Platea non sembra aver impedito a Fidia di lavorare per Tebe, almeno a prestar fede a un «si dice» riportato   Krumeich 1997, pp. 193 sg. (con un’inutile complicazione però).   Per un’integrazione poco convincente e massimamente ipotetica del dipinto si veda Castriota 1992, pp. 65-73, e per un eventuale riecheggiamento da ultimo si veda Zaccagnino 2007 (con qualche imprecisione). 3 4

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dal solito Pausania quando, all’ingresso del santuario urbano di Apollo Ismenio, nomina un’Atena e un Ermes in marmo chiamati Prónaoi (antistanti al tempio) e attribuiti rispettivamente a Scopa (IV secolo a.C.) e a lui5. Al progetto di Platea, in virtù della presenza di Fidia e Polignoto e del materiale, il marmo pentelico, Atene collaborò, il che si comprende per gli stretti rapporti tra le due città. Ma quando fu edificato il tempio? A logica, poco dopo la battaglia6, ancora negli anni Settanta, tanto più che Polignoto giunse ad Atene da Taso in seguito alle prime operazioni militari in Tracia di Cimone (v. infra) nel 477 o 476 a.C., mentre meno opportuno è scendere ai tardi anni Sessanta o alla metà del secolo7 perché, come vedremo, il pittore e lo scultore furono a quell’epoca altrimenti impegnati. Sulla statua in sé niente da dire8. Ma quali esperienze professionali consentirono a Fidia, in quel momento grossomodo tra i venti e i trent’anni, di meritare un incarico tanto prestigioso? Poté contare l’apprendistato presso un grande artista come Agelada? La commissione è a malapena immaginabile senza che avesse già avuto modo di distinguersi, benché su questo punto il buio sia totale, ed è solo una suggestione (ne capiremo più avanti la genesi) che intorno al 480 a.C. ad Atene sull’acropoli avesse scolpito u ­ n’Atena in marmo dell’altezza di 77 cm, collegata alla dedica di un certo Angelitos, ma firmata da uno scultore di nome Evenore, un ex voto ritenuto una specie di ambasciatore dello stile severo9. Più preziosa casomai una notizia di Pausania10: sulla via per Pellene, la città più orientale dell’Achaia nel Peloponneso, nel tempio di 5   Pausania IX,10,2. Per un’identificazione con il tipo cosiddetto dell’Ermes Ludovisi si veda Strocka 2004, pp. 217 sg., n. 6 (non anteriore alla battaglia di Enofita nel 457 a.C., con la sconfitta della Lega beotica). 6   Così Kebric 1983, p. 34, e Strocka 2004, pp. 212, 214. Si veda anche Roscino 2010, p. 14. 7   Becatti 1951, p. 179; Francis 1990, pp. 84, 101; Castriota 1992, p. 64; Höcker, Schneider 1993, pp. 50-54; Harrison 1996, p. 37. Si veda anche StansburyO’Donnell 2005, p. 82. 8   A parte la tentazione fuorviante di un’identificazione con l’Atena cosiddetta Medici: si veda Häger-Weigel 1997, pp. 235-243. 9   Raubitschek 1949, pp. 497 sg.; Niemeyer 1960, p. 69; Linfert 1982, p. 73; Strocka 2004, p. 231. Simile postura è supponibile anche per una statua (in bronzo) di Crizio e Nesiote dall’acropoli: Keesling 2000. 10   Pausania VII,27,2: Davison 2009, I, pp. 273-276, n. 7, è scettica, come Lapatin 2001, pp. 62 sg., ma non come Strocka 2004, p. 213.

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Atena egli vede una statua della dea in oro e in avorio «detta» realizzata da Fidia prima che eseguisse quelle ad Atene e a Platea; si sa inoltre che sotto la base v’era un sacrario, e che l’aria umida di lì proveniente era adatta all’avorio. L’ennesimo on dit locale dà scarse certezze, perché magari causato dalla voglia di nobilitare l’opera attribuendola al campione della statuaria crisoelefantina; tuttavia, è la precisazione della sua anteriorità alle altre immagini della dea a rendere più ottimisti e a suggerire la persistenza della memoria del passaggio dell’artista in loco; del resto, in Achaia, a Egio, aveva lavorato Agelada di Argo, e guarda caso Argo con l’Achaia e con Pellene aveva forti rapporti anche a livello mitico11. A ogni modo, Platea segnò un punto di partenza che a Fidia valse, in compagnia di Paneno e di Polignoto, l’ingresso in un circolo chiamato a tessere il mosaico celebrativo del nuovo protagonista della vita politica ateniese, Cimone, figlio di Milziade. Una sterzata decisiva per Atene coincise con la liberazione dalla concorrenza spartana e dall’assunzione dell’egemonia marittima richiesta dagli Ioni nella Lega delio-attica: un’alleanza ellenica difensiva e offensiva che, fondata nel 478/7 a.C. con il «pretesto» di continuare la guerra contro i Persiani, usava riunirsi nel tempio di Apollo a Delo presso cui era depositato il comune denaro. Agli uomini alla guida della città all’indomani di Salamina e di Platea, Temistocle e Aristide, subentrò lo stratego Cimone, della stirpe dei Filaidi. L’azione militare della Lega sotto la sua egida cominciò con la liberazione dalla presenza persiana dell’emporio marittimo di Eione, città tracia alla foce del fiume Strimone (476/5 a.C.), e con la conquista dell’isola di Sciro nell’Egeo settentrionale; egli raggiunse l’acme della carriera con la grande vittoria navale e terrestre sui Persiani alla foce dell’Eurimedonte sulla costa della Panfilia (470/69 a.C., la data più credibile), che decretò l’emancipazione dei Greci d’Asia e la supremazia ateniese nell’Egeo. Insieme a Fidia spostiamoci a Delfi, nel santuario di Apollo. Gli Ateniesi, oltre a un portico con le spoglie prese ai nemici (costruito dopo Maratona o dopo Platea?), vi avevano già eretto un thesaurós, un monumento particolare con la funzione di dedica

11   Per Agelada a Egio si veda Pausania VII,24,4 (Zeus fanciullo ed Eracle imberbe): Giacometti 2001, pp. 31-36.

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votiva e di contenitore di offerte preziose e favolose ricchezze, sfruttato dalle póleis promotrici quale segnale di floridezza e con intenti autorappresentativi nei santuari panellenici specie di Delfi e Olimpia, arene di competizione «interstatale». Le sue metope frammentarie raffigurano un’Amazzonomachia, le fatiche di Eracle e le imprese compiute in Attica e al servizio degli Ateniesi da Teseo, queste ultime a sud, sul lato meglio visibile lungo la Via Sacra. Eracle e Teseo: l’eroe dorico a vocazione panellenica e l’eroe ateniese per eccellenza, colui che riunì in un’unica città gli abitanti sparsi dell’Attica e che più volte entrerà nel mondo figurativo fidiaco. Molto controversa ne è la cronologia, e la questione è solo a prima vista sottile: poco prima o poco dopo il 490 a.C.? Preferibile la prima opzione per lo stile dei rilievi, e non solo, malgrado l’incompatibilità con l’indicazione di Pausania, secondo cui l’edificio fu costruito con il bottino della Battaglia di Maratona; eppure, egli poté trarre il dato da un’iscrizione riferita (almeno nello stato originario poi rinnovato) al 480/60 a.C., incisa su una base addossata ai blocchi di fondazione sempre della facciata sud, che specifica la dedica ad Apollo di akrothínia (letteralmente, la parte superiore del mucchio, la prima scelta del bottino già promessa al dio con un voto prima della battaglia) dopo la vittoria sui Medi a Maratona; parimenti dibattute ne sono la contemporaneità o meno al thesaurós e la natura: ospitava un gruppo di statue in bronzo, come suggerito dalle impronte lasciate sullo zoccolo? E di che genere e soprattutto da quando?12 Ma quello non era l’unico donario ateniese a Delfi. All’inizio della Via Sacra, sulla parte sinistra, Pausania13 ne incontra un altro, composto da tredici sculture in bronzo di Fidia, accompagnate da un’iscrizione attestante la dedica dalla decima della Battaglia di Maratona. Queste raffiguravano Atena, Apollo e Milziade e poi

12   Per il 500-490 a.C. Gauer 1980. Contemporaneità di thesaurós e base: Amandry 1998; versus, con migliori argomenti, Fittschen 2003, pp. 12-15 (si vedano anche Hoff 2009, e Hoff 2010, pp. 165 sg., nota 18). Per statue esposte sin dall’origine sulla base Amandry 1998, p. 84; per la loro aggiunta in età imperiale Gauer 1968, pp. 49 sg. 13   Pausania X,10,1-2: Gauer 1968, pp. 65-70; Kron 1976, pp. 215-227; Höcker, Schneider 1993, pp. 39-50; Harrison 1996, pp. 23-28; Krumeich 1997, pp. 93-102; Ioakimidou 1997, pp. 66-77, 179-200, n. 11; Strocka 2004, pp. 214 sg., n. 3. Sulla posizione e sulla lunghezza ricostruita si veda Bommelaer 1992, pp. 279 sg.

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sette eroi eponimi che davano il nome alle tribù di Atene: Eretteo, Cecrope, Pandione, Leos e Antioco, al pari di Egeo, padre di Teseo, e Acamante, uno dei figli di Teseo; al loro fianco altri tre eroi (Codro, Teseo e Fileo); e più tardi il monumento fu attualizzato, perché gli Ateniesi inviarono a Delfi le statue di nuovi eroi eponimi, prima Antigono Monoftalmo e il figlio Demetrio Poliorcete (307/6 a.C.) e poi Tolemeo III (224/3 a.C.). Simili composizioni a più figure erano diffuse nella prima metà del V secolo a.C.: per esempio, sempre a Delfi, soltanto pochi anni prima, Agelada aveva realizzato un donario celebrativo di una vittoria dei Tarantini sui Messapi con sedici cavalli e quattro figure di prigioniere incatenate su una base lunga circa 13 m14. Vediamo i personaggi, uno per uno. Milziade era l’unico individuo storico all’interno del gruppo; mancava invece il polemarco Callimaco, il comandante istituzionale morto in battaglia. Lo accompagnavano Atena, che traduceva in immagine l’identità e il nome dei dedicanti, e Apollo, dio titolare del santuario di Delfi e per di più divinità principale della Lega delio-attica. Del numero usuale di eroi eponimi, dieci, stabilito dalle riforme di Clistene, il donario ne presentava solo sette, i quali nella sequenza data da Pausania compaiono nell’ordine corrispondente a quello effettivo di battaglia delle tribù attiche nell’esercito ateniese a Maratona. Quanto agli altri tre eroi, Codro era l’ultimo re di Atene, che aveva salvato la città da un’invasione dorica e si diceva aver guidato da Atene la colonizzazione della Ionia, figura pertanto buona a fungere da prototipo mitico della leadership ateniese nella Lega delioattica. Teseo fu molto valorizzato al tempo delle guerre persiane, poiché nel passato eroico aveva difeso l’Attica dall’invasione delle Amazzoni, e a Maratona i soldati ne avevano avvistato il fantasma lanciarsi in armi contro i nemici, per cui se ne spiega la fortuna nella pittura vascolare sin dopo il 510 circa e soprattutto nel decennio 470/60 a.C.; in più, le sue ossa, identificate con quelle di un uomo di alta statura, erano state trionfalmente rimpatriate ad Atene da Sciro con il sostegno dell’oracolo di Delfi grazie a Cimone qualche anno più tardi del 475 a.C., la più celebre traslazione di 14   Pausania X,10,6: Beschi 1982, pp. 227-232 (terminus ante quem nel 473 a.C.); Ioakimidou 1997, pp. 57-61, 157-166, n. 8 (primo quarto del V secolo a.C.); a favore degli anni Trenta Russo 2004, pp. 89-100.

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reliquie nell’antichità: l’eroe sarebbe morto a Sciro per mano del re locale Licomede, una tradizione non inventata con la conquista dell’isola ma senz’altro promossa da Cimone. Infine, Fileo, eroe eponimo della stirpe dei Filaidi cui appartenevano sia Milziade sia Cimone, era figlio di Aiace di Salamina; e, ai giorni di Cimone, Ferecide scrisse un’opera conservata in frammenti in cui ricostruì tra l’altro l’albero genealogico di Fileo sino a Milziade il Vecchio, ossia sino alla seconda metà del VI secolo a.C. Nel donario l’assenza di tre eroi eponimi (Eneo, Ippotonte e Aiace di Salamina, da cui prendevano il nome le tribù all’ala destra dello schieramento ateniese a Maratona) ha talora spiazzato la critica, dal che il dilemma: le loro statue mancavano sin dall’inizio oppure, presenti in origine, per qualche motivo erano state rimpiazzate dai nuovi eroi eponimi d’età ellenistica? Meglio la prima opzione, ancorché in deroga all’ordinamento clistenico, e si potranno far congetture su chi fosse stato chiamato a sostituire chi; plausibile che nel donario Fileo rimpiazzasse Eneo – al nome dei Filaidi era associato il demo di Laciadi, appartenente alla tribù Eneide – e che Teseo e Codro prendessero il posto rispettivamente di Aiace e Ippotonte15, non a caso all’ala destra, quella cioè dove il merito della vittoria non dovette essere spartito con i Plateesi! Quando fu innalzato il donario? Pausania ne specifica il collegamento con Maratona, la battaglia sin da subito tintasi ad Atene di coloriture leggendarie: nel decennio successivo al 480 a.C. si ebbe una controversia su quale fosse la vittoria più importante tra Maratona e Salamina, modelli ideologici rispettivamente di battaglia oplitica e navale, disputa che oppose Cimone e Temistocle, quest’ultimo ostracizzato nel 471 a.C.; e quando il primo prevalse, si moltiplicarono le iscrizioni e i monumenti commemorativi di Maratona. Ebbene, la particolare distinzione di Milziade all’interno del donario e la furba «manipolazione» degli eroi si spiegano con la volontà non troppo velata di Cimone di dare lustro al proprio clan e indirettamente a se stesso in un monumento di memoria pur dedicato a nome di Atene e sottoposto al vaglio dell’Assemblea. Ma 15   Sulle condivisibili ragioni della sostituzione si vedano Mommsen 1889, pp. 459 sg., e Vidal-Naquet 1967, pp. 300-302; versus, a torto, Kron 1976, p. 224, e Krumeich 1997, p. 99, nota 385; non plausibile Stähler 1991, p. 194.

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i pareri divergono sulla datazione delle statue anteriore all’ostracismo (462/1 a.C.) o dopo il richiamo dall’esilio (457 a.C.); sennonché il loro contenuto presuppone lo stratego all’apice del potere, subito dopo l’Eurimedonte; anzi, può darsi che il finanziamento fosse venuto non dal bottino di Maratona, ma da quella vittoria16, da cui a Delfi scaturì la dedica di una palma bronzea supportante un Palladio dorato. D’altronde, già dopo la conquista di Eione il popolo gli aveva conferito un onore eccezionale, permettendogli di innalzare nell’agorá di Atene tre erme in marmo con iscrizioni celebrative dell’impresa, dove il suo nome, benché chiaramente sottinteso, non compariva17; la spedizione di Eione era ivi paragonata nientemeno che a quella di Troia, mentre la terza erma celebrava la partecipazione alla spedizione degli Achei di Menesteo, pronipote di Eretteo e re di Atene, il condottiero qualificato nell’epos omerico come il più abile ordinatore di battaglia tra i Danai e così valorizzato quale alter ego di Cimone. Inoltre, sempre nell’agorá, sul lato nord, si trovava un portico, la Stoá Peisianákteios, poi chiamata Poikíle (Variopinta), che pare aver preso il nome dal fondatore, Pisianatte, probabile cognato di Cimone, il quale, previa discussione e approvazione dell’Assemblea, in un intreccio tra pubblico e privato poté finanziarne l’erezione nel 470/60 a.C., il decennio a favore del quale depongono anche i frammenti ceramici nel riempimento delle fondazioni in parte rimesse in luce. Un ciclo dipinto su tavole all’interno raffigurava più scontri: le fasi iniziali della battaglia di Enoe in Argolide degli Ateniesi e degli Argivi contro gli Spartani, in un anno compreso tra il 462 e il 451 a.C., un dipinto forse aggiunto all’organico progetto originario; il combattimento degli Ateniesi e di Teseo contro le Amazzoni; la presa di Troia; la battaglia di Maratona, assimilata agli exempla mitici, con analogo stato paradigmatico di «storia fondante»18

16   Gauer 1980, pp. 129 sg.; inconcepibile invece l’idea di una dedica privata (Kluwe 1965, dopo il 457 a.C.). 17   Eschine, Or. 3,184-185; Plutarco, Cim. 7. 18   Hölscher 1973, pp. 50-84, e de Angelis 1996. Si vedano anche: Meyer 2005; Roscino 2010, pp. 28-38. Non convince l’attribuzione dell’intero ciclo figurativo agli anni dopo il ritorno di Cimone nel 457 a.C. in Fiorini 1998, più persuasivo (sulla falsariga di Hölscher 1973, p. 76) per la spiegazione della battaglia di Enoe sempre come frutto della volontà di Cimone che, tornato nella mischia politica, poté così giustificarsi dall’accusa di filolaconismo.

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(dopo il 480 a.C. anche le elegie di Simonide di Ceo legano narrazione mitica e fatti storici, specie la vittoria di Platea, presentata sotto una luce «troiana»). Nella Battaglia di Maratona erano dipinti più protagonisti, tra cui ovviamente Milziade alla testa di un gruppo di greci insieme a eroi e divinità intervenuti nello scontro, come il singolare Echetlo, d’aspetto e abito da contadino e l’unico in atto di combattere, l’eroe locale Maratone, Teseo come se stesse sorgendo dalla terra e, infine, Atena ed Eracle. Chi dipinse il ciclo, a parte la pittura di Enoe rimasta anonima? A Polignoto fu affidata la Presa di Troia e a Micone l’Amazzonomachia, mentre le fonti attribuiscono la Battaglia di Maratona a Paneno o a Micone; siccome quest’ultimo fu multato per aver dipinto i Greci troppo piccoli (le misure contavano, eccome, agli occhi della pubblica opinione ipersensibile), il fratello di Fidia poté subentrargli19. Sicché i fratelli nel decennio 470/60 a.C. si trovarono a lavorare ai monumenti commemorativi di Maratona, con qualche differenza condizionata dal contesto: a Delfi a comparire era un solo mortale, Milziade, che nella Stoá invece, seppur in posizione di spicco, nel rispetto della collegialità dei poteri non offuscava altri partecipanti come Callimaco, Epizelo, Eschilo e il fratello Cinegiro; nel luogo civico centrale di Atene le tendenze della propaganda filaide si smorzavano a favore di una rappresentazione collettiva della pólis, perché Maratona era esibita come la vittoria di tutti i valorosi Ateniesi, mentre lontano dalla città si poteva «osare» di più. Essere più precisi sul donario è problematico, poiché non si sono conservati i blocchi della base, e la maggior parte dei tentativi di recupero nel dossier superstite di originali (i soliti bronzi di Riace) e opere romane in marmo è aleatorio20. È plausibile che le statue, con altezze comprese entro i 2 m, ponderate con entrambi i piedi ancora poggianti al suolo, si allineassero su una base rettangolare, articolandosi ai lati di Atena, Apollo e Milziade; gli eroi, immaginabili in nudità integrale o parziale, barbati e imberbi e con capelli lunghi o meno, nelle sembianze non dovevano distanziarsi dagli stessi eroi eponimi come poi scolpiti sul fregio orientale del Parte19   De Angelis 1996, p. 141; meno credibile Stansbury-O’Donnell 2005, p. 77 (Paneno assistente di Micone). 20   Per un recupero della base si veda la tesi (visionaria) di Vatin 1991, pp. 165-182; per le sue figure si veda Giuliano 1981.

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none (lì però in abiti civili con mantello e bastone da passeggio)21. Quanto alla triade al centro, malgrado la sequenza di Pausania riservi forse più attenzione al rango di importanza dei personaggi, lo stratego Milziade poteva trovarsi tra le divinità, magari con Atena intenta a incoronarlo22 secondo il principio compositivo di un gruppo provocatoriamente eretto a Delfi dagli Spartani subito all’ingresso della Via Sacra: dove e quando? Proprio accanto al donario di Maratona, dopo la vittoria navale sugli Ateniesi a Egospotami (405 a.C.) alla fine della Guerra del Peloponneso: le rivalità si sfogavano anche a suon di monumenti, in una gara a chi li faceva più grossi! Restano dodici blocchi in calcare della base in origine lunga 18 m e popolata da trentanove-quaranta statue di divinità e di personaggi storici (tra cui sei-sette Spartani e ­ventisette ufficiali degli alleati di Sparta), realizzate da ben nove scultori di provenienza varia: al centro della prima fila prendeva posto il vincitore, l’ammiraglio Lisandro, probabilmente più piccolo rispetto agli dèi e sicuramente incoronato da Poseidone23. Quanto alla statua di Milziade, doveva effigiarlo quale stratego mediante la presenza di un elmo, non troppo dissimile da com’era descritto il figlio Cimone, «di aspetto non disprezzabile, imponente di corporatura e con la chioma folta e ricciuta»24. Come figurarsene il ritratto di ricostruzione? Il generale era morto da più di vent’anni, e senza poter contare su riproduzioni anteriori Fidia se ne ricordava appena per averlo visto da giovanissimo, ma Cimone stesso gli indicò qualche lineamento distintivo; e il suo viso poté allora essere «realistico» – ma non meno sottoposto al filtro di una stilizzazione figurativa – alla maniera di coevi ritratti in stile severo (Temistocle, Pindaro). Osserviamo poi incidentalmente quanto fatto da Paneno per la Battaglia di Maratona: secondo Plinio25 a tal punto si era diffuso 21   Sugli eroi eponimi si vedano: Hölscher 1969; Mattusch 1994. Per una pasta vitrea di Heidelberg con un busto barbato di profilo e con iscrizione «Codro re» del I secolo a.C. si veda Hampe 1971, pp. 111-117, n. 147. 22   Himmelmann 1993, pp. 453 sg.; Despinis 2001, p. 121 (Milziade di taglia identica ad Atena). 23   Pausania X,9,7-10: Krumeich 1997, pp. 164-175 (con ricostruzione dell’altezza delle statue della prima fila tra 180 cm e 190 cm, superate da quelle divine di 30 cm); Ioakimidou 1997, pp. 107-115, 281-306, n. 21. 24   Così il tragediografo Ione di Chio in un brano contenuto in Plutarco, Cim. 5,1-3. 25   Nat. XXXV,34,57.

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l’uso dei colori e si era perfezionata l’arte che si tramanda egli avesse lì riprodotto come iconici duces Milziade, Callimaco, Cinegiro e i barbari Dati e Artaferne; la locuzione adombra una loro distinzione rispetto alla massa anonima dei combattenti per mezzo di pur lievi tocchi personalizzanti. Non è perciò illogica un’ipotesi di recupero di una copia del Milziade di Delfi grazie a una testa barbata al Museo dell’Acropoli riferita alla metà del II secolo d.C. circa, integrabile con un elmo corinzio: l’effetto d’insieme con la fronte percorsa da una ruga ricorda molto il ritratto di Temistocle; oltretutto, altre teste ancor più frammentarie, una di Atena e un’altra imberbe identificata con Apollo, sono state assegnate, per la qualità del marmo e per i dettagli della lavorazione, alla stessa bottega e persino alla mano di un medesimo copista, dal che la tentazione di considerarle tratte dal gruppo delfico duplicato ad Atene26. Nel frattempo, nella politica si stava muovendo qualcosa. Nel 462/1 a.C., su impulso di Efialte i poteri accumulatisi nel tempo in materia di controllo della vita politica e costituzionale furono tolti all’Areopago e passati al Consiglio dei Cinquecento, all’Assemblea popolare e al tribunale dell’Eliea: «rivoluzione» che significava troncare il dominio di un gruppo sociale a capo del più importante organismo di stampo aristocratico. Efialte fu ucciso in circostanze oscure, alle quali non sarebbe stato estraneo Pericle, geloso della sua popolarità, un presunto assassinio politico all’interno della fazione democratica giudicato una calunnia da Plutarco, ma accreditato da qualche storico odierno. Inoltre, in un processo per corruzione nel 463/2 a.C., pur tenendo un atteggiamento benevolo, Pericle accusò Cimone, che ne uscì indenne: tra i Filaidi/Cimonidi e gli Alcmeonidi sin dalla metà del VI secolo a.C. non correva buon sangue. Verosimilmente al ritorno da una spedizione militare finita in uno smacco, gli avversari fecero

26   Despinis 2001; Despinis 2005, p. 153. Che infine il corpo dell’Atena si conservi in una presunta copia acefala in marmo da Roma ora a Madrid (per cui si veda anche Linfert 1982, pp. 71, 73), opera di stampo attico somigliante alla già citata Atena di Evenore, con l’attacco del braccio destro che ne suggerisce un marcato sollevamento, significa spingersi ancor più in là, forse troppo; qualche perplessità viene dal movimento in avanti del braccio destro (Milziade davanti ad Atena?) e dalla presenza sul plinto vicino al piede destro di un foro (non antico però per Despinis) che non può far scartare la presenza di una lancia. Versus Despinis, ma con ragioni inconsistenti, Schröder 2004, pp. 334-337, n. 172.

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poi scattare il procedimento di ostracismo nel 462/1 a.C. contro Cimone, accusato di parteggiare per gli Spartani e di avversare il popolo. Questi riuscì però a rientrare in città prima del tempo previsto, richiamato forse nel 454 a.C. da Pericle in persona, in base a un accordo segreto con Elpinice secondo un’opinione riportata nella biografia di Plutarco; sia come sia, la morte di Cimone nel 449 a.C. gli lasciò campo (quasi) libero. Spesso Cimone e Pericle sono posti in netta antitesi, il primo alla testa della parte aristocratica, il secondo del popolo; in realtà, l’azione di contrasto al Filaide fu duttile perché in grado di adottare strategie diverse a seconda delle convenienze, per cui i due, uniti da vincoli personali e familiari, a tratti poterono aver convergenza di interessi; e grazie alle committenze statali con entrambi ebbe a che fare Fidia. A lui, dopo l’Atena di Platea e le tredici statue a Delfi, fu naturale rivolgersi per uno strabiliante progetto, finalmente ad Atene: un’altra Atena armata in un punto di massima visibilità, a ridosso dell’entrata dell’acropoli27. Non che della dea mancassero immagini in attitudine guerriera, né nella statuaria, né in altri manufatti: per esempio, sin dal VI secolo a.C. i vasi la mostrano di profilo in posa aggressiva a gambe divaricate (talora su una base), con lancia nella mano destra e scudo nella sinistra, con una frequenza tale da aver suggerito l’esistenza opinabile di un prototipo statuario28; certo, la nuova Atena era tutt’altra cosa per dimensioni. La statua bronzea (ágalma chalkoûn29) per Pausania fu eretta con il bottino preso ai Medi sbarcati a Maratona; si diceva che la lotta dei Centauri e dei Lapiti sullo scudo e tutto il resto della decorazione fossero stati cesellati dal toreuta Mys, con il quale collaborò come autore del disegno Parrasio, figlio di Evenore; la punta della lancia e il pennacchio dell’elmo sarebbero stati visibili per chi si avvicinava navigando dal Capo Sunio. In un discorso del 343 a.C. l’oratore Demostene fornisce una motivazione di27   Langlotz 1947, pp. 73-76; Becatti 1951, pp. 161-167; Niemeyer 1960, pp. 76-85; Gauer 1968, pp. 103-105; Mathiopoulos 1968, pp. 7-47; Kasper-Butz 1990, pp. 178-180; Hurwit 1999, pp. 24 sg., 151 sg.; Harrison 1996, pp. 28-34; Lundgreen 1997a; Strocka 2004, pp. 215-217, n. 4; Davison 2009, I, pp. 277-296, n. 8. 28   Versus Ridgway 1992, pp. 127-129, e Schmaltz 1997, pp. 25-27. A favore Neils 1992, p. 37, e soprattutto Nick 2002, pp. 149-157. 29   Per il vasto campo di applicazione del termine ágalma, non limitato a statue, ma esteso anche a oggetti non ordinari consacrati al dio, si veda Lanérès 2012.

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scordante: l’Atena bronzea fu dedicata dalla pólis come premio al valore (aristeîon) per la guerra contro i barbari con il finanziamento degli Elleni30, un monumento dunque legato non a una singola vittoria, ma alle battaglie contro i Persiani in generale. Chi ha ragione? Magari nessuno dei due, e attenzione all’inclinazione della tradizione attica a esaltare Maratona oltre il dovuto; piuttosto, la dedica poteva presentare la più generica locuzione apò Médon (dai Persiani), diversamente interpretabile. È poi uno scolio appunto a Demostene in un manoscritto del X-XI secolo d.C. a introdurre il nome con cui questa Atena è oggi più conosciuta, Prómachos (colei che combatte in prima fila), del resto già suggerito da un epigramma dell’inizio del V secolo d.C.31: il nome originale? In realtà, in una nomenclatura ufficiale che poneva grande enfasi sui materiali poté essere battezzata semplicemente «statua di bronzo». Infine, è controverso ma non escludibile che Plinio si riferisca alla stessa Atena quando menziona – in modo per noi vago – una Minerva in bronzo di Fidia denominata Portatrice di chiavi (cliduchus), un titolo eventualmente non inappropriato per un’immagine a guardia della città alla stregua di sentinella32. Le fondazioni della base (5,5 m x 5,6 m) sono state individuate in un incasso quadrangolare 40 m a est dei Propilei di Mnesicle, con dietro un alto muro di terrazzamento (miceneo?) non parallelo; la sua presenza, non in asse con i vecchi Propilei o con il più recente impianto mnesicleo, ha influenzato la disposizione di numerose evidenze monumentali circostanti, come i probabili trofei di cui restano quattro buche, mentre la quadriga visibile nella ricostruzione più diffusa (fig. 11) va con ogni verosimiglianza da lì allontanata; è stata inoltre ipotizzata un’esposizione all’ombra dell’Atena bronzea della stele cosiddetta della 30   Pausania I,28,2 (come anche Elio Aristide, Or. 3,336: «la statua da Maratona»); Demostene, Or. 19,272 (cita la statua ricordando alla sua destra l’esposizione di una stele bronzea di un certo Artmio di Zeleia, dichiarato nemico del popolo ateniese e dei suoi alleati perché traditore, provvedimento riferito all’operato di Temistocle o meglio di Cimone): oltre a Gauer 1968, pp. 38 sg., si veda Furtwängler 1893, p. 53. 31   Dove la statua di un prefetto è detta posta accanto ad Atena Prómachos (IG II2 4225). 32   XXXIV,19,54: per il titolo kleidoûchos e Atena si veda anche Aristofane, Thesm. 1142; per Ovidio, Pont. IV,1,31-32, l’Atena bronzea insieme a quella in avorio fungeva da custos della cittadella. Scettico Strocka 2004, p. 230.

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Fig. 11. Acropoli di Atene: vista dai Propilei di Mnesicle sull’Atena cosiddetta Prómachos.

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primizia (aparché): dopo il trasferimento nel 454 a.C. del tesoro della Lega delio-attica da Delo ad Atene su monumentali stele in marmo si provvide alla registrazione annuale del pagamento dell’aparché dell’intero tributo versato da parte degli alleati al tesoro di Atena, la nuova dea tutelare al posto di Apollo, consistente in una sessagesima, ossia una mina per talento, per una cifra complessiva di più di 7 talenti annui circa; espressione di un’egemonia ormai componente essenziale dell’identità cittadina? Sì, ma compartecipativa33. Quanto alle misure dell’Atena bronzea, una proposta a partire dalla base ha calcolato un’altezza di 7,62 m con la base di 1,52 m, con la sommità della cresta 158,54 m sopra il livello del mare: un eccesso di precisione, ma fatto sta che una statura complessiva tra i 7 e i 10 m è la più plausibile34. Statua colossale all’ingresso dell’acropoli di Atene e paternità illustre, requisiti in apparenza idonei per eventuali riproduzioni, ancorché in formato ridotto; speranza di nuovo delusa35, stranamente: siamo noi incapaci di riconoscerla, o, meglio, è stata surclassata e oscurata nel processo di ricezione perché troppo somigliante alla Parthénos? Ciononostante, per un recupero si aprono spiragli grazie alle riproduzioni grossolane su un’emissione monetale del II-III secolo d.C. che mostra sul verso l’acropoli da nord36 (fig. 12). Lì compresa tra i Propilei e l’Eretteo e di molto sovrastante in altezza gli edifici in una rappresentazione simbolica ovviamente non rispondente agli effettivi rapporti di grandezza, la statua reca un elmo, forse attico: associato ad Atena nella pittura vascolare sin dalla metà del VI secolo a.C., la caratterizza nella più tradizionale e completa veste guerriera; quello corinzio tende per converso ad associarsi a immagini meno pompose, secondo una separazione

  Eccellente il contributo di Monaco 2009, pp. 276-281.   Stevens 1936, pp. 491-499. Si veda anche Michaelis 1877, p. 90: circa 7,5 m o 9 m con l’inclusione della base. Per un’altezza (esagerata) di 16,40 m incluso il piedistallo si veda Dinsmoor 1921, p. 128. 35   Per l’Atena nel tipo cosiddetto Medici si vedano: Furtwängler 1893, p. 53; Linfert 1982, pp. 68-71; Strocka 2004, p. 217. 36   Lundgreen 1997a, sulla falsariga di Lacroix 1949, pp. 281-286. In modo meno critico, si vedano Pick 1931, e Pfuhl 1932. Non escludono la civetta Langlotz 1947, p. 75, e Kreuzer 2010, p. 142, nota 138. 33 34

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Fig. 12. Moneta del II-III secolo d.C. con raffigurazione dell’Atena cosiddetta Prómachos tra Propilei ed Eretteo. London, British Museum, inv. 1922,0317.82.

valida almeno per il V secolo a.C.37. La figura indossa il peplo cinto in vita, flette la gamba sinistra e ha il braccio destro proteso in avanti con in mano qualcosa a stento distinguibile, ma a giudicare dai conii più una Nike, attributo che prelude all’Atena Parthénos, che una civetta, l’animale emblema di Atene che spesso accompagna la dea. A sinistra dovevano trovarsi la lancia – adagiata sulla spalla? – e lo scudo retto dalla mano e poggiato a terra in modo da dare adeguato risalto ai rilievi cesellati. Vi compariva la Centauromachia, una lotta esemplare contro le anomie fondamentali del consorzio civile, una delle più appropriate come ornamento di edifici sacri e statue. Qualche sospetto grava sui due artisti detti responsabili della decorazione dello scudo, che insieme lavorarono anche a un’altra opera, perché un vaso (skýphos) di Mys era decorato con una Presa di Troia con iscrizione metrica, sempre su disegno di Parrasio. Specie l’intervento di quest’ultimo lascia interdetti, poiché Plinio ne data l’acme nella XCV Olimpiade (400-397 a.C.; ma simili indicazioni non sono sempre da prendere troppo alla lettera), parecchio più tardi rispetto al periodo qui considerato; la consueta obiezione è che, se suo padre pittore, un certo Evenore (acme sempre per Plinio nel 420-417 a.C.), fosse lo stesso autore   Anche nei rilievi di decreto e votivi (ma non nella pittura vascolare): Ritter

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della statuetta di Atena già ricordata, Parrasio potrebbe essere nato intorno al 480 a.C. e aver composto i disegni per lo scudo di Atena da giovane, a circa vent’anni; ma non è un po’ strano che Fidia non avesse messo mano allo scudo come sulla Parthénos? In alternativa, Mys fu uno degli artisti che trassero profitto dai disegni e abbozzi su tavole e pergamene ancora in circolazione dopo la morte di Parrasio, donde l’idea: la decorazione si aggiunse non prima del IV secolo a.C.38. Delle due l’una, e proveremo a dare una risposta solo all’inizio del settimo capitolo; poiché dopotutto si tratta di un on dit, meglio passare a supposizioni legate all’evidenza archeologica. Fidia, dopo la creazione del modello iniziale in creta, partecipò a tutte le operazioni: formatura, fusione, saldatura delle parti separate e rifinitura a freddo sino ai ritocchi finali con l’aggiunta di dettagli multicolori per sopracciglia e labbra in rame rossastro e per gli occhi con pupille di pietra o vetro e bulbo in osso o avorio. L’Atena bronzea fu senza dubbio fusa in parti separate, nella tecnica diretta (?) a cera persa; del resto, i bronzi di Riace, alti 1,98 m, furono prodotti con un grande getto, comprensivo di torso e gambe, e con altri minori (testa, braccia, mani, genitali, parte anteriore dei piedi e secondo dito di entrambi i piedi). Poiché la cosa migliore era produrre l’opera in prossimità del luogo finale di installazione, l’ingombrante statua è stata messa in rapporto con una grande fossa di fusione ovale con pareti in mattoni (con un’estensione massima di 7,25 m x 3,40 m e una profondità di 3,50 m) sulle pendici meridionali dell’acropoli, con all’interno un basamento di forma quadrata largo 2,40 m e uguale per grandezza alla base dell’oggetto fuso, intorno al quale corre un canale con alcune bocche di raccolta della cera che fuoriusciva; la fossa, benché non ben databile – non è però escludibile il V secolo a.C. – era affiancata da un podio su cui poteva essere montata la figura e da una struttura coperta lunga almeno 33 m39. 38   Così Settis 1973a, anche per la menzione del toreuta Mys figlio di Hermias in un’iscrizione ateniese del 334/3 a.C.; Hölscher, Simon 1976, p. 131; Hurwit 1999, p. 228; Settis 2006, pp. 42 sg. Sui disegni di Parrasio si veda Plinio, Nat. XXXV,36,68. Possibilisti su Mys e Parrasio con Fidia Rodenwaldt 1926, pp. 200 sg., e Koch 2000, pp. 68-70. 39   In dettaglio Zimmer 1990, pp. 62-71; Zimmer 1999a; lievi dubbi in Lundgreen 1997a, pp. 191 sg.

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Inoltre, un’iscrizione ricomposta da undici frammenti riporta un rendiconto di spese annuali per l’acquisto di legna, carbone e soprattutto rame e stagno in notevole quantità, registrate per un totale di 9 anni – i due metalli-base della lega sono attestati in dosi maggiori nella parte iniziale –, ed è stata connessa con l’Atena bronzea di Fidia, a dispetto della mancanza di riferimenti certi a una statua, se non nelle integrazioni. 9 anni: una durata appena inferiore a quella della lavorazione di altre opere più tarde e ancor più mastodontiche come il Colosso di Rodi di Carete (32 m, 12 anni) o il Mercurio di Zenodoro (10 anni)40; lavorare tutto l’anno non era però possibile perché le fasi di essiccamento dell’argilla duravano troppo in inverno, e le intemperie impedivano le colate nella fossa. Colpisce il ricorrere in ogni annualità della voce «terra e crini di cavallo»: studi sull’anima di fusione delle statue hanno rivelato l’impiego di peli di animali, come sulla Lupa Capitolina, che bruciando lasciavano dei pori in grado di rendere l’argilla leggera e adatta a far sfiatare l’aria. Altrettanto degna di nota risulta la menzione di argento non stampato per la decorazione, poiché anche nel bronzo di Riace A la chiostra dei denti è d’argento. Su tutto vigilava una commissione di supervisori (epístatai) qui in numero imprecisato, con un compenso annuale di 1.963 dracme e 2 oboli, incaricati assieme al segretario e a figure ancillari di sorvegliare gli appalti e la corretta spesa delle somme a disposizione; il costo complessivo del progetto, finanziato dai colacreti, i tesorieri preposti alla cassa pubblica, è stato calcolato intorno alle 500.000 dracme, pari a 83 talenti, o intorno alle 460.000 dracme, pari a 69 talenti, conteggio molto incerto data la variabilità delle somme annuali41: vedremo poi nel capitolo sulla Parthénos cosa volessero dire cifre del genere in rapporto al costo della vita. Ad Atene commissioni come quella, con in media da tre a sette membri, erano designate con decreto ad hoc in occasione della delibera sulla realizzazione di specifiche opere pubbliche (edifici, statue); cambiavano annualmente, garantivano l’ordine sul cantiere e gestivano ingenti fondi in sintonia con le direttive degli 40   IG I3 435 (dall’acropoli, dalle sue pendici nord e dall’agorá): Davison 2009, III, pp. 1098-1112. Si veda poi Plinio, Nat. XXXIV,18,41 (Colosso di Rodi, della fine del IV secolo a.C.), 45 (Mercurio di Zenodoro, ai tempi di Nerone). 41   Dinsmoor 1921, p. 126; Davison 2009, II, p. 1111.

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organi deliberativi e consultivi. Alla chiusura dei lavori seguivano la trascrizione monumentale su pietra e l’esposizione pubblica dei dati selezionati e sintetizzati (acquisto di materiali, pagamenti dei lavoranti nei cantieri, rendicontazioni specie di metallo e materiali preziosi), sia per dimostrare la legalità e la trasparenza delle operazioni finanziarie, sia per evitare le falsificazioni possibili per la parallela documentazione su altri supporti, sia per glorificare gli ufficiali: nel mondo antico niente è comparabile al complesso delle iscrizioni finanziarie ateniesi prodotte nella seconda metà del V secolo a.C. Gli epistati, eletti o scelti a sorte, erano reclutati dalla classe dirigente: tra quelli eventualmente della cosiddetta Prómachos si affaccia un Callistrato, identificabile con lo stratego in servizio nel 441/0 e 439/8 a.C. Con i tanti appalti pubblici in molti furono coinvolti in simili commissioni; siccome le materie prime andavano contate, pesate e controllate in modo scrupolosissimo, il processo produttivo finiva al centro dell’attenzione, consentendo ai cittadini di frequentare i cantieri, un po’ alla maniera dei «visitatori» dell’officina dei bronzisti dipinta sulla Coppa del Pittore della Fonderia, e di seguire ogni passo della fabbricazione, benché senza per forza intromettersi da specialisti in questioni strutturali, architettoniche e tantomeno figurative42: altro che comportamenti e modi di fare insindacabili e altro che assenza di vincoli restrittivi, la macchina amministrativa era complessa e la sorveglianza soffocante, una situazione che sarebbe raccapricciante per qualche artista contemporaneo! Se di queste commissioni riparleremo a proposito del Partenone, ricordiamoci che Pericle fu epistate della Parthénos nell’ultimo anno della lavorazione. Di quei rendiconti, se correlabili alla cosiddetta Prómachos, è immaginabile la collocazione all’aperto, vicino alla statua; grazie all’esame dei caratteri delle lettere il decennio 460/50 a.C. pare il più indiziato43, conciliandosi oltretutto con la fine dell’impegno di Fidia a Delfi. Un anno più o un anno meno sulla scena politica può fare la differenza, ma il periodo copre all’incirca il

42   Come ben notato da Zimmer 1999, p. 29. Si veda anche Burford 1969, pp. 128 sg. 43   Dinsmoor 1921, p. 129; Raubitschek, Stevens 1946, p. 113; Raubitschek 1949, p. 200; Davison 2009, II, p. 1105. Si veda anche Marginesu 2010, p. 32 (inizio anni Quaranta; pp. 29-31, contro l’assunto senz’altro errato di Gill 2001, pp. 269-274).

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declino di Cimone e l’ascesa di Pericle e di personaggi come gli strateghi Leocrate, Mironide e Tolmide. Ma, al di là dei nomi, un progetto come quello della cosiddetta Prómachos poté mettere tutti i capifila e i gruppi politici d’accordo: una tappa cruciale sulla via del risveglio dell’acropoli. Lì Fidia realizzò un’altra Atena, presso l’angolo nord-est della fronte orientale dei Propilei, la più degna di esser vista tra le sue statue a detta di Pausania44; parere confermato dal retore greco del II secolo d.C., Elio Aristide45, il quale la cita alla fine di un elenco delle opere più magnificenti, belle e dalla massima acribia di Fidia, che per l’eccellenza fanno meritare elogi all’artista e suscitano piacere in chi guarda. Si apprende di più sulla Lemnía da uno scritto del 163 d.C. di un altro retore greco, Luciano, le Imagines. Un personaggio, Licino, turbato da un incontro con una sconosciuta, racconta all’amico Polistrato di aver rischiato la pietrificazione come dopo la contemplazione della Gorgone: aveva visto una donna misteriosa che si rivelerà Pantea di Smirne, la favorita dell’imperatore Lucio Vero; di lì il divertissement mirante a riplasmarne le sembianze attraverso plurimi modelli del patrimonio statuario e pittorico per lo più del V secolo a.C. e non oltre l’età di Alessandro Magno, in una mimesi eclettica senza pretesa di coerenza. La condizione fondamentale? Una bellezza senza pari. Licino si mette a descrivere Pantea a Polistrato mediante un patchwork delle migliori singole parti (soprattutto del volto), dell’espressione e del panneggio da un canone di capolavori raffiguranti dee ed eroine, tanto da dissolverne i tratti concreti in un’ipostasi di bellezza e da trasformarla in opera d’arte: tale il potere della parola, pur nella consapevolezza di non poter che deturpare l’archetipo (la donna) a causa della debolezza della tecnica! Per evocarla, il discorso estrae dall’Afrodite Cnidia di Prassitele la chioma, la fronte, la linea perfetta delle sopracciglia, il languore degli occhi, lo splendore, la grazia e la misura dell’età; da una Afrodite denominata nei Giardini di Alcamene, allievo di Fidia, le guance, il prospetto del volto, l’estremità delle mani e l’agilità delle dita affusolate; la Lemnía di Fidia offre il 44   I,28,2. Sulla posizione sull’acropoli si veda anche Stevens 1936, p. 515, fig. 63, numero 1. 45   Or. 34,28.

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contorno di tutto il volto, la delicatezza delle gote e un naso ben proporzionato; un’altra sua opera, l’amazzone di Efeso, fornisce poi l’armonica connessione delle labbra e del collo; e Polistrato – è lui a raccomandare a Licino le creazioni fidiache funzionali all’assemblaggio – ricorda come alla Lemnía Fidia ritenne giusto apporre il nome, spia di come sulla base dovesse trovarsi anche la firma; infine, la Sosandra di Calamide (appellativo di Afrodite probabilmente da intendere come «salvatrice di uomini») è chiamata in causa per il pudore e il sorriso nobile e sfuggente nonché per la composta eleganza del mantello, tranne per il fatto che Pantea ha il capo scoperto. Puntualizzazione molto significativa: quest’opera, vista da Pausania all’ingresso vero e proprio dell’acropoli e dedicata da Callia, forse l’autore della pace stipulata con i Persiani nel 449/8 a.C. sposato con la sorellastra di Cimone, Elpinice, è l’unica nell’elenco di Licino a presentare il capo coperto; ciò può significare che la Lemnía, al pari delle altre statue di Afrodite e dell’amazzone, tutte individuabili nella tradizione copistica, aveva la testa scoperta, ossia senza elmo46; un fatto abbastanza raro per Atena che ne spiega l’accostamento alle immagini di Afrodite, la dea più naturalmente associata all’espressione della bellezza. Ulteriori riferimenti possibili alla statua di Fidia risultano troppo concisi e sibillini per noi. Plinio pare alludervi quando ne ricorda una Minerva in bronzo di sì straordinaria bellezza da meritare il cognomen «Forma» (la Bella)47. Secondo un altro retore greco, Imerio48, Fidia seppe essere molto vario perché né sempre fece Zeus né sempre raffigurò nel bronzo Atena armata ed estese la propria arte ad altri dèi e adornò la stessa Atena spandendo sulle guance un rossore funzionale a proteggerne la bellezza al posto dell’elmo; due le deduzioni: che la dea (in bronzo) non avesse l’elmo in capo, come detto tra le righe anche da Luciano, e in più che il rossore sulle gote, elogiate da Licino, fosse ottenuto mediante uno scintillio per mezzo di agemine nel bronzo, a meno di non voler pensare, meno probabilmente, che questa coloritura   Im. 4-6: commento in Cistaro 2009, in part. pp. 69-99.   Plinio, Nat. XXXIV,19,54. 48   Or. 68,24 (seconda metà del IV secolo d.C.). Contro l’identificazione con la Lemnía si veda Plommer 1959. 46 47

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sia morale e derivi da un effetto retorico per indicare una bellezza virginea49. Atena trae il nome, Lemnía, da coloro che la dedicarono, dall’isola nord-egea di Lemno, sottratta da Milziade intorno al 500 a.C. alla popolazione panellenica: la presenza ateniese è avvalorata da evidenze funerarie e sacrali nei principali insediamenti, Efestia e Myrina, in particolare nel secondo quarto del secolo, al tempo del figlio Cimone. Da tempo gli storici discutono intorno alla natura giuridica dei Lemni, forse coloni che, legatissimi alla metropoli, non rinunciarono alla cittadinanza ateniese, per cui l’etnico Lémnioi può essere inteso come indicatore di residenza o luogo di nascita: una comunità ateniese e lemnia, che, annoverata tra gli alleati versanti un regolare tributo annuo alla Lega delio-attica e muovendosi liberamente tra l’isola e l’Attica, compiva lì dediche, come sull’acropoli di Atene o nel santuario di Nemesi a Ramnunte, dove nel secondo quarto del V secolo a.C. «i Ramnusi abitanti a Lemno» consacrarono un elmo corinzio inscritto alla maggiore divinità del loro demo di origine50. È di conseguenza entrata in crisi l’interpretazione più tradizionale, secondo cui sull’isola solo intorno alla metà del V secolo a.C. sarebbero arrivati dei cleruchi, Ateniesi di pieno diritto che in funzione militare e difensiva si stanziavano temporaneamente su terre confiscate alle popolazioni locali perché diventate insicure a causa di sedizioni interne o pericoli esterni; il presunto invio di cleruchi a Lemno, in realtà ignoto per il V secolo a.C., è frutto di un moderno automatismo, non per forza legittimo, basato sulla constatazione di un dimezzamento del tributo annuo, con certezza dal 444/3 a.C. Stavolta non solo fonti, perché grazie alle loro informazioni è finalmente possibile un recupero della statua in un tipo per lo più trasmesso da teste purtroppo senza corpo o da torsi ormai acefali51, con un’eccezione.   Così Magi 1976, pp. 324-327.   Per la discussione e una nuova soluzione si veda Marchiandi 2008; differisce l’impostazione di Moggi 2008; per i nessi tra Lemno e Cimone si veda Culasso Gastaldi 2010. 51   Per una lista delle repliche e delle riproduzioni su gemme si veda Kassel 1991, pp. 152-179, nn. 32-45. Per la statua di Dresda e la pertinenza della testa si veda Dresden 2011, pp. 121-131, n. 2 (J. Raeder). Per la Lemnía si vedano: Becatti 1951, pp. 169-174; Linfert 1982, pp. 59-66; Strocka 2004, pp. 218 sg., n. 7; Davison 49 50

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Fig. 13. Copia dell’Atena Lemnía (età di Tiberio/Claudio). Dresda, Skulpturen­ sammlung, Staatliche Kunstsammlungen, inv. Hm 49.

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Infatti, una copia a Dresda, in virtù della pertinenza della testa senza elmo al corpo, restituisce l’idea più completa dell’originale, alto poco più di 2 metri (fig. 13). Indossa il peplo, aperto sul fianco destro e tenuto in vita mediante una cintura composta di due serpenti annodati al centro; un’egida squamata, fissata alla spalla destra con due serpenti e provvista di gorgoneion spostato a sinistra poco sotto il seno, attraversa il petto in diagonale; la dea si appoggia sulla gamba destra, nascosta da pieghe verticali di larghezza variabile che ne sottolineano la funzione portante, mentre il loro ritmo diventa meno regolare in corrispondenza del margine esterno dell’altra gamba, flessa e scartata di lato; anche il drappeggio sul retro asseconda la ponderazione. Il braccio sinistro si estende di lato per appoggiarsi alla lancia con l’estremità davanti al piede sinistro, mentre il destro si abbassa lungo il fianco, ma perché? Siccome i torsi sono tutti frammentari, il gesto è arguibile solo grazie ad almeno sei gemme tardo-ellenistiche/proto-imperiali che riproducono la statua a mezzo busto, affiancata in modo un po’ disorganico da un elmo corinzio52: l’aggiunta non superflua può denotare che era retto dalla mano destra; in sua direzione si gira la testa dall’ovale allungato (fig. 14). La figura verte così su un incrocio di linee: la torsione della testa verso l’elmo è confrontabile con una statuetta di Atena a Baltimora in stile severo, senz’altro anteriore alla Lemnía, con lo sguardo appuntato su una civetta sulla mano destra53; ma il movimento è qui bilanciato dall’egida in diagonale nonché dalla direzione dell’orlo di pieghe sotto la vita (apoptygma) che riporta gli occhi dello «spettatore» a sinistra, dalla parte della gamba libera. Malgrado il filtro della traduzione in marmo, è ancora apprezzabile la bellezza dei tratti tanto decantati nel dialogo di Luciano? In parte sì, tanto più davanti alla copia di grande qualità a Bologna (fig. 15), dove spicca la splendida chioma che, voluminosa, da sotto la benda fuoriesce a ciocche ondulate e

2009, I, pp. 45-68, n. 5. Per le critiche all’identificazione: Amelung 1908; Schrader 1911, pp. 60-70; Lamer 1925; Hartswick 1983; Ridgway 1992, pp. 141-143; Harrison 1996, pp. 52-59; Meyer 1997; Hartswick 1998; Meyer 2004. Per una nuova difesa si veda Neumann 2004. 52   Furtwängler 1896; Furtwängler 1896a, p. 72. 53   Pandora 1995, pp. 242 sg., n. 63.

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Fig. 14. Atena Lemnía: ricostruzione. Copenhagen, Giardino Botanico.

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Fig. 15. Copia dell’Atena Lemnía (età augustea). Bologna, Museo Civico Archeologico, inv. G 1060.

come cesellate intorno al viso, da cui trapela la derivazione da un prototipo bronzeo. Come datare allora l’originale sottostante? Grazie al linguaggio formale, che ne raccomanda una collocazione grossomodo verso gli anni centrali del V secolo a.C. Se, come nelle sculture della prima metà del secolo, la gamba libera non solleva ancora il piede, la moltiplicazione e la varietà delle pieghe sanciscono un superamento delle portatrici di peplo in stile severo del genere dell’Atena di Evenore o delle eroine nel frontone orientale di Olimpia; qualche vaga consonanza è poi riscontrabile con la decorazione del Partenone, il cui cantiere aprì nel 448 a.C.: per il corpo con una divinità su una metopa (N 32) e per i lineamenti e la forma della testa con una figura sul fregio orientale (V 28). Questo implicherebbe una parziale sovrapposizione con i lavori alla cosiddetta Prómachos: che un artista portasse avanti contemporaneamente più opere non stupisce, e sono casomai le moderne ricostruzioni ad aver bisogno di stabilire per comodità sequenze a volte sin troppo rettilinee con un «prima» e un «dopo» per contro intersecati.

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Vicinissime sull’acropoli ma diversissime, non solo per dimensioni, la cosiddetta Prómachos e la Lemnía denotano la perizia di Fidia nel produrre immagini divergenti della dea in dipendenza delle occasioni di dedica54: aveva ragione, Imerio. Difatti, Atena rinuncia qui allo scudo e svela il viso, mentre l’egida si rimpicciolisce, a stemperarne l’indole combattente (ma la dea non diventa più pacifica come spesso si legge); e non è fortuito che l’elmo corinzio soprattutto nel V secolo a.C. si combini con le sue versioni meno rappresentative55. La dea è attratta dall’elmo dismesso, un atteggiamento intorno al cui significato molto si è scritto, ma per lo più sotto il condizionamento della presunta dedica da parte dei cleruchi56: è un simbolo di pace armata a sottolineare il carattere della loro missione? O Atena in persona consegna un elmo ai cleruchi in partenza, sì assenti ma integrabili da chi guardava quale espressione di uno strumento per il consolidamento dell’egemonia ateniese all’interno della Lega delioattica? Un dono «imperiale» cui Pericle non fu estraneo, perché lì vicino più tardi fu collocata una sua statua-ritratto? Ora, il motivo dell’elmo in mano di per sé non costituisce una novità, lo è semmai la sua formulazione a tutto tondo, a meno di non supporre vanamente un modello scultoreo preesistente: Atena si presenta così nella pittura vascolare sin dalla fine del VI secolo a.C. e con minori attestazioni negli anni della Lemnía. In quell’imagerie Atena con elmo in mano può comparire in scene come il giudizio di Paride (non a caso un concorso di bellezza!) o in parecchie avventure di eroi, seppur senza intervenire in prima persona nelle lotte (Teseo, episodio di Perseo con la Gorgone, Bellerofonte contro la Chimera e soprattutto le fatiche di Eracle), oppure finanche da sola senza bisogno di una cornice narrativa; e forse Fidia rimase colpito a Delfi dalla metopa centrale sul lato sud nel thesaurós degli Ateniesi, con la raffigurazione di Teseo e Atena, verosimilmente con elmo corinzio (perduto) nella mano destra57. Con ciò il gesto

  Si vedano anche: Linfert 1982, pp. 74 sg.; Ritter 1997, pp. 51 sg.   Ritter 1997, pp. 49-52 (pur con dubbi ingiustificati sull’elmo corinzio delle gemme). 56   Kirsten 1954; sintesi in Schäfer 1997, pp. 58 sg., 69 sg.; Hölscher 2011, p. 67; escludibile l’alternativa di Steinhart 2000. 57   Hoff 2009, p. 100, figg. 9.3-9.4 (ricostruzione). 54 55

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non è ancora decifrato: difficile riassumerne tutte le eterogenee attestazioni sotto un’unica etichetta, ma la dea che si svela tende a segnalarne il favore58, qui nei confronti dei dedicanti e di riflesso degli Ateniesi tutti. Come poterono arrivare i Lemni all’ormai celebre artista? Da agente intermediario poté agire l’allievo Alcamene, detto dalle fonti in modo ambivalente d’origine ateniese o lemnia, forse perché appartenente a quella comunità ateniese e lemnia59. Dopo avergli reso noto la statua che desideravano di vedere realizzata e averne definito il materiale, le dimensioni e il compenso, come gli comunicarono quell’intenzione? In modo generico o dettagliato? E con qualche ingerenza iconografica? O fu Fidia a sottoporre alla loro scelta più progetti? Mai lo sapremo a causa della variabile casistica dei rapporti tra committenti e artisti in età tanto antica quanto moderna60; fatto sta che lo scultore si ritagliò un ampio margine di manovra, poiché a lui spettò di tradurre in scultura il tipo dell’Atena con elmo in mano, un codice comune ad artista, committenti e pubblico, avvalendosi della propria immaginazione e capacità di invenzione formale. In ultima analisi, a forza di produrre statue di Atena – quella più maestosa era ancora di là da venire – al punto da diventarne l’interprete principale, viene da chiedersi cosa Fidia possa aver provato: fierezza sì, ma non solo, giacché l’essenza divina della dea non si limitava alle qualità civiche e guerriere. Furono gli Ateniesi secondo Pausania a conferire l’appellativo di Ergáne (operosa) ad Atena, venerata dagli artigiani per il pratico ruolo di istitutrice delle téchnai e per l’abilità manuale; sulla base di un’interpretazione dello stesso brano del periegeta, invero poco perspicuo, un suo specifico luogo di culto sull’acropoli è stato identificato con un sacello della seconda metà del VI secolo a.C. poi risparmiato nella galleria settentrionale del Partenone61. Ancora, una coppa in frammenti dall’acropoli (510-500 a.C. circa), raffigura svariati artigiani: un fabbro siede su una piattaforma rialzata, reggendo un martello davanti a una fornace, dal cui retro sbuca il profilo di   Kunisch 1974; si veda in precedenza anche Klein 1915, p. 21.   Lippolis, Vallarino 2010, pp. 251 sg. 60   Fondamentale al riguardo Settis 2010. 61   Pausania I,24,3: sintesi in Consoli 2004. 58 59

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un ragazzo che aziona i mantici; accanto a lui, ma girata dall’altra parte, siede Atena, che, con elmo attico nella mano destra e scudo nella sinistra, guarda benigna verso l’incoronazione di un pittore al tornio62. Infine, a Olimpia a chi sacrificavano i discendenti di Fidia, i lucidatori? Ad Atena Ergáne63, naturalmente. La dea era celebrata insieme a Efesto durante le Calchee, festeggiate il 30 del mese di Pianepsione, coincidente con la seconda metà di ottobre e la prima metà di novembre; peccato saperne così poco: festa di tutti gli Ateniesi o degli artigiani? Con questa è stato collegato un frammento tradizionalmente attribuito a Sofocle: «Scendete dunque tutti in strada, voi, massa degli artigiani, che, in onore della Figlia di Zeus dagli occhi gelidi, Ergáne, la dea del lavoro, siete presenti con cesti di granaglie, oppure intenti all’incudine, con pesanti martelli»64. Se Fidia prendeva parte a simili processioni, chissà l’invidia degli altri partecipanti, nel sogno di un analogo rapporto con la dea! Inoltre, durante le Calchee le sacerdotesse (quella di Atena Poliás con due assistenti?) e due arrefore, bambine tra i 7 e gli 11 anni scelte dall’arconte re, innalzavano il telaio per la tessitura di un peplo destinato a essere dedicato nove mesi dopo alla divinità poliade nel corso della festa ateniese più importante, le Panatenee, tra fine luglio e inizio agosto, il mese di Ecatombeone; proprio il suo culmine con la consegna del peplo occupa il centro del fregio orientale del Partenone, il monumento cui più si lega il nome di Fidia: tra poco diremo perché e in quale effettiva misura, ma non prima di un intermezzo.

62   Attribuita al Pittore di Euergides: Vidale 2002, pp. 178-180, fig. 23; Pala 2012, pp. 250-252, fig. 135. 63   Pausania V,14,5. 64   Fr. 844. Sulla festa si vedano: Deubner 1962, pp. 35 sg.; Harris 1995, p. 15; Vidale 2002, pp. 83-87; Delivorrias 2004, pp. 59 sg.

Intermezzo Un dio cacciatore di cavallette per l’acropoli Il catalogo fidiaco include statue non solo di Atena, ma anche di divinità maschili; tra queste – forse – un’altra in bronzo di Apollo chiamato Parnópios, vista da Pausania1 davanti al lato orientale del Partenone; il dio era così denominato perché, siccome l’Attica era infestata dalle locuste, aveva promesso agli abitanti di allontanarle dalla regione, e, senza dire in che modo, gli Ateniesi sanno che lo fece; da lui si apprende poi che in Asia Minore sul monte Sipilo le locuste erano state eliminate più volte, mai nella stessa maniera (bufera di vento; invio della pioggia da parte di Apollo e arrivo di un caldo intenso; freddo improvviso). L’appellativo di Parnopio è analogo ad altri che fanno di Apollo una divinità protettrice delle attività agrarie e pastorali contro le calamità naturali: le epiclesi pertinenti a questo suo aspetto, oltre a Parnopio, sono per esempio Sminteo (nemico dei topi divoratori dei raccolti), Sauroctono (uccisore di lucertole) o più semplicemente Apotrópaios, come in recinto sacro da poco scoperto a Cirene; anche nelle prime due versioni il dio ricevette nel corso del IV secolo a.C. statue di illustri scultori, come Scopa e Prassitele. Sempre Pausania puntualizza che la statua era detta di Fidia, il che significa che a dichiararne la paternità era una memoria orale e non una firma, forse mai presente a differenza della Lemnía. Ma quando avvenne l’invasione di cavallette? Non si sa, ma è significativa una glossa del lessicografo Esichio

1   Pausania I,24,8. Sul culto di Apollo Parnópios in Asia Minore si veda anche Strabone XIII,1,64.

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di Alessandria2, secondo cui già il tiranno Pisistrato nel VI secolo a.C. aveva eretto sull’acropoli in onore di Apollo Parnopio una cavalletta in funzione apotropaica: la statua ascritta a Fidia rimpiazzò una dedica andata persa nella scorreria dei Persiani? In merito ad altre immagini del dio con compiti affini ad Atene, una statua di Apollo Alexíkakos (che allontana i mali) di Calamide si trovava davanti al tempio di Apollo Patrôos sul lato ovest dell’agorá; Alexíkakos perché avrebbe posto fine alla pestilenza che colpì gli abitanti nel 430 a.C. in concomitanza con la Guerra del Peloponneso3, ma Calamide fu attivo specie nella prima metà del V secolo a.C., per cui qualcosa, come spesso capita, non quadra. Sin dall’inizio del secolo scorso la presunta statua Fidia è stata recuperata in un tipo di Apollo, a volte considerato persino la più potente rappresentazione del divino dell’antichità; trae il nome da una copia, la migliore per stato conservativo, ora a Kassel in Germania (figg. 16-17), alta 2 m e con buona probabilità proveniente da un piccolo «sacello» attiguo al settore termale di una villa identificata con una proprietà imperiale di Domiziano presso il Lago di Sabaudia4; alla gamba sinistra si affianca un tronco di sostegno laterale qui con una faretra, l’espediente tipico delle repliche in marmo ma assente nel bronzo. Il tipo, noto da venticinque repliche tra statue (tra cui una proveniente da Atene e un’altra ridotta da Epidauro), torsi e teste, compare di profilo su monete di età ellenistica (sul verso di tetradrammi emessi nel 143/2 a.C., insieme a una civetta quale simbolo della città) e romana (III secolo d.C.) ad Atene: nessun dubbio dunque sulla celebrità e sull’ubicazione dell’originale. Apollo ha le gambe molto vicine, con la pianta dei piedi aderente al suolo e la gamba flessa poco avanzata che, al pari di quella 2   S.v. katachéne (V secolo d.C.). Tra i pochissimi a non trascurare la glossa Fadinger 1993, p. 280. 3   Pausania I,3,4. Sul tempio di Apollo Patrôos e l’Apollo di Calamide si veda Lippolis 1998-2000, pp. 144 sg., 162. 4   Basilare Schrader 1924, pp. 82-88; Becatti 1951‚ pp. 145 sg.; Strocka 2004, p. 217, n. 5; Strocka 2005, p. 122; Vogt 2007; Davison 2009, I, pp. 417-432, n. 13. Sulla copia eponima Gercke, Zimmermann-Elseify 2007, pp. 44-50, n. 4. Per le varie riproduzioni si vedano: Schmidt 1966; Kassel 1991, pp. 92-151, nn. 1-31; Mosch 1999, pp. 40-44 (con imprecisioni). Per la ricostruzione a Kassel dell’Apollo in bronzo si veda Formigli 2013, p. 289, fig. 371 (con critica sull’aspetto come dorato).

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portante, pare contribuire alla statica della figura; il braccio sinistro era piegato al gomito, con arco e freccia in mano; la spalla destra si solleva appena, e il braccio è abbassato e scostato dal corpo, forse in origine con in mano un ramoscello di alloro con finalità purificatrice; attributi comuni del dio nel V secolo a.C. ad Atene5. La testa, volta dalla parte della gamba stante, è incorniciata da una lunga capigliatura tenuta insieme da una benda; aderente alla calotta cranica e ondulata, sulla fronte e sulle tempie si articola in una folta massa di ricci più brevi e chioccioliformi, separati da una scriminatura leggermente spostata verso sinistra; sul retro i capelli si raccolgono in quattro trecce confluenti in una crocchia, un motivo molto frequente nella prima metà del V secolo a.C. per varie divinità ed eroi (e non solo, come per la presunta copia del Milziade di Delfi), del quale si è forse esagerato il legame con Apollo6; altre ciocche spiraliformi da dietro le orecchie cadono sulle spalle. Gli occhi sono a mandorla con quello sinistro di poco più in alto, e la bocca mostra i denti, almeno a giudicare da alcune repliche: il motivo, con sfumature varie a seconda dei contesti, serve qui a sottolinearne le facoltà oracolari?7 Certo, la notorietà della statua non è sufficiente a garantirne la paternità fidiaca; indi nessuno stupore se altre pur sporadiche proposte ne hanno preferito per varie ragioni un riconoscimento con il già citato Apollo Alexíkakos di Calamide8. Le complicazioni non finiscono, perché si conosce un altro tipo di Apollo in stile severo (cosiddetto Omphalos), anch’esso noto da parecchie repliche specie del II secolo d.C. che riproducono un originale in bronzo spesso identificato con l’opera di Calamide e molto differente dal tipo Kassel nella postura della figura, nel viso e nella configurazione della chioma9: a parità di soggetto e di attributi, le due statue illustrano bene la moltitudine di possibilità ritmiche e formali schiusesi con lo stile severo. Ma chi ha fatto chi? Nessun   Ad esempio, si veda Nick 2002, pp. 52 sg., tav. 8,4.   Perché confacente al suo ruolo di protettore dell’efebia e del passaggio dei giovani all’età adulta: secondo una pratica rituale altrove indirizzata ad altri dèi ed eroi, a Delfi i fanciulli gli consacravano le chiome. Per il motivo della doppia treccia usato per Teseo si vedano: La Rocca 1985, p. 32; Romeo 1994, pp. 102 sg. 7   Così Himmelmann 2003, p. 118, nota 172. 8   Ad esempio, si veda Harrison 1996, pp. 64 sg. 9   Bildhauerkunst 2004, II, figg. 6 a-e. 5 6

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Fig. 16. Copia dell’Apollo nel cosiddetto tipo Kassel (I-II secolo d.C.). Kassel, Museumslandschaft Hessen, Antikensammlung, inv. Sk. 3.

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Fig. 17. Copia dell’Apollo nel cosiddetto tipo Kassel (I-II secolo d.C.). Kassel, Museumslandschaft Hessen, Antikensammlung, inv. Sk. 3, particolare.

argomento è a prova di obiezioni. E allora? Meglio fermarsi qui lasciando gli autori innominati? O conviene limitarsi a qualche impressione personale, come ammesso tempo fa da Giovanni Becatti, per cui, con un’osservazione in parte condivisibile, la statua «ha ancora in sé qualcosa dello studio accademico del giovane scolaro di un maestro di stile severo e al tempo stesso l’impronta di un temperamento che guarda verso nuovi orizzonti»?

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Sul tipo Kassel il viso e le sue singole componenti (disegno della bocca, taglio degli occhi e tracciato delle sopracciglia), la sofisticata chioma, differenziata sopra e sotto la benda, la sua ricchezza, già distante dalle essenziali e sobrie acconciature severe, nonché l’altezza e la foggia della fronte come delimitata dall’attacco dei capelli richiamano il tipo collegabile all’Atena Lemnía; su entrambi i capelli si ondulano sul davanti quasi in orizzontale a partire dalla spartizione al centro: un marchio di Fidia? O è ancora troppo poco per supporne la mano? Forse sì, tanto più che si potrà sempre imputare al confronto il vizio di un ragionamento circolare – e in parte, come inevitabile, lo è –, per cui è inutile provare a convincere gli scettici sull’identificazione della Lemnía. Come che sia, resta da stabilire la posizione di una creazione del genere in seno alla prima metà del V secolo a.C., e, benché una possibile soluzione sia insita nell’accostamento già proposto, aggiungiamo qualche indizio. La posizione ravvicinata delle gambe ha suggerito alla critica l’uso di un cosciente mezzo espressivo per potenziarne la dignità riallacciandosi allo schema dei kouroi10; eppure, la posa ricalca ancora una formula dello stile severo ed è memore della ponderazione dell’efebo cosiddetto di Crizio, e lo stesso Apollo si presenta a gambe quasi unite e con un’impostazione del corpo lungo una linea verticale nel frontone occidentale di Olimpia. Il torso possente, senza più gli eccessi dell’anatomia segmentata distintiva di alcune figure frontonali di Olimpia, si imparenta con le statue di Policleto, afferrabili sin dagli anni Sessanta del V secolo a.C., o con una figura su una metopa del Partenone (la n. 3 a sud); infine, i riccioli voluminosi e chioccioliformi si incontrano nel bronzo di Riace A. Tutti paralleli che ne suggeriscono l’appartenenza a un momento di transizione, in parte ancora legato allo stile severo in via però di sorpasso, verso gli anni centrali del V secolo a.C., più o meno in contemporanea, nuovamente, con la lavorazione della cosiddetta Prómachos: stava sorgendo un altro stile, carico di avvenire. Tre statue in bronzo, due certe, una attribuita: dopo il trauma della distruzione persiana del 480/79 a.C., insieme all’olivo sacro

  Della Seta 1930, p. 200; Borbein 1985, p. 260. Si veda anche Karusos 1954.

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Intermezzo. Un dio cacciatore di cavallette per l’acropoli

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ad Atena, miracolosamente ricresciuto, l’acropoli di Atene si stava risvegliando anche grazie a Fidia. Lì, dopo il passaggio persiano e sino alla metà circa del secolo non erano stati né costruiti nuovi edifici sacri né ricostruiti quelli incendiati dai barbari, perché in conformità a un giuramento pronunciato dai Greci a Platea si era deciso di conservarne le rovine come memoriali dell’empietà barbara, pur provvedendo alla continuazione dello svolgimento dei culti in apprestamenti provvisori e a ripulire le tracce della devastazione; se del tempio principale di Atena Poliás sopravviveva un moncherino, si erano interrotti i lavori al cosiddetto Pre-Partenone (II), un cantiere non ultimato al momento dell’invasione persiana. Tramontata l’era dei maratonomachi, un buon momento per affrancarsi dai vincoli di quella clausola poté coincidere con il 449/8 a.C., la data più attendibile per la stipulazione della pace nota con il nome del principale negoziatore ateniese, Callia, genero di Cimone, che sancì tra Ateniesi e Persiani la fine delle ostilità, ma non dell’inimicizia verso i nemici per natura. Pericle, per spingere il popolo a essere orgoglioso e a ritenersi degno di grandi imprese, avanzò una proposta di legge in base alla quale tutti i Greci in Europa o in Asia erano sollecitati a inviare ad Atene una delegazione per decidere tra l’altro che fare dei templi incendiati dai barbari, dei sacrifici dovuti agli dèi e dei voti per la libertà della Grecia al tempo della guerra; ma, a quanto si diceva, al progetto si opposero gli Spartani11. Malgrado il fallimento, i sogni di rilancio non svanirono, e Pericle, pieno dello stesso spirito di iniziativa che richiedeva ai concittadini, aveva ormai deciso: per superare la memoria di Cimone a livello monumentale, il suo posto era accanto ad Atena sull’acropoli, non più nell’agorá troppo legata al rivale (erme, Stoá Poikíle). Ci voleva un nuovo tempio con una nuova statua per l’acropoli. Scelta quasi scontata a questo punto, perché non si poteva che arruolare l’artista più in vista, la cui bottega aveva già dato prova di saper superare grandi sfide: uno che rientrava sicuramente tra coloro che «compiono ciò che sanno con molta facilità e rapidità e bellezza e piacevolezza»12. Pericle necessitava

  Lo specifica Plutarco, Per. 17,1.   Per dirla con Senofonte, Mem. II,7,10.

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di Fidia tanto quanto l’artista dello statista per un’opportunità straordinaria, un progetto in cui potersi finalmente cimentare non più con il bronzo, ma con l’oro e con l’avorio: della medesima generazione e ormai nella fase matura della vita, i due avevano bisogno l’uno dell’altro. Pericle sembra essere persino diventato il primo sostenitore di Fidia quando plasmò una piccola Parthénos (glissiamo sull’impossibile identificazione); poiché però non adeguata alla sua téchne, il governante lo incitò ad applicarsi intorno a questa, per quanto le dimensioni lo permettessero, e a concentrare poi tutta la potenza della propria arte in una grande Parthénos13: impresa riuscita.

13   Così Imerio, Or. 28,8: per Strocka 2004, pp. 230 sg., l’aneddoto deriva dall’esistenza di un modello realizzato da Fidia sull’acropoli prima del passaggio a uno di considerevole grandezza o uguale alle dimensioni della statua.

V La decorazione del Partenone: Fidia dov’è? Far digerire il piano di rinnovamento non fu semplice per Pericle, pubblicamente criticato: Atene aveva perso la faccia per aver trasferito da Delo il tesoro della Lega delio-attica e profittato del denaro comune versato annualmente1. Lo stesso Pericle aveva alimentato i rimproveri, ammettendo che la Grecia si sentiva vittima di una terribile violenza e di una tirannide nel constatare che i contributi versati servivano ad abbellire la città come una puttana con pietre preziose, statue e templi di migliaia di talenti; ma replicava come Atene non fosse costretta a dar conto delle proprie azioni agli alleati, perché continuava a garantire il servizio di difesa contro i barbari e aveva tutto il diritto di avvalersi della propria opulenza per opere da cui guadagnare fama perenne, in quanto le attività di ogni genere erano in grado di ridestare le arti e sollecitare la folla degli artigiani: la città con il lavoro poteva mantenersi e insieme farsi bella. A Pericle sbarrò però la strada Tucidide di Melesia, parente ed erede carismatico della linea politica conservatrice di Cimone; la contesa causò una spaccatura profonda, dal che un «partito» si chiamò «popolo» e l’altro «i pochi», una lettura dualistica un po’ riduttiva della situazione del V secolo a.C. da parte di Plutarco. A ogni modo, gli oppositori, raccoltisi appunto intorno a Tucidide, poi ostracizzato nel 444/3 a.C., con annessa soppressione della sua «eteria», non demordevano, imputando a Pericle di dilapidare le finanze e di scialacquare le entrate, e qui il tenore delle accuse cambia leggermente senza chiamare in causa   Plutarco, Per. 12-14.

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i fondi della Lega: non erano in discussione tanto l’opportunità o meno delle costruzioni quanto le cifre del finanziamento e l’uso del tributo, a dispetto del silenzio di Plutarco su eventuali controproposte concrete di Tucidide2. Tuttavia, i dati epigrafici complicano il quadro perché tutto sommato il contributo dei confederati fu limitato. Il Partenone poté costare tra 700 e 800 talenti, e anche dimezzando quasi della metà la cifra come in altri conteggi la distanza resta abissale dagli 80 talenti per il tempio, la statua e le iscrizioni di Platea: i rendiconti trascritti sulle quattro facce di una stele – ne resta però una percentuale inferiore al 25% – attestano pagamenti (lavori con salario giornaliero e mensile e lotti di lavoro affidati in blocco a piccole imprese?) a carpentieri, operai, stradini, fonditori d’oro, caricatori dei blocchi di marmo sulle ruote, responsabili del loro trascinamento sino all’officina, scultori e così via; la principale risorsa economica fu il tesoro personale della dea, con le entrate regolari e con la decima dei bottini di guerra, integrato da contributi disparati tra cui doni privati, pochissimi però e non a caso, mentre gli Ellenotami vi contribuirono in dose modesta, cinque volte in quindici anni3. Lo stesso vale per l’Atena Parthénos, secondo i cui rendiconti incisi su pietra i tesorieri di Atena furono gli unici finanziatori. Insomma, non è semplice appurare cosa salvare o meno nell’esposizione di Plutarco, che può aver ceduto alla tentazione di insaporire il racconto, e chi ci ha provato ha fornito ipotesi molto discordanti4. Il problema è il solito: che le spese necessarie per le costruzioni fossero un tema spinoso assieme al connesso rischio di alienarsi simpatie a livello panellenico è sicuro, e bisognerebbe conoscere gli anni precisi cui ancorare le tappe della pubblica querelle, prima e dopo l’avvio dei cantieri, ma la verità, quando si scende nel dettaglio, resta oscura. Continuiamo a seguire Plutarco per il bilancio sull’età di Pericle: 2   Si veda anche Diodoro Siculo XII,38,2, 40,2, per i circa 8.000 (o 10.000) talenti degli alleati trasferiti ad Atene, spesi poi da Pericle di propria iniziativa (a esser precisi per la costruzione dei Propilei e per l’assedio di Potidea). Una versione con qualche differenza in Tucidide II,13,3. 3   Giovannini 1997; Pope 2000 (discutibile però immaginare il fregio scolpito negli ultimi cinque anni di costruzione; giuste critiche già in Lanza 2004, pp. 1822); Monaco 2008, pp. 75-82; Marginesu 2010, pp. 95-118. 4   Ad esempio, si vedano: Piccirilli 2000, pp. 56, nota 20, 59; Kallet-Marx 1989.

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Crescevano le opere, mirabili per grandezza, inimitabili per grazia e bellezza, e gli artisti rivaleggiavano nell’esaltare con la perfezione tecnica il loro lavoro; ma più di tutto era stupefacente la rapidità. Tutte queste opere, ognuna delle quali si riteneva sarebbe stata compiuta a stento nel succedersi di parecchie generazioni, furono completate nel corso di una sola, fulgida, carriera politica. Dicono che una volta Zeusi udì il pittore Agatarco dirsi orgoglioso della rapidità e della facilità con cui dipingeva le sue figure, e disse «Io invece impiego molto tempo». In effetti non la facilità e rapidità d’esecuzione conferiscono all’opera perfetta bellezza e durevolezza; è il tempo che si riserva alla fatica della creazione che dà come frutto quel che è necessario alla loro conservazione. Perciò maggiore ammirazione suscitano le opere di Pericle, fatte in breve tempo per durare a lungo. Ciascuna di queste infatti era per bellezza già antica (archaîon) non appena conclusa, ma oggi esse ci appaiono fresche, quasi che appena ultimate; ne sgorga come una perenne giovinezza che ne mantiene l’aspetto inattaccabile al tempo, come se avessero sempre un soffio vitale e un’anima che non invecchia.

«Fatte in breve tempo per durare a lungo», splendida perifrasi, non inventata ma ripresa da una visione retrospettiva delineatasi molto presto (forse già nel IV secolo a.C.), che con ammirazione – e con un senso di inferiorità – guardava a quelle realizzazioni a ornamento della città5; certo, non tutti i contemporanei l’avrebbero sottoscritta, come per la costruzione delle Lunghe Mura (il sistema di fortificazioni che collegava Atene ai suoi porti al Pireo): «Da tempo, a parole, Pericle la porta alla fine, ma nei fatti neppure si muove», commenta con acidità il commediografo Cratino6, simpatizzante dello scomparso Cimone. Ancora: le opere si definiscono per bellezza già antiche, un termine tradotto in maniera modernizzante con «classiche» da qualche studioso che tra le righe sente aleggiare, non a torto, un concetto non posseduto dagli Antichi. Quali gli edifici in grado agli occhi dei visitatori di rendere degna Atene di dominare gli Elleni e tutti gli altri?7 La lista di Plutarco include il Partenone, a sua detta opera di Callicrate e Ictino, il Telestérion di Eleusi (la sala delle iniziazioni del culto di Demetra), le Lunghe Mura, l’Odeîon (la sala per la 5 6 7

  Isocrate, Antid. 234; Aer. 66.   Plutarco, Per. 13,8 (= Cratino, fr. 327 PCG).   Così a un secolo circa di distanza Isocrate (Areop. 66; Antid. 234).

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musica) ai piedi dell’acropoli e i già citati Propilei. L’elenco dei lavori sotto Pericle è come incorniciato da due menzioni di Fidia: l’artista tutto decideva e di tutto era un sovrintendente (epískopos) per Pericle, sebbene i lavori fossero diretti da grandi architetti e artisti/artigiani (technîtai); dopo aver menzionato l’Atena Parthénos e l’incisione del nome su una stele, ribadisce il biografo come quasi tutto si trovasse sotto la sua direzione, e come a causa dell’amicizia con Pericle sovrintendesse a tutti gli artisti. Possibile per la totalità delle imprese periclee? Pare un’esagerazione semplicistica, tanto più che epískopos non ha equivalenti nella terminologia ufficiale dei resoconti pubblici, sprovvista di una figura istituzionale superiore ai membri di quelle commissioni di epistati vigilanti sul compimento delle opere edilizie8; semmai, erano gli architetti, delegati al controllo della correttezza tecnica dei lavori, a fungere da capocantieri e direttori dei tanti operai, tra cui gli scultori9. Come valutare allora l’apporto di Fidia al Partenone? Queste le date di costruzione: avvio del cantiere nel 447/6 a.C.; l’Atena Parthénos fu messa in opera e dedicata nel 438/7 a.C., il che implica il completamento della cella, del montaggio delle metope e quasi certamente dell’allestimento del fregio; i lavori ai frontoni poterono iniziare nel 438/7 per concludersi nel 433/2 a.C. Tempio dorico ottastilo enorme (21,72 m x 59,02 m: fig. 18) con quantità e qualità senza pari di immagini colorate (è un’invenzione moderna e paradossale quella del Partenone quale paradigma di una Grecia bianca) e con l’introduzione di tante novità iconografiche e stilistiche10 solo in quindici anni, una durata identica a quella calcolata per i lavori al tempio di Zeus a Olimpia: mai un tempio antico è stato tanto vicino a una cattedrale gotica, ha notato Bernhard Schweitzer. Cominciamo dal ciclo di metope.

8   Di qui l’associazione di Pericle e Fidia sovrintendente è stata spesso considerata ricalcata sul rapporto Traiano-Apollodoro quale riflesso dei tempi di Plutarco, un assunto però non necessario (dubbi anche in Fehr 1981, p. 65). 9   Per i progetti preliminari e i capitolati d’appalto delle opere pubbliche si veda Marginesu 2010, pp. 65-72. 10   Da ultimi in sintesi Hurwit 1999, pp. 169-186; Holtzmann 2003, pp. 121143; Queyrel 2008, pp. 49-115. Per un’introduzione generale si veda anche Parthenon 2005. Basilari i repertori di Brommer (1963; 1967; 1977). Per il fregio sintesi banalizzante in Neils 2001 e nuova presentazione in Delivorrias 2004; per i frontoni si veda Palagia 1993.

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Fig. 18. Fronte occidentale del Partenone, dall’ingresso dell’acropoli.

I templi dorici di norma esastili non ne esibivano un numero così elevato; in quelli di 8 x 17 colonne le metope sono sì 92 ma nella maggior parte dei casi non scolpite, mentre nel Partenone tutte recano figure aggettanti, quasi a tutto tondo. I soggetti mitologici attingono a un canone di topoi convenienti e fondanti per l’identità greca in generale e ateniese in particolare e insistono su una concezione del mondo nei termini di una giustapposizione tra potenze antitetiche con la punizione della hýbris (cultura/natura, umano/animale, razionale/irrazionale, giustizia/caos, Greci/ barbari; Amazzoni, Troiani, Giganti, Centauri e, in sottofondo, i Persiani); non meraviglia che ad Atene immagini del genere già decorassero i monumenti cimoniani. Ripercorriamo il cammino di un antico visitatore dell’acropoli dopo aver varcato i Propilei. A ovest le Amazzoni combattono a piedi e a cavallo contro i Greci in duelli; le irriducibili e aggressive nemiche «assassine di maschi», così come chiamate dagli Sciti, sfidavano lo stereotipo di una femminilità docile e rimandavano non solo a mondi esotici

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e a uno stile di vita alternativo, ma si erano anche barbarizzate sin dalla metà del VI secolo a.C. e poi talora tramite l’adozione del costume persiano (non però sulle metope), raggiungendo lo stato di un popolo straniero minaccioso per l’ordine greco e ateniese11. Sul Partenone era appunto intesa come un’Amazzonomachia attica, la difesa dell’Attica contro l’invasione delle Amazzoni? Plausibile, quantunque ne manchino segni manifesti, ma ne riparleremo; per il momento segnaliamo che fu una storia tanto distintiva degli Ateniesi da ricevere un posto fisso nel catalogo delle più esemplari imprese elencate nelle orazioni funerarie pubbliche e nei discorsi diplomatici a giustificazione delle pretese di primato. Un esempio12: in una diatriba scoppiata con i Tegeati alla vigilia dello scontro di Platea per l’onore di occupare un fianco dello schieramento di battaglia gli Ateniesi si gloriavano del fatto che «è poi opera nostra la felice impresa contro le Amazzoni, che dal fiume Termodonte un giorno invasero la terra d’Attica; e anche nella Guerra di Troia non rimanemmo dietro a nessuno». A nord appunto si incontrava la presa di Troia, inquadrata dall’emergere del Sole (Elio) e dall’immersione della Luna (Selene) e con sei divinità spettatrici sulle metope iniziali: saga già commemorata nell’agorá dalle erme di Cimone, dipinta da Polignoto nella Stoá Poikíle ad Atene e diventata uno dei motivi della retorica antipersiana; semmai, grazie alla duttilità dei miti e alla loro rispondenza parziale all’attualità, più tardi, tra 427 e 406 a.C., durante la Guerra del Peloponneso, Euripide a più riprese portò in scena il conflitto troiano con implicazioni allusive al conflitto tra Greci e Greci13. A est, la facciata più importante di un tempio greco che consente l’ingresso nella cella, si trovava un evento cosmico, la Gigantomachia, il trionfo delle divinità sui Giganti, già esibito da uno dei frontoni del tempio di Atena Poliás distrutto dai Persiani, rap11   Cervellotica la motivazione per l’uso delle Amazzoni nel Partenone cercata da Stewart 1995, pp. 585-590, come incarnazione minacciosa di parthénoi non ateniesi, contraltare al provvedimento della limitazione dei diritti politici ai nati da genitori entrambi cittadini (451 a.C.). 12   Erodoto IX,27,2-5. 13   Non è dunque plausibile la lettura di Ferrari 2000, della presa di Troia sul Partenone come paradigma delle devastanti conseguenze di atti di tracotanza e quale prefigurazione persiana della distruzione di Atene.

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Fig. 19. Partenone, metopa sud 31, con Centauromachia. Londra, British ­Museum, inv. 1816,0610.15.

presentato dalla metà del VI secolo a.C. su vasi prestigiosi donati in funzione votiva sull’acropoli e tessuto sul peplo di lana offerto alla dea durante le Panatenee; inoltre, uno dei miti di fondazione della festa collegava la sua istituzione proprio a quella vittoria, in particolare di Atena sul gigante Asterio. A sud, infine, sul lato meno visibile del tempio, si assisteva alle mischie tra Centauri e Lapiti (figg. 19-20), il tema già visto a Olimpia; presunte metope «dissidenti» 13-21 (o meglio 13-20), sì perdute ma note da disegni, rappresenterebbero delle saghe regali dell’Atene primordiale; ma, data la stranezza, è meglio supporre l’omogeneità tematica con al centro l’episodio delle nozze

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Fig. 20. Partenone, metopa sud 27, con Centauromachia. Londra, British ­Museum, inv. 1816,0610.11.

di Piritoo e dell’ospitalità violata14, lo stesso soggetto presente tra i dipinti del santuario di Teseo e ricorrente nella pittura vascolare ateniese a partire dal 470/60 a.C.15. Passiamo a uno dei più lunghi rilievi del mondo antico, il fregio ionico continuo in 119 lastre (altezza 1,017 m; lunghezza 159,49 m), che, correndo intorno alla pareti esterne della cella, in14   Sulle varie proposte (dissonanti) di identificazione si vedano da ultimi (con bibliografia) Gasparro, Moret 2005. A favore dell’unità tematica si vedano: Höckmann 1994; Delivorrias 1994, p. 119; Delivorrias 2004, p. 49; Ellinghaus 2011, pp. 73-76. 15   Servadei 2005, pp. 141-149; Muth 2008, pp. 500-514; si veda anche Kyrieleis 2012-2013, pp. 98 sg.

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scena una processione verso un’assemblea divina; per l’ampiezza nonché per la moltitudine e la varietà dei partecipanti si distanzia fortemente dalla tipologia dei rilievi votivi dedicati nei santuari, che parimenti prevedono un corteo in atto di procedere verso un altare e/o il dio o la sua statua. Frutto di un cambiamento in corso d’opera al posto di un fregio dorico con metope non adorne e triglifi? L’idea è meno certa di quanto comunemente supposto, perché l’incorporazione nell’edificio dorico può essere stata prevista sin dall’inizio16. Certo, la posizione a circa 12 m d’altezza nella penombra delle strette gallerie del colonnato ostacolava una visione nitida delle numerose figure (dell’originaria policromia non resta traccia), spesso scolpite su più piani e sovrapposte, benché qualche accorgimento andasse incontro agli «spettatori»: il rilievo è poco aggettante al fine di evitare la proiezione di ombre, ma la profondità in alto, in corrispondenza delle teste, è maggiore che in basso (5,6 cm contro 3,6 cm), mentre alcune delle scene più emblematiche emergevano tra le colonne del peristilio, specie a est. Una zona di osservazione un po’ più comoda ma tutt’altro che ideale era fuori dallo stilobate, sulla terrazza del tempio. Ma, a parte il grado di leggibilità, il punto è che si voleva decorare il tempio in modo iperbolico, con un’impressionante sinfonia di immagini destinate a rallegrare gli dèi17, così come eccezionale e non perfettamente visibile era l’ornamento accessorio della Parthénos. Inoltre, attenti o distratti che fossero gli sguardi, ai contemporanei bastava un’occhiata per capire il soggetto poiché, come naturale, conoscevano bene i rituali a cui erano soliti partecipare o i miti che erano abituati ad ascoltare; un bel vantaggio rispetto agli studiosi, i quali nel criterio espositivo del British Museum o in fotografia possono osservare ogni lastra sin nei minimi particolari, senza però accordarsi sul senso delle singole scene e dell’insieme18, donde la selva di proposte, obiezioni e contro-obiezioni (ed eclatanti malintesi). Scriveva Calvino in Perché leggere i classici che «un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla 16   Wesenberg 1983a, in part. p. 83; Korres 1994a, in part. pp. 92-108; ma si veda Barletta 2009. 17   Discussione e condivisibili conclusioni in Marconi 2009. 18   Sintesi delle tante letture in Stevenson 2003.

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di dosso»: giusto, anche per il Partenone, ma la critica deve saper aiutare il monumento a ripulirsi di quel pulviscolo. Per l’adeguamento all’edificio fu escogitata la suddivisione della processione in due tronconi a nord e a sud, composti anzitutto di una parata equestre, anticipata a ovest dalla preparazione e dallo scrutinio dei requisiti di cavalli e cavalieri. Dopo i cavalieri sfilano gli opliti con elmo e scudo che, protagonisti della gara chiamata degli apobátai nell’agorá lungo la Via delle Panatenee, dopo la discesa dal carro in movimento, correvano a piedi (sino all’acropoli?)19: corsa armata nelle Panatenee riservata ai soli cittadini ateniesi e «inventata» da Erittonio, il paradigma dell’autoctonia perché, nato dallo sperma caduto al suolo di Efesto, ebbe per madre biologica la terra attica; il dio, voglioso di Atena, si mise a inseguire la vergine, per niente disposta a farsi violentare; non riuscì nell’intento ma eiaculò sulla sua gamba, che la dea asciugò con della lana poi gettata a terra; ed Erittonio le innalzò sull’acropoli una statua lignea. Il corteo prosegue a piedi dapprima con dei personaggi barbati rappresentanti di possibili magistrature (sedici a nord, diciotto a sud, ma mancano appigli per l’identificazione), poi con quattro suonatori di cetra e flauto, con quattro portatori di idria e di un vassoio metallico per l’offerta di miele e focacce e, infine, con le vittime sacrificali, quattro giovenche e quattro pecore a nord e dieci giovenche a sud. A est è il turno di una compagine di donne, ripartite in due gruppi (sedici verso sud e quattordici verso nord), alcune con patere e brocche per libare, altre con incensieri: le vergini da famiglie preminenti incaricate di tessere il peplo per Atena? Seguono dieci personaggi – barbati e non e talora con capelli lunghi – senza attributi connotativi, ma da buoni cittadini vestiti di mantello e, salvo uno, appoggiati al bastone: senza dubbio gli eroi eponimi ateniesi20, che segnalano uno stadio intermedio tra i piani mortale e divino. Le ali del corteo sono attese da un consesso di dodici dèi seduti su sedili senza spalliera e braccioli (díphroi; Zeus ha però il privilegio di una

19   Sulle differenze a nord e a sud che hanno indotto a riconoscere gare equestri distinte si veda tra gli altri Beschi 1984, p. 180; Wrede 2004, p. 18; versus Himmelmann 1988, pp. 217 sg. (ma si veda Berger, Gisler-Huwiler 1996, p. 125). Sulle gare si veda Schultz 2007. 20   Kron 1984 (pur se con qualche vacuo tentativo di recupero dei loro nomi).

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Fig. 21. Partenone, fregio est, lastra V. Londra, British Museum, inv. 1816,0610.19.

breve spalliera) e divisi in due gruppi di sei21, sommessamente ma finemente caratterizzati: essi guardano per lo più in direzione della sfilata, ed è un falso problema voler definire a tutti i costi la sede topografica della riunione (Olimpo, acropoli o agorá che sia); fatto sta che gli dèi in piena rilassatezza godono della festa, senza essere percepiti dai suoi attori mortali e venire direttamente coinvolti nelle azioni rituali al centro a coronamento della processione, alle quali volgono le spalle (fig. 21). Queste ultime formano un’unità tematica separata, inquadrata non a caso da Zeus e dalla figlia favorita, Atena, e ricordiamocene la posizione in asse con l’ingresso nella cella ospitante la statua di Fidia. Lì un giovinetto con lunga clamide e dal dorso atletico aiuta un sacerdote barbato a ispezionare e ripiegare una stoffa; dietro di lui una donna con chitone e mantello accoglie due figure femminili, ciascuna con un sedile sulla testa con sopra un cuscino gonfio. L’intera scena è tra le più controverse e, in assenza di precisi riscontri letterari, deve parlarci da sola. L’azione rituale con la veste rimanda all’offerta del nuovo peplo ad Atena Poliás durante le Panatenee; ma sfuggono l’identità del sacerdote (l’arconte re ereditario delle funzioni religiose dei re primordiali?) e la mansione del giovinetto, benché un fanciullo di più di 10 anni 21   Utile Mark 1984, con esagerazione però dei nessi tra la selezione e l’iconografia degli dèi e la teologia di Protagora.

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svolgesse un servizio per il serpente di Pallade Atena22. L’altro quadretto risulta per noi ancora più enigmatico. La donna di spalle al sacerdote può essere la sacerdotessa di Atena Poliás, mentre per le restanti è impossibile dar conto di tutte le svariate proposte23: di seguito proponiamone una. Esse, vestite come la sacerdotessa, ne rappresentano le assistenti, chiamate con nomi parlanti Kosmó e Trapezó24, con lei di tutto responsabili e con l’incarico rispettivamente di adornare la statua di Atena e di porle davanti una tavola sacra per le offerte (trápeza); qui recano dei seggi vuoti con cuscino, funzionali a evocare figure cultuali secondo modi non sconosciuti alla ritualità del V-IV secolo a.C., ma meglio noti dalla cerimonia dei sellisternia romani, allorché si preparavano dei troni-sedili riccamente addobbati con stoffe e con attributi per far partecipare simbolicamente gli dèi a determinati eventi religiosi o usati come loro manifestazione a prescindere dalla specifica celebrazione che li coinvolgeva. Chi richiamavano i seggi sul fregio?25 Forse Atena e Pandroso, la più virtuosa delle tre figlie del primo re ateniese, Cecrope, e titolare sull’acropoli di un’area sacra recintata adiacente all’Eretteo, all’interno della quale sorgeva tra l’altro l’olivo sacro di Atena: nella prassi cultuale la dea e l’eroina erano talmente legate tra loro che la stessa Atena Poliás era designata Atena Pandroso; e chi sacrificava un bue ad Atena era tenuto a sacrificare una pecora a Pandroso, un sacrificio previsto sicuramente anche – ma non solo – dalle Panatenee26. Sul fianco nord del Partenone l’ala della processione include quattro pecore, ed è proprio da nord che provengono le attendenti! Indi si può chiarire per quale ragione lo sgabello toccato dalla sacerdotessa di Atena Poliás sia più grande

22   La testimonianza è però tarda: Eudocia, De S. Cypriano II,20-21 (Brommer 1977, p. 269). 23   Gran parte della critica tende a vedervi – a torto – le Arrefore: Gauer 1984, pp. 225 sg.; Wesenberg 1995, pp. 151-164 (versus Boardman 1999, pp. 307-314); Heintze 1993, pp. 399-418 (si veda anche Fehr 2011, pp. 104-111); Harrison 1996a, p. 205; Sourvinou-Inwood 2011, pp. 284-307; incredibile esegesi in Ellinghaus 2011, pp. 239-277. 24   Trasmessi dalle relative voci di Esichio e Arpocrazione: Simon 1998, p. 135, nota 37; Robertson 2004, p. 96. 25   Simon 1982 (Pandroso e Ge Kourotróphos); Schäfer 1987 (Atena e Poseidone). 26   Il brano è di Filocoro (FGrHist 10; FHG 32): Brulé 1987, pp. 35-38. A torto qualche autore (Connelly 1996, pp. 75 sg., e Boardman 2001, p. 241) a Pandroso preferisce la lezione Pandora, anch’essa trasmessa dai manoscritti.

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del successivo: perché riservato alla dea. Se l’idea è corretta, l’oggetto nella mano sinistra della seconda assistente, la n. 31, con agli angoli dei peducci a forma di zampe leonine, era un cofanetto per gioielli (portato da Kosmó)? Ebbene, le corse di opliti con carro e il peplo collegano il fregio non genericamente alla vita festiva e religiosa che ad Atene occupava circa un terzo dell’anno, tra 120 e 144 giorni27, ma alle più volte ricordate Panatenee, Piccole (annuali) e Grandi (a ritmo penteterico), con un programma di agoni musicali, rapsodici, atletici e ippici e con una sontuosa processione; questa partiva dal Ceramico, attraversava l’agorá e si inerpicava sull’acropoli sino al grande altare di Atena Poliás per l’immolazione delle vacche, seguita da una distribuzione di carni al Ceramico tra i demi; alla testa si trovavano i magistrati, le canefore e tutte le categorie di portatori e portatrici di cose sacre; seguivano le vittime sacrificali, i musicanti e i cittadini ripartiti per demi e tribù, e alle Grandi Panatenee partecipavano le città alleate, le colonie e le cleruchie ateniesi mediante una delegazione, ciascuna con l’offerta di una vacca e di una panoplia. Ciononostante, il fregio non illustra con minuzia documentaria la festa quale ricomponibile dalle fonti epigrafiche e letterarie; chi invece tra gli studiosi a torto se la attende, cerca – ovviamente con successo! – i punti deboli di un esclusivo riferimento panatenaico, insistendo tra l’altro su presunte incongruenze; ma in questa maniera si misconosce una delle caratteristiche essenziali dell’arte, la dimensione trasfigurante, ossia la capacità di riprodurre la realtà senza caderne prigioniera. Il fregio inscena piuttosto un corteo come atemporale, né mitologico né storico, alla presenza di tutti i segmenti del corpo civico, maschi e femmine, giovani, maturi e anziani (ma prevalgono specie gli efebi, la cui forza costituiva una garanzia per il futuro) per dignità pari agli dèi, lontani ma vicini: una sorta di autoritratto collettivo della pólis mediante gli agoni, i riti ­sacrificali e il training militare, le stesse istituzioni cardinali della qualità ­della vita cittadina decantate da Pericle nell’epitaffio per le vittime del primo anno della Guerra del Peloponneso (431/0 a.C.): al pari della retorica funebre, il Partenone incantava chi guardava, ­facendolo sentire «più grande, più nobile e

27   Come invece postulato, seppur con letture differenti dei settori del fregio, da Wesenberg 1995, e Pollitt 1997.

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Fig. 22. Partenone, fregio nord, lastra XLVI. Londra, British Museum, inv. 1816,0610.43.

più bello»?28 Nell’orazione lo statista riconosceva i meriti degli avi e della propria generazione per la crescita della potenza di Atene, descrivendo poi i principi di condotta, la costituzione e i tratti di carattere che l’avevano favorita. In più, sul fregio in molti conversano, specie gli eroi eponimi a est, i «magistrati» sui lati lunghi e persino gli dèi: un dialogo che rispecchia una società orgogliosa di prendere decisioni politiche analizzando a fondo tutti i possibili particolari di un’operazione prima di intraprenderla attraverso il dibattito, per richiamare le parole di Pericle29. Per quale motivo tanta enfasi (80%) sui cavalieri (fig. 22)? Perché di lì traspare l’orgoglio per la nuova forza militare introdotta sotto Pericle30. La cavalleria di trecento unità fu incrementata (tra-

  Ripresa delle parole ironiche di Socrate in Platone, Mx. 235a-c.   Per un riscontro delle analogie strutturali tra fregio ed epitaffio si veda Wrede 2004. 30   Piuttosto che rappresentare la sfilata eroica dei 192 Ateniesi caduti a Maratona, un’ipotesi, già tante volte a ragione sottoposta a critiche, niente più che fascinosa di Boardman 1999, pp. 325-330. 28 29

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mite una tappa intermedia di seicento?) a mille tra il 446/5 e il 431 a.C.: giovani tra i 20 e i 30 anni, reclutati nei ceti più alti comandati da due ipparchi e divisi in dieci squadre tribali di cento unità, guidate ciascuna da un filarca. Secondo Senofonte era una bella esperienza per gli dèi e per i mortali guardare la cavalleria compiere il tour completo di tutti i santuari e delle statue nell’agorá per poi lanciarsi al galoppo per tribù sino all’Eleusinio e ripercorrere al passo il cammino inverso; i cavalli procedenti in posizione rampante erano tanto stupefacenti da concentrare su di sé l’attenzione di chiunque guardasse, giovane o vecchio; del resto, sui cavalli da parata erano rappresentati in pittura dèi, eroi e uomini, il che garantiva a questi ultimi un aspetto magnificente31. Senofonte scrive sì a circa sessant’anni di distanza dal completamento del Partenone, ma le sue osservazioni valgono nondimeno per il fregio, la cui cavalcata doveva davvero rallegrare gli dèi e Atena in particolare: a lei i cavalli piacevano tanto da essere venerata come Hippía32, e quando si faceva scultrice, la vediamo intenta a modellare un cavallo in creta!33 (fig. 23). Nemmeno l’elegante scalpitio della cavalleria è però una fotocopia della parata panatenaica, perché attraverso il suo filtro si avverte l’esaltazione degli ordinamenti, vecchio e nuovo, della democrazia ateniese. Non a caso i cavalieri sui lati lunghi si dividono in dieci squadre di sei unità, con divergenze però; la più ordinata cavalcata a sud, con le squadre ben differenziate grazie alle «uniformi», differisce da quella a nord, dove la divisione è a prima vista meno nitida, per cui si discute intorno al numero delle loro unità34 (ma è molto plausibile che anche lì si reiteri la scansione tribale di dieci per sei): spia dell’intervento di due designers35 o, meglio e più semplicemente, della voglia da parte di un solo progettista di non ripetersi pur nel mantenimento di un ordine fondamentale? Il sistema decimale a sud pervade la tranche dei carri con opliti corridori e il corteo sacrificale. Viceversa, a nord, dopo i cavalieri, l’agone e la processione si reggono sul numero 31   Senofonte, Eq. Mag. 3,2; Eq. 11,8-9 (ambedue le opere si inscrivono nel decennio 370/60 a.C.). 32   Sofocle, OC 1067-1073; Pausania I,30,4: Heintze 1994, pp. 308-310. 33   Vidale 2002, pp. 169-172, fig. 20. 34   Per le dieci squadre sul lato nord si vedano Jenkins 2005, e, meglio, Osada 2011; utile anche Stevenson 2003a, in part. p. 653. 35   Brommer 1977, p. 286; Neils 2001, pp. 70 sg.

102 Fidia Fig. 23. Oinochoe attica a figure rosse da Capua (470/60 a.C.). Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung, inv. F 2415.

quattro e sui suoi multipli: forse dodici carri con opliti, quattro buoi, quattro pecore, quattro eroi eponimi e così via. Dieci e quattro: un’insistenza che rimanda all’articolazione clistenica e pre-clistenica delle tribù attiche36. Obiezione: se dei numeri riusciamo ad accorgerci solo a tavolino davanti a un disegno dell’intero fregio, qual era il senso di simile precisione? Perché anche i rapporti numerici, noti all’«Ateniese medio» per averli ascoltati, discussi e approvati all’Assemblea e al Consiglio, contribuivano a plasmare ed esibire il «mito» di Atene davanti agli dèi e ai mortali. Finiamo con i frontoni con Atena come protagonista indiscussa e con gli inni patriottici alla rivendicazione ateniese di esser «nati dalla terra», strumento di legittimazione spendibile sia nel contesto ideologico interno, sia sul piano delle relazioni esterne; 36   La migliore lettura in Beschi 1984 (integrabile con qualche lieve e condivisibile rilievo in Hurwit 1999, p. 353, nota 20, e Holtzmann 2003, pp. 135 sg.; e cfr. anche Delivorrias 2004, pp. 34-35). Si veda anche Brulé 1996, p. 46.

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il tema fu particolarmente sentito in anni in cui su proposta di Pericle fu deciso che solo i nati da genitori entrambi ateniesi avrebbero goduto dei diritti politici: una «serrata della cittadinanza» che limitava l’appartenenza al corpo civico agli Ateniesi «puri»37. A ovest si svolge la contesa di Poseidone contro Atena sull’acropoli per il possesso dell’Attica, inquadrata agli angoli da probabili personificazioni di tre fiumi e una fonte (fig. 24). L’acropoli recava impresse sulla roccia le miracolose testimonianze lasciate dalle divinità, preservate nell’Eretteo e nel contiguo santuario di Pandroso: il dio, arrivato per primo in Attica, vibrò un colpo di tridente, facendo scaturire un mare (un pozzo d’acqua salata), mentre la dea, giunta dopo, piantò un olivo; ma i dodici dèi o gli Ateniesi decisero l’assegnazione del territorio a lei. Sul frontone Atena e Poseidone, accompagnati dalle loro bighe, disegnano esplosive linee di moto a V ai fianchi di un asse centrale (occupato da un olivo in bronzo?); la disputa, così mai visualizzata prima, si svolge alla presenza di testimoni/giudici frementi, i membri di due famiglie – Cecropidi a sinistra di Atena ed Eretteidi a destra di Poseidone – dalle cui file erano emersi i primi re autoctoni; ma qual è il momento dello scontro? È inutile disquisire intorno alla sua precisazione con l’ausilio delle fonti, tra loro discordanti e mai del tutto combacianti con l’immagine: a essere rappresentato è appunto il tema drammatico della disputa tra divinità di pari potenza, in uno schema pregnante ed evocativo della sequenza dei vari momenti dell’episodio38. Alla nascita di Atene risponde a est quella della dea protettrice della rocca, armata di tutto punto e generata da Zeus sull’Olimpo con l’aiuto di Efesto39 (fig. 25). All’eccitante istante, il 28 del mese di Ecatombeone, presiedono altre divinità, poche però riconoscibili con relativa certezza come Dioniso, Demetra, Kore e 37   Ad esempio, si veda Bearzot 2012, pp. 43-53; per gli usi del tema dell’autoctonia nei discorsi interni ed esterni degli Ateniesi si veda Osmers 2013, pp. 153-166. 38   I migliori contributi, pur non impeccabili, in Simon 1980, e Pollitt 2000; degna di nota ma poco persuasiva un’idea di Schultz 2007, pp. 66-68. Lo schema di «lotta» delle divinità è segnalato dalla sovrapposizione delle loro gambe (si vedano, ad esempio, Artemide e un Gigante su un’anfora da Melo del 400-390 a.C.: Salis 1940, fig. 22). 39   Delivorrias 1982; Despinis 1984; Mostratos 2004; per identificazioni divergenti da quelle più comuni, ma non convincenti, Fehr 2004. Il tema è forse già nella scultura tardo-arcaica («architettonica»?) dell’acropoli, in versione «ingenua»: Despinis 2009.

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Fig. 24. Partenone, frontone occidentale, cosiddetta Iris (N) in corsa, di fronte alla contesa tra Atena e Poseidone. Londra, British Museum, inv. 1816,0610.96.

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Fig. 25. Partenone, frontone orientale, con il gruppo di dee L-M (cosiddette Dione e Afrodite), presenti alla nascita di Atena. Londra, British Museum, inv. 1816,0610.97.

Afrodite e con più dubbi Artemide ed Ecate; le figure si accostano in modo pregnante e, quando identificabili, tendono a girarsi o posizionarsi in direzione dei loro santuari, dislocati tutt’intorno alle pendici dell’acropoli. La perdita delle sculture principali al centro disturba una ricostruzione sicura della scena, ma alla luce degli sviluppi della tradizione iconografica dopo il Partenone, Atena, partorita già adulta, poteva muoversi alla sinistra di Zeus, seduto in trono. Ai lati del timpano, la cui piattaforma diventa una sorta di linea d’orizzonte, a sinistra (a sud) Elio sale con il carro, mentre all’angolo opposto Selene si immerge; splendido, l’espediente delle figure a mezzo busto per ovviare allo spazio ristretto alle estremità del frontone; e teniamoli bene a mente, Elio e Selene, perché la loro presenza, come vedremo nel prossimo capitolo, non obbediva solo a uno stratagemma pratico. Questi i temi e i significati delle immagini, ma come furono scolpite? Entriamo nel cantiere, dove la convivenza di tanti esecutori, l’accrescersi della complessità dei compiti dalle metope ai colossali gruppi dei frontoni e la natura dei soggetti stimolarono il dispiegamento di nuove possibilità formali e iconografiche, che, bruciando le ultime fiammelle e asprezze dello stile severo, permisero la formulazione dello stile cosiddetto classico e finanche una sua parziale incrinatura.

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Le metope, per la loro natura di quadri isolati, mostrano disomogeneità formali, compositive, tipologiche e qualitative, specie quelle meridionali, le meglio conservate e forse le ultime in ordine di tempo nel ciclo40, a tal punto da aver suggerito la coesistenza di mani di generazioni e indirizzi figurativi differenti41: resistono gli stilemi severi (metope 8, 10, 12 e 31), forse imputabili all’influenza della versione più nota del soggetto a Olimpia (chissà che qualcuno non vi avesse lavorato per migrare poi ad Atene, attratto dal nuovo cantiere), accanto a tratti più avanzati (17, 19 e 29), sebbene la distinzione non sia sempre limpida, perché componenti aggiornate e arretrate possono coesistere sulla stessa metopa (6, 10, 26, 27). Per il fregio è maggiore l’uniformità tipologica e stilistica specie sui lati lunghi, un processo naturale per scalpellini operanti a stretto contatto e facilitato dal contenuto non più a riquadri separati: l’unità è riposta nel soggetto. Proprio qui si concretizza al meglio lo stile cosiddetto classico, di un supremo equilibrio, reso possibile dal tema, l’ordinata processione senza il minimo turbamento della bellezza fisica e morale, una bellezza essenziale ed elegante al di sopra delle forme naturali: vesti mai con una piega di troppo o di meno, movimenti compassati, teste per lo più pudicamente reclinate e volti imperturbabili (sulle metope assunti persino da qualche Centauro non più mostruoso!) e uguali; uguaglianza figurativa che è anche uguaglianza sociale; e stile non solo figurativo, ma anche di vita, da cui traspaiono una compostezza e un autocontrollo conformi alla stilizzazione ricercata da Pericle nelle apparizioni pubbliche e rispecchiati dal suo ritratto scultoreo. È indiscutibile: uno dei più alti raggiungimenti della democrazia ateniese fu di dar vita alla rara e totale coincidenza tra espressione artistica e posizione politica dell’intera società!42 Infine, per i frontoni si riscontrano differenze esecutive e tecniche tra le singole sculture (come la presenza o meno di un plinto, la lavorazione curata o no del retro e l’inclinazione verso l’esterno per un incremento di visibilità), mentre si coglie qualche più ma-

  Basilare Himmelmann 1980a. Si veda anche Wesenberg 1983a, pp. 77-80.   Ad esempio, per l’inflessione ionica si veda Benson 2000, in part. pp. 182 sg. (con qualche esagerazione però riguardo a quegli elementi stilistici come portatori di messaggi iconografici); Kyrieleis 2006, p. 198. 42   Di cristallina chiarezza la constatazione di La Rocca 1988, p. 13. 40 41

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croscopica difformità tra est e ovest: a est le forme plastiche, i primi e i secondi piani delle statue sedute e i loro assi si compenetrano con la profondità spaziale creata dalla cornice del timpano; a ovest i corpi, anche quando seduti o accovacciati, si distendono su un’unica superficie parallela al piano di fondo. In aggiunta, sempre sul frontone occidentale grazie alla vivacità delle pieghe su chitoni e mantelli si fa più sentita la nota sensuale e più palpitante l’epidermide – vera carne, cioè bella natura, commentò Canova; differenze talora giudicate quali segni di un profondo mutamento di stile in grado di marcare in soli cinque anni il confine tra un linguaggio formale pacato e un altro più mosso43. D’altro canto, i soggetti concorrono alla diversità, tangibile ma da non esagerare: al dramma della contesa per l’Attica e ai suoi testimoni si addicono pose e pieghe più inquiete rispetto alle maestose divinità nella nascita di Atena; dopotutto, il panneggio aderente al corpo e la moltiplicazione delle sue increspature trovano già anticipazioni nel frontone orientale, caratteristiche poi estremizzate nelle decadi finali del V secolo a.C. nello stile cosiddetto ricco, una sorta di stylish style – secondo una definizione del Manierismo cinquecentesco coniata da John Shear­ man –, sofisticato, brillante, teatrale, virtuosistico e funzionale soprattutto alle immagini di Afrodite e di Nike. Ma quanti scultori ci vollero per rilievi e sculture? Un’impresa del genere ne richiese un gran numero, ma la stima resta speculativa in assenza di parametri certi per la determinazione. Si è provato a dividere il fregio in base a sottili osservazioni stilistiche coincidenti con i gruppi tematici e compositivi, donde il conteggio di almeno settantanove settori, cui corrisponderebbe un numero solo appena inferiore di artisti di pari livello o di gruppi di lavoro (incluso quello del Maestro del Partenone) fatti di capomastri e collaboratori/allievi44: è l’idea meglio argomentata, benché non vada escluso che i gruppi fossero «a geometria variabile», per cui conviene abbassarne il numero, seppur non di troppo, visto che alle metope prima e al fregio poi si dovette lavorare un lato do-

43   Schweitzer 1967a, pp. 48-58. Si veda anche Borbein 1989, pp. 104 sg. Scettico Brommer 1963, pp. 132-134. 44   Schuchhardt 1930; per i gruppi di lavoro si vedano Schweitzer 1967a, e poi Schuchhardt 1951. D’accordo con l’idea di circa settanta e ottanta mani Langlotz 1947, p. 27, e Brommer 1977, p. 286.

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po l’altro. Inoltre, dalla somma spesa nel penultimo anno per gli artefici dei frontoni (16.392 dracme) si è dedotta la cifra di circa cinquantaquattro scultori all’opera su più di una quarantina di figure!45 Proviamo a questo punto a rifare il cammino inverso, dai prodotti finiti, gli unici che abbiamo, alla loro ideazione46. Disegni e bozzetti andavano di volta in volta presentati al Consiglio e dibattuti nell’Assemblea: per esempio, secondo un brano – emendato – di Aristotele, ogni anno il Consiglio sceglieva il modello (parádeigma) secondo il quale doveva essere donato ad Atena il peplo durante le feste panatenaiche; e più tardi, per evitare favoritismi, si decise di affidare il giudizio a un tribunale designato per sorteggio47. Per le metope poterono bastare degli schizzi grafici e al massimo qualche modellino plastico per fissare i tratti essenziali, il ritmo e la successione di scene e personaggi, per cui gli esecutori godettero di libertà maggiori, mutevoli in dipendenza dalle saghe, tutte già ben sedimentate nella memoria figurativa, materializzata e non. Il fregio pare inimmaginabile senza un progetto dettagliatissimo per la collocazione e il numero dei partecipanti (specie a nord, sud ed est) sotto forma di uno schizzo poi riportato sulle lastre; sui lati lunghi queste furono scolpite a mano libera in situ una volta messe in opera, dato il complicato intreccio delle figure suddivise tra lastre adiacenti; semmai, i lati brevi poterono essere eseguiti in bottega, perché le loro connessure rappresentano dei punti critici, con l’eventuale inserimento di piccoli modelli a rilievo fra disegni iniziali ed esecuzione48. Infine, per adattare le figure agli spazi disponibili, i frontoni pretesero un’analoga pianificazione, basata su modelli tridimensionali di grandi proporzioni. 45   Himmelmann 1977, p. 89: il calcolo presuppone un compenso giornaliero di una dracma al giorno, come di norma inferito dai rendiconti dell’Eretteo, premessa che condiziona anche il computo sin troppo regolare (nove scultori) per metope e fregio in Neils 2001, pp. 87 sg. 46   Fondamentale Schweitzer 1967a, pp. 61-96. Per le metope Schiering 1970. Per i frontoni Brommer 1963, pp. 136-140. 47   Questa la migliore lettura del brano di Aristotele, Ath. 49,3. Commento in Marginesu 2010, pp. 90 sg. 48   Schweitzer 1967a, pp. 33-47; Coulton 2000, pp. 78 sg.; Younger 2004, p. 76. Per la lavorazione integrale in bottega: Brommer 1977, pp. 168-170; in situ, Korres 1988; Neils 2001, pp. 76-80; Delivorrias 2004, p. 17.

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Fig. 26. Partenone, fregio ovest, lastra VIII: calco. Londra, British Museum, inv. 1816,0610.53.

Ma allora Fidia dov’è? Studi del passato49 hanno supposto non un impersonale «stile d’epoca», ma l’onnipresenza di una individualità artistica, il Maestro del Partenone, Fidia, un «genio» in evoluzione, una straripante forza creativa organizzatrice e unificatrice, capace di raggiungere con il suo soffio tutti gli scalpellini cui addebitare eventuali difetti, contraddizioni e travisamenti e perciò da risospingere nell’ombra; Fidia in persona poté per esempio trasporre i disegni del progetto sulle lastre o intervenire qua e là, naturalmente nei punti più belli, come per il volto del centauro della metopa 1 sud e per la lastra VIII del fregio occidentale con un ipparco domante un cavallo50 (fig. 26). Simili convinzioni mi49   Specie i magistrali contributi di Schweitzer 1957 e 1967a/b/c; ma la discussione riguardante il ruolo di Fidia partì sin dall’esposizione dei marmi del Partenone al Brit­ ish Museum (per esempio si veda una lettera di Quatremère de Quincy ad Antonio Canova in data 8 giugno 1818, riedita in Quatremère de Quincy 2012, pp. 137-143). 50   Schweitzer 1967a, pp. 93, 96. Per altri tentativi di recupero della mano di Fidia sul fregio si veda Symeonoglou 2004, p. 41; ma si vedano nello stesso volume le conclusioni contrarie di Younger 2004, p. 83.

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ravano alla riscoperta dell’entità di un progetto unitario capace di affiorare (quasi) ovunque e alla ricerca delle corrispondenze dei tipi fondamentali dei corpi, degli schemi del panneggio, delle teste e persino delle orecchie del Partenone con i miseri frustuli certi dell’arte fidiaca. Slancio molto fiducioso, questo, con il beneficio di conciliarsi con il quadro delineato da Plutarco. Di diverso avviso altri studiosi, più inclini a imputare le dissonanze stilistiche a individualità artistiche distinguibili per temperamento e sensibilità plastica, con Fidia sì al centro, ma emergente a intermittenza, e ad attribuire quindi persino la concezione del fregio non a uno stesso scultore51. Scriveva Giovanni Becatti che «la diversità di risultati farà sorridere compiaciuti quegli archeologi che nutrono un malcelato scetticismo verso la “critica d’arte” e verso simili studi, ma, pur facendo campo all’elemento soggettivo, è indubbio che questi studi rappresentano l’unica via per tentare di avvicinarsi allo spirito di quest’arte»52. Alla luce di oltre un secolo di studi, l’aggettivo «indubbio» ha perso smalto, e il peso di Fidia nel Partenone si è considerevolmente ridotto tra molti specialisti53, per più ragioni. Anzitutto, la problematicità dell’analisi formale risiede nel fatto che il riscontro di affinità stilistiche o iconografiche con le sicure creazioni di Fidia non ne garantisce la concreta ingerenza, perché in un lavoro d’équipe come quello del Partenone le influenze poterono essere di natura mediata. Come se non bastasse, la distribuzione dei compiti tra tanti esecutori e le plurime modalità di stesura delle singole parti non paiono favorire la tesi di una direzione autoritaria ed esclusiva in grado di dettare senza pause il proprio timbro formale allo stuolo dei gruppi di lavoro, i quali ebbero margini di movimento più o meno ampi a seconda dei settori, dei temi e dei modelli progettuali, liberi di conseguenza anche di risultare fiacchi! Quanto altrove riscontrabile nuoce ancor più all’assunto di un’attribuzione dell’immenso progetto scultoreo a un unico artista. Per esempio, l’impresa molto meno impegnativa del tempio di Asclepio a Epidauro, del 390/80 a.C.,

  Per esempio, si veda Langlotz 1947, pp. 27-34.   Becatti 1951, pp. 232 sg. 53   Equilibrata analisi in Himmelmann 1977 e 1988. Si vedano anche: Fehr 1981, pp. 81-85; Wesenberg 1982, pp. 111-113; Ameling 1985, pp. 56-58; Marginesu 2010, pp. 78-86; Ellinghaus 2011, pp. 331-340. 51 52

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innalzato in 4 anni, 8 mesi e 10 giorni con l’apporto di circa duecento artigiani specializzati e non, testimonia una notevole frammentazione già per la sola decorazione, che vide coinvolti artisti di Atene e di Paro: un certo Hektoridas di Atene ricevette l’appalto per un frontone in tappe successive a distanza di due anni; a un secondo scultore (Theodotos?) toccarono l’altro frontone e gli acroteri su un lato, mentre Timoteo, anch’esso ateniese, fu responsabile degli acroteri sull’altro lato e dei controversi týpoi (rilievi di metope?); della statua in oro e avorio di Asclepio fu artefice Trasimede di Paro, il quale nella cella del tempio si occupò per di più del soffitto a cassettoni, della porta principale e di una cancellata tra le colonne54. Infine, in base alla ricostruzione degli eventi esposta nel primo capitolo, nello stesso momento in cui si metteva mano ai frontoni, Fidia si era spostato a Olimpia; certo, con i temi magari stabiliti sin dall’inizio, si potrà eccepire che i progetti fossero già disponibili, ma è inverosimile che poco prima dell’inaugurazione della Parthénos egli avesse avuto il tempo di elaborarli senza poi seguirne l’esecuzione. Ma dopo tanti indizi negativi recuperiamo un po’ di ottimismo, perché escludere il ruolo ufficiale di Fidia come incontrastato sovrintendente non obbliga a negarne ogni influenza sulla decorazione del Partenone, senza dover ricadere nel miraggio del «genio» tirannico. Pericle esercitava il potere malgrado le restrizioni della cornice istituzionale: a parole una democrazia, di fatto un governo del primo cittadino, così recita un celebre giudizio di Tucidide. Sebbene nel corpus documentale attinente alle opere pubbliche non compaia il nome dello statista, che mai si arrogò uno status speciale, egli seppe nondimeno pilotare il programma monumentale perché il suo appoggio risultò decisivo sul piano assembleare. Lo stesso vale per Fidia55. In quegli anni anche lui era un «primo», un primo artista, la cui presenza si fece sentire in via ufficio-

54   Burford 1969, pp. 154 sg.; per i pagamenti a Epidauro e la gerarchia degli scultori si veda Schultz 2007a, pp. 166-179. Per i týpoi si raccomanda Riethmüller 2005, pp. 298 sg., nota 121. 55   Si vedano: La Rocca 1988, p. 34, nota 56; Borbein 1989a (lieve critica in Ridgway 1999, pp. 195 sg.); Höcker, Schneider 1993, pp. 113-129 (giusto però l’appunto di Himmelmann 1993, p. 455); Delivorrias 1994, p. 129; Strocka 2004, p. 212.

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Fig. 27. Partenone, fregio est, lastre III-IV con eroi eponimi. Londra, British Museum, inv. 1816,0610.18.

sa; per la sua autorità influì sulla selezione dei progetti e dei loro responsabili, intervenne con il consiglio e la dimostrazione pratica durante la realizzazione o ispirò in via indiretta; ciò ancor più se, come ragionevole, gli allievi, anch’essi di altissimo livello, furono investiti di qualche incarico progettuale ed esecutivo, come i già citati Agoracrito e Alcamene: in virtù di ragionamenti stilistici, il primo è stato invocato almeno per le divinità K-L-M del frontone orientale o per le lastre del fregio orientale con Ermes, Dioniso, Demetra ed Ares e il secondo per le figure femminili 38-42 sullo stesso lato.

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Immaginiamoci l’animazione delle officine scultoree nella fabbrica del Partenone: un ambiente esaltante, fatto di emulazione e di rivalità, e un lavorio incessante, che chissà quante immagini, schemi e formule portò a concepire e rivisitare nel lungo percorso dal primo schizzo attraverso gli stadi intermedi grafici e plastici sino alla trasposizione sul marmo. Fare e pensare contemporanea­ mente: quegli artisti ce li figuriamo, al pari dei «magistrati», degli eroi eponimi (fig. 27) e degli dèi sul fregio, impegnati a dibattere con acribia tutti i problemi formali, iconografici e tecnici, con Fidia al centro della discussione.

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Al centro della discussione nelle fasi iniziali del cantiere, quando colloquiò fittamente con l’architetto per armonizzare le dimensioni della statua con le soluzioni planimetriche più adeguate per la sua messa in scena. Al centro della discussione poi per il vaglio e lo smistamento dei soggetti delle metope intorno all’edificio, quasi tutti ripetuti nell’ornamento dell’Atena Parthénos. Al centro della discussione infine nell’ideazione del fregio. Il committente (il popolo), con Pericle come promotore principale, espresse in modo già particolareggiato l’intenzione di ciò che voleva vedere compiuto in quell’opera tanto intrisa di direttive politiche (raffigurazione della cavalleria e insistenza sui numeri dieci e quattro) e da compiere in ottemperanza ai principi della convenienza, della varietas e della ricerca del fuori dell’ordinario, per avvalersi dei termini leggibili nelle istruzioni in una lettera di Annibal Caro a Taddeo Zuccari per la stanza del Sonno di Palazzo Farnese a Caprarola56; ma la complicata sfida di riversare nel linguaggio figurativo quell’intenzione rientrò nelle competenze di un artista coordinatore; e, in virtù della vicinanza a Pericle, se non altro è affascinante congetturare chi fosse quel coordinatore: Fidia. Eccola la risposta in parte scontata alla domanda iniziale: nel Partenone Fidia sfugge, ma c’è; se è impossibile quantificarne la presenza nelle pieghe o nei corpi, malgrado la coralità dell’impresa si respira più Fidia qui che nelle opere romane che ne replicano gli originali perduti. In fondo, non aveva tutti i torti, Plutarco. 56   Raccomandabile, perché utile anche per la lettura dei monumenti antichi, uno splendido articolo di Pinelli 2007, sui cicli figurativi nel Rinascimento.

VI Atena «Parthénos»: la grandezza nei particolari Atena chiamata Parthénos, finalmente: titolo associatole su iscrizioni votive dall’acropoli del VI-V secolo a.C.1; ma la statua crisoelefantina nelle fonti epigrafiche e letterarie è designata come la «statua d’oro» e da età imperiale in poi «statua d’avorio». Pensare che Fidia voleva farla di marmo, perché sarebbe durata più a lungo; ma appena udito che sarebbe costata meno, il popolo ateniese lo zittì e gli intimò di usare l’avorio2. In fondo, se avesse fatto di testa sua, avrebbe tenuto fede a un nome che può suonare come «sparagnino»: Pheidías da pheídomai, risparmiare!3 La scultura (447/6-438/7 a.C.) costò più dello stesso Partenone: la folle spesa è stata congetturata tra i 705 talenti/1.500 dracme e i 996 talenti/1.600 dracme grazie ai rendiconti annuali e a una sorta di bilancio generale, noti da frammenti di stele e stilati sotto la vigilanza di una commissione autonoma di epistati. Per l’oro, acquisito in più mandate, è registrato il peso, cui corrisponde la spesa in dracme d’argento, al contrario dell’avorio, comprato sotto forma di zanne, con un costo condizionato da dimensioni, stato e colorazione: forse le transazioni erano singole per ciascun pezzo, il che rendeva superflua l’indicazione 1   IG I3 728; IG I3 745; IG I3 850: per la nomenclatura Lapatin 2001, pp. 61 sg.; Nick 2002, pp. 116 sg. 2   Così stando a due fonti del IV-V secolo d.C.: Gianuario Nepotiano, Excerpta librorum Valerii Maximi I,1, ext. 7; Giulio Paride, Excerpta librorum Valerii Maximi I,1, ext. 7. 3   Ateneo XIII,585e.

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del peso4. Nei rendiconti le spese sono quasi per intero assorbite dall’acquisto di oro e avorio: nel 440/39 a.C. dei 100 talenti messi a disposizione dai tesorieri di Atena 87 talenti/4.652 dracme/5 oboli furono spesi per l’oro e 2 talenti/743 dracme per l’avorio; sembra di conseguenza restare pochissimo per altri esborsi e per la remunerazione degli artigiani, ma occorre tener conto della natura dei conti superstiti che, senza descrivere ogni passaggio costruttivo, insistono sui materiali destinati a restare e affidati alla custodia dei tesorieri di Atena. Sin dal VI secolo a.C. l’uso di materie pregiate aveva caricato i simulacri divini di un intrinseco valore economico, trasformandoli in una forma di tesaurizzazione praticata dal santuario; ma qui si esagerò: la statua aveva addosso un peso in oro pari a 44 talenti5, equivalenti a circa 1.000 chili, un ornamento al contempo bene-rifugio rimovibile in situazioni di emergenza, a patto poi di una sua restituzione integrale: parola di Pericle6. 44 talenti, l’equivalente di un valore monetario di 616 talenti di conii in argento (3.696.000 dracme), 16 talenti di più del tributo annuale degli alleati della Lega delio-attica; tanto per rendersi conto del costo della vita, verso la fine del V secolo a.C. per quasi tutti i lavoratori dell’Eretteo pare essere stata prevista una paga giornaliera discreta, una dracma, come per gli opliti e marinai, mentre il minimo di sussistenza era assicurato dal sussidio statale di un obolo (1/6 di dracma) per gli orfani e per coloro che, invalidi, non erano in grado di esercitare un mestiere. Quanto si intascò Fidia? Anche lui una dracma al giorno secondo il salario standard in certi settori dell’Atene della seconda metà del V secolo a.C. oppure di più? Impossibile accertarlo, ma secondo Platone, Protagora, il padre della sofistica del V secolo a.C., il primo a richiedere un compenso per l’insegnamento, aveva accumulato più denaro grazie alla sua sophía che non Fidia e altri dieci scultori messi insieme, un confronto implicante guadagni non insignificanti7. 4   Per i costi si vedano Donnay 1967, e Lapatin 2001, pp. 65 sg.; per i rendiconti si veda Marginesu 2009, pp. 469-473. 5   Indicazione più fededegna di Filocoro rispetto alle cifre arrotondate di Tucidide (40) e Diodoro Siculo (50). 6   Tucidide II,13,5. 7   Platone, Men. 91d: Philipp 1968, pp. 89-91; Philipp 1990, p. 94; Schultz 2007a, p. 185. Per il costo della vita nel V secolo a.C. si veda Gallo 1987, in part.

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L’impresa comportò uno straordinario impegno tecnologico, con tante competenze coinvolte. Del resto, per Plutarco le grandi costruzioni di Pericle richiesero carpentieri, scultori, fonditori, scalpellini, doratori, artigiani capaci di rendere molle l’avorio, pittori, mosaicisti e cesellatori; i fornitori furono mercanti, marinai, nocchieri per i trasporti marittimi, carrettieri, vetturieri, aurighi, cordai, tessitori di lino, cuoiai, cantonieri e minatori; e nel modo in cui lo stratego ha il suo esercito, così ogni mestiere ebbe una ben organizzata massa di manovali quale strumento a disposizione8. Uno degli «strateghi» della decorazione del Partenone, Fidia fu l’unico responsabile della statua a livello progettuale, ma non solo: benché fosse andata componendosi nelle mani dei collaboratori specializzati, egli non si limitò a plasmare il modello e a fornire istruzioni per l’esecuzione delle singole parti affidate a terzi senza intervenire concretamente; l’arte antica non era un’arte concettuale e dipendeva dall’abilità pratica dell’artista in quanto poliedrico artigiano. Ma dove si svolse la lavorazione? All’interno di una bottega, senz’altro in muratura: forse una struttura scoperta nel settore sud-orientale dell’acropoli?9 Intorno a un nucleo ligneo la statua constava di u ­ n’armatura pure intagliata; ed è Luciano10 a invitare a guardare dietro la facciata e smascherare l’interno delle grandi sculture di Fidia, Mirone o Prassitele, fatte d’oro e avorio e di una bellezza tutta esterna, ma dentro piene di stanghe, puntelli, chiodi conficcati da parte a parte, travi, cunei, pece, creta e molta simile bruttura, per non parlare poi degli sciami di topi o mosche che talvolta vi dimoravano! Nella cella del Partenone rimangono segni della base (8,064 m x 4,10 m, con un’altezza tra 1,30 m e 1,50 m), che include un’area di 2,65 m x 6,53 m, coperta da blocchi di calcare con al centro un incasso rettangolare di 54,2 cm x 75,5 cm, profondo 37,2 cm pp. 24-48. Per i conti dell’Eretteo si veda però Wesenberg 1985a, che non ha escluso per certe categorie, come appunto scultori, lapicidi e intagliatori del legno, un compenso superiore a una dracma. 8   Plutarco, Per. 12,6; commento in Fehr 1981, in part. pp. 64 sg. 9   Nolte 2009, p. 248. Identificazione con un’altra struttura scoperta a sud del Partenone, tra gli altri, in Lapatin 2001, p. 68, figg. 148-149. Si veda però Imerio, Or. 64,4, sulla «piccolezza» della «bottega di Fidia» ad Atene. 10   Luciano, Gall. 24; Luciano, JTr. 8.

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e funzionale all’ancoraggio del fusto verticale della statua che doveva correre per tutta la sua altezza e forse in legno di cipresso; il pregiato cedro poté essere utilizzato per l’armatura a comporre una complessa opera di carpenteria non dissimile dalle procedure di costruzione delle triremi11: i rendiconti del Partenone registrano nel quarto anno un contributo dei trieropoioì, dieci buleuti sovrintendenti ai lavori della costruzione delle triremi, eventualmente in grado di dirottare dagli arsenali statali del Pireo artigiani specializzati nell’impiantistica navale. Intorno al nucleo ligneo la figura fu forse modellata in argilla e in gesso e ricoperta di placche modellate in oro mediante chiodi o fili d’argento inseriti in solchi scavati in punti poco visibili; una pelle esterna del genere sarebbe stata meno esposta alla contrazione, all’espansione o al deterioramento rispetto al legno; inoltre, a Megara, sempre in Attica, Pausania vede uno Zeus crisoelefantino che, non finito a causa dello scoppio della Guerra del Peloponneso, aveva il viso in avorio, mentre il resto era d’argilla e gesso: «dicevano» che la scolpì un certo Teocosmo, uno del luogo, con il quale avrebbe collaborato Fidia in persona (informazione molto sospetta); dietro al tempio giacevano dei pezzi di legno lavorati a metà che egli avrebbe dovuto decorare con oro e avorio12. Quanto all’avorio per le parti nude e per il resto della decorazione accessoria, da una commedia messa in scena verso il 425 a.C. ed elencante le ricchezze confluenti ad Atene da ogni parte, si apprende che la «Libia», ossia l’Africa, ne offriva molto in vendita13. La sua lavorazione richiedeva il sezionamento della zanna dell’elefante, l’ammorbidimento delle singole parti per renderle piegabili e modellabili in calchi – a tal fine potevano servire l’immersione nella birra, la bollitura in un infuso di mandragora o il fuoco – e una politura finale. In che modo recuperare la Parthénos?14 Oltre che alle fonti, grazie alle citazioni e parafrasi (e travisamenti) su rilievi, vasi, mo11   Sulla lavorazione dell’oro e dell’avorio e il montaggio della statua basilari Stevens 1957, e Lapatin 2001, pp. 63-78. 12   Pausania I,40,4. 13   I Facchini di Ermippo (Ateneo I,27f). Per l’avorio etiopico si veda anche Erodoto III,97. 14   Basilari: Leipen 1971; Leipen 1984; Weber 1993; Harrison 1996, pp. 38-52; Strocka 2004, pp. 220-223, n. 9; Davison 2009, I, pp. 69-272, n. 6.

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Fig. 28. Gemma di Aspasio, intaglio in diaspro rosso scuro (seconda metà del I secolo a.C.?). Roma, Museo Nazionale Romano, inv. 52392.

nete e gemme (fig. 28) e grazie a parecchie repliche a tutto tondo di varia provenienza, viepiù in marmo pentelico, indizio di una loro fabbricazione ad Atene, ma con interpretazioni e semplificazioni riguardo ai dettagli e con oscillazioni nelle dimensioni15. Non esiste ovviamente una riproduzione alta quanto l’originale; anzi, per paradosso, alle dimensioni gigantesche (11-12 m, base

15   Le fonti più utili: Platone, Hp. Ma. 290a-c; Plinio, Nat. XXXVI,4,18-19; Pausania I,24,5-7. Per le repliche si vedano Schuchhardt 1963, e Karanastassis 1987, pp. 323-339 (per la cronologia della statuetta del Varvakeion in anni compresi tra la metà del III e l’inizio del IV secolo d.C. si veda Stirling 2008, p. 150); per la gemma di Aspasio si veda Bordenache Battaglia 1990.

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compresa) le riproduzioni specie dalla Grecia nel II-III secolo d.C. oppongono una tendenza a un drastico rimpicciolimento, con un’altezza tra i 100 e i 50 cm, per cui passeggiando per un museo può capitare di non degnarle neppure di uno sguardo: tra le più preziose contano la statuetta da Atene con tracce di colore (dal Varvakeion: altezza totale 1,04 m: figg. 29-30) e un’altra, non finita, cosiddetta Lenormant (altezza totale 42 cm), dalle pendici occidentali della Pnice. Atena indossava il peplo d’oro aperto a destra e legato in vita grazie a una cintura annodata con le estremità a forma di serpente; si impostava sulla gamba destra, quasi celata dal drappeggio, mentre dal ginocchio di quella libera cadeva a piombo un piegone, quasi a rinforzare la stabilità della figura; dei piedi, calzanti sandali, il sinistro era scartato di lato e arretrato. La dea guardava dritta davanti a sé: sul volto dal mento forte e dall’ovale carnoso, distante da quello allungato della Lemnía, la bocca si apriva appena, mentre gli occhi erano in una pietra di un colore simile all’avorio, il che implica che l’iride fosse in altro materiale (pietra nera?): un espediente volto a sottolineare gli occhi chiari della dea glaucopide? I capelli, magari in oro, fuoriuscivano dall’elmo solo in corrispondenza delle tempie in riccioli chioccioliformi, si raccoglievano sul retro in quattro trecce compatte di forma quasi trapezoidale e scendevano sul petto con due lunghi ricci ondulati. Segni distintivi? Immancabile l’egida, di forma rettangolare e con scollatura a V, incorniciata sul bordo da serpentelli avvoltolati e con una testa di Gorgone «umanizzata» come sulla Lemnía, ma con una chioma meno mossa, senz’altro d’avorio e forse risaltante su un fondo squamato in oro. I restanti attributi erano molto simili a quelli della cosiddetta Prómachos: a sinistra uno scudo, abbassato a terra, leggermente obliquo e afferrato sull’orlo superiore, e una lancia adagiata alla spalla, dov’era trattenuta da uno dei serpentelli dell’egida; tra gamba e scudo un serpente; a destra una Nike alta circa 1,80 m, in atterraggio sulla mano, volta un po’ verso Atena, un po’ verso chi guardava, con un peplo indosso e un mantello intorno alla vita, una corona d’olivo in oro in testa e una tenia nelle mani. Che c’era di nuovo? Né le pieghe della veste né la ponderazione né gli attributi né il materiale: nel secolo precedente le statue in oro e avorio sono attestate per via letteraria e archeologica, e

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tra i rinvenimenti più noti spiccano a Delfi i volti tradizionalmente identificati con Apollo, Artemide e Latona un tempo pertinenti a figure uguali al vero. Impressionavano piuttosto le dimensioni, e fuori dall’ordinario era il cosmo di immagini di cui la statua si faceva portatrice. Per Plinio l’arte di Fidia si esplicò su ogni superficie, e la sua grandezza fu all’altezza anche nei particolari, tanto che gli esperti apprezzavano il serpente a fianco e la sfinge sull’elmo: in una parola, tutti gli spazi provavano la sua ingegnosità. Verissimo. Partiamo dall’alto. L’elmo attico era decorato sul paranuca con un ornato vegetale e al centro sotto la cresta più grande da una sfinge accovacciata in bronzo dorato, circondata da due pegasi alati impennati sostenenti i pennacchi più piccoli; i paraguance sollevati erano decorati mediante grifoni rampanti a rilievo16; dal frontale sporgeva una serie di protomi di cavalli alati e non17. La riproduzione di tre quarti della testa su due medaglioni aurei scoperti sul petto di uno scheletro femminile in una tomba di Koul-Oba in Crimea anteriore alla metà circa del IV secolo a.C. suggerisce inoltre la presenza di una civetta al di sopra della paragnatide sinistra18. Questa decorazione ha qualche funzione? Sì, perché gli animali fantastici erano non solo una «meraviglia a vedersi». La sfinge, tra tante valenze, senza la necessità di una specifica connessione con la dea, quale mostro portatore di morte si confà a un elmo per terrorizzare un avversario19. I cavalli alati potevano fungere da emblema sugli scudi di Atena20: con il suo sostegno Perseo uccise la Gorgone, dalla cui testa mozzata nacque Pegaso; fu poi lei stessa ad aiutare l’eroe Bellero-

16   Confermati anche dalla citazione della testa su un frammento vascolare da Camarina: Giudice 2003, pp. 16 sg., fig. 1. 17   Le evidenze non sono troppo chiare perché le teste sono sempre spezzate, e per lo più insieme ai cavalli alati si sono riconosciuti dei cervidi; sui medaglioni in oro da Koul-Oba in Crimea sul frontale compaiono invece dei grifi. 18   L’associazione di civetta e Parthénos è confermata da Dione Crisostomo, Or. 12,6. A favore della civetta su una paragnatide si veda Fink 1956; contrari Herbig 1959, e Leipen 1971, pp. 40 sg.; infelice l’idea di Davison 2009, I, pp. 78 sg. 19   Per il suo possibile recupero si veda Vorster 1993, p. 146, n. 63. Per elmi attici con sfinge nella pittura vascolare si veda Aiosa 1990. Per spiegazioni divergenti da quella qui esposta si vedano: Hafner 1975, pp. 12 sg.; Demisch 1979, p. 92. 20   Si vedano: Bentz 1998, p. 49; Philipp 2004, p. 319. Per i pegasi sui diademi si veda Kron 1989, pp. 377, 380.

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Figg. 29-30. Copia dell’Atena Parthénos (III secolo d.C.?). Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. 129.

fonte ad addomesticarlo dandogli il morso d’anelli d’oro, e si è già ricordato come sovrintendesse alla sfera equestre. Infine, siccome i grifoni si associano spesso ad Apollo, veicolerebbero un messaggio «politico», allusivo al ruolo predominante di Atene nella Lega delio-attica, la cui cassa era stata trasferita ad Atene proprio dal santuario di Delo intitolato al dio21. L’assunto è da molti condiviso, ma non convince, e d’altronde al cospetto della statua Pausania si sovviene piuttosto di una tradizione già nota a Erodoto22 sui grifoni combattenti per il possesso delle miniere d’oro contro il popolo leggendario degli Arimaspi con un occhio solo a nord-est della Grecia, tra i monti del Caucaso e il Mar Nero: animali fantastici che, consoni al materiale di cui era fatta l’Atena, dopotutto si combinano con la dea già nel VI secolo

21   Una lettura troppo politica dei presunti paralleli tra l’Apollo di Delo e l’Atena Parthénos in Fehr 1979. 22   Erodoto III,116,1; IV,13,1; 27,1. Si veda anche Eschilo, Prom. 803-806.

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a.C., in quanto un grifone e un cavallo alato insieme a leoni e a un caprone alato compaiono intorno al gorgoneion dello scudo su un’anfora23 (figg. 31-32). Ma di Atena l’effigie sottolineava non solo il carattere guerriero, ma anche il potenziale erotico da vergine adorna di gioielli: orecchini, una tripla collana e bracciali in forma serpentiforme sia sull’avambraccio, sia sulla parte superiore del braccio. I prodotti tecnici quali raffinati strumenti di seduzione che effondono cháris (grazia) rientrano nelle specialità di Efesto, e sua sposa è una delle Cariti per eccellenza, la bella Aglaia. È anzitutto sintomatico che in un partenio del poeta Alcmane (fine VII secolo a.C.) il coro di fanciulle spartane nel pieno dello splendore virginale tra gli oggetti preziosi in grado di sedurre ricordi i monili cesellati a forma di rettile tutti d’oro (poikílos drákon panchrýsios); tornando poi all’Atene del V secolo a.C., in una tragedia di Euripide, lo Ione, fra gli oggetti nella cesta in cui Ione fu esposto, la madre Creusa menziona dei «serpenti, antico gioiello, tutto d’oro»; il figlio vuole allora sapere: questo ornamento d’oro, a che serve? Risposta: è un monile per neonati, dono di Atena, che vuole che gli infanti lo portino per imitare Erittonio (v. infra), nostro antenato; dai versi di apertura della stessa tragedia si deduce che il bracciale serpentiforme era stato già portato dalla madre nello stato di vergine per poi essere attaccato al figlio, diventando un amuleto apotropaico, custode e difensore del bimbo24. Non è fortuito che almeno una delle kórai arcaiche dedicate sull’acropoli, le statue di fanciulle in fiore delizia della dea, porti un bracciale in forma di serpente; e Atena intorno alla metà del VI secolo a.C. compare con l’attributo anche sui vasi!25 Il motivo del monile della Parthénos era ripreso e amplificato dal grande serpente a sinistra. Per Pausania si trattava di Erittonio, eroe ateniese autoctono fondatore della stirpe dalla quale discen23   Beazley 1961, pp. 64-66, tavv. 20, 21,2, 25,1, e 26,6. Per altri esempi si vedano anche: Marx 2011, pp. 27, 30, fig. 1, tav. 3,1-2 (Atena); Mackay 2010, pp. 315-326, n. 31, tavv. 74-76B. Si veda anche in generale Kron 1989, in part. pp. 375 sg. 24   Alcmane, fr. 1, 66-67; Euripide, Ion 1427-1430. Possibile allusione alla statua di Fidia in Aristofane, Av. 670. 25   Kore Acropoli 670 (c. 520 a.C.): Karakasi 2001, p. 119, tavv. 152-153, 258. Per le immagini vascolari si veda Heesen 2011, p. 115, nn. 172 e 236 (coppe dei Piccoli Maestri), n. 687 (anfore panatenaiche).

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derà Teseo: mitico re-serpe di Atene, un figlio biologico di Efesto nato dalla storia d’amore non corrisposto con Atena. La dea lo allevò di nascosto nell’intenzione di renderlo immortale e lo chiuse in una cesta affidata a Pandroso, figlia di Cecrope, proibendole di scoperchiarla; ma la aprirono per curiosità le sorelle di Pandroso, che videro un serpente arrotolato accanto al fanciullo, dal quale furono uccise (o si gettarono dall’acropoli rese pazze da Atena stessa); in altre versioni Erittonio è esso stesso un serpente, l’animale ctonio nella credenza popolare greca strettamente connesso alla terra, relazione emergente per esempio da un episodio al tempo delle guerre persiane26: per gli Ateniesi nel santuario di Atena abitava un grosso rettile guardiano dell’acropoli e, come se ci fosse realmente, continuavano a portargli ogni mese offerte rituali, consistenti in focacce al miele; quando la sacerdotessa di Atena Poliás prima dell’invasione barbara comunicò che la focaccia, sino ad allora sempre consumata, era rimasta intatta, gli Ateniesi evacuarono la città, convinti che la dea avesse lasciato l’acropoli. Nella mano destra la Parthénos reggeva una Nike, sottintendente l’idea di superiorità e primato27; ed essa già sul lato orientale del Partenone affianca Atena in una metopa (4) della Gigantomachia, mentre sull’acropoli è attestato il culto di Atena Nike. Sotto la mano con la Nike si trovava un supporto adatto a sostenerne il peso (di 230 kg circa, si è calcolato), che non è menzionato nell’antica letteratura, benché il silenzio non sia un granché significativo: la statuetta del Varvakeion mostra una colonna snella non scanalata, provvista di un capitello di forma inusuale28. Qui gli studiosi si dividono, giacché molti, nella convinzione che sottragga qualcosa alla maestà dell’immagine, considerano la colonna o un’aggiunta alla Parthénos in origine non prevista da Fidia o persino un’integrazione arbitraria del copista: la ricostruzione dell’Atena Parthénos in scala uguale a quella originaria e in   Erodoto VIII,4,2-3.   Che a tale significato primario si accompagni l’idea di un risvolto agonale nel campo dell’areté femminile è un’illazione di Fehr 2001-2002, pp. 51-53. 28   Meglio però accantonare ogni speculazione sul suo eventuale carattere di predecessore del capitello corinzio a volute e foglie d’acanto, perché la sua foggia, anche per l’abaco quadrato, ricorda più i capitelli cosiddetti Blattkelch, correnti al tempo in cui poté esser scolpita la statuetta: Stevens 1961, p. 3; Mallwitz 1981, pp. 341-343. 26 27

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Figg. 31-32. Anfora a figure rosse attribuita al Pittore di Berlino (490/80 a.C.). Basilea, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig, Ciba AG, BS 456.

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un composto di gesso e cemento a Nashville (1982-1990) ne ha perciò fatto a meno. Tuttavia, le obiezioni sono vacue, perché si dispone di un’altra prova a favore della colonna: su un rilievo di decreto ateniese che parafrasa la Parthénos (fig. 33) – di qualità modesta e dunque meno disinvolto nel rapporto con la fonte di ispirazione – la Nike in mano alla dea si anima per incoronare una sacerdotessa, e sotto si scorge, a bassissimo rilievo, una colonna29. Oltretutto, questa, oltre a costituire un forte richiamo alle colonne doriche intorno, bilanciava i tanti attributi dalla parte opposta e con l’ausilio della posizione della Nike rendeva la composizione   Mangold 1993, p. 32, tav. 6,3.

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Fig. 33. Rilievo votivo da Atene (330/20 a.C.). Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung, inv. Sk 881.

piramidale, con due linee salienti lungo gli assi verticali (colonna e scudo) e convergenti verso la testa30. Poiché dei temi sui sandali e sullo scudo tratteremo a parte nel capitolo seguente, scendiamo sulla base, anch’essa decorata con un tema compatibile con il soggetto di lì a poco scolpito per il frontone orientale: alla nascita di Atena risponde un altro mito di creazione, la nascita della prima donna, Pandora, con venti divinità (più la protagonista?) alte circa 75 cm. Poiché sfugge se i blocchi sulla fronte fossero in marmo pentelico o in calcare blu di 30   Hiller 1976, pp. 35 sg. (con inverosimile spiegazione della sua valenza); Leipen 1984, pp. 178-180. Si vedano anche Stevens 1955, pp. 263-267, e Stevens 1961 (incline a restituire un supporto in forma di tronco d’albero con una civetta!). Aggiunta posteriore: Lapatin 2001, p. 87; Nick 2002, pp. 168-171; Ridgway 2006, p. 47; Davison 2009, I, p. 139.

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Fig. 34. Cratere a calice da Altamura attribuito al Pittore dei Niobidi, con la nascita di Pandora, incoronata da Atena e affiancata da Ares (460/50 a.C.). Londra, British Museum, inv. 1856,1213,1.

Eleusi, poco o nulla si può dire riguardo alla tecnica delle figure: intagliate in marmo e dipinte o lavorate in metallo (in oro o in bronzo dorato) e applicate? La scena è almeno in parte ricostrui­ bile grazie alla base della «copia» della Parthénos a Pergamo, con al centro Pandora, in peplo e mantello, di taglia più piccola e rigida, alla maniera di un vaso solo di poco anteriore (fig. 34); era accompagnata a sinistra da tre figure identificate con le Ore o meglio le Cariti, una delle quali con un oggetto nelle mani, forse una cintura, a destra da due personaggi (Atena con una corona ed Efesto?)31 e alle estremità da Elio e Selene.

31   Per la ricostruzione delle figure si veda, ad esempio, Praschniker 1952, fig. 1; si vedano poi Schuchhardt 1975, Weber 1993, pp. 110-113, e Micheli 2004, pp. 71-77.

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Le nascite divine ed eroiche sulle basi divennero un segno esclusivo di Fidia e della sua cerchia: a parte lo Zeus di Olimpia, la nascita di Elena accompagnava la Nemesi di Ramnunte di Agoracrito e quella di Erittonio le statue di Atena ed Efesto di Alcamene per l’Efestio di Atene. Per quale motivo le nascite? Documentavano il potere sovrannaturale degli dèi in eventi di portata universale, con in più il vantaggio di riempire una fascia estesa in orizzontale grazie a tante figure stanti in raggruppamento simmetrico attorno all’evento clou al centro. La nascita di Pandora è narrata da Esiodo: nelle Opere e giorni Zeus ordina a Efesto di fabbricare con terra e acqua una bella e amabile figura di parthénos, ad Atena di insegnarle le sue arti, specie la tessitura, e ad Afrodite di versare grazia sul capo; appena Efesto finisce di plasmare l’immagine simile a vergine casta, gli dèi offrono vari doni, per cui le Cariti e Peito (Persuasione) le pongono auree collane intorno al collo, le Ore la incoronano con fiori primaverili e Atena la cinge e adatta al corpo ogni ornamento. Nella Teogonia è sempre lei ad abbellire la «neonata» di una veste argentea, di un velo e di ghirlande di rose intorno al capo, mentre Efesto forgia una corona d’oro con la rappresentazione come esseri viventi di tutti i terribili mostri popolanti la terra e il mare, «meraviglia a vedersi» (al pari dei mostri dell’elmo della Parthénos). Pandora, fatta fabbricare da Zeus per punire gli uomini dopo il furto del fuoco divino commesso da Prometeo, è un «bel male» e un inganno: se non avesse sollevato il coperchio di una giara in cui erano racchiusi i mali ignoti al mondo nella sua purezza originaria, gli uomini avrebbero continuato a vivere in una perenne età dell’oro; è non solo un portento rivestito di fascino e grazia, ma anche un flagello per i mortali; insomma, ne incarna la vita fondamentalmente ambigua, nella quale ogni bene implica una contropartita di male, come l’abbondanza la fatica del lavoro32. Perché sulla base della Parthénos Pandora, non oggetto di culto sull’acropoli? Gli studiosi si sono sbizzarriti in spiegazioni stravaganti derivanti da un’iconologia selvaggia33, quando invece la figu  Th. 561-612; Erga 59-82.   Fehr 1981, pp. 70-72; Morris 1992, p. 33; Connelly 1996, pp. 72-76; Steiner 2001, p. 104; Robertson 2004; Platt 2011, pp. 112-114; in part. si vedano Hurwit 1995, e sulla falsariga Kosmopoulou 2002, pp. 112-117. 32 33

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ra presenta qui molte convenienze34. Pandora, come Atena, è una parthénos e, senza madre, nasce già formata grazie a Efesto. È la stessa dea a darle l’abito e a insegnarle a tessere, per cui si dimostrano alla sua altezza le vergini attiche preposte al peplo, consegnato sul fregio orientale; in più, l’ornamento di Pandora risponde agli abbellimenti virginali della statua fidiaca. Ancora: Pandora è un artefatto della téchne, per merito di un demiurgo che è ora Efesto, ora Prometeo, ora Epimeteo, e nel momento successivo alla sua crea­ zione è Atena a svolgere un ruolo preminente; e Atena ed Efesto non per caso siedono accanto sul lato est del fregio. Infine, plasmata di terra e acqua, Pandora nella concezione ateniese si trasforma in creatura autoctona, e in questo senso parlano le sue rare raffigurazioni nella pittura vascolare di poco anteriori alla Parthénos: intorno al 460 a.C. nel tondo interno di una coppa del Pittore di Tarquinia Pandora è vestita da Atena, incoronata da Efesto e accompagnata dalla didascalia «Anesidora», un epiteto frequente della dea Gea che significa «colei che fa spuntare i doni dalla profondità»; secondo un’altra linea iconografica, intorno alla metà del V secolo a.C., Pandora è colta nell’atto di nascere dalla terra alla stregua di prima donna attica35, come Gea compare a mezzo busto nelle scene con la nascita di Erittonio, non a caso attestate nella percentuale più alta tra la fine delle guerre persiane e la Guerra del Peloponneso, in sintonia con l’enfatizzazione dell’autoctonia nell’ideologia ateniese. In breve, la base fidiaca innescava una sequenza di connessioni che marginalizzavano gli aspetti in parte negativi di Pandora; con ciò non si vuole escludere la possibilità di attivazione di altre potenziali associazioni; ma gli «spettatori» potevano appagarsi intuitivamente ed emotivamente della percezione d’insieme di un grande ciclo decorativo con tanti miti ma pochi temi a fungere da leit-motiv; e in quell’insieme Pandora risultava coerente. Un’ultima parola su Elio saliente dall’Oceano e Selene discendente nella «roccia/monti», più volte presenti a incorniciare in moto sincronico gli eventi senza prendervi parte direttamente. La coppia indicava un ciclo regolare e continuo, incarnando la quintes34   Il migliore studio in Berczelly 1992, malgrado le obiezioni illogiche di Ehrhardt 2004, p. 5. Si vedano anche: Harrison 1996, pp. 49 sg.; Palagia 2000, pp. 61 sg.; Boardman 2001. 35   Per i vasi, ad esempio, si veda Hurwit 1995, figg. 5-7.

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senza dello stabile e definitivo ordine divino: nel caso della nascita di Atena (frontone orientale), Zeus, dopo essersi congiunto con Metis, sapendo che da lei sarebbe nato un figlio tanto forte da contendergli il primato, inghiotte la compagna affinché Atena possa sorgere direttamente dalla sua testa; la Guerra di Troia (metope a nord) risponde a un suo piano per porre fine all’età degli eroi36; la nascita di Pandora è una sua risposta al raggiro di Prometeo; Elio e Selene compaiono anche all’interno dello scudo della Parthénos, nella Gigantomachia, che ne consolida la supremazia riaffermando l’assetto cosmico. Nel primo capitolo si è ricordato il processo per empietà che colpì Anassagora, vicino a Pericle: aveva cercato di conoscere a fondo il sole e la luna, il cielo e l’ordine dell’universo, laddove per il suo pensiero «razionale» il sole era pietra e la luna terra, il che equivaleva a negarne la natura divina. Qualche specialista nel passato se ne è figurato un insegnamento in grado di spingere Fidia a un nuovo credo religioso e alla rappresentazione di figure da intendere come simboli appartenenti alla filosofia. Eppure, il Partenone e la Parthénos non concedevano spazio alla traduzione visiva di argomentazioni filosofiche; viceversa, la decorazione rinsaldava il quadro di una città tributante ai propri dèi i culti dovuti, in una visione teocentrica lontana dal razionalismo della sofistica e obbediente alla religiosità tradizionale, della cui importanza nella sfera pubblica fu ben consapevole Pericle, che, senza essere un campione di ortodossia, neppure i comici bollano come irreligioso37. Anche lo scultore doveva interessarsi poco ai dibattiti sulla natura delle divinità perché più preso dalla risoluzione dei problemi compositivi e figurativi sul come raffigurarle in modo adeguato alla loro magnificenza; poteva magari esser conscio del fatto che davanti a tanto insistere su Elio e Selene Anassagora avrebbe scosso la testa, ma in fondo che importava: lui non era davvero il più tipico rappresentante della «comunità dei cittadini» cui ci si voleva indirizzare! Malgrado manchino ancora scudo e sandali, fermiamoci per un momento con la descrizione della Parthénos, e proviamo a rivivere i momenti emozionanti del montaggio graduale nella cella con scaffalature e ponteggi e soprattutto della dedica nel 438/7

  Così Ehrhardt 2004.   Analisi in Banfi 1999, pp. 81-85.

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Fig. 35. Atena Parthénos nella cella del Partenone, ricostruzione in scala 1:10. Toronto, Royal Ontario Museum, inv. 962.229.16.

a.C., coincidente con un anno panatenaico e con il genetliaco della dea: non è da escludere che nel capitolato per la messa in opera fosse stata prefissata la data di consegna (fig. 35). In quell’anno, in mezzo a un cantiere aperto, per la prima volta si spalancò la cella, lunga 100 piedi (29,90 m) e con una larghezza equivalen-

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te a cinque intercolunni, inconsueta nei templi dorici38. I fedeli vi penetrarono attraverso una grande porta (9,75 m x 4,19 m) e videro la dea sullo sfondo di un colonnato interno a due livelli che la racchiudeva in una navata centrale di 25,452 m x 9,815 m, un espediente inconsueto concordato tra Fidia e l’architetto per farla risaltare; alzarono le mani al cielo, il gesto che accompagna regolarmente la preghiera, ma forse non poterono liberamente spingersi sino alla base: nel Partenone, come poi nel tempio di Zeus a Olimpia, una barriera trasversale39 sembra correre tra le colonne interne (all’altezza della terza da est), con la funzione sia di proteggere la scultura, sia di esaltarne l’isolamento come in una sfera distinta. Tutto era studiatissimo. La luce entrava dall’ingresso e da due finestre larghe 2,5 m e alte 3 m, in corrispondenza delle navate laterali; nella penombra Atena sfavillava nell’oro e nell’avorio, adatti a esprimere il lucore delle divine epifanie che irradiano luce dalla testa e riempiono gli spazi di splendore, come per un lampo; scintillio forse in certi momenti dell’anno con rifrazioni in un possibile bacino profondo appena 4 cm davanti alla base, i cui resti hanno richiamato un’annotazione di Pausania, per cui la Parthénos a causa dell’aridità dell’acropoli aveva bisogno di acqua e umidità40. L’oro è un attributo precipuo degli dèi olimpici, perfetto nella sostanza e incorruttibile, per Pindaro «figlio di Zeus» inattaccabile da tarli e tarme; ed è bello, benché alla bellezza della Parthénos contribuissero in pari grado tutti i restanti materiali, come si deduce da un dialogo del primo periodo di Platone sulla definizione del bello: per confutare il ragionamento dell’interlocutore per cui l’oro è l’unico ornamento che aggiunto a un oggetto lo abbellisce, Socrate adduce l’esempio di Fidia, il quale fece non d’oro ma d’avorio gli occhi di Atena, al pari di altre parti del volto, dei piedi e delle mani, avvalendosi poi di una pietra il più possibile somigliante all’avorio per il centro degli 38   La facciata ottastila è spesso considerata conseguenza del dover provvedere a uno spazio interno più grande per la Parthénos (ma si veda Wesenberg 1982, pp. 114-123, scettico sull’influenza di Fidia sul progetto complessivo). 39   Indicata graficamente dagli scavi 1885-1890: Mattern 2007, pp. 152 sg., fig. 9 (appartenente alla fase originaria?). 40   Pausania V,11,10-11. Per il bacino nel Partenone, non coevo però all’installazione della Parthénos, si vedano: Stevens 1955, pp. 267-270; Boardman 1967; Lapatin 2001, pp. 85 sg.; dubbi in Holtzmann 2003, p. 117.

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occhi41; tutti materiali belli se impiegati a proposito, e lo scultore di bellezza se ne intendeva. La dea, con i suoi 11 m circa, sfiorava quasi il soffitto della cella, a 12,476 m di altezza; grandezza che, incrementata da un effetto ottico mediante il posizionamento a una certa distanza dal colonnato retrostante, è anch’essa una componente essenziale delle epifanie: nell’Inno a Demetra, la dea, alla ricerca della figlia Kore rapita da Ade, raggiunge Eleusi sotto le mentite spoglie di un’anziana; accolta in casa del re Celeo e varcata la soglia, comincia a svelarsi, perché con il capo tocca la volta e riempie il vestibolo di luce sovraumana, e dopo un po’ muta del tutto statura e aspetto, respingendo da sé la vecchiaia, irradiando bellezza, effondendo un dolce aroma dal peplo odoroso e rifulgendo42. Bella, grande e splendente: chi entrava nella cella provava l’incommensurabilità, la distanza e l’inaccessibilità, in una parola la qualità aliena del potere divino, esclamando magari theòs theòs (come deus! Ecce deus). Un bel contrasto, di sicuro, con il venerando e vetusto idolo di Atena in legno d’olivo sull’acropoli, «l’oggetto di culto ritenuto da tutti più sacro, sia in città, sia in campagna... su cui correva fama che fosse caduto dal cielo», al momento dell’erezione del Partenone conservato nella parte superstite del tempio di Atena Poliás bruciato dai Persiani sull’acropoli43: la statua, di taglia modesta e annoverabile tra le più antiche in assoluto, con un nucleo aniconico o semianiconico forse poi nella seconda metà del VI secolo a.C. rimodellato mediante aggiunte antropomorfe, esibiva un ornamento in oro – diadema, orecchini e cinque collane –, con in mano attributi sempre d’oro: una civetta nella destra e una patera nella sinistra44. Di fronte alla Parthénos gli Ateniesi ebbero il medesimo disagio di Eschilo, secondo il quale le statue moderne, benché più elaborate e capaci di suscitare stupore, non sapevano rendere bene l’impressione della divinità tanto quanto le più antiche? Se l’Atena lignea era epifanica per origine perché miracolosamente   Pindaro, fr. 222 Maehler; Platone, Hp. Ma. 290a-d.   H. Cer. 188-189; 275-280 (fine VII secolo a.C.?). 43   Pausania I,27,2. 44   Basilari Herington 1955, pp. 16-27; Kroll 1982; Nick 2002, pp. 142 sg. 41 42

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caduta dal cielo, la Parthénos, effetto di una sofisticata téchne, risultava non meno in sintonia con le tradizionali concezioni: la prima era un segno metonimico della presenza divina, mentre la seconda la traduceva in forme meravigliose e mimetiche45, non per questo in minore contatto con il divino46. È verosimile che qualcuno sognasse di incontrare Atena proprio sotto le sembianze della Parthénos, un po’ come occorso nel II secolo d.C. a un retore ipocondriaco, Elio Aristide47: per rincuorarlo quasi in punto di morte, Atena gli apparve in sogno, bella e grande (tò kállos kaì tò mégethos), in tutto simile alla statua di Fidia, con l’egida emanante un profumo soavissimo, fatta come di cera, di meravigliosa bellezza e grandezza. Ciò non impediva a qualche sofista di cavillare, insolenza che si poteva però pagare cara. In un paradossale ragionamento filosofico il socratico Stilpone di Megara alla fine del IV secolo a.C. chiedeva se Atena figlia di Zeus fosse una divinità; alla risposta affermativa replicò: ma questa è figlia di Fidia, non di Zeus! Altra risposta affermativa con relativa deduzione: ma allora non è una divinità. Perciò fu accusato davanti all’Areopago e perseverò nel sostenere la correttezza del ragionamento, perché Atena non è una divinità, ma una dea, e le divinità sono soltanto maschi; inutile sottigliezza, ché gli fu intimato di lasciare subito la città; e si racconta che Teodoro, un noto ateo, lo avesse burlato: Stilpone come lo sapeva? Forse sollevò le vesti e vide il sesso?48 A questo punto una domanda poniamola noi: la Parthénos fu una «statua di culto»? Discordano, gli specialisti. Il fatto è che il Partenone (al pari dei suoi predecessori49) sembra un tempio inusuale per l’assenza di un altare e di una specifica sacerdotessa, al contrario di quanto riscontrabile per Atena Nike; di qui diverse deduzioni: anche il Partenone poté essere dedicato ad Atena Po45   Donohue 1997, pp. 37 sg., 43; Steiner 2001, pp. 89-104; condivisibili molte osservazioni di Platt 2011, pp. 83-108 (meno invece le pagine seguenti sulle contraddizioni latenti tra epifania della divinità e téchne artigianale umana). 46   Un’assunzione, quella della degenerazione del pensiero religioso popolare nel V secolo a.C., spesso insinuata dagli studi moderni, ma a ragione avversata da Hölscher 2010, pp. 118-120. 47   Or. 48,41-43 (Platt 2011, pp. 88 sg., 262). 48   Diogene Laerzio II,11,116 (commento in Lapatin 2010, pp. 126 sg.). 49   Sin dal secondo quarto del VI secolo a.C.? Sul riconoscimento del PrePartenone e dei suoi (?) oikémata in un’iscrizione del 485/4 a.C. (?) si vedano Nick 2002, pp. 135-139, e Sassu 2010, pp. 258-261; versus Holtzmann 2005, p. 542.

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liás, per cui l’epiteto di Parthénos è una designazione popolare per sottolinearne solo l’aspetto virginale50; in alternativa, l’edificio servì da «tempio-scrigno», con una superlativa offerta votiva (la statua) e con una funzione puramente economica quale deposito di eterogenei beni preziosi in oro e argento innegabilmente attestati dagli inventari51; viceversa, altri commentatori si sono industriati a valorizzare i magri indizi espliciti di attività cultuale in associazione alla Parthénos52. Ebbene, è la domanda di partenza a essere mal impostata, perché la presunta dicotomia tra le categorie tutt’altro che monolitiche «statua cultuale/statua votiva» nell’antichità non è regolamentata; anzi, in greco antico manca persino un termine equivalente della moderna e imprecisa nozione di «statua di culto», finita nel mirino della critica53. Ora, sull’acropoli il tempio più importante e antico era quello di Atena Poliás, che, ospitante l’idolo arrivato dal cielo, era dotato di un altare monumentale; dal VI secolo a.C. gli si era affiancato un altro tempio di Atena (i predecessori del Partenone), sin dall’inizio concepito come edificio gemello e complementare e quindi sempre privo di un altare nelle sue varie incarnazioni; allorché invasero l’acropoli, i Persiani misero a ferro e fuoco anche il diretto predecessore in marmo del Partenone, allora in costruzione. Quando si trattò di decidere «che fare dei templi incendiati dai Persiani», si scelse di ricostruire il Partenone e non il tempio di Atena Poliás: forse proprio il cantiere interrotto e la possibilità di un ingrandimento fecero optare per la sua continuazione, il che poté consentire di non disobbedire formalmente alla sostanza della già citata clausola nel giuramento di Platea. Risposta alla domanda iniziale: la Parthénos fu una statua in cui la dea manifestò parimenti la sua presenza e in quanto tale oggetto 50   Herington 1955, pp. 6-15 (anche per lui l’Atena di Fidia fu però una statua votiva, non di culto in senso stretto: p. 37; sull’eventuale esistenza in tempi preistorici di due divinità sull’acropoli confluite in Atena Poliás, pp. 43-47). 51   Con argomenti diversi, ma tutti con punti contestabili: Herington 1955, pp. 50 sg.; Preisshofen 1984; Roux 1984, in part. pp. 316 sg.; Holtzmann 2003, pp. 106 sg.; Sassu 2010; versus Nick 2002, pp. 119-132. 52   Nick 2002, pp. 129 sg., 149-157, sulla falsariga di Herington 1955, pp. 38-42. Si vedano anche: Berczelly 1992, p. 86; Schmaltz 1997; Schoch 2009, pp. 194-202. 53   Sui problemi insiti nella nozione di «statua di culto» si vedano Lapatin 2010, pp. 131-133, e Mylonopoulos 2010, pp. 4-12.

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di devozione dei fedeli, pur se in apparenza non al centro di riti noti regolarmente compiuti (ma c’è da essere così certi che quanto rappresentato al centro del fregio orientale non avesse luogo nel Partenone?); essa non fu meno sacra pur rimanendo all’ombra della preminente Atena Poliás54, tanto più che è la sua sacerdotessa a comparire sul fregio, ed è alla dea poliade che si rivolgono l’offerta del peplo e il sacrificio delle Panatenee. Malgrado tutto, per la preziosità, per la manifattura e per l’esuberante decorazione la scultura di Fidia riuscì a ombreggiare – almeno in parte – il venerando idolo ligneo, riassumendo gli essenziali aspetti della dea: l’esemplare vergine guerriera operosa.   Si veda l’equilibrato dossier di Prost 2009.

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VII «Fare a pezzi lo scudo di Fidia non è come fare a pezzi una scopa» I mondi figurativi della statua di Fidia e il Partenone si intersecavano, perché i calzari e lo scudo esibivano gli stessi miti delle metope, sui sandali la Centauromachia, sullo scudo la Gigantomachia all’interno e l’Amazzonomachia all’esterno, ma con un’inversione ponderatissima: chi entrava sull’acropoli vedeva prima l’Amazzonomachia e poi, raggiunta la fronte orientale, la Gigantomachia; al contrario, sullo scudo quest’ultima era destinata alla parte già di per sé meno visibile e oltretutto oscurata dal serpente. Fuori rimaneva solo il soggetto delle metope a nord, e se ne capisce la causa: alla scomposizione in singoli duelli tipica delle altre battaglie e adattabile a varie superfici meno si prestava la più frammentata narrazione con scansione temporale degli episodi con la presa di Troia. Proviamo a recuperare le immagini, a parte la Centauromachia sui sandali alti forse circa 35 cm, mai riproposta dalle repliche in marmo, troppo rimpicciolite. È l’identico tema dello scudo della cosiddetta Prómachos, cesellato da Mys: se si trattasse di un’aggiunta posteriore, si comprenderebbe la volontà di scegliere il soggetto per così dire più sacrificato sulla Parthénos e sul Partenone perché confinato al lato sud. Di qualche maggiore appiglio si dispone per la Gigantomachia nella parte concava dello scudo che doveva armonizzarsi con le spire del serpente. Per Plinio, Fidia caelavit Amazzonomachia, Gigantomachia e Centauromachia, verbo riferibile a un lavoro toreutico; ma la Gigantomachia era più verosimilmente dipinta: è lo stesso scrittore, contraddicendosi, a specificare come egli dipinse «lo scudo che è ad Atene» (quello della Parthénos, evidentemen-

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te); ugualmente fece il fratello Paneno per l’interno dello scudo di un’Atena in oro e avorio realizzata a Elis da Colote, allievo di Fidia1. Altro indizio: se dell’Amazzonomachia, come vedremo, si potevano trarre calchi, un’analoga operazione per la Gigantomachia fu impedita non tanto dalla più scomoda collocazione, quanto appunto dalla sua natura di dipinto su una superficie, forse d’avorio2. Ancora: all’interno di una delle repliche dello scudo (cosiddetto Strangford) compaiono le tracce evanide di due giganti dipinti con una pelle ferina sulle spalle che li qualifica come esseri selvaggi secondo un’iconografia in voga dalla fine del VI secolo a.C.: negli Uccelli di Aristofane3 Pisetero minaccia di spedire in cielo contro Zeus dei porfirioni (nome con doppio senso, designante uno dei giganti e una specie di uccello), armati di fiamme e vestiti con pelli di pantera! Questi motivi si incontrano anche su un frammentario cratere attico del 410-400 a.C. con la raffigurazione della volta celeste a mo’ di fascia semicircolare riempita con un motivo vegetale a separare gli dèi (resta solo la quadriga forse di Zeus) dai Giganti assalitori in basso (fig. 36); un’ingegnosa e insolita «Gigantomachia delle alture» conciliabile con la foggia degli scudi reali, all’interno di norma articolati in zone concentriche, divise da anelli in metallo; in più, alle estremità della volta incorniciano la scena i soliti Elio e Selene. I protagonisti assumono pose audaci, con i Giganti intenti a sollevare macigni e scagliare tronchi e pietre, sovrastati dagli dèi combattenti su carri o a piedi e con le armi puntate verso il basso; spiccano le linee diagonali dei movimenti, come per il gigante in equilibrio instabile visto di spalle, mentre un altro, accompagnato dal nome (Encelado), imbraccia uno scudo a sua volta dipinto all’interno con una Gigantomachia (fig. 37): un’immagine nell’immagine! Il cratere riecheggia pertanto la composizione e i singoli motivi dello scudo, ripresi da altri vasi4, a riprova di come la Gigantomachia dipinta attrasse i pittori: fu qualcuno di loro a prendersi   Plinio, Nat. XXXV,34,54; XXXVI,4,18.   Harrison 1966, p. 112; a favore di un lavoro a rilievo in uno scudo tutto d’oro invece Thompson 1939, pp. 297 sg. Per uno scudo rivestito di bronzo e dipinto all’interno nel tesoro dei Sicioni a Olimpia si veda Pausania VI,19,4. 3   Av. 1249-1250. 4   Fondamentale Salis 1940. Si vedano anche Vian 1952, pp. 149-160, e Walter 1954-1955. Scontate osservazioni in Arafat 1986. Per la battaglia contro i Giganti nel VI-V secolo a.C. si veda Muth 2008, in part. pp. 300-328. 1 2

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Fig. 36. Cratere a calice attico attribuito al Pittore di Pronomos da una tomba a semicamera di Ruvo di Puglia (410-400 a.C.), con Gigantomachia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 81521.

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Fig. 37. Cratere a calice attico attribuito al Pittore di Pronomos da una tomba a semicamera di Ruvo di Puglia (410-400 a.C.), con Gigantomachia, dettaglio del gigante Encelado. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 81521.

degli schizzi davanti alla statua, o gli stessi disegni di progetto di Fidia erano in qualche modo accessibili? In ogni caso, quei modelli entrarono nel repertorio delle botteghe, quantunque non ci sia poi bisogno di supporre un’assoluta fedeltà nella loro trascrizione, visto che persino le «copie» da pitture, non eseguibili con metodi meccanici, erano esposte a forti variazioni. Al centro dello scudo, con un diametro ricostruito di circa 5,40 o di 4,80/4,90 m (una bella differenza dagli scudi reali, in media con un diametro di 90 cm!) risaltava un gorgoneion con componenti orride poco marcate, circondato da una corona di serpenti in argento dorato; a parte un’esile fascia risparmiata intorno all’orlo, sulla superficie infuriava la battaglia dei Greci contro le Amazzoni, con snelle figure ad altorilievo forse anch’esse applicate in argento (in parte?) dorato5. È il settore decorativo 5   Ad esempio, si vedano: Hölscher, Simon 1976, pp. 129 sg.; Philipp 2004, p. 78, nota 451 (lamine in bronzo a sbalzo).

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meglio noto della statua, tanto da meritare la citazione persino in un trattato di eloquenza. Sì, perché, disquisendo di un problema retorico-stilistico sull’importanza del ricorso a espressioni ritmiche nel parlare e agli effetti dello scambio di posto di parole ben ordinate, constata Cicerone6: se a qualcuno piace di più la prosa sciolta da ogni ritmo, può usarla, a patto che faccia come chi, frantumato lo scudo di Fidia, pur avendo distrutto l’euritmia complessiva, non abbia cancellato la bellezza (venustas) delle singole parti; quando invece si libera da ogni ritmo una prosa senza sostanza e l’espressione è trascurata, allora è come se si facesse a pezzi non lo scudo, ma, per dirla con un proverbio plebeo, una scopa! In breve, lo scudo di Fidia poteva ben sopportare uno spezzettamento in singole parti senza perdere in bellezza, appunto una delle modalità di trasmissione dell’Amazzonomachia su una serie di rilievi in marmo pentelico dal carico di una nave andata a picco al Pireo intorno alla metà del II secolo d.C., che con qualche adattamento copiano singole scene estrapolate dalla composizione generale e nondimeno godibili per la loro venustà (fig. 38); i quadretti di 129/131 cm x 98 cm con figure alte 70/80 cm, la grandezza presumibile per l’originale, fabbricati in serie per decorare le pareti di qualche residenza sontuosa, non partirono mai per la destinazione finale, forse l’Italia, dove invece riuscì a giungere qualche altro esemplare affine7 (fig. 39). Come furono copiate le figure? Traendone calchi direttamente dallo scudo? Qualcuno potrà obiettare che sarebbe stato vietato per la loro delicatezza, ma pare abbastanza inverosimile che si fossero conservate le matrici originarie, poiché anche quelle riemerse a Olimpia nell’area dell’officina erano finite sotto terra già nel corso del V secolo a.C. Se si afferrano così i motivi iconografici e stilistici delle singole pugne, lo scudo fu invece riprodotto nell’interezza sin dal terzo quarto del II secolo a.C.: gli scultori ateniesi Timokles e

  Cicerone, Orat. 70,234.   Sull’Amazzonomachia dello scudo si vedano: Becatti 1951, pp. 111-120, 246260; Höcker, Schneider 1993, pp. 73-80; Davison 2009, I, pp. 94-110; Mandel, Ribbeck 2013, pp. 204 sg. Per le ricostruzioni: Harrison 1966; Strocka 1967; Hölscher, Simon 1976; Stefanidou-Tiveriou 1979; Harrison 1981; Strocka 1984; Meyer 1987; Gauer 1988. Si vedano anche Floren 1978; Mauruschat 1987. 6 7

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Fig. 38. Rilievo del Pireo con Amazzonomachia fidiaca (intorno alla metà del II secolo d.C.). Atene, Pireo, Museo Archeologico.

Timarchides, figli di Polykles, ne realizzarono una copia per la statua di Atena Cranea a Elatea in Focide8, probabilmente in marmo pario. Ma sono poi gli scudi in miniatura su alcune repliche della Parthénos a conservarne la disposizione generale, con dei limiti: oltre alla fattura grossolana e alle lacune conservative, il loro rimpicciolimento ha anzitutto preteso un adattamento al minor spazio disponibile con riduzione del numero dei personaggi; possono poi modificare e/o semplificare i dettagli nonché scambiare le posizioni dei combattenti (specie negli scudi Lenormant e Strangford, il primo alto 15 cm, il secondo 50 cm: figg. 40-41). Tante le oscillazioni delle antiche riproduzioni e altrettante le proposte di ricostruzione dell’archetipo perduto da parte degli studiosi, che a fatica per lo più vi hanno supposto ventisei o ventisette figure (fig. 42); come per gli eroi eponimi

  Pausania X,34,8.

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Fig. 39. Rilievo con il cosiddetto Capaneo (età proto-antoniniana). Villa Albani, inv. 20 (calco Museo dell’Arte Classica, Università di Roma La Sapienza, inv. 530).

del fregio orientale, inutile o quasi indovinarne il nome in assenza di iscrizioni didascaliche9. I duelli corpo a corpo, tutti a piedi, si distribuiscono in libera simmetria e su più livelli: i Greci, imberbi e non, combattono nudi 9   Malgrado i tentativi in questo senso di Hölscher, Simon 1976, pp. 135-148, o Harrison 1981, pp. 300-309. Per i nomi nella Amazzonomachia teseica in ceramica si veda Servadei 2005, p. 138.

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Fig. 40. Atena Parthénos, scudo della copia Lenormant (I-II secolo d.C.?). Atene, Museo Archeologico Nazionale, inv. 128.

o con clamidi svolazzanti, mentre delle Amazzoni solo talora è scoperto il seno – hanno due seni e non uno solo, contrariamente alla visione moderna in sintonia con una tradizione antica trasmessa non dai poeti o dall’imagerie, bensì dagli storici con interessi etnografici sin dal V secolo a.C.; portano elmi attici, indossano chitonischi e corazze, come intuibile anche sulle metope del Partenone, brandendo le doppie asce e le tradizionali armi oplitiche, spade e lance; i contendenti compaiono nelle più varie pose e visioni – di prospetto, dal retro e di tre quarti – e stendono gli arti sul piano

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Fig. 41. Atena Parthénos, scudo Strangford (prima metà del III secolo d.C.). Londra, British Museum, inv. GR 1864.2-20.18.

Fig. 42. Atena Parthénos, ricostruzione dello scudo.

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in gesti quasi teatrali, senza sovrapposizioni o scorci. Una novità: le figure si scontrano non venendo da destra e da sinistra secondo il più comune arrangiamento lineare, bensì dall’alto e dal basso, disegnando le stesse diagonali distintive, come visto, della Gigantomachia10; per incrementare la dinamicità e la drammaticità delle lotte Fidia poté sfruttare le linee del terreno e i rialzi rocciosi che, presenti nei rilievi cosiddetti del Pireo, in modo parco fanno capolino sia su alcune metope e sul fregio del Partenone, sia nelle Amazzonomachie sui vasi nella prima metà del V secolo a.C. Ma come immaginarsi la resa dell’aspro paesaggio?11 A sbalzo sullo scudo? Sembra all’opposto da escludere la presenza in origine di un background architettonico12, contrariamente alle pur rare indicazioni dei rilievi in marmo, che aggiungono allo sfondo delle murature in bugnato rustico, e tra breve proveremo a capirne la ragione. Vittoria e sconfitta, attacco e difesa, ferimenti e morti: questa la trama dei combattimenti tra Greci e Amazzoni, tutti dai volti impassibili, perché la morte degli eroi non poteva che essere bella; e a proposito di morti: in basso si restituiscono un’amazzone e un greco ormai a terra con il braccio piegato e portato alla testa13. La battaglia è aperta – più spesso i Greci hanno una postura aggressiva – in sintonia con le cosiddette Big Battles correnti nella pittura vascolare dal 480/70 a.C. sino alla metà del secolo, dove gli scontri violenti per lo più vedono il prevalere ora degli uni ora delle altre: tanto più pericolose le nemiche (altro che donnicciole!), tanto più grande la vittoria; e sulle metope del Partenone le Amazzoni a cavallo passano talora sui cadaveri dei Greci14.

10   Per la presenza di linee diagonali anche sui vasi dipinti dal 440/30 a.C., ossia negli anni dello scudo fidiaco, si veda anche Dietrich 2010, pp. 518 sg. (fig. 437, per l’Amazzonomachia del Pittore di Eretria del 420 a.C. circa). 11   Lo sfondo roccioso è steso in modo uniforme sulla superficie di un insolito rilievo riferito a età augustea da Ampurias che conserva quattro figure dello scudo: Vivó i Codina 1996. 12   Così in modo azzardato Harrison 1981, pp. 294-304, fig. 4. Si vedano anche Arias 1980, p. 54, e Meyer 1987, p. 318. 13   A favore dell’amazzone caduta ragionevoli le osservazioni in Gauer 1988, pp. 31-33, versus Mayer 1987. 14   Per la diversità della raffigurazione delle Amazzoni sui monumenti pubblici e nei vasi destinati al simposio dalla metà del V secolo a.C. si veda Muth 2008, pp. 393-406. Si veda anche Giuman 2005, pp. 212-218.

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Sullo scudo si distinguono: un guerriero con un masso (n. 18); un ferito barbato con il ginocchio puntato al suolo che si svelle una freccia dal dorso (n. 17: fig. 39), che per le somiglianze del volto ha poi spinto ad attribuire a Fidia una statua del poeta lirico Anacreonte nota da repliche e identificata con quella vista sull’acropoli da Pausania senza però indicarne l’artefice15; il gruppo del salvataggio in cui un greco trascina via dal campo di battaglia un compagno per le ascelle (nn. 9-10); un greco in atto di afferrare per i capelli un’amazzone, che pare cadere in un «baratro» spingendo il corpo in avanti e stringendo il polso del nemico, più per liberarsene che per tirarlo giù con sé (nn. 7-8). Spesso per la composizione si è evidenziato un possibile influsso della pittura, ma per l’ampia gamma degli schemi di battaglia Fidia poté attingere alle figure depositate nella propria memoria, rivissute con arditezza: per esempio, il dossier iconografico precedente, almeno come noto dai vasi, non pare includere l’amazzone caduta a capofitto (n. 23), il cosiddetto gruppo del salto nel vuoto o quello del salvataggio16. Un’Amazzonomachia, sì, ma di quale genere? Una battaglia delle Amazzoni contro gli Ateniesi, sostiene Pausania, un’Amazzonomachia attica, il probabile soggetto già delle megalografie nel santuario di Teseo e nella Stoá Poikíle17 di cui nulla si sa, a parte gli eventuali pallidi riecheggiamenti in alcuni grandi vasi a figure rosse del secondo quarto del V secolo a.C.18. Varie le versioni circolanti di quella saga. Teseo combatté le Amazzoni nel Ponto Eusino, insieme a Eracle o da solo dopo una spedizione a Temiscira dell’eroe-dio; ottenne da Eracle come riconoscimento del suo valore o prese come prigioniera l’amazzone Antiope; per vendicare il rapimento, le Amazzoni arrivarono persino ad accamparsi nel centro di Atene e attaccarono battaglia alla Pnice (la collina ad occidente dell’acropoli dove si riuniva 15   Per esempio, si vedano: Strocka 2004, pp. 223 sg., n. 10 (dedica di matrice antidemocratica, assunto un po’ esagerato); Mandel, Ribbeck 2013, pp. 206-209. 16   Per un suo riflesso nella pittura vascolare si veda Avramidou 2011, pp. 74, 95, n. 92, tav. 31a-c. 17   Pausania I,15,2; 17,2. Si veda anche Aristofane, Lys. 678-679. 18   Quasi tutti attribuibili all’atelier del Pittore dei Niobidi. Anche le scene con sicura Amazzonomachia teseica nella pittura vascolare risalgono alla seconda metà del V secolo a.C.: Servadei 2005, pp. 134-141.

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l’Assemblea) e alla collina del Museo (di fronte all’acropoli, verso sud); le parti procrastinarono a lungo l’urto finale, finché Teseo, rotti gli indugi e fatto un sacrificio a Phobos (Paura, figlio di Ares), sferrò l’offensiva. Le fasi dello scontro restarono impresse nella topografia memoriale della città: l’ala sinistra delle Amazzoni puntò verso il luogo poi chiamato Amazzoneo (forse presso l’Areopago, dove alcune furono sepolte), mentre quella destra giunse sin presso la Pnice; gli Ateniesi caricarono qui scendendo dal Museo, come rivelato dalle tombe dei caduti sulla via che conduceva alla Porta del Pireo, ma furono respinti dalle Amazzoni fino al santuario delle Eumenidi (ai piedi dell’Areopago); la schiera mossasi dal lato del Palladio, dell’Ardetto e del Liceo, aggredì l’ala destra e ricacciò le Amazzoni sin dentro il loro accampamento, facendone strage; al quarto mese di lotta fu stipulato un trattato di pace, testimoniato dal «sito del giuramento», una località presso il santuario di Teseo dove in onore delle Amazzoni si celebrava un sacrificio prima della festa dell’eroe; per alcuni Antiope cadde combattendo accanto a Teseo, mentre per altri collaborò al trattato. La prima esplicita testimonianza del mito in ordine di tempo risale alle Eumenidi di Eschilo messe in scena nel 458 a.C., dove a parlare è Atena: «Su questo monte di Ares le Amazzoni un tempo stabilirono le loro tende, quando vennero in odio a Teseo, per combattere contro Atene, e di fronte alla sua acropoli innalzarono questa cittadella nuova, sacrificando al dio»19. La svolta per un’attualizzazione della saga legata a Teseo, modello di strenua difesa patriottica e ignota sino all’inizio del V secolo a.C., fu offerta dalle vittorie sui Persiani dopo l’occupazione di Atene; e le Amazzoni accampatesi sull’Areopago di Eschilo sono palesemente ricalcate sui Persiani, anch’essi stabilitivisi per poi assediare l’acropoli20. Per molti specialisti pure la battaglia sullo scudo si svolge in luoghi precisi, acropoli compresa21, un’azione quest’ultima sì non

19   Plutarco, Tes. 26-27; Eschilo, Eu. 685-689. Si veda anche Pausania I,2,1. Commenti in Gauer 1988, p. 41, La Rocca 1985, pp. 47-56, e Boardman 1988. 20   Erodoto VIII,52. 21   Con varie sfumature si vedano: Salis 1940, pp. 139 sg.; Harrison 1966, pp. 126-128; Strocka 1967, pp. 133 sg.; Harrison 1981; Strocka 1984, p. 194; Gauer 1988, pp. 36-41; versus Hölscher, Simon 1976, pp. 133-135.

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esplicitata dalle narrazioni letterarie or ora considerate, ma in grado di rafforzare ancor più il parallelo con l’invasione dei barbari. Certo, dire semplicemente che le Amazzoni sono dei Persiani camuffati è fuorviante22, perché qui come sulle metope del tempio non indossano vesti esotiche e copricapi orientali, come può capitare nell’imagerie vascolare dopo il 480 a.C., il che collima con una decorazione come quella del Partenone nel complesso speziata di pochi elementi contingenti. Ma ciò non esclude che un’Amazzonomachia attica su un’opera esposta sull’acropoli potesse innescare l’associazione con l’empia aggressione dei Persiani; del resto, quando i Greci di fronte all’avanzata di Serse chiedono alla Pizia che fare, in un primo vaticinio Atene è definita città rotonda dalle alte cime23; e per certi versi lo scudo con la sua forma circolare la rappresenta tutta, con l’acropoli in alto. Stiamo sovrainterpretando? Il rischio c’è, benché così paiano aver inteso anche gli artefici di quei pochi rilievi cosiddetti del Pireo che inseriscono una notazione ambientale, un po’ secondo la prassi dei copisti quando ai tipi statuari replicati aggiungono attributi ridondanti per facilitarne ancor più l’identificazione: può qui trattarsi delle mura dell’acropoli di Atene, tanto più che su uno dei rilievi in alto sporgono quattro capitelli ionici, identificati con il porticato settentrionale dell’Eretteo o, meglio, con il bastione del tempio di Atena Nike!24 Colpisce inoltre l’assenza dei cavalli, attestati nelle Amazzonomachie delle metope del Partenone e della megalografia nella Stoá Poikíle nonché frequenti nella pittura vascolare: è un problema figurativo dovuto alla scarsa conformità degli animali a una superficie convessa che richiede figure con un bilanciamento delle forze centripete e centrifughe25, o la loro presenza risultò superflua in un’«Amazzonomachia delle alture» (alture erano anche Museo, Ardetto e Pnice) rispondente alla «Gigantomachia delle

22   Come sottolineato, ad esempio, da: Wesenberg 1983, pp. 206-208; Veness 2002; Martini 2013, p. 173. 23   Erodoto VII,140; per il centro urbano come rupe circondata da un cerchio si veda anche Strabone IX,1,16. 24   Salis 1940, p. 138 (ma anche Holtzmann 2003, p. 113); Strocka 1967, p. 45; versus Harrison 1981, pp. 295 sg. 25   Per la prima opzione, ma in maniera un po’ macchinosa, si vedano: Hölscher, Simon 1976, pp. 132 sg.; versus Harrison 1966, p. 128 (ma già in questo senso Salis 1940, p. 142, e Becatti 1951, p. 116).

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alture»? Infine, una figura già citata può indurre a reputare sottintesa l’idea della difesa dell’acropoli: il calvo lanciatore di masso (n. 18), che, vigorosissimo, dal vertice fa fuori parecchie amazzoni nel quadrante sinistro. Per diverse ragioni spicca, quell’eroe: per la posizione preminente, per la calvizie denotante anzianità26 e per la pietra, arma molto anomala per i Greci nell’imagerie, della quale più spesso si servono per converso gli esseri selvaggi e i mostri, come il Minotauro, i Centauri o i Giganti; semmai, nelle lotte oplitiche dipinte sui vasi sono i soldati ormai caduti ad afferrare occasionalmente piccole pietre27. Ebbene, Erodoto28 racconta una vicenda senz’altro nota a quegli Ateniesi che ne furono testimoni da giovani: la generazione di Pericle e Fidia. Durante l’invasione persiana un oracolo della Pizia circa un muro di legno in grado di proteggerli suscitò interpretazioni discordanti: per alcuni vecchi il dio aveva predetto che l’acropoli si sarebbe salvata, perché anticamente riparata da una palizzata; altri invece, tra cui specie Temistocle, convinti che il dio si riferisse alle navi, esortavano ad affrontare per mare il nemico, linea che alla fine prevalse; i Persiani, penetrati nella città evacuata, incontrarono nel santuario di Atena solo pochi ateniesi, i tesorieri del tempio e alcuni cittadini poveri, i quali avevano barricato l’acropoli con porte e pezzi di legno; i barbari lanciarono frecce contro la fortificazione improvvisata, mentre gli assediati fecero rotolare su di loro dei macigni, ma alla fine la resistenza fu spezzata. Poteva bastare il vecchio eroe con pietra a rievocare la difesa della rocca occorsa quarant’anni prima? Certo, quell’atto disperato finì male e fu compiuto da uomini contrari alla corretta esegesi dell’oracolo che invece propiziò la vittoria navale di Salamina, ma ricordiamoci che la sovrapposizione tra storia e mito

26   Nel V secolo a.C. non una cifra figurativa esclusiva degli artigiani; piuttosto, è significativo come da età ellenistica anche Dedalo venga raffigurato per lo più calvo e barbato (effetto del «Fidia» sullo scudo?). 27   Anche se nell’Iliade possono avvalersi dei macigni Atena o diversi eroi. Per le pietre degli opliti nelle immagini da circa la metà del VI secolo a.C. si veda Dietrich 2010, pp. 320-324; nella realtà, i lanciatori di pietre erano presenti nelle truppe ausiliarie. 28   VII,141-142; VIII,51-53. Il parallelismo con l’episodio narrato da Erodoto è stato visto dagli assertori del fatto che la battaglia si svolga sull’acropoli (salvo Harrison 1966, pp. 131 sg., e Harrison 1981, p. 310).

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non è mai totale. Fermiamoci qui per non volerne sapere troppo, perché, sia quel che sia, il lanciatore di pietra consente di introdurre un’altra storia, afferrabile sì per la prima volta di nuovo in Cicerone29, ma non inventata da lui: una storia con varie versioni circolanti anche senza un controllo autoptico. Siccome gli artigiani hanno il desiderio di essere famosi dopo la morte, e non gli era stato permesso di iscrivere il nome, Fidia incluse un’immagine somigliante a sé sullo scudo della Parthénos. Il divieto di firma ricorda altri aneddoti. Pericle, accusato di dilapidare le finanze, minacciò di dedicare i monumen­ ti a suo nome pagandoli di tasca propria, ma il popolo, o per l’ammirazione per la sua grandezza d’animo o per la brama di partecipazione alla gloria di quelle costruzioni, lo spronò tra gli applausi ad attingere senza risparmio al tesoro pubblico per i nuovi cantieri; popolo che non aveva nemmeno tollerato che il nome di Milziade, nonostante la sua richiesta, comparisse in bella mostra nell’iscrizione di dedica della Battaglia di Maratona dipinta nella Stoá Poikíle30, permettendogli piuttosto di essere effigiato in prima fila: episodi dimostrativi della tensione tra istanze collettive e individuali nella pólis democratica. Ma Fidia, avido di fama postuma, aggirò il veto, ribadisce Valerio Massimo: nel 304 a.C. il romano Fabio Pittore aveva firmato i dipinti nel tempio di Salus sul Quirinale perché non voleva essere condannato all’oblio, seguendo l’esempio dello scultore che sullo scudo aveva apposto appunto la sua effigie (effigiem suam) – qui l’immagine somigliante si trasforma in ritratto; se quella fosse andata distrutta, si sarebbe disintegrata tutta la coesione meccanica (conligatio) dell’opera (dello scudo)31. Diversi autori del II-III secolo d.C. sviluppano l’ultimo aspetto. Si diceva che Fidia avesse rappresentato in mezzo allo scudo il proprio volto, allacciandolo alla Parthénos mercé un congegno nascosto; se qualcuno l’avesse rimosso, avrebbe sbriciolato l’in-

  Cicerone, Tusc. I,15,34.   Plutarco, Per. 14,1-2. Per Milziade, già morto al momento della costruzione della Stoá, il che rende la vicenda non plausibile, si veda Eschine, Or. 3,186 (de Angelis 1996, pp. 156 sg.; non persuade Di Cesare 2006, p. 135, nota 26). 31   Osservazione con qualche tangenza con il brano di Cicerone citato all’inizio: Valerio Massimo VIII,14,6. 29 30

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tera statua32; a Fidia può poi persino subentrare una imago di Dedalo33, variante isolata e viziata dalla crescente enfasi sul meccanismo di autodistruzione: difatti, il leggendario artigiano era in grado di compiere invenzioni ingegnose e mirabolanti di ingegneria, architettura e scultura. Ma Fidia dov’è? Plutarco, dopo aver specificato come non si fosse raggiunta la prova del presunto furto, si sofferma sulla fama delle sue opere, cagione di invidia, specie perché nell’Amazzonomachia dello scudo fece una sorta di autoritratto sotto forma di un vecchio calvo che con le mani solleva un masso; vi aveva inserito persino una bella immagine di Pericle in lotta contro un’amazzone, a proposito della quale commenta il retore: la posizione della sua mano che protende una lancia dinanzi agli occhi è di grande abilità, perché vuole nascondere la somiglianza, comunque chiara da ambo le parti34. Rilanciano i critici: un Teseo-Pericle? Vano interrogativo, sebbene dalla metà del VI secolo a.C. siano note anche immagini barbate dell’eroe al posto di quella ben più comune e imberbe dell’efebo per eccellenza. Il guerriero calvo con pietra è agevolmente individuabile: il già ricordato n. 1835. La logica impone poi di riconoscere la bella figura creduta adombrante i tratti di Pericle in un personaggio con la barba come nel suo autentico ritratto e magari con il capo coperto, visto che si insinuava che si fosse sempre fatto effigiare con l’elmo per colpa della testa a cipolla! Il candidato migliore è a questo punto il n. 3, con lancia e copricapo conico (un pileo, ma ne esiste una variante con elmo), subito sotto il gorgoneion36. 32   Mu. 399b (prima metà del II secolo d.C.); Mir. 846a (seconda metà del II secolo d.C.). Si veda anche Apuleio, Mun. 32, che specifica di aver visto Fidia sullo scudo, dubbia dichiarazione di autopsia. 33   Ampelio, VIII,10. Parte della critica prende sul serio questa versione, con qualche acrobazia: Schweitzer 1967e, pp. 356-360; Strocka 1967, p. 135; Hölscher, Simon 1976, p. 148; Fehr 1981, pp. 67-70. 34   Plutarco, Per. 31,3-4. Si veda anche Dione Crisostomo, Or. 12,6 («come dicono»). 35   Sulla peculiare trasmissione della figura si vedano: Poulsen 1954, p. 204; Schuchhardt 1963, p. 50; Hölscher, Simon 1976, pp. 117 sg.; Harrison 1981, pp. 293 sg.; Gauer 1988, p. 31, nota 7; Meyer 1987, p. 303. 36   Meyer 1987, pp. 307 sg. Per un eroe (imberbe) con pileo sul capo che coadiuva Teseo in un’Amazzonomachia su un vaso del Pittore di Eretria del 420 a.C. circa si veda Lezzi-Hafter 1988, p. 343, n. 238, tavv. 148-149.

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Alcuni studiosi accettano la storicità nel V secolo a.C. dei criptoritratti di Pericle e Fidia, intorno ai quali si poté cominciare a rumoreggiare nel clima ostile all’entourage di Pericle alla vigilia della Guerra del Peloponneso37. Malgrado ciò, le fonti che nel V-IV secolo a.C. parlano di Fidia e soprattutto di Pericle non ne fanno parola, neanche quei commediografi che con scherzi, malignità e accuse alla politica e alla vita privata dello statista lo trasformarono in un tipo teatrale: quanto materiale avrebbe fornito un Pericle «smascherato» nel bel mezzo di un’Amazzonomachia! È poi davvero accettabile che Pericle e Fidia avessero concertato di apparire «di nascosto» (in fondo non troppo) non come promotori del progetto, bensì alla stregua di eroi della pólis, consci di star parimenti contribuendo alla sua grandezza? Per l’assunto a poco serve invocare possibili precedenti nell’Atene cimoniana. Nella Distruzione di Ilio della Stoá Poikíle si diceva che Polignoto avesse modellato il volto di Laodice, la più bella delle figlie di Priamo, su quello di Elpinice, con la quale – ennesimo on dit – aveva un rapporto; lì anche il tragediografo Sofocle era raffigurato con la cetra perché si diceva che in una sua tragedia, il Tamiri, avesse preso in mano la cetra suonandola: forse una tavoletta votiva dipinta, dedicata in occasione di una vittoria tragica, con Sofocle/Tamiri, poeta e musico mitico38. Questi casi, credibili o meno, non coinvolgono però artisti o politici e non paiono andare contro le convenienze. È perciò molto opinabile che, a dispetto dei controlli rigorosi e soffocanti dell’Assemblea e del Consiglio e della sensibilità estrema dei contemporanei, Fidia, sobillato da Pericle, avesse azzardato senza approvazione l’inserimento di criptoritratti in una battaglia eroica e la personalizzazione di un’impresa finanziata dalla collettività; il popolo sin da subito non avrebbe gradito, e tanto meno Atena: in tempi molto mutati, all’inizio del III secolo a.C., tra i vari straordinari onori concessi ai sovrani macedoni, Antigono e il figlio Demetrio Poliorcete, gli Ateniesi decretarono che le loro immagini

37   Di Cesare 2006 (ma così già: Hafner 1956, pp. 13-17; Eckstein 1962, p. 69, nota 25; in part. Metzler 1971, pp. 293-298): infruttuosa la sua distinzione tra ritratto «iconico» e «tipico» (p. 151). 38   Plutarco, Cim. 4,6; Vita Soph. I,5 (de Angelis 1996, p. 135; soluzione meno convincente in Di Cesare 2006, p. 132).

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fossero intessute sul peplo panatenaico tra quelle degli dèi accanto a Zeus e ad Atena; questa e altre adulazioni la dea le disapprovò, e il peplo fu strappato proprio nel mezzo da un’improvvisa bufera mentre veniva portato attraverso il Ceramico!39 A spiazzare in definitiva non è tanto l’idea di un Fidia orgoglioso – la fierezza degli artisti era allora già spiccata e si intensificherà nelle decadi finali del V secolo a.C. – quanto la scarsa convenienza di un Fidia megalomane e narciso al punto tale da infilarsi, non dissimulato e per importanza persino superiore al «Pericle», nella decorazione di una statua di divinità in un tempio40. Piuttosto, la genesi dei criptoritratti può rientrare nel processo di recezione della Parthénos e del Partenone più avanti nel tempo. Prima di Cicerone, nel III-II secolo a.C. – esser più precisi non si può –, la diceria fu favorita da diversi fattori, come gli sforzi di sistematica raccolta di notizie biografiche sotto forma aneddotica su personaggi famosi, artisti compresi, o la proliferazione di scritti sulle arti figurative41; un’epoca in cui l’Amazzonomachia interessò non tanto per il soggetto in sé quanto per la bellezza dei motivi artistici; e un’epoca che ormai ammirava a distanza la magnificenza del Partenone semplificandone le modalità di costruzione per la perdita di contatto con quella realtà: non più una complessa iniziativa collettiva, per quanto con Pericle e Fidia in ruoli cruciali, ma l’exploit della coppia di amici, il committente e l’artista. Forse il lanciatore di pietra poté ispirarne un ritratto di ricostruzione, la cui esistenza è suggerita da un blocco, scoperto nel 1779 nel sito di una villa tiburtina detta di Cassio e ritenuto base di un’erma purtroppo acefala, con l’iscrizione Phthidias42 (dalla stessa villa provengono tra l’altro due erme di Pericle): chissà se lo scultore vi si sarebbe riconosciuto. 39   Plutarco, Dem. 10,5, 12,3. Sul rapporto Demetrio-Atena si veda Scheer 2000, pp. 271-279. 40   Non comparabili i casi di artisti o loro collaboratori effigiati accanto o su statue di divinità: Pausania II,23,4 (Argo), III,18,14 (trono dell’Apollo Amicleo). 41   Preisshofen 1974, seguito da Harrison 1981, p. 310 (con qualche riserva), Meyer 1987, pp. 302-304, Morris 1992, pp. 261 sg., Pekáry 2007, pp. 8-10, e Falaschi 2012, pp. 210 sg. 42   Savona 1992; per il ritratto, in modo illusorio, si veda Poulsen 1954, pp. 203 sg. (ma anche Metzler 1971, pp. 300-306). Sulle gemme con una testa di Zeus affiancata a un ritratto barbato e calvo in cui si è riconosciuto Fidia si veda Zwierlein-Diehl 1998, p. 256, n. 131.

VII. «Fare a pezzi lo scudo di Fidia non è come fare a pezzi una scopa»

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Fatto sta che le fonti sullo scudo possono aver influenzato una tradizione che nel medioevo arriva sino a Giotto: di lì in poi si moltiplicarono gli autoritratti e i ritratti d’artista inseriti o semplicemente riconosciuti in dipinti e sculture a carattere narrativo43; è stato finanche ipotizzato che Michelangelo, quando scolpì un calvo in atto di lanciare un masso nella mischia della Battaglia dei Centauri, fosse a conoscenza dell’aneddoto grazie all’intermediazione di Poliziano44: a Firenze, Athena altera, vagheggiava anch’egli di presentarsi da giovane come il nuovo (vecchio) Fidia?

  Collareta 2003.   Fondamentale Thielemann 2000. Si veda anche Barolsky 2010, p. 51.

43 44

VIII Un concorso, quattro amazzoni e un perdente Nel santuario extraurbano di Artemide a Efeso si svolse una gara tra artisti illustri, autori di statue in bronzo di amazzoni ferite (fig. 43). Concorrenti: Policleto, Fidia, Cresila, Cidone (sull’ultimo nome altresì ignoto i dubbi sono però leciti, in quanto Plinio1 – o la fonte da lui consultata – può aver frainteso Cydonia, patria di Cresila a Creta, per un bronzista) e Fradmone. Perché le Amazzoni a Efeso? Come ad Atene, erano archetipi della barbarie e del nemico orientale in una città che, facente parte della Lega delio-attica, al tempo della spedizione di Serse tenne una condotta non irreprensibile? Un monumento dell’ideologia ateniese, a mo’ di ammonimento contro potenziali ribellioni?2 Attenzione, perché gli usi del mito sono flessibili in dipendenza da luoghi e prospettive. In realtà, a Efeso le Amazzoni erano figure positive. Pausania3 individua una delle cause della loro venerazione nel fatto che avevano eretto la statua di Artemide; stando a Pindaro, costruirono il santuario durante la spedizione contro Atene e contro Teseo. Fa però il punto il periegeta: sacrificarono alla dea sia in quel frangente in quanto conoscevano da antica data il santuario, sia quando fuggirono Eracle, sia persino in tempi più remoti quan  Plinio, Nat. XXXIV,19,53.   Con varie interpretazioni ad esempio: Gauer 1992; Höcker, Schneider 1993, pp. 108-110; Schmaltz 1995; Wimmer 1999; Giuman 2005, pp. 219-226. 3   Pausania IV,31,8, VII,2,7-8. Si vedano anche: Callimaco III,237-258, 266267; Tacito, Ann. III,61,7; Plutarco, Moralia 303d-e. Sul legame delle Amazzoni con il santuario e la città di Efeso si veda Ragone 2005, pp. 325-332. 1 2

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Fig. 43. Ricostruzione del gruppo delle amazzoni nel santuario di Artemide a Efeso.

do, incalzate da Dioniso, di ritorno dall’India alcune giunsero a Efeso come supplici secondo un racconto tuttavia elaborato non prima dei tempi della campagna orientale di Alessandro Magno. Per Pausania il santuario fu piuttosto costruito da Coreso ed Efeso, eroi autoctoni ed eponimi; la regione era abitata dai Lelegi, un ramo della stirpe caria, e soprattutto dai Lidi; anche altri, tra cui alcune amazzoni, risiedevano intorno al santuario in virtù della protezione che offriva ai supplici; giunsero poi gli Ioni con a capo Androclo, figlio legittimo di quel Codro già ricordato in merito al donario fidiaco a Delfi, i quali cacciarono solo Lelegi e Lidi, scambiando invece con gli abitanti attorno al santuario reciproci giuramenti per evitare la guerra. Versioni sì varie, ma tutte accomunate dal fatto che le Amazzoni, sin da Omero legate all’Asia minore, si combinano alla storia del santuario, particolarmente rinomato per la concessione di protezione ai supplici, richiesta effettuabile tramite l’atto di

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sedere sull’altare o del gettarsi ai piedi, inginocchiarsi, sedere accanto o abbracciare la statua della divinità. Non si presentano così le amazzoni efesine, tuttavia in grado di evocare una vicenda paradigmatica: la richiesta di protezione ormai accolta, ancor più trasparente se fossero state esposte vicina l’una all’altra, come plausibile, in prossimità del tempio e dell’altare, su una base, difficile dire se unica e se a esedra o rettilinea4. Chi le commissionò? Le fonti tacciono, ma più che Atene (promotrice di monumenti solo in santuari panellenici) o la Lega delio-attica (mai responsabile di dediche collettive), conviene supporre l’intervento ufficiale del corpo sacerdotale e/o della locale nobiltà efesina, che riuscì ad arruolare i numeri uno del tempo nella scultura: spettacolare operazione di politica culturale volta a esaltare il prestigio del santuario di Artemide sulla ribalta internazionale. Quale il momento favorevole per la dedica? La costruzione del gigantesco tempio si protrasse per 120 anni, e in occasione del completamento Timoteo, poeta di Mileto, compose un inno ad Artemide; se si calcolano gli anni dal 560 a.C., ossia dalla probabile salita al trono del re di Lidia Creso, che offrì gran parte delle colonne, si arriva su per giù al 440 a.C.5, il che può significare che Fidia creò l’amazzone negli anni della Parthénos. Per Plinio gli artisti sarebbero stati di età diverse, ma la loro acme, secondo le sue stesse indicazioni, non impeccabili, si inscrive in un ambito cronologico non più ampio di un venticinquennio. Ebbene, nessun dubbio6 sulla loro partecipazione contemporanea; anzi, può persino essere che gli Efesini fossero riusciti a intercettarli tutti in un colpo solo, ad Atene. Infatti, un soggiorno lì di Policleto trae conferma dal fatto che realizzò la statua (funeraria?) di Artemone, l’ingegnere militare di Pericle che contribuì all’espugnazione di Samo nel 440/39 a.C.: fu soprannominato «il trasportato» perché, in quanto claudican4   Hölscher 2000 (condivisibile anche la risposta alle tante, troppe letture coesistenti avanzate da Bol 1998, pp. 117-143; spunto simile già in Devambez 1976) e Fleischer 2002, pp. 192-200. Si veda anche Wünsche 2008, pp. 139-144. 5   Plinio, Nat. XXXVI,20,95. Le cose si complicano però, facendo iniziare i 120 anni dal periodo prima della dedica delle colonne, dunque intorno al 575 a.C. (per arrivare dunque al 460 a.C. circa), allorché si intrapresero i lavori per le fondamenta e per lo stilobate (Ohnesorg 2007, pp. 128 sg.). 6   Ne ha invece La Rocca 2006, p. 46, nota 58.

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te, veniva portato in lettiga sul campo delle operazioni militari, e chissà se l’artista argivo lo ritrasse con la formula del «passo» attutendone la menomazione, un po’ come fece Alcamene in un’immagine di Efesto in cui la claudicatio non era sgradevole! Cresila fu attivo ad Atene nella seconda metà del V secolo a.C. – lo confermano due basi con firma dall’acropoli –, dove fu molto stimato tanto da essere l’autore di una statua iconica di Pericle: partecipò al cantiere del Partenone? Fradmone, infine, originario di Argo come Policleto, effigiò tra l’altro i vincitori dei giochi a Olimpia e forse a Delfi, ma per il resto è un fantasma7. Fin qui l’ottica efesina; ma gli Ateniesi come presero la partecipazione di Fidia a un monumento dell’autoaffermazione di Efeso, nel momento in cui stava forse cesellando l’Amazzonomachia dello scudo? Anzitutto, gli artisti non firmavano contratti in esclusiva ed erano liberi di accettare più incarichi da committenti differenti. In più, già dalla metà circa del VI secolo a.C. Atene ed Efeso intrattenevano rapporti poi rilanciati dopo la vittoria sui Persiani; Efeso fu allora impegnata a rivendicare il primato nel mondo ionico appunto grazie ad Androclo e alla discendenza da Atene8. Infine, le amazzoni ferite e sconfitte non dovevano dispiacere neanche agli Ateniesi, e non è da escluderne almeno a livello ufficioso una mediazione nella peculiare scelta tematica: ai loro occhi, quelle immagini, benché senza la presenza fisica dei vincitori, potevano bastare a richiamare la storia della spedizione (fallita) contro Atene, come nella tradizione rappresentata da Pindaro; questione di punti di vista, insomma. Il monumento è in parte recuperabile grazie ad alcuni tipi di statue con repliche, di frequente mutile e falsate dai restauri: tre tipi per quattro amazzoni9. L’amazzone cosiddetta Sciarra (fig. 44) indossa un corto chitone che denuda per intero il seno sinistro e in parte il destro; impostata sulla gamba destra, arretra molto la sinistra e solleva il piede; ha le 7   Per l’attività possibile di Policleto, Cresila ad Atene si veda Corso 2002, pp. 93-99 (Corso 2001, pp. 60 sg., ha invece speculato intorno alla presenza di Fradmone ad Atene). 8   Per ulteriori dettagli relativi al legame tra Atene ed Efeso si veda Biraschi 2001. 9   Si veda il repertorio di Bol 1998, allora ancora mancante della più completa copia del tipo Sciarra, da Ecija, l’antica Colonia Augusta Firma, in Betica (León 2008).

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Fig. 44. Copia dell’amazzone cosiddetta Sciarra (età adrianea). Ecija, Museo Archeologico.

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cinghie per gli sproni ai piedi che la caratterizzano come cavallerizza, mentre il chitone è legato con una cintura ricavata dalle redini del cavallo. Pone sul capo la mano destra, un gesto qui segno di spossatezza; la parte sinistra del corpo si inclina verso il retro, e il relativo braccio si adagia con mano inerte su un pilastrino: pilastrini del genere nei paesaggi sacri potevano costituire delle dediche votive aniconiche, benché le evidenze al momento più cospicue provengano da Metaponto10. La testa si inclina verso la ferita al seno destro, dalla parte della gamba stante; porta la chioma divisa al centro sulla fronte e trattenuta sul retro da uno chignon, e i riccioli sono ondulati sulle tempie e più piatti sulla calotta. L’amazzone cosiddetta Capitolina (o Sosikles, dalla firma del copista incisa sul tronco di sostegno dell’esemplare ai Musei Capitolini: figg. 45-46), conta il maggior numero di repliche, teste isolate comprese. Oltre al corto chitone con orlo inferiore rettilineo, indossa un lungo mantello sul dorso, portato dalle amazzoni specie quando a cavallo, come sulle metope del Partenone; gravita sulla gamba sinistra e arretra la destra. Tiene obliqua una lancia nella mano destra, sollevata e portata vicino alla testa, ed è colpita al seno destro; la mano sinistra passa davanti al corpo per scostare un lembo del chitone dalla ferita, il punto focale da cui è attratto il capo, molto inclinato. Sulla chioma dalla scriminatura centrale partono fluide e lunghe ciocche ondulate, che, sovrapposte l’una sull’altra e raccolte sul retro da un doppio nodo orizzontale, presentano un disegno più mosso rispetto alla Sciarra. L’amazzone cosiddetta Mattei (fig. 47) indossa un corto chitone dal panneggio molto più differenziato rispetto alle compagne a svelare il seno sinistro per intero e il destro in parte; il suo orlo si solleva e scopre la ferita sanguinante stavolta sulla coscia sinistra; si imposta sulla gamba destra, mentre il piede sinistro, scartato di lato sulla stessa linea del destro, solleva il tallone e al calcagno ha una cinghia per gli sproni; porta a tracolla una faretra, con un arco attaccato sotto. Alza in verticale il braccio destro piegato al gomito ad angolo retto, mentre il sinistro si distende lungo il fianco; una gemma perduta ma nota da un disegno del 1754, per quanto di discussa autenticità, e tre paste vitree fanno intuire la

  Sin dall’inizio del VI secolo a.C.: Doepner 2002, in part. pp. 153-155.

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Fig. 45. Copia dell’amazzone cosiddetta Capitolina (età proto-antoniniana). Roma, Musei Capitolini, Salone 33, inv. 651.

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165 Fig. 46. Copia dell’amazzone cosiddetta Capitolina, dettaglio (età protoantoniniana). Roma, Musei Capitolini, Salone 33, inv. 651.

ragione della posa: la figura si appoggiava a una lancia, afferrata con entrambe le mani, sotto la punta e a mezza altezza (la mano sinistra, fiaccata, la sfiora), ricostruzione però messa in dubbio da chi preferisce supporre un arco11, con scarsa logica: che cosa starebbe così facendo l’amazzone? Nessuna copia serba il volto; la gemma e le paste vitree appena citate, una rielaborazione fortemente semplificata del tipo su un pilastrino da Loukou nel Peloponneso nonché l’accordo con i precedenti tipi implicano un’acconciatura a folte bande aggettanti (tenute da una tenia?) e una torsione leggera verso la ferita12. 11   Come da tempo sostenuto da Weber 1976, in part. pp. 66-83, già smentita da Dohrn 1979, pp. 117-119, ma ora ancora più convinta in virtù di una statuetta in terracotta in proprietà privata, che, alta 15 cm, sottoposta ad analisi mediante termoluminescenza e considerata un originale greco, riproduce l’amazzone Mattei sino alla resa delle pieghe e presenta appunto un arco nelle mani (Weber 2008, pp. 49-54, figg. 10a-d; eppure, persiste qualche perplessità sull’autenticità). 12   Da escludere l’ennesimo tentativo di Floren 1992, di collegare alla Mattei una testa riccioluta (maschile) nel tipo cosiddetto Petworth (si veda anche Mandel,

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Fig. 47. Copia dell’amazzone cosiddetta Mattei con aggiunta di una testa antica ma non pertinente e con ripristino delle braccia e della parte inferiore delle gambe (età giulio-claudia). Roma, Musei Capitolini, Sala del Gallo Morente 1, inv. 733.

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Le amazzoni si presentano come cavallerizze e ferite – ma non morenti –, il che, insieme alle dimensioni (circa 1,90 m) e al materiale, può aver risposto a una linea-guida imposta dai committenti; ma le forti affinità nella scelta del sollevamento del braccio destro, nel bisogno di un appoggio per meglio sostenersi e nel modo di indossare i chitoni suggeriscono non solo una commissione unitaria, ma anche un accordo tra gli scultori per stabilire preliminarmente delle regole compositive comuni da cui partire per poter declinare il motivo dello sfinimento con le personali inclinazioni formali: di nuovo, ce li figuriamo in fitto dialogo a discutere tutti i particolari possibili prima di iniziare. Tre tipi per quattro amazzoni. Ma Fidia dov’è? Non tiriamo in ballo i soliti confronti con la decorazione del Partenone, perché estendibili a tutte o quasi per singoli dettagli. Un primo lieve aiuto è offerto da una fonte già citata per l’Atena Lemnía. Luciano nelle Imagines ricorda di Fidia l’amazzone appoggiata alla lancia, dalla quale vengono presi l’armonica connessione delle labbra e il collo per visualizzare a parole l’immagine dell’amante di Lucio Vero, Pantea13. Ciò elimina subito dalle candidate la Sciarra, priva di lancia. Rimangono la Mattei e la Capitolina, ma qui parte il gioco delle attribuzioni14. Si delimita in anticipo cosa è per esempio «fidiaco» o «policleteo» in base a quel che si sa (non moltissimo) per poi conciliarlo alla bell’e meglio con un’opera di incerta paternità; è costante, dunque, il pericolo di un ragionamento circolare, quando invece, condizionato da temi e momenti della carriera, uno scultore può benissimo essersi avvalso di differenti schemi compositivi e formali, vanificando il nostro comodo orizzonte di attesa. Per Fidia sin dalla fine dell’Ottocento gran parte della critica ha però puntato sulla Mattei15: non a torto. L’appoggio alla lancia, distintivo della sua statua secondo Luciano, è molto evidente su Ribbeck 2013, p. 210). Altra proposta di associazione in Becatti 1951, pp. 197-199, 237 sg. (contraria Bol 1998, p. 70). 13   Luciano, Im. 4; 6 (Cistaro 2009, pp. 85-87). 14   Sintesi in Davison 2009, I, pp. 1-9, n. 1. Tra i contributi più discutibili si vedano Ridgway 1974, e Harrison 1982. 15   Ad esempio, si vedano: Furtwängler 1893, pp. 286-303; Langlotz 1947, pp. 59-63; Becatti 1951, pp. 185-199; Dohrn 1979, pp. 119 sg.; Bol 1998, pp. 87-93; Raeder 2000, pp. 38-41, n. 2.

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quell’amazzone che impiega ambedue le mani e meno marcato sulla Capitolina; è poi nella Mattei che campeggiava libero nella veduta frontale un particolare elogiato sempre da Luciano, il collo, mentre nella Capitolina è in gran parte celato dall’inclinazione della testa e per di più incorniciato dal mantello, di cui sono sempre prive le amazzoni sullo scudo della Parthénos. L’equilibrio instabile senza il minimo cenno del «passo» policleteo, estraneo o quasi alle opere fidiache sinora considerate, nega il contrapposto. Il corpo snello spicca per il ritmo ascensionale, con una diagonale dal piede sinistro al braccio destro, sottolineata dalle pieghe continue del chitone da spalla a coscia; la composizione è audace, dato che il vertice si trova al di sopra e fuori della figura; tanto audace da essere stata talora estromessa dall’arte del V secolo a.C.! Audacia: il vocabolo usato per le amazzoni dello scudo, con le membra espanse nello spazio. Con lancia, faretra, arco e cinghia al calcagno è l’unica amazzone a presentare un accumulo di armi/attributi conciliabile con la fase in cui Fidia stava lavorando alla Parthénos, ricca anch’essa di accessori16. In definitiva, la Mattei nel gruppo si profila come fuori dal coro e più eccentrica rispetto alla Sciarra e alla Capitolina, tra loro somiglianti e accomunate dal posizionamento della ferita. Allora queste due di chi sono? Tutto dipende da Policleto17, il meglio conosciuto, l’artefice del Doriforo; fu il primo teorico di un’armonica ponderazione con il peso della figura poggiante su una gamba verso la quale si volge la testa, mentre l’altra in riposo arretra e tocca il suolo con la punta del piede: un accorgimento che crea un ritmo chiastico, perché il movimento delle spalle e della parte superiore del torso è invertito rispetto a quello del bacino. Stavolta si tratta non di una figura maschile, bensì di un’amazzone stremata, per cui è sbagliato pretendere una perfetta coincidenza con altre creazioni di Policleto; d’altro canto, quanto resta della sua produzione conferma l’impressione di uniformità testimoniata dalle fonti: «Le sue statue sono quasi tutte riconducibili a un 16   Indizi più pesanti rispetto ad altri addotti a favore della Capitolina: Michaelis 1886, p. 43 (con prudenza); Weber 1976, pp. 83-86; Weber 1993, p. 92; Strocka 2004, p. 224, n. 11; Strocka 2005, pp. 137 sg.; Weber 2006, pp. 186 sg. 17   Amazzone Sciarra a Policleto: Michaelis 1886, pp. 39-41; Borbein 1985, pp. 253-255; Delivorrias 1995, p. 204; Bol 1998. Capitolina a Policleto: Graef 1897; Dohrn 1979, p. 121; Steuben 1993; Schmaltz 1995, pp. 335-339; Hölscher 2000, pp. 216 sg.

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unico modello»18. Ora, la soluzione della Sciarra riprende uno dei motivi canonici del Doriforo: la testa girata verso la gamba destra stante. Obiezione: non c’è coerenza di rispondenze, perché la spalla destra si solleva in luogo della sinistra. Sennonché lo scultore ha scelto un’immagine essenziale e come scarnificata che rinuncia alle armi a differenza delle restanti amazzoni, adattando il contrapposto alle conseguenze dell’inserimento del necessario sostegno laterale. La Sciarra è poi la più spogliata, pure sul retro, e tradisce la sensibilità di un autore – come Policleto – interessato alle ricerche sul corpo nudo, senz’altro ben più che sulla Capitolina, dove il dorso è del tutto celato dal mantello. Infine, anche lo sbuffo del chitone sotto la cintura sulla Sciarra reagisce alla ponderazione, mentre le pieghe formano archi differenti sulle cosce e sottolineano con la cascata centrale il mantenimento, malgrado tutto, di un asse verticale; sulla Capitolina per converso il chitone ha il bordo inferiore rettilineo ed è percorso sulle cosce da una fitta serie di increspature appena ondulate che non ne lasciano trasparire movimento e differenti funzioni. Certo, la Capitolina denota tratti «policletei» nel contrapposto o nel motivo vagamente a stella marina al vertice della chioma disordinata; ma, se nel repertorio policleteo le membra evitano di sovrapporsi al torso, sulla Capitolina il braccio sinistro attivo davanti al corpo evidenzia la ferita, e sono più marcate l’inclinazione e la torsione della testa. In breve, i debiti policletei della Capitolina paiono immessi in un disegno generale di matrice non policletea; ce n’è abbastanza per azzardare il nome di Cresila, autore anche di un’opera chiamata Doriforo e sull’acropoli di Atene di un «ferito morente» in cui si poteva riconoscere quanta vita restava?19 Risultato – incerto – delle attribuzioni: amazzone Sciarra a Policleto, Mattei a Fidia, Capitolina a Cresila. Siccome possono essere sbagliate, fermiamoci per non annientare l’arte a forza di chiacchiere, il rimprovero rivolto agli storici dell’arte dal protagonista del romanzo di Thomas Bernhard, Antichi Maestri. Ma la storia del concorso non finisce qui: c’è ancora da vedere chi vinse.   Giudizio di Marco Terenzio Varrone trasmesso da Plinio, Nat. XXXIV,19,57.   Plinio, Nat. XXXIV,19,74-75 (scrive però Ctesilao, autore del Doriforo e di un’amazzone ferita; ma Ctesilao può esser un equivoco per Cresila). 18 19

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Riporta Plinio che al momento della dedica si decise di scegliere la migliore secondo il parere degli stessi artisti presenti sul posto; fu evidente che sarebbe stata quella che ciascuno avrebbe giudicato seconda solo alla propria. Vinse Policleto, e Fidia arrivò solo secondo, seguito da Cresila, «Cidone» e Fradmone. Poté mai svolgersi una gara simile, o si tratta di una leggenda confezionata a distanza di tempo? Diversi punti oscuri sono ineliminabili, ma non conviene contestare la veridicità storica del quadro generale; d’altronde, competizioni del genere nella cornice di situazioni festive in un santuario le conosciamo sempre per il V secolo a.C., in un caso con protagonista il fratello di Fidia, anche lui perdente: quando furono istituiti concorsi di pittura a Corinto e a Delfi nei rispettivi giochi panellenici, fu Paneno a inaugurare questo genere di prove gareggiando con Timagora di Calcide, che lo superò negli agoni pitici20. Nella gara nemmeno la giuria composta dai diretti interessati e i peculiari meccanismi di votazione sono di per sé inammissibili, poiché sembrano modellati su un evento di qualche decennio prima. Dopo la vittoria di Salamina sui Persiani i Greci si divisero il bottino e si recarono per mare all’Istmo di Corinto per assegnare il premio a chi tra i Greci ne fosse stato più degno; lì i comandanti posero i loro voti sull’altare di Poseidone, indicando il primo e il secondo tra tutti; ciascuno votò per se stesso, ritenendo di essere stato il migliore, ma per il secondo posto la maggioranza convenne nel designare Temistocle, così proclamato l’uomo di gran lunga più abile in tutta la Grecia21. Con questo modo di votare è sì facile decretare un vincitore ed eventualmente un secondo classificato, ma impossibile stabilire i posti a partire dal terzo, il che getta ombre sull’attendibilità dell’agone efesino22. Per un istante sospendiamo tuttavia lo sguardo ipercritico da studiosi e accettiamo che le cose siano andate come dice Plinio. Se davvero fu chiesto agli artisti di dare un parere, per Fidia non si mise bene, considerando gli «avversari»: Cresila pare essersi interessato alle ricerche di Policleto, la cui patria, Argo, era la stessa di   Così Plinio, Nat. XXXV,35,58.   Erodoto VIII,123,1-2. 22   Hohl 1955, convinto perciò di poter riportare il concorso a un’invenzione di Duride di Samo. 20 21

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Fradmone. Chi votò per Fidia? Forse lo stesso Policleto, memore dei bei tempi giovanili e del comune apprendistato? Tre tipi per quattro amazzoni: se a mancare fosse quella di Fradmone, l’assenza nel circuito copistico deriva dalla sua minore celebrità e dall’infelice piazzamento, fittizio o no che fosse? O l’assenza è solo apparente?23 Per esempio, da poco è nota l’esistenza di un tipo di amazzone trasmesso da tre repliche purtroppo della sola testa, forse pertinente a una statua vestita, con una chioma simile nella zona superiore a quella Capitolina e provvista di uno chignon sul retro24. Gara o meno, è indubbio che gli artisti avessero sviluppato istinti agonali (anche tra maestri e allievi). Fidia poté sognare di essere incoronato da una Nike, come accade alla sacerdotessa di Atena sul rilievo votivo già preso in considerazione (fig. 33) o a un citaredo su un frammento di cratere a campana emerso nello «strato delle matrici» nell’area della bottega di Olimpia25; o di essere incoronato da Atena in persona, come su un vaso attico con una scena di produzione ceramica nei risvolti meno banausici (fig. 48): tre pittori dipingono dei grandi crateri e, pezzo di bravura di ceramisti e ceramografi, un kántharos; verso il più importante personaggio seduto al centro incede Atena; una Nike con una corona vegetale plana su uno dei giovani, stupito, mentre ai margini, su un podio, una donna – moglie, figlia o schiava del proprietario del laboratorio? – decora le volute di un altro cratere, ma a lei non tocca nessun premio; è indiscutibile, l’immagine contiene «qualcosa di sognante» o l’«immagine di un desiderio»26. Sì, Fidia sognò, invano però, perché la vittoria gli fu preclusa, e se i concittadini ci rimasero male, si consolarono con la Parthénos.

23   Discorda Corso 2001, che ha individuato nell’amazzone Doria-Pamphilj (con un unico esemplare noto) l’opera di Fradmone (è però meglio considerarla una rielaborazione romana sulla falsariga della Sciarra). Per una figura a rilievo con chitone e mantello sul davanti dal teatro di Efeso talora assurta a possibile candidata si vedano le obiezioni (non tutte condivisibili) di Hartswick 1986. 24   Ma anche questo tipo è per ora considerato una creazione ibrida romana che fonde l’amazzone Sosikles con la Sciarra (per le repliche di età augustea dalla Villa dei Papiri e dalla Basilica Noniana di Ercolano si vedano: Gasparri 2005, pp. 52-55, figg. 1, 3; Guidobaldi, Moesch 2008). 25   Mallwitz, Schiering 1964, pp. 251 sg., n. 5, tavv. 82-83. 26   Beazley 1946, pp. 11-13; Vidale 2002, pp. 277-281, fig. 67; Lambrugo 2009.

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Fig. 48. Kalpis attica a figure rosse (secondo quarto del V secolo a.C.). Vicenza, Palazzo Leoni Montanari (Coll. Banca Intesa 2, già Caputi 278).

Poté rifarsi – non senza brivido – in un’altra circostanza27. Alcamene modellava belle sculture benché a digiuno di ottica e geometria, campi in cui era invece versato il maestro, che aveva una perfetta comprensione della scultura e modellava ogni cosa in conformità a luoghi, occasioni e gente; un giorno gli Ateniesi necessitavano di qualcuno per ricevere due statue di Atena, da porre su alte colonne. Alcamene effigiò la dea quale graziosa parthénos, mentre Fidia, cosciente del fatto che gli oggetti dall’alto appaiono 27   Raccontata da Giovanni Tzetzes, Chiliades VIII,340-369 (per un episodio simile nella vita vasariana di Luca della Robbia si veda Gombrich 2008, pp. 179 sg.).

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più piccoli e attento al punto di vista dello spettatore, la scolpì con le labbra spalancate, con le narici dilatate e con il resto in proporzione all’altezza della colonna; dapprima l’opera dell’allievo fu considerata migliore, e il maestro fu lì lì per esser preso a sassate; ma non appena innalzate, la sua Atena fu più ammirata dell’altra. Circolava un altro racconto su una famosissima statua di Afrodite fuori dalle mura di Atene, denominata Afrodite nei Giardini28. Alcamene di Lemno/Atene e Agoracrito di Paro rivaleggiarono per farla, e dal concorso il primo uscì vincitore, non per bravura, ma per il favore dei concittadini nella votazione nei confronti del compatriota contro il forestiero, che pure era il pupillo del mae­ stro, avvinto dalla sua giovinezza; si dice che Agoracrito decise di vendere la propria scultura a patto che non restasse ad Atene; questa, denominata Nemesi, la dea punitrice dei prevaricatori, finì nel santuario nel demo di Ramnunte sulla costa settentrionale dell’Attica: apprezzatissima dai Romani, fu considerata nel I secolo a.C. la statua più bella di tutte. Dell’originale in marmo pario, del 430/20 a.C., si conservano dei frammenti che insieme alle sue repliche ne consentono una ricostruzione, vicina in effetti per vestiario a immagini di Afrodite (ma non solo), il che può chiarire la genesi dell’aneddoto. Fidia in persona avrebbe scolpito la Nemesi per la philía verso l’amato Agoracrito e per sopperire a una sua presunta mancanza di téchne, ascrivendogliela poi nell’iscrizione «Agoracrito di Paro mi fece»; gli abitanti di Ramnunte precisavano addirittura come il grande artista l’avesse plasmata da un blocco in marmo pario che i Persiani sbarcati a Maratona si portarono dietro per ricavarne un trofeo29; magari furono loro a mettere in giro la voce della paternità fidiaca per nobilitare ancor più la statua, a dispetto dell’evidenza dell’epigrafe. Del resto, pareva che Fidia avesse dato gli ultimi ritocchi anche alla Afrodite di Alcamene: le tante dicerie implicano la sostanziale vicinanza tra maestro e allievi. A proposito di Afrodite: dopo Atena, è la dea con cui maggiormente si cimentò Fidia, che pare aver scolpito anche una statua   Plinio, Nat. XXXVI,2,17.   Rispettivamente Tzetzes, Epistulae 21, e Pausania I,33,2-3. Si veda anche Zenobio V,82: cfr. Corso 2013, pp. 377 sg. 28 29

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del figlio Eros30; lui e la sua cerchia ne forgiarono una nuova immagine, con un’enfasi sempre più marcata sugli aspetti sensuali. Un’Afrodite in marmo «detta» di Fidia, elogiata per la straordinaria bellezza, si trovava a Roma, nel Portico di Ottavia, sede di una delle più prestigiose «collezioni» pubbliche di opere d’arte: veniva da Atene? come e quando era arrivata a Roma? era realmente sua? Quesiti senza risposta, e ogni lecito sforzo di riscoprirla31 è molto speculativo. Il nome di Fidia si lega poi a due statue di Afrodite Urania, nata dalla spuma del mare dal membro reciso e dal seme di un dio primordiale e cosmico, Urano, antichissima entità divina adorata in sequenza dagli Assiri, dai Ciprioti, dai Fenici in Palestina e dagli abitanti di Citera; ad Atene il culto fu istituito dal padre di Teseo, Egeo, credendo di essere senza figli per l’ostilità di Afrodite Urania, eziologia che chiama in causa la fecondità della coppia. Fidia di nuovo non si allontanò dalla sfera delle parthénoi, perché Afrodite Urania nel V secolo a.C. era la dea nuziale per eccellenza: una cassa litica a lei intitolata, del 400 a.C. circa, forse dalle pendici nord dell’acropoli, prescriveva l’offerta di una dracma quale primizia delle nozze (protéleia gámou); e protéleia si chiamava il giorno in cui i genitori portavano sull’acropoli la parthénos sul punto di maritarsi per offrire un sacrificio ad Atena32. Afrodite Urania era venerata in più luoghi. Ad Atene il santuario nei Giardini presso l’Ilisso, a sud dell’acropoli, oltre al già citato capolavoro di Alcamene, vicino al tempio ospitava un’erma squadrata di autore imprecisato con l’iscrizione: «Afrodite Urania è la primogenita delle cosiddette Moire», le dee del destino, associazione eventualmente comprensibile nella prospettiva del matrimonio, l’inizio di una nuova tappa della vita. Fidia realizzò 30   Inferibile da Ateneo XIII,585e e dall’iscrizione su una colonnetta in Algeria già citata nell’introduzione; per la sua individuazione nell’Eros tipo Soranzo: Corso 2001a; 2002a, pp. 29 sg.; Davison 2009, I, pp. 298 sg.; Pellegrini 2009, p. 141. 31   Tipo Kore Albani: Strocka 2004, pp. 219 sg., n. 8; Strocka 2005, pp. 133-137. Si veda anche Maderna-Lauter 1994 (con argomenti contro la suggestione fidiaca non decisivi, al pari – purtroppo – di quelli a favore). Tipo Olimpia: Becatti 1951, pp. 201-206, seguito da Gasparri 2000, pp. 4 sg. (con distinzione in due sottotipi; condivisibile la replica di Despinis 2008, pp. 287 sg.; si vedano anche Delivorrias 2005, e Saladino 2009, pp. 448 sg.). 32   Sul culto di Afrodite Urania si veda Pirenne-Delforge 2005. Per le statue di Afrodite di Fidia si veda Schoch 2009, pp. 65-90.

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una prima statua in marmo pario per il santuario presso l’Efestio, nell’area della collina a occidente dell’agorá, forse sulla pendice orientale33; una seconda, in oro e avorio, la fece per un tempio nell’agorá di Elis nel Peloponneso, e stavolta si sa che gli occhi erano in pietra nera e il corpo – panneggiato – in oro, e che poggiava un piede su una tartaruga; un motivo confermato dal ritrovamento proprio nell’agorá di Elis di un frammento di statuetta fittile del IV secolo a.C., un piede destro calzante un sandalo su alta suola sopra una tartaruga34. La notorietà della scultura crisoelefantina era dovuta all’animale, per lo più abbinato, salvo eccezioni, a divinità femminili, tanto che i santuari restituiscono piccole tartarughe in molteplici materiali e veri carapaci come offerte votive: a detta di Plutarco un simbolo delle donne sposate, per le quali si convengono l’amore per la casa e l’abitudine al silenzio, mentre il serpente di Atena Parthénos significa che le vergini necessitano di protezione. Spiegazione che diverge dal simbolismo che le attribuiscono gli specialisti: la tartaruga ricorda la volta celeste o rappresenta un’ipostasi della terra come espressione del potere di Afrodite sulla fecondità? O è ambigua, ossia urania e ctonia a un tempo? Lasciamo fare le ipotesi a chi ne abbia voglia, nota già Pausania con una punta di fastidio, sebbene nel contesto cosmico Afrodite presieda al connubio tra cielo e terra e nelle Danaidi di Eschilo35 dichiari: «Agogna il puro cielo congiungersi con la terra, brama coglie la terra di riceverne il connubio: la pioggia, scrosciando dal cielo fluente, ingravida la terra, ed essa genera per i mortali pascoli alle greggi e l’alimento di Demetra; per l’umido connubio, delle piante il rigoglio si compie. Ecco, di questo io sono partecipe». L’attenzione si è per lo più fissata su una statua in marmo pentelico, un’Afrodite alta 1,58 m e acquistata dai Musei di Berlino nel 1892 da Palazzo Brazzà a Venezia, dove fu portata dalla Grecia

33   Pausania I,14,7: per la discussa ubicazione del santuario si vedano Osanna 1988-1989, e Lippolis 2009, pp. 261-266. Per un’opinabile identificazione con il tipo dell’Afrodite cosiddetta Doria si veda Delivorrias 1994a. 34   Pausania VI,25,1; Plutarco, Moralia 142d; 381e; Froning 2005, tav. 52. 35   Ateneo XIII,600b (si veda anche Euripide, fr. 898). Per i tanti recinti consacrati ad Artemide, ad Afrodite e alle Ninfe in Elide, dove l’umidità faceva crescere fiori abbondanti, si veda Strabone VIII,3,12. Sulle valenze della tartaruga femmina, paradigma della donna casta e saggia, che, suo malgrado, si piega all’unione sessuale, si veda Pironti 2007, pp. 105-151.

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Fig. 49. Afrodite Brazzà, «originale» del 440/30 a.C. o «copia». Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung, inv. Sk 1459, K5 (calco Museo dell’Arte Classica, Università di Roma La Sapienza, inv. 283).

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(da Atene?) nel tardo XVII secolo per essere usata come ornamento di fontana (fig. 49): mancano la testa, la parte della spalla sinistra scoperta dal chitone, l’avambraccio sinistro e il braccio destro, tutti lavorati e inseriti a parte. Si appoggiava un tempo a un pilastrino laterale, in foggia di idolo arcaizzante o erma femminile: questo motivo nella seconda metà del V secolo a.C. ricorre nella cerchia fidiaca, come dimostra il tipo in cui si è riconosciuta la Afrodite nei Giardini di Alcamene36; specie Afrodite Urania sembra poi associarsi alle erme, spiegate come sue immagini semianiconiche in rapporto con l’origine dall’Oriente. Indossa vesti che mettono in risalto le forme del corpo come si conviene alla dea, un chitone manicato diafano e un mantello formante ampie pieghe a S grazie all’avanzamento della gamba sinistra; sotto il piede sinistro ha una tartaruga, sempre in marmo pentelico, esito però di un restauro del 1820; che il restauratore fosse stato guidato o meno da qualche traccia antica, il ripristino è logico alla luce del successivo iter dello schema iconografico. La qualità e la delicatezza nel trattamento del panneggio con parco uso del trapano corrente – criteri tutt’altro che risolutivi – hanno indotto a non scartare la chance di un originale dall’officina partenonica o dall’atelier fidiaco, donde l’identificazione con l’Urania di Atene, in marmo pario per Pausania, non un infallibile esperto di marmi bianchi; ma c’è chi ha preferito contestarne la natura di originale: le motivazioni in un senso o nell’altro sono però più intuitive che scientificamente fondate37. Altri studiosi hanno invece dissociato l’opera da Fidia, riferendola al periodo fine V-inizio IV secolo a.C.38. In sostanza, un rompicapo che svela i limiti dell’analisi affidata all’occhio degli esperti, finanche nella distinzione tra originali e copie in marmo; il paradosso è che po-

  Sintesi in Dally 1997, pp. 9-11, 17 sg.   Originale o «replica di bottega»: Kekulé 1894; Brommer 1950, pp. 82-84; Becatti 1951, pp. 207-212; Settis 1966, pp. 9-23; Lapatin 2001, pp. 90-95; Scholl 2001; Schoch 2009, pp. 35-39; Stewart 2012, p. 272. Copia: Frickenhaus 1913, pp. 363-368; Höcker, Schneider 1993, p. 112; Delivorrias 2005, p. 59; Weber 2006, p. 187. Mancano però nel V secolo a.C. esempi così vistosi di lavorazione e inserimento a parte di singoli arti in marmo. 38   Blümel 1928, pp. 5-7, K 5; Langlotz 1947, pp. 83 sg.; Hofkes-Brukker 1967, pp. 65-68; Schweitzer 1967c, p. 217; Croissant 1971, pp. 92-107; Bol 2004, p. 176; ambiguo Strocka 2004, pp. 229 sg. 36 37

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tremmo finalmente stare davanti a qualcosa di veracemente fidiaco senza strumenti per accertarlo! Fatto sta che per la vicinanza ad alcune figure del frontone orientale come la cosiddetta Estia – nelle increspature del chitone sul retro e negli orli frastagliati del mantello in caduta a sinistra – e per una sobrietà formale ancora immune dalle esuberanze dello stile cosiddetto ricco la Afrodite Brazzà rimanda agli anni grossomodo intorno al 440/30 a.C.39; può poi ricalcare un’opera illustre, per quanto trasmessa in modi torbidissimi, come provato dai numerosi riadattamenti dei motivi fondamentali nel III-I secolo a.C., in particolare la posa e il drappeggio sulle gambe, e dalle rare riproposizioni imperiali40. La statua berlinese dà quindi un’idea abbastanza pertinente di una Urania fidiaca, senza la possibilità di specificare l’opera di riferimento: se la Afrodite di Elis, al pari dello Zeus di Olimpia, non fu in grado di generare repliche per la collocazione in una città fuori dal circuito copistico, niente garantisce che quella ad Atene, come spesso sostenuto, ne costituisse una «replica di bottega» o viceversa secondo una prassi corrente nel V secolo a.C. tra gli scultori avvezzi a moltiplicare le immagini destinate a santuari intitolati alla medesima divinità. A questo punto, dopo l’agorá di Elis, il principale centro urbano, il capoluogo dell’omonima regione, restiamo in Elide, spostiamoci di circa 60 km e andiamo a Olimpia per ammirare l’ultima creazione di Fidia: una delle Sette Meraviglie del mondo.

39   Ragionamento esattamente contrario a quello di Croissant 1971, pp. 97 sg., per cui le peculiarità della Afrodite Brazzà sono il frutto di un cosciente ritorno a una continenza già «classicistica». 40   Si vedano: Delivorrias 1984, pp. 27 sg., nn. 176-180 (in part. n. 180), 70 sg., nn. 605-622; Schoch 2009, pp. 41-47.

IX Una competizione tra padre e figlia Per Fidia l’incarico a Olimpia significò completare la carriera. Nelle Eumenidi1 di Eschilo «l’amata vergine figlia di Zeus», Atena, dichiara: «Non è madre che mi abbia generato: esclusi i legami di nozze, prediligo con tutto l’animo tutto ciò che è maschile, e sono interamente di mio padre». Ma la nuova opera scaturì da una sorta di contesa tra padre e figlia2; un padre speciale, il re degli dèi e degli uomini: Zeus. Il suo tempio a Olimpia3, innalzato dal 471 a.C. in concomitanza con il sinecismo di Elis – vi giocò un ruolo anche Atene? – e il più grande in Grecia al momento della probabile data di completamento, nel 457/6 a.C., fu un’impresa molto dispendiosa, secondo Pausania finanziata assieme alla statua dalle prede di guerra del tempo in cui gli Elei assoggettarono Pisa e le città vicine in rivolta (nella prima parte del VI secolo a.C. o al tempo della terza guerra messenica nel 464-455 a.C.?); ma la costruzione, un po’ come ad Atene, poté essere sovvenzionata anche e soprattutto dal tesoro del santuario: Olimpia fu il secondo polo di uno stato etnico-federale e funse da sorta di «banca», di centro amministrativo-economico, ed è un sincronismo non fortuito che con l’avvio dei lavori fosse cominciata l’emissione di monete elee in argento

  Vv. 736-738 (458 a.C.).   Per la statua Petersen 1873, pp. 349-408; Giglioli 1921; Schrader 1941; Becatti 1951, pp. 125-140; Liegle 1952; Fink 1967; Harrison 1996, pp. 59-63; Faulstich 1997, pp. 66-85; Vlizos 1999, pp. 5-21; Strocka 2004, pp. 226-228, n. 13; Davison 2009, I, pp. 319-404, n. 11; Zeus at Olympia 2011. 3   Sulla sua natura di primo (e non di secondo) tempio di Zeus si veda a ragione Kreutz 2007, p. 157, nota 1170. 1 2

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Fig. 50. Ricostruzione grafica dello Zeus di Olimpia di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1815). Fig. 51. Ricostruzione grafica del tempio di Zeus di Olimpia.

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con la raffigurazione dell’aquila di Zeus al dritto e di una Nike in corsa con corona al verso; vi si erano inoltre accumulate ingenti ricchezze per le offerte dei visitatori e per i guadagni ricavati dai commerci praticati ai bordi del recinto sacro. Fidia fu però ingaggiato verso la fine dei lavori alla Parthénos, quando il Partenone per dimensioni e ricchezza della decorazione stava ormai oscurando il tempio di Zeus; gli Elei, responsabili in modo esclusivo o quasi dei giochi a cadenza quadriennale e dei culti del santuario, non vollero essere da meno, rilanciando zelo religioso e smanie di grandezza grazie allo scultore più in vista del momento e a un’opera ancor più magnificente (figg. 50-51). Ma se si aggiunse a un edificio già ultimato da circa un ventennio, cos’era successo nell’intervallo? La statua prevista in origine non fu ultimata per qualche motivo ignoto? Fu rimpiazzata? Non fu inizialmente prevista? Mai lo sapremo, dato che gli autori antichi tacciono e le supposizioni moderne sono spesso insoddisfacenti4; la singolarità apparente ha così dato manforte ai fautori di un im4   Herrmann 1972, p. 156; Mallwitz 1972, p. 229; Davison 2009, I, p. 323; Schoch 2009, p. 215, nota 675.

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pegno dell’artista a Olimpia sin dagli anni Settanta, in contemporanea con l’edificazione del tempio, o con un ritardo più leggero, in coincidenza della sua acme in Plinio (448 a.C.)5; un pensiero che, emerso prima e dopo lo scavo dell’officina, apre una serie di problemi maggiori ed è sconsigliato da plurimi indizi già considerati, cui tra poco se ne aggiungerà un altro. Fidia prese con sé gran parte del gruppo di lavoro già collaudato per la Parthénos, stavolta affiancato dal fratello Paneno: nell’ultimo lavoro, finalmente, la famiglia ebbe modo di riunirsi. Si avvalse in più della collaborazione di un altro allievo del posto, Colote, nativo di Eraclea in Elide6: perché lui e non Agoracrito e Alcamene? Può essere che in quel momento fossero impegnati con i frontoni del Partenone ad Atene. E perché stavolta ebbe bisogno di due aiuti essenziali? Si fece sentire l’età? O, molto meglio, gli abbellimenti eccezionali lo costrinsero a farsi assistere per realizzare il tutto nel minor tempo possibile? Oltretutto Colote svolse forse funzioni da intermediario con le autorità elee nelle fasi preliminari, cominciando a organizzare prima del trasferimento del maestro a Olimpia l’officina, dov’egli lavorò pezzo per pezzo la statua: ergastérion in mattoni crudi costituito da un primo vano rettangolare, diviso da quattro colonne o pilastri, e da un secondo, articolato in tre navate da due file di quattro colonne ciascuna, misurante 32,18 m x 14,575 m e un’altezza, ricostruita, almeno di 13 m; la larghezza della navata centrale (6,69/6,77 m) corrisponde grossomodo a quella della navata centrale nel tempio (6,54/6,55 m), il che implica la volontà di testare in anticipo l’ingombro della statua come nell’ambiente di destinazione finale7. Nel santuario Zeus era ritratto in tante immagini stanti con i comuni attributi (fulmine o aquila), in nudità integrale e in atto di incedere con il gran passo; la concezione del terribile signore della folgore è già mitigata nel frontone orientale dove il dio è stante, 5   Becatti 1951, p. 127; Morgan 1952; Fink 1967, pp. 65-77; Lippolis, Vallarino 2010. 6   Plinio, Nat. XXXIV,20,87. Per la sua tavola crisoelefantina nel tempio di Era si veda Pausania V,20,2-3, per il quale gli esperti di scultura ritenevano però che fosse un discepolo di Pasitele, originario di Paro; si vedano Linfert 1988, pp. 37-39, e Lo Monaco 2003, pp. 502 sg. 7   Mallwitz, Schiering 1964, pp. 74-134; Mallwitz 1972, pp. 255-266. Si veda anche de Waele 1988.

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Fig. 52 a-b. Monete adrianee di Elis con riproduzione dello Zeus di Olimpia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 36065 (a); Foggy Art Museum, Harvard University, Cambridge (Mass.), inv. 1979.314 (b).

con un mantello che ne copre le gambe, a sovrastare per maestà i protagonisti della saga locale; ma queste soluzioni non offrivano pari possibilità per dispiegare una decorazione in grado di superare la Parthénos. Lo Zeus di Fidia è riprodotto in modo semplificato su monete in bronzo di Elis emesse specie sotto Adriano8 (fig. 52a): un mantello copre le gambe, la spalla sinistra e parte del torso del dio, il quale, seduto su un trono dalla spalliera dritta, nella mano sinistra tiene uno scettro e sulla destra, poggiata sul bracciolo, una Nike, presentata di prospetto. Altre ne effigiano il solo viso barbato (fig. 52b), con lunghe trecce cadenti su nuca e collo e con la chioma aderente al cranio e più ricciuta sulla fronte, appena rigonfia nella parte inferiore e ornata di una corona con foglie di olivo, consona al luogo: presso l’opistodomo del tempio cresceva un oleastro, chiamato olivo dalla bella corona, dal quale si usava trarre le corone per i vincitori nelle gare olimpiche; in più, una volta al mese gli Elei sacrificavano su tutti gli altari secondo

8   L’emissione più significativa risale forse al 137 d.C.: Schrader 1941, pp. 5-10; Franke 1984; Vlizos 1999, pp. 10-13.

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modalità fissate in antico, bruciandovi incenso insieme a grani di frumento impastati di miele e deponendovi ramoscelli di olivo9. Informazioni più circostanziate si ricavano da una lunga descrizione di Pausania10, per il quale lo Zeus era in oro, avorio, pietre preziose ed ebano, forse usato con il metodo dell’impiallacciatura quale rivestimento del legno (cedro o cipresso?) per la parte struttiva del trono; sul mantello, d’oro al pari di calzari e capelli, erano rappresentati animali e fiori di giglio. Vediamo uno per uno gli ornamenti, come ad Atene in larga parte strettamente intrecciati alla decorazione del tempio che Fidia trovò stavolta già impostata; tanti ornamenti e altrettante storie mitiche da raccontare. All’estremità superiore della spalliera sormontavano la testa del dio due gruppi, titolari di altari a Olimpia11, ciascuno di tre figure (danzanti a formare un gruppo circolare?): da un lato le Cariti, dall’altro le Ore. Le Cariti, figlie di Zeus e di Eurinome (Aglaia, irradiante splendore, Euphrosyne, la Rallegrante, e Talia, personificazione dell’idea di abbondanza), danno gioia e diletto e incarnano la grazia che promana da persone o cose; secondo Pindaro senza di loro gli dèi non intrecciano né danze né banchetti, ed esse venerano la maestà del padre mentre procurano piacere e dolcezza ai mortali ovunque rivelino talento, bellezza e gloria, mentre presiedono al trionfo agonistico dei vincitori. Le Ore (Eunomia, la Buona Organizzazione, Dike, Giustizia, la principale, nonché Eirene, Pace), figlie di Zeus e Temi, dea dell’ordine, furono immaginate da Omero, dice Pausania, come custodi della regale dimora; nemiche di hýbris, sono dispensatrici di prosperità, garanti del successo di un’impresa e legate alla vegetazione, all’amore e alla seduzione e hanno un’influenza benefica sui mortali12. La mano sinistra impugnava lo scettro intarsiato di ogni sorta di metalli e sormontato dall’aquila, mentre sulla destra la Nike, anch’essa in oro e avorio, teneva una benda e portava sul capo una corona; in prossimità dell’officina, in uno strato formatosi

  Pausania V,15,3; 10.   Pausania V,11,1-8. 11   Pausania V,15,3 (altare delle Ore), 14,10 (altare delle Cariti e Dioniso), ma anche 17,1 (statue di Ore a Olimpia). 12   Pindaro, N. VI,38-39; O. VI,76; XIV. 9

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Fig. 53. Matrice fittile dal cosiddetto strato delle matrici nell’area dell’officina di Fidia. Olimpia, Museo.

alla fine del V secolo a.C. e contenente tra l’altro resti di avorio e strumenti di lavoro in osso e in bronzo, sono emerse delle matrici fittili per la realizzazione di piccoli motivi ornamentali (palmette, stelle, fiori) e di un chitone manicato femminile in vetro trasparente di una figura dall’altezza deducibile di circa 4,50 m (fig. 53): è riferibile alla Nike13, nel caso grande il doppio rispetto a quella della Parthénos? Permane qualche dubbio per i rapporti dimensionali. Le rispondevano poi altre quattro Nikai nello schema di danzatrici (ad altorilievo?) su ciascuna gamba del trono e altre due in basso, sulla sua parte inferiore. Sopra i piedi anteriori del trono, ossia sui braccioli, erano ­raffigurati i «fanciulli tebani rapiti da sfingi», animali anche al13   Su sfondo dorato? Schiering 1991; Schiering 1999 (si veda anche Lapatin 2001, pp. 81-83). I conii con la riproduzione della statua trasmettono una Nike più piccola e non certo in rapporto di 1:3 alla statua, allora eventualmente rimpicciolita per un migliore adattamento al campo della moneta. Troppo ottimistico, anzi da escludere, il recupero della Nike in un tipo con diverse repliche con i piedi di punta: Schrader 1941, pp. 13-48; Becatti 1951, p. 134; Bol 2004, p. 141; versus Gulaki 1981, pp. 218-232, con ritorno all’opzione «classicistica».

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tresì utilizzati in simile funzione – compreso il trono di Zeus sul fregio orientale del Partenone –, ma Fidia arricchì il motivo tradizionale14. La Sfinge, «la vergine dalle mascelle feroci» per dirla con Pindaro, nata da Echidna e dal figlio Orto nella Teogonia esiodea, fu inviata a Tebe da Era per punire l’amore innaturale del re Laio, che rapì un fanciullo famoso per la bellezza, Crisippo, figlio di Pelope, eroe eponimo del Peloponneso venerato a Olimpia in un recinto distinto con cenotafio accanto al tempio di Zeus; quando i Tebani non riuscivano a risolvere l’enigma, la Sfinge ne afferrava uno per divorarlo, per cui il mostro dalle nature mescolate sta a significare la potenza punitiva del nume. Un altro comportamento oltraggioso con annessa inesorabile vendetta si lega sempre a Tebe, la cui storia mitica è una miniera di catastrofi: Tebe, la città a cui erano legati i ricordi di Fidia a causa dell’Atena a Platea. «Sotto» la Sfinge, forse in un pannello mediano del sedile, Apollo e Artemide colpivano con i dardi i figli di Niobe. Il soggetto, noto sin da Omero ed Esiodo, fu diversamente affrontato sulla scena da Eschilo e Sofocle15: i quattordici Niobidi, sette fanciulle più sette fanciulli, furono uccisi giacché la madre si vantava di essere uguale a Latona e di aver generato più figli di lei; strage esemplare che mette in guardia dall’oltrepassare i limiti della dimensione umana e che con Olimpia si concilia ancor di più, in quanto Niobe era la nipote di Zeus, figlia di Tantalo e sorella di Pelope, mentre Apollo interviene in veste di garante di ordine e giustizia nella Centauromachia nel frontone occidentale del tempio. Fra le gambe del trono correvano quattro regoli, funzionali a tenere unite le gambe, forse a forma di pilastri rettangolari. Su quello «di fronte all’entrata» si trovavano otto statue, da immaginare inferiori al vero e ripartite ai lati delle gambe di Zeus: per Pausania illustrazioni di gare antiche e non di quelle per ragazzi svolte al tempo di Fidia, introdotte sin dal 632 a.C., laddove si diceva che una, in atto di cingersi il capo con una benda, somi14   Sul soggetto della donna-leone in atto di aggredire un giovane, diffuso nella pittura vascolare attica tra fine del VI secolo a.C. e 470 a.C. circa, si veda Vollkommer 1991 (con perplessità sull’opzione indistinta della Sfinge tebana); su alcuni rilievi fittili cosiddetti melii del 470/60 a.C. si veda Stilp 2006, pp. 107, 218-221. 15   Sempre per i rilievi cosiddetti melii con il tema dei Niobidi si veda Stilp 2006, pp. 93, 187 sg. Per le figure superstiti di un frontone dagli Horti Sallustiani riutilizzato a Roma, del 450/40 a.C. circa, si veda La Rocca 1985, pp. 71 sg.

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gliasse a Pantarce, il suo amasio; atleti, dunque, non per forza tutti in riposo prima o dopo gli esercizi fisici, ché non si capirebbe altrimenti il nesso con le «gare antiche». Sui regoli degli altri tre lati del trono Eracle e i suoi, tra cui Teseo, erano raffigurati in atto di lottare con le Amazzoni, con ventinove figure, circa una decina per lato, laddove alcune, qualora a cavallo, potevano occupare più spazio. Eracle, obbligato nella nona fatica a conquistare la cintura della regina delle Amazzoni, fatto scalo nel porto della città di Temiscira, ricevette la visita di Ippolita, che gli promise il cinto; ma Era, nelle sembianze di un’amazzone, diffuse la voce che gli stranieri stavano per rapirla; di conseguenza, le Amazzoni armate a cavallo assalirono la nave, al che Eracle uccise la regina e le strappò il cinto; secondo un ramo della tradizione, Teseo avrebbe combattuto al suo fianco ottenendo come premio al valore Antiope. La testimonianza più antica della fusione del mito del ratto di Antiope da parte di Teseo con la fatica di Eracle risale a una tragedia, gli Eraclidi di Euripide, degli anni intorno al 430 a.C., pressappoco coeva alla statua16. A Olimpia Eracle, fondatore dei giochi olimpici e figlio prediletto di Zeus, era una figura centrale, tanto che le dodici metope del tempio ne esaltano le fatiche; Teseo, la cui presenza già a fianco dell’amico Piritoo nella Centauromachia del frontone occidentale (vedi anche infra) ha fatto pensare a una possibile influenza esercitata da Cimone, è poi spia di un rapporto con Atene, ancor più esplicito sullo sgabello sotto i piedi di Zeus, il thraníon così come definito dalla gente attica. Questo aveva dei leoni in oro (i sostegni del suppedaneo?) ed era decorato con un’altra Amazzonomachia, stavolta del solo Teseo; sul suo orlo superiore l’iscrizione parlante della statua recitava: «Fidia figlio di Carmide, ateniese, mi fece»17. Entrambe, Amazzonomachia attica ed epigrafe, fungevano come firme a orgogliosa rivendicazione dell’origine dell’artista: evidentemente non ne aveva ancora abbastanza di Amazzonomachie, e al momento delle 16   Già le metope del thesaurós degli Ateniesi a Delfi, che accostano Eracle e Teseo, seppur su lati a prima vista distinti, suggeriscono un viraggio del mito nel senso di un amalgama tra le due imprese, altrimenti non afferrabile salvo che su un frontone greco del 450/40 a.C. circa reimpiegato a Roma (La Rocca 1985). 17   Zizza 2006, pp. 153-154, n. 6; a torto Donderer 2007, ha preso alla lettera il «sotto i piedi» di Pausania.

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trattative con il consiglio degli Elei è concepibile una sua (e/o della città d’origine) ingerenza nella definizione dei temi. Il trono era retto anche da colonne poste fra le gambe a rinforzo della struttura, uguali per numero: posizionate all’interno a formare un quadrato iscritto parallelo a quello delimitato dalle gambe? Pausania specifica poi che non era possibile accedere sotto al trono nel modo in cui si entrava nella parte interna di quello di Apollo nel relativo santuario di Amicle presso Sparta, un monumento arcaico anch’esso con una ricca decorazione: a Olimpia delle barriere (erýmata) erette a guisa di pareti impedivano di raggiungerla, laddove quella «di fronte agli ingressi» era blu, mentre sulle altre Paneno aveva dipinto nove soggetti. Da tempo si dibatte attorno alla loro natura: un parapetto intorno alla base del simulacro, come nella ricostruzione grafica di Quatremère de Quincy (fig. 50)? Oppure, secondo la linea oggi prediletta dalla critica e di primo acchito confortata dalle evidenze archeologiche, una balaustra litica intonacata, spessa 20 cm e con altezza calcolata di 100/150 cm, che in senso trasversale e con due possibili aperture collegava le seconde colonne della navata centrale e in quello longitudinale arrivava alla quinta colonna? Ciononostante, mantiene ancora validità la vecchia idea di considerare le barriere parte integrante dell’ornamento del dio al di sopra della base18; si comprende quindi per quale ragione non ci si potesse spingere sotto il trono, e come mai la barriera anteriore fosse tutta blu: compresa tra le gambe del trono, era in larga parte occultata dallo sgabello. Le barriere restanti – retro incluso – dovevano invece essere ciascuna frazionata in tre campi occupati da due figure, magari accompagnate da iscrizioni e su un analogo sfondo blu. In tutto nove campi e altrettanti episodi mitici, con rimandi reciproci che sottintendono un ordine non casuale: in ogni serie di tre quadretti i primi si incentrano sulle fatiche di Eracle quale modello di virtù agonali; i secondi su modelli e antimodelli eroici in vicende

18   Giglioli 1921, pp. 274-282, in contrasto con l’opinione di Dörpfeld 1935, pp. 247-256 (seguito da Mattern 2007, pp. 140 sg.; Davison 2009, I, p. 339; ma si veda già la risposta di Schrader 1941, pp. 69-71). Solo così ha senso la frase di Pausania a V,11,8, riguardante la base che sostiene il trono e l’insieme della sua decorazione, barriere comprese; in più, si capisce anche perché sono solo due le Nikai alla base delle gambe, contro le quattro a mezza altezza.

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che coinvolgono o presuppongono figure femminili; gli ultimi su premi di imprese risalenti al passato eroico e non solo. Prima triade. Anzitutto, Atlante, punito da Zeus per aver sostenuto i Titani ribelli, regge il cielo e la terra, con Eracle accanto deciso ad assumersene il peso, tema già di una delle metope a est del tempio, seppur con una significativa divergenza: lì Eracle si carica in spalla la volta celeste, coadiuvato da Atena, affinché Atlante possa portargli i pomi delle Esperidi, che Prometeo gli aveva consigliato di non raccogliere personalmente; ciò significa che qui l’attenzione è più concentrata sulla punizione che sulla sua temporanea tregua. Seguono Teseo e Piritoo, scena di ambientazione non meglio precisata: forse evocativa della loro discesa agli Inferi, con Piritoo desideroso di sposare Persefone malgrado gli avvertimenti relativi all’audacia dell’impresa da parte dell’amico, che pur gli rimase fedele per un giuramento prestato a Zeus; essi vi rimasero così imprigionati, con la successiva liberazione del solo Teseo da parte di Eracle; oppure collegabile in qualche modo alla Centauromachia del frontone occidentale? Infine, le personificazioni di Ellade e di Salamina si agganciano al tempo storico e alle guerre di quarant’anni prima: Ellade rimanda al carattere panellenico del trionfo, mentre Salamina alla vittoria «splendida e celebre» della flotta greca, con un sottofondo ateniese però, ché la decisione di combattere nella baia fu di Temistocle; Salamina in mano teneva l’ornamento posto sulle estremità delle navi (aplustre), un attributo-simbolo associato su scudi votivi e vasi attici del 480-460 a.C. a più divinità, come Atena, Poseidone e Nike, e a un eroe, forse Aiace, re di Salamina: se ne ricordò Paneno al momento di rappresentare quella personificazione, sino ad allora mai attestata se non a livello letterario? Seconda triade. Anzitutto, Eracle è in atto di combattere con il Leone di Nemea, figlio di Echidna al pari della Sfinge e nutrito da Era, la fatica iniziale svoltasi nella regione di Olimpia e visibile sulla prima metopa a ovest del tempio, che lo effigia però a lotta avvenuta. Segue l’oltraggio di Aiace Oileo a Cassandra, altro caso emblematico di hýbris castigata: durante la presa di Troia, Aiace compì l’atto doppiamente sacrilego, violentandola presso il simulacro di Atena della quale era sacerdotessa; secondo una parte della tradizione, nel viaggio di ritorno in patria dell’eroe la dea si vendicò colpendone con un fulmine la nave; ma, rifugiatosi su una roccia e di nuovo tracotante, Aiace osò affermare di essersi salva-

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to malgrado gli dèi, provocando l’ira di Poseidone che spaccò la roccia con il tridente facendolo annegare. Infine, Sterope, moglie di Enomao, e la figlia Ippodamia, sposata da Pelope grazie alla vittoria sul padre nella fatale gara con i carri, rimandano alla saga locale rappresentata sul frontone orientale. Terza triade. Anzitutto, Eracle si protende (o guarda) verso Prometeo legato in catene. Per aver sottratto il fuoco a favore degli uomini Prometeo entrò in conflitto con Zeus; questi lo fece incatenare a una colonna nel Caucaso dove un aquila gli divorava il fegato. Il Prometeo incatenato di Eschilo è l’unica tragedia in cui Zeus sia considerato non un supremo custode di Giustizia, bensì un tiranno inflessibile, prepotente e accecato dalla hýbris e un persecutore dei mortali assistito da Krátos e Bía, potere e forza bruta. Una stonatura a Olimpia? No, perché Prometeo è giustamente punito per l’insolente ribellione e la trasgressione anarchica, e la tragedia di Eschilo si inserisce poi in una trilogia in cui i protagonisti alla fine si riconciliano, recedendo da una posizione rigorosa, con Zeus tramutato in giusto sovrano che rinuncia al rancore verso l’avversario. Nel Prometeo liberato, l’atto conclusivo della leggenda conosciuto solo in frammenti, dopo l’uccisione dell’aquila ma prima della liberazione da parte di Eracle, Zeus invia una divinità (Ermes?) per avallare l’azione del figlio prediletto, cambiando atteggiamento al pari di Prometeo che gli rivela un segreto circa la sua possibile caduta19: il dipinto poteva appunto raffigurare il momento fondante della durata eterna del suo regno. Segue Pentesilea, regina delle Amazzoni e figlia di Ares accorsa in soccorso di Troia, esalante l’ultimo respiro, mentre Achille la sorregge. L’eroe è preso da pietà per la giovinezza recisa della indomita guerriera e se ne innamora per la bellezza, uno sviluppo della vicenda noto da poche testimonianze figurative – e non letterarie – anteriori al trono di Olimpia, rispetto alle quali pare nuovo lo schema iconografico escogitato da Paneno e destinato a larga fortuna in età ellenistica e imperiale. Che senso ha la scena? Sottolinea la condotta misurata di Achille, che infligge una «bella morte» in contrasto simmetrico alla violenza di Aiace20. 19   Se egli avesse sposato Teti dall’unione sarebbe nato un figlio in grado di contenderne la sovranità. 20   Tra gli Achei radunatisi attorno al corpo dell’amazzone nacque poi una disputa, perché, mentre alcuni volevano gettarla nelle acque dello Scamandro, Achille, intenzio-

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Infine, due Esperidi portano i pomi d’oro donati da Gea a Era in occasione ­delle nozze con Zeus e si legano al quadretto con Atlante da cui siamo partiti: la loro conquista costituiva la meta di Eracle, capace così di accedere all’immortalità promessagli dall’oracolo delfico di Apollo. Scendiamo sulla base, decorata con un evento cosmico con le seguenti figure d’oro: Elio su carro, Zeus, Era ed Efesto, nome però frutto di un’integrazione del testo, con Charis presso di lui21; vicino a questa Ermes, affiancato da Estia; dopo di lei Eros accoglieva Afrodite uscente dal mare e incoronata da Peito (Persuasione); comparivano poi Apollo e Artemide, Atena ed Eracle e, verso l’estremità, Anfitrite e Poseidone nonché Selene, la quale per Pausania sembra guidare un cavallo, quantunque altri, di parere contrario (la dea in sella a un mulo), raccontassero una storia tanto ingenua che persino lui preferisce non riferirla. Manca Ares, che, pur legato ad Afrodite ma foriero di guerra – con lei genera Terrore e Spavento –, avrebbe compromesso la solennità pacifica del momento. La nascita era perciò inquadrata da due vecchie conoscenze, Elio e Selene, con sei coppie di divinità accostate per relazioni (marito-moglie, fratello-sorella, madre-figlio, protettrice-protetto) o per complementarità di funzione22. Divergono i racconti sulla nascita di Afrodite, generata secondo Esiodo come koúre dalle acque fecondate dallo sperma di Urano castrato dal figlio Crono e ricevuta da Eros e Imero (Desiderio), una versione che ebbe più seguito nelle arti figurative che non nella letteratura arcaica e classica, in quanto per esempio l’epica la considera figlia di Zeus e di Dione. Il soggetto ricorre nella pittura vascolare dal 460 a.C. circa con la dea rappresentata a metà in atto di sorgere, vestita, dal fondo del campo figurato accolta da Eros e da altri personaggi, come Charis e Peito. Se la nascita divina fu un marchio di fabbrica delle basi di statue di Fidia e allievi, per quale motivo a Olimpia la scelta cadde su Afrodite? Ne abbiamo già nato a renderle gli estremi onori e seppellirla degnamente, fu rimproverato da Tersite per la malcelata passione; la regina fu poi effettivamente restituita ai Troiani e da loro sepolta, secondo l’Etiopide di Arctino di Mileto, poema ciclico del VII secolo a.C. 21   Una delle Cariti è sua sposa; il testo qui è stato però considerato corrotto (e allora al posto di Charis si è proposto il nome della messaggera degli dèi, Iride, rinunciando peraltro all’integrazione di Efesto). 22   Come nel caso di Estia-Ermes, per cui si veda Vernant 2001, pp. 147-200.

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visto l’importanza in Elide, e oltretutto Afrodite incarna la forza cosmica immensa e pervasiva dell’amore che tutti soggioga, anche gli immortali (a parte le vergini Atena, Artemide e Estia), al punto da turbare la mente di Zeus, spingendolo a unirsi con donne mortali malgrado la bellezza insuperabile della sposa Era23; la dea in basso risponde poi alle Ore e alle Cariti in alto, che fanno parte integrante del suo corteggio (infatti a Olimpia l’altare delle Ore si trovava subito dopo uno di Afrodite). È tempo di un bilancio su una decorazione in cui coesistono miti sia positivi sia negativi ruotanti intorno ad alcuni messaggi essenziali24: il richiamo alle leggi divine e al potere assoluto di Zeus, dispensatore di giustizia e modello di legittima regalità, funzioni cui si riferisce la maggior parte dei suoi culti, e che spiega la scelta della statua seduta che lo connota quale sommo sovrano impassibile che non ha bisogno di intervenire direttamente nelle vicende mitiche raffigurate per imporre con la folgore la propria volontà, naturalmente compiuta; il rispetto della giusta misura (sophrosýne) e la punizione della hýbris; l’esaltazione dell’agone quale prova di virtù e del superamento di fatiche e pericoli coronato da un’adeguata ricompensa. In breve, per semplificare, Giustizia e Vittoria informano l’intero l’ornamento amplificando i concetti nevralgici di frontoni e metope e convengono all’«atmosfera etica» di un santuario panellenico, un luogo di incontro e di mediazione; e convengono ai vincitori nei giochi che guadagnavano una fama imperitura in grado di riflettersi sulla stirpe e sulla città di provenienza, a tal punto da poter essere confrontati con gli eroi o persino eroicizzati in ambito locale: gli ammonimenti contro la tentazione di superare i limiti umani fanno parte del discorso etico degli epinici di Pindaro, poiché la tentazione della dismisura è sempre dietro l’angolo, e la moderazione tempera l’orgoglio; d’altronde, «la hýbris fiorisce tra i giovani»25. La statua, per quanto capace di fondare una tradizione tipologica, non ha dato origine a una serie di «repliche» in marmo come la Parthénos, perché collocata in un luogo meno battuto dai   Meno convince la motivazione addotta da Kosmopoulo 2002, pp. 119 sg.   Fondamentali Petersen 1873, pp. 359-374; Völcker-Janssen 1987. Si veda anche Burton 2011. Per la «scultura architettonica» si vedano Tersini 1987, e Barringer 2005. 25   Così Sofocle, fr. 786 Radt. 23 24

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Fig. 54. Gruppo della Sfinge tebana (ricostruzione).

copisti; qualche singola componente della decorazione più facilmente adattabile a nuovi supporti o decontestualizzabile o con un soggetto non attestato in altri monumenti illustri, ne ha però attratto l’interesse, specie la zona in corrispondenza dei braccioli. Uno dei due gruppi dei fanciulli tebani rapiti dalla Sfinge sembra riprodotto da due esemplari frammentari in grovacca nera alti 75 cm e lunghi 85 cm, esposti come pendant in una sala di un ginnasio di Efeso26: disposti su un plinto in forma rocciosa, raffigurano il momento drammatico in cui la Sfinge, dal torso umano, con gli artigli immobilizza il giovane, la cui chioma a ciocche arricciate richiama un’amazzone dello scudo della Parthénos27 (fig. 54). La scelta del materiale scuro fa ricordare che gli originali potevano essere in legno d’ebano, benché la grovacca venisse utilizzata anche per le affinità coloristiche con le tonalità del bronzo antico patinato. 26   Datati tra fine del I e metà del II secolo d.C.: Eichler 1937; Eichler 1960; Aurenhammer 1990, pp. 178-181, n. 148, tavv. 110-115. 27   Trasmessa al meglio dal rilievo a Monaco di Baviera: Meyer 1987, tavv. 29; 31,2; 30,2; 32,2.

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Fig. 55. Rilievo con strage dei Niobidi (prima metà del II secolo d.C.). San Pietroburgo, Hermitage, inv. A 434.

A logica – ma non solo28 – è possibile il recupero dei fregi sui fianchi del sedile. Difatti, una serie di rilievi decorativi del I-II secolo d.C. (fig. 55), di altezza pressoché omogenea, intorno a 48 cm, un po’ alla maniera di quelli dell’Amazzonomachia sullo scudo della Parthénos29, può trasmettere la strage dei Niobidi, trafitti dalle frecce di Apollo inginocchiato e di Artemide saettante su un terreno roccioso; quasi vano è però voler riassemblare le sequenze dell’archetipo, poiché delle singole figure erano disponibili calchi per lo più separati, salvo i casi di leggere sovrapposizioni: i copisti poterono smembrarle, associarle, modificarle nelle posizioni – in un caso una figura eretta in corsa si trasforma in una figura incredibilmente caduta a terra – e contaminarle con l’aggiunta di altri personaggi, come capita in un adattamento a un campo circolare su un disco in marmo con ben diciotto figure (fig. 56). La soluzione più conveniente per gli originali è però a sedici figure, ossia con Apollo e Artemide alle estremità e sette Niobidi per parte, senza

28   Ad esempio, si veda il riecheggiamento della figura di Apollo saettante e inginocchiato dipinto sul trono di Zeus su un grande cratere scoperto a 10 km nordest di Kerch, in Crimea, della fine del V secolo a.C.: Shefton 1982; Shefton 1992. 29   Schrader 1932; Schuchhardt 1948; Clairmont 1963; Gentili 1974; Vogelpohl 1980; Geominy 1992, pp. 916-918, 924 sg.; Mandel, Ribbeck 2013, pp. 205 sg.

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la madre, in quanto i rari esempi del tema nella pittura vascolare del V secolo a.C. rinunciano sia a Niobe sia a Latona, madre di Apollo e Artemide; i pannelli potevano chiudersi con due meravigliosi gruppi patetici: quello con una Niobide in atto di sorreggere una sorella e l’altro con una Niobide cui si appoggia un fanciullo morente, più volte confrontato con la Pietà di Michelangelo. Le figure restanti si presentano in pose audaci, di dorso, prospetto o profilo, con una gestualità tragica amplificata da panneggi svolazzanti di grande varietà, e testimoniano un linguaggio formale inconcepibile prima della metà circa del V secolo a.C.30: ennesimo indizio contro l’anteriorità alla Parthénos. Torniamo però alla statua. Fidia stavolta si trovò a fare i conti con una cella già costruita di 13,26 m x 28,74 m, divisa in tre navate da due file di sette colonne doriche sostenenti una galleria so­vrastante, raggiungibile mediante una scala a chiocciola conducente al tetto; la navata centrale è larga il doppio rispetto alle laterali (6,54/3,27 m). Al fine di una migliore presentazione della statua, Fidia decise qualche accorgimento aggiuntivo all’impianto 30   Un parallelo in chiave stilistica (e tipologica) è offerto dalle lastre a rilievo da un tempio dell’Ilisso ad Atene: per la loro datazione «alta» alla fine degli anni Quaranta, benché con troppe sottigliezze, si veda Childs 1985.

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Fig. 56. Rilievo con strage dei Niobidi (II secolo d.C.?). Londra, British Museum, inv. 1877,0727.1.

originario31: la già citata balaustra litica32 e la copertura del pavimento della navata centrale antistante alla base con lastre in pietra nera a formare un’area di 6,50 m2, delimitata da un bordino rialzato di marmo pentelico (la bottega si trascina con sé il materiale,

31   Per le misure prese al momento dell’installazione della statua si vedano Hennemeyer 2006, e Hennemeyer 2012, p. 124 (per la quale anche il colonnato a due piani nella cella fu riconfigurato con interassi minori). 32   Per il bacino e la balaustra (e per l’eventuale aggiunta di un’inferriata lignea o metallica nel sesto e nel settimo intercolunnio e dietro la statua, successiva al presunto intervento di Fidia) si veda Dörpfeld 1935, pp. 232-247 (F. Forbat).

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come a Platea) e non pario come per Pausania; per lui si trattava di un bacino per l’olio che impediva all’avorio di ricevere danno dall’umidità dell’Altis33. Diamo ora altri numeri34. La base, costituita da un nucleo di calcare rivestito di pietra nera era profonda 9,82 (un terzo della lunghezza della cella) e larga 6,54 m, tanto quanto la navata centrale, e si distanziava dalla parete di fondo di 1,74 m; l’altezza della statua ammontava a 27 cubiti (uno in più della Parthénos), ossia circa 12,27 m più la base alta poco più di 1 m, per cui mancava poco al soffitto interno, ricostruito a 14,33 m; 1,98 m misuravano Ore e Cariti. Il geografo greco Strabone35 scrive che il dio era di una taglia talmente colossale che l’artista sembrava non aver rispettato le giuste proporzioni, dando la sensazione che se si fosse alzato avrebbe sfondato il tetto; eppure, rispetto alla Parthénos quell’effetto fu ricercato per enfatizzare ancor di più la grandezza conforme a un’epifania divina: nel quinto inno omerico ad Afrodite (VII secolo?) la dea dopo aver giaciuto con Anchise in una capanna si erse dal letto, toccando con il capo il tetto! Anche più avanti nel tempo Adriano inviò il progetto del tempio di Venere e Roma edificato sulle pendici della Velia a Roma all’architetto Apollodoro di Damasco, il quale criticò l’altezza delle statue delle divinità in rapporto alle celle, notando come non avrebbero potuto alzarsi per andarsene; sarebbe stato meglio se si fosse risparmiato l’osservazione perché Adriano lo mandò perciò a morte, un episodio però guardato con sospetto dalla critica!36 Bello, grande e splendente: come la figlia, così il padre, lo stesso che coprì la città di Rodi di fiocchi dorati quando per l’arte di Efesto con una scure di bronzo Atena balzò dal suo capo e lanciò un immane grido di guerra37. Che straordinaria esperienza doveva essere farsi abbagliare dallo scintillio dell’oro del mantello e dal 33   Contro la posteriorità di questo accorgimento all’impianto originario della cella Morgan 1955, pp. 164-167. 34   Per le indicazioni numeriche ricavabili dal sesto giambo di Callimaco, di cui discuteremo nel prossimo capitolo, si vedano: Pfeiffer 1941 (ma anche Pothecary 2005, p. 15); Giglioli 1921, pp. 299-302; Strocka 2004, p. 226. 35   Strabone VIII,3,30. Commento in Pothecary 2005, pp. 17 sg., 21-24. Si vedano anche Richter 1966, e Knell 2007, pp. 192 sg. 36   Cassio Dione LXIX,4,5: Ridley 1989. 37   Pindaro, O. VII,33-38.

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colore che simboleggia la luce che permea il mondo olimpico, il bianco della tanta carne in avorio del torso nudo: ci volevano proprio, i lucidatori discendenti di Fidia, e in un testo d’età tardo-antica si legge che la natura aveva prodotto gli elefanti per consentirgli di sfruttarne le zanne per lo Zeus38, mentre Pausania, dopo la descrizione, si lascia andare a una digressione sull’avorio dall’India e dall’Etiopia e sulle tecniche di lavorazione. Quali però le condizioni di visibilità nella cella? Il dio doveva splendere nella penombra, tanto più che mancavano finestre all’ingresso come nel Partenone; è semmai postulabile un’apertura sul soffitto nel settore anteriore della cella per consentire l’ingresso della luce che si sarebbe riflessa nel bacino per poi rifrangersi sulle superfici del colosso39; apertura suggerita sia dalla presenza di un altare dentro il tempio – bisognava far uscire il fumo dei sacrifici –, sia da un aneddoto secondo il quale il dio aveva reso testimonianza all’arte dello scultore40: egli lo implorò di inviargli un segno di gradimento, e immediatamente, dicono, cadde un fulmine in quel punto del pavimento sopra il quale si trovava ancora un’idria di bronzo. Bella scenetta, questa, di un Fidia ansioso di ricevere l’approvazione del dio e non solo. Stando a un altro racconto aneddotico, dopo aver concluso l’opera e averla scoperta (!), nascosto dietro una porta avrebbe cercato di capire lodi e critiche degli spettatori; c’era chi stroncava il naso, troppo grosso, chi il viso, troppo lungo; quando i visitatori se ne andarono, lo scultore, chiusosi dentro, avrebbe apportato i correttivi, nella convinzione che il consiglio di tanta gente contasse più di quello del singolo. L’idea dell’artefice che, posta la superiorità della propria téchne, modifica l’opera ascoltando il parere del pubblico risponde a una costante nella vita degli artisti; anche Policleto pare aver realizzato due statue, una apportando qualche modifica secondo le opinioni altrui, l’altra secondo le norme dell’arte; una volta svelate, siccome una fu lodata e l’altra derisa, disse: «Questa che biasimate l’avete fatta voi, mentre questa è opera mia»41. Correttivi o meno, lo Zeus di Olimpia piacque, eccome.   Pseudo-Filone di Bisanzio, De Septem Orbis Spectaculis.   Hennemeyer 2011, pp. 102-104. 40   Pausania V,14,4 (altare dentro il tempio); 11,9. 41   Rispettivamente si vedano: Luciano, Pr. Im. 14; Eliano, VH 14,8; Plinio, Nat. 38 39

IX. Una competizione tra padre e figlia

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Gli anni Quaranta-Trenta per Fidia furono un periodo molto intenso, come ad Atene, visto che, forse all’interno della stessa bottega, per Elis lavorò alla Afrodite Urania (e se le matrici fittili fossero state per lei?) e per il santuario di Olimpia a un’effigie in bronzo di un ragazzo di identità ignota che si cinge il capo con una benda, menzionata da Pausania solo a causa della reputazione e della maestria (sophía) dell’artista42. Intanto gli Elei finirono invischiati in una delle beghe interstatali precedenti lo scoppio della Guerra del Peloponneso: nel 433 a.C. combatterono a fianco dei Corinzi nella battaglia navale alle isole Sibota contro centodieci navi di Corcira e dieci navi attiche; dopodiché gli Ateniesi, convinti ormai che la guerra con Corinto fosse inevitabile, decisero di colpire i suoi amici e alleati; la situazione si surriscaldò velocemente, e nel 433/2 a.C. Sparta si lasciò indurre dai Corinzi a promettere agli abitanti di Potidea, colonia di Corinto, che avrebbe invaso l’Attica se gli Ateniesi l’avessero attaccata; nella primavera del 431 a.C. gli Spartani, affiancati da tutto il Peloponneso, dichiararono guerra, Elei compresi, i quali comunque invasero l’Attica controvoglia43. Già prima di quella data Fidia era però tornato ad Atene, in tempo per vedere i frontoni del Partenone; ma lì per lui la cricca degli avversari di Pericle aveva in serbo una brutta sorpresa. Un momento perfetto per uscire di scena: aveva fatto in tempo a ultimare un’opera meritevole almeno dal II secolo a.C. in poi dell’inserimento nel catalogo delle Sette Meraviglie del mondo, mentre, se fosse vissuto al tempo della Guerra del Peloponneso, in età ormai avanzata e con il graduale sfasciamento dell’impero ateniese, non avrebbe avuto un’occasione per superarsi con un’altra statua altrettanto impegnativa e costosissima. Anche gli Elei dovevano ritenersi molto contenti di uno Zeus in grado di oscurare la Parthénos; meno copiato ma più famoso: come fu possibile? XXXV,36,84-85 (per un affine episodio relativo ad Apelle): commento in Cistaro 2009, pp. 222-224. 42   Pausania VI,4,5. 43   Non v’è alcun bisogno (come invece per Strocka 2004, p. 228) di far esaurire la permanenza di Fidia a Olimpia nel 435 a.C., quando iniziarono le scaramucce tra Corinto e Corcira, nelle quali la posizione iniziale di Atene fu defilata; improbabile però la posizione di chi, come Bol 2004, p. 138, sostiene che egli iniziò i lavori intorno al 430 a.C.

X «A nessuno degli uomini potrei concedere di essere stato più grande scultore di me»: parola di Fidia Gli Antichi che pensarono di Fidia? Fu considerato lo scultore più grande d’Occidente e usato quale termine di paragone in scritti in greco e in latino, perché le sue statue si prestavano a una meditazione sui rapporti tra arti figurate, poesia, storia e soprattutto retorica riguardo alla solennità, alla grandiosità e alla dignità1. Nel V-IV secolo a.C. le sue menzioni sono occasionali in assenza quasi totale di una letteratura specifica sulla pittura o sulla scultura, a parte per esempio nel terzo libro dei Memorabilia di Senofonte le brevi conversazioni in bottega tra Socrate e il pittore Parrasio e lo scultore Clitone, invitati dal filosofo a riflettere sui mezzi a loro disposizione per le raffigurazioni del visibile e non e sui loro effetti sugli spettatori, o le speculazioni di Platone in relazione alla dottrina delle Idee, al Bello nelle arti e alla funzione delle téchnai nel modello di città governata dai filosofi e di Aristotele sull’importanza di ordine conoscitivo e paideutico riconosciuta alla mimesi poetica e figurata. La storiografia dell’arte «ufficialmente» iniziò in età ellenistica (fine IV-I secolo a.C.), per merito degli artisti stessi, dei filosofi, dei retori o dei periegeti, per non parlare della critica «popolare», più interessata alle qualità miracolose delle opere o agli aneddoti biografici; un periodo di

1   Per dirla con Dionigi di Alicarnasso, Isoc. III,3,6-7, quando confronta l’eloquenza di Isocrate con l’arte di Policleto e Fidia. Per la presenza di Fidia nei trattati retorici romani si veda Pekáry 2007, pp. 63-65.

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fioritura delle ricerche storiche in singole branche della scienza grazie allo spoglio sistematico dei documenti. Sono due gli essenziali indirizzi storico-artistici dell’ellenismo, in «antinomia dialettica» ma con punti di contatto, quali ricostrui­ bili dagli scarsi frammenti dei testi originali o con la mediazione specie di Plinio e di fonti di vario genere, in prevalenza retoriche; entrambi erano accomunati dall’insistenza su artisti impegnati a superare le imperfezioni dei predecessori, laddove ognuno si distingue per un personale contributo, formale e/o tematico; una visione con ripercussioni sulla storia dell’arte moderna: per esempio, le Vite del Vasari nella parabola dell’arte intesa come un progressivo avvicinamento alla natura riecheggiano il fraseggio pliniano2. All’inizio del III secolo a.C. Senocrate di Atene, bronzista della scuola di Lisippo, stese un trattato de sua arte e un altro de pictura: il Galileo dello studio dell’arte dell’antichità, così come battezzato da Bernhard Schweitzer, ebbe il merito di introdurre la storia nell’arte e l’arte nella storia. Secondo questa corrente è la mimesi basata sull’alétheia/veritas3 – tuttavia non da intendere come rappresentazione pura e semplice dei modelli offerti dalla natura – a costituire la meta dell’evoluzione storico-artistica, e i giudizi vertono sui parametri della simmetria (rapporto proporzionale delle parti maggiori con quelle minori), del ritmo (composizione/movimento impresso alla statua), dell’esattezza nell’applicazione delle teorie e delle tecniche e nell’attenzione ai dettagli minuti (akríbeia/argutia/diligentia) e dell’effetto ottico4, termini germogliati nelle botteghe di artisti e pittori. Qui, se Fidia rivelò le possibilità della scultura in bronzo, perfezionate da Policleto, il culmine coincise con Lisippo, il quale al massimo contribuì al progresso della statuaria. L’altra teoria nacque forse in ambienti legati alla critica letteraria intorno agli anni centrali del II secolo a.C., nutrita da una 2   Fondamentali Schweitzer 1967d, e Pollitt 1974. Si vedano anche: Preisshofen 1974a; Rouveret 1989, pp. 405-411; Settis 1993; Naas 2006; Strocka 2007. 3   Sulle quattro categorie di alétheia artistica (la terza, la più prettamente tecnica, è quella della precisione e dell’accuratezza del dettaglio nel riprodurre la realtà) si veda Pollitt 1974, pp. 125-138. 4   Per il ruolo delle «apparenze» (dunque le phantasíai in senso platonico) anche nella teoria della mimesi si veda Naas 2006, pp. 239 sg., 248.

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visione retrospettiva e classicistica che esalta i raggiungimenti del V secolo a.C., in particolare ateniesi, e svalorizza quelli dall’inizio del III secolo a.C. (l’età della «morte» dell’ars) sino alla metà circa del II secolo a.C. I vertici risiedono ora nel raggiungimento di qualità spesso abbinate in endiadi: pulchritudo (kállos) e maiestas (mégethos), bellezza e grandezza/magnificenza5, qualità al meglio incarnate dalle raffigurazioni delle divinità di Fidia, per questo motivo già apprezzate dai suoi contemporanei; una simile valutazione si condensa in verdetti lapidari del genere: «Le statue di Policleto sono per téchne le più belle di tutte, ma per magnificenza (polytéleia) e maestà (mégethos) cedono a quelle di Fidia»6. Un’esemplificazione affine, ma più articolata, è trasmessa dal retore romano del I secolo d.C., Quintiliano7, in un parallelo tra stili retorici e arti figurative: Callone ed Egesia, il maestro di Fidia, scolpirono statue dure e assai somiglianti a quelle «etrusche», meno rigide ne scolpì Calamide e ancor più sciolte Mirone; più di tutti per precisione e decoro (diligentia e decor) si distinse Policleto, al quale si attribuisce la palma del migliore, a dispetto della mancanza di gravità (pondus); infatti, pur abile ad abbellire la forma umana senza restarle aderente in maniera pedissequa (decor supra verum), pare non aver saputo esprimere compiutamente l’auctoritas degli dèi, il pregio per converso riconosciuto a Fidia e ad Alcamene; Fidia fu il migliore nel rappresentarli e insuperabile nella scultura in avorio, anche se non avesse creato niente oltre la Minerva di Atene e il Giove Olimpio; la loro bellezza, continua Quintiliano, sembra aver aggiunto un non so che alla religione tradizionale, a tal punto la maestà augusta dell’opera eguagliò quella del dio. In breve, le differenze risiedono nelle scelte tematiche e nella capacità di suggestione e promozione del senso religioso, ma le implicazioni sono maggiori, poiché, non appena superato quale metro di valutazione il naturalismo dei soggetti mortali, il momento creativo può nutrirsi di un’altra forza, come al meglio esemplificabile

5   Strabone IX,1,17; Dione Crisostomo, Or. 12,63; Plutarco, Sull. 17,3: Benediktson 2003. 6   Strabone VIII,372. 7   Quintiliano, Inst. XII,10,7-9. Per un commento al senso dei vari termini come pondus e auctoritas si veda Chelotti 1978; per la prima parte del brano si veda l’osservazione di Strocka 2007, p. 343.

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proprio tramite lo Zeus di Olimpia, la più eccelsa realizzazione di mano umana; impossibile farsene un’altra immagine mentale dopo la sua visione: «Venne il dio sulla terra dal cielo a mostrarti l’effigie, o tu andasti a mirarlo, Fidia, in cielo». Sfortunato chi moriva senza visitarlo, mentre chi ci riusciva poteva tranquillamente rinunciare a recarsi in Attica per ammirare altri «Fidia»8. A un amico sul punto di salpare alla volta dell’Elide per andare ad ammirarlo il poeta Callimaco di Cirene (300-240 a.C.) in uno dei suoi Giambi, purtroppo molto frammentario, espone con puntiglio costi e misure di base e trono, senza cenni alla grandezza e alla bellezza e dissolvendo il senso di reverenza davanti alla rappresentazione del divino: lo spezzettamento in piccole parti e l’insistenza sulle misure rispondono al tentativo di dissuasione a compiere il viaggio in una specie di carme di accompagnamento alla rovescia che sancisce il primato della letteratura e della parola quale téchne superiore alla scultura e alla vista?9 E pensare che Pausania10 non riserva alcuna lode a quelli che prendevano le misure in altezza e in larghezza dell’opera, molto inferiori all’impressione che suscitava in chi la guardava; inoltre, per Luciano chi dello Zeus di Olimpia non sapeva riconoscere e lodare la grande bellezza nel complesso, ammirando per converso la rifinitura e la levigatezza dello sgabello oppure la linea armonica della base, finiva un po’ per fare come quei cattivi storici che tralasciavano e sfioravano i grandi avvenimenti degni di memoria, impuntandosi per goffaggine, insensibilità e ignoranza di quello che si doveva dire o tacere a esporre i più piccoli eventi con molta diligenza; per essere lodati anche gli storici si dovevano prefiggere come obiettivo quello di diventare dei Fidia della storia!11 Dallo Zeus di Olimpia i frequentatori del santuario rimasero stregati. Il generale romano L. Emilio Paolo, durante una sorta di grand tour della Grecia nel 167 a.C., colto da profonda ammirazione alla vista della statua che gli apparve come Giove in 8   L’epigramma citato è in AP XVI,81. Si vedano: Dione Crisostomo, Or. 12,53; Epitteto, Diss. I,6,23; Temistio, Or. 27,161. 9   Lelli 2004, p. 22, nota 36; si veda anche Priestley 2011 (con sottolineatura del possibile riecheggiamento delle descrizioni erodotee di grandi strutture e opere d’arte); altra spiegazione in Rouveret 1989, p. 421. 10   Pausania V,11,9. 11   Luciano, Hist. Conscr. 27; 51.

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persona e superò le sue attese, pronunciò una frase proverbiale («è lo Zeus di Omero quello scolpito da Fidia») e celebrò un grandioso sacrificio in suo onore come se stesse sacrificando sul Campidoglio12: il parallelismo tra il più sapiente e autorevole tra tutti i poeti, l’inventore insieme a Esiodo della religione greca, e Fidia, divenne un topos13. Si tramandava che alla domanda del fratello Paneno in base a quale modello avesse plasmato l’immagine di Zeus, rispose di essersi servito della poesia omerica (l’Iliade), quando Teti lo supplica, stringendone le ginocchia, di vendicare l’onore del defunto Achille, nei versi «Così disse il Cronide e con le fosche sopracciglia fece un cenno;/ ondeggiarono le ambrosie chiome dal capo/ immortale del sovrano; tremò tutto il vasto Olimpo»14: il cenno del capo è segno di una grandezza divina che non necessita di parole per esaudire l’irreversibile volontà. Questo è l’unico episodio dell’Iliade nel quale i tratti di Zeus vengano esplicitati, e le sue possibilità plastiche e narrative furono intuite anche da Ingres per una celebre tela del 1811, che conformò il suo Zeus alle ricostruzioni circolanti a quei giorni dello Zeus fidiaco. Ma un altro principio guidò Fidia nel modellare gli dèi, ossia una facoltà dell’immaginazione creatrice (phantasía): «I Greci le chiamano phantasíai e i Romani visiones, mediante le quali le immagini di cose assenti sono rappresentate nell’animo, così che ci sembri di vederle con gli occhi e averle davanti a noi»15. Benché compiutamente formatasi durante il II secolo a.C. nella speculazione dell’indirizzo classicistico16, con un misto di spunti platonici, aristotelici e in particolare stoici, simile concezione della creazione artistica è retoricamente esaltata nel proemio di un trattato di Cicerone17 sulla perfetta arte oratoria; a fondamento del discorso c’è il principio che al mondo nulla v’è di tanto bello   Polibio XXX,10,6; Livio XLV,28; Plutarco, Aem. 28,5.   Anticipato da un larvato accostamento in Platone, Prt. 311e.   Strabone VIII,3,30 (Il. I,528-530). Si vedano anche: Valerio Massimo III,7, ext. 4 (al posto di Paneno come interlocutore di Fidia compare un più generico amico); Dione Crisostomo, Or. 12,25-26; Macrobio, Sat. V,13,23. 15   Quintiliano, Inst. VI,2,29. 16   I responsabili sono variamente cercati nella Stoa Media o in Apollodoro di Atene: Rouveret 1989, pp. 420 sg. Sulla phantasía di Fidia e le differenti sfumature nei passi che ne trattano si vedano: Panofsky 2006, pp. 5-25; Schweitzer 1925, pp. 107-132; Thielemann 1992, pp. 67-95; Männlein-Robert 2003. 17   Cicerone, Orat. 1,8-10. 12 13 14

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da cui non possa derivare qualcosa che gli somiglia, come un ritratto da un volto vivo, e che «ciò che non possiamo percepire né con gli occhi né con alcun senso, noi lo abbracciamo solo con il pensiero e l’intelligenza (cogitatio e mens). Ugualmente possiamo immaginare statue più belle di quelle di Fidia, delle quali non conosciamo nulla di più perfetto nel loro genere... Invero, quell’artista, mentre plasmava Giove o Minerva, non aveva dinanzi agli occhi qualcosa da imitare, ma nella sua mente era insito un certo eccelso ideale di bellezza (species pulchritudis eximia), alla cui somiglianza dirigeva l’arte e la mano, contemplandolo e fissandolo». Prosegue Cicerone: «Come dunque nelle opere di scultura e di pittura vi è un qualcosa di perfetto e insuperabile, alla cui species l’artista si è richiamato imitandola, pur non cadendo essa sotto i suoi occhi, così noi con il pensiero cogliamo l’ideale della perfetta eloquenza... sono questi gli archetipi delle cose, definiti “idee” da Platone, convinto che non nascano ma esistano da sempre e siano contenute nella mente e nell’intelletto (ratio e intelligentia)». Ancora. All’interno di una biografia scritta dal retore greco Filostrato (fine II-inizio III secolo d.C.), il filosofo itinerante Apollonio di Tiana discute nel corso della sua permanenza presso i saggi d’Etiopia a proposito delle figurazioni degli dèi, prima di tutte dello Zeus di Olimpia, dell’Atena Parthénos, della Afrodite di Cnido di Prassitele e della Era di Policleto ad Argo. Alla domanda sarcastica di un certo Tespesione sul bisogno di artisti come Prassitele e Fidia di andare in cielo per ritrarre gli dèi, risponde Apollonio che con la fantasia un demiurgo produce opere più sapienti (sophotéra) che con la mimesi: la seconda può rappresentare ciò che ha visto, mentre la prima pure quel che non ha visto in quanto dotata della capacità inarrestabile di afferrarlo mediante il riferimento alla realtà; per esempio, chi, come Fidia, vuole penetrare intimamente la figura di Zeus deve immaginarlo assieme al cielo, alle stagioni e alle costellazioni; a chi sta per scolpire un’Atena tocca pensare dentro di sé a spedizioni guerriere, a saggi consigli, alle arti e alla sua nascita dal capo di Zeus18: nell’idea di divinità confluiscono i suoi molteplici aspetti. In breve, 18   Filostrato, VA 6,19: Apollonio sottolinea poi come meglio sarebbe onorare gli dèi senza raffigurarli, perché l’immaginazione dei fedeli riesce a fare rappresentazioni plastiche e dipinte superiori all’arte (Maffei 1991, pp. 607-609).

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se la creazione dell’artista diventa un processo interiore che si emancipa dalla percezione sensibile, alla sua energia mentale è concesso un rilievo tale da sminuire i risvolti manuali e tecnici dell’esecuzione19: nell’Apoteosi di Omero di Ingres (1827) alla destra del poeta compare Fidia a fianco di Pericle – sullo sfondo Michelangelo medita – in atto di offrire lo scalpello con la mano sinistra e di portare la destra alla fronte «per indicare la sede del suo genio», per dirla con le parole dello stesso pittore. Con il concetto di phantasía si schiusero possibilità sin lì inusitate non solo per le arti figurative in sé e per il rapporto tra soggetto e oggetto dell’opera d’arte, ma anche per la loro legittimazione teologica. Perché, se la phantasía sa conferire forma visibile a ciò che è sostanzialmente inafferrabile, alla figura di Fidia, lo scultore per eccellenza di divinità, fu attribuita una grande responsabilità. Il suo Zeus, nel quale finirono per compenetrarsi tutte le figure del pantheon greco-romano, si tramutò in pilastro della giustificazione delle immagini antropomorfe quale strumento più appropriato ed efficace per rappresentare gli dèi: una questione che, fonte di disagi sin dai primi accenni di un pensiero filosofico, dal II secolo d.C. in poi fu affrontata con ancor maggiore consapevolezza, nella cornice sia della difesa dell’ordine costituito a causa di un mondo con qualche scricchiolio delle fondamentali strutture politiche e culturali, sia della polemica antiidolatrica degli scrittori cristiani, sempre bravi a puntare il dito contro le incongruenze della teologia altrui. Sicché, nel discorso mirante al rilancio, illusorio, della religione tradizionale è Fidia in persona a prendere la parola, ma la sua voce non è autentica. Rimaniamo a Olimpia, in un anno all’inizio del II secolo d.C. (105 d.C.?) probabilmente coincidente con lo svolgimento dei giochi olimpici e con un momento di massima frequentazione del santuario, allorché i filosofi popolari e i retori si esibivano in performances spettacolari. In quell’occasione il sofista Dione Cri-

19   Si vedano anche Plotino V,8,1 (se le arti non sono una mera imitazione della natura perché sanno ascendere ai principi [lógoi] donde nacque la natura stessa, Fidia creò il suo Zeus senza contemplare un modello sensibile e lo colse quale si sarebbe presentato ove mai avesse consentito di rivelarsi a noi) e Proclo, Commentarius in Timaeum II,265,19-22.

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sostomo di fronte a un folto uditorio tenne una conferenza su un tema di carattere religioso e con diverse riflessioni teologiche sulla problematica corrispondenza tra scultura ed espressione consona del divino20. Il retore, dopo aver esposto l’esistenza di una conoscenza del dio originaria, una sorta di religione primordiale naturale e innata in ogni creatura razionale, tanto greca quanto barbara, elenca le conoscenze aggiuntive a quel fondamento istintivo e le fasi di sua razionalizzazione, tracciando una specie di teologia religiosa dell’umanità attraverso un’interpretazione affidata rispettivamente ai poeti, ai legislatori, alle arti figurative (scultura e pittura) e per ultimo ai filosofi, i più fedeli e sommi interpreti della natura divina. Dione accantona subito legislatori e filosofi per passare a verificare se poeti e artisti abbiano giovato o no al sentimento religioso e a stabilire chi si sia più accostato alla verità. Ora, scultori come Fidia, Alcamene e Policleto (e persino Dedalo agli esordi) o pittori come Aglaofonte, Polignoto e Zeusi raffigurarono gli dèi nei più svariati atteggiamenti e diffusero una ricca ed elaborata concezione del divino senza discostarsi granché dai legislatori e dai poeti: sia per non apparire in contrasto con la legge, sia perché consci di essere stati preceduti proprio dai poeti le cui crea­ zioni risultavano più antiche, pur essendone diventati alla fine concorrenti e colleghi di mestiere, visto che la loro attività mirava parimenti a rendere accessibile il divino alla vista di un pubblico più grande e meno colto. Il retore si immagina di chiamare in causa un artista capace di parlare prima al sentimento e poi alla ragione: Fidia, naturalmente, il candidato migliore perché autore saggio e divinamente ispirato di una statua superlativa, lo Zeus, in grado di superare tutte le precedenti, insignificanti al confronto. Adottiamo dapprima il punto di vista di Dione. Supponiamo, dice, che Fidia venga chiamato a un rendiconto dinanzi ai Greci, e che la commissione consti di giudici che arbitrano l’agone in onore del dio o di un tribunale panellenico; ipotizziamo che stavolta non debba render conto della quantità di talenti occorsi per 20   Chirassi 1963; Fazzo 1977, pp. 21-59; Desideri 1980. Si vedano anche: Ferri 1937; Cellini 1995; Van Mal-Maeder 2006, pp. 306-311; Gangloff 2010; Pernot 2011, pp. 23-35; Platt 2011, pp. 224-235; O’Sullivan 2011. Per un’edizione tradotta e commentata in tedesco: Olympische Rede 2000; in italiano: Olimpico 2005.

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comperare l’oro e l’avorio e il legno di cipresso e di cedro per la realizzazione dell’opera; riconosciamo di non voler conoscere né l’elevatissimo compenso finale corrispostogli per la sua arte né la cifra sborsata per il pasto e la paga dei non pochi operai e degli altri artigiani di buon livello; calcoli spettanti agli Elei che hanno speso con generosità e magnificenza; no, Fidia va sottoposto a giudizio per tutt’altro scopo. Immaginiamo quindi che qualcuno gli dica che è il migliore artista che ha offerto un gradito spettacolo e un incontenibile piacere per gli occhi di Greci e barbari; un capolavoro che impressionerebbe persino le creature più brutali – come i tori condotti all’altare, che si sottoporrebbero volentieri al sacrificio per far cosa gradita al dio – o saprebbe far dimenticare tutte le angustie, l’ira e le difficoltà della vita umana; Efesto non avrebbe nulla da ridire su quest’opera, giudicandola in base al gradimento e al piacere dell’occhio umano. Vediamo però se ha plasmato l’immagine degna della natura divina, ricorrendo a materiali incantevoli e attribuendo grandezza e bellezza sovraumana a una figura d’uomo: perché proprio qui sta il problema, l’antropomorfismo delle statue divine. A questo punto Fidia pronuncia un’arringa in propria difesa, e Dione dimostra di cavarsela anche quando il discorso si sposta su questioni tecniche. Assumiamone la voce. Non sono stato io il primo interprete e maestro della verità, in quanto nato quando l’Ellade aveva già maturato salde convinzioni sugli dèi; così ho dovuto fare i conti con dei precedenti figurativi meno raffinati tecnicamente nonché con altri artefici del divino più antichi e più saggi, i poeti. Gli dèi visibili, il sole, la luna, il cielo e gli astri così come appaiono sono certo meravigliosi, e la rappresentazione sarebbe semplice e priva di téchne se uno volesse ritrarre le fasi della luna o il disco del sole; ma gli astri sono anche pieni di un contenuto morale e razionale non rappresentabile, e forse perciò gli Elleni sin dall’epoca più antica scartarono questa possibilità. Nessuno scultore o pittore è infatti in grado di raffigurare il pensiero e la saggezza in sé, perché nessun uomo è in grado di attingere a cose come quelle con gli occhi o per mezzo dell’ispezione. Noi artisti prestiamo al dio un corpo umano quasi come recipiente di saggezza e ragione, sopperendo alla totale mancanza di un adeguato schema con l’attribuzione di un aspetto a ciò che non è né visibile né rappresentabile; un aspetto che non

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può che aver la forza evocativa di un simbolo; e l’artefice che rie­ sce a superare gli altri per bellezza, maestà e grandiosità diventa senza dubbio il più grande nel campo delle statue divine. Queste immagini con la loro evidenza fisica soddisfano un bisogno esistenziale umano di concretezza: gli uomini per il loro naturale attaccamento agli dèi bramano di incontrarli, venerarli, pregarli e toccarli, offrendo loro sacrifici e incoronandoli; un po’ come i fanciullini che, allontanati dal padre o dalla madre, in preda al rimpianto e alla nostalgia in sogno spesso tendono verso di loro le braccia, così gli uomini verso gli dèi; ecco perché molti barbari, sprovvisti di adeguati mezzi artistici, finiscono per chiamare divinità le montagne, le piante selvatiche e le pietre grezze, per niente più appropriate della forma umana. Ma se volete accusarmi per l’aspetto che ho dato alla divinità, dovreste prendervela piuttosto con Omero, il quale rappresenta Zeus in una foggia vicinissima alle mie arti plastiche, poiché già nel primo libro dell’Iliade menziona la chioma e il mento del dio nella scena con Teti21. Certo, la poesia offre infinite risorse grazie alla ricchezza dei suoni e della parola, è duttile, signora del tempo e dello spazio e libera dalla fisicità; la scultura, basata sulla manualità e sulla perizia tecnica, non gode invece della medesima libertà, perché ha in primo luogo bisogno di tanti aiutanti e di un materiale solido di difficile reperimento per durare nel tempo. Ancora, se per gli scultori è inevitabile imprimere a ogni statua un solo schema privo di movimento e permanente, è naturale per i poeti, peraltro avvantaggiati da minori spese, creare molteplici figure di ogni genere con attitudini, azioni e discorsi a loro piacimento; la nostra arte richiede invece fatica e procede a rilento, perché subisce il condizionamento sia della lavorazione di un materiale granitico e del luogo di esposizione, sia della grandezza, mentre Omero ha buon gioco a scrivere nel quarto libro dell’Iliade di come Eris, durante uno scontro tra Troiani e Achei, prima piccola, cresca poi tanto da toccare il cielo con il capo. A procurare gli ostacoli più seri è oltretutto il fatto che

21   Ecco rispuntare il topos Fidia-Omero, laddove lo scultore per un momento, quale ribaltamento delle concezioni d’epoca classica, afferma persino di esser più accorto e valente del poeta, anche perché la scultura permette una ricreazione delle condizioni primitive di percezione e il ristabilimento del contatto visivo e tattile con il divino, pur con tutti i vincoli del caso.

210 Fidia

la stessa immagine deve rimanere impressa nella mente dell’artista figurativo non di rado per molti anni, sino al termine dell’opera22. È infine forse vero il famoso detto secondo cui più affidabili delle orecchie sono gli occhi, che però sono più diffidenti ed esigono una maggiore evidenza. Di Zeus io ho scelto un solo connotato tra i molteplici, scartandone quelli più dinamici di irascibile signore della guerra e degli elementi in quanto non degnamente visualizzabili dalla scultura per la sua fissità e staticità (e se anche fosse stato possibile non l’avrei comunque fatto); l’ho ritratto pacifico e mite, sereno, austero e imperturbabile, come colui che dà la vita e ogni altro bene, nei limiti delle mortali possibilità di concepire e rappresentare l’inesprimibile natura divina23. Guarda allora se questa statua che non può ricorrere alla parola non tenga testa ai diversi – ben quattordici – epiteti attribuiti al dio (tra cui Padre e Sovrano degli dèi; Protettore di città; Signore dell’amicizia e dei sodalizi; Dio dei supplici e degli ospiti; Dispensatore di frutti): l’imponenza e la maestosità dell’immagine indicano il potere e la sovranità del dio; l’espressione mite e benevola significa che è padre sollecito, mentre l’aspetto regale e austero rimanda agli epiteti di Protettore di città e Custode di leggi; l’indulgenza e la bontà che traspaiono dalla figura vogliono indicare la funzione di Signore dell’amicizia, Dio dei supplici e degli ospiti, Protettore degli esuli e così via. Se qualcuno poi giudicasse il materiale utilizzato troppo vile per la dignità del dio, non avrebbe torto, ma non potrebbe biasimare a ragione né coloro che lo hanno fornito né l’artista che lo ha scelto e approvato, perché non c’era in natura materia migliore o più abbagliante per lo sguardo che potesse essere lavorata; da Fidia e da Policleto non potete pretendere di più! D’altronde, nemmeno a Efesto Omero ha dato la possibilità di mostrarsi abile con altri materiali: per la lavorazione dello scudo di Achille pensò bene a un dio come artista, ma per quanto riguarda la materia non seppe trovarne una diversa dal bronzo! 22   Siamo di fronte al concetto di phantasía, anche se il discorso più volte contiene il vocabolo mimesi e i suoi derivati, per cui si è giunti a parlare di un «idealismo realista». 23   Fidia rivendica qui l’intera responsabilità del programma iconografico, il che è di fatto discutibile, e la lettura irenica della statua adombra la concezione stoica di un dio supremo e benefattore, dietro il quale a più riprese è stato intravisto persino l’imperatore romano Traiano, allora ammonito sul retto esercizio della regalità.

X. «A nessuno degli uomini potrei concedere...»

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A nessuno potrei concedere di essere stato più grande scultore di me, ma naturalmente nessun uomo, nemmeno io, si può confrontare con Zeus in persona, l’artefice dell’intero cosmo. Qui finisce il discorso di Fidia, seguito da una sconsolata constatazione di Dione sulla Grecia dei suoi giorni che gli si svela per quel che è: intorno a lui c’era desolazione, con l’Ellade immiserita per senescenza, per cui i valori antichi avevano il fascino di una vana rievocazione, salvo per i pochi in grado di afferrare i punti salienti del discorso. In breve, l’orazione sintetizza il meglio che la tradizione colta aveva da offrire a favore della rappresentazione antropomorfa del divino: lungi dal consentire un’equivalenza o un rapporto ontologico con la divinità, l’immagine stabilisce un compromesso per sollecitare una religiosità autentica nella gente semplice e agisce da simbolo, e che simbolo se fatto da Fidia!24 Del resto, un altro filosofo e retore greco alla fine del II secolo d.C., Massimo di Tiro, chiude così la dissertazione Se si debbano innalzare statue agli dèi: «Ogni popolo si raffiguri il divino come vuole, purché se lo raffiguri; e se gli Elleni sono stimolati al ricordo del dio dall’arte di Fidia, gli Egiziani dagli onori per gli animali, altri dal fiume, altri dal fuoco, pazienza per queste dissonanze»25. In fondo, il più bel complimento a Fidia arrivò intorno alla metà del III secolo d.C. dal teologo cristiano Origene nel Contro Celso26; di fronte al rimprovero mosso ai cristiani perché evitano di costruire altari, statue e templi, egli risponde che le immagini e le offerte votive convenienti a Dio sono non costruite da artigiani ignoranti, ma manifestate e modellate dal Logos di Dio, concedendo però che alcuni avessero realizzato opere meravigliose, come Fidia e Policleto e i pittori Zeusi ed Apelle. Nell’orazione di Dione l’artista è chiamato a comparire di fronte a una commissione per giustificare il proprio operato, stavolta solo artistico: il suo coinvolgimento in un processo era diventato un argomento popolare nella cultura retorica. Seneca il 24   Gli uomini imparano così a leggere le statue come fossero pagine di un libro, come scritto nel Sui simulacri (fr. 1) dal filosofo del III secolo d.C., Porfirio, laddove le statue diventano personificazioni con prerogative simboliche finalizzate a collegare, per quanto possibile, gli uomini con l’ineffabile divino (si veda anche la fine del fr. 3). 25   Massimo di Tiro Diss. 2,10. 26   Origene VIII,17-18.

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retore, il padre del più noto Seneca, compilò all’inizio del I secolo d.C. un’antologia declamatoria sotto forma di controversiae e suasoriae, discorsi fittizi imitanti rispettivamente un plaidoyer giudiziario e un’arringa deliberativa, con soggetti di fantasia o storici di origine greca o romana. Una delle controversie27 ha per tema «che il sacrilego abbia le mani tagliate»: gli Ateniesi prestarono Fidia agli Elei per lo Zeus a condizione che poi lo rimandassero indietro o che pagassero 100 talenti; gli Elei però lo accusarono di aver sottratto l’oro destinato alla statua e gli tagliarono le mani; gli Ateniesi reclamarono allora i 100 talenti pattuiti per la mutilazione inflittagli. Essi sostenevano di non poter più prestare Fidia, che creò il suo Zeus prima nell’animo e poi nell’opera28; la punizione inflitta dagli Elei era un attentato contro gli dèi, perché le mani di Fidia erano consacrate; avevano dato in prestito un uomo capace di scolpire le divinità, ma erano costretti a riprendersene indietro uno che non sapeva neppure più sollevare le mani in atto di preghiera; il Giove era talmente ben riuscito che gli Elei vollero farne l’ultimo lavoro; in breve, gli Ateniesi pretendevano la restituzione delle mani, perché altrimenti l’uomo restava, ma l’artista era morto (superest homo, sed artifex periit). Abbiamo visto le opere e parlato con la voce dell’artista: con la sua morte è ora di scrivere la parola Fine. 27   Seneca il retore Controversiae VIII,2 exc.: Falaschi 2012, pp. 215 sg. (con menzione e relativa traduzione anche di un brano dell’Ars Rhetorica dell’Anonimo Segueriano). 28   Riecco la phantasía, che, opposta alla mimesi, appare anche in un’altra controversia (X,5,8): il pittore Parrasio è accusato di aver torturato un vecchio schiavo per dipingere meglio un quadro rappresentante Prometeo incatenato e rimproverato da un oratore, memore di come Fidia avesse non visto, bensì concepito Giove e Minerva.

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Referenze fotografiche Fig. 1 Da Mallwitz, Schiering 1964, tav. 64. Fig. 2 Foto Autore. Fig. 3 The J. Paul Getty Museum, Villa Collection, Malibu (California). Fig. 4 Da Vidale, Prisco 1997, fig. 1. Fig. 5 Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. Foto: Johannes Laurentius. © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. Fig. 6 Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. Foto: Johannes Laurentius. © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. Fig. 7 D.A.I. Atene. Fig. 8 Museo dell’Arte Classica, Università di Roma La Sapienza. Fig. 9 D.A.I. Atene. Fig. 10 D.A.I. Atene. Fig. 11 Da Stevens 1936, fig. 44. Fig. 12 © Trustees of the British Museum. Fig. 13 Dresda, Skulpturensammlung, Staatliche Kunstsammlungen. Fig. 14 Foto Autore. Fig. 15 D.A.I. Roma. Fig. 16 Kassel, Museumslandschaft Hessen, Antikensammlung. Fig. 17 Kassel, Museumslandschaft Hessen, Antikensammlung. Fig. 18 Da G.P. Stevens, The Setting of the Periclean Parthenon («Hesperia» Suppl. 3), Baltimore 1940, fig. 2. Fig. 19 © Trustees of the British Museum. Fig. 20 © Trustees of the British Museum. Fig. 21 © Trustees of the British Museum. Fig. 22 © Trustees of the British Museum. Fig. 23 Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. Foto: Johannes Laurentius. © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. Fig. 24 © Trustees of the British Museum. Fig. 25 © Trustees of the British Museum. Fig. 26 © Trustees of the British Museum. Fig. 27 © Trustees of the British Museum. Fig. 28 Roma, Museo Nazionale Romano. Su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo. Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Fig. 29 D.A.I. Atene. Fig. 30 D.A.I. Atene.

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Referenze fotografiche

Fig. 31 Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig/Andreas F. Voegelin. Fig. 32 Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig/Andreas F. Voegelin. Fig. 33 Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung. Foto: Johannes Laurentius. © 2013. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin. Fig. 34 © Trustees of the British Museum. Fig. 35 Su concessione del Royal Ontario Museum © ROM. Fig. 36 Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Fig. 37 Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Fig. 38 D.A.I. Atene. Fig. 39 Museo dell’Arte Classica, Università di Roma La Sapienza. Fig. 40 D.A.I. Atene. Fig. 41 © Trustees of the British Museum. Fig. 42 Da Gauer 1988, fig. 2. Fig. 43 Da Bildhauerkunst 2004, fig. a p. 146 (ricostruzione di R. Bol). Fig. 44 D.A.I. Madrid foto Patterson R18-03-06. Fig. 45 Roma, Archivio fotografico dei Musei Capitolini. Fig. 46 Roma, Archivio fotografico dei Musei Capitolini. Fig. 47 Roma, Archivio fotografico dei Musei Capitolini. Fig. 48 Da Miti greci. Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al collezionismo, Milano 2004, fig. a p. 120. Fig. 49 Museo dell’Arte Classica, Università di Roma La Sapienza. Fig. 50 Da Bunte Götter. Die Farbigkeit antiker Skulptur, München 2003, fig. a p. 256. Fig. 51 Da Hennemeyer 2012, fig. 6. Fig. 52a Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Su concessione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, Firenze. Fig. 52b Foggy Art Museum, Harvard University, Cambridge (Mass.). Fig. 53 Foto Autore. Fig. 54 Da Eichler 1960, fig. 11. Fig. 55 San Pietroburgo, The State Hermitage Museum. Photograph © The State Hermitage Museum - Photo by Vladimir Terebenin, Leonard Kheifets, Yuri Molodkovets. Fig. 56 © Trustees of the British Museum.

Indici

Indice dei nomi* Acamante, 54. Achille, x, 29, 190 e n, 204, 210. Ade, 135. Adrasto, 50. Adriano, ix, 183, 197. Afrodite, viii, 69-70, 105, 107, 130, 173, 174 e n, 175 e n, 177, 178n, 191192, 197, 205; fig. 49. Agatarco, 89. Agelada di Argo, 33, 40, 46, 51, 52 e n, 54. Aglaia, 124, 184. Aglaofonte, 207. Agoracrito di Paro, x, xin, 112, 130, 173, 182. Aiace di Salamina, 55, 189. Aiace Oileo, 189-190. Aiosa, S., 121n. Alberti, Leon Battista, 32n. Alcamene di Lemno, xx, 17n, 33, 39 e n, 77, 112, 130, 172-174, 177, 182, 202, 207. Alcmane, 124 e n. Alessandro Magno, xi, 18, 69, 159. Amandry, P., 53n. Ameling, W., 9n, 15n, 110n. Amelung, W., 73n. Ampelio, 154n. Anacreonte, 15, 149. Anassagora di Clazomene, 8-9, 22, 132. Anassagora di Egina, 49. Anchise, 197. Androclo, 159, 161. Anfitrite, 191. Angelitos, 51.

Annibale, xi. Antenore, 23. Antigono I Monoftalmo, 54, 155. Antioco (eroe eponimo), 54. Antioco Athenaîos, xvii. Antiope, 149-150, 187. Apelle, 21, 199n, 211. Apollo, 39, 47n, 49, 52-54, 57, 59, 64, 79 e n, 80 e n, 81, 84, 121, 123 e n, 156n, 186, 188, 191, 194 e n, 195. Apollodoro di Atene, 204n. Apollodoro di Damasco, 90n, 197. Apollonio di Tiana, 205 e n. Apuleio, 154n. Arafat, K.W., 140n. Archiloco, 15. Arctino di Mileto, 191n. Ares, 50, 112, 150, 190-191; fig. 34. Areta, ix-x. Arias, P.E., 148n. Arimnesto, 48, 50. Aristide, xn, 49, 52. Aristodemo, 7n. Aristofane, 5, 7n, 9-10, 17n, 19, 24n, 25, 61n, 124n, 140, 149n. Aristotele, 21n, 23n, 25, 43n, 108 e n, 200. Arnobio, 13n. Arpocrazione, 98n. Arriano, xn. Artaferne, 59. Artemide, 103n, 105, 121, 158, 160, 175n, 186, 191-192, 194-195; fig. 43. Artemone, 160. Artmio di Zeleia, 61n.

* Per la frequenza con cui compaiono nel testo, si è scelto di non indicizzare i nomi di Atena, Fidia e Pericle. In corsivo i nomi dei personaggi moderni e contemporanei.

258 Asclepio, x, 110-111. Aspasia, 8. Aspasio, 119n; fig. 28. Asterio, 93. Atenagora, xn. Ateneo, viin, 46n, 115n, 118n, 174n, 175n. Atlante, 189, 191. Augusto, xv. Aurenhammer, H.H., 32n. Aurenhammer, M., 193n. Avramidou, A., 149n. Banfi, A., 8n, 9n, 10n, 11n, 12n, 15n, 132n. Barletta, B.A., 95n. Barolsky, P., 157n. Barringer, J.M., 192n. Barron, P.J., 39n. Bassett, S., xn. Bauman, R.A., 9n, 10n. Bearzot, C., 103n. Beazley, J.D., 29n, 124n, 171n. Becatti, Giovanni, xivn, 39n, 41n, 51n, 60n, 71n, 80n, 83, 110 e n, 143n, 151n, 167n, 174n, 177n, 179n, 182n, 185n. Bellerofonte, 76, 121, 123. Benediktson, D.T., 202n. Benson, C., 106n. Bentz, M., 121n. Berczelly, L., 131n, 137n. Berger, E., 96n. Bernhard, Thomas, 169. Bertelli, L., 10n. Beschi, L., 54n, 96n, 102n. Bianchi Bandinelli, Ranuccio, 17, 18n, 42 e n, 43, 44n. Biraschi, A.M., 161n. Bloch, H., 9n. Blümel, C., 177n. Boardman, J., 98n, 100n, 131n, 134n, 150n. Bodei Giglioni, G., 22n. Bol, P.C., 177n, 185n, 199n. Bol, R., 160n, 161n, 167n, 168n. Bommelaer, J.-F., 53n. Borbein, A.H., 44n, 84n, 107n, 111n, 168n. Bordenache Battaglia, G., 119n. Borghini, Vincenzo, 15. Brandi, Cesare, v.

Indice dei nomi Brommer, F., 90n, 98n, 101n, 107n, 108n, 177n. Broneer, O., 14n. Brulé, P., 98n, 102n. Burford, A., 33n, 68n, 111n. Burton, D., 192n. Buschor, Ernst, xix-xx. Byvanck, A.W., 9n. Calamide, 70, 80 e n, 81, 202. Caligola, ix. Callia, 70, 85. Callicrate, 89. Callimaco (poeta), 158n, 197n, 203. Callimaco (stratego), 48, 54, 57, 59. Callistrato, 68. Callone di Elide, 40, 202. Calvino, Italo, 95. Cambiano, G., 22n. Canfora, L., 3n. Canova, Antonio, v, viii, 107, 109n. Carete, 67. Cariti, 129-130, 184 e n, 191n, 192, 197. Carmide, 11, 19, 30, 32, 187. Caro, Annibal, 114. Cassandra, 189. Cassio Dione, ixn, 156, 197n. Castriota, D., 50n, 51n. Catoni, M.L., 13n, 18n, 26n, 28n. Catulo, Q. Lutazio, xi. Cecrope, 54, 98, 125. Cedreno, ixn. Celeo, 135. Cellini, G.A., 207n. Chamoux, F., xviiin. Charis, 191 e n. Chartas, 20. Chatzidimitriou, A., 28n. Chelotti, M., 202n. Childs, W.A.P., 195n. Chirassi, I., 207n. Cibele, x. Cicerone, M. Tullio, viin, 12 e n, 143 e n, 153 e n, 156, 204 e n, 205. Cidone, 158, 170. Cimone, 25, 49, 51-52, 54-55, 56 e n, 58-60, 61n, 69-70, 71 e n, 85, 87, 89, 92, 187. Cinegiro, 57, 59. Cistaro, M., 70n, 167n, 199n. Clairmont, C.W., 194n.

Indice dei nomi Clemente Alessandrino, viin, 13n. Cleone, 8n, 24. Clistene, 3, 22, 44, 54. Clitone, 200. Coarelli, F., 18n. Codro, 54-55, 159. Colote, 140, 182. Connelly, J.B., 98n, 130n. Consoli, V., 77n. Coreso, 159. Corso, A., xxn, 33n, 161n, 171n, 173n, 174n. Costantino, ix. Coulton, J.J., 108n. Cratino, 89 e n. Cresila, 158, 161 e n, 169 e n, 170. Creso, 160. Creusa, 124. Crisippo, 186. Crizio, 33, 35, 51n, 84; fig. 8. Croissant, F., 177n, 178n. Crono, 191. Ctesilao, 169n. Culasso Gastaldi, E., 71n. D’Agostino, B., 19n. D’Alessio, M.T., xin. Dally, O., 177n. Damasia, 21. Damofonte di Messene, viii e n. Dati, 59. Davison, C.C., viin, xn, xviin, 9n, 51n, 60n, 67n, 68n, 71n, 80n, 118n, 121n, 128n, 143n, 167n, 174n, 179n, 181n, 188n. de Angelis, F., 56n, 57n, 153n, 155n. Dedalo, 152n, 154, 207. Delivorrias, A., 78n, 90n, 94n, 102n, 103n, 108n, 111n, 168n, 174n, 175n, 177n, 178n. della Robbia, Luca, 172n. Della Seta, A., 84n. Demetra, 89, 103, 112, 175. Demetrio Poliorcete, vii, 54, 155, 156n. Demisch, H., 121n. Demostene, 60, 61 e n. Denoyelle, M., 27n. Desideri, P., 207n. Despinis, G.I., xin, xviin, 58n, 59n, 103n, 174n. Deubner, L., 78n. Devambez, P., 160n.

259 de Waele, J., 182n. Di Branco, M., viiin. Di Cesare, R., 10n, 153n, 155n. Diels, Hermann, 45n. Dietrich, N., 148n, 152n. Dike, 184. Dinsmoor, W.B., viin, viiin, 64n, 67n, 68n. Diodoro Siculo, 7, 9, 11n, 49n, 88n, 116n. Diogene Laerzio, 136n. Dione Crisostomo, 15n, 33n, 121n, 154n, 191, 202n, 203n, 204n, 206208, 211. Dionigi di Alicarnasso, 200n. Dionisio I, vii. Dioniso, 103, 112, 159, 184n. Dioniso (scultore), 40. Diopite, 8. Doepner, D., 163n. Dohrn, T., 165n, 167n, 168n. Domiziano, 80. Donderer, M., 187n. Donnay, G., vin, viin, ixn, 9n, 10n, 11n, 116n. Donohue, A.A., 136n. Dörig, J., 41n. Dörpfeld, W., 41n, 188n, 196n. Dracontide, 8n. Dürer, Albrecht, xx. Duride di Samo, 170n. Ecate, 105. Echetlo, 57. Echidna, 186, 189. Eckstein, F., 155n. Edipo, 50. Efeso, 159. Efesto, 19 e n, 21, 29, 78, 96, 103, 124125, 130-131, 161, 191 e n, 197, 208, 210. Efialte, 3, 59. Eforo di Cuma, 7n. Egeo, 54, 174. Egia/Egesia, 33 e n, 202. Ehrhardt, W., 131n, 132n. Eichler, F., 193n. Eirene, 184. Elena, 130. Eliano, viin, 198n. Elio, 92, 105, 129, 131-132, 140, 191. Elio Aristide, ix, 49n, 61n, 69, 136.

260 Ellade, 189. Ellinghaus, C., 94n, 98n, 110n. Elpinice, 25, 60, 70, 155. Elsner, J., 35n. Encelado, 140; fig. 37. Eneo, 55. Enomao, 39, 190. Epimeteo, 131. Epitteto, 203n. Epizelo, 57. Era, 15-16, 182n, 186-187, 189, 191192, 205. Eracle, 38, 39n, 46, 52n, 53, 57, 76, 149, 158, 187 e n, 188-191. Eraclito, 44 e n. Ercole, xi. Eretteo, 54, 56. Eris, 209. Erittonio, 96, 124-125, 130-131. Ermes, 5, 112, 190, 191 e n. Ermippo, 8, 118n. Erodoto, 19-21, 50, 92n, 118n, 123 e n, 125n, 150n, 151n, 152 e n, 170n. Eros, xvii, 174, 191. Eschilo, vi, 47 e n, 57, 123n, 135, 150 e n, 175, 179, 186, 190. Eschine, 56n, 153n. Esichio di Alessandria, 79-80, 98n. Esiodo, 130, 186, 191, 204. Estia, 178, 191 e n, 192. Eteocle, 50. Eudocia, 98n. Eufronio, 26-28; fig. 3. Eumenidi, 150. Eunomia, 184. Euphrosyne, 184. Eurigania, 50. Eurinome, 184. Euripide, 92, 124 e n, 175n, 187. Eutichide di Mileto, 32. Eutimide, 26-27. Evenore, 51, 59n, 60, 65, 75. Fabio Pittore, 153. Fadinger, V., 80n. Faillo di Crotone, 13. Falaschi, E., 5n, 6n, 10n, 11n, 156n, 212n. Faulstich, E.I., 179n. Fazzo, V., 207n. Fehr, B., 14n, 90n, 98n, 103n, 110n, 117n, 125n, 130n, 154n.

Indice dei nomi Ferecide, 55. Ferrari, G., 92n. Ferri, S., 207n. Feyel, C., 19n. Filemone, 15. Fileo, 54-55. Filocoro, 6, 9-11, 98n, 116n. Filone di Alessandria, xvii e n. Filostrato, 205 e n. Fink, J., 121n, 179n, 182n. Fiorini, L., 56n. Fitts, R.L., 9n. Fittschen, K., 35n, 53n. Fleischer, R., 160n. Floren, J., 143n, 165n. Fontana, Domenico, xii. Forbat, F., 196n. Formigli, E., 80n. Fortuna, xi. Fradmone, 158, 161 e n, 170, 171 e n. Francis, E.D., 51n. Franke, P.R., 183n. Frickenhaus, A., 10n, 11n, 177n. Froning, H., 175n. Frost, F.J., 9n, 11n. Furtwängler, Adolf, xivn, xix e n, 9n, 61n, 64n, 73n, 167n. Gallo, L., 22n, 116n. Gangloff, A., 207n. Gasparri, C., 171n, 174n. Gasparro, D., 94n. Gauer, W., 53n, 56n, 60n, 61n, 98n, 143n, 148n, 150n, 154n, 158n. Ge, 98n. Gea, 131, 191. Gentili, G.V., 194n. Geominy, W., 194n. Gercke, P., 80n. Giacometti, D., 52n. Gianuario Nepotiano, 115n. Giglioli, G.Q., 179n, 188n, 197n. Gill, D.W.J., 68n. Giotto, 157. Giovannini, A., 88n. Giove, 202-203, 205, 212 e n. Gisler-Huwiler, M., 96n. Giudice, E., 121n. Giudice, G., 121n. Giuliani, A., 8n, 10n. Giuliani, L., 23n, 28n. Giuliano, A., 57n.

261

Indice dei nomi Giulio Paride, 115n. Giuman, M., 148n, 158n. Giuseppe Flavio, ixn. Giziada, 20 e n. Glaucone, 8. Gluck, Christoph Willibald, v. Gombrich, Ernst, 43, 44n, 172n. Gorgia di Sparta, 40-41. Gorgone, 69, 76, 120-121. Graef, B., 168n. Graepler, D., 18n. Grimm, G., 28n. Guarducci, M., 18n. Guidobaldi, M.P., 171n. Gulaki, A., 185n. Hafner, G., 121n, 155n. Häger-Weigel, E., 51n. Hallett, C.H., 47n. Hampe, R., 58n. Harris, D., viin, 78n. Harrison, E.B., 51n, 53n, 60n, 73n, 81n, 98n, 118n, 131n, 140n, 143n, 145n, 148n, 150n, 151n, 152n, 154n, 156n, 167n, 179n. Hartswick, K.J., 73n, 171n. Haug, A., 28n. Haydn, Franz Joseph, v. Heesen, P., 124n. Heilmeyer, W.-D., 14n. Heintze, H. von, 98n, 101n. Hektoridas, 111. Hennemeyer, A., viiin, 196n, 198n. Herbig, R., 121n. Herington, C.J., 135n, 137n. Hermias, 66n. Herrmann, H.-V., 181n. Hiller, S., 128n. Himmelmann, N., 9n, 15n, 18n, 23n, 28n, 58n, 81n, 96n, 106n, 108n, 110n, 111n. Höcker, C., 51n, 53n, 111n, 143n, 158n, 177n. Höckmann, U., 94n. Hoff, R. von den, 53n, 76n. Hofkes-Brukker, C., 177n. Hohl, E., 170n. Hölscher, F., 47n, 136n. Hölscher, T., 44n, 45n, 47n, 56n, 58n, 66n, 76n, 142n, 143n, 145n, 150n, 151n, 154n, 160n, 168n.

Holtzmann, B., 14n, 90n, 102n, 134n, 136n, 137n, 151n. Hurwit, J.M., 35n, 60n, 66n, 90n, 102n, 130n, 131n. Ictino, 17n, 89. Ilisso, 195n. Imerio, 70, 76, 86n, 117n. Imero, 191. Ingres, Jean-Auguste-Dominique, v, 206. Ioakimidou, C., 53n, 54n, 58n. Ione di Chio, 58n, 124. Iperbolo, 24. Ippodamia, 190. Ippolita, 187. Ippotonte, 55. Iride, 191n. Isocrate, 18, 89. Jenkins, I., 101n. Jockey, Philippe, xvi. Jordan, D.R., 32n. Kallet-Marx, L., 88n. Karakasi, K., 124n. Karanastassis, P., 119n. Karusos, V., 84n. Kasper-Butz, I., 60n. Kebric, R.B., 51n. Keesling, C.M., 51n. Kekulé, R., 177n. Kienast, D., 10n, 11n. Kirsten, E., 76n. Kissas, K., 33n. Klein, R., 11n. Klein, W., 77n. Kluwe, D., 56n. Knell, H., 197n. Koch, N., 32n, 66n. Kore, 103, 135. Korres, M., viin, 95n, 108n. Kosmopoulou, A., 130n, 192n. Kranz, Walther, 45n. Kreutz, N., 179n. Kreuzer, B., 64n. Kroll, J.H., 135n. Kron, U., 53n, 55n, 96n, 121n, 124n. Krumeich, R., 50n, 53n, 55n, 58n. Kunisch, N., 77n. Kyrieleis, H., 38n, 41n, 42n, 94n, 106n.

262 Lacare, vii. Lacroix, L., 64n. Laio, 186. Lambrugo, C., 171n. Lamer, H., 73n. Lanérès, N., 60n. Langlotz, E., xivn, 60n, 64n, 107n, 110n, 167n, 177n. Lanza, E., 88n. Laodice, 155. Lapatin, K.D.S., viin, 6n, 51n, 115n, 116n, 117n, 118n, 128n, 134n, 136n, 137n, 177n, 185n. La Rocca, E., xiin, 81n, 106n, 111n, 150n, 160n, 186n, 187n. Latona, 121, 186, 195. Laurens, A.-F., 23n, 27n, 28n. Lauter, H., 18n. Leagro, 8, 13; fig. 3. Le Glay, M., xviin. Leipen, N., 118n, 121n, 128n. Lelli, E., 203n. Lendle, O., 6n, 9n. Leocrate, 69. León, P., 161n. Leonardo da Vinci, v. Leone di Nemea, 189. Leos, 54. Lesis, 32. Lévy, E., 23n. Lewis, S., 29n. Lezzi-Hafter, A., 154n. Licino, 69-70. Licomede, 55. Licurgo, 20. Liegle, J., 179n. Linfert, A., xn, xviin, 51n, 59n, 64n, 71n, 76n, 182n. Lippold, G., 11n. Lippolis, E., 39n, 77n, 80n, 175n, 182n. Lisandro, 58. Lisippo, xii, 201. Loewy, E., 42n, 44n. Lomazzo, Giovanni Paolo, v. Lo Monaco, A., 182n. Löwy, Emanuel, 43. Luciano, ix e n, xviin, 16-18, 24 e n, 31-32, 33n, 69-70, 73, 117 e n, 167 e n, 168, 198n, 203 e n. Lucio Vero, 69, 167. Lundgreen, B., xviiin, 60n, 64n, 66n.

Indice dei nomi Mackay, E.A., 124n. Macrobio, 204n. Maderna-Lauter, C., 174n. Maffei, S., 205n. Magi, F., 71n. Mallwitz, A., vn, viiin, 13n, 14n, 125n, 171n, 181n, 182n. Mandel, U., 143n, 149n, 165n, 194n. Mangold, M., 127n. Männlein-Robert, I., 204n. Mansfeld, J., 9n, 10n, 11n. Mansouri, S., 23n, 24n. Maratone, 57. Marchiandi, D., 71n. Marconi, C., 95n. Marginesu, G., 7n, 8n, 22n, 68n, 88n, 90n, 108n, 110n, 116n. Marino, viii. Mark, I.S., 97n. Marsia, 46. Martini, W., 44n, 151n. Marx, P.A., 124n. Marziale, xi, xiin. Massimo di Tiro, 211 e n. Mathiopoulos, E., 60n. Mattern, T., 134n, 188n. Mattusch, C.C., 58n. Mauruschat, D., 143n. Meier, C., 23n. Melanippide, 24n. Menesteo, 56. Menone, 7-8, 10-11. Metis, 132. Metzler, D., 155n, 156n. Meyer, H., 73n, 143n, 148n, 154n, 156n, 193n. Meyer, M., 56n. Michaelis, A., 64n, 168n. Michelangelo, v-vi, 157, 195, 206. Micheli, M.E., 129n. Micone (padre di Onata), 25. Micone (pittore), 41, 57 e n. Milziade, 48-49, 52-55, 57, 58 e n, 59 e n, 71, 81, 153 e n. Milziade il Vecchio, 55. Minerva, viii, xi, 61, 70, 202, 205, 212n. Mirone di Eleutere, xii, 33, 46, 117, 202. Mironide, 69. Mnesicle, 61; fig. 11. Moesch, V., 171n. Moggi, M., 71n.

Indice dei nomi Moire, 174. Mommsen, A., 55n. Monaco, M.C., 64n, 88n. Mondrian, Piet, 33. Moreno, P., xivn, 33n. Moret, J.-M., 94n. Morgan, C.H., 13n, 182n, 197n. Morris, S.P., 44n, 130n, 156n. Mosch, H.-C., 80n. Mostratos, G., 103n. Muller-Dufeu, M., 19n, 32n. Muth, S., 94n, 140n, 148n. Mylonopoulos, J., 137n. Mys, 60, 65, 66 e n, 139. Naas, V., 201n. Natale, A., 19n. Nearco, 23. Neer, R.T., 28n. Neils, J., 29n, 60n, 90n, 101n, 108n. Nemesi, 71, 130, 173. Nerone, xii, 67n. Nesiote, 17n, 33, 35, 51n. Neumann, G., 73n. Niceta Coniate, x e n. Nicia, xxn, 12. Nick, G., 60n, 81n, 115n, 128n, 135n, 136n, 137n. Niemeyer, H.G., 51n, 60n. Nike, vi, 39, 65, 107, 120, 125, 127, 171, 181, 183-184, 185 e n, 189. Niobe, 186, 195. Nolte, S., 33n, 117n. Nonio Vindice, xi. Odisseo, 50. Ohnesorg, A., 160n. Omero, v, 19, 24n, 39, 159, 184, 186, 204, 209 e n, 210. Onasia, 50. Onata, 25, 41. Onesimo, 22. Ore, 129-130, 184 e n, 192, 197. Origene, 211 e n. Orto, 186. Osada, T., 101n. Osanna, M., 175n. Osmers, M., 103n. O’Sullivan, P., 207n. Ovidio, 61n.

263 Pala, E., 78n. Palagia, O., 90n, 131n. Pandione, 54. Pandora, 128-132; fig. 34. Pandroso, 98 e n, 103, 125. Paneno, 32, 41, 43, 52, 57 e n, 58, 140, 170, 182, 188-190, 204 e n. Panfilo, 21. Panofsky, E., 204n. Pantarce, 12, 187. Pantea di Smirne, 69-70, 167. Paolo, L. Emilio, xi, 203. Paride, 76. Parmeggiani, G., 7n. Parrasio, 46n, 60, 66 e n, 200, 212n. Pasitele, 182n. Patay-Horváth, A., 38n. Pausania, vii e n, viii e n, ix e n, x e n, 12 e n, 14 e n, 20n, 25n, 33n, 38 e n, 39 e n, 40, 49 e n, 50, 51 e n, 52n, 53 e n, 54 e n, 55, 58 e n, 60, 61n, 69-70, 77 e n, 78n, 79 e n, 80n, 101n, 118 e n, 119n, 123-124, 134 e n, 135n, 140n, 144n, 149 e n, 150n, 156n, 158 e n, 159, 173n, 175 e n, 177, 182n, 184 e n, 186, 187n, 188 e n, 191, 197, 198 e n, 199 e n, 203 e n. Pegaso, 121. Peito, 130, 191. Pekáry, T., 156n, 200n. Pellegrini, E., xviin, 174n. Pelope, 39, 186, 190. Pentesilea, 190. Peonio di Mende, 39. Pernot, L., 207n. Persefone, 189. Perseo, xi, 76, 121. Pesely, G.E., 9n. Petersen, E.A.H., 179n, 192n. Petrarca, F., xiv e n. Pfeiffer, R., 197n. Pfuhl, E., 64n. Philipp, H., 18n, 23n, 28n, 116n, 121n, 142n. Phintias, 26-27. Phobos, 150. Piccirilli, L., 12n, 88n. Pick, B., 64n. Pindaro, 47, 58, 134, 135n, 158, 161, 184 e n, 186, 192, 197n. Pinelli, A., 114n. Pirenne-Delforge, V., 174n.

264 Piritoo, 39, 94, 187, 189. Pironti, G., 175n. Pisetero, 140. Pisianatte, 56. Pisistrato, 22, 80. Pitagora di Samo/Reggio, 40, 42. Pitodoro, 6. Platone, 19, 23n, 24 e n, 26 e n, 32n, 100n, 116 e n, 119n, 134, 135n, 204n, 205. Platt, V., 47n, 130n, 136n, 207n. Plinio il Vecchio (C. Plinio Secondo), x e n, xi e n, xiin, xivn, 21n, 32n, 33n, 38 e n, 39 e n, 43n, 58, 61, 65, 66n, 67n, 70 e n, 119n, 121, 139, 140n, 158 e n, 160 e n, 169n, 170 e n, 173n, 182 e n, 198n, 201. Plommer, W.H., 70n. Plotino, 206n. Plutarco, viin, xxn, 4, 5n, 7, 8 e n, 9-11, 15 e n, 17 e n, 18, 20n, 21n, 22 e n, 25 e n, 26n, 49 e n, 56n, 58n, 59-60, 85n, 87 e n, 88, 89 e n, 90n, 110, 114, 117 e n, 150n, 153n, 154 e n, 155n, 156n, 158n, 175 e n, 202n, 204n. Podlecki, A.J., 9n. Polibio, 204n. Policleto, xix, 15-17, 24n, 25, 32n, 33, 35, 38, 46, 84, 158, 160, 161 e n, 168 e n, 169-171, 198, 200n, 201-202, 205, 207, 210-211. Polignoto di Taso, 25, 43, 50-52, 57, 155, 207. Polinice, 50. Polistrato, 69-70. Poliziano, Angelo, 157. Pollitt, J.J., 99n, 103n, 201n. Polykles, 144. Pope, S.A., 88n. Porfirio, 47n, 211n. Poseidone, 30, 49, 58, 98n, 103, 170, 189-191; fig. 24. Pothecary, S., 197n. Poulsen, V., 154n, 156n. Prandi, L., 6n, 9n, 10n, 11n. Praschniker, C., 129n. Prassitele, ix, xiv, 33, 69, 79, 117, 205. Preisshofen, F., 137n, 156n, 201n. Priamo, 155. Priestley, J., 203n. Prisco, G., 29n. Proclo, viii, 206n.

Indice dei nomi Procopio di Cesarea, xii e n. Prometeo, 130-132, 189-190, 212n. Prost, F., vin, 138n. Protagora, 47, 97n, 116. Pseudo-Filone di Bisanzio, 198n. Pugliara, M., 29n. Quatremère de Quincy, Antoine Chrysostome, xvi, 109n, 188; fig. 50. Queyrel, F., 90n. Quintiliano, 33n, 202 e n, 204n. Raaflaub, K., 9n, 11n. Raeder, J., 71n, 167n. Raffaello, v, 47. Ragone, G., 158n. Raubitschek, A.E., 51n, 68n. Regolo, P. Memmio, ix. Rehak, P., viiin, 41n. Ribbeck, A., 143n, 149n, 167n, 194n. Richter, G.M.A., 197n. Ridgway, B.S., 60n, 73n, 111n, 128n, 167n. Ridley, R.T., 197n. Riethmüller, J.W., 111n. Ritter, S., 65n, 76n. Robertson, M., 28n. Robertson, N., 98n, 130n. Rodenwaldt, G., 66n. Rodin, Auguste, vi. Rolley, C., 35n. Romeo, I., 81n. Roscino, C., 51n, 56n. Ross Holloway, R., 41n. Rouveret, A., 201n, 203n, 204n. Roux, G., vin, 137n. Russo, F., 54n. Saladino, V., 174n. Salamina, 189. Salis, A. von, 103n, 140n, 150n, 151n. Sassu, R., 136n, 137n. Savona, S., 156n. Schäfer, T., 76n, 98n. Scheer, T., viin, 156n. Scheibler, I., 23n, 28n. Schiering, W., vn, 13n, 14n, 108n, 171n, 182n, 185n. Schmaltz, B., 60n, 137n, 158n, 168n. Schmidt, E., 80n.

Indice dei nomi Schneider, L., 51n, 53n, 111n, 143n, 158n, 177n. Schoch, K., 137n, 174n, 177n, 178n, 181n. Scholl, A., 177n. Schrader, H., 9n, 11n, 73n, 80n, 179n, 183n, 185n, 188n, 194n. Schröder, S.F., 59n. Schuchardt, W.-H., 107n, 119n, 129n, 154n, 194n. Schultz, P., 96n, 103n, 111n, 116n. Schwarze, J., 9n. Schweitzer, Bernhard, 10n, 18n, 90, 107n, 108n, 109n, 154n, 177n, 201 e n, 204n. Scitodoro, 6. Scopa, 51, 79. Selene, 92, 105, 129, 131-132, 140, 191. Seneca, L. Anneo (il Giovane), 212. Seneca, L. Anneo (il Vecchio), 211, 212n. Senocrate, 201. Senofane di Mileto, 45 e n, 47. Senofonte, 20n, 23, 24n, 85n, 101 e n, 200. Serse, 48, 151, 158. Servadei, C., 94n, 145n, 149n. Settis, S., 25n, 66n, 77n, 177n, 201n. Sève, M., viiin. Sfinge, 186 e n, 189, 193; fig. 54. Shearman, John, 107. Shefton, B.B., 194n. Silla, L. Cornelio, xi. Simon, E., 66n, 98n, 103n, 142n, 143n, 145n, 150n, 151n, 154n. Simonide di Ceo, 57. Sinn, U., 11n. Smikithos, 27. Smikros, 26-27; fig. 3. Socrate, 17, 20n, 23-24, 26, 100n, 134, 200. Sofocle, 20n, 24n, 45, 78, 101n, 155, 186, 192n. Solone, 21 e n. Sosias, 26. Sourvinou-Inwood, C., 98n. Spahn, P., 23n. Stadter, P.A., 11n. Stähler, K., 55n. Stansbury-O’Donnell, M.D., 51n, 57n. Stefanidou-Tiveriou, T., 143n. Steiner, A., 28n.

265 Steiner, D.T., 130n, 136n. Steinhart, M., 76n. Sterope, 190. Steuben, H. von, 168n. Stevens, G.P., viin, 64n, 68n, 69n, 118n, 125n, 128n, 134n. Stevenson, T., ixn, 95n, 101n. Stewart, A., 35n, 44n, 92n, 177n. Stichel, R.H.W., xn. Stilp, F., 186n. Stilpone di Megara, 136. Stirling, L.M., 119n. Strabone, 79n, 151n, 175n, 197 e n, 202n, 204n. Strocka, V.M., xin, 9n, 33n, 51n, 53n, 60n, 61n, 64n, 71n, 80n, 86n, 111n, 118n, 143n, 149n, 150n, 151n, 154n, 168n, 174n, 177n, 179n, 197n, 199n, 201n, 202n. Svetonio, ixn. Syadras, 20. Symeonoglou, S., 109n. Tacito, 158n. Talia, 184. Tamiri, 155. Tanner, J., 18n, 28n, 44n. Tantalo, 186. Teleclide, 25. Temi, 184. Temistio, 203n. Temistocle, 48-49, 52, 55, 58-59, 61n, 152, 170, 189. Teocosmo, 118. Teodoro, 6, 136. Teodosio I, ix. Tersini, N.D., 192n. Tersite, 191n. Teseo, 39, 53-57, 76, 81n, 94, 125, 149150, 154, 158, 174, 187 e n, 189. Tespesione, 205. Teti, x, 29, 190n, 204, 209. Theodotos, 111. Thielemann, A., xivn, 157n, 204n. Thompson, D.B., 140n. Thorvaldsen, Berthel, v. Timagora di Calcide, 170. Timarchides, 144. Timokles, 143. Timoteo, 111, 160. Tinnico, 47. Tolemeo III, 54.

266 Tolmide, 69. Traiano, 90n, 210n. Trasimede di Paro, x, 111. Triebe-Schubert, C., 9n. Trigeo, 5. Tuci, P.A., 12n. Tucidide, 4, 10, 88n, 111, 116n. Tucidide di Melesia, 8n, 12, 87-88. Tzetzes, Giovanni, xx, 33n, 172n, 173n. Urano, 174, 191. Valdés Guía, M., 18n, 21n. Valerio Massimo, viin, 153 e n, 204n. Vallarino, G., 39n, 77n, 182n. Van Mal-Maeder, D., 207n. Varrone, M. Terenzio, 169n. Vasari, Giorgio, 15, 201. Vatin, C., 57n. Veness, R., 151n. Vernant, J.-P., 191n. Vespasiano, xii. Veyne, P., 44n. Vian, F., 140n. Vidale, M., 28n, 29n, 78n, 101n, 171n. Vidal-Naquet, P., 19n, 23n, 55n. Vivó i Codina, D., 148n. Vlizos, S., 179n, 183n. Vogelpohl, C., 194n. Vogt, S., 80n. Völcker-Janssen, W., 192n. Vollkommer, R., 186n. Vorster, C., 121n. Walter, H., 140n.

Indice dei nomi Walter-Karydi, E., 44n. Weber, M., 118n, 129n, 165n, 168n, 177n. Weege, F., 41n. Weiler, I., 18n. Wesenberg, B., 9n, 95n, 98n, 99n, 106n, 110n, 117n, 134n, 151n. Wilamowitz, U. von, 15n. Williams, D., 23n, 28n. Wimmer, H.-H., 158n. Winckelmann, Johann Joachim, xix. Wrede, H., 96n, 100n. Wünsche, R., 160n. Xenokles, 32. Younger, J.G., viiin, 41n, 108n, 109n. Zaccagnino, C., 50n. Zenobio, 173n. Zenodoro, 67 e n. Zeus, v-viii, ix e n, x, 6, 11-16, 19, 24, 30, 33, 38-39, 46, 49, 52n, 70, 78, 90, 96-97, 103, 105, 118, 130, 132, 134, 136, 140, 156 e n, 178, 179 e n, 181184, 186-187, 189-192, 194n, 198, 203-205, 206n, 207, 209-212; figg. 50-51, 52 a-b. Zeusi, 24n, 89, 207, 211. Zimmer, G., 14n, 66n, 68n. Zimmermann-Elseify, N., 80n. Ziomecki, J., 28n. Zizza, C., 187n. Zuccari, Taddeo, 114. Zwierlein-Diehl, E., 156n.

Indice dei luoghi* Altamura, fig. 34. Amicle, 188. Argo, 15, 33, 50, 52, 156n, 161, 170, 205. Baltimora, 73. Berlino, 175. Bologna, 73.

Eleusi, 89, 129, 135. Elis, 140, 175, 178-179, 183, 199; fig. 52 a-b. Enoe, 56 e n, 57. Enofita, 51n. Epidauro, x, 80, 110, 111n. Eraclea, 182. Ercolano, 171n.

Camarina, 121n. Caprarola, 114. Capua, fig. 23. Cesarea, ix. Cirene, 50, 79. Citera, 174. Corcira, 199 e n. Corinto, 20, 49, 170, 199 e n. Costantinopoli, ix-x. Creta, 158. Cydonia, 158.

Heidelberg, 58n.

Delfi, xvii, 13, 49, 52-54, 56-60, 68, 76, 81 e n, 121, 159, 161, 170, 187n. Delo, 52, 64, 87, 123 e n. Dresda, 71n, 73.

Madrid, 59n. Maratona, 48, 49n, 52-58, 60, 61 e n, 100n, 153, 173. Megara, 5, 7, 10, 118. Melo, 103n. Metaponto, 163. Mileto, 8, 160. Monaco di Baviera, 193n. Myrina, 71.

Ecija, 161n. Efeso, xvii, 70, 158 e n, 159, 161 e n, 171n, 193; fig. 43. Efestia, 71. Egina, 25, 48. Egio, 52 e n. Egospotami, 58. Eione, 52, 56. Elatea, 144.

Kassel, 80 e n. Kerch, 194n. Koul-Oba, 121 e n. Lampsaco, 9. Lemno, 71 e n. Leucade, viii e n. Loukou, 165.

Nashville, 127. Naupatto, 33. Olimpia, v-vi, viii-ix, xvii, 6, 11 e n, 12-

* Per la frequenza delle occorrenze si è scelto di non indicizzare il toponimo Atene.

268 15, 19, 24-25, 28, 33, 38-39, 41 e n, 42, 49, 53, 75, 78, 84, 90, 93, 106, 111, 130, 134, 140n, 143, 161, 171, 178-179, 182, 184 e n, 186-192, 198, 199 e n, 203, 205-206; figg. 1, 9-10, 50-51, 52 a-b. Paphos, xvii. Paro, 38, 41n, 182n. Pellene, 51-52. Pergamo, xv, 129. Pidna, xi. Pisa, 15, 39, 179. Platea, xvii, 48, 50-52, 57, 60, 85, 88, 92, 137, 186, 197. Potidea, 88n, 199. Priene, xv. Ramnunte, 71, 130, 173. Riace, 33, 35, 42, 57, 66-67, 84. Rodi, 67 e n, 197. Roma, ix, xi-xii, xiv e n, 59n, 174, 186n, 187n, 197. Ruvo di Puglia, figg. 36-37.

Indice dei luoghi Salamina, 13, 48, 52, 55, 152, 170. Samo, 46, 160. Samosata, 16. Sciro, 52, 54-55. Sicione, 21. Siracusa, vii, 42. Smirne, ix. Sparta, 6, 11, 20, 24, 58, 188, 199. Taranto, xivn. Taso, 51. Tebe, 39n, 48, 50, 186. Temiscira, 149, 187. Tespie, 48. Timgad, xvii. Trezene, 48. Troia, 56-57, 65, 92 e n, 132, 139, 189190. Venezia, 175. Vulci, 29; figg. 4-6.

Indice del volume Introduzione Come dar corpo a un fantasma

v

I.

Il processo a Fidia: un «furto d’autore»

3

II.

Chi ha mai sognato di diventare Fidia?

16

III. Fidia giovane e il risveglio di una «principessa addormentata nel bosco»

32

IV. Fidia e Atena: gli anni della consacrazione

48



Intermezzo. Un dio cacciatore di cavallette per l’acropoli 79

V.

La decorazione del Partenone: Fidia dov’è?

87

VI. Atena «Parthénos»: la grandezza nei particolari

115

VII. «Fare a pezzi lo scudo di Fidia non è come fare a pezzi una scopa»

139

VIII. Un concorso, quattro amazzoni e un perdente

158

IX. Una competizione tra padre e figlia

179

X.

«A nessuno degli uomini potrei concedere di essere stato più grande scultore di me»: parola di Fidia

200

Bibliografia 213

270

Indice del volume

Referenze fotografiche 253 Indice dei nomi 257 Indice dei luoghi 267