Femminilità e ribellione: la donna greca nei poemi omerici e nella tragedia attica

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Femminilità e ribellione: la donna greca nei poemi omerici e nella tragedia attica

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FEMMINILITA E RIBELLIONE

Renzo Ricchi

FEMMINILITA' E RIBELLIONE La donna greca nei poemi omerici e nella tragedia atti.ca

V allecchi Editore

AVVERTENZA Gli scritti che vengono pubblicati in questo volume non sono nati come " saggi " ma come conversazioni, conferenze o relazioni. Tali motivazioni ne hanno ovviamente influenzato il linguaggio e il contenuto, modellati in base all'uditorio al quale erano destinati. Per la precisione:

- Poemi omerici: croci e delizie della femminilità è stata una conferenza tenuta al Palazzo Borghese e della Stampa di Firenze 1'8 novembre 1984; - Ribellione ed eroismo nella tragedia attica raccoglie un ciclo di conversazioni tenute al Laboratorio Internazionale dell'Attore di Firenze nel dicembre 1986; - Mito e poesia è il testo di due conversazioni: la prima tenuta all'Istituto Magistrale « G. Capponi» di Firenze il 24 aprile 1986; la seconda al convegno su « Memoria della poesia contemporanea · Le fonti della poesia degli Anni Ottanta» (Fiesole, Palazzina Mangani, 11 aprile 1987); - Solitudine, creatività, destino è il testo della relazione letta al convegno sulla solitudine organizzato dal Comune di Firenze nella primavera 1985; - L'apocalisse oggi e la letteratura è la relazione tenuta al XXIII Congresso Internazionale degli scrittori di Belgrado nell'ottobre 1986.

Copyright © 1987 by Vallecchi Editore S.p.A. - Firenze

Parte prima

LA DONNA GRECA NELL'ETA OMERICA E NELL'ETA PERICLEA

POEMI OMERICI: CROCI E DELIZIE DELLA FEMMINILITA

Una città, una guerra.

Innanzitutto una premessa sui poemi omerici. Essi traggono origine - secondo la tradizione - da una guerra: la guerra di Troia. Troia: una città il cui nome è suggestivo come quello di Atlantide. È esistita veramente, Troia? C'è stato veramente quel lungo e cruento conflitto causato dal rapimento di una donna? E dov'era, esattamente, questa città? Era una città-stato della costa nord-occidentale dell'Asia Minore, dicono alcuni storici; secondo gli scavi più recenti, la sesta delle città sovrapposte all'antico insediamento in cui è ravvisata la città che fu scenario dell'Iliade fu distrutta quasi certamente dal terremoto verso il 1350 a.C., mentre quella successiva sarebbe stata distrutta, verso il 1200 a.C., da orde tracie. Numerosi studiosi sostengono che nella seconda metà del XII secolo a.C. (cioè in una data vicina a quella della tradizione) una città anatolica di nome Troia fu abbattuta e data alle fiamme, quasi certamente da un esercito avversario. Cadde sotto il ferro dei confederati, secondo il racconto omerico? Tutto è possibile; forse effettivamente sotto le sue mura combatté Achille; e forse il capo supremo dell'esercito fu veramente Agamennone, re di Argo e di Micene. La storicità di questa guerra, in linea di massima, sembrerebbe dimostrata. Essa sarebbe scoppiata tra il 1194 e il 1184 a.C. e sarebbe stata combattuta tra confederati greci di civiltà micenea e gli abitanti frigi di Troia. Scena del-

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l'azione: le coste del Mediterraneo orientale, sempre davanti al mare. La guerra sarebbe stata combattuta nel momento di massima espansione acheo-micenea, verso la fine dell'età del bronzo. La civiltà micenea fu molto evoluta e fiori nel secondo millennio a.C. lungo le coste dell'Egeo, prima attorno a Creta, poi a Micene, Tirinto, Pilo ed Atene (qualcuno ha creduto di individuare nelle rovine di Tirinto, porto di Micene, i palazzi reali di Omero). Cadde bruscamente, lasciando scarse tracce, verso il 1200 a.C.. Scarse tracce, ma abbastanza perché oggi si sappia quanto alti furono i suoi splendori. Comunque, andata in crisi la civiltà cretese-micenea sopraggiunse quello che comunemente viene definito il medioevo ellenico, che va dall'XI all'VIII secolo a.C.: un periodo di cui ci sono rimaste poche testimonianze, contrassegnato da forti migrazioni e numerosi conflitti e tensioni. Verso la fine dell'VIII secolo sono già sorte le città-stato autonome, piccole, governate direttamente dalla comunità che le ha create. Ebbene, in quel lungo e oscuro arco di tempo che va dagli ultimi secoli della civiltà cretese-micenea all'inizio del medioevo ellenico affondano le radici storiche e mitiche dei poemi omerici. Tucidide, il grande storico dell'età di Pericle, non crede molto alla motivazione del rapimento di Elena; pensa invece che la guerra fu causata dalla brama di ricchezza dei popoli più forti, dalle mire politiche ed economiche dei greci sulle popolazioni del Mediterraneo orientale. « Desiderosi di guadagnare, - scrive Tucidide, - i più deboli accettavano l'asservimento al più forte, e i più potenti, avendo disponibilità di mezzi, si assoggettavano le città più piccole. E trovandosi sempre più in questa condizione fecero poi la spedizione contro Troia. Mi pare - aggiunge lo storico - che Agamennone fosse allora il più potente e che quando radunò la spedizione non fosse tanto per il legame di giuramenti fatti a Tindaro che condusse via con sé i pretendenti di Elena ( ... ). A mio parere Agamennone fece questa spedizione radunando gli uomini più col terrore che ricevendo un favore, dato che ( ...) la sua flotta era più potente di quella degli altri ». Più avanti Tucidide entra nel merito della guerra, sostenendo che i confederati, in fondo, non erano andati in molti a Troia, tenendo conto che erano partiti insieme da tutta la

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Grecia. E precisa: « La ragione non era tanto la scarsità di popolazione quanto la mancanza di denaro. Per difetto di vettovagliamento condussero un esercito meno numeroso e tanto quanto speravano che potesse, facendo la guerra, vivere con le risorse del paese. E dopo che, al loro arrivo, ebbero la meglio in battaglia (e questo è evidente, ché altrimenti non avrebbero costruito la muraglia a difesa del campo), neppure in questo caso, a quanto pare, si servirono di tutte le loro forze, ma per mancanza di vettovaglie si dettero alla coltivazione del Chersoneso e alla pirateria. E proprio per questo, poiché erano cosl dispersi, i Troiani resistettero per più di dieci anni in campo aperto, poiché erano alla pari di quei Greci che di volta in volta erano lasciati a combattere. Ma se fossero venuti con abbondanza di vettovaglie e se, tutti insieme, senza pirateria e coltivazione dei campi, avessero condotto la guerra senza interruzione, facilmente, superiori in battaglia, avrebbero conquistato la città, loro che resistevano anche non uniti ma solo con la parte che di volta in volta si avvicendava; posto l'assedio, in minor tempo e con minor fatica avrebbero preso Troia. Ma per mancanza di denaro queste epoche passate erano deboli, e proprio questi avvenimenti, che furono più celebri dei precedenti, si rivelano in realtà inferiori alla fama e alla tradizione che si è attualmente stabilita su di essi per merito dei poeti ». Dal canto suo Erodoto sostiene che i Troiani non sarebbero stati tanto sciocchi da combattere dieci anni per una straniera. Non vi è dubbio, comunque, che nell'Iliade e nell'Odissea la guerra di Troia e le successive peripezie di Ulisse vengano narrate in modo leggendario. Ciò nondimeno, per la Grecia antica l'Iliade fu una specie di Bibbia; questo " libro dei libri ", praticamente, conteneva la storia di una razza con le sue tradizioni e le sue credenze, una specie di "diario " riassuntivo di un'epoca caratterizzata da guerre, migrazioni, scoperte, cioè da quella grande inquietudine da cui poi sarebbero nate e fiorite una grande civiltà e la nostra stessa cultura.

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Il lungo cammino dei poemi. Quando furono scritti i poemi omerici? Qualcuno sostiene che l'alfabeto, in Grecia, sia stato introdotto tra la metà del IX e la metà dell'VIII secolo a.C.; e c'è chi data una prima trascrizione dell'Iliade e dell'Odissea verso la fine dell'VIII secolo. Più attendibile appare chi indica la redazione scritta dei poemi verso la fine del VI secolo. Secondo Cicerone, fu Pisistrato a raccogliere e ad ordinare i canti sparsi di Omero nella forma pervenuta, appunto, a lui. Quale fosse questa stesura, non sappiamo. Sappiamo però che fu nel periodo alessandrino che vennero raccolti e conservati finalmente in una grande biblioteca, ad Alessandria, i capolavori del pensiero e della poesia greca, che vennero copiati da schiavi e commentati da eruditi. In quello stesso periodo fu tradotto dall'ebraico al greco l'Antico Testamento e, come si diceva, venne fissato il testo definitivo di Omero. Fino a quel momento i poemi omerici avevano avuto una notevole fluidità. Per molti secoli essi vennero narrati e tramandati per via orale, con tutto ciò che ne consegue. I dati del conflitto - il catalogo delle navi, la quantità dei combattenti di ciascuno stato confederato, i nomi dei condottieri, gli episodi - furono raccontati dagli aedi. Gli aedi recitavano " a mente ". In Grecia, la memoria era considerata un'arte, un dono divino. Essa fu certamente fondamentale per la trasmissione della cultura più antica. Nella Grecia antica, all'aedo, all'indovino e al medico spettava, non a caso, un posto di tutto rispetto. L'aedo prendeva parte ai banchetti dei principi, da cui era rispettato come un uomo divino, ispirato dalle Muse. La sua è una professione faticosa: deve sapere esercitare con arte il difficile artigianato della narrazione; è l'intermediario del mito. Quale ruolo giocasse l'aedo davanti a un vasto pubblico lo si capisce da moltissimi episodi dell'Iliade e dell'Odissea. Citiamone uno per tutti: 'l'episodio di Demòdoco riportato nell'VIII libro dell'Odissea. Ulisse è ospite di Alcìnoo. A Dcmòdoco subito si porti la cetra sonora, che certo nella mia sala è rimasta. Disse cosl Aldnoo pari ai numi; e l'araldo si alzò, a prender la concava cetra nella sala del re. Giudici scelti in campo - nove in tutto - s'alzarono,

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eletti fra il popolo: essi tutto disposero bene sul campo, appianarono il luogo, la bella arena allargarono. L'araldo arrivò portando la cetra sonora a Demòdoco; e questi venne nel mezzo e intorno dei [giovani

nel primo fiore gli stettero, i più esperti di danza, e battevan coi piedi il ritmo divino: Odisseo l'agile gioco dei piedi ammirava e stupiva nel cuore. Ed ecco tentando le corde intonò un bel cantare l'aedo ...

Dunque un vero e proprio rito, in cui l'aedo è l'officiante, il sacerdote. Va detto che al tempo in cui l'Iliade e l'Odissea furono redatte, i rapsòdi non cantavano più, ai banchetti dei signori, accompagnati dalla lira, ma - nel corso delle feste del bacino dell'Egeo - cantavano le imprese mitiche al popolo; essi comunque si appoggiavano a un bastone, il bastone della consacrazione divina. Erano sacri. Gli aedi, ovviamente, cercano di "conservare " i poemi nella forma in cui l'hanno ereditata dai padri, ma debbono anche adeguarli ai tempi che cambiano. Oltretutto, a volte ricordare come andavano le cose in epoche ormai lontane non è facile. Per esempio, com'era, un tempo, la tattica bellica? Quali armi venivano usate? I poemi omerici citano armi di momenti storici diversi: col trascorrere dei secoli, il vecchio e il nuovo si fondono. E col tempo, probabilmente la narrazione si arricchisce anche di storie " nuove ", non necessariamente attinenti alla guerra di Troia. Le stesse forme linguistiche in cui i poemi sono composti - come ha dimostrato l'analisi filologica - si richiamano a diverse età. Con molta probabilità l'Iliade e l'Odissea non sono che parti di una più vasta produzione epica andata in buona misura perduta. Certo è che gli aedi da una parte tennero fermi alcuni punti di riferimento epici, dall'altra modificarono e aggiornarono i racconti per farli aderire meglio alle nuove realtà sociali e culturali. Non si dimentichi che i poemi omerici cosl come sono stati redatti per la prima volta riassumono una produzione poetica di mezzo millennio. « Il poeta epico - ha scritto uno studioso, Fausto Codino non inventa liberamente i suoi caratteri, non attinge esclusivamente alla propria esperienza e fantasia, e non può svolgere i suoi racconti su carta bianca: egli tiene nella memoria

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un r~pertorio di temi fissati fin nella forma linguistica, e su quelli lavora. Conservando, s'intende, la facoltà di scegliere e combinare a proprio gusto». Il poeta antico riprende e riporta dalla tradizione orale versi, gruppi di versi, interi episodi, scene tipiche; ma aggiunge e modifica. Cosl, nel tempo, i poemi subiscono l'influenza di molte culture dell'Ellade, minoica, indoeuropea, micenea, orientale dell'Asia Minore, di Fenicia, di Babilonia e d'Egitto. Molte prove archeologiche dicono che le arti e i mestieri dell'oriente hanno avuto largo impiego tra i popoli del bacino mediterraneo; ma le origini della letteratura europea testimoniano una società non orientale. Dai poemi omerici traspare, sulle coste orientali del Mediterraneo e verso il 1200 a.C., una civiltà occidentale con caratteristiche diverse da quelle orientali. Nelle valli dell'Eufrate e del Nilo erano fiorite civiltà assai progredite dove il sapere aveva un posto d'onore. In Mesopotamia, quando l'Europa era ancora incolta, venivano studiate la geometria, l'astronomia, l'ingegneria, l'agrimensura; qui, tremila anni prima di Cristo, l'arte dell'intaglio, dei gioielli, degli scrigni aveva raggiunto altissimi livelli. Tuttavia va notato che l'universo dell'Egitto e della Mesopotamia è statico, basato su un potere assoluto, dispotico, autoritario, mentre quello dei guerrieri, dei rapsòdi, persino dei pirati e degli avventurieri del mondo omerico è libero, inquieto, pieno di curiosità. Non dimentichiamo che è da questo mondo che nascerà, come s'è detto, la nostra civiltà. Che i poemi omerici mescolino materiali di varie provenienze e di età diverse lo dimostrano molte cose. Abbiamo già accennato alle difformità linguistiche, alla diversità delle armi; non mancano contraddizioni nei contenuti e diversi sono persino i principi etici degli eroi. Non parliamo poi dei dei: a volte pieni di autorità, altre volte ridicoli e meschini, altre volte ancora persino maltrattati dagli esseri umani, le loro azioni non sono mai ispirate da precisi canoni di giustizia ma dettate dal capriccio, forse ad immagine delle società che attraversano. Né va sottovalutato che i poemi passano attraverso un'epoca molto affascinata dalle navigazioni, dai commerci, in cui si assecondano i racconti fantastici - a volte raccapriccianti - dei marinai che hanno conosciuto mari e luoghi lontani, ai confini del mondo. Tutto confluisce nel lento e secolare cammino dei poemi omerici. Naturalmente non mancano interpretazioni diverse sui

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poemi omerici. Qualche studioso ravvisa in essi la trasposizione di antichi riti religiosi che vanno dal neolitico alla prima età dei metalli. La guerra di Troia raccontata da Omero non sarebbe altro che un mixage tra episodi storici veri e riti di origine cerimoniale in quanto Ilio, l'altro nome di Troia, sarebbe stato luogo privilegiato di riti (iniziatici e stagionali, aristocratici e regali): riti nei quali i combattitimenti con le armi potevano essere nient'altro che sacre rappresentazioni liturgiche, forme di danze guerriere. I guerrieri allora non sarebbero altro che personaggi di queste sacre rappresentazioni di morte e di rinascita, magari ispirati a personaggi storici. Tutto è possibile. Non ha detto forse Aristotele che è stato soprattutto Omero a insegnare agli altri poeti a raccontare, nel modo giusto, le cose non vere? Bisogna - dice Aristotele - preferire l'impossibile verosimile al possibile incredibile. I poemi omerici sono e restano un universo misterioso. La società e i personaggi.

Fatte queste premesse, avviciniamoci di un passo all'argomento principale di questa conferenza. E innanzitutto diamo un'occhiata all'ambiente, alla società, allo spirito, alle tipologie dei personaggi dell'universo omerico. L'ambiente, come s'è detto, rassomiglia ovviamente più all'epoca della stesura scritta dei poemi che a quella che li aveva generati. Intanto perché di quell'età molto si era perduto, in 500 anni; e poi perché, in questo modo, diciamo così, i poemi venivano attualizzati, resi persino più credibili e storicizzati. Di massima, il clima che si respira nei versi omerici allude ad una fondamentale gioia di vivere, ad un alto senso di dignità umana, a una diffusa volontà di affermare la propria personalità e a una notevole dose, generalizzata, di curiosità, di piacere dell'avventura. L'uomo dei poemi omerici è libero e, sostanzialmente, felice. Gli dei - a loro volta - assomigliano più ad uomini, sia pure scomodi e pericolosi, che agli animali mostruosi in cui la deità viene rappresentata in paesi come l'Egitto o l'India. Quella di Omero, poi, è una mano felice nel tratteggiare

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i personaggi.Citiamo ancora Aristotele, che lo reputava un poeta divino. Secondo lui la grandezza di Omero sta nel fatto che dopo qualche parola di preambolo egli introduce subito un uomo o una donna o qualche altro personaggio, e tutti hanno una loro caratterizzazione, e nessuno ne è privo. I personaggi omerici sono moltissimi; eppure, effettivamente, ciascuno di essi è in sé compiuto, riconoscibile, anche se è soltanto una " comparsa " (come Licaone, o Bellerofonte). Ciò si dovrebbe, secondo un'altra studiosa di età antiche, Anita Seppilli, al fatto che ciascuno di questi personaggi « ha dietro di sé un mito, che si sarà formato attraverso i secoli, forse i millenni, ed i cui fattori umani si sono incisi e sublimati nella visione, umanizzata, di un fatto prototipico del mondo, e della spinta a significarlo in sentimenti ed azioni di uomo ». Altra grande maestria di Omero: la capacità di " coinvolgimento " immediato del lettore, l'efficacia nella narrazione. Giustamente dice Orazio, nell'Arte poetica: « Omero ( ... ) trasporta l'uditore nel mezzo degli eventi come fossero noti e trascura quel che non spera possa risplendere se mai lo trattasse; e inventa e mescola il finto col vero in maniera tale che dal principio non discordi il mezzo né dal mezzo la fine ». I valori che più contano per l'uomo dei poemi omerici sono quelli della società aristocratica della Ionia: il coraggio, l'astuzia, la magnanimità, la bellezza, la forza fisica, il nome e i possessi materiali. Egli aspira alla fama, all'ammirazione, ai riconoscimenti. Peleo dice al figlio Achille che dev'essere sempre " il primo ". La consuetudine delle gare, l'agonismo molto sentito, diventano, cosi, più che comprensibili. Il matrimonio è difeso come strumento per la conservazione dei titoli nobiliari, del nome, dell'ordinamento aristocratico; la moglie legittima viene protetta, però l'uomo può regalarsi qualche " scappatella ". A volte le amanti hanno il prestigio di una vera e propria moglie, come accade - nel1'Iliade - a Criseide, considerata da Agamennone uguale a Clitemnestra per bellezza e doti spirituali; e a Briseide, che Achille tratta come una legittima sposa e ama molto (è la lite con Agamennone per il possesso di questa schiava a provocare il ritiro di Achille dalla guerra per un lungo periodo, episodio dal quale nasce appunto l'Iliade).

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Le donne hanno la direzione della casa e della servitù, tessono o filano chiacchierando con le ancelle, .generano e allevano la prole. Partendo per la guerra, Agamennone e Ulisse lasciano la guida dei loro regni alle mogli. Qualche volta, in casa, debbono tollerare qualche concubina; comunque, se da questa unione extra coniugale nasce un figlio, questi resta escluso dalla società aristocratica. Nelle case dei signori circolano molti servi, acquistati o catturati in guerra; i figli degli schiavi che servono in una casa da molto tempo sono però integrati bene nella famiglia, quasi ne fanno parte. Si pensi ad Eurlclea, vecchia ancella della casa di Laerte, padre di Odisseo, nutrice di Ulisse. Nel I libro dell'Odisseasi dice che Laerte l'aveva acquistata giovanissima, pagandola 20 buoi. Ma nella casa di Ulisse, quando Telemaco è ormai grande, è molto rispettata e non è certo trattata come una schiava. Nel libro XXII dell'Odissea leggiamo che Ulisse ha comprato 50 schiave. E nel VII libro, sempre dell'Odissea, è scritto che 50 ancelle erano in casa di Aldnoo: lavorano il frumento, tessono tele e girano i fusi « sedute, simili a foglie d'altissimi pioppi: / dalle tele in lavoro goccia limpido l'olio ». Nel XX libro dell'Odissea si dice che 12 donne, nella casa di Ulisse,. si avvicendano attivamente, per fare la farina d'orzo e di grano, alle macine. Insomma, al tempo delle monarchie micenee gli schiavi erano numerosi, mentre di scarsa rilevanza erano, invece, al tempo della stesura dei poemi omerici. Nei poemi omerici incontriamo poi dispensiere, araldi, scudieri, garzoni che spaccano la legna. Insomma, un mucchio di personale di servizio. Che in genere è legato e fedele al padrone: valga, come esempio per tutti, Eumeo, il fedele porcaro che aiuta Odisseo nella vendetta. Della struttura sociale micenea si sa poco. Ad esempio: in che maniera venivano reclutati gli eserciti? Qualcuno ha supposto che principi delle rocche dominassero sui villaggi circostanti: all'occorrenza, i contadini venivano arruolati. Ma questi contadini, erano liberi o schiavi? Chi costrul i sontuosi palazzi e le alte mura di Troia: liberi contadini o schiavi importati? Alle spalle degli eroi che si battono davanti alle mura di Ilio s'intravede poco delle loro case, delle loro famiglie, dei ceti sociali da cui provengono. Fausto Codino suppone che quella dell'Iliade sia « una società ancora semplice, quasi

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esclusivamente agricola, retta da un sistema democratico-primitivo che ha la sua espressione nell'assemblea, ma nella quale si delineano anche chiare le differenze economiche che preparano la proprietà privata della terra e lo stato aristocratico». Tutto ciò è molto attendibile. Certo è che il re dei poemi omerici è un '' primo tra principi uguali '', non un crudele despota orientale. Agamennone non ha poteri assoluti, spartisce il bottino di guerra con gli altri anche se fa un po' la parte del leone; comunque le divisioni le fa l'assemblea. Achille lo tratta veramente a cc pesci in faccia ", come si dice, lo minaccia persino, e lui non può far niente, neppure obbligarlo a riprendere il combattimento. Quest'ultima questione, secondo alcuni studiosi, proverebbe rimaneggiamenti profondi datati al tempo della stesura dei poemi poiché, dicono, la società micenea non avrebbe accettato un poema da cui trapelasse un potere monarchico debole e precario. Del resto, a parte i poteri limitati di Agamennone, non è certo un re miceneo Ulisse che, rientrato fortunosamente sul suolo patrio, non ha il diritto di appellarsi né al popolo, né alle leggi per essere restaurato sul trono: il potere se lo deve riconquistare privatamente, con la forza, assieme al figlio e a uno sparuto drappello di alleati. A grandi linee, i gruppi di personaggi dei poemi sono tre: gli dei, gli eroi e le donne. Quella degli dei, tutto sommato, mi sembra la componente meno nobile dei poemi: essi non sono, onestamente, molto edificanti. Capricciosi, arroganti, prepotenti, a volte velleitari, sul piano morale non son certo dei buoni esempi, giocano col destino degli uomini e delle città con cinismo infantile e superficiale insensibilità. Semmai l'aspetto più " positivo " che hanno sta nel fatto che sono cc umani ", partecipano da pari a pari alle vicende degli uomini e prendono parte ai loro sentimenti. Gli eroi sono, appunto, eroi, con tutti i pregi e i limiti degli eroi. A volte generosi e alteri, altre volte troppo vanitosi e persino un po' isterici. Attorno ai protagonisti, poi, ruotano soldatesche non sempre esemplari quanto a coraggio. Per esempio, per riferirci all'Odissea, quando la nave di Ulisse arriva all'isola Eèa, dove incontreranno Circe, memori, poveretti, delle recenti esperienze col Ciclope e con Antifàte, i compagni di Odisseo - che dovrebbero essere, tuttavia, rudi e ardimentosi guerrieri e marinai - non

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reggono, e per la paura « piangevano - dice il poema con grida acute, versando abbondanti lacrime»; Ulisse li divide in due squadre, si estrae a sorte e tocca a quella guidata da Eurllaco andare in avanscoperta. Ebbene, leggiamo: « Si mosse, dunque, e con lui ventidue compagni / piangenti; e noi singhiozzanti [è Ulisse che racconta] si lasciarono indietro ». Quando i compagni di Ulisse, dopo essere stati trasformati in porci, ridiventano esseri umani, accade una scena da melodramma: « Mi riconobbero essi, - narra Ulisse, - e ciascuno mi strinse la mano, / e in tutti, gradita, nacque voglia di pianto: la casa / terribilmente echeggiava; la dea stessa provavapietà • I In procinto di partire, ma appreso da Circe che dovrà ancorasubire molte peripezie, Ulisse scoppia in singhiozzi: « piangevo seduto sul letto», dice; poi si calma e: « Ma quando fui sazio di rotolarmi e di piangere ... •· In un altro punto, quando Ulisse dice ai compagni che devono andare all'Ade a interrogare l'anima di Tiresia, essi « seduti in terra piangevano e i capelli si strappavano ». Sl, molto spesso questi forti soldati diventano pecorelle smarrite. E questo, forse, è ciò che li rende veramente umani. Non c'è dubbio, comunque, che, sia pure nei limiti di spazio e di ruolo che i poemi omerici danno loro, il gruppo delle figure femminiH sia quello che esce con più dignità dalle mani di Omero. Ed è quanto, sulla base di un campione, andremo a dimostrare.

L'importanzadella donna. Vediamola, in una cornice storica, questa donna. Ma intanto ricordiamoci che essa ha conosciuto, in età molto lontane, momenti di grande prestigio e rispetto. Nel mondo antico elladico (fine del 3° millennio a.C.) ci furono certamente ordinamenti matriarcali nella vita pubblica e privata. A Creta la divinità principale è una dea-madre; intermediarie tra l'uomo e la divinità sono le sacerdotesse. I documenti archeologici dimostrerebbero che il palazzo di Cnosso e le abitazioni cretesi non avevano niente a che fare con gli arem, le donne non vi vivevano recluse e i quartieri riservati a loro

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erano " aperti ", accessibili, non cc riservati " e inaccessibili. Le donne, durante il giorno, siedono su basse panche e filano oppure prendono il fresco nei cortili interni, ma tutto lascia presumere che esse si mostrino in pubblico senza reticenza. Insomma, non sono confinate nei ginecei. E sembra, sempre dai reperti archeologici, che le terracotte le lavorassero sia gli uomini che le donne. Le ragazze, poi, venivano raffigurate alla guida di carri, redini in pugno: proprio come Nausicaa nell'Odissea. Si suppone che le donne andassero anche a caccia; e alcune pitture murali mostrano persino donne che esercitano il pugilato e fanno le toreador. Ne deriva che certamente le donne prendevano parte, come spettatrici, agli spettacoli: nei dipinti di Cnosso e di Micene sono rappresentate donne, che si cc pavoneggiano " sui palchi. Tra la donna orientale, che viveva praticamente in clausura, e quella dell'età minoica, c'è dunque una bella differenza! Questa condizione sociale con ogni probabilità si rifletteva anche sul piano giuridico e istituzionale. Non a caso le scene di fidanzamento mostrano uomini e donne della stessa altezza, uno di fronte all'altro, nell'atto di compiere il medesimo gesto: alzano entrambi il braccio destro e uniscono le mani. Del resto la donna aveva una posizione molto importante, anche nella società faraonica. Nei dipinti è rappresentata di dimensioni superiori all'uomo, il che farebbe supporre una società matriarcale. Alla donna si porta il rispetto che si deve alla generatrice, alla riproduttrice che permette alla stirpe di perpetuarsi; i suoi fianchi sono rappresentati, simbolicamente, molto larghi. L'endogamia era costume: la donna, cioè, per perpetuare la stirpe senza impurità, si sposa con. un uomo dello stesso sangue; il matrimonio tra fratelli è approvato e benedetto dagli dei. .. I Lici, che si presuppone discendessero dai Cretesi, portavano il nome della madre; le famiglie licene enumeravano la parentela in linea materna; e presso i Cari - anch'essi di discendenza cretese - le donne non definivano mai l'uomo con cui convivevano con l'appellativo di cc marito". Nel V secolo regnava una Artemide. Intendiamoci, la denominazione e la successione per linea femminile non coincide di fatto col potere femminile. Il culto della dea-madre non necessariamente deve coincidere col matriarcato. La donna può avere riconosciuto un ruolo

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fondamentale nella società, senza tuttavia esserne al vertice. Del resto, non dimentichiamo che nelle società arcaiche la donna, quasi sempre, si sposa giovanissima, il che non ne favorisce l'autorità; il capo della famiglia è il fratello maggiore. Certo è comunque che la donna cretese dovette godere di diritti civili importanti e di un prestigio sociale ampiamente riconosciuto. Non a caso i Cretesi, molto tempo dopo l'invasione dorica, non chiamano i loro paesi " patria ,, , ma " matria ". E se è vero che gli scavi archeologici hanno portato alla luce una grande quantità di statuette femminili e che la donna viene ritratta col seno scoperto, è anche vero che tutto ciò potrebbe ricollegarsi unicamente all'orgoglio della maternità (anche divinizzata) e non essere, necessariamente, la prova di un potere politico della donna. Omero doveva essere molto sensibile alla bellezza e al fascino femminili. La donna, nei suoi poemi, è trattata con stima e ammirazione; quando occorre, con indulgenza; . sempre con umana comprensione. Gettiamo una rapida occhiata ad alcune delle figure femminili della stupenda galleria omerica: Ecuba, la dolorante madre di Ettore; Andromaca, la sua fedele consorte, la compagna "ideale "; Tèti, alla quale la condizione di dea non toglie l'amarezza d'essere la madre di Achille, destinato a morire giovanissimo; Elena, talmente bella da causare addirittura conflitti. .. mondiali; Calipso, abbandonata malgrado i suoi poteri e le sue promesse di rendere Ulisse giovane e immortale; Circe, dea e maga, soggiogata da Ulisse ma anche lei incapace di trattenerlo; Nausicaa, fragrante nella sua ingenua malizia; Penelope, simbolo della casa e della famiglia, del luogo del ritorno ... E poi le dee " importanti": l'imperiosa Atena, alleata implacabile dei suoi protetti; Afrodite, seducente ma vile, lasciva ma a volte malvagia e persino un po' stupida; Era, la moglie di Giove, cui non basta la sua condizione di privilegio per sentirsi sicura, gelosa, irascibile, desiderabile ... Tra le donne legate al mondo omerico, in fondo l'unica figura negativa è Clitemnestra: moglie di Agamennone, lo tradisce mentre egli è in guerra e, al ritorno da Troia, lo fa uccidere dal suo amante, Egisto; cadrà poi vittima della vendetta del figlio Oreste. Nei poemi omerici la donna non è mai confinata in casa, ma ha la massima libertà di movimento e di espressione.

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Elena, appreso che i suoi due mariti - Menelao e Paride si battono in duello davanti a Troia, esce di casa e corre sulle mura per seguire il combattimento; inoltre, dimostrando un notevole acume militare, a un certo momento consiglia Ettore di riunire l'esercito vicino al fico, perché là le mura sono più deboli e, stando ad una profezia, è da prevedere in quel punto l'attacco nemico. Andromaca, quando viene a sapere della disfatta troiana, in preda al panico si lancia, col bambino in braccio, verso le porte della città; Arète, moglie di Alclnoo, signore dei Feaci, gira liberamente, rispettata e riverita, per la città; e persino una ragazza ancora giovanissima e molto graziosa come Nausicaa può recarsi da sola, sia pure accompagnata dalle cameriere, addirittura guidando da sé il carro, a fare il bucato sulle rive del fiume, in un luogo abbastanza distante dalla residenza paterna. :8 vero che marito e moglie abitano in appartamenti separati: lui, in genere, al pianterreno, lei al primo piano; ed è vero che essi hanno anche i bagni separati (e questo, sembra, perché si riteneva che se l'uomo si fosse immerso nella tinozza della moglie, avrebbe contratto non si sa bene quali dolorosi, anche se passeggeri, fastidi); ma le donne non sembra soffrano molto di questa divisione, anzi... Nei loro appartamenti hanno belle tinozze di metallo; le loro stanze sono riscaldate da focolari che vengono lasciati accesi anche d'estate, per far luce (quando è molto freddo, comunque, ci si ripara ungendosi di olio). La camera nuziale, comunque, è quella posta nell'appartamento del marito. I coniugi non mangiano insieme e la donna non è ammessa ai banchetti degli uomini. Lei consuma i pasti nella sua camera; però, subito dopo, raggiunge gli uomini e prende parte liberamente alle conversazioni, delle quali, anzi, spesso è l'animatrice. Durante il giorno, non le manca il da fare: tesse, fila, ricama, dà ordini alla servitù, soprintende alla fattura del guardaroba di tutti i componenti della famiglia, si occupa diligentemente degli ospiti, che sono trattati sempre con estremo riguardo. Per loro fortuna, le donne sono esentate dalla preparazione dei pasti: sono gli uomini ad arrostire le carni. Le donne, semmai, preparano la farina, l'orzo, il pane; e possono cuocere i bolliti e i legumi. Naturalmente, le donne fanno e ricevono visite, per le

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quali c'è tutto un rituale molto ricercato, improntato alla massima distinzione. La scena madre è quella della visita di Teti a Efesto. Siamo a livello "divino", ma poiché, come· è stato detto, la vita degli dei, in Omero, non è che la proiezione di quella degli uomini, possiamo dedurne che il cerimoniale descritto in questo episodio è quello che era in uso nella "buona società,, del tempo. Charis, la moglie di Efesto, va incontro a Teti, l'accoglie con grande gentilezza, la prende per mano, le chiede la ragione della visita, la fa entrare in casa e sedere in un trono d'argento, pone sotto i suoi piedi, per farla stare comoda, un panchetto, poi chiama il marito: che venga subito, Teti ha bisogno di lui! Le donne sono molto femminili, nei poemi omerici, ma estremamente pudiche nell'acconciarsi e nell'abbigliarsi. Amano, naturalmente, i gioielli, e gli uomini li donano loro, in omaggio alla loro bellezza. Quando i Proci decidono di fare qualche regalo a Penelope, le portano oggetti di grande valore: un magnifico peplo ricamato, guarnito di dodici fibbie d'oro; una collana d'oro e di ambra; due pendenti di tre perle, « grossi come le more», dice testualmente il poeta; un cerchio da collo ricamato... Era non sottovaluta la propria toilette per esercitare la massima seduzione su Giove. Chiusa nella propria stanza, si " fa bella ". Però non esagera: indossa soltanto un bel paio di orecchini e fibbie d'oro. Insomma è parca, non si sovraccarica d'oro, forse per non farsi dare di gretta e d'esibizionista dalle altre dee, in linea con i principi della più raffinata eleganza. Gli abiti delle donne omeriche non mettono in risalto le loro forme. Però sono ricavati da stoffe molto pregiate, morbide lane e freschi lini, stoffe leggere e ricche. I vestiti " alla moda " sono il chitoni, l'abito di tutti i giorni, una tunica semplice e dritta, lunga o corta a seconda dell'età di chi la indossa; questo abito viene portato sia dalle donne che dagli uomini. C'è poi l'eanòs, l'abito da cerimonia o da festa, ampio e lungo, drappeggiato e plissettato, per le donne dell'alta società; e c'è poi il péplo, un abito ampio, ricamato. Alla vita, una cintura; sulle spalle, il pharos, una stoffa usata a mo' di mantello. Sul capo, un velo. Ai piedi le donne calzano semplici sandali fermati alle caviglie con dei lacci. Dunque un abbigliamento estremamente sobrio, elegante ma mai sontuoso e appariscente, sciolto e agile,

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in cui è la qualità delle stoffe unita alla eleganza del portamento, allo splendore dei pochi gioielli con cui la toilette

viene completata, che conta, non il taglio dei vestiti. La condizione di sposa dà alla donna un posto di primo piano nella casa del marito. Una prova classica di questa dignità e di questa autorità la troviamo nel Libro VII dell'Odissea, quando Atena parla a Ulisse di Arete, moglie di

Alcìnoo: ... questa Aldnoo fece sua sposa e l'onorò, come nessuna sulla terra è onorata, fra quante donne reggono ora una casa, sottomesse al [marito, tanto di cuore è stata onorata ed è ancora dai figli suoi, da Aldnoo medesimo, e dal suo popolo, che, come un nume guardandola, con saluti l'accoglie quando passa in città. Né certo manca di nobile senno, e a quelli che ama, anche principi, appiana contese. Se lei, dunque, è ben disposta nell'animo, allora spera di rivedere gli amici e tornare all'alta casa e alla terra dei padri.

Arete rappresenta il massimo di prestigio che può avere una sposa, quanto non ne ha neanche Penelope nonostante la sua notevole personalità e la sua esemplare condotta morale (ogni tanto il figlio Telemaco la rimbrotta, ricordandole che il vero padrone di casa è lui). Nausicaa consiglia Ulisse di chiedere aiuto a lei, che tra l'altro giudica i propri sudditi. Come abbiamo accennato, al tempo di Omero gli uomini potevano, si, avere delle concubine, ma avevano diritto a una sola moglie legittima, che dovevano sposare regolarmente, e non potevano comprarla. Una volta maritata, la donna non diventava proprietà del marito. Questi comunque poteva punirla, ripudiarla, persino ucciderla se lei lo tradiva: ma doveva stare molto attento a non suscitare la reazione e la vendetta della famiglia della moglie perché questa restava, sostanzialmente, sotto la protezione della famiglia paterna. Il fatto che la camera da letto del principe fosse tra quelle delle donne certo facilitava, per lui, la possibilità di qualche scappatella extra coniugale. Ma non erano tutte rose. Molto spesso la moglie legittima non subiva il tradimento,

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e allora erano guai seri anche perché poteva accadere che lei si ribellasse alla situazione con l'appoggio dei figli. Anche a parte questo, comunque, come sempre la gelosia della moglie era un grande ostacolo per l'uomo. Laerte, come s'è visto, aveva comprato la giovane e graziosa Eurìclea, discendente da un'ottima famiglia, e volentieri avrebbe flirtato con lei; ma aveva dovuto rinunciare, dice Omero sorridendo, per evitare scenate della moglie Antlclea: E come sposa fedele l'onorò nella casa, ma non le s'unl mai di letto, ché l'ira della sua sposa [evitava.

Tuttavia non si dimentichi che la possibilità, per l'uomo, di avere qualche concubina, aveva anche un fine pratico e utile: ciò evitava un eccesso di figli legittimi e, quindi, un'eccessiva frantumazione del patrimonio familiare (i figli illegittimi non avevano diritti ereditari). Contemporaneamente, un figlio illegittimo poteva sostituire l'erede nel caso in cui questi morisse ed essere utile quando la sposa legittima non riusciva a dare al marito un maschio. Elena, come si sa, aveva avuto soltanto una figlia, Ermione: dovette perciò accettare che Menelao avesse un figlio maschio da una schiava. Il IV libro dell'Odisseasi apre proprio con un banchetto nuziale nella casa di Menelao. La cerimonia interessa sia sua figlia che suo figlio. La figlia viene inviata in sposa al figlio di Achille, per una promessa fatta sotto le mura di Troia; il figlio Megapente impalma una ragazza di Sparta: ... Megapente forte, che molto amato gli nacque di schiava: perché stirpe non diedero a Elena i numi dacché partod l'amabile figlia, Ermione, che la bellezza aveva dell'aurea Afrodite.

Qualche problema sorgeva a volte con la vedovanza della moglie. La donna restava custode della casa e depositaria dell'autorità, ma il padrone diventava il figlio maschio primogenito. Potevano nascerne conflitti di potere; anche in considerazione del fatto, come s'è detto, che la donna restava molto legata alla famiglia paterna. L'Iliade cita un caso tipico, la storia di Melèagro, eroe dell'Etolia. Gli Etòli entrano

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in guerra con i Cureti: i primi difendono Calidone, città dell'Etolia. La madre di Melèagro, Altea, è una Cureta. Melèagro uccide il fratello della madre e questa, prese le parti della sua famiglia d'origine, invoca dagli dei la morte per il figlio! La difesa e la trasmissione del patrimonio al figlio cadetto era molto importante e ben tutelata; la sposa ne era una privilegiata intermediaria. Quando Ulisse parte per la guerra di Troia, affida a Penelope la cura del patrimonio familiare; ma - le dice - qualora egli morisse, lei attenda che il figlio sia grande, quindi gli trasmetta i suoi beni e lasci la casa, magari risposandosi. Lo riferisce la stessa Penelope, nel XVIII libro dell'Odissea,a Eurlmaco, quando gli ripete quanto le disse il marito prima di lasciarla: ... non so se un dio mi farà ritornare, o se sarò preso laggiù a Troia; a te qui, dunque, tutto stia a cuore. Pensa al padre e alla madre, qui nel palazzo, come ora e anche più, quand'io mancherò. E poi, quando al figlio vedrai spuntare la barba, sposa chi vuoi, questa tua casa lasciando. Penelope è sul punto di subire questa decisione, sia pure controvoglia, tant'è che aggiunge: Notte verrà, che odiose nozze mi toccheranno, sciaguratache sono, ché Zeus ogni gioia mi tolse. Per capire fino in fondo quanto potesse essere importante la difesa e la trasmissione del patrimonio familiare, si pensi che a Sparta si arrivò al punto che la moglie del primogenito diveniva anche la moglie dei suoi fratelli. Il risultato, però, fu che la donna divenne, col tempo, la vera padrona del patrwonio e capo-famiglia, tanto che gli uomini non potevano nemmeno possedere metalli preziosi. Insomma, la ricchezza di Sparta fu conquistata dalle donne ... La donna diventa " sposa legittima " grazie ad una serie di cerimonie abbastanza complesse. Ma intanto, a che età ci si sposava? L'età ideale per l'uomo erano considerati i trent'anni, la donna doveva avere compiuto i 16 anni. Il oadre, quando aveva deciso di fare sposare una figlia, lo face-

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va sapere in giro: che i pretendenti si facessero sotto e presentassero le proprie credenziali. E questi infatti arrivavano alla casa del probabile suocero, portando viveri a lui e bei regali alla ragazza. Il futuro suocero li ospitava magnificame-nte,anche a lungo, e cercava di conoscerli per scegliere tra loro quello che reputava più adatto alla figlia. Nella casa dd. probabile suocero si banchettava, si parlava, si cantava, si danzava, si facevano gare. Tutto serviva al padre della ragazza per capire con chi aveva a che fare. Una volta che questi aveva scelto, il genero faceva dei bei regali al futuro suocero e questi assegnava una dote alla figlia: nel caso in cui lo sposo l'avesse ripudiata, assieme alla ragazza doveva restituire, naturalmente, anche la dote. E cosl giungeva il giorno delle nozze. Il padre della sposa offriva un ricco banchetto. A sera la ragazza, su un carro, si trasferiva nella casa dello sposo, accompagnata da un corteo che portava delle torce. E qui iniziava la parte forse più .complessa della " cerimonia ". Veramente non si sa molto della "prima notte'', ma sembra che le cose non filassero tanto lisce e che la consumazione del matrimonio non fosse una cosa semplice, nella Grecia primitiva. Nel mondo antico, infatti, c'erano molte superstizioni su ogni " novità ", su ogni nuovo essere, su ogni " prima volta ", su cui si pensava che pesasse una proibizione divina. t perciò immaginabile il complicato rituale simbolico che veniva messo in atto, all'inizio della "luna di miele", per eliminare o raggirare i pericoli collegati con la violazione della proibizione, per sfuggire alla maledizione che poteva discenderne, per mettere l'animo in pace ai numi tutelari di ogni inaugurazione, e quindi anche gelosi custodi della verginità. Il novello sposo è colui che apre la via violando la proibizione, perciò rischia grosso! Esempio di questa intricata vicenda è il rituale della notte di nozze spartana, nel quale troviamo molti echi di quanto dicevamo, cosl come viene riferita da Plutarco. Alla sposa, una volta arrivata nella casa del marito, viene rasato il capo; quindi la si fa. vestire da uomo, viene fatta salire su un materasso e lasciata al buio. Lo sposino cena, come al solito, con i commilitoni, quindi la raggiungedi soppiatto, la porta su un altro letto, consuma il matrimonio e se ne va a dormire in tenda, come di consueto. Questa storia d'incontrare la sposa di nascosto sembra si prolungasse - a volte - anche per molti mesi.

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Riflettendo su questa usanza uno studioso francese, tmile Mireau:x, che ha studiato a fondo la vita quotidiana al tempo di Omero, scrive: « Gli antichi studiosi dell'epoca classica consideravano questo modo di fare una conseguenza della rigorosa disciplina militate spartana, ma si tratta di una spiegazione insufficiente poiché non spiega né il travestimento maschile della donna, né il suo trasferimento clandestino da un letto all'altro prima della consumazione del matrimonio. Siamo propensi quindi - aggiunge il Mireau:x - ad intravederci la sopravvivenza di antichi usi rituali atti a eludere la vigilanza di guardiani gelosi della verginità e a salvare il rapitore dalle conseguenze del suo atto. Non meravigli quindi - commenta ancora il Mireaux - di ritrovare queste usanze proprio a Sparta, la città più conservatrice di tutta la Grecia». (1)

1 ( )

Molto diversada quella omerica è l'immagine della donna che ci viene dalle opere di un poeta forse contem__poraneodi Omero, Esiodo. Sposando il mito di Prometeo e di Pandora, Esiodo " spiega " il problema dell'origine della necessità del lavoro e della presenza del male nel mondo proprio attribuendone le cause alla donna. Secondo il mito, Prometeo, con il consenso della dea Atena, formò gli uomini a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l'acqua del Panopco, un fiume della Focide. Egli insegnò inoltre agli uomini l'architettura, l'astronomia, la matematica, la medicina, l'arte di lavorare i metalli e della navigazione, e tante altre arti - tutte apprese da Atena. In tal modo, fece irritare Zeus, che invece voleva distruggere il genere umano. Come se non bastasse, sempre ricorrendo ad Atena, Prometeo riusd ad entrare nell'Olimpo dove accese una torcia al carro del Sole, ne staccò una brace ardente che nascose nel cavo del gambo di un gigantesco finocchio e in tal modo restitul il fuoco agli uomini. La vendetta di Zeus non tardò. Egli fece fabbricare ad Efesto una donna di creta e ordinò ai venti di soffiare in essa la vita e a tutte le dee dell'Olimpo di adornarla. Nasce cosl Pandora, la donna più bella del mondo ma stupida, malvagia e pigra. Zeus la manda in regalo a Epimeteo, fratello di Prometeo; ma questi, messo in allarme dal fratello che gli ha sconsigliato di accettare doni da Zeus, la rifiuta; Zeus allora fa incatenare Prometeo ad una vetta del Caucaso: un avvoltoio prende a divorargli il fegato. Epimeteo, addolorato, sposa Pandora. Appena involata a nozze, Pandora, per curiosità, apre il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo con la raccomandazione di conservarlo sempre chiuso; e ne escono tutti i mali che affliggeranno la terra: la vecchiaia, la fatica, la malattia, la pazzia, il vizio, la passione. Per fortuna, anche la speranza, che impedisce agli uomini di suicidarsi per il dolore che costa loro vivere. Attraente, civettuola, impudente, di indole scaltra, menzognera, Pandora appare cosl come l'incarnazione e il simbolo del male. Leggiamo in

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Le protagonistedell'Iliade. Le figure femminili più importanti dell'Iliade sono quattro: Elena, causa della guerra; Andromaca, moglie di Etto-

re; Ecuba, madre di Ettore; e Teti, dea marina, madre di Achille. Elena è certamente la donna più seducente dei poemi e anche la più complessa. In lei sembra racchiuso tutto il mistero della femminilità, diresti che la bellezza e il rango da cui proviene le consentono di passare attraverso le bassezze della vita, attraverso le vicende passionali che ha provocato, indenne, tant'è vero che, dopo la guerra, la ritroveremo reinsediata nella pace del focolare domestico della casa di Menelao, che con la forza delle armi se l'è ripresa. I poemi omerici, in sostanza, quasi " esistono ,, per via

Teogonia: Di lei Infatti

~

la 1tirpe nefuta e la razza delle donne,

che, edqura pude

per

i mortali, fra ali uomini banno dimora.

Dall'apparizionedi Pandora,ha fine la pace dell'uomo: Prima Infatti 90Pra la terra la stirpe degli uomini viveva lontano e al riparo dal male, e lontano dall'apra fatica, da malattie dolOl'OIC che &aliuomini ponan la morte

- veloci Infatti Invecchiano i mortali nel male -. Ma la donna, levando con la 1111 mano dall'orcio il grande coperchio, li diapene, e agli uomini procurò i mali che causano pianto.

Non è mancato chi ha difeso Esiodo contro le accuse di misoginia per la verità molto diffuse. In realtà, dicono i suoi difensori, egli avrebbesolo registrato che l'infelicità dell'uomo discende dai capricci e dalla vendicatività di una divinità, la donna sarebbe cioè innocente strumento punitivo nelle mani di Zeus. Ma il fatto è che Esiodo calca molto la mano sulla pretesa " inferiorità " della donna. Leggiamo, per esempio: -

La tua mente non reati ingannata da una donna col sedere adornato,

che darla aeducente: coatel il tuo granaio ricerca; chi della donna ai fida al fida del ladri. ..

E ancora: Prima di tutto una cua, wia donna e un bue da lavoro; ma una donna comprata, non aposata, che poaa aquire i tuoi buoi ...

Esiodo consiglia ancora di prendere « una serva, ma priva di figli ,.,

l>CttM« cattiva è la serva che ha figli ,. in quanto, ovviamente, questi deb-

bono mangiare. Esiodo insiste troppo, sottolinea troppo la visione demoniaca della donna, per non essere accusato di misoginia. La donna che traspare dallasua poesia viene usata come bestia da lavoro, è vista come una grossa sventura, capace solo di inganni; il suo ruolo è sempre irrilevante, esat• tamcnte al contrario di quanto avviene nel mondo della poesia di Omero, in cui la donna è spessissimo il sale della narrazione.

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di una donna. E qui le cose si complicano un po', perché tutto ciò non è casuale: Elena non è soltanto una creatura dell'epos, è anche una figura del culto, una sofisticata presenza nel mondo antico. Tant'è vero che a Sparta era venerata come eroina e le erano stati dedicati due templi. Gli scavi hanno riportato alla luce uno dei due templi, attribuito all'età micenea arcaica: qui sarebbero stati sepolti Elena e Menelao. In età arcaica, Elena era collegata con la vegetazione. A Rodi c'era un tempio dedicato a lei: secondo la tradizione, morto Menelao lei si sarebbe impiccata a un albero nelle adiacenze. L'albero sarebbe stato un platano, sacro ad Elena. Teocrito, nell'epitalàmio ad Elena, narra che un tempo le fanciulle cantavano di volere appendere al platano sacro una ghirlanda di loto, di voler versare olio e scrivere sulla corteccia : « lo sono l'albero di Elena». Sembra che quello di scrivere il proprio nome sulla corteccia di un albero fosse un rito matrimoniale spartano. Elena è poi collegata con l'acqua: a Corinto, le era sacra una sorgente termale, in cui la dea s'immergeva. Ad Argo, invece, era in rapporto con divinità infere. Nelle tradizioni locali le venivano attribuiti parecchi mariti. Elena era anche interpretata come Luna; e, come divinità matrimoniale, le spettava la fiaccola. Concludendo: Elena, il cui nome ha lontane radici nel mito, era in rapporto con la vegetazione e col platano sacro, era divinità matrimoniale, la tradizione la voleva molte volte rapita e riconquistata, è legata all'acqua e agli inferi, è figura lunare; ed è stupenda. Il suo contatto con l'acqua, nel mito, è molto di più di un semplice rito di purificazione, è un rito di rigenerazione, di morte e di rinascita. L'acqua dei ruscelli era considerata acqua infera perché proveniente dalle viscere della terra. Ed è legata alla guerra, cioè, appunto, alla morte. Il coro delI'Agamennone di Eschilo dice: « Chi dunque, se non qualche Invisibile, che nella sua preconoscenza fa parlare alle labbra la lingua del destino, diede questo nome cosl veritiero alla sposa, che circondano la discordia e la guerra, ad Elena. Ella è nata, in effetti, per perdere i vascelli, gli uomini e le città ... ». Ed anche Plutarco narra che il rapimento di Elena da parte di Teseo, nel Teseo, appt11'1to,« accese la guerra in Africa e fu causa della di lui morte ». Come si vede, questo nome, questa figura, questa guerra

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vengono di lontano. Tuttavia Elena, nell'Iliade, non è più una dea ma anzi, è un personaggio molto umano, coinvolto in vicende sociali e umane drammatiche. C.erto da lei emana un fascino irresistibile se gli stessi anziani di Troia, nel III libro, non possono evitare di esprimere aperte parole di ammirazione: Essi dunque videro Elena venire verso la torre, e a bassa voce l'un l'altro dicevano parole fugaci: • Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri [robusti per una donna simile soffrano a lungo dolori: terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali! '.

Elena è ormai consapevole della gravità di quanto sta accadendo attorno a lei. Sempre nel III libro dell'Iliade,rivolgendosi al vecchio Priamo con grande rispetto, dice: Tu sei per me venerando e terribile, suocero mio. Oh se mi fosse piaciuta morte crudele, quando qui il figlio tuo ·seguii, lasciando talamo e amici, e la figlietta tenera, e le compagne amabili... Ma non avveMe cos{, perciò mi struggo a piangere.

Nelle parole di Elena, un chiaro velo di rimorso. Quando poi, nello stesso libro, Afrodite, dopo aver salvato Paride, le intima di tornare a casa, dove il suo amante l'aspetta a letto, Elena ha un vero e proprio moto di ribellione che rivela tutto il suo senso di dignità: vacci tu, le dice in sostanza, anzi, non tornare più alPOlimpo, soffri accanto a lui, custodiscilo, finché ti faccia sua sposa o, anzi sua schiava! E aggiunge: ~ No, io non andrò là, sarebbe odioso, per servire il suo letto! Dietro di nie le Troiane tutte faraMo biasimo: pene indicibili ho in cuore.

Purtroppo dovrà soccombere alla reazione durissima e minacciosa della dea; ma quando, suo malgrado, avrà raggiunto il bel Paride, pazm d'amore e di desiderio, la sua lingua lo sferzerà senza pietà:

Sei tornato dallaguerra. Oh, se là fossi morto,

JO

Renio Ricchi vinto da un uomo forte com'era il mio primo marito! Ah ti vantavi che Menelao caro ad Ares con la forza, la mano, l'asta tua avresti vinto! Va', va' adesso, provoca Menelao caro ad Ares a combattere ancora in duello ...

E qui notate la svolta tenera e ambigua, non più accusatoria, quasi materna: . . . . . . . . . . . . . . . Ma io ti consiglio di smettere, col biondo Menelao non lottar corpo a corpo, non combattere, stolto, che troppo presto sotto l'asta sua tu non cada.

Completamente " stregato ,, da questa donna, per niente umiliato dagli avvenimenti, Paride, schiavo d'amore al punto da non aver più alcuna dignità, gli risponde, altrettanto teneramente: Donna, no, non straziarmi il cuore con dure offese. Ora vinse Menelao con l'aiuto d'Atena, un'altra volta lo vincerò io; anche vicino a noi ci son dèi. Ma su, sdraiamoci e godiamo l'amore. Mai cosl il desiderio avviluppò il mio cuore, neppure quando in principio, da Lacedèmone amabile ti rapii e per mare partii sulle navi, e nell'isola Cranae mi t'unii d'amore e di letto, tanto ti bramo adesso, mi vince la dolce passione.

Povero Paride! Egli, rapendo Elena, non supponeva certamente che il suo gesto avrebbe avuto le conseguenze tragiche che ebbe. I Cretesi avevano rapito Europa ai Fenici, gli Argonauti avevano rapito Medea dalla Colchide, gli Ateniesi avevano rapito Arianna da Creta, i Traci avevano rapito l'Ateniese Orizia - ma non per questo i loro popoli erano stati annientati e dispersi! Elena ha grande ammirazione per Ettore, l'uomo che rischia la vita per una colpa che non ha commesso, chiamato a difendere la patria per un capriccio del fratello, e glielo manifesta nel VI libro: Cognato mio, d'una cagna maligna, agghiacciante,

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Jl

ah m'avesse quel giorno, quando la madre mi fece, afferrato e travolto un turbine orrendo di vento, sopra un monte o tra il flutto del fragoroso mare; e il flutto m'avesse spazzato, prima che queste cose [ accadessero...

Elena è chiaramente tormentata, si sente in colpa, non assiste indifferente al cataclisma che la circonda, e le spiace che i più nobili debbano pagare per lei e per Paride. La sua ultima apparizione, nell'Iliade, è nel libro XXIV, quando partecipa ai lamenti funebri per Ettore ucciso. E lo fa con amara, addolorata partecipazione: Ettore, fra tutti i cognati il più caro al mio cuore,

( ...)

mai ho udito da te mala parola o disprezzo; anzi, se qualche altro mi rimbrottava in casa, o dei cognati o delle cognate o delle spose bei pepli oppure la suocera - il suocero sempre come padre fu [buono tu con parole calmandoli li trattenevi, con la dolcezza tua, con le tue dolci parole.

Ritroveremo Elena nell'Odissea, reintegrata nel suo antico status di moglie di Menelao. Nel IV libro, mentre Telemaco, ospite della sua casa, sta cenando, ella esce dalla sua « stanza odorosa » e li raggiunge: « pareva Artemide dalla conocchia d'oro », il tempo non passa su questa splendida donna. Poco dopo narrerà un episodio nel quale, diciamo cosi, era stata complice di Ulisse una volta che questi, sotto le sembianze di un mendicante, s'era introdotto dentro Troia e aveva ucciso molti nemici. Lei l'aveva riconpsciuto ma naturalmente non l'aveva tradito, anzi ne aveva goduto, dice, perché ormai aveva voglia di tornare indietro e piangeva la colpa che Afrodite l'aveva indotta a compiere facendole lasciare la figlioletta e il primo marito. Dunque Elena ancora una volta denota un pentimento. Va qui annotato che mentre l'antefatto ~ella guerra di Troia vuole che la donna fosse fuggita con Paride (portando seco anche i tesori del marito), nei poemi omerici si cerca poi di scagionarla, in qualche modo, accreditando l'opinione che fosse stata rapita.

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Andromaca è forse il personaggio femminile più toccante dell'Iliade, simbolo della sposa-amante, piena di ammirazione e di apprensione per la sorte del marito-eroe e madre dolce e preoccupata. Nel VI libro dell'Iliade c'è una indimenticabile scena. Ettore giunge a casa per salutare la moglie e il figlio, ma Andromaca non c'è: è corsa, disperata, sulla gran torre della città, col figlioletto, perché le hanno detto che i troiani sono stati battuti. Egli si slancia fuori e la raggiunge. Quando lo vede, Andromaca gli corre incontro piangendo, gli prende la roano: Misero, il tuo coraggio t'ucciderà, tu non hai compassione del figlio cosl piccino, di me sciagurata, che vedova presto sarò, presto t'uccideranno gli Achei, balzandoti contro tutti: oh, meglio per me scendere sotto terra, priva di te; perché nessun'altra dolcezza, se tu soccombi al destino, avrò mai, solo pene! .

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Ettore, tu sei per me padre e nobile madre e fratello, tu sei il mio sposo fiorente; ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre, non fare orfano il figlio, vedova la sposa;

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Viene veramente da chiedersi quanti milioni di donne, in tutti i tempi e in tutti i continenti, abbiano usato questo stesso linguaggio, queste stesse parole davanti ai loro uomini che " dovevano " partire per la guerra. Andromaca è una sposa innamorata, ha identificato il proprio destino con quello del marito e della famiglia che insieme hanno costituito. E infatti, sempre, in cima ai suoi pensieri c'è la preoccupazione per la sorte di Astianatte, ancor prima di quella per la propria. Il fatto è che la donna dei poemi omerici subisce, ma non accetta la logica della guerra. Per lei le parole " eroismo ,, , " forza ", " onore " sono meno importanti delle parole amore, famiglia, vita in comune, sereno scorrere dei giorni. Certo, ama l'uomo coraggioso, forte, deciso, ma non necessariamente armato. Ci fa venire in mente la famosa frase di Berthold Brecht: « Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi•·

Poemi omerici: croci e delizie della /emminilità

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La guerra, per la donna dei poemi omerici come per quella di tutti i tempi, significa ansia per il proprio uomo, incertezza per il futuro proprio e della prole, solitudine. Ed è singolare che, dalle bocche di queste donne, non esca mai una parola d'incitamento alla battaglia, neroroP.nodi augurio prima di una battaglia; spettasse ad Andromaca, decidere, Ettore rimarrebbe in casa. Al bellicismo maschile, insomma, corrisponde una sostanziale antipatia della ·donna per la guerra, il suo amore per la pace. . Ma andiamo al Libro XXII dell'Iliade e verifichiamo il livello di disperazione di Andromaca alla morte di Ettore. Ettore è morto da poco, ma lei ancora non lo sa. Piena di neri presentimenti, sta tessendo una tela ricamata. Il suo cuore pulsa pet il marito. Leggiamo questi stupendi versi, pieni di suspense: E comandava alle ancelle bei riccioli dentro la casa di mettere al fuoco il tripode grande, ché fosse pronto un caldo bagno per Ettore, quando tornasse dalla [battaglia, ignara. Ah non sapeva che molto lontano dai bagni per le mani di Achille l'aveva domato Atena occhio [azzurro. Ed ecco udl dal bastione singhiozzoe gemito: le tremaron le gambe, a terra le cadde la spola, e disse in fretta alle schiave dei riccioli: 'Qua, due mi seguano, che veda che cosa è accaduto. Della suocera veneranda ho udito la voce, e dentro di me batte il cuore nel petto fino alla gola, i ginocchi sotto son rigidi: un male incombe ai figli di Priamo. Ah! lontano dai miei orecchi sia la parola, ma temo atrocemente che Achille glorioso il mio Ettore audace abbia tagliato fuori dalla rocca, solo, e per la piana l'insegua e metta fine al malaugurato valore che lo possiede; mai resta indietro tra il folto degli [uomini, ma molto avanti si slancia e non la cede per furia a [nessuno'. Dicendo cosl, si precipitò fuori di casa come una pazza, col cuore in sussulto: le ancelle le tennero dietro. Ma quando giunse al bastione in mezzo alla folla, si fermò sulle mura, guardando febbrile, e lo vide trascinato davanti alla rocca: i cavalli veloci lo tiravano senza pietà verso le concave navi degli Achei.

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Una notte di tenebra coperse i suoi occhi, e cadde indietro e quasi spirava la vita: le bende splendenti scivolarono via dal capo, lontano, il diadema, la rete, il cordone intrecciato, il velo, che le donò l'aurea Afrodite, nel giorno ch'Ettore elmo lucente la portò via dalla casa d'Eezlone, offerti doni infiniti. In folla le furono intorno le cognate e dei cognati le [spose che fra loro la ressero, angosciata a morire; quando respirò infine, si risvegliò nel petto la vita, gridò fra le Troiane con violenti singhiozzi: • Ettore, oh me disgraziata! con una sorte nascemmo entrambi, tu a Troia nella casa di Priamo, io in Tebe sotto il Placo selvoso, in casa d'Eezìone, che mi nutrl piccina, misero un'infelice: oh non doveva darmi la vita! Ora tu nelle case dell'Ade, nella terra profonda te ne vai, lasci me in un dolore straziante, vedova nella casa: e il bimbo ancora non parla, che abbiam generato tu e io, miseri. A lui tu non sarai vita, Ettore, perché sei morto, né lui a te. Se sfuggirà alla guerra lacrimosa degli Achei, per lui sempre affanno, sempre strazio in futuro sara' .

Andromaca elenca le umiliazioni cui andrà incontro il bambino; poi torna a lui, a Ettore, con queste tenerissime parole: Ora te fra le concave navi, lontano dai genitori, saltanti vermi roderanno, quando saran sazi i cani, nudo: e nella casa ci son le tue vesti sottili e belle, fatte da mani di donne ... Ma tutte le voglio bruciare nel fuoco avvampante, e a te non gioverà, ché non giacerai fra esse, solo per farti onore davanti a Teucri e Troiane!

Quest'ultimo verso è molto significativo: Ettore è morto solo per non perdere la faccia davanti al popolo. Un fatto, per Andromaca, del tutto irrilevante, per il quale non valeva la pena perdere la vita. Credo che quello che abbiamo appena letto sia uno dei passi più commoventi dei poemi omerici. Tra le righe, non è possibile non sentire tutta l'avversione della donna verso

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la guerra, verso la teoria maschile dell'onore; verso la guerra che distrugge i destini dei singoli e delle famiglie; verso la " ragion di stato ". Ritroveremo Andromaca nel Libro XXIV: sarà lei a dare inizio ai lamenti funebri. E anche stavolta la sua preoccupazione sarà soprattutto per la sorte che spetta al figlio; lei, si mette in fondo: Ah! maledetto pianto e singhiozzo ai genitori hai lasciato, Ettore, ma soprattutto a me restano pene amare: tu non m'hai tesa la mano dal letto, morendo, non m'hai detto saggia parola, che sempre potessi avere presente, notte e. giorno, tra il pianto!

Andromaca, finita la guerra, perderà il figlio Astianatte, che sarà ucciso, e finirà schiava di Neottòlemo, figlio di Achille: dopo la morte del padre, Neottòlemo sarà chiamato a Troia dagli Achei e avrà gran parte nella distruzione della città. Omero accenna spesso alla cattiva sorte che tocca alle donne, ai bambini e ai vecchi delle città sconfitte: una sorte di schiavitù e d'umiliazione. La frequenza di questi richiami può essere interpretata come un ammonimento alla "belligeranza" maschile. Figure femminili importanti dell'Iliade che non è possibile ignorare sono altre due madri dolenti: Ecuba (madre di Ettore) e Teti (madre di Achille). Da poco Ettore è morto; Achille lo sta trascinando, attaccato al suo cocchio. Ecuba, disperata, si strappa i capelli e scoppia in singhiozzi: Figlio, oh me disgraziata! Come vivrò con tanto dolore ora che tu sei morto? ohimè, notte e giorno tu eri il mio vanto in città e la vita di tutti, Teucri e Troiane, in patria: te come un dio accoglievano: anche per loro tu eri gloria grande da vivo: ora t'hanno raggiunto la Moira e la morte.

Quanto a Teti, è una dea, quindi dovrebbe essere esente dai grandi dolori; ma ha generato un figlio umano, il cui destino si proietta come un'ombra sulla sua vita. Sa che egli morrà giovane, poco dopo avere ucciso Ettore; e quasi per ripagarlo di questa avversa sorte, cerca - come si dice

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oggi - di assecondarlo in tutto. Nel Libro I Achille le chiede di intercedere presso Giove affinchépunisca Agamennone, che gli ha tolto una schiava a cui teneva, aiutando addirittura i Troiani a respingere gli Achei fino al mare, con strage. Lei promette di accontentarlo e, piangendo, gli dice: Ah! creatura mia, perché t'ho allevato, miseramadre? Almeno presso le navi senza lacrime, senza dolore fossi, dopo che hai sorte breve, non lunga! Ora votato a rapida morte e ricco di pene fra tutti tu sei, ché a mala sorte ti generai nel palazzo.

Giove asseconderà le richieste di Teti e per molti canti Achille si asterrà dal combattere, con gran , danno degli Achei, per punire Agamennone. Ma ecco, Ettore uccide Patroclo, il suo più caro amico, e Achille piomba nella disperazione: una disperazione cosl violenta che la madre, seduta negli abissi del mare, lo sente gemeree corre da lui: Creatura, perché piangi? che strazio ha colto il tuo cuore?

Achille manifesta la sua volontà di vendicare Patroclo uccidendo Ettore. Il suo destino si compie. E ancora Teti, tristissima perché nulla può contro il fato, scoppia in lacrime: Ah! sei vicino alla morte, creatura, come mi parli. Subito dopo Ettore t'è preparata la Moira.

C:0s'altro fare, a questo punto, se non partecipare fino all'ultimo di questo destino, con dedizione? E Teti andrà di persona da Efesto, dio del fuoco e fabbro, affinché forgi per il figlio delle armature stupende in sostituzione di quelle che, indossate da Patroclo al momento del mortale scontro con Ettore, ora sono nelle mani di questi. Ed ecco, porta ad Achille le armi nuove costruite da Efesto. Il figlio dapprima gioisce; ma subito si rattrista: lo rattrista il pensiero che, in sua assenza, le mosche deturpino il corpo esanime di Patroclo. Ancora una volta Teti lo soccorre: Creatura, questo non ti preoccupi in cuore;

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cercherò io d'allontanare la razza selvaggia, le mosche, che gli uomini uccisi in guerra divorano. Quand'anche giaccia per tutto un anno intero, sempre avrà intatto il corpo e anche più bello.

Poco più wdi, Teti si farà tenera messaggera di Zeus che wole che Achille restituisca a Priamo il corpo di Ettore: Creaturamia, fino a quando gemente, angosciato, ti mangerai il cuore, senza pensare più al cibo né al letto? ~ bello unirsi con una donna in amore! Ah! che non devi ormai vivermi a lungo, ma già t'~ vicina la morte e la Moira crudele. Ora comprendimi presto, ti son messaggera di Zeus, dice che i numi sono indignati con te, e lui sopra tutti gli immortali ha gran collera, perché con pazzo pensiero tieni Ettore presso le navi e non vuoi liberarlo: suvvia, rendilo ormai, e accetta il riscatto.

Teti, al colmo dell'infelicità, spinge il figlio a godersi il poco tempo di vita che gli resta, in un estremo impulso di amore materno impotente. Omero non tratta gli dei con molto riguardo, notoriamente; e a questa regola non sfuggono le dee - mentre il poeta rispetta molto le donne mortali. La materna Teti è certamente un'eccezjone, l'unica divinità che egli tratteggia con grande comprensione umana. L'altra divinità femminile che gode il rispetto di Omero è Charis, sposa di Efesto, il fabbro zoppo al quale la moglie dona una felicità delicata, circondandolo di benessere.

Odissea: un uomo e tante donne. Ma lasciamo alle spalle l'Iliade e passiamo all'Odissea, un poema - come lo definisce il Beye - di molte donne e di un uomo solo. Sono sempre le donne, infatti, a dare slancio e suggestione agli episodi, nell'Odissea. Ma quattro come abbiamo già preannunciato, sono le figure femminili che più ci affascinano: Calipso, Nausicaa, Circe e Penelope. Nèl I libro apprendiamo che Ulisse, che desidera ardente-

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mente tornare alla sua Itaca per ricongiungersi alla moglie e al figlio, è trattenuto dalla « veneranda ninfa Calipso, la splendida dea », la quale vorrebbe sposarlo. Nello stesso libro la dea Atena, potente protettrice di Ulisse, dice che egli vive su un'isola ricca di boschi dove ha dimora la figlia del terribile Atl'ante. « La figlia sua trattiene quel misero, afflitto, / e sempre con tenere, maltose parole / lo incanta, perché scordi Itaca», dice Atena; la quale, più tardi, propone di mandare il messaggero Ermete all'isola di Ogigia affinché « alla dea trecce belle dica decreto immutabile », cioè esprima la volontà di Giove che Calipso lasci andare Ulisse. Calipso è un personaggio molto suggestivo. « Dea della grotta », abita in un rozzo speco inghirlandato di tralci di vite: una caverna naturale, in cui ha insediato un primitivo telaio. Il luogo è descritto da Omero con molto colore: Gran fuoco nel focolare bruciava e lontano un odore di cedro e di fissile tuia odorava per l'isola, ardenti; lei dentro, cantando con bella voce e percorrendo il telaio con spola d'oro, tesseva. Un bosco intorno alla grotta cresceva, lussureggiante: ontano, pioppo e cipresso odoroso. Qui uccelli dall'ampie ali facevano il nido, ghiandaie, sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua [ distesa, le cornacchie marine, cui piace la vita del mare. Si stendeva intorno alla grotta profonda una vite domestica, florida, feconda di grappoli. Quattro polle sgorgavano in fila, di limpida acqua, una vicina all'altra, ma in parti opposte volgendosi. Intorno molli prati di viola e di sedano erano in fiore; a venir anche un nume immortale doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore.

Niente male, questo " nido d'amore " di Calipso. La quale, innamoratasi di Odisseo, lo trattiene seco per sette anni (durante i quali generò con lui due figli, Nausitoo e Nausinoo ), promettendogli - se accetta di restare con lei di renderlo gfovane e immortale. Una prospettiva molto allettante! Quando la raggiunge Mercurio, che le intima di lasciare

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andare Ulisse, reagisce scagliandosi contro l'incomprensione dei celesti, che le invidiano la felicità: Maligni siete, o dei, e invidiosi oltre modo, voi che invidiate alle dee di stendersi accanto ai mortali palesemente, se una si trova un caro marito. Cosl quando l'Aurora dita rosate Orione si scelse, voi v'adiraste, o dei che vivete beati, finché in Ortigia Artemide trono d'oro, la casta, con le sue miti frecce lo raggiunse e l'uccise. Cosi quando a Iaslone Dèmetra belle trecce ubbidendo al suo cuore s'unl d'amore e di letto in un maggese terziato; non ne fu a lungo ignaro Zeus, che l'uccise col fulmine abbagliante. Cosl con me v'adirate ora, o dei, che mi sia accanto un [mortale. Ma io lo salvai, ch'era solo, aggrappato alla chigJia, perché l'agile nave col fulmine abbagliante Zeus gli aveva colpita e infranta nel livido mare. E tutti gli altri perirono, i suoi forti compagni, lui il vento e l'onda, spingendolo, gettarono qui. E io lo raccolsi, lo nutrii, e promettevo di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre. Ma certo il volere di Zeus egfoco non può un altro dio trascurare o far vano: e dunque andrà,· se Zeus l'ordina e m'obbliga, sul mare instancabile: scorta non potrò dargliene certo, non ho navi provviste di remi, non ho compagni, che lo trasportino sul dorso ampio del mare. Ma gli darò consigli con cuore amico, non gli tacerò come tornerà illeso alla terra dei padri.

Calipso dunque si accinge ad obbedire al volere di Zeus di buon grado, non con rabbia. Trovato Ulisse piangente sul promontorio, è molto tenera con lui: Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti la vita: ormai di cuore ti lascio partire.

Naturalmente si guarda bene dal riferirgli che è costretta a rispettare un ordine di Zeus, e in questo c'è una maliziosa vanità tutta femminile: vuol lasciargli credere che deve questa partenza alla sua generosità. Giunge il giorno della separazione. Per Calipso è anche il giorno della sconfitta: Odisseo ha preferito a lei, dea stu-

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penda, che gli aveva fatto promesse prestigiose, una creatura mortale, certo meno belladi lei. E tuttavia il commiato si svolge all'insegna della delicatezza: lo lava e lo veste di vesti odorose, quindi carica sulla sua zattera un otre di vino e uno di acqua, buona quantità di cibi di quelli che piacciono a lui; e fa levare un vento propizio e piacevole che gonfia la vela di Ulisse. Un addio senza rancore, che pure fa intravedere la solitudine in cui torna Calipso dopo la fine del suo romantico amore. Ulisse veleggia contento finché approderà su un'altra isola mitica in cui incontrerà un'altra figura femmioi1e deliziosa: Nausicaa, figlia di Alclnoo e di Arète. Alclnoo è il re dei Feaci. Nausicaa è il simbolo della semplicità giovanile, della spontaneità, della grazia pudica, della malizia ingenua. Siamo nel Libro VI. Ulisse è addormentato in un cespuglio; viene svegliato dalle grida di un gruppo di fanciulle andate al fiume per fare il bucato. C.Operto di salsedine, seminudo, esce allo scoperto. Tutte fuggono, eccetto Nausicaa, subito colpita e incuriosita dalla sua prestanza fisica, dal suo aspetto selvaggio, dal suo mistero. Nausicaa sogna il grande amore, il colpo di fulmine, il principe azzurro. E d'altronde Ulisse, che non sa dove sia capitato, ce la mette tutta per colpire l'immaginazione della giovinetta. Le dice subito di non aver mai visto una creatura tanto bel1a; la paragona a una dea; definisce "felice" l'uomo che la sposerà; gioca a fare il modesto affermando di non osare nemmeno di gettarsi ai suoi piedi; le confessa d'essersi salvato a fatica da una violenta tempesta (modo indiretto di magnificare le proprie doti fisiche) ma le chiede anche, umilmente, di nutrirlo e vestirlo: in cambio, che gli dei la rendano felice, le diano un buon marito e dei figli. Quale donna, specialmente giovanissima, avrebbe resistito a una cosi abile corte? Nausicaa ne è subito conquistata. Tutte le sue facoltà ne sono colpite: la sua femminilità, la sua maternità in erba, la sua vanità, la ·sua sensibilità, la sua fantasia, il suo intelletto. Lo nutre; poi Ulisse si lava nel fiume, si unge e indossa un bell'abito che lei gli dà. Ed ecco, ora è proprio UD bel fusto, UD bel maschio adulto, reso anche più affascinante dalla complicità di Atena. Nausicaa ne è cosi colpita che,

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rivolta alle ancelle, non può trattenersi, ingenuamente, dal farsi scappare questa frase: Oh se un uomo cosl potesse chiamarsi mio sposo, abitando fra noi, e gli piacesse restare!

Nausicaaè dotata di un'istintiva malizia e di un certo buon senso: lo guiderà - gli dice - alla casa del padre; però, aggiunge, finchésaranno tra i campi egli potrà andare insieme alle ancelle, dietro il carro; quando giungeranno in vista della città, dovrà allontanarsi. Vuole evitare le chiacchiere della gente, dice chiaramente; e subito aggiunge, con la palese intenzione di gratificarlo e di fargli capire che gli piace: E certo un maligno direbbe incontrandomi: chi è lo straniero bello e gagliardo, che segue Nausicaa? Dove l'è andato a trovare? Suo sposo certo [sarà.

... Meglio, se da se stessa, girando, ha trovato lo sposo altrove: tanto disprezza quelli del popolo suo, i Feaci, molti dei quali, e i più nobili, aspirano a lei. e.osi diranno e questo mi farebbe vergogna. Io pure un'altra biasimerei che facesse cosl, che contro il volere del padre suo e della madre s'accompagnasse con uomini, prima di giungere a pub-

[bliche nozze. Nausicaa è fin troppo esplicita: caro Ulisse - dice in pratica - mi piaci molto, e anche se ho tantissimi corteggiatori, preferirei te a loro come sposo; però ... prima devi chiedere la mia mano ai miei genitori. Secondo le migliori regole e tradizioni dell'educazione borghese. Ulisse, ovviamente, non dà molto spago a questa giovinetta un po' avventata; e, dal momento in cui arrivano in vista del palazzo di Aldnoo, Nausicaa esce di scena. La incontreremo di nuovo, fuggevolmente, rassegnata e un po' mortificata, nel Libro VIII, quando Ulisse sta per ripartire. Lei l'osserva da dietro un pilastro e lo saluta: « Sii felice, straniero•· Ma aggiunge, con un'impennata di orgoglio un po• risentito: ... tornato alla terra dei padri, non scordarti di me, perchéa mc per prima devi la vita.

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L'intelligente Nausicaa deve aver intuito che l'abile Ulisse, al loro primo incontro, l'ha strumentalizzata. Ulisse le dà una distaccata e abile risposta da adulto: se riuscirà a tornare a casa, come a un dio, a te farò voti, sempre ogni giorno: tu m'hai salvato, fanciulla.

E la lascia cosi, col sapore amaro della delusione. Forse, mortificando il suo slancio iniziale, ha contribuito a farla crescere un po'. Ma è la Nausicaa che gioca a palla sul prato, che s'innamora a prima vista ed è subito disposta a vivere un amore travolgente - è quella Nausicaa che a noi rimarrà impressa nella memoria, per sempre.

Ed eccoci a Circe: la dea-maga, figlia del Sole. La magia era considerata un'attività in cui le donne primeggiavano. Anche Elena conosceva queste arti, che aveva appreso, leggiamo nel Libro IV dell'Odissea, dall'egiziana Polidamma. Abita in un'isola del favoloso Oriente (più tardi la sua sede fu immaginata in Italia, presso il monte Circeo). La sua casa è anche un tempio: una dimora di pietre lisce, misteriosa, tra i folti querceti e la macchia, circondata da lupi montani e leoni da lei ammansiti. Il primo incontro con Circe è traumatico: trasforma un gruppo di compagni di Ulisse in porci, colpendoli con una bacchetta magica. Ma Circe non ha tenuto conto della furberia e delle alte protezioni di cui gode Odisseo. Questi, infatti, mentre và da lei, incontra Ermete che gli dà un'erba da usare come antidoto ai filtri magici della dèa e gl'insegna come fronteggiarla e conquistarla senza essere danneggiato dai suoi incantesimi. A questo punto le sorti si capovolgono: giocata dall'abilità di Ulisse, è Circe a cadere sotto il suo potere: il potere, ancora una volta, dell'amore. E in cambio di questo amore lei offre a Odisseo e ai suoi compagni una vita molto confortevole, al punto che, per un anno, tutti, compreso Ulisse, dimenticano completamente la strada di casa. Lo riferisce lo stesso Ulisse: E là tutti i giorni, fino al compirsi di un anno, sedevamo, a goderci carni infinite e buon vino.



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Lui, in più, ha l'idillio con la maga. Sono proprio i suoi compagni, infine, a scuoterlo da questi comodi agi: Sciagurato, -

gli dicono, -

alla fine ricordati della terra [paterna, se pure è destino che ci salviamo e arriviamo alla solida casa e alla terra dei padri.

Ulisse raggiunge Circe sul « letto bellissimo », le abbraccia le ginocchia e le chiede di mantenere la sua promessa di lasciarli partire. Circe è più fredda di Calipso, non si irrita, non piange. Se vogliono andare, vadano pure; però debbono sapere che li aspetta una dura prova, la discesa all'Ade. Il commiato non ha la tensione affettiva di quello da Calipso. Anche Circe fa regali ai partenti (un ariete e una pecora nera); e dietro di loro manda buon vento; ma lo fa senza farsi vedere. La partenza, poi, è amareggiata dalla morte di un giovane compagno di Ulisse: s'era addormentato, ubriaco, sul tetto della casa di Circe; sentendo le voci degli amici, si sveglia e fa per raggiungerli ma dimentica d'imboccare la scala e precipita. Viene da chiedersi se da una parte il preannuncio di altre difficoltà sulla rotta di Itaca, dall'altra questa morte singolare, non siano in qualche modo da collegarsi con l'ambiente stregato e un po' maligno che spira attorno a Circe, che proprio un angelo non doveva essere. Forse, queste sono le sue uniche e ultime vendette contro questo gruppo di uomini che non le è stato possibile dominare. Tanto più se si pensa che, al ritorno dall'Ade, sarà ancora Circe a preannunciare nuovi intralci e pericoli: le Sirene - che stregano gli uomini -, Scilla - orribile mostro dalle sei teste con triplici file di denti e dai dodici piedi -, Cariddi - un terribile vortice che impedisce il passaggio alle navi risucchiando e rigettando l'acqua tre volte al giorno -, Trinacria - con le vacche del Sole: se le toccheranno, saranno perduti navi e compagni e lui avrà nuovi affanni. Tuttavia va anche detto, a onor del vero e per non infie: rire troppo contro Circe, che la dea indica a Ulisse, almeno in parte, anche come sfuggire o aggirare questi pericoli. Chissà, forse si è ingiusti a pensare sempre a Circe come a una strega cattiva. Ma purtroppo, quasi sempre, è la prima impressione che conta.

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Per la cronaca, comunque, secondo leggende post-omeriche Circe ebbe da Ulisse tre figli: Agrio, Latino e Telegono, che - si legge nella Teogonia di Esiodo -: in mezzo ad isole sacre regnavano su tutti gl'illustri Tirreni.

Una donna - Elena - è la scintilla che fa nascere i poemi omerici: senza di lei, almeno nel mito, non sarebbe scoppiata la guerra di Troia; e una donna è il filo conduttore dell'Odissea: Penelope. Tutte le vicissitudini che Ulisse attraversa si debbono al fatto che egli vuole assolutamente tornare da lei. Pendope perciò non è soltanto il simbolo della feddtà, paziente e incrollabile, a volte illuminata di speranza, altre volte sfiduciata al punto di non credere nemmeno all'evidenza come accade quando è reticente a credere che l'uomo tornato da lei sia proprio Ulisse ( scetticismo e diffidenza comprensibili se teniamo conto che, negli anni dell'attesa, più volte è stata ingannata da notizie false sul conto di lui; senza sottovalutare il fatto che l'animo umano fatica a credere in una felicità troppo a lungo sperata); Penelope, dice_vamo,non rappresenta soltanto tutto questo, ma anche le radici ideali dell'uomo, la casa, il luogo del ritorno ciclico alle origini, la patria stessa. Di lei si parla subito, nel I libro dell'Odissea, quando apprendiamo che i principi più influenti del territorio la chiedono in sposa e che, in attesa che lei ne scelga uno, trascorrono i giorni mangiando e bevendo. Lei - dice Telemaco - non rifiuta « le nozze odiose», ma neppure ha il coraggio di compierle; e intanto - aggiunge egoisticamente - i Proci « banchettando rovinano la casa mia e presto sbraneranno anche me». Telemaco, bisogna dirlo, è un ragazzo abbastanza arrogante, con la madre, preoccupato più dei propri beni che della sorte di lei: certe inquietudini e perplessità di Penelope sono causate certamente dall'atteggiamento del figlio, che non le nasconde di essere pronto ad accettare che lei lasci la casa. E qui Penelope rivela il lato di debolezza della donna nella società del suo tempo; un tempo nel quale, come si è già detto, le si attribuiva, in caso di vedovanza, il ruolo di pura e semplice " trasmettitrice " delle sostanze familiari dal marito al figlio cadetto. La consapevolezza di questa situazione rende indubbiamente più tri-

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ste che mai la condizione di Penelope. Nonostante sia ancora profondamente legata a Ulisse e malgrado non senta alcuna attrazione né stima per nessuno dei pretendenti, sa che al più presto deve andarsene per non far danneggiare più di quanto già non lo sia stato il patrimonio del figlio. E che Penelope ami ancora molto Odisseo è fuor di dubbio. Sempre nel I libro, quando un cantore ricorda le peripezie del ritorno degli Achei alle loro case, la donna non riesce a sopportare la tristezza di quel canto: scende dalle sue stanze e, piangendo, prega Femio di smettere. Ma subito Telemaco, duramente anche se cortesemente, la rimbecca affermando che il suo divieto non ha senso: Su torna alle tue stanze e pensa all'opere tue, telaio e fuso; alle ancelle comanda di badare al lavoro; al canto pensino gli uomini tutti, e io sopra tutti: mio qui in casa è il comando.

La sgarbatezza di Telemaco, confessiamolo, è irritante; tant'è vero che la madre torna, sl, nelle sue stanze, ma precisa il poeta - " stupefatta ". Questa necessità di andarsene deve opprimere non poco Penelope se nel XIX libro dirà a Ulisse travestito da mendicante, e quindi, in fondo, a un estraneo: Il figlio mio, fino a quando fu giovinetto e inesperto, non volle che mi sposassi, lasciassi la casa nuziale; ma adesso che è grande e il tempo di giovinezza ha [raggiunto, mi prega e riprega, ora, d'andarmene via dal palazzo, irritato dei beni che gli Achei gli divorano.

Del resto, nel XX libro, è lo stesso Telemaco a ricordare ai pretendenti che non è certo lui a impedire che la madre sposi uno di loro: Non io per Zeus, Aghèlao, e pei dolori del padre, che chi sa dove lontano d'Itaca è morto o va errando, impedisco le nozze alla madre, ·anzi dico che sposi pure chi vuole, e le offro doni infiniti.

E aggiunge: Ma non oso cacciarla suo malgrado di casa

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con perentorio comando; che un dio non lo voglia!

Confessiamolo: Telemaco non è proprio un granché, come figlio. Nella sua volontà di restare fedele al marito, Penelope è proprio sola. Nel XV libro apprendiamo da Atena che persino il padre e i fratelli fanno pressioni su di lei affinché sposi Eurlmaco, solo perché è il pretendente che le fa i doni più belli e quindi ne arricchisce la dote. Dice Atena a Telemaco: Bada non si porti via tuo malgrado qualche tesoro. Sai com'è il cuore nel petto di donna: vuol favorire la casa di colui che la sposa, e dei figli di prima e del caro marito morto non si ricorda più, né li cerca

Bisogna dire che neppure Atena è molto carina nei riguardi di-una donna come Penelope che da vent'anni attende con ansia il ritorno dello sposo. La dea insospettisce a tal punto Telemaco che questi, quando tornerà in patria, chiederà a Eumeo, il porcaro, se sua madre è sempre al palazzo o se n'è già andata via con un altro uomo. Eumeo lo rassicura subito, con parole che dimostrano invece tutta la sua stima per Penelope: Oh no! Lei rimane con cuore costante nella tua casa: e tristissimi sempre le notti e i giorni le si consumano a piangere.

Penelope, dal canto suo, è una madre tenerissima. Quando apprende da Mèdonte che il figlio è partito alla volta di Pilo in cerca di notizie del padre e che i Proci meditano di ucciderlo, al ritorno, ha una reazione disperata: ... subito a lei ginocchia e cuore si sciolsero, per molto non seppe parlare, i suoi occhi s'empiron di lacrime, la florida voce era stretta ...

( ...).

Pena che il cuore distrugge si versò su di lei, non poté stare a sedere sul seggio, benché ci fosse molta gente [per casa, ma sulla soglia del talamo ben costruito sedette, gemendo pietosamente ...

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Poco dopo confesserà tutto il suo dolore alle ancelle e manderà a chiamare un vecchio servo per incaricarlo di stare all'erta e di riferire a Laerte eventuali complotti contro Telemaco. Quindi eleva una preghiera ad Atena affinché le salvi il figlio. Insomma, si comporta alla stessa maniera in cui si comporterebbe, in analoghe circostanze, una madre di oggi. E come qualunque madre di ieri e di oggi, sapendo il figlio in pericolo tira fuori le unghie. Nel XVI libro sferra davanti a tutti un durissimo attacco ad Antìnoo, che trama contro Telemaco: Antinoo violento, macchinatore di mali, si dice che in mezzo al popolo d'Itaca fra i tuoi coetanei tu [eccella per consiglio e discorsi: tu però non sei tale! Pazzo, perché morte e rovina a Telemaco trami, e rispetto non hai per i supplici, a cui Zeus è garante? È empio tessere gli uni agli altri maianni! Non sai che il padre tuo qui venne fuggiasco per paura del popolo? ... (. ..)

... volevano ucciderlo, il cuore strappargli,

..

(. )

Ma Odisseo lo impedl, li frenò per quanto infuriati. E adesso tu impunemente la sua casa divori, la sposa ne [brami, e il figlio cerchi d'uccidere, e mi fai molto soffrire. Ma di finirla ti prego e di far smettere gli altri.

Penelope è severa, ma anche umile, per necessità. Nel XVII libro, quando può finalmente riabbracciare Telemaco, scoppia in singhiozzi: Sei qui, Telemaco, dolce luce! Mai più credevo di rivederti, da che sulla nave partisti per Pilo.

Penelope è una donna che, all'occorrenza, sa esporsi, dimostrando tutta la sua autorità. Sempre nel XVII libro ne abbiamo due prove quando, appreso che il mendicante sotto le cui spoglie si nasconde Ulisse. è stato colpito con uno sgabello da uno dei pretendenti, manifesta con molta durezza tutto il suo sdegno alle ancelle e lo manda subito a chiamare; nel libro seguente rimbrotta persino Telemaco che

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ha lasciato trattar male, in sua presenza, uno straniero ospite - precisa - nella nostra sala. E Telemaco, l'arrogante Telemaco, è costretto a giustificarsi con molta modestia: cerchi di capire - le spiega - che lui non è in grado di reagire come vorrebbe contro il comportamento dei pretendenti che l'opprimono e lo circondano. Penelope sa essere all'altezza di una vera padrona di casa. Nel XIX libro rimbrotta severamente l'ancella Melantò, che ha offeso per ben due volte Odisseo travestito da mendicante, e l'avverte che verrà punita; poi, rivolgendosi alla dispensiera Eurinòme, le intima di predisporre per il meglio affinché il mendicante, quando verrà a parlarle, stia a suo agio e comodo. Sia nel corso di un dialogo con Eurlm.aco, che nei suoi colloqui con Ulisse travestito, Penelope manifesta molto apertamente quanto sia ancora intimamente legata allo sposo. Eurlmaco le ha rivolto parole galanti, le ha detto che è bella e maestosa; ma Penelope gli risponde che il suo valore e la sua bellezza sono stati distrutti il giorno che Ulisse è partit9 per Ilio: se lui tornasse, allora si rifiorirebbe! E l'incontro che ha, nel XIX libro, col mendicante-Odisseo è tutta una testimonianza della sua abnegazione verso di lui; e quando Ulisse, impietosito dalla sofferenza della moglie, le dice che il suo sposo sta per tornare a lei, Penelope gli risponde: Oh se questa parola, ospite mio, si compisse! Allora sapresti buona amicizia e moltissimi doni da parte mia, e chiunque t'incontri, ti direbbe felice. Ma io purtroppo cosl penso in cuore, come sarà: non tornerà più a casa Odisseo...

Ed ecco, finalmente Ulisse uccide i Proci ed Eurlclea va ad annunciarglielo. Penelope resta incredula: dopo tanti anni di attese e speranze deluse, come credere che improvvisamente i sogni si siano realizzati? « Nutrice cara - le risponde, - pazza t'han fatto gli dèi. .. »; e aggiunge, agitata: « Perché beffarmi, mentre il mio cuore è tutto uno strazio, / e star qui a dirmi sciocchezze, e svegliarmi dal sonno / soave, che m'ha incatenato, fasciando le palpebre?». La nutrice conferma quanto le ha annunciato e allora Penelope ha un guizzo che nasconde appena un gran desiderio di crederle: « Ma via, cara nutrice, se il vero m'hai detto, / se veramente è in casa, come tu dici, / come ha potuto gettar le

Poemi omerici: croci e delizie della femminilità

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mani sui pretendenti sfrontati / da solo? Essi eran sempre in folla qua dentro». Eurìclea le risponde che può soltanto assicurarle di avere visto i Proci morti, uno sull'altro. Ora - dice ancora la nutrice - si accinga a incontrare Ulisse e ad essere felice, dopo tanti affanni. Ma ancora Penelope dubita: ma no, saranno stati i numi a uccidere i pretendenti, Ulisse è morto. Alla fine si fa convincere a raggiungere Ulisse e Omero è abilissimo nel descrivere il suo stato d'animo:

. . . . . . . . . . . . . . . il suo ruore molto esitava, se di lontano al caro sposo parlasse, o gli corresse vicino a baciargli il corpo e le mani, [ stringendolo. Ma come entrò, com'ebbe passato la soglia di pietra, si mise a sedere in faccia a Odisseo, nel chiarore del [fuoco, presso l'altra parete: lui contro un'alta colonna sedeva, guardando in giù, aspettando se gli direbbe ' . [qualcosa la forte compagna, appena lo vedesse con gli occhi. Ma lei muta a lungo sedeva, stupore il petto le empiva; guardandolo, a volte lo conosceva in modo evidente, a volte non lo conosceva, cosl coperto di cenci. Dunque, com'è logico, Penelope prova stupore e imbarazzo. Telemaco la biasima per il suo atteggiamento distaccato. Ma Penelope gli risponde, candidamente: Creatura mia, il cuore nel mio petto è attonito: non riesco né a dirgli parola né a interrogarlo, né a guardarlo nel viso. Ma se è davvero Odisseo che in patria è tornato, oh molto bene e facilmente potremo conoscerci: abbiamo per noi dei segni segreti, che noi sappiamo e non gli altri.

La prova segreta fondamentale è il letto nuziale: lo aveva costruito Ulisse con le proprie mani, tutt'attorno ad un grande olivo: l'olivo, albero della fecondità e di rinascita. Finalmente Penelope può credere che l'uomo che le sta davanti è veramente Ulisse; la sua commozione esplode: e piangendo corse a lui, dritta, le braccia gettò attorno al collo a Odisseo, gli baciò il capo e [diceva:

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' Non t'adirare, Odisseo, con me, tu che in tutto sei il più saggio degli uomini; i numi ci davano il pianto, i numi, invidiosi che uniti godessimo la giovinezza e alla soglia di vecchiezza venissimo. · Cosi ora non t'adirare con me, non sdegnarti di questo, che subito non t'ho abbracciato, come t'ho visto. Sempre l'animo dentro il mio petto tremava che qualcuno venisse a ingannarmi con chiacchiere: perché molti mirano a turpi guadagni... •

Stretti l'uno all'altro, Ulisse e Penelope piangono. Il poema è finito. L'attesa di Penelope è stata premiata; l'attesa e, poiché in ogni attesa c'è, conscia o inconscia, una fede, la sua / ede, appunto, nel ritorno di Odisseo. Una fede, è vero, che ha conosciuto momenti di dubbio: ma quale fede è del tutto esente dal dubbio? ' Attorno alle figure femminili di cui abbiamo parlato più diffusamente, molte altre ne ruotano nei poemi omerici che se anche non svolgono un ruolo di protagoniste principali, tuttavia rivelano spesso personalità spiccate, che non ne fanno certo figure " minori ". Basterebbe Eurlclea, la nutrice di Odisseo, di cui ci siamo già occupati, tutta affetto e devozione brontolona; Arète, la prestigiosa moglie di Alcìnoo; la madre di Ulisse, che questi incontra nell!Ade e che si rivolge a lui con la consueta tenera espressione delle madri omeriche - « creatura mia » - (nel XV libro apprenderemo che si è consunta di pena per la lontananza del figlio); e Melantò, l'ancella che non rispetta Penelope malgrado questa l'abbia allevata e trat,ta sgarbatamente Ulisse talché pagherà con la vita il suo comportamento, assieme ad altre undici ancelle " traditrici ", dopo la sconfitta dei Proci. Ci sembra dunque di poter concludere dicendo questo: protagoniste di primo piano o personaggi di fila, le figure femminili di Omero assomigliano in tutto, nei loro sentimenti e nelle loro azioni, alle donne di oggi. Attraverso loro perviene a noi l'anima antica della donna, un'anima che nei millenni e nei secoli s'è trasformata ma è rimasta sostanzialmente fedele a se stessa; e ci porta, dai confini del mondo civile, un grande messaggio di umanità, di dolore e di dignità.

RIBELLIONE ED EROISMO NELLA TRAGEDIA ATTICA

Splendori'e tormenti di un'epoca. Tra le battaglie decisive del mondo, e - in particolare dell'Europa, vanno annoverate quelle di Maratona, di Salamina e di Platea. In quei tre conflitti i Greci sconfissero l'esercito persiano. A Maratona toccò a novemila ateniesi guidati da Milziade affrontare, nel 490 a.C., la grossa armata comandata da Dario. La notizia della vittoria fu portata ad Atene - si narra - da Filippide: egli corse tàlmente in fretta che, dalla stanchezza, subito dopo averla comunicata, morl. Dieci anni dopo, a Salamina, ebbe luogo una decisiva battaglia navale e la potente flotta di Serse dovette soccombere alla strategia vincente di quella greca, il cui ammiraglio era Temistocle. A Platea si ebbe l'epilogo della guerra con i Persiani, l'anno successivo (479 a.C.): i Greci, con gli spartani in testa, attaccarono, e gli orientali furono definitivamente sconfitti. I Greci erano comandati da Aristide e Pausania; i Persiani da Mardonio (che peri sul campo). Dopo quella battaglia Platea fu dichiarata sacra. A partire dal 462 a.C., la direzione politica ateniese é nelle mani di Pericle. Il suo nome resta legato al periodo di maggiore sviluppo politico, economico, culturale ed artistico di Atene. In quegli anni Eschilo, Sofocle ed Euripide scrivono il loro teatro; accanto alla tragedia fiorisce la commedia di Epicarmo, Cratino, Eupoli, del libellista Ermippo; in quegli anni fiorisce la sofistica (che tanto avrebbe influenzato Euripide); a Tebe insegna Filolao, uno dei maggiori esponenti e diffusori del pitagorismo, che sistematizzò; a

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Chio insegna l'astronomo Enopide; ad Atene, maestro di Socrate è Archelao di Mileto; gli architetti !etino e Callicrate sistemano l'Acropoli e forse progettano il Partenone ed un altro architetto, Fidia, dirige i lavori sul Partenone ideandone (ed eseguendone in parte) la decorazione scultorea; tra gli architetti eccelle anche Mesicle; Agatarco di Samo crea le scenografie per Eschilo; dipingono Apollonio di Atene, inventore del chiaroscuro, e Polignoto. Pericle fece inoltre ampliare il Pireo e costruire le lunghe mura, una cinta protettiva che includeva i porti del Pireo e di Munchia e si collegava a quella che circondava Atene. Tre dei maggiori scultori dell'antichità - Mirone, Policleto e Fidia - emersero tra il 448 e il 404, anno della caduta di Atene sotto il ferro di Sparta. Il Discobolo· di Mirone, giuntoci in copia, è mirabile. A ginocchia piegate, il busto proteso in avanti, l'atleta regge col braccio destro disteso il pesante disco di bronzo che sta per lanciare. Il suo corpo freme nel movimento; il volto, invece, resta impassibile, neppure minimamente alterato dallo sforzo... Policleto, anche lui bronzista, rappresenta atleti in riposo, per cogliere il corpo umano nel colmo della sua . bellezza e dargli una rappresentazione ideale ed esemplare, farne un modello di armonia ... La mitica, colossale statua di Atena in bronzo eseguita da Fidia, eretta sull'Acropoli, si vedeva dal mare e il gigantesco Zeus nel tempio di Olimpia, dello stesso artista, in oro e avorio, doveva suscitare stupore in chiunque lo guardasse ... Opere stupende, distrutte dal tempo, ma la cui eco ha attraversato i secoli e ancora ci seduce, accanto all'insieme ornamentale del Partenone. E accanto a questi cc grandi ", tanti altri nomi: Cresila, autore di un ritratto di Pericle; Agoracrite, Callimaco, Alcamene... La scultura greca ritiene degna di essere rappresentata solo la forma umana; per l'artista greco solo l'uomo è degno d'interesse. Gli stessi dei vengono concepiti soltanto sotto forma umana; e gli eroi vengono a loro volta cc sentiti" simili agli dei. Il Greco ha una suprema ambizione: avvicinarsi al modello ideale suggerito dagli dei. Ma è l'uomo la meraviglia del mondo. E l'uomo doveva essere orgoglioso del proprio corpo, concessogli dagli dei a loro simiglianza; doveva quindi svilupparlo e perfezionarlo per riconoscenza verso gli dei. L'atletismo aveva dunque anche un significato

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rituale, religioso. Giustamente è stato osservato che, nel mondo ellenico, il declino dell'atletismo ha coinciso con la crisi della fede. Cosi l'arte, che nel V secolo aveva toccato i suoi vertici, nel secolo successivo declina via via che l'organizzazione della polis si sgretola e l'anelito religioso si frantuma in divinità che non sono più in grado di soccorrere i combattenti come al. tempo delle guerre persiane. Ma scorriamo in fretta gli episodi salienti del V e del IV secolo a.C. Nel 499 nasce Anassagora, l'uomo che introduce la filosofia in Atene; quello stesso anno viene rappresentata, sempre ad Atene, la prima tragedia di Eschilo; nel 496 nasce Sofocle; l'anno dopo nasce Pericle; nel 494 i Persiani distruggono Mileto; l'anno successivo, ad Agrigento, nasce Empedocle: il divenire delle cose - sosterrà nella sua filosofia consiste nell'unirsi e disunirsi della terra, dell'acqua, dell'aria e del fuoco, determinati da due forze divine in perenne conflitto, Amore e Odio; nel 492 la flotta di Dario viene distrutta da una tempesta davanti al promontorio dell'Athos; nel 490 l'esercito di Milziade ateniese sconfigge i Persiani a MaratQna; nel 491 nasce Protagora di Abdera, che sarà il massimo rappresentante della sofistica; nel 484 nasce Erodoto, il " padre della storia "; nell'agosto del 480 un migliaio di Greci cade eroicamente alle Termopili contro i Persiani; a settembre avviene lo scontro navale di Salamina; sempre nel 480 nasce Euripide e a Imera i Greci di ·Sicilia battono i Cartaginesi; nel 479 Atene costruisce le mura del Pireo e i Persiani vengono nuovamente battuti a Platea e a Micale; nel 477 viene fondata la Lega Delio-attica; nel 472, rappresentazione dei Persiani di Eschilo; nel 470 viene bandito Temistocle, per ostracismo; nel 467 inizia la carriera politica di Pericle e vengono rappresentati I Sette a Tebe di Eschilo; nel 465 l'Ateniese Cimone batte i Persiani all'Eurimedonte; nel 460 nasce Democrito, vero fondatore dell'atomismo, l'ideatore del primo completo e coerente sistema materialistico; lo stesso anno nasce Tucidide, il cui metodo getterà le basi della storiografia scientifica occidentale; nel 4.58 Eschilo scrive l'Orestiade e il Prometeo incatenato; nel 4.56 muore Eschilo; nel 450 Parmenide di Elea scrive La Natura nella quale sostiene che solo l'essere è; lo stesso anno nasce Aristofane e ad Atene si costruisce il Teseion; nel 448 viene stipulata la pace di Callia tra Atene e la Persia;

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nel 447 Ictino e Callicrate, sotto la direzione di Fidia, cominciano a costruire il Partenone; nel 445 nasce Lisia, lo stile dei cui discorsi è un modello dell'atticismo; l'anno dopo nasce Antistene di Atene: discepolo di Gorgia e di Socrate, fonderà la scuola cinica; nel 442 Sofocle rappresenta Antigone e Aiace; nel 438 muore Pindaro, il poeta degli Epinici ed Euripide rappresenta Alcesti; nel 437 Mnesicle costruisce l'ingresso monumentale dell'Acropoli (i Propilei); il 435 è l'anno dell'insurrezione di Corcira contro Corinto e della nascita di Aristippo di Cirene, fondatore della scuola Cirenaica, teorizzatore di un ideale di vita basato sul piacere; nel 433 muore Empedocle; nel 432 Potidea si ribella ad Atene ed ha luogo il processo contro Aspasia, la bella e colta etera di Mileto amata da Pericle; nel 4 31 inizia la guerra del Peloponneso ed Euripide rappresenta Medea; nel 430 Pericle viene processato per peculato e nasce Senofonte; nel 429 ad Atene viene costruito il tempietto ad Atena Nike; lo stesso anno muore Pericle, Cleone sale alla guida del partito popolare e Sofocle rappresenta l'Edipo re; nel 428 muore Anassagora ed Euripide rappresenta l'Ippolito; nel 427 nasce Platone; nel 425 muore Erodoto; tra il 425 e il 421 Aristofane rappresenta Gli Acarnesi, I Cavalieri, Le Nuvole, Le Vespe, La pace; nel 422 gli ateniesi vengono battuti ad Anfipoli; nel 421 viene stipulata la pace di Nicia tra Atene e Sparta ma alleati di Sparta come Corinto, Megara e la Boezia non intendevano rispettare il trattato; e d'altronde ad Atene c'era un partito dei " falchi " che assecondava la tensione, più che assopirla; intanto nel 420 viene costruito il tempio di Segesta e Alkmenes edifica il secondo tempio di Dioniso ad Atene; ha anche inizio la costruzione dell'Eretteo; la spedizione ateniese in Sicilia ha luogo nel 415: Alcibiade, ispiratore della spedizione, accusato di sacrilegio, non prende parte alle operazioni ma, anzi, diserta e si schiera con Sparta; lo stesso anno Euripide rappresenta Le Troadi; tra il 414 e il 405 Aristofane rappresenta Gli uccelli, Le T esmoforiazuse, Lisistrata e Le rane; nel 413 nasce il filosofo cinico Diogene ed Euripide rappresenta Elettra; Io stesso anno si registra il fallimento della spedizione in Sicilia: Nicia muore e la migliore gioventù ateniese subisce l'umiliazione della prigionia; nel 409 vengono rappresentate l'Elettra di Sofocle e il Filottete; nel 406 gli ateniesi vincono alle Arginuse; lo stesso anno muoiono Euripide e Sofocle (poco prima della scom-

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parsa di quest'ultimo viene rappresentato l'Edipo a Colono); nel 405 sale al potere Dionisio I, il tiranno di Siracusa che conquisterà quasi tutta la Sicilia passando poi nella Magna Grecia ed alleandosi con Sparta contro l'espansione ateniese; lo stesso anno vengono rappresentate, postume, Ifigenia in Aulide e le Baccantidi Euripide e lo spartano Lisandro batte gli ateniesi a Egospotami. Sulla fine del secolo fiorisce ad Atene la scuola di medicina di Ippocrate da Cos. Nel 404 Atene capitola, la Lega Delio-attica si scioglie; ad Atene si instaura il governo dei Trenta Tiranni; nel 403 Trasibulo guida una rivolta contro i Trenta che vengono cacciati da Atene; nel 401 ha luogo la battaglia di Cunassa tra Ciro e Artaserse II di Persia: i mercenari ateniesi di Senofonte sono costretti alla ritirata. Nel IV secolo fioriscono la scultura di Prassitele, Scopa e Lisippo e la pittura di Zeusi; Policleto di Sidone costruisce il teatro di Epidauro; nel 399 hanno luogo il processo e la condanna di Socrate; nel 396 muore Tucidide; tra il 396 e il 388 Platone scrive l'Apologia di Socrate, il Critone, il Carmide, il Lachete, il Liside, il Protagorae il Gorgia, l'Eutifrone, l'Ippia Minore, il Menesseno, il Menone, l'Eutidemo; nel 394 l'ateniese Canone distrugge la flotta spartana a Cnido; nel 390 e nel 388 Aristofane rappresenta le Ecclesiazuse e Pluto; nel 387 pace di Sardi e pace di Antalcida fra Atene e Sparta; i Romani vengono battuti sull'Allia dai .Galli di Brenno e Platone fonda l'Accademia (negli anni seguenti scriverà il Cratilo, il Simposio, il Fedone e la Repubblica, il Fedro, il Parmenide, il T eeteto, il Sofista, il Politico, il Timeo, il Crizia, il Filebo e le Leggi); nel 385 muore Aristofane; nel 384 nascono Aristotele e Demostene; nel 380 muore Lisia; nel 377 viene fondata la seconda Lega Delio-attica; nel 372 nasce Teofrasto, filosofo peripatetico che succederà ad Aristotele nella direzione della scuola; nel 371 Epaminonda tebano batte gli spartani a Leuttra; nel 370 muore Democrito di Abdera; nel 367 inizia la tirannide di Dionisio II a Siracusa e Dione, cognato di Dionisio I, chiama a Siracusa Platone; nel 365 nasce Pirrone di Elide, fondatore dello scetticismo; nel 362 i Tebani vincono di nuovo a Mantinea ed Epaminonda muore in battaglia; nel 361 nasce il commediografo Filemone, rivale di Menandro; nel 359 inizia il regno