Fenomenologia della fine del mondo. Science fiction e fantasy dall'Ottocento a oggi 8878706299, 9788878706293

L’ingegneria genetica, le nanotecnologie, l’intelligenza Artificiale, la robotica, l’esplorazione spaziale e le reti pro

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Fenomenologia della fine del mondo. Science fiction e fantasy dall'Ottocento a oggi
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BIBLIOTECA DI CULTURA − 727 −

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RICCARDO NOTTE

FENOMENOLOGIA DELLA FINE DEL MONDO Science Fiction e Fantasy dall’Ottocento a oggi

BULZONI EDITORE

In copertina: Antonio Salviani, Spider after Bomb

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-629-3 © 2012 by Bulzoni Editore S.r.l. 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

Il loro universo è molto giovane e il loro dio è ancora un bambino. Ma è troppo presto per giudicarli; quando torneremo nei Giorni del Giudizio, valuteremo che cosa si debba salvare. Arthur C. Clarke Dal principio dei tempi le parole hanno avuto a che fare con la Fine del Mondo (forse la maiuscola bastava a Fine). Esse sono contemporanee alla fine del mondo, giacché codesta fine è perenne. Intendo dire che il nostro progetto nel mondo include sempre codesta fine, non la consuma mai. Senza fine del mondo, non vi sarebbero parole. Giorgio Manganelli Che l’uomo non realizza il suo compito, ognuno lo sa; e meglio che di giorno, lo sa di notte. Di qui il tormento dei sogni degli esami; esistono dei sogni, pieni di angoscia, durante i quali si ha l’impressione di sostenere un esame o un’interrogazione; essi riguardano la razza umana e il Giudizio universale. Segue un sereno risveglio. Ernst Jünger

Indice

Premessa ......................................................................................... p.

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Cap. I. Grandi apocalizzatori moderni 1.1 Apocalissi pure e spurie ...................................................... 1.2 La logica degli elementi ...................................................... 1.3 La fine dell’uomo secondo Mary Shelley ........................... 1.4 L’Apocalisse aerea da Jack London a James Cameron ...... 1.5 Catastrofi uraniche e collassi terrestri .................................

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Cap. II. Apocalissi mistiche e filosofiche del primo Novecento 2.1 Il vincolo escatologico ......................................................... 2.2 La fine del mondo secondo Matthew P. Shiel .................... 2.3 Il cupio dissolvi di Richard Jefferies ................................... 2.4 L’Armageddon tecno-spirituale di Robert Benson .............

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Cap. III. Futurismo apocalittico 3.1 Futurismo post-simbolico .................................................... »

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3.2 Marinetti profeta della fine del mondo ................................ »

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3.3 Lo strano caso di Ruggero Vasari ....................................... »

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3.4 Il millenarismo di Volt ........................................................ »

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3.5 Morte e resurrezione nei racconti parafuturisti di Čapek .... »

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Cap. IV. Fuoco, Terra, Acqua 4.1 Il fuoco distruttore ............................................................... »

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4.2 Mordecai Roshwald, Ben Bova e Stanley Kubrick ............ »

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4.3 Della Terra e dell’acqua. La rivolta degli elementi della vita .............................................................................................. » 105 Cap. V. Armageddon robotica 5.1 Il servitore perfetto di Clifford Dante Simak ...................... » 115 5.2 Il magnifico suicidio collettivo di Tevis ............................. » 118 5.3 Vita e morte con gli automi in Isaac Asimov e James White ......................................................................................... » 121 5.4 Il piacere della fine del mondo secondo James Gunn ......... » 126 Cap. VI. Nuove iconografie apocalittiche 6.1 Pianeti erranti e mostri distruttori ........................................ » 133 6.2 Anomalie in Wyndham, Thomas e Spitz ............................ » 140 6.3 L’apocalittica sferica in Vernor Vinge, Hiroki Endo, Stephen King e Michael Crichton .................................................. » 144 6.4 L’inferno affollato di Harry Harrison ................................. » 151 Cap. VII. Apocalittica e ridondanza 7.1 Limiti della pensabilità della fine del mondo secondo Kant ........................................................................................... » 155 7.2 La reductio ad nihil di Anders ............................................ » 159 7.3 Il medium nucleare di Derrida ............................................ » 164 7.4 Finis temporis in Olaf Stapledon ........................................ » 167 7.5 Fuga simbolica nell’ultrafuturo ........................................... » 171 Bibliografia ...................................................................................... » 177 Indice dei nomi ................................................................................ » 185

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Premessa

Superare la notte, aprire gli occhi, ascoltare il mondo intorno a sé, è sempre un miracolo. L’alba annulla le tenebre, dissolve le allucinazioni, placa le inquietudini. E poi ciascun risveglio racchiude la promessa di tutti gli altri che verranno. E se invece ci ridestassimo nell’ultimo giorno? Se fossimo all’improvviso consapevoli che la rete temporale che sostiene l’esistenza fosse sul punto di essere annientata, e di lì a poco? Se gli impegni, le segrete speranze, gli oscuri timori, le sofferenze, le gioie, le occupazioni, le stesse credenze dovessero fulmineamente dissolversi? Se fosse annunciata la fine dello spettacolo, per tutti? Potremmo forse declamare un delicato auto-epitaffio, come nel tragico trapasso del replicante Roy Batty in Bladerunner di Ridley Scott: «E tutti… questi momenti, si perderanno nel tempo, come lacrime… nella pioggia»1. Ma non avremmo nulla da salvare, né alcuno cui comunicare l’ultima testimonianza. Quell’epitaffio sarebbe fuori luogo, perché si riferirebbe alla memoria delle vite di tutti e di nessuno. I moribondi spesso testimoniano con la parola i loro ultimi momenti di lucidità perché annettono a ciò che resta, al mondo della vita, un peso che forse non hanno mai valutato sino in fondo, in tutto l’arco della propria esistenza terrena. 1 La citazione dall’originale inglese suona così: «All those… moments will be lost in time, like tears… in rain».

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Fenomenologia della fine del mondo

Però, oggi siamo abituati ad attendere la fine del mondo. Si può perfino sostenere che siamo stati addestrati a questo scopo. Il che ci porta immediatamente a domandarsi chi ci abbia ammaestrati, e perché; e, non ultimo, in che modo. La risposta alla prima domanda è elusiva per definizione, ma non per l’assenza di un soggetto logico. E quale? Se esso esiste, deve avere un fondamento radicale. La seconda domanda dischiude molte e contrastanti ipotesi. Non c’è dubbio che l’attesa della catastrofe, conturbante amalgama di terrore e desiderio, sia correlata alle regole psicologiche della comunicazione. Più si moltiplicano gli strumenti del comunicare più è agevole che la verosimiglianza della fine del mondo, o perlomeno della perdita di un mondo, faccia breccia nelle coscienze. I media generalisti, com’è noto, prediligono le cattive notizie e mostrano un appetito insaziabile per le catastrofi globali. Cataclismi, piaghe, sconvolgimenti, conflitti e rivoluzioni sono il saporito companatico di una giornata mediatica ben spesa. Il cinismo è qui di casa. Prove tecniche di persuasione di massa? Può darsi. Consideriamo ad esempio la metafora del contagio senza scampo. Negli ultimi decenni quasi non si contano le vere o presunte pandemie. Il virus dell’HIV è stato l’apripista, diciamo pure un’ottima esercitazione per determinare la potenza dei moderni mass media. Da allora sono apparsi e altrettanto rapidamente scomparsi l’Ebola, l’encefalopatia spongiforme bovina (la nota «mucca pazza», potenza dei nomi!), l’antrace, la Sars, l’influenza suina (immonda già nell’appellativo) e l’aviaria (volatile, imprendibile fin nel lemma). L’invisibile contagio può annientare anche il mondo delle macchine. Un esempio rappresentativo di matrimonio alchemico tra il vecchio chiliasmo dei secoli bui e la fuga futuristica nella seducente società hi-tech fu il cosiddetto «Millennium bug». Il mondo intero – si ricorderà – fu infettato da questo singolare retrovirus comunicazionale. Si disse che il cambio di data dal 31 dicembre 1999 al 1 gennaio 2000 avrebbe causato l’azzeramento della maggior parte dei sistemi operativi, perché tarati col vecchio computo temporale a due cifre. Il conseguente collasso della rete informatica globale avrebbe poi provocato un effetto valanga d’inimmaginabili proporzioni, precipitando di colpo l’umanità in pieno medioevo. Beh, peccato. Sarebbe stata una fine del mondo davvero originale. 12

Premessa

Non per nulla l’idea ispirò illustri artisti e celebri sceneggiatori2. Naturalmente non accadde alcunché, e il primo gennaio del 2000 l’avvincente congettura dell’Armageddon per difetto di calcolo fu archiviata in tutta fretta. Ma non per sempre. Infatti, è rispuntata più forte di prima con l’annuncio di un bug che «inesorabilmente» colpirà i sistemi Unix alle ore 03:14:07 del 19 gennaio 2038. Fortunatamente mancano quasi trent’anni per abituarci all’idea, e inoltre potrebbe essere una preoccupazione inutile. Recentemente l’astrofisica Margherita Hack ha ricordato che il 13 aprile del 2036, due anni prima del presunto cedimento informatico, la Terra rischierà la distruzione a causa dell’asteroide Apophis (ancora un nome indovinato, che deriva dal dio egizio della distruzione): gigantesco macigno cosmico che impatterebbe il pianeta alla velocità di quarantamila chilometri l’ora. Se Apophis conserverà la sua orbita, lo schianto eclisserà quello che circa sessanta milioni di anni fa determinò l’estinzione dei dinosauri. Le grandi catastrofi stimolano potenti dispositivi narrativi, ma questi col tempo subiscono un’imprevista erosione interna. I disastri nucleari di Cernobyl e di Fukushima, tra loro separati solo da un quarto di secolo, hanno prodotto ben differenti masse critiche. Fukushima fu all’ordine del giorno per circa tre mesi, ma trascorso appena mezzo anno uscì di fatto dall’agenda setting. Cernobyl, al contrario, scatenò un’attenzione mediatica senza precedenti, che si protrasse negli anni. Il dispositivo narrativo genera assuefazione, addiction, perché si basa sui dati, sugli eventi. La referenzialità è pertanto un ostacolo, non un vantaggio. Ben diversa è la qualità e la forza di penetrazione psicologica della narrativa apocalittica, oggetto di questo libro. L’assenza di referenzialità è in quest’ambito vantaggiosamente compensata dalla ricerca del senso e del fine, in una parola dalla teleologia. La fine del mondo è stata descritta in una sorprendente varietà di romanzi, film, dipinti, testi teatrali e poemi. Questa proliferazione di opere dedicate alla distruzione del genere umano solleva interrogativi sul godimento che si ricava nel partecipare da spettatori o da lettori alla cancella2 Per esempio l’episodio dei Simpson Life’s a Glich, Then You Die, ma anche un episodio di Futurama e uno dei Griffin.

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Fenomenologia della fine del mondo

zione della storia. In effetti, l’attrazione morbosa per la fine di tutte le cose è ammessa tra le patologie psichiche ed è definita, di volta in volta, «reazione di Sansone», «reazione del dottor Stranamore»3, «proiezione dell’individuale volontà di morte»4 o «distruttività estatica»5. Le varie interpretazioni attribuiscono ai creatori, ma soprattutto ai fruitori, alcuni tratti psicologici devianti, che sconfinano facilmente nelle proiezioni patologiche. Se è vero, allora simili patologie dovrebbero disturbare le moltitudini, perché la produzione catastrofista si rivolge al pubblico universale, nello spazio e nel tempo; da qui la non referenzialità di questi dispositivi retorici. Il web consente di farsi un’idea del fenomeno. Siti che alludono alle apocalissi prossime venture sono centinaia di migliaia. Il lemma «apocalypse», solo su Google, annovera oltre novantacinque milioni di connessioni registrate (quasi tre milioni se è in italiano). L’espressione «the end of the world» capitalizza quasi diciannove milioni di siti, «Armageddon» oltre sessantacinque. Religioni e sette esoteriche di ogni tradizione e origine geografica si contendono il cyberspazio apocalittico, spesso utilizzando abili mix d’immagini e suoni estratti da molteplici situazioni. Non è raro, per esempio, vedere accostati nei siti web miniature medioevali a fotogrammi di Armageddon, e questi a una ricostruzione virtuale del Big Crunch prodotta dalla NASA. Lugubri brani evocativi, selezionati dal repertorio musicale di tutte le epoche, drammatizzano l’acustica dei siti «premonitori». Un gusto letale ma trasversale, non direttamente

3 Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, (1977), a cura di Clara Gallini, introduz. di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino, 2002, p. 613. 4 Carl G. Jung, Wandlungen und Symbole der Libido. Beträge zur Entwicklungsgeschichte des Denkens, Leipzig im Wien 1928, La libido, simboli e trasformazioni. Contributi alla storia dell’evoluzione del pensiero, introduzione di Ignazio Majore, Newton & Compton, Milano, 2003, p. 411: «La fantasia dell’incendio del mondo e in generale della fine catastrofica del mondo, non è nient’altro che la proiezione mitologica di una propria, individuale volontà di morte». 5 Erich Fromm, The Anatomy of Human Destructiveness, 1973, Anatomia della distruttività umana, trad. it. di Silvia Stefani, Mondadori, Milano, 2008, 23a ed., p. 346 e sgg.

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Premessa

correlato ai messaggi dei profeti di sciagura, attraversa e impregna l’intero cyberspazio. Si segnala poi l’uso improprio della parola «apocalisse», o dei suoi affini, nei titoli di migliaia di articoli, saggi, interviste e reportage, sovente dai contenuti estranei al concetto in esame. Infatti, la locuzione possiede il singolare potere di catturare lo sguardo del lettore, «distraendolo» da ogni altra occupazione. Ma quando l’apocalisse è materia della letteratura fantastica, essa talvolta riesce a intercettare i diffusi timori e gli inespressi umori più di quanto non sia consentito ad altri soggetti, e più a fondo. Il volume scandaglia l’opera di vari autori che nell’arco di quasi due secoli hanno tentato quella scrittura paradossale che è il genere apocalittico. Il periodo temporale in esame coincide con l’affermarsi della modernità quale sistema di vita e di pensiero ed è quindi logico che gli autori presi in considerazione siano quasi tutti scrittori di fantascienza o della protofantascienza. Alcune personalità sono state purtroppo trascurate, non perché meno importanti, ma affinché l’amore per la completezza filologica non ostacolasse il principio che guida questo lavoro, e cioè che la scrittura sulla e della fine del mondo, nell’era moderna e contemporanea, sia la sola interfaccia possibile tra due sistemi tra loro non comunicanti. L’apocalittica letteraria e cinematografica nel frattempo si è diffusa come un virus, favorita anche dal web; come se il sistema di comunicazione vigente e dominante fosse l’interfaccia privilegiata per scandagliare le inconsce premonizioni collettive. Essa è dunque paragonabile per molti suoi aspetti a un sensibilissimo sismografo, profondamente innestato nei gangli di quel sistema nervoso planetario in costante evoluzione che chiamiamo «umanità».

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I Grandi apocalizzatori moderni

1.1 Apocalissi pure e spurie Se con una bacchetta magica (o fantascientifica) eliminassimo dalla science fiction le opere che rappresentano colossali calamità, spaventosi stravolgimenti, guerre planetarie, interplanetarie e temporali, invenzioni fatali, minacciose civiltà aliene e ostili potenze supreme, ebbene resterebbe ben poco; e quel poco sarebbe perlopiù noioso. Tuttavia, solo pochi racconti annunciano senza mezze misure l’apocalisse. Questa reticenza deriva dal fatto che la fine del mondo, al pari della morte individuale, non è mai un evento ma solo un’astrazione liminale. Però, a differenza della morte individuale, l’istante della cancellazione del mondo segna il limite per eccellenza, l’alfa e l’omega di tutte le soglie concepibili. Oltrepassare quella barriera immaginaria implica serrare una porta ideale, e definitivamente, poiché non si lascia alcuna eredità di affetti, né memoria, né storia1. La fine del mondo è perciò in relazione intima con le

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Le citazioni in esergo, tutte sul tema della soglia, sono rispettivamente tratte Arthur C. Clarke, 3001 the Final Odyssey, Random House, Inc., 1997, 3001 Odissea finale, trad. it. di Sergio Mancini, Rizzoli, Milano, 1999, p. 251, Giorgio Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma, Rizzoli, Milano, 1982, p. 89, Ernst Jünger, Heliopolis. Rückblich auf eine Stadt, Ernst Klett Verlag, Stuttgart, 1949, Heliopolis, introduz. di Quirino Principe, Rusconi, Milano, 1972, p. 472.

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Fenomenologia della fine del mondo

leggi universali. Anche le civiltà tecnologiche e laicizzate non possono evitare di eludere questa comprensione profonda. La riluttanza degli scrittori ha anche un altro motivo. Le tradizioni incoraggiano proiezioni traducibili in cornici di riferimento, cioè in immagini. L’iconografia del giudizio universale corrisponde perfettamente alle fasi di separazione, liminarità e aggregazione, manifeste in qualunque rito, secondo gli studi classici di Arnold Van Gennep e di Victor Turner. La differenza fondamentale sta nel fatto che il rito può soltanto esprimersi in forma proiettiva, onirica o nevrotica, oppure può tradursi in letteratura. Le narrazioni moderne e contemporanee (anche se film, o perfino fumetti) sono davvero apocalittiche se illustrano la scissione totale del genere umano, se rappresentano la cancellazione definitiva di ogni traccia di civiltà, se comunicano la sensazione dell’attraversamento del confine universale e, del pari, se alludono a una morale che trascende i limiti dell’umano. Consideriamo ad esempio The Shape of Things to Come, il manifesto fantastorico di Herbert G. Wells. Il libro traccia le ipotetiche vicende dal 1929 (quattro anni prima della sua pubblicazione) al 2016. Siamo ormai prossimi alla seconda data e si può quindi tirare un bilancio di questa singolare ucronia che riassume le idee di Wells sparse in decine di libri e racconti. L’autore ipotizzò una sequenza di guerre e di catastrofi, culminanti con la spaventosa «Morte che Cammina», micidiale pandemia che cancella oltre metà dell’umanità. Seguono infinite piaghe, disastri e devastazioni. Alla fine s’instaura un governo mondiale, fondato sulla razionalità e sulla scienza, e si annuncia un’era di pace e di prosperità. Morale: l’umanità sa apprendere dai propri errori e può applicarsi alla concreta realizzazione di future magnifiche sorti e progressive. Eh no! Così non va. L’apocalisse impone che l’indicibile irrompa e lasci la sua orma indelebile sul dicibile. Nella nostra tradizione la distruzione della Torre di Babele può essere considerata la prima testimonianza di questa irruzione, ed è anche il primo autentico evento apocalittico occasionato dall’hi-tech di quei tempi. La Torre è in sostanza una smisurata intrapresa tecnologica, che ha lo scopo palese di violare l’inaccessibilità del cielo: qualcosa di non troppo distante dalla modernissima conquista dello spazio. La Bibbia è piena di spunti del genere, tant’è che la sua rilettura, adeguata alle conoscenze del nostro tempo, ha alimentato un fiorente filone 18

Grandi apocalizzatori moderni

pseudoscientifico, stracolmo di alieni, navi spaziali, ingegneria genetica, energia atomica e molto altro ancora. Basta consultare l’opera di Zecharia Sitchin per apprezzare un’interessante variante del fantasy sotto le mentite spoglie del saggio. In altre circostanze la rielaborazione di tradizioni antichissime produce discussi casi letterari: tra questi il Necronomicon (il libro della legge dei morti), celebre pseudobiblium di Lovecraft2. Però, in questa sede il nostro interesse si concentra sulla potenza dei simboli. La Torre di Babele è un colossale progetto concreto. L’uomo vuole costruire qualcosa di notevole per dimensioni e finalità. E lo fa collaborando, nel segno della pace e della fratellanza. Poi, su questa scena di progresso e di ascesa, si presenta non invitato Dio, che in definitiva compie solo un’azione mentale, affatto mirabile nella sua semplicità. Dio, che è un matematico, anzi è il Matematico, non fa altro che invertire il valore dei segni algebrici espressi nell’equazione del progetto. Tutto ciò che era positivo diventa di colpo negativo. Se prima gli uomini collaboravano, cioè costituivano una somma, ora essi si separano, cioè si sottraggono l’uno all’altro. Se prima costruivano e si concentravano, ora si disperdono; questo vuol dire iniziare a parlare lingue reciprocamente incomprensibili. Infine, il crollo della Torre stabilisce per sempre nell’inconscio collettivo l’incompatibilità tra la sfera terrestre e le regioni supreme, quindi separa lo spazio in settori, come nel piano cartesiano. In un certo senso il Dio veterotestamentario sembra temere tutto ciò che sa di simbiosi, di fusione e d’incremento della complessità. Come vedremo nell’ultimo capitolo, questi schemi si ripresentano nei miti ultratecnologici della fantascienza contemporanea, in stretto rapporto con le nuove apocalissi. L’azione della mano invisibile di Dio sul popolo turrito, paradossalmente introduce nel mondo terreno la disintegrazione, la «diabiosi», se così si può dire. Questa mitica scissione radicale è il preludio di ogni futuro conflitto. Da quel momento inizia l’escalation dei mezzi e dei fini, i cui effetti, con2

Pregno di simboli cabalistici o alchemici e di glifi fantasiosi il Necronomicon è un falso particolarmente ricco di riferimenti apocalittici e meriterebbe una trattazione a parte. Cfr. Sergio Basile (a cura di), Il Necronomicon. Storia di un volume che non c’è, 2 vol., Fanucci, Roma, 2002 e 2004.

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siderati i limiti fisici imposti da Dio, conducono l’umanità all’autodistruzione. L’immagine della torre, oggetto poligonale di proporzioni sovrumane, ritorna non a caso con periodica regolarità in molti racconti apocalittici. Essa allude a ogni intrapresa, ed è il naturale emblema di ogni complessità, perché si oppone alla dispersione delle genti. Non a caso la rarefazione, dunque il vuoto formale, rileva lo stato avanzato della distruzione. La Bibbia non ha il monopolio della fine del mondo, o di un mondo. Questo racconto paradossale occupa un posto centrale in molte religioni e in innumerevoli miti atavici, com’è noto. La conclusione di un ciclo cosmico, dal Ragnarök della mitologia norrena alla battaglia finale tra Pāndava e Kaurava di quella hindu, rimanda all’ovvia constatazione della meschinità della vita umana a paragone della vastità insondabile del cosmo (ancor oggi percepita come tale, anzi, più che un tempo). È una percezione antichissima, indipendente dalla cultura d’appartenenza e dal periodo storico, benché forse non sia un universale antropologico. L’arcaicità delle sue origini dovrebbe pertanto bandire l’apocalisse dalle narrazioni moderne e contemporanee. Non è così. Sembra proprio che i nuclei fondamentali siano formazioni molto stabili, indipendenti dallo stile, dalla provenienza e dalle motivazioni consce che hanno occasionato le singole produzioni degli scrittori. Qualunque prodotto culturale di genere apocalittico rimanda all’inspiegabile, al mistico, al numinoso e al sovrarazionale, in una parola al divino; anche un riferimento puramente speculativo o fenomenologico è sufficiente per adombrare l’irruzione. Una carrellata di esempi: in The Hurricane, per la regia di John Ford (1937), l’agghiacciante agente distruttivo è solo una cieca manifestazione di forze elementari, che temprano o annientano i protagonisti. L’antecedente letterario moderno di tutti i film o i libri affini è probabilmente Tifone di Joseph Conrad, in cui la furia degli elementi palesa il vero carattere degli attori: la granitica tranquillità del capitano Mac Whirr, il coraggio del primo ufficiale Jukes, la rabbia compressa del capomacchinista Rout, che segue cicli identici al suo amato motore. Perciò la natura mette alla prova gli esseri umani, ne svela le differenze profonde; ma nonostante l’esibizione muscolare della sua incommensurabile potenza essa resta nel complesso passiva, poiché l’azione spetta alla sola sfera psichica. Non c’è trac20

Grandi apocalizzatori moderni

cia di Dio, non si riconosce il mistero. Nel confronto all’ultimo respiro tra l’uomo e la natura non si decide alcuna transazione morale né destinale. Analogamente in The Day the Earth Caught Fire, del regista Val Guest (1961). Qui i dissennati esperimenti nucleari delle due superpotenze di allora hanno deviato la terra in un’orbita eccentrica, prossima al sole. La soluzione, in pieno stile wellsiano, richiede l’accordo tra i politici e gli scienziati e un nuovo patto di fratellanza tra le nazioni. Il film regge all’inevitabile caduta nel nonsense solo per il suo stile vivace e innovativo, ma non comunica alcunché, perché l’evento scatenante è un fatto prevedibile, perfino banale, come tale privo di grandezza. Al contrario, il film L’ultima onda di Peter Weir (1977) è apocalittico a tutti gli effetti, perché l’azione della natura è un atto annunciato dalle narrazioni ataviche degli aborigeni australiani. Il protagonista, l’avvocato David Burton, è considerato da costoro un mulkurul, sorta di profeta che annuncia la fine di un’era, e che vi assiste. Così elementi magico-religiosi, soprannaturali, inspiegabili, sono sempre protagonisti non direttamente nominati. Essi scardinano la tranquilla consumazione di emozioni altrimenti preconfezionate, da luna park. In questi casi la vertigo, di cui trattò Roger Caillois a proposito dei giochi o degli spettacoli convulsivi, si tramuta in un rapimento affine all’estasi3. Anche il valore testimoniale dell’ultimo osservatore (e scrittore) è del tutto paradossale. Infatti, l’ultimo testimone non può testimoniare ad altri che alle sfere superiori, o infere, tentando così di riannodare, mediante una forma di comunicazione impossibile, quella relazione tra i due mondi che un antichissimo atto di supremazia ha voluto escludere dalla condizione umana. 1.2 La logica degli elementi La fantascienza è stata palestra prolifica di nuove descrizioni della fine del mondo, ma le varianti si possono in realtà riunire in poche catego3

Roger Caillois, Les jeux et les homes. Le masque et le vertige, Gallimard, Paris, 1967, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, trad. it. di Laura Guarino, Bompiani, Milano, 1995, p. 65 e sgg.

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Fenomenologia della fine del mondo

rie. Le prime e più spettacolari sono le catastrofi celesti, che si dividono a loro volta in eventi astronomici e in atti intenzionali. I primi si riducono alla collisione con pianeti vaganti o con bolidi, allo spegnimento o deflagrazione del sole, e più di recente all’incontro con un buco nero. È in voga anche la collisione tra due dimensioni, con il conseguente annichilamento reciproco, come rischia di accadere nella serie televisiva Fringe. L’altro filone delle apocalissi uraniche abbraccia legioni di extraterrestri di ogni specie, mole e potere. La seconda categoria comprende le calamità aeriformi. Ne fanno parte gli uragani di estensione planetaria, le glaciazioni, le pandemie e più recentemente le strutture autoreplicanti di origine chimica o nanotecnologica. Talvolta i virus colpiscono selettivamente l’uomo, ma in alcuni casi l’estinzione distrugge tutte le specie viventi. La terra e l’acqua riservano la loro dose di piaghe. Ai terremoti si aggiungono repentini mutamenti dell’asse terrestre o del campo magnetico. Ma dal sottosuolo provengono anche schiere d’insetti, topi o mostri innominabili. I pianeti possono rivelarsi perfino vere e proprie entità viventi, per esempio nel racconto di Conan Doyle Quando la Terra gridò, o semplici gusci ripieni di draghi stellari. Delle acque è quasi superfluo discutere, perché del mitico diluvio universale non si contano le varianti. Questo massiccio ricorso ai quattro vertici della psiche arcaica non impedisce la formazione di nuovi simboli. Esamineremo alcune tra queste espansioni, ma intanto soffermiamoci brevemente sui quattro elementi classici. La fine del mondo può essere annunciata dalle trombe del giudizio, ma si manifesta concretamente mobilitando la potenza di ciascuno dei principi basilari: terra, acqua, aria, fuoco. James Graham Ballard utilizzò quest’architettura in Deserto d’acqua (1962), Vento dal nulla (1962), Terra bruciata (1964) e in Foresta di cristallo (1966). La tetralogia apocalittica di Ballard ricorre al potenziale semasiologico dei principi primi, ne rileva la complementarità, la reciprocità, l’ordine e l’incompatibilità. Gli elementi sono la sintesi simbolica di territori psichici, sono luoghi geometrici su un piano. Se si altera una zona del piano, le altre reagiscono, cercando di restaurare l’equilibrio. L’avvento di una catastrofe elementare segnala la compensazione del sistema per recuperare l’equilibrio perduto, ma segnala anche l’azione irresponsabile di un 22

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individuo o di un’intera comunità. Di conseguenza, l’alterazione dell’equilibrio cosmico è sempre percepita come un atto morale, anche se essa si esprime in un contesto che falsifica la liceità dei giudizi di valore. 1.3 La fine dell’uomo secondo Mary Shelley In Vento dal nulla, come si è accennato, Ballard descrisse la forza incomparabilmente distruttiva della mano di Eolo, evocando con una scrittura asciutta lo spettacolo della natura infuriata. Quest’attitudine cinematografica rifletteva l’estetica degli effetti speciali sviluppata dal cinema. Naturalmente le possibilità tecniche degli anni Sessanta non erano all’altezza delle possenti descrizioni ballardiane, ma, al pari di altre invenzioni letterarie, queste ultime fornirono materie prime per costruire l’immaginario dei nostri giorni. L’idea di Vento dal nulla deriva dalle osservazioni astronomiche dei pianeti giganti del sistema solare. Le superfici di Giove e di Saturno sono percosse da correnti atmosferiche che ruotano a migliaia di chilometri l’ora intorno all’asse gravitazionale. Il fenomeno produce le ben note striature longitudinali che donano a quei pianeti il loro caratteristico aspetto. Ballard immaginò che il fenomeno potesse episodicamente interessare anche la Terra, trasformandone l’atmosfera relativamente tranquilla in un inferno gassoso di proporzioni planetarie. Ed ecco che l’uragano inizia a vorticare intorno all’asse, creando il caratteristico turbine concentrico di Giove o di Saturno svelato dalle sonde interplanetarie. All’inizio le proporzioni sono modeste, ma crescono rapidamente. La forza del vento (nel libro supererà i mille chilometri orari!) annienta qualunque prodotto dell’ingegneria umana, compresa l’arca a prova di uragano (perché priva di ancoraggi), costruita per la salvezza di alcuni membri dell’élite. In questa tetralogia apocalittica Ballard utilizzò i quattro elementi classici allo stato puro, ma più spesso essi sono meri veicoli di altri agenti più subdoli, meno visibili. Con l’affacciarsi della modernità l’atmosfera – e generalizzando lo spazio aperto – diviene un medium affollato da micidiali ancorché invisibili agenti sterminatori: germi, virus, prodotti chimici, miasmi, e in seguito radiazioni, radiotrasmissioni e infine nanorobot. Il topos apocalittico non è nuovo. I flagelli che annunciano la resa dei conti provengono comunemente dal cielo; essi sono, per così dire, manife23

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stazioni del corpo cosmico di Dio, così come l’atto di rescissione descritto nel mito della Torre fu la prima traccia della sua mente matematica. L’iconografia di tutte le epoche esalta l’inconscia subordinazione al regno dei cieli, al cosmo aperto, senza confini, sede del divino, e alla naturale reazione di subordinazione di fronte a ciò che è in alto, che proviene dall’alto e che è in parte o del tutto invisibile. Tuttavia, l’alterazione estetica inizia a formarsi già all’inizio del diciannovesimo secolo, perché da quel momento la minaccia diventa pervasiva, priva di una direzione d’origine e impercettibile come l’aria stessa. La minaccia è dappertutto. Se non può essere osservata né toccata non è possibile descriverla, disegnarla, e in questo modo esorcizzarla. L’aria, fluido della vita non meno dell’acqua, si trasforma in un’entità subdola, insidiosa e fatale. C’era materia sufficiente per fecondare opere di varia ispirazione4, ma si deve al genio di Mary Shelley, capostipite degli scrittori di fantascienza, la nascita di The Last Man5, romanzo assai meno noto del Frankenstein, eppure non meno profetico e incisivo. Pubblicato a Londra nel 1826, L’ultimo uomo narra in prima persona il diffondersi di una malattia scaturita all’improvviso e destinata ad annientare tutta l’umanità; un flagello di stile giovanneo (Ap 6, 8), se si vuole, ma che si identifica con l’aria stessa: «L’aria è avvelenata. Ogni essere umano inala morte, perfino se è giovane e sano e le speranze sono nel pieno del loro rigoglio»6. In The Last Man le epidemie che funestarono l’Europa medioevale sono trasferite in un’atmosfera culturale che si può definire già pienamente moderna, benché il romanzo non indulga in precognizioni scientifiche ri4

Tra gli esempi di letteratura apocalittica del secolo diciannovesimo si possono ricordare Le dernier homme di Jean-Baptiste Cousin de Grainville, pubblicato a Parigi nel 1805, storia di Omegare, l’ultimo uomo, abitante di una terra morente. Il racconto è notevole anche perché Omegare si rifiuterà di generare la nuova stirpe degli uomini. Nel 1826 Thomas Hood pubblica la ballata The Last Man. Quest’ultima, non diversamente dal romanzo della Shelley, descrive l’annientamento del genere umano narrato dall’ultimo sopravvissuto a una pandemia di peste. Nel 1832 Auguste-François Creuze de Lesser pubblica un suo Le Dernier Homme, poème imité de Grainville, cui seguono nel 1858 L’Unitéide ou la Femme Messie di Paulin Gagne e nel 1859 Omégar ou le Dernier Homme di Élise Gagne. 5 Mary Shelley, The Last Man, 1826, L’ultimo uomo, a cura di Ornella De Zondo, trad. it. di Maria Felicita Melchiorri, Giunti, Firenze, 1997. 6 Ibidem, p. 231.

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levanti. È impossibile sfuggire al medium che permea ogni cosa, ma l’attualità del romanzo risiede in una nuova visione del rapporto tra l’uomo e la natura. La misteriosa pandemia sembra uno stratagemma prodotto dalla natura stessa allo scopo di rimuovere il pericoloso cancro umano. L’intero pianeta sembra reagire, moltiplicando gli attacchi all’umanità, quasi fosse dotato di una sua volontà. Così terremoti, maremoti, carestie, cicloni accompagnano la falcidie dovuta alla malattia: All’inizio dell’estate cominciammo a renderci conto che i danni che avevano colpito quei paesi lontani erano più gravi di quanto avessimo sospettato in un primo momento. Il Messico fu devastato dagli effetti congiunti di tempeste, peste e carestia. Folle di emigranti inondarono l’Europa occidentale, e la nostra isola era diventata il rifugio di migliaia di persone7.

E poi: Al Sud, la malattia, virulenta e immedicabile, aveva quasi annientato la razza umana; tempeste e inondazioni, venti venefici e influssi dannosi riempivano la misura della sofferenza. Al Nord era peggio: il numero già più esiguo della popolazione diminuiva costantemente […]. Restrinsi la mia visuale all’Inghilterra. La metropoli cresciuta troppo, il grande cuore della potente Gran Bretagna, era priva di vita. Il commercio era cessato. Qualsiasi risorsa di ambizione o di piacere era esaurita, le strade erano ricoperte di erba, le case vuote. I pochi che rimanevano per necessità sembravano già marcati a fuoco dalla contaminazione dell’inevitabile pestilenza. Nelle più grandi città manifatturiere andava in scena la stessa tragedia su scala inferiore, e tuttavia più disastrosa8.

Nondimeno la natura risorge. L’estinzione colpisce solo l’umanità: Il grano spuntò in abbondanza, ma in autunno marciva sul terreno; e il povero infelice, che era uscito in cerca di un po’ di pane per i figli, giaceva rigido tra i solchi, colpito dalla peste. I boschi verdi ondeggiavano maestosamente i loro rami, mentre i moribondi, sparpagliati sotto la loro ombra, rispondevano alla 7 8

Loc. cit. Ib., p. 258.

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solenne melodia con grida disarmoniche. Gli uccelli colorati volteggiavano tra le ombre, i cervi spensierati riposavano incolumi tra le felci. I buoi e i cavalli si allontanavano come sbandati dalle stalle rimaste incustodite e pascolavano nei campi di frumento, poiché la morte si abbatteva soltanto sull’uomo9.

Dietro questa bucolica scenografia virtuale si intuisce l’esistenza di una ragione suprema. La presenza visibile dell’invisibile percorre tutto il romanzo. Invisibile è la stessa pestilenza, che simbolicamente si oppone alla mania umana di rendere tutto palese, scrutabile e perciò valutabile. Anche la Torre di Babele era un occhio astronomico puntato sul cielo, ma Dio non poteva sopportare una simile intrusione nella sua intimità. L'abilità esplorativa non ha mai abbandonato l’umanità, anche dopo la diaspora seguita al crollo della Torre. Al contrario, la storia delle civiltà è prima di tutto un’esibizione retinale. Ogni cultura è forma prima che sostanza. In The Last Man lo scontro tra la potenza dell’invisibile e l’ossessione del visibile percorre tutto il romanzo. Quando ad esempio l’io narrante emigra verso il Sud, giunge a Roma e vi si stabilisce, non fa che dilungarsi in dettagliate descrizioni dei giardini, dei palazzi deserti, delle fontane e dei monumenti. Bellezza disseminata per il godimento di nessuno. Infine, prima di abbandonare l’Urbe incide sulla pietra più alta di San Pietro la fatidica data del 2100, l’ultimo anno del mondo. Per chi? E perché in cima alla Cupola di Michelangelo? 1.4 L’Apocalisse aerea da Jack London a James Cameron Nel secolo successivo il tema della fine del genere umano per mano di un invisibile agente sterminatore conquistò altri celebri scrittori. Jack London riprese lo schema shelleyano nel romanzo breve The Scarlet Plague. Però l’ambiente era profondamente mutato. London paragona esplicitamente l’umanità a un cancro che rode la salute del pianeta, concetto assente nell’economia psichica dei testi apocalittici settecenteschi e ottocenteschi,

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Ib., p. 273.

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in cui l’antagonista ideale è ancora Dio, mentre la natura è solo un palcoscenico. Se tra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento si scatenano le titaniche energie dell’industrializzazione, parimenti si sviluppa l’etica ecologista, che acquisterà crescente fortuna. Anche per London l’hybris colpisce selettivamente la nostra specie, lasciando indisturbata la natura. Ma questa volta la Natura sembra manifestare una sua intenzionalità, operando una sorta di espulsione intelligente, una necessaria pulizia etnica di quel bipede bizzarro e molesto, che ha perfino osato assoggettarla inventandosi la civiltà tecnologica: L’uomo su questo pianeta ha addomesticato gli animali utili, ha distrutto quelli nocivi. Ha dissodato la terra e l’ha spogliata della vegetazione selvaggia. Poi, un giorno, lui sparisce, ed ecco che la marea della vita primitiva rifluisce spazzando via l’opera secolare del genere umano. Le erbacce e la foresta invadono i campi, gli animali da preda tornano ad assaltare le greggi, e adesso ci sono anche i lupi sulla spiaggia di Cliff House!10

In queste pagine si nota anche una nuova concezione estetica: Il pianeta vergine, privo di umanità, appare bello come il giardino dell’Eden. Questa passione estetica percorre tutto il secolo, acquistando proseliti. Scienziati della caratura di James Lovelock hanno sostenuto che la terra, il pianeta vivente, può tranquillamente sostenere la totale autodistruzione del genere umano, e che perfino un conflitto termonucleare, se considerato in rapporto alle ere geologiche, sarebbe solo un episodio trascurabile. Gaia se ne accorgerebbe appena. In London troviamo tutti gli antecedenti di questa relativizzazione estrema del fenomeno umano. La trama è presto riassunta: un vecchio e un ragazzo avanzano faticosamente tra i resti di una strada ferrata immersa nella giungla. Il vecchio è l’ultimo superstite dell’era dell’Uomo, il giovane Edwin è suo nipote. Il vecchio ricorda immagini, suoni, odori e sapori di un mondo precluso ai suoi discendenti, non solo perché non esiste più, ma so10

Jack London, The Scarlet Plague, in “London Magazine”, 28 giugno 1912, pp. 51340, La peste scarlatta, trad. it. di Pier Francesco Paolini, in Il richiamo della notte. Racconti di fantastoria e fantascienza, Robin Edizioni, Roma, 2009, p. 112.

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prattutto perché la lingua della giungla è tornata semplice, primitiva. Tutto incominciò all’inizio del 2013 (curiosa coincidenza di data, se si pensa alla fin troppo abusata profezia della fine del mondo al dodici dicembre 2012). Il vecchio trova una moneta su cui è inciso l’anno del conio e di fronte all’incredulo nipote esclama: 2012! L’anno in cui Morgan V fu eletto presidente degli Stati Uniti dall’Assemblea dei Magnati. Dev’essere stata una delle ultime monete coniate, perché la morte scarlatta sopravvenne nel 2013. Signore! Signore! Quando ci penso! Sono passati sessant’anni e oggi sono l’ultimo sopravvissuto che ha conosciuto quei tempi!11

Il vecchio rievoca l’epoca in cui fu un rispettato professore di letteratura, all’Università di Oxford. Egli soppesa con nuovi occhi l’essenza dell’orgogliosa civiltà passata: la divisione fra ricchissimi, tutelati oltre ogni decenza e perfino svincolati dalle leggi, e i lavoratori, definiti «lavoratori schiavi», dotati di apparenti libertà ma in realtà incatenati alla macchina produttiva. Come in ogni ordine sociale aristotelico, le classi intermedie godono di piccoli privilegi, perché impiegate nella complessa ma indispensabile macchina amministrativa e nell’ancor più vitale, delicatissima fabbrica del sapere. Sono le parole esatte di London. Il sapere è una splendida macchina: For a century and half had this university, like a splendid machine, been running steadily on. And now, in an instant, it had stopped. It was seeing the sacred flame die down on some thrice-sacred altar12.

Il brano descrive un fuoco sacro che muore su un altare tre volte più sacro: la morte scarlatta, che fulmineamente scioglie le persone. Questa sua qualità ignifera ispirerà innumerevoli repliche. Se ne trovano tracce 11

Ibidem, p. 107. Si è preferito trascrivere il testo originale poiché nella traduzione manca il cruciale passaggio del fuoco sacro, sacrificato su un altare ancora più sacro. Cfr. ib. p. 126. 12

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perfino nella produzione disneyana. In La spada nella roccia (Walt Disney, 1963, dall’omonimo romanzo di Terence H. White) mago Merlino sconfigge maga Magò tramutandosi nel famigerato batterio scarlatto, che si propaga per via aerea. L’invisibilità è appunto il segnacolo dell’irruzione di qualcosa che non può essere ricondotto all’ordine sociale, economico e politico. L’invisibile annienta anche il potere della scienza, perché quest’ultima mira sempre a ridurre alla scala umana sia il microscopico che il macroscopico. Tutto ciò che è visibile alla lunga è individuabile e manipolabile: entra a far parte della «splendid machine». La macchina stupefacente è anche la metafora del cervello umano, della sua facoltà di categorizzare la realtà. Attribuire il nome alle cose equivale al prenderne pieno possesso, esibendo una supremazia sulla natura. La Bibbia illustra questo concetto col mito dell’attribuzione dei nomi, processo mai interrottosi. L’incremento delle parole e le loro relazioni segue una curva esponenziale analoga e parallela all’incremento della ricchezza, dei commerci e della velocità, racchiudendo l’uomo contemporaneo in una rete interpretativa autogenerata, che si frappone come una paradossale barriera fra sé e il mondo. London paragona i due universi linguistici, nonché le incolmabili distanze tra la cultura orale e la cultura chirografica, ora sottolineandone l’incompatibilità: «Denaro, nonno? Cos’è il denaro?» […] «Sei un bel tipo, tu, nonno! Vuoi sempre farmi credere che certi segnetti che ci sono là sopra vogliono dire qualcosa!»13

ora l’incongruenza: Edwin, spazientito dalla loquela del vecchio, lo interruppe: «Perché mai usi tutte queste frasi che non vogliono dir niente?» si espresse meno correttamente, ma questo era il senso delle sue parole. La sua parlata gutturale, impetuosa, era evidentemente imparentata con quella del vecchio che a sua volta derivava dall’inglese.

13

Ib. p. 107.

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Edwin riprese: «Mi dà ai nervi sentire continuamente parole che non capisco. Perché per esempio, nonno, chiami il granchio una ‘leccornia’? un granchio è un granchio e basta. Che cosa vuol dire questo soprannome?»14.

ora la ridondanza: «Se quattro milioni di uomini sono spariti in una sola città, se i lupi feroci oggi errano da queste parti, e se voi, barbara progenie di una stirpe geniale, siete ridotti a difendervi con armi preistoriche contro branchi di belve, tutto questo ha una causa: la morte scarlatta!» «Scarlatta… scarlatta…» mormorò Muso di Lepre all’orecchio di Edwin. «Il nonno ripete spesso questa parola, tu sai che cosa significa?» Il vecchio aveva sentito la domanda e declamò con la sua voce chioccia: «Lo scarlatto dell’acero canadese, d’autunno, mi fa trasalire, come fosse uno squillo di tromba… ha detto un poeta». Edwin spiegò a Muso di Lepre: «Lo scarlatto è come rosso. Tu non lo sai, perché sei stato allevato nella tribù di Sciofèr. Nessuno di quella tribù ha mai saputo niente. Lo scarlatto è rosso… Io lo so, io». Muso di Lepre protestò: «Se lo scarlatto è rosso, perché non dire rosso? Perché complicare le cose con parole che non si capiscono? Rosso è rosso, ecco tutto (sottolineatura mia, n.d.r.)»15.

La fine del mondo revoca il diritto nominale, lo riporta alle sue umili origini, quando i sostantivi – presumibilmente – erano pochi e la vita fluiva nelle esperienze elementari, poco più che animali; nessuno saprà mai quale sia stata questa condizione, benché molti l’abbiano immaginata16.

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Ib. p. 109. Ib. p. 113. 16 Slanci poetici nel centesimo millennio avanti Cristo sono frequenti non solo tra gli antropologi. Jack London frequentò il filone preistorico, per esempio in Prima di Adamo, un racconto del 1906. Anche Herbert G. Wells scrisse A Story of the Stone Age, in cui, tra l’altro, parlò senza pudori di antropofagia. Arthur Conan Doyle, in Il mondo perduto, com’è noto descrisse uomini-scimmia ostili e malvagi, sopravvissuti all’evoluzione al pari dei pterodattili o dei tirannosauri. Da allora il filone non ha fatto che arricchirsi di titoli. Però, il 15

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Ma questo non è lo stato adamitico descritto nella Bibbia; in fondo l’orecchio di Adamo è già frastornato da miliardi di potenziali concetti, nascosti dietro il labile paravento delle prime semplici parole: nozioni in paziente attesa di inondare le menti, producendo la dilatazione dell’interiorità, così come eserciti di formiche costruiscono formicai sempre più vasti. L’inizio della complessità tecnologica combacia con la fuga proiettiva per sfuggire all’«irritazione» provocata dalla moltiplicazione, alla nausea per eccesso di concettualizzazione. L’Età dell’Oro, a questo punto, appare come l’era del silenzio. I miti apocalittici della civiltà tecnologica, a differenza di quelli medioevali e arcaici, richiedono ossessivamente la dissoluzione della parola in nome di una semplificazione totale. Inoltre, il recupero visionario della semplicità primitiva si accompagna all’inconfessabile idea di essere gli unici superstiti del nuovo mondo. Allora il vuoto lasciato dalle vecchie parole dimenticate deve nuovamente essere riempito dal sopravvissuto, che è sempre un nuovo Adamo. Solo la letteratura pseudo-suicidaria e apocalittica permette al lettore di attraversare senza danni psichici questo confine, penetrando nell’universo diafano del “come se”. Come sarebbe il mondo se restassi io solo, se fossi l’ultimo umano? 1.5 Catastrofi uraniche e collassi terrestri È l’interrogativo per eccellenza dei potenti. Come sopravvivere a tutto e a tutti? Non importa quale significato abbia la morte globale. IO, proprio IO, l’individuo superiore, la personificazione del potere e della ricchezza, ebbene IO devo conservarmi, a ogni costo. Se anche il mondo intero dovesse

primato dell’inventiva spetta sempre agli antropologi, capaci di lumeggiare con invidiabile precisione le condizioni di vita dei nostri remoti antenati. Per esempio, le prime pagine di The Human Zoo di Desmond Morris sono un autentico capolavoro di contaminazione tra dati paleoantropologici e pure invenzioni artistiche. In Il paradigma perduto Edgar Morin addirittura retrodatò di varie decine di migliaia di anni l’attuale lotta senza quartiere fra i giovani (progressisti, inventivi e avventurosi, a suo dire) e gli anziani (proverbialmente conservatori, immobilisti e tradizionalisti, sempre a parer suo).

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crollare, IO sopravvivrò. Se necessario costruirò l’armatura inviolabile, meglio ancora la città imprendibile, la barriera impenetrabile. I moderni miti apocalittici prevedono sempre questa polarità. La Babilonia terrestre, opposta alla città celeste (Ap, 21, 2) diventa il luogo in cui la tecnologia osa sfidare l’azzeramento dell’umanità decretato dal caso o dalla necessità. In The Masque of the Red Death (1842), anticipazione della nemesi virale, Edgar Allan Poe alloggia il principe Prospero in una fortezza inespugnabile, che rappresenta la separazione dalla natura. La roccaforte è un temenos che segnala i confini del sacro, dell’inviolabile. Poi il castello e l’acropoli si espanderanno racchiudendo la città. Le mura denunciano la presenza di confini visivi, fisici e psichici. Il temenos si estenderà anche nel cielo, assumendo la forma della cupola geodetica e della barriera energetica. Si libererà anche dal vincolo territoriale e diverrà vascello inaffondabile o sottomarino. Infine scioglierà le ancore gravitazionali e sarà capsula, poi astronave, quindi città-cosmonave e sfera di Dyson. Il temenos può anche essere un ambiente virtuale, l’impenetrabile dimensione simulata all’interno di un’altra dimensione virtuale, come in Simulacron 3 di Daniel Galouye (1964), capostipite d’innumerevoli metaversi e matrici elettroniche. La città dell’era postatomica garantisce la vita e la rigenerazione, è il rifugio perfetto, nel ciclo di Sipstrassi dello scrittore inglese David Gemmell. Qui il personaggio di Jon Shannow (soprannominato «L’uomo di Gerusalemme» perché alla ricerca della città che conserva il senso della civiltà umana) si muove in uno scenario particolarmente carico di simboli religiosi, esoterici e mistici. Egli deve superare innumerevoli prove iniziatiche, recuperare oggetti magici, e scoprire il significato ultimo dell’uomo nel suo plurimillenario percorso sulla terra. Questa fusione tra il fantastico mistico-esoterico e il fantascientifico non è certo nuova. Basti pensare all’opera di Lovecraft, all’Alraune di Hanns Heinz Ewers, al Clive S. Lewis di Lontano dal pianeta silenzioso e per i rami a Jack Vance, che ambientò molte sue opere in un’era post-apocalittica ove si pratica sia la magia che la tecnologia,. Durante il Novecento gli scrittori di fantascienza immagineranno ogni sorta di rifugio inviolabile o quantomeno incontaminato. Tuttavia, solo 32

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due tipi di agenti aggressivi mettono a dura prova qualunque difesa: i virus e gli attacchi mentali. L’agente virale esibisce una fisicità sconcertante, metamorfica: può essere nebulare, pulviscolare, può incarnarsi in un robot iperminiaturizzato, in una struttura nanotecnologica o perfino in pura informazione. Gli immaginari apocalittici aeriformi postbellici si adattano ai tempi. Agli esordi della guerra batteriologica la fantasia scopre la suggestione quasi inesauribile del batterio killer, ma a differenza della peste della Shelley o della morte scarlatta di London, il veicolo del contagio è ora un prodotto ingegnerizzato, un progetto umano sfuggito ai laboratori militari. I Am a Legend di Richard Matheson (1954) è una pietra miliare di questo fortunatissimo filone, mai esauritosi17. All’alba dell’esplorazione spaziale la minaccia invisibile proviene dal cosmo. La fobia del contagio stellare era in quei tempi così intensa che furono imposte inutili quarantene agli astronauti che rientravano dalle missioni. Questa ridicola procedura esprimeva l’inconscia ossessione verso tutto ciò che potesse provenire dall’«altra parte». Indubbiamente giocava un ruolo anche la paura dei diversi, portatori sani di altri stili di vita o di incomprensibili ordinamenti politici ed economici, agenti infettivi di nazioni remote e potenti, com’è stato più volte sottolineato. Ma, ben più profondamente, il timore del contagio spaziale derivava dal fatto che l’audacia umana aveva osato varcare gli eterni confini metafisici. La fantascienza registrò questa sensazione collettiva con perfetta sincronicità, connettendola alla potenziale estinzione del genere umano. Rientra nella categoria del contagio spaziale The Body Snathers di Jack Finney, noto soprattutto per la celebre riduzione cinematografica Invasion of the Body Snathers, diretta da Don Siegel nel 195618. Tuttavia, il film non chiarisce la natura virale dei baccelli, i quali, nel libro, sono entità 17

L’ultimo della lunga lista di libri sul contagio universale è Oryx and Crake, di Margaret Artwood, del 2002 (L’ultimo degli uomini, trad. it. di Raffaella Belletti, TEA, 2009), per non parlare delle fortunate riduzioni cinematografiche di Io sono leggenda in L’ultimo uomo della Terra, di Sidney Salkow e Ubaldo Ragona (1964), The Omega Man di Boris Sagal (1971), e l’omonimo Io sono leggenda di Francis Lawrence (2007). 18 Jack Finney, The Body Snatchers, 1955, Gli invasati, “Urania” n. 398, Mondadori, Milano, 1965, p. 48 e sgg.

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virtualmente prive di peso, provenienti dal cielo e in grado di tornarvi con la sola forza di volontà, senza alcun mezzo di trasporto, come se lo spazio fosse paragonabile al loro naturale fluido di trasporto. Dal libro traspare che i baccelli sono fisicamente simili a batteri o a virus (sono peraltro coltivati come colonie batteriche su agar), però ingranditi miliardi di volte. I protagonisti Miles e Becky, ambedue medici, nonché lo psichiatra Mannie, parlano esplicitamente di fenomeni di contagio su scala planetaria, finalizzati all’annientamento dell’umanità. In Andromeda (1969) Michael Crichton inventa un virus extraterrestre così alieno che la sua struttura chimica non contiene carbonio. Il temibile microorganismo tramuta il sangue in sabbia, non presenta nucleo né DNA, esibisce una geometria poliedrica e assorbe ogni tipo di energia. Inoltre, la sua sconcertante capacità replicativa gli consente di oltrepassare qualunque barriera fisica. L’omonimo film, diretto da Robert Wise nel 1971, rende bene l’idea del panico scatenato da un ignoto processo vitale che viola le ferree misure di sicurezza dell’installazione militare supersegreta, ideata per gli esperimenti di guerra batteriologica ma inadatta a contenere ciò che proviene dallo spazio. Stessa struttura in Il giorno della nuvola, di Ted Thomas e Kate Wilhelm, di poco successivo, solo che in questo romanzo il misterioso polimero alieno, giunto sulla terra sotto forma di nuvola cosmica, trasforma in gelatina tutti i liquidi, distruggendo intere nazioni in pochi istanti19. Altro analogo è The Darkest of Nights di Charles Eric Maine. Qui non soltanto il virus dimezza l’umanità, ma il rimedio si rivela peggiore del male, poiché l’antivirus prodotto nei laboratori perfeziona il lavoro della natura, sterminando i sopravvissuti, che devono comunque fronteggiare successive rivoluzioni, saccheggi e omicidi20. L’impotenza della scienza rileva che l’immaginario apocalittico è inscindibile dal rapporto con le regioni sideree, con lo spazio esterno, con la

19

Ted Thomas – Kate Wilhelm, Year of the cloud, 1970, Il giorno della nuvola, trad. it. di Laura Serra, Urania n. 789, Mondadori, Milano, 1979. 20 Cfr. Charles Eric Maine, The Darkest of Nights, 1962, trad. it. di Andreina Negretti, Mondadori, Milano, 2009.

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dimensione uranica, al cui cospetto l’uomo deve necessariamente ridimensionare tutte le sue pretese. Perfino nell’era dell’atomica, delle stazioni spaziali e del web la casa degli dei resta il cielo. D’altra parte l’uomo, con i suoi raffinati strumenti, può per ora soltanto scrutare l’immensità del firmamento. Il suo raggio d’azione, nonostante i progressi dell’astronautica, resta la vecchia terra. Il secondo punto riguarda l’inscindibile legame fra l’azione e la sanzione. Anche in Crichton l’agente sterminatore giunge sulla superficie terrestre perché l’uomo è andato nello spazio. In quegli anni illustri scienziati avanzarono l’idea, sostenuta fra gli altri dall’eminente astrofisico Fred Hoyle, che la vita potesse provenire dallo spazio. L’ipotesi, non priva di riscontri (com’è noto si chiama «panspermia»), risultò subito affascinante, soprattutto perché essa gettava un ponte tra i mondi. Tuttavia, le intenzioni altrui (sempre proiezioni delle proprie) quasi mai sono buone. In Andromeda gli scienziati nello spazio cercano qualcosa di distruttivo, un’arma letale, una sostanza micidiale, un virus indistruttibile. E tutto ciò che si cerca con ostinazione alla fine si trova. Nell’ultimo decennio, seguendo analoghe suggestioni che provengono dalla teoria della complessità e dalla scienza delle reti, il concetto di virus sterminatore si è ulteriormente evoluto. Può ad esempio rappresentare un impulso comportamentale profondo. Così in The Suicide Collectors, di David Oppegaard (2008), in cui una misteriosa epidemia di suicidi porta l’umanità all’estinzione, e così anche in Cell, di Stephen King. Questa volta la fine del mondo non è annunciata dalle fiamme o dalle trombe celesti, ma da uno squillo di un telefonino. Dopodiché il misterioso impulso, trasmesso in tutto il mondo, scatena la follia omicida. Il pianeta precipita nel caos, le istituzioni crollano e l’orgogliosa civiltà globale si dissolve per mezzo del cellulare, il più umile e il più universale strumento di quella stessa globalizzazione. Una variante della contaminazione tecnologica si avvale del concetto di «sciame», in inglese swarm. La differenza non è trascurabile. Il virus non ha testa né volontà, mentre lo sciame è un’entità collettiva che può esibire una sua intenzionalità, incomprensibile ma certa. Lo sciame è uno dei due simboli basilari del remake di The Day the Earth Stood Still (in italiano Ultimatum alla terra), per la regia di Scott 35

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Derrickson (2008). Il ciclopico robot Gort, inviato per distruggere il mondo, si trasforma in una miriade di microscopiche blatte volanti biomeccaniche. Lo sciame si moltiplica esponenzialmente, nutrendosi di tutto ciò che è materia vivente o manufatto umano. Il Gort originale, nel racconto di Harry Bates Farewell to the Master, pubblicato nella rivista «Astounding» nel 1940, è invece un robot senziente, membro dei veri dominatori della galassia. La riduzione cinematografica diretta da Robert Wise aveva però ridimensionato il personaggio in un goffo golem metallico, armato di un raggio disintegratore indicibilmente potente. Da dominatore Gort si trasforma in semplice strumento nelle mani di Klatuu, l’ambasciatore alieno, però pur sempre umano. In circa sessanta anni si attua la metamorfosi. L’agente extraterrestre invade lo spazio aereo come uno sciame di cavallette di biblica memoria. Gort rappresenta ora l’enigmatico angelo sterminatore del testo giovanneo, immerso in un eloquente silenzio. Al contrario, l’inutile brusio degli umani – sempre in cerca di negoziazioni – sottolinea lo smisurato potere conferitogli. Il motivo della nuova fine del mondo è la necessità di salvaguardare la preziosa e rara vita terrestre dalla dissennata distruttività umana. Si può notare più che una traccia dell’inconfessabile aspirazione nichilista sviluppata dai sostenitori della cosiddetta «ipotesi Gaia». Le astronavi galattiche preposte al salvataggio di Gaia hanno l’aspetto di abbaglianti sfere trascendenti, che catturano come altrettante arche di Noè tutte le forme di vita terrestre e marina, negando asilo solo all’uomo. La metafora della morte aeriforme si intuisce anche in Avatar di James Cameron (2009). I terrestri non possono respirare l’atmosfera di Pandora, satellite di Polifemo, gigante gassoso di Alfa Centauri, ma neanche possono respirare l’atmosfera del pianeta d’origine, superaffollato, inquinato e prossimo all’esaurimento. Al contrario i pandoriani, cioè il popolo Na’vi, liberi come l’aria cavalcano pterodattili alieni, dimorano in alberi ciclopici, esplorano le Montagne Fluttuanti: isole di Laputa moltiplicate in legioni. In questo spazio in cui i confini tra il cielo e la terra sono soltanto situazionali, i Na’vi cacciano, dimorano, generano, combattono, muoiono, ma sempre in perfetta connessione-comunione con il pianeta vivente. In Terra bruciata di Bállard una sostanza industriale colloidale ha coperto gli oceani, impedendone l’evaporazione. Il risultato è un pianeta senza 36

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acqua potabile, uno spaventoso inferno di polvere e violenza. Anche la fantascienza degli anni ’70 è ricca di simili fantasie. A Crack in the Sky, di Richard A. Lupoff, inizia descrivendo un pianeta morto a causa dell’inquinamento: Le particelle battevano all’esterno, producendo ognuna un suono talmente tenue che nessun orecchio umano avrebbe potuto percepirlo. Ma le particelle, tutte di piccole dimensioni, di struttura cristallina, di colori che oscillavano fra le varie sfumature di oliva, marrone, grigio e nero, ammontavano a infiniti trilioni. Battendo, sibilavano all’unisono. I milioni di sfaccettature della cupola trasparente vibravano in continuazione. Le particelle, cui la vibrazione impediva di depositarsi sulle sfaccettature della cupola, venivano scrollate vie e, strisciando lungo il segmento quasi verticale della struttura e più vicino al livello del suolo, finivano per accumularsi nei giganteschi fossati di terra battura che circondavano la cupola. Congegni automatici aprivano periodicamente grandi chiuse che davano sull’oceano. L’acqua morta si insinuava pigramente nei fossati. Le pompe sospingevano l’acqua, rigettando nell’oceano coperto di olio le scorie della combustione e i veleni organici. […] Sotto la cupola vivevano trenta milioni di persone. Era lunedì cinque giugno dell’anno 2000 d. C.21.

Era l’epoca in cui si sognavano le cupole geodetiche inventate da Richard Buckminster Fuller negli anni ’50: strutture capaci di inglobare intere città, baluardi degli ultimi residui di umana follia. L’apocalisse ambientale di A Crack in the Sky è il paradigma di questa particolarissima proiezione e vale la pena soffermarvisi. Trenta cupole, contenenti ciascuna trenta milioni di persone, rappresentano ciò che resta dell’umanità e ne procrastinano l’inevitabile fine. Da notare la ricorsività magica dei numeri. La civiltà dei consumi è implosa, provocando il collasso dell’ecosfera. L’aria e l’acqua sono ormai soltanto fluidi velenosi. Queste evocazioni letterarie maturarono in un clima intellettuale gravido di presagi. L’esaurimento delle risorse energetiche, l’esplosione de21 Richard A. Lupoff, A Crack in the Sky, 1976, Trenta milioni bruceranno vivi, trad. di Maurizio Lipparini, collana ‘Urania’ n° 797, Arnoldo Mondadori Editore, 1979.

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mografica e il collasso ambientale erano in quel tempo argomenti molto dibattuti. Com’è noto, il Club di Roma, costituitosi alla fine degli anni ’60 e formato da un gruppo di scienziati, commissionò al Massachussets Institute of Technology di Boston uno studio sugli effetti del modello di sviluppo consumistico-capitalistico. Da quel resoconto derivò la congettura che la catastrofe avrebbe colpito l’umanità entro la metà del ventunesimo secolo. Basato sulla tecnica matematica della dinamica dei sistemi di J.W. Forrester, il modello prendeva in considerazione vari parametri basilari, dall’incremento demografico allo sviluppo economico-finanziario, dall’inquinamento allo sfruttamento delle risorse naturali, e li proiettava nei decenni, attribuendo alle variabili valori plausibili. Il pionieristico studio affermò tra l’altro che la tecnologia e l’economia vigenti creano un sistema di scambio che valuta solo i prodotti e i consumi, ma non i rifiuti22. Lo studio riconosceva i limiti del modello, ma invitava il lettore ad adottare una prospettiva più ampia. Invece, una pressante campagna denigratoria relegò il Club di Roma nel ghetto intellettuale dei profeti di sciagure, nonostante esso avesse svelato un concetto ineludibile: la Terra è un sistema chiuso. Pertanto, l’incremento esponenziale anche di un solo parametro conduce molto rapidamente al punto critico. Lo studio avvertiva che il collasso sistemico non sarà visibile finché non si sommeranno i vari sintomi. Ciò vale soprattutto per l’inquinamento e per l’incremento demografico, parametri che nessun governo di alcuna nazione al mondo sarebbe stato all’epoca (e anche oggi) disposto a prendere in seria considerazione, considerando gli ostacoli politici, religiosi ed economici posti a chi avesse voluto adottare provvedimenti efficaci. Del resto, le proiezioni del Club di Roma furono condivise in tutto o in parte da altri celebri intellettuali. L’economista Ernst Schumacher, nel best seller Small Is Beautiful, denunciò l’insostenibile depauperamento delle risorse naturali e la fallacia del concetto di crescita illimitata in un

22 Meadows Donella H., Meadows Dennis L., Randers Jørgen, Buhrens III Willim W., I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachussets Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, prefazione di Aurelio Pecci, trad. it. di Filippo Macaluso, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, Milano, 1972, p. 20.

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habitat finito. Il sociologo francese Gaston Bouthoul negli anni ’50 sviluppò da parte sua le argomentazioni apocalittiche contenute in An Essay on the Principle of Population di Malthus (1798-1826), precisando il nesso tra l’incremento demografico e la guerra. Bouthoul dichiarò che è impossibile disinnescare l’arma demografica (da lui definita «guerra degli uteri») a causa delle sue stesse caratteristiche. Anni dopo Irenäus Eibl-Eibesfeldt, in Etologia della guerra, affermò che l’interazione fra l’esplosione demografica e lo sviluppo industriale avrebbe provocato l’inevitabile estinzione dell’umanità entro un secolo. Voci nel deserto. In tempi recentissimi e su basi matematiche ben più raffinate il fisico Willard Wells ha provato a calcolare le probabilità di sopravvivenza del genere umano nei prossimi secoli. I risultati non sono incoraggianti23. L’apocalittica letteraria e cinematografica nel frattempo si è diffusa come un virus, favorita anche dal web; come se il sistema di comunicazione vigente e dominante fosse l’interfaccia privilegiata per scandagliare le inconsce premonizioni collettive. Quanto più la razionalità politica tende a eludere le domande cruciali, in nome dell’amministrazione del presente, tanto più echeggia la voce dell’irrazionalità raziocinante della letteratura fantastica.

23 Cfr. Willard Wells, Apocalypse When? Calculating Haw Long the Human Race Will Survive, Springer Berlin Heidelberg New York, Praxis Publishing Ltd., Chichester, UK, 2009.

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II Apocalissi mistiche e filosofiche del primo Novecento

2.1 Il vincolo escatologico Nel suo celebre studio sull’antropologia della fine del mondo, Ernesto De Martino sostenne che la letteratura apocalittica moderna e contemporanea si caratterizza per l’assenza dell’orizzonte escatologico: Nella vita religiosa dell’umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, e cioè o come periodica palingenesi cosmica o come riscatto definitivo dei mali inerenti all’esistenza mondana […]. In contrasto con questa prospettiva escatologica, l’attuale congiuntura culturale dell’occidente conosce il tema della fine al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, lo spaesarsi dell’appaesato, il perder di senso del significante, l’impossibilità dell’operabile1.

De Martino definì poi «apocalittica senza escaton» il timore della fine

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Ernesto De Martino, Ibidem, pp. 469-70.

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del mondo disgiunto dalle eterne domande sul destino ultimo dell’uomo. Egli giudicava quasi tutta la cultura «alta» del suo tempo ricolma di questo sentimento: […] attraverso le arti e la letteratura la tematica di una apocalittica senza escaton si manifesta con tutta l’ampiezza di un fatto di costume, che chiede di essere analizzato. La «nausea» di Sartre, l’«assurdo» di Camus, la moraviana «malattia degli oggetti», il teatro di Beckett non riflettono soltanto questo particolare costume apocalittico della nostra epoca, ma il successo di questi prodotti letterari testimonia in quale misura essi trovino corrispondenza nella disposizione degli animi, e quindi come sia diffusa la sensibilità cui si richiamano. Ad un altro livello culturale, la letteratura fantascientifica americana, così ricca di oscure profezie sociali e di presagi di degenerazione e di estinzione, dell’uomo e del suo mondo, di regresso nell’informe, rende a sua volta testimonianza di come il tema di una apocalittica senza escaton abbia acquisito il carattere di un orientamento in certa misura collettivo, giovantesi, fra l’altro, per diffondersi, di tutte la potenza dei cosiddetti mezzi di comunicazione di massa2.

Cultura «alta» e cultura popolare sono dunque separate da un dislivello, sosteneva De Martino. Questa cornice di riferimento, totalmente vincolata alla cultura chirografica e tipografica, non poteva tenere nella giusta considerazione l’effetto proattivo dei vari media, né poteva dedurre dalle caratteristiche dei sistemi mediatici misti, all’epoca in rapida evoluzione ma primitivi rispetto ai nostri, il fatto oggi scontato che gli ambienti multitasking incoraggiano espressioni emotive estreme e generano il fenomeno dell’addiction. Esaminando la letteratura apocalittica moderna come un insieme coerente, De Martino assunse semplici differenze di grado tra le varie opere. Così, a una maggiore profondità di pensiero della letteratura «alta» doveva corrispondere la copiosa produzione popolare, destinata per sua natura al consumo immediato, sovente intuitivo, seducente ma superficiale; il tutto, come detto, racchiuso nell’univoca concezione detta «apocalisse senza escaton», caratterizzante la modernità e priva affatto di relazione con il divino.

2

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Ib, p. 691.

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La science fiction smentisce questa visione euclidea. Intanto, è davvero arduo, oggi, tracciare una linea di confine fondata sulle valutazioni estetiche tra i rappresentanti della cultura «alta» e gli «altri». Questo confine semplicemente non esiste. Tzvetan Todorov, nel suo classico studio sulla letteratura fantastica, non esita a chiarire il criterio fondamentale per definire il genere ricorrendo all’adeguazione dell’intelletto alla realtà. Il celebre filosofo bulgaro mostra che i migliori racconti di fantascienza ammettono elementi che appartengono al soprannaturale o al meraviglioso, trasformati in scenari «naturali»3. L’illogico diventa naturale, e si è indotti a integrarlo nei propri schemi concettuali, assumendo un punto di vista nuovo, aperto all’infinita varietà dei futuri contingenti. Se pure quel confine esistesse, allora occorrerebbe tracciarlo anche all’interno dell’opera di autori che hanno esplorato i sentieri della fantascienza, da Adolfo Bioy Casares e Primo Levi, da Jorge Luis Borges a George Orwell, da Doris Lessing a Franz Kafka. Inoltre, non esiste un rasoio di Ockham che riveli una profondità di per sé irraggiungibile tra gli autori citati da De Martino (le massime personalità ufficiali dell’intellighenzia dell’epoca) e altri, a torto confinati nella letteratura di genere. Questi ultimi, al contrario, hanno in molti casi sfidato il tempo e, guadagnando credibilità, oggi influenzano lettori e scrittori al pari e forse più dei primi. La fantascienza apocalittica crea un cortocircuito speciale. Qualunque sia l’evento che determinerà la fine del mondo, in qualsiasi modo esso sia immaginato o descritto, il solo fatto che non ci sarà un «dopo» azzera ogni discorso. La parola non ha più corso, men che mai la letteratura, poiché in tale alterazione radicale degli statuti della realtà decade qualunque potere transitivo del segno. Il secondo punto riguarda la natura del medium. È vero che la cultura «alta» e quella popolare si servono dello stesso medium, ma è anche palese che nel volgersi del Novecento entrambe le culture non hanno agito nel vuoto, ma si sono sempre confrontate con l’evoluzione degli altri media, dal cinema alla radio e dalla televisione al web. L’atteggiamento degli autori 3

Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Éditions du Seuil, 1970, La letteratura fantastica, trad. it. di Elina Klersy Imberciadori, Garzanti, Milano, 2000, p. 60 e 176.

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nei riguardi del proprio ipotetico «pubblico» tiene sempre conto di queste inevitabili interazioni. La letteratura apocalittica «popolare», rivolta a un astratto lettore che è anche ascoltatore, spettatore, e infine utente internettiano, navigatore cyberspaziale e prosumer, non nasce dalle stesse intenzioni né attinge alle medesime radici dell’apocalisse senza escatologia osservata da De Martino in alcuni grandi autori del primo Novecento. Non è sufficiente affermare che in questa letteratura la distruzione giunge da agenti non intenzionali, oppure è conseguenza logica dell’irrazionalità, della stupidità, della miopia, dell’avidità, e sostenere infine che questo involtolarsi nella melma degli humani generis mores sia l’inevitabile approdo della rescissione del contatto con l’invisibile, con la dimensione morale e con il divino. Le apocalittiche «popolari» moderne mostrano palesemente l’opposto; esse attingono a piene mani ai miti, alle tradizioni mistiche e religiose e a tutti i possibili echi escatologici. E allora, da dove provengono questi echi, e perché mai essi sono così indispensabili nell’economia noetica di racconti apprezzati da centinaia di milioni di lettori-spettatori? Una prima osservazione potrebbe concentrarsi sul richiamo inconscio alla completezza, suggerito da ogni narrazione; è impossibile sottrarsi alla forza delle tradizioni. Se la tradizione orale inizia con la testimonianza del fratricidio (l’uccisione di Abele, e tutte le analoghe varianti presenti in altre culture), quella stessa tradizione vincola l’epilogo del dramma umano a un necessario atto suicidario collettivo, o al suo riscatto. La science fiction apocalittica è quasi sempre apertamente escatologica, oppure essa cela l’éschaton dietro il paravento dei simboli tradizionali, e ne formula di nuovi, adattandosi alle suggestioni e alle novità dei tempi. Essa fluttua tra la testimonianza e il delirio, è sovraccarica di artifizi retorici e spesso predilige un campo d’azione immenso, trascinando il lettore in abissi spaziali, dimensionali o temporali, che però non oscurano il contenuto centrale, concernente l’azzeramento dell’umanità. I protagonisti sono sovente, se non sempre, individui bizzarri, monolitici, estremi, stravaganti, esasperanti, proprio come nei racconti epici. Anche il tempo della narrazione tende a dilatarsi, oppure è contratto oltre misura. Questa esplicita manipolazione temporale rimanda a un’inconscia mediazione tra la dimensione delle vicende umane e quella eterna del disegno supremo. 44

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Atmosfere frammentate, oniriche o surreali, sono conseguenze logiche di tali artifizi. Due colonne della science fiction apocalittica, Il padrone del mondo, la più rilevante opera di Benson, e La nube purpurea, capolavoro di Shiel (sul quale torneremo nel prossimo capitolo) si prestano meglio di altri testi a illustrare i principi sopra riassunti. Apparse a breve distanza l’una dall’altra, esse compendiano l’interpretazione della fine dei tempi secondo l’ottica protestante e cattolica. 2.2 La fine del mondo secondo Mattew P. Shiel Mattew P. Shiel nacque nel 1865 a Montserrat, nelle Indie Occidentali. Figlio di un predicatore, ebbe una vita movimentata, non priva di episodi bizzarri, come la sua incoronazione a re di Santa Maria di Redonda, un’isoletta in quel tempo ancora non reclamata da alcun governo. Lasciati gli studi di medicina in Inghilterra, iniziò a scrivere serial per i giornali, manifestando un sicuro talento per il bizzarro, il fantastico, il fantascientifico, il meraviglioso e l’horror. I personaggi della sua fluviale produzione (più di trenta romanzi e innumerevoli racconti) sono estremi, tirannici, contorti, spesso tormentati da pensieri a sfondo religioso e da visioni escatologiche. Negli ultimi anni della sua vita Shiel elaborò addirittura le basi di una «Religione della Scienza», che avrebbe dovuto sostituire l’obsoleto cristianesimo. Il suo capolavoro è il romanzo apocalittico The Purple Cloud, pubblicato in America nel 1901, poi riscoperto con insolita scadenza quasi ventennale nel 1928, nel 1948 e nel 1963. Trama ed elementi primari della narrazione sono ingannevolmente semplici. Il dottor Adam Jeffson parte per esplorare il polo nord. La tecnica nautica dell’ipotetico futuro in cui è ambientato il romanzo è molto progredita, ma per misteriose ragioni il Polo resta interdetto. Unico superstite della spedizione, Adam (già nel nome il logico successore del biblico progenitore) raggiunge il Polo, per scoprire con sgomento un lago formato da occhi che ruotano intorno a una stele centrale, sulla quale è incisa una scritta. L’incontro allucinante con il misterioso asse spirituale delle potenze planetarie, chiaro riferimento all’Apocalisse giovannea (Ap 4, 7), segna la fine dell’umanità. In quello stesso istante dieci vulcani sottomarini, disposti con innaturale regolarità lungo la dorsale oceanica, emergono 45

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all’improvviso, spandendo nell’atmosfera immense nubi di acido cianidrico che uccidono tutta la vita animale. Adam è ora l’ultimo uomo. Gli anni seguenti sono segnati da viaggi in tutto il pianeta, alla ricerca di eventuali superstiti, e dalla scoperta dell’inedita dimensione della solitudine assoluta. Adam non è semplicemente l’ultimo uomo, ma è l’Unico, con un’intensità che rammenta la dimensione stirneriana derivante dalla separazione e dall’emancipazione dagli altri, dal rifiuto di ogni condizionamento imposto dalle istituzioni e dalle gerarchie sociali. In questo viaggio interiore e spaziale, contraddistinto da una profondità introspettiva quasi agostiniana, Adam percorre tutte le tappe della progressiva svalutazione del mondo. L’orgia distruttiva cui si lascia andare, incendiando Londra, Parigi, Roma, Atene, Istanbul, Pechino e ogni altra rilevante traccia del genio umano, riflette il rancore, ma anche l’indifferenza nei confronti delle potenze trascendenti del bene e del male (nel romanzo il Nero e il Bianco). Il conflitto cosmico che ha provocato l’estinzione, della quale egli è stato strumento inconsapevole, apparentemente non lo riguarda. Queste tracce di mazdeismo non sono sorprendenti. Esse attraversano molta letteratura fantascientifica. Esempi a noi più vicini si trovano in La città sostituita o in Dies Irae di Philip K. Dick: il primo esplicitamente dedicato al conflitto cosmico tra Ahura Mazda e Ahriman, il secondo, ambientato in uno scenario postatomico, gravitante intorno alla figura di una divinità malvagia incarnata, e di un pittore chiamato a rappresentarla. Ma nella trilogia di Valis e in Radio libera Albemuth Dick forzerà all’estremo la relazione tra le enigmatiche incarnazioni tecno-spiritualiste e i destini ultimi dell’umanità, prefigurando alcune questioni cruciali che innervano le attuali filosofie postumaniste, come vedremo. Ma intanto si può notare che in questi libri tra loro collegati il fulcro dell’intricata vicenda è l’intelligenza tecnologica extrasolare denominata VALIS, acronimo di Vast Active Living Intelligent System. Valis è l’equivalente di un «sophotec» (nella terminologia di John C. Wright), o di una «Trascendenza» alla Vernor Vinge. Questi e molti altri vari neologismi o acronimi sviluppati da scrittori di fantascienza, mangaka o registi, designano sempre non meglio definite intelligenze ultraumane, talvolta interamente artificiali, oppure frutto del connubio tra l’I. A. e l’innesto umano (ma anche alieno), però sempre nell’ordine di grandezza che sfiora, se non di fatto coincide, con la divinità. Valis della divinità ha poteri fisici e 46

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mentali, s’inserisce nelle vicende quotidiane seguendo fini imperscrutabili, esiste su un piano di realtà che elude le categorie umane e riconfigura la possibilità di una relazione con l’esperienza del soprannaturale. Tali entità immaginarie derivano molte loro caratteristiche dalla tradizione zoroastriana, amalgamata con elementi cabalistici, neoplatonici, gioachimiti, ma anche con frammenti della dialettica böhmista e dell’antroposofia e con interpretazioni del bipolarismo junghiano. Questa miscellanea, tipica nella letteratura fantastica, configura una gnosi tecnoscientifica, ma non appartiene all’epoca di Shiel. Ciò nonostante il suo libro risentiva della tradizione avestica e, almeno di parte, di alcuni filoni di pensiero citati. Si percepisce quando Shiel affronta il tema della giustificazione, il principio di responsabilità nei confronti del mondo. Finché Adam resta l’Unico, il principio di responsabilità non sussiste, poiché la distanza ontologica con le entità supreme è incolmabile e priva di giustificazione morale. Adam, l’Unico-ultimo può legittimamente rifiutarsi, perché ogni negazione fonda la libertà. Invece egli sarà assorbito dall’inesorabile logica del supremo conflitto cosmico quando «casualmente» troverà l’ultima donna superstite. Da quel momento l’Altro, o per meglio definirlo «l’alterità feconda», diviene il ponte tra il suo smisurato Io e l’ordine trascendente delle possibilità. Perciò il primo impulso di Adam sarà omicida. Egli desidererà estinguere la vita dell’ultima donna, perché l’Unico non può condividere alcunché; soprattutto egli non può, non deve sdoppiarsi nella progenie, fuga infinita in una catena di alterità. L’onnipotenza terrena, la sconfinata libertà mentale dell’Io indiviso, è l’antitesi della dualità, della responsabilità, della progettualità. La semplice esistenza della prima-ultima donna, protetta dall’invisibile mano del Bianco, innesca una graduale riformulazione della relazione di scambio, cui Adam non può sottrarsi, neanche volendo. Come in L’ultimo uomo di Mary Shelley, così nel romanzo di Shiel il valore testimoniale della scrittura è il vero cardine dell’epopea. Adam affida i suoi pensieri a un diario, interrotto per diciassette anni (numero cabalistico, biblico, evangelico, misteriosofico e mistico per eccellenza). Poi, al termine del suo viaggio interiore, riprende la narrazione dei fatti. Ritroviamo l’enigma di una scrittura che non comunica, per definizione priva di pubblico, come in seguito sarà la scrittura incomprensibile 47

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dell’Oratore in Le sedie di Jonesco: lettere causali sulla lavagna, accompagnate da vacui rantoli, gemiti e suoni gutturali4. La scrittura per nessuno. Ovvero: «Dell’essenza paradossale della scrittura». Quella scrittura che nel suo prodursi è sempre un atto privato. Bart Simpson, noto personaggio del fumettista Matt Groening, costretto in ogni puntata a sopportare, nell’aula vuota, senza pubblico, estenuanti sessioni punitive di ricopiature alla lavagna, esprime col sorriso la stessa ineluttabile vacuità. Già la scrittura sul monolite al centro del Polo annunciava l’autoreferenzialità di un segno, significativo solo in teoria, e solo al limite infinito, atemporale, là dove si progetta l’alfa e l’omega dell’universo. Agli antipodi di questa scrittura paradossale Shiel pone la Sacra Scrittura, la scrittura come rivelazione. La prima-ultima donna svilupperà col tempo un legame inviolabile col Libro e nulla potrà il suo scettico Pigmalione. Ella vorrà infine darsi il nome di Eva, e solo dopo la vibrata protesta di Jeffson, che rileverà l’involontaria comicità dell’unione con un altro Adamo, opterà per Leda, in realtà altra figura di donna primigenia. Ma ancora Adam rifiuta categoricamente di unirsi a Leda, benché alla fine il romanzo si chiuda con l’ingloriosa capitolazione e con l’inevitabile deminutio capitis del protagonista. Il quale, invece, giganteggia proprio quando afferma il suo diritto inalienabile alla perfetta solitudine: È stato scritto: «Non si addice all’uomo la solitudine»; ma, sia un male o un bene questa sistemazione di un singolo abitante per pianeta, ormai mi sembra non soltanto naturale, ma l’unica naturale e acconcia: e tanto è così, che qualunque altra sistemazione mi pare adesso tinta di una specie di improbabile folle e ricercata irrealtà, come le utopie dei sognatori e dei lunatici. Che la terra sia stata sgomberata per me – che Londra sia stata costruita perché io possa godermi lo spettacolo eroico della sua distruzione – che la storia sia esistita al solo scopo di accumulare per il mio piacere le sue invenzioni, le sue scorte di vini e di spezie – tutto ciò non mi sembra più straordinario di quanto potesse sembrare straordinario a uno di quei piccoli duchi del vecchio ordine il fatto di «possedere» le terre di cui i suoi antenati avevano ucciso i proprietari5. 4

Eugène Jonesco, Les Chaises, in Téâtre, Le Rhinocéros, Librairie Gallimard, Paris, 1958, Le sedie, in Teatro, trad. it. di Gian Renzo Morteo, Einaudi, Torino, 1961, p. 141. 5 Op. cit., p. 177.

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È l’inversione logica del «guai a chi è solo» di biblica memoria (Ecclesiaste 4,10), e questo è il suo fondamento psicologico: Sono dieci volte Satrapo e Imperatore, siedo nel trono cento volte riconfermato della mia vecchia, obesa maestà: mi sfidi chi ne ha il coraggio! Tra quei lumi che ogni notte scruto a lungo può darsi che volino dei poeti, i miei pari e concittadini, ma qui sono l’unico; la terra china la sua fronte davanti alle mie porpore e al mio scettro ereditario: perché, per quanto essa tenti di adescarmi, non sono ancora suo; anzi, lei è mia. Ho l’impressione che siano trascorsi un milione almeno di evi, da quando altri esseri umani, più o meno simili a me, osavano sfacciatamente camminare alla luce del sole su questo pianeta; infatti non riesco più a immaginare, né veramente a credere del tutto, che un tale stato di cose – così fantastico, improbabile, strambo – possa mai essere esistito; sebbene, in fondo in fondo, capisco benissimo che così dev’essere stato; anzi, fino a una decina di anni fa ancora mi capitava di sognare che c’erano altri esseri umani, li vedevo a volte percorrere le strade come fantasmi, e mi inquietavano, e mi svegliavo; ma ormai non potrebbe accadermi una cosa simile, penso, quando dormo, perché la stravaganza di una tale circostanza certamente colpirebbe la mia mente, e mi farebbe capire che il sogno era un sogno. Perché adesso sono l’unico, sono il padrone6.

Ancor più radicale è la motivazione spirituale: C’era nel passato una setta religiosa che si faceva chiamare «socialista», i cui membri asserivano, e probabilmente erano nel vero, che l’uomo raggiunge il suo livello massimo quando si trova in società, e quello minimo nell’isolamento: perché la terra si impossessa di ogni isolamento, e lo attira a sé, per farlo spietato, vile e materialistico: come i sultani, le aristocrazie eccetera; ma il Cielo è dove due o tre sono riuniti insieme. Può darsi: non lo so, né m’interessa; ma io so invece che, dopo venti anni di solitudine su un pianeta, l’anima dell’uomo è più innamorata della solitudine che della vita, che essa si ritrae, come un nervo, davanti all’idea che un altro possa grossolanamente intromettersi nel regno furtivo del suo io, si ritrae con quell’amarezza con cui le caste solitarie – i bramini, i patrizi, gli aristocratici, i monopolisti – hanno sempre

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Op. cit., pp. 234-5.

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combattuto qualsiasi tentativo di invasione del loro regno di privilegi7.

Più che di desiderio, si deve parlare di aspirazione metafisica all’unicità, una condizione allucinata ma logica. Non è in questione la legittimità dell’aspirazione, ma la sua possibilità. L’Unico esclude l’orizzonte della negoziazione, cosicché l’unicità non è la meta, ma è in senso forte l’Origine. Vedremo poi che questa condizione ontologica è esplicitamente posta a tutela delle promesse irrazionali prospettate dalla tecnologia futuristica del ventunesimo secolo. Quest’ultima muta in condizione desiderabile l’annullamento della pluralizzazione, prospettando varie strategie per aggirare, se non addirittura per abrogare, l’orribile molteplicità degli enti. Shiel è radicale. La solitudine di Adam è «pienezza» colmata dall’espansione dell’Io (e non dell’evanescente «Sé» di analitica categorizzazione). Shiel chiude la traiettoria aperta da Daniel Defoe con l’invenzione del personaggio che rappresenta per definizione la solitudine quale assenza, vuoto, desiderio di ri-congiungimento corporeo, semantico, affettivo con l’Altro da sé. L’operazione chirurgica è resa possibile dall’eliminazione virtuale di tutte le alterità. Si può quindi anche dire che il desiderio di Robinson sorga dalla dipendenza, dal piacere della negoziazione con la varia pluralità degli esseri umani, ed è in definitiva nostalgia «mercantile», accuratamente quantificabile e monetizzabile non appena se ne dia l’occasione. Infatti, Robinson segnala il primato del commercio e della diplomazia in piena espansione coloniale britannica, e la sua è una solitudine valutaria. Shiel scrive invece all’apice di questo processo storico, poco più di un decennio prima del declino dell’Occidente europeo annunciato dalla Grande Guerra. Alle porte dell’Europa premono già sensibilità e storie che non trovano asilo. Alterità culturali, etniche, religiose, sospinte dalle inesorabili leggi della demografia, sono ai confini di un universo culturale che si prepara a implodere in una lunga e irreversibile crisi, cosicché non resta altra via di uscita che il delirio di una solitudine definitiva8. 7

Op. cit., p. 259. L’inviolabilità dell’unico e la sua perfetta libertà d’azione prosperano in ciò che René Guenon definiva «il regno della quantità», che si riverbera nella crisi irreversibile dei primi 8

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Certo, l’Unico-Adam è anche l’erede naturale di vari prototipi d’individui incondizionati, creati tra la fine del Settecento e gli inizi del Novecento, da Vathek di William Beckford al Capitano Nemo di Jules Verne. Se è vero che l’Unico s’invera attraverso il dominio della tecnica, è importante ricordare che la sua personalità non si esaurisce negli scopi della ricerca9. L’Io indiviso non coincide con lo stereotipo dello scienziato pazzo. Quest’ultimo, in tutte le varianti ideate in oltre due secoli, resta confinato nella sua stessa ossessione scientifica, cui il resto del mondo fa da sfondo. Invece, il traguardo dell’unicità destinale ha per orizzonte l’universo politico e psicologico, e si serve della tecnologia solo strumentalmente. L’ossessione offusca la mente di tutti quei personaggi, che altrimenti sarebbero soltanto «liberi» in virtù della loro superiore libertà di movimento mentale e fisico, e felici di esserlo. Il Capitano Nemo, Robur il conquistatore, il dottor Schmitt in I cinquecento milioni della Bégun, il barone Rodolphe de Gortz in Il castello dei Carpazi mirano alla grandezza e all’identità separata dell’Unico. Per realizzare il loro sogno autarchico essi ricorrono sempre alla tecnologia del futuro, o ne sono i diretti artefici, ma non si identificano mai con essa, e non apprezzano il frutto del loro genio per ciò che è ma solo in quanto strumento per qualcos’altro. Con un salto temporale di oltre mezzo secolo troviamo gli stessi elementi in Anni senza fine di Clifford D. Simak (sul quale torneremo) e in Il sole nudo di Isaac Asimov, entrambi scenari fantapolitici in cui la telepresenza, la robotica e l’energia atomica pulita favoriscono la disgregazione delle concentrazioni urbane in favore di entità abitative isolate nella nadecenni del secolo scorso. Cfr. Piero Marino, Le radici del tempo, Edizioni ETS, Pisa, 2011, p. 181 e sgg. 9 Più si moltiplica l’umanità, più si sviluppano sistemi di separazione che garantiscono l’invisibilità e l’inaccessibilità degli eletti. Quanto più la società globale – già in via di formazione agli inizi del Novecento – sviluppa sistemi di rilevamento spaziali, virtuali, biometrici, più l’ampiezza e la complessità dei flussi consentono la formazione di élites che possono ritagliarsi uno spazio-tempo separato, perfino fisicamente. Il pianeta intero si trasforma per alcuni – ma in linea di principio per l’Unico - in un palcoscenico sul quale collocarsi a piacimento, assecondando la volontà e la priorità del momento. Arthur Kroeker nel 1995 definì questa élite la virtual class, e sottolineò con questa espressione la sua relativa immaterialità. Questa cognizione è stata sviluppata da D. Lyon, che esplora l’impressionante evoluzione di ciò che oggi si chiama data mining in La società sorvegliata (Feltrinelli, Milano, 2001).

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tura. Asimov descrive con particolare vividezza la condizione della massima separatezza e unicità per ciascuno degli abitanti del pianeta-giardino. Ben prima che i progressi tecnologici rendessero d’uso comune la telepresenza e l’infohabitat, alcuni lungimiranti scrittori avevano intuito l’essenza psicosociale di questi strumenti (nella realtà mancano ancora all’appello sia la tecnologia robotica che l’illimitata energia pulita). Anche Robert Silverberg sviluppò il tema dell’Unico e della sua solitudine. In La torre di cristallo descrisse l’ascesa di Simeon Krug verso la solitudine. Krug è la quintessenza del self made man, individuo oscuro, che viene dal niente, ma provvisto di grande talento scientifico combinato a un’ambizione sfrenata, allo straordinario fiuto affaristico e al carattere d’acciaio. Krug è l’inventore di androidi protoplasmatici al servizio dell’uomo, secondo l’inalterabile fondazione mitologica risalente a Čapek. La principale tecnologia di comunicazione di questo mondo immaginario è il teletrasporto, strumento che azzera lo spazio e il tempo. Nonostante ciò Krug si lancia nell’impresa di costruire una torre di cristallo alta un miglio, variante ultramoderna della Torre di Babele. Il riferimento all’idea dell’architetto Wright è palese, ma in realtà si tratta di un’antenna per comunicare con gli extraterrestri che hanno inviato un messaggio dalle stelle. Krug è venerato dalle sue creature come un dio, è ricco più di Creso, temibile e potente come un imperatore. Ma resta pur sempre il risultato delle sue stesse geniali creazioni, un’antinomia vivente, ed è per questo che non può concedere loro il diritto all’esistenza, alla libertà e al libero arbitrio. L’uomo fabbrica i computer. L’uomo fabbrica gli androidi. Entrambi sono cose fabbricate. Non concedo cittadinanza alle cose. Neppure se quelle cose sono abbastanza intelligenti da chiederla. E da pregare per averla. Una cosa non può avere un dio. E io non sono il loro dio, nonostante quel che credono loro10.

Silverberg approfondirà il tema dell’individuo separato anche in Il labirinto e in Base Hawksbill, romanzi complementari che riducono il meccani-

10 Robert Silverberg, Tower of Glass, 1970, Torre di cristallo, trad. it. di Riccardo Valla, Ed. Nord, Milano, 1973, p. 157.

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smo di espulsione dell’umanità nella forma politicamente corretta della segregazione temporale irreversibile e dell’autoesilio in un luogo inviolabile. Ma all’epoca di Shiel era ancora lecito cimentarsi con la potenza degli assoluti senza render conto a un pubblico esperto, cosicché La nube purpurea riprende quanto già Nietzsche aveva lumeggiato trattando dell’insostenibile tensione tra la necessità di pensare il crepuscolo dell’antica metafisica – vera e propria elaborazione del lutto di un mondo ormai defunto – e nello stesso momento l’urgenza di dover fondare un nuovo inizio, l’aurora dell’avvenire: inveramento che nel secolo successivo si tramuterà nella sempre inattuale prospezione dell’utopia (aspramente tematizzata in Bloch, ad esempio), non a caso riflessa nell’inquietante inversione prospettica in numerose distopie letterarie, teatrali e cinematografiche. Tra gli effetti pratici di questa intollerabile tensione della dimensione inattuale, stretta tra il crepuscolo e l’aurora, vi fu la constatazione – appunto già ampiamente commentata da Nietzsche – del crescente peso specifico del passato nelle determinazioni del presente: è il cancro dell’accumulo della memoria (ripreso e rilanciato da Marinetti e dai futuristi), a sua volta effetto diretto e progressivo delle tecniche, in primo luogo della stampa, ma poi anche di tutte le pratiche e tecnologie che avevano conseguenze immediate sulla percezione stessa del tempo, e sul suo progressivo prolungamento in un passato sempre più carico di enti ed eventi; un passato affatto privo dell’Uomo, perciò immemore dell’uomo, anzi, da esso totalmente autonomo, come già dimostrò il Kern nel suo classico studio sul mutamento radicale della percezione temporale tra Otto e Novecento11. Inoltre, le crescenti conoscenze tecno-scientifiche (a loro volta nuovi elementi della memoria universale che si aggiungono ai vecchi) iniziano a vincolare le azioni, i pensieri, dunque anche le procedure quotidiane, a una crescente miriade di fattori esterni, di per sé vincolanti, ma dotati di potenti fantasmi simbolici: il progresso, l’utilità, il vantaggio economico, il prodotto interno lordo, l’organizzazione, il benessere; vincoli che fanno insorgere imperioso il desiderio della scissione, della fuga. Ma dove andare? Si 11

Cfr. Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918, Harvard University Press, 1983, trad. it. di Barnaba Maj, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995.

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è sempre immersi nella sfera delle significazioni. Sicché l’unico strappo possibile è la proiezione allucinatoria di un immane sipario che cali, all’improvviso, per tutti, salvo naturalmente sull’unico io narrante, nella paradossale trascrizione dei pensieri in parole prive di pubblico. Ecco come Shiel ricorre alla metafora del sipario: È questa dunque la fine? Non crediamo, non vogliamo crederlo. Dovrà il dolce cielo che oggi sorride sopra le nostre teste venire invaso fra nove giorni, forse meno, da questo fumo della Notte? Nonostante le dichiarazioni degli scienziati, ne dubitiamo ancora. Perché se così fosse, quale sarebbe stato allora lo scopo del grande dramma dell’Evoluzione, nel quale ci sembra di scorgere l’arte suprema del Drammaturgo? Certo, una fine da quinto atto di tragedia potrebbe sembrare logica, e soddisfare meglio il nostro senso della compiutezza; ma finora la Storia, per quanto ormai secolarmente venerabile, ci appare più come un prologo che come un ultimo atto. Possibile che il Direttore della compagnia, talmente insoddisfatto dello spettacolo, decida di spazzare tutto e “ritirare dal cartellone” la commedia per sempre?12

In La nube purpurea, al contrario, l’avatar del protagonista ha il privilegio di osservare lo scenario del passato, di farsene anzi il signore assoluto, solo però a patto di rinunciare ai futuri contingenti. Il futuro è nient’altro che l’insieme delle possibilità esistenti oltre l’intervallo del presente, ma concepite come infinite tensioni virtuali, senza alcuna cognizione delle sue espressioni e delle sue relazioni. Il futuro in fuga agisce sul presente come il pianeta sulle spalle di Atlante. Tra i due vettori del passato e del futuro, la cui opposta energia cresce quanto più ci si allontana dal presente, si crea perciò una tensione psichica insostenibile. La salvezza risiede nell’invenzione della fuga radicale, ovviamente nella dimensione proiettiva dell’immaginazione. Questa fuga si trasforma in parossismo nell’atto della distruzione di tutti i reperti, ricorrendo ad azioni di grande potenza vitalistica e catartica. Sono le splendide scene della distruzione di Tokyo, Parigi, Pechino, Amsterdam, Londra. Tutte cadono sotto la furia del fuoco scatenato da Adam Jeffson, l’ultimo uomo, in un com12

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Op. cit., p. 111.

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piacimento estetico che anticipa l’appello marinettiano a incendiare le biblioteche e i musei. Subito dopo mezzanotte ci fu un visibile dilagare della conflagrazione; dappertutto cominciai a vedere fabbricati che mandavano fiamme al cielo, con immensi urli di entusiasmo a decine, a gruppi di venti e di quaranta: fin dove arrivava la mia vista, li vedevo saltare, vacillare, cadere, mentre il mio spirito provava sempre più intensamente i più profondi misteri della sensazione, i più dolci brividi. Centellinavo squisitamente, attingevo senza fretta al mio godimento. […] Verso le tre del mattino raggiunsi l’apice dei miei piaceri perversi; le mie palpebre ebbre si chiudevano in una lussuria di godimento, e un sorriso sbavante schiudeva le mie labbra; un sentimento di cara pace, di potere senza limiti, mi consolava: […] e io – per primo tra tutti gli umani – ero riuscito a mandare un segnale luminoso ai pianeti vicini…13.

In questo singolare passaggio ritroviamo la stessa ansia di comunicare con l’altrove, con l’Altro immaginario, con l’Ego inattuale e pertanto rimosso, rappresentato dalla fantasmatica civiltà extraterrestre. Comunicazione quasi impossibile e comunque a stento concepibile, come fu il progetto SETI di Carl Segan: un’intrapresa che affascina perché costa immense risorse, ma senza garantire risultati; e poi comunicazione paradossale, perché proviene da una personalità che ha tagliato i ponti con la propria comunità, con l’altro da sé, con l’umanità intera. 2.3 Il cupio dissolvi di Richard Jefferies Richard Jefferies fu scrittore e giornalista inglese di buona fama, dal temperamento bucolico, per nulla attratto da visioni palingenetiche o dalle sirene della tecnologia. Eppure per un colpo di genio inventò una formula convincente di fine del mondo umano. Nel 1885 pubblicò After London. Wild England. Il romanzo si basa sul concetto di fine della civiltà per naturale estinzione, per esaurimento delle risorse psichiche e fisiche della specie.

13

Op. cit., pp. 194-5.

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Jefferies descrive i primi passi del processo di involuzione culturale, come se l’uomo tecnologico non avesse mai creato l’orgogliosa civiltà meccanica. Questo cupio dissolvi è accentuato dalla prodigiosa rigenerazione della natura, protagonista assoluta di After London. I primi quattro capitoli del romanzo descrivono la Grande Foresta come un solo organismo: I vecchi rammentano ancora quel che a loro avevano raccontato i padri, che cioè, poco dopo l’abbandono dei campi, si cominciò a notare un grande mutamento. Nella primavera successiva alla fine di Londra tutto divenne di un verde uniforme. […] Col passare degli anni le vecchie colture di grano, d’orzo, d’avena, di fave spuntarono dal terreno con forza decrescente, perché le ortiche ed altre piante più rustiche, come la pastinaca, si diffusero nei campi fuori dei fossi e le soffocarono. […] Nel giro di trent’anni non ci fu più uno spazio libero, ad eccezione delle alture, dove si potesse camminare agevolmente, a meno di seguire le piste di un animale o di aprirsi a forza un sentiero14.

Le città scompaiono senza alcun dramma, sommerse silenziosamente dalla vegetazione. All’invasione arborea segue quella del mondo animale: prima i topi, poi i gatti, i cani, le vacche, i maiali, i cavalli, le galline, le anatre, le oche, i conigli, le pecore, le capre. Tutte le specie, sulle quali l’uomo aveva posto il sigillo, traendole dalla natura per inserirle nel suo schema economico, tornano allo stato ferino. Alcune mutano addirittura abitudini, trasformandosi da mansuete in feroci, altre modificano considerevolmente il loro aspetto, in una sorta dì esplosione mutagena; quasi che la lunga coazione imposta dall’uomo reclamasse la rivincita delle libere forze della natura. Il «grande mutamento» – come lo definisce l’autore – è diverso da ogni altro stratagemma narrativo affine. Per esempio, nella serie televisiva britannica I sopravvissuti, ideata da Terry Nation per la BBC nel 1975, la responsabilità della catastrofe è ascrivibile a un virus patogeno, non alla misteriosa processione delle grandi estinzioni delle teorie darwiniane. 14

Richard Jefferies, After London. Wind England, 1885, Dove un tempo era Londra. Inghilterra selvaggia, trad. it. di Roberto Birindelli, Serra e Riva Editori, Milano, 1983, p. 20 e sgg.

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Inoltre, il principio di responsabilità governa gran parte delle fantasie postapocalittiche, dividendo equamente il suo spazio semantico con il fato, compagno imperscrutabile delle vicende umane. Così anche in The Day After Tomorrow, e ancora in Il pianeta delle scimmie, celebre romanzo di Pierre Boulle che narra la paradossale involuzione dell’homo sapiens. L’eccezionalità di Jefferies sta dunque nell’invenzione del crollo sistemico, l’implosione della civiltà per effetto dell’incremento della comunicazione, della specializzazione e della complessità, argomenti che oltre mezzo secolo dopo furono esaminati in un lucido quanto lungimirante saggio di Roberto Vacca15. Quando l’orgogliosa civiltà tecnologica sembra sul punto di spiccare il volo verso mete quasi divine, ecco che le strutture portanti della sua stessa esistenza collassano. In After London d’incanto milioni di persone abbandonano le loro case e fuggono altrove. Però non si sa il perché, né dove andranno. Questa inesplicabile migrazione di massa, principiata dai ricchi e non dai miserabili, colpisce tutto il pianeta, cosicché non vi è virtualmente luogo di destinazione. È un movimento browniano senza significato, salvo che il senso non si nasconda in una volontà non umana: Gli abili artefici delle città se ne andarono tutti e ogni cosa cadde nella barbarie; né fa meraviglia, poiché quella poca gente del tempo, isolata, aveva abbastanza da fare per sopravvivere. Le comunicazioni tra un luogo e l’altro furono del tutto interrotte, e se per caso qualcuno si ricordò di qualche congegno che avrebbe potuto servire, non ci fu la possibilità di parlarne a un altro che conoscesse il resto, in modo da poter insieme ricostruire la macchina. Con la seconda generazione perfino questi ricordi frammentari andarono perduti16.

Il protagonista, Felix Aquila, appare solo nella seconda parte del romanzo. Felix è il cadetto di una famiglia nobile in declino. Appassionato

15 Cfr. Roberto Vacca, Il medioevo prossimo venturo. La degradazione dei grandi sistemi, Mondadori, Milano, 1971 e la nuova edizione aggiornata in www.printandread.com. Peraltro da queste premesse Vacca si è esercitato con successo nel genere catastrofista in La morte di megalopoli (1974). 16 Ibidem, p. 33.

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di scienze, di storia, egli in questo medioevo prossimo venturo è per definizione un emarginato: Le pergamene contenevano il risultato del suo meditare; erano zeppe di annotazioni su volumi decrepiti, che giacevano nell’oblio più profondo nelle case di altri nobili. Si trattava di libri di una vetustà estrema, perché quando gli antichi partirono i libri moderni da loro stampati vennero abbandonati alla mercé delle intemperie, e quindi marcirono o andarono distrutti dai fuochi che spesso si levavano dalle erbacce. Si salvarono invece quelli che erano stati preservati dagli antichi nei musei; tuttora se ne trovavano negli angoli più bui, da dove venivano prelevati occasionalmente dai servi per accendere il fuoco. I giovani nobili, dediti alla caccia, agli intrighi amorosi, alla guerra, ricoprivano di ridicolo Felix Aquila quando lo sorprendevano a meditare su quelle reliquie e tanto fecero che egli, orgoglioso e suscettibile com’era, smise di dedicarsi con zelo esclusivo a quegli studi […]. Se fra gli antichi il sapere era stimato più di qualsiasi altra cosa, ora, in virtù di una specie di contrappasso, era l’attività più disprezzata17.

L’espulsione di Felix non tarderà. Varie circostanze lo costringono alla fuga. Inizia così un viaggio estenuante e pericoloso. In effetti, il libro termina senza accennare a una conclusione del percorso, senza catarsi. Felix servirà un violento reuccio locale, poi diventerà un esploratore, poi ancora signore del popolo dei pastori, condottiero, cacciatore e nuovamente esploratore. Nell’ultimo capitolo le sue tracce si perdono tra le sterminate selve britanniche. Tuttavia, la tappa più interessante delle sue peregrinazioni sarà l’involontario attraversamento delle periferie della grande metropoli, là dove un tempo era Londra: Quegli scheletri erano i resti miserevoli degli uomini che si erano avventurati in cerca di antichi tesori nelle ferali paludi che si estendevano sul sito della più potente città dei tempi andati. Sotto i suoi piedi si estendeva, deserta ed estinta, la città di Londra. Era penetrato proprio nel cuore di quel luogo terribile sul quale gli avevano

17

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Ibidem, p. 57.

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riferito tante leggende: che la terra, l’aria, l’acqua, l’aria erano veleno, perfino la luce del cielo che passava per quella atmosfera diveniva veleno.[…] Il suolo sul quale camminava, la terra nera su cui lasciava impronte fosforescenti alle sue spalle, era formato dai corpi decomposti di milioni di uomini che erano passati ad altra vita nei secoli durante i quali la città era esistita18.

Si direbbe uno scenario postatomico. Chi attraversa la città muore avvelenato da misteriose esalazioni. La bussola si demagnetizza, vapori luminescenti evocano i milioni di fantasmi seppelliti nella città silente. Per non dire delle impronte fosforescenti, che ai contemporanei non possono non annunciare le devastanti radiazioni atomiche sprigionate dalle barre di uranio di una centrale nucleare abbandonata. Felix scamperà a un destino atroce per puro caso, in virtù del vento favorevole, ma solo per intraprendere una via del ritorno alle origini. Lo aspetta il bosco, la selva oscura, immagine delle ere senza memoria e senza storia. Ecco il punto. L’esaurimento naturale della storia si può dire il centro stesso della narrazione, la sua energia propulsiva. Naturalmente si tratta di una proiezione irragionevole, poiché per essere riconosciuta come tale la fine deve essere narrata, riconducendo il meccanismo memoriale ancora una volta alla virtù testimoniale del segno. Il fascino dell’eterno presente e la negazione della storia catturò anche altri contemporanei di Jefferies. Edgar Rice Burroughs, il creatore di Tarzan, vagheggiò la magnifica condizione adamitica del buon selvaggio di rousseauiana memoria. Il fascino di Tarzan inizia quando è poco più che una belva, matura quando è uomo della giungla, cresce quando diviene capobranco delle grandi scimmie ed eccelle quando, affidandosi alla sua superiore intelligenza, signoreggia sull’immenso paradiso terrestre dell’Africa subsahariana. Del pari il suo charme decresce quando incontra gli aborigeni, quando diventa il loro re, quando si trasforma in esploratore nella città perduta di Opar, e si azzera del tutto quando riconquista la sua autentica eredità culturale, razziale, linguistica, economica e politica nei panni di John Clayton, Lord Greystoke.

18

Ibidem, p. 197.

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Il percorso evolutivo di Tarzan è paradossale e antiscientifico (perfino all’epoca di Burroughs)19, ma quale metafora dell’attrazione quasi irresistibile, esercitata dal mondo privo affatto di esseri umani e in ogni caso senza storia, esso è impareggiabile, cosicché tutti i libri succeduti al primo volume altro non furono che commenti alla nostalgia delle origini, in quel remoto pianeta silenzioso fatto unicamente di nervi all’erta, impulsi primitivi, desideri e appagamenti tanto violenti quanto effimeri. E ancora e sempre nessuna storia. 2.4 L’Armageddon tecno-spirituale di Robert Benson Nella prefazione di Il padrone del mondo Robert Benson avvertiva il lettore a non cedere allo sconforto che lo avrebbe toccato fin nelle profondità. Il libro inizia con la narrazione della fantastoria successiva agli anni dieci del Ventesimo secolo. In Inghilterra si afferma il Partito del Lavoro, d’ispirazione marxista. Nel 1939 scompare la chiesa ufficiale, nel 1945 si abolisce la Camera dei Lord e si scatena la guerra ideologica contro tutte le fedi. Dilaga il materialismo. Durante un Concilio Vaticano intellettuali e sacerdoti aderiscono in massa ai principi del modernismo. Anche le religioni orientali sono in declino, mentre in Occidente il cattolicesimo e l’umanitarismo combattono la battaglia finale. Quest’ultimo è una religione priva di soprannaturale, sorta di panteismo tecnocratico, che sostituisce l’Uomo a Dio. In Europa e in America il processo di scristianizzazione pare inarrestabile. Protagonisti del romanzo sono padre Percy Franklin, prete cattolico londinese destinato al soglio pontificio, il politico umanitarista e massone

19 Già La Mettrie ne discuteva in L’uomo macchina. Si intuiva che l’esposizione al linguaggio nelle prime fasi della puerizia doveva giocare un ruolo determinante nella sua corretta acquisizione, come oggi è ben noto. Il Tarzan che impara la semantica dell’inglese semplicemente studiando un abbecedario (basandosi sulla corrispondenza biunivoca tra segni astratti e le immagini, senza alcun riferimento ai suoni, trattando quindi parole e frasi quasi come ideogrammi) era una patente assurdità perfino all’epoca di Burroughs. Però, se considerata come una metafora dell’uomo adamitico, che nomina le cose in assenza del linguaggio naturale (perché l’uomo adamitico è solo), essa è un’immagine mitica convincente.

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Oliviero Brand e il misterioso Giuliano Felsemburgh, futuro Padrone del mondo, il più convincente anticristo della letteratura moderna e contemporanea. Benson, anticipando Orwell, descrive un mondo politicamente diviso in grandi blocchi tra loro in conflitto: la Confederazione d’Oriente, l’America, la Russia e l’Europa, in procinto di unificarsi per resistere alla pressione degli altri giganti. La filosofia dominante è il panteismo quietista, secondo cui Dio è l’insieme degli esseri viventi nella loro perpetua evoluzione: L’unità impersonale: questa era l’essenza del Dio in cui credeva Oliviero. La rivalità individuale, professata da alcuni, era la vera e grande eresia religiosa: spingeva gli uni contro gli altri e arrestava il progresso. Il progresso, per Oliviero, era invece una successione di processi di annullamento: l’individuo nella famiglia, la famiglia nella nazione, la nazione nel continente, il continente nel mondo. E cos’era il mondo stesso se non la manifestazione di una vita impersonale? […] Questa unità dei beni terreni coincideva con la negazione del soprannaturale e del concetto di persona. […] Certo, non mancano i misteri. Ma i misteri lusingano e non disperano la mente, che intravede, così, sempre più alte mete e sempre gloria maggiore nelle sue scoperte. Questo spirito del mondo è in grado di animare anche le cose senza vita, i fossili, la corrente elettrica, le stelle lontane; tutti sono vivi nello spirito del mondo, che inebria con la sua presenza e che parla di se stesso20.

In Benson sono evocati i fondamenti dell’attuale pensiero transumanista in prospettive ipertecnologiche. Questo passaggio di stato giustifica e promuove l’annichilamento della tradizionale condizione umana. Il mondo ha raggiunto traguardi degni del ventunesimo secolo in cui si colloca la finzione narrativa: treni ultraveloci sfrecciano silenziosamente, bizzarri aerei civili simili a fantastici dispositivi antigravità trasportano passeggeri da un capo all’altro del pianeta. Le città sono quasi automatizzate, il sistema di produzione e distribuzione delle merci è molto

20 Robert Benson, Lord of the World, 1907, Il padrone del mondo, trad. it. di Paola Eletta Leoni, Jacka Book, Milano, 1987, pp. 25-6.

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efficiente, le abitazioni sono confortevoli, ergonomiche e indistinguibili dagli standard attuali, ed esistono armi micidiali. Gli individui sono apparentemente ben addestrati alla convivenza civile, ricercano il benessere collettivo, indulgono al pacifico soddisfacimento dei piaceri leciti. Eppure accadono frequenti manifestazioni di massa. Folle persecutorie si radunano all’improvviso, l’entusiasmo irragionevole o la ferocia ingiustificata si scatenano al minimo pretesto. Benson comprende molto bene il potere occulto della propaganda che sfrutta mezzi più sofisticati della semplice stampa quotidiana, e infatti descrive strani e giganteschi cartelloni elettronici, collocati nei punti strategici della città, che anticipano o persino prefigurano gli attuali billboards, i megaschermi che costellano i centri delle moderne metropoli21. Certo, a proposito di manipolazione emotiva delle folle è opportuno rammentare che le opere di Gustave Le Bon, di Scipio Sighele o di Georg Simmel dedicate a questi fenomeni di «sciame», come si definirebbero oggi, erano patrimonio comune degli intellettuali d’inizio secolo. Benson, però, sembra percorrere una nuova rotta, presagendo in qualche modo la suggestione ipnotica collettiva inaugurata dalla radio e dalla televisione, mezzi che, nel suo scenario futuribile, non compaiono in modo esplicito, poiché la rete di comunicazione descritta si basa sul telefono, sul telegrafo e sulla stampa. Tuttavia Felsemburgh, l’anticristo del romanzo, sembra avvalersi di qualcosa di più che non la semplice parola o la propria presenza fisica. Ecco ad esempio una descrizione del suo inesplicabile magnetismo: Mai la folla, con tanta commozione e tanto entusiasmo, aveva risposto a un oratore; e quello era il più grande oratore che mai fosse stato udito da orecchio umano […] E poi quest’uomo… No. Percy non sapeva dire che cosa lo

21

L’idea dei cartelli stradali luminosi con scritte elettriche (se non elettroniche ante litteram, perché in movimento) era nell’aria. Oltre che in Lord of the World, essa affiora nelle descrizioni della città futura in When The Sleeper Wakes, scritto da Herbert G. Wells nel 1899 e rivisto nel 1910. Giganteschi slogan pubblicitari direttamente proiettati nel cielo furono ancor prima immaginati da Villiers de L’Isle-Adam in L’affissione celeste, novella dei Contes cruel, pubblicati nel 1883.

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avesse ammaliato […]. Fu solo lo sforzo della sua volontà (e il solo ricordo lo angustiava) a impedirgli di darsi per vinto (corsivo mio, n.d.r.)22.

L’attualità di Il padrone del mondo deriva dal nocciolo del conflitto che si combatte intorno allo statuto ontologico dell’essere umano e delle sue creazioni. Per esempio, la dolce morte è regolarmente praticata dai «ministri dell’eutanasia», dipendenti statali che somministrano un cocktail di narcotici e veleno anche a coloro che non lo richiedono espressamente. Tanto l’arte quanto l’opinione pubblica sono al servizio delle idee dominanti, e se la filantropia universale ha sostituito la carità, del pari la cultura ha spodestato la fede. Si affermano idee superomiste basate sulla sopravvivenza dei più capaci23, sul progressivo mutamento dell’uomo24, soprattutto per mano della scienza e della tecnologia. Inoltre, al limite di questo presunto percorso evolutivo non esisterebbero più divisioni, stati, individui, organizzazioni e contese, ma solo un superorganismo che trascende le singole componenti: La personalità unificata prendeva il posto delle singole unità. Questo cambiamento, che poteva essere considerato come un passo verso la maturità, dava origine a nuovi diritti. La razza umana aveva ora un’autocoscienza d’unità, con una suprema responsabilità nei confronti di se stessa: sparivano dunque i diritti degli individui che erano giustamente riconosciuti nelle epoche precedenti. L’uomo ora aveva il supremo dominio sopra ogni cellula di questo Corpo mistico e non poteva che considerare illimitati i diritti del tutto, allorché una cellula agiva a danno del corpo25.

Vedremo poi quanta affinità esiste fra queste proiezioni letterarie di un secolo fa e le attuali teorie sulla «singolarità»; ma l’origine remota della dottrina antropologica professata da Felsemburgh è rintracciabile nei fondamenti del totalitarismo hobbesiano, laddove si afferma che l’individuo si 22

Ib., p. 126. Ib., p. 221. 24 Ib., p. 246. 25 Ib., p. 275. 23

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completa e si annulla nella superiore essenza del Leviatano. Se in Hobbes, com’è noto, l’incarnazione dello Stato assoluto si fonda ancora sull’inscindibile relazione tra mondo spirituale e terreno, lo sfondo filosofico in cui si muove Benson è invece chiaramente nietzschiano e perfino postnietzschiano. Felsemburgh è l’incarnazione dell’anticristo, dell’antinichilista, del «vincitore di Dio e del nulla», dell’uomo dell’avvenire progettato in Genealogia della Morale26e profetizzato in Così parlò Zarathustra. Su questo nucleo Benson innesta qualcosa che non è ancora del tutto chiaro nell’orizzonte speculativo del suo tempo: la prefigurazione della singolarità tecno-politica e la conseguente riconduzione della sfera spirituale all’interno della realtà storica e materiale per effetto della tecnica medesima. In questa logica si presenta e si precisa la promessa di una qualche forma di redenzione in terra. Il singolo può così aspirare a fondersi in un universale virtualmente eterno, garantito dalla potenza paradigmatica del padrone del mondo. Giuliano Felsemburgh, il cui nome evoca Giuliano l’Apostata, è perciò una figura enigmatica perfino nell’economia del fantastico. Essa sembra travalicare i limiti della sospensione del giudizio. Folle oceaniche in tutto il globo lo chiamano alla guida delle nazioni. I biografi definiscono Felsemburgh salvatore del mondo, oppure spirito del mondo (di hegeliana memoria), e figlio dell’Uomo. La processione delle iperboliche attribuzioni segue la sua crescente influenza politica e spirituale. A Felsemburgh si addicono gli appellativi di creatore, redentore, salvatore, assoluto, nonché di infinito, di alfa e omega e, come Domiziano, di dominus et deus noster27. La sua crescente influenza sulla scena mondiale è evocata ma mai descritta in prima persona. Felsemburgh e padre Percy, futuro papa Silvestro, sono entità polari, che si fronteggiano sempre a distanza. Però Percy è una presenza viva, ne seguiamo il travagliato dramma passo dopo passo, fino alla fine; Felsemburgh è invece una figura astratta, remota e innaturalmente elevata. Le due 26

Friedrich Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, 1887, Genealogia della morale, in «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo II, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano, 1968, XI ed. 2002, pp. 86-87. 27 Loc. cit.

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individualità hanno la stessa età (trentatré anni, come Gesù) e sono fisicamente molto simili, tanto da apparire gemelli. È il voluto indizio di un rispecchiamento simbolico, specularità modellata dai rispettivi domini spirituali. Eppure il bene e il male non sono semplificazioni euristiche, anzi, il male illimitato in tutto il romanzo si ammanta di bene, e viceversa. In Benson non c’è alcuna banalità del male, nessuna chiarezza del bene, ma tutto si trasfonde nella logica di un dramma cosmico trascendente, da cui discende la conclusione apocalittica. Dopo la conquista del potere Felsemburgh scatena la persecuzione finale contro i cattolici. L’abiura di massa ha già annientato tutte le altre religioni, che hanno riconosciuto la superiorità del pensiero umanitaristico. Le persecuzioni si susseguono in tutto il mondo finché Roma stessa, ultimo cuore della cristianità, sarà rasa al suolo con un tremendo bombardamento aereo che prefigura Hiroshima. Papa Silvestro si rifugia a Nazareth e lì, nei pressi di Meghiddo, vive l’esperienza del passaggio dalla fede alla visione. Così Benson connette il suo romanzo fantastico alla profezia giovannea. Il luogo ove dimora l’ultimo papa è anche il centro della consumazione di tutte le cose. Nella visione Silvestro sa che sta per giungere il Dies irae. Il profilo del padrone del mondo s’ispira invece alla figura di Robespierre, soprattutto perché le sue azioni politiche discendevano da profonde convinzioni teologiche. Gobbi ha dimostrato che buona parte dell’ispirazione rivoluzionaria di Robespierre derivò dalla sua formazione giansenista, riconoscibile tra l’altro nel decreto sul culto dell’Essere Supremo proposto alla Convenzione il 7 maggio 1794. Le feste della Paternità, della Maternità, della Solidarietà, che in Il Padrone del mondo saranno istituite in sostituzione delle ricorrenze cristiane, ricalcano non a caso le analoghe celebrazioni dedicate all’Essere Supremo, alla Natura, al Pudore, alla Frugalità, alla Fedeltà coniugale, create da Robespierre allo scopo di riformare la liturgia e di preparare per le masse la realizzazione del regno giansenista28. Anche la regalità di Felsemburgh ricalca la tradizione escatologica legata a un monarca di stirpe davidica potentissimo, immensamente saggio e capace di risollevare le sorti nazionali, con la variante che nell’era dell’inci28 Romolo Gobbi, I figli dell’apocalisse. Storia di un mito dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1993, p. 241.

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piente globalizzazione lo scenario politico abbraccia il mondo intero. Non a caso Norman Cohn notò che le Apocalissi di Baruch e di Ezra, appartenenti al I secolo d. C., predicono l’avvento di un re-guerriero dotato di poteri unici e miracolosi. Questo elemento per così dire «cripto-superomistico» si perpetua in Benson, benché con un capovolgimento, poiché l’essere sovrumano è l’Anticristo. Com’è noto, tracce di questa stessa proiezione mitologica produrranno legioni di supereroi, a iniziare da Superman, il cui nome kriptoniano è Kal-El29, equivalente extraterrestre di messia. L’epilogo di Lord of the World è un caso unico nella letteratura apocalittica moderna poiché il messaggio della rivelazione si realizza alla lettera, è pienamente escatologico, pienamente compiuto. Flotte aeree d’inimmaginabile potenza guidate dal vascello di Felsemburgh si dirigono verso l’ultima dimora del vicario di Cristo, spargendo morte e distruzione, ma mentre il dramma si compie contemporaneamente il regno dei cieli irrompe in tutta la sua infinita potenza: Sì! Era giunta l’ora dell’Uomo, che Dio attendeva! Dall’alto, sotto l’ombra di quella vòlta tremante che si era fatta, in fondo, di un colore impensabile, Egli, a tutti ignoto fuor che a Lui, veniva. Sul suo carro veloce veniva Colui, contro il quale sono state sì a lungo rivolte le sfide30.

L’apocalisse, nel suo originario significato di «rivelazione», si traduce nella grandiosa immagine della luce che trasforma in ombre evanescenti le schiere del padrone del mondo, l’Erede delle età temporali, il Principe delle creature ribelli. Tutto ciò è accompagnato dal canto liturgico, perché esso è al di là della spiegazione, oltre la logica delle parole concatenate in 29

Kal-El (o Kal-L, come compare nelle prime strisce), su indicazione degli stessi autori Jerry Siegel e Joe Shuster, si trova normalmente tradotto con “Voce del cielo”; ma ‘El’, com’è noto, significa Dio, e “Kal” può significare “tutto”, “la totalità”, “chiunque”, “ogni”, “qualunque”, (cfr. Philippe Reymond, Dizionario ebraico e aramaico biblici, Roma, 2001, p. 197). Perciò, questo nome di pura invenzione potrebbe anche significare “divinità qualunque” o “Dio in tutto”, ma anche “ogni divinità” o, per negazione logica, “nessuna divinità”, il che ci riporta alla proiezione mitologica delle potenze naturali condensatesi in un avatar, in un segno grafico. 30 Ib., p. 326.

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una trama. L’apocalittica di Benson è perciò una piena professione di fede nella verità intrinseca delle scritture e si produce negli stessi termini posti quasi un secolo dopo da Sergio Quinzio nel suo Mysterium iniquitatis. Non a caso il teologo inventò in questo breve libro il contenuto delle encicliche dell’ultimo pontefice, papa Pietro II, nome allegorico, perché, secondo la profezia del monaco medioevale Malachia (noto falso storico), l’ultimo papa assumerà lo stesso nome del fondatore della Chiesa, annunciando al contempo la fine del mondo. Le due encicliche immaginarie di Quinzio, Resurrectio mortuorum e Mysterium iniquitatis, sono piccoli capolavori compendiari, scritture problematiche e urticanti. Esse hanno il merito di rievocare gli ineludibili temi della fine del tempo e della storia, del risarcimento e della colpa, dell’attesa e dell’insondabile mistero divino, della fede e del nichilismo. Tuttavia, non sono opere letterarie, perché per sua stessa dichiarazione l’autore non crede nella rappresentazione della realtà, non crede cioè nella «menzogna della realtà», di nietzscheana matrice, superata, a suo giudizio, dalla fede31. Eppure Benson toccò gli stessi temi con l’artificio di una narrazione fantastica piana e lineare. Le false promesse della tecnologia e della tecnocrazia, l’anticristica liberazione da ogni vero rapporto spirituale che si riflette nella dissoluzione delle relazioni sociali, dei vincoli familiari e delle identità culturali, la falsa promessa della risoluzione di ogni conflitto in terra per mano di una personalità suprema, appunto di un anticristo dotato di singolari poteri, la stessa riduzione dell’iniquità a semplice colpa, o peggio al frutto del condizionamento psicologico, e la sua necessaria inversione nella strategia persecutoria e infine nella soluzione finale, sono tutti elementi presenti nel romanzo di Benson con forza pari al saggio di Quinzio, perché la fonte ultima è in definitiva un’opera che al di fuori dei canoni di fede non è altro che mito, meglio ancora, è quel potentissimo altrove che si irradia dalla narrazione fantastica. Pubblicato nel 1907, in piena belle époque, Il padrone del mondo anticipa le tensioni internazionali che saranno all’origine dello scoppio della prima guerra mondiale. 31

Sergio Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995, p. 93. Cfr. anche Salvatore Natoli, Il crollo del mondo. Apocalisse ed escatologia, Editrice Morcelliana, Brescia, 2009, p. 59 e sgg.

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Lord of the World descrive con impressionante analogia le persecuzioni, le epurazioni dei diversi, dei non integrati, dei disadattati; solo che in luogo degli ebrei, dei Rom, degli omosessuali e dei malati mentali, le vittime sono i cattolici. Benson prevede inoltre la mortale fusione tra la finanza, l’amministrazione e la tecnica su scala globale, che affinerà progressivamente i propri strumenti pervasivi dopo la seconda guerra mondiale. Egli svela in anticipo di un secolo le illusioni di un progresso tecnologico indefinito e infinito, coglie infine segni inequivocabili dei tempi nel perduto rapporto tra le generazioni, nell’umanizzazione quasi idolatrica degli animali, nel culto del potere e della ricchezza, nella guerra senza guerre. Escatologia. Pura escatologia.

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III Futurismo apocalittico

3.1 Futurismo post-simbolico Il Futurismo fu attraversato dalla corrente carsica dell’estetica apocalittica fin dai suoi esordi. Il punto otto del celebre Manifesto di fondazione del movimento, pubblicato su «Le Figaro» il 20 febbraio 1909, recitava: «Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri». Ma trovarsi sul promontorio estremo dei secoli, al di là (o al di sopra) del Tempo (la storia) e dello Spazio (la fisicità, la corporeità), altro non significa che stabilirsi sul crinale della fine del mondo; da qui la svalutazione del passato incarnato negli artefatti (i musei) o nelle tradizioni (le biblioteche). Pensieri e opere che morirono ieri. La fine del mondo, e non solo di un mondo, ma di tutto il mondo così com’era stato conosciuto e interpretato fino agli inizi del ventesimo secolo, anzi l’idea stessa che l’uomo potesse essere sul punto di sperimentare una condizione esistenziale inesprimibile in parole, rappresenta senza dubbio il messaggio più potente e meno interpretabile del testo, tant’è che il suo contenuto ultraradicale è stato per lo più schivato, o ricondotto al movente della provocazione estrema, rivoluzionaria o reazionaria. Questo destino appartiene a tutte le parole che hanno il sapore della rivelazione, della profezia. Simili percezioni sfuggono dalle strette maglie dell’interpretazione, anche perché ne annullano in anticipo il senso. D’altronde, il resto della 69

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produzione teorica futurista fu propositivo, e si distinse nei contenuti da ogni altra avanguardia storica perché non fu un progetto ma una pratica, specialmente una prassi comunicazionale1. Tralasciando i provocatori ancorché generici appelli alla distruzione delle biblioteche, delle pinacoteche, degli stili o dei modi d’essere del passato, per il resto tutti i manifesti futuristi mirano a fondare qualcosa di nuovo. Essi furono tutti o quasi in senso lato costruttivi e concreti. Ad esempio, nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, pubblicato da Marinetti l’11 maggio 1912, si legge il seguente annuncio: «Essere compresi, non è necessario». Una perentoria affermazione, che prelude alla distruzione della sintassi, all’abolizione degli aggettivi, degli avverbi, dei sostantivi, della punteggiatura. Queste stesse proposte, sviluppate nel manifesto Distruzione della sintassi immaginazione senza fili parole in libertà, scritto l’11 maggio 1913 e pubblicato su «Lacerba» del 15 giugno e del 15 novembre dello stesso anno, in realtà anticipavano l’idea della comunicazione post-simbolica, intuita poi dai pionieri delle reti informatiche e delle realtà virtuali. Questa percezione derivava da una sorprendete consapevolezza delle trasformazioni in atto. Anticipando McLuhan di circa quarant’anni, capì che le forme della comunicazione non solo contengono il messaggio, ma sono esse stesse il messaggio, e lo dichiarò: «Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno […] non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza. […] Queste possibilità sono invece per l’osservatore acuto altrettanti modificatori della nostra sensibilità»2. Elencò poi ben diciassette conseguenze di questi mezzi sulla percezione, molte delle quali attuali, fino a prefigurare i concetti mcluhaniani del villaggio globale e delle tecnologie intese come protesi del sistema nervoso umano. Ma oltre alla piena coscienza del presente, Marinetti tentò

1 Cfr. il mio Futurismo come comunicazione, in Il Futurismo nelle avanguardie. Atti del Convegno Internazionale di Milano, a cura di Walter Pedullà, Edizioni Ponte Sisto, Roma, 2010, pp. 525-38. 2 F.T. Marinetti, Distruzione della sintassi immaginazione senza fili parole in libertà, 11 maggio 1913.

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Futurismo apocalittico

con mezzi in quel tempo insufficienti di forzare l’idea stessa di comunicazione, inglobando strategie sinestetiche che oggi definiremmo a pieno titolo post-simboliche. Tra gli altri Jaron Lanier, com’è noto, definì «post-simbolica» la comunicazione libera da vincoli fonetici, grammaticali e sintattici, una comunicazione che si serve di strumenti o di modalità dell’esperienza capaci di espandere i significati. Lanier ritiene che le tecnologie informatiche (in particolare la realtà virtuale) possano in futuro dotarci d’interfacce espressive del tutto nuove e infinitamente più potenti e versatili della parola o della stessa scrittura. A quel punto la comunicazione produrrà una dimensione «altra», in cui i segni e i documenti perderanno gran parte della loro forza persuasiva, come pure il valore di testimonianza. In un universo post-simbolico saremo tutti padroni di quelle stesse illimitate potenzialità che caratterizzano il mondo del sogno o della trance, poiché il linguaggio post-simbolico risiede nelle architetture delle interfacce. Le complessità e capacità mutagene della tecnologia informatica sono virtualmente infinite e con ogni probabilità potranno un giorno superare lo stadio di interfacce rigide3. La rivoluzione tecnologica in atto non poteva esser prevista agli inizi del secolo scorso, eppure nell’aria si respiravano le sue premesse. Quando Marinetti propone di «[…] sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia»4 quando, esponendo il concetto di immaginazione senza fili, si scaglia contro l’Io letterario, egli descrive una condizione della comunicazione realizzabile solo in una cornice escatologica e post-simbolica. Ma quale?

3 Riccardo Notte, Millennio virtuale, Seam, Roma, 1996, p. 153 e sgg.; Jaron Lanier, You are not a gadget. A manifesto, A. Koptf, 2010, Tu non sei un gadget. Perché dobbiamo impedire che la cultura digitale si impossessi delle nostre vite, trad. it. di Marco Bertoli, Mondadori, Milano, 2010, p. 243 e sgg. 4 F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Manifesti futuristi, a cura di Guido Davico Bonino, Rizzoli, Milano, 2009, p. 116; Cfr. anche Archivi del Futurismo. Manifesti programmatici, Tomo I, a cura di Matteo D’Ambrosio, Quadriennale di Roma - De Luca Editori d’Arte, di prossima pubblicazione.

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3.2 Marinetti profeta della fine del mondo Indizi si trovano in vari personaggi della produzione letteraria marinettiana, altrettante incarnazioni di proiezioni transumaniste. Nel celebre romanzo Mafarka il futurista il semidio di Gazurmah, l’eroe «senza sonno», il figlio di Mafarka, rappresenta all’ennesima potenza questa nuova condizione ultraumana5. L’essenza di Gazurmah è indecifrabile, intraducibile e non simbolizzabile. La sua nascita consegna la vecchia umanità all’oblio, all’estinzione, dunque alla fine del mondo, alla morte e alla rinascita in una forma corporale immortale, incontaminabile e «pura». Gazurmah è un gigante, ultrapotente e immortale, figlio della sola mente di Mafarka. Egli è perciò un essere monogenetico, come la dea Atena, ma costruito e non generato: prototipo dell’uomo-chimera meccanico, protoplasmatico, metamorfico. La sua creazione (appunto una nonnascita) annuncia la rinuncia alla condizione umana, alle sue passioni, alle sue debolezze. Questo Superman ante litteram realizza nella fantasia marinettiana il passaggio a una condizione che destina il resto dell’umanità all’oblio. Marinetti in persona delucidò il suo pensiero nell’interrogatorio che aprì il processo seguito al sequestro della traduzione italiana del romanzo, accusato di oltraggio al pudore: Vi ho descritto l’ascensione impressionante di un eroe africano, fatto di temerarietà e di scaltrezza, che dopo aver manifestato la più irruente volontà di vivere e di dominare in battaglie ed in avventure molteplici […] non sazio ancora di aver foggiato il mondo a suo piacimento, si innalza subitamente dall’eroismo guerresco a quello filosofico ed artistico. Egli vuol creare e crea, in una lotta sovrumana contro la materia e le leggi meccaniche, il suo figlio ideale, capolavoro di vitalità, eroe alato a cui trasfonde la vita con un bacio supremo senza il concorso della donna, che assiste al tragico parto sovrumano. Io volli, con questo romanzo, dare all’uomo una speranza illimitata nel suo perfezionamento spirituale e fisico, svincolandolo dalle ventose della lussuria e assicurandogli la sua prossima liberazione dal sonno, dalla stanchezza e dalla morte. 5 F.T. Marinetti, Mafarka il futurista, 1910, trad. it. di Decio Cinti, a cura di Luigi Ballerini, Mondadori, Milano, 2003.

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Volli descrivere l’elevazione gloriosa della vita, che fu vegetale, animale e umana e che si manifesterà presto in un prodigioso essere alato ed immortale. Volli sconfinare il divenire dell’uomo in una moltiplicazione infinita di forze e di splendore (sottolineature mie, n.d.r.)6.

In questo discorso si palesa l’idea che l’essere artificiale del futuro inaugura una radicale discontinuità con il flusso della vita. Nel romanzo il frutto della discontinuità dichiara guerra radicale alla vita intera. L’essere artificiale chiamato Gazurmah sfida le forze della natura, rappresentate dai quattro elementi. Egli minaccia innanzi tutto il sole, cioè il fuoco, l’energia, e lo sottomette alla sua volontà. Poi duella con l’aria, impersonata dalle Brezze Beffarde, e la sconfigge. Sottomette anche l’acqua, rappresentata dal Mare, e infine la terra stessa. Poi, nell’ultimo impeto di gloria, egli (o esso) sfida l’umanità. Gazurmah assiste impassibile alla distruzione totale della città, complesso di elementi che rappresenta la natura sociale di tutti gli esseri umani. Non a caso egli è solo, è per definizione l’Unico. È in atto un conflitto cosmico. Gazurmah si libera pertanto anche del padre, schiacciandolo come un insetto, rescindendo così ogni legame con la mente che l’ha inventato. Il taglio netto che recide il legame tra l’umanità vicaria, artificiale, superiore e immortale, con la sua puteolente, imperfetta matrice organica è scolpito nell’inconscio collettivo fin dalla sua prima apparizione. Ad esempio, in Terminator e in altre saghe affini si riconosce a vista quest’odio implacabile verso la matrice. Liberatosi del padre, Gazurmah annienta senza esitazione anche l’eterno femminino, incarnato nella figura allegorica di Colubbi (forse dall’arabo qulūbī, «i miei cuori», o anche da kalabī, «la mia brama»). Colubbi è la Madre Terra che ha assistito alla nascita di Gazurmah (senza parteciparvi). Per questo suo strano, innaturale atto voyeuristico Colubbi avanza diritti quasi genitoriali sul superuomo, ma nello stesso tempo invoca la morte. La Madre Terra, generatrice per essenza, non può accettare la subordinazione implicata in un’azione puramente retinale, quindi pas-

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Ibidem, p. 240.

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siva, estranea all’interiorità del corpo e al buio estremo e sacrale della matrice. Capendo che il suo tempo è scaduto, Colubbi invoca la fine perché consapevole dell’opposizione insanabile, della discontinuità radicale provocata dalla creazione dell’entità superaddita. Solo dopo aver assistito con infinito godimento alla distruzione totale, Gazurmah dispiega le sue immense ali e si lancia verso l’infinito: Indietro, Sole, re detronizzato a cui ho distrutto il regno!... Io non temo le tenebre infinite!... Io non sono un uomo strisciante che si sforza, durante la notte, di spingere la sua piccola testa di tartaruga fuori dell’immenso guscio del firmamento!.... Il firmamento?... Io ne sono il padrone!... Le mie grandi ali possono dare cento battiti ad ognuno dei miei respiri. E il mio soffio piega le foreste, perché ho polmoni immensi e disposti alle atmosfere irrespirabili che dovrò attraversare immergendomi nello sguardo obliquo e rosso di Marte!7

3.3 Lo strano caso di Ruggero Vasari Anche altri futuristi rivelarono, almeno a tratti, aspirazioni per così dire «criptochiliastiche», senza dubbio derivanti dalla consapevolezza di trovarsi a un capello dalla definitiva obsolescenza della tradizionale condizione umana, logorata dalle dirompenti potenzialità della tecnologia. Ma a differenza di altre e devastanti ideologie della prima metà del ventesimo secolo, il Futurismo non propose miti salvazionisti. Questi, semmai, caratterizzarono il nazismo e il comunismo sovietico, a tutti gli effetti movimenti neomillenaristi che basarono la loro mitologia sul ruolo mistico assunto di volta in volta dall’élite, da un leader quasi divinizzato o dal proletariato che conquista l’egemonia, ma innervando tali proiezioni salvifiche nella tangibile metamorfosi operata dalla tecnologia. Il più noto tra futuristi «millenaristi» è forse Ruggero Vasari, messinese ed esponente del futurismo siciliano, ardito, anarchico, in contatto con gli ambienti del movimento dal 1915, ma anche, dal soggiorno berlinese in poi, con esponenti del dadaismo parigino e dell’espressionismo tedesco.

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Ib., p. 228.

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Poeta e scrittore, ma soprattutto autore teatrale, Vasari è ricordato per il Ciclo delle macchine, di cui fanno parte L’angoscia delle macchine e Raun. L’angoscia delle macchine, scritto nel 1923 tra Capri e Parigi, presto tradotto in francese, tedesco e russo, ma pubblicato integralmente solo nel 1925 sulla rivista «Teatro» e in volume per le edizioni Rinascimento di Torino, presenta fin dalle prime battute gli ingredienti degli scenari apocalittici che caratterizzeranno la letteratura fantastica del ventesimo secolo. La Terra è sconvolta da un’immane guerra interplanetaria. Giove invia migliaia di astronavi, ma la Terra si difende costruendo milioni di ciclopici aspiratori che catturano i vascelli nemici. Il conflitto consuma anche la civiltà terrestre. I sessi sono stati separati per sempre. Le donne, relegate in un continente, tentano di resistere alla fine annunciata, ma gli uomini, asserviti alle macchine e persi nei loro sogni di potere, ormai privi di qualunque desiderio sessuale, anelano solo all’autodistruzione: BACAL

Quando il nostro corpo sarà inetto – quando il nostro genio si spegnerà – prepareremo l’ultima distruzione. Le nostre opere – i nostri corpi indomabili si mescoleranno con la terra – con le macchine – nella fine stupenda. E saremo i soli a dare il segnale del supremo sconvolgimento!

SINGAR

Noi – i grandi creatori.

BACAL

Noi – i grandi distruttori8.

Questo il colloquio rivelatore tra i tiranni Bacal e Singar. Così anche lo scienziato Tonchir, mentre prova i comandi di una sua misteriosa macchina metamorfizzante, congegno che ha forse ispirato l’utero elettromacchinico sperimentato da Rotwang in Metropolis di Fritz Lang (1927): Disumanare gli uomini – renderli più macchine – uomini che non sono più uomini. (pausa) Eppure… che non nasca da qui – l’ultimo sconvolgimento di questo mondo aberrato? (con gioia feroce) Dopo di noi – più nessuno! Ultimi 8 Ruggero Vasari, L’angoscia delle macchine, in L’angoscia delle macchine e altre sintesi futuriste, a cura di Maria Elena Versari, : due punti edizioni, Palermo, 2009, p. 11.

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Fenomenologia della fine del mondo

abitatori – ultimi despoti!9

Altra entità fantastica, che anticipa i vari multivac della fantascienza degli anni ’50, è la Macchina-cervello, che sintetizza il pensiero dei tre despoti Bacal, Singar e Tonchir, trasmettendo i loro ordini telepatici agli uomini-schiavi, sui cui crani è innestato un casco dotato di antenna. I condannati alle macchine sono quindi come marionette manovrate da fili invisibili, anche questa un’anticipazione, per esempio dei Borg di Star Trek. Essi simboleggiano lo stadio in cui l’umanità non brama altro che la fusione funzionale con le sue protesi artificiali. In questa epopea cyborg ante litteram si staglia Lipa, regina delle donne, l’unica figura anomala perché ancora umana, persa nel tentativo inutile di rifondare le relazioni basate sull’amore. L’impresa è destinata al fallimento. L’oggetto d’adorazione è ormai la macchina-cervello, feticcio dall’inflessibile anima di metallo, proiezione dei sogni e degli incubi di Tonchir, il demiurgo, che ha donato a tutti l’oblio del pensiero unico. Egli ha distrutto le individualità, riconducendole al comun denominatore della perfezione macchinica. Se non che, la macchina-cervello non può sopportare il suo particolare stato di solitudine, quindi impazzisce e si autodistrugge, trascinando nell’oblio l’intera umanità: BACAL

Il cervello si oscura – la nube rossa opprime mozza il respiro (correndo verso la macchina) È la macchina che vince! Noi i creatori – ora gli schiavi! No! No! Macchiiiiiiinaaaaaaa! Maaaaaachiiiiiinaaaaaa! Fermati! (si getta sulla macchina come se volesse fermarla) Tu… tu… uccidi… tutti… tuuuuutiiiii… tuuuuu…10

Vasari tornò sull’apocalisse anche in Raun, testo teatrale del 1932. Qui la civiltà tecnologicamente avanzata è dominata dalla tirannia dell’uomo 9

Ib., p. 19. Ib. P. 36. Da notare l’uso della simbologia numerica nascosta, per esempio nelle vocali di “macchiiiiiiinaaaaaaa”, dove sette ‘i’ e sette ‘a’ che alludono forse ai sette sigilli dell’Apocalisse. Inoltre, sempre in ‘maaaaaacchiiiiiinaaaaaa’, troviamo sei ‘a’, sei ‘i’ e ancora sei ‘a’, ed è oggi fin troppo scontata la simbologia apocalittica del numero 666 (Ap 13, 18). 10

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rosso. Al centro della città di Raun s’innalza una torre di oltre novemila metri, in costante crescita, così alta che sulla sommità bisogna lavorare muniti di apparecchi respiratori. Schermi televisivi garantiscono la videosorveglianza (in netto anticipo su 1984 di Orwell), Gli uomini, chiamati èrgoni (da «erg», l’unità di misura dell’energia e del lavoro nel sistema centimetrogrammo-secondo), distinti per sigle alfanumeriche e non per nomi (proprio come in Noi di Zamjàtin e nella cruda realtà dei lager nazisti) appaiono spersonalizzati e robotizzati. Le donne sono parimenti meccanizzate. Infatti, la «ginemacchina», complesso apparecchio simile al moderno computer, distingue d’imperio le donne in tre classi: le madri, le femmine destinate al piacere sessuale degli èrgoni e le lavoratrici comuni. In questa società l’espressione di normali sentimenti (l’«umanarsi») è un delitto capitale:«[…] Se le nostre femmine dovessero tutte generare – se ad esse fosse lasciata libera la scelta dei maschi – rinascerebbe nuovamente il sentimento – lebbra delle nostre epoche precedenti»11, afferma Sacar, compagna dell’uomo rosso. E quest’ultimo non è da meno: Perché punire l’umanità con le angosce dello spirito? Abbiamo la più grande civiltà: la civiltà elettromeccanica. Ogni individuo è una piccola ruota di questa grande macchina – di questa assoluta perfezione di vita. Abbiamo trovato le sorgenti della vera felicità. Non esistono più egoismi di razze – siamo una sola razza. I nostri pochi figli non portano più nel sangue la decadenza del genitore. Tutto è ordine – disciplina. La macchina – la nostra divina ed adorata creatura – ci ha insegnato la costanza – la misura – la precisione. Nulla di più desideriamo12.

Ma la civiltà elettromeccanica nega la vita stessa, cosicché Volan, l’architetto della torre, e Saib, lavoratrice che ha rifiutato le ferree decisioni della ginemacchina in virtù di un’inattesa gravidanza, si ribelleranno alle inflessibili leggi della logica:

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Ruggero Vasari, Raun, ibidem, p. 66. Ib., p. 51.

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Fenomenologia della fine del mondo SAIB

Nei labirinti di cemento e di ferro della Metropoli – l’umanità ha dimenticato le fonti della vita. Il figlio della terra lotta contro la madre.

VOLAN

Raun sa che la terra muore – il suo grembo è ormai condannato alla sterilità. La macchina – che tutto poté – non potrà arrestare la grande legge!

SAIB

L’aria si rarefà – l’acqua si prosciuga. La terra sarà il mondo della morte – nera ed inutile rotolerà nello spazio. Nessuna macchina vincerà la morte!13

In Raun troviamo una delle più interessanti costanti dell’apocalittica tecnologica, già riscontrata in Mafarka il futurista, romanzo che si conclude con il volo di Gazurmah verso le stelle, e destinata a ripetersi in mille varianti fino ai nostri giorni. Si tratta della fuga onirica dalla terra morente per mezzo del volo spaziale. La sideronave, ultima e definitiva conquista della fredda logica della civiltà rauniana, consentirà la diaspora verso le stelle, ma del pari rivelerà il vero contenuto dell’ideologia robotica: l’identificazione dell’umanità con la divinità e la chimera della potenza illimitata. L’UOMO ROSSO

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Ib., p. 77. Ib., p. 82.

(parlando all’apparecchio) Pionieri di Marte – vi porgo il mio saluto. Siete degni figli della dea – Macchina – che tutto vince. Cosa vi resta da compiere su questa terra decrepita? Più nulla! Abbiamo inginocchiato ai nostri piedi gli ultimi idoli. Abbiamo superato l’angoscia di Dio e l’idea del Destino. Dio è l’uomo – l’uomo è Dio. Iniziati ed èrgoni di Raun! Le facoltà creative della nostra civiltà sono quasi esaurite. Resta il vostro ardimento – resta il vostro eroismo – che avete innalzato agli astri! Pionieri di Marte – navigatori dello spazio! Il vostro genio inventivo vi porterà ancora in altri pianeti – e poi sempre in altri! Avete annullato distanze incommensurabili. Avete allontanato la Morte! Iniziati ed èrgoni di Raun – pionieri di Marte! L’uomo è Dio!14

Futurismo apocalittico

E non importa se Raun si concluderà con la ribellione contro la civiltà macchinica, con il ritorno alla terra, con un nuovo patto fra l’uomo e la donna e con l’accettazione della creaturalità. Certo, il rifiuto del concetto di autosufficienza apre il dramma alla speranza, ma nei sottotesti si intuisce che la forza della macchinazione può imporre alla storia un cammino senza alternative. 3.4 Il millenarismo di Volt Il Futurismo degli anni ’20 e ’30 ci consegna vari esempi di opere catastrofiste. Tra queste il romanzo Il sole spento di Ulderico Tegani (Milano 1920), l’inedito dramma Squilibri (1942) di Giuseppe Pompilj e un film sperimentale del 1936-37, oggi disperso, intitolato Gli ultimi uomini, per la regia di Edmondo e Ferruccio Cancellieri e Raul Perugini15. Un testo tanto notevole quanto poco noto, anch’esso esplicitamente apocalittico ed escatologico, compendia al meglio questa particolare seduzione estetica. Si tratta del romanzo futurista dall’inequivocabile titolo La fine del mondo, del conte Vincenzo Fani Ciotti, in arte Volt (Viterbo, 1888 – Bressanone, 1927), apparso per la prima volta nel 1919 in edizione privata e poi pubblicato dalla «Modernissima, casa editrice italiana» di Milano nel 1921. Il libro si apre con le parole di papa Silvestro, l’ultimo pontefice: Nel silenzio, nella solitudine dell’Agro, papa Silvestro predicava alle ultime turbe dei fedeli la fine del mondo. Guai a te – tuonava il vegliardo con l’indice della mano teso verso la città dei sette colli – guai a te, o Roma! Ma che dico Roma? Guai a te, Babilonia! Perché la profezia dei padri nostri si è avverata. «Roma non sarà più Roma », Roma non è più Roma, da che non siede più nel Vaticano il Vicario di Cristo! L’empia setta massonica ha invasa e profanata

15

Cfr. Domenico Cammarota, Fantascienza, in Il dizionario del Futurismo, a cura di Ezio Godoli, Vallecchi, Firenze, 2005, tomo II, pp. 429-34, e Domenico Cammarota, Futurismo. Bibliografia di 500 scrittori italiani, a cura di L. M. Barbero, volume a cura del Mart di Trento e Rovereto, Skira, Milano, 2006.

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la sede di Pietro. La meretrice che il veggente di Patmos vide in sogno, detta legge da Roma a tutti i popoli del mondo. I falsi profeti hanno sedotto il gregge cristiano. Satana, Satana regna sulla terra! Ma io vi dico: l’ora del Signore si avvicina. I tempi sono maturi per l’ultima vendemmia. Guai a te, o Babilonia! Poiché l’ira del Signore ti spremerà come l’uva nel tino della vendemmia. Io ti dico: non è lontana l’ora della fine del mondo. Iddio ci invia i suoi segni, affinché gli uomini si convertano. La terra non è più solida sotto i nostri piedi. Intiere regioni si sprofondano, e il mare monta là dove erano le montagne. Esalazioni pestifere emanano dai crateri dei vulcani spenti simili alle esalazioni di un cadavere quatriduano. A poco a poco l’atmosfera terrestre diviene irrespirabile agli uomini. La fertilità della madre terra si va esaurendo. Tutto ciò ne dimostra, o fratelli, che l’ultimo giorno è vicino16.

L’anno delle vicende è il 2245. Pochi decenni prima, nel 2197, il chimico italiano Assenna scopre un materiale antigravitazionale ispirato alla favolosa cavorite ideata da H. G. Wells nel 1901 in The First Men in the Moon. Da quel momento i confini dello spazio cosmico sono idealmente infranti senza ricorrere né a improbabili mezzi di trasporto in auge sin dall’epoca di Luciano di Samosata, né ai violenti cannoneggiamenti interplanetari alla Verne. La liberazione dai lacciuoli gravitazionali favorirà la conquista delle stelle, noto motivo marinettiano. Costituita la società «transeterica», con lo scopo di esplorare e colonizzare gli altri mondi, le navi spaziali si lanciano verso i pianeti del sistema solare. Marte si rivela un deserto. Venere, al contrario, possiede una civiltà avanzata, ma anche un’atmosfera inaccessibile perché composta da sostanze psicoattive così potenti che esportate sulla Terra sostituiscono in breve l’oppio e l’hashish. Resta Giove, abitato da bizzarri umanoidi, possibile terra di conquista per l’umanità altrimenti allo stremo. Il romanzo espone vari concetti sulle relazioni tra la politica e la guerra in una prospettiva jüngeriana, poiché prevalgono conflitti tra i mezzi e non più tra uomini; idee che Volt del resto palesò nel breve scritto Teoria sociologica della guerra, del 1917-18, in cui troviamo enunciati decisamente aberranti, misti a notevoli intuizioni che 16 Volt (Vincenzo Fani Ciotti), La fine del mondo, Modernissima casa editrice italiana, Milano, 1921, II ed. a cura di Gianfranco de Turris, Vallecchi, Firenze, 2003, p. 27.

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precorrono gli studi polemologici di Gaston Bouthoul. In La fine del mondo abbondano previsioni politiche e fenomeni di là da venire: flussi migratori incontrollabili, squilibri demografici di segno opposto nelle varie regioni del mondo, rivoluzioni o guerre intestine innescate da tali esodi. Egli pronostica anche la nascita delle nazioni europee unite e il governo mondiale nelle mani della Società delle Nazioni, che dovrebbe garantire la pace. Di fatto domina la superpotenza egemone. La democrazia prospera, ma in realtà il pensiero dominante, incoraggiato dalla propaganda, spegne tutte le differenze e normalizza ogni intrapresa. Il nome di Silvestro, attribuito all’ultimo papa, suggerisce la lettura del romanzo di Benson; vari sono i parallelismi con Lord of the World: per esempio il complotto mondiale perpetrato dalla società massonica, la presenza di un leader particolarmente carismatico nella figura di Abramo Lattes, presidente degli Stati Uniti d’Europa. Sono minutamente descritte le sistematiche persecuzione dei cattolici, le manifestazioni di piazza, l’espulsione della Chiesa dal Vaticano (con la trasformazione della basilica di San Pietro in sede del parlamento), e finanche la distruzione di San Pietro, preludio al cataclisma universale, come nel recente 2012 di Emmerich. Tutto ciò rende La fine del mondo un’opera enigmatica, soprattutto se si rammentano i dettami della modernolatria e del culto della macchina, basilari nel primo futurismo. Certo, dagli anni ’20 Marinetti dirotterà il culto ottocentesco per la meccanica verso estetiche ascensionali e immateriali sempre più accentuate, anticipando di mezzo secolo e più gli eventi. Saranno il volo umano e le prime comunicazioni elettroniche via etere a ispirarlo, com’è noto17. Nonostante la metamorfosi, l’estetica futurista non implicò mai una critica sistematica alla tecnica, sul presupposto – peraltro corretto nella sostanza – che non è possibile modificare processi strutturali e irreversibili introdotti dalle innovazioni tecnologiche. Meglio cavalcare la tigre (e comprenderla) che esserne divorati, benché ciò implichi un atto di fede negli incubatori materiali e culturali del futuro. E allora da dove proviene il millenarismo esplicito di un Volt o di un Vasari? Forse il messaggio futurista fu così estremo proprio per invalidare 17 Gino Agnese, Il profeta Marinetti cinquant’anni dopo, in «Mass Media», XIII, n. 5, 1994, pp. 38-41.

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proattivamente l’evidenza del suo opposto. Solo alcune personalità, appartenenti a mondi culturali antagonisti ma costrette a vivere in condominio, riuscirono a contemplare i due lati della medaglia, e a esporli secondo il proprio talento. Infatti, in La fine del mondo non c’è prodigio tecnico che tenga. Nessuno si salverà dal giudizio universale, a nulla varranno l’ardimento, l’inventiva o l’audacia degli avanguardisti; un messaggio opposto al concetto di «ricostruzione futurista dell’universo», titolo e contenuto di uno dei più celebri manifesti del movimento. Gli arditi, capeggiati dal poeta e boxer Tomaso El Barka (evidente sosia di Marinetti), dominano le titaniche forze di una tecnologia futuribile, ma nulla potranno contro il decreto divino. Impadronitisi delle otto gigantesche astronavi, costoro abbandoneranno la terra morente, per muovere alla conquista di Giove. Un gesto da disperati; e un’esplicita critica alla fuga onirica verso l’altrove che caratterizzerà non solo il futurismo, ma – come vedremo – anche tutte le narrazioni influenzate dalla visione transumanista del progresso, e parimenti tutte le opere d’arte che ne svelano le angosce sottese: Suprema follia! I figli di Caino abbandonavano la Terra, per tentare la loro ultima avventura nei cieli. Partivano, i figli d’ira, varcando gli spazi, per portare la loro eredità di sangue nelle stelle innocenti! Ma il dito di Dio avrebbe saputo raggiungerli al di là degli spazi…18.

Così gli ultimi pensieri di papa Silvestro. Pochi istanti dopo il sole esploderà. 3.5 Morte e resurrezione nei racconti parafuturisti di Čapek Non si può a questo punto tralasciare un’opera apocalittico-palingenetica che, sebbene non abbia il marchio futurista, lo è nella sostanza. Si tratta del celeberrimo R.U.R., testo teatrale di Karel Čapek, fortunatissimo dramma messo per la prima volta in scena a Praga nel 1921. I fratelli Jo18

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Ibidem, p. 138.

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seph e Karel Čapek non furono futuristi, ma è noto che nutrirono una grande ammirazione per Marinetti. In particolare, l’opera letteraria di Karel, critica nei confronti del razionalismo e dello scientismo (suo anche un romanzo sull’arma atomica), mostra consonanze con le tendenze metapsichiche e spirituali presenti in larghi settori del futurismo italiano e in particolare nella tarda produzione di Marinetti. R.U.R., acronimo di Rossum’s Universal Robots, ispirò Isaac Asimov, la cui U.S. Mechanical Robots Inc., mitica fabbrica di robot del ventunesimo secolo diretta dalla roboticista Susan Calvin, è a tutti gli effetti una rielaborazione della fabbrica automatizzata di Čapek. In R.U.R. il genio faustiano sposa la potenza della finanza e dell’industria, L’eredità creativa del vecchio scienziato Rossum e le energie imprenditoriali del dinamico nipote creano le basi per la più potente e ardita impresa di tutti i tempi: la fabbrica dei robot umanoidi, i perfetti schiavi artificiali, risoluzione di tutti i problemi sociali ed economici, palingenesi dell’umanità. Gli antecedenti, com’è noto, si devono a Jules Verne e Auguste Villiers de l’Isle-Adam, ideatori di bizzarri inventori-imprenditori (il dottor Schultze in I cinquecento Milioni della Bégum di Verne e l’Edison di Eva futura di Villiers). I robot di Čapek, dotati d’intelligenza e sensibilità in alcuni casi anche superiori alle facoltà umane, sono però condannati a una rapida morte, e sono sterili (ne trarrà spunto anche Philip K. Dick per i suoi androidi nexus). Essi dipendono in tutto e per tutto dai loro padroni-demiurghi. Non accettando questa infausta schiavitù, i robot vivono tutte le fasi di una hegeliana insorgenza della «coscienza infelice», una volta riconosciuta la loro condizione subalterna. Però un giorno, senza preavviso, questi esseri alieni si organizzano per sterminare tutta l’umanità. Robot di tutto il mondo, a morte gli esseri umani, non risparmiate nessuno, né donne né uomini, solo le fabbriche, le ferrovie, le industrie, le miniere e le materie prime. Distruggete tutto il resto e poi tornate al lavoro19.

19

Karel Čapek, R.U.R. (Rossum’s Universal Robots), Da dove nasce la progenie del Cyborg, trad. it. e commento a cura di Vanni De Simone, Synergon, Bologna, 1995, p. 80. 19 Ibidem, p. 117.

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Inizia il conflitto senza quartiere fra uomini e robot, tra l’intelligenza umana e quella artificiale, che feconderà centinaia di libri e di film, fino a Terminator, o fino alle inimmaginabili lotte del remotissimo futuro nelle saghe di John C. Wright. Ma i robot di R.U.R. non possono riprodursi e non conoscono il segreto della loro costruzione. Essi ottengono solo una vittoria di Pirro. In R.U.R. si descrive dunque una doppia estinzione. Non nascono più bambini – dice Elena, uno dei personaggi chiave del dramma – perché ci sono troppi robot. Molti anni dopo, non a caso, anche Isaac Asimov esporrà la fantasociologia del pianeta Solaria, dove la popolazione è artificialmente stabilizzata ricorrendo ad inflessibili metodi eugenetici. Negli scenari asimoviani una sterminata quantità di robot provvede a tutte le possibili necessità, proprio come in R.U.R.: Tutti potranno avere ciò di cui hanno bisogno, la povertà scomparirà. Certo ci saranno disoccupati ma non ci sarà neanche il lavoro perché faranno tutto le macchine. I Robot ci vestiranno e nutriranno, fabbricheranno mattoni e case, terranno i conti e faranno le pulizie. Non ci sarà lavoro ma la gente non avrà preoccupazioni. Sarà liberata dalla degradazione del lavoro e vivrà solo per elevarsi20.

L’utopia non può che inverarsi nel suo opposto, venendo meno il senso della sfida, delle relazioni umane e della funzione di ciascuno, come circa trent’anni dopo R.U.R. avvertirà senza mezzi termini anche Kurt Vonnegut in Player Piano, romanzo che si può ben definire apocalittico, poiché in esso la progressiva sostituzione delle macchine alle competenze umane costringe le persone a trascinare un’esistenza senza significato, l’anticamera dell’autoestinzione. Anche in Asimov il risultato di un esperimento «psicosociale» alla Čapek sarà dapprima la diminuzione della popolazione e poi l’improvvisa (e misteriosa) sparizione dei solariani. Il refrain è connesso alle proprietà della vita, perché il fine della vita organica, il suo élan vital, implica la cieca espansione. Ogni scopo individuale è virtualmente subordinato alla sopravvivenza della specie. In gene-

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Ib., p. 43.

Futurismo apocalittico

rale anche l’autopreservazione di ciascuna specie s’inserisce in una più vasta circuitazione di energie vitali, di cui ogni forma non detiene che una quota di partecipazione. Da qui, cioè dalla somiglianza estrema della progenie dei robot ai suoi creatori, deriva un conflitto territoriale senza precedenti. E ne deriva anche un senso d’inutilità, d’insufficienza. La specie umana non sembra programmata per essere compiaciuta da perfetti servitori. Se la condizione umana si affranca da ogni ostacolo, essa perde anche ogni contatto con la più vasta catena della vita per involgersi in una ricerca estetica o edonista, fine a se stessa. La rivalità mimetica tematizzata da René Girard è all’opera, anche perché le risorse sono sempre limitate. Fra uomini e robot entra in gioco il meccanismo perverso del duello all’americana: vince chi sopravvive. Completato il massacro degli umani in tutto il pianeta resta in vita solo Alquist, un povero muratore al quale i robot si rivolgeranno inutilmente perché egli scopra il segreto della vita, affinché l’ultimo umano preservi la razza dei robot dall’estinzione. Nel mito è all’opera un doppio vincolo mimetico; la progressiva meccanizzazione dell’umanità conduce l’uomo alla non-vita, dunque all’estinzione, ma dall’altra la non-vita meccanica è inesorabilmente fecondata da pensieri vitalistici. Così Radius, il capo degli androidi: Stermini e dominio sono necessari per diventare come gli umani. Leggi la storia, i libri degli uomini, per essere come loro si deve dominare e uccidere. Noi siamo potenti, facci aumentare e creeremo un ordine nuovo e un mondo perfetto di uguali21.

Il doppio vincolo mimetico si risolve solo nel finale, laddove si affacciano due nuovi personaggi: la coppia primigenia, Robot Primo e Robot Elena, attratti l’uno dall’altra, sensibili all’amore, e soprattutto miracolosamente capaci di riprodursi, di rifondare su nuove basi il destino della Terra.

21

Ib. p. 117.

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IV Fuoco, Terra, Acqua

4.1 Il fuoco distruttore Il fuoco è l’elemento per eccellenza della purificazione, della distruzione, ma anche della genesi. L’esperienza dell’uomo preistorico fu a tal punto rivoluzionata dal suo potere quasi soprannaturale che non stupisce la persistenza della sua eco nella memoria arcaica riconducibile a vari miti. Forse il controllo del fuoco contribuì perfino alla genesi del linguaggio articolato. Esiodo, com’è noto, racconta che Prometeo donò all’uomo il fuoco e la conoscenza, sottraendo il primo agli dei dell’Olimpo. Fiamma e comprensione (pertanto la lingua, senza la quale non può costruirsi conoscenza) sembrano inscindibili anche nell’associazione delle idee: si dice in italiano «lampo di genio», «fiamma creativa », «essere colti da improvvisa illuminazione». Forse il controllo del fuoco incoraggiò l’evoluzione del linguaggio articolato. È una congettura, certo. Ma vari indizi collocano la padronanza dell’elemento igneo tra i 500.000 e i 250.000 anni fa, intervallo che coincide con le ipotesi odierne sulla nascita del linguaggio. L’antropologo Robin Dunbar ritiene che il linguaggio sia nato come forma sostitutiva dei riti di socializzazione nelle scimmie antropomorfe. Egli sostiene che il protolinguaggio sia un’evoluzione del grooming, la pratica di pulizia reciproca che rafforza i legami sociali delle scimmie antropomorfe. La manipolazione del pelo e della pelle produce endorfine, gli ormoni del piacere, e il relax facilita gli scambi sociali. 87

Fenomenologia della fine del mondo

Quando i gruppi di ominidi cacciatori-raccoglitori superarono i cinquanta membri, il grooming si rivelò inefficace. È impossibile distribuire attenzioni fisiche a così tanti individui, e riceverne in cambio. Così, Dunbar ha ipotizzato che la necessità della coesione sociale incoraggiò forme alternative di comunicazione, adatte a coordinare gli scambi emotivi tra gruppi sempre più numerosi1. Qualunque sia la verità, è impossibile separare l’immagine mentale dei membri di un’orda primitiva da quella del fuoco che arde al centro di un accampamento, benché, secondo alcuni, la sua scoperta potrebbe risalire addirittura al Pleistocene inferiore, prima dell’apparizione dell’Homo sapien se della nascita del protolinguaggio2. Lasciamo che la fantasia colmi secondo il suo talento l’assenza di dati scientifici certi. Pensiamo all’orda primitiva. Immaginiamola riunita in cerchi concentrici intorno a un grande fuoco. In circolo ognuno può osservare tutti gli altri, e così in qualche modo già si parla, nel conforto del calore, in relativa sicurezza, circondati dalla forza intrinseca del compagnia umana. Vecchi, adulti, giovani e bambini l’un l’altro visibili forse meditano sulle rispettive età, mansioni, ruoli, amicizie e contese. Così la percezione del tempo inizia ad estendere il suo potere oltre la mera contingenza. Lì forse nasce la narrazione, la rievocazione, il canto, le imprese. Il tempo che precede il sonno assume qualità elastiche, ricettive; e occorre anche ingannare la paura dell’ignoto, in agguato oltre il raggio protettivo della pira. La fiamma al centro della radura è complice di costruzioni mentali, di speculazioni, di nominazioni. Millenni dopo, intorno a quel fuoco sempre uguale, a quel discreto osservatore dell’evoluzione, si scambiano battute, informazioni, sentimenti soffusi. È il fascino inesauribile del camino. Qualcuno, il più dotato nella costruzione di suoni e di termini emozionanti, tenta i primi passi della narrazione ed evoca avvenimenti straordinari: agguati, fughe, esplorazioni, scontri armati, scoperte. Così la mente si apre

1 Cfr. Robin I. M. Dunbar, Grooming, Gossip and the Evolution of Language, Faber and Faber, London, Boston, 1996, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi, Milano, 1998. 2 Cfr. Charles Singer, A History of Technology (7 voll.), Clarendon Press, London, 1954, Storia della tecnologia, Boringhieri, Torino, 1966.

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Fuoco, Terra, Acqua

alla meraviglia e alle passioni. Tra gli ascoltatori il più discreto, il più misterioso è proprio il fuoco. Esso promana energia e calore, e ha una sua voce, proveniente da chissà quale dimensione. Non è forse illecito ritenere che la sua presenza al centro del cerchio abbia suggerito all’umanità primigenia il primo contatto con il divino. Esso ascolta tutti e tutto, nel suo luminoso, eloquente rumorio protettivo. Esso ama la sua comunità, la protegge, la guida nel cammino dell’evoluzione; in cambio la comunità lo alimenta, nutre e trasporta, ma in più lo teme, poiché quell’antichissima umanità è ancora parzialmente animale, condivide con le altre specie il timore reverenziale per l’incendio, per la folgore, per il sole implacabile a mezzodì. Il focolare è il primo esempio di energia controllata, ma guai se la fiamma supera i confini assegnati. Allora essa muta in energia distruttiva. Vestigia di tale rapporto ambivalente sono riconoscibili in antichi riti e culti. Le Vestali avevano il compito di alimentare il fuoco sacro, alla cui continuità non a caso era associata la sopravvivenza della stessa Roma. Se spento, per imperizia o negligenza, il potere del fuoco torna nelle mani degli dei, che nei miti di fondazione di ogni continente sovente vendicano l’oltraggioso furto del suo segreto. Perciò il fuoco è intrinsecamente connesso alla magia, al potere, alla vita, e per converso alla morte. Il mitico potere del fuoco, spesso concentrato nel simbolo della folgore, non conosce declino. La recente fortuna planetaria di Percy Jackson, personaggio dello scrittore Rick Riordan, testimonia l’insospettabile vitalità della mitologia greca innestata nell’ultratecnologico mondo contemporaneo. In Percy Jackson e il ladro di fulmini, primo volume della serie, il furto della saetta, scettro di Zeus, scatenerà la guerra totale tra gli dei e la conseguente distruzione dell’umanità. Il fuoco è poi elemento inscindibile dai riti di purificazione. Purus, in latino, deriva com’è noto dalla radice greca pyr (fiamma, fuoco), che a sua volta ha origine dall’indoeuropeo pehvr. A differenza di ignis (a sua volta derivante dall’indoeuropeo egnis), purus è un aggettivo che designa l’azione della fiamma sugli elementi: la pur-ificazione, l’eliminazione di ogni im-pur-ità. Per converso, il fuoco è via d’accesso al sacro, tanto in virtù della sua direzione, sempre rivolta verso l’alto, quanto per effetto del potere sugli altri 89

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elementi. James Frazer, trattando dei miti dell’origine, notava che Agni (fuoco) nell’antica scrittura vedica è messaggero divino, ma anche personificazione del fuoco3. Negli arcaici riti persiani esso segnalava la presenza di Ahura Mazda. Gibil, il dio sumerico del fuoco, illuminava di sé il mondo. I Parsi credevano che il fuoco alla fine dei tempi avrebbe ritemprato i buoni ma tormentato i malvagi. Analoghe conclusioni traevano i zoroastriani, che ponevano il fuoco al cuore delle loro credenze; tale nozione probabilmente si ritrova nelle idee sull’origine del mondo del filosofo presocratico Eraclito, perlomeno secondo quando ne riferisce Aristotele. Come sia, i greci tenevano in suprema considerazione il sacro fuoco di Estia, accuratamente trasportato di colonia in colonia. È risaputo che nell’Antico Testamento il divino si manifesta di preferenza con le vampe o tra le fiamme, in una varietà immaginifica che varia dal roveto ardente sul monte Sinai alla colonna di fuoco che guida gli ebrei dopo la fuga dall’Egitto. Spade fiammeggianti nelle mani dei cherubini custodiscono l’ingresso all’Eden, dopo la cacciata di Adamo ed Eva. L’immagine ignea affiora in molte altre descrizioni della divinità (Dn 7, 9; Ez 1, 4; Es 19, 18; Ger 21, 12). L’Eterno dispiega il segno della sua potenza ricorrendo volentieri al fuoco (Dt 32, 22). Nel film I predatori dell’arca perduta (Steven Spielberg, 1981) l’ira divina si manifesta con tremende lingue di fiamma ossidrica che erompono dall’arca profanata. Il dio del fuoco era onorato anche in Siberia, tra i Koryak, tra i Čukči o tra i Buryats, popolazioni di stirpe mongola. Questi culti si ritrovano nell’Africa subsahariana, tra gli aborigeni australiani, tra i nativi americani e tra gli antichi Inca e Aztechi. Solo Francesco d’Assisi convertirà la potenza numinosa del fuoco nella rassicurate immagine domestica di una vitalità amica (il fuoco «bello et iocundo et robustoso et forte»); ma altrimenti esso annuncia e conclude l’apocalisse: «Un fuoco si è acceso nella mia collera, e brucerà fino nelle profondità degli inferi; divorerà la terra e il suo prodotto e incendierà le radici dei monti» (Dt 32, 22). La più diffusa rappresentazione moderna della distruzione finale non poteva che inverarsi nell’equivalente tecnolo3 Cfr. James Frazer, The Golden Bough, 1911, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, trad. it. di Lauro De Bosis, Boringhieri, Torino, 1973.

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gico della divina spada fiammeggiante, morte per fuoco comminata da mano gigantesca e terribile. La science fiction ha sfruttato spesso questa speciale modalità distruttiva. Dopotutto, nel corso del Novecento, quasi di punto in bianco l’umanità si trova effettivamente in possesso di una potenza di fuoco sempre crescente, fino al punto da ottenere per logica escalation l’arma ardente che rivaleggia con l’energia delle stelle. La fiamma (e la vampa atomica in misura ineguagliabile) affascina anche per le qualità purificatrici, perché il suo potere si basa sulla distorsione della percezione dell’altro, fino alla falsificazione assoluta dell’esplosione termonucleare, che agisce lontano e senza fatica. L’abisso separa la forza impressa dal dito (o dall’ignaro topolino, come in Terra!, di Stefano Benni) che schiaccia un piccolo pulsante e il maglio che si abbatte su remote metropoli. L’oceano sensoriale separa la temperatura costante del centro di controllo dal sole nudo che all’improvviso si materializza nell’atmosfera terrestre sulle ignare vittime. L’effetto dell’atomica è coperto dalla sua virtuale invisibilità. Chi vi assiste non sopravvive4. La semplice possibilità della distruzione nucleare materializzava l’ipotesi della fine della storia, fino a quel momento illustrata soltanto dagli scrittori. Bertrand Russell argomentò che era necessario rinunciare alle convinzioni che avevano retto fino al 1945. Dopo Hiroshima sarebbe stato virtualmente impossibile perseguire uno scopo politico su larga scala attraverso una guerra mondiale. Russell lanciò tra i primi l’ipotesi di un disarmo generale quale unica strategia razionale praticabile nel nuovo as4

Da quando fu sganciata, l’atomica ha stimolato la produzione di libri, articoli, reportage destinati al grande pubblico. Però, perfino un argomento che riguarda la sopravvivenza dell’umanità subisce le leggi del contagio. Escludendo i titoli marcatamente scientifici, resta un corpus pubblicistico che in circa sessanta anni esibisce un andamento sinusoidale. L’esame del sistema bibliotecario italiano rivela un’ampia e ovvia attenzione negli anni ’40 e ’50. La strategia della tensione e la Guerra Fredda eccitano la pubblicistica, cosicché negli anni ’60 triplicano le pubblicazioni destinate al vasto pubblico, che però crollano nei ’70. Negli anni ’80 si registra una nuova proliferazione, sollecitata dalla politica di Ronald Reagan. L’attenzione precipita negli ultimi venti anni, perché è impossibile insistere su argomenti senza sviluppi, cosicché la guerra nucleare è uscita dall’agenda setting del sistema mediatico globale. L’11 settembre 2001 ha riportato il tema alla ribalta, ma nel recinto del terrorismo internazionale.

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setto5. Rileggendo quel saggio a distanza di oltre mezzo secolo stupisce il cauto ottimismo del filosofo6. Era già in quei tempi evidente la sproporzione tra l’inimmaginabile prospettiva della fine del mondo e la flebile eco dei ragionamenti dei filosofi. Solo la fantascienza esercitò la sua caratteristica funzione critica ad ampio raggio e generò anche un’impressionante varietà di esperimenti mentali sulle cause o sulle conseguenze dell’Armageddon nucleare. La guerra atomica è il più potente esercizio retorico che si possa immaginare. La brutale realtà di Hiroshima e Nagasaki era nell’aria. Nel 1914 Wells descrisse la bomba in The World Set Free, avvalendosi del concetto di radioattività di quel tempo. L’immaginaria arma non determinava una reazione a catena quasi istantanea ma una serie senza fine di esplosioni, provocate dall’inesauribile fonte radioattiva. Il libro influenzò profondamente Leo Szilard, figura chiave del Progetto Manhattan. Un decennio dopo Karel Čapek pubblicò Krakatit, visione di un esplosivo atomico (appunto il Krakatit, così chiamato dal vulcano Krakatua) che è attivato da onde radio ad alta frequenza. Un segnale lanciato farà esplodere simultaneamente le cariche di Krakatit sepolte nelle varie capitali del mondo, scatenando l’inferno. Dopo la Seconda Guerra mondiale non si registra una particolare attenzione tra gli scrittori. Il risveglio avviene negli anni ’50. I test sovietici del 1949, 1951 e 1953 avevano infranto il sogno della pax americana e da quel momento si moltiplicano le trame basate sull’incubo del fungo atomico. Però solo alcuni romanzi recano il marchio dell’originalità e si possono dire autenticamente apocalittici. Ray Bradbury affronterà il tema nel finale di Cronache marziane (1950), che narra lo scontro tra la civiltà consumista della Terra e la raffinata, spirituale cultura marziana, destinata a soccombere. La giusta nemesi è in arrivo, perché la rozza 5

Bertrand Russell, Common Sense and Nuclear Walfare, 1959, Prima dell’apocalisse, trad. it. di Adriana Pellegrini, Longanesi, Milano, 1959, p. 55 e sgg. 6 Per esempio, a p. 95 si legge: «Il fanatismo religioso è gradatamente scomparto attraverso l’esperienza dell’inutilità delle guerre religiose». E a pagina 100: «Lo sviluppo della tecnica moderna e, in special modo, delle armi nucleari, ha reso inutili gli scontri armati tra uno Stato e l’altro e ha creato un’identità di interessi tra diversi paesi molto superiore a quella del passato».

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mentalità dei terrestri provoca la catastrofica guerra atomica7. John Windham illustrò in The Chrysalids (1955) le ossessioni dell’ipotetica umanità futura alle prese con gli effetti mutageni di un dimenticato olocausto nucleare, Nevil Shute raccontò la miserabile vita degli ultimi uomini in On the Beach (1957), Isaac Asimov, in Peeble in the Sky (1957), descrisse l’odio implacabile dei terrestri sopravvissuti all’antichissima guerra atomica che annientò il pianeta. Charles Eric Maine inventò una fantasiosa autodistruzione per effetto dell’atomica in The Tide Went Out (1958). In questo caso il responsabile della fine del mondo è il triplice test nucleare sottomarino denominato «Operazione Schiaccianoci». Le esplosioni producono una voragine che collega l’Oceano Pacifico alle ipotetiche cavità sotterranee della crosta terrestre. Le acque di tutto il pianeta precipitano nel condotto. In pochi mesi gli oceani sono prosciugati cosicché tutto inaridisce, tutto muore. La civiltà si gretola. Incendi, terremoti, fame, tifo, malaria, saccheggi e cannibalismo falciano quel che resta dell’umanità, ad eccezione di un piccolo gruppo di sopravvissuti tra i ghiacci del Polo Nord, nei rifugi costruiti dai militari. Il romanzo abbonda di riferimenti millenaristici. Le parole di un predicatore compendiano il significato ultimo della nemesi: …tutti i Cristiani perciò saranno convinti che quelle armi a idrogeno altro non furono se non l’ultima incarnazione del male. Erano state create al solo e unico scopo di distruggere, e furono sperimentate apposta per provare la loro capacità di distruzione. Dicevano che gli esperimenti non avrebbero potuto avere ripercussioni dannose, ma Dio, nella sua saggezza infinita, decise di accogliere la sfida lanciata dalla scienza dimostrando l’assurdità di quelle affermazioni. Ci dimostrò così quale fosse la vera potenza delle forze elementari con cui gli scienziati si gingillavano nei loro esperimenti; esse avevano la potenza di distruggere il mondo! E ora noi assistiamo alla sua lenta ma inesorabile distruzione, che gli scienziati sono impotenti a frenare. Questa è la suprema lezione che Dio nella sua misericordia ha deciso di impartirci. L’estremo potere, il potere che dà vita all’universo, non proviene dai laboratori o dai reattori atomici o 7 Ray Bradbury, The Martian Chronicles, 1950, Cronache marziane, trad. it. di Giorgio Monicelli, Mondadori, Milano, 1954.

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dalla zona sperimentale delle armi nucleari, ma proviene da Dio, dal suo spirito che anima l’umanità e il mondo in cui viviamo8.

Il risveglio delle coscienze si deve soprattutto agli scrittori, agli artisti e ai poeti; i soli in grado di disperdere le nebbie della propaganda politica illustrando l’incertezza di un futuro sotto la spada di Damocle dell’atomica. anche il ruolo dello scienziato è sotto esame. Stanislaw Lem, in Fine del mondo alle 8 (1957) ridicolizza l’ira funesta di Farragus, inventore di una polvere che può annientare l’universo, un orgoglioso adoratore di se stesso, capace di scatenare l’inferno per una banale lite accademica. Altri descrivono il futuro governato da una Chiesa che ha già superato il test dell’apocalisse. È il caso di Walter M. Miller jr., che in Un cantico per Leibowitz (1960) descrive l’ascesa dell’Ordine Albertiniano dei Ricercatori e Memorizzatori di Libri, secoli dopo l’olocausto, il “Diluvio di fiamme” che ha cancellato la civiltà. In quasi duemila anni, sotto la guida di una teocrazia che rifonda il sapere, il mondo raggiunge e supera il livello tecnologico attuale, ma solo per precipitare in un nuovo conflitto nucleare. Col tempo questi semi germogliano soprattutto nel cinema, arte capace di convincere più della scrittura, forse a causa dell’intrinseca spettacolarità del fungo atomico. Gli artisti (in particolare proprio gli scrittori) hanno alimentato la consapevolezza forse più dei sociologi. Kurt Vonnegut, in Ghiaccio-Nove (1963) attribuisce al fisico Felix Hoenikker (nel libro l’inventore dell’atomica) la scoperta di un particolare stato cristallino dell’acqua, appunto il «ghiaccio-Nove», in grado di trasformare tutti i liquidi del mondo in un blocco solido, cosa che puntualmente avverrà. Ma più che l’apocalisse ghiacciata stupisce la descrizione di una personalità indifferente. Per Hoenikker la fine del mondo non significa alcunché, e questo astratto sentire è convalidato dall’altra figura chiave del romanzo, l’avversario mistico Bokonon, fondatore di una anti-religione che afferma il non-senso di tutte le cose.

8 Charles E. Maine, The Tide Went Out, 1958, Il vampiro del mare, I ed. “Urania” maggio 1959, trad. it. di Beata Della Frattina, Oscar Mondadori, Milano, 1976, p. 100.

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Al contrario, si registrano casi d’illustri scienziati che avrebbero volentieri preferito la soluzione finale9. 4.2 Mordecai Roshwald, Ben Bova e Stanley Kubrick Tra i primi e migliori interpreti del disastro nucleare resta a tutt’oggi il docente e scrittore polacco Mordecai Roshwald, autore nel 1959 di Level 7 e nel 1962 di A Small Armageddon. Level 7 fu scritto in piena Guerra Fredda, ma non risente del tempo. Il romanzo si apre con una relazione, redatta dall’Istituto Marziano per gli Scavi Archeologici nel Sistema Solare, riguardante il ritrovamento del diario dell’Ufficiale Premi-pulsanti X-127, rinvenuto in una profonda caverna terrestre. Il quaderno narra gli ultimi trentasei giorni di vita dell’anonimo ufficiale, trascorsi in un’installazione militare sotterranea adibita al lancio di vettori. Come nel romanzo della Shelley, così in Roshwald l’ultimo uomo scrive in prima persona, ma non ha nome. La relazione trasuda scetticismo. Gli scienziati marziani negano la veridicità dei contenuti del manoscritto: […] La sua storia del volontario tentativo dei popoli della terra di distruggersi reciprocamente per nessun motivo in particolare, la quantità di lavoro, 9

Celebre è la posizione di Von Neumann, riassunta in un breve articolo sulla difesa nella guerra atomica: «La difficoltà che pongono gli ordigni atomici, e soprattutto quelli lanciati da missili, è che essi possono decidere una guerra, e avere effetto, soprattutto in termini di distruzione, in meno di un mese o due settimane. Pertanto, la natura della sorpresa tecnica è differente da quella che si conosceva prima. Non è più sufficiente sapere che il nemico possiede soltanto cinquanta stratagemmi possibili e che si è in condizioni di controbattere a ognuno di essi, ma è necessario inventare un sistema per contrastarli praticamente nell’istante in cui vengono messi in atto. Non è facile supporre come ciò possa essere fatto. Alcuni esperti tradizionali dell’uso dello stesso ordigno per scopi svariati e delle limitazioni del suo uso finché esso non serve alla difesa possono contenere alcuni elementi di risposta. Tuttavia, ciò significherà probabilmente che si sarà costretti a “non fare il peggio” in tutti i casi, altrimenti quando il nemico farà il peggio non ci si potrà difendere, e quel che bisognerà esibire come un avvertimento istantaneo, se si è forti abbastanza, è una potenza spinta fino ai limiti delle proprie capacità. Quindi sarà necessario tenere questa carta vincente in riserva». In Giorgio Israel, Ana Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico. La vita e le idee di John von Neumann, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 139-140.

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energia, organizzazione usata a tale scopo, non hanno alcun senso. Se la gente della Terra si era davvero incamminata lungo una strada così pericolosa, doveva avere qualche ragione per farlo. Ma che ragione vi può essere per una simile distruzione? Questo sfida ogni capacità di comprensione, o anche solo di immaginazione, da parte nostra. Poi l’autore cita (16 giugno) «biblioteche e musei, opere d’arte, istituti scientifici, palazzi, monumenti, ferrovie, strade, fabbriche» che sarebbero stati distrutti, ma quali sono le prove che queste cose siano mai esistite sulla Terra? Ci sono reperti archeologici? Si è mai scoperta una sola opera d’arte? O un monumento? O un edificio? Nessuno. Solo macerie spezzettate sulla superficie e alcune caverne nel sottosuolo10.

L’incredulità, opposta al meccanismo psicologico della sospensione del giudizio, introduce il racconto, che prosegue con il diario dell’Ufficiale X-127 steso per appena duecentocinque giorni. L’Ufficiale senza nome descrive la vita quotidiana dal momento in cui è stato prescelto (senza saperlo) e addestrato nella squadra del Livello 7, installazione militare che controlla il lancio dei missili intercontinentali, sepolta a un chilometro e mezzo di profondità. Una volta entrati si è ermeticamente sigillati. La fortezza può produrre energia, aria, cibo sintetico e acqua riciclata per migliaia di anni. È un meccanismo perfetto, secondo gli ingegneri. Lo scopo è duplice: garantire la sopravvivenza degli addetti alla guerra finale e permettere ai reclusi di perpetuare l’umanità. Così, almeno, nelle intenzioni degli scienziati che l’hanno progettato e dei politici che l’hanno imposto. Questo allucinato universo concentrazionario originerà centinaia di visioni consimili. In THX 1138 di Ben Bova11 (e nell’omonimo film del 1971 diretto da George Lucas) la città sotterranea ipertecnologica è quanto resta del mondo intero, millenni dopo l’olocausto nucleare. Analogamente,

10 Mordecai Roshwald, Level 7, William Heinemann Ltd., 1959, Livello 7, trad. it. di Beata della Frattina e Riccardo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, Urania Collezione ottobre 2007, p. 10. 11 Ben Bova, THX 1138, Warner Bros. Inc., 1971, THX 1138, trad. it. di Laura Serra, Collana “Urania” n. 776, Arnoldo Mondadori Editore, 1979.

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in Trist lo straniero, di Michael Elder12, l’umanità si è divisa in due stirpi: la prima, stellare, ha trovato rifugio sul pianeta Haven, l’altra, terrestre, sopravvive in un labirinto di cunicoli, si riproduce artificialmente e amministra il culto di un redentore spaziale. La dicotomia tra corpo e spirito, cielo e terra, luce e tenebre, si riconferma in ambienti futuribili, senza rilevanti differenze. Angeli e demoni sono protagonisti di ogni saga postatomica. Per esempio, in Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle13 il bene e il male sono nettamente distinti, benché il best seller dello scrittore francese sia piuttosto diverso dall’omonimo e più noto film del 1968 per la regia di Franklin J. Schaffner, liberamente ispirato al romanzo. La diversità tra il romanzo e il film è interessante. Nel primo dei numerosi sequel, intitolato L’altra faccia del pianeta delle scimmie, per la regia di Ted Post (1970), sono ipotizzati ben due climax nucleari: la guerra termonucleare totale cancella la vecchia umanità, trasformando i sopravvissuti in degenerati, e cagionando parimenti la rapida evoluzione delle scimmie antropomorfe (ma anche di una varietà umana dai prodigiosi poteri mentali). Nel secondo tempo storico, dominato dalle scimmie, l’Armageddon giunge per effetto di un singolo, ultrapotente ordigno al cobalto, adorato dai mutanti come un idolo, nascosto nelle viscere della terra e pronto ad esplodere al tocco dell’astronauta giunto dal passato. La reiterazione della cancellazione dell’umanità implica una legge dell’equilibrio cosmico; se la distruzione viene dall’alto, allora la salvezza prescrive il viaggio iniziatico nella direzione fisicamente e spiritualmente opposta. Il senso ultimo del viaggio nello spazio-tempo intrapreso dai membri della spedizione interstellare, tornati senza saperlo sulla Terra dopo migliaia di anni, è niente più che un viaggio dell’anima alla scoperta della me12

Michael Elder, The Alien Earth, 1971, Trist lo straniero, trad. it. di Beata Della Frattina, «Urania» n. 597, Mondadori, Milano, 1972. 13 Pierre Boulle, La planète des singes, Julliard, 1963, Il pianeta delle scimmie, Mondadori, Milano, 1975. Il recente film Rise of the Planet of the Apes, per la regia di Rupert Wyatt (2011), dimostra fino a che punto l’apocalittica fantascientifica si adatti ai tempi. Infatti, il terrore per la fine del mondo dovuto alla duplice azione della bomba atomica e delle mutazioni genetiche indotte dalle radiazioni si traduce ora nel timore che l’evento mutageno sia innescato dall’ingegneria genetica. L’azione distruttiva è sempre volontaria e le conseguenze finali sono parimenti impreviste, ma lo strumento è cambiato.

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moria. Superare all’istante il proprio tempo significa prendere le distanze dal passato, per osservarlo disincantati e con occhio critico. Ma se il cammino conduce verso il basso, allora l’accesso alle viscere terrestri implica un patto di sangue con le divinità ctonie. Condividere il luogo riservato alle ombre esige sempre un patto di sangue, com’è richiesto a Odisseo14. Questo destino torna in altrettante varianti postapocalittiche, per esempio nel recente Resident Evil, per la regia di Paul W. S. Anderson (2002) in cui un virus, sigillato nel laboratorio sotterraneo chiamato «alveare», si spande sulla superfice trasformando gli esseri umani in morti viventi. La dilazione della sentenza per l’umanità è sempre collegata alla riemersione in superficie, verso la libertà dei cieli (si pensi al racconto di Edwar Forster The Machines Stops). In Terminator di James Cameron (1984), altro classico apocalittico, il vero protagonista non è il robot assassino ma è il fuoco nucleare. Sky Net, l’intelligenza artificiale planetaria che governa le azioni dei Terminator, è l’equivalente tecnologico dello sterminatore celeste, i cui occhi, nel testo giovanneo, sono come fiamma di fuoco. Infatti la salvezza dei rari sopravvissuti e la resistenza sorgono dalle viscere della terra, dalle basi militari sotterranee in disuso, dalle miniere abbandonate, da spelonche profondissime, persino dalle fogne. In Roshwald il sottosuolo assume un’insolita valenza simbolica. L’Ufficiale Premi-pulsanti X-127 annota soprattutto riflessioni sul sistema di relazioni umane emergenti in cattività, tra i sepolti per sempre. In questo microsistema chiuso si strutturano compiti, privilegi o limitazioni che dipendono dai ruoli, dal sesso, dalle competenze specifiche o da quelle future, dal profilo psicologico. La fantasia di Roshwald in qualche modo anticipa il noto esperimento carcerario di Stanford ideato da Philip Zimbardo15 e dal suo gruppo di ricercatori. In Level 7 la perdita dell’identità (e il conseguente collasso etico) è incoraggiata dalla spersonalizzazione, dalla ruolizzazione, dall’in14

Omero, L’Odissea, trad. di Ettore Romagnoli, Zanichelli, Bologna, 1932, p. 152. Philip Zimbardo, The Lucifer Effect. How Good People Turn Evil, 2007, L’effetto Lucifero. Come si diventa cattivi?, trad. it. di Margherita Botto, Raffaello Cortine Editore, Milano, 2008. 15

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cubo di un nemico (invisibile, fantasmatico, proiettivo) e dal «pensiero collettivo» che determina la nota caratteristica del gruppo. Poiché ogni membro è stato confinato al solo scopo di sterminare il nemico, ne deriva anche l’inarrestabile smarrimento dell’identità politica di ciascuno. «Obbediamo solo a ordini impersonali», asserisce con entusiasmo l’Ufficiale F107 in un contraddittorio discorso sulla democrazia: Riconosciamo quale unica autorità quella dell’altoparlante che è la personificazione sovrapersonale e impersonale di tutti noi. Questa è la forma ideale e più perfetta della democrazia, purgata dagli eventi personali e personalistici, raffinata alla quintessenza, astratta al di sopra di tutto. La democrazia al Livello 7 è dunque l’unica democrazia vera non solo nel mondo attuale, ma in tutta la storia dell’umanità. Un lungo silenzio salutò la conclusione del suo discorso, poi un uomo dal fondo obiettò: – Ma davanti ai microfoni collegati con gli altoparlanti ci sarà pure qualcuno a impartire gli ordini, no? La risposta di F-107 fu sorprendente: – Che prova ne abbiamo? Forse si tratta solo di un nastro magnetico! Ma anche se si trattasse di una persona reale non avrebbe importanza perché è assolutamente anonima e ci rappresenta tutti. Pensate all’arte e alla musica popolari: per forza c’è stato qualcuno che le ha create, ma sono anonime e perciò espressione e patrimonio del popolo. […] Non è forse vero che tutti noi, implicitamente o esplicitamente, conveniamo con tutti gli ordini che ci vengono dati? Ognuno, basta che ci si provi, può trovare valide ragioni alla base di ciascun ordine. E una volta scoperte le ragioni, dovrete convenire che l’ordine dato dall’altoparlante è lo stesso che avreste impartito voi… se fosse toccato a voi decidere16.

La raffinata tecnologia di comunicazione e/o di sorveglianza, che interpreta perfino le recondite intenzioni di tutti i membri della base, non definisce una situazione orwelliana in senso stretto. Semmai, il vero antecedente è il romanzo distopico Noi, di Evgénij Ivànovič Zamjàtin, l’Orwell sovietico, che ispirò 1984 e probabilmente anche New Brave World di Aldous Huxley. In Noi non esiste privacy. Tutti gli edifici sono di vetro trasparente, non esistono barriere visive di alcun genere. Inoltre, la collettività è prigioniera di 16

Ibidem, pp. 74-5.

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una ciclopica cinta muraria. Questa società perfetta assolve tutte le sue funzioni come un gigantesco meccano, senza autentica intenzionalità17. È interessante osservare la ricorsività simbolica in proiezioni incentrate sul medesimo tema, o su argomenti affini. Ad esempio, la comunità umana chiusa da mura invalicabili, che rimandano alla limitazione della tomba, meglio ancora della soglia liminare tra la vita e la morte, si ritrovano nel recente Aeon Flux, film per la regia di Karyn Kusama (2005), liberamente ispirato a un noto manga. In Zardoz, del regista John Boorman (1973) il simbolo della separazione è un’invisibile parete energetica che divide la comunità degli immortali dal resto del mondo. In realtà gli abitanti dell’Utopia sono intimamente morti, benché vivano una vita illimitata. Sono morti nello spirito perché non desiderano più vivere, eppure non possono morire. Sia la struttura genetica che la memoria cerebrale sono costantemente registrate dal supercomputer. Ulteriore precedente è La città e le stelle, capolavoro di Arthur C. Clarke pubblicato nel 1953. Qui gli immortali sono rinchiusi dall’immensa città vivente. Pianeta concentrazionario e meccanico è anche World Without Men di Charles E. Maine (1958), mondo al femminile governato da un supercomputer che cristallizza la società ad uno stadio nevrotico di massa. Queste opere (e molte altre affini) insistono sulla relazione tra la pulsione di morte estesa all’intera umanità e l’ossessione del controllo. La fine del mondo è il complemento del controllo. L’ossessione della sorveglianza incoraggia la formulazione di pseudopensieri, la realizzazione di azioni automatiche, prive di intensità emotiva, la spoliazione dell’individualità, sottolineata nei romanzi dalle sigle alfanumeriche al posto dei nomi e cognomi. Conviene a questo punto ricordare che una certa assenza di individualità si riscontra nelle società ancestrali dei cacciatori-raccoglitori, dove la reciprocità prevale sulla specificità; in queste comunità, infatti, non è possibile riconoscere una volontà individuale o una qualche direzione politica, né tanto meno si può parlare in senso proprio di azione normativa o etica, se si attribuiscono a questi vocaboli gli stessi signifi17 Evgénij Ivànovič Zamjàtin, My, (1922), Noi, trad. it. e prefazione di Ettore Lo Gatto, Feltrinelli, Milano, 1963.

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cati che emergono nelle civiltà basate sulla scrittura18. Infatti, il corpo sociale è indistinguibile dai membri che lo compongono. Le decisioni esprimono la media delle opinioni relative a un determinato problema e alla sua risoluzione. Questa «primitivizzazione» si manifesterà nei romanzi di genere apocalittico anche in altro modo, per esempio nella formazione spontanea di favole e di miti di fondazione. In particolare, la favola Alfa, Gamma e il piccolo B-77719, ideata da R-747 (‘R’ sta per «Riserva» nonché per la qualifica di un membro di genere femminile destinato alla procreazione) ideata per incutere nei futuri bambini il sacro terrore per l’esterno, è costruita seguendo tutte le regole di struttura individuate da Wladimir Propp nel suo classico studio sulla morfologia della fiaba. In Level 7 il mito di fondazione prende a modello il sacrificio del capo dell’orda, ipotizzato da Sigmund Freud in Totem e tabu. È la Storia del Grande Fungo. Ovviamente si tratta del fungo atomico20. Perciò, anche se la finzione letteraria si avvale ex post degli strumenti critici del suo tempo, nondimeno l’esperimento mentale resta valido. L’analisi dei vari testi di orientamento apocalittico mostra significative ricorrenze nell’uso dei simboli e intense proiezioni scelte da un inventario inconscio che trascende la soggettività dell’artista-scrittore. Immaginare situazioni estreme potrebbe forse implicare l’emersione di funzioni sepolte dalla patina della civiltà, quasi che la psiche individuale potesse entrare in comunicazione con percorsi neurali o forse genetici sommersi, quasi inattivi, ma ancora esistenti: muti testimoni di un cervello ancestrale che comunica solo per simboli. Livello 7 è l’ultimo e il più protetto dei piani. I piani progressivamente decrescenti sono strutturati come le classi di una nave passeggeri. Ampiezza degli alloggiamenti, disponibilità di cibo e di energia, affollamento dello spazio sono variabili dipendenti dal ruolo occupato nella so-

18 Cfr. Eric Havelock, The Greek Concept of Justice from Its Shadow in Homer to Its Substance in Plato, Harvard University Press, Cambridge (Mass), 1978, Dike. La nascita della coscienza, trad. it. di Manfredi Piccolomini, Laterza, Bari, 1981. 19 Ib., p. 98 e sgg. 20 Ib., p. 104.

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cietà, sicché tra i dannati al sottosuolo si ripresenta la stessa ineguaglianza sociale che funestava gli abitatori della superficie, e che in ultima analisi non può che essere la vera causa scatenate il delirio della distruzione apocalittica. Tre anni dopo Roshwald scrive un secondo romanzo, meno esemplare ma più critico, e sorprendentemente profetico alla luce degli eventi recentemente occorsi. Pubblicato nel 1962, A Small Armageddon descrive la convergenza fra il terrorismo internazionale di matrice religiosa, la minaccia della proliferazione nucleare in nazioni periferiche, la pressione d’immense masse emarginate ai confini dei paesi sviluppati e le fallimentari strategie politiche di grandi blocchi, incapaci di superare la logica delle parti. Prendiamo in esame il tema del fondamentalismo religioso. Roshwald descrive l’azione di un gruppo di fanatici terroristi che sequestrano un sommergibile statunitense armato di testate nucleari. Con tale temibile dotazione inizia un complesso gioco di ricatti sull’immensa scacchiera del pianeta. Il comportamento lascivo del Lion rappresentava un affronto alla Crociata. Tuttavia il sommergibile era armato con missili nucleari, e Dio non aveva rivelato a Schumacher cosa fare in proposito. Forse il Signore aveva le sue ragioni per lasciare che il Lion prosperasse. Forse era solo per rendere ancora più impressionante la sua caduta finale. […] E così Schumacher lasciò il Lion nelle mani di Dio e rivolse la sua attenzione alla carta geografica per trovare un’idonea sfera di attività per i Crociati. L’Europa Occidentale e il Sudamerica si erano inchinati ai soldati cristiani. Era rimasta l’Africa, ma attirava pochissimo Peter… […] Peter era attratto soprattutto dall’altra metà del mondo… la sede del potere senza Dio, di coloro che sfidavano apertamente la cristianità: i comunisti. Costringendoli in ginocchio davanti a Dio, la marcia della cristianità verso il governo universale sarebbe stata virtualmente compiuta. Era una grande missione, la più grande di tutte le missioni!

Basta cambiare alcuni dati ed ecco profilarsi lo scenario attuale. Fin dagli anni ’50 alcuni sociologi di chiara fama avevano presagito la deriva terroristica del fondamentalismo religioso di matrice etnico-politica, con la conseguente inevitabile escalation; ma il loro pensiero ha lasciato poche 102

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tracce21. Gli scrittori, meno filtrabili, sono decisamene più liberi di esprimere opinioni estreme (ma è un fatto che la science fiction non ha goduto di buona fama presso la cultura accademica, sovente a causa della sua scorrettezza politica). Così, un autore come Roshwald ha potuto illustrare senza illusioni ottiche il cinismo dei capi politici, la disumanità delle alte gerarchie militari, l’indifferenza della tecnoscienza e in fondo anche l’intrinseca crudeltà dalle masse: I capi dell’Aeronautica e della Marina erano di nuovo in ottimi rapporti. Si sentivano liberi. Avevano condiviso lo scandalo che alla fine era giunto a un lieto fine. Certo, non proprio lieto, perché il totale delle vittime e dei feriti intorno a Boston era spaventoso. Anche la protesta che si era sollevata in tutta la nazione diminuiva il prestigio delle forze armate. Ma adesso, a due Settimane dall’Apocalissi Tascabile, le statistiche delle vittime erano definitive e il furore dell’indignazione pubblica, sfruttato spregevolmente dai pacifisti e da altri elementi dubbi, era cominciato a scemare. Si potevano valutare le cose con maggiore distacco. «Nonostante la tragedia di Boston – disse il generale Mitchell, in tono appositamente solenne – se guardiamo la faccenda da un punto di vista oggettivo e militare, invece che soggettivo ed emotivo, ha prodotto significativi risultati positivi. Per esempio la marina ha dimostrato l’efficacia del sommergibile nucleare». «E l’Aeronautica ha dimostrato l’affidabilità delle sue basi missilistiche strategiche» – disse il CON restituendo subito il complimento. «È stato un addestramento di incalcolabile valore per entrambe le forze armate» – convenne il generale. «E ha avuto anche una grandissima importanza politica – sottolineò il CON – Adesso tutti i potenziali nemici sanno senza ombra di dubbio che quando lanciamo un missile, va a bersaglio».22

In conclusione, la morte comminata con il fuoco atomico rimanda a

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Tra questi Gaston Bouthoul, Les guerres: éléments de polémologie, Payot, Paris, 1951, Le guerre. Elementi di polemologia, trad. it. di Sestilio Montanelli, Longanesi, Milano, 1961. 22 Ib., p. 186.

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un immaginario universale. Poiché un’idea profondamente radicata nella psiche agisce come un «attrattore strano», essa si deve avverare. Il mezzo più sicuro perché essa si realizzi è la proliferazione nucleare. Anche in ciò Roshwald colse un punto essenziale delle moderne tecnoculture. Mentre la riunione dei politici e militari continua in un’atmosfera rilassata, mentre si misura con il regolo l’immenso vantaggio conseguito al «modesto» prezzo di vari milioni di morti, giunge un comunicato che annuncia il colpo di stato di un’organizzazione neonazista che si è impadronita di basi nucleari americane. Seguono deliranti rivendicazioni, non dissimili, nella sostanza, dal sogno di un ordine teocratico mondiale accarezzato dal defunto Schumacher. Politici, militari e scienziati si interessano subito al nuovo scenario secondo i propri calcoli politici, balistici e tecnici. Si prepara e prevede la distruzione dell’intera Germania Occidentale. E non è tutto: La riunione riprese un quarto d’ora dopo rispetto al previsto. Il presidente spiegò che il ritardo era stato causato da una visita inaspettata del presidente del Qunta-Qunta, che aveva insistito per consegnargli di persona un messaggio da parte del suo governo. «Perché diavolo perde tempo con il Qunta-Qunta in un momento del genere?» – sussurrò il generale Mitchell all’orecchio del CON. «Non lo chieda a me – sussurrò a sua volta il CON – E poi dove si trova il Qunta-Qunta? […] Il presidente gli aveva passato il messaggio del QuntaQunta con la richiesta di leggerlo subito ad alta voce. […] «Il popolo di Qunta-Qunta lesse il Segretario di Stato – è entrato in possesso di tre missili balistici con grandi bombe H. Sono ben nascosti in un luogo segreto del Qunta-Qunta, quindi nessuno può distruggerli». «Un razzo – continuò a leggere con difficoltà il Segretario di Stato – è puntato su New York, un altro è puntato su Mosca e un altro è di riserva». «Ma non lanceremo i missili se gli Stati Uniti e la Russia ci daranno quello che vogliamo. Vogliamo mille miliardi di dollari dall’America e la stessa cifra dalla Russia». «[…] Vogliamo questo denaro per fare del Qunta-Qunta la nazione più forte dell’Africa. Siamo poveri. Con i soldi diventeremo ricchi e potenti. Svilupperemo il Qunta-Qunta facendolo diventare una grande potenza». «Siamo poveri e disperati. Siamo decisi a ottenere quello che vogliamo. Non abbiamo paura. Non abbiamo niente da perdere, tranne la nostra povertà.

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Abbiamo un mondo da guadagnare». «Avanti, Qunta-Qunta!»23.

La teoria dei giochi mostra che in circostanze analoghe i decisori coinvolti in una puntata a somma zero devono seguire la strategia dell’attacco preventivo, anche se non può esserci un vincitore. Inoltre, Zimbardo, nel noto esperimento di Stanford, ha dimostrato con sua stessa sorpresa che la distribuzione casuale di ruoli sociali fondati su coppie di opposti (l’amico/nemico, il prigioniero/carceriere etc.) determina, salvo rarissime eccezioni, l’assunzione automatica dei comportamenti specifici dell’aggressore e della vittima. Anche Stanley Kubrick, com’è noto, ha illustrato il medesimo meccanismo in Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worryng and Love the Bomb, realizzato nel 1964 liberamente ispirato a un racconto di Peter George, due anni dopo la pubblicazione di A Small Armageddon. Ma Roshwald fu il primo a narrare l’apocalisse atomica con veritiera e amara ironia. 4.3 Della Terra e dell’acqua. La rivolta degli elementi della vita Terra e acqua sono inscindibili, la prima rappresentando il corpo e le ossa della Natura, la seconda la sua linfa vitale. Naturalmente anche l’acqua e la terra possono trasformarsi in agenti sterminatori molto efficaci. Le immagini degli oceani che esplodono dalle fonti dell’abisso o delle cateratte che si aprono per riversarsi sulle terre emerse (Genesi, 7,11) sono scenografie classiche del genere apocalittico. Lo stesso si può dire della terra sconvolta dal terremoto: elemento stabile che all’improvviso diventa instabile, fluido quasi quanto l’acqua. Nonostante ciò, terra e acqua non possono essere agenti distruttori definitivi. Lo impedisce il loro ruolo nell’economia dei simboli elementari. Questa resistenza si nota anche nella produzione letteraria moderna, benché siano sempre più numerosi i tentativi contemporanei di sovvertire tale barriera psicologica. La terra accoglie i morti, fin dalle origini preistoriche, ma in sé essa dona la vita; è noto che nella paleoantropologia l’usanza della sepoltura se23

Ib., pp. 190-91.

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gnala l’acquisizione di facoltà cognitive ed emotive simili a quelle dell’uomo contemporaneo. Con l’avvento del razionalismo illuminista la Terra perde questo requisito e diventa parte propria di una natura dai connotati inquietanti. I suoi tremori distruttivi provocano l’indignazione degli intellettuali. Il terremoto (e il susseguente maremoto, un vero tsunami) che nel 1755 cancellò Lisbona ispirò il celebre poema di Voltaire, presa di posizione contro qualsiasi giustificazionismo leibniziano dei mali che affliggono l’umanità. Sfrondato degli argomenti polemici, il poema è pregno di affermazioni apocalittiche: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra/ Confessiamolo pure, il male è sulla terra:/ la ragione profonda è sconosciuta […] Della distruzione la natura è l’impero./ Un debole composto di nervi e di ossa/ non può non risentir del turbinio del mondo». Le vivide immagini di Voltaire testimoniano l’inizio di un mutamento di sensibilità. Da quel momento la Madre Terra, con i suoi corsi d’acqua, i suoi monti, i suoi deserti, le sue foreste, le sue paludi, è apparsa sempre meno una potenza talvolta terribile, ma perlopiù generatrice, e sempre più mera materia prima, perciò adattabile, trasformabile. Il mutamento di percezione ha parimenti introdotto di soppiatto il principio della responsabilità umana nella prevenzione e nella cura degli eventi catastrofici. Deve essere perciò possibile prevenire qualsiasi episodio distruttivo, o quantomeno porvi rimedio. Lo strumento che soccorre tale intenzione è la tecnologia. Se la tecnologia non riesce a soddisfare questo bisogno (soprattutto psicologico) allora il risentimento si riversa sulla stessa condizione umana, che in questa prospettiva sembra ingiustamente sottomessa alla Necessità. La guerra dichiarata alla Necessità si traduce presto in odio verso la stessa condizione umana, il che spalanca l’uscio prima di tutto alla fuga, poi alla vendetta, e in ultima istanza all’autodistruttività. L’ironia che Voltaire nel Candid riversa sul personaggio di Pangloss prelude al desiderio del suicidio collettivo. Posto senza mediazioni di fronte allo stato di necessità rappresentato, l’uomo non può che seguire la ricerca del dominio sugli elementi; ma se il mezzo non raggiunge il fine, allora la soluzione non può che essere la distruzione finale. L’instabilità della Terra è perciò un sintomo psichico di questo secondo inconfessabile desiderio. 106

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Finché la tecnologia promette di intervenire con i suoi strumenti di riparazione si è relativamente al sicuro. C’è ancora tempo per il perfezionamento, per l’evoluzione. In ogni caso il mutamento è precondizione desiderabile, perché da solo allontana lo spettro della necessità del suicidio collettivo. La Terra diventa dunque plasmabile materia primaria, massa inerte, anche se apparentemente essa agisce sotto l’effetto del fuoco interno. Se la Terra perde lo statuto di entità stabile, se non è più la Dea Madre, che tutto partorisce e in cui tutto ritorna, essa non può rivendicare alcuna supremazia ontologica sulle sue creature. Ma poiché resta pur sempre l’elemento primordiale fondamentale dell’economia psichica arcaica e contemporaneamente la base di ogni stabilità, essa non sembra più possedere quelle caratteristiche sensoriali che la collocano al centro delle relazioni e delle forze fisiche. Questo mutamento di percezione è documentato nella letteratura fantastica del secolo scorso. In La nube purpurea, il romanzo di Shiel già esaminato nel precedente capitolo, la terra assume le sembianze del Moloch incomprensibile: […] la terra è tutta torbida di queste contorsioni, smorfie mostruose, apparizioni che assomigliano al viso della Gorgone, che ti lasciano come un sasso che rotola su se stesso dal terrore; e nulla dev’essere più terribilmente insicuro che il fatto di vivere su un pianeta24.

La nube purpurea è uno degli esempi «puri». Il romanzo narra la fine dell’umanità per opera di una misteriosa cortina di acido cianidrico, esalata da alcuni vulcani apparsi nell’oceano atlantico. La nube avvolge rapidamente l’intero pianeta, distruggendo tutta la vita animale, compreso l’uomo: «soluzione finale» ante litteram, su scala globale. La terra agisce come se fosse sostanza fluida. Già agli inizi del secolo scorso l’economia

24 Matthew P. Shiel, The Purple Cloud, 1901, La nube purpurea, trad. it. e prefaz. di J. Rodolfo Wilcock, Adelphi, Milano, 1991, p. 228.

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psichica, riflessa nelle caratteristiche dei quattro elementi antichi, sembra scossa da sussulti e da contaminazioni: Voglio qui però registrare una cosa, ed è questo, santo cielo, una cosa che ho osservato: è chiaro che l’umore degli elementi fa mostra ormai di un incontestabile scatenamento, e una volta eccitati, la loro furia non fa che crescere e crescere. Le tempeste sono diventate molto più rabbiose, ma di molto, e il mare più truculento e sconfinato nella sua insolenza; […] a Bombay una volta, tre volte in Cina, subii la scossa dei terremoti, il secondo e il terzo dei quali memorabili per una certa stravaganza nell’agitazione, da far diventare i capelli grigi. Perché accade questo, mio Dio? […] bisognerebbe dedurne che la semplice presenza dell’uomo esercita un certo effetto calmante e mesmerizzante sulla turbolenza innata della Natura, e che uno dei risultati della sua assenza sia stato oggi quello di togliere un simile freno. Perciò credo che fra cinquant’anni le forze della terra si scateneranno definitivamente, in folle scompiglio, e che questo pianeta si annovererà tra le palestre indiscusse dell’Inferno […]25.

Shiel registra l’inizio del mutamento, benché il limite inconscio persista a lungo. Da quel momento la stabilità dell’orbe terraqueo sarà progressivamente erosa dalle proiezioni letterarie e cinematografiche, finché recentemente, nel film 2012, il regista tedesco Roland Emmerich raccoglierà le conseguenze di questa lenta corrosione psichica mettendo in scena la terra come zona privilegiata del disordine degli elementi. Il nucleo, che è contemporaneamente fluido come l’acqua, caldo come il fuoco, compresso come la pietra e rapido come l’aria, diventa la nuova sede mentale delle forze elementari, distruggendo l’antico ordine cosmico. Emmerich, accogliendo una fortunata vulgata internettiana tra le innumerevoli ipotetiche cause della prossima fine del mondo, ha ideato lo spostamento repentino dell’asse terrestre: causa inscrutabile, che mette in relazione l’abisso interiore con la profondità della mente e quest’ultima con la segretezza e oscurità della nascita da un «interno». Vediamo di ripercorrere alcune tappe della cultura popolare che esplorano questa «sindrome dell’instabilità».

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Ib. pp. 212-13.

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In Superman, per la regia di Richard Donner (1978), il supercriminale Lex Luthor lancia una testata nucleare nella faglia di San Andrea, provocando l’inabissamento di mezzo continente. Solo l’intervento dell’eroe d’acciaio eviterà la catastrofe. L’idea risale agli anni ’50, in una storia in cui il kryptoniano corregge la rotazione terrestre utilizzando il calore interno del pianeta. Per i rami si risale al film di Val Guest The Day the Earth cought Fire (1962), in cui due atomiche modificano l’asse terrestre, provocando immani catastrofi26. Qui la terra è ancora vittima, elemento passivo. La sede dell’equilibrio, la matrice di ogni entità subisce i colpi della mano umana (l’atomica), o di corpi celesti in rotta di collisione, oppure d’intelligenze superumane o di entità aliene, altrettante espressioni spersonalizzate delle energie psichiche, perché minacce provenienti dalle regioni sideree. L’economia simbolica esige che la terra occupi il centro dell’universo, benché la ragione affermi il contrario e nessuno consciamente se la sentirebbe di smentire le certezze della scienza. Però la percezione raramente segue la ragione. Non è assurdo affermare – dal punto di vista soggettivo, che è poi ciò che conta nel gioco delle relazioni – che tutte le direzioni, forze e intenzionalità convergano sulla terra. La percezione preconscia resta tolemaica, punta in basso, non si cura del decentramento intellettuale di tutti i sistemi di riferimento. Analogamente l’intuizione della territorialità (che non è un concetto come il «luogo», per esempio il luogo geometrico), se non è corretta dalla riflessione filosofica o scientifica, resta aristotelica. La letteratura fantastica, inesauribile matrice primeva del cinema, resiste magnificamente alla violazione del «principio di centralità». In Degree XII, di Leonard Daventry (1972)27, il mondo si frantuma per effetto di un fantastico terremoto che proietta le placche tettoniche nello spazio, espediente ripreso in 2012 di Emmerich. Eppure, il cataclisma non è endogeno, ma è prodotto dalle attrezzature dell’extraterrestre Santon, emissario

26 Si rimanda alla storia del cinema di fantascienza di Giovanni Mongini, nonché al suo dettagliato testo sulla pagina web http://www.fantascienza.com/magazine/speciali/ 6304/klaatu-barada-nikto-br-7-questo-mondo-e-meravigl/?print=1. 27 Leonard Daventry, Degree XII, 1972, Terremoto di grado XIII, trad. it. di Marco e Dida Paggi, Urania n. 903, Mondadori, Milano, 1981.

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della civiltà galattica in stile Klatuu, il quale infligge secondo copione la punizione esemplare al genere umano, reo di empietà. Racconti del genere, il cui numero si conta in legioni, riscrivono senza sosta il più antico tra i miti del Vicino Oriente e dell’Africa. Tutte le versioni letterarie del diluvio universale o dell’ectopirosi insistono sulla fondamentale positività della Terra. Seguendo quanto sostiene Marija Gimbutas, potrebbe trattarsi del retaggio atavico della Dea Madre, in ogni caso eredità dell’adattamento della specie ai vari habitat terrestri28. Se l’acqua cancella (mai del tutto, però), se il cielo scompiglia e se il fuoco divora, al contrario la terra rigenera. Una delle più note varianti classiche del diluvio è appunto il mito di Deucalione e Pirra, rielaborato da Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi (I, 347-415). Deucalione, figlio del titano Prometeo, e Pirra, figlia di Pandora e di Epimeteo, fratello di Prometeo, sono i soli umani salvati dagli dei dopo un’inondazione che ha definitivamente cancellato l’umanità. Il mito narra che la coppia superstite, oppressa dalla solitudine e incapace di generare per l’avanzata età, riceva da Giove il privilegio di rifondare la specie gettando alle proprie spalle le ossa della madre, nient’altro che pietre29. Le rocce lanciate da Deucalione produrranno la stirpe degli uomini, quelle di Pirra la progenie femminile. Il mito non tradisce mai il prototipo della terra rigeneratrice; perciò, la fine del mondo è una palingenesi, determina l’inizio di un nuovo mondo, tant’è che Esiodo ne enumera quattro in successione, dall’età dell’oro all’età del ferro. L’umanità attuale sostituisce quella terribile dell’era del bronzo, cosicché la relazione con la Madre Terra si rinsalda con quest’ultima discendenza, probabile eco mitologica dell’avvenuta sedentarizzazione e della diffusione dell’agricoltura. Lo rileva già il Kerényi nel suo noto studio sulla mitologia greca:

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Marija Gimbutas, The Language of the Goddess, Harper & Row Publishers, Inc., Il linguaggiodella Dea. Mito e culto della dea madre nell’Europa neolitica, trad. it. a cura di Nicola Crocetti, Longanesi, Milano, 1990. 29 Cfr. Luisa Biondetti, Dizionario di mitologia classica, Milano, Baldini &Castoldi, 1997; Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres, UTET, 2005; Pierre Grimal, Enciclopedia della mitologia, 2ª edizione, Brescia, Garzanti, 2005, trad. it. di Pier Antonio Borgheggiani.

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Si raccontava anche che Deucalione e Pirra avevano ottenuto dal vicino oracolo di Temi – il futuro oracolo di Delfi – il consiglio di gettare dietro di sé le ossa della loro Grande Madre. Era Pandora, colei alla quale dovevano pensare. Essa era chiamata d’altronde anche madre di Deucalione e la soluzione dell’enigma si celava nel suo nome: la coppia di fratelli doveva gettare dietro le spalle le ossa della Madre Terra30.

Come si vede, terra e acqua sono elementi contrari ma sempre basilari, nel senso che essi, in ragione delle loro caratteristiche fisiche, rappresentano naturalmente la superficie, sia pure, nel caso dell’acqua, una superficie mobile (ma sull’acqua si può anche navigare, nuotare, perfino costruire); dunque, sono le basi tangibili dell’esistenza umana, ciò su cui poggiamo i piedi o in cui siamo immersi, sin dal grembo; ma in ogni caso ciò su cui si giace e che avvolge, così all’inizio dell’esistenza come alla sua fine: la matrice. Il principio di reattività insito nella ribellione razionalista non ha intaccato la primazia degli simboli della vita. Infatti, l’immaginario novecentesco ha forzato le caratteristiche psichiche dei due elementi facendo leva sull’escalation, che, però, destina questi prodotti al genere catastrofista. Solo l’inventiva di Ballard è riuscita a condensare la fine del mondo in due rappresentazioni statiche, rispettivamente della potenza dell’acqua e della terra. Deserto d’acqua e Foresta di cristallo di Ballard sono perciò esempi paradigmatici di un mondo in rotta di collisione con le nuove percezioni. Il diluvio universale di biblica memoria è solo una parentesi. Acqua e terra sono generative, non distruttive, in equilibrio con l’aria e il fuoco, elementi rispettivamente contrapposti. Anche gli accoppiamenti definiscono tale complementarità: l’acqua si associa più spesso con l’aria che non con gli altri elementi, e altresì la terra col fuoco. L’equilibrio dinamico della tetrade elementare, esposto nel diagramma che segue, è così vincolante che si ripresenta senza variazioni in tutte le produzioni letterarie mainstream e finanche nei fumetti. Per esempio i Fantastici 4, celebri supereroi inventati da Sten Lee e illustrati da Jack Kirby nel 1961, sono contemporaneamente una te30

Károly Kerényi, Die Mythologie der Grieschen. Die Götter – und Menshheitsgeschichten, 1958, Gli dèi e gli eroi della Grecia, trad. it. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore, Milano, 1962 (V ed. 2001), p. 196.

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trade e due diadi, costituite queste ultime rispettivamente da Sue (la donna invisibile, l’aria) e Red (l’uomo elastico, l’acqua), e dalla Cosa (l’uomo di pietra) e dalla Torcia Umana (la fiamma). L’aria invisibile si accoppia dinamicamente con la liquida elasticità di Red Richards, così come The Thing trattiene e contiene l’esuberanza del fuoco. L’acqua, fonte di vita, non può negare del tutto la sua funzione di fluido vitale, ma può negarla all’uomo. Accade nel già ricordato Deserto d’acqua, di James Ballard, in cui il pianeta, a causa di un inspiegato effetto serra, è rapidamente sommerso dagli acquitrini, mentre il clima assume le caratteristiche del periodo cretaceo, inadatte alla vita umana. Quel che resta dell’umanità intraprende un’odissea verso il Nord, sospinta dall’umidità insostenibile, dal calore e dal livello dell’acqua che sommerge progressivamente tutte le terre emerse, ma anche dalle specie preistoriche che misteriosamente ricompaiono in questo nuovo mondo primitivo. Se dunque in Deserto d’acqua l’umanità si discioglie nell’elemento liquido, in Foresta di cristallo essa si fossilizza, letteralmente, assimilandosi ai graniti, ai quarzi, agli scisti. Anche in questo romanzo il processo appare all’improvviso (in tre punti del pianeta) e si espande in silenzio, senza dramma, senza clamore. Aree sempre più vaste della terra, per effetto di un imprecisato, inspiegabile fenomeno fisico, si ricoprono di una sostanza cristallina stupefacente, che immobilizza ogni cosa, stranamente preservando in una sorta d’immortalità incosciente le forme viventi. Trascurando la pur importante affinità tra questo processo e il fenomeno del contagio virale (rimarcata dal fatto che il protagonista, Edward Sanders, è un medico specialista della lebbra), colpisce che l’agente sterminatore che dona una morte dolce (e questo è un residuo), benché sia solida terra si comporta come una materia fluida, se non gassosa, trasgredendo ancora una volta l’equilibrio simbolico dei quattro elementi antichi, il cui diagramma è esposto nel disegno. Il diagramma vettoriale (non è un quadrato greimasiano) illustra i concetti fin qui esposti. Fuoco, Acqua, Aria e Terra sono i vertici rispettivamente superiori e inferiori di un quadrato. Abbiamo ridisegnato l’ordine e la posizione degli elementi utilizzando i vettoriali del quadrato logico. Terra e Acqua sono collocate alla base, perché i simboli sono immagini che rappresentano fisicamente i supporti sensoriali sui quali poggiano tutte 112

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le inferenze empiriche. Si percepiscono così in quanto epicentri delle atti atti-vità umane. La relazione bicondizionale tra i due simboli (subcontrari) è evidenziata dalla doppia freccia in basso. Infatti, la terra si fonde nell’acqua,

e viceversa. Se ci rivolgiamo ai vertici superiori del quadrato elementare, troviamo sulla destra e sulla sinistra rispettivamente l’aria e il fuoco. Que Que-sti rappresentano l’inverso psichico dei simboli sottostanti, perché entrambi manifestazioni dell’energia libera. La relazione tra i vertici su su-periori e inferiori è dunque una relazione di subalternità, nel senso che la direzione di causazione è dall’alto verso il basso. L’energia agisce sempre sulla materia inerte o quasi, e mai viceversa. La science fiction mostra tutti i segni di una progressiva confusione tra le peculiarità dei quatt quattro ro simboli, e questo è un chiaro indizio della trasmutazione di tutte le cose in atto da oltre un secolo. In particolare, per affinità sensoriali già notate in tutte le antiche trat trat-tazioni, la terra è logicamente subalterna del fuoco (elementi secchi) e l’acqua dell’aria (elementi umidi). Fuoco e aria sono tra loro contrari, nel duplice senso che si annullano reciprocamente; ma a certe condizioni essi possono anche fondersi e così rafforzarsi (è infatti una legge fisica), pro pro-prio come accade tra l’acqua e la terra. Il quadrato pseudo-logico qui rap rap-113

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presentato illustra inoltre l’intrinseca contraddittorietà psichica delle coppie fuoco-acqua e terra-aria. Il diagramma mostra anche l’indice di rarefazione della densità della materia, e un secondo vettore quale indicatore del valore energetico. L’indice di rarefazione, seguendo le relazioni tradizionali, dovrebbe ovviamente essere orientato nella direzione terra-acqua-aria-fuoco. L’indice di valore energetico dovrebbe esibire lo stesso orientamento. In effetti, per tutto l’Ottocento e nella prima parte del Novecento i simboli primordiali, consciamente manipolati da scrittori, poeti e pittori, in questo schema conservano di solito il loro luogo naturale. L’inversione di tendenza inizia ad apparire dalla metà del secolo scorso in poi. Vedremo oltre che si assiste oggi a una netta inversione di tendenza. Ciò che era stabile diventa instabile, mentre tutto ciò che simboleggia la rarefazione, l’instabilità, la disintegrazione, tutto ciò che è energia allo stato puro, diventa sede di un’immaginaria e superiore stabilità, in ciò recuperando, paradossalmente, l’antica percezione religiosa della regione siderea, sede degli dei.

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5.1 Il servitore perfetto di Clifford Dante Simak La fantascienza ha prefigurato mille forme di fine del mondo, ma tra le modalità dell’autocancellazione si distingue la lotta senza quartiere tra uomini e robot, con la conseguente eliminazione dei primi. Esplorando l’apocalittica futurista abbiamo già incontrato il prototipo di questo duello all’americana tra l’organico e l’artificiale. R.U.R. di Čapek, Mafarka il futurista di Marinetti o L’angoscia delle macchine di Ruggero Vasari sono pietre miliari di questo genere nel genere, ma la cosiddetta sindrome di Frankenstein (espressione coniata da Isaac Asimov) si radicò profondamente nell’inconscio collettivo soprattutto dagli anni ’50 in poi, quando la cibernetica e l’intelligenza artificiale compirono i primi passi concreti. Da quel momento scrittori, scienziati e filosofi s’interrogarono sull’ambiguità di artefatti potenzialmente intelligenti e sensibili. Il seme della discordia ontologica deriva dall’ambiguità, amalgama di equivalenza e di radicale differenza, che rende incerto il confine tra l’umano e l’artificiale. Ma sono gli scrittori, i visionari, ancora una volta, a lanciare ami oltre l’orizzonte del loro presente o dell’immediato futuro, tentando di rappresentare la relazione fra l’umanità vicaria e l’umanità organica. L’esame delle opere mostra tuttavia che i futuri contingenti ipotizzati, non importa quale sia la formazione o la provenienza degli scrittori, rientrano in sole quattro categorie. La prima evidenzia la convergenza dei due 115

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principi. L’intelligenza artificiale e quella organica sono destinate a fondersi: una sottile, inavvertibile dissoluzione del genere umano. La seconda categoria può essere definita «assistenza tutelare dell’estinzione», ad opera delle intelligenze artificiali evolute fino all’inesprimibile. Queste due tipologie negli ultimi decenni sembrano a loro volta confluire. La terza tipologia, la più ordinaria e antica, risalente addirittura alla seconda metà dell’Ottocento1, annuncia il conflitto armato tra uomini e robot e prevede la volontà robotica di schiavizzare e poi di annientare la specie umana. L’esempio più noto è la saga Terminator, che unifica lo sterminio nucleare con la rivolta dell’intelligenza artificiale2. La quarta descrive l’avvicendamento dolce: alla «natura umana» subentra la totale artificialità. Si assiste al passaggio del testimone dall’intelligenza basata sul carbonio a quella fondata sul silicio o su altri ipotetici principi ingegneristici. In questo caso l’umanità si fa spontaneamente da parte (salvo rigurgiti di orgoglio), per ritirarsi alla fine in buon ordine nel meritato oblio. Anche questa è una parabola della fine del mondo. La sparizione dell’umanità per mano robotica può essere dunque un lento ma inesorabile cupio dissolvi. Il prototipo di alto profilo letterario di questo malinconico scenario è opera di Clifford D. Simak. In City, in italiano Anni senza fine, la vita del robot Jerkins s’intreccia con la vicenda dell’umanità, giunta a un punto morto del suo cammino. Nel corso d’innumerevoli secoli Jerkins serve i membri della dinastia dei Webster, ma sullo sfondo si muovono le energie del cambiamento, talvolta forzate dalla stessa mano umana. Agli uomini subentreranno i cani intelligenti e gli sterili mutanti, esseri dalle vite plurimillenarie, motivati da scopi che sfuggono alla comprensione. Parte dell’umanità si trasferirà poi su Giove, assumendo, mediante una fantastica macchina trasmutatrice, corpi adatti alla micidiale atmosfera del gigante gassoso. In quella nuova condizione i sensi dei trasformati si

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Cfr. Samuel Butler, Erewhon, or Over the Range, 1872, Erewhon, a cura di Lucia Drudi Demby, Adelphi, Milano, 1965, (III ed. 1979). 2 Sugli antecedenti e gli sviluppi del conflitto armato tra uomini e robot cfr. i miei You Robot, Vallecchi, Firenze, 2005 e Machina ex machina, Bulzoni, Roma, 2008.

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espandono, fino ad assumere qualità quasi angeliche; ma non è che un’estinzione tra le altre, poiché quella parte di umanità non otterrà né l’accesso all’ulteriore evoluzione né vita eterna. In City l’eredità degli uomini sarà assunta invece dai cani, e dai superstiti umani ridotti dalle cure di Jerkins alla condizione di eterni bambini, e infine, sorprendentemente, dalle formiche. La cultura canina eliminerà le uccisioni, l’odio e la lotta per l’esistenza, ma solo per ritrovarsi dopo secoli in un mondo superaffollato, a un passo dal collasso demografico esteso a tutte le specie. Unica risorsa sarà allora l’emigrazione in altre dimensioni, cosicché la terra resterà deserta. Ed è l’ennesima fuga dalla realtà. Alla fine anche l’incomprensibile cultura delle formiche si estinguerà. L’arco temporale della parabola abbraccia quasi un milione di anni. Un nontempo, su scala storica. In tutta la complessa vicenda il vero protagonista è una macchina dalla memoria perfetta. Jerkins, come ogni entità logica, non può dimenticare. Ogni suo gesto è condizionato dalla tradizione, dall’accumulo, dalla prigione della piena consapevolezza. La perfezione macchinica, slancio nel futuro, paradossalmente ha sempre il capo voltato indietro, e dietro di sé c’è l’uomo, il creatore del quale è impossibile liberarsi. Anche se le buone intenzioni di Jerkins mirano alla preservazione dell’uomo, le sue azioni producono l’effetto opposto. Questa consapevolezza giunge alla fine del dramma, e la ritroveremo, pressoché inalterata, in tutti i romanzi o film che hanno esplorato questa particolare sottocategoria della fine del mondo: Ma l’uomo, ricordò Jerkins, aveva lasciato qualcosa dietro di sé. Aveva lasciato i cani e i robot. Che cosa avevano lasciato le Formiche, se avevano lasciato qualcosa? Nulla di evidente, nulla di certo, questo era ovvio… ma lui come avrebbe potuto saperlo? Un uomo non avrebbe mi potuto saperlo, si disse Jerkins, e neppure un robot avrebbe potuto, perché un robot era un uomo, non di carne ed ossa, come gli esseri umani, ma sotto ogni altro aspetto sì. Le formiche avevano edificalo la loro società nel Giurassico, o prima ancora, e avevano continuato a esistere nell’ambito di quella struttura sociale per milioni e milioni di anni, e forse era quello il motivo della loro sconfitta… la società del formicaio era così saldamente radicata in loro, che esse non avevano saputo spezzarne i vincoli neppure per sopravvivere.

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E io? Si domandò d’un tratto. Non è forse anche il mio caso? Io sono racchiuso nella struttura sociale umana ancor più saldamente di quanto le formiche fossero racchiuse nella loro. Per meno di un milione di anni, ma per un tempo comunque lunghissimo, quasi un’eternità, lui aveva vissuto non nella struttura della società umana, ma nel ricordo di quella struttura. Aveva vissuto in quella struttura, ora lo capiva, perché gli aveva offerto la sicurezza di un antico ricordo3.

L’epilogo ripercorre l’ossessione moderna per la fuga già esaminata nei primi capitoli. Jerkins, infatti, rimasto solo in una terra completamente desolata, unico depositario di una memoria tragicamente priva di scopo perché non trasmissibile ad alcuno, s’imbarcherà nell’astronave costruita da altri robot, fuggiti millenni prima e tornati sulla terra per di recuperare il loro perduto compagno artificiale, troppo legato alla casa dell’umanità. Questo desiderio di involarsi, di spezzare le anguste barriere del pianeta, è l’unico modo per sfuggire alla pulsione di morte che accompagna il peso della storia4. 5.2 Il magnifico suicidio collettivo di Tevis Se questa via di fuga del tutto proiettiva non è possibile, se lo scrittore decide di attenersi alla veridicità della scienza, che oggi reputa tecnicamente improbabili i viaggi interstellari, allora l’immaginazione può trasformare il

3 Simak, City, 1952, Anni senza fine, trad. it. di Ugo Malaguti, Editrice Nord, Milano, 2005, p. 316. 4 L’ossessione per le proprie origini umane e la fine del mondo organico percorre anche molte altre importanti opere. Il film I. A. di Steven Spielberg (2001), tratto da un racconto di Brian Aldiss, è a questo proposito emblematico. Il robot-fanciullo, risvegliato dai robot ultraevoluti che popolano la terra dopo la totale scomparsa della vita organica, vuole disperatamente far rivivere la memoria della madre, ma molto più interessanti sono le entità quasi trascendenti che dominano il pianeta, poiché si intuisce che il loro unico scopo consiste nel comprendere le proprie origini; sono quindi intelligenze artificiali dominate dal passato. Il passato umano. Cfr. Brian W. Aldiss, Supertoys Last All Summer Long and Other Stories of Future Time, Orbit, Great Britain, 2001, A.I. Intelligenza Artificiale, Mondadori, Milano, 2001.

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robot nell’implacabile esecutore dell’agonia dell’umanità. Accade per esempio in Mockingbird, di Walter S. Tevis, autore approdato alla notorietà per la riduzione cinematografica dei romanzi Lo spaccone (per la regia di Robert Rossen, 1961), Il colore dei soldi (per la regia di Martin Scorsese, 1986) e L’uomo che cadde sulla Terra (per la regia di Nicolas Roeg, 1986). Anche in questo caso il protagonista, Bob Spofforth, robot della serie 9, non può dimenticare, né dormire, né morire. Culmine della scienza dell’intelligenza artificiale, egli nel venticinquesimo secolo è l’unico amministratore intelligente di una società automatizzata, in cui gli umani sono ridotti alla demenza dalle droghe, dal totale analfabetismo, dall’ipnosi mediatica e dall’accesso gratuito ai servizi e ai beni minimi. Certo, il rischio della delega imposta dall’automazione era già stato denunciato con forza, per esempio in Player Piano di Kurt Vonnegut (1952). Ma Tevis aggiunge uno sguardo particolare al principio normativo che da tempo governa questo processo irreversibile. Osserva Giuseppe Lippi nella postfazione: «[…] Affidatasi all’inorganico (macchine, droghe sintetiche) la razza può proteggere la sua parvenza di vita solo a prezzo dell’ignoranza: e infatti insegnare a leggere è vietato, parlare agli altri per più di qualche minuto è vietato, convivere è vietato. Questo rifiuto della realtà è un rifiuto della responsabilità, ed è l’equivalente dell’autoinganno a cui si sottopone il nevrotico per proteggere la sua particolare costruzione difensiva»5. Ma il vero paradosso consiste nel fatto che l’ultimo depositario dei sentimenti reali dell’umanità, il solo a percepire la lacerazione dell’amore, della malinconia, della rabbia, del disorientamento, ma anche della meraviglia, della curiosità, dell’indefinibile percezione della bellezza, l’unico a provare l’autocommiserazione e perfino la pietà è un robot. Un robot solo, che non può procreare né morire. L’odio per l’umanità è una conseguenza logica della solitudine e il disegno di eliminare fisicamente gli ectoplasmi delle persone che si aggirano senza scopo e senza pensieri nelle strade della città può essere conseguito nel modo più silenzioso e apparentemente 5

Giuseppe Lippi, Un futuro che è già cominciato, in Walter Tevis, Mockingbird, Bertam Books, Inc., New York, 1980, Futuro in trance, trad. it. di Silvia Stefani, Mondadori, Milano, 2009, p. 320.

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incruento: inoculando nel cibo un ormone della sterilità. Immortalità e sterilità sono poli simbolici complementari. In Le Grand Secret (1973) René Barjavel bilancia il potere del virus JL3, che conferisce l’immortalità, con l’assunzione di contraccettivi che dovrebbero impedire l’esplosione demografica. Accusare di genocidio un meccanismo raffinato quanto e forse più di un essere umano non è corretto. Spofforth è l’ennesimo involontario Unico, con la differenza che la sua intrinseca perfezione elettromacchinica, la sua totale autosufficienza, l’immortalità, la memoria eidetica, sono proiezioni umane incarnate in un artefatto tecnologico. Paul Bentley e Mary Lou sono i soli ribelli. Paul inizia a percepire la miseria del mondo grazie agli antichi film di Hollywood, pregni di passioni dimenticate, Mary perché vissuta sin da bambina ai margini del sistema. L’avvento della consapevolezza, dopo la fuga, un percorso quasi iniziatico, genera in Paul l’esplosione del risentimento nei confronti dei responsabili morali e materiali di questo allucinato universo concentrazionario destinato all’estinzione: Me ne rimasi là seduto, con la guida Audel in grembo, preparandomi ad attaccare il cervello di un pensierobus con un martello, la mente che turbinava in questo momento, il più assurdo di tutti, per la consapevolezza che tutti i concetti di perbenismo erano stati programmati nella mia mente e nel mio comportamento, programmati da computer e robot a loro volta programmati da qualche ingegnere sociale o tiranno o pazzo morto da chissà quanto tempo. Li potevo visualizzare, quegli uomini che a un certo punto del lontano passato avevano deciso quale fosse veramente il fine della vita umana sulla terra e avevano ideato i dormitori e il Controllo Demografico e le Regole delle Privacy e le dozzine di inflessibili, solipsistici Editti ed Errori e Regole che avrebbero governato la vita del resto dell’umanità finché non ci fossimo estinti lasciando il mondo ai cani, ai gatti e agli uccelli. Si consideravano certo persone serie, solenni, responsabili… con le parole “preoccupazione” e “compassione” costantemente sulle labbra. Dovevano rassomigliare a William Boyd e a Richard Dix, coi capelli bianchi alle tempie e le maniche arrotolate sopra al gomito e, magari, una pipa in bocca, e si mandavano “memo” l’un l’altro attraverso scrivanie ingombre di carte e libri, pianificando il destino perfetto per l’Homo Sapiens, un mondo in cui fossero assenti povertà, malattia, dissenso, nevrosi, sofferenza, un mondo che, sfruttando tutto il loro potere tecnologico e la loro “compassione”, volevano il più di-

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stante possibile dai film di D.W. Griffith e Buster Keaton e Gloria Swanson… il mondo del melodramma e delle passioni, dei rischi e dell’eccitazione6.

Paul Bentley comprende l’inganno e riconosce l’idea politica che la domina. Il suo mondo non è che il precipitato di una tecnoscienza raffinata, complessa, specialistica, che non lascia alle persone comuni alcuna possibilità d’interazione, che consente alle masse solo la finta scelta dell’accettazione (in realtà una subdola imposizione): I robot erano nati da un cieco amore per la tecnologia che ne aveva permesso l’invenzione. Erano stati fabbricati e dati al mondo degli uomini come armi, armi che per poco non lo avevano distrutto, così come il Controllo Demografico che stava per distruggerlo gli era stato imposto come “necessità”. E ancor più profondamente, sotto quella faccia vuota, stolida, identica alle migliaia di facce della sua serie, avvertì il disprezzo… il disprezzo per la comune vita degli uomini e delle donne che aveva ispirato i tecnici umani nel costruirli. Ci avevano dato i robot, come una frode, raccontando che ci avrebbero risparmiato fatica o sollevati dalla monotonia di un duro lavoro in modo che potessimo crescere e svilupparci ulteriormente. Qualcuno doveva aver odiato la vita umana per aver fatto una cosa simile… tale abominio agli occhi del Signore7.

5.3 Vita e morte con gli automi in Isaac Asimov e James White Ancora un passo e il robot si trasforma in entità semidivina. Così la creatura artificiale supera il conflitto con il padre, abbandona l’odio e assume le sembianze e i comportamenti di un angelo custode, come in Second Ending di James White. Il protagonista è il dottor Ross (l’ennesimo medico, forse citazione del Rossum di R.U.R), sopravvissuto a un inverno nucleare che ha sterilizzato l’umanità. Risvegliatosi dopo il Grande Sonno (innovativa tecnica d’ibernazione) Ross scopre con orrore

6 7

Ibidem, p. 280. Ib., p. 301.

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di essere l’unico organismo vivente sulla terra. Gli fa compagnia il robot-infermiera 5B, assistita da una schiera di meccanismi semisenzienti che tengono in efficienza l’ospedale, ormai ridotto a un’immensa tomba scintillante. Ross è perciò ancora una volta l’ennesima riproposizione dell’Unico. Resosi conto dell’agghiacciante condizione, Ross si scontra con la ferrea volontà del robot infermiera 5b, il cui fine monomaniacale consiste nel preservare la vita e la salute mentale del paziente. Qui si riconosce la paradossale inversione dei mezzi e dei fini, che in seguito produrrà un nuovo filone fantascientifico. Il dialogo fra i protagonisti, l’artificiale-femminile e l’umano-maschile, è solo un soliloquio allo specchio, che riflette beffardo i sogni e gli incubi dell’umanità contemporanea. Mentre Ross cerca una via d’uscita dalla sua condizione claustrofobica, l’infermiera prova invece a interrompere la coazione a ripetere il ciclo delle morti e rinascite che le è stato implementato nei reconditi recessi del software. L’ingiunzione la obbliga ad inseguire la felicità del paziente: una condizione spirituale indefinibile. Nello stile di Wells, di Stapledon o di Simak la vicenda si sviluppa per miliardi di anni. Nel frattempo Ross entra ed esce dall’ibernazione, sperando che il trascorrere degli eoni riaccenda la scintilla della vita sulla Terra. Al contrario, si evolve l’umanità vicaria e artificiale, che genera una civiltà sintetica formata da genetisti, ingegneri, fisici, matematici, astronomi e composta anche (paradossalmente) da antropologi, sociologi, storici. Alcuni robot viaggiatori, favoriti dall’immortalità, esplorano la galassia, indirizzando l’evoluzione biologica di un remoto pianeta per trasformarlo in un Eden in grado di accogliere il superstite umano. In Second Ending si riconosce un esempio paradigmatico di sostituzione. La civiltà tecnologica produce a un certo punto una discontinuità che privilegia la vita simulata. Non importa se il romanzo prevede il lieto fine. Il trasferimento del dottor Ross sulla remota neoterra conclude la storia dell’uomo Ross, ma non quella dei robot, trasformati in globi di pura intelligenza immortale, dotati di scopi che trascendono la nostra comprensione: «Raccoglieremo dati, guideremo lo sviluppo di ogni forma di vita che incontreremo e ci spargeremo per tutta la Galassia fino ai confini dello Spa-

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zio»8, afferma una di queste eteree voci fuori campo. La fine dell’umanità giunge in questo caso sotto l’egida di un’intelligenza artificiale amichevole, ma non sempre gli umori degli scrittori sono così clementi. Più spesso l’immaginazione preferisce esplorare i vari stadi della dolce tirannia robotica, rivolta sempre al «bene» dell’umanità. Tuttavia, l’esercizio della tutela, compiuto dagli artefatti tecnologici nel momento in cui accedono all’autocoscienza, è relativamente antico; per esempio fu trattato dal noto scrittore e storico della fantascienza Jack Williamson nel romanzo The Humanoids, nel lontano 19489, e abbiamo già osservato che il cinema degli anni ’50 sfruttò a fondo l’idea10. Un caso peculiare di tutela robotica è presente nell’opera di Isaac Asimov, scrittore che più di ogni altro ha intuito i rischi ma anche le opportunità antropologiche dell’intelligenza artificiale, tant’è che coniò le celebri tre leggi, riassumibili nel principio generale che i robot non possono danneggiare in alcun modo gli esseri umani. Questo implicitamente vuol dire che l’intelligenza artificiale, se libera da freni, è percepita come una minaccia, una proiezione totalmente negativa dell’inconscio. La mente robotica sarebbe dunque l’antitesi, la negazione delle facoltà naturali. Perché altrimenti creare qualcosa che non esiste? Da qui la sua vera funzione, che si invera nella distruzione del genere umano. Le tre leggi della robotica (più la controversa legge zero, che estende la tutela all’intera umanità e ne universalizza il significato) costituiscono dunque le necessarie misure legali tradotte in stringhe di software in difesa degli interessi (e dell’esistenza stessa) dei creatori. Asimov è ben consapevole dell’origine fobica di queste preoccupazioni, ma non dimentichiamo che nei suoi romanzi le tre leggi sono comunque considerate necessarie, 8

James White, Second Ending, 1963, Vita con gli automi “Urania” n. 309, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974, p. 94. 9 Jack Williamson, The Humanoids, 1948-49, Gli umanoidi, trad. it. di Riccardo Valla, Mondadori, Milano, 2011, p. 294: «Infatti l’umanoide era soltanto quello: una macchina. Né buona né cattiva […]. Né amica né nemica, non animata da amore o da odio, eseguiva soltanto il compito per cui Warren Mansfield l’aveva creata: obbedire e proteggere l’uomo dal male». 10 Cfr. il capitolo Quando i robot ci guideranno nel mio Machina ex machina, Bulzoni, Roma, 2008, pp. 53-97.

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tanto è vero che la loro parziale violazione in vari racconti mette in serio pericolo la vita degli esseri umani. La seconda intuizione riguarda l’inevitabile incremento esponenziale delle facoltà artificiali, intelligenza ed empatia comprese. Quindi, le leggi della robotica sono implementate in entità le cui potenzialità sono molto più ampie di quelle umane, cosicché il grafico della reciproca evoluzione diverge rapidamente. Stabiliti i principi, il resto dello scenario asimoviano si sviluppa per logica conclusione. L’umanità diventa oggetto di un’occhiuta ma invisibile tutela, per un tempo indefinito e in un volume di spazio anch’esso virtualmente senza confini: l’intera galassia. Così l’immaginazione dello scrittore e scienziato aggira la trappola della fine del mondo, ma al prezzo di un doppio vincolo mimetico, oltre che tecno-etico. Il primo seme di questo grandioso affresco fantastorico si trova in La fine dell’eternità (1955), in cui Asimov ideò una dimensione parallela che permette ai suoi occupanti di viaggiare nel tempo per correggere il corso degli eventi storici allo scopo di evitare sviluppi autodistruttivi. In realtà, le azioni degli Eterni impediscono all’umanità di scoprire l’energia atomica e di intraprendere la colonizzazione dello spazio. Gli agenti dell’Eternità sono a loro volta osservati da altri invisibili agenti, che vivono in un’estensione ulteriore della dimensione parallela e che alla fine inducono il protagonista a distruggere l’eternità. Da qui probabilmente deriva l’idea che l’intelligenza robotica, cioè una forma d’intelletto diversa dall’umana, possa influenzare le possibilità storiche. Un altro tassello dell’affresco inizia con la trilogia originale del ciclo della Fondazione, che narra, com’è noto, il declino e la rinascita dell’impero galattico; ma non si deve dimenticare che nei tre romanzi fondativi le menti robotiche sono del tutto assenti. In seguito Asimov svilupperà il ciclo della Fondazione, ideando antefatti e sviluppi, alcuni dei quali di argomento apertamente apocalittico. Tra questi Nemesis (1989), che narra la scoperta di una stella nana rossa in rotta di collisione con la terra. Il rischio della catastrofe proveniente dalle regioni sideree stimola l’umanità a emergere dagli angusti confini del suo sistema solare. Benché successivo, Nemesis è pertanto uno degli antecedenti della saga degli spaziali, che a sua volta si connette al ciclo della Fondazione e al ciclo dell’Impero. 124

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Tra questi poli s’inserisce il ciclo dei Robot, complessa serie di racconti e romanzi che illustra la parabola plurimillenaria delle intelligenze artificiali (i cosiddetti «cervelli positronici»), sino alla costruzione di androidi assolutamente fantastici, dotati perfino di poteri telepatici. Questi, appunto, dirigono la storia dell’umanità. In Fondazione anno zero (1993) si svela che la scienza della psicostoria, sulla quale si basa l’intera trama del ciclo della Fondazione, è stata inventata da Hari Seldon, con l’assistenza occulta del robot telepatico Daneel Olivaw. Senza contare che la stessa psicostoria, affascinante ipotesi che una nuova matematica possa analizzare le reazioni di gruppi d’individui in interazione prevedendo lo sviluppo economico e politico degli eventi, introduce l’idea di una scienza esatta dei comportamenti umani, il che assimila gli uomini agli automi. Poi, in I robot e l’Impero (1985) l’androide Giskard Reventlov formula la cosiddetta Legge Zero, estensione delle tre leggi della robotica, che afferma che un robot non può danneggiare l’umanità né, attraverso l’inazione, permettere che l’umanità sia danneggiata. Ciò comporta la modifica della Prima Legge in: «Un robot non può danneggiare un essere umano, né, attraverso l’inazione, può permettere che un essere umano sia danneggiato, purché ciò non sia in contrasto con la Legge Zero». L’invenzione della Legge Zero segna un traguardo, perché in teoria permette di aggirare l’imperativo morale della non violenza assoluta, imposta ai robot come necessaria precauzione. L’Umanità, dopotutto, è un’astrazione. In L’orlo della Fondazione (1982) e in Fondazione e Terra (1986) il disegno cosmico di Asimov raggiunge confini quasi inesprimibili. L’umanità deve scegliere tra una successione di imperi galattici che si avvicenderanno tra infinite lotte, decadenze, sofferenze, rinascite, e il suo opposto: un organismo cosmico definito «Galaxia», prodotto dalla fusione di tutta la materia organizzata, vivente e non vivente, non più una somma di individui ma un «pleroma». Questa decisione è affidata a Trevize, un semplice essere umano, perché il robot quasi immortale Daneel Olivaw, responsabile di un’infinita sequenza d’interventi segreti nel corso di ventimila anni, non può in questo caso prendere una decisione. Infatti, le leggi della robotica si basano sul postulato che gli esseri umani siano ciò che sono sempre stati, dal punto di vista morale e materiale. Olivaw tenta un esperimento creando il pianeta vivente Gaia, ma non 125

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può decidere se estendere all’intera umanità questa condizione di fusione psicofisica globale. A questo punto l’intero affresco asimoviano è a un punto morto. L’umanità può anche cullarsi nell’illusione dell’autodeterminazione, ma in realtà le intelligenze artificiali influenzano il percorso storico dal retroscena, apportando le opportune correzioni nella trama dei fatti qualora l’inventiva umana (o l’ambizione) rischi di procurare l’autodistruzione. Anche l’accesso a una condizione non precisamente umana, la fusione delle menti in un’entità globale che comprende anche piante, animali e atomi inerti, segnerebbe in linea di principio la fine del mondo così come lo conosciamo. E allora? Vedremo nell’ultimo capitolo che i teorici della «singolarità» muoveranno da questa impasse, nel tentativo di definire una nuova sintesi tra l’uomo, la tecnologia e i suoi destini ultimi. 5.4 Il piacere della fine del mondo secondo James Gunn Si può morire di felicità? Pare di no. Però si può morire di piacere e per il piacere. La causa è spesso l’addiction, come la definiscono gli anglofoni, cioè dipendenza, assuefazione ed incremento esponenziale: condizione declinabile in varie tipologie, dalle droghe al sesso, al gioco, alla sigaretta. L’ultima sigaretta secondo Svevo, mortale ma sublime. Si può dunque morire nel modo più tragico, strappando alla vita l’ultimo brandello di piacere. Ma resta un atto privato. L’orizzonte della ricerca del piacere è sempre un oceano di dolore, risultato inevitabile della lotta per l’accaparramento della più rara tra le risorse: la felicità. E se la felicità fosse un traguardo politico? Se essa fosse considerata la priorità nell’agenda dell’organizzazione sociale? Se la precedenza toccasse non alla sua ricerca, come si legge nella Costituzione degli Stati Uniti, ma nel suo conseguimento materiale, con tutto il dispiegamento di mezzi e di ordinamenti che ciò comporterebbe? Alcuni filosofi e scienziati di prestigio si spingono sino al punto da indicare la via che a loro giudizio garantirebbe l’accesso alla felicità, un’etica globale radicata sui valori fondamentali dell’esistenza, della vita, delle responsabilità. Ad esempio Stuart Kauffman afferma che abbiamo bisogno di una nuova visione dell’Eden, non certo quella che l’umanità si è lasciata 126

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alle spalle per sempre, ma una conoscenza approfondita delle nostre propensioni per il bene e per il male11. Questo affascinante quanto improbabile impegno neo-socratico confligge con la realtà d’immense quanto crescenti masse umane senza passato né futuro, senza percezione del sacro, senza orizzonte storico e destinale, senza spirito. Umanità corpo-consumatore, immersa in un sogno onanistico interminabile? Umanità-ventre, ripiegata su se stessa, nell’illusoria soddisfazione di desideri indotti, nell’allucinazione tecnologica che riempie lussureggianti vuoti con il «pieno» dei suoi mezzi? La letteratura fantastica ha proposto soluzioni parziali. L’immaginaria civiltà di Brave New World, retta dall’eugenetica e dal condizionamento skinneriano, in definitiva sopporta lo stress grazie al sesso promiscuo e al «soma», splendida droga senza effetti indesiderati. Però Huxley non era così ingenuo da scambiare la perfezione con la felicità. Al contrario, nell’inconsueto romanzo di James Gunn intitolato The Joy Makers, letteralmente «i responsabili della gioia», si prospetta proprio la chimerica perfezione della felicità per tutta l’umanità12. The Joy Makers si apre con lo sbalorditivo messaggio lanciato dalla misteriosa Società Edonica: PERCHÉ ESSERE INFELICE? Lasciaci risolvere il tuo problema «Un servizio moderno per la società moderna» FELICITÀ GARANTITA Telefono P-I-A-C-E-R-E Società Edonica Il romanzo è in prima battuta ambientato negli anni ’60 del secolo scorso e descrive il vuoto della società consumista, individualista, cinica e

11 Stuart A. Kauffman, Reinventing the Sacred. A New View of Science, Reason, and Religion, Basic Books, New York, 2008, p. 9. 12 James Gunn, The Joy Makers, Bantam Book, Ink., 1961, I fabbricanti di felicità, trad. it. di Ugo Malaguti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2009. (La prima, la seconda e la terza parte del romanzo furono pubblicate tra il 1954 e il ’55, e poi riviste dall’autore).

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competitiva. Nessuno è felice. Joshua P. Hunt, presidente di un’azienda di attrezzature elettroniche avanzate, nota il messaggio della società edonica ma ne è irritato. Hunt pensa che si tratti di una truffa ben organizzata e vuole combatterla. Alcuni suoi dipendenti cadono nelle reti della società edonica e, sorprendentemente, da quel momento appaiono felici! In seguito Hunt scopre che la misteriosa società agisce seguendo principi razionali. I risultati discendono dalle più avanzate scoperte mediche, dai traguardi delle neuroscienze e dall’applicazione di nuove e raffinate tecniche di persuasione, basate sullo studio delle reazioni emotive umane e sull’applicazione dei principi della psicologia del profondo. Com’è noto, all’epoca della pubblicazione del romanzo negli Usa proliferavano alcune scuole para-freudiane. Tra queste la più controversa fu la dianoetica, creata dallo scrittore di fantascienza L. Ron Hubbart, indefinibile personaggio che in seguito fondò la chiesa di Scientology, il più interessante esempio di religione della tecnologia. Già la dianoetica in stato nascente fondeva una concezione visionaria dell’uomo e della società con vari ambiti disciplinari, scientifici e pseudoscientifici13. Inoltre, la particolare filosofia della mente della dianoetica insisteva sulla plasmabilità dei comportamenti umani, sino al limite del plagio, cosicché non è illecito supporre in Gunn una sottintesa valutazione critica di questa discutibile organizzazione. La società edonica è pertanto un’organizzazione perfetta, una struttura coesa che ha condotto fino alle estreme conseguenze l’ingegneria sociale. Dotata di strumenti avveniristici (per esempio una sorprendente poltrona diagnostica, che può scannerizzare il corpo umano, come oggi consente la tomografia a emissione di positroni o con la risonanza magnetica) essa riassume l’insieme delle migliori competenze nei vari rami del sapere scientifico, psicologico e socio-antropologico. Mission dell’organizzazione è il perfezionamento delle personalità dei pazienti. A quale il prezzo? Il massimo concepibile: tutto! Chi si affida alla società edonica firma un compromesso, seguito da un contratto definitivo, basato sull’autovalutazione della propria riconquistata felicità. Se soddisfatti, si cede alla società 13 Roy Wallis, The Road to Total Freedom. A Sociological Analysis of Scientology, Heinemann, London, 1976, p. 55 e sgg.

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tutto ciò che si possiede. Un accordo virtualmente irrisolvibile, perché l’autovalutazione non è oggettivabile. Tale negoziazione, apparentemente di tipo privatistico, per i suoi effetti istituzionali si tramuta in un nuovo contratto sociale. Col tempo la società edonica si espande, conquista l’intero pianeta e concentra nelle sue mani il potere politico, giuridico, amministrativo, economico e psichico. Questo nuovo stadio è descritto nella seconda parte del romanzo. Dopo il 2005 la società edonica è nei fatti il regime. In cima alla piramide vigila il Consiglio. La struttura è costituita dagli Edonisti, psichiatri organizzati in una rigida gerarchia. A differenza dei loro colleghi di un tempo gli Edonisti sono specializzati in varie altre discipline e assolvono il compito di dirigenti, magistrati, censori e amministratori di beni e servizi. La loro metodologia è una miscela di psicoterapia e di «captologia»14. La terapia è agevolata dall’assunzione di droghe sintetiche, simili in parte al soma di Huxley e in parte alle molecole che controllano il rilascio dei neurotrasmettitori. Gli edonisti manipolano le menti di tutti i terrestri per orientarne desideri e opinioni; se qualche cittadino manifesta dubbi sui modelli vigenti è immediatamente riprogrammato con tutti i mezzi disponibili. L’edonica è così definita: «scienza psicomedica che si occupa della natura e della ricerca della felicità». «Edonista» è «[…] chi vive secondo l’edonismo, cioè per il piacere, e in secondo luogo il praticante dell’edonica». Tutto ciò, però, non ha nulla a che fare con l’Epicureismo, in cui, com’è noto, la ricerca della felicità esigeva una ferrea autodisciplina morale. I fondamenti di questi scenari psicosociali sono plausibili: basti pensare alla relazione tra la scienza delle reti e le moderne ricerche sui comportamenti umani. Le informazioni immesse nel web, elaborate dalle società private di data mining, permettono di tracciare con precisione sconcertante la rete sociale, il profilo psicologico, i gusti alimentari o estetici, la gestione del lavoro e del denaro, l’orientamento ses-

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Così B. J. Fogg definisce la nuova disciplina che studia l’uso delle tecnologie per orientare le persone verso opinioni e comportamenti diretti a uno scopo. B. J Fogg, Persuasive Technology, Elsevier Inc. 2003, Tecnologie della persuasione, trad. it. di Sivia Panzavolta e Lisa Fontani, Apogeo, Torino, 2005.

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suale, l'espressione politica, il credo religioso e infine la mappa degli spostamenti nel tempo e nello spazio, virtualmente di ogni individuo. Per altri versi i messaggi di status rilasciati dagli utenti nei social network, consentono di analizzare lo stato d’animo degli utenti, di seguirne l’evoluzione nel tempo e di tracciare un quadro delle interazioni emotive, passo dopo passo. È possibile così scoprire (sui grandi numeri) che relazione intercorre tra le ore del giorno o della notte e l’umore delle persone, fino a che punto influisce il tempo atmosferico sulle risposte e sulle domande di beni, di servizi e di scambi sociali, in che misura avviene il coinvolgimento emotivo per fasce d’età, per orientamento sessuale, per reddito, per formazione culturale, per appartenenza confessionale, politica, etnica, professionale, per i propri gusti estetici, alimentari, ludici. In fondo a questo effetto tunnel troviamo ciò che Albert-László Barabási ha definito con preoccupazione «l’Immensa Macchina»: Negli ultimi anni mi è capitato più volte di prendere in seria considerazione la possibilità di porre fine alle mie ricerche sul comportamento umano. La tecnologia ha superato la nostra capacità di usarla in maniera responsabile e non posso ignorare la possibilità che i frutti delle nostre ricerche possano presto essere integrati in qualche iniziativa malvagia come l’Immensa Macchina. […] Oggi chiunque faccia ricerche sulla dinamica umana si trova sempre più ad affrontare un dilemma simile: come posso evitare di contribuire alla creazione di uno stato o di un conglomerato di sorveglianza?, di fornire un biglietto di ritorno al futuro per il mondo orwelliano di 1984?15

Le prospettive orwelliane che iniziano a segnare il nostro tempo furono previste nel romanzo di Gunn. La società edonica basa il suo controllo sulla perfetta conoscenza dello stato emotivo dei cittadini-sudditi. Un notiziario comunica ora dopo ora, dopo il bollettino meteorologico, anche «l’indice edonico», misurato in percentuale: ore 10, indice della felicità media all’85 per cento. Ore 11 al 93 per certo, ore 12 al 99. All’infin15

Albert-László Barabási, Burst. The Hidden Pattern Behind Everything We Do, 2010, Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita, trad. it. di Simonetta Frediani, Einaudi, Torino, 2011, p. 235.

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ito. Il collegamento tra le misurazioni del barometro, del cronometro e dello «psicometro» suggerisce l’esistenza di un nuovo sistema, di tipo qualitativo, per la validazione della temporalità. La scansione del tempo genera potere. L’esperienza della felicità, adattata alle medie ponderali, trasforma uno stato d’animo in sé non definibile nell’ordinata sequenza dei gradi e delle misure. Quindi, il tempo è sottoposto a un rituale. Troviamo molte affinità con il concetto di «obbedienza temporale» sviluppato dall’antropologo David Landes, perché la qualità che assume il tempo misurato regolamenta anche le azioni. Se la felicità è concepita come il risultato di un’azione positiva e non come uno stato d’animo imprevedibile e indefinibile, allora tutti gli istanti della giornata saranno soggetti ai rituali per ottenerla. In altre parole, la società si trasforma in una macchina della felicità e avviene un transfert dal fine al mezzo, che deve necessariamente risolversi nell’alienazione di massa e nella fissazione di una nevrosi. Il mondo fittizio di Gunn mostra fino a che punto l’esercizio guidato dell’introspezione possa plasmare una società priva di attriti rilevanti; ma il prezzo è il benessere senza sapore, senza entusiasmo. Si affonda lentamente nella palude emotiva. Vedremo oltre che altri hanno registrato la relazione tra l’esiziale tedio collettivo e la tendenza al suicidio di massa. L’organizzazione della società è in pratica nelle mani della casta degli scienziati mentalisti, a loro volta selezionati sino a formare una setta ben addestrata e profondamente motivata. Essi decidono tutto: lavoro, svaghi, relazioni, condotta sessuale e ogni altro minimo aspetto della vita dei cittadini. I mentalisti creano una società totalitaria e tecnocratica, perché la tenuta dell’organizzazione deriva dalle pratiche di condizionamento e di ricondizionamento dei pazienti (ovvero dell’intera popolazione). Eppure, non sembra regnare la totale felicità. Quello scarto d’infelicità, sempre presente, mette in scacco l’intero edificio edonico: è la pietra dello scandalo, l’inciampo che va rimosso, ad ogni costo. Di fatto si ripresentano le eterne antinomie della società fin troppo ben amministrate. Il Consiglio degli Edonisti è un’oligarchia «gnoseocratica». Dall’altra la popolazione percepisce confusamente lo stato di prigionia psichica generato dal «regno della felicità». Ma la vera fuga in avanti è nella terza parte del romanzo, allocata in 131

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un lontanissimo futuro. Una piccola parte dell’umanità vive ora su Venere, pianeta in via di terraformazione. Qui i princîpi basilari dell’edonismo sono sopravvissuti, ma senza produrre una società concentrazionaria mascherata. L’eroe fondatore, Morgan, è un edonista fuggito secoli prima dalla Terra dopo aver scoperto un complotto degli anziani del Consiglio. La Terra pare priva di segni di vita, se si escludono alcune entità elettroniche che infestano la base venusiana, provenienti dal pianeta d’origine. Si decide allora di inviare una spedizione comandata da D’Glas M’Gregor. L’esploratore scopre una Terra deserta. Gli edifici, le strade, i mezzi di trasporto sono ambienti spettrali ma perfettamente funzionanti, ordinati, puliti. Però non c’è traccia di esseri umani. Cos’è accaduto? L’intera popolazione mondiale «vive» immersa in vasche di deprivazione sensoriale, così perfette da conservare all’infinito i corpi in animazione sospesa. Ogni individuo è sigillato in una «camera della felicità». L’apparecchiatura fornisce una sorta d’immortalità intrauterina. I cervelli vivono una condizione di sogno prenatale di completo appagamento. Gli alberghi della felicità, come del resto tutto il pianeta, sono amministrati e manutenuti da miriadi di robot. Al cuore di tutto, nella vecchia sala del consiglio, un computer divenuto autocosciente si crede Dio e persegue maniacalmente i principi dell’edonica, quasi fossero i suoi stessi comandamenti. Matrix, la trilogia apocalittica dei fratelli Larry e Andy Wachowski, si ispira certamente a Gunn, e anche a Philip K. Dick16, Daniel F. Galouye, Roger Zelazny, Neal Stephenson e a molti altri che fin dagli anni ’50 hanno lavorato sul collasso del mondo «reale» in una dimensione onirica assistita dalle macchine, dalle droghe o da entrambe. Ma il messaggio è sempre identico: la ricerca della felicità passa per una porta stretta, né potrà mai derivare dai doni della tecnologia o dell’ingegneria sociale. Al contrario, tutto nel nostro stesso mondo – quello reale – suggerisce che accogliendo senza riserve l’utopia tecnologica, si rischia invariabilmente una regressione globale. A quel punto non resta che l’attesa della fine del mondo, per esaurimento di ogni impulso vitale.

16 In particolare al Dick dei romanzi Ubik (1969) e Le tre Stimmate di Palmer Eldritch (1965) e del racconto I giorni di Perky Pat (1963).

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VI Nuove iconografie apocalittiche

6.1 Pianeti erranti e mostri distruttori Guerre, esecuzioni o cataclismi scatenano la fantasia e conducono per gradi alla sfida sublime di rappresentare l’irrappresentabile. Non a caso i maggiori talenti del passato si cimentarono con la terribile raffigurazione del giudizio universale. Così Luca Signorelli, Michelangelo, Van Eyck, Beato Angelico, Giotto, Memling e mille altri. Le variazioni sul tema, tuttavia, seguivano scrupolosamente i dettami dell’iconografia imperante, almeno per tutto il tempo in cui la Chiesa esercitò un dominio simbolico incontrastato. L’Ottocento e soprattutto il Novecento mostrano una decisa svolta, perché l’inventiva degli scrittori, seguita dagli artisti e poi dai registi, inizia a esplorare insolite procedure di devastazione totale. Un godimento trasversale per la negatività assoluta attraversa la cultura occidentale, ben prima che si compia la Shoah, e la maggiore fucina di nuove immagini annichilenti è la fantascienza. Libere in parte o del tutto dai vincoli della tradizione religiosa, science fiction e fantasy scoprono la bellezza inesauribile dell’annientamento. Si intuisce che non solo è possibile armonizzare le tradizionali tipologie distruttive in nuove combinazioni ma che è addirittura lecito, anzi è conveniente, disegnare scenari mai prima ipotizzati. Forse è un effetto subliminale della creatività, lanciata in ogni campo oltre i limiti del suo tempo: paradosso della genialità senza argini. L’Ottocento e il Novecento sono 133

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secoli in cui il genio, in ogni campo, può finalmente esprimersi senza dover sottostare al giustificazionismo tradizionalista. Il genio, per definizione, non accetta limitazioni; al contrario, è sua prerogativa infrangere ogni demarcazione, azzerando senza pietà tutto ciò che è stato concepito o creduto fino a un istante prima. Questa possibilità prometeica predispone a esplorare anche un’estetica dell’azzeramento definitivo, privo di residui mitologici, annichilamento che non indugia nella simulazione di una condizione altra; tabula rasa che non consente l’attraversamento onirico in una dimensione ove l’«anima» diventa testimone e pubblico, o in cui beati o dannati rivestono lo stesso ruolo di una platea ultramondana, poiché si ritiene possano osservare la storia rivelata nei suoi segreti reconditi. Così, da principio, la letteratura fantastica riunisce febbrilmente elementi dell’iconografia tradizionale, poi li permuta in nuove costruzioni e infine libera strutture inedite: condizioni concepite per la prima volta, perché direttamente ispirate dalla scoperta di nuove dimensioni dello spazio e del tempo, da nuove interpretazioni fisiche dell’energia e della materia, dalle rispettive ricadute tecnologiche e dalle inedite relazioni sociali che ne derivano, con il loro insospettabile carico di esperienze emotive e psichiche del tutto moderne. Dall’Ottocento in poi eminenti scienziati e scrittori divulgano l’idea che lo spazio può celare minacce inaudite. Il celebre astronomo Camille Flammarion pubblica a puntate nel 1893-1894 e poi in volume nel 1894 il romanzo La fin du monde, che descrive varie fasi del crepuscolo dell’umanità futura, sino all’esaurimento delle risorse planetarie e all’estinzione definitiva. La prima parte del libro tratta di un evento cosmico eccezionale. Siamo proiettati nel venticinquesimo secolo quando una cometa del diametro d’un milione di chilometri, composta di ossido di carbonio, è in rotta di collisione con la Terra. La notizia scatena un’ondata di panico. A Parigi si riunisce l’Accademia della Scienze per discutere a mente fredda la questione, e, in effetti, larghe porzioni del volume sono dettagliate ipotesi tecniche nello stile di Verne sulle conseguenze che subiranno la flora, la fauna, i mari, i monti, l’atmosfera e i fiumi. I migliori specialisti del mondo, non senza compiacimento intellettuale, illustrano le loro conclusioni, alcune sicuramente apocalittiche. 134

Nuove iconografie apocalittiche

Il libro di Flammarion influenzò a fondo l’immaginario del secolo successivo, tant’è che nel 1931 il regista tedesco Abel Gange vi si ispirò liberamente nel suo omonimo La fin du monde, in cui confluiscono elementi tratti da Benson e da Wells, arricchiti da invenzioni del tutto originali destinate a diventare cliché nella fantascienza catastrofista. Flammarion intuisce che la morte dallo spazio ha un potenziale estetico formidabile. Descrive l’eccitazione dei giornalisti, degli scrittori, dei pittori, veri «entusiasti» della catastrofe prossima ventura. L’esaltazione contagia anche le gerarchie ecclesiastiche. Il papa (che si autoproclama «divino») convoca un concilio che discute ogni aspetto della teologia della fine del mondo. I simposi mostrano due culture agli antipodi e i rispettivi metodi d’interpretazione della realtà. Naturalmente il razionalista Flammarion aderisce alle metodologie, ma soprattutto alla forma mentis della scienza. Tuttavia, i veri protagonisti sono i mass media, cioè i giornali quotidiani, che galvanizzano l’attenzione dei lettori e che gareggiano nel commentare vere o presunte calamità minori, in attesa della definitiva. Il Presidente della Società Astronomica francese, durante il simposio, usa parole quasi poetiche e si pone virtualmente nei panni di uno spettatore esterno: Mais se serait un beau spectacle pour les habitants de Mars, ou mieux encore pour ceux de Vénus. Oui, ce serait là un spectacle céleste vraiment admirable, analogue, mais en plus merveilleux pour des voisins, aux curieuses conflagrations d’astres temporaires que nous avons déjà observées dans le ciel1.

Questa dissociazione tra il fatto in sé e la sua descrizione fu incoraggiata dalla stampa popolare. Sebbene all’epoca di Flammarion il cinematografo fosse di là da venire, alla fine dell’Ottocento si registra già una certa predisposizione psicologica di massa ad accettare il punto di vista estraneo al proprio, virtualmente trasferito in una prospettiva eccentrica, perfino remota o addirittura esterna alla superficie del globo. Flammarion compendia questa propensione «panottica», anzi voyeuristica, tipica dell’estetica

1 Camille Flammarion La fin du monde, Paris, 1894, Édition du groupe “Ebooks libres et gratuits”, p. 46.

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moderna e contemporanea, descrivendo la diffusione capillare dei telescopi in quasi tutte le case borghesi: rappresentazione bizzarra, ma meno di quanto non sembri, se paragonata all’ubiquità degli attuali occhi elettronici. Nel mondo di Flammarion i partecipanti a un qualunque grande evento sono già virtualmente degli «spettatori», e in questa loro nuova dimensione essi possono essere incuriositi o affascinati, ma mai direttamente coinvolti, come accade ai lettori e poi in seguito agli spettatori passivi del cinema e della tv. Lo stesso Flammarion coglie perfettamente il nesso tra l’immaginario catastrofista e la produzione di flussi narrativi: La Comète avait surtout été le prétexte de toutes les discussions possibles sur ce grand et capital sujet de LA FIN DU MONDE2.

Nell’epilogo della prima parte di La fin du monde la Terra buca la cometa, così come una lama rovente attraversa il burro, senza eccessivi effetti nocivi; le vittime sono soprattutto provocate dall’angoscia collettiva: suicidi, omicidi, saccheggi, rivoluzioni, isterismi hanno lasciato un profondo segno. Questa forma d’intensificazione estetica, che coinvolge la scrittura e le immagini, si riscontra anche in un altro genere di minaccia dai cieli destinato a incontrastata fortuna: l’invasione degli alieni. La sfida può venire da ogni direzione dello spazio, il quale, per la prima volta, è percepito dalle masse tanto immenso quanto sinistramente ignoto. Se così vasto, allora l’universo deve ospitare gli extraterrestri; gli scienziati per primi iniziano a inculcare l’idea, utilizzando abilmente gli strumenti della nascente cultura popolare e della stampa quotidiana3. Celebre a questo proposito è fortuna della cosiddetta «equazione di Drake», che avrebbe dovuto stimare il numero di intelligenze extraterrestri in grado di comunicare con noi: concezione utopica e idealista del buon vicinato galattico, rifiutata dall’opinione comune. Si sa che gli estranei, soprattutto se superiori, sono pericolosi anche quando portano doni.

2

Ibidem, p. 140. Steven J. Dick, Life on Other Worlds, 1998, Vita nel cosmo. Esistono gli extraterrestri?, trad. it. di Giuseppe Manzo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, p. 157 e sgg. 3

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Se davvero avvenisse il fatale contatto, su quale civiltà saremmo pronti a scommettere? Quali armi potremmo schierare per difenderci da tecnologie inconcepibili? Questi diffusi timori, in sé infondati, rivelano però che l’abitatore di altri mondi, l’estraneo per antonomasia, non potrà mai più essere considerato un’entità divina o semidivina. Eppure neanche la più penetrante mentalità scientifica riesce a scalfire l’aura mitologica o addirittura mistica che circonda gli ipotetici abitatori di altri mondi. Il cielo resta teatro di antiche battaglie cosmiche, anche se è attraversato dalle sonde interplanetarie. Così i demoni traslocano nello spazio, viaggiano di stella in stella a bordo di stupefacenti astronavi o per mezzo di poteri mentali straordinari. Quando queste menti aliene in sembianze quasi sempre mostruose si affacciano dal bordo della Luna difficilmente hanno intenzioni benevole4. Talvolta gli alieni sono entità indeterminate, chimeriche, ontologicamente instabili e perciò ancor più inquietanti. Per esempio, Wells inventa i prototipi dei cyborg extraterrestri: marziani così evoluti da aver perduto gli organi della deambulazione, sostituiti dalle appendici robotiche di artropodi meccanici. Il loro scopo, spinti dalla lotta per la sopravvivenza, è l’annientamento dell’umanità. Gli alieni sterminatori sono gli avatar moderni degli antichi giganti e dei titani, esseri adeguati alle estensioni inumane dello spazio esterno, tant’è che già Voltaire, in Micromégas (1752) è incline a descrivere gli abitanti di Sirio, giunti sulla Terra, come dei formidabili colossi capaci di stringere in un pugno un’intera nave. Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo i mostri spaziali subiranno metamorfosi sorprendenti, talvolta seducenti, perché la percezione popolare nel frattempo si raffina per gli effetti cumulativi della letteratura, del fumetto e del cinematografo. Nel 1938 John W. Campbell Jr., notevole scrittore di fantascienza, editore e scopritore di talenti, inventa dal canto suo l’extraterrestre tanto minaccioso quanto terrificante in Who Goes There?, modello destinato a vasta fortuna sia nelle prime riduzioni cinematografiche (La cosa da un altro mondo, di-

4 Cfr. Centini Massimo-Ghezzo Davide-Tacchino Danilo, Antropologia degli alieni. Indagine sull’aspetto fisico degli extraterrestri, MEB, 1998.

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retto nel 1951 da Howard Hawks e The Thing diretto John Carpenter nel 1981) che nei cloni, come l’Alien di Ridley Scott. Eric Frank Russell inaugura nel racconto Sinister Barrier, apparso sulla rivista «Unknown» nel 1939, il filone delle intelligenze aliene crudeli ma astratte. Sono i Vitoni, sfere azzurre (visibili solo dopo un particolare trattamento oculare) che si nutrono come vampiri dell’energia emotiva prodotta dai campi bioelettrici del cervello. Gli umani sono il loro gregge di bovini, forse da sempre. I Vitoni potrebbero perfino essere i veri terrestri e gli umani un tipo di bestiame importato da altri mondi. In ogni caso sofferenza, pazzia e angoscia sono le loro leccornie. Per ottenerle i Vitoni fomentano da sempre omicidi, guerre e distruzioni5. Scoperti, tentano di provocare la guerra atomica totale, suggerendo perfino il progetto di una bomba a onde ultracorte sufficientemente potente da distruggere l’intero pianeta. Senza dubbio questa fantasia apocalittica di Russell costituisce uno dei tanti tasselli adoperati mezzo secolo dopo dai fratelli Wachowski nella loro peculiare visione della fine della storia. Ma più di tutto, in essa è interessante l’espulsione del male radicale dalla vera natura umana e la sua proiezione in entità demoniache immanenti, radicalmente estranee e irriducibili. Mostri indescrivibili per altri motivi sono i celebri Grandi Antichi di Howard Phillips Lovecraft, aberranti e chimerici semidei alieni, abitatori di dimensioni alternative e di remote regioni siderali, capaci di influenzare le menti e protagonisti di imprese devastanti. Il loro signore, Cthulhu, dorme da migliaia di anni nelle profondità marine, come il Kraken, in attesa del risveglio che segnerà per sempre il destino dell’umanità. L’originalissimo mostro di Lovecraft, sviluppato nel Ciclo di Cthulhu, alimenterà le creazioni di vari altri autori, e si moltiplicherà poi in numerose varianti e

5 Il racconto fu poi ampliato nell’omonimo libro pubblicato nel 1948 da Fantasy Press. Cfr. Eric F. Russell, Sinister Barrier, Fantasy Press, 1948, Schiavi degli invisibili, trad. it. di Patrizio Dalloro, Mondadori, Milano, 1953, II ed. 1982, p. 102: «Come noi seminiamo e raccogliamo i frutti, così in questo terreno di carne vivente che siamo per loro. Loro scavano i solchi, seminano cause di controversia, le ingrassano con le menzogne e le false voci che deliberatamente fanno circolare fra noi esseri umani; le innaffiano con la diffidenza e la gelosia che ci ispirano, fino ad ottenere una magnifica messe di energia emotiva. Ogni volta che qualcuno inneggia alla guerra, i Vitoni si preparano a gozzovigliare!».

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copie, per esempio in Khamushkei, l’immortale nel Cycle of Nemesis di Kenneth Bulmer (1967). Sono palesemente mitologici gli orrori venusiani e gioviani di L’incubo sul fondo di Murray Leinster, il terribile Ruagh (quasi lovecraftiano) di The Atlantic Abomination (1960) di John Brunner. Gli alieni sterminatori possono anche assumere sembianze superiori, apertamente seducenti, come i distaccati Deneb in Sentinels from Space di Eric F. Russell (sebbene qui i veri immortali siano proprio gli uomini). Ma possono anche raggiungere lo status ontologico di vere e proprie divinità, come il Galactus, creato da Stan Lee e disegnato da Jack Kirby per la Marvel: gigante dall’aspetto vagamente azteco che proviene da un cosmo collassato prima del Big Bang. In The Black Cloud (1957) l’astrofisico Fred Hoyle, probabilmente prendendo in prestito l’idea della nube cosmica letale dal romanzo di Conan Doyle The Poison Belt (1913), descrisse una misteriosa, immensa nuvola di gas in qualche modo intelligente ed evoluta. L’entità pulviscolare oscura il sole, minacciando la sopravvivenza dell’umanità. Solo l’intervento degli scienziati (dialetticamente opposti agli ottusi politici e militari) risolve il problema. L’idea è stata sfruttata in mille modi, fino al recente Eater di Gregory Benford, in cui il demolitore cosmico (questa volta inguaribilmente cattivo) è stato promosso al rango di un’intelligenza artificiale che viaggia in un buco nero; nel già ricordato Alien è l’astuto e quasi invincibile parassita primordiale (impareggiabilmente disegnato da Giger), poi nei sequel una chimera metamorfica e infine un ibrido per metà umano. In Andromeda, scritto dall’astrofisico Fred Hoyle in collaborazione con John Elliot (1962), il distruttore è un programma informatico, inviato via radio da una remota civiltà extragalattica per costruire in laboratorio un essere apparentemente umano (Andromeda), con il probabile mandato di annientare la nostra specie. Perfino la Terra stessa può trasformarsi in un’astronave della morte. Woflbane di Frederik G. Pohl e Cyril M. Kornbluth (1957) narra il trasferimento del pianeta verso una destinazione ignota a causa di un oggetto celeste abitato dalle Piramidi, robot ipercomplessi che hanno annientato la razza dei loro stessi creatori. La luna è stata trasformata in un piccolo sole che si rinnova ogni cinque anni. I pochi superstiti sono tenuti in vita solo perché alcune menti particolarmente ricettive possono essere trasformate 139

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in computer organici, adatti ai misteriosi scopi delle Piramidi. Anche nel post-apocalittico Lords of the Psychon (1963) Daniel F. Galouye inventa un’incomprensibile civiltà aliena (i padroni del Psychon) che intende teletrasportare la Terra nell’orbita di un altro sistema stellare, il cui sole è mille volte più caldo e radioattivo del nostro. Sono inedite ma potenti immagini della fine del mondo. L’universo riserva infinite sorprese, è ovvio. Ma con l’affermarsi della mentalità moderna esso diventa per definizione il ricettacolo dell’incommensurabile, privo di ponti con la quotidianità, quindi al di là del bene e del male, estraneo ai valori umani. Questa percezione variabile si rappresenta in personaggi mostruosi, agghiaccianti o semplicemente stupefacenti, ma sempre superiori. Differenze di grado e di natura sono sicuri preludi all’estinzione. Come ha autorevolmente dimostrato l’antropologo Jared Diamond, tecnologie superiori, stili di vita più complessi prodotti da secoli di scambi in territori molti più vasti e articolati delle due Americhe, furono le vere cause della quasi totale estinzione delle popolazioni amerindie, dopo l’incontro con gli euroasiatici6. Però, è quantomeno singolare constatare che i migliori autori di science fiction hanno quasi sempre adottato l’ottica dei vinti, degli sterminati, dei reietti. Le storie incentrate sull’espansione galattica alla Heinlein sono forse in numero maggiore, ma hanno senza dubbio lasciato minori tracce emotive nell’immaginario collettivo. In fondo l’uomo nelle vesti del semidivino dominatore di mondi, tipico di molta letteratura contemporanea, non convince, e a ragione. L’immensità era e resta panica, così come l’infinito è per definizione divino. E nefasto. 6.2 Anomalie in Wyndham, Thomas e Spitz Una tale varietà di nuove occasioni catastrofiche può generare interessanti, inedite combinazioni. John Wyndham, nel best seller Il giorno dei Trifidi (1951), unisce il caso alla malvagità umana. Una cometa formata da 6

Cfr. Jared Diamond, Guns, Germs, and Steel: The Fates of Human Societies, 1997, Armi acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino, 2006.

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una sostanza sconosciuta precipita sulla Terra. È uno spettacolo pirotecnico talmente straordinario che nessuno vuole rinunciarvi. Disgraziatamente quelle sconosciute radiazioni provocheranno l’irrimediabile cecità degli osservatori, vale a dire di quasi tutta l’umanità7. Il cataclisma celeste è soltanto la premessa. Il vero flagello è frutto di ciò che oggi chiamiamo «genomica». I rari sopravvissuti dovranno affrontare un mondo infestato dai trifidi: piante carnivore, sensibili e parzialmente intelligenti, generate da avanzati esperimenti biologici per ottenere oli essenziali di qualità superiore, ma dotate di pseudopodi deambulanti, di mortali pungiglioni e ovviamente ostili agli umani. Fuggiti dai laboratori e riprodottisi in tutto il pianeta, i trifidi saranno i perpetui nemici dei pochi sopravvissuti. La violazione del segreto della vita apriva la strada a un nuovo tipo di terrore millenaristico, annunciato spesso dalla morte cruenta, ma talvolta anche dalla semplice dissoluzione priva di dolore, oppure dalla metaforica disgregazione dei materiali della civiltà moderna. In Mutant 59 The Plastic Eater, del medico e scienziato Kit Pedler e di Gerry Davis, il batterio killer attacca e dissolve soltanto i derivati del petrolio, ma basta questo a provocare il collasso di Londra e l’estensione del contagio su scala nazionale. Naturalmente solo il vaccino chiamato «aminostyrene» riesce a bloccare il contagio, ma nel finale si capisce chiaramente che la catastrofe è soltanto differita8. Qualcosa di simile accade nel racconto The Clone, di Theodore L. Thomas (1959), poi ampliato nell’omonimo romanzo scritto in collaborazione con Kate Wilhelm. Il clone è una mutazione casuale, avvenuta nella miscela di sostanze chimiche che transitano nel sistema fognario di Chicago. L’incubo questa volta nasce dal sottosuolo, nelle putride viscere della metropoli, trasformandosi in un organismo colloidale che cresce in progressione ipergeometrica, assorbendo ogni sostanza vivente con la quale venga in contatto. In breve il clone invade l’intera città e solo per un

7 L’espediente della cecità improvvisa per tutta l’umanità sarà sfruttato poi dal Nobel José Saramago in Ensaio sobre a Cegueira, Caminho, Lisbona, 1995, Cecità, trad. it di R. Desti, Einaudi, Torino, 1996. 8 Kit Pedler-Gerry Davis, Mutant 59 The Plastic Eater, 1971, Lebbra antiplastica, trad. it. di Beata della Frattina, in “Urania” n. 643, Mondadori, Milano, 1974.

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soffio sarà evitata la sua prodigiosa espansione in tutto il pianeta. Anche in questo caso, fino a quando? Ma al di sotto di ogni grande città scorrono fiumane d’acqua cariche di elementi nutritivi e di minerali che contengono l’energia sufficiente a rendere possibile qualsiasi reazione chimica. Vi sono nutrimenti in putrefazione di tutti i tipi possibili e immaginabili. Ci sono saponi e detergenti, medicine e spezie, aromi e coloranti, inchiostri e cosmetici, risciacquature e candeggiati, resine, catalizzatori ed enzimi, e i prodotti di scarto dei processi vitali. La mescolanza di questi materiali, in una varietà infinita di concentrazioni, costituisce un alambicco da cui può scaturire qualsiasi cosa9.

Un microorganismo opportunamente trattato può anche essere causa di un’allucinazione apocalittica a occhi aperti. Succede in L’oeil du purgatoire (1945), dello scrittore surrealista francese Jacques Spitz, autore due anni prima di Les signaux du soleil, romanzo esplicitamente apocalittico. L’occhio del purgatorio raggiunge però vette evocative assolute. Poldonski, pittore di talento che vive a Parigi, conosce Christian Dagerlöff, eccentrico scienziato che studia gli effetti del tempo sugli organismi viventi. Dagerlöff decide di infettare gli occhi di Poldonski con un batterio mutante che viaggia nel tempo e che provoca nell’organo della vista una sorta di chiaroveggenza. Tutti gli oggetti, gli animali, le persone, perfino gli stessi elementi, sono percepiti dall’occhio infettato del protagonista non come sono, ma come saranno in futuro, tra dieci, cento, mille anni, in una fuga senza limiti. Poldonski vede tutto ciò che lo circonda invecchiare progressivamente, fino al punto in cui le persone sembrano cadaveri e poi ossa deambulanti. Poldonski da principio si ribella: Devo lottare. Non tanto contro il microbo, quanto contro l’abbattimento. Sono pittore e tale resto. Lavorerò contro tutti, a qualunque costo. Volevo vedere le cose da un punto di vista originale e l’ho ottenuto: mio malgrado, è

9 Theodore L. Thomas, Kate Wilhelm, The Clone, 1965, Clone, trad. it. di Beata Della Frattina, Mondadori, Milano, 2007, p. 195.

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vero, comunque, l’ho ottenuto. Dipingerò il mondo con i colori della decomposizione e della morte. Obbligherò i miei simili a gridare al genio10.

Invece la sua ambizione precipita nel nulla. Non a caso il protagonista è un pittore, occhio e specchio del nostro tempo. L’artista si appella alla sua visione del mondo, ma quale visione sarà mai possibile se lo sguardo riesce fisicamente a riconoscere la vacuità di tutte le cose? Tutto ciò che si rinnova, che fa la giovinezza del mondo, per il protagonista è già decomposto. Vedere il presente invecchiato e decomposto prima del tempo è sicura dannazione: Nella caraffa coperta di polvere e piena d’acqua torbida, non c’era nulla. La mano di Armande accarezzava il vuoto. Però, aguzzando lo sguardo, riuscii a intravedere una specie di vapore grigio che forse aveva la forma del giacinto e che rappresentava ciò che restava della materia del fiore, di un fiore già da tempo appassito e decomposto. Adesso che s’era concretizzata nella forma: “non vedrai mai più dei fiori”, la rappresentazione del mio stato mi diede un colpo al cuore11.

Oltrepassato il traguardo dei milioni e perfino dei miliardi di anni rispetto al suo presente, il pittore è condannato a un’inesprimibile condizione di «vista cieca», antitesi della sua essenza d’artista: Così la mia vita ha raggiunto quel punto dell’avvenire fantasticamente remoto in cui, in seguito a un cataclisma cosmico, a uno scontro con una cometa, per esempio, l’acqua del nostro pianeta si volatilizzerà! Sono in cammino verso l’eternità, ormai non ho più dubbi. La raggiungerò nel momento della morte, della morte vera. Mi sarà dato vedere lo svolgersi fino in fondo la bobina del Tempo, di assistere all’evoluzione del mondo, fino all’istante finale, fino alla fine dei secoli dei secoli. Così sia12.

10

Jacques Spitz, L’oeil du purgatoire, 1945, L’occhio del purgatorio, trad. it. di Bianca Russo, “Urania” n. 622, Mondadori, Milano, 1972, p. 52. 11 Ibidem, p. 55. 12 Ib., p. 108.

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È la metafora di una condizione ormai generale? Lo sguardo lanciato oltre limiti dell’insondabile, oltre ogni tollerabile percezione commisurabile alla scala umana? Non siamo forse già immersi con la mente, ma soprattutto con i sensi, nell’abisso della fine dei tempi? 6.3 L’apocalittica sferica in Vernor Vinge, Hiroki Endo, Stephen King e Michael Crichton Esistono anche non pochi esempi di apocalissi incruente o quasi, che evitano la scomparsa del genere umano o la distruzione del pianeta. In questi casi il senso della fine è un’esperienza che contraddice il flusso della vita, la quale implica sempre cambiamenti, mutamenti, crescita della complessità, lotta ed evoluzione. L’immaginario fantascientifico ha sovente sintetizzato questa idea utilizzando la forma della sfera, il solido geometrico virtualmente perfetto nelle tre dimensioni, che immediatamente evoca la chiusura, la perfezione parmenidea e la stasi. Chi vive all’interno di un’impenetrabile sfera è del pari prigioniero di tale perfezione. L’incapsulamento è nient’altro che la rappresentazione del ritorno forzato all’utero protettivo, e non a caso agli albori della modernità il libero pensiero scientifico si scaglia innanzi tutto contro l’oppressione di un cosmo inglobato nel cielo sferico delle stelle fisse. Tuttavia, se il cielo infinito sfida l’intelligenza a penetrarlo sin nei più reconditi recessi, il corpo resta confinato nell’angusto pianeta d’origine. Ogni forma di prigionia implica il problema etologico del sovraffollamento. Il pianeta-prigione esaspera la brutalità. Gli altri, tutti gli altri, sono ora competitori in uno spazio sempre minore. Questa consapevolezza incoraggia il consumo di narcotici e la ricerca di distrazioni. Ma esiste qualcosa di meglio: l’illusione dell’immobilità. Questa forma di alienazione estrema, registrata tra i sottotipi della dissociazione mentale come «schizofrenia catatonica», si traduce nell’immagine di un rifugio inviolabile, ubicato in una dimensione sospesa, leggendaria e fiabesca. La science fiction ha interpretato meglio di qualunque altro genere questa fuga nell’immutabilità, che svela un particolarissimo archetipo di fine del mondo. In The City and the Stars, di Arthur C. Clarke, La città di Diaspar racchiude per un miliardo di anni sotto la sua immensa cupola ciò che resta 144

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dell’umanità dal momento in cui rinunciò alle stelle. Un computer dalle facoltà quasi divine soprintende a ogni funzione. La memoria genetica ed esperienziale degli abitanti di Diaspar è conservata nelle sue prodigiose banche dati, consentendogli di ricostruire le singole vite in cicli senza fine: è una specie d’immortalità. In realtà la città è semiviva, o semimorta, perché nulla si evolve e si trasforma. I diaspariani sono dediti ad infinite attività ludiche e artistiche, secondo le mode, ma non creano, non combattono, non desiderano né aspirano ad alcunché. Questa potente immagine si ritrova nel film Zardoz, di John Boorman (1973), e recentemente in Aeonflux, di Karyn Kusama (2005). Lucido esempio del ritorno alla prigionia in un universo chiuso è The Peace War13, del matematico, teorico transumanista e scrittore Vernor Vinge, autore fondamentale proprio per le sue previsioni scientifiche sul superamento dell’attuale condizione umana. In The Peace War (e nel decisamente apocalittico Marooned in Realtime, del 1986) una segreta tecnologia nucleare permette di «imbollare» qualunque oggetto in un campo di forza impenetrabile. Persone e cose catturate restano in sospensione temporale, apparentemente per sempre. La tecnologia è utilizzata da un comitato ristretto di autocrati allo scopo di garantire la pace mondiale, naturalmente al prezzo della stasi. Si vuole a ogni costo impedire il progresso tecnologico, economico, politico, perché il vecchio mondo era sul punto di autodistruggersi. Eppure, le «buone» intenzioni degli autocrati nascondono la stessa volontà di sterminio dalla quale vorrebbero difendere l’umanità. Anche in altri scritti (per esempio in Apartness) Vinge ricorda che le premesse del collasso globale sono conseguenze dirette di un’architettura emotiva e sociale non adeguata alla fuga tecnologica. Anche in Eden, manga dell’architetto giapponese Hiroki Endo, il dramma apocalittico inizia e termina all’interno di una struttura protettiva (identica all’architettura reale dell’esperimento Biosphere 2). L’umanità di Eden è al bivio: la mutazione di un virus trasforma i contagiati in segmenti di un’intelligenza connettiva, né del tutto artificiale né interamente organica. L’umanità si trova così di colpo senza futuro, perché il superamento 13 Vernor Vinge, The Peace War, 1984, Quando scoppiò la pace, trad. it. di Vittorio Curtoni, “Urania” n. 1012, Mondadori, Milano, 1985.

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di se stessa in una sorta di super-organismo implica la regressione dei sopravvissuti. Eden riflette gli orientamenti extropiani di parte della cultura hi-tech e della cyber-cultura. Nel remake di Ultimatum alla terra, già esaminato, le sfere astrali degli extraterrestri atterrano per imbollare campioni di tutte le specie viventi, salvo l’uomo, per salvarle dall’imminente distruzione del mondo. Il concetto di «archivio biologico» è inscindibile dall’attesa dell’Apocalisse. Lo Svalbard Global Seed Vault, bunker che conserva sotto i ghiacci norvegesi i semi di tutte le specie vegetali del mondo, è stato creato con lo scopo esplicito di salvaguardare il patrimonio genetico vegetale dalla guerra nucleare e da ogni altro tipo di catastrofe globale concepibile. Probabilmente molto presto sentiremo parlare di un analogo progetto per conservare il genoma delle specie animali. Come sempre, l’immaginazione precede la realtà e come sempre essa si serve di forme o simboli elementari per esprimersi con forza. Così in Pandorum, di Christian Alvart (2009). L’astronave Elysium, lanciata verso Tanis, pianeta di tipo terrestre e ultimo rifugio possibile per sessantamila persone, fugge dalla Terra in procinto di autodistruggersi. L’architettura dell’Elysium è circolare. Il suo prezioso carico, la banca genetica di tutte le specie viventi, vera arca di Noè del ventiduesimo secolo, è appunto contenuto in una sfera. La cupola protettiva può rappresentare perfino l’estremo limite della civiltà dei consumi, un momento prima dall’autodistruzione: come nel già citato A Crack in the Sky di Richard Lupoff (1976). Fuori è l’inferno. Il pianeta è morto, avvelenato dai prodotti di scarto dell’industria. Tuttavia, la barriera non protegge i sopravvissuti. Gli orrori delle comunità «cupolizzate» nascono dagli stessi inevitabili squilibri della condizione umana e generano il medesimo disorientamento. Anzi, di più. La cupola geodetica esaspera il sovraffollamento, l’inerzia e le disparità sociali. La cupola è come un vetrino di laboratorio, sul quale l’osservatore può valutare l’indebolimento delle identità, l’assenza di prospettive, lo stato di depressione generato dal sovraffollamento; da qui gli esplosivi conflitti generazionali, etnici o religiosi descritti in questo libro. La cupola esaspera anche l’antinomia tra i «competenti» e gli «inutili», cosicché le masse, in assenza di prospettive, cedono alle lusinghe mi146

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stiche e ai movimenti neomillenaristi. Si moltiplicano anche le lotte intestine, i leader senza scrupoli, le incompatibilità culturali, che alla fine sfoceranno in folli atti autodistruttivi. L’origine del malfunzionamento è perciò nella struttura stessa delle relazioni sociali, a loro volta derivanti da inevitabili disposizioni psicologiche. La tecnologia non fa che moltiplicarne gli effetti. Anche nel recente Under the Dome, di Stephen King, un’impenetrabile cupola di pura energia isola la cittadina di Chester’s Mill, provocando in poche ore il collasso dell’intera comunità e una vera apocalisse in sedicesimo14. In questo caso gli artefici sono misteriosi alieni-bambini, che si divertono a spese dei reclusi, espediente narrativo che stigmatizza l’infantilismo degli umani. La barriera è anche un deus ex machina negativo, inventato dalla prodigiosa fantasia di King per giustificare uno dei più interessanti esperimenti mentali mai inventati. Infatti, è degno di nota che la tecnologia aliena non fa che amplificare e rivelare ciò che esiste in nuce tra i membri della comunità. Il consigliere Jim Rennie è già prima della «cupolizzazione» un criminale e un dittatore in pectore, suo figlio Junior è già un necrofilo assassino, il poliziotto Carter Thibodeau è già uno stupratore, e via così. La cupolizzazione si limita a dissolvere i paraventi psichici di un’intera comunità, svelando le anime brutte, mediocri o anche belle (tra queste ultime i bambini, quasi tutti i ragazzi e anche i cani). Under the Dome tocca comunque il tema del collasso sistemico. La cupola di Chester’s Mill compendia ciò che potrebbe accadere in un tempo incredibilmente rapido all’intera umanità. L’idea della prigionia sferica non ha stimolato soltanto la fertile fantasia degli scrittori di fantascienza. In Blasen il filosofo tedesco Peter Sloterdijk rammenta che l’istituzione di una vera e propria «sferologia », così apparentemente lontana dal senso comune, può aiutare a comprendere l’origine del diffuso turbamento che rode le coscienze contemporanee, del quale si fanno illuminati interpreti gli scrittori o i visionari appena citati. Sloterdijk si sofferma a lungo su quell’involucro complesso fatto di città, di autostrade, di reti di comunicazione. Un’offensiva spaziale e se14 Stephen King, Under the Dome, 2009, The Dome, trad. it. di Tullio Dobner, Sperling & Kupfer, Milano, 2009.

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mantica monumentale, che ha il solo scopo di evitare che lo sguardo si posi sul cosmo ormai nudo, ritenuto insensato, e valutato orribilmente inaccessibile: Al gelo cosmico che penetra nella sfera attraverso le grandi distese aperte dagli illuministi, l’umanità dei tempi moderni oppone un effetto serra volontario: attraverso un mondo artificiale e civilizzato, si sforza di compensare l’assenza dei suoi involucri nello spazio, dovuta alla fratture delle volte celesti. È l’ultimo orizzonte del titanismo tecnico euro-americano. Da questo punto di vista, i tempi moderni appaiono come l’era di un giuramento dettato da una disperazione offensiva: l’idea che una costruzione d’insieme di una casa della specie e una politica globale di riscaldamento siano portate davanti al cielo cosmico, freddo e silenzioso. Sono soprattutto le nazioni di imprenditori del mondo occidentale ad avere trasferito la loro inquietudine psico-cosmologica acquisita in un costruttivismo offensivo. Esse si proteggono contro il terrore dello spazio abissale, esteso all’infinito, con la costruzione – al contempo utopica e pragmatica – di una casa di vetro mondiale che deve loro assicurare un habitat moderno nello spazio aperto15.

La sostituzione della correlazione tra l’alto dei cieli e il piano orizzontale della terrestrità con un involucro falsamente rassicurante e protettivo, in realtà con una bolla isolante, assume vari nomi: mercato mondiale, comunicazione globale, Welfare State. In Im Weltinnenraum des Kapitals (2005), Sloterdijk definisce non a caso l’universo della speculazione finanziaria internazionale con l’espressione «sfera finale »: palese terminologia apocalittica. Ma se la sfera conchiusa è davvero la metafora geometrica dell’effimera sicurezza, allora ogni cupola protettiva è di per sé destinata alla dissoluzione. La stupefacente sfera di Dyson, così chiamata dal nome del Nobel per la fisica Freeman Dyson, che ipotizzò la sua fattibilità sviluppando alcune suggestioni dello scrittore Olaf Stapledon, compendia questo concetto alla massima scala finora concepita. Gordon Eklund la descrisse in una delle migliori sceneggiature della prima serie di Star Trek. Una civiltà aliena ha «imbollato» il suo 15 Peter Sloterdijk, Spären I. Blasen, Surhkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1998, Sfere I. Bolle, trad. it. di Gianluca Bonaiuti, Meltemi, Roma, 2009, p. 79.

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sistema solare, creando così una superficie concava continua, illuminata ovunque dal sole primario, come se la superfice interna di un pallone fosse rischiarata da una lampadina posta nel suo centro. L’idea si riduce alla possibilità di espandere la superficie terrestre in una ipersfera di trilioni di chilometri quadrati: frontiera virtualmente infinita. Ecco il terreno di coltura per un esperimento mentale che ribalta il concetto di «cupolizzazione». Se per ipotesi si garantisse all’umanità un territorio sconfinato ma finito, essa (a costituzione psicologica invariata) potrebbe sottrarsi al ciclo di guerre, ricostruzioni e distruzioni che ha caratterizzato la sua storia e che non può che terminare con l’autoestinzione. Autori di fantascienza dichiaratamente extropiani, da Arthur C. Clarke a Vernor Vinge a John C. Wright, hanno sviluppato questo stesso concetto. Altri, però, hanno analizzato con maggiore acume psicologico la relazione fra il limite e l’illimitato che rivela la chiusura in una sfera mentale, e ciò che può accadere quando si pratica una breccia nei suoi confini. In Cade la notte, uno dei primi e più noti racconti di Isaac Asimov (pubblicato nel 1941, poi ampliato nell’omonimo romanzo del 1990 in collaborazione con Robert Silverberg) si narra di un mondo sempre illuminato da un sistema di quattro soli. La luce perenne oscura lo spazio esterno, cosicché gli abitanti del pianeta credono che l’orizzonte planetario sia l’unico esistente. L’effetto bolla è in questo caso prodotto dalla luce costante, ma ogni mille anni (nel romanzo sono duemila, ma il principio chiliastico è comunque palese) i soli calano oltre l’orizzonte. Cade la notte, che svela l’infinito vuoto e l’enigmatico firmamento. Lo shock distrugge la civiltà, precipitandola nella barbarie, una fine del mondo che si ripete ciclicamente da ere immemorabili16. Sphere di Michael Crichton è un altro interessante esperimento mentale basato sulla simbologia della sfera. Una spedizione militare scopre nell’oceano un oggetto globulare perfetto, incomprensibile ed enigmatico come tutte le forme geometriche universali. Questa sfera non è un manufatto e non è un essere vivente. Il racconto si dispiega su due piani coincidenti: la possibilità della distruzione del mondo e il paradosso temporale. 16 Isaac Asimov, Cade la notte, 1941, poi ampliato in Isaac Asimov – Robert Silverberg, Nightfall, 1988, Bantam Books, Random House Publishing Group, 1991.

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Trasportata sulla Terra da un’astronave statunitense costruita mezzo secolo dopo gli avvenimenti narrati, la sfera si rivela il vaso di Pandora degli umani desideri17. Collegandosi alle fantasie inconsce dei protagonisti, essa materializza e realizza tutti gli angeli e tutti i demoni nascosti alla superficie della coscienza raziocinante. Soprattutto i demoni. Crichton designa queste materializzazioni utilizzando il termine rivelatore di «manifestazioni», che evocano la provenienza di tutti gli enti da un principio primo, senza soluzione di continuità, e senza il ricorso al tema in sé contraddittorio della creazione ex nihilo. È un concetto parmenideo, poiché tutto ciò che è pensabile del pari esiste, in virtù della ben distinta sfera che compendia tutto l’Essere. L’oggetto in definitiva materializza i pensieri nel momento stesso in cui essi sono pensati, proprio come gli esseri umani materializzano i pensieri in parole, senza sforzo, senza la sensazione del passaggio da qualcosa (il pensiero) a qualcos’altro (l’emissione). «Utterance» significa, com’è noto, «espressione», «emissione»: emanare con il respiro un pensiero organizzato. Leibniz riteneva che il potere divino si esprimesse esattamente con queste stesse caratteristiche «emittenti», e scriveva: «Dieu les produit continuellement par une sorte d’émanation, comme nous produisons nos penseés»18. Questo atipico concetto di emanazione creativa per effetto onirico, meditativo o semplicemente volontaristico è stato sviluppato molte volte nella fantascienza classica, e principalmente da Philip K. Dick, per esempio in Il mondo che Jones creò (1956), oppure da Mack Reynolds in Ed egli maledisse lo scandalo (1965), da Ursula Le Guin in The Lathe of Heaven (1971) o, passando alla cinematografia, in innumerevoli personaggi ed entità, iniziando dalla macchina dei Krell in Forbidden planet, diretto da Fred M. Wilkox (1956). L’uso riflette la discordia tra il potere acquisito dalla razionalità, riflesso nella tecnologia, e la compresente arcaicità delle forze primordiali che agitano l’anima. La sfera materializza gli impulsi, le ombre o i desideri subconsci. In qualche modo essa trasforma in quasi-divinità le persone che 17

Michael Crichton, Sphere, 1987, Sfera, trad. it. di Ettore Capriolo, Garzanti, Milano, 1991. 18 Gottfried Wilhelm Leibniz, Discorso di metafisica, XIV (Gehr. IV, 439), a cura di Andrea Sani, La Nuova Italia, Firenze, 1992.

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acquisiscono il suo potere. Il messaggio nella bottiglia di Crichton può essere letto così: l’umanità non può ancora (e probabilmente non potrà mai) assumere questo potere; quantomeno non prima di aver sfidato e vinto il suo retaggio emozionale. In caso contrario la macchina dei desideri universali non può che trasformarsi nell’arma definitiva. Essa è l’antitesi della mediazione. Attraverso il suo potere l’Altro (la totalità degli altri) è sottomesso, emarginato, ridotto in schiavitù; ma più spesso, giacché inevitabile ostacolo all’affermazione della volontà di potenza, l’Altro è eliminato. Condizione ineluttabile, salvo riconoscere che l’unica soluzione consiste nel liberarsi dalle barriere, di infrangere il cielo, recuperando una relazione se si vuole anche mistica con l’aria, con lo spazio aperto, ricordando il sogno sepolto di salire, di involarsi. Non vogliamo confessarlo, ma abbiamo quasi perduto l’idea del viaggio senza ritorno, e ci siamo forse definitivamente condannati a una condizione di perenne cupolizzazione, distogliendo gli occhi dal sole che attrae Icaro, che è bello oltre ogni dire, anche se liquefa le ali. 6.4 L’inferno affollato di Harry Harrison C’è un modo di descrivere la fine del mondo che traduce l’estetica del vuoto nel suo opposto dialettico. È l’orrore del pieno, l’inferno brulicante di corpi. La cieca replicazione batterica, col suo potere moltiplicatore, si trasforma nella metafora di un’umanità che trabocca senza controllo, fino ad invadere il pianeta. Abbiamo già discusso questo incubo trattando degli immaginari organismi autoreplicanti disseminati in molta science fiction, ma il migliore esempio di fantascienza dedicata alla fine del mondo per eccesso di riproduzione è probabilmente Make Room! Make Room!, letteralmente «Fare spazio! Fare spazio!», dello scrittore statunitense Harry Harrison. Pubblicato per la prima volta nel 1966, e in Italia nel 1972 con il titolo Largo! Largo!19, il romanzo è ambientato nella

19 Harry Harrison, Make Room! Make Room!, 1966, Largo! Largo!, trad. it. di Paulette Peroni, Editrice Nord, Milano, II ed., 1983.

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New York di fine millennio abitata da trentacinque milioni di miserabili. La premessa spiega l’opera: Nel mese di dicembre del 1959, l’allora Presidente degli Stati Uniti, Dwight D. Eisenhower, pronunciò queste parole: “Fin quando ci sono io, il nostro governo… non adotterà, nei suoi programmi, una specifica dottrina politica in materia di controllo delle nascite. Non è affar nostro”. Né lo è stato per alcuno dei governi degli Stati Uniti venuti in seguito20.

Segue l’ipotesi di una catastrofe generale per effetto della convergenza tra l’incremento demografico e la dissipazione delle risorse naturali. Il libro descrive la vita quotidiana del poliziotto Andrew Rusch, in una megalopoli dai contorni incerti, simile a Bombay o a Nairobi, o alla Pechino degli anni ’60. Questa futuribile civiltà a un passo dal collasso planetario sopporta la povertà estrema, l’abbandono, la denutrizione, le malattie. Esiste un conflitto insanabile fra le campagne e le megalopoli per l’accaparramento delle risorse idriche e alimentari. La concentrazione dei corpi produce anomia e delitto, brutalità e indifferenza. Con stile asciutto Harrison descrive fenomeni che si direbbero inevitabili, in una società ad altissima concentrazione d’individui. Tra questi si segnala la distanza tra la ridotta classe privilegiata e le masse sottoproletarie, la conseguente formazione spontanea di comunità isolate per proteggere i ricchi, con inaccessibili barriere fisiche, sistemi di sorveglianza elettronica e reti di protezione politico-militare. Il fenomeno, discusso anche dal sociologo Zigmurt Bawman, fu già perfettamente descritto in tutte le sue dinamiche in questo romanzo anticipatore. La concentrazione genera anche conflitti intergenerazionali. Gli anziani improduttivi sono considerati un peso, ma i giovani, privi di attese, sono un problema. In questa situazione la stasi si alterna alle esplosioni di violenza. Come si è giunti a tanto? La spiegazione viene dalle labbra del vecchio Sol, un anziano che condivide il miserabile appartamento di Andrew:

20

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Ibidem., p. 1.

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Te li dico io cosa è cambiato. – Scosse la scarpa sotto il suo naso. – È arrivata la medicina moderna. Ogni malattia ha trovato la sua cura. La malattia è stata spazzata via, così come altre epidemie che decimavano la gente in giovane età e mantenevano basso il livello della popolazione. È arrivato il controllo della morte. I vecchi hanno vissuto più a lungo. Un maggior numero di bambini sono sopravvissuti anziché morire, e ora diventano dei vecchi che vivono più a lungo ancora. La gente viene al mondo con lo stesso ritmo di prima, solo che non muore più con lo stesso ritmo. Nascono tre persone per ogni due che muoiono. E la popolazione raddoppia, e raddoppia ancora, e continua a raddoppiare. Sempre più velocemente. La gente è un’epidemia, un flagello che infesta il mondo. Abbiamo più gente che vive più a lungo. Dovremo farne nascere meno, questa è la risposta al problema. Abbiamo conquistato il controllo della morte, ora dobbiamo farlo collimare con il controllo della vita, delle nascite. […] l’umanità si è pappata in un secolo tutte le risorse della terra, risorse che avevano richiesto millenni di lavoro prima di arrivare al punto in cui erano arrivate. E nessuno di quelli che comandano vi ha pensato neppure un attimo, o ha dato retta alle voci di coloro che tentavano di avvisarli. ci hanno tranquillamente lasciato superprodurre e superconsumare, fino a che il petrolio è sparito, il suolo si è impoverito o è scomparso, gli alberi sono stati tagliati, gli animali si sono estinti, la terra avvelenata, e in cambio, a giustificazione di questo saccheggio, abbiamo unicamente sette miliardi di persone che si contendono gli avanzi di cibo, che vivono un’esistenza precaria e miserabile, che continuano a riprodursi senza controllo. E sai che ti dico? “È venuto il momento di alzarci in piedi e contarci…” come dice la Bibbia21.

La scarsa accuratezza delle previsioni di Harrison ha in parte oscurato il senso del suo messaggio, ripreso con maggiore incisività nella riduzione cinematografica del 1973, intitolata Soylent Green, per la regia di Richard Fleischer (in italiano 2022: i sopravvissuti). Il film esaspera i contenuti del libro, descrivendo un cannibalismo «denaturato» di massa. Il pianeta è completamente sterile. In queste condizioni le sole risorse alimentari sono i cadaveri trasformati in soylent in immense fabbriche per il trattamento dei rifiuti. L’umanità mangia se stessa. La scoperta del segreto che garantisce a tutti l’orrido pasto non arresta il sistema. Il mito insegna che la sopravvi-

21

Ib. pp. 183-4.

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venza bruta si spoglia di ogni umanità. Questa particolare fine dell’uomo è forse perfino peggiore della sua sparizione fisica, perché a svanire è il sentimento stesso dell’umanità. La fantascienza tratta l’horro pleni come una variante dell’horror vacui. Se l’inverso della riproduzione incontrollata è la sterilità di tutta l’umanità, il risultato sarà sempre la progressiva dissoluzione dei valori e la ritribalizzazione. Accade in Greybeard, di Brian Wilson Aldiss (1964), e più recente in The Children of Men, di Phillys Dorothy James (1993).

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7.1 Limiti della pensabilità della fine del mondo secondo Kant La prima riflessione moderna sull’apocalisse si deve probabilmente a Immanuel Kant. Nel saggio La fine di tutte le cose il filosofo di Koenisberg pone subito due domande che preparano un’indagine psicologica. Perché dunque gli uomini si aspettano la fine del mondo? E perché essa dovrebbe essere accompagnata dal terrore? L’origine della prima convinzione sembra risiedere nel fatto che la ragione dice loro che la durata del mondo ha valore solo nella misura in cui gli esseri razionali sono all’altezza, in essa, dello scopo finale della loro esistenza, ma se questo scopo finale non dovesse essere raggiunto, la creazione stessa diventerebbe per loro senza scopo […]. La seconda si basa sull’opinione che il genere umano sia costitutivamente corrotto, tanto da non lasciare alcuno spazio alla speranza1.

Il solo appello alla ragione contenuto nella prima risposta annulla ogni chiusura metafisica della teodicea, e invalida l’insondabilità della rivela1

Immanuel Kant, Das Ende aller Dinge, in «Berlinische Monatsschrift», vol. 23 (1794) pp. 495-522, La fine di tutte le cose, trad. it. di Elisa Tetamo, a cura di Andrea Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 19-22.

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zione. Alle radici di questa credenza pressoché universale Kant pone invece la motivazione, la giustificazione, sulla quale si fonda ogni atto intenzionale. Ancor più netta e la seconda risposta del filosofo. Egli riconduce la presunta corruzione sostanziale del genere umano a una questione di opinione, sia pur diffusa: mera doxa, e come tale confutabile. I due principi kantiani valgono anche nel campo della pura fantasia. Tutti gli scrittori moderni e contemporanei che hanno giustificato il loro punto di vista sulla potenziale fine della storia rispettano l’equilibrio simbolico internamente consistente. Questa autovalutazione è agli antipodi con la percezione dei secoli precedenti, in cui la relazione tra il tempo storico e l’eterno astorico del nuovo cielo e della nuova terra era un postulato inconfutabile. La science fiction deve invece necessariamente obbedire a un interno principio di «coerenza». Non importa se il mondo possibile di volta in volta concepito annulli il senso di realtà o se violi le leggi della natura. L’importante è che sembri coerente. Non può però discostarsi dall’ordine logico. Superato il terrorismo universale dell’apocalittica tradizionale, non resta che la lucida analisi. Secondo Kant si può parlare della fine di tutte le cose dal punto di vista naturale, mistico e contronaturale. Il punto di vista naturale rimanda alle periodiche calamità che funestano l’umanità, ma su queste evenienze poco c’è da dire. Invece la mistica della fine del mondo si erige sul presupposto dogmatico di una necessità ontologica, risalente alla fondazione della relazione tra l’uomo e Dio. Kant affermò che di essa non si può dire nulla, poiché, se davvero esistesse, sarebbe una condizione situata o in una durata infinita, di là dal tempo, o in una dimensione radicalmente estranea alla temporalità. Questa conclusione si appella implicitamente alla fisiologia e alla psicologia umane, poiché riguarda l’impossibilità di percepire (e quindi di pensare) un tempo qualitativamente diverso dalla durata. Un’immagine molto convincente illustra quest’ultima impossibile condizione: Eppure, il fatto che debba un giorno subentrare un momento in cui ogni mutamento (e con esso il tempo stesso) cesserà, è una prospettiva che ripugna all’immaginazione. In quel momento, infatti, la natura intera si arresterebbe, 156

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come pietrificata: l’ultimo pensiero, l’ultimo sentimento rimarrebbero allora sospesi, sempre invariabilmente eguali, nel soggetto pensante. Per un essere che può acquisire coscienza della propria esistenza e della sua grandezza (come durata) solo nel tempo, una simile vita, se ancora possiamo chiamarla vita, apparirà come un annientamento. Egli, infatti, per cercare di rappresentarsi in un simile stato deve pur poter pensare qualcosa, ma il pensare racchiude un riflettere, e questo a sua volta può darsi solo nel tempo2.

La fine di tutte le cose, il giorno del giudizio, si fonda su questa radicale discontinuità, che secondo la tradizione si dovrebbe intendere soprasensibile. In quell’istante non ulteriormente comprimibile gli uomini giustificheranno il loro comportamento su questa terra. Pertanto l’ultimo giorno (e l’eternità che si rivela nel momento stesso del suo compimento) appartiene sempre alla sfera delle riflessioni sulla morale, quindi, ancora una volta, sul mondo. Tutte le immagini che ne derivano – ricorda Kant – sono soltanto mere rappresentazioni di una condizione inintelligibile, ma tradotta in forme apparentemente comprensibili ricorrendo ai dati della materia sensibile. E allora cosa resta? Permane una sorta di necessità antropologica, se è vero che la credenza della fine di tutte le cose sia un tratto culturale pressoché universale. L’ipotesi di un’infinita sequenza di futuri contingenti inaridisce il presente e ridimensiona la sua importanza. Ciò che è finito si spiega meglio del non finito, dell’illimitato, il quale, non a caso, sgomenta sin dall’alba della filosofia. Ma nulla può impedire di proiettarsi «là dove gli angeli esitano». L’immaginazione, secondo Kant, prefigura varie trame, che dipendono dalle convinzioni filosofiche e religiose dei singoli e dei popoli. Con ciò egli gettò le basi per un’antropologia dell’apocalisse, perché da quel momento fu possibile indagare senza digressioni mistiche sul modo in cui prendono forma le varie rappresentazioni della fine del mondo, e anche sulle loro evoluzioni nel tempo. In questa prospettiva la questione diventa materia di opinione, e si pluralizza in una varietà di ipotesi.

2

Ibidem, pp. 30-1.

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Echi millenaristi, associati ai grandi cicli storici, com’è noto agitarono la cultura europea dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Friedrich Nietzsche, Oswald Spengler, Ortega Y Gasset, Nikolaj A. Berdjaev (in Il senso della storia del 1922 e in L’inizio e la fine, del 1941), interpretarono i timori e i tremori di una cultura al suo crepuscolo. Si trattava pur sempre di riflessioni, le più varie, sull’eclissi di un tipo di mondo, non sull’attesa mistica del giudizio finale. Anche gli scrittori dipinsero il sipario che calava su un ben preciso panorama intellettuale. Tra il 1915 e il 1918 Karl Kraus pubblicò la pièce Gli ultimi giorni dell’umanità (uscito in forma definitiva nel 1922), ambientato nell’inferno della Grande Guerra, notevole soprattutto perché in quest’allucinato scritto, a metà tra il testo teatrale e il romanzo, l’autore addebitava alla tecnica giornalistica la facoltà di formare un impenetrabile amalgama, sorta di realtà virtuale in cui si dibattono i protagonisti. Ma un mondo (e un tempo) non è l’universo intero (e non è il tempo in relazione con l’eterno). Se la percezione della fine pervadeva varie correnti della cultura mitteleuropea, ciascun autore l’interpretò a suo modo. Il surrealista Alfred Kubin proiettò quel comune sentire in L’altra parte (1908), suo unico romanzo, che descrive la vita degli abitanti del Paese dei Sogni, sottoposti a una varietà di suggestione profonda, in questo caso indotta non dai mass media ma dai poteri misteriosi degli autoctoni, le cui caratteristiche s’ispiravano ai resoconti spesso favolistici dei viaggi esotici in estremo oriente, soprattutto in Tibet, che in quel periodo ebbero grande fortuna3. 3

Il catastrofico finale del libro chiarisce il senso del conflitto tra i due mondi: l’Oriente e l’Occidente, la scienza dura e il puro spirito, la volontà prometeica, incarnatasi nell’industrializzazione e nel capitalismo, e il distacco della contemplazione. Personificazioni dei due principi sono il pragmatico Bell e l’esoterico Patera. La conclusione ha la potenza di un vero racconto apocalittico. I due personaggi assumono dimensioni fisiche planetarie e si scontrano con la violenza dei titani; ma si tratta in fondo dell’allegoria di un universo culturale schiacciato da forze spirituali opposte. È molto probabile che la lettura di Kubin abbia influenzato Philip K. Dick. In The Cosmic Puppets (1957)(che si può definire un’apocalisse rinviata). La scena finale della trasformazione di Peter e del dottor Meade in Ahriman e Ahura Mazda (Ormazd nel romanzo) e la loro cosmica battaglia finale è quasi identica al contenuto delle ultime trenta pagine del romanzo di Kubin. Cfr. Alfred Kubin, Die andere Seite. Ein phantastiker Roman, Müller, Monaco/Lipsia, 1909, L’altra parte. Un romanzo fantastico, trad. it. di Lia Secci, Adelphi, Milano, 1965, pp. 267-92.

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Anche il surrealista praghese (naturalizzato viennese) Leo Perutz pubblicò nel 1923 Il maestro del giudizio universale, titolo fuorviante (come accade spesso per questo tema), perché l’opera è in realtà un giallo psicologico incentrato sugli stati di alterazione della coscienza che per alcuni aspetti precorre Dan Brown, Aldous Huxley o Umberto Eco. Certo, non mancarono singolari eccezioni. Così l’architetto e visionario Paul Scheerbart, che nel 1897 pubblica Das neue Leben. Architektonische Apokalypse, scritto che sembra prefigurare l’atmosfera delle apocalissi transumaniste in auge quasi un secolo dopo4. Nello stesso periodo l’inglese David H. Lawrence scrisse un insolito commento all’Apocalisse di Giovanni, questo sì pertinente, ma pubblicato postumo nel 1931, in cui presagiva la rinascita di una percezione sensoriale della potenza dei simboli e dei miti. Tali opere alimentarono le tendenze escapiste diffuse nella prima metà del secolo. 7.2 La reductio ad nihil di Anders L’invenzione quasi improvvisa dell’atomica determinò uno shock culturale di dimensioni planetarie e impone un programma critico basato sul principio di realtà. Filosofi e scrittori ripensano radicalmente l’apocalisse, talvolta tentando di mobilitare i moderni mass media. Memorabile l’appello al disarmo del medico e teologo alsaziano Albert Schweitzer, lanciato in tre puntate da Radio Oslo nel 1958, benché su questo delicato argomento i media del tempo preferissero centellinare interventi di personalità di alto profilo morale. Infatti, il primo paradosso riguarda la sistematica rimozione dell’argomento dall’agenda delle discussioni ritenute «corrette». Il filosofo Günter Anders marcò quest’aporia fin dal titolo del suo Della bomba e delle radici della nostra cecità all’Apocalisse: Parlare del nostro argomento è tanto difficile, non soltanto perché è una “terra incognita”, ma anche perché viene tenuto sistematicamente in inco-

4 In Architettura di vetro, Adelphi, Milano, 2004, trad. it. di Glasarchitektur (Der Sturm, 1914) a cura di Mario Fabbri, di Scheerbartiana a cura di Giulio Schiavoni, p. 154 e sgg.

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gnito: perché le orecchie, all’intenzione delle quali si cerca di parlare di questo argomento, diventano sorde nel momento stesso in cui lo si menziona5.

Anders notava che, salvo pochi nichilisti estremi, il campo della riflessione morale è sempre stato impegnato da questioni che riguardano le relazioni tra gli uomini e il modo in cui dovrebbero funzionare le società. Mai però era posta in discussione l’esistenza dell’uomo. Invece, dall’invenzione della bomba in poi «[…] al posto della “domanda-come” subentra la “ domanda–se ”: la domanda se l’umanità continuerà ad esistere o meno»6. È importante soffermarsi su questa domanda esteriormente semplice. In un altro celebre saggio il filosofo affermò che l’evoluzione delle macchine avrebbe reso obsoleti i corpi e i cervelli umani. L’uomo moderno per la prima volta ha sviluppato il sentimento della vergogna del suo essere imperfetto, caduco, organico, dichiarava Anders. Il confronto-scontro con lo strapotente universo macchinico svela l’inferiorità ontologica della carne. L’orizzonte di Anders è confinato in questa prospettiva, da cui deriva anche il filo logico che lega le sue varie riflessioni sull’apocalisse nucleare. Ma dal nostro punto di vista il tempo storico in cui il filosofo pubblicò il suo celebre saggio (e in parte anche i decenni successivi) può essere concepito come il progressivo disvelamento di uno stadio intermedio, che si colloca tra la riflessione sulla fine del mondo, quale evento esterno, non dominabile dall’uomo, e la ricerca della fine del mondo come pratica concreta (vale a dire tecnologica) del superamento radicale dello stadio attuale dell’umanità. In effetti, la «domanda-se» e la «domanda-come» sono oggi, e lo saranno ancor più in futuro, un’unica domanda cruciale. Ma torniamo all’apocalisse nucleare. Per la prima volta l’onnipotenza – sostiene Anders – non è data dalla creatio ad nihilo, ma dalla reductio ad nihil. Siamo dei Titani, affermava il filosofo, e nello stesso tempo, proprio in virtù di questo potere, benché anatomicamente invariati, siamo anche esseri appartenenti a una nuova 5

Günter Anders, Die Antiquiertheit des Menshen, C. H. Beck’che Verlagsbuchhandlung, München, 1956, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, trad. it. di Laura Dallapiccola, Il Saggiatore, Milano, 1963, p. 236. 6 Ibidem, p. 238

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specie. Siamo inoltre, per la prima volta, mortali come gruppo, come specie, fino al punto da potere modificare il noto sillogismo di prima figura che nella premessa maggiore recita «tutti gli uomini sono mortali» nella proposizione «l’umanità intera è eliminabile». 1. Tutti gli uomini sono mortali. 2. Tutti gli uomini sono eliminabili. 3. L’umanità intera è eliminabile7. La concreta possibilità di un non-evento del genere deriva da connubio tra la bomba e il sistema elettronico di difesa. Più cresce la complessità del sistema, più lo spazio delle decisioni si fraziona in una molteplicità di fattori, analizzati su basi matematiche. L’organizzazione, sempre più spesso delegata alle macchine «intelligenti», facilita l’esecuzione dell’ineseguibile, e lo priva di responsabilità. Questo asserto può essere anche definito «paradosso della responsabilità». La caratteristica fondamentale dell’arma nucleare consiste nel fatto che l’incremento della sua efficacia è sempre equivalente alla distruzione del mondo. Se fosse impiegata – sosteneva Anders – il suo effetto trascenderebbe il suo fine. Per questo la bomba non può essere considerata un mezzo8. Ma se la potenza distruttiva non può più registrare aumenti, anche la facoltà di percepire la responsabilità di quest’atto si arresta al di qua di una soglia: Ogni facoltà ha dunque il suo limite di prestazione, al di là del quale non funziona più, ossia non può più registrare aumenti: le portate delle varie facoltà non concordano. […] possiamo aver paura della nostra propria morte. È già al di sopra delle nostre possibilità sentire la paura della morte moltiplicata per dieci, la paura della morte di dieci persone. All’idea dell’Apocalisse poi, l’anima rimane inerte. L’idea resta una parola9.

7

Ib., p. 243. Se non nell’accezione di medium per descrivere un nuovo tipo di linguaggio adoperato non dai singoli ma dalle nazioni. Cfr. Luigi Caramiello, Il medium nucleare. Culture, comportamenti, immaginario nell'età atomica, Lavoro, Roma, 1987. 9 Ib., pp. 264-5. 8

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Anders propose una medicina problematica tanto quanto la malattia. Sostenne che il solo modo per guarire da questa caduta verticale dell’angoscia, e dal mito del progresso che induce la cecità verso l’Apocalisse, nonché dall’inversione della relazione tra mezzi e fini e dalla spoliazione della responsabilità, consisterebbe nell’esercitarsi ad estendere le prestazioni comuni della propria fantasia e del proprio sentimento, ma in una direzione opposta a ciò che propone l’«Human Engineering». Quest’ultima espressione, già sviluppata in altri scritti, si riferisce com’è noto al progetto di trasformare l’essere umano, allo scopo di conformarlo alle superiori prestazioni delle macchine10. Il che già prefigura una costante fuga in avanti dell’uomo, implicato nel tentativo di stare al passo della ben più rapida evoluzione macchinica. Anders era consapevole della duplice aporia in cui incorreva il suo pensiero. Da un lato egli ammetteva che un tale ipotetico upgrade della sensibilità e delle percezioni somiglierebbe pericolosamente alle esperienze religiose, senza però annetterle in domini trascendenti: È incontestabile che questa parafrasi assomiglia a quella delle esperienze religiose. Chi scrive non lo nega. Anzi non avrebbe nulla in contrario se si paragonasse l’autotrasformazione con le pratiche spesso descritte nella storia della mistica, purché non si impieghi, come di solito, la parola “mistica” in senso vago, ma la si interpreti come tentativo di procurarsi, con l’aiuto di tecniche di autotrasformazione, l’accesso a stati, regioni o oggetti, da cui altrimenti si rimarrebbe esclusi11.

Nell’appendice al saggio Anders notava che l’ampliamento delle facoltà sensibili è tipico della storia dell’umanità, ed è dovuto al fatto che il mondo artificiale, in cui l’uomo deve vivere, richiede di per sé il perenne adeguamento della sfera sensibile, definibile come «abitudine». La metamorfosi è perciò una costante, e non una variabile indipendente; mentre il problema odierno è costituito dal fenomeno del dislivello prodotto da tec10

Cfr. su questa discussione il mio You Robot. Antropologia della vita artificiale, Vallecchi, Firenze, 2005. 11 Ib., p. 271.

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nologie molto più avanzate dello stato sensibile e morale dell’uomo che le subisce. Il solo rimedio consisterebbe dunque nell’ampliamento volontario della capienza del nostro sentire: E una novità non è nemmeno la metamorfosi specifica qui proposta: l’ampliamento volontario della capienza del nostro sentire. Anzi, sarebbe facile elencare una lunga serie di esempi storici di ampliamento, ricavandoli, soprattutto, dalla storia delle pratiche religiose e dalla mistica. Ma non è necessario andar lontano. Perché anche la nostra vita conosce tecniche di ampliamento; soltanto non vengono mai riconosciute per tali e mai indicate con questa espressione. La tecnica a cui mi riferisco, e che mi servirà qui per esemplificare le possibilità del sentire, è la musica12.

Laddove nella musica si sperimenta dal vivo la capacità di produrre uno strumento capace di ampliare la capienza della propria anima: Non mi sembra possibile fornire indicazioni concrete sul come compiere questi tentativi e nemmeno determinarne il contenuto. Non sono comunicabili. Il momento estremo che forse ancora si presta ad essere parafrasato e la sosta alla soglia, il momento cioè che precede l’azione vera e propria, il momento in cui chi fa l’esperimento si propone il compito, il cui si “auto-suggerisce” ciò che finora non è stato immaginato e sentito allo scopo di attirare all’aperto la “canaglia” che si nasconde nel suo intimo: la fantasia svogliata, il sentimento pigro, e di costringerli a venire a capo del compito assegnato. Si tratta dunque di un appello, ma non di un appello sentito direttamente, come quello della voce della coscienza, bensì di un appello che lanciamo a noi stessi: perché lo lanciamo al di là della frattura creata dal dislivello, come se le facoltà rimaste dall’altra parte fossero persone; e sono esse, la fantasia e il sentimento, che devono udire o a cui vogliamo prima di tutto “insegnare a udire”. E questo è davvero tutto quel che si può dire a parole. Perché nulla si può più comunicare di ciò che avviene dopo questo momento liminare: del vero e proprio risveglio delle facoltà, dei loro incerti tentativi di uscire da se stesse,

12

Ib., p. 305.

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dei loro sforzi per adeguarsi agli oggetti che costituiscono il compito loro assegnato – insomma: dell’autodilatazione del sé13.

Questa procedura, che appartiene alla sfera dell’estetica, non è comunicabile a parole, è al di là delle parole; soprattutto, essa oltrepassa le possibilità esplicative della scrittura. Questo «arresto di fronte alla soglia» si avverte in modo particolare in tutta la letteratura fantastica, incardinata sull’evento-limite dell’Apocalisse quale risultante logica del concetto di dislivello, originato dalla fuga tecnologica. L’impalpabile ostacolo dell’immaginazione non può essere in alcun modo superato. L’abilità dello scrittore può certo donare plausibilità allo scenario, può spingersi in territori impervi dell’analisi psicologica, può perfino azzardare previsioni socio-antropologiche apparentemente verosimili; ma se l’opera d’arte che nasce nell’habitat ipertecnologico in cui viviamo descrivesse davvero il passaggio «a un nuovo cielo e a una nuova terra» , essa dovrebbe anche produrre una qualche forma di «espansione dell’anima», lumeggiata dal filosofo e da tanti scrittori di fantascienza prima di lui. Ma proprio in ciò si palesa il limite invalicabile. Ogni suggerimento, ogni descrizione del superamento dei confini si risolve in mero dispositivo retorico, avviluppandosi in quell’invisibile barriera del senso che segna il confine psicologico e temporale destinato all’umanità su questa terra. Si possono forse sfruttare tutte le risorse aggiuntive dei moderni mezzi di comunicazione, esplorando inediti potenziali demagogici, ma sempre si è confinati nella tradizionale condizione umana. 7.3 Il medium nucleare di Derrida Jacques Derrida mostra fino a che punto i discorsi che si spingono oltre il confine dell’immaginabile (e l’Armageddon nucleare è un caso concreto di questo inimmaginabile) siano inequivocabilmente soggetti al potenziale della scrittura. In No apocalypse, not now il filosofo considera innanzi tutto l’esistenza di un superamento fisico di questi limiti: la straordi13

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Ib., p.. 271.

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naria velocità dei missili intercontinentali, l’ubiquità e l’irreversibilità degli effetti delle loro testate atomiche hanno di fatto oltrepassato le risorse della parola, cosicché nessuno è davvero competente su un evento futuro che supera i limiti del sapere. La guerra nucleare – secondo Derrida – non dipende più dal linguaggio. Ogni figura retorica, ogni previsione, ogni speech act che la riguarda non è più un atto performativo ma soltanto doxa, semplice opinione, anzi banale credenza. Nella nostra incompetenza tecno-scientifico-militar-diplomatica, ci possiamo tuttavia credere competenti quanto altri a trattare di un fenomeno che ha la caratteristica essenziale di essere da cima a fondo favolosamente testuale. L’armamento nucleare dipende, più di qualsiasi precedente armamento, a quanto pare, da strutture di informazione e di comunicazione, di linguaggio, e di linguaggio non vocalizzabile, di criptamento e decriptamento grafico. Ma fenomeno favolosamente testuale nella misura in cui, per il momento, una guerra nucleare non ha luogo: se ne può solamente parlare o scrivere14.

L’apocalisse nucleare è un mero referente virtuale. La sua realtà è incomunicabile: esattamente come la morte, che non può mai essere un evento, per chi la sperimenta, perché semplicemente non narrabile. Solo la potenzialità si apre alla moltiplicazione dei discorsi e della letteratura. Forse perché necessita un processo di addomesticamento della paura, o perché la produzione di immagini, di simulazioni e di miti sopisce il desiderio inconscio di pigiare l’interruttore. Derrida registra dunque una dissonanza: la complessità della guerra senza vincitori né vinti si oppone all’elementarità degli espedienti retorici che governano le decisioni politico-militari. Questi ultimi sono di per sé incardinati in un ordine storico, in un’organizzazione del senso che chiamiamo «accumulazione» e «archiviazione» della memoria, che la distru14

Jacques Derrida, Psyché. Inventions de l’autre. Tome 1, Éditions Galilée, Paris, 1997, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 1, trad. it. di Rodolfo Balzarotti, Jaca Book, Milano, 2008, p. 449.

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zione globale eliminerebbe senza rimedio. Il potenziale di cancellazione non parziale ma assolutamente totale, definitivo della memoria archiviata plasma un punto ideale, inesteso, irraggiungibile, anzi rivela il referente ultimo, al quale l’intera letteratura deve rivolgersi, perché esso rappresenta l’orizzonte degli eventi: Una morte individuale, una distruzione che colpisca solo una parte della società, della tradizione, della cultura può sempre dare luogo a un lavoro simbolico del lutto, con memoria, compensazione, interiorizzazione, idealizzazione, spostamento, ecc. In questo caso c’è monumentalizzazione, archiviazione e lavoro sul resto, lavoro del resto. […] Ma di ogni morte una cultura e una memoria sociale possono farsi carico simbolicamente, è anzi la loro funzione essenziale e la loro ragion d’essere. Tanto più se esse limitano la “realtà”, la attutiscono nel “simbolico”. Il solo referente assolutamente reale sta quindi all’altezza di una catastrofe nucleare assoluta che distrugge irreversibilmente l’archivio totale e la capacità simbolica, la “sopravvivenza” stessa nel cuore della vita. Questo referente assoluto di ogni letteratura possibile sta all’altezza di questa cancellazione assoluta di ogni traccia possibile. È quindi la sola traccia incancellabile, come traccia del tutt’altro. Il solo “soggetto” di ogni letteratura possibile, di ogni critica possibile, il suo solo referente ultimo e a-simbolico, non simbolizzabile, addirittura insignificabile, è, se non l’era nucleare, se non la catastrofe nucleare, perlomeno ciò verso cui il discorso e la simbolica nucleare fanno ancora segno: la distruzione senza resto e a-simbolica della letteratura, la letteratura e la critica letteraria non possono, alla fine, parlare d’altro15.

Questo imperativo è stato assolto da ogni dispositivo simbolico e retorico, ma solo la fantascienza l’ha accolto senza veli, moltiplicando le sue proiezioni. Solo la science fiction ha tentato di sviluppare una nuova temporalità paradossale, al di là della soglia della fine dell’uomo, e del mondo, e in una pluralità di altrove: un processo di riorganizzazione del senso che esplora i limiti e le potenzialità dell’essere nel mondo, anche quando non esisterà più questo mondo.

15

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Ibidem, pp. 460-61.

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7.4 Finis temporis in Olaf Stapledon Non è possibile valicare l’orizzonte della condizione umana, ma è lecito operare una specie di salto quantico mentale, applicando l’analisi razionale ai presumibili effetti dell’alta tecnologia e dell’evoluzione. Tuttavia, queste proiezioni formulano congetture su condizioni materiali, mentali e temporali del tutto aliene. Può l’immaginazione descrivere percezioni, esperienze emotive, motivazioni e orizzonti di forme mutagene di umanità? Per riuscirci è necessario tentare una dilatazione estrema del tempo e dello spazio. L’accorgimento incoraggia il lettore a trascurare il senso di irrealtà che scaturisce dalla descrizione di stati mentali alieni per mezzo di categorie del tutto umane. Si tratta di qualcosa di più profondo della semplice attenuazione della referenzialità o della sospensione del giudizio. Solo così è possibile descrivere eventi che implicano la sparizione dell’attuale umanità, senza il coinvolgimento emotivo che invece produrrebbe una descrizione particolareggiata, psicologicamente convincente, di tale ipotesi. Maestro in questo genere di percezione distorta fu lo scrittore inglese Olaf Stapledon, filosofo dalla vasta produzione e autore di due libri esemplari: Last and the First Man, pubblicato nel 1930, e Star Maker, del 1937. Il primo è un’opera seminale sia perché sviluppa larga parte delle idee elaborate dagli scrittori proto-transumanisti sia perché è un’impareggiabile fuga verso l’estraneità dei nostri remoti discendenti. L’autore immagina il succedersi di ben diciotto tipi diversi di umanità che si sono avvicendati dal primo uomo (noi) all’ultimo, nell’arco di centinaia di milioni di anni. Ogni nuovo tipo possiede caratteristiche fisiche e psichiche sue proprie, molto spesso del tutto estranee alla condizione umana. Anzi, i tipi sono sovente veri e propri alieni. La fuga nell’ultrafuturo permette di trattare l’estinzione (e a volte l’autoestinzione) dei vari tipi umani con la freddezza di una finta distanza storica. Dare conto in questa sede di un libro così complesso e fantasioso non è possibile, ma è interessante soffermarsi sulla prima e sull’ultima umanità. Stapledon descrive la storia del primo uomo dal ventesimo secolo in poi, tra l’altro ipotizzando in un futuro molto prossimo l’instaurazione di un governo mondiale, l’urbanizzazione accelerata, la manipolazione tecnologica dell’intero pianeta, l’affermazione della tecnocrazia, la sintesi tra

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religione e scienza (il Sacro Ordine degli Scienziati, vera e propria Chiesa) e infine una spaventosa sequenza di stermini mediante l’uso dei più moderni ritrovati, compresa l’arma batteriologica. Ma il primo uomo, ossia la nostra attuale umanità, dopo vari tracolli è destinato a scomparire, per effetto di una fantastica macchina universale per la produzione di energia che adombra il reattore a fusione nucleare di prossima costruzione: A power unit was seized, and after a bout of insane monkeyng whit the machinery, the mischief-makers inadvertently got things into such a state that at last the awful djin of physical energy was able to wrench off his fetters and rage over the planet. The first explosion was enough to blow up the mountain range above the mine. In those mountains were huge tracts of the critical element, and these were detonated by rays from the initial explosion. This sufficied to set in action still more remote tracts of the elements16.

Stapledon descrisse una reazione a catena di proporzioni planetarie, qualcosa di molto vicino al pericolo dell’Armageddon nucleare. Solo una spedizione al Polo, composta da sette donne e ventotto uomini, riesce a sopravvivere. È il seme di una futura razza di mutanti: il secondo uomo. Una razza che dovrà attendere dieci milioni di anni per esprimere le sue potenzialità. Questa prima disconnessione temporale implica l’accettazione delle proiezioni catastrofiste e millenariste. L’intera storia documentabile, dalla fine del neolitico a oggi, è solo la millesima frazione dell’intervallo temporale posto dall’autore, il che produce una distanziazione atemporale incolmabile e di origine onirica. Veniamo all’ultima razza. Fin dalle prime righe del quindicesimo capitolo l’autore afferma che non è possibile creare alcun ponte fra il nostro livello di sviluppo psicofisico e il loro. L’infanzia dura migliaia di anni. Il più semplice dei loro bambini possiede un livello di coscienza superiore al più alto intelletto del nostro tempo. Macchine telepatiche direttamente connesse ai cervelli sostituiscono l’istruzione tradizionale. Immagini e idee 16

Olaf Stapledon, Last and First Man, 1930, Orion Publishing Group, London, 2009, p. 96. Si è preferito citare il testo originale anziché la peraltro ottima traduzione perché più incisivo che in italiano.

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sono quindi sempre chiare e distinte. La telepatia è del resto il normale mezzo di comunicazione. I nuovi nati sono pochi, perché la conquista dell’immortalità inibisce una diffusa fecondità. Stapledon descrive anche una forma di mente collettiva non assimilabile alla totale fusione dei cervelli perché mediata dalla tecnologia, e molto vicina ad analoghe teorizzazioni oggi in voga17. La società degli uomini finali è formata da gruppi mentali e sessuali strettamente connessi, che si riconoscono l’un l’altro, così come i membri dell’attuale umanità riconoscono l’identità delle altre persone. Una visione non lontana dalla noosfera di Teihard. L’ultima umanità sonda mentalmente il cosmo alla ricerca di entità affini, e ha scoperto forme ignee di vita intelligente perfino sulla superficie di molte stelle, arguendo che probabilmente lo scopo dell’universo si realizzerà nell’evoluzione di queste entità ancora primitive, e non dell’uomo. Anche se consapevole di ciò, l’ultima umanità guarda al futuro con l’idea di poter raggiungere collettivamente una sorta di esistenza trascendente. E con ciò siamo a un passo da quella «trascendenza immanente», ovvero da quell’ossimoro che è al cuore dell’ideologia e della psicologia transumaniste. L’elenco delle difformità è quasi infinito, ma coglie il punto nodale: le entità pseudoumane di Stapledon sono paragonabili a esseri divini o semidivini. Così l’epica sposa la filosofia, che a sua volta è fecondata dalla tecnologia. Questa disposizione mentale si traduce in una nuova retorica. La tecnica della scrittura può in certi casi perfino guadagnare una soglia dispercettiva quasi allucinogena, riducendo il meccanismo della compilazione a una configurazione tesa al limite della coerenza. La cosmologia di Stapledon si riduce a una sequenza di affermazioni intuitive, non dissimili 17

Cit. p. 263: «The designers of our species set out to produce a being that might be capable of an order of mentality higher than their own. The only possibility of doing so lay in planning a great increase of brain organization. But they knew that the brain of an individual human being could not safely be allowed to exceed a certain weight. They therefore sought to produce the new order of mentality in a system of distinct and specialized brains held “telepathic” unity by means of ethereal radiation. Material brain were to be capable of becoming on some occasions mere nodes in a system of radiation which itself should then constitute the physical basis of a single mind. hitherto there ad be a “telepathic” communication between many individuals, but no super-individual, or group-mind».

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dalle riflessioni dei più vari filosofi dell’antichità, ma quel che conta è la sua escatologia. L’autore presuppone che l’universo sia regolato da una sequenza di eventi ciclici ma non ripetitivi. Prima dell’inizio e dopo la fine c’è solo l’oblio. I veri fondamenti dell’esistenza sono meravigliosi e terribili, ma sconosciuti. Esistono universi troppo remoti per essere compresi. Essi potrebbero ospitare forme di vita più elevate dell’uomo giunto all’apice della sua evoluzione. Ma quest’ultimo, nonostante gli sbalorditivi poteri individuali e collettivi conseguiti, è in ogni caso destinato alla fine: We have at least carved into a region of the eternal real a form which has beauty of no mean order. The great company of diverse and most lovely men and women in all their subtle relationships, striving whit a single purpose toward the goal which is mind’s final goal: the community of super-individuality of that great host; these surely are real achievements – even though, in the larger view, they are minute achievements18.

Stapledon ipotizza anche uno strano anello di retroazione tra il futuro e il passato. Le menti superiori del futuro hanno sviluppato la facoltà di conoscere il passato. In un certo senso esse possono intervenire sintonizzando alcune particolari intelligenze della prima umanità sui loro superiori pensieri e sentimenti. Questo spiegherebbe la nascita di Buddha o di Cristo, benché l’irruzione psichica dei poteri e dei valori degli ultimi uomini sia invariabilmente interpretata come la presenza di entità divine e trascendenti. Questa particolare varietà di letteratura fantascientifica apocalittica è possibile solo assumendo un punto di vista affatto «esterno». La tecnica consiste nell’attribuire nomi e descrizioni a entità non denotabili, quindi non realmente descrivibili. Certo, la mentalità primitiva alla Lévy-Bruhl

18

Ibidem, p. 276. Cfr. anche pagina 284: «But in the vast music of existence the actual theme of mankind now ceased for ever. Finished, the long reiterations of man’s history; defeated, the whole proud enterprise of his maturity. The stored experience of many mankinds sink into oblivion, and today’s wisdom must vanish».

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da sempre attribuisce identità superumane alle forze naturali. Ma nessun cervello (e nessun linguaggio) può immanentizzare la trascendenza. 7.5 Fuga simbolica nell’ultrafuturo Il modello narrativo della fuga nell’ultrafuturo non sempre mira ad alterare gli stati di coscienza del lettore. Per esempio, l’estremo limite temporale alla Wells è popolato da subumani, o da nessuno. Charles Eric Maine si servì dell’espediente della trasmigrazione della psiche nel corpo di un nostro discendente in Timeliner (1955); ma descrivendo l’incontro tra Hugh Mecklin, il viaggiatore del tempo, e ciò che potrebbero essere gli umani tra cinque milioni di anni, si limitò ad affermare l’incomprensibilità di una tale superiore stato fisico, psichico e culturale. L’incomunicabilità è leitmotiv anche di Simak, mentre in Jack Vance perfino le figure più inverosimili agiscono e pensano come chiunque, senza nessuna attenzione per l’ovvia distanza fra gli esseri umani comuni e le entità magiche o tecnologiche dagli sbalorditivi poteri partorite dalla sua fantasia. La letteratura d’ispirazione transumanista, da Stapledon in poi, indulge in questa operazione «proibita». La proiezione plurimillenaria della tecnologica esige d’immanentizzare la trascendenza, di indicizzare il non denotabile, se possibile di descriverlo. Questa impresa, superiore ai limiti della simbolizzazione, si perde nella tradizione gnostico-esoterica, memoria culturale che collide con le dichiarazioni iper-razionaliste dei sostenitori di una nuova umanità. Trascendentalisti occulti, gli scrittori transumanisti hanno interpretato in vario modo questa tradizione. Ma qual è il legame tra la tecno-scienza, la letteratura fantastica e la visione apocalittica? Eric Voegelin definì la trasposizione della trascendenza sul piano cosmico e mondano una forma di immanentizzazione dell’éschaton. Il filosofo osservò che la conoscenza tecno-scientifica (si pensi al campo potenzialmente intrusivo della biotecnologia) può tradursi in un’ideologia immanentista, che proponga un cammino progressivo verso la salvezza e il perfezionamento dell’umanità, all’interno dei confini naturali e cosmologici19.

19

Cfr. Franco G. Lami, Introduzione a Eric Voegelin. Dal mito teo-cosmogonico al

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L’estremizzazione transumanista di parte della science fiction contemporanea è quindi il risultato della confluenza di vari filoni. Il mondo futuro, in queste proiezioni, si scopre un ecumene popolato da oltre-uomini, ingegnerizzati fino al conseguimento dell’immortalità, e da intelligenze artificiali autocoscienti. Questa linea pseudo-evolutiva seguirebbe la «legge dei ritorni accelerati», formulata da Ray Kurzweil. La legge descrive l’accelerazione del ritmo dei processi evolutivi e la crescita esponenziale dei suoi prodotti20. Kurzweil, Vernor Vinge o Hans Moravec sono tra i più strenui difensori di quel pensiero transumanista che presuppone l’avvento di una radicale espansione qualitativa e quantitativa delle capacità noetiche: un potenziamento che coinvolge in pieno la fusione dell’organico con l’inorganico, ben oltre l’ormai obsoleto concetto di cyborg, fino al punto da disporre di percezioni e di facoltà intellettive milioni, se non miliardi di volte più ampie delle medie attuali: una condizione palesemente quasi divina. Si può pertanto definire questa tendenza culturale una sorta di «evemerismo inverso», poiché colloca nel futuro le entità antropomorfe superne. L’ecumene è la totalità (sovente interconnessa) di una civiltà interplanetaria o perfino galattica. Questa nozione fu introdotta nella science fiction da Ursula K. Le Guin nel Ciclo hainita. Figlia del celebre antropologo Alfred Kroeber, la Le Guin mutuò dal padre una particolare rappresentazione dei fenomeni culturali. Kroeber e Robert Lowie, com’è noto, fondarono in antropologia il concetto di «superorganismo», poi rielaborato da Leslie White e dalla sua scuola. In un saggio seminale del 1917 Kroeber sostenne che l’encefalizzazione della specie umana non spiega il salto prodigioso dell’evoluzione culturale21.

sensorio della trascendenza: la ragione degli antichi e la ragione dei moderni, Giuffrè, Milano, 1993. 20 Ray Kurzweil, The Singularity is Near, Viking Press, 2005, La singolarità è vicina, trad. it. di Virginio B. Sala, Apogeo, Milano, 2010, p. 36 e sgg. Cfr. anche Hans Moravec, Robot. Mere Machine to Transcendent Mind, Oxford University Press, Oxford New York, 1998; Kevin Kelly, What Technology Wants, 2010, Quello che vuole la tecnologia, trad. it. di Giuliana Olivero, Codice Edizioni, Torino, 2011, p. 305 e sgg. 21 Cfr. Alfred Kroeber, The Superorganic, in “American Anthropologist”, New Series, Vol. 19, aprile-giugno 1917, pp. 164-213; The Nature of Culture, University of Chicago

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L’idea che l’umanità possa acquisire livelli sempre più elevati e interconnessi di coscienza, attraverso la mediazione delle tecnologie, è in certa misura tipica della cultura del primo Novecento. Il teologo e scienziato evoluzionista Pierre Teihard de Chardin – com’è noto – parlò a questo proposito dell’esistenza di una «noosfera» e del «punto omega», cioè l’estremo limite della complessità e della coscienza interconnessa, posto al culmine del processo di evoluzione della materia organizzata. Inoltre, Teihard affermò che il cammino verso il punto omega sarà mediato dall’avvento dell’Homo noeticus, che soppianterà l’Homo sapiens sapiens, giunto ormai al compimento del suo tragitto. Ma in questo modo Teihard adombrava nuovi scenari apocalittici, calati in un momento storico in cui le tecnologie iniziavano a manifestare la loro massiva influenza tanto sui processi del pensiero quanto sulla materia vivente22. I classici della science fiction abbondano di simili riferimenti indiretti. Si riconoscono, ad esempio, in Childhood’s End di Arthur C. Clarke (1953), in cui la specie extraterrestre dei Superni (incredibilmente simile al diavolo dell’iconografia medioevale) prende possesso della Terra, allo scopo di evitare l’olocausto nucleare e condurre l’umanità verso il traguardo della mente collettiva23. L’opera di Clarke è del resto colma di relazioni con potenze celesti superiori, talvolta benevole, altre volte minacciose, oppure del tutto indifferenti. Un deludente incontro del terzo tipo e della terza categoria avviene in Incontro con Rama (1972), il primo e più significativo della saga. Al contrario, l’intelligenza aliena interviene positivamente nell’evoluzione dell’uomo in 2001: Odissea nello spazio (1968). Essa si rivela infine potenzialmente pericolosa in 3001: Odissea finale (1997 e l’ultimo della serie). È interessante notare che il libro (non esattamente un capolavoro) annuncia una dilazione per la sentenza comminata all’umanità.

Press, 1952, La natura della cultura, Bologna, Il Mulino, 1974; Anthropology, Harcourt, Brace and Co., London, New York, 1923. 22 Benito Marconcini, Apocalittica. Origine, sviluppo, caratteristiche di una teologia per tempi difficili, Leumann, ElleDiCi, Torino, 1985, p. 27 e sgg. 23 Arthur C. Clarke, Childood’s End, 1953, Le guide del tramonto, Mondadori, Milano, 1955.

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Gli scenari alla Clarke si sono immensamente evoluti in autori di talento come Vernor Vinge o John C. Wright. In A Fire upon a Deep (1992) Vinge introduce una scenografia talmente vasta che l’annichilamento di migliaia di specie intelligenti perde significato. Ha importanza soltanto il conseguimento dello stadio della «trascendenza» (peraltro curiosamente connesso con l’ipotesi del superamento della velocità della luce e della gravità) che assicura ad alcune specie livelli di coscienza e conoscenze tecnologiche di qualità essenzialmente divina. Anche il ciclo dell’Età dell’Oro di John C. Wright presenta ordinamenti sociali e neurologici futuri basati sul connubio tra entità umane profondamente modificate e intelligenze artificiali, individuali o collettive, d’inimmaginabile potenza. Ma nonostante gli eroici tentativi di forzare il linguaggio naturale oltre i limiti della sua attuale referenzialità, nel vano intento di descrivere gli effetti della Trascendenza, i risultati sono sempre riconducibili alle consuete forme retoriche, così come lo sono i profili psicologici dei personaggi. Ciò che invece resta è l’assunzione del superamento dell’umanità attuale. Questa propensione per l’apocalisse «a stadi», se così si può definire, si traduce in una predilezione per la palingenesi, accompagnata spesso da riedizioni tecnologiche dell’antica ectopirosi di ascendenza stoica. Il viaggio allucinante nei futuri contingenti necessita però sempre di una dilatazione temporale senza limiti. Discutere sugli ipotetici destini dell’umanità tra diecimila o tra un milione di anni, implica ridurre l’importanza degli avvenimenti a noi prossimi. Si può così trattare con indifferenza il concetto limite della presunta obsolescenza dell’umanità contemporanea, fino all’accettazione preventiva della sua sparizione per autoestinzione, o perfino a causa dello sterminio sistematico. L’espansione delle alterne vicende umane su scale temporali inumane è tipica degli astrofisici e dei matematici, scienziati che manipolano grandezze immense, ma assume una valenza dominante se si insedia nella letteratura. A quel punto essa diventa un dispositivo retorico di nuovo conio, cosicché valgono le stesse argomentazioni suggerite da Derrida in materia di apocalisse nucleare. Il racconto funge quindi da «traduzione» di modi di essere e di pensare virtualmente estranei ai riferimenti conservati negli archivi scritti 174

Apocalittica e ridondanza

dell’umanità attuale, e nella sua memoria orale. Ma il dispositivo retorico s’inceppa proprio su questa istanza cruciale. Non è possibile descrivere l’indescrivibile, ricorrendo a categorie correnti o a stati psichici del tutto umani. L’antropomorfismo e l’antropocentrismo di vecchia data sono pertanto in agguato. Ma a quel punto ogni letteratura transumanista rivela un sottile intento giustificazionista, tanto è diventata insopportabile, ai giorni nostri, e agli occhi di molti, l’esistenza stessa dell’umanità.

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Indice dei nomi

Agnese Gino 82, 177 Aldiss Brian Wilson 118, 154, 177 Alvart Christian 146 Anders Günter 10,159, 160, 162, 177 Anderson Paul W.S. 98 Artwood Margaret 33 Asimov Isaac 10, 51, 84, 93, 115, 121, 123, 124, 125, 149, 177, 178 Ballard James Graham 22, 23, 36, 111, 112, 178 Barabási Albert-László 130, 178 Barjavel René 120 Bates Harry 36 Bawman Zigmurt 152 Beato Angelico 133 Beckett Samuel Barclay 42 Beckford William 51 Benford Gregory 139, 178 Benni Stefano 91, 178 Benson Robert 9, 45, 60, 61, 62, 64, 65, 66, 67, 135, 178 Berdjaev Nikolaj Aleksandrovič 158 Bioy Casares Adolfo 43 Boorman John 100, 145

Borges Jorge Luis 43 Boulle Pierre 57, 97, 178 Bouthoul Gaston 81, 103, 178 Bova Ben 9, 95, 96, 178 Bradbury Ray 92, 93, 178 Brunner John 139, 178 Buckminster Fuller Richard 37 Bulmer Kenneth 139 Burhens III Willim W. 38 Burroughs Edgar Rice 59, 60 Butler Samuel 116 Caillois Roger 21 Cameron James 9, 26, 36, 98 Campbell Jr. John W. 137 Camus Albert 42 Cancellieri Edmondo 79 Cancellieri Ferruccio 79 Čapek Karel 82, 83, 84, 92, 115, 178 Čapek Joseph 83 Carpenter John 138 Clarke Arthur C. 17, 100, 144, 149, 173, 174, 179 Cohn Norman 66 Conrad Joseph 20

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Fenomenologia della fine del mondo

Creuze de Lesser Auguste-François 24 Crichton Michael 10, 34, 35, 144, 149, 150, 151 Daventry Leonard 109 Davis Gerry 141 Defoe Daniel 50 De Martino Ernesto 14, 41, 42, 43, 44, 179 Derrickson Scott 36 Derrida Jacques 10, 164, 165, 174, 179 de Turris Gianfranco 179 Diamond Jared 140 Dick Philip K. 46, 83, 132, 150, 158 Disney Walt 29 Donner Richard 109 Doyle Arthur Conan 22, 30, 139 Dunbar Robin I. M. 87,88 Dyson Freeman 148 Eco Umberto 159, 179 Eibl-Eibesfeldt Irenäus 39 Elder Michael 97, 179 Elliot John 139 Emmerich Roland 81, 108, 109 Endo Hiroki 10, 144, 145 Ewers Hanns Heinz 32 Finney Jack 33 Flammarion Camille 134, 135, 180 Fleischer Richard 153 Fogg B.J. 129, 180 Ford John 20 Forrester J. W. 38 Forster Edward 98 Francesco d’Assisi 90 Frazer James 90 Freud Sigmund 101

186

Fromm Erich 14, 180 Gagne Élise 24 Gagne Paulin 24 Galouye Daniel F. 32, 132, 140, 180 Gange Abel 135 Gemmell David 32 Giger Hans Ruedi (Hans Rudolf Giger) 139 Gimbutas Marija 110, 180 Giotto di Bondone 133 Girard René 85 Giuliano l’Apostata (Flavio Claudio Giuliano) 64 Gobbi Romolo 65, 180 de Grainville Jean Baptiste Cousin 24 Groening Matt 48 Guenon René 50 Guest Val 21, 109 Gunn James 10, 126, 127, 130, 131, 180 Hack Margherita 13 Harrison Harry 10, 151, 153, 180 Havelock Eric 101 Hawks Howard 138 Heinlein Robert Anson 140, 180 Hobbes Thomas 64 Hood Thomas 24 Hoyle Fred 139 Huxley Aldous 99, 127, 129, 159 Israel Giorgio 95, 180 James Phillys Dorothhy 154 Jefferies Richard 9, 55, 56, 181 Jonesco Eugène 48 Jung Carl Gustav 14

Indice dei nomi

Jünger Ernst 17 Kafka Franz 43 Kant Immanuel 10, 155, 156, 157, 180 Kauffman Stuart A. 126, 127 Kelly Kevin 172, 180 Kerényi Károly 110, 181 Kern Stephen 53 King Stephen 10, 35, 144, 147, 189 Kirby Jack 111, 139 Kornbluth Cyril M. 139 Kraus Karl 158 Kroeker Arthur 51, 172, 181 Kubin Alfred 158, 181 Kubrick Stanley 9, 95, 105 Kurzweil Ray 172, 181 Kusama Karyn 100, 145 La Mettrie Julien Offray 60 Landes David 131 Lanier Jaron 71, 181 Lawrence David Herbert 159 Lawrence Francis 159 Le Bon Gustave 62 Lee Stan 111, 139 Le Guin Ursula 150, 172 Leibniz Gottfried Wilhelm von 150 Leinster Murray 139, 181 Lem Stanislaw 94 Lessing Doris 43 Levi Primo 43 Lévy-Bruhl Lucien 170 Lewis Clive Staples 32 Lippi Giuseppe 119 London Jack (John Griffith Chaney London) 9, 26, 27, 28, 29, 30, 33 Lovecraft Howard Phillips 19, 138 Lovelock James 27

Lowie Robert 172 Lucas George 96 Lupoff Richard 37, 146, 181 Lyon D. 51 Maine Charles Eric 34, 93, 94, 100, 171, 182 Malachia 67 Malthus Thomas Robert 39 Manganelli Giorgio 17 Marinetti Filippo Tommaso 53, 70, 71, 72, 81, 82, 83, 115 Matheson Richard 33 McLuhan Marshall 70 Meadows Dennis L. 38 Meadows Donella H. 38 Memling Hans 133 Michelangelo Buonarroti 133 Millán Gasca Ana 95, 180 Miller Walter M. 94 Mongini Giovanni 109 Moravec Hans 172, 182 Morin Edgar 31 Morris Desmond 31 Nietzsche Friedrich Wilhelm 53, 64, 158, 182 Oppegaard David 35 Ortega Y Gasset José 158 Orwell George (Eric Arthur Blair) 77, 99 Ovidio (Publio Ovidio Nasone) 110 Pedler Kit (Cristopher Magnus Howard) 141 Perugini Raul 79 Poe Edgar Allan 32

187

Fenomenologia della fine del mondo

Pohl Frederik G. 139 Pompilj Giuseppe 79 Post Ted 97 Propp Wladimir 101 Quinzio Sergio 67, 182 Ragona Ubaldo 33 Randers Jørgen 38 Reagan Ronald 91 Reynolds Mack 150 Riordan Rick (Richard Russell Riordan jn) 89 Roberspierre Maximilien-François-Isidore 65 Roeg Nicolas 119 Ron Hubbart L. (Lafayette Ronald Hubbart) 128 Rossen Robert 119 Roshwald Mordecai 9, 95, 98, 102, 103, 104, 105, 183 Russell Bertrand Arthur William 91, 92, 183 Russell Eric Frank 138, 139, 183 Salkow Sidney 33 Saramago José de Sousa 141 Sartre Jean-Paul Charles Aymard 42 Schaffner Franklin J. 97 Schumacher Ernst Friedrich 38 Scorsese Martin 119 Sagal Boris 33 Segan Carl 55 Scheerbart Paul 159, 183 Schweitzer Albert 159 Scott Ridley 11 Shelley Mary 9, 23, 24, 33, 47, 95, 183 Shiel Matthew Phipps 9, 45, 47, 48, 53,

188

107, 108, 183 Shuster Joe 66 Shute Nevil 93 Siegel Jerry 66 Sighele Scipio 62 Signorelli Luca 133 Silverberg Robert 52, 149, 183 Simak Clifford Dante 10, 51, 115, 116, 118, 122, 183 Simmel Georg 62 Singer Charles 88 Sitchin Zecharia 19 Sloterdijk Peter 147, 148 Spengler Oswald 158 Spielberg Steven 118 Spitz Jacques 10, 140, 142, 143, 183 Stapledon Olaf 10, 122, 167, 171, 183 Stephenson Neal 132, 148, 168, 169 Szilard Leo 92 Tegani Ulderico 79 Teihard de Chardin 169, 173 Tevis Walter S. 10, 118, 119 Thomas Theodore L. 10, 34, 140, 141 Todorov Tzvetan 43, 184 Turner Victor 18 Vacca Roberto 57, 184 Vance Jack (John Holbrook Vance) 32, 171 Van Eyck Jan 133 Van Gennep Arnold 18 Vasari Ruggero 9, 74, 75, 82, 115, 184 Verne Jules 51, 83 Villiers de L’Isle-Adam Auguste 62, 83 Vinge Vernor 10, 144, 145, 172, 174, 184 Vogelin Eric 171

Indice dei nomi

Volt (Vincenzo Fani Ciotti) 9, 79, 80, 81 Voltaire (François-Marie Arouet) 106, 137 Vonnegut Kurt 84, 94, 119, 184 Von Neumann John 95 Wachowski Andy 132, 138 Wachowski Larry 132, 138 Weir Peter 21 Wells Herbert George 18, 30, 39, 62, 80, 92, 122, 135, 137, 184 White James 10, 121, 122, 184

White Leslie 172 Wilhelm Kate 34, 141, 142 Wilkox Fred M. 150 Williamson Jack (John Stewart Williamson) 123, 184 Wise Robert 34, 36 Wright John Charles 84, 149, 174 Wyatt Rupert 97 Wyndham John 10, 93, 140, 184 Zamjàtin Evgénij Ivànovič 77, 99, 184 Zelazny Roger 132 Zimbardo Philip 98

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