Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939

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Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939

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Enzo Collotti con la collaborazione d i Nicola Labanca e Teodoro Sala

La Nuova Italia

Fascismo e politica di potenza

Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia STORIA D’ITALIA NEL SECOLO VENTESIMO

Piano dell'opera

Parte prim a. L 'Italia liberale

Voi. I Fra Ottocento e Novecento Vol li La Grande Guerra 1914-1918 di Mario Isnenghi e Giorgio Rochat Voi. Ili La crisi deilo Stato liberale a cura di Maurizio Ridolfì con Andrea Baravelli, Marco Fincardi, Angelo Ventrone

Parte seconda. L ’I ta lia fascista

Voi. I

Lo Stato fascista a cura di Marco Palla con Fabio Bertini, Enzo Fimiani, Luigi Ponziani, Giovanni Verni

Voi. II Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939 di Enzo Collotti con Nicola Labanca e Teodoro Sala Voi. Ili L'Italia del fascismo a cura di Francesco Malgeri con Antonio Parisella e Laura Scalpelli Voi. IV L'Italia degli antifascisti a cura di Leonardo Rapone con Patrizia Gabrielli, Claudio Natoli e Albertina Vittoria

Parte terza. L 'Italia nella seconda guerra m ondiale e nella R esistenza

Voi. I

La guerra fascista 1940-1943 a cura di Enzo Collotti, Massimo Legnani, Giorgio Rochat con Luca Baldissara e Stefano Battilossi

Voi. II L'Italia della Resistenza di Gianni Perona con Adriano Ballone Voi. Ili Politica, società e cultura 1943-1945 a cura di Guido Crainz con Anna Bravo, Gloria Chianese, Marcello Flores, Luigi Ganapini

Parte quarta. L 'Italia repubblicana

Voi. I

L'Italia repubblicana, vista da fuori a cura di Stuart Woolf con David Hine, Patrick McCarthy, David Moss, Rolf Petri, John Anthony Davis, Alastair Davidson

Voi. II L'Italia nel sistema delle relazioni internazionali Voi. IH Lo Stato e il governo delle trasformazioni Voi. IV Società e modelli culturali

Strumenti e fonti 2 tomi a cura di Claudio Pavone

Enzo Collotti con la collaborazione d i Nicola Labanca e Teodoro S ala

Fascismo e politica di potenza }

Politica estera 1922-1939

La Nuova I t a l i a

Scan a cura di irmaladolce Ladri di Biblioteche Progetto Fascismo 2019

© 2000 RCS Libri S.p.A., Milano Prima edizione La Nuova Italia: febbraio 2000 Progetto grafico e copertina: Marco Capaccioli (C.D.&V.), Firenze Redazione: Anna Sordini (INSMLI) Fotocomposizione: Grande forEdit, Monza Stampa: Tip.Le.co, San Bonico (Piacenza) L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tei. e fax 02-809506.

Collctti, Enzo Fascismo e politica di potenza: politica estera 1922-1939. - (Biblioteca di storia ; 80. Storia d’italia nel secolo ventesimo) - ISBN 88-221-4237-3 I. Tit. II. Labanca, Nicola III. Sala, Teodoro 1. Italia - Politica estera - 1922-1939. 327.450 91 5

INDICE

PARTE PRIMA: UNA POLITICA DI ATTESA

I Gli esordi della politica estera del fascismo

3

Considerazioni preliminari La carriera II ruolo di Mussolini Continuità e discontinuità: da Corfu aLocamo

3 11 18 23

II

Propaganda e politica: revisionismo e revisione

37

Il protettorato sull’Albania II problema dell’Austria Jugoslavia e Ungheria Italia e Stati Uniti Disarmo o revisione?

38 46 33 61 69

III

Politica e amministrazione coloniali dal 1922 al 1934

di Nicola Labanca

81

Lo stato degli studi

81 V

INDICE

Una prospettiva internazionale Attorno alle fondamenta del colonialismo fascista Gli awii della politica coloniale del fascismo Lo spazio nuovo della propaganda La riconquista e le colonie Verso l’Etiopia

87 94 102 112 117 129

IV

Politica e propaganda: emigrazione e fasci aH’estero

137

Un nuovo ruolo dell’emigrazione I fasci all’estero La penetrazione nelle comunità italiane all’estero Fasci all’estero e propaganda nelle Americhe

137 142 152 166

PARTE SECONDA: UNA POLITICA DI OFFESA V

Dal Patto a quattro al fronte di Stresa

175

IV

Tra Marte e Mercurio. Gli interessi danubiano-balcanici dellTtalia di Teodoro Sala

205

I Balcani nella memoria storica degli italiani Continuità e discontinuità nella politica estera fascista L’intreccio con la politica interna II laboratorio danubiano-balcanico L’eredità nazionalista e tardo liberale La testa di ponte albanese Il nodo jugoslavo Mercurio in campo. Il revisionismo

205 209 211 214 217 222 226 235

VII

L’avventura coloniale e l’impero

247

Spirito pubblico, antifascismo e guerra d ’Africa I precedenti di una guerra fascista Verso la guerra La reazione delle potenze e della Società delle Nazioni II decorso della guerra e l’escalation delle minacce La liquidazione diplomatica della guerra e la diplomazia dell’impero

247 253 257 261 268

VI

275

INDICE

Vili

L’equilibrio m editerraneo e l’intervento in Spagna

279

I fronti popolari e la strategia antibolscevica del fascismo La guerra civile in Spagna e l’appoggio fascista Intervento, non intervento? I prodromi dell’Asse Roma-Berlino Grandi: l’eroe del non intervento?

279 286 293 300 310

IX

Dal G entlem en’s Agreement al P atto di Monaco Italia e Gran Bretagna: l’intesa impossibile Gli sviluppi dell’Asse: dal Patto Anticomintern all 'Anschluss Aprile 1938: «L’accordo di due imperi» I rapporti con la «grande battuta»: la Francia Chamberlain e Vappeasement-, il Patto di Monaco Imperialismo e razzismo

? 329 329 337 347 354 361 374

X

La finta pace: da Praga al Patto d ’acciaio

381

Dopo Monaco: trionfo in Spagna e rottura definitiva con la Francia I tedeschi a Praga: la fine dell’appeasement La conquista dell’Albania Le reazioni internazionali L’alleanza irrevocabile: il Patto d’acciaio Appendice. Il Patto d’acciaio

381 393 402 415 423 440

XI Lalleanza ineguale: dal Patto d ’acciaio alla non belligeranza

443

Dal memoriale Cavallero al patto tedesco-sovietico

443

N ota storiografico-bibliografica

467

Indice dei nomi

485

VII

Fascismo © politica di potenza

Politica estera 1922-1939

PARTE PRIMA

UNA POLITICA DI ATTESA

I

GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Il fascismo giunse al potere quando la diplomazia prefascista aveva già largamente avviato a conclusione il contenzioso, con gli alleati dell’Intesa e con i nuovi stati vicini, rimasto in sospe­ so dopo la marcia di D ’Annunzio su Fiume. Fra i residui pole­ mici contro la pace di Versailles, il problem a “adriatico” e il problem a delle colonie non erano che gli aspetti destinati a riproporsi costantem ente anche nei due decenni successivi, perché, al di là della soddisfazione di contingenti e puntuali rivendicazioni, tali questioni assumevano il significato di vere e proprie direttrici strategiche della politica estera di un gover­ no fascista. Indipendentem ente da ogni considerazione sulla inadeguatezza o meno delle formulazioni di politica estera nel program m a del prim o governo fascista, una prima valutazione delle mosse del nuovo governo poteva essere operata solo sulla base delle linee lungo le quali si erano mossi gli ultimi governi liberali e del complesso di idee che il movimento fascista aveva elaborato, prim a ancora dell’avvento al potere, soprattutto nel­ l’aspra critica al Trattato di Versailles e nella m utuazione dal movimento nazionalista non solo del fortunato slogan della «vittoria mutilata», ma soprattutto di quella che sarà una delle idee guida fondamentali della politica del fascismo, e cioè lo 3

CAPITOLO I

stretto legame tra la trasformazione del regime politico all’in­ terno e gli sviluppi della politica estera. Se si ricorda che nel Manifesto con il quale si apriva nel 1919 il prim o num ero della rivista «Politica», che voleva essere la piattaform a di politica internazionale del movimento nazionalista sotto la direzione di due battaglieri pubblicisti, Francesco Coppola e Alfredo Rocco, si proclamava la «politica estera» come la «politica per eccellenza», si avrà già una prim a indicazione dell’ottica con la quale il governo fascista prim a e il regime poi avrebbero guar­ dato ai rapporti internazionali dell’Italia e alla ricerca per essa di una nuova collocazione nel mondo. Ben presto nelle enunciazioni della politica mussoliniana comparve la parola d ’ordine, ripresa da Enrico Corradini, del­ l ’imperialismo come «fondam ento della vita per ogni popolo che tende ad espandersi economicam ente e spiritualmente». Senza soffermarsi a specificare di quale tipo di imperialismo dovesse trattarsi, questo stesso richiamo era un elemento di novità rispetto alla tradizione e alla prassi liberali, che, anche quando si era resa protagonista di imprese coloniali ed era incappata in gesti imperialistici, non ne aveva enfatizzato l’alo­ ne retorico e program m atico che avrebbe invece assunto con la gestione del fascismo, quasi a surrogare con la violenza e l’im peto della parola e della propaganda la pochezza di mezzi, militari ma soprattutto economici, di cui poteva disporre un espansionismo italiano. L’im pronta di Corradini era riscontra­ bile ben saldamente nell’affermazione della valorizzazione della m anodopera italiana all’estero non più come valvola di sfogo di un eccesso demografico insopportabile in Italia, secondo la valutazione datane dall’Italia giolittiana che in essa aveva visto una fonte di sostentam ento per una quota non indifferente della popolazione italiana grazie alle rimesse degli emigranti, ma come prolungam ento quasi naturale in territori d ’oltrem are dell’esubero demografico dell’Italia. La prospetti­ va dell’espansione coloniale come elemento di una nuova poli­ tica di potenza, ma soprattutto come prospettiva per la crea­ zione di nuovi insediamenti di popolazione, fu connaturata sin dall’origine alle caratteristiche della politica fascista. La concezione dello stato fascista come stato corporativo, che negava alla radice la divisione della società in classi e la lotta di classe stessa per costituire un indissociabile fascio di forze e di energie, postulava la subordinazione di tutte le ener­ gie della nazione, al di là di ogni interesse di categoria, al di là soprattutto di ogni forma pluralistica di dialettica, ad obiettivi di grandezza e ai espansione che suggellavano la stretta identi­ ficazione di politica estera e sistema politico. N on occorrerà 4

GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

il rivare alla Dottrina del fascismo del 1932 per rinvenire la for­ mulazione di questa concezione dello Stato e di questa forma . Ii coesione della nazione e della società come presupposto di una politica di potenza. La concezione dello stato forte, come presupposto di qualsiasi politica di espansione, era già presente nel pensiero nazionalista e alla vigilia della prim a guerra mondiale era già stata largamente teorizzata, più che da Corradini, da Rocco. Ma su questo terreno andrebbe considerata, certam ente più di uuanto non sia stato fatto finora,-anche l’influenza dell’opera

  • rza, ambasciatore a Parigi: essendo egli stato ministro degli i .ieri del gabinetto Giolitti tra il 1920 e il 1921 e come tale firMi.il ario del Trattato di Rapallo e protagonista della politica di i vicinamente alla Jugoslavia e di ricucitura degli strappi avve­ nni i con la marcia su Ronchi e l’occupazione di Fiume, era •■vvio che egli non potesse non avvertire una istintiva incomp.u ibilità con il governo diretto dal maggiore esponente del I'.n i ito fascista, che era stato l’aw ersario più animoso della sua i"Plica e che si proponeva di imprim ere anche alla politica ■ n-ra dell’Italia un m utam ento di rotta di rilevante portata 101. I'm circoscritto nelle conseguenze politiche, anche se dal l'unto di vista personale non meno significativo, il caso delI .imbasciatore a Berlino Alfredo Frassatin . Ma appunto i due casi personali valevano come l’eccezio­ ne che conferma la regola. I propositi di conferire maggior rigoglio e “dignità” alla tutela degli interessi nazionali, come ■i ;i nei voti del Partito fascista, e come era nel pur generico proi .mima di san Sepolcro, non lasciava certo indifferenti i quadri >In tornatici di formazione liberal-conservatrice o nazional-libei .ile, che avevano piaudito all’impostazione irredentista o fran' .unente nazionalista della G rande G uerra o che avevano i| 'provato l’esibizione del malcontento italiano mal rappreseni il a da Vittorio Emanuele O rlando con il suo provvisorio rifiulo di continuare a sedere al tavolo di Versailles. Nelle sue memorie Raffaele Guariglia, un uomo della carriera che avrà una parte di prim ’ordine ai vertici della diplomazia in tutto il periodo del fascismo, appare come uno dei più rappresentativi esponenti di un m odo di intendere la carriera, quasi come un astratto ente supremo deputato a «difendere sempre, soprati utto e contro tutti, gl’interessi perm anenti della N azione»12. ateressi afri­ cani, non era pensabile un ruolo mediterraneo dell’Italia svin­ colato dalle colonie: la consonanza con alcuni dei temi princi­ pali del nazionalismo e del fascismo appariva quasi nelle cose, prima ancora che in precise scelte politiche. I ricordi alla Guariglia consentono di non limitare il discorso sulla fascistizzazione della diplomazia al reclutamen­ to di nuovi elementi di estrazione più tipicamente fascista compiuto dal regime. Consentono di valutare appunto come all’interno della stessa carriera, senza bisogno di manipolazio­ ni o di forzature, vi fosse un potenziale di collaborazione con la nuova politica estera che non derivava da mera e conformi­ stica aderenza al nuovo potere o da tecnico agnosticismo, ma scaturiva dalla consonanza su talune linee fondamentali che si sarebbero rivelate di carattere decisivo per l’enucleazione del­ l’intera politica estera del fascismo. II problema della fascistizzazione dell amministrazione degli affari esteri esiste di sicuro e va affrontato sotto almeno due profili. Con esso non si deve intendere soltanto l’immis­ sione di personale di esplicita formazione politica fascista nei quadri della carriera consolare e diplomatica, né ci si può limi­ tare a registrare l’ascendenza o la primogenitura fascista di un certo numero di funzionari. L’una e l’altra ipotesi sono verifi­ cabili, ma la verifica puntuale di questi dati risulta meno cla­ morosa di quanto non si potrebbe pensare. Se ci atteniamo ai dati offerti da Fabio Grassi Orsini, il quale ha effettuato la ricerca tuttora più accurata in materia, la fascistizzazione riguardò più il servizio consolare che i quadri diplomatici veri e propri13. Ciò non significa che si debbano sottovalutare gli effetti del reclutamento di personale all’esterno della carriera

    13 Cfr. Fabio Grassi Orsini, La diplomazia, in Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario Giuseppe Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 277-328.

    14

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    .In lu consentito dalla legge 2 giugno 1927, della cui gestione 'i incaricato D ino G ra n d i com e sottosegretario agli Esteri. U n’ulteriore circostanza da tenere presente dal punto di ' la del personale riguarda app u n to l ’inserim ento di quadri i . diiici, di politici del regime, che furono direttam ente investiti li limzioni nell’am bito della politica estera, sino a sfociare nella •i' >inina di m inistri e sottosegretari: G ran d i e Fulvio Suvich furo­ no immessi nella carriera diplom atica allorché lasciarono la car­ d ia rispettivam ente di m inistro degli Esteri e di sottosegretario Ilo stesso dicastero. M a nello stesso am bito rientravano altre ■,ilegorie rivestite di funzioni politiche, com e i dirigenti dell’oranizzazione dei fasci all’estero o com e i responsabili di m ansio­ ni Nell’am bito della gestione coloniale o della propaganda, che i >iii dovendosi tenere distanti per ragioni form ali di com peten­ za dall’am m inistrazione degli Esteri in senso stretto, dal punto di vista funzionale eb bero tuttavia una parte non trascurabile n> Ila gestione delle relazioni internazionali dell’Italia sotto il 1 1 girne. Si tratta di un aspetto che attiene alla fascistizzazione . I>lla strum entazione p er la gestione dei rapporti internazionali > de lla presenza internazionale dell’Italia, discorso che andrebi " ampliato anche ad altre sfere. Sicuram ente, ad esempio, per ■nlauto riguarda la funzione e la gestione degli istituti italiani di . i ili tira all’estero e le scuole italiane all’estero, il cui sviluppo ippartiene all’am m odernam ento della strum entazione anche i>rnica della diplom azia avvenuto soprattutto dopo la prim a guerra m ondiale. T utto ciò parallelam ente alla creazione della n i e delle rappresentanze commerciali, che è anch’essa da meti' tc nel conto dell’am pliam ento delle attribuzioni dello Stato sti­ molato dalla G ran d e G u erra oltre che, com e è stato bene sotto­ lineato da M assim o Legnani, da inquadrare nel contesto di nuovi conati espansionistici in direzione soprattutto del < aucaso e del Vicino O riente, versante sul quale le nuove aspeti alive comm erciali non andavano disgiunte da interessi geopolii ivi e strategici14. M a soprattutto nel caso delle istituzioni cultui ali all’estero non è da sottovalutare l’accentuazione p ropagan­ distica tipica della gestione che ne fece il regime fascista, il quale ne esaltava il ruolo non soltanto in funzione della cultura nazio­ nale e della diffusione della lingua, m a anche in funzione del regime e della sua esem plarità com e m odello politico.

    14 Cfr. Massimo Legnani, Espansione economica e politica estera nell’Italia del 1919-21, «Il Movimento di liberazione in Italia», 108 (lugliosettembre 1972), pp. 3-51.

    15

    CAPITOLO I

    Più complesso è il discorso per quanto riguarda il m olo del Partito nazionale fascista all’estero, un ruolo tipicamente bifron­ te. Da una parte, infatti, esso si presentava come strum ento per l’organizzazione politica degli italiani all’estero; dall’altra, come apparato di propaganda e di indottrinamento proprio nei con­ fronti dell’opinione pubblica internazionale e in prim o luogo dei paesi che ospitavano le organizzazioni del Pnf, operassero esse o no in contrapposizione alle associazioni dell’emigrazione politica antifascista. In quest’ultimo caso si trattava di u n ’attività che esulava certamente dalle iniziative tradizionali delle rappre­ sentanze all’estero e che a buon diritto può essere considerata parte del processo di politicizzazione della presenza all’estero che possiamo sintetizzare con il concetto della fascistizzazione, al di là dei confini strettamente diplomatici. Un segno e una novità dei tempi ma non sempre nettamente separabili dall’am­ bito della diplomazia, che se ne servì e che ne risultò a sua volta influenzata nelle sue funzioni tradizionali o strumentalizzata a fini che in queste ultime non rientravano. Naturalmente, qualsiasi analisi del personale diplomatico di questo periodo deve tenere conto non solo del ricambio generazionale, per cui il personale reclutato alla metà degli anni trenta non poteva non essere, politicamente e culturalmente, diverso dal personale che proveniva dalla tradizione liberale o anche da quella nazionalista confluita nel fascismo all’inizio degli anni venti. E se può essere vero che anche il personale di nuova immissione finiva per essere inglobato nello “spirito di corpo” così fortemente custodito nell’ambito della diplomazia, se non. altro per l ’omogeneizzazione creata dalla specifica pre­ parazione tecnica che forniva u n ’identità culturale comune, il fatto di provenire da una formazione interamente maturata all’interno delle strutture educative e culturali del regime fasci­ sta produceva una differenziazione non riconducibile a fattori meramente generazionali. Che quindi la fascistizzazione entras­ se in una fase nuova alla metà degli anni trenta con la gestione degli affari esteri da parte del nuovo ministro Galeazzo Ciano era un fatto quasi ovvio, anche al di là della connotazione per­ sonalistica che fu impressa dal nuovo titolare del dicastero. Infine, un ulteriore segno della fascistizzazione va visto nella presenza delle voci dei diplomatici nella pubblicistica poli­ tica dell’era fascista. N on era evidentemente nuovo il fenomeno di diplomatici che collaborassero a riviste di politica estera, in qualche m odo tecniche, o culturali, o addirittura a quotidiani; nuovo era però il fatto che diplomatici in carriera collaborasse­ ro a testate pubblicistiche che in regime di negata libertà di stampa avevano finalità direttam ente politiche o addirittura 16

    GLI ESORDI DELI A POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    propagandistiche, come organismi fiancheggiatori o anche ispiratori di una politica estera in senso nazionalista e imperialista. ( >edo che il caso più esplicito sia quello della collaborazione di un nutrito numero di pubblicisti, immessi in seguito dal regime nella carriera diplomatica, alla rivista «Politica», certo la voce più autorevole e più continuistica del vecchio nazionalismo ill’interno del fascismo, e alla stessa «Gerarchia» diretta da Mussolini. Non pochi degli articolisti di «Politica» furono tra i nuovi diplomatici che la politica immise nella carriera: di sicuro ( lantalupo, pubblicista e uomo politico del regime (era stato •ottosegretario alle Colonie al fianco di Luigi Federzoni), edito­ rialista del «Corriere della Sera», tra i teorici della rivolta conii o Versailles e del recupero nazionalista degli italiani sparsi nel mondo, più tardi ambasciatore nella Spagna di Franco e autore di un libro di memorie quanto meno discutibile. Altrettanto si potrebbe dire per Attilio Tamaro, prolifico scrittore di cose sul mondo slavo-balcanico, animato da un antislavismo infarcito di ' i ndizione storica e di odi tenaci e irrevocabili. Un altro colladoratore di «Politica» immesso per meriti politici nella carriera neirinfornata del 1927 fu Leonardo Vitetti, di estrazione fun/.ionariale, il quale nell’ambito della carriera assolse a compiti che lo portarono a stretto contatto con importanti esponenti del regime'(nel caso specifico Ciano), un altro esempio dello scon!inamente del regime nella carriera. Analogamente, tra i collaboratori di «Gerarchia» figurava­ no, oltre a Grandi, un personaggio di primo piano della diplo­ mazia come Guariglia ed esponenti di minore prestigio della •lessa. La collaborazione di Guariglia alla rivista mussoliniana si può considerare in sintonia con l’immagine del diplomatico iulto dedito solo alla cura dell’interesse nazionale che Guariglia .lelinisce nei suoi Ricordi, figlio di una formazione largamente debitrice alla cultura nazionalista che avrebbe trovato la sua ipoteosi nella retorica della Grande Guerra. Ai collaboratori provenienti da ranghi meno prestigiosi della diplomazia appar­ tennero Orazio Pedrazzi, uno dei nuovi addetti alla carriera consolare e poi diplomatica reclutati nella seconda metà degli inni venti con criterio tipicamente politico; e Piero Parini, cne era approdato alla carriera diplomatica attraverso l’esperienza dell’organizzazione dei fasci all’estero 15. 15 Data l’inesistenza in genere di profili biografici dei personaggi citanel testo - ad eccezione di quelli apparsi nel Dizionario biografico degli ita­ liani - le notizie essenziali sul loro rapporto con la carriera si possono desu­ mere dal saggio citato di F. Grassi Orsini. 11

    17

    CAPITOLO I

    IL RUOLO DI MUSSOLINI

    Qualsiasi studio sulla politica estera del fascismo non può non imbattersi in maniera preminente nella figura di Mussolini, non semplicemente per la sua funzione di capo del governo, tanto più in un regime dittatoriale, quanto per la diretta parte­ cipazione alla formazione della volontà politica del paese negli affari esteri. Ciò non avvenne soltanto per il ruolo dirigente fortemente attribuito al capo del governo nella determinazio­ ne degli orientamenti generali del gabinetto, ma soprattutto per il fatto che Mussolini assunse direttamente, per oltre metà degli anni in cui durò il regime fascista, la gestione diretta degli affari internazionali. Fu ininterrottamente ministro degli Esteri dal 1922 al 1929 (sino al giugno del 1924 ad interim con la cari­ ca di presidente del Consiglio); riassunse la titolarità del dica­ stero nel 1932, dopo la parentesi del triennio Grandi (19291932); rimase ministro degli Esteri fino al 1936, allorché dopo aver guidato il paese nella crisi provocata dalla guerra d’Etiopia ne affidò le sorti al fido Ciano; ne riassunse breve­ mente la responsabilità nel febbraio del 1943, quando già si manifestava la crisi interna del paese sconfitto e alle soglie della disfatta del regime sotto i colpi dei rovesci militari. Non risulterà pertanto esagerato il peso che nel corso di tutta la trattazione verrà attribuito al suo pensiero e al modo in cui esso si esternò ad opera dello stesso Mussolini. Una circo­ stanza che può indurre anche ad una breve riflessione sull’uso delle fon ti16. Al di là infatti degli usuali canali della diploma­ zia (quelli interni e anche quelli esterni), le motivazioni di molti atti della politica del fascismo vanno rintracciate, molto più di quanto non possa avvenire per qualsiasi ministro degli Esteri e sotto qualsiasi regime, specificamente nel pensiero di Mussolini, vale a dire in scritti e discorsi prodotti al di fuori delle usuali occasioni diplomatiche. Il ricorso a citazioni dai discorsi di Mussolini è perciò legittimo in quanto rispecchia il nuovo stile della politica (e non solo di quella estera, della poli­ tica tout court) di cui Mussolini e il fascismo si fecero protago­ nisti. L’esigenza di rafforzare l’azione politica con la propagan­ da, come strumento per tenere in tensione permanente una

    16 Al quale proposito è sicuramente da lamentare la mancanza di un edizione critica degli scritti e discorsi di Mussolini che superi i limiti della pur meritoria Opera omnia a cura di E. e D . Susmel, come segnalato nella nota bibliografica.

    18

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    opinione pubblica alla quale si chiedeva soltanto di plaudire alle scelte del capo e del regime, faceva parte della nuova stru­ mentazione politica tipica dei sistemi autoritari e insieme ple­ biscitari, dove il dialogo diretto tra il capo e le folle rivelava lo pseudodemocratismo di questi regimi, che mentre distrugge­ vano il parlamentarismo volevano far credere all’opinione pubblica di aver restituito ai singoli cittadini l’intero diritto di esprimere la loro volontà al di fuori di ogni mediazione politi­ ca. Che Mussolini, sfruttando una buona attitudine giornalisti­ ca, fosse anche un abile e istrionesco oratore politico è larga­ mente risaputo. Che egli abbia posto queste attitudini al servi­ zio dei suoi progetti di politica estera è altrettanto noto, anche se meno si è riflettuto sulle conseguenze politiche di questa pratica soprattutto verso l’esterno. Mussolini infatti non fu solo «il genio della propaganda», secondo la felice espressione coniata da Gaetano Salvemini (nel suo Mussolini diplomatico), fu anche un pessimo politico laddove, con la sua colorita ma non sempre controllata orato­ ria, realizzò la tendenza a forzare con la parola le situazioni sino a erodere ogni margine di flessibilità e di manovrabilità nell’azione diplomatica, comportandosi in maniera esattamen­ te contraria a ciò che al di fuori di ogni ipocrisia è l’immagine ma anche la regola universalmente accettata di ogni diploma­ zia. La mancanza di un reale controllo parlamentare, politico o anche solo di una libera stampa e di una libera opinione pub­ blica nei confronti delle sue prese di posizione, prima ancora che dei suoi atti di governo, nella stessa misura in cui accre­ sceva la sua responsabilità esaltava anche la sua capacità di portare all’estremo l’identificazione delle masse manipolate con il suo credo. I discorsi di Mussolini al pubblico o alle assemblee del regime sono perciò parte di un’unica strumentazione del suo pensiero e della sua azione politica; di essi pertanto si deve tenere conto a pieno titolo, anche perché spesso è attraverso di essi che si può verificare quella indissociabilità di politica este­ ra e politica interna che fu sicuramente tra le caratteristiche peculiari dell’azione del regime. Al di là degli aspetti caratteriali, che come in qualsiasi individuo ebbero notevole importanza nel determinare il ruolo pubblico di Mussolini, ci si deve porre il problema se vi sia stata o no una continuità di concezione nella politica estera di Mussolini e da quali princìpi essa sia stata ispirata. L’ipotesi salveminiana di un Mussolini privo di strategia, animato da puro tatticismo sino a sfociare nell’avventurismo puro e sem­ plice, era certo un derivato della polemica antifascista che 19

    CAPITOLO I

    ---------------------------------------------------------------------------------------------~i

    mirava a demolire la figura del duce; ma poteva essere deter­ minata anche dall’ottica di chi come Salvemini, dovendo seguire l’azione politica di Mussolini giorno per giorno e pre­ valentemente con le fonti della stampa fascista, era costretto ad adottare un metro di valutazione sul breve o brevissimo perio­ do. In realtà, molte delle interpretazioni e delle intuizioni di Salvemini restano valide e non solo in relazione a singoli even­ ti ed episodi. Infatti non è possibile non constatare che, al di là dell’apparenza di occasionalità nelle scelte che di volta in volta il regime adottava, emergevano alcune idee guida, destinate ad attribuire linee di continuità alla sua politica estera anche sul lungo periodo17. Ovviamente è da respingere l’immagine del tutto oppo­ sta, diffusa dagli apologeti ael duce, quasi una caricaturale autorappresentazione, che giurano sulla infallibilità di Mussolini e sulla sua indefettibile coerenza. Scriveva ad esem­ pio Paolo Orano: «Non è possibile nei testi mussoliniani sor­ prendere sia pure una rapida manifestazione di inquietudine, di turbamento, di confusione. Il legislatore e il duce si fondo­ no in una unica personalità di statista che guarda gli eventi esteri senza calcare le tinte, con acutezza e vigile attenzione di astronomo e al caso di microscopista»18. Attraverso aggiustamenti tattici e mediazioni di varia natura, passi falsi e contraddizioni, Mussolini e il fascismo rimasero sostanzialmente fedeli alla politica di affermazione di grande potenza mediterranea e di espansione coloniale. Il fatto che questa politica potè esplicarsi pienamente alla svolta degli anni trenta, in presenza di una congiuntura intemazionale favorevole, non autorizza a concludere che prima di allora il fascismo non avesse un disegno di politica estera, né che al dispiegamento propagandistico non corrispondesse alcuna seria intenzione. Alla luce della personalità di Mussolini, non deve meravi­ gliare l’affermazione secondo cui l’amministrazione di Palazzo

    17 Sono da condividere a proposito degli studi di Salvemini sulla poli­ tica estera del fascismo le considerazioni svolte nel saggio di Nicola Tranfaglia, Gaetano Salvem ini storico del fascism o, ora in la ., Labirinto ita­ liano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989, in particolare alle pp. 234-237. 18 In Paolo Orano, nella prefazione a Benito Mussolini, Politica este­ ra, a cura e con prefazione di P. Orano, Roma, Casa editrice Pinciana, 1937 ( «Le direttive del duce sui problemi della vita nazionale»), p. 9.

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    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    Chigi rimase in secondo piano rispetto alla sua personale ini­ ziativa; questo è sicuro per il periodo della presenza di Suvich come sottosegretario agli Esteri, durante il quale sembra sia rimasta ben definita la funzione del sottosegretario di capo del dicastero, con funzioni per così dire più tipicamente burocra­ tiche e tecniche, come confermerebbe lo stesso Suvich. «La mia attività - si legge infatti nelle sue Memorie - era natural­ mente subordinata alle direttive generali della politica estera, alle quali Mussolini dava il tono, ma nello stesso tempo mi consentiva un certo spazio di autonomia, dato che egli era impegnato anche con altri Ministeri. D ’altronde Mussolini era accessibile a influenze più di quanto si potrebbe pensare: era però necessario essere in contatto continuo con lui, come era appunto il mio caso»19. Diverso era stato e fu certamente il rapporto con Grandi. Anche al di là di quanto lo stesso interessato racconti (nei primi capitoli de II mio paese), è facile intuire le ragioni e le caratteristiche di questi rapporti. Grandi era uomo di perso­ nalità certamente assai più spiccata di quanto non fosse Suvich. Era inoltre uomo della vecchia guardia del fascismo: non era stato scelto per la sua competenza specifica, ma come uomo di fiducia di Mussolini e insieme figura di prestigio del Partito fascista e del regime. A lui tra il 1925 e il 1929, prima ancora di fargli assumere la carica di ministro degli Esteri, Mussolini delegò di fatto buona parte della gestione della poli­ tica estera. Sapeva di avere in lui un interprete assai fidato dello spirito della rivoluzione fascista, al quale poteya lasciare sufficiente autonomia senza avere a temere collusioni con un’amministrazione come quella degli Esteri, ritenuta non suf­ ficientemente in linea con U regime. Inoltre Grandi aveva una grinta e uno spirito di iniziativa che ben si confacevano alla fase di vera e propria fondazione di una politica estera del fascismo. Senza bisogno di mettere in prima linea il Partito fascista, Grandi fu il vero artefice della “fascistizzazione” della diplomazia e della politica estera: era in grado di tenere distin­ ti i ruoli funzionali unificandoli nello spirito della rivoluzione fascista. Questo fu nei confronti di Mussolini e del regime il suo merito storico, la sua grande realizzazione. Quali che fossero le ragioni per cui fu allontanato dalla gestione diretta degli affari esteri (Mussolini dirà più tardi che

    19 Fulvio Suvich, M emorie 1932-1936, a cura di Gianfranco Bianchi, Milano, Rizzoli, 1984, p. 4.

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    CAPITOLO I

    si era lasciato imprigionare dallo spirito “societario”), Grandi non cessò mai di essere il fedele seguace di Mussolini e del regime. La gestione dell’ambasciata a Londra prima sotto Mussolini e poi sotto Ciano ne diede la lucida conferma. I con­ trasti che sarebbero affiorati con Mussolini e soprattutto con Ciano riguardavano più il metodo per portare avanti nel migliore dei modi le istanze internazionali del fascismo che una possibile linea alternativa alla politica del regime. Se di doppiezza si può parlare anche nella politica estera del fasci­ smo, Grandi fu certamente il rappresentante più eminente di questa doppiezza. Non l’esponente pacifista del fascismo, neanche di quello degli anni venti, come improvvidamente (e non solo impropriamente) hanno voluto vedere interpreti quali Paolo Nello o Renzo De Felice, ma l’abile protagonista di una politica di equilibrio, che senza smentire lo spirito squadristico del fascismo anche negli affari internazionali ne frena­ va 1’awenturismo, non le ambizioni espansionistiche. Il suo ostinato tentativo di stabilire un legame permanente con l’am­ biente conservatore e filofascista inglese indica una consape­ volezza dei rischi di isolamento ai quali l’Italia si esponeva: consapevolezza che avrebbe potuto rappresentare un argine al capovolgimento delle alleanze e all’allineamento alla Germania nazista. Ma il suo disprezzo per le democrazie occidentali, che rispondeva alla sua più intima anima di fascista, fece d ’altra parte velo alla sua capacità di individuare in prospettiva i pro­ tagonisti e i caratteri di uno scontro che non si profilava come semplice conflitto tra potenze ma come crisi culturale e di civiltà. Anche Grandi, per formazione culturale e per ideali politici, apparteneva alla generazione e alla classe politica che si era alimentata dei miti del combattentismo e del nazionali­ smo, soprattutto dell’idea dell’impero e dell’espansione africa­ na dell’Italia, vero e proprio principio ispiratore e costante del suo pensiero e della sua azione politica. Il dileggio della demo­ crazia, che nasceva anche in lui dal mito dei popoli giovani, e il gusto di contribuire a dare scacco matto alia senescenza dei popoli che in essa avevano inverato la loro identità politica, fece sì che egli si comportasse da fedele subalterno di Mussolini anche quando sembrava che avesse una più sensibile percezio­ ne degli schieramenti in campo. Anche Grandi sembra offrire la riprova di come per il periodo del fascismo non si possa par­ lare tanto di primato della politica estera, quanto piuttosto di primato dell’ideologia: quello che in lui viene apprezzato come esempio e prova di realismo (la famosa frase dell’attribuzione all’Italia del «peso determinante», quasi a farne l’arbitra delle contese tra le potenze) non solo non era capace di definire un 22

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    ruolo attivo e propositivo della politica italiana, ma al caso sol­ tanto un suo intervento subalterno; soprattutto non era il risul­ tato di una ricognizione ponderata dello stato delle forze in campo e dei rapporti di forza esistenti, ma la mera rivendica­ zione ideologica di un ruolo inventato, del quale bisognava incominciare appena a costruire le premesse. Apparentemente, il rapporto meno problematico Mus­ solini lo ebbe con Ciano come ministro degli Esteri. La testi­ monianza del Diario di Ciano è fondamentale per capire come, nel rapporto con i suoi collaboratori, la figura di Mussolini finisse per diventare determinante non soltanto per il ruolo istituzionale che egli rivestiva ma anche per la prepotenza di una personalità che dal punto di vista politico non aveva alcun riscontro nel resto del quadro dirigente fascista. Non solo era lui ad avere l’ultima parola; l’analisi delle valutazioni politiche e del momento in cui cadevano le scelte politiche determinan­ ti farebbe intravedere quanto poco tra i due esistessero un reale dialogo e una vera consultazione reciproca, in un conte­ sto in cui Fazione di Mussolini uomo di Stato e protagonista politico risulta, anche forse al di là del vero, fortemente dipen­ dente dall’altalena di umori e di reazioni emotive dell’uomo Mussolini. È difficile ipotizzare l’affermazione di istanze speci­ fiche della politica estera attribuibili a Ciano che non fossero consonanti con le linee maestre del disegno costruito da Mussolini; anche nelle imprese che siamo soliti definire più propriamente legate alla visione di Ciano, quali la partecipa­ zione alla guerra di Spagna o la conquista dell’Albania, biso­ gna valutare se la spinta che esse ricevettero da Ciano sia stata determinante dal punto di vista della scelta o se non si sia trat­ tato soltanto di un’attuazione, in modalità congruenti con la personalità di Ciano, di scelte che rientravano naturalmente dentro i binari delle grandi linee della politica tracciata da Mussolini. Non esiste una linea politica di Ciano alternativa alla politica mussoliniana per tutto l’arco del ventennio fasci­ sta: i fatti che portarono alia destituzione di Ciano nel febbraio 1943 e il suo comportamento nelle vicende che sfociarono nelle decisioni del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio denotarono una divaricazione nei comportamenti dei due esponenti fascisti strettamente legata alla maturazione della crisi del paese sconfitto, come crisi complessiva che investiva anche il regime fascista e il vincolo dell’alleanza con la Germania. Ma fin quando le cose erano andate bene, anche nei primi anni della guerra, Ciano era stato il fautore più spinto, in odio soprattutto alla Francia e anche per disprezzo dell’In­ ghilterra, del rovesciamento di fronte rispetto alle alleanze della 23

    CAPITOLO I

    Grande Guerra e il più tenace costruttore dell’alleanza con la Germania nazista. Osservatore superficiale, fornito di una mediocre e tutta esteriore cultura e preparazione tecnico-cultu­ rale, dotato di una notevole dose di cinismo che gli consentiva di apparire più di una volta involontariamente spregiudicato nel giudicare uomini e situazioni, Ciano si mosse spesso come dilettante più che come serio esponente politico. Era uomo di rappresentanza e di parata, che non si sa quanto mise, dell’e­ sperienza che si era fatto come ministro della Cultura popolare e della Propaganda, al servizio della politica estera del regime, o quanto viceversa tendesse a riportare la politica estera nel suo complesso al livello della propaganda. Il risentimento antitede­ sco, che incominciò a nutrire dopo l’agosto del 1939 nell’immi­ nenza della scadenza bellica, quando anche l’Italia ormai stava per essere irrevocabilmente coinvolta nel conflitto, rimase anch’esso allo stadio epidermico, perché una risoluta scelta politica alternativa era neutralizzata in lui dallo stato d’animo pregiudizialmente e prevalentemente ostile alle democrazie occidentali, e segnatamente alla Francia. Non giovarono certo né ai rapporti politici tra Mussolini e Ciano, né tanto meno alla politica estera dell’Italia, i loro ambivalenti rapporti personali. Essi accrebbero di sicuro la subalternità di Ciano al capo del governo e fecero sì che circo­ stanze emotive e private interferissero in un rapporto che di per sé era già gerarchico per ragioni funzionali, trasformandolo in una vera e propria forma di soggezione personale. La mancan­ za di coraggio civile, e talvolta anche solo di dignità, nella per­ sona di Ciano ridusse spesso la sua funzione di ministro degli Esteri al ruolo di comparsa o di mero megafono o ripetitore del suo capo. Così come non seppe guardare in faccia la realtà e mettere in guardia Mussolini da gesti azzardati e propagandi­ stici, scambiati per atti di coraggio o fidando nel rischio calco­ lato, Ciano finiva per cadere nel servilismo più sciocco e gra­ tuito, per vanità o per semplice mancanza di senso di responsa­ bilità. Era troppo sensibile all’adulazione e al gioco delle appa­ renze per non cedere a blandizie o vanagloria, e usava le stesse armi del bluff per colpire l’immaginazione dell’interlocutore. Gli atti diplomatici dimostrano tuttavia che pochi si lasciarono ingannare dai trucchi o dalle rodomontate di Ciano; all’epoca della guerra di Spagna i diplomatici inglesi dovettero incassare le sue menzogne, non sappiamo se per consumata diplomazia o perché a loro volta irretiti dalla loro stessa politica àa\\’appease­ ment, più che per l’efficacia e per la credibilità delle giustifica­ zioni con le quali Ciano copriva i comportamenti dell’Italia. La coppia Ciano-Mussolini finì così per esasperare gli aspetti peg­ 24

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    giori dei due personaggi, poiché invece di esercitare un con­ trollo reciproco sulle rispettive iniziative e sugli scarti umorali dell’uno e dell’altro i due finirono per esaltare il proprio spiri­ to d’emulazione e l’awenturismo, sommando provocazioni a improvvisazioni. Troppo tardi Ciano capì in quale vicolo cieco si fosse cacciata l’Italia isolandosi dalle democrazie occidentali e vincolandosi unilateralmente alla Germania nazista, ma non aveva la capacità e la statura per essere se stesso: quando non era più possibile recitare, ma era necessario operare senza maschera, il personaggio venne meno, mostrando che sotto la superficie vi era ben poca sostanza 20.

    CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ: DA CORFÙ A LOCARNO

    Tentare di tracciare le diverse fasi attraversate dalla politica estera del fascismo significa non soltanto individuare al suo interno gli elementi di continuità e i momenti di svolta, ma anche prenderne in considerazione la specificità e le influenze che subì dalle esperienze dellTtalia prefascista. C’è un momen­ to preciso in cui decolla una politica, estera specificamente fascista? La maggioranza degli interpreti sembra concorde nel fissare un punto ai non ritorno nell’abbandono della segreteria della Consulta da parte di Salvatore Contarmi, segretario gene­ rale dalla fine del 1919 e il vero garante, nella alternanza dei titolari del dicastero degli Affari esteri, della continuità della gestione non soltanto amministrativa e tecnica ma anche politi­ ca dell’apparato diplomatico. Giampiero Carocci sottolinea la profonda differenza tra la politica estera del fascismo anterior­ mente al 1925 e quella del periodo successivo, proprio in ragio­ ne del fatto che fino al 1925 Mussolini avrebbe fatto propria la direttiva diplomatica trovata a Palazzo Chigi21. La questione Contarmi sembra diventata la tappa obbligata per chiarire il momento nel quale il fascismo abbandonò definitivamente il

    20 È da sottolineare che anche nel caso di Ciano la mancanza di una biografia scientifica non contribuisce alla collocazione storica del personag­ gio; delle biografie disponibili quella di Orio Vergani ( Ciano una lunga con­ fessione, Milano, Longanesi, 1974) indulge al profilo psicologico e al più di costume, quella di Giordano Bruno Guerri (Galeazzo Ciano. Una vita 19031944, Milano, Bompiani, 1979) si limita ad una ricostruzione descrittiva par­ tendo essenzialmente dalle stesse note autobiografiche di Ciano. La prima biografia, quella di Duilio Susmel, Vita sbagliata di Galeazzo Ciano, Milano, Palazzi, 1962, è anche quella meno attenta alla dimensione critica. 21 Cfr. Giampiero Carocci, La politica estera dell’Italia fascista 19251928, Bari, Laterza, 1969, pp. 19 sg.

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    tracciato della politica liberale venata da un moderato naziona­ lismo, che era stata praticata dai ministri Carlo Schanzer e Sforza sulla base dell’accettazione dei trattati di pace, e che da Versailles a Rapallo aveva spianato la strada anche alla graduale correzione delle soluzioni avversate a Versailles, massime nella questione adriatica in cui l’equilibrio, e prima ancora il buon senso, di Contarini evitarono che venisse adottata una politica pregiudizialmente ostile alla nuova Jugoslavia. Contarini non ebbe il tempo di essere coinvolto né nella riapertura in grande stile della questione coloniale, che sarà una delle prerogative prioritarie della nuova politica estera, né nella questione degli armamenti e nella definizione della nuova gerarchia delle potenze in Europa. Ma ebbe certamente un ruolo importante, di moderatore, nel primo passo falso che Mussolini, contraddicendo la prudenza delle prime sortite sulla scena internazionale, compì nell’agosto del 1923, all’epo­ ca dell’incidente di Corfu, allorché l’uccisione ad opera di irre­ golari greci del presidente italiano generale Enrico Teliini e di altri membri della commissione internazionale deputata alla fissazione dei confini greco-albanesi lo spinse a mostrare i muscoli e a fare cannoneggiare e poi occupare l’isola dello Jonio. Un gesto di forza che rivelava un comportamento det­ tato essenzialmente da un esasperato senso dell’onore nazio­ nale e della difesa del prestigio dell’Italia, tipico dello stile nazionalista del fascismo, una spia emblematica di quella che ne sarebbe stata la politica estera. Espressione di «volontà di sopraffazione» (Di Nolfo), «gesto di intimidazione» (Carocci), episodio dell’«awenturosa politica fascista» (Salvatorelli), come è stato variamente definito, per Ruggero Moscati Corfù fu «la prima tipica manifestazione della politica estera mussoliniana», quella con cui «cominciò a delinearsi il dissidio Mussolini-Contarini» 22. Più del fatto, di per sé sicuramente grave e destinato a suscitare clamore e ripro­ vazione all’esterno, la questione di Corfù appare significativa anche del metodo fascista per il modo in cui ne fu pilotata la conclusione, ossia per il rifiuto dell’Italia di accettare di sotto­

    22 Cfr. Ennio D i N olfo, Mussolini e la politica estera italiana 19191933, Padova, Cedam, 1960, pp. 81-89; G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit., p. 21; Luigi Salvatorelli, Il fascismo nella politica inter­ nazionale, Modena-Roma, Guanda, 1946, p. 72; Ruggero Moscati, Gli esor­ di della politica estera fascista. Il periodo Contarini. Corfù, in Augusto Torre e al., La politica estera italiana dal 1914 al 1943, prefazione cu Giuseppe Rossini, Roma, Eri, 1963, pp. 84-87.

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    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    stare alia giurisdizione della Società delle Nazioni23. Ma anche in questo caso non sarebbe stato possibile al governo italiano sottrarre alla Società delle Nazioni il caso e farlo rientrare uni­ camente nella competenza della conferenza degli ambasciatori se altri stati, e in primo luogo Francia e Inghilterra, non avesse­ ro avuto interesse ad assecondare i propositi del governo fasci­ sta. E chiaro che l’avere Contarmi assecondato il riassorbimen­ to della crisi, consentendo a Mussolini di imboccare la strada di una onorevole ritirata, fu un fatto decisivo dal punto di vista della reputazione internazionale dell’Italia, ma troppo poco conosciamo tuttora dei suoi rapporti con Mussolini e con i primi passi di una diplomazia fascista già presente nelle articolazioni stesse del ministero sin dalla nomina a sottosegretario agli Esteri di Grandi; e anche della coabitazione Grandi-Contarini sappia­ mo tuttora troppo poco, sebbene sia del tutto plausibile l’affer­ mazione secondo cui Grandi prese quota dopo le dimissioni di Contarmi24. L’ultimo atto, e forse il più rilevante, della presenza di Contarmi andrebbe riscontrato nel modo in cui guidò l’Italia ad aderire al Patto di Locamo, nel quale si è voluto vedere «il capo­ lavoro di Contarmi»25, un modo di valutare le cose che vuole coronare la visione di Contarmi come «organizzatore della poli­ tica estera liberale imposta al fascismo»26. Contarmi appartiene in realtà alla fase della politica delle alleanze del fascismo, alla fase in cui era interesse del nuovo movimento al potere mostrare un volto conciliante verso l’inter­ no ma anche di ragionevole moderazione verso l’esterno. L’incidente di Corfù rischiò di fare saltare anzitempo la ricerca di questo nuovo equilibrio, e in ciò la presenza di Contarmi giocò fortemente a favore del governo fascista. Più che essere lui a imporre scelte liberali al governo fascista, fu quest’ultimo che si servì di Contarmi e ne strumentalizzò l’immagine e l’esperien­ za in una delicata fase di assestamento. Da qui tuttavia a con­ cludere che «durante il lungo periodo in cui si è esercitata la sua influenza sulla politica estera italiana, tutto quello che di meglio è stato fatto risale a Contarmi: tutto quello che di meno buono

    23 Sulla questione rimane valida l’opera non più recentissima di James Barros, The Corfu Incident o f 1923. Mussolini and the League o f Nations, Princeton, Princeton University Press, 1965. 24 F. Grassi Orsini, La diplomazia, cit., pp. 290-292. 25 Legatus (pseudonimo di Roberto Cantalupo), Vita diplomatica di Salvatore Contarmi, Roma, Sestante, 1947, pp. 119 sg. 26 Legatus, Vita diplomatica di Salvatore Contarmi, cit., p. 84.

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    CAPITOLO I

    è stato fatto, o non è stato voluto da lui o egli non ha avuto la possibilità d’impedirlo» 27 ce ne corre. Era chiaro che prima o poi Contarmi se ne sarebbe andato: ciò dipendeva dal ritmo che avrebbe assunto il processo di impossessamento della mac­ china del dicastero degli Esteri da parte del nuovo apparato politico-amministrativo. La presenza di funzionari di tradizione tiberal-nazionale non contraddiceva alle ragioni della “fascistiz­ zazione” dell’apparato, poteva addirittura tornare a suo profit­ to. Diverso era il caso di una personalità di rilievo e di spicco come Contarini, che poteva mettere in ombra uomini del regi­ me e costituire comunque, anche verso l’esterno, una sorta di contraltare del titolare del dicastero. Preferiamo cioè lavorare sull’ipotesi che la sorte di Contarini fu legata, più che a furbizie o all’illusione di poter evi­ tare che la politica estera imboccasse un corso apertamente illi­ berale, all’esaurimento della fase di assestamento del regime, che si servì di Contarini per acquisire credito e fiducia a livello internazionale e se ne liberò quando ritenne di avere assunto sufficiente maturità e capacità di conduzione politica nel campo internazionale. Sicuramente l’allontanamento di Contarini rappresentò un primo elemento nella periodizzazione della politica estera del fascismo, non soltanto per quello che la sua scomparsa significava dal punto di vista della “fascistizzazione”, cui non si opponeva più alcun ostacolo. Ma anche perché esso veniva a coincidere proprio con la politica di Locamo. Tuttavia, prima ancora di analizzare il significato della poli­ tica di Locamo, è bene soffermarsi su un episodio in cui sembra ancora ben evidente l’influenza moderatrice di Contarini e del suo proposito di reintrodurre la Russia come fattore del gioco diplomatico in Europa per controbilanciare il peso di Gran Bretagna e Francia, con riguardo soprattutto all’influenza di queste ultime nel teatro balcanico, ma probabilmente anche come variabile mobile nel ventaglio delle possibilità su cui di volta in volta avrebbe dovuto scommettere l ’Italia. Esempio appunto di un modo di procedere improntato essenzialmente a pragmatismo proprio in un terreno in cui sarebbe stato facile porre pregiudiziali ideologiche fu il ricono­ scimento che il governo fascista accordò all’Unione Sovietica all’inizio di febbraio del 1924. Segno di una fase di assestamen­ to della politica estera del fascismo e della necessità di fare

    27 Pietro Quaroni, Valigia diplomatica, Milano, Garzanti, 1956, p. 21.

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    GLI ESORDI DELIA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    intendere a Francia e Inghilterra che l’Italia era intenzionata a rafforzare la sua autonomia; paradossalmente, nell’agosto del 1939 ben altra sarebbe stata la reazione stizzita dei capi del fascismo alla conclusione del patto tedesco-sovietico che veni­ va a deprimere l’antibolscevismo dei fascismi e a cancellare (temporaneamente) la conclamata incompatibilità ideologica tra i regimi. Ma nel 1924 Mussolini operava in una costellazio­ ne politica assai diversa; del resto, sin dal suo primo discorso programmatico nel novembre del 1922 aveva preannunciato la volontà di normalizzare i rapporti con la nuova Russia prescin­ dendo dalla considerazione delle sue condizioni interne. Certo, l’Italia agì nella prospettiva di un allettante accordo commer­ ciale (il 7 febbraio 1924, contestualmente all’invio a Mosca di un rappresentante diplomatico, fu firmato il trattato di com­ mercio e navigazione), che avrebbe dato frutti meno ricchi di quanto era stato preventivato; in realtà, la conclusione dell’ac­ cordo va intesa alla luce dello sforzo di sottolineare la libertà di movimento dell’Italia (solo l’Inghilterra allora aveva già ricono­ sciuto l’Urss tra le potenze europee). Più dubbio, anche se non da escludere, il collegamento con la stipulazione degli accordi (conclusi appena prima) con la Jugoslavia, quasi a volere opporre alla tradizionale solidarietà fra i popoli slavi una serie di vincoli bilaterali che legittimavano l’Italia a dotarsi di stru­ menti per fronteggiare un’eventuale pressione congiunta sul versante balcanico 28. In realtà che cosa aveva significato l’adesione dell’Italia al Trattato di Locamo? Dal punto di vista della diplomazia contariniana si deve pensare che la prospettiva di Locamo dovesse significare soprattutto la conferma dell’allineamento dell’Italia alle potenze dell’Intesa, il rifiuto cioè di un comportamento iso­ lato destinato prima o poi a sfociare in una vera contrapposi­ zione ai vecchi alleati. In secondo luogo, l’accettazione del prin­ cipio di una revisione negoziata e concordata dei trattati di pace, quale sicuramente si presentava l’apertura fatta alla Germania, che veniva ammessa alla Società delle Nazioni e alla quale veniva offerta la garanzia dell’intangibilità della frontiera occidentale - che era ovviamente una garanzia anche a favore della Francia - come primo passo per una ridiscussione collet­ tiva dei problemi della sicurezza.

    28 Sul riconoscimento dell’Urss: G. Carocci, La polìtica estera dell’Italia fascista, cit., p. 20; E. D i Nolfo, Mussolini e la politica estera italia­ na, cit., pp. 108-110; Rosaria Quartararo, Italia-Urss 1917-1941. I rapporti politici, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, cap. I.

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    CAPITOLO I

    Il secondo aspetto, il principio della revisione concorda­ ta dei trattati di pace, era quello che in quel momento poteva importare maggiormente al governo fascista, sicuramente in attesa del momento favorevole per riaprire il contenzioso con i vecchi alleati sui problemi che più interessavano l’Italia. Affermare il principio della revisione attraverso il suo ricono­ scimento a favore della grande potenza sconfitta, la Germania, soddisfaceva un’esigenza di principio e andava al tempo stesso incontro alle preoccupazioni italiane di salvaguardare le con­ quiste della prima guerra mondiale dal pericolo di un risor­ gente irredentismo austro-germanico con riferimento diretto all’Alto Adige. Imbrigliare la Germania in un meccanismo multilaterale di sicurezza era l’obiettivo principale - e non solo a breve termine - della partecipazione italiana a Locamo. Locamo imponeva vincoli alla Germania ma vincolava anche Parigi e Londra ad astenersi da mosse unilaterali e stava comunque a significare un possibile superamento della divi­ sione netta tra vincitori e vinti, e della stessa spartizione, nel­ l ’ambito del fronte dei vincitori, tra potenze vincitrici a pieno titolo e stati che si sentivano declassati e considerati potenze di secondo rango. Parve allora conveniente al governo italiano di Mussolini partecipare al patto anche per i collegamenti che erano stabili­ ti tra il meccanismo delle garanzie di sicurezza interessanti i paesi contraenti e la disciplina più generale prevista dal patto della Società delle Nazioni. Anche in anni successivi, quando si impegnò nella trattativa per il disarmo, il governo italiano non cessò di sottolineare che la sede naturale di qualsiasi nego­ ziato doveva essere la Società delle Nazioni e non la capitale di uno dei singoli stati contraenti. Lo scopo dell’atteggiamento dell’Italia non aveva niente a che fare con una eventuale infatuazione societaria, né tanto meno con chimere pacifiste. Si trattava sempre di tenere l’Italia agganciata a un negoziato multilaterale e di impedire in questo modo la fuga a due di potenze che avessero aspirato a porsi in posizione cu punta per guidare gli stati europei, un sospetto che continuava a sorgere soprattutto nei confronti della Francia. Ad essa non sarebbe spiaciuto un direttorio anglo-francese, diretto allora principalmente contro la Germania, un obiettivo alla cui ispirazione non fu certo estranea neppure l’Italia. Tuttavia, tra Francia e Italia permanevano tensioni che si sarebbero dimostrate invalicabili. Nei confronti dell’Italia le riserve francesi non erano alimentate soltanto dall’ostilità alle rivendicazioni legate alla problematica di Versailles (e alle per­ sistenti recriminazioni dell’Italia soprattutto sul terreno colo­ 30

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    niale); esistevano anche più recenti motivi di attrito in stretto rapporto con il regime politico che si era affermato in Italia e con l’avversione dell’opinione pubblica e dei partiti politici di centro-sinistra in Francia nei confronti del fascismo. In questo contesto, la polemica fascista contro i fuoriusciti in Francia e le loro campagne di denuncia contro il fascismo erano soltan­ to un aspetto, anche se nell’amplificazione che ne fece la pro­ paganda fascista rischiarono di assumere una rilevanza che andava ben al di là della loro dimensione reale. Si può dire che per tutti gli anni venti la diplomazia fasci­ sta, se non fu certo inerte, non assunse però, con l’eccezione del fatto di Corfù, iniziative clamorose. Questo non vuol dire che essa non gettasse le basi per la nuova politica estera. Mirò a tessere una rete estesa di rapporti, che corrispondeva anche al mutamento e alla diversificazione del personale delle amba­ sciate e dei consolati all’estero che erano entrati a far parte della nuova attrezzatura di sostegno all’azione internazionale e che furono opera precipua del sottosegretario Grandi. Ne nac­ que una struttura in cui si mescolavano e si rafforzavano a vicenda le funzioni diplomatiche e consolari tradizionali, rin­ vigorite anche sul piano tecnico da nuove rappresentanze com­ merciali e culturali, e i supporti agitatori e propagandistici for­ niti dalla nuova strumentazione che in Italia e all’estero si appoggiava direttamente alle strutture del Partito fascista. Gli anni tra il 1922 e il,1922^a grandi linee, si possono considerare anni di preparazione, se non proprio di tirocinio. In essi prevalse comunque, assieme alla preoccupazione espressa dall’adesione a Locamo di non rompere compietamente con i vecchi alleati dell’Intesa e di frenare la volontà di rivincita della Germania, l’interesse nei confronti dell’area danubiano-balcanica, come residuo anche di vecchie velleità a spostare nell’area orientale del Mediterraneo (retaggio ancora della guerra di Libia) il peso dell’influenza dell’Italia come potenza in ascesa. Giocava in questo orientamento anche l’e­ redità della questione adriatica, certo una delle maggiori ipo­ teche che pesò sulla politica italiana dopo la Grande Guerra, ma anche un fattore ai identificazione che contribuiva a sottolineare la continuità con la tradizione nazionalista e al tempo stesso l’incapacità e l’impossibilità di sviluppare le premesse di un’apertura liberale sui problemi dell’Adriatico poste dal Trattato di Rapallo. Sino al tornante della Grande Crisi, tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta, in un contesto internazionale nel quale non si ridisegnavano ancora scenari ed equilibri radicalmente nuovi, la politica estera dell’Italia fasci­ sta fu di prudente consolidamento di premesse esistenti (anche 31

    CAPITOLO I

    la riconquista della Libia va vista in quest’ottica alla luce del rinnovato interesse prestato alla questione coloniale) più che orientata all’apertura di nuovi campi di iniziativa e dì nuovi orizzonti. Questo non significa che non si manifestassero accenti tali da conferire un significato diverso alla stessa valo­ rizzazione di quelli che in apparenza erano semplici punti fermi di una situazione preesistente. Proprio la questione dell’adesione al Patto di Locamo può essere utile per chiarire il concetto appena esposto, perché mentre la maggioranza degli interpreti non vi ha visto altro che la conferma di vecchi orientamenti (Rumi, Moscati, Carocci, Anchieri) nella fase iniziale della politica estera del fascismo, in una prospettiva più dinamica bisogna porsi il problema della sua funzionalità non al semplice mantenimento dello status quo, che contrariamente alle spinte revisionistiche già presenti nei protagonisti della politica fascista coincideva con l’interes­ se marcato della politica italiana a non perdere terreno rispet­ to ai vecchi alleati, ma alla prospettiva di dare all’Italia quel ruolo di grande potenza che rappresentava, se non la meta, certo la parola magica del dopoguerra. Locamo sembra la rivincita di Versailles: consideratasi declassata a Versailles, l’Italia («vittoriosa sì ma insoddisfatta» secondo la formula di Coppola) sembra riacquistare la parità tra i grandi con la par­ tecipazione a Locamo, che nell’ottica dell’Italia e sul lungo periodo si può vedere anche come l’anticipazione del Patto a quattro e clella formula di Monaco, come proiezione costante di quell’idea di un direttorio delle potenze, delle quali l’Italia fosse parte componente a titolo paritario, che ridimensionasse le tendenze all’egualitarismo tra gli stati. Questo egualitarismo veniva respinto nella versione della Società delle Nazioni - e lo sarebbe stato a maggior ragione in qualsiasi altra forma - per affermare sempre e dovunque la priorità di un nucleo forte di potenze, in una sorta di vera e propria gerarchia di stati. L’Italia non solo non fu tra le potenze promotrici del Patto di Locamo, ma si può dire che diede la sua adesione all’ultimo momento. L’idea del patto renano come garanzia per la Francia dell’intangibilità della frontiera occidentale della Germania fissata a Versailles non incontrava l’ostilità dell’Italia per ragioni di principio; l’Italia diffidava certo di accordi per la sicurezza tra Francia e Germania, ma intendeva approfitta­ re della circostanza soprattutto per agganciare all’accordo renano una garanzia internazionale anche per la frontiera al Brennero e contro l’eventuale Anschluss dell’Austria alla Germania. La contraddizione della politica di Mussolini con­ sistette nel fatto che, mentre chiedeva una copertura interna­ 32

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    zionale alla duplice esigenza di sicurezza, l’Italia non era dispo­ sta a dividere con altri (e in primo luogo con la Francia) l’ege­ monia sull’Europa danubiana e balcanica e una influenza sull’Austria allo scopo di garantirle la possibilità di meglio resi­ stere alle pressioni o alle profferte di Anschluss. Propugnatore dello status quo per quanto riguardava le frontiere della Germania, Mussolini non intendeva precludersi la via della revisione della situazione esistente nell’Europa sudorientale, ma soprattutto si illudeva che tutto ciò potesse avvenire asse­ gnando all’Italia un ruolo egemone alla testa dei molti revisio­ nismi che incominciavano a manifestarsi nel settore, dalla Bulgaria all’Ungheria. La valutazione di Locamo oscilla tra il giudizio della pubblicistica coeva, che rivendicava alla tardiva partecipazio­ ne dell’Italia il merito di averne assicurata la presenza «là ove operava la grande politica, tra le più grandi potenze d’Europa» 29, e l’affermazione categorica che la firma del Patto di Locamo abbia rappresentato «una sconfitta per l’Italia»30, alla quale avrebbe fatto seguito la tenace volontà di prendersi la rivincita sul terreno della politica di potenza. In realtà, aveva ben visto Salvatorelli quando affermava che «lo “spirito di Locamo” era antitetico a quello del fascismo»31. La Germania nazista avrebbe concepito un decennio più tardi il progetto di una dominazione continentale, forse anche come premessa per un ruolo guida planetario; l’Italia non avrebbe potuto aspirare a tanto. Per i dirigenti fascisti il ruolo di potenza dell’Italia poteva dirsi conquistato se l’Italia fosse entrata in un novero ristretto di stati capaci di condizionare e

    29 Francesco Saverio Giovannucci, Locamo, Roma, Edizioni Roma, 1935, p. 207. 30 Howard James Burgwyn, Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 67 sg. 31 L. Salvatorelli, Il fascismo nella politica internazionale, cit., p. 76. Ma in generale sulla questione: Ruggero Moscati, Locamo. Il revisionismo fascista. Il periodo Grandi e la nuova fase della politica estera, in A. Torre e al., La politica estera italiana dal 1914 al 1943, cit., pp. 92-117; E. D i Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana, cit., cap. Ill; G. Carocci, La politica este­ ra dell’Italia fascista, cit., cap. IV; H. J. Burgwyn, Il revisionismo fascista, cit., capp. ii -iv ; Renzo D e Felice, Mussolini il duce, 2 voli., Torino, Einaudi, 19741981, voi. I, Gli anni del consenso 1929-1936, cap. rv, in particolare pp. 349365; da ultimo Matteo Luigi Napolitano, Mussolini e la conferenza di Locamo (1925). Il problema della sicurezza nella politica estera italiana, Urbino, Ed. Montefeltro, 1996.

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    CAPITOLO I

    di determinare lo sviluppo dei rapporti internazionali, parten­ do intanto da un ruolo mediterraneo e specificamente balcani­ co. L’enfasi posta da taluni interpreti (De Felice) sulla origina­ lità dell’ipotesi di un peso determinante dell’Italia a sostegno di uno o di un altro schieramento di potenze in Europa è la migliore dimostrazione dei limiti non solo oggettivi che si ponevano all’iniziativa dell’Italia, in ogni caso subordinata e subalterna alle mosse di altri protagonisti della scena europea. Una politica che comunque lo stesso regime fascista nei fatti sconfessò ben presto, nello stesso momento in cui, lanciando la sfida «soli contro tutti» come avvenne all’epoca dell’aggres­ sione alTAbissinia, diede a vedere di avere una concezione del peso determinante dell’Italia ben diversa da quella che i suoi interpreti vorrebbero accreditare. L’ipotesi che l’Italia potesse fungere da arbitra di conflitti tra le potenze europee, in parti­ colare della ricorrente rivalità tra Francia e Germania, non appare in alcun modo realistica e non sembra comunque esse­ re stata l’obiettivo della politica estera del fascismo; poteva essere una funzione secondaria o collaterale, non l’asse della sua politica, quale che fosse il senso che Grandi aveva voluto dare alla formula da lui inventata. Nella seconda metà degli anni venti apparve sempre più chiaro che la meta cui Mussolini voleva condurre l’Italia era il rovesciamento dell’equilibrio delle potenze nel Mediterraneo: alla egemonia sopra di esso ambiva per l’appunto l’Italia, e questo spiega lo scontro ininterrotto, ora palese ora sotterra­ neo, con la Francia. Questa direttrice non era contraddetta né dalla via del dialogo lasciata aperta per reciproca convenienza tra l’Italia e la Gran Bretagna (anche prima dell’incontro tra Mussolini e Austen Chamberlain a Livorno, alla fine del set­ tembre 1926), dialogo che tuttavia non avrebbe approdato a esiti sostanziali; né tanto meno dall’altrettanto costante inte­ resse dell’Italia per la penisola balcanica, obiettivo politico­ strategico dell’espansione italiana e non soltanto area su cui esercitare un’influenza indiretta per arginare il predominio politico-diplomatico della Francia attraverso la Piccola Intesa. Al termine del lento ma inesorabile cammino per costruire la posizione di potenza che ponesse l’Italia in grado di fare il grande balzo, una volta erose le possibilità negoziali soprattut­ to nel campo del disarmo, Mussolini si convinse con sempre maggiore consapevolezza e fiducia nel peso delle armi che senza forzare l’equilibrio esistente non sarebbe approdato a nulla. L’Italia doveva fare da sé e farsi strada con la forza delle armi. Se non si vuole mettere nel calcolo anche la riconquista della Libia, dalla metà degli anni trenta, considerando l’Africa, 34

    GLI ESORDI DELLA POLITICA ESTERA DEL FASCISMO

    la Spagna, l’Albania e la guerra mondiale, l’Italia sarebbe stata ininterrottamente in guerra per un buon decennio. L’incontro con la Germania di Adolf Hitler non fu casuale, ma rappre­ sentò, dopo la conquista dell’impero, la scelta dell’unico allea­ to disponibile a condividere l’obiettivo italiano di dare il colpo di grazia all’ordinamento dei vecchi trattati di pace. Per que­ sto aveva lavorato indefessamente Mussolini, imprimendo alla politica estera il sigillo del suo temperamento e del suo stile, spingendo al limite le possibilità militari del paese, ma senza riuscire a colmare il dislivello tra le ambizioni e le possibilità reali dell’Italia. È sotto questo aspetto che soprattutto si gioca il rischio di confondere la propaganda con la politica del regi­ me: ma il primo a rimanere vittima della sua stessa propagan­ da fu Mussolini che trascinò nella sconfitta il paese proprio per non aver commisurato ambizioni e possibilità reali. Sia che avesse sottovalutato il limite invalicabile dell’arrendevolezza di Francia e Gran Bretagna, sia che avesse sopravvalutato l’effet­ tiva consistenza della forza dell’Italia, che poteva nutrirsi sol­ tanto in misura minima dell’eredità del sodalizio stabilito durante la prima guerra mondiale con le democrazie occiden­ tali, l’Italia di Mussolini finì per autoescludersi dalla possibilità di proporsi come interlocutore credibile. L’atteggiamento pro­ vocatorio, che riecheggiava la sfida della parte peggiore della retorica mussoliniana, divenne la costante della politica dell’Italia, quasi il risvolto ostentato e aggressivo della sua sostanziale debolezza. La subalternità alla Germania nazista fece il resto, restringendo ulteriormente lo spazio di manovra dell’Italia.

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    II PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    Anche nella seconda metà degli anni venti la politica del fa­ scismo, pur non accennando ad assumere iniziative capaci di modificare radicalmente l’assetto dei trattati di pace e l’equi­ librio stabilito a Locamo, non fu una politica di inerzia. Mentre coltivava l’attenzione per la stabilizzazione dei rap­ porti con i vecchi alleati della guerra mondiale - soprattutto con la Gran Bretagna e con gli Stati Uniti, assai meno con la Francia che si prospettava come la più diretta antagonista de­ gli interessi dell’Italia nel Mediterraneo, nell’Europa centro­ danubiana e nell’area delle colonie africane - l’Italia cercava di imprimere maggior dinamismo alla costruzione di un suo spazio di egemonia nell’area balcanico-danubiana. Obiettivo a lunga scadenza della politica fascista, erede di un vecchio e persistente retaggio nazionalista, era sicuramente quello di isolare lo stato degli slavi del Sud, la Jugoslavia, che si pre­ sentava anche come il perno delle alleanze danubiane della Francia. In questo quadro Albania, Austria, Ungheria, Romania, Bulgaria, come altrettante pedine per circondare la Jugoslavia, furono oggetto di attenzioni precise da parte dell’Italia. Si profilò in questo modo una duplice tendenza: da una parte quella all’espansione della propria influenza per

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    CAPITOLO II

    via diplomatica e politica, anche con l’avvio di pratiche di pe­ netrazione diretta più o meno segreta in altri contesti; dall’al­ tra, quella all'identificazione degli interessi dell’Italia con gli interessi e le rivendicazioni di paesi (quali l’Ungheria e la Bulgaria) che premevano per la revisione dei trattati conclusi dopo la Grande Guerra e che, riconoscendo nell’Italia l ’alfie­ re delle loro istanze, le conferivano apparentemente, quale lo ­ ro portavoce e capofila, un accresciuto potere contrattuale nei confronti delle altre grandi potenze. Solo apparentemen­ te, perché di fatto l’ostilità della Francia ad ogni mutamento e la reticenza della Gran Bretagna a secondare iniziative non gradite alla Francia condannarono la politica dell’Italia all’i­ solamento o ne sottolinearono le velleità e le contraddizioni; non ultima il fatto che, alla lunga, dalla destabilizzazione del­ l’area danubiana da parte dell’Italia, avrebbe tratto profitto quella stessa Germania della quale l’Italia avrebbe voluto contrastare il predominio.

    IL PROTETTORATO SULL’ALBANIA 1

    All’inizio degli anni venti l’Albania occupò un posto di primo piano nella politica italiana. Già il Patto di Londra aveva rico­ nosciuto all’Italia una posizione di preminenza nelle questioni dell’Albania, nel senso della rappresentanza verso l’esterno dei suoi interessi. La presenza diretta di truppe italiane durante la Grande Guerra sembrò volere conciliare la parvenza dell’indi­ pendenza dell’Albania con il protettorato esercitato di fatto dall’Italia. Nel 1920 Giolitti decise saggiamente, sotto la pres­ sione dei ribelli albanesi, di abbandonare la testa di ponte al­ banese (all’infuori di Valona e dell’antistante isolotto di Saseno). Tale decisione divenne uno dei capi d’accusa da par­ te dei nazionalisti più accesi e più aggressivi nei confronti del cosiddetto rinunciatarismo: tanto cne Mussolini stesso dalle

    1 Per questo paragrafo facciamo riferimento in particolare alle seguen­ ti opere: G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit.; Pietro Pastorelli,

    Italia e Albania 1924-1927. Origini diplomatiche del Trattato di Tirana del 22 novembre 1927, Firenze-Empoli, Poligrafico toscano, 1967 (Biblioteca della «Rivista di studi politici intemazionali»); Giovanni Zamboni, Mussolinis Expansionspolitik auf dem Balkan. Italiens Albanienpolitik vom I. bis zum 11. Tiranapakt im Rahmen des italienisch-jugoslawischen Interessenkonflikts und der italienischen “imperialen” Bestrebungen in Sùdosteuropa, Hamburg, Helmut Buske Verlag, 1970.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    colonne del «Popolo d’Italia» polemizzò contro queste posi­ zioni, che sostenevano a oltranza ogni minima rivendicazione territoriale. Si scontravano già i nazionalisti più miopi, fautori della conquista per la conquista, e gli imperialisti di più largo respiro (nelle intenzioni ma non nelle strumentazioni, né nel progetto politico), i quali vedevano nell’Albania null’altro che il trampolino di lancio per la politica balcanica e forse anche una tappa del cammino verso il Mediterraneo orientale e il Vicino Oriente, cui si rivolgevano ora le ambizioni egemoniche del nazionalismo più aggressivo. Nonostante l’abbandono della testa di ponte albanese nel 1920, nel novembre del 1921 la conferenza degli amba­ sciatori ribadì il riconoscimento della posizione privilegiata dell’Italia nei confronti del piccolo stato adriatico, il quale nel frattempo era stato accolto nella Società delle Nazioni. All’Italia, è vero, non veniva riconosciuto alcun diritto alla presenza diretta in Albania, ma si conveniva che la violazio­ ne eventuale delle frontiere dell’Albania o della sua indipen­ denza avrebbe potuto minacciare la sicurezza dell’Italia, alla quale pertanto veniva affidato il compito di ristabilire le fron­ tiere albanesi. Bene o male veniva cioè riconosciuto all’Italia un diritto d’intervento, quasi a configurare una sorta di so­ vranità condizionata a carico dell’Albania e comunque una posizione di preminenza degli interessi italiani in nome e per conto anche delle altre potenze, le quali al pari della Società delle Nazioni dovevano dare il preventivo consenso ad un eventuale intervento e avrebbero quindi potuto respingerlo. Peraltro, come è stato giustamente sottolineato, la delega di fatto affidata all’Italia per la “protezione” dell’Albania non aveva né escluso l’interesse degli stati vicini - la Grecia e so­ prattutto la neonata Jugoslavia - per gli sviluppi della situa­ zione albanese, né sopito i tentativi di estendere influenze economiche sul piccolo stato. L’accordo con il quale, il 25 marzo del 1921, la potente compagnia petrolifera inglese Anglo-Persian si assicurava una sorta di prelazione in ordine alle concessioni per lo sfruttamento del petrolio albanese, cui miravano anche industriali italiani, stava a indicare che le po­ tenze non intendevano lasciare all’Italia tutte le aree di in­ fluenza e soprattutto che l’Italia non era attrezzata per porre l’Albania sotto sua esclusiva tutela. Nella stessa misura in cui l’Italia tese a servirsi dell’Albania contro stati terzi, le altre potenze miravano a sottolineare che l’Albania non era inte­ resse esclusivo dell’Italia. Il piccolo stato era infatti attraver­ sato da scontri e aggregazioni di interessi che investivano orizzonti ben più ampi. Già all'inizio degli anni venti le mire 39

    CAPITOLO II

    economiche dei tedeschi sull'Albania prefiguravano la colli­ sione con i tentativi italiani di penetrazione nella penisola balcanica che si sarebbero verificati dieci-quindici anni più tardi. Nella politica del fascismo nei confronti dell’Albania non fu immediatamente percettibile un cambiamento di rotta rispetto alla politica avviata dopo la guerra dai governi libe­ rali. L’accordo di navigazione e commercio concluso il 20 gennaio 1924 fu il primo stipulato dall’Albania con il nuovo governo italiano. Apparentemente riconosceva all’Italia un regime di preferenza nei rapporti commerciali che poteva sembrare un pendant dell’influenza concessale dal punto di vista politico. Di fatto, la mancata ratifica dell’accordo da parte albanese a seguito della conclusione del trattato di ami­ cizia italo-jugoslavo, firmato una settimana dopo la stipula­ zione del trattato commerciale con l’Albania, raffreddò note­ volmente l ’interesse di quest’ultima e riaccese i timori di un accordo tra Roma e Belgrado ai suoi danni. L’accordo fu rati­ ficato più di un anno dopo, allorché in Albania si fu assesta­ to il regime dittatoriale di Ahmet Zogu, che fece seguito alla parentesi della “rivoluzione” democratica diJEan Noli. Noli aveva bensì sperato di ottenere un prestito dall’Italia ma il go­ verno italiano, interessato a ottenere contropartite più larghe e più remunerative di quanto l’Albania di Noli fosse disposta a concedere, aveva opposto un rifiuto. Di fronte alla crisi albanese, l’Italia e la Jugoslavia si tro­ varono sorprendentemente d’accordo nel dichiarare la loro comune intenzione di non interferire negli affari interni del paese. Il comportamento dell’Italia era dettato unicamente dalla necessità di migliorare i rapporti con la Jugoslavia e dal­ la speranza di impedire per questa via che Belgrado tornasse a intervenire sulla frontiera albanese. Di fatto, l’Italia e la Jugoslavia speravano che si esauris­ se l’esperimento democratico di Noli: mentre però l ’Italia ri­ mase effettivamente in stato d’attesa, la Jugoslavia non cessò di appoggiare raggruppamenti di emigrati che premevano per rientrare in Albania e porre in scacco quell’esperimento. Fingendo di dimenticare gli obblighi di salvaguardia del terri­ torio albanese che le derivavano dalla conferenza degli amba­ sciatori del 1921, l’Italia non fece alcun passo in difesa di Noli ma anzi, alla metà del dicembre 1924, firmò con la Jugoslavia una nuova dichiarazione di non ingerenza negli affari albane­ si, nonostante fosse noto e palese che i nuovi ribelli albanesi agivano dal retroterra jugoslavo. Solo quando la penetrazione del territorio albanese si era fatta ormai massiccia e nella guer­ 40

    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    ra civile - che era anche scontro di classe, poiché Noli perse­ guiva misure antifeudali, fra le quali la riforma agraria - si de­ lineava la vittoria di Zogu, l’Italia si svegliò dall’apparente tor­ pore e intimò alla Jugoslavia di chiudere le frontiere setten­ trionali, così da impedire ulteriori infiltrazioni in Albania. Paradossalmente, Noli si rifugiò in quella stessa Italia che gli aveva negato ogni appoggio, e che si apprestava a sostenere Zogu, il quale lo aveva sconfitto. Allorché Zogu ebbe riconquistato il potere, la preoccu­ pazione principale del governo italiano, che sembrava essere stato tagliato fuori dagli eventi, fu quella di rientrare nel gio­ co e di fare ribadire la preminenza degli interessi italiani in Albania, subordinando ogni sostegno al nuovo corso ad un energico riconoscimento del ruolo privilegiato dell’Italia. Mussolini in persona, come ministro degli Esteri, e Contarmi pilotarono con decisione la politica di Zogu, inizialmente in­ certa, in direzione del sostegno alla penetrazione economica dell’Italia. N é rinunciarono a mosse di prestigio, quali la ri­ vendicazione della partecipazione italiana alla ricostituzione della gendarmeria albanese, destinate a sottolineare anche la precisa volontà di non precludersi più generali obiettivi di ca­ rattere strategico riguardanti non più soltanto l’Albania, ma l’intero settore balcanico. Muovendo dall’impegno dell’Albania a ratificare final­ mente il trattato di commercio e navigazione del 1924, nella seconda metà di gennaio 1925 Contarmi preparò un pacchet­ to di richieste dell’Italia finalizzate a porre saldamente piede in Albania, nella prospettiva di sviluppare poi un più genera­ le progetto politico di controllo del paese tenendone lontane le influenze avverse all’Italia, tra le quali anzitutto la presenza della Jugoslavia. Il pacchetto delle richieste formulate da Contarmi2 poneva sul tappeto la questione delle concessioni petrolifere, prevedeva l’«adeguata partecipazione italiana» ad appalti di lavori pubblici (strade, ferrovie), concessioni fore­ stali ad imprese italiane, prolungamento della già accordata concessione di pesca nelle acque albanesi del lago di Scutari, priorità ad impresa italiana nello sfruttamento del bacino car­ bonifero di Memialai e, oltre ad altri minori problemi, pone­ va la questione della creazione della Banca di Stato albanese, nella quale erano previste la partecipazione e il controllo da

    2 II testo delle proposte di Contarmi è in P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927, cit., p. 104.

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    CAPITOLO II

    parte di un consorzio di banche italiane quale «mezzo più pratico e più sicuro per mantenere all’Italia una situazione di prevalenza nella economia albanese»3. Il 22 gennaio Zogu, in un telegramma a Mussolini, esprimeva in termini abbastanza generici l’auspicio che l’Italia seguisse con «benevolenza» gli sforzi per l ’ammoder­ namento dell’amministrazione del paese e per la sua stabi­ lità4. Nelle conversazioni che seguirono, lo scoglio decisivo e preliminare fu rappresentato dal fatto che, mentre era dispo­ nibile ad accogliere con favore tutte le altre richieste dell’Italia sulla questione delle concessioni petrolifere, Zogu non sembrava disposto a venire meno agli impegni assunti con l’Anglo-Persian e a rinunciare al controvalore che ne aveva ricevuto. Sembrava perciò che l’Albania conferisse al­ l’accordo concluso con l’Anglo-Persian il carattere di una concessione esclusiva; la questione rischiò di provocare nelle relazioni anglo-italiane un incidente che fu evitato non sol­ tanto per l’intervento del governo inglese, ma anche perché il governo albanese riconobbe la possibilità di concedere all’Italia altre aree di sfruttamento al di fuori di quella accor­ data alla compagnia britannica e perché ruppe gli impegni as­ sunti con la Midland Bank a proposito della costituenda Banca di Stato. L’Italia pagava, è vero, il prezzo di un esbor­ so in franchi oro piuttosto ingente a favore dell’Albania, ma alla metà di marzo del 1925, quando le relative convenzioni furono firmate, aveva precostituito le basi per un sicuro con­ trollo dell’economia albanese. Le pressioni dell’Italia tuttavia non si fermarono qui. L'Italia si trovava a competere con l ’Inghilterra anche in un altro campo: l’addestramento della gendarmeria albanese era stato affidato ad una missione britannica, circostanza che da­ va ombra alla pretesa italiana di una preminenza nel paese. Anche sotto questo profilo, l’Italia pose l’Albania di fronte all’alternativa di sciogliere l’impegno con gli inglesi, se tene­ va all’interessamento italiano. A tali pressioni, chiaramente mirate a concentrare sull'Albania diverse forme di intervento per conseguire un controllo totale del paese, Zogu rispose nel modo tipico della sua figura di despota locale avido anche di

    5 Dalle motivazioni con le quali Contarmi legittimava le sue proposte, in P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927, cit., p. 102. 4 Cfr. DDI, V II, voi. Ili, n. 681; e al n. 687 la risposta di Mussolini in data 26 gennaio 1925.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    ricchezze, non rendendosi conto di esporsi in misura anche maggiore di quella divisata dall’Italia al soffocamento totale dell’indipendenza dell’Albania, le cui sorti erano affidate all’Italia senza riserve. Era disposto ad affidare all’Italia la co­ stituzione di una “milizia nazionale” in cambio di un impe­ gno più generale di collaborazione italo-albanese e intendeva il sostegno dell’Italia in primo luogo come un appoggio nei confronti degli stati vicini, a cominciare dalla Jugoslavia. In questo contesto, Zogu chiedeva armi e denaro, «protezione diplomatica ed occorrendo armata in caso d’invasione». Al di là della volontà stessa dell’Italia di servirsi dell’Albania per una prospettiva più generale di espansione balcanica (e la missione Lessona dell'aprile del 1925 mirò a sottolineare questo aspetto strumentale), l'Albania si consegnava quindi all’Italia, nell’illusione di riceverne protezione contro la mi­ naccia di fagocitamento da parte di un blocco di stati balca­ nici capitanati dalla Jugoslavia. Questi negoziati furono formalizzati nel cosiddetto «pat­ to di garanzia» del 26 agosto 1925, destinato a rimanere se­ greto, con il quale l’Italia si impegnava ad assicurare assisten­ za militare «per garantire l’indipendenza e l’integrità territo­ riale» dell’Albania; questa da parte sua poneva a disposizione dell’Italia tutto il dispositivo militare necessario alla «comune difesa». Ma quali che fossero gli obblighi che le due parti as­ sumevano nei reciproci rapporti e la parvenza di bilateralità degli accordi, non vi poteva essere dubbio alcuno che, nei fat­ ti, la situazione era nettamente sbilanciata a favore dell’Italia. Dire che «tale superiorità prendeva solo l’aspetto di un nor­ male accordo di assistenza militare tra due Stati di forza note­ volmente disuguale»5 appare insufficiente. Naturalmente, il fatto che si trattasse di un accordo segreto lasciava aperta l’e ­ sigenza, avvertita principalmente da parte italiana, dì accom­ pagnare gli accordi economici con una cornice politica che rendesse sufficientemente esplicito nei confronti dell’esterno il ruolo privilegiato che l’Italia si era assicurata nei confronti delle relazioni internazionali dell’Albania. Ciò avvenne in primo luogo con il trattato di amicizia e sicurezza stipulato il 27 novembre 1926 a conclusione di una difficile trattativa, la quale non soltanto vide contrapporsi l’a­ bilità negoziale del presidente Zogu alla diplomazia fascista, ancora divisa tra la linea Contarmi, mirante a consolidare l’in­

    5 P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927, cit., p. 184.

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    CAPITOLO II

    fluenza dell’Italia attraverso la penetrazione economica (e a questa linea sostanzialmente parve ispirarsi lo stesso Mussolini, ancora capo del governo e ministro degli Esteri), e la linea di un completo e immediato assoggettamento dell’Albania al protettorato militare italiano sostenuta dai na­ zionalisti estremi del Partito fascista e dalla parte già “fasci­ stizzata” della diplomazia (due nomi importanti nella questio­ ne albanese: Alessandro Lessona e Vincenzo Lojacono)6. Quella trattativa, infatti, impose alla diplomazia italiana di te­ nere conto non soltanto degli interessi di altre potenze che con l’Albania avevano precedenti di rapporti particolarmente significativi, come la Gran Bretagna, ma anche di quelli della Jugoslavia che, oltre ad avere contenziosi di confine e di na­ zionalità con l’Albania, era consapevole della funzione che l’Italia attribuiva a quest’ultima nell’ambito della propria p o­ litica nei confronti della Jugoslavia stessa. La mediazione delle complesse istanze che scaturivano da questi diversi piani delle questioni e del negoziato sembrò realizzarsi nel trattato del 27 novembre 1926. Esso non men­ zionava, contrariamente alla proposta iniziale del governo ita­ liano, la conferenza degli ambasciatori del 1921 - l'Albania era infatti contraria a questo richiamo, a causa del modo trop­ po evidente con cui alle potenze, e all’Italia in particolare, ve­ niva data facoltà di disporre dell’Albania stessa - , ma partiva dall’esigenza di considerare comune interesse politico la con­ servazione dello status quo contro ogni minaccia di perturba­ mento, prevedendo in tal caso il mutuo e reciproco appoggio fra i due paesi. Formalmente era stabilita la parità tra le parti, all’Italia non risultava conferita alcuna delega in bianco, ma di fatto, poiché si taceva degli impegni delle altre potenze, l’Italia risultava l’unica garante dell’indipendenza albanese. In questo quadro Zogu considerava garantita non solo l ’indipen­ denza dell’Albania ma anche il suo regime politico; circostan­ ze tutte che non potevano non convalidatela presenza autori­ taria dell’Italia nella questione albanese. Il patto del 1926- (destinato a passare alla storia come Primo patto di Tirana) non fu considerato definitivo al fine di assicurare all’Italia il controllo totale del paese e soprattutto la garanzia che altri stati - principalmente la Jugoslavia - non avessero a interferire nella questione albanese. Prese corpo co­

    6 Sui due personaggi si sofferma ampiamente lo studio di P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927, cit., in particolare nel cap. IV.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    sì, nella seconda metà del 1927, il progetto di uno strumento aggiuntivo da affiancare al patto sottoscritto nel novembre del 1926 e in conseguenza del quale si era manifestata una certa fi­ brillazione da parte dell’Inghilterra, della Francia e soprattut­ to della Jugoslavia, la quale ovviamente teneva a sottolineare con sospetto tutti quei passi della politica italiana nei con­ fronti dell'Albania più direttamente interpretabili come tenta­ tivi di accerchiamento della Jugoslavia. Considerando l’accor­ do del 1926 come provvisoria tappa di un piano più generale, lo stesso Mussolini intervenne per disegnare il progetto strate­ gico che doveva assicurare all’Italia il controllo di «tutti i gan­ gli vitali dello stato albanese». Come riferiva il negoziatore ita­ liano in Albania, Mussolini aveva elaborato un piano, centra­ to sul sostegno da dare a Zogu e sulle contropartite alle quali bisognava impegnarlo, che prevedeva la conclusione di una “alleanza difensiva” con l’Albania (ossia la predisposizione di uno strumento militare a fianco e a completamento del patto politico), la creazione del regno d’Albania in risposta al desi­ derio espresso da Zogu con la munifica promessa di addossa­ re all’erario italiano le spese della nuova corte, e il proposito di legare stabilmente la nuova monarchia alla dinastia sabauda mediante una strategia matrimoniale, in modo da coinvolgere direttamente casa Savoia nella nuova proiezione balcanica del fascismo7. Si pervenne così, il 22 novembre 1927, alla firma del trattato di alleanza difensiva tra Italia e Albania, o Secondo patto di Tirana, studiato da Pietro Pastorelli sotto il profilo prevalentemente bilaterale e da Giovanni Zamboni nei suoi risvolti più specificamente antijugoslavi. N e conseguì l ’esclu­ sione definitiva della Jugoslavia da qualsiasi soluzione nego­ ziata per l’Albania; quanto fosse sincero il proposito di crea­ re «uno stato albanese forte e alleato dell’Italia» (secondo le intenzioni che Pastorelli attribuisce a Mussolini) è assai diffi­ cile dire. Dal punto di vista italiano il risultato più concreto e determinante fu il totale conseguimento del controllo stra­ tegico dell’area antistante il canale d’Otranto. Che non vi po­ tesse essere equilibrio di posizioni tra le parti era scontato in partenza; il prevedibile successo strategico valeva bene il prezzo del finanziamento delle spese della corona del nuovo regno.

    7 Si veda il rapporto Sola in data 26 settembre 1927 in DDI, VII, voi. v, n. 439.

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    CAPITOLO II

    IL PROBLEMA DELL’AUSTRIA 8

    Prima ancora dell’avvento al potere del fascismo, l’Italia aveva partecipato, assieme alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Cecoslovacchia, ai cosiddetti protocolli di Ginevra (4 ottobre 1922), destinati a stabilizzare la situazione della nuova Austria indipendente con la garanzia per un prestito all’Austria da uti­ lizzare sotto controllo di un Comitato internazionale e con l’impegno per la realizzazione di un programma di risanameli, to in campo economico-finanziario. L’avvento al potere del fa­ scismo non modificò gli impegni assunti dall’Italia con questi accordi. Tuttavia, all’intenzione dell’Italia di difendere la nuo­ va sistemazione dell’Austria di lingua tedesca entro i confini del 1919, come garanzia contro reviviscenze pangermaniche, ostavano almeno due elementi. Il primo, che caratterizzò la pri­ ma fase dei rapporti con l’Austria del Trattato di Saint Germain, era rappresentato dall’irredentismo altoatesino; il se­ condo dall’atteggiamento inequivocabilmente antifascista ca­ ratteristico di una parte consistente delle forze politiche au­ striache, in special modo dei socialisti, i quali esercitavano un peso dominante nella Prima repubblica. Ben presto però si era manifestata quella che rimarrà una costante dell’atteggiamento dellTtalia: l’ambizione, rivelatasi poi sempre più velleitaria nel corso degli anni, a svolgere un ruolo prioritario, foss’anche so­ lo di prestigio, nel reinserimento dell’Austria nel nuovo ordi­ namento della pace. Un’ambizione forse non disinteressata, dettata dal retropensiero che sull’Austria, avulsa da quello che era stato il suo hinterland economico-commerciale nel quadro della duplice monarchia, l’Italia potesse estendere anche la sua influenza economica. Era l’epoca in cui l’Italia pensava che fos­ se possibile gestire la questione austriaca con l ’accordo diretto

    8 Per la storia della Prima repubblica austriaca occorre fare riferi mento in primo luogo all’opera di Charles A. Gulick, Austria from Habsburg to Hitler, 2 voli., Berkeley-Los Angeles, University o f California Press, 1948; più recenti Walter Goldinger, Geschichte der Republik Òsterreicb, Mùnchen, R. Oldenbourg Verlag, 1962 e Erika Weinzierl, Kurt Skalnik, Òsterreich 1918-1938. Geschichte der Ersten Republik, Graz, Styria-Verlag, 1983. Tra gli studi specifici rinviamo al nostro saggio lì fascismo e la questione austriaca, «Il Movimento di liberazione in Italia», 81 (ottobre-dicembre 1965), pp. 32 5 . 1 ricordi dell’ex consigliere commerciale a Vienna Carlo D i Nola, Italia e

    Austria dall’armistizio di Villa Giusti (novembre 1918) all’Anschluss (marzo 1938), Milano, Società editrice Dante Alighieri, 1960 (Biblioteca della «Nuova rivista storica») non sono esenti da grossolani errori dal punto di vista storico.

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    «fra gli stati maggiormente interessati», ossia fra Italia, Cecoslovacchia e Jugoslavia, eludendo la Società delle Nazioni. Un proposito peraltro destinato a svanire rapidamente, che se­ gnaliamo solo perché significativo delle intenzioni della diplo­ mazia italiana 9. Nella realtà i rapporti bilaterali si svilupparono in manie­ ra ben diversa. Fino alla metà degli anni venti la politica italia­ na fu fortemente condizionata dalla pratita di snazionalizza­ zione della comunità sudtirolese di lingua tedesca. Di fronte alla politica, perseguita in particolare dal governo fascista, di limitazione delle espressioni linguistiche e culturali della mi­ noranza sudtirolese e di italianizzazione forzata della regione, tramite l’immigrazione programmata di elementi da altre re­ gioni del regno (prima funzionari dell’amministrazione, più tardi anche nuclei operai) e gli ostacoli opposti alla scuoia te­ desca e allo stesso clero - paladino, soprattutto nelle comunità contadine, della cultura locale e di un retaggio di tradizioni e di costumi - la solidarietà che proveniva dalla repubblica au­ striaca fungeva da detonatore di nuove conflittualità10. D’altronde, nel clima di revanche e di umiliazione che il nazio­ nalismo austro-tedesco viveva fra le difficoltà di decollo della Prima repubblica e anche per la pressione dei circoli naziona­ listi nella stessa repubblica di Weimar, la saldatura del nazio­ nalismo che premeva da Vienna con quello proveniente da Monaco di Baviera enfatizzava il pericolo di una nuova spinta pangermanica e inaspriva i furori nazionalistici del fascismo. Lungi dallo sviluppare l’interesse alla tutela prioritaria dell’in­ dipendenza austriaca, in questa fase la politica fascista colse soprattutto l’elemento che accomunava l’Austria ai conati re­ visionistici del nazionalismo tedesco. Precoce fu nel fascismo anche la percezione che fosse op­ portuno e necessario sostenere le forze moderate, come per esempio il governo di monsignor Ignaz Seipel e i gruppi con­ servatori che si opponevano ai socialisti, contro i quali costan­ ti furono l’avversione e l’ira dello stesso Mussolini. In tali for­ ze e gruppi il fascismo individuava non soltanto elementi affi­ ni dal punto di vista del probabile percorso politico, ma anche possibili canali di un’influenza italiana sulle vicende austria­

    9 Cfr. D DI, VII, voi. I, n. 407, dispaccio di Mussolini al ministro a Belgrado del 25 gennaio 1923. 10 Se ne ritrova l’eco nel fascicolo speciale di «Gerarchia» sul Trentino dell’agosto del 1927, cui si farà cenno più avanti.

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    CAPITOLO II

    che. Sin da allora si associarono, nell’interesse convergente di Italia e Austria a difendere l’indipendenza del piccolo stato da­ nubiano, l’obiettivo di frustrare le spinte in direzione di un Anschluss che avrebbe fagocitato l’Austria nel più ampio Reich germanico e segnato il ritorno nel centro nell’Europa di una Grande Germania, e l’enfatizzazione del cattolicesimo austria­ co contro il protestantesimo maggioritario in Germania. Ciò offrì indubbiamente un’ulteriore sponda all’avvicinamento au­ stro-italiano, che trovava il suo coronamento nell’individua­ zione di un altro denominatore comune, vale a dire l’antisocialismo che caratterizzava tanto i cristiano-sociali quanto il fa­ scismo. Il 1925 segnò sicuramente l’anno di maggiore tensione nei rapporti con l’Austria. Mussolini si sentì particolarmente colpito da un discorso antifascista del deputato socialdemo­ cratico Wilhelm Ellenbogen (il quale fra l’altro, anteriormente alla Grande Guerra, si era occupato proprio dei rapporti con i socialisti italiani nei territori dell'Impero asburgico), e arrivò a chiedere l’umiliante riparazione di una nota scritta di scuse da parte del governo austriaco. Mussolini evidentemente si preoc­ cupava di contrastare la forte risonanza che aveva avuto in Austria il delitto Matteotti: per i socialisti austriaci Giacomo Matteotti divenne un emblema, l’Internazionale operaia e so­ cialista, il cui segretario era un austriaco, Friedrich Adler, e nella quale il Partito socialista austriaco era una delle compo­ nenti politicamente più forti, intitolò a Matteotti il fondo di so­ lidarietà per le vittime del fascismo e della repressione politi­ ca; l’amministrazione socialista di Vienna intitolò MatteottiH of uno dei complessi dell’edilizia popolare che fu vanto del comune socialista. Vi erano dunque elementi più che suffi­ cienti a spiegare la collera di Mussolini. Le istruzioni da lui inviate al rappresentante italiano a Vienna sottolineavano la svolta in direzione della politica di prestigio e di grandezza del governo fascista, che cercava di uscire dalla crisi del delitto Matteotti ostentando un atteggia­ mento di intransigenza e di forza anche nei confronti dell’este­ ro e dell’opinione pubblica internazionale. Scriveva infatti in esta occasione Mussolini al ministro a Vienna Antonio iaramonte Bordonaro: «Faccia nettissimamente intendere che epoca in cui era permesso impunemente insultare l’Italia, popolo e governo italiano è tramontata per sempre» n .1

    S

    11 Cfr. DDI, VII, voi. IV, n. 136 in data 3 ottobre 1925.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    La componente del prestigio non esauriva tuttavia le mo­ tivazioni della politica italiana. Al di là delle persistenti pole­ miche sulla situazione sudtirolese, il centro delle preoccupa­ zioni italiane rimaneva l’eventualità di un ribaltamento delì’equilibrio esistente e il trionfo, aH’interno dell’Austria, della mai sopita spinta all’annessione con la Germania. Nei carteggi di­ plomatici italiani affiora sporadicamente anche l’ipotesi che, nella ricerca di una soluzione duratura al problema della so­ pravvivenza dell’Austria, circoli politici ed economici si fosse­ ro prospettati perfino l'eventualità di un’annessione all’Italia. In questa forma si tratta di un’ipotesi assai poco probabile; ve­ ro è che anche in anni precedenti erano state ventilate da par­ te austriaca soluzioni per un accostamento all’Italia destinato a fornire una garanzia consistente al futuro dell’Austria, quali l’unione doganale tra i due paesi prospettata dal primo gover­ no Seipel, che tuttavia non costituì mai serio oggetto di consi­ derazione per nessuna delle due parti. La preoccupazione che l’Austria finisse nell’orbita politi­ ca ed economica della Germania rimase tuttavia una costante della politica dell’Italia. Questo tipo di preoccupazione al li­ mite riguardava più i rapporti con la Germania che quelli con l’Austria. Essa aleggiò anche alla vigilia della conclusione degli accordi di Locamo. Per Mussolini, punto fondamentale rima­ neva la garanzia contro l’unione dell’Austria alla Germania, garanzia che ancora una volta non era diretta contro l’Austria ma principalmente contro la Germania. Mussolini non temeva soltanto la pressione diretta della Germania sul Brennero, ma vedeva esattamente, in una prospettiva più ampia, che «l’unio­ ne dell’Austria alla Germania rappresenterebbe quasi certa­ mente la ripresa della guerra o [...] sarebbe il primo passo per giungere direttamente a tale ripresa»; YAnschluss per Mussoli­ ni era importante soprattutto perché per suo mezzo la Germania avrebbe compiuto il primo passo per accrescere il suo potenziale bellico, premessa indispensabile per dare fon­ damento anche alle rivendicazioni territoriali tedesche nei con­ fronti della Francia. In questo senso egli non aveva torto nel sottolineare, nelle sue istruzioni ai rappresentanti a Londra e a Parigi e al delegato italiano alla Società delle Nazioni, che in definitiva la questione Anschluss era più importante per la Francia e per l’Inghilterra di quanto non lo fosse per l’Italia 12.

    12 DDI, VII, voi. IV, n. 21 dell’8 giugno 1925 e nn. 28-29 del 10 giugno successivo, dispacci di Vittorio Scialoja, delegato alla Società delle Nazioni, a Mussolini.

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    CAPITOLO II

    Nel 1938 Mussolini non aveva dimenticato certo la sua giusta valutazione del 1923: ora però era costretto ad accettare tutti i rischi dell ’Anschluss, perché il suo atteggiamento nei confron­ ti della Germania aveva subito un radicale mutamento. Tuttavia, la valutazione che l’Italia fece dei rapporti con l’Austria si modificò notevolmente, una volta sopita la polemi­ ca sull’Alto Adige e messa a tacere l’altalena di prese di posi­ zione che coinvolsero ripetutamente il cancelliere Seipel e in­ dussero il governo italiano a richiamare temporaneamente in patria (il 24 febbraio 1928) il rappresentante diplomatico a Vienna13. La valenza della questione austriaca non era misura­ ta soltanto in base all’eventualità delYAnschluss ma, via via che il governo fascista incominciava cautamente a gettare le basi di una sua politica balcanica, l’Austria si profilava come uno dei poli della possibile strumentazione di questa politica. Obiettivo della politica italiana era infatti “l’accerchiamento” della Jugoslavia, allo scopo di impedirne il rafforzamento e di preve­ nire la minaccia di un forte stato slavo in contiguità con il con­ fine orientale italiano e sull’opposta sponda dell’Adriatico. I primi passi di questo accerchiamento furono compiuti con il trattato con la Romania del settembre del 1926 e soprattutto con quello del novembre del 1926 con l’Albania, del quale ci siamo già occupati. Ma l’Italia perseguiva anche lo scopo più generico di accrescere la sua egemonia nei Balcani e di argina­ re indirettamente l’influenza della Piccola Intesa, e attraverso di essa della Francia, in quel settore. Vedremo come, mentre pun­ tava sull’amicizia dell’Austria per sbarrare il passo ad eventuali iniziative tedesche nell’Europa sud-orientale e per tenere sotto pressione la Jugoslavia, Mussolini, che temeva come abbiamo visto il revisionismo austro-tedesco, non esitò a incoraggiare quello ungherese. Un complesso confuso e contraddittorio, nel cui ambito l’Austria doveva rappresentare il cardine settentrio­ nale dell’influenza dell’Italia ma anche di una sorta di manovra avvolgente della sua diplomazia. Ma a partire dalla seconda metà degli anni venti un fat­ tore nuovo intervenne a modificare anche le modalità della po­ litica italiana, il cui generico interesse verso l’area si avviò a di­ ventare una vera e propria interferenza nella vita politica au­ striaca. Causa di questa trasformazione non fu solo la necessità

    13 In generale Enzo Collotti, Fascismo e Heim wehren: la lotta antis cialista nella crisi della prima repubblica austriaca, «Rivista di storia contem­ poranea», 1983, n. 3, pp. 301-337.

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    di poter contare senza riserve sull’appoggio dell’Austria (l’Italia mirava fra l’altro ad assicurarsi la possibilità di piom­ bare sulla Jugoslavia, in caso di conflitto, attraverso la Carinzia e la Stiria), ma anche la prospettiva, delineatasi sempre più chiaramente dopo i fatti sanguinosi di Vienna del luglio del 1927 - i quali videro i cristiano-sociali saldarsi con le forze pa­ ramilitari e parafasciste della nascente Heimwehr contro i so­ cialisti e il comune socialista di Vienna - , di costruire in Austria un sistema politico autoritario, che non solo fornisse un supporto alla politica estera dell’Italia ma ne proponesse anche la funzione di modello politico, tale da esaltare, oltre ai comuni interessi, le affinità politiche e ideologiche (l’eco della conciliazione tra Stato e Chiesa e la convergenza tra cattolice­ simo e fascismo). Apparentemente i rapporti con l’Austria sembravano av­ viati a una normalizzazione completa; il 7 febbraio del 1930 il cancelliere Johann Schober aveva firmato a Roma un impegna­ tivo trattato di amicizia con l’Italia, ma questo era soltanto l’a­ spetto esterno più visibile della politica estera dei due paesi. L’Italia sviluppava ormai una diplomazia “parallela” che non passava più dai canali ufficiali, o meglio passava dai canali uffi­ ciali i quali però operavano ormai a due livelli, uno visibile e uno occulto. Bisogna pensare che la spinta all’intervento sempre più diretto dell’Italia nella vita interna dell’Austria fosse determina­ ta e accelerata anche dalle persistenti incertezze che nascevano su orientamenti fondamentali all’interno della politica austriaca. Quando il 21 marzo 1931 fu diffusa la notizia della firma dell’u­ nione doganale austro-tedesca, le reazioni italiane non furono meno negative di quelle di altri governi, che videro in questo passo una forma larvata o una anticipazione Anschluss. L’opposizione italiana al progetto di Zollunion austro-te­ desca non poteva non essere esplicita. Fu uno dei pochi casi in cui l’Italia, per bocca dello stesso ministro degli Esteri Grandi, si appellò alla necessità di difendere i trattati di pace e di por­ tare la questione nel consesso della Società delle Nazioni. Come sappiamo oggi, Grandi stesso prospettò per l’Austria un’alternativa che evitasse l’unione alla Germania e fugasse an­ che i persistenti sospetti dell’Italia nei confronti di aggregazio­ ni danubiane ispirate dalla diplomazia francese. In una serie di articoli sul quotidiano romano «La Tribuna», Grandi suggeri­ va come sbocco alla crisi austriaca, che era l’eredità storica del­ la distruzione del suo retroterra tradizionale ma anche crisi di fiducia nella vitalità della sua ridotta compagine, l’associazione doganale o di altra natura tra Austria e Ungheria, come se lo spettro di una rinascita della duplice monarchia appartenesse 51

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    ormai a un passato rem oto14. Tuttavia, al di là delle risonanze negative contenute nell'idea di un'associazione austro-ungari­ ca - invisa peraltro a buona parte dello stesso nazionalismo italiano se non altro per l ’eredità culturale della Grande Guerra - la proposta Grandi non configurava alcuna effettiva soluzione dei problemi dell’Austria. Essa era infatti basata su un calcolo di mero equilibrio politico o geopolitico, e non te­ neva conto del fatto che dal punto di vista economico l’Austria mirava all’integrazione, vuoi in direzione dello spazio germa­ nico, vuoi verso aree di avanzato sviluppo industriale. Se già l’Austria, la quale oltretutto incominciava a subire le prime ripercussioni della Grande Crisi, sentiva vacillare le proprie pos­ sibilità di sopravvivenza, l’associazione di due entità mai usci­ te dalla crisi successiva alla prima guerra mondiale, come era­ no allora l’Austria e l’Ungheria, non avrebbe diminuito ma probabilmente addirittura accresciuto i pericoli di instabilità del settore. La strumentalizzazione della questione della Zollunion in funzione antifrancese con l’accostamento fittizio di Austria e Ungheria s'inseriva nella tendenza a estendere l’egemonia ita­ liana sul settore. La possibilità che l’Austria diventasse non so­ lo un protettorato dell’Italia, ma anche un regime politico ideologicamente orientato in senso affine al fascismo conferì un carattere del tutto particolare all’atteggiamento di quest'ul­ timo verso l’Austria, quale direttrice di espansione e di in­ fluenza politica e appunto estensione di un modello politico. Se dappertutto il fascismo operò il collegamento con movi­ menti filofascisti più o meno autoctoni, nel caso dell’Austria il collegamento tra diplomazia fascista e filofascismo interno ac­ quistò un carattere affatto speciale. Contrariamente a quanto egli stesso abbia voluto far cre­ dere e abbiano ritenuto alcuni suoi interpreti in anni recenti, e contro ogni evidenza quale risulta dai Documenti diplomatici italiani, protagonista di questa ingerenza diretta nella politica interna austriaca fu proprio il ministro Grandi, tramite le istru­ zioni inviate al rappresentante diplomatico a Vienna Giacinto Auriti. Essa fu, nei termini di una diplomazia segreta, il pen­ dant della fornitura di armi alla Heimwehr. Dopo il 1928, l’in­

    14 Articoli del 25 aprile e del 3 maggio 1931, ora riprodotti in Din Grandi, La politica estera dell'Italia dal 1929 al 1932, 2 voli., prefazione di Renzo D e Felice, introduzione e cura di Paolo Nello, Roma, Bonacci, 1985, voi. I, pp. 373-388.

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    gerenza italiana nella politica interna austriaca si avviò a di­ ventare un fattore organico di questa stessa politica e sempre più lo sarebbe diventato, soprattutto nel 1932-1933 in conco­ mitanza con l’intensificarsi della crisi del sistema parlamentare in Austria. L’influenza italiana finì per caratterizzarsi come un vero e proprio fattore di aggressione all’interno, via via che, con il pretesto di difendere l’Austria dalle pressioni filonaziste provenienti dall’esterno, ne accelerava la trasformazione in senso autoritario e specificamente clerico-fascista. Valga per tutte una citazione dalle istruzioni di Grandi ad Auriti, emble­ matica di quella fusione fra diplomazia e tentativo di esporta­ zione del modello fascista di cui si rese protagonista per l’ap­ punto il ministro degli Esteri italiano. Scriveva Grandi ad Auriti il 22 ottobre del 1929: È superfluo Le confermi tutto l’interesse che il Governo fasci­ sta annette ad una vittoria delle Heimwehren. Un mutamento radi­ cale in tal senso oltreché allontanare l’Austria dall’orbita e dall’azio­ ne della socialdemocrazia massonica operante secondo direttrici di­ verse, da Praga, da Berlino, ed anche, in certa maniera oggi da Londra e Parigi, ma tutte in senso anti-italiano, verrebbe a stabilire in un altro paese, dell’importanza come quello austriaco, un regime che non potrà non [sic] prescindere, per cause determinanti intrin­ seche, dalla necessità di avvicinarsi al regime fascista15.

    JUGOSLAVIA E UNGHERIA

    Alla luce del retaggio nazionalista, la Jugoslavia era destinata ad assumere una parte di primo piano nella politica estera del fascismo. Abbiamo già visto, del resto, come la questione dei rapporti con la Jugoslavia condizionasse anche le relazioni con altri paesi, in particolare con l’Austria e con l’Albania. Se mai si dovesse dare un senso all’espressione «politica estera arma­ ta», che Mussolini adoperò nel discorso al Senato del 16 no­ vembre 1923, è appunto nel caso della Jugoslavia che esso an­ drebbe verificato. La correttezza di rapporti che, con non ce­ lata freddezza, Mussolini protestò in più di una occasione nei confronti della Jugoslavia era fatta in realtà di riserve mentali, derivanti dall’accesa polemica nazionalistica e imperialista sul­ la questione adriatica e dalla persistente volontà di mantenere

    15 Cfr. DDI, VII, voi.

    V ili,

    n.

    100.

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    in stato di permanente tensione il fronte orientale, come se l’Italia si tenesse sempre pronta a saltare addosso alla vicina adriatica. Abbiamo visto che, se la presenza di Contarini aveva in qualche misura salvaguardato il carattere indolore del pas­ saggio dalla politica liberale di apertura e di amicizia con il nuovo stato degli slavi del Sud, l'ipotesi del fascismo di impri­ mere una dinamica attivistica alla presenza italiana nell'area balcanica non poteva non creare momenti di frattura e di svol­ ta in direzione del vicino regno. Anche senza volere identificare con la politica del fasci­ smo il retaggio della polemica nazionalista contro l’esistenza di per sé dello stato jugoslavo - una polemica che continuava e di cui era autorevole esponente il già citato Tamaro, uno degli scrittori di punta della rivista nazionalista «Politica» e non a caso rappresentante tra i più intransigenti del vecchio irreden­ tismo adriatico - , non c’è dubbio che la politica fascista si nu­ trì di umori fortemente ostili alla Jugoslavia16. Il nuovo regime portò bensì a compimento Yiter degli accordi che attraverso Rapallo (1920) e Santa Margherita (1922) aveva avviato la normalizzazione dei rapporti tra i due stati, ma le pretese italiane su Fiume, a suo tempo esclusa dal­ le promesse del Patto di Roma in cambio della Dalmazia, im­ pedirono che il contenzioso si chiudesse nell’ottobre del 1922 a Santa Margherita, proprio alla vigilia della marcia su Roma. L’impossibilità di dare vita allo stato libero di Fiume, in vista del quale Italia e Jugoslavia si erano impegnate ad operare con gli accordi di Rapallo, fu ratificata dai due stati con gli accor­ di di Roma firmati il 27 gennaio 1924 da Mussolini e dal pre­ sidente del Consiglio Nikola Pasic, il cui protocollo addizio­ nale al patto di amicizia e collaborazione riconosceva il defi­ nitivo passaggio di Fiume alla sovranità italiana17. In realtà la piena normalizzazione dei rapporti tra i due paesi richiese tempi lunghi. Il trattato di commercio e di navigazione che era stato firmato a Belgrado il 14 luglio 1924, ad integrazione de­ gli accordi di Roma, rimase inoperante sino al 1928, non aven­ do l’Italia provveduto alla sua ratifica.

    16 Abbiamo sottolineato il contributo della pubblicistica di Attilio Tamaro nel nostro saggio su II razzismo antislavo , in Alberto Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945 (Atti del convegno «N el nome della razza», Bologna, 13-15 novembre 1997), Bologna, Il Mulino, 1999. 17 Per i testi degli accordi qui citati si rinvia all’importante raccolta a cura di Amedeo Giannini, Documenti per la storia dei rapporti fra l'Italia e la Iugoslavia, Roma, Istituto per l’Europa orientale, 1934.

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    Altrettanto avvenne, questa volta per opposizione da par­ te jugoslava, con l’attuazione delle convenzioni di Nettuno sti­ pulate il 20 luglio del 1925, le quali oltre a prevedere integra­ zioni all’accordo di Roma del gennaio del 1924 per la regola­ mentazione del traffico tra i due paesi e per le questioni doga­ nali concernenti Fiume e Zara, prevedevano anche la regola­ mentazione di una serie di questioni riguardanti i cittadini ita­ liani in Dalmazia e i cittadini italiani di nazionalità serbo-croa­ to-slovena a Fiume (compreso il riconoscimento del diritto al­ l’uso delle rispettive lingue). Ebbene, anche l’attuazione delle convenzioni di Nettuno non potè avere luogo prima della loro ratifica, vale a dire nell’agosto del 1928. L’opposizione alla lo­ ro più tempestiva approvazione era venuta questa volta dalla componente croata dello stato jugoslavo, che contestava l’av­ venuto riconoscimento di diritti italiani sulla Dalmazia. La sorte degli accordi citati era di per sé significativa del­ le difficoltà che si frapponevano alla normalizzazione dei rap­ porti e che non erano soltanto di natura strettamente politico­ diplomatica. Giocavano certamente forti diffidenze dovute al timore che il consolidamento dello stato jugoslavo mettesse in discussione la pretesa italiana alla totale predominanza strate­ gica e commerciale nell’Adriatico, destinato a non essere, in caso di consolidamento dello stato jugoslavo, il «mare interno» che era stato teorizzato dalla pubblicistica nazionalista. Ma giocavano anche, e più di quanto non ne tenessero conto i re­ sponsabili della politica fascista, i fattori derivanti dal tratta­ mento delle minoranze nazionali slave che erano rimaste entro i confini dello stato italiano a seguito dei trattati di pace e de­ gli accordi suppletivi successivi. L’intransigenza con la quale il governo fascista pretende­ va, specialmente in Dalmazia, di tutelare gli italiani rimasti in territorio jugoslavo non prevedeva nell’ottica del fascismo al­ cuna forma di reciprocità, che tutt’al più rimaneva soltanto a parole negli accorai. Nei confronti delle popolazioni cosiddet­ te “allogene” il fascismo, e questo riguarda gli slavi della Venezia Giulia come la popolazione di lingua tedesca dell’Alto Adige, si riservava nei fatti mano libera: tutt’al più ventilava la possibilità di largire qualche concessione, ma il principio base era la pretesa tutela della maggioranza (in realtà stragrande maggioranza) italiana, che nessuno peraltro metteva minima­ mente in pericolo. Da questo punto di vista i due fascicoli spe­ ciali di «Gerarchia» del 1927, dedicati rispettivamente alla Venezia Tridentina e alla Venezia Giulia nel decennale della “redenzione”, rappresentano in modo esemplare il punto di vista del regime, determinato, dietro la facciata della pseudoe­ 55

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    guaglianza tra tutti i cittadini italiani, a fare degli “allogeni” null’altro che cittadini di seconda classe. Privati delle scuole nella madrelingua, colpiti nella loro identità linguistica e cul­ turale, boicottati nell’amministrazione pubblica e nelle profes­ sioni, ostacolati nelle stesse pratiche religiose laddove il clero rappresentava un fattore di identità e di coesione nazionale, sa­ botati nelle attività economiche, soprattutto sloveni e croati vi­ dero misconosciuti i loro più elementari diritti ad opera di una politica e di una amministrazione che si orientavano verso ve­ re e proprie pratiche razziste. Se questo problema delle minoranze costituiva già di per sé un importante banco di prova per le relazioni italo-jugoslave, l’attivismo balcanico della politica fascista rappresentava certo per la vicina Jugoslavia un ulteriore motivo di inquietu­ dine. L’iniziativa dell’Italia in Albania fu sicuramente uno dei moventi delle diffidenze ma anche dell’aperta ostilità con le quali da parte jugoslava si guardò a tutte le mosse italiane nel settore. E difficile dire se un tentativo di coinvolgere la Jugoslavia nella questione albanese per coprirsi le spalle avreb­ be evitato il logoramento permanente dei rapporti. L’Italia preferì agire da sola, e ciò probabilmente non sol­ tanto per evitare di dover pagare un prezzo in cambio dell’e­ ventuale collaborazione della Jugoslavia e riservarsi comunque libertà di azione, ma anche in conseguenza di un metodo che privilegiava le relazioni bilaterali, soprattutto con paesi appa­ rentemente più deboli. Non coinvolgendo, ad esempio, la Jugoslavia nei rapporti con l’Albania, l’Italia voleva soprattut­ to evitare di riconoscere la presenza e il peso della diplomazia francese, che era stata la vera ispiratrice della Piccola Intesa e rimaneva comunque il cervello alle spalle degli stati che ne fa­ cevano parte e nel cui ambito la Jugoslavia rappresentava la cerniera determinante sul versante balcanico. Posto anche che sia vero quanto affermato da diversi commentatori - fra i qua­ li, nei suoi ricordi, un diplomatico di lungo corso e di lunga esperienza come Guariglia18 - , e cioè che l’inasprimento dei rapporti con la Jugoslavia, che sarebbe stato decisivo nell’ab­ bandono di Contarmi, sarebbe da attribuirsi personalmente a Mussolini, resterebbe sempre da chiarire quali prospettive si ponesse il capo del fascismo, anche come ministro degli Esteri, in questo suo dissennato agire. Sembra infatti relativamente in­ soddisfacente l’ipotesi che la politica italiana si orientasse ver-

    18 R. Guariglia, Ricordi, cit., p. 50.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    so il triplice obiettivo di isolare la Jugoslavia, tenere lontano dal settore balcanico la Germania (il cui attivismo in quella di­ rezione si sarebbe peraltro dispiegato soltanto in anni succes­ sivi) e ostacolarvi la penetrazione della diplomazia francese, in maniera cosi velleitaria, quasi che l’Italia potesse affermarsi co­ me l’unica potenza dominatrice dell’area. Se questa poteva es­ sere l’aspirazione imperialistica di pubblicisti nazionalisti inca­ paci di concepire un'Italia che non fosse motivata soltanto, vo­ lontaristicamente, dalle proprie pulsioni egemoniche, ma fosse realisticamente inserita in un contesto di concrete relazioni con interlocutori concreti, è difficile immaginare che la politi­ ca di un governo ancorché fascista potesse poggiare su un si­ mile castello di carta. » E tuttavia il corso degli eventi tenderebbe a dimostrare come l’Italia rifuggisse da ogni ipotesi di collaborazione che non fosse subalterna. Un esempio di questa disattenzione o sottovalutazione di possibili collaborazioni fu offerto, proprio nel caso dei rapporti con la Jugoslavia, dalla sosta a Roma del ministro degli Esteri serbo Moncilo Nincic (ministro degli Esteri jugoslavo già all’epoca della firma dei trattati di Roma), nei giorni 25 e 26 febbraio del 1926. Il viaggio di Nincic a Roma avvenne in un momento di tensione tra Italia e Austria in margine alla questione altoatesina, coincidente, come quasi sempre accadeva, con rinnovate pressioni da parte delle destre nazionaliste austriache in direzione dell ’Anschluss e con con­ comitanti suggestioni provenienti dalla Germania, al cui fondo era il solito sottinteso che un grande Reich unificato avrebbe avuto maggiore capacità e forza d’urto nel tutelare gli interes­ si delle popolazioni germaniche. Ma quel viaggio avveniva an­ che alla vigilia dell’intesa tra Francia e Jugoslavia, invisa all’Italia. Obiettivo della visita di Nincic a Mussolini era quello di rafforzare i legami con l’Italia proprio per frustrare le avvisa­ glie di fagocitamento dell’Austria aa parte della Germania, che la Jugoslavia temeva non meno di quanto avrebbe dovuto te­ merle l’Italia19. In realtà le avances di Nincic rimasero del tut­ to inascoltate. In primo luogo l’Italia non era interessata a stringere con la Jugoslavia legami che potessero consolidarne

    19

    Cfr. P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927, cit., pp. 249-251; H.J.

    Burgwyn, Il revisionismo fascista, cit., pp. 92-93. La scarsa documentazione in proposito dei D D I (VII, voi. IV, nn. 249,250) riguarda più la preparazione deIla visita di Moncilo Nincic che la sostanza dei colloqui.

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    CAPITOLO II

    la compagine interna, fedele a quella che sarà una costante del­ la sua politica, ossia giocare sulle divisioni interne dello stato adriatico per meglio controllarne e contenerne le mosse. In se­ condo luogo - ma questo rimaneva il punto fondamentale del­ la linea perseguita dall’Italia - il governo fascista non intende­ va assumere alcun impegno che vincolasse l’Italia a consulta­ zioni plurilaterali, pur avendo sottoscritto con gli accordi di Roma del 1925 un impegno di consultazione che in realtà con­ cerneva qualsiasi accordo fosse stato raggiunto nell’area dell’Europa centrale, ossia nell’area di più immediato comune interesse tra Italia e Jugoslavia. Sebbene la spinta impressa dall’Italia al separatismo croato assumesse le forme più vistose soltanto a partire dal 1927-1928, e sebbene sempre a partire da quest’epoca si in­ tensificassero gli aiuti ai terroristi macedoni (forse non è un mero caso che più o meno allo stesso periodo risalissero anche i rifornimenti ai armi alla Heimwehr austriaca), non va dimen­ ticato che, come hanno ricordato Carocci e altri studiosi, il go­ verno italiano era in collegamento con i separatisti croati sin dal 1925 20. E per giunta con quell’ala del separatismo croato che si sarebbe orientata in senso più radicalmente filofascista e che fu temporaneamente disponibile, in termini strumentali, a non sollevare il problema della presenza italiana in Dalmazia, che invece rappresentava, per la maggior parte delle forze del­ l’autonomismo e del separatismo croati, uno dei principali mo­ tivi dell’ostilità all’Italia (donde il ritardo già ricordato nella ra­ tifica degli accordi di Nettuno) così come dell’opposizione al governo di Belgrado, al di là della querelle tradizionale contro il centralismo e lo sfruttamento da parte di questo21. Analogamente, il governo di Roma non era rifuggito dal­ lo stabilire sin dalla fine del 1923 contatti con gli irredentisti e i terroristi macedoni, non tanto per favorire le aspirazioni del­ la Bulgaria, quanto per sostenere le tendenze antiserbe, cioè in funzione diretta della destabilizzazione dello stato iugoslavo. Anche questi rapporti avrebbero preso quota soltanto nel 1927, quando la politica italiana imboccò un corso decisamen­

    20 G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit., cap. vili; H.J. Burgwyn, Il revisionismo fascista, cit., pp. 184 sg. 21 In proposito si veda in particolare il saggio di Teodoro Sala, Le basi italiane del separatismo croato (1929-1941), in Massimo Pacetti (a cura di), L’imperialismo italiano e la Jugoslavia (Atti del convegno italo-jugoslavo, Ancona, 14-16 ottobre 1977), Urbino, Argalìa, 1981, pp. 283-351.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    te antijugoslavo; ma la trama dei contatti avviata anteriormen­ te rientrava nel temporaneo possibilismo della politica del go­ verno fascista, una delle cui costanti fu quella ai non avere as­ sunto mai un atteggiamento decisamente favorevole alla Jugoslavia, che nelle prospettive dell’Italia rimase sempre o un’amica strumentale o una nemica sostanziale. Il ballon d’essai sull’associazione Austria-Ungheria lan­ ciato da Grandi nel 1931 aveva in realtà un precedente nell’in­ teresse con il quale l’Italia aveva guardato sin dalla metà degli anni venti alle rivendicazioni revisioniste dell’Ungheria. L’Un­ gheria autoritaria del reggente Nicola Horthy offrì alla politica del governo fascista una duplice chance: da una parte quella di farsi paladino di una causa concreta in direzione della revisio­ ne dei trattati; dall’altra quella di disporre di un’ulteriore pe­ dina nell’operazione di accerchiamento della Jugoslavia, a completamento sulla linea settentrionale della cerniera austria­ ca. Come ha ben visto Carocci, «ciò che Mussolini cercava in Ungheria, dove da anni alto era il prestigio italiano, era un punto di appoggio per l’Europa centrale, così come l’aveva trovato in Albania per i Balcani»22. Nell’ottica di Mussolini l’Ungheria non si poneva solo come ulteriore argine all’in­ fluenza dei popoli slavi, ma anche come un ulteriore favorevo­ le terreno per tenere in scacco la coalizione filofrancese della Piccola Intesa: più ancora che all’esaltazione dell’antibolscevismo - che era all’origine del regime di Horthy in Ungheria e rimaneva a livello prevalentemente propagandistico - l’Un­ gheria si prestava a interporre un nuovo cuneo nel sistema di alleanze che la Francia aveva costruito nell’area danubianobalcanica. Mediante l'accordo con l’Italia, l’Ungheria usciva dal lungo isolamento internazionale e giocava inoltre sull’am­ bivalenza con la quale l’Italia faceva credere di coprire e addi­ rittura sposare le sue rivendicazioni revisionistiche, che non era peraltro in grado di appoggiare sino in fondo in quanto colpivano direttamente la Romania, essendo concentrate in buona parte sulla rivendicazione della Transilvania. Il trattato di amicizia e di arbitrato fra Italia e Ungheria, firmato a Roma il 5 aprile 1927 in occasione della visita del presidente del Consiglio Stefano Bethlen, coronò una stagione di contatti che era stata avviata sin dal 1926. L’11 marzo del 1926 Grandi poteva comunicare a Mussolini la disponibilità dell’Ungheria, per bocca di Bethlen, a subordinare fe proprie

    22 G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit., p. 79.

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    CAPITOLO II

    mosse verso l’area danubiano-balcanica all’egemonia (parlava letteralmente di «direttive») dell’Italia23. Al di là dell’impor­ tanza per la politica italiana, l’accordo era rilevante in quanto era il primo che il governo ungherese stipulava con una poten­ za straniera a pochi giorni dalla cessazione del controllo da parte della commissione militare interalleata istituita dopo i trattati di pace. La scelta dell’Italia fascista come interlocutri­ ce privilegiata da parte dell’Ungheria conteneva un’indicazio­ ne programmatica che forzava inevitabilmente e inequivoca­ bilmente il significato che all’iniziativa poteva dare l’Italia, la quale, per bocca dello stesso Mussolini, metteva l’accento es­ senzialmente sui tradizionali vincoli d’amicizia tra i due paesi e sul comune retaggio culturale cristiano-occidentale. Erano ancora lontani e di là da venire i tempi in cui Ciano avrebbe potuto parlare dell’asse trasversale Roma-ViennaBudapest, ma si andava già delineando una prima aggregazio­ ne politico-diplomatica sotto la guida dell’Italia, con funzioni polivalenti: premeva la Jugoslavia a nord e legittimava le ri­ vendicazioni dell’Ungheria alla revisione dei trattati, con l’af­ fermazione di un principio che non poteva rimanere limitato all’Ungheria ma che avrebbe dispiegato la sua potenzialità a li­ vello generale. Né era indifferente che i protagonisti dell’awicinamento Italia-Ungheria fossero il regime fascista da una parte e, dall’altra, un regime monarchico autoritario e militari­ sta come quello magiaro. Sotto la protezione dell’Italia, l’Ungheria, ormai svincolata dai controlli alleati, cercava anche la sua rivincita militare e la via al riarmo segreto. I contatti tra i due paesi continuarono e si intensificarono: all’inizio di apri­ le del 1928 ebbe luogo a Milano un nuovo incontro, questa volta segreto, tra Bethlen e Mussolini. Italia e Ungheria diven­ tavano l ’epicentro di una operazione a più largo raggio che prevedeva l’inserimento dell’estrema destra austriaca in un di­ segno che non era soltanto di coordinamento delle linee di po­ litica estera, ma anche di omogeneizzazione di regimi interni. L’Ungheria diventava il paese di transito e di mediazione per la fornitura di denaro e anche di armi dall’Italia alla Heimwehr austriaca: il legame tra Italia e Ungheria veniva così rafforzato dalla complicità nel riarmo segreto, in violazione sia dei vecchi trattati di pace sia dello statuto e degli impegni della Società delle Nazioni. Le ricerche pubblicate alla metà degli anni ses­

    23 Cfr. DDI, VII, voi. IV, n, 274. E in generale su questo punto H Burgwyn, Il revisionismo fascista, cit., pp. 108 sg.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    santa dallo storico ungherese Lajos Kerekes hanno messo in evidenza, con una documentazione che non ha riscontro nei Documenti diplomatici italiani, un risvolto dei rapporti italoungheresi che accentua fortemente il carattere eversivo dell’in­ contro tra i due paesi nel contesto delle relazioni internaziona­ li e il ruolo subalterno svolto dall’Ungheria24.

    ITALIA E STATI UNITI 25

    Nella seconda metà degli anni venti i rapporti con gli Stati Uniti acquistarono spessore e intensità al di là di quelli che era­ no stati i timori e le riserve che avevano accompagnato l’asce­ sa al potere del fascismo. Gli Stati Uniti a livello di governo e di opinione pubblica erano rimasti in bilico tra l’apprezza­ mento della svolta antibolscevica in Italia e l’incertezza deter­ minata dai sintomi, che il fascismo andava manifestando, di il­ liberalità in politica interna e di aggressività in politica estera. Il colpo di mano di Corfù era stato certamente l’elemento che aveva scatenato le maggiori preoccupazioni sui metodi e sugli obiettivi del governo fascista; l’uccisione di Matteotti e la pe­ sante svolta antidemocratica contro le opposizioni generarono perplessità sul carattere illiberale e antidemocratico del nuovo regime che si andava affermando in Italia, anche se nel giudi­ zio complessivo a prevalere fu la valutazione del carattere d’or­ dine che, soprattutto in funzione antibolscevica, il fascismo aveva ostentato sin dall’inizio e che più che mai si era imposto nella lotta contro le opposizioni antifasciste nel momento del­ la crisi di credibilità cui esso andò incontro dopo l’uccisione del deputato socialista.*23

    24 Cfr. Lajos Kerekes, Abenddàmmerung einer Demokratie. Mussolini, Gòmbós und die Heimwehr, Wien-Zurich, Europa-Verlag, 1966. Utili per gli orientamenti della politica ungherese anche i materiali raccolti a cura di Miklos Szinai e Laszlo Szucs nel volume The Confidential Papers o f Admiral Horthy, Budapest, Corvina, 1965. Sui rapporti specifici con iTtalia: Alfredo Breccia, La politica estera italiana e l’Ungheria 1922-1933, «Rivista di studi politici internazionali», 1980, n. 1, pp. 93-112; Maria Ormos, L’opinione del conte Stefano Bethlen sui rapporti italo-ungheresi (1927-31), «Storia contem­ poranea», II, 1971, n. 2, pp. 283-314. 23 Opere generali fondamentali: Claudia Damiani, Mussolini e gli Stati Uniti 1922-1935, Bologna, Cappelli, 1980; Gian Giacomo Migone, Gli

    Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980; John P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, Bari, Laterza, 1972.

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    CAPITOLO II

    Se già in Inghilterra la fedeltà alle regole della democra­ zia parlamentare e lo spirito liberale avevano fatto da con­ traltare all’opinione conservatrice che nel fascismo privilegia­ va la componente e la funzione antisovversiva, anche negli Stati Uniti una sorta di politica d’attesa più o meno benevo­ la accompagnò i primi anni della politica fascista, tanto più che l’assenza dalla Società delle Nazioni favoriva il più gene­ rale disimpegno degli Stati Uniti dalla politica europea. Corfù aveva rappresentato certo un momento di acuta preoc­ cupazione per la piega che avrebbe potuto assumere l’intera situazione balcanico-mediterranea, ma gli Stati Uniti, attenti in particolare ai problemi della stabilizzazione economica dell’Europa dopo la guerra, ad onta della asserita politica iso­ lazionista non avevano cessato di prestare attenzione ai mer­ cati europei, come terreno potenziale di investimenti e aiuti economici americani. In effetti, tra Italia e Stati Uniti erano aperti in partico­ lare due ordini di problemi: uno era quello tradizionale del­ l’emigrazione italiana e l’altro il problema, generato direttamente dalla Grande Guerra, delle riparazioni e dei debiti di guerra. Si inserirono poi certamente situazioni nuove direttamente e organicamente legate al regime fascista che si era af­ fermato in Italia, come la propaganda fascista in America tra i milioni di italo-americani, di cui tratteremo nel capitolo IV esaminando gli strumenti di influenza del fascismo italiano all’estero. Il contenzioso sull’emigrazione presentava un duplice volto e rifletteva anche le contraddizioni del governo fascista. Da una parte, vi erano la protesta e la critica contro la politi­ ca restrittiva dell’immigrazione che il governo statunitense aveva incominciato a praticare all’inizio degli anni venti, nel momento del primo riflusso della politica economica dopo la guerra e del riassorbimento dei reduci nelle attività produtti­ ve, che corrispondeva anche in Europa e in particolare in Italia a un ritorno dei reduci sul mercato del lavoro e alla ne­ cessità di garantire loro lo sbocco dell’emigrazione. Dall’altra, vi era la protesta del regime fascista contro la ten­ denza della politica americana ad accelerare i processi di as­ similazione e di naturalizzazione dei gruppi migranti, forzan­ do i processi di integrazione e omogeneizzazione delle diver­ se componenti etniche che giungevano negli Stati Uniti. Una direttrice di comportamento che non poteva incontrare il fa­ vore di un governo come quello fascista, che considerava i contingenti migratori italiani come una proiezione all’esterno del potenziale non solo demografico ma anche patriottico del 62

    PROPAGANDA E POLITICA; REVISIONISMO E REVISIONE

    popolo italiano e ne faceva quasi un veicolo della fascistizza­ zione all’estero. Se già XImmigration Act del 1921 aveva di fatto sfavori­ to l’immigrazione dall’Italia, poiché fissava la quota percen­ tuale degli afflussi consentiti negli Stati Uniti in rapporto ai gruppi etnici già presenti nel paese (e il contingente italiano, per quanto cospicuo, era pur sempre inferiore alle com po­ nenti tradizionali dell’immigrazione di lingua inglese), il nuo­ vo Immigration Act del 1924 risultò ancora più penalizzante nei confronti delle possibilità di immigrazione dall’Italia. L’ulteriore riduzione delle quote infatti fu certamente influen­ zata non più soltanto dal dato quantitativo ma anche dal ti­ more di vedere affluire negli Stati Uniti elementi dell’estrema destra o dell’estrema sinistra, espressione del malcontento so­ ciale del dopoguerra europeo. La politica protezionista si ali­ mentava così sia della preoccupazione di non accrescere le componenti etniche estranee al ceppo fondamentale di lingua inglese, per ridurre al minimo le possibilità di conflitto, sia del timore di vedere penetrare nel paese elementi di disordine e di sovversione considerati estranei alla tradizione americana e alla politica conciliatoria e corporativa insieme di sindacati e organismi pubblici statunitensi. Il governo fascista, che in ar­ monia con la tradizione nazionalista avrebbe dovuto porre fi­ ne all’emigrazione, posto di fronte allo stato di necessità ri­ vendicò un maggiore spazio per i contingenti italiani (propo­ nendo ad esempio di anteporre alla nazionalità espressa in ci­ fre la professionalità e il privilegiamento di determinate cate­ gorie di lavoratori qualificati)26, senza però incontrare dispo­ nibilità da parte statunitense. Nel 1923 una visita dei sovrani italiani negli Stati Uniti fu sollecitata dallo stesso Mussolini anche con riguardo al problema dell’emigrazione, anche se poi fu lasciata cadere in margine a contenziosi di carattere ge­ nerale e in particolare di fronte alle reazioni americane all’oc­ cupazione ai Corfù27. In realtà, la posizione dell’Italia era resa più debole dal fatto che tra le pendenze aperte con gli Stati Uniti vi era anche

    26 Sulla questione dell’emigrazione nel suo complesso si veda C. Damiani, M ussolini e gli Stati Uniti, cit., cap. ni. 27 Cfr. la lettera in data 29 giugno 1923 con la quale Mussolini prospettava a Vittorio Emanuele l'opportunità di una sua visita negli Stati Uniti, in D D l, VII, voi. n, n. 102; stralcio dal documento in G. G. Migone, G li Stati U niti e il fascismo, cit., p. 96; per il tramonto dell’idea della visita C. Damiani, M ussolini e gli Stati Uniti, cit., pp. 23-24.

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    CAPITOLO II

    la questione dei debiti di guerra. Gli Stati Uniti erano disposti a dimostrarsi molto più elastici su questo versante che non su quello dell’emigrazione, che coinvolgeva problemi complessi di carattere non solo internazionale ma anche politico e sociale al­ l’interno della grande confederazione. Mussolini in persona ave­ va costantemente sollecitato il rimborso graduale del debito di guerra contestualmente alla rinuncia ad ogni rivendicazione dell’Italia a titolo di riparazione nei confronti dei vecchi nemici dell’Intesa. In tal senso nel 1925 era stato possibile stipulare un accordo tra Italia e Stati Uniti e almeno la sistemazione di que­ sta parte del contenzioso non avrebbe dovuto lasciare strascichi. Anzi, la liquidazione del problema equivalse ad eliminare tm ostacolo sulla via della concessione di aiuti economici all’Italia che gli Stati Uniti accordarono ripetutamente nel quadro della politica destinata a contribuire alla stabilizzazione economica dell’Europa, dalla quale la finanza e l’economia americane do­ vevano trarre largamente profitto. Le trattative che portarono nel 1925 al rimborso parziale del debito di guerra furono di fatto, come è stato riconosciuto ampiamente da Gian Giacomo Migone, la condizione prelimi­ nare perché l'Italia potesse accedere al mercato finanziario sta­ tunitense, dal quale attendeva i prestiti necessari per i progetti di sviluppo del paese 28. La missione del conte Giuseppe Volpi ne­ gli Stati Uniti tra ottobre e novembre del 1925 e l’intervento del­ la Banca Morgan, che nella stessa misura in cui prestava la sua consulenza al governo fascista fungeva da apripista verso gli am­ bienti finanziari americani, furono tra i preliminari dell’accordo che, al di là di ogni dissonanza di linea politica tra i due paesi, doveva rientrare nel quadro della politica di stabilizzazione del­ la lira. Il prestito di 100 milioni di dollari all’Italia contrattato al­ la fine del 1925 sottolineò la conclusione di questa fase di avvi­ cinamento tra Italia e Stati Uniti, caratterizzata da una parte dal­ le esigenze di legittimazione e di stabilizzazione dell’Italia, dal­ l’altra dall’interesse degli Stati Uniti a contribuire alla più gene­ rale stabilizzazione dell’Europa dopo la guerra. Una nuova occasione di incontro fu offerta dai negoziati sul disarmo, in particolare dalla conferenza di Londra del 1930, al­ lorché la tregua negli armamenti chiesta per l’Italia dal ministro Grandi, che non nasceva soltanto dalla volontà di bloccare la cor­ sa al riarmo e soprattutto di neutralizzare il rifiuto francese a ri­ conoscere la parità all’Italia, ma anche dall’impossibilità per

    28 Cfr. G .G . Migone, G li Stati U niti e il fascismo, cit., cap. II.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    l’Italia di sostenere gli oneri finanziari della corsa agli armamen­ ti al livello imposto dalle altre e più grandi potenze, si incontrò con gli interessi degli Stati Uniti a contenere le rivendicazioni francesi. Giocando in parte su una politica di immagine modera­ ta nei toni anche per nascondere le insufficienze reali della poli­ tica italiana, ostentando quasi un lealismo societario che mal si conciliava con la freddezza o con la iattanza dimostrata in altri casi (a cominciare dall’incidente di Corfu) nei confronti della Società delle Nazioni, alla quale gli Stati Uniti d’altronde conti­ nuavano ad essere estranei ma non ostili, l’Italia trovò negli anni della gestione Grandi, in cui cominciava ad accrescersi la conflit­ tualità con la Francia anche per via dei progetti concorrenti nell’Europa centro-danubiana, oltre che dell’annunciata espan­ sione coloniale, una flebile sponda negli Stati Uniti. L’affermazione secondo la quale «il 1931 fu il momento di incontro più felice fra la democrazia americana e l’Italia fasci­ sta» 29 si può considerare in linea di massima corretta una volta scontati i limiti che si devono attribuire alle iniziative della di­ plomazia italiana. La visita a Roma nel luglio del 1931 del segre­ tario di Stato Henry Stimson aprì questa fase di relazioni cor­ diali: essa rientrava come prima tappa in un viaggio informativo ed esplorativo che il capo della diplomazia americana effettuò in Europa sulla spinta delle iniziative con le quali il presidente repubblicano Herbert Hoover mostrava attenzione per le conse­ guenze devastanti della Grande Crisi sull’evoluzione non solo economica ma anche politica del vecchio continente. In partico­ lare, la proposta di Hoover per la moratoria di un anno nel pa­ gamento di tutte le forme di indebitamento derivanti dalla guer­ ra mondiale comprese le riparazioni a carico della Germania proposta che contribuì a sdrammatizzare la crisi e a incoraggia­ re la ricerca di soluzioni per la liquidazione del contenzioso aveva ricevuto l’appoggio del governo italiano. L’invito rivolto a Grandi a recarsi in visita negli Stati Uniti si preannuncio imme­ diatamente come un grande successo di prestigio della diploma­ zia fascista. In effetti Grandi, che si trattenne negli Stati Uniti nella seconda metà di novembre, fu il primo ministro degli Esteri nella storia dell’Italia unita a mettere piede nel grande stato nordamericano30. Il viaggio non conseguì alcun successo con­

    29

    C. Damiani, M ussolini e gli Stati U niti, cit., p. 159. Si veda inoltre

    tu tto il cap. VII sugli incontri Stimson-Grandi.

    50 Cfr. D. Grandi, La politica estera dell'Italia, cit., voi. Il, l'intera p a r te VI dedicata alla visita negli Stati Uniti.

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    CAPITOLO II

    creto e immediatamente tangibile, ma fu certo un successo di stima per il ministro fascista e di prestigio per l’Italia. Fu un esempio cospicuo del volto bifronte che la politica estera del fascismo e Grandi in particolare sapevano mostrare. Facendo sfoggio di tutta la sua abilità diplomatica e di una notevole do­ se di ipocrisia, Grandi cercò di rappresentare il volto più con­ ciliante del fascismo e dell’Italia, senza smentire i propositi di “revisione” in politica estera, ma presentandone i risvolti che andavano nella direzione di una riconciliazione dei popoli, con accenti che potevano trovare risonanze negli interlocutori americani. Paradossalmente Grandi si presentò, quasi wilsonianamente, come paladino di una “nuova diplomazia”, la «nuova diplomazia - come ebbe a dire - dei contatti persona­ li e diretti fra uomini di governo e nel controllo quotidiano del­ la pubblica opinione». Sfruttò abilmente le sue visite alla co­ munità italo-americana («Se vi sono due popoli nati per inten­ dersi [...] questi sono il popolo americano e il popolo italiano», come si espresse a Filadelfia il 20 novembre), esaltò con una certa enfasi la moratoria Hoover che definì addirittura «la più importante manifestazione di solidarietà umana che si sia avu­ ta dopo la fine della guerra», evitò accuratamente ogni accen­ to polemico, esaltando negli Stati Uniti la «pacifica conviven­ za» tra «milioni di emigrati da tutte le parti della terra», si la­ sciò andare persino, lui convinto nemico della democrazia, a un omaggio alla democrazia degli States e alla funzione della li­ bera stampa, affrontando nei colloqui e nei pubblici interven­ ti i quattro gruppi di «gravi problemi che sono di fronte a noi»: 1. Problema delle obbligazioni finanziarie risultanti dalla guerra; 2. Problema della sicurezza; 3. Problema della riduzione e limitazione degli armamenti; 4. Problema della collaborazione economica31. Nulla poteva essere più gratificante per le orecchie del presidente e del pubblico americani che sentire dalla bocca del ministro degli Esteri dell’Italia fascista l’elogio del disarmo, della sicurezza e della giustizia internazionale e l’appello alla legge morale nei rapporti tra gli stati, l’affermazione della in­ divisibilità della pace, come se Grandi si fosse trasformato in un commesso viaggiatore della Società delle Nazioni. Non possediamo i verbali degli incontri di Grandi con il presidente Hoover. Più che dal discorso da lui tenuto al Senato

    31 D. Grandi, La politica estera dell’Italia, cit., voi. II, p. 582.

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    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    il 10 dicembre 1931 al ritorno in Italia, qualche maggiore spi­ rag lio sui dettagli dei colloqui americani viene dalla relazione sulla missione che preparò per Mussolini in data 2 dicembre

    1931 32. L'elemento più significativo nella sequenza dei collo­ q u i appare la menzione, fra i problemi dell’Europa, accanto a un problema francese (identificabile nell’esigenza della sicu­

    rezza) e a un problema tedesco (esigenza di eguaglianza), di un problema italiano: Vi è infine un problema italiano che è essenzialmente un pro­ blema di vita. Noi finiremo col soffocare un giorno o l’altro. Bisogna che il mondo si decida a pensare anche a questo problema, che per la pace d’Europa non è meno urgente e meno importante degli altri33. Il «problema italiano» era il problema dell’espansione ita­ liana: l’allusione alle colonie africane, che era d’altronde nei progetti prioritari di Grandi, era trasparente. Ma anche là pre­ tesa di Grandi di proporre l’Italia come «potenza di equilibrio» in Europa («né con la Francia né contro la Francia. Né con la Germania, né contro la Germania. Siamo invece solidali con la Gran Bretagna, perché anche la Gran Bretagna è come noi di­ rettamente interessata all’equilibrio in Europa») era destinata per la sua velleitarietà a rimanere senza risposta. Grandi aveva esposto l’Italia anche al di là delle sue effettive possibilità. L’ipotesi, formulata da Migone, secondo cui con Grandi l’Italia voleva proporsi come «l’interprete della politica americana in Europa»34 conferma la valutazione di quanto fosse aleatoria la linea politica di allineamento agli Stati Uniti. Ciò non solo per­ ché l’Italia evitava di affrontare il vero nodo dei suoi rapporti europei, che doveva passare attraverso il chiarimento e l’accor­ do con la Francia; non solo perché sottovalutava la posizione della Gran Bretagna, il vero e naturale alleato degli Stati Uniti rispetto al quale u ruolo dell’Italia sarebbe stato sempre secon­ dario; ma soprattutto perché tutto questo presupponeva che gli Stati Uniti fossero seriamente interessati ad impegnarsi sul con­ tinente europeo, cosa che non era vera allora e non lo sarebbe stata neppure negli anni immediatamente successivi, neppure quando incominciarono a chiarirsi i problemi e a diradarsi le

    32 D . Grandi, La politica estera dell’Italia, cit., voi. n, pp. 613 sg. 33 D . Grandi, La politica estera dell’Italia, cit., voi. n, p. 617. 34 G. G. Migone, G li Stati U niti e il fascismo, cit., p. 282.

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    difficoltà della crisi, che avevano sconvolto anche il quadro politico europeo agevolando potentemente l’ascesa del nazi­ smo in Germania. L’Italia perno della politica europea degli Stati Uniti era soltanto un’illusione o una fantasia ai Grandi (sicuramente meno di Mussolini), se è vero che Grandi inten­ deva sollecitare un forte intervento degli Stati Uniti in Europa come garanzia e volano per la ripresa capitalistica, facendosi in questo senso portavoce dei settori più moderni e anche m o­ derati del capitalismo italiano. Si capisce perciò perché la vi­ sita di Grandi negli Stati Uniti rappresentò esteriormente il punto più alto del suo prestigio, ma nei fatti segnò anche il li­ mite invalicabile della politica estera del fascismo. Con buona pace di chi vuole salvare almeno le intenzioni dei fautori del «peso determinante», era la stessa vocazione alla subalternità dell’Italia - la quale cercava una nicchia sicura sotto le ali pro­ tettive delle aquile americane - a uscirne sconfitta, perché il potere contrattuale dell’Italia era pressoché nullo e perché gli Stati Uniti, che pur apprezzavano la funzione di ordine del fa­ scismo, non avevano bisogno dell’Italia che in misura molto modesta. L’illusione che l’Italia potesse essere il centro se non del mondo almeno della politica mediterranea ed europea era anch’essa campata in aria. Nel suo rapporto a Mussolini Grandi aveva scomodato persino il fantasma di Cavour per sottolineare il modello al quale avrebbe ispirato la sua politi­ ca, quasi fosse riuscito a convincere quella che già allora si profilava destinata a diventare la più grande potenza del m on­ do a identificare gli interessi dell’Italia come interessi del mondo intero. Ma la sua magniloquenza non poteva mutare il fatto che l’esito dei colloqui americani non aveva portato nes­ sun risultato concreto. Successo personale di stima e successo di prestigio per il regime: troppo poco per una politica che non si accontentasse delle mere apparenze e che non giocasse semplicemente sulle capacità di mistificazione e di manipola­ zione delle coscienze. Visto non più sotto il profilo dei rap­ porti con gli Stati Uniti, ma sotto quello più generale della po­ litica estera del fascismo, l’esito inconcludente della visita di Grandi negli Stati Uniti significava il fallimento di una intera politica, che misconosceva i rapporti di forza reali, e la cui so­ stanziale mancanza di obiettivi e di sbocchi traspariva sotto le superficiali e formali espressioni di cortesia del linguaggio di­ plomatico. La convergenza tra Italia e Stati Uniti che si sareb­ be verificata sei mesi dopo alla conferenza di Losanna sulle ri­ parazioni non era destinata a modificare la sostanza dei rap­ porti, certamente cordiali ma ininfluenti sul decorso degli svi­ luppi generali. 68

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    DISARMO O REVISIONE? 35

    Il problema del disarmo ebbe importanza di per sé ma fu an­ che il tramite attraverso il quale passarono le rivendicazioni dell’Italia alla posizione di grande potenza; fu pertanto anche un momento rivelatore essenziale sia rispetto ai rapporti con la Società delle Nazioni, sia rispetto a quelli tra l’Italia e la Francia, che a differenza di quanto avvenne nelle relazioni con la Gran Bretagna, più flessibili, furono sempre gravati da pre­ clusioni ideologiche e di fatto anticiparono sin dagli anni ven­ ti le difficoltà che nel successivo decennio - con la sola e par­ ziale parentesi Lavai - avrebbero condotto alla contrapposi­ zione e di fatto alla paralisi e alla rottura persino della comu­ nicazione tra i due paesi mediterranei. Se vi fu una costante nella politica estera del fascismo, questa fu appunto lo sforzo di contestare la supremazia fran­ cese nel Mediterraneo e di affermare quanto meno la parità de­ gli armamenti con la Francia. In realtà, come si sarebbe visto ripetutamente, la questione degli armamenti era soltanto uno degli strumenti attraverso i quali l’Italia perseguiva il ricono­ scimento e soprattutto la convalida dello status di grande po­ tenza, assumendo sistematicamente a criterio di misura la Francia. Di fatto, inoltre, gli interessi dell’Italia nell’area danubiano-balcanica avevano creato un’altra zona di frizione con la diplomazia francese, che coinvolgeva direttamente la gestione complessiva dei trattati di pace. Da ultimo, la proclamazione della vocazione africana dell’Italia e il peso che venne dato al­ le rivendicazioni coloniali nell’approccio al rango di grande potenza non potevano non rappresentare un ulteriore fattore di potenziale conflittualità con la Francia. Se è vero che la prospettiva dell’espansione africana fu una costante della propaganda fascista e dei programmi della politica italiana, è innegabile che il destino coloniale e africano dell’Italia trovò nelle parole e nell’iniziativa di Grandi come ministro degli Esteri un timbro particolare, che preludeva al passaggio ad una fase di programmazione ravvicinata dell’e­ spansione italiana. Ora, poiché non era pensabile che le altre potenze, e in primo luogo la Francia, accordassero all’Italia senza alcuna contropartita quanto essa rivendicava, non pote-35 35 Per la problematica generale di questo paragrafo cfr. E. D i Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana, cit., cap. VII; Salvatore Minardi, Italia e Francia alla conferenza navale d i Londra del 1930, Caltanisetta-Roma, S. Sciascia ed., 1989; Cesare La Mantia, Il disarmo nella politica estera italiana (1931-1932), Soveria Mannelli, Rubbettino, 1989.

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    va non porsi il problema della compatibilità tra le rivendica­ zioni italiane e le proposte di disarmo. Con quali mezzi infatti l’Italia pensava di poter realizzare l’espansione africana, posto che diffidava di semplici concessioni da parte delle altre po­ tenze e che, comunque, le concessioni possibili presumibil­ mente non avrebbero soddisfatto le sue richieste? L’Italia aveva già ottenuto un risultato positivo all’epoca della conferenza di Washington per il disarmo navale che si era conclusa nel febbraio del 1922. La conferenza aveva raggiunto un accordo parziale per quanto riguardava le navi da battaglia, rinviando praticamente sine die un eventuale accordo relativo al naviglio di superficie di minore stazza e di minore potenza di fuoco e al comparto sommergibili. Da quel primo accordo era scaturita la parità tra Italia e Francia in ordine alle navi da battaglia. Di fronte alla rivendicazione italiana della parità na­ vale assoluta tra le due maggiori potenze affacciate sul M e­ diterraneo (senza sottovalutare gli interessi mediterranei della Gran Bretagna che ne facevano la terza potenza del settore, an­ corché prima in assoluto negli armamenti navali in concorren­ za con gli Stati Uniti), il primo round aveva portato all’affer­ mazione della parità nel tonnellaggio delle navi da battaglia (3,5 attribuite a Francia e Italia contro 6 al Giappone e 10 per ciascuno a Gran Bretagna e Stati Uniti). La questione della parità con la Francia non riguardava però soltanto gli armamenti navali; essa investiva il problema del disarmo nel suo complesso. Per questo rimase costantemente al­ l’ordine del giorno ogni volta che si tornò a parlare di limitazione agli armamenti, sia in sede di discussione sul disarmo navale (ma neppure la nuova conferenza di Ginevra nel 1927 portò ad alcu­ na conclusione: d’altronde l’Italia, come anche la Francia, aveva espresso preventivamente le sue riserve non partecipandovi in li­ nea diretta, ma facendosi rappresentare semplicemente da un os­ servatore) sia nell’ambito più generale delle discussioni sulla si­ curezza che si svolgevano nel quadro della Società delle Nazioni. Emerse tuttavia un insieme di princìpi base che guidò il compor­ tamento dell’Italia nella questione degli armamenti. Era quello che fu esposto da Mussolini nel discorso al Senato del 5 giugno 1928, e ctie stabiliva il nesso tra i diversi aspetti del problema: 1. Interdipendenza di ogni genere di armamento. 2. La proporzione degli armamenti “non” deve essere basata sullo statu quo. 3. I limiti degli armamenti dell’Italia non possono avere carat­ tere assoluto, ma dovranno essere relativi agli armamenti totali degli altri Stati (parità con la nazione continentale europea più armata).

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    4. Il Governo italiano si dichiara a priori disposto ad assumere, come limite dei propri armamenti, cifre qualsiasi, anche le più basse, purché non sorpassate da alcun’altra potenza continentale europea. 5. I metodi da impiegare per ottenere le limitazioni devono ri­ vestire carattere della massima semplicità e non implicare la necessità di controllo esterno36. Dove è da sottolineare, al di là delle affermazioni maggior­ mente legate a problemi di prestigio nazionale (quali l’esclusione di controlli dall’esterno), il criterio complessivo della «parità con la nazione continentale europea più armata», che ripropo­ neva il rapporto di parità con la Francia come punto irrinuncia­ bile della posizione dell’Italia. La quale per questa stessa ragio­ ne rifiutò di aderire al compromesso raggiunto sui criteri di ri­ duzione degli armamenti navali tra Francia e Inghilterra alla fi­ ne di luglio del 1928, che non solo ribadiva di fatto la superio­ rità della flotta inglese ma che, prevedendo un rapporto privile­ giato con questa nella valutazione della flotta francese, allonta­ nava le possibilità che fosse raggiunto l’obiettivo della parità perseguito dall’Italia. La non adesione dell’Italia (e quella degli Stati Uniti) fece sì che l’accordo anglo-francese rimanesse privo di attuazione. L’Italia aderì invece, il 14 ottobre 1929, all’invito rivolto dal governo inglese di partecipare alla nuova conferenza per il disarmo navale, la cui apertura era prevista a Londra per l’inizio del 1930. L’invito era partito dopo che la Gran Bretagna aveva composto il vecchio dissidio con gli Stati Uniti sulla parità tra gli armamenti navali inglesi e quelli americani. Nelle more della preparazione della conferenza, Grandi in qualità di ministro degli Esteri prese l’iniziativa di un incontro diretto con il capo del governo e ministro degli Esteri francese Aristide Briand, allo scopo di pervenire ad un’intesa bilaterale con la Francia che avrebbe dovuto servire come contributo in vista di un accordo generale. Oggetto dell’accordo doveva esse­ re, secondo la proposta Grandi, la fissazione della parità del ton­ nellaggio tra le due flotte, a un livello stabilito dalla Francia37. Ma all’inizio del 1930 il nuovo governo di André Tardieu rifiutò ufficialmente la proposta italiana: il governo francese non vole­ va crearsi vincoli ma soprattutto non accettava l’idea della parità avanzata dall’Italia38. La posizione dell’Italia era apparentemen­ 36 Testo in B. Mussolini, Opera omnia, cit., voi. XXIII, pp. 158-192 (cit.

    da p. 184). 37 Termini delle proposte italiane nella nota di Grandi ail’ambasciatore Gaetano Manzoni in DDI, VII, voi. Vili, n. 152 in data 12 novembre 1929. 38 Nota di Aristide Briand a Manzoni in DDI, VII, voi. Vili, n. 293 del 3 gennaio 1930.

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    te di totale remissività; di fatto, viceversa, essa si scaricava del­ l’onere di indicare un livello degli armamenti e la sua totale di­ sponibilità ad accettare il livello quantitativo proposto da altri non era esente da riserve mentali. L’Italia non aveva nessuna in­ tenzione di disarmare. Dal canto suo la Francia non era interes­ sata ad un accordo bilaterale con l’Italia, dati i vincoli che esso avrebbe posto alla sua libertà di iniziativa. Ma soprattutto la Francia mirava sempre a ottenere una copertura da più parti al­ le sue esigenze di difesa, al di là dei vincoli già esistenti quali quelli derivanti dall’adesione alla Società delle Nazioni e di im­ pegni programmatici di rinuncia all’uso delle armi quali quelli contemplati dal Patto Kellogg (1928), cui tutti gli stati parteci­ panti alla prevista conferenza londinese avevano aderito (non così alla Società delle Nazioni, alla quale erano sempre estranei gli Stati Uniti). L’inconciliabilità delle posizioni di Francia e Italia (ma an­ che l’isolamento della Francia rispetto al suo partner tradizio­ nale, la Gran Bretagna) trovò conferma nel corso dei lavori del­ la conferenza di Londra. Ciò non derivò soltanto dal fatto pa­ radossale che la Francia ebbe a chiedere un incremento dei propri armamenti navali mentre si discuteva della loro riduzio­ ne, ma dalla sua insistenza a spostare la questione dalla limita­ zione degli armamenti navali al problema più generale della si­ curezza, rimettendo in discussione, con la richiesta di più vin­ colanti integrazioni, sia il Patto di Locamo, sia gli impegni già derivanti dalla partecipazione alla Società delle Nazioni. Se si guardava all’esteriorità dei fatti e alle parole della propaganda poteva sembrare che l’Italia recitasse la parte della moderata e della pacifista di fronte ad una immotivata e difficilmente motivabile ostinazione della Francia, quasi ad una sua preconcetta ostilità nei confronti dell’Italia. E difficile dire se l’Italia, per bocca di Grandi, pose alla Francia il problema della parità solo per vedersela rifiutare. Sicuro è che l’Italia cercava un grosso successo di prestigio, co­ me è stato ripetutamente sottolineato (in particolare da Ennio Di N olfo)39: con il riconoscimento della parità, cercava però di ottenere non tanto la limitazione effettiva degli armamenti, quanto la legittimazione del suo rango di grande potenza e l’au­ torizzazione, implicita in quel riconoscimento, a comportarsi come tale. Quindi non di solo prestigio si trattava, ma di una ri­ chiesta di complicità o quasi, e con la copertura dell’avallo in­

    39 E. D i Nolfo, M ussolini e la politica estera italiana, cit.

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    ternazionale, a una libertà di iniziativa che significava libertà di espansione. A ben guardare, se la conferenza di Londra si arenò sulla questione dei rapporti italo-francesi e del mancato accor­ do tra i due paesi mediterranei, ciò non fu dovuto alla rilevan­ za in sé di quei rapporti bilaterali, ma al fatto che coinvolgeva­ no il complesso della situazione mediterranea ed europea. L’atteggiamento apparentemente conciliante e insieme fermo con il quale Granai, in veste di ministro degli Esteri, illustrò al­ la Camera fascista il 9 maggio 1930 il corso della conferenza di Londra che aveva portato al suo esito fallimentare - in quel­ l'occasione Grandi fu quasi persuasivo nel presentare come mo­ derato e ragionevole il comportamento dell’Italia - non andò disgiunto da spunti di fierezza e di orgoglio che cercavano di mascherare l’isolamento dell’Italia. Questo isolamento diveniva infatti, nel discorso di Grandi, splendida solitudine nella tutela del proprio prestigio (anche se, teneva a sottolineare il ministro, di «prestigio morde» si trattava), mentre come «vittoria mora­ le» si doveva interpretare il fatto che l’Italia non si fosse piega­ ta ad alcun compromesso («Meglio soli che diminuiti. Meglio soli che al rimorchio di altri. Meglio soli, individuati e indivi­ duabili, che confusi nel grigiore del compromesso»). Una pic­ cola lezione di etica fascista che celava a malapena come in fon­ do, attraverso il discorso della parità, l’Italia avesse cercato una prova di forza con la Francia. «Il problema per uno Stato - in­ calzò Grandi - non è quello di essere solo. Il problema per uno Stato è quello di essere forte» 40. E l’Italia non lo era. La posizione di Grandi come negoziatore italiano non era dissociabile d’altra parte dal sostegno che gli giungeva dall’inter­ no delle file del regime, il quale era la dimostrazione più palese che sulla questione della parità non si giocava soltanto un pro­ blema di rapporti bilaterali, ma una partita che metteva in gioco il prestigio e l’essenza stessa del regime fascista. Il 19 marzo 1930 il Gran Consiglio del fascismo esprimeva plauso e sostegno alla linea seguita da Grandi alla conferenza navale di Londra, in par­ ticolare per quanto riguardava la «difesa del diritto dell’Italia al­ la parità marittima con la potenza continentale più armata»41.

    40 Testo in Dino Grandi, L’Italia fascista nella politica intemazionale, prefazione di Arnaldo Mussolini, Roma, Libreria del Littorio, 1930. Il testo, riprodotto nella raccolta di D. Grandi, La politica estera dell’Italia, cit., voi. I, pp. 205-233, è un esempio tipico della “defascistizzazione” dei propri testi operata da Grandi per la loro ristampa in epoca più recente, secondo quanto segnalato a suo tempo da MacGregor Knox, I testi “aggiustati” dei discorsi seg­ reti di Grandi, «Passato e presente», 13 (gennaio-aprile 1987), pp. 97-117. 41 Testo in B. Mussolini, Opera omnia, cit., voi. XXIV, p. 202.

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    Se ne dovrebbe concludere che il regime stava seguendo una tattica a due binari: il volto moderato (a parole) di Grandi verso Festerno, il tono duro verso l’interno, che finiva peraltro per svalutare le parole concilianti di Grandi e generare sospet­ ti sulla loro sincerità. Quale dei due volti rispecchiava le inten­ zioni reali? A giudicare dai discorsi che Mussolini pronunciò nel mese di maggio e dall’annuncio dei programmi di riarmo navale diffusi in quelle settimane, non può non sorgere l’im­ pressione che il vero volto del regime fascista fosse quello riarmista, in coerenza del resto con le proclamazioni espansioniste, con i propositi coloniali, con le velleità di supremazia me­ diterranea. Lo stato forte era anche lo strumento di coesione interna per realizzare questi obiettivi. Certamente i responsabili della politica francese, prima Briand e poi Tardieu, non erano così ingenui da non com­ prendere quali fossero i veri fini della politica dell’Italia; di si­ curo però essi sottovalutavano il potenziale esplosivo che l’Italia era in grado di scatenare, come se bastasse opporre un ostinato rifiuto a rivendicazioni considerate inaccettabili o co­ munque non rispondenti agli interessi della Francia per disin­ nescare la provocazione che era stata messa in movimento e che d’ora in poi avrebbe continuato a incombere non solo sui rapporti bilaterali ma sul complesso della situazione europea. Alla conferenza di Londra, la questione del disarmo non fu né risolta né semplicemente rimandata. Londra finì per rappre­ sentare null’altro che una tappa interlocutoria con un primo parziale accordo a tre tra le cosiddette «potenze oceaniche», Inghilterra, Stati Uniti e Giappone. Una nuova tappa dei negoziati si sarebbe aperta, rifluen­ do sostanzialmente nella conferenza di Ginevra del febbraio del 1932, in un contesto internazionale in cui si annunciavano profondi cambiamenti; ma molte parti del copione erano già state scritte. La conferenza del disarmo si aprì a Ginevra il 2 febbraio 1932. Per la parte italiana essa fu la continuazione del lavoro impostato dal ministro Grandi nelle discussioni alla Società delle Nazioni. Per questo non sarebbe fuori luogo citare, come momento ispiratore della linea che sarebbe stata sostenuta dall’Italia, quella relazione di Grandi per il Gran Consiglio del fascismo del 2 ottobre del 1931 sulla politica estera dell’Italia - politica definita, con la punta di fierezza fascista tipica di Grandi, «costruttiva, realistica e accusatrice» - il cui obiettivo fondamentale sembrava quello di rimarcare un dissenso dalla Francia che non era limitato unicamente ai temi del disarmo. Un testo che andrebbe citato non tanto perché contiene il co­ 74

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    sì spesso rammentato principio della politica del «peso deter­ minante», una politica tipicamente attendista e di rimessa, quanto perché affermava ad uso del Gran Consiglio un ben al­ tro principio, destinato a disconoscere l’autorità della Società delle Nazioni42*.Prendendo spunto dal recente conflitto cinogiapponese, Grandi enunciava in termini assai chiari la linea di comportamento dell’Italia nell'ambito della Società delle Nazioni: «Dimostrazioni verbali di simpatie alla Cina, ma con­ tributo effettivo ad aiutare l’azione del Giappone, tendente a liberarsi dalla procedura che il Consiglio della Società delle Nazioni intenderebbe di imporre ad esso per regolare il con­ flitto». Partendo dal precedente d i'Corfu e prevedendo «che momenti non dissimili potessero presentarsi alla politica italia­ na in avvenire», con evidente allusione all’espansione africana, Grandi sottolineava l’importanza di «evitare pericolosi prece­ denti di intervento della Società delle Nazioni [...]. Non per il Giappone, beninteso, ma per noi». Uno spunto interessante per capire quale affidabilità potessero dare le profferte disarmistiche def ministro fascista. Queste d’altronde, così come erano state formulate alla conferenza di Londra sul disarmo navale, non potevano essere dissociate dal complesso dei problemi allora sul tappeto, che per quanto riguardava la Francia si concentravano essenzial­ mente sulla problematica dell’Europa centro-danubiana, su cui era stato formulato da poco il piano Tardieu avversato dal­ la Germania e fortemente sgradito all’Italia. Che la Francia po­ nesse in primo piano la questione della sicurezza e successiva­ mente quella del disarmo, con una inversione dell’ordine dei problemi rispetto a quello proposto dall’Italia, non era una il­ lazione di Grandi ma la fotografia della situazione. Portando avanti il suo piano di sistemazione danubiana, la Francia in­ tendeva disinnescare tra l’altro lo schieramento revisionista di cui si faceva portavoce l’Italia, che si trovava quindi stretta tra la manovra a largo raggio della Francia e la richiesta di parità ufficialmente avanzata dalla Germania, la quale pur dopo le ostilità incontrate dal progetto di unione doganale con l’Austria non rinunciava certo a insistere per affermare una sua presenza nell’area danubiana e avversava per questo il proget­ to di accordo doganale triangolare italo-austro-ungherese.

    42 Testo integrale in DDI, V II, voi. XI, n. 37, non riprodotto in D. Grandi, La politica estera dell’Italia, cit.

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    Tuttavia, il proposito più volte fatto conoscere da Tardieu di voler associare l’Italia a un piano comune per i paesi danu­ biani era troppo scopertamente strumentale perché Mussolini e Grandi potessero privarsi dell’unica arma di pressione con la quale si proponevano di tenere testa contemporaneamente al­ la Francia e alla Germania. Il piano Tardieu mirava infatti a in­ tegrare in un’area di accordi economico-finanziari e doganali l’Austria e l’Ungheria, potenziali protette dell’Italia, nel siste­ ma della Piccola Intesa sotto influenza della diplomazia fran­ cese. Riemergeva quindi in primo piano il problema politico dell’influenza prevalente sull’area e non vi era dubbio che la Francia lottava per estendere la sua egemonia. La scelta ope­ rata dalla Francia di una iniziativa per una soluzione collettiva e globale dei problemi dei paesi danubiani in contrasto con le soluzioni bilaterali praticate e preferite dall’Italia non era ridu­ cibile a un problema di metodo, implicava viceversa la supre­ mazia dell’una o dell’altra potenza. Di questo Francia e Italia erano pienamente consapevoli. La partita che si giocava ri­ guardava il ruolo egemone dell’una o dell’altra. Il 7 marzo 1932 il governo italiano ufficializzò le sue obie­ zioni al piano francese con un memorandum per Tardieu, nel quale, eludendo la richiesta francese di una sistemazione col­ lettiva, rivendicava la priorità dell’interessamento italiano per il settore, richiamava la necessità di stabilizzare la situazione economica di Austria e Ungheria e, come contributo al risana­ mento delle economie dissestate, offriva l’intensificazione dei vincoli economici tra Italia, Austria e Ungheria45. L’Italia cioè non respingeva a priori le proposte francesi del 2 marzo, face­ va intendere la sua ostilità a un accordo più o meno definitivo tra i cinque stati danubiani e indicava nell’intervento diretto delle grandi potenze (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia) nella trattativa con gli stati danubiani il metodo per per­ venire a una soluzione rispettosa degli interessi generali. L’Italia in definitiva non voleva correre il pericolo, che leggeva nella proposta francese, di trovarsi di fronte ad una soluzione precostituita, e senza la sua partecipazione, che le sarebbe sta­ ta presumibilmente svantaggiosa. Come si intuisce, la questio­ ne non era meramente procedurale.

    45 Testo del memorandum italiano in D DI, VII, voi. XI, n . 273 in da­ ta 7 marzo 1932. Si veda inoltre il discorso di Grandi alla conferenza di Londra del 6 aprile 1932 in D . Grandi, La politica estera d ell’Italia, cit., voi. I, cap. vi.

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    Come avrebbe ribadito Grandi all’ambasciatore tedesco Karl von Schubert il 15 marzo, la preoccupazione vera dell’Italia continuava ad essere «mantenere l’equilibrio danubia­ no», ossia impedire che l’Austria e l’Ungheria «cadano nell’orbi­ ta assoluta sia della Germania come della Francia» 44, il che pe­ raltro comportava un confronto serio (se non addirittura uno scontro) con la Francia da una parte e dall’altra con la Ger­ mania, tutt’altro che convinta quest’ultima, come avrebbe volu­ to invece far credere Grandi, che l’unione doganale italo-austroungherese sarebbe stata vantaggiosa anche per sé, in quanto avrebbe sottratto Austria e Ungheria al controllo francese. Le riunioni londinesi sulla sistemazione danubiana si in­ trecciarono con quelle ginevrine sul disarmo. Le prime si chiu­ sero all’inizio di aprile con un nulla di fatto che poteva anche soddisfare l’Italia nella misura in cui evitava di sancirne l’isola­ mento; una serie di contatti a latere tra rappresentanti italiani e collaboratori di Tardieu mantennero il filo di un esile dialo­ go con la Francia ma su nessuno dei problemi che separavano i due paesi - né sul problema coloniale, né su quello della si­ stemazione centro-europea, né sugli armamenti - si verificò al­ cun avvicinamento. Alla ripresa della conferenza sul disarmo, all’inizio di aprile, l’azione dell’Italia si svolse nel segno della denuncia or­ mai aperta della Società delle Nazioni, accusata di non voler tenere conto delle rivendicazioni italiane, secondo il duro or­ dine del giorno formulato dal Gran Consiglio del fascismo l’8 aprile proprio alla vigilia della ripresa dei lavori ginevrini45. Parlando al Senato il 3 giugno del 1932 Grandi sottolineò am­ piamente il punto di vista dell’Italia sullo stadio dei negoziati sul disarmo, in appoggio alle proposte di riduzione qualitativa degli armamenti che egli stesso aveva presentato alla conferen­ za sin dal 19 febbraio e che era tornato a confermare il 13 apri­ le. Tali proposte prevedevano fra l’altro, oltre all’abolizione delle artiglierie pesanti, per quanto riguarda il campo navale l’abolizione delle navi di linea e dei mezzi sottomarini e in campo aereo l’abolizione dell’aviazione da bombardamento, nonché la rinuncia ai mezzi aggressivi di guerra chimica e bat­ teriologica 46. Più che ad una riduzione degli armamenti,

    44 Cfr. DDI, M I, v oi. XI, n. 297 appunto d i Grandi d e l 15 marzo 1932. 45 Testo in B. Mussolini, Opera omnia, cit., voi. XXV, pp. 92-94. 46 Testo del discorso al Senato del 3 giugno 1932 in D . Grandi, La po­ litica estera dell’Italia, cit., voi. n, pp. 740-764.

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    Grandi puntava ad una loro parziale eliminazione: da una par­ te, l’apparente radicalità delle sue proposte le rendeva inaccet­ tabili agli occhi di potenze (come Francia, Inghilterra e Stati Uniti) che sarebbero state costrette a privarsi di mezzi dei qua­ li erano già in possesso (mentre all’Italia sarebbe derivato il vantaggio di non doverseli procurare); dall’altra, nelle stesse fi­ le fasciste l’ipotesi di privarsi dell’aviazione da bombardamen­ to era fortemente avversata dal ministro Italo Balbo, come sa­ rebbe emerso chiaramente qualche mese dopo. Il contrasto con Balbo può fare pensare anche che in realtà non si trattas­ se di una proposta seria ma solo di un ballon d’essai-, ma, se co­ sì fosse, la radicalità della proposta italiana, che fu fortemente sottolineata dalla propaganda, andrebbe sicuramente ridimen­ sionata. L’interpretazione che Grandi diede allora e anche in seguito della sua azione e della momentanea convergenza che si era verificata con altri partecipanti alla conferenza, come la Gran Bretagna, non giustificava l’attribuzione all’Italia del ruolo di “potenza-guida”, né tanto meno la presunzione di un trionfo del principio revisionista. N e risultava viceversa conva­ lidata l’ipotesi, in seguito ripresa dalla storiografia, che per l’Italia in realtà la questione del disarmo non aveva un signifi­ cato autonomo né era la questione principale, ma aveva sol­ tanto un significato strumentale. Come tale, infatti, fu general­ mente percepita soprattutto dopo il discorso di Grandi alla Camera del 4 maggio e quello successivo al Senato del 3 giu­ gno, gli ultimi suoi pronunciamenti di rilievo, del resto, in ve­ ste di ministro degli Esteri, nei quali il nesso tra i problemi del­ la sicurezza e la questione del disarmo veniva sottolineato con forza per affermare il diritto dell’Italia all’espansione coloniale africana. Queste ultime rivendicazioni caddero nel momento in cui le nuove elezioni in Francia, con la vittoria del “cartello delle sinistre”, segnarono il passaggio dalla gestione di Tardieu, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, alla presidenza di Edouard Herriot, esponente della sinistra radi­ cale e antifascista, non avverso pregiudizialmente all’Italia ma sicuramente poco propenso a fare concessioni che non aves­ sero come seria contropartita un pronunciamento chiaro da parte italiana soprattutto nelle questioni relative al disarmo. Lo sguardo di Herriot era rivolto in particolare alla Germania, in cui la rielezione presidenziale di Paul von Hindenburg avvenuta il 10 aprile 1932 aveva scongiurato il successo della candidatura di Hitler, del quale era noto il pro­ gramma non tanto revisionista quanto semplicemente diretto a sconvolgere sia la sistemazione di Versailles, sia i tentativi 78

    PROPAGANDA E POLITICA: REVISIONISMO E REVISIONE

    della Società delle Nazioni di farsi garante dell’ordinamento scaturito dai trattati di pace. Tra le preoccupazioni di Herriot vi era anche quella di ricompattare il fronte con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che era stato temporaneamente rot­ to allorché questi ultimi procedettero isolatamente a concor­ dare con la Germania (con l’accordo di Bessinge della fine di aprile) il parziale riconoscimento della sua parità giuridica, spianando la via al suo riconoscimento definitivo47. Ma anche l’Italia era rimasta esclusa da quel primo accordo e il riavvici­ namento della Francia a inglesi e statunitensi rischiava di ac­ centuare l’isolamento dell’Italia dai vecchi partner dell’Intesa. Un incontro diretto tra Grandi e Herriot, che ebbe luogo a Ginevra il 14 giugno, non portò alcun risultato concreto: Grandi buttò addosso al presidente francese senza troppi complimenti i suoi propositi revisionisti ed Herriot trasse nuovi motivi di diffidenza nei confronti dell’Italia 48. Neppure il secondo incontro del 27 giugno avrebbe sor­ tito alcun risultato positivo, anzi, secondo le memorie del pre­ sidente del Consiglio francese si era trattato di un vero showdown 49. Ma in quello stesso 27 giugno si verificò un fatto di estrema importanza: la Francia acconsentì alla cancellazione di fatto delle riparazioni dovute dalla Germania. Una possibilità già predisposta dalla moratoria Hoover, che era stata fatta pro­ pria anche da Grandi per conto del governo italiano. Ma in quel contesto il gesto di Herriot era compensato dalla propo­ sta di James Ramsay Mac Donald di un patto di consultazione a cinque tra Belgio, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna che avrebbe dovuto offrire alla Francia una forma di garanzia nei confronti della politica tedesca di revisione di Versailles, con l’aggiunta di un accordo bilaterale anglo-francese a ulte­ riore garanzia contro le prevedibili mosse della politica tede­ sca, della quale si dava ormai per scontato quell’orientamento che in futuro le avrebbero chiaramente impresso i nazionalso­ cialisti.

    47 Cfr. C. La Mantia, II disarmo nella politica estera italiana, cit., pp.

    78-88. ■*8 Cfr. DDI, VII, voi. XII, n. 96 appunto di Grandi sul colloquio con Edouard Herriot; C. La Mantia, Il disarmo nella politica estera italiana, cit., pp. 88-94. 49 Cfr. DDI, VII, voi. XII, n. 126 appunto di Grandi; Edouard Herriot, Jadis, Paris, Flammarion, 1952, voi. II, p. 343; C. La Mantia, Il disarmo nella politica estera italiana, cit., pp. 107-109.

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    CAPITOLO II

    Il 20 luglio, alla vigilia della votazione a Ginevra della ri­ soluzione provvisoria sul disarmo predisposta dal ministro de­ gli Esteri cecoslovacco Edvard Benes, furono annunciate le di­ missioni di Grandi dal ministero degli Esteri e la riassunzione della carica da parte di Mussolini. Il giorno successivo, la de­ legazione italiana a Ginevra, provvisoriamente capitanata dal ministro dell’Aria Balbo, si astenne, a differenza della Germa­ nia che votò contro. L’Italia, che aveva concesso la sua colla­ borazione alla soluzione dei grandi problemi aperti solo con­ dizionatamente, nella speranza di ottenere vantaggi immediati, con il suo isolamento dagli anglo-franco-statunitensi doveva ri­ conoscere il fallimento della fase “societaria” della politica di Grandi e di fatto dell’intera strategia politica del fascismo. Crediamo infatti anche noi che le critiche rivolte da Mussolini - secondo quanto riferito nelle memorie di Cantalupo - alla politica di Grandi non andassero mosse personalmente al mi­ nistro degli Esteri, ma all’indirizzo generale che pure era stato approvato dallo stesso Mussolini e del quale Grandi non era stato che il realizzatore: Grandi aveva sbagliato tutto, in tre anni, tutto: si era lasciato imprigionare dalla Lega delle Nazioni, aveva praticato una politica pacifista e societaria, aveva fatto l’ultra-democratico e il supergine­ vrino, aveva portato l’Italia fuori del binario rigido di una politica egoista e realistica, aveva compromesso alcune ambizioni della nuo­ va generazione, era «andato a letto con l’Inghilterra e con la Francia, e siccome i maschi erano quelli, l’Italia era rimasta gravida di disar­ mo», e la nostra politica estera era ora priva di libertà d’azione. Eravamo abbandonati su un binario morto dal quale era necessario che lui, Mussolini, ci tirasse fuori. Avrebbe avuto bisogno di qualche anno per rimediare alla «deleteria e democratica attività» di Grandi, ma ci sarebbe riuscito50.

    50 Roberto Cantalupo, Fu la Spagna. Ambasciata presso Franco, Milano, Mondadori, 1948, pp. 42-43. Una valutazione analoga a quella da noi espres­ sa nel testo è stata data da Fulvio D ’Amoja, Declino e prima crisi dell’Europa di Versailles. Studio sulla diplomazia italiana ed europea 1931-1933, Milano, Giuffrè, 1967, pp. 90-91.

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    d i Nicola Labanca

    LO STATO DEGLI STUDI

    All’interno degli studi storici sul colonialismo italiano, lo stu­ dio dell’espansione oltremare del regime fascista appare se­ gnato da vistosi limiti. In ogni opera generale sul fascismo, non si manca di fa­ re riferimento all’espansionismo fascista e in particolare al­ l’imperialismo coloniale. Ma il ricorso alla categoria di “impe­ rialismo” è spesso impreciso, pronto a scolorirsi in un generi­ co “dinamismo” sul terreno della politica estera. Inoltre alla frequenza di riferimenti non ha fatto riscontro un’adeguata messe di studi: una rassegna storiografica di un ventennio fa li definiva anzi «rarissimi» L Da allora non sono mancati contri­ buti di rilievo o importanti ricerche, ma l’insoddisfazione cir­ ca la pochezza quantitativa degli studi storico-coloniali non può oggi che essere ribadita, tanto in valori assoluti quanto soprattutto in rapporto al progresso nel frattempo intervenu-*I,

    1 Cfr. Giorgio Rochat, Colonialismo, in Nicola Tranfaglia (diretto da), Il mondo contemporaneo, 10 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1978-1981, voi. I, Storia d'Italia, a cura di Fabio Levi, Umberto Levra, N. Tranfaglia, t. 1.

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    CAPITOLO III

    to negli studi generali sul ventennio fascista. Eppure per il fa­ scismo, per il movimento come per il regime, fa dimensione dell’oltremare, dell’impero, delle colonie ebbe un rilievo cen­ trale a molteplici livelli: di politica estera, di preparazione mi­ litare, di organizzazione del consenso in patria e di gestione del potere in terra africana. A considerare poi più da vicino gli studi disponibili, non si può non rilevare che fa loro stessa distribuzione è lungi dal­ l’essere soddisfacente e poco aiuta a comprendere la costanza e la centralità della politica coloniale lungo tutto il ventennio. Essi si sono infatti prevalentemente interessati al periodo del­ l’impero, e più in particolare alla rottura militare della cam­ pagna d’Etiopia, che non a caso oggi ci è sufficientemente no­ ta nei suoi risvolti diplomatici, politici, militari e di organizza­ zione del consenso. Tale prevalenza d’interesse, comprensibi­ le forse per uno studioso straniero (in effetti la rottura del­ l’ordine internazionale costituita dalla guerra del 1935-1936 rimane l’atto più netto della politica coloniale del regime) è meno giustificabile per quelli italiani. La comprensione della costruzione dell’impero ha risentito della scarsezza degli stu­ di sul periodo sino al 1935, quasi che tematiche e problemati­ che emerse con il 1935-1936 non avessero avuto un’incuba­ zione o anche una vita precedente. Tutto ciò, infine, ha facili­ tato un’interpretazione del 1935-1936 come capolavoro mussoliniano, e ha portato a diluire la peculiarità dell’esperienza coloniale fascista - pur articolata in fasi e momenti - tanto prima quanto dopo la campagna d’Etiopia2. All’interno del complesso degli studi sul colonialismo italiano, poi, i non molti disponibili sul periodo fascista han­ no risentito più marcatamente degli altri della chiusura nazio­ nale tipica in Italia per questi studi3. Ma se è già difficile com­ prendere la prima guerra d’Africa o l’impresa di Libia isolatamente dal più generale europeo scramble fo r Africa, è quasi impossibile cogliere la peculiarità, la novità, anche la dram­ maticità del colonialismo fascista se astratto dal quadro del­ l’esperienza imperiale mondiale fra le due guerre. Volendo, gli altri rilievi critici in genere rivolti agli studi storico-coloniali italiani - il loro limitarsi ad un’impostazione angustamente storico-diplomatica e il non sapere tenere nel giusto conto l’a­ spetto culturale-ideologico - appaiono non tanto secondari,

    2 Cfr. R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I. 3 Cfr. Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993.

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    quanto consequenziali a questa chiusura nazionale che non riesce né ha interesse a guadagnare - quando addirittura non l’ostacola - la comprensione (e non a partire dal 1935-1936, ma già dal 1922) delle peculiarità del colonialismo fascista ri­ spetto a quello delle potenze liberali britannica e francese, o anche di regimi come il portoghese o lo spagnolo, autoritari, dittatoriali o parafascisti. L’origine di un tale stato di studi ha varie spiegazioni. A livello generale ha avuto un peso notevole quello che è stato definito il «mancato dibattito italiano sul colonialismo»4. L’Italia repubblicana, avendo già perso il regime fascista tutte le colonie sul campo di battaglia, non ha sentito la necessità di aprire un approfondito dibattito sul passato imperiale nazio­ nale, subendo così il deliberato disegno politico degli am­ bienti ex colonialisti di non aprire una discussione che certo li avrebbe chiamati in causa5. Mentre in quegli stessi anni le p o­ lemiche sulla decolonizzazione travagliavano potenze con im ­ peri plurisecolari come Francia e Gran Bretagna, è sorpren­ dente constatare come l’Italia del centrismo e del centrosini­ stra, pur tentata da politiche di tipo nuovo con gli stati di nuova indipendenza proprio grazie al fatto di essere priva de­ gli impacci di propri domìni oltremare (tranne la breve fase dell’amministrazione fiduciaria sulla povera Somalia), non ab­ bia avvertito la possibilità e perfino le opportunità di un di­ battito generale sul proprio passato africano, che peraltro avrebbe più marcatamente segnato una soluzione eli conti­ nuità rispetto all’operato del regime: operato che nelle sue grandi linee come nelle sue colpe più evidenti non era ignoto alla classe dirigente e di opposizione nel paese. Dal punto di vista più specificamente storiografico, ciò ha comportato l’avvio tardivo della “decolonizzazione” degli studi coloniali. Ha così finito per prevalere la continuità degli “storici coloniali”, al tempo del regime fascista e in quello del­ la Repubblica, soprattutto nei suoi primi decenni. Mentre tutto sommato comprensibilmente - per gli storici coloniali del regime l’oggetto d’indagine da privilegiare non poteva es­ sere che la prima guerra d’Africa e già assai parzialmente

    •* Cfr. Angelo D el Boca, L e conseguenze per l'Italia del mancato dibat­ tito sul colonialismo, «Studi piacentini», 1989, n. 5. 5 Cfr. Carlo Sforza, L’Italia dal 1914 a l 1944 quale io la vidi, Roma, Mondadori, 1945 [ l a ed. 1944]; Mario Donosti (pseudonimo di Mario Luciolli), M ussolini e l’Europa. La politica estera fascista, Roma, Leonardo, 1945; E. D i N olfo, M ussolini e la politica estera italiana, cit.

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    CAPITOLO III

    l’impresa libica, nei primi decenni della Repubblica la storia del colonialismo fascista è stata singolarmente dimenticata, a favore di un impegno ancora una volta prevalentemente indi­ rizzato verso un meno compromettente studio della più lon­ tana Italia crispina 67. Tale atteggiamento è stato rafforzato nelle sue dannose conseguenze da talune scelte di politica archivistica. Nel 1953 veniva affidato ad un gruppo di ex funzionari e di studiosi, ri­ gidamente scelti negli stessi ambienti filocolonialisti, la gestio­ ne del complesso allora più rilevante di documentazione ar­ chivistica sul colonialismo italiano (cioè i fondi del ministero dell’Africa italiana e dell’Archivio della Colonia Eritrea). Come è noto, lo scopo formale era quello di editare una serie di volumi sull’Opera dell’Italia in Africa1. Purtroppo tra i vo­ lumi più rigorosamente documentari non ve n’è stato neppu­ re uno che si occupasse del ventennio fascista mentre fra gli al­ tri editi (rispetto a quello pianificato, ne fu pubblicato un nu­ mero inferiore: il piano si era rivelato ambizioso a fronte della pochezza scientifica di molte delle risorse umane mobilitate) il tono apologetico è stato nel complesso prevalente, con punte - diffuse - di deliberata rimozione degli aspetti più scabrosi del colonialismo in generale e di quello fascista in particolare. Ma, ancora più grave, la gestione “privatistica” degli archivi coloniali - a lungo avallata o almeno non sufficientemente de­ nunziata dai responsabili degli altri grandi archivi nazionali, a partire dallo stesso Archivio degli Esteri che ospitava i fondi delle ex colonie - nel breve periodo ha interferito con la libe­ ra ricerca e sul lungo periodo ha manomesso a tal punto l’or­ dinamento originale e in genere lo stato delle carte da lasciare poche speranze, a meno di un consistentissimo investimento culturale e archivistico, che oggi non pare imminente 8. I po­ chi studiosi che si sono occupati di storia coloniale fascista si sono quindi spesso rivolti ad altri archivi, o possono sperare di valorizzare in futuro le altre carte coloniali che una lungimi­ rante politica archivistica ha solo recentemente cominciato a far affluire verso l’Archivio centrale dello Stato 9.

    6 Cfr. N. Labanca, In marcia verso Adua, cit. 7 Cfr. gli interventi di Romain Rainero e Giorgio Rochat a proposito degli Studi storico-coloniali in G li studi africanistici in Italia dagli anni '60 ad oggi. A tt i del convegno, Roma, 26-27 giugno 1985, Roma, Armellini, 1986. 8 Cfr. Vincenzo Pellegrini, Anna Bettinelli, Per la storia dell'am m ini­ strazione coloniale italiana, Milano, Giuffrè-Isap, 1994. 9 Cfr. Patrizia Ferrara, Recenti acquisizioni dell’Archivio centrale dello Stato in materia di fo n ti per la storia dell’Africa italiana: Ufficio studi e propa­

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    Una severa e critica valutazione dello stato degli studi, quali che ne siano state le cause, non oscura il dato di una let­ teratura comunque accumulata101. E, seppur con le caratteristi­ che e le lacune segnalate, è evidente che alcuni momenti e aspetti del colonialismo fascista sono ormai ben chiariti. In pri­ mo luogo, dobbiamo ad Angelo Del Boca una ricostruzione complessiva delle vicende di questo periodo che ha segnato un progresso notevolissimo rispetto tanto al testo generale di Raffaele Ciasca (del 1938) quanto a quello, ancora più rapido, di Jean-Louis Miege (1968) n . Nella seconda metà degli anni sessanta, quando ai primi seri studi sulla politica estera fascista aveva cominciato acf affiancarsi una riflessione più generale sull’imperialismo nella storia contemporanea12, erano apparsi al­ cuni interessanti avvìi di ricerca13: che però sullo specifico ver­ sante della storia della politica coloniale non sono stati sempre approfonditi o proseguiti. Più organici, e più sviluppati, sono quindi risultati gli studi - editi in quegli stessi anni o poco più tardi - di Giorgio Rochat sulla “riconquista” militare della Cirenaica ad opera di Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio, sul rapporto fra militari e politici nella preparazione della guerra d’Etiopia e più in generale sull’importanza della componente coloniale nella storia del fascismo colta a partire dalle biografie di personaggi centrali del regime come Badoglio o Balbo14. Una parte dei risultati di queste ricerche è stata poi riesamina­ ta, e discussa, da Renzo D e Felice nell'ambito della biografia su

    ganda M AI, in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. A tti del conve­ gno, Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma, Ministero per i beni cultu­ rali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1996. 10 Cfr. Luigi Goglia, Politica coloniale, in Renzo D e Felice (diretta da), Bibliografia orientativa del fascismo, Roma, Bonacci, 1991. 11 Cfr. Raffaele Ciasca, Storia coloniale dell'Italia contemporanea. Da Assab all’impero, Milano, Hoepli, 1938; Giorgio Rochat, Il colonialismo italia­ no. Documenti, Torino, Loescner, 1973; Jean-Louis Miege, L'imperialismo co­ loniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1976; Angelo Del Boca, G li italiani in Africa Orientale, Roma-Bari, Laterza, 1976-1984, e Id., Gli italiani in Libia, Roma-Bari, Laterza, 1986-1988. 12 Cfr. Enzo Santarelli, Guerra d ’Etiopia, imperialismo e terzo mondo, «Il Movimento di liberazione in Italia», 97 (ottobre-dicembre 1969), pp. 35-51. 13 Cfr. G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit. 19 Cfr. Giorgio Rochat, La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1930-31 nei documenti dell’archivio Graziani, «Il Movimento di liberazione in Italia», 110 (gennaio-marzo 1973), pp. 3-39; Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, Torino, Utet, 1974; Giorgio Rochat, M ilitari e politici nella preparazione della campagna d ’Etiopia. Studio e documenti 19321936, Milano, Franco Angeli, 1971; Id., Italo Balbo, Torino, Utet, 1986.

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    CAPITOLO III

    Mussolini, ma solo relativamente al tema dello scatenamento della guerra d’Etiopia (attorno al quale avevano già lavorato molti studiosi, anche stranieri) o più tardi alla “politica araba” del regim e15. Altri contributi da ricordare sono le introduzioni ai volumi fotografici, oltre che alcuni saggi bibliografici o d’im­ postazione generale, di Luigi Goglia; le ricerche di Claudio Segrè sulla politica agraria in Libia e su Balbo; gli scavi docu­ mentari di Alberto Sbacchi sull’Impero d’Etiopia. Qualche progresso è stato poi fatto nell’indagine dell’organizzazione del consenso in patria e, più di recente, della costruzione di un si­ stema razziale in colonia16. Gli studi successivi hanno messo in luce il carattere se­ condario e debole, ma non per questo meno pericoloso, delrimperialismo fascista17, anche nella prospettiva del rappor­ to eli continuità e rottura con quello dell’Italia liberale18, il ruolo preminente in esso giocato dall’iniziativa politica (del regime e di Mussolini in particolare), il rilievo invece secon­ dario della spinta economica, la sua particolare capacità di aggregazione sociale (soprattutto in (determinate congiuntu­ re), ma anche la triste peculiarità di aver instaurato un regi­ me di separazione razziale. Grazie a tali recenti approfondi­ menti si è finalmente iniziato a superare le arretratezze degli studi degli “storici coloniali” del regime e dei primi decenni della Repubblica e ad inserire le vicende coloniali in quelle più generali della politica estera del fascism o19.

    15 Cfr. R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I; Id., Il fascismo e l'Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica d i M ussolini, Bologna, D Mulino, 1988. 16 Cfr. Luigi Goglia, Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, Messina, Sicania, 1989; Id., Storia militare coloniale, in Piero D el Negro (a cura di), Guida alla storia militare italiana, Napoli, Edizioni scientifiche ita­ liane, 1997; Claudio Segrè, G li italiani in Libia. Dall'età giolittiana & Gheddafi, Milano, Feltrinelli, 1978; Alberto Sbacchi, Il colonialismo italiano in Etiopia 1936-1940, Milano, Mursia, 1980; Mario Isnenghi, Intellettuali mi­ litanti e intellettuali funzionari. A p p u n ti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979; Adolfo Mignemi (a cura di), Im magine coordinata per un im­ pero: Etiopia 1935-36, Torino, Forma, 1984; Nicola Labanca (a cura di), IdAfrica in vetrina. Storie di m usei e di esposizioni coloniali in Italia, Treviso, Pagus, 1992. 17 Cfr. Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Ruggiero Romano, Corrado Vivami (coordinata da), Storia d ’Italia, 6 voli., Torino, Einaudi, 1972-1976, voi. IV, D all’Unità a oggi, t. 3. 18 Cfr. Nicola Labanca, Italiani d ’Africa, in Angelo D el Boca (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Roma-Bari, Laterza, 1997. 19 Cfr. Elena Aga Rossi, La politica estera e l ’impero, in Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d ’Italia, 6 voli., Roma-Bari,

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    Ma troppi e troppo importanti aspetti di quel fenomeno attendono ancora una adeguata chiarificazione. Manca ancora una sintesi problematica che metta in risalto - da una prospet­ tiva comparata, in un’ottica non nazionalista e storiografica­ mente aggiornata - la centralità del mito dell’impero nel regi­ me fascista, e non solo dopo il 193 5 20.

    UNA PROSPETTIVA INTERNAZIONALE

    In tale prospettiva, è utile ripartire da alcuni dati di fondo geo­ grafici, demografici e politici. Quando il fascismo salì al potere, solo quattro anni dopo la fine della prima guerra mondiale, l’Italia governava in Africa i domìni coloniali dell’Eritrea, della Somalia, della Tripolitania e della Cirenaica. L’Eritrea, con i centri principali di Massaua e Asmara, era la “colonia primogenita”. L’«Annuario colonia­ le italiano» dell’ufficiale Istituto coloniale italiano di Roma af­ fermava che si estendeva su circa 120.000 km 2 e contava una popolazione autoctona di forse 300.000 unità (anche se ne ve­ niva denunciato un terzo in più: ma l’inaffidabilità delle cifre ufficiali è un dato generale che qui si può solo ricordare). Le entrate coloniali si riducevano, a quasi quarant’anni dalla con­ quista, a meno di 7 milioni di lire correnti, di cui la metà do­ vute a proventi doganali (principalmente il porto di Massaua). La colonia esportava, in ordine ai valore, caffè, pelli secche, se­ mi di lino, madreperle, noci di palma dum: poco insomma che potesse far pensare ad una produzione moderna; anche fra le importazioni per contro si iscrivevano tessuti e caffè, con l’ag­ giunta di qualche utensile in ferro per l’agricoltura. Dall’Italia andavano in Eritrea specialmente tessuti, vini, farine e paste.

    Laterza, 1995-, voi. IV, Guerre e fascismo 1914-1943. Ma cfr. ancora Giampiero Carocci, A p punti sull’imperialismo fascista negli anni '20, «Studi storici», vili, 1967, n. 1; Enzo CoUotti, fascism o: la politica estera, in N. Tranfaglia (diretto da), I l mondo contemporaneo, cit., voi. I, t. 1; Enzo Santarelli, Lespansionismo imperialistico del 1920-1940, in Giovanni Cherubini (diretta da), Storia della società italiana, 25 voli., Milano, Ted, 1980-1990, voi. XXII, La dittatura fascista-, Marco Palla, Imperialismo e politi­ ca estera fascista, in Guido Quazza e al., Storiografia e fascismo. Con appen­ dice bibliografica, Milano, Franco Angeli, 1985; M. Knox, I l fascismo e la po­ litica estera italiana, cit. Più in generale cfr. ancora l’antologia di documenti di Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da A dua all’impero, Roma-Bari, Laterza, 1981. 20 Cfr. Mario Isnenghi, Il sogno africano, in Angelo D el Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1991.

    87-.

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    L’intero movimento generale (fatto com’è ovvio di operazioni di sconti, anticipazioni, movimenti di conti correnti e emissioni di titoli) del principale istituto di credito locale non toccava nem­ meno, nel 1924, il miliardo di lire. Il territorio e le popolazioni della Somalia erano assai più consistenti, ma in buona parte im­ precisabili per la mancata determinazione dei confini verso l’Etiopia e soprattutto per l’assai ridotto controllo italiano, che in realtà riguardava solo i principali centri della costa e le ri­ strette zone irrigue dell’interno. Le cifre fornite dagli annuari nei primi anni venti (600.000 km2 e un milione di abitanti) erano quindi solo una prima indicazione ed un auspicio dei circoli co­ loniali. Malgrado la vastità del territorio, le entrate della colonia erano nel 1924 pari a 18 milioni, di cui ben 15 di diritti dogana­ li (esatti soprattutto a Mogadiscio). Le esportazioni annoverava­ no pelli secche, olio di cotone, cotone e kapok (gli ultimi due erano prodotti tipici delle concessioni coloniali italiane); le im­ portazioni erano quelle più tradizionali fatte di cotonate e pro­ dotti alimentari, non potendo giovarsi la Somalia nemmeno di una qualche consistente colonia di italiani o europei con i loro consumi. Anche per questo il giro di affari dell’unico istituto di credito locale era circa un quarto di quello eritreo. Geograficamente, economicamente ed anche strategica­ mente più rilevanti erano i due territori mediterranei della Tripolitania e della Cirenaica, più tardi unificati nella colonia della Libia. Anche qui, per la vastità dei territori desertici e per l’assai ridotto controllo coloniale che gli italiani potevano esi­ birne al momento dell’avvento del fascismo alcune cifre dell’«Annuario» vanno considerate come calcoli approssimati­ vi. Era comunque significativo che l’estensione della Tripolitania e della Cirenaica assieme venisse calcolata in 1.640.000 km2, con 850.000 abitanti (per quanto lo scarso do­ minio e le conseguenti ancor più limitate conoscenze etnologi­ che trapelassero da un’assai incerta suddivisione della cifra to­ tale in popolazioni nomadi, seminomadi ecc.). La diversifica­ zione dei due territori era però evidente anche dalle cifre rela­ tive alle entrate delle due colonie, nel 1924 rispettivamente di 54 e 15 milioni, mentre l’entità dei diritti doganali non supera­ va i 9 e 3 milioni, a conferma di uno stato ancora assai arretra­ to dell’“avvaloramento” coloniale. La presenza di una crescen­ te colonia di italiani, assieme alle spese per il mantenimento di un cospicuo nerbo di truppe necessarie per la lotta alla resi­ stenza e per l’ordine pubblico, spiegava invece il più interes­ sante movimento generale degli istituti di credito locali (di ol­ tre 6 miliardi). Quanto a ricchezze e a commerci coloniali, in­ vece, le colonie libiche esportavano solo pelli secche e lane, 88

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    mentre le importazioni (soprattutto tessuti, ma poi anche fari­ ne e paste, vini e tabacchi, legni e marmi, saponi e fieni) rin­ viavano ancora una volta ai consumi delle comunità urbane, e specialmente di quelle italiane. Interessante è mettere questi primi schematici elementi a confronto con altri dati, questa volta non italiani. Demograficamente, ad esempio, la popolazione della peniso­ la poteva essere calcolata agli inizi degli anni venti in poco meno di 38 milioni, mentre quella francese era di 39 e quella britannica di più di 44. Non la quantità, quindi, come tuona­ va la propaganda fascista, quanto semmai la densità e il rap­ porto con la ricchezza nazionale avrebbero potuto legittima­ re demograficamente l’ansia del regime per un «posto al so­ le». Difficile quindi sostenere la “necessità” demografica del­ l’espansionismo fascista. Sempre agli inizi degli anni venti la produzione di acciaio (un indice forse non sufficiente, ma rilevatore della forza di una potenza nell’era della seconda rivoluzione industriale e della guerra totale) era approssimativamente pari in Gran Bretagna a più di 9 milioni di tonnellate annue e in Francia a poco meno di 3 milioni, mentre l’Italia non riusciva a produrre più di 700.000 tonnellate. E vero che alla fine del ventennio successivo (e cioè alla vigilia della seconda guerra mondiale) il tasso di crescita del­ la produzione industriale italiana globale avrebbe marcato un ri­ sultato positivo in valori assoluti per la penisola, che quasi rad­ doppiava la sua capacità produttiva rispetto al 1913 (per quan­ to il Giappone nel frattempo la avesse moltiplicata per cinque), mentre più lenta sarebbe stata la crescita di Francia e Gran Bretagna. Ma in valori assoluti il divario rimaneva ancora note­ vole. Nel 1938, per ritornare alla produzione dell’acciaio, la ca­ pacità produttiva italiana era pur sempre pari a meno della metà di quella francese e a meno di un quarto cu quella britannica, per non fare pure altri paragoni (rimaneva ad esempio sempre me­ no di un quattordicesimo di quella statunitense e meno dì un de­ cimo di quella tedesca, sottoposta allora al frenetico sforzo del riarmo nazista)21. Dal punto di vista dei possedimenti oltremare - li si cal­ colassero in termini demografici, geografici o economici - la posizione internazionale, relativa e assoluta, dell’Italia non era molto migliore. Nel 1915-1916 Lenin, accumulando dati per il

    21 Cfr. Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Garzanti, 1989.

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    CAPITOLO III

    suo Imperialismo, fase suprema del capitalismo, aveva annotato nei suoi quaderni che Londra governava su circa 400 milioni di sudditi coloniali, Parigi su più di 56, L’Aja su 38 e Lisbona su 9: Roma su poco più di 1,3 milioni di “indigeni”2223. Analogo, se non peggiore, il rapporto fra le diverse estensioni delle rispettive colonie: e, nel 1922 rispetto al 1914, il rappor­ to era andato peggiorando per l’Italia se si tiene conto della scomparsa dell’impero coloniale tedesco e dei possedimenti turchi in Medio Oriente, ripartiti sotto forma di mandati fra Gran Bretagna e Francia. Alia fine del ventennio fascista i mo­ desti aggiustamenti di confine nel frattempo ottenuti e soprat­ tutto la conquista dell’Etiopia avevano certamente ampliato, dal punto di vista dell’estensione come del popolamento e del­ le risorse, il bottino africano dell’Italia: ma certo non al punto da sovvertire alla radice la sostanziale limitatezza deU’imperialismo coloniale italiano. Questi pur assai schematici dati quantitativi - spesso tra­ scurati in trattazioni di storia diplomatica o politica - sono in­ vece importanti parlando del regime fascista e della sua pro­ paganda imperiale, delle ambizioni e della pretesa della sua classe dirigente e in particolare di Mussolini (una pretesa che anche D e Felice ha dovuto considerare “esagerata”) 2i di ve­ dere l’Italia considerata come una potenza “alla pari” con le al­ tre potenze europee e in particolare con quelle coloniali bri­ tannica o francese. Quei dati non solo fotografano il divario fra realtà e volontà tipico della politica fascista anche nel campo coloniale, ma soprattutto indicano con quanto sconcerto la perseveranza di Mussolini in quelle ambizioni e in quelle ri­ chieste dovesse essere accolta nelle cancellerie e presso l’opi­ nione pubblica delle altre potenze. Si trattava di ambizioni e ri­ chieste fasciste che, pretendendo di mutare radicalmente lo status quo, avevano di per sé un carattere strutturalmente “re­ visionista” o più esattamente sovvertitore dell’ordine interna­ zionale. La sostanziale modestia quantitativa, da un punto di vista di storia mondiale, del colonialismo liberale prima e fascista poi non deve però indurre a sottovalutare né il rilievo interno della dimensione oltremare per la storia del regime né d’altro

    22 Cfr. Vladimir Il’ic Lenin, Limperialismo, fase suprema del capitali­ smo, a cura di Valentino Parlato, Roma, Editori Riuniti, 1971 [ed. orig.

    1917], 23 Cfr. R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I.

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    canto la peculiarità del colonialismo fascista rispetto a quello delle altre potenze liberali e più in generale rispetto all’espe­ rienza coloniale fra le due guerre mondiali. Su tali punti si ri­ tornerà più volte nelle pagine che seguono. Per adesso saran­ no sufficienti al proposito due osservazioni. La prima, la più ovvia, è che - pur tenendo nel dovuto conto la naqao ultramarina di Antonio Salazar (dal 1932) e gli ormai sparuti domìni coloniali della Spagna franchista (dal 1936) - l’impero di Mussolini fu il più lungo e sostanzialmen­ te l’unico esperimento di colonialismo africano di una potenza fascista. Che avesse in questo un suo proprio esplicito proget­ to, che lo svolgesse per intero o che si adattasse - giudicando­ lo conveniente - ad una parte dello stato di fatto, o che anco­ ra adottasse la realtà precedente modificandola in alcuni aspet­ ti decisivi sono questioni tutt’altro che indifferenti ma succes­ sive: il dato di partenza è che, a differenza del nazismo e degli altri fascismi non mediterranei, il regime mussoliniano fu l’u­ nico ad avere colonie in Africa 24. Tale unicità - e qui la seconda osservazione troppo spes­ so dimenticata, in particolare dall’impostazione nazionalistica degli “storici coloniali” del regime e ai chi ne ha seguito le or­ me - ha comportato una sostanziale peculiarità dell’esperienza del dominio coloniale fascista. Per cogliere tale peculiarità è però necessario ampliare lo sguardo alle colonie delle altre po­ tenze, nonché alle differenze fra la passata età dello scramble (1875-1914) e l’età fra le due guerre mondiali. Ora, è vero che l’imperialismo europeo e l’oppressione coloniale bianca su Africa, Asia e Oceania ebbe nei venti anni successivi alla pri­ ma guerra mondiale forti elementi di continuità con i decenni dello scramble: ma qualcosa era mutato soprattutto dopo che le due maggiori potenze coloniali, la Gran Bretagna e la Francia, ebbero imposto a buona parte dei propri domìni ol­ tremare un notevole sforzo di partecipazione già durante la Grande Guerra. Il drenaggio delle risorse e il sacrificio anche in vite umane, prelevate dalle rispettive colonie e “bruciate” sui campi del fronte occidentale e più in generale per lo sforzo bellico, avevano inciso in modo particolare sul rapporto ma­ drepatria-colonie dal punto di vista economico, politico e ideologico. Come pensare che il fatto che la delegazione di Londra alla conferenza di pace non si definisse “inglese” ma

    24

    Cfr. Nicola Labanca, Storia dell’Italia coloniale, Milano, Fenice

    2000, 1994.

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    CAPITOLO III

    “dell’Impero britannico” non avesse anche dal punto di vista simbolico una qualche relazione con quel quasi 1,4 milioni di indiani che avevano combattuto sotto VUnion Jack fra il 1914 e il 1918? O come credere che Parigi non avrebbe dovuto in qualche modo trasformare, dopo il conflitto, l’amministrazio­ ne di quei senegalesi le cui legioni di tirailleurs avevano tanto servito, e inorgoglito, il sentimento imperiale francese? Non è quindi casuale se le storie della decolonizzazione, e non solo le più aggiornate, prendono avvio proprio dal 1918 25. Proprio fra le due guerre, pur tra diversità di cronolo­ gie e di geografie e di storie locali, vanno infatti collocate la na­ scita e la crescita, ancorché lenta e combattuta, dei primi mo­ vimenti nazionali moderni ad opera delle élites politiche e re­ ligiose dei popoli soggetti al dominio coloniale bianco. Contro tali movimenti, anche fra le due guerre e in particolare negli anni immediatamente successivi alla conclusione della Grande Guerra, non mancarono all’oltremare le brutalità da parte bri­ tannica come da parte francese: il massacro di Amritsar del 1919 o la guerra senza quartiere contro Abd el-Krim del 19201926 lo dimostrano. Ma ciò che tali brutalità segnalano è pro­ prio la presenza di opposizioni politiche e religiose autoctone, in taluni casi stroncate, in altri solo temporaneamente sedate. Allora si comprende perché, proprio a partire dalla fine della Grande Guerra, e sia pure in una grande varietà di soluzioni e di tempi, con avanzamenti ed arretramenti ricorrenti, i proble­ mi politici di fondo della gestione dei propri imperi stettero per Londra come per Parigi tanto nel processo di avvalora­ mento quanto, soprattutto, nel confronto con tale realtà in mo­ vimento: nella prospettiva della compartecipazione all’ammi­ nistrazione o nella concessione di autonomie o nel trasferi­ mento di qualche potere. In una parola, la decolonizzazione venne dopo la seconda guerra mondiale, ma nel ventennio pre­ cedente mise le radici. Sempre al fine di comprendere unicità e peculiarità della politica coloniale del regime fascista è necessaria un’ulteriore considerazione, d’ordine cronologico. Per quanto sia possibile generalizzare, lungo tutto il ventennio due momenti furono23

    23 Cfr. Carlo Giglio, Colonizzazione e decolonizzazione, Cremona, Mangiarotti, 1964; Giampaolo Calchi Novati, Decolonizzazione e Terzo Mondo, Roma-Bari, Laterza, 1979; Anna Maria Gentili, Decolonizzazione e neocolonialismo nel X X secolo, in Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo (diretta da), La storia. I grandi problem i dal Medioevo all'Età Contemporanea, 10 voli., Torino, Utet, 1986-1988, voi. VI, L'Età Contemporanea, 1 .1 ,1 quadri ge­ nerali.

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    particolarmente critici per i reggitori di imperi coloniali. Il pri­ mo fu immediatamente successivo alla fine del primo conflitto mondiale, quando nelle società soggette più fresco era il ricor­ do del sacrificio fatto per la guerra del dominatore coloniale. Una vasta ondata di sommosse, rivolte e rivoluzioni percorse tutti i domìni coloniali, dal Marocco all’Algeria, dalla Libia all’Egitto, dalla Persia all’Afghanistan, dall’Iraq al Sudafrica, dal Congo all’Indonesia, dall’India alla Corea alla Cina26. IÌ movimento, tanto scoordinato quanto simultaneo, allarmò for­ temente le cancellerie coloniali. Qualche successo parziale fu realizzato dai vari movimenti nazionali (ad esempio l’autono­ mia dell’Egitto wafdista) ma, anche quando essi furono re­ pressi, e duramente, l’ondata rivoluzionaria del 1918-1923 eb­ be conseguenze durature: ad esempio fu sufficiente per indur­ re Londra e Parigi a valutare l’opportunità di prendere la via delle concessioni e dell’autonomia, approfondendo 1’indirect ride e l’associazione; bastò a convincere Mosca dell’importan­ za di una costante attenzione ai popoli coloniali; rafforzò nelle élites nazionaliste la prospettiva di una propria emancipazione e di un’emancipazione nazionale. (Tali osservazioni non sareb­ bero prive di rilievo anche nell’ottica di un riesame della poli­ tica coloniale dell’ultima Italia liberale, che andrà svolto in al­ tra sede.) Il secondo momento critico nel rapporto fra potenze co­ loniali e domìni oltremare fu quello successivo al 1929. Erano trascorsi solo pochi anni dall’assestamento postrivoluzionario sopra ricordato, quando la Grande Crisi venne a mettere in gravi difficoltà tutte le economie europee: le potenze colonia­ li, nel giro di due-tre anni al massimo, rafforzarono i legami economici con i propri domìni, intensificandone lo sfrutta­ mento e alzando le barriere protezionistiche che legavano ma­ drepatrie a colonie. La necessità, imposta dalla crisi, di acce­ dere a risorse a prezzi minori di quelli del libero mercato in­ ternazionale, di ampliare mercati di sfogo per le produzioni nazionali, di creare nuove occasioni di esportazioni di capitali (meglio sotto la protezione della bandiera) e di alzare così il li­ vello medio dei profitti, creò contraddittorie conseguenze po­ litiche: fra cui una maggior suscettibilità diplomatica delle can­ cellerie per tutto quanto potesse coinvolgere i domìni oltrema­ re, la necessità da parte di queste di controllare maggiormente

    26 Cfr. Walter Markov, Sommario d i storia coloniale, Roma, Editori Riuniti, 1975.

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    le classi medie autoctone, ma anche la crescita dei movimenti nazionali anticoloniali. Tutto ciò comportò uno spostamento dell’asse degli interessi imperiali delle grandi potenze - nel passaggio dalla fase dello scramble dell’età dell’imperialismo a quella del consolidamento e dell’awaloramento dell’età fra le due guerre mondiali - da una fase caratterizzata dalle bellico­ se contraddizioni interimperialistiche ad un’altra segnata dalla preminenza della pacifica amministrazione e della valorizza­ zione economica. Un tale quadro generale, qui solo schematicamente deli­ neato, dovrà essere tenuto a mente nell’esame del coloniali­ smo fascista. Rispetto al trend internazionale, già l’ultima fase dell’Italia liberale si era posta in controtendenza, con il suo postulare ancora «equi compensi» legati alle clausole colonia­ li del Patto di Londra e con l’avvio della riconquista della Libia. Ma fu soprattutto la politica coloniale del fascismo a marcare una profonda soluzione di continuità rispetto al qua­ dro internazionale. I tratti caratteristici di quella politica fu­ rono quindi: l’insistenza senza soste nelle richieste di revisio­ ne dell’assetto coloniale stabilito a Versailles, l’ulteriore spin­ ta all’accentramento amministrativo, la “riconquista” militare, lo scarso sviluppo dei domìni oltremare, e per finire lo scate­ namento di una guerra d’aggressione e l’instaurazione di un regime di discriminazione razziale. Spesso si è definita “anacronistica” la guerra d ’Etiopia. Ma la valutazione andrebbe tanto allargata ad altri settori della politica coloniale (si pensi alla cosiddetta “politica in­ digena”) quanto sostanzialmente retrodatata, prendendo in considerazione il complesso della politica coloniale del regi­ me, a partire dal 1922. Così facendo, fra l’altro, la stessa ge­ nesi della guerra del 1935-1936 potrebbe risultare assai me­ no “episodica” e incomprensibile di quanto, a taluni, è ap­ parsa.

    ATTORNO ALLE FO N DAM ENTA DEL COLONIALISM O FASCISTA

    Oltre a presentare le ora ricordate peculiarità nel confronto in­ ternazionale con i colonialismi coevi, il colonialismo fascista evidenzia una discontinuità anche rispetto a quello dell’Italia liberale. Su tutto ciò, come è noto, non c’è unanimità fra gli studiosi. D ’altro canto la grave arretratezza degli studi storico­ coloniali italiani, assieme al fatto che gli studi sul colonialismo liberale siano maggiormente sviluppati rispetto a quelli sul pe­ riodo fascista, non consente conclusioni definitive. 94

    POLITICA E AMMINISTRAZIONE COLONIALI DAL 1922 AL 1934

    Già discutendo le fondamenta economiche del coloniali­ smo italiano si può osservare il complesso gioco fra continuità e rottura. Dalla presa depretisina di Massaua nel 1885 alla de­ cisione giolittiana di occupare Tripoli nel 1911, sino alla stessa scelta mussoliniana di aggredire l’Etiopia, non vi è nessuno che metta in discussione la rilevanza dell’elemento politico e della valutazione diplomatica, cioè più in generale delle ragioni di prestigio e di politica di potenza nei momenti cruciali della sto­ ria del colonialismo italiano. Ma, all’interno di questa conti­ nuità, non si possono non osservare alcuni segni di un notevo­ le mutamento del quadro nello scorrere del tempo già fra crispismo e giolittismo, e poi più in generale nel passaggio fra Italia liberale e fascismo. In tale prospettiva vanno tenuti pre­ senti alcuni elementi strutturali. Il primo elemento è quello delle spese statali per l’oltre­ mare, come uno degli indici della rilevanza annessa alla politi­ ca coloniale nel suo complesso27. La situazione generale era ben fotografata dalle amare considerazioni di un colonialista convinto circa lo «scarso ed ingrato patrimonio coloniale» ita­ liano: «Nessuna delle tre colonie bastava a se stessa; e tutte e tre insieme pesavano per un non indifferente contributo sul sempre magro bilancio della madrepatria»28. Fatto sta che, nonostante l ’assenza di studi specifici, è difficile negare come, già ben prima della conquista dell’Etiopia, i bilanci coloniali del fascismo fossero assai più rilevanti di quelli dell’Italia libe­ rale, in valore tanto assoluto quanto relativo, sia rispetto al to­

    27 Cfr. Pietro Grifone, II capitale finanziario in Italia, Torino, Einaudi, 1971 [ l a ed. 1945]; Felice Guameri, Battaglie economiche fra le due guerre, a cura di Luciano Zani, Bologna, Il Mulino, 1988 [ l a ed. Milano, Garzanti, 1953], su cui si veda anche Luciano Zani, Fascismo, autarchia, commercio estero. Felice G uam eri un tecnocrate al servizio dello “Stato nuovo”, Bologna, Il Mulino, 1988; Albert O. Hirschman, Potenza nazionale e commercio este­ ro. G li anni Trenta, l’Italia e la ricostruzione, a cura di Pier Francesco Asso e Marcello D e Cecco, Bologna, Il Mulino, 1987; Giuseppe Maione, I costi del­ le imprese coloniali, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fasci­ smo, cit.; Antonio Pedone, La politica del commercio estero, in Giorgio Fuà (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia italiana ne­ gli ultim i cento anni, voi. II, G li aspetti generali, Milano, Franco Angeli, 1969; Istat, Sommario di statistiche storiche 1861-1955, Roma, 1958. Una se­ rie diversa si può leggere in Emilio Canevari, La guerra italiana. Retroscena della disfatta, Roma, Tosi, 1950. Per il periodo successivo cfr. Giuseppe Maione, L'imperialismo straccione. Classi sociali e finanza d i guerra dall’im ­ presa etiopica al conflitto mondiale (1935-1953), Bologna, Il Mulino, 1979. 28 Cfr. Corrado Zoli, Espansione coloniale italiana (1922-1937), Roma, L’arnia, 1949.

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    tale delle spese statali sia rispetto al prodotto nazionale lordo. Da un canto si potrebbe osservare come, aH’interno di questa rottura, o almeno significativo mutamento, permangano forti elementi di continuità, ad esempio per quanto riguarda la struttura dei bilanci (prevalenza assoluta dei capitoli di spesa militari all’interno dei conti coloniali, forte aggravio delle spe­ se per il personale ecc.). D ’altro canto sarebbe fuorviarne non rilevare che, a differenza di quanto accaduto durante il gover­ no di Francesco Crispi, dietro le altisonanti parole della pro­ paganda fascista c’era un effettivo e rilevante impegno finan­ ziario nei bilanci ordinari del regime: bilanci forse mai ritenu­ ti sufficienti dai circoli colonialisti, ma non per questo meno reali e consistenti. Anche negli stanziamenti straordinàri le spese coloniali rappresentavano spesso e pur sempre la quarta voce, dopo quella per la difesa, per le opere pubbliche e per i servizi finanziari. Si potrebbe obiettare, a chi facesse rilevare tale discontinuità con l’Italia liberale, che le spese esplicita­ mente coloniali rimasero “solo” un decimo della spesa milita­ re del regime. Comunque si voglia giudicare tale proporzione è d’altro canto evidente che, mentre altrove in Europa si face­ vano le prime prove di welfare state, l’Italia fascista continua­ va a spendere per le colonie più che in beneficenza e in assi­ stenza sociale, più che per le ferrovie o più che per la giustizia. Risalterà quindi che, se l’Italia liberale aveva investito in istru­ zione dieci volte più che nelle colonie, il regime fascista spen­ deva per le sue scuole “solo” tre volte che per il suo oltrema­ re. E questo sino al 1935: ché dopo quella data il “piano del­ l’impero” fu sempre più un piano inclinato per i bilanci del re­ gime. Un secondo e ancora più importante elemento, rivelato­ re dei rapporti fra politica di espansione e suo radicamento so­ ciale, visto sempre in tema di continuità e rottura del colonia­ lismo fascista rispetto a quello dell’Italia liberale, può essere rintracciato nella quantità, nella direzione e nei cicli del com­ mercio estero 29. Alcune cifre, pur nei limiti dettati dagli studi

    29 Sia pure con qualche parzialità, le cifre dell’interscambio fra patria e colonie e più in generale fra penisola e Continente Nero identificano e mi­ surano l’ampiezza dell’interesse di rilevanti settori del mondo economico na­ zionale verso la dimensione oltremare, ne disegnano i cicli e permettono di inserirli in un più ampio quadro intemazionale. Poiché gli studi disponibili hanno un orientamento prevalentemente diplomatico-politico-militare, in questo settore mancano studi preparatori, e sarà possibile fare solo alcune osservazioni generali. Cfr., oltre alle principali ricostruzioni della storia eco­ nomica italiana del periodo, Giuseppe Tattara, La persistenza dello squilibrio

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    POLITICA E AMMINISTRAZIONE COLONIALI DAL 1922 AL 1934

    disponibili, sono però sufficienti a mettere in luce come, fra re­ gime fascista e Italia liberale, i segni di discontinuità - nei loro valori percentuali oltre che assoluti - furono forse maggiori di quelli di continuità. Anche qui sarebbe necessario tenere conto degli eccezio­ nali sconvolgimenti causati dalla Grande Guerra a livello di commercio internazionale e dei confusi assetti dell’immediato dopoguerra: un dopoguerra fatto di lotte anche aspre, causate dalla ricerca di nuove gerarchie di influenza e dalle nuove sfi­ de commerciali (si pensi al valore nuovo assunto dallo scac­ chiere mediorientale in seguito alla scomparsa del potere tur­ co e alla conferma dell’entità dei suoi giacimenti petroliferi). Al piia tardi con il 1925-1926, però, l’assetto dell’economia co­ loniale internazionale era tornato a stabilizzarsi e, come si è detto, già con il 1929 e al più tardi dopo il 1931 una fitta rete protezionista era venuta stringendo gli ampi mercati coloniali delle maggiori potenze alle rispettive madrepatrie. Come si situava l’Italia in questo quadro internaziona­ le? 30 Assai schematicamente, si può ricordare che l’interscam­ bio fra la penisola e i domìni coloniali era stato sempre assai scarso, al punto da costituire un giustificato e potente argo­ mento dei critici anticolonialisti. Più interessante si poteva di­ re l’interscambio italo-mediterraneo (cioè principalmente con i territori inglesi dell’Egitto, francesi della Tunisia e del­ l’Algeria, e con quelli dell’Impero turco) e poi italo-africano nel suo insieme. In ogni caso le cifre globali erano rimaste co­ munque modeste e soprattutto non davano segni di un qual­ che dinamismo. Qualcosa mutò con la guerra e soprattutto nel dopoguerra. La riduzione del commercio internazionale negli anni di guerra e gli affanni legati nel dopoguerra alla ricostru­ zione delle linee di quei traffici permisero all’industria, all’a­ gricoltura e ad un intraprendente ceto di mercanti (grandi e piccoli) italiani di intravedere durante e immediatamente dopo il conflitto la possibilità di un’espansione in questo settore. Essi infatti riuscirono ad occupare nel dopoguerra, e in parti­

    le / conti con l’estero dell’Italia negli anni Trenta, in Ricerche per la storia del­ la Banca d ’Italia, voi. Ili, Finanza internazionale, vincolo esterno e cambi 19191939, Roma-Bari, Laterza, 1993; Mariangela Paradisi, I l commercio estero e la struttura industriale, in Pierluigi Ciocca, Gianni Toniolo (a cura di), L’economia italiana nel periodo fascista, Bologna, Il Mulino, 1976. 30 Cfr. Gian Carlo Falco, La bilancia dei pagamenti italiani tra la prima guerra mondiale e il 1931, in Ricerche per la storia della Banca d'Italia, voi. VI, La bilancia dei pagamenti italiani 1914-1931, Roma-Bari, Laterza, 1995.

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    CAPITOLO III

    colare negli anni tutto sommato espansivi fra 1922 e 1926, po­ sizioni internazionali di un qualche maggior rispetto e comun­ que - cosa non meno importante nella percezione all’interno e presso le cancellerie e i centri economici stranieri - spesso del tutto nuove. Tale fenomeno, sinora non sufficientemente mes­ so in luce dagli storici italiani, spiega o quanto meno allarga il quadro delle spiegazioni dell’obiettivo e costante rafforzamen­ to degli ambienti colonialisti fra Patto di Londra e Convegno nazionale coloniale dell’aprile 1917, e poi dal Convegno na­ zionale coloniale per il dopoguerra nelle colonie (gennaio 1919) sino all’ascesa al governo di Mussolini e oltre. In parti­ colare va rilevato che, se sino al 1919-1920 negli ambienti del­ l’espansionismo imperialistico si mescolavano di frequente ri­ vendicazioni e rappresentanze di interessi concreti legati alle due direttrici tradizionali italiane, quella balcanica e quella africana, a partire dalla fine della guerra acquistava consisten­ za e autonomia definitive, e quindi una certa autosufficienza, la linea africana. Fu con organi di stampa visibilmente soste­ nuti da tali ambienti economici che si cercò dapprima di in­ fluire sugli Esteri perché chiedessero una qualche attuazione degli accordi del Patto di Londra e si iniziò poi a sperare, inu­ tilmente, una revisione dell’assetto stabilito a Versailles. La positiva performance italiana nell’interscambio com­ merciale generale con l’Africa (il che significava, per quasi la metà, con l’Egitto) e più o meno parallelamente con le colonie (soprattutto con una Libia più vicina e più densamente popo­ lata di italiani, anche se ancora armati di fucile per il controllo del territorio e la repressione della resistenza anticoloniale più che di vanga e zappa per la colonizzazione agraria) fu partico­ larmente evidente attorno al 1925, per ragioni economiche in­ ternazionali non direttamente collegate all’avvento del regime, se non forse per via del liberismo dei primi governi MussoliniDe Stefani. E lecito presumere che ciò rafforzasse o quanto meno venisse a collimare con i richiami nazionalistici del mini­ stro delle Colonie Federzoni (e della “carriera” degli Esteri) per una revisione dell’assetto coloniale stabilito a Versailles. Gli spazi lasciati aperti fra guerra e dopoguerra dalle co­ lonie (soprattutto africane) delle altre potenze ad un’esporta­ zione italiana, peraltro di beni spesso a bassa intensità di capi­ tale e quindi più facilmente sostituibili, si richiusero presto. Nel frattempo, fra la seconda metà degli anni venti e i primis­ simi anni trenta, ad eccezione di alcuni settori specifici (le ba­ nane, la gomma, le pelli essiccate e altro), non si erano peral­ tro sviluppate a sufficienza le economie delle stesse colonie ita­ liane, che non poterono quindi far fronte all’offerta della ma98

    POLITICA E AMMINISTRAZIONE COLONIALI DAL 1922 AL 1934

    lirepatria rimasta inevasa dalla chiusura dei mercati coloniali altrui. Quegli ambienti che, forti dei risultati buoni e soprat­ tutto nuovi rispetto al passato, si erano illusi di aver consoli­ dato la propria posizione dovettero trovarsi probabilmente con difficoltà di sDocchi. D opo che la crisi del 1929 fu sfocia­ ta, per quanto concerne questo scacchiere, nel protezionismo del 1931-1932, le difficoltà dovettero essere ancora maggiori e le pressioni sul governo e sullo stato moltiplicarsi. N el frattempo, le difficoltà congiunturali e specifiche as­ sieme alle scelte più generali nel rapporto fra stato fascista e in­ dustria, fra politica ed economia avevano nel giro di pochi an­ ni trasformato in buona parte gli attori stessi del gioco. Dalle singole aziende e dagli isolati e intraprendenti commercianti di un tempo, figure tradizionali dell’interscambio italiano verso il Levante cui pure già si erano aggiunti, negli anni fra guerra e dopoguerra, corposi interessi industriali e finanziari, con il re­ gime si marciava ormai verso una razionalizzazione ed una in­ tegrazione. Può leggersi in questo senso ad esempio un’espli­ cita direttiva, ormai del 1934, impartita dall’Iri e concordata con la Banca d’Italia (in occasione del generale smobilizzo del Banco di Roma a proposito della sorte del Banco italo-egiziano): «Deve stabilirsi come norma di massima, salvo esame spe­ cifico delle esigenze dei singoli paesi esteri, che, dove vi sono più Istituti dipendenti dalla Comit, dal Credit e dal Banco di Roma, essi devono ridursi ad uno solo, sia suddividendosi fra i tre Istituti le partecipazioni, sia eventualmente l’uno disinte­ ressando l’altro»31. E difficile determinare quanto tale centra­ lizzazione delle forze italiane in Africa e in Oriente fosse lega­ ta alle difficoltà diplomatiche incontrate dal regime nella ri­ cerca di quei compensi coloniali cui il Patto di Londra aveva lasciato pensare, o a quelle economiche nella penetrazione in mercati coloniali altrui mentre tardavano a svilupparsi i propri; certo è che una simile direttiva, se rappresentativa ed applica­ ta, finiva per legare al regime gli ambienti economici interessa­ ti ad una politica di espansione, prefigurando l’eccezionale ri­ lievo che l’interscambio italo-coloniale (ma meglio sarebbe di­ re italo-etiopico) avrebbe assunto nel 1935-1941. A parte tali ipotesi, la cui verifica deve essere lasciata og­ gi al progresso degli studi, tutto quanto detto sin qui circa l’in­ dirizzo e le fasi del commercio estero italo-africano (e in esso

    31 Cfr. Giuseppe Guarino, Gianni Toniolo (a cura di), La Banca d ’Italia e il sistema bancario 1919-1936, Roma-Bari, Laterza, 1993 (serie do­ cumenti, vìi).

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    italo-coloniale) mirava a dimostrare che l’età fra le due guerre costituì per l ’Italia una discontinuità di un qualche rilievo nel­ le fondamenta economiche del rapporto coloniale: il che signi­ ficava, più in generale, nelle basi sociali e di possibile “consen­ so” alla prospettiva coloniale e africana del regime32. Su un terzo elemento, infine, è opportuno soffermarsi per poter basare su fondamenta più solide di quelle della sola storia politico-diplomatica una valutazione del grado di conti­ nuità o rottura esistente fra colonialismo liberale e coloniali­ smo fascista: l’elemento demografico33. E necessario parlarne per più ragioni: perché esso rappresentò un riferimento co­ stante nell’ideologia del colonialismo italiano, perché ne fu teorizzata la peculiarità a proposito già deU’imperialismo della Terza Roma e perché su di esso in particolare il regime fascista basò gran parte della propaganda e fondò la legittimazione teorica (e storiografica) della propria politica espansionista. In realtà, l’argomento demogralico evolvette presto in direzione del m ito34. Che l’Italia avesse più manodopera che capitale da espor­ tare in Africa e in particolare nelle sue colonie era noto. Ma spesso la propaganda del regime (se si esclude il dato della Tunisia, su cui imbastì una propaganda tanto costante quanto poi, alla fine, inutile, visti gli accordi con Pierre Lavai del 1935) occultava la realtà per cui c’erano più “italiani d’Africa” nei territori coloniali soggetti ad altre potenze di quanti non ve ne fossero nelle stesse colonie italiane. È stato notato, ad esem­ pio, che sino agli anni trenta, ma si potrebbe dire sino alla guerra d’Etiopia, la colonia più “italiana”, cioè la Libia, non ospitava nemmeno la metà degli italiani di Tunisia35, né quan­ titativamente quella comunità di coloni era paragonabile al­ l’insediamento francese in Algeria: eppure la colonizzazione italiana della Libia rimase, sino agli anni dell’impero mussoliniano in Etiopia, la massima realizzazione “demografica” del fascismo in terra d’Africa.

    32 Registrare tale novità appariva necessario dalTintemo di una storia del colonialismo italiano: anche se è evidente che - da un punto di vista com­ parato con le cifre generali dell’economia italiana e ancor più con quelle di altri colonialismi - si tratta comunque di percentuali ben lontane da quelle di potenze coloniali plurisecolari e, abbiamo visto, con domìni imperiali quantitativamente poco comparabili con quello italiano. 33 Cfr. Ercole Sori, V em igrazione italiana dall'Unità alla seconda guer­ ra m ondiale, Bologna, Il Mulino, 1979. 34 Cfr. N. Labanca, Italiani d ’Africa, cit. 35 Cfr. Juliette Bessis, La Libia contemporanea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1991.

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    Le cifre non sono sempre univoche, visto l’imbarazzo del regime a dover esibire quello che poteva sembrare un falli­ mento della colonizzazione italiana e in particolare il ritardo di quella demografica: talora gli stessi ricercatori vengono indot­ ti da tali cifre ad alcuni errori, ad esempio computando i mili­ tari presenti (e che nelle colonie italiane furono sempre, per via della tradizione e della politica del regime, una realtà notevo­ le) fra i coloni residenti36. Fatto sta che all’inizio degli anni trenta gli italiani inequivocabilmente indicati dai censimenti come residenti non erano in Somalia più di qualche centinaio, in Eritrea qualche migliaio e in Libia forse circa quarantamila. Se si tiene conto del numero dei francesi in Algeria o in Tunisia, o anche degli inglesi in alcune delle loro colonie di po­ polamento africane, ne consegue che solo con molti distinguo diviene accettabile la definizione di «imperialismo demografi­ co» che si era accreditata da parte di tutta una tradizione ita­ liana, da Roberto Michels (più che da Crispi) ai nazionalisti a Mussolini (ma anche all’estero)37. Com’è noto le cose mutaro­ no radicalmente con la guerra d’Etiopia e, per la Libia, con le due spedizioni volute da Lessona (che però non potè presen­ ziarle, perché intanto sostituito da Attilio Teruzzi) e soprattut­ to dalrltalo Balbo dei «Ventimila» (che però furono solo 15.000 e 12.000, rispettivamente nel 1938 e nel 1939). Ma sino ad allora, se davvero colonizzazione equivaleva a “consenso”, il regime avrebbe avuto, come pure aveva, di che lamentarsi della «coscienza coloniale degli italiani». Non è possibile chiudere in maniera univoca una pur co­ sì sommaria panoramica attorno alle fondamenta strutturali, economiche (di bilancio e di interscambio) e demografiche del colonialismo fascista: ma certo, pur senza coincidere con un sovvertimento sostanziale del carattere dell’imperialismo colo­

    36 Cfr. Annunziata N obile, G li studi demografici sulle colonie italiane: fo n ti e problemi, in Vanti archivistiche e ricerca demografica. A tt i del convegno internazionale, Trieste, 23-26 aprile 1990, 2 voli., Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1996; Ead., La colonizzazione demografica della Libia: progetti e realizzazioni, «Bollettino di demografia storica», VI, 1990, n. 1; Ead., Politica emigratoria e vicende del­ l'emigrazione durante il fascismo, «Il Ponte», XXX, 1974, n. 11-12; Cari Ipsen, Demografia totalitaria. I l problema della popolazione nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1997. 37 Cfr. Ronald Robinson, British imperialism: the Colonial Office and the settler in East-Central Africa, 1919-63, in Enrico Serra, Christopher Seton Watson (a cura di), Italia e Inghilterra n ell’età dell’imperialismo, Milano, Franco Angeli, 1990.

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    niale italiano come imperialismo secondario e circoscritto, è evidente che l’avvento del fascismo marcò più di un segno di rottura strutturale rispetto al passato liberale. Le valutazioni che hanno insistito, parallelamente ai dibattiti sul passaggio della politica estera dall’Italia liberale al fascismo, su un mero mutamento di stile nel colonialismo fascista non soltanto ri­ mangono quindi alla superficie di un fenomeno storico ben più complesso, ma si precludono la comprensione delle speci­ ficità dell’imperialismo coloniale fascista già fra gli anni venti e gli anni trenta.

    GLI AVVÌI DELLA POLITICA COLONIALE DEL FASCISMO

    In parte a causa della trasformazione delle fondamenta econo­ miche e demografiche deH’imperialismo italiano, in parte an­ che per proprie deliberate scelte politiche (legate alle vicende diplomatiche e alla dinamica interna del regime), sul piano del­ la politica coloniale i governi Mussolini si qualificarono sin dall’inizio come governi di svolta: e non solo nello stile. In verità, se si pone mente alle aspirazioni coloniali ela­ borate dagli Esteri al tempo del Patto di Londra38 e poi si pen­ sa alle aree di azione del dinamismo fascista oltremare non si può non rilevare la sorprendente fissità degli scopi dell’azione coloniale. Ma, anche senza insistere sul ratto che quelle del 1914 erano solo aspirazioni - come si dovette ammettere più tardi - e per di più “imprecise”, sarebbe pericoloso non consi­ derare, come pure spesso è stato fatto, che nel frattempo (cioè nel periodo tra il 1914 e il 1922, e poi soprattutto dopo il 1929) tutto il quadro internazionale e in particolare quello coloniale­ africano era profondamente mutato. La continuità geografica nelle* stesse mete assumeva pertanto, fra il 1914 e il 1935, va­ lenze politiche destabilizzanti assai diverse. N ell’ultima fase dell’Italia liberale, quelle aspirazioni fu­ rono comunque tenute sotto controllo non solo dalla situazio­ ne internazionale ma anche dai governi italiani, pur sempre più indeboliti39. Tale controllo venne ad allentarsi sempre più sot­

    38 Tali aspirazioni durante la guerra furono ulteriormente incremen­ tate dai circoli colonialisti con la stesura di un «programma massimo». 39 Cfr. Giovanni Buccianti, L'egemonia sull’Etiopia (1918-1923). Lo scontro diplomatico tra Italia Francia e Inghilterra, Milano, Giuffrè, 1977.

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    to il fascismo, sin dai primi anni del governo Mussolini40. A fronte delle richieste provenienti dal ministero delle Colonie di «equi compensi» coloniali (quali quelle avanzate da Gaspare Colosimo nel 1918-1919) non ci sarebbe più stato un Vittorio Emanuele Orlando a ribadire che «per quanto grande sia l’i­ dea che ci si possa fare dei diritti dell’Italia in materia colonia­ le, resterà sempre vero che essi formano una parte relativa­ mente piccola ai un grande tutto». Né tantomeno, con l’aboli­ zione delle opposizioni, ci sarebbe stato più spazio per affer­ mazioni come quelle di un Francesco Saverio Nitti che, negli stessi anni, aveva dichiarato che «le colonie non solo devono bastare a se stesse ma essere fonte di reddito», e nel rivendica­ re la politica conciliatrice e riformista degli Statuti (di cui si parlerà più avanti) aveva affermato che Roma «per la Libia ha cominciato a dare l’esempio delle libertà, dell’autonomia loca­ le, e tutto il mondo mussulmano ha acclamato», additando nel­ la politica coloniale italiana «una grande forza di vita e una grande democrazia» nel contesto internazionale41. Niente di questo sarebbe rimasto sotto il fascismo. L’assunzione del ministero delle Colonie da parte di un nazionalista come Federzoni sin nel primo governo Mussolini incarnò la svolta rispetto al passato dell’Italia liberale, svolta che come tale fu percepita dai contemporanei. Si pensi alla lunga lotta dei circoli e poi del partito dei nazionalisti contro la politica estera e in particolar modo coloniale dei governi giolittiani, nonché al ruolo di costante pungolo e di critica da es­ si esercitato nei confronti della politica governativa durante gli anni della guerra e del dopoguerra, e si avrà chiaro il senso del­ la svolta. Se su di essa non si è insistito, preferendo discettare - in analogia con la storiografia diplomatica - su questioni di

    40 Cfr. Mario Toscano, II problema coloniale italiano alla Conferenza della pace, «Rivista di studi politici internazionali», 1937, n. 3-4; Robert Hess, Italy and Africa: Colonial ambitions in the First World War, «Journal of african history», 1963, n. 4; Francesco Cataluccio, Diplomazia d i guerra e ne­ goziati d i pace sulla spartizione dell’Asia ottomana (1915-1923), «Archivio storico italiano», 124 (1966); Id., La questione araba dopo la prima guerra mondiale: i m andati britannici in Iraq e Palestina, «Archivio storico italiano», 125 (1967); Giampaolo Calchi Novati, L'annessione dell'Oltregiuba nella po­ litica coloniale italiana, «Africa», 1985, n. 3, ora in Id., Fra Mediterraneo e Mar Rosso. M om enti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo, Roma, Istituto italo-africano, 1992. 41 Cfr. Francesco Saverio Nitti, Discorsi parlamentari pubblicati per de­ liberazione della Camera dei deputati, 4 voli., Roma, Graf. Ed. romana, 1975.

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    “contenuto” o di “stile” 42, si deve sia alla corretta considera­ zione per cui, pur costituendo una novità, quella svolta rima­ neva per adesso ancora confinata al solo angolo coloniale del­ la politica estera italiana, sia soprattutto allo scarso progresso degli studi storico-coloniali. In sede di valutazione del primo fascismo, sarebbe però errato sottovalutare quanto questa no­ vità potesse (e difatti potè) influenzare la politica estera italia­ na nel suo complesso, ora che alla presidenza del Consiglio e agli Esteri non stava più Orlando ma Mussolini. Dopo il 1922 quella parte relativamente piccola condizionava il tutto43. D ’altro canto in maniera imprecisa, ma non per questo con minor decisione, il fascismo aveva da tempo considerato l’imperialismo alla stregua di una delle poche leggi regolanti la politica internazionale. L’ideologia dello stesso Mussolini si è rivelata, a chi l’ha studiata, fortemente impregnata dei retaggi più caratteristici di una mentalità imperialista classica dell’età dello scramble 44: e, aggiungiamo, del tutto chiusa alle esigenze nuove dell’esperienza coloniale internazionale nell’età fra le due guerre mondiali. E non solo di ideologia si trattava45: gli stessi primissimi atti di politica internazionale del governo Mussolini, a partire da Territet, videro in primo piano proprio le rivendicazioni di tipo coloniale. Ciò significava che, rispetto ad altri campi, in quello coloniale le differenze fra Mussolini e fascisti da un lato e “fiancheggiatori” dall’altro (o anche fra Esteri e Colonie) erano assai minori. Si potrebbe obiettare che solo una parte della politica africana dell’Italia veniva elaborata alle Colonie. Ad esempio, tradizionalmente e per una prima fase anche sotto il fascismo, con un’eccezione parziale per il caso della guerra d’Etiopia, i

    42 Cfr. Carlo Gasbarri, La politica africana dell’Italia nelle carte di Colosimo, «Africa», 1973, n. 3; Cesira Filesi, G iovanni Amendola, ministro delle Colonie, e la questione cirenaica, «Rivista di studi politici internaziona­ li», XLIV, 1977, n. 1. 43 Cfr. Luigi Federzoni, 1927. Diario d i un ministro del fascismo, Firenze, Passigli, 1993. 44 Cfr. Enzo Santarelli, M ussolini e l'ideologia imperialista, ora in Id., Fascismo e neofascismo. Studi e problem i d i ricerca, Roma, Editori Riuniti, 1974; e Id., M ussolini e l ’imperialismo, in Id., Ricerche sul fascismo, Urbino, Argalìa, 1971. 45 Cfr. Giorgio Rumi, “Revisionismo" fascista ed espansione coloniale (1922-1935), «Il Movimento di liberazione in Italia», 80 (luglio-settembre 1965); Id., A lle origini della politica estera fascista (1918-1923), Bari, Laterza, 1968.

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    rapporti internazionali con le altre potenze in materia colonia­ le venivano gestiti dagli Esteri. Dall’altro lato, le deliberazioni delle Colonie avevano ovviamente valore erga omnes nei pos­ sedimenti coloniali, ma si scontrarono ancora per qualche tem­ po con la rilevante autonomia di cui i governatori in loco ave­ vano da sempre goduto, sotto l’Italia liberale, anche rispetto alla madrepatria e al loro stesso ministero 46: il quale, giova ri­ cordarlo, era stato istituito solo nel 1912 ed aveva maturato una certa esperienza solo negli anni della Grande Guerra e del dopoguerra, quando pure era ancora visto spesso dalle colonie come un corpo estraneo, burocratico, romano, anche a causa delle modalità con cui il suo personale era stato reclutato4748. Il menzionato monopolio degli Esteri nelle relazioni con le altre potenze coloniali non dovrebbe però essere interpreta­ to come un ostacolo o un freno insuperabile al dispiegarsi del­ le tendenze colonialiste più accentuate. E vero che, in partico­ lare per i primi governi Mussolini, la storiografia diplomatica ha a lungo presentato la “carriera” (cioè il personale degli Esteri) e, ad esempio, la figura di Contarini come elementi che seppero infrenare le “intemperanze” di Mussolini e del fasci­ smo in politica estera, facendo prevalere in una prima fase la continuità con una cauta tradizione liberale precedente 4S. Tale assunto però non solo si è rivelato debole a livello generale ma è soprattutto improprio per il caso specifico della politica co­ loniale. Sarà sufficiente ricordare che forse la stessa carriera, e di certo il personale dirigente in grado di orientare la politica estera coloniale del tempo a cominciare dallo stesso Contarini, era rigidamente incline a non derogare dal “diritto” italiano ai mandati, all’espansione e alle colonie. Anche chi ha inteso rivendicare e accreditare a Contarini (e alla carriera) una asserita continuità moderata della politica estera italiana del primo fascismo con quella dell’ultima Italia liberale, ha ammesso che il siciliano era al fondo e praticamente da sempre un accanito colonialista, trovando quindi in

    46 Cfr. N . Labanca, In marcia verso A dua, cit.; A. Sbacchi, Il colonia­ lismo italiano in Etiopia, cit. 47 Cfr. Nicola Labanca, l i amministrazione coloniale fascista. Stato, po­ litica e società, in A. Del Boca, M. Legnani, M. G. Rossi (a cura di), Il regime fascista, cit.; Guido Melis, Storia della pubblica am ministrazione, Bologna, Il Mulino, 1995; Id., I funzionari coloniali (1919-1924), in Fonti e problem i del­ la politica coloniale italiana, cit.; Giovanna Tosatti, Le carte d i un funzionario del Ministero delle colonie: L uigi Pintor, in F onti e problem i della politica co­ loniale italiana, cit. 48 Cfr. A. Torre e al., La politica estera italiana, cit.

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    ciò un punto forte di coincidenza con il fascismo49. Né, d’al­ tro canto, si può affermare che la predisposizione africana del­ la carriera fosse non un fine ma solo un mezzo, strumentale cioè al mantenimento di quel rapporto con le potenze liberali, e segnatamente con Londra, tradizionale nella politica estera dell’Italia prefascista e che sino al 1914 doveva bilanciare in Africa il triplicismo italiano in Europa (e che dopo il Patto di Londra doveva incarnare il senso del riallineamento diploma­ tico generale operato da Roma). Per quanto concerne lo speci­ fico coloniale ciò non può essere affermato: ché anzi in mate­ ria africana, soprattutto nei confronti della Francia ma in più di un’occasione decisiva anche verso la Gran Bretagna, furono proprio gli Esteri a spingere sino in fondo le richieste o la po­ litica provocatoria dell’Italia fascista50. E non con lo scopo di trovare un accordo generale a partire dall’Africa, quanto con la conseguenza di inasprire i dissensi. Anche l’obiezione sul fatto che le Colonie non riuscisse­ ro ad avere la meglio sull’autonomia della periferia e dei go­ vernatori non ha consistenza molto maggiore. In effetti, in una prima fase tale autonomia cercò di resistere: e sopravvisse con­ traddittoriamente anche a causa della politica mussoliniana di inviare in colonia come governatori personaggi di un certo ri­ lievo del regime (da Cesare Maria De Vecchi a Emilio De Bono, da Badoglio a Graziani) i quali - in diretto contatto col “duce” - finivano per accentuare i tratti della vecchia autono­ mia complicandoli con le faide personalistiche all’interno del regime. Ma su tutto ciò prevalse la tempestiva limitazione di tale autonomia ad opera dell’azione centralizzatrice del regi­ me, delle misure anche poliziesche dello stesso Mussolini nei confronti dei lontani governatori, della notevole crescita e bu­ rocratizzazione del ministero delle Colonie e in generale del controllo dello Stato (non minore rilievo ebbero Te misure di controllo delle spese). Tutto ciò non sradicò una certa residua autonomia della periferia nei confronti della madrepatria, pe­ raltro consustanziale allo stesso fatto coloniale, né potè svelle­ re le condizioni di impunità per cui le colonie erano ancora spesso ricettacolo di avventurieri e faccendieri (per quanto ora non di rado legati a doppio filo al regime): fatto nuovo fu però

    49 Cfr. Legatus, Vita diplomatica di Salvatore Contarini, cit.; R. Guariglia, Ricordi, cit. 50 Cfr. E. D i Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana, cit.; F. D ’Amoja, Declino e prima crisi dell’Europa di Versailles, cit.

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    l’impegno del fascismo in una brusca e consistente opera di centralizzazione 51. Delineato un po’ il quadro in cui Mussolini, gli Esteri e le Colonie si trovarono ad operare, dovrebbero comprendersi meglio il senso e la portata delle principali scelte di politica co­ loniale. Già nei primissimi mesi di governo, gli Esteri guidati da Mussolini ripresero a sollecitare con forza ulteriori mandati o comunque ampliamenti dei territori coloniali. L’insistenza e la costanza con cui tale richiesta veniva avanzata potevano sem­ brare un elemento di continuità con il vicino passato liberale, ma con il trascorrere del tempo assunsero sempre più un ca­ rattere di discontinuità con il generale atteggiamento di tutte le grandi potenze (eccettuata naturalmente la Germania, che comunque poneva il suo revisionismo coloniale in fondo ad ogni graduatoria di interessi nazionali). Le rivendicazioni de­ gli ambienti colonialisti dell’Italia liberale durante e dopo la conferenza di Versailles erano di volta in volta riprese, accen­ tuando ora questo ora quell’altro obiettivo: a parte le sempli­ ci correzioni di confini, il regime tornò a chiedere la Somalia britannica e Gibuti (ambedue territori incedibili, per Londra e Parigi), la Siria e il Libano, le ex colonie tedesche del Togo o del Camerun, che avrebbero dovuto permettere il tanto pro­ pagandato sbocco dell’Italia sugli Oceani (Atlantico o Indiano), definito dagli stessi propagandisti del regime Etiopia a parte - «la più grande aspirazione dell’espansioni­ smo italiano»52. Chamberlain, che pure non era maldisposto verso Mussolini e il fascismo italiano, notò nel corso delle trat­ tative per il trattato anglo-italiano per l’Etiopia del 1925 che «in tali materie [coloniali] gli italiani sono pronti a spalanca­ re le proprie bocche in una maniera in cui nessun coccodrillo può far loro concorrenza»53. Di quelle richieste italiane, diplomatiche nei primi anni venti, minacciose man mano che si scivolava verso gli anni trenta, poco o niente era seriamente realizzabile. I timori che dalle richieste il regime passasse alla manu militari si accreb­ bero. Ma anche quando tali richieste rimasero sul piano delle trattative sarebbe miope sottovalutare il fatto che Roma, po­

    51 Cfr. Franco Fucci, Em ilio De Bono il maresciallo fucilato, Milano, Mursia, 1989; e L. Federzoni, 1927, cit. 52 Cfr. J. L. Miege, L’imperialismo coloniale italiano, cit., p. 168. 53 Cfr. G. Carocci, La politica estera d ell’Italia fascista, cit.

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    nendole in sede di contenzioso bilaterale piuttosto che multilaterale-societario, di fatto contribuì a svalutare l’istituto gine­ vrino. Significativa era peraltro una crescente incomprensione di alcuni caratteri nuovi della fase che era andata aprendosi, incomprensione evidente nei giudizi personali di Mussolini o collettivi dei funzionari addetti agli Esteri verso le prime forme di nazionalismo dei popoli soggetti, in India o nello stesso Egitto. N é andrebbe dimenticato che in un primo momento (perseverando per la verità in un atteggiamento che già era sta­ to proprio dei governi liberali) la diplomazia dei governi Mussolini aveva pensato di contrastare la richiesta, in sé legit­ tima, dello stato etiopico di essere ammesso alla Società delle Nazioni: e che se poi vi acconsentì lo fece solo per considera­ zioni strumentali e obtorto collo per evitare un pericoloso iso­ lamento diplomatico. Il volto bellicista del fascismo fu però presto colto con apprensione anche alla periferia: l’Etiopia si allarmò già nella primavera 1923 per un bellicoso programma del fascio eritreo, l’Egitto temette che l’Italia intendesse risol­ vere manu militari i problemi confinari della Libia. L’impresa di Corfu, insomma, non fu per loro un fulmine a ciel sereno. Il fatto che dopo l’estate del 1923 alcuni di questi timori andarono raffreddandosi, pur senza dileguarsi, si dovette al difficile processo di stabilizzazione interna del fascismo. Fra l’omicidio Matteotti e il discorso del gennaio 1925 l’Italia non aveva la forza di mettere a soqquadro lo status quo internazio­ nale. Malgrado ciò le continue richieste di revisione degli as­ setti coloniali, per quanto rimaste per ora allo stato verbale, co­ stituirono una ragione più che sufficiente per Londra - minac­ ciata in alcuni segmenti vitali della linea di comunicazione ver­ so i suoi imperi vecchi (Egitto, India) e nuovi (Medio Oriente) - per accedere ad alcuni accordi limitati e settoriali con Roma fra 1924 e 1925. Fu così che l’Italia fascista ottenne i suoi pri­ mi “successi” diplomatici coloniali: l’annessione dell’Oltregiuba alla Somalia (14 luglio 1924) e la cessione dell’oasi di Giarabub fra Libia ed Egitto (6 dicembre 1925). E da notare comunque, dal punto di vista formale-diplomatico, che tali sbandierati successi non vennero all’Italia in quanto «equi compensi» e quindi legati all’art. 13 del Patto di Londra, ma come elargizioni unilaterali o come accordi bilaterali. Più rilevante, per quanto ancora virtuale, fu la concessione da parte britannica di una sorta di riconoscimento del prevalen­ te interesse economico italiano in Etiopia. Il relativo trattato (14 dicembre 1925) rappresentò per molti versi un buon esempio della politica coloniale fascista di questo primo periodo. In pri­ mo luogo, esso non era affatto conseguenza di un’ispirazione 108

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    “pacifica” del fascismo: nella travagliata vita dell’Etiopia di quella fase, anzi, Mussolini e le Colonie avevano sperato non po­ co in uno “sfasciamento”, cioè in una rottura dell’unità impe^ riale, del regno del nevus. Ma le aspettative italiane si erano pre­ sto rivelate senza fondamento. In secondo luogo il trattato inso­ spettì l’Etiopia che vi vide un prodromo di aggressione, indi­ spettì la Francia, cui il testo dell’accordo fu reso noto solo dopo la sua stipula, rompendo così lo spirito del trattato tripartito del 1906; rese buoni servigi a Londra, che in base ad esso potè con­ tinuare ad utilizzare le acque del Nilo, essenziali per Sudan ed Egitto; infiammò le speranze dei circoli colonialisti italiani più avanzati, che vi videro un ulteriore passo avanti verso la vendet­ ta di Adua; ma soprattutto non portò alcun vantaggio immedia­ to e concreto all’Italia, che non aveva i mezzi e le forze per tra­ durre in pratica quella prevalenza tanto ricercata. In terzo ed ul­ timo luogo, pur in tanta inconcludenza pratica, sarebbe errato non vedere nel trattato del 1925 una primissima pietra italiana sulla via di Addis Abeba. Con il 1925 e soprattutto con il 1926 il fascismo, ormai sulla via del regime, apriva una seconda fase anche sul fronte della politica coloniale. Il 1926, fu scritto, avrebbe dovuto es­ sere l’«anno napoleonico» dell’Italia pure sul fronte africano. Nella prima visita di un presidente del Consiglio in una colo­ nia, Mussolini rivendicò minacciosamente il proprio diritto al­ l’espansione, anche su basi demografiche: il colonialismo ita­ liano era «una manifestazione di potenza del popolo che da Roma ripete le proprie origini e porta il littorio trionfante ed immortale di Roma sulle rive del mare africano [...]. Nessuno può fermare il destino e soprattutto può spezzare la nostra in­ crollabile volontà». E si tenga presente che, più o meno negli stessi mesi, il generale Giuseppe Malladra andava ad ispezio­ nare lo stato degli apprestamenti militari in Eritrea, verso l’Etiopia54. Allontanato ormai Contarmi dagli Esteri, il nuovo sottosegretario Grandi - in tema di mandati e di ingerenze ne­ gli affari coloniali altrui - impartì la direttiva di «dar noia con­ tinuamente» alle potenze coloniali liberali in sede di Società delle Nazioni55: e fu anche a causa di questa impostazione che

    54 Cfr. Giorgio Rochat, La missione Malladra e la responsabilità della preparazione militare in Africa orientale nel 1926, «LI Risorgimento», 1970, n. 3. 55 Cfr. Paolo Nello, Dino Grandi. La formazione d i un leader fascista, Bologna, Il Mulino, 1987; Id., Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio, Bologna, Il Mulino, 1993; e Id., Introduzione. Profilo d i Dino Grandi, in D. Grandi, La politica estera dell’Italia, cit.

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    non si giunse con la Francia ad alcun accomodamento nel con­ tenzioso diplomatico-africano pari a quello ottenuto negli an­ ni precedenti con Londra56. Mussolini, dal canto suo, perse­ verava nella sua incomprensione dei termini nuovi posti dalle rivendicazioni delle nuove élites nazionaliste dei paesi colonia­ li, vedendo anche in quelle più moderate «atti ai xenofobia e bolscevismo». La nuova fase, più chiaramente revisionista, della politi­ ca estera inaugurata dal regime a livello generale si traduceva, nello specifico coloniale, in un incremento dei timori interna­ zionali. Non solo per quel tanto di moniti lanciati all’opinio­ ne pubblica estera dagli ambienti dell’esilio antifascista, ma anche e soprattutto per i più roboanti messaggi della stampa fascista, si diffuse a livello internazionale una certa inquietu­ dine circa i veri fini della politica coloniale mussoliniana. Per tacitarla, lo stesso ministro degli Esteri fu costretto a smenti­ re le voci che si diffondevano all’estero circa propositi aggres­ sivi verso l’Etiopia e la proclamazione dell’impero coloniale italiano. L’inquietudine nelle cancellerie delle grandi potenze aumentava talvolta anche per azioni intraprendenti, e destabi­ lizzanti, promosse dalla periferia (ma avallate da Roma) come quella che il governatore dell’Eritrea aveva avviato per una politica attiva italiana nell’allora confusa situazione della pe­ nisola arabica, favorendo lo Yemen nelle sue velleitarie aspi­ razioni contro la filobritannica Arabia Saudita e, di fatto, con­ tro la stessa Aden. Per non dire poi di iniziative ancora più spregiudicate direttamente guidate da Roma e, per quanto ir­ realizzabili, considerate inquietanti dal punto di vista delle al­ tre metropoli coloniali. Né, infine, andrebbe sottovalutato che fu proprio in questo torno di anni che nella politica coloniale def regime, grazie anche all’apporto degli ex nazionalisti, an­ darono precisandosi - per quanto possibile - certi miraggi tanto utopici quanto destabilizzanti: fra tutti quello dell’ac­ cesso diretto dell’Italia mussoliniana «agli Oceani». Non si può dire che in tutta questa fase si ottenessero ri­ sultati concreti maggiori che nella prima, a parte il crescendo di allarme presso le cancellerie internazionali. È vero che si tratta-

    56 Per la comprensione dell’opera di Grandi e della libertà con cui rie­ labora i propri ricordi cfr. D ino Grandi, I l m io paese. Ricordi autobiografici, a cura di Renzo D e Felice, Bologna, Il Mulino, 1985; Dino Grandi racconta l'evitabile “Asse". M emorie raccolte e presentate da Gianfranco Bianchi, Milano, Jaca Book, 1984; e soprattutto M. Knox, I testi “aggiustati" dei di­ scorsi segreti d i Grandi, cit.

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    va di un allarme su un fronte secondario rispetto a quello euro­ peo (riparazioni tedesche, Balcani e altro): ma proprio per que­ sto le dichiarazioni e le azioni diplomatiche del fascismo veni­ vano ad introdurre elementi di tensione e a surriscaldare teatri che altrimenti avrebbero potuto rappresentare aree di (relativa) quiete. Peraltro, sia per volontà italiana sia come dato di fatto, tali iniziative fasciste in campo coloniale venivano sempre più a legarsi, e a intrecciarsi, con altre issues di politica internaziona­ le: le rivendicazioni italiane sul Mediterraneo occidentale e per Tangeri, il problema tunisino, le questioni - periodicamente ri­ proposte - dei mandati mediorientali, le richieste del fascismo per il Mediterraneo orientale e, per questa via, persino le que­ stioni con la Turchia e per conseguenza balcaniche. Marcando una certa differenza dalla politica deH’Italia liberale, per la qua­ le lo scacchiere africano era stato collegato ma distinto da quel­ lo europeo-continentale (non foss’altro per i diversi sistemi di alleanza), l’irrequietezza coloniale del fascismo era sempre me­ no una questione marginale e finiva per riverberarsi su, e con­ dizionare, aree importanti di instabilità dell’assetto europeo di quegli anni precedenti la crisi del 1929. Dal punto di vista dei risultati concreti, dicevamo, il fasci­ smo potè ricavare ancora meno da questa nuova e più minac­ ciosa fase di “revisionismo coloniale”. L’avviata penetrazione nello Yemen si sarebbe rivelata un fatto congiunturale. Più rile­ vante, semmai, l’accordo italo-etiopico (2 agosto 1928): che for­ malmente però, nonostante tanta bellicosa propaganda del regi­ me, era un trattato di amicizia e di commercio, cioè di pace, ed era accompagnato da una convenzione che avrebbe dovuto mi­ rare alla costruzione di una camionabile verso l’interno dell’Etiopia57. Intanto, in tale fase di attesa, nel complesso non aveva torto chi sosteneva che le minacce revisioniste ebbero scarsi effetti concreti (in particolare i bellicosi discorsi di Mussolini a Tripoli nel 1926 spinsero la Turchia e l’Iraq a raffor­ zare un legame di garanzia con Londra e a concedere alla Gran Bretagna Io sfruttamento dei pozzi petroliferi di Mossul, pre­ giudicando ulteriormente qualsiasi azione fascista in una delle aree più redditizie di tutto lo scacchiere del Medio Oriente)58.

    57 Cfr. Giuseppe Vedovato, G li accordi italo-etiopici dell’agosto 1928, Firenze, Poligrafico toscano, 1956 (Biblioteca della «Rivista di studi politici internazionali»), 58 Cfr. Legatus, Vita diplomatica di Salvatore Contarmi, cit.; Matteo Pizzigallo, L’A G IP degli anni ruggenti (1926-1932), Milano, Giuffrè, 1984 e Id., La “politica estera” dell'A G IP (1933-1940), Milano, Giuffrè, 1992.

    Ili

    CAPITOLO III

    In tali condizioni non del tutto soddisfacenti si trovò la politica coloniale del regime verso il 1929. E dopo di allora tut­ to divenne ancora più difficile. Se nel primo decennio succes­ sivo alla fine della Grande Guerra l’assetto dei mandati e più in generale dell’oltremare era in fondo ancora recente, e quin­ di forse passibile di una qualche ridiscussione, dopo la crisi del 1929 ogni madrepatria strinse ancora più fortemente a sé le proprie colonie. Ogni richiesta italiana sarebbe stata sempre più difficilmente accettata. A meno di non passare dalla diplo­ mazia alle armi.

    LO SPAZIO NUOVO DELLA PROPAGANDA

    L’impegno più consistente, ed in ogni caso la novità maggiore, il regime li stava però intanto avviando sul fronte interno del­ la politica coloniale. In questo la discontinuità rispetto al pas­ sato dell’Italia liberale avrebbe finito per essere netta. Vari fu­ rono i risultati, dal dare forza e ruolo agli ambienti espansioni­ sti all’insidiare e sopravanzare i “fiancheggiatori”, soprattutto ex nazionalisti, al diffondere a livello di massa ideologie chia­ ramente colonialiste 59. Converrà intanto ricordare che per tutto il periodo libe­ rale i circoli colonialisti, sebbene via via più influenti soprat­ tutto dopo la campagna di Libia, erano sempre rimasti al­ quanto ristretti. Il maggiore loro organismo, l’Istituto colonia­ le italiano, non superava i quattromila iscritti60, mentre - già nell’anteguerra - i soci delle consimili organizzazioni inglesi o francesi (ma persino di quelle tedesche dell’anteguerra) si con­ tavano a centinaia di migliaia. Lo scarto non era imputabile so­ lo alla diversità dei sistemi politici o della natura dei diversi or­ ganismi coloniali, ma proprio ad un differente radicamento del mito dell’oltremare e dell’Africa nei diversi contesti nazionali. Per il fascismo, sin dal 1922, questo era inaccettabile. Mentre il ministro nazionalista Federzoni riorientava la politica coloniale, e poi con ancor maggiore impegno durante

    59 Sugli aspetti ideologici insistono fra gli altri Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori, 1989; e Angelo Del Boca, L ’Africa nella coscienza degli italiani, Roma-Bari, Laterza, 1992. 60 Cfr. Carla Ghezzi, F onti d i documentazione e d i ricerca per la cono­ scenza dell’Africa: dall’Istituto coloniale italiano a ll’Istituto italo-africano, «Studi piacentini», 1990, n. 7.

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    la fase più esplicitamente revisionista, Mussolini e in genere il partito iniziarono a preoccuparsi di una diffusione, di una vol­ garizzazione, in breve della propaganda delle ideologie colonialiste a livello di massa. Punto cruciale fu in questo la stam­ pa di propaganda, cui si diede via via maggior rilievo. Non ca­ sualmente, nello stesso “napoleonico” 1926, per ordine di Mussolini si svolse in tutto il paese una Giornata coloniale che vide impegnate tutte le strutture del regime61. Più o meno pa­ rallelamente fu dato impulso ad una serie continua di manife­ stazioni temporanee, di mostre, di conferenze ed altre iniziati­ ve tese a rafforzare la “coscienza coloniale” degli italiani. L’idea era tutt’altro che originale, se confrontata con quanto da anni accadeva o stava organizzandosi in Gran Bretagna o in Francia (ad esempio con l’inglese Empire day o con la parigina Exposition coloniale internationale del 1931). Ma era la prima volta che gli italiani assistevano a qualcosa del genere. Tali iniziative propagandistiche, in una situazione in cui l’impero coloniale italiano era, in sostanza, quantitativa­ mente ancora quello dell’anteguerra liberale, potevano appari­ re sproporzionate agli occhi dei più critici. Ad alcuni che, co­ me il nazionalista Federzoni, erano convinti che la politica co­ loniale si facesse attraverso le cancellerie diplomatiche e le conquiste militari, sembrarono persino uno spreco di bilan­ c i62. In realtà la percezione fascista dell’importanza della mo­ bilitazione del consenso delle masse in un sistema totalitario ebbe maggiore rilevanza di queste critiche. Non è possibile ripercorrere qui i contenuti e le ideologie del vasto programma d’azione per fa “coscienza coloniale” de­ gli italiani. E però necessario indicare almeno alcuni punti chiave dell’azione fascista. Il primo forse potrebbe essere indi­ viduato nel fatto che il moltiplicarsi delle occasioni di propa­ ganda valorizzava e allo stesso tempo creava quella falange di convinti agitatori colonialisti che avrebbero rappresentato l’«intellettualità funzionarla» coloniale, non importa se di me­ dio o mediocre livello, che sola in sede locale avrebbe garanti­ to la ripetizione e l’amplificazione del programma colonialista del governo e del regime. Il rilievo assunto dalle colonie e in genere dal mito dell’oltremare nelle celebrazioni del decenna­

    61 Cfr. Nicola Labanca, Riabilitare, o vendicare, Adua? Storici militari nella preparazione della campagna d ’Etiopia, in A. D el Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, cit. 62 Cfr. L. Federzoni, 1927, cit.

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    le del fascismo, nel 1932, non sarebbe stato pensabile nel 1922 né sarebbe stato possibile senza questa opera precedente di creazione e di fascistizzazione degli ambienti coloniali. Parallelamente va notato il significativo destino della stampa coloniale, che conobbe in questi anni uno spettacolare aumento di testate e di tiratura ma anche una fascistizzazione crescente, operata attraverso un controllo e una centralizzazio­ ne sempre più accentuati. Lentamente, attraverso snodi troppo complessi per essere qui riassunti, e anche scontrandosi dura­ mente con il “vecchio’’ mondo coloniale, il regime procedette alla fascistizzazione della propaganda coloniale. Non è un caso, ad esempio, se dalla vecchia «Tribuna coloniale» del 1919 fos­ se nata nel 1923 la nazionalista «Idea coloniale», ma che a que­ sta si fosse poi sostituita una spregiudicata e oltranzista «Azione coloniale» nel 1933. Lo stesso organo del tradizionale Istituto coloniale italiano, la «Rivista coloniale», fu costretto per un pe­ riodo al silenzio, a favore di altri organi coloniali nel frattempo nati e sviluppatisi con personale nuovo, più giovane e più vici­ no al regime, prima di ricomparire nel 1928, ormai allineata. Stampa colonialista di vario tipo e per vari tipi di pubbli­ co, manifestazioni e mostre colonimi, allestimento o riorganiz­ zazione di musei antropologici o comunque africani, letteratu­ ra di consumo ispirata all’oltremare, revisione della manuali­ stica scolastica con ampliamento degli spazi retorici legati al nazionalismo italiano e, al suo interno, all’espansione oltrema­ re della Terza Roma: tutto questo veniva organizzandosi, per varie spinte e con diversi esiti, già nel clima politico degli anni venti. Certo, molte iniziative erano ancora sperimentali e ab­ bozzate, e - soprattutto - a tutta questa massa di propaganda mancava ancora un rigido coordinamento che non fosse quel­ lo informale e “spontaneo” dei circoli colonialisti stessi: rigido coordinamento che fu funzionante di fatto solo a partire dalla guerra d’Etiopia. Eppure, rispetto all’Italia liberale, si era di fronte all’origine di un fatto nuovo. Per quanto concerne i temi più ricorrenti e quelli caratte­ ristici della propaganda coloniale fascista si dovrebbe far riferi­ mento ad esempio al concetto di “impero”, all’idea di romanità, all’immagine dell’espansionismo proletario e non economico, sino all’irrigidirsi delle concezioni più vietamente razziste. Non è qui possibile fare un tale ravvicinato esame, né seguire l’arti­ colazione di tali temi a seconda dei vari media (con uno studio dall’interno che, peraltro, a tutt’oggi manca), né analizzare nel dettaglio quanto essi innovavano rispetto alla tradizione colo­ niale liberale. Si osserverà solo, da un punto di vista compara­ to, che - pur tenendo conto della relativa stabilità degli imma­ 114

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    ginari e degli stereotipi - quand’anche si riscontrasse nella pro­ paganda fascista una continuità di temi e di stilemi rispetto a quella dell’età liberale, ad esempio nella rappresentazione del­ l’indigeno, non andrebbe dimenticato che - dopo la Grande Guerra, dopo la ventata rivoluzionaria del dopoguerra, mentre andavano consolidandosi movimenti nazionalisti anticoloniali ripetere le immagini circolanti dell’età dello scramble for Africa assumeva un carattere oggettivamente reazionario. Ed è diffici­ le negare che, alla lontana, questo fosse al tempo stesso uno dei segnali e dei germi di una mentalità razzista, che avrebbe in­ fluenzato ambienti assai vasti63. A tutt’oggi scarseggiano, su questo aspetto centrale del co­ lonialismo fascista, studi preparatori, e taluni fra i pochi dispo­ nibili sono utilizzabili con grandi cautele: ispirati come sono ad una minimizzazione dell’alìignamento anche in Italia delle ideo­ logie razzistiche, ad un’enfatizzazione del loro versante “spiri­ tualistico” (oggi diremmo culturalista e differenzialista) nei con­ fronti di quello biologico, in una parola a quella che ci appare una sottovalutazione del razzismo anche coloniale fascista64. D ’altro canto il tema è in sé particolarmente insidioso, da af­ frontare senza generalizzazioni (che pure avrebbero qualche fondamento, come quello per cui ogni colonialismo è intriso di principio di sfruttamento e separazione razziale) e con la neces­ saria finezza (opportuno, ad esempio, sarebbe cogliere non so­ lo la continuità quanto soprattutto le specificità rispetto alla precedente storia del colonialismo dell’Italia liberale). Caveat metodologici a parte, però, dovrebbe essere intuitivo notare co­ me l’insistenza propria dell’ideologia del fascismo sin dalle ori­ gini sulla ineguaglianza, sulla guerra, sulle gerarchie e sul domi­ nio (fra stati come fra razze) non possa non aver avuto qualche conseguenza sui comportamenti e sulle prassi coloniali. E al­ trettanto intuitivamente si dovrebbe ricavare che l’enfasi pro­ pria del regime sui temi e sulla prospettiva dell’impero doveva sfociare in una esaltazione dei comportamenti coloniali, anche

    63 Cfr. per un primo sguardo Luigi Preti, 1 m iti dell’impero e della raz­ za nell’Italia degli anni Trenta, Roma, Opere nuove, 1965. Da tenere presen­ te, a contrario, Giuliano Procacci, Dalla parte dell’Etiopia. L’aggressione ita­ liana vista dai m ovim enti anticolonialisti d’Asia, d ‘Africa, d ’America, Milano, Feltrinelli, 1984. 64 Cfr. Renzo D e Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1988 [ l aed. 1961]; e Luigi Goglia, N ote sul razzismo colo­ niale fascista, «Storia contemporanea», XIX, 1988, n. 6. Ma cfr. ora anche Nicola Labanca, Il razzismo coloniale italiano, in A. Burgio (a cura di), N el nom e della razza, cit.

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    di quelli più vieti, e in una loro riproposizione positiva alla na­ zione. La stessa ideologia romanistica, che toglieva spazio ad una qualsiasi autonomia positiva dei popoli africani, foss’anche solo folklorica, non dovrebbe forse essere vista come facilitante o preparatoria per un atteggiamento razzista? E quale argine poteva venire a tutto ciò da una scienza etnografica o antropologica che in Italia era eccezionalmente debole e povera di espe­ rienze coloniali? E non potrebbe essere visto tutto questo come un elemento di incubazione, di costruzione, di “invenzione” del ben più codificato razzismo istituzionale delle leggi emanate do­ po la campagna d’Etiopia (leggi razziste coloniali che, converrà ricordarlo, cronologicamente precedono quelle antisemite)? Non potendo affrontare il tema con l’ampiezza necessaria, si potrà qui ricordare solo un episodio, per quanto significati­ vo. Un osservatore come Ettore Conti, acuto sebbene non spe­ cialista (ma conosceva comunque direttamente la situazione della Libia, dove era proprietario di una concessione nella qua­ le ogni tanto si recava), aveva notato assai per tempo che il fa­ scismo aveva impostato il rapporto coloniale - come qui si è già ricordato - con un misto di centralismo, di disprezzo per i co­ lonizzati e di violenza: mentre invece all’estero non mancavano, dopo la Grande Guerra e dopo la ventata rivoluzionaria e na­ zionalista del dopoguerra, importanti segni di novità. Gli era bastato un solo viaggio in India, alla fine del 1928, per annota­ re stupito nel suo taccuino quanta diversità c’era in quella libe­ rale colonia inglese rispetto al dominio italiano. Pur partendo da presupposti tradizionali secondo cui «l’India de [ve] agli in­ glesi gran parte della sua civilizzazione sociale e industriale», e dicendosi affatto contrario ai «moti violenti», ammetteva che laggiù «la forza inglese ha tutelato le varie razze» tramite «il più assoluto rispetto delle tradizioni, dei costumi, delle religioni, persino dei pregiudizi locali»: il suo pensiero non poteva non andare per contrasto almeno alla Libia quando scriveva tra lo stupito e l’ammirato che «gli inglesi non si sono mai irrigiditi in formule conservatrici: da quando non era permesso neppure ad un Rajah di salire su una vettura di prima classe (e si tratta so­ lamente di qualche decina di anni or sono) ad oggi, in cui mol­ ti indiani coprono le più alte cariche, e non è raro il caso di ve­ derli, come li ho veduti, di fianco al Governatore e perfino al Viceré nelle cerimonie e nei pranzi ufficiali, si è fatto molto cammino»65. Niente di questo Conti vedeva nel colonialismo

    65 Cfr. Ettore Conti, D al taccuino d i un borghese, Bologna, Il Mulino, 1986 [ l a ed. Milano, Garzanti, 1946],

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    italiano. E allora, guardando al colonialismo fascista non solo per quello che ha fatto ma anche per quello che non ha fatto mentre altri facevano, non converrà forse riflettere sul rilievo e sulle conseguenze che - prima ancora della codificazione di una legislazione razziale - può aver avuto un quindicennio di propaganda e di pratica coloniale del fascismo? In ogni caso, tutto lo sforzo nuovo prodotto dal regime sul terreno della propaganda non significa affatto che il fasci­ smo riuscì nel giro di poco tempo a creare una “coscienza co­ loniale” degli italiani. Lo testimoniano, fra l’altro, le cifre più avanti riferite sul popolamento dell’oltremare italiano: quan­ do, fra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, il regime andò codificando la cosiddetta politica demografica per le co­ lonie, la situazione non era ancora poi così diversa rispetto agli ultimi tempi dell’Italia liberale. Lo testimoniano le ricorrenti lamentele ospitate dalla stampa colonialista sull’ancora insuffi­ ciente determinazione della nazione a porsi «sul piano dell’im­ pero», come più tardi si sarebbe scritto: lamentele che non possono interpretarsi solo come autolegittimazione di un ceto di propagandisti coloniali. D ’altro canto, in un quarantennio l’Italia liberale non aveva ottenuto risultati di molto migliori. Fatto sta che, fra la fine degli anni venti e l’inizio dei tren­ ta, nel tutto sommato breve periodo di un decennio, il regime fascista marcò un’altra discontinuità forte in questo settore de­ licato della mobilitazione delle coscienze e potè guardare con una qualche soddisfazione alla sua opera di propaganda colo­ niale all’interno. Senza questa preparazione, il “consenso” del 1935-1936 non sarebbe spiegabile, se non in termini appunto di “miracolo”. L’allestimento di un sistema di propaganda in grado di fornire, al momento opportuno, “immagini coordina­ te” 66 stava ottenendo risultati migliori rispetto all’azione di­ plomatica e politica lanciata contro le altre potenze coloniali, un’azione sempre revisionista, ora meno ora più destabilizzan­ te, ma che almeno sino al 1929 aveva fruttato ben poco in ter­ mini di domìni africani.

    LA RICONQUISTA E LE COLONIE

    Il triennio fra 1929 e 1932, dal punto di vista della politica co­ loniale, non può essere visto del tutto slegato dal triennio suc­

    66 Cfr. A. Mignemi (a cura di), Im m agine coordinata per un impero, cit.

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    cessivo, che è poi quello precedente la campagna d’Etiopia. E questo anche se, fra i due, il primo fu quello in cui sicura­ mente la dimensione dell’oltremare ebbe un rilievo più ap­ partato, tale da dare l’impressione di un’assenza. Fu invece in esso che andarono maturando importanti premesse. Poco ormai il fascismo poteva attendersi dalle trattative diplomatiche con le cancellerie delle altre potenze coloniali: un p o’ perché, come si è visto, le richieste italiane erano an­ date raaicalizzandosi, un po’ perché a Londra erano tornati al governo i laburisti, un po’ infine perché con Parigi Mussolini non voleva raggiungere alcun accordo, nonostante un’impo­ stazione francese per certi versi perfino conciliante del con­ tenzioso coloniale con l’Italia. A ciò si aggiunga che lo svilup­ po della Grande Crisi, prima implicitamente a partire dal 1929 e poi esplicitamente fra il 1931 e il 1932, spinse la Gran Bretagna e la Francia, come già ricordato, a stringere sempre più a sé i propri territori oltremare. D i fronte ad una crisi ge­ nerale che - dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Austria alla Germania - sembrava senza un’apprezzabile soluzione, i domìni coloniali davano l’impressione a chi ne disponesse di poter funzionare, in un ritorno quasi mercantilistico, da riso­ lutivo sbocco per la temuta sovrapproduzione e per gli inve­ stimenti di capitali, nonché da fonte di materie prime a mi­ glior mercato. Da qui lo Statuto di Westminster del 1931 che ridefinì i rapporti fra Londra e i dominions-, da qui le misure protezionistiche francesi (la cui introduzione peraltro veniva a coincidere con una fase di forti investimenti a scopi di valo­ rizzazione dalla madrepatria e specificamente dallo Stato cen­ trale verso Youtremer). Si delineava insomma un complesso di misure che avrebbero reso le maggiori potenze coloniali (oltre che allarmate dalle rivendicazioni fasciste) strutturalmente sempre più impermeabili a qualsiasi ipotesi di revisione del­ l’assetto internazionale oltremare. A tutto ciò andrebbe aggiunto ancora quanto stava ac­ cadendo e quanto sarebbe accaduto in uno scacchiere che avrebbe assunto una centralità sempre più marcata per il re­ gime: l’Etiopia. Qui la situazione locale si era rimessa in m o­ vimento e anche qui il tempo non giocava a favore del fasci­ smo. Ras Tafari, dal 1928 negus Hauè Selassiè, alla morte del­ l’imperatrice si era fatto incoronare negusa negast e aveva av­ viato un programma di centralizzazione e di riforme tenden­ te a ridurre il potere delle province. Ne conseguivano fra l’al­ tro sia l’erosione di qualsiasi possibilità di un’azione “perife­ rica” dall’esterno, cioè di un disgregamento della compagine unitaria che facesse leva sui ras regionali, sia la totale identi118

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    ficazione della figura del negus con l’unità della Grande Etiopia67. Non si può dire che dentro il regime non vi fosse consa­ pevolezza talora anche precoce del mutamento in corso nello scenario internazionale. Già nell’ottobre 1930 Grandi, in una cruciale relazione al Gran Consiglio, faceva «una constatazio­ ne, anzitutto, elementare e ovvia», cioè che «il mondo è in­ quieto», pensando non solo alla Grande Crisi ma anche alla «inquietudine morale, politica, sociale, economica» dei vasti imperi coloniali (ad esempio in India «fra l’antico feudalesimo teocratico delle case buddiste e le nuove borghesie»). Di fron­ te a tale scenario, però, Grandi non proponeva il fascismo co­ me polo di stabilizzazione ma, al contrario, come agente di ul­ teriore destabilizzazione. «Il Mar Rosso è il grande quadrivio geografico, politico, economico che collega l ’Asia coll’Africa [...]. Il Mar Rosso è la grande via deH’impero britannico [...]. L’Africa rimane l’ansia segreta e fedele della Nazione italiana». Se queste erano alcune delle grandi questioni strategiche colo­ niali, la risposta dell’ideologia e della politica del fascismo do­ veva risolversi - nelle parole del “pacifico” Grandi - nella pre­ parazione alla guerra: «Un’Italia forte non può rimanere per sempre aggrappata, come siamo oggi in Eritrea, all’estremo ci­ glio dell’altopiano etiopico [...]. La nostra Nazione ha una missione di civiltà da assolvere nel continente nero, così come la nostra generazione ha un problema da risolvere: il problema coloniale». Anche se ancora si parlava di cloroformizzare l’Etiopia, non possono essere sottovalutate né l’allusione im­ plicita né la chiusa, tanto retorica quanto minacciosa, con i suoi riferimenti agli obiettivi di là dal Mareb «che stanno a in­ dicarci, quali sentinelle insonni, i nostri morti gloriosi e giam­ mai dimenticati di Adua, Macallè e di Amba Adagi» 68. Tutto ciò, mentre indicava quanto poco di pacifico ci fos­ se nelle aspirazioni revisionistiche coloniali del fascismo, si fe­ ce chiaro solo con il passare del tempo. E questo avvenne non senza contraddizioni persino fra le forze più attive su questo versante della politica del regime: gli ambienti colonialisti, quei settori militari che credevano nella missione africana delle for­ ze armate, gli ambienti legati alle esportazioni e agli affari con

    67 Cfr. Harold G. Marcus, Haile Sellassie I, the formative years, 18921936, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1975; D ino Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di Renzo D e Felice, Bologna, Il Mulino, 1983. 68 Cfr. D. Grandi, La politica estera dell’Italia, cit., voi. I, p. 278.

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    le colonie e con l’Africa più in generale, coloro che - pochi o molti che fossero - avevano sempre visto nell’emigrazione tem­ poranea verso il Continente Nero una risorsa, e in prospettiva tutti quegli italiani che la propaganda del regime stava cercan­ do di convincere del prossimo avvento di un nuovo impero “romano”. Mentre le contraddizioni andavano addensandosi, la politica fascista marcò alcuni obiettivi risultati all’interno delle sue colonie. Più che in termini di valorizzazione di quei territori, si trattava di successi legati ancora al loro dominio e agli sforzi militari per ottenerlo. La “riconquista” della Somalia e della Libia - la prima ul­ timata di fatto già fra il 1927 e il 1928, la seconda che potè dir­ si compiuta (soprattutto per la Cirenaica) nel 1931 - fu in que­ sta fase, precedente l’aggressione all’Etiopia, il fatto caratteriz­ zante e più rilevante della politica coloniale fascista. Nella lontana Somalia, nella quale anche nel momento della massima espansione la presenza diretta italiana sarebbe sempre rimasta assai modesta (nel 1940 erano meno di 1.700 gli italiani residenti), l’Italia liberale aveva lasciato in eredità una situazione assai debole. Il controllo coloniale era da sem­ pre limitato alle principali città della costa e a poche zone del­ l’interno. A favore degli italiani giocava il fatto che la grande conflittualità anticoloniale somala si era localizzata nel confi­ nante Somaliland britannico, gettato nella instabilità dai se­ guaci del mullah per tutto il primo ventennio del secolo. Per quanto le entrate coloniali e gli interessi economici in genere legati alla Somalia fossero scarsi, il fascismo dimostrò l’inten­ zione di rivalutare il peso del più lontano e del più povero fra i suoi domìni africani, investendovi in termini di bilancio e di immagine. N ell’ottobre 1923 vi destinò il quadrumviro De Vecchi, mentre nell’estate del 1925 un ex nazionalista come Corrado Zoli - che era stato a Fiume - avrebbe preso posses­ so dell’Oltregiuba. De Vecchi intanto aveva iniziato una costo­ sa e impegnativa, anche se per qualche tempo inconcludente, opera di “riconquista” dell’interno, in particolare dei territori di Obbia, del Nogal e della Migiurtinia 69. Quando nel 1928 la­ sciava la colonia, alla fine del ciclo di operazioni avviato sin dal 1924 e condotto non senza spietatezze, D e Vecchi offriva a Roma una militarizzazione ed un controllo più diretti e diffusi

    69 Cfr. Cesare Maria D e Vecchi di Val Cismon, II Quadrumviro sco­ modo. Il vero Mussolini nelle memorie del più monarchico dei fascisti, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia, 1983.

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    sul territorio coloniale. In esso, nel frattempo, per diretto inte­ ressamento del duca degli Abruzzi, aveva preso corpo lo sfrut­ tamento del cotone e poi delle banane: ma la principale spesa coloniale negli anni di D e Vecchi fu quella legata alle spedi­ zioni militari di “riconquista”. A Roma vi fu chi ironizzò sui te­ legrammi “strombettanti” e sui comunicati guerrieri che De Vecchi soleva indirizzare verso l’Italia70: ma il fascismo e la sua propaganda si riconobbero in quella politica che, fra l’altro, in­ tendeva presentarsi come un taglio netto con il passato dell’Italia liberale. Un taglio ancora più reciso il regime lo avrebbe dato in Libia. Qui i progetti di consolidamento e di estensione del po­ tere coloniale risalivano a ben prima dell’avvento del fascismo, ma i mezzi e gli esiti voluti dal regime differirono radicalmen­ te. Sbarcate le prime truppe nel 1911-1912 ed esteso nei due anni successivi il controllo verso l’interno, gli italiani erano di nuovo arretrati alla costa fra il 1914 e il 1915 di fronte alla pressione libica in Tripolitania come in Cirenaica. Fatto im­ portante, anche per evitare i costi finanziari e politici di una grande prova di forza, i governi liberali del primo dopoguerra fra giugno e dicembre 1919 concessero alle due colonie mediterranee una carta costituzionale (gli “Statuti”) che aboliva la sudditanza coloniale, prevedeva una cittadinanza speciale ita­ liana libica, istituiva un parlamento locale rappresentativo, ga­ rantiva diritti civili e politici. Si trattava di una delle espressio­ ni formalmente più avanzate elaborate da una potenza colo­ niale nei confronti della grande ondata rivoluzionaria dei po­ poli soggetti del dopoguerra. Ma quella politica (perfezionata dagli accordi di er-Regima e Bu Mariam, rispettivamente del 25 ottobre 1920 e del 20 ottobre 1921) fu sabotata da parte ita­ liana e rifiutata da parte araba: di fronte alle critiche virulente di nazionalisti, coloniali e militari, i governi liberali si decisero per il ritorno alla politica delle armi. Fu così che il ministro delle Colonie Giovanni Amendola patrocinò il passaggio dai toni conciliatori degli Statuti alla politica della pressione mili­ tare, auspicata dal nuovo governatore Volpi, poi di Misurata71. L’avvento del fascismo aveva quindi trovato in Libia un programma di riconquista già avviato. Il rigetto della politica degli Statuti fu da parte dei primi governi Mussolini ancor più generale, esplicito e immediato. Il ministro Federzoni si di­

    70 Cfr. L. Federzoni, 1927, cit. 71 Cfr. C. Filesi, G iovanni Amendola, ministro delle Colonie, cit.

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    stinse in questa nuova politica e insistette a più riprese nel ri­ lievo anche simbolico della loro abrogazione, che - di fatto im­ mediata - venne formalizzata più tardi. Tale indirizzo trovò nella politica di riconquista militare della colonia la propria naturale esplicazione. L’intervenuta an­ nessione dell’oasi di Giarabub dall’Egitto poteva aiutare dalla parte della Cirenaica, nell’illusione che il sostegno alla resi­ stenza antitaliana di quella regione provenisse dall’esterno: ma le sue radici erano invece tutte interne alla colonia. Il succes­ sore di Volpi, il governatore D e Bono, fra il 1925 e il 1928 ave­ va lanciato vari cicli operativi, con risultati anche importanti (l’estensione verso sud del controllo italiano, la sutura fra Tripolitania e Cirenaica, la marcia verso il 29° parallelo), ma sempre parziali. In tale congiuntura era stata affinata anche una nuova tattica militare, fatta di piccoli reparti di fanteria, in parte indigena, ma dotati di mezzi moderni come motoveicoli e radio (per il contatto fra reparti e con l’aeronautica): una tat­ tica adatta ad operazioni in regioni desertiche contro avversa­ ri sfuggevoli, quali le bande della resistenza anticoloniale, e pronta ad azioni estremamente dure, ai limiti dell’efferatezza, nei confronti della popolazione che quelle bande sosteneva (compresi i bombardamenti a gas)72. Il costo delle spedizioni militari, le oscillazioni nella de­ terminazione di raggiungere un risultato definitivo, la forza della resistenza anticoloniale tripolitana e cirenaica scandirono i tempi della riconquista. Tra il 1927 e il 1928, in piena fase re­ visionistica e con Federzoni tornato alle Colonie, il regime de­ cise di procedere alla “riconquista” totale della Libia, con ogni mezzo: traduceva questa politica il minaccioso bando ai libici emanato all’arrivo in colonia dal governatore Badoglio: «Se obbligato, la guerra la farò con sistemi e mezzi potenti, che [sic] di essi rimarrà il ricordo [...]. Distruggerò tutto, uomini e cose». Significative anche le parole usate un anno e mezzo più tardi - quando la resistenza locale era già stata fiaccata in Tripolitania ma non ancora in Cirenaica, alla vigilia cioè del lancio della fase più cruenta della “riconquista”, con D e Bono ora ministro alle Colonie e Mussolini che seguiva con interes­ se la situazione libica - con le quali Badoglio specificò a Graziani il senso dell’operazione finale: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra forma­

    72 Cfr. Giorgio Rochat, L e guerre coloniali, in Id. (a cura di), La storio­ grafia militare italiana negli ultim i venti anni, Milano, Franco Angeli, 1985.

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    zioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa [...] anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica»73. La Cirenaica, soprattutto nella zona del Gebel, interme­ dia fra la fascia costiera e quella meridionale desertica, era an­ cora da “pacificare”. Anche se il Senusso si era allontanato in Egitto, la resistenza guidata da Omar al-Mukhtar aveva man­ tenuto il favore della popolazione, soprattutto del Gebel, in buona parte nomade o seminomade. Fallita un’ennesima tre­ gua, nel 1928 il regime decise di passare ad una politica capa­ ce di offrire una soluzione completa. La popolazione del Gebel venne deportata e concentrata verso la fascia costiera della Sirtica e del Bengasino, mentre un reticolato di circa 260 km veniva steso dagli italiani al confine fra Cirenaica ed Egitto (per evitare sconfinamenti): le formazioni armate della resi­ stenza anticoloniale vennero così a trovarsi private del loro na­ turale sostegno. Non fu quindi per caso che nel settembre 1931 Omar al-Mukhtar fu catturato, sottoposto ad un proces­ so farsa e giustiziato sulla pubblica piazza. Di durezza inaudi­ ta era stata la scelta della deportazione, che costrinse popola­ zioni nomadi a bibliche migrazioni coatte, ad una sedentariz­ zazione forzata, alla perdita dei nove decimi del bestiame, ad una acculturazione coloniale obbligata (sensazione fecero i “campi ragazzi”). La popolazione cirenaica - le percentuali possono apparire imprecise ma sono eloquenti - decrebbe ne­ gli anni dei campi cu concentramento di quasi un terzo: una quota difficilmente precisabile riuscì ad evacuare (verso l’Egitto, il deserto, la Tripolitania), ma la maggior parte fu ster­ minata. Gli ultimi campi furono sciolti solo nel 1934. Nonostante la censura che avvolse tutta l’operazione, la crudeltà della repressione non poteva rimanere celata. L’opinione pubblica del mondo arabo fu percorsa da fremiti di indignazione e il fascismo fu da allora marchiato come il bru­ tale oppressore della Senussia. Segni di perplessità vennero an­ che da parte occidentale. Con u 1932, la riconquista della Libia era quindi stata ottenuta: ma a carissimo prezzo. Una quota di questo prezzo, particolarmente grave, il fa­ scismo la pagò anche su un punto tutto sommato secondario

    73 Cfr. Giorgio Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31), in Enzo Santarelli e al., Omar A l-M ukhtar e la riconquista fascista della Libia, Milano, Marzorati, 1981, p. 81 e pp. 116-117.

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    della sua iniziativa politica africana e più in generale coloniale, ma sul quale di recente è stata attratta l’attenzione degli stu­ diosi: la cosiddetta politica islamica, o araba. Come ha ricono­ sciuto chi più di altri se ne è occupato, in verità questa politi­ ca di attenzione e di infiltrazione o comunque di ricerca di un qualche accreditamento del fascismo italiano presso i movi­ menti nazionalisti islamici o più precisamente arabi mantenne sino al 1940 un ruolo del tutto secondario nella strategia poli­ tica del “duce”: solo dopo quella data la guerra dichiarata all’Inghilterra spinse a cercarvi - peraltro invano - una leva per la destabilizzazione dall’interno di quei possedimenti coloniali britannici in Medio Oriente che in quel momento funzionava­ no da grande retrovia per lo sforzo militare antitaliano74. Ciononostante, già prima di quella data, le velleità arabe del fa­ scismo rivestirono un ruolo di un qualche rilievo nella propa­ ganda del regime, sino - per fare solo un esempio - alle teatrali messe in scena di Mussolini che nel marzo 1937 a Tripoli su un destriero bianco riceve la “spada dell’Islam”. Il fascismo, come molti altri movimenti politici, da tem­ po e anche da prima della presa del potere aveva cercato un contatto con la realtà di quei movimenti nazionalisti. Ma il vecchio antiarabismo, l’ideologia colonialista ed espansioni­ sta, il rapporto stretto con la Chiesa cattolica (già prima e poi dopo il Concordato del 1929) lasciavano ben pochi spazi per un sincero avvicinamento. Un tono “islamico”, per quanto del tutto strumentale, aveva assunto la politica attiva nell’area del Mar Rosso patrocinata dal governatore dell’Eritrea Jacopo Gasparini. Ma un po’ le reazioni britanniche, un po’ la scarsa affidabilità dell’alleato yemenita (lo Yemen veniva definito «il più chiuso ed arretrato fra tutti gli stati arabi»75), un p o’ la so­ stanziale debolezza dal lato economico della penetrazione ita­ liana nella penisola arabica e più in generale nel Medio Oriente avevano fatto isterilire anche quella «piccola leva an­ tibritannica». Il ripiegamento dell’ondata rivoluzionaria anticoloniale dopo il 1925 (che la costrinse a cercare appoggi in ogni dire­ zione), le convulsioni dell’area in seguito alla crisi del 1929, il

    74 Cfr. R. D e Felice, Il fascismo e FOriente, cit. Ma già prima cfr. Carlo Gotti Porcinari, Rapporti italo-arabi (1902-1930). Dai docum enti d i Enrico lnsabato, Roma, Esp, 1965. 75 Cfr. Rosaria Quartararo, Rom a tra Londra e Berlino. La politica este­ ra fascista dal 1930 al 1940, Roma, Bonacci, 1980; Legatus, Vita diplomatica di Salvatore Contarmi, cit.

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    fallimento sostanziale delle iniziative diplomatiche per ottene­ re nuovi mandati (dall’Africa al Medio Oriente), la spregiudi­ catezza di funzionari e rappresentanti del fascismo, furono tut­ ti fattori che moltiplicarono - mentre il regime esaltava sempre più la propria inclinazione revisionistica - le occasioni per que­ sta politica araba. Tale tipica politica destabilizzante, da “gua­ statori” dell’ordine coloniale esistente nei territori controllati da francesi o inglesi, a partire dai primissimi anni trenta trovò molteplici espressioni: da certe esposizioni della Fiera del Levante ai viaggi organizzati di giovani palestinesi in Italia, dalla strumentale esaltazione dellTslam agli incontri con per­ sonalità di rilievo dei movimenti nazionalisti arabi, dall’orga­ nizzazione di appositi strumenti di propaganda (si pensi alla stampa o alle emissioni in lingua araba, come quelle di Radio Bari)76 sino ai discorsi pubblici mussoliniani (si ricorda qui quello su Asia-Africa del 1934). Tutto questo sforzo però, co­ me è stato riconosciuto, non aveva obiettivi precisi: «gli inte­ ressi oscillavano», «si evitavano scelte che legassero la politica arabica ad obiettivi fissi», «gli obiettivi furono molteplici e re­ ciprocamente intercambiabili»77. Non dovrebbe sorprendere, quindi, se questa politica ottenne solo risultati assai modesti. Non solo per la maturità dei movimenti nazionalisti arabi, né solo per i malumori che certi filoarabismi (sia pure solo strumentali) erano destinati a sollevare in buona parte dei responsabili della politica colo­ niale (si ricorderà qui quello, autorevole, di Federzoni), né ed era forse l’elemento determinante - per il carattere assolu­ tamente secondario della presenza generale (economica so­ prattutto) dell’Italia in quelle aree: carattere che faceva imme­ diatamente scoprire l’attitudine «meramente strumentale ed opportunistica» dei tentativi del regime. I suoi risultati furo­ no modesti anche perché - ed è questa la ragione per cui qui si è introdotto il tema - devastante e permanente era stata presso l’opinione pubblica araba la ricaduta della politica di riconquista della Libia, in particolare della repressione della resistenza cirenaica. Altre potenze coloniali, dalla Francia alla Spagna alla stessa Inghilterra, avevano fronteggiato, anche duramente, movimenti anticoloniali nei propri possedimenti.

    76 Cfr. Daniel Grange, Structure et technique d ’une propagande. Les emissions arahes de Radio Bari, «Relations internationales», 1974-1975; e Id., La propagande arabe de Radio Bari (1937-39), «Relations internationales», 1976. 77 Cfr. R. Quartararo, Roma tra Londra e Berlino, cit.

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    Ma nessuna era ricorsa all’infamia e allo sterminio come nei campi di concentramento cirenaici. Si può concordare quindi con la valutazione per cui «la repressione dei Senussi rimase tuttavia viva nel ricordo del mondo arabo»78 (e ad essa, più tardi, si sarebbero aggiunte le notizie circa i metodi impiegati nella conquista dell’Etiopia). In una parola la politica araba del fascismo - sorta di fatto al tempo della riconquista - pro­ prio per questo nasceva già morta. La politica di riconquista provocò inoltre, altro carattere importante della politica coloniale fascista, la destabilizzazione dell’assetto sociale dei territori coloniali e in particolare l’inde­ bolimento delle gerarchie tradizionali. Il colonialismo dell’Italia liberale si era presentato, da un punto di vista dottrinale, favo­ revole al mantenimento delle gerarchie politiche e sociali loca­ li. Ma la debolezza del colonialismo dell’ultima delle grandi po­ tenze aveva lasciato adito ad una grande varietà di soluzioni nel tempo e nello spazio, tanto da colonia a colonia quanto all’in­ terno di ogni colonia: una varietà che andava dal lasciare intat­ te le gerarchie dei capi tradizionali, a condizione ovviamente che riconoscessero il nuovo potere coloniale italiano, all’elimi­ nazione violenta dei capi autoctoni, passando per il lungo con­ tinuum di casi in cui resistenza e collaborazione delle società tradizionali interagivano con il nuovo potere bianco. Questo tratto di politica indigena si sposava con un assetto ammini­ strativo che sotto l’Italia liberale prevedeva in linea di diritto la maggiore uniformità e centralizzazione possibili, ma che in pra­ tica sfociava nella più lata autonomia ai governatori e alla mac­ china amministrativa coloniale. Il fascismo statalista e accentratore, tendenzialmente to­ talitario, non poteva accettare tale stato di fatto. Presero così avvio una politica rivolta alle colonie che tese costantemente alla restrizione dei poteri della periferia rispetto a quelli del centro e, parallelamente, una pofitica indigena che sempre più puntò a minare l’autorità dei capi autoctoni, accrescendone la subordinazione al potere bianco. Una politica amministrativa di centralizzazione e una politica indigena mirante al diretto dominio divennero così caratteristiche del colonialismo fasci­ sta 79. In verità, di per sé, il versante amministrativo di quella politica poteva anche assumere aspetti di razionalizzazione (si

    78 Cfr. R. Quartararo, Rom a tra Londra e Berlino, cit. 79 Cfr. Luigi Goglia, Sulla politica coloniale fascista, «Storia contem­ poranea», XIX, 1988, n. 1.

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    pensi ai precoci tentativi di Volpi di controllare le spese colo­ niali locali chiedendo a Federzoni di subordinarle al benepla­ cito delle Finanze): ma nei confronti delle popolazioni locali e dei loro capi la politica indigena del fascismo assumeva carat­ teri pesantemente oppressivi e razzisti. E appena il caso di far rilevare quanto questo centralismo violento andasse in contro­ tendenza rispetto al duplice movimento di concessione-con­ quista di poteri e di autonomie avviato, come si è detto, dopo la Grande Guerra e poi con più forza dopo il 1929 dai rap­ presentanti del potere imperiale e dalle gerarchie autoctone in tutto il mondo colonizzato. Un elemento originale, in questa politica amministrativa, fu rappresentato dalla presenza nelle colonie di organizzazio­ ni esplicitamente fasciste e in particolare di sedi e rappresen­ tanti del Partito nazionale fascista, che ben presto si posero al centro di disordini e in conflitto con i poteri del governatore. Guardando a tali attriti dalla prospettiva della dinamica fra partito e Stato tipica di tutta la storia del regime fascista, si d o­ vrà osservare come in campo coloniale caratterizzante doveva essere il fatto che non di rado al vertice del potere locale sta­ va un rappresentante esplicito del regime (si pensi a De Vecchi, De Bono, Riccardo Astuto dei Lucchesi, Teruzzi, Graziani ecc.): in colonia, quindi, lo “stato” si presentava for­ malmente ed esteriormente già fascistizzato, almeno nei suoi vertici. Peculiare, sempre in tale prospettiva, l’influenza che in colonia il partito aveva sui mezzi di comunicazione locale. Tutto il capitolo però delle organizzazioni fasciste all’oltrema­ re è ancora da studiare, specie dal punto di vista dell’effettiva composizione sociale del partito e della sua rappresentatività rispetto alla più vasta comunità dei coloni italiani. In definitiva, fra bruschi centralismi e violente riconqui­ ste, la politica coloniale fascista a cavallo fra anni venti e tren­ ta avrebbe anche potuto, dal proprio punto di vista, compia­ cersi dell’effettiva estensione del dominio coloniale italiano (non importa qui a quale prezzo e con quali contraddizioni). Dal punto di vista della valorizzazione ancora assai poco era stato fatto, ma le colonie erano - sotto il fascismo - sottoposte ad un controllo più rigido. A vedere tutto ciò nella prospetti­ va del colonialismo dell’Italia liberale, sarebbe stato naturale scorgervi dei veri e propri successi. D ’altro canto, anche solo in uno sguardo d’insieme alle sue realizzazioni coloniali, quel possibile entusiasmo era desti­ nato a smorzarsi. Non solo al 1932, ma ancora alla metà degli anni trenta le cifre generali del panorama coloniale non avreb­ bero segnato apprezzabili inversioni di tendenza rispetto alla

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    situazione fotografata agli inizi degli anni venti. Certo erano stati avviati taluni sviluppi in alcune aree e per determinati prodotti. Ma la crisi del 1929, che aveva portato con sé un de­ prezzamento generale delle merci d’oltremare, aveva inciso sui domìni italiani non meno che sui possedimenti coloniali di tut­ te le potenze europee. Gli investimenti, pochi e localizzati, fat­ ti dall’Italia non avevano ancora avuto il tempo - salvo casi iso­ lati - di invertire la situazione di partenza. Così alla vigilia del­ l’aggressione all’Etiopia, alla metà degli anni trenta (i dati che seguono si riferiscono agli esercizi 1933-1934), le entrate della Colonia Eritrea erano sì triplicate ma ciò significava in valori assoluti fermarsi ancora a quota 25 milioni (di cui 16 di diritti doganali), mentre il movimento generale del principale istitu­ to di credito locale era addirittura diminuito rispetto ad un de­ cennio avanti. Più interessante la crescita della Somalia, dovu­ ta principalmente ai primi frutti delle piantagioni di cotone e banane, che vedeva crescere le proprie entrate (a 28 milioni, di cui 18 di diritti doganali), raddoppiare il suo export (sino a 30 milioni, di cui 21 verso l’Italia) e triplicare in valori correnti il movimento generale economico: anche se le importazioni complessive erano ancora ferme alla cifra di un decennio pri­ ma. Anche in Libia, la “perla” mediterranea del colonialismo italiano, quella che persino al tempo dell’Africa orientale ita­ liana sarà definita da Mussolini il «bastione dell’Impero», le ci­ fre dell’«Annuario coloniale italiano» non parevano offrire molti motivi per gioire. Le entrate coloniali erano rimaste qua­ si ferme al livello già raggiunto nel decennio precedente, anche se era più che raddoppiata l’entrata legata ai diritti doganali. Anche il movimento economico quale risultava dai conti dei maggiori istituti di credito non dava particolari segni di cresci­ ta. Il movimento commerciale (soprattutto le importazioni: ché l ’export aveva marcato una performance lievemente miglio­ re) non solo non era cresciuto ma anzi era diminuito: di circa un decimo, in Tripolitania come in Cirenaica. Le cifre ufficiali dell’Istituto coloniale italiano possono essere certo passibili di correzioni: intanto sulla loro base è legittimo trarre la conclu­ sione di uno stato economico generale delle colonie - dopo più di un decennio di fascismo - nel migliore dei casi stazionario, rispetto però ad uno stato di partenza molto debole quale era l’eredità lasciata dall’Italia liberale. Un po’ per la propria ideologia, un po’ per le contraddi­ zioni aperte dal divario fra le forze interne che premevano per un’espansione e quelle internazionali che soprattutto dopo il 1929 riducevano gli spazi per una qualsiasi pacifica espansio­ ne coloniale italiana, il regime fascista non poteva accontentar­ 128

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    si di tale stato di fatto. Alla scadenza delle manifestazioni per il decennale del fascismo, pur essendo stata completata la fase di “riconquista”, l’impero promesso e cercato aal regime era ancora assai lontano.

    VERSO L’ETIO PIA

    Le celebrazioni del decennale del 1932, e più in generale i pri­ mi anni trenta, coincisero con una radicale riformulazione de­ gli spazi d’azione e del carattere stesso del regime, ormai sulla via della “totalitarizzazione”. Tale trasformazione trovò un ri­ flesso e allo stesso tempo un potente acceleratore proprio sul terreno della politica coloniale, che da allora andò incammi­ nandosi verso l’avventura in Etiopia. Con essa vennero alla su­ perficie gran parte delle caratteristiche dell’imperialismo fasci­ sta che, isolatamente, avevano operato negli anni venti: e poi nei primi anni trenta. A indurre il fascismo in direzione dell’Etiopia avevano cospirato vari elementi a diversi livelli fra loro collegati. A li­ vello internazionale, l’allontanarsi del regime dall’orbita in­ glese e statunitense, il rilievo sempre maggiore assunto dalla Germania (dalla sua politica interna, dai suoi progressi inter­ nazionali, dai rapporti con la sua economia) per la politica di Mussolini, le difficoltà incontrate lungo l’altra tradizionale di­ rezione dell’imperialismo italiano, cioè l’area balcanica-danubiana, spinsero il regime a dare un rilievo maggiore all’Africa e quindi alla politica coloniale nell’ambito della politica este­ ra. Che vi fossero spazi per colpi “audaci” e che la Società del­ le Nazioni non riuscisse né a prevenirli né a reprimerli, il “du­ ce” aveva potuto riscontrarlo con soddisfazione al più tardi al tempo dell’invasione giapponese della Manciuria (settembre 1931). A livello interno premevano su Mussolini, che peraltro dal 1932 aveva nuovamente assunto la guida degli Esteri, le di­ verse forze che il regime aveva nel frattempo creato o alimen­ tato e irrobustito. In primis c’erano i circoli politici colonialisti ed espansionisti, che all’inizio degli anni trenta venivano a tro­ varsi con un ruolo ed una forza che mai avevano avuto nella storia d’Italia. Ad essi si affiancavano importanti settori della carriera diplomatica, che già negli anni precedenti aveva visto con favore la prospettiva africana. Li accompagnavano i mili­ tari: sia quella frazione delle forze armate che operava nelle co­ lonie ed aveva condotto la riconquista, sia più in generale i ver­ tici, su cui gravava la minaccia della fascistizzazione e che te129

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    mevano - anche il ministero della Guerra era stato di nuovo assunto, nel 1933, direttamente da Mussolini - di perdere il controllo di importanti missioni. Si potrebbe aggiungere fra ta­ li forze anche la Corona, per quanto i margini trazione di Vittorio Emanuele III con Mussolini negli anni trenta fossero incomparabilmente inferiori rispetto a quelli di Umberto I con Crispi negli anni della prima guerra d’Africa. Tuttavia, anche se sembra che il monarca non fosse d’accordo nel 1932 su col­ pi di mano in Africa, non è possibile invece negare che in più di un’occasione (ad esempio quando Federzoni reggeva il di­ castero delle Colonie) aveva dimostrato grande interesse verso la prospettiva africana del fascismo e che in genere, nella pri­ ma metà degli anni trenta, i viaggi reali in Eritrea, in Somalia, in Egitto avevano rappresentato per il regime significative ini­ ziative politiche e altrettanto importanti occasioni di propa­ ganda. Ma non meno di questi fattori, dopo il 1929 e ancor più negli anni seguenti, giocò probabilmente un ruolo importante (sul quale mancano però a tutt’oggi studi) il complesso degli interessi economici: quelli che tradizionalmente operavano verso l’Africa e le colonie e con essi tutti quelli - dalle società di navigazione ai costruttori di autoveicoli, dai tessili agli agra­ ri - che la crisi interna stava spingendo alla ricerca di profitti in qualsiasi avventura, purché coperta dall’intervento statale. Iljerzo livello da tenere presente è, infatti, quello econo­ mico. È stato più volte ricordato che, dopo un decennio di propaganda coloniale, il regime difficilmente poteva giustifica­ re l’assenza dell’impero. Ma più che le parole poterono i fatti. E questi, dopo il 1929, evidenziavano tutte le difficoltà dell’e­ conomia italiana: dalla disoccupazione, che nel 1931 si era tri­ plicata (e quadruplicata nel 1932) rispetto al 1929, al commer­ cio estero che nel 1932 era la metà rispetto a quello del 1929 (nel 1935 sarebbe sceso ad un terzo). Nel frattempo, mentre nel 1931 era caduta la Kredit Anstalt viennese, la crisi andava aprendo voragini in alcuni pilastri finanziari italiani: situazione cui il regime rispose con la politica dei grandi salvataggi che, fu osservato a posteriori, sarebbe venuta a costare non meno di tutta la (peraltro costosissima) campagna d’Etiopia. Fatto rile­ vante, dal punto di vista della politica d’espansione e della for­ za d’urto guadagnata dall’imperialismo italiano, la dinamica della crisi e della risposta del regime sfociarono in una drasti­ ca compenetrazione fra Stato ed affari, fra politica ed econo­ mia, evidente in istituti come Imi, Iri e altri. E vero che, nel 1933, l’economia italiana aveva conosciuto una prima ripresa: ma lo spettro della recessione nel 1934 era tutt’altro che ban­ dito e questo dovette bastare a far percepire alle principali for­ 130

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    ze economiche - ormai meno lontane e non più isolate, se non proprio già “totalitarizzate” e compenetrate nello Stato -ii van­ taggi della politica d’espansione decisa da Mussolini. L’ap­ poggio di tali forze era peraltro indispensabile se, com e si ve­ drà, il “duce” aveva nel frattempo maturato la scelta di non combattere per l’Etiopia una guerra coloniale limitata, ma una vera e propria guerra nazionale e fascista. Visto in tale prospettiva, l’imperialismo coloniale del re­ gime fascista alla metà degli anni trenta perde un poco l’im­ magine invalsa di “arcaicità”, o di imperialismo premoderno proteso alla sola colonizzazione demografica 80: immagine che, quand’anche legittima per gli anni venti, non è comunque ade­ guata a descrivere la potenza e la complessità di interessi mes­ si in gioco dal fascismo una volta incamminatosi sulla via dell’Etiopia. E vero che permanevano divari fra parole e fatti, o fra forze e mezzi, o persino fra una scelta decisiva come l’ag­ gressione all’Etiopia e l’assenza di un’esatta valutazione della sua possibile influenza sulla posizione internazionale del­ l’Italia: ma ciò non diminuisce la complessità e la modernità delle forze messe in campo dall’imperialismo coloniale del fa­ scismo alla metà degli anni trenta. Riguardo ai tempi dell’aggressione, anticipando quanto si andrà dicendo, è evidente che per la sua stessa intrinseca rile­ vanza il calendario dell’impresa - sia in sé, sia per l’imposta­ zione che Mussolini finì per darle - trascendeva lo scacchiere africano-coloniale. Basterà ricordare che, oltre all’esempio giapponese in Manciuria, gli anni fra il 1931 e il 1934 furono contrappuntati dall’ascesa del nazismo e dal dispiegarsi della decisiva concorrenza del revisionismo e dell’espansionismo te­ deschi rispetto a quelli italiani81. La scelta fascista dell’aggres­ sione all’Etiopia non può non essere letta in relazione al dina­ mismo nazista, oltre che come progetto autonomo maturato al­ l’interno delle forze del regime. E stato sostenuto, per marcare la trasformazione degli obiettivi e dei mezzi scelti dal regime, che dal 1922 al 1932 il fascismo pensò prevalentemente alla Libia, mentre dal 1932 al 1939 la mira principale fu l’Etiopia 82. La formula non deve far dimenticare che quello etiopico era stato però un obiettivo da sempre presente negli ambienti coloniali e che il regime volle

    80 Cfr. G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit. 81 Cfr. Enzo Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989. 82 Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, 11 voli., Milano, Feltrinelli, 1956-1986, voi. IX, Il fascismo e le sue guerre 1922-1939.

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    conseguire a dispetto della sua difficoltà oggettiva e di ogni controindicazione diplomatica83. In ogni caso, l’aggressione all’Etiopia non fu decisa solo nel 1935 inoltrato e l’occupazio­ ne del paese africano non fu un incidente quasi casuale di im­ perialisti riluttanti84. Anche senza partire dai primordi, cioè dal desiderio di vendicare Adua, e nemmeno da meno lontano, cioè dalle in­ tenzioni già chiaramente emerse - ma sopite - fra il trattato an­ gloitaliano del 1925 e quello “di amicizia” del 1928, fra le tap­ pe principali della preparazione dell’impresa etiopica85 con­ verrà ricordare una relazione di Guariglia del 1931 in cui, da­ gli Esteri (ma sapendo di toccare corde sensibili in Mussolini, alle Colonie e altrove) si spiegava come in Africa solo l’Etiopia ormai stava di fronte al fascismo come possibilità aperta; e so­ prattutto i piani del marzo 1932 di D e Bono, dalle Colonie, per un’azione militare definitiva contro l’impero del negus. Al più tardi nel dicembre dello stesso anno, Mussolini dovette espri­ mere a D e Bono il proprio apprezzamento per quei piani, ini­ ziando ad indicare talune date (per quanto ancora lontane) e a prospettare allo stesso quadrumviro l’incarico di comando su­

    83 Per i complessi rapporti diplomatici con Gran Bretagna e Francia, nella prospettiva dell’aggressione all’Etiopia, cfr. Renato Mori, M ussolini e la conquista dell’Etiopia, Firenze, Le Monnier, 1978; nonché fra i più recenti gli studi di Paola Brundu Olla, I l equilibrio difficile. Gran Bretagna, Italia e Branda nel Mediterraneo, 1930-37, Milano, Giuffrè, 1980; Giovanni Buccianti, Verso gli accordi Mussolini-Laval. I l riavvicinamento italo-francese fra il 1931 e il 1934, Milano, Giuffrè, 1984; Francesco Lefebvre D ’Ovidio, L’intesa italo-francese del 1935 nella politica estera d i M ussolini, Roma, Tip. Aurelia, 1984; Francesco Perfetti, A lle origini degli accordi Lavai Mussolini: alcuni contatti italo-francesi del 1932 in materia coloniale, «Storia contem­ poranea», Vili, 1977, n. 4; Rosaria Quartararo, L’Italia e lo Yemen. Uno stu­ dio sulla politica d i espansione italiana n el M ar Rosso (1923-1937), «Storia contemporanea», X, 1979, n. 4-5; e, con attenzione maggiore alle questioni coloniali, Romain Rainero, La rivendicazione fa sd sta sulla Tunisia, Milano, Marzorati, 1978, e Enrico Serra, La questione italo-etiopica alla conferenza di Stresa, «Affari esteri», 34 (1977), nonché Id., Dalle trattative su l confine meridionale della Libia al baratto su ll’Etiopia, «Nuova antologia», 1980, n. 3. Sempre nella prospettiva, questa volta militare, dell’Aoi sono da tenere presenti gli studi di Fortunato Minniti, Oltre Adua. Lo sviluppo e la scelta della strategia operativa per la guerra contro l’Etiopia, «Quaderno», 1993; e Id., “Il nemico vero”. G li obiettivi dei piani d i operazione contro la Gran Bretagna nel contesto etiopico (maggio 1935-maggio 1936), «Storia contem­ poranea», xxvi, 1995, n. 4. 84 Cfr. R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I. 83 Cfr. Gianfranco Bianchi, Rivelazioni sul conflitto italo-etiopico, Milano, Ceis, 1967; G. Rochat, M ilitari e p o litid nella preparazione della cam­ pagna d'Etiopia, cit.; R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I.

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    premo della spedizione. Pur subendo forti critiche da parte di quei vertici delle forze armate che ne furono informati (criti­ che legate ai timori circa il controllo dell’intera spedizione e a quelli suscitati dal ritorno, avvenuto nel frattempo, del “duce” alla guida di tutti i ministeri militari), e per quanto più tardi riformulato da Badoglio e dal ministero della Guerra, il piano delle Colonie rimase il punto di avvio politico dell’impresa. Una riunione al vertice nel febbraio 1934 stabilì tempi e mo­ dalità più certe, benché non ancora irreversibili (e la crisi eu­ ropea della primavera-estate dovette impensierire i capi del fa­ scismo): ma che una scelta fosse stata operata lo dimostrano i primi stanziamenti, decisi nell’aprile. Da allora, stato maggio­ re e ministero della Guerra cercarono di risalire qualche posi­ zione nei confronti delle Colonie e previdero, nei loro contro­ piani, una spedizione più ingente rispetto a quella ipotizzata da D e Bono: sia in virtù di una più realistica e professionale analisi dei rischi (in ciò trovando l’accordo con Mussolini, che non poteva permettersi errori o sorprese sul campo, se davve­ ro voleva “vendicare” Adua), sia per riaffermare un primato militare sulla concorrente amministrazione coloniale. Da mag­ gio a novembre 1934 la consistenza e l’armamento delle trup­ pe italiane in Eritrea venivano raddoppiati: non fu ancora l’in­ vio massiccio di uomini cui si sarebbe giunti nel 1935-1936, ma rappresentò già un segnale chiaro per tutti (dagli etiopici all’o ­ pinione pubblica internazionale) che qualcosa andava prepa­ randosi. Nel frattempo aveva operato il meccanismo che avrebbe condotto all’incidente di frontiera di Ual Ual (5 dicembre 1934), da cui il regime avrebbe preso lo spunto per aggredire l'Etiopia nel 1935 (senza nemmeno dichiarazione di guerra). I confini co­ loniali italo-etiopici, soprattutto fra Somalia ed Etiopia, non era­ no infatti mai stati fissati e gli italiani avevano da sempre osta­ colato (persino ai tempi del trattato del 1928) e sistematicamen­ te violato i pochi accordi raggiunti. Roma aveva sempre rifiuta­ to di accettare le più che ragionevoli e pacifiche proposte di Addis Abeba per la risoluzione del contenzioso, e le indicazioni inviate direttamente dalle Colonie ai governatori e da questi ai posti di frontiera erano implicitamente aggressive 86. Fu così che, a nemmeno un mese da Ual Ual, il 30 di­ cembre 1934 Mussolini stese un suo personale promemoria ispirato ai seguenti criteri: «Il tempo lavora contro di noi [...]

    86 Cfr. Salvatore Minardi, A lle origini dell’incidente d i Ual Ual Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1990.

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    CAPITOLO III

    bisogna risolvere il problema [etiopico] il più presto possibile [...] l’obiettivo non può essere che la distruzione delle forze ar­ mate abissine e la conquista totale dell’Etiopia. L’impero non si fa altrimenti»87. Il promemoria rivelava poi che il carattere dell’impresa era mutato: non più una, pur impegnativa, spedi­ zione coloniale ma una guerra nazionale e fascista. Lo stesso De Bono, stupito, scrisse in un suo diario: «Lui [Mussolini] manderebbe giù tutto l’esercito, tutta l’aviazione e tutta la ma­ rina»88. Le operazioni sarebbero iniziate il 3 ottobre 1935: quando nel maggio 1936 il corpo di operazioni, articolato fra Eritrea e Somalia, ebbe raggiunto Addis Abeba contava circa 330.000 militari italiani, 87.000 ascari, 100.000 lavoratori ita­ liani militarizzati ed era armato fra l’altro con 10.000 mitra­ gliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 14.000 automezzi, 350 aerei89. Una parte consistente del munizionamento a gas da tempo allestito era stato già sganciato sugli etiopici. Assumendo tali dimensioni, come è stato notato, l’aggressione italiana all’Etiopia «fu la prima impresa bellica su larga scala di una potenza europea dopo la fine della prima guerra mondia­ le» 90. A tanto era arrivata la politica coloniale del regime. Sul fronte interno, all’inizio delle ostilità, il regime aveva iniziato a tirare le fila del complesso e ormai più che decenna­ le lavori o della propaganda coloniale. Che questa avesse avu­ to un effetto è induoitabile. Ciononostante, De Felice ha do­ cumentato che almeno sino ad ottobre 1935 le fonti di polizia indicavano un’opinione pubblica tutt’altro che convinta, casi di renitenza e di espatrio clandestino per sfuggire all’imbarco verso il Corno d’Africa, timori presso le forze dell’ordine di sa­ botaggi antifascisti, mentre dal canto loro i comunisti svolge­ vano una significativa opera di propaganda anticoloniale con la loro stampa clandestina91.

    87 Cit. in G. Rochat, M ilitari e politici nella preparazione della campa­ gna d'Etiopia, cit. 88 Cfr. F. Fucci, Emilio De Bono il maresciallo fucilato, cit., pp. 109 e

    m. 89 Cfr. Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia dell'esercito ita­ liano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978. 90 Cfr. Ennio D i Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 192; ma anche George Webster Baer, La guer­ ra italo-etiopica e la crisi dell’equilibrio europeo, Bari, Laterza, 1970 [ed. orig. 1967], e Id., Test case. Italy, Ethiopia, ana the League o f nations, Stanford, Hoover Institution Press, 1976. 91 Cfr. Simona Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, 19291943, Roma-Bari, Laterza, 1991; e ancora una volta R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I, p. 617.

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    POLITICA E AMMINISTRAZIONE COLONIALI DAL 1922 AL 1934

    Per concludere sul ruolo della politica coloniale nel pri­ mo quasi quindicennio del regime - e precisare alcuni punti del dibattito storiografico in merito alle origini più lontane, al­ la localizzazione e alle cause immediate dell’aggressione all’Etiopia in cui quella politica sfociò - converrà però ripor­ tare l’attenzione sul quadro strutturale generale e sulle consi­ derazioni svolte a proposito della dinamica interna alla costru­ zione della politica coloniale nel regime. Ovviamente nel 1932, come poi nel 1934-1935, Mussolini poteva scegliere92: ma la sua scelta, pur in un regime che andava facendosi totalitario, non era solo personale. Oltre alla sua attitudine, il “duce” do­ veva tenere conto delle stesse forze che il regime era andato via via rafforzando o costruendo: dai circoli coloniali ed espansio­ nisti ai militari; dalla carriera diplomatica al vasto mondo degli interessi legati all’interscambio italo-africano e più in generale a tutti quei gruppi economici che dopo il 1929 contavano, non a torto, suga affari e sulla ripresa dei profitti che un’impresa militare di una qualche consistenza avrebbe comportato; dai propagandisti di regime che da tempo andavano predicando l’impero a tutti quegli stessi italiani che erano stati bombarda­ ti dalla dilagante propaganda colonialista. Erano, queste, tutte forze che sospingevano Mussolini in Africa, verso una politica di aperta sovversione e di guerra. Non appaiono quindi fondate le interpretazioni secondo cui Mussolini avrebbe pensato ad una «grande guerra» come ad una prospettiva da lasciare in eredità per la futura genera­ zione, o secondo cui un impero africano il “duce” avrebbe po­ tuto cercarselo dovunque, ne1 Mediterraneo come nella peni­ sola arabica o nel Corno d’Africa93. In realtà l’espansionismo coloniale del fascismo, dopo il 1929-1931, di per sé comporta­ va rischi forti di destabilizzazione: la prospettiva della guerra non era evitata dal regime, ma solo subordinata alla speranza che le potenze liberali le preferissero la pace (europea). Che si andasse verso la guerra era confermato dal fatto che, per via del processo politico locale avviato da Hailè Selassiè, le possi­ bilità di successo di una politica periferica italiana erano da tempo andate scemando, mentre era ragionevolmente impen­ sabile che il negusa negast potesse accettare qualsiasi ipotesi di protettorato o di smembramento dell’unità etiopica: ipotesi

    92 Cfr. R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I. 93 Cfr. R. D e Felice, M ussolini il duce, cit., voi. I; R. Quartararo, Roma tra Londra e Berlino, cit.

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    CAPITOLO III

    che quindi erano solo coperture verbali di una politica che mi­ rava di fatto alla destabilizzazione, alla guerra e alla conquista. D'altro canto, malgrado i rischi impliciti in una simile po­ litica di destabilizzazione e di guerra in un territorio così vasto e ostico, l’Etiopia del negus rappresentava comunque per il fa­ scismo l’avversario più debole, quello nei confronti del quale la preparazione diplomatica era stata più lunga, quello dove non si sarebbe trovato immediatamente di fronte una potenza occidentale (come era invece il caso del Mediterraneo o del Medio Oriente), per non dire poi del fatto che esso era l’unico a poter far risuonare fra gli italiani corde sensibili e residui di propagande coloniali antiche e recenti. Tutto ciò non significa, che, dopo una preparazione militare avviata da tempo, alla fi­ ne Mussolini non dovette tenere conto anche dei movimenti dello scenario diplomatico europeo e in particolare dell’avallo francese e delle reazioni inglesi94: ma ammonisce da ogni so­ pravvalutazione di mosse o ipotesi (come quella di smembra­ mento dellTmpero etiopico collegata al “piano” Hoare-Laval) che facevano parte del gioco diplomatico internazionale o di quello delle parti interno al regime, piuttosto che del novero delle possibilità concrete. Una volta avviata quella macchina di guerra, non era fa­ cile per il regime frenare o invertire il senso di marcia, né so­ prattutto Mussolini lo volle. Una volta preparata e scatenata la guerra, «l’alternativa di accettare una pace di compromesso avrebbe voluto dire rimandare indietro in Italia migliaia di sol­ dati e il loro equipaggiamento. Una mossa così costosa e in­ sensata avrebbe fatto dell’Italia lo zimbello di tutto il mondo e le avrebbe inflitto un’umiliazione maggiore di quella che il re­ gime fascista poteva sopportare» 95. Nella scelta finale dell’aggressione all’Etiopia confluiro­ no quindi gran parte degli elementi costitutivi della politica co­ loniale del fascismo: revisionismo, disprezzo razzista, corposità degli interessi mobilitati. E stato affermato che la politica este­ ra del regime fascista ebbe aspetti insieme di stabilizzazione e di destabilizzazione dell’ordine internazionale96: sul versante coloniale, quelli destabilizzanti furono del tutto superiori agli altri.

    94 Cfr. R. D e Felice, Mussolini il duce, cit., voi. I. 95 Cfr. Esmonde M. Robertson, Mussolini fondatore dell’impero, Roma-Bari, Laterza, 1979. 96 Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, cit., voi. IX.

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    IV

    POLITICA E PROPAGANDA: EM IGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    U N N U O V O R U O LO D ELL’EM IG R A ZIO N E 1

    La politica dell’emigrazione era stata uno degli atti d’accusa più rilevanti che il nazionalismo italiano aveva pronunciato contro i governi liberali. La condanna dell’emigrazione come perdita di patrimonio umano nazionale e non solo di ricchez­ za era stato uno dei Leitmotiv della predicazione di Corradini. Alle origini di un pensiero coloniale italiano era stata anche l’i­ dea che, con la creazione di un impero coloniale, si potesse esportare nelle colonie l’eccesso di popolazione che non trova­ va occupazione nel territorio metropolitano: di qui la peculia­ rità di una concezione del colonialismo fondata sull’idea delle colonie di popolamento e non semplicemente di sfruttamento, che sarebbe stata ereditata e fatta propria dal fascismo e avreb­ be condizionato buona parte della sua politica estera. Politica migratoria e politica dell’impero si configurava­ no pertanto come due volti dello stesso problema. L’accento

    1 Per l’inquadramento del problema cfr. E. Sori, Lem igrazione italia­ na dall’Unità alla seconda guerra m ondiale, cit., pp. 427 sg.; Annunziata Nobile, Politica emigratoria e vicende dell’emigrazione durante il fascism o, «Il Ponte», 1974, n. 11-12.

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    CAPITOLO IV

    posto, sin dall’inizio del regime fascista, sulla tutela dell’emi­ grazione non implicava di per sé ancora una scelta imperiali­ stica. Tuttavia le difficoltà del dopoguerra e le crescenti ten­ denze protezionistiche che si affermavano più o meno dapper­ tutto a tutela dei mercati del lavoro interni ma anche sotto la pressione di preoccupazioni sociali e culturali di altra natura, oltre alle tendenze xenofobe o apertamente razziste contro i pericoli di inevitabili contaminazioni tra nazionalità diverse, favorirono anche in Italia la revisione di una prassi migratoria che in passato aveva in qualche modo alleggerito la pressione sul mercato del lavoro ma anche l’indigenza di molti che solo nelle mete dell’emigrazione avevano trovato possibilità di la­ voro e di più dignitosa esistenza. Dalla tutela dell’emigrazione il regime passò, tra il 1926 e il 1929, a una politica di forte con­ tenimento e, al limite, di proibizione dell’emigrazione, anche se lo sfogo delle migrazioni interne, che ruppero lo stereotipo di una “Italia ferma”, non era assolutamente in grado di co­ prire l’eccedenza demografica e di ridistribuire sul territorio nazionale tutto il potenziale demografico italiano2. Le direttive del 1926 fornite direttamente da Mussolini per la politica migratoria nel discorso al Senato sulla politica estera del 28 maggio3 indicavano in primo luogo il rovescia­ mento dei princìpi tradizionali in materia d’emigrazione: non )iù libertà di emigrazione indiscriminata di chiunque volesse asciare per sempre il paese, ma consenso all’emigrazione se­ lettiva, ed anche questa preferibilmente con carattere tempo­ raneo. La preoccupazione di recuperare il potenziale umano che veniva temporaneamente “prestato” all’estero costituiva la pregiudiziale politico-ideologica alla base delle nuove diretti­ ve. Il rafforzamento dell’espansione esterna dell’Italia, dal punto di vista economico ma anche culturale, doveva costitui­ re la premessa anche per l’esportazione di tecnici, ossia di per­ sonale specializzato che nei diversi settori rappresentasse un fattore in più per il prestigio e la manifestazione di potenza della nazione. La valenza politica di questa visione era osten­ tata infine nel modo più evidente dalla preoccupazione con la quale veniva messo in primo piano, tra gli obiettivi di una po­ litica nei confronti degli italiani all’estero, il loro recupero spi­ rituale nell’alveo della nazione.

    f

    2 È la problematica affrontata da Anna Treves, Le migrazioni interne nell'Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976. 3 B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXII, pp. 147-153.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    Una serie di misure organizzativo-istituzionali concorse­ ro alla realizzazione di questi obiettivi: il passaggio fondamen­ tale fu rappresentato dalla soppressione del Commissariato per l’emigrazione e dalla creazione in sua vece della Direzione generale degli italiani all’estero, alla quale fu preposto un uo­ mo di assoluta obbedienza al regime, Parini, alle dirette di­ pendenze del ministero degli Esteri. La svolta del 1926 signi­ ficò qualcosa di più della «politica di volontaria restrizione e controllo dell’emigrazione», come Mussolini la definì nel giu­ gno del 1928 al Senato. In realtà, come aveva già largamente sottolineato il sottosegretario agli Esteri Grandi sin dal maggio 1926, la filosofia che presiedeva alla riorganizzazione dei servi­ zi per la tutela del lavoro italiano all’estero era in funzione di un problema politico, quello di fare dell’emigrazione un mo­ mento di crescita e di verifica dell’orgoglio nazionale dell’Italia e della dimensione “mondiale” della sua politica. Si rispecchiavano pertanto nelle nuove direttive non sol­ tanto la preoccupazione che il lavoro italiano all’estero andas­ se a fecondare la ricchezza nazionale di altri paesi spesso con­ correnti dell’Italia stessa, cercando al caso di ottenere un ri­ torno a favore dell’economia o quanto meno del prestigio dell’Italia, ma anche le implicazioni per la politica interna (i provvedimenti di colonizzazione interna) e soprattutto per le prospettive generali della politica estera italiana. Chiusura di ratto dell’emigrazione non voleva dire, per il governo fascista, politica demografica restrittiva, ma al contrario promozione della colonizzazione interna e controllo di quella esterna. La politica dell’impero traeva spunto e nuovo alimento da questo che risultava essere un riorientamento complessivo anche del­ la politica internazionale dell’Italia. In questo contesto non erano casuali né il riordino dei fa­ sci all’estero, che a partire dal 1928 vennero inquadrati non più nelle strutture del Partito fascista, ma direttamente in quel­ le del ministero degli Esteri, né i tentativi che furono prospet­ tati, indipendentemente dalla loro valenza o realizzazione di­ plomatica, di rilanciare progetti di colonizzazione di territori extraeuropei, massime africani, che sembravano inesorabil­ mente destinati a perpetuare forme di dominazione europea. Alludiamo fra l’altro ai progetti di aggregazione «euroafrica­ na», come si sarebbe espresso uno dei tecnici del regime esper­ to di problemi dell’emigrazione, Giuseppe De Michelis. Fortemente impegnato fra l’altro in un organismo specializza­ to della Società delle Nazioni, l'Ufficio internazionale del lavo­ ro, De Michelis all’inizio degli anni trenta, nel quadro del ri­ lancio delle rivendicazioni coloniali dell’Italia, sembrava voler 139

    CAPITOLO IV

    proporre, come alternativa ad una diretta spedizione italiana, la formazione di un consorzio di potenze destinato a redistri­ buire ricchezze e fonti di materie prime esistenti in territorio africano, subordinando le popolazioni locali al primato di di­ rezione e di comando dei popoli europei. Era una affermazio­ ne indiretta ma già sufficientemente chiara di razzismo, nella misura in cui implicitamente si voleva certificare l’incapacità delle popolazioni locali di sfruttare e gestire le proprie risorse4. In questo quadro, fatto nuovo nella strumentazione della politica estera del fascismo fu l’utilizzazione di una struttura ausiliaria del Partito nazionale fascista, i fasci italiani all’estero, espressione a un tempo del tentativo del Partito di monopolize zare la rappresentanza politica integrale degli italiani emigrati, in ciò rispondendo alla pretesa totalitaria del fascismo di farsi esso ed esso solo carico della rappresentanza degli interessi na­ zionali, e dello sforzo di trasformare l’emigrazione in una com­ ponente attiva della presenza italiana nei paesi ospitanti, fa­ cendone quasi un prolungamento dell’organizzazione politica egemone all’interno dell’Italia stessa. Quando Grandi, il 31 marzo 1927, dichiarerà alla Camera dei deputati che «d’ora in avanti non vi saranno più emigranti ma soltanto italiani all’e­ stero» 5 non annuncerà soltanto una svolta programmatica del regime, suggellerà piuttosto la stabilizzazione di un processo che si era ormai già largamente compiuto. Non ritorneremo sull’evoluzione del modo di guardare agli italiani residenti all’estero e sulla concezione di un loro re­ cupero quale strumento della politica nazionale del governo fascista che, come abbiamo già sottolineato, costituisce la pre­ messa del nuovo assetto anche organizzativo con cui si volle af­ frontare il problema delle comunità italiane all’estero. Non vi è dubbio che all’origine dell’esigenza di dare uno sbocco isti­ tuzionale e organizzativo alla presenza fascista all’estero vi fos­ se in primo luogo la necessità di contrastare non solo la pro­ paganda antifascista tra i lavoratori emigrati ma anche il com­ plesso delle attività associative che si erano sviluppate all’este­ ro, specie in aree di vecchio insediamento proletario e popola­ re legate soprattutto alla tradizione socialista, come sicura­ mente in Francia e in parte anche in Belgio. Tali attività ten­

    4 Giuseppe D e Michelis era autore fra l’altro di opere dal titolo La cri­ si economica mondiale, Roma, 1930 e La corporazione nel mondo , Milano, 1934, oltre che di molti scritti su problemi dell’emigrazione. 5 Citiamo dal testo in D. Grandi, La politica estera dell’Italia , cit., voi. I, p. 132.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL'ESTERO

    devano a costituire una complessa realtà alternativa rispetto al­ la fisionomia del regime fascista in Italia, se non altro per l’af­ flusso, verificatosi nei primi anni dell’avvento del fascismo al potere, di lavoratori cacciati dalla violenza squadrista o che co­ munque si erano voluti sottrarre alla dominazione del regime. Una seconda motivazione derivò dalla necessità per il go­ verno fascista di penetrare presso l’opinione pubblica interna­ zionale e di diffondere il proprio messaggio e il proprio pro­ getto politico presso un pubblico che da una troppo forte pre­ senza di emigranti italiani era portato a identificare l’immagi­ ne dell’Italia con quella che, nel bene ( resentata dai circoli dell’emigrazione. logica del regime anche l’obiettivo di aprire, con l’accentua­ zione della propria presenza fra gli italiani all’estero, nuovi spazi all’espansione economica e commerciale dell’Italia nella fase in cui anche la riorganizzazione dei servizi del ministero degli Esteri sottolineava la tendenza all’intensificazione dei rapporti e all’ammodernamento degli strumenti. La documentazione diplomatica italiana mostra chiara­ mente il fastidio che la presenza dell’emigrazione antifascista, specie laddove questa incontrava solidarietà e consonanza di idee da parte di forze politiche e sindacali dei paesi ospiti (in Francia, in Belgio, in Austria sicuramente), dava alla pretesa del regime fascista di rappresentare totalitariamente u volto dell’Italia. Per contro, testimonianze della stampa e della me­ morialistica antifascista denunciano i tentativi degli organismi fascisti di penetrare tra le comunità immigrate e di fare opera di divisione e di proselitismo nelle loro file. Salvemini, per esempio, nelle Memorie di un fuoriuscito ricorda che «Parigi era il paradiso delle spie». Sebbene le autorità consolari si sforzassero entro certi li­ miti di tutelare i cittadini italiani senza esclusioni, con un at­ teggiamento in qualche misura di neutralità, con il passare del tempo e il consolidamento del regime divenne sempre più chiaro che larghi settori delle comunità all’estero non ne rico­ noscevano la legittimità o respingevano decisamente, disertan­ do manifestazioni patriottiche o adottando esplicite prese di posizione contro le celebrazioni ufficiali, i tentativi cfi queste autorità di farsi portavoce dell’Italia fascista ufficiale. Non va dimenticato neppure che, soprattutto nei primi anni della dominazione fascista, in una minoranza di italiani all’estero si sviluppò uno spirito squadristico analogo a quel­ lo che aveva accompagnato l’ascesa del fascismo in Italia. Ne seguirono scontri e incidenti all’interno delle stesse comunità italiane, acuti particolarmente in Francia, che sfociarono an­ 141

    CAPITOLO IV

    che in aggressioni e vie di fatto, in attentati talvolta mortali, in pestaggi, delazioni e via dicendo: episodi tutti sui quali i fasci all’estero avrebbero costruito una sorta di martirologio (43 morti 283 feriti è appunto il titolo di una pubblicazione da es­ si edita nel 1933). Una catena di provocazioni e di reazioni che in anni più avanzati sarebbe sfociata, in un contesto ulte­ riormente inasprito e con il coinvolgimento di vere e proprie strutture terroristiche, in atti di sangue come l’assassinio dei fratelli Rosselli, a Bagnoles-de l’Orne il 17 giugno 1937. Dimostrazione irrevocabile di come ormai la terra d’emigra­ zione fosse considerata apertamente teatro di uno scontro ci­ vile, che non temeva più di coinvolgere o di compromettere una sovranità straniera. In questo contesto anche organismi tradizionali della dif­ fusione della lingua e della cultura italiane all’estero come la Società Dante Alighieri finirono per assumere una fisionomia nuova. Nella misura in cui si affermava la tendenza ad attribui­ re alla Dante Alighieri anche compiti di propaganda, essa subi­ va la concorrenza dei fasci all’estero e meno netti si delineavano i confini della sua autonomia. L’opera di fascistizzazione, relati­ vamente lenta, culminò nel 1931, allorché la Dante Alighieri fu definitivamente assoggettata al controllo politico del governo e del Partito fascista. D ’altronde, del tutto pertinente ed equili­ brata appare la valutazione secondo la quale «la Dante preparò il terreno alla politica del fascismo tra gli italiani all’estero, non solo per essere divenuta lo strumento di propaganda fascista al­ l’estero attraverso la sua rete capillare di comitati, non solo per la collaborazione coi Fasci italiani all’estero, quanto per la sua politica «patriottica» e nazionale che negli anni ’20 sarebbe sta­ ta ripresa e distorta dal regime, portando di conseguenza anche alla fascistizzazione totale della struttura della Dante» 67.

    I FASCI ALL’ESTERO 7

    I primi fasci all’estero risultano fondati prima ancora della marcia su Roma - è il caso del fascio di New York ma anche di

    6 Come scrive Patrizia Salvetti, Immagine nazionale ed emigrazione nella Società “Dante Alighieri", Roma, Bonacci, 1995, p. 272. 7 Per la problematica generale dei fasci all’estero a titolo introduttivo rinviamo ai saggi di Enzo Santarelli, Intorno ai fasci italiani all’estero, ora in Id., Fascismo e neofascismo, cit., pp. 113-134 e di Emilio Gentile, La politica

    estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all’este­ ro (1920-1930), «Storia contemporanea», XXVI, 1995, n. 6, pp. 897-956.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    quelli di Londra e di Parigi e di altri ancora - ad opera di vec­ chi nazionalisti o di ex combattenti emigrati a causa della di­ soccupazione dell’immediato dopoguerra. Vennero creati al fi­ ne di sostenere l’ascesa del fascismo in Italia con l’eco della sua risonanza tra gli italiani all’estero e di rafforzare nelle comunità italiane oltreconfine il senso di appartenenza a una collettività nazionale forte, destinata a irrobustirsi ulteriormente con l’e­ spansione di un movimento dai connotati inequivocabilmente nazionalisti e concentrato sulla tutela e la valorizzazione degli interessi specificamente italiani sull’esempio della preesistente Lega italiana per la tutela degli interessi nazionali, promossa dal movimento nazionalista. Tuttavia la creazione dei fasci all’estero non era stata pre­ vista e non fu formalizzata nel primo statuto del Pnf, come del resto non sarebbe stata prevista neppure negli statuti riforma­ ti dei due decenni successivi. Per essere più precisi, essa fu for­ malizzata indirettamente, dopo l’istituzione nell’agosto del 1922 presso la segreteria del Pnf di un ufficio destinato a pro­ muovere la creazione dei fasci all’estero, nelle norme dettate dal Gran Consiglio per l’ordinamento del Pnf. Nell’ottobre del 1923, fu disposto che dal Direttorio nazionale del Pnf dipen­ dessero un segretario e un vicesegretario per i fasci all’estero e che il segretario dovesse far parte di diritto del Gran Consiglio del fascismo. Lo statuto del 1926 a sua volta disponeva che la segreteria politica del Pnf dovesse controllare la segreteria ge­ nerale dei fasci all’estero; dalla riforma del 1928 risultava escluso dal Gran Consiglio il segretario generale dei fasci all’e­ stero, che nel frattempo erano passati alle dipendenze del mi­ nistero degli Esteri. Soltanto a partire dal 1938 fu previsto che i responsabili dei fasci all’estero facessero parte del Consiglio nazionale del Pnf. U n’oscillazione di presenze e di funzioni che rispecchia dapprima la volontà di promuovere i fasci all’e­ stero e di concedere loro una qualche forma di autonomia, in un secondo momento il loro graduale assorbimento nelle strut­ ture politico-diplomatiche del regime senza particolari forme di riconoscimento autonomo. Tale successivo orientamento mirava evidentemente an­ che ad evitare gli inconvenienti provocati dallo spirito squadristico del primo e più dinamico segretario generale dei fasci all’estero (dall’ottobre del 1923 al novembre del 1926) Giuseppe Bastianini, squadrista, vicesegretario del Pnf. Bastianini fu il più tenace promotore e teorizzatore dei fasci come componente di una politica di espansione e di potenza dellltalia: gli italiani all’estero erano visti come «militi del Fascismo all’estero», come parte di «una politica estera di vi­ 143

    CAPITOLO IV

    gorose affermazioni nazionali», strumento di «patriottismo operante». Il programma di Bastianini era in un certo senso un programma offensivo, di forte politicizzazione degli italia­ ni all’estero e di altrettanto forte controllo centralizzato dalla madrepatria, destinato ad entrare in collisione diretta con l’as­ sociazionismo libero che i diversi insediamenti emigratori ave­ vano generato. Al pluralismo di questo associazionismo e alla sua apoliticità (che il più delle volte era soltanto indipenden­ za dai partiti) Bastianini contrappose una vera e propria vo­ lontà annessionistica da parte del fascio. Alla vigilia del primo e di fatto ultimo congresso dei fasci all’estero della fine di ot­ tobre del 1925 (il secondo congresso, previsto per il 1930, non si sarebbe mai tenuto), Bastianini sintetizzò il programma da lui formulato in questi tre punti essenziali: 1. Riportare gl’italiani all’estero a più stretto contatto con l’a­ nima della Patria. 2. Far cessare l’anarchia che in materia di azione all’estero esi­ ste attualmente in Italia. 3. Far conoscere l’Italia qual è, nella sua industria, nei suoi commerci, nella sua arte antica e nuova, nella sua coltura, nella sua capacità produttiva e tecnica, con metodi adatti e larghezza di mezzi quali si convengono ad un così alto scopo 8. Una delle preoccupazioni espresse dagli stessi diplomati­ ci italiani ma anche dai paesi che ospitavano insediamenti di emigranti italiani era l’elemento di disordine che i fasci all’e­ stero comportavano sia come fattore di divisione all’interno delle comunità italiane sia come pericolo di interferenza in af­ fari di paesi stranieri, ponendosi anche come prolungamento di conflitti interni italiani. La pretesa di Bastianini che i fasci non avessero obiettivi politici ma fossero mero strumento di patriottismo non era soltanto contraddetta dalla realtà, era an­ che teoricamente in contraddizione con il suo progetto di fa­ scistizzare le colonie italiane all’estero. La visione integralmen­ te fascista della gestione degli italiani all’estero, che era parte organica della prospettiva politica di Bastianini, porta ad escludere che egli potesse non rendersi conto delle conse­ guenze dell’impostazione che aveva tenuto a dare nel momen­ to in cui si era proposto l’organizzazione dei e tra i residenti fuori d’Italia. Ogni dichiarazione in senso contrario, compresa

    8 Da Giuseppe Bastianini, I fasci italiani all’estero. Il valore di un Congresso, «Gerarcnia», 1925, pp. 633-639.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL'ESTERO

    la pretesa di smentire che i fasci all’estero null’altro fossero che una diramazione del Pnf, aveva uno scopo meramente tattico, di copertura per prevenire o controbattere rimostranze di go­ verni stranieri. Anche gli studi più recenti, soprattutto quelli di Emilio Gentile, riconoscono che «la dissociazione ufficiale del Pnf era in sostanza un accorgimento machiavellico, esclusivamente rivolta a mimetizzare la vera natura politica dei fasci da­ vanti agli occhi diffidenti e sospettosi degli stranieri, e serviva anche a tacitare le proteste delle rappresentanze ufficiali dello Stato italiano, per le iniziative autonome e indipendenti della «politica estera» del partito fascista e dei suoi rappresentanti, i quali invadevano la sfera di competenza delle rappresentanze ufficiali dello Stato italiano» 9. Il congresso dei fasci all’estero della fine di ottobre del 1925 a Roma, le cui cronache e materiali sono riprodotti sul­ l’organo del movimento «Il Legionario» del 7 novembre 1925, rappresentò una sintesi significativa di quella che potremmo definire l’era Bastianini, caratterizzata anche da una certa con­ fusione tra i fasci operanti nelle colonie italiane (allora princi­ palmente in Libia) e quelli operanti in paesi stranieri. L’avere considerato le due fattispecie sotto la stessa formula politico­ organizzativa è un problema tuttora di controversa interpreta­ zione, poiché trattandosi di due contesti completamente di­ versi è difficile immaginare che anche solo la stessa propagan­ da potesse ubbidire a un unico messaggio. Chi operava in un contesto dotato di propria autonomia e propositività politica, qual era la stragrande maggioranza dei paesi che ospitavano comunità di italiani, doveva tenere conto di un insieme di fat­ tori che non rappresentavano argomento di discussione nelle colonie italiane, in cui il problema principale era il rapporto con le popolazioni locali suddite dell’Italia. D ’altra parte, se un significato si poteva attribuire alla omologazione dei due contesti esso anelava nella direzione di ribadire la politica di espansione dell’Italia: in questo senso il compito che veniva af­ fidato alle comunità di italiani all’estero era quello di farsi por­ tavoce dell’enfatizzazione dei valori nazionali, che nelle colo­ nie diventava presupposto diretto e immediato della fascistiz­ zazione. La matrice ideologica e personale dei fasci nella tradizio­ ne imperialistica del nazionalismo italiano era resa evidente dal­ l’attiva partecipazione di esponenti del radicalismo nazionalista

    9 E. Gentile, La politica estera del partito fascista, cit., p. 929.

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    CAPITOLO IV

    (tra di essi Giuseppe Preziosi, la cui «Vita italiana» va senz’al­ tro annoverata tra i precursori della propaganda e del lavoro politico rivolti agli italiani all’estero, e Orazio Pedrazzi), ma an­ che dal tono agitatorio e accusatorio soprattutto nei confronti dell’antifascismo (e per esso anche della massoneria) che carat­ terizzò parecchi degli interventi, in particolare quelli di Preziosi. Politicamente, le indicazioni di Bastianini furono svi­ luppate nella sua relazione, che ribadiva la linea della “fasci­ stizzazione” della vita degli italiani residenti all’estero. Nella ac­ cezione di Bastianini la “fascistizzazione” non era in primo luo­ go un problema di carattere organizzativo, ma consisteva nel tentativo di infondere uno spirito fascista, fatto di orgoglio na­ zionale ma anche di aggressività derivante dalla consapevolezza degli emigrati di far pur sempre parte di una collettività nazio­ nale forte, che li caricava quasi dell’oneroso compito di rappre­ sentare un’avanguardia della nazione all’estero, uno spalto avanzato di italianità. L’occasione del congresso fu importante anche per for­ nire un bilancio statistico e organizzativo dell’espansione dei fasci fuori del territorio nazionale; 90 in Europa, principal­ mente in Francia e in Belgio, una quota rilevante in Svizzera dove se ne contavano 24, una cifra che si giustificava con il gran numero di presenze di italiani ma anche con il fatto che i fasci avevano assorbito l’insieme delle vecchie colonie libere. A livello continentale il secondo posto spettava all’America (25 tra America del nord e America del sud), 20 se ne conta­ vano in Africa ma includendo le colonie italiane; 13 in Asia, 5 in Australia. In tutto poco meno di 200 fasci, una rete orga­ nizzativa non esigua cui peraltro non corrispondeva un nu­ mero di aderenti che si potesse considerare adeguato allo sfor­ zo compiuto. Poco più di 100.000 affiliati furono registrati nel 1929, nel pieno della fase di riorganizzazione dei fasci all’e ­ stero dopo l’intervento diretto di Mussolini nel 1928, come vedremo più avanti. I fasci erano allora 289 in Europa, 210 nelle due Americhe con un incremento proporzionale notevo­ le, 49 in Africa, 28 in Asia, 7 tra Australia e Nuova Zelanda. Alla fine del 1930 la cifra complessiva delle sedi organizzative era salita a 623, quella degli affiliati a circa 140.000: in rap­ porto alla cifra degli italiani emigrati, valutata generalmente intorno a dieci milioni, non sembra si trattasse di una parteci­ pazione particolarmente clamorosa. Sul finire degli anni ven­ ti la “normalizzazione” dei fasci e la supremazia accordata al­ l’azione diplomatica a detrimento dell’attivismo politico pos­ sono contribuire a spiegare il contenimento dell’espansione della rete dei fasci. All’inizio e alla metà degli anni trenta la re­ 146

    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    crudescenza dello scontro con l’antifascismo nelle comunità all’estero e l’intensificarsi della propaganda antifascista in re­ lazione prima alla guerra d’Africa e poi alla guerra di Spagna accentuarono l’atteggiamento difensivo dei fasci, sottolinean­ done il ripiegamento burocratico cui aveva aperto la strada la “normalizzazione” del 1928. Ma prima di soffermarsi su questa scadenza, che ebbe si­ curamente un significato anche periodizzante nella storia dei fasci all’estero, è opportuno accennare alle reazioni della di­ plomazia e degli stati stranieri all’attività dei fasci, perché sen­ za tenere conto di queste circostanze non è possibile valutare il nuovo statuto ad essi attribuito nel 1928. La sua emanazio­ ne non può essere infatti considerata soltanto dall’angolatura di una dinamica tutta interna al Partito fascista ma deve esse­ re vista anche come il riflesso e la presa d’atto da parte di Mussolini e della gerarchia del Pnf delle difficoltà che la pre­ senza dei fasci all’estero rischiava di creare per le relazioni in­ ternazionali dell’Italia. Se, come vedremo, la strumentalizza­ zione delle comunità italiane all’estero non venne mai meno, e anzi si sarebbe intensificata proprio negli anni trenta in con­ comitanza con l’attivazione della fase più immediatamente of­ fensiva della politica estera del regime, l’esigenza di control­ larla e di impedire che attraverso di essa si sviluppasse una sorta di politica estera parallela del Partito fascista o di una sua speciale organizzazione si fece avvertire abbastanza pre­ sto. Gli studi (da Giorgio Rumi a Gian Giacomo Migone, da Emilio Gentile a Claudia Damiani) fanno concordemente ri­ salire alla reazione dell’ambasciatore negli Stati Uniti, il duca Gelasio Caetani di Sermoneta, avverso alle iniziative dei fasci, e soprattutto ad una circolare - con la quale Bastianini il 31 luglio 1923, mentre ad uso esterno ne confermava l’apoliticità, ad uso interno teneva a sottolineare la funzione politico-parti­ tica dei fasci all’estero - la denuncia delle interferenze politi­ che dei fasci nell’azione diplomatica e il manifestarsi ai una sorta di dualismo tra diplomazia e dirigenza politica che ri­ schiava di screditare i rappresentanti ufficiali all’estero e di non rispettare la specificità dei singoli stati con i quali l’Italia intratteneva rapporti. L’ambasciatore Caetani segnalò senza mezzi termini a Mussolini, allora ministro degli Esteri, dal quale era stato n o­ minato nella sede americana i pericoli che potevano derivare da «disposizioni, autorizzazioni o ordini inconsulti che possa­ no essere emanati dalla direzione fascista in Italia o da alcune personalità eminenti non consapevoli di quanto sia delicata la

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    CAPITOLO IV

    situazione qui ed ignari della psicologia americana, profonda­ mente ostile a qualsiasi ingerenza straniera». Alla linea pro­ posta dall’ambasciatore Caetani, che culminò nella richiesta pura e semplice di rinunciare alla creazione dei fasci negli Stati Uniti, Bastianini e i suoi collaboratori risposero accusan­ do la diplomazia di boicottaggio delle iniziative fasciste, de­ nunciandone l’inadeguatezza rispetto ai tempi e al regime e reclamando di fatto la subordinazione dei funzionari consola­ ri e diplomatici alla volontà politica del fascismo. La media­ zione che Mussolini sembrò voler esercitare tra le istanze di Bastianini e le esigenze della diplomazia, i cui contrasti emer­ sero alla luce del sole in occasione del congresso romano dei fasci all’estero, fu più apparente che reale. Mussolini non sconfessò, e non avrebbe potuto farlo senza entrare in contraddizione con se stesso, gli obiettivi che ai fasci all’estero aveva assegnato Bastianini nella prospettiva più generale della politica di affermazione di valori nazionali e imperiali, ma si studiò solo di incanalarli in modo da conte­ nere i conflitti latenti tra organizzazioni di partito e articola­ zioni statali. Nel caso specifico spettò al nuovo sottosegretario agli Esteri Grandi il compito di arginare l’invadenza del par­ tito promuovendo direttamente dall’interno del ministero de­ gli Èsteri la fascistizzazione della diplomazia. Alla fine del 1926 la nomina di Bastianini a sottosegretario al ministero dell’Economia nazionale comportò le sue dimissioni dalla se­ greteria generale dei fasci all’estero; la promozione a sottose­ gretario fu probabilmente la via scelta per liberarsi della sua ingombrante presenza. I suoi successori Cornelio Di Marzio e più tardi, in un contesto istituzionale modificato, Parini, ge­ stirono organismi ormai largamente burocratizzati, ma quello che non era né sarebbe mai venuto meno fu l’obiettivo di fa­ re degli italiani all’estero, attraverso i fasci, le sentinelle avan­ zate dell’espansionismo italiano. La continuità ideologica e politica rimase intatta, cam­ biarono le forme (non sempre neppure i toni) della politiciz­ zazione dei fasci, che fu realizzata ora direttamente attraverso i canali di una diplomazia largamente fascistizzata. La diplo­ mazia aveva potuto avere la meglio sulle rivendicazioni di au­ tonomia del Pnf, ma soltanto perché essa si era a sua volta fa­ scistizzata. Come ha ben visto Gentile, è vero che Grandi ave­ va affermato «il primato dello stato nei confronti del partito», «ma lo stato invocato da Grandi non era lo stato di fronte al quale tutti gli italiani all’estero erano eguali indipendente­ mente dalle loro convinzioni politiche, ma era uno Stato fa­ scista che riconosceva e tutelava come “veri italiani” soltanto 148

    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    coloro che accettavano l’ideologia fascista o riconoscevano il regime fascista»101. L’avvicendamento rapido dei successori di Bastianini non è da attribuire soltanto al fatto che Di Marzio ripetè l’errore di scontrarsi con la diplomazia (che in questo caso voleva dire con una personalità forte e potente come Grandi), ma anche al fatto che la trasformazione organizzativa dell’intero apparato degli italiani all’estero stava subendo un’accelerazione. Nel di­ scorso alla Camera del 3 giugno 1928 Mussolini sembrò ac­ cennare in maniera piuttosto sbrigativa, quasi con un sospiro di sollievo, alla fine delle dispute sui fasci all’estero: Finalmente tutte le discussioni sui Fasci all’estero, sono cessa­ te con la pubblicazione dello Statuto dei Fasci all’estero, da me par­ ticolarmente dettato e che precisa, nella maniera più formale, i com­ piti, le attribuzioni di queste organizzazioni, la cui utilità è indubbia quando siano - come devono essere - composte di galantuomini che onorino col lavoro, la disciplina, la dignità personale, la patria lonta­ na n . In che cosa consisteva il nuovo statuto dei fasci all’este­ ro? Con la nuova normativa l’organizzazione esaltava momen­ ti di continuità con l’ideologia e la pratica che avevano con­ traddistinto la gestione Bastianini, ma introduceva anche una trasformazione profonda, nel senso della normalizzazione e della burocratizzazione. Veniva meno lo spirito squadristico che aveva fatto dei fasci all’estero non solo un’avanguardia, la punta avanzata di un movimento di conquista dell’italianità emigrata e di attacco contro le altre componenti dell’emigra­ zione non acquisite dal fascismo, ma anche una sorta di aristo­ crazia, di nucleo scelto direttamente investito di una missione di civiltà e di razza. Ora i fasci, come «l’organizzazione degli italiani all’Estero», miravano a coprire tutto lo spazio degli ita­ liani che vivevano in un paese straniero: più che strumento d’attacco dovevano diventare strumento di assorbimento dei nuclei italiani. L’accentuazione del rapporto personale di di­ pendenza e di obbedienza al duce mirava a superare la cresci­ ta dei fasci all’estero come organizzazione separata e centro di potere nei rapporti con il Pnf, ma anche a riportare l’organiz­ zazione all’interno della disciplina e della subordinazione al

    10 E. Gentile, La politica estera del partito fascista, cit., p. 943. 11 B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXIII, p. 164.

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    CAPITOLO IV

    >otere centrale dello Stato. Il richiamo ripetuto al rispetto del{’autorità diplomatica non era disgiunto dall’intento di porre fine al dualismo denunciato in precedenza, né da quello di dis­ sipare le preoccupazioni dei governi esteri per l’interferenza nella scena politica interna, né infine dalla rivalutazione della funzione dei rappresentanti consolari, che costituiva uno dei caposaldi della riorganizzazione dei servizi intrapresa dal sot­ tosegretario Grandi. Attenuata la funzione tutta politica della “fascistizzazione” delle colonie all’estero, i fasci dovevano di­ ventare organismi ausiliari della gestione dei rapporti tra le collettività dell’emigrazione, esercitare un compito di «assi­ stenza ai connazionali» in senso non tecnico ma politico-cultu­ rale, sempre nel quadro del riconoscimento dell’autorità del console «che è il rappresentante dello Stato fascista e del Regime fascista». Il nuovo reclutamento dei funzionari conso­ lari in una leva fascista realizzato da Grandi doveva offrire la garanzia che la fascistizzazione avvenisse in maniera tanto con­ trollata quanto mirata, che non fosse più delegata alle organiz­ zazioni del partito ma procedesse direttamente dall’apparato dello Stato. A titolo di curiosità e di esemplificazione del nuo­ vo spirito che doveva animare ora i fasci riportiamo il decalo­ go del fascista all’estero: I Fascisti che sono all’estero debbono essere ossequienti alle leggi del paese che li ospita. Devono dare esempio quotidiano di questo ossequio alle leggi, e dare, se necessario, tale esempio agli stessi cittadini. Non partecipare a quella che è la politica interna dei Paesi do­ ve i fascisti sono ospitati. Non suscitare dissidi nelle colonie ma piuttosto sanarli, all’om­ bra del Littorio. Dare esempio di probità pubblica e privata. Rispettare i rappresentanti dell’Italia all’estero e obbedire alle loro direttive e istruzioni. Difendere l’italianità nel passato e nel presente. Fare opera di assistenza fra gli Italiani che si trovano in stato di bisogno. Essere disciplinati all’estero come si esige e si impone che gli italiani siano disciplinati all’interno. Comprendere la vita come dovere, elevazione, conquista ed avere sempre presente il comando del Duce: Credere, Obbedire, Combattere12.

    12 Da Giuseppe Bastianini, G li Italiani all’estero, Milano, Mondadori, 1939, pp. 52-53.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    L’obiettivo di conquista al fascismo delle comunità italia­ ne all’estero era il dato immutato di continuità con la vecchia linea. La trasformazione di tutta la struttura organizzativa, con la sottomissione alla giurisdizione consolare e l’inquadramen­ to nell’alveo del ministero degli Esteri, costituiva il fatto nuo­ vo che, disciplinando le esuberanze e forse anche gli eccessi personalistici dei vecchi fasci, ne potenziava anche l’azione e la penetrazione nella misura in cui essi venivano a identificarsi tout court con l’iniziativa dell’apparato degli affari esteri. Lo stesso status consolare attribuito al segretario genera­ le dei fasci all’estero contribuiva a definirne la nuova fisiono­ mia, ponendo anche limiti precisi ai suoi interventi. La costi­ tuzione, nel 1927, della Direzione generale degli italiani all’e­ stero presso il ministero degli Esteri rappresentò il punto d’ar­ rivo della trasformazione e dell’unificazione dei servizi per gli italiani all’estero, scuole e propaganda comprese. Parini si trovò così ad esercitare il duplice ruolo di segretario dei fasci all’estero e di responsabile della Direzione generale, rappre­ sentando nella sua persona la fusione di compiti che aveva pre­ sieduto al lungo e complesso processo di riordinamento. Se Bastianini aveva infuso nel movimento dei fasci all’estero l’ani­ ma del vecchio fascismo squadrista, Parini ne rappresentò il volto normalizzatore, che sembrò preludere ancne al totale smantellamento del movimento. Ma i fasci non furono sciolti se non in contesti particolari (come negli Stati Uniti, nel 1930); furono semplicemente privati della maggior parte della loro autonomia e funzionalizzati come strumenti della politica di potenza dello stato italiano e non più soltanto come organi di propaganda e di proselitismo di partito. Ciò che persero in di­ namismo acquistarono in autorità almeno formale; il passaggio alla loro guida dal politico Bastianini al funzionario Parini ri­ specchiò sul piano personale la trasformazione che aveva subi­ to il loro ruolo. Nel complesso, se si volesse valutare l’efficacia dell’opera dei fasci all’estero, dalle cifre degli associati prodotte ufficial­ mente si dovrebbe dedurre che i risultati della loro azione fu­ rono sicuramente inferiori alle aspettative e sproporzionati al­ le forze e ai mezzi dispiegati per sostenerle. L’ambizione di convogliare nelle file del fascismo il grosso delle comunità re­ sidenti all’estero si realizzò soltanto parzialmente. Dovette esi­ stere un forte scarto tra gli esiti conseguiti e le ambizioni che erano state preannunciate da Parini: La posta del gioco è troppo grossa perché noi dobbiamo stare a fare questioni di integralismo o di altre dottrine. I casi sono due. Si

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    CAPITOLO IV

    tratta di riprendere o di perdere la massa enorme degli Italiani all’e­ stero. La Nazione di Mussolini e del Fascismo non vuole perdere die­ ci milioni di Italiani sparsi per il mondo e poiché uno degli strumen­ ti del Regime è il Fascio all’Estero, così il Fascio all’Estero deve im­ pedire che gli Italiani si perdano13.

    LA PEN ETR A Z IO N E N E LLE C O M U N IT À ITALIAN E A LL’ESTERO

    Nella loro evoluzione nel tempo i fasci all’estero vissero l’alter­ nanza di esperienze diverse. Furono anzitutto forza d’urto con­ tro l’antifascismo, nello sforzo di impedire che esso sottraesse le comunità italiane al controllo del governo centrale e che si prolungasse la tradizione del libero associazionismo che aveva accompagnato la crescita di quasi tutte le comunità. Furono strumento della propaganda fascista e in qualche modo, oltre a far conoscere che cosa voleva essere il fascismo, cercarono di proporlo e di diffonderlo come modello anche all’estero. Che perseguissero con fermezza l’obiettivo di dare vita a una vera e propria “Internazionale fascista” è difficile dire, molto più im­ portante era la collaborazione con i singoli e autoctoni movi­ menti fascisti all’interno dei singoli stati europei. Nella fase più apertamente imperialistica del fascismo furono sicuramente, grazie alla loro risonanza pubblica, un supporto notevole a questa politica, verso la quale convogliarono il consenso di nu­ clei importanti dell’emigrazione italiana. Soprattutto, come Parini aveva già indicato sin dal 1928, allorché con riferimento agli Stati Uniti (ma il riferimento era generalizzabile) aveva af­ fermato di confidare «molto sull’opera che chiamerò “plasma­ trice” dei RR. Consoli nell’America del nord, per dare il ne­ cessario prestigio al Fascio nelle Colonie di Italiani» 14, la sim­ biosi che ormai si era affermata tra funzionari consolari e fasci rappresentò una forte leva per l’estensione del controllo politi­ co sugli emigranti e per lo sviluppo dell’attività propagandisti­ ca a sostegno delle rivendicazioni italiane. Tuttavia, all’interno dello stesso universo fascista, l’ipotesi che i fasci all’estero aves­ sero a scomparire, essendo la loro funzione ormai assolta dagli uffici consolari, non sembrava vincente. Camillo Pellizzi, im­ pegnato nell’Istituto di cultura italiano a Londra ed esponente de1 fascio londinese, sottolineò con forza il ruolo che i fasci

    13 Piero Parini, «Il Legionario», 28 gennaio 1928. 14 Citato in E. Gentile, La politica estera del partito fascista, cit., p. 953.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    avevano assolto soprattutto presso le aggregazioni minori di italiani: «In queste minori colonie, per lo più, il fascio ha as­ sorbito tutte le attività sociali preesistenti, ha eliminato le di­ scordie personali e di gruppo, ha imposto utilmente una vera concordia fascista». E concludeva: «I fasci all’estero sono or­ mai, oltre che una necessità, una grande e nobile realtà, già creata, già vivente, con una propria storia e con una propria in­ cipiente maturità di idee, ai coscienza; distruggerla, sarebbe delitto di lesa patria; darle vita sempre più vasta ed efficace e sicura, opera degna di questo meraviglioso periodo creativo del regime fascista»15. Se la documentazione diplomatica si fa eco della protesta del governo fascista per l’ospitalità concessa ai fuoriusciti antifa­ scisti, studi e memorialistica di parte antifascista rendono testi­ monianza del rapporto conflittuale che generalmente si stabiliva tra gli organismi diplomatici, politici e culturali con i quali il fa­ scismo cercava di affermare la sua egemonia e gli elementi del­ l’emigrazione legati ad avverse tradizioni politiche e sindacali. Dove l’emigrazione politica costituiva un’aggregazione forte la comunità italiana viveva due vite separate, come a Zurigo, dove i rifugiati politici disponevano di proprie istituzioni culturali e assistenziali, di propri circoli ed avevano un valido retroterra an­ che nell’associazionismo politico e sindacale del movimento operaio svizzero. Altrove, come a Ginevra, riuscivano anche a collaborare all’attività della Dante Alighieri, che a differenza di quanto accadeva generalmente in quasi tutti i paesi dove era sta­ ta asservita alla propaganda del regime fascista era riuscita a conservare la sua autonomia come organo di diffusione della lin­ gua e della cultura italiane. Nella stessa Svizzera, che sin dal 10 settembre 1920 aveva visto sorgere il primo fascio al di fuori dei confini dello stato italiano, il fascio di Lugano, e che avrebbe co­ nosciuto lo sviluppo di una rete relativamente vasta di fasci (po­ co meno di una trentina) in virtù della presenza di una larga co­ munità di lavoratori italiani ma anche di forme di irredentismo ticinese alimentate dalle rivendicazioni fasciste sul territorio svizzero di lingua italiana, la penetrazione fascista si presentava non uniforme sul territorio e non omogenea nelle sue manife­ stazioni. Mauro Cerutti ha documentato il forte sostegno anche finanziario che il fascismo italiano fornì a quello svizzero e a quello ticinese in particolare16.

    15 Camillo Pellizzi, I fasci all'estero, «Gerarchia», 1929, pp. 179-184. 16 Cfr. Mauro Cerutti, Fra Rom a e Berna. La Svizzera italiana n el ven­ tennio fascista, Milano, Franco Angeli, 1986.

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    CAPITOLO IV

    Lo studio recente di Fiorenzo Mornati sul fascio di Losanna mostra una realtà abbastanza particolare, quella di una città elvetica della Svizzera romanza in cui lo sviluppo del fascio è legato, oltre che all’assenza di un nucleo forte dì anti­ fascisti, all’attività prevalentemente culturale dell’Istituto ita­ liano di cultura che opera in stretto rapporto con l’università. Grazie al prestigio di firme di alto livello del mondo accade­ mico e giornalistico fascista invitato ai cicli di conferenze, il fascio di Losanna riesce a monopolizzare la rappresentanza degli italiani, grazie anche alle conferenze del suo vicepresi­ dente Pasquale Boninsegni, docente di economia all’univer­ sità di Losanna. Nel 1937, il conferimento a Mussolini della laurea honoris causa in scienze politiche (dopo la conquista dell’Abissinia) da parte dell’università di Losanna, nella qua­ le in altra epoca aveva insegnato Pareto, è il segno che il mon­ do intellettuale della città romanza è stato conquistato dai mi­ ti del fascismo (in primo luogo il corporativismo e l’impero). Un esempio non isolato e comunque particolarmente signifi­ cativo del consenso che il fascismo riesce a costruire anche fuori d’Italia, sia pure in presenza di circostanze particolar­ mente favorevoli. Infatti, né a Ginevra, né nella Svizzera tede­ sca, né nello stesso Canton Ticino avrebbero potuto svilup­ parsi con altrettanto successo le manifestazioni politico-cultu­ rali di cui si era fatto promotore il fascio di Losanna 17. Le notizie che possediamo sulla penetrazione del fascio in Belgio (grazie agli studi di Anne Morelli) sembrano confer­ mare alcune indicazioni emerse in contesti analoghi caratteriz­ zati da insediamenti d’emigrazione fondamentalmente proleta­ ri. I poco meno di 35.000 italiani che lavoravano in Belgio nel 1930 (37.000 nel 1938) erano impiegati in maggioranza nel­ l’industria metalmeccanica, nell’estrazione del carbone, nell’e­ dilizia e possedevano già una solida rete associativa di tradi­ zione operaia prima ancora dell’avvento al potere del fascismo e dell’espansione dei fasci all’estero. Come riferisce Morelli, nella testimonianza resa dall’ex presidente del Consiglio Nitti nel corso del processo di Bruxelles contro Fernando De Rosa (che aveva attentato alla vita del principe ereditario) emerse con tutta evidenza che la presenza fascista non aveva unificato la colonia italiana, ma era stata al contrario causa della sua spaccatura:

    17 Fiorenzo Mornati, G li intellettuali, il partito e il fascismo italiano a Losanna, «Storia contemporanea», XXVI, 1995, n. 6, pp. 1003-1059.

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    POLITICA E PROPAGANDA: EMIGRAZIONE E FASCI ALL’ESTERO

    Prima del fascismo, gli italiani all’estero erano tutti uniti. Ora sono tutti divisi [...]. Dappertutto, anche all’estero, vi sono spie e agenti provocatori. Questo spiega il grande numero di attentati in Argentina, Francia, Canada, Belgio e Lussemburgo [...]. L’autore di questi crimini altri non è che il fascismo. I fasci all’estero sono un’of­ fesa al diritto pubblico e alle regole della morale internazionale [...]. Sono persino stati scelti come consoli generali dei venditori di osce­ nità, degli assassini e dei ricattatori18.

    Risultava chiaro che, nei casi in cui il fascio non era riu­ scito a egemonizzare la comunità italiana, la politicizzazione in senso fascista rischiava di porsi come fattore di isolamento de­ gli affiliati al fascio, mentre l’antifascismo rappresentava un fattore di integrazione rispetto alla società belga per i rappor­ ti di solidarietà e di comunanza di idee che legavano i lavora­ tori italiani ai compagni di lavoro belgi e rendevano quindi lo­ ro possibile sottrarsi al controllo del fascio. Ma i consoli fasci­ stizzati non si comportavano diversamente dai fiduciari del fa­ scio: è nota l’attività di delazione del console italiano a Liegi, il quale denunciò i nominativi dei lavoratori italiani che ave­ vano partecipato al corteo del 1° maggio del 193019. Ma nel complesso appare comprensibile che il console a Bruxelles ri­ ferisse nel 1928 che la propaganda fascista incontrava scarso successo. Nella seconda metà degli anni trenta, con lo sviluppo di un forte movimento contro la politica fascista di aggressioni esplicatasi prima con la guerra d’Africa e poi in Spagna, l’iso­ lamento dei fascisti italiani, nonostante il rafforzamento di strutture organizzative e culturali nell’ambito delle attività al­ l’estero, divenne più evidente. Dal punto di vista strettamente diplomatico l’attività degli italiani in Belgio sembra avere pro­ vocato reazioni squilibrate. Da una parte si registra un’assai debole reazione del governo belga alle attività dei fascisti, spie­ gabile forse proprio con la tolleranza che le autorità, nono­ stante tutto, praticavano nei confronti delle iniziative politiche degli emigrati; dall’altra invece la reattività irritata del governo fascista nei confronti di manifestazioni antifasciste di lavorato­ ri italiani: le ripetute richieste di interdizione di manifestazioni annunciate o di repressione nei confronti della stampa antifa­

    18 Cit. in Anne Morelli, Fascismo e antifascismo n ell’emigrazione ita­ liana in Belgio (1922-1940), Roma, Bonacci, 1987, p. 96. 19 Secondo quanto ricostruisce A. Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio, cit., p. 65.

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    CAPITOLO IV

    scista o di espulsione di emigranti antifascisti furono respinte dal governo belga sulla base dei princìpi di libertà di stampa e di libera espressione del pensiero garantiti dalla costituzione 25 DDI, V ili, voi. IV, n. 570. 16 DDI, V ili, voi. IV, n. 575 del 20 luglio 1936. 17 DDI, V ili, voi. rv, n. 577 del 20 luglio 1936.

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    CAPITOLO Vili

    Rossi che gli aerei erano pronti a partire dalla Sardegna18, ma già il 24 Ciano aveva incominciato a sondare la consistenza delPazione di Franco per valutare in concreto l’opportunità dell’appoggio italiano. Concorsero a fare maturare un orienta­ mento favorevole fattori diversi: da una parte, la precisazione dei caratteri del movimento di Franco e delle sue prospettive di successo; dall’altra, l’atteggiamento di altre potenze, interlo­ cutrici nella scena europea. Come sempre parte attiva nel promuovere l’appoggio ita­ liano fu il console De Rossi, il quale fra l’altro, nella sua qua­ lità di presidente del Comitato di controllo della neutralità di Tangeri, non si comportò affatto in modo neutrale, ma si pose apertamente dalla parte dei ribelli, impedendo il rifornimento a Tangeri delle navi della flotta spagnola fedele al legittimo go­ verno repubblicano e infliggendole così un danno irreparabile. Lo stesso D e Rossi trasmetteva le assicurazioni di Franco di «aver preso direzione movimento non per intenzione partitaria ma per salvare Spagna dal bolscevismo e darle Governo su ti­ po fascista». Aggiungendo: «Egli è convinto combattere non solo per avvenire suo paese ma per pace popoli latini e questo settore Mediterraneo; poiché venuta bolscevismo in Spagna trascinerebbe sicuramente nel disordine grave Portogallo, an­ cora impari difendersi e vacillante compagine francese»19. Poiché era consapevole dei limiti dei suoi mezzi e del fatto che alla Spagna repubblicana «già profondamente inquinala] bol­ scevismo» giungevano aiuti dalla Francia del Fronte popolare e dal «comuniSmo internazionale», «egli chiede pertanto che il governo fascista si interessi sua lotta fascista e lo voglia discre­ tamente e rapidamente aiutare per dare colpo decisivo agli av­ versari». Questo e altri messaggi dei rappresentanti italiani non si limitavano a sottolineare il carattere antibolscevico dell’ini­ ziativa dei militari, facendo pertanto appello alla solidarietà del fascismo italiano, ma miravano a sollecitare un aiuto quanto più rapido possibile, nella consapevolezza che soltanto l’aiuto esterno poteva permettere a Franco di superare la resistenza che incontrava nell’apparato militare governativo e nell’inci­ piente mobilitazione popolare. Alle pressioni dirette degli stessi rappresentanti italiani (Pedrazzi da Madrid non era da meno) si aggiungevano quel­ le indirette che pervenivano da altre sedi diplomatiche.

    18 D DI, V ili, v o i. rv, n . 630. 19 D D I, V ili, v o i. IV, n . 599 d e l 23 lu g lio 1936.

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    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L'INTERVENTO IN SPAGNA

    L’ambasciatore a Parigi Cerruti comunicava che Blum, presi­ dente del Consiglio, e Pierre Cot, ministro dell’Aeronautica, avevano deciso di aderire alle richieste di aiuti del governo repubblicano; il 25 luglio Ciano incontrava l’ambasciatore te­ desco von Hassell, che gli esprimeva le preoccupazioni del governo del Reich per una eventuale vittoria del comuniSmo nella penisola iberica e avviava una prassi di informazione re­ ciproca sulla questione 20. Analogo e anche più pressante in­ vito a concertazione tra i paesi interessati onde impedire la sconfitta in Spagna dei militari ribelli perveniva dal Portogallo. Il 26 Pedrazzi da Madrid incalzava segnalando che Franco aveva chiesto aiuti anche alla Germania; in realtà sembra che la prima richiesta di aerei alla Germania fosse sta­ ta inoltrata sin dal 22 luglio tramite il console tedesco a Tetuan, il quale a sua volta la trasmise all’addetto militare te­ desco a Parigi, donde pervenne a Berlino21. Si profilavano dunque uno schieramento di paesi interes­ sati a impedire la sconfitta dei militari ribelli, identificata pro­ pagandisticamente con il trionfo del comuniSmo, e un canale di aiuti alla Spagna repubblicana per il momento rappresenta­ to unicamente da uomini del governo francese di Fronte po­ polare. L’appello alla solidarietà del fascismo con il movimen­ to antibolscevico di Franco non fu certo estraneo al maturare dell’interessamento di Ciano per l’impegno in Spagna; alla lu­ ce di quanto sarebbe avvenuto successivamente si è tentati di concludere che Ciano colse forse l’occasione per dare alla que­ stione spagnola un’impronta personale e specificatamente fa­ scista nella gestione della politica estera. Impensabile appare comunque che egli agisse senza la copertura e il consenso di Mussolini. Oltre a richiedere garanzie sulla capacità di tenuta del movimento, Ciano cercò di ottenere da Franco, in cambio del­ l’intervento, l’assunzione di una qualche veste legale, come la costituzione di un vero e proprio governo ribelle in contrap­ posizione a quello di Madrid, che rendesse più plausibile e me­ no rischioso, in qualche misura insomma che legittimasse, un intervento esterno 22. Il 29 luglio gli aerei richiesti da Franco erano pronti a partire per il Marocco. Si trattava di dodici aerei da bombar­

    20 DDI, V ili, voi. IV, n. 621. 21 Cfr. Manfred Merkes, Die deutsche Politik gegenuber dem spanischen Bùrgerkrieg 1936-1939, Bonn, L. Róhrscheid, 1961, pp. 18-19. 22 Ciano a D e Rossi, in DDI, V ili, voi. rv, n. 612 del 24 luglio 1936.

    291

    CAPITOLO Vili

    damento «opportunamente truccati», che partirono dalla Sardegna. La spedizione fu un disastro: dei dodici aerei ne ar­ rivarono a Melilla nove; uno precipitò in territorio controllato dai francesi, uno atterrò nel Marocco francese, un terzo fu da­ to momentaneamente per disperso e si seppe poi che era anch’esso atterrato nel Marocco francese. L’aiuto clandestino si rivelò ben presto un segreto di Pulcinella. L’impegno italiano in Spagna non fu così neutro come qualche interprete vorrebbe far credere, né così disinteressa­ to. L’Italia non aveva partecipato ai preparativi dell’insurre­ zione, ma non per questo si lasciò sfuggire l’occasione di in­ tervenire. Il richiamo all’antibolscevismo servì a saldare di­ versi livelli di alleanze: con il mondo cattolico, con la Germania ma anche con altri ambienti conservatori in Europa. In occasione della guerra di Spagna l’Italia cercò an­ che di rientrare nel circuito internazionale, dopo l’isolamen­ to cui l’aveva condannata l ’aggressione all’Etiopia. Ora, ap­ profittò della guerra di Spagna per cercare di separare l’Inghilterra dalla Francia e rompere in un certo senso il fron­ te sanzionista, che incontrava difficoltà a sciogliere i vincoli imposti dalla Società delle Nazioni e a riconoscere il fatto compiuto della presenza italiana in Africa, sebbene nessuna potenza avesse l’intenzione e tanto meno la possibilità di re­ vocare il dato di fatto della creazione dell’impero africano. Alla Spagna la diplomazia fascista guardò anche con la pro­ spettiva Hi accelerare la distensione dei rapporti soprattutto con l ’Inghilterra e di separare la Francia dalla sua tradiziona­ le alleata d ’oltremanica puntando, come abbiamo già antici­ pato, sulla solidarietà antibolscevica. In effetti, con il trascorrere delle settimane e poi dei me­ si, le linee portanti dell’azione italiana in Spagna sembrano essere state determinate da due sviluppi fondamentali: da una parte, il sempre più stretto parallelismo fra le politiche dell’Italia e della Germania; dall’altra, la cosiddetta politica del non intervento. Paradossalmente, tale politica cominciò a decollare proprio nel momento in cui l’Italia passava ad un li­ vello ancora più impegnativo di coinvolgimento nella peniso­ la iberica, con l’invio non più soltanto di materiale bellico, ma di un vero e proprio corpo di spedizione che si integrava con le forze armate della Spagna nazionalista e il cui peso, in­ sieme all’aiuto prevalentemente tecnico tedesco, sarebbe sta­ to determinante per la vittoria dei nazionalisti. Il non inter­ vento quindi si può definire anche come la copertura diplo­ matica di un intervento del quale nessuno, a cominciare dal­ la stampa fascista, faceva mistero. 292

    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    in t e r v e n t o , n o n in t e r v e n t o ?

    La misura ciell’impegno italiano in Spagna andò precisandosi nel secondo semestre del 1936, nel senso che dal semplice ap­ poggio-sostegno materiale e morale alla causa di Franco si pas­ sò all’individuazione da parte dell’Italia di propri specifici obiettivi politici per i quali la guerra di Spagna offriva l’occa­ sione e le possibilità strumentali. Obiettivi politici e obiettivi strategici si intrecciano strettamente nel comportamento del governo italiano; le motivazioni ideologiche offrirono il ce­ mento che saldava i diversi livelli dell’interesse italiano. Dal punto di vista politico il primo obiettivo dell’Italia era impedire la saldatura, attraverso i fronti popolari, di uno schieramento antifascista in Francia e in Spagna. Rompere la continuità dello schieramento antifascista non era soltanto un’operazione propagandistica: alla luce del sostegno fornito al governo repubblicano spagnolo dall’antifascismo interna­ zionale, compreso il volontariato dell’emigrazione antifascista italiana, l’intervento dell’Italia fascista e della Germania nazi­ sta veniva ad assumere un carattere spiccatamente politico che trascendeva i meri problemi di equilibrio fra potenze per con­ figurarsi come un’opzione a favore di un modello politico de­ terminato, di un sistema, di un regime. Lo scontro ideologico e verbale tra fascismo e antifascismo, l’antitesi tra democrazia e sistemi dittatoriali diventavano ora possibilità effettiva di confronto su un terreno determinato, che non doveva più es­ sere oggetto di opposte propagande, bensì luogo di una con­ trapposizione in armi fra scelte operative concrete. Questo non significava che le due potenze fasciste si pre­ sentassero già come un blocco compatto; al contrario, perma­ nevano fra di esse forti differenze di interessi e anche momen­ ti concorrenziali capaci di creare acute tensioni. Tuttavia, at­ traverso la cooperazione in favore della Spagna esse saggiaro­ no non soltanto la reciproca preparazione militare ma anche la compatibilità tra i rispettivi interessi. L’alleanza cresceva nella misura in cui si consolidava un impegno comune, e l’impegno di ciascuna potenza era determinato a sua volta dalla consape­ volezza dei limiti e del potenziale competitivo che ciascuna po­ teva esprimere. Dal punto di vista strategico l’Italia era interessata a re­ cuperare il controllo del Mediterraneo occidentale, che era sta­ to messo in crisi dalla guerra d’Africa. L’appello diretto della Spagna offriva l’insperata opportunità, che la guerra d’Africa sembrava avere allontanato, ai riacquistare un peso specifico anche come potenza marittima. Se l’accordo navale anglo-te­ 293

    CAPITOLO Vili

    desco del giugno del 1935 era sembrato preludere alla volontà dell’Inghilterra di scegliere quale interlocutore prioritario la Germania, tesa a sua volta a smantellare i vincoli di Versailles, la guerra di Spagna offriva all’Italia la possibilità di rientrare alla grande nello scacchiere navale. L’interesse con il quale l’Italia guardò alle isole Baleari, al di là della querelle sulle vel­ leità di conquista territoriale, aveva il significato preciso di contestare la sovranità della Francia nell’area del Mediterraneo occidentale e del golfo del Leone, facendo incombere in ogni momento la possibilità per l’Italia di interrompere le rotte na­ vali francesi tra l’area metropolitana e le colonie dell’Africa settentrionale. Naturalmente, il sempre maggior impegno dell’Italia nell’area occidentale del Mediterraneo tendeva a squilibrare il fronte delle sue ambizioni nell’area danubianobalcanica, dove si profilava sempre più evidente il sacrificio di interessi che pur l’Italia aveva tentato di difendere via via che l’avvicinamento alla Germania assumeva caratteri meno prov­ visori e tattici e si profilava come scelta strategica. Le anticipa­ zioni di questo nuovo punto di gravitazione della politica ita­ liana che erano state fornite dalla guerra d’Africa ricevevano nuovo e più determinante impulso nel momento in cui la guer­ ra di Spagna attirava in quel settore investimenti politici e mi­ litari e impegni diplomatici. DaH’awicinamento tra Italia e Germania, che la guerra di Spagna inevitabilmente comportò, doveva ovviamente deriva­ re, fosse ciò premeditato o solo preterintenzionale, l’isolamen­ to della Francia, la quale rischiava di rimanere stretta tra la Spagna nazionalista, ostile e sotto influenza italo-tedesca, e la Germania in fase di riarmo che premeva sulla sua frontiera orientale. E vero che il patto franco-sovietico, l’impegno dell’Unione Sovietica nella Società delle Nazioni e la mobilita­ zione della Terza Internazionale a favore della Spagna repub­ blicana tendevano sulla carta a controbilanciare tale assedio con un accerchiamento di cui a sua volta si lamentava vittima la Germania, ma le smagliature della sicurezza collettiva furo­ no talmente vistose da attenuare i timori della Germania, te­ nendo anche conto del fatto che l’alleanza franco-sovietica ri­ mase in pratica sulla carta. L’iniziativa del governo francese per un impegno di non intervento nella questione spagnola fu portata a conoscenza del governo italiano il 3 agosto23. Due giorni dopo, Mussolini

    23 DDI, Vili, v o i.

    IV, n .

    672. 294

    L'EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L'INTERVENTO IN SPAGNA

    diede istruzioni a Ciano di dare un’adesione di principio alla proposta, sollevando peraltro il problema se l’appoggio mora­ le espresso nei confronti di una delle parti non significasse già di per sé «una clamorosa e pericolosa forma d’intervento»24. L’allusione si riferiva alle manifestazioni di aiuto del Fronte po­ polare francese, ma non poteva non riguardare anche il com—■ " -mento dell’Italia. Che cosa se ne deve dedurre: che intendeva estendere il non intervento anche alle forme di solidarietà propagandistiche (còme si sarebbe espresso a pa­ role Ciano), o che Mussolini aveva già intuito che il non inter­ vento ufficialmente proclamato dal punto di vista diplomatico e militare non sarebbe stato necessariamente in conflitto con la manifestazione di solidarietà dal punto di vista politico-propa­ gandistico? Tutto il comportamento tenuto nel periodo suc­ cessivo dal governo italiano concorre nel fare pensare che Mussolini volesse mettere le mani avanti: per ragioni di grande diplomazia e per circoscrivere comunque il conflitto l’Italia aderiva al “non” intervento, ma senza minimamente impe­ gnarsi ad astenersi da altre apparentemente meno vistose ma non per questo meno determinanti forme d’intervento, anche percné difficilmente sarebbe stato possibile vincolare anche gli altri eventuali contraenti, soprattutto in regimi di tipo demo­ cratico, a forme di neutralità che non erano più neppure ideo­ logiche ma semplicemente morali. Paradossalmente, la politica italiana in Spagna va seguita nel duplice registro, come forma di intervento e come tattica di non intervento. A sua volta l’intervento implicava la valuta­ zione dei rapporti con la Germania come potenziale alleata; il non intervento la valutazione dei rapporti con le altre potenze. Poiché è sicuro che, tra la decisione di prestare la propria solidarietà ai ribelli spagnoli come forma di potenziale egemo­ nia dell'idea fascista e la decisione di fare della Spagna il terre­ no di un intervento militare massiccio, esiste un’enorme diffe­ renza, sembra opportuno cercare di esaminare quali motiva­ zioni possono avere prodotto questo rilevante salto di qualità nella forma del coinvolgimento italiano. Sul piano generale sembra di poter dire che non rientrava nelle prospettive della politica italiana un’ipotesi seria di non intervento. Per l'inter­ vento, salvo a definirne le forme, militavano essenzialmente tre fattori: la solidarietà ideologica e la prospettiva di allargare l'influenza dell'Italia su una Spagna, se non fascistizzata in sen­

    24 D D I, V ili,

    voi.

    IV,

    n. 683. 295

    CAPITOLO Vili

    so stretto, tuttavia più vicina ai regimi di tipo fascista che alle democrazie occidentali; il timore che anche la Spagna potesse rientrare nella sfera operativa del dinamismo tedesco creando un’altra area di forte concorrenzialità con l’Italia; la consape­ volezza della debolezza di Francia e Inghilterra come possibili sostegni del legittimo governo spagnolo e la coscienza di quan­ to fosse contraddittorio e vulnerabile uno schieramento contro i ribelli che oltre alle due democrazie occidentali comprendes­ se anche l’Unione Sovietica. In questo contesto, l’idea di fare di Roma la «capitale or­ mai anche politica della latinità», come Ciano faceva presente alle rappresentanze diplomatiche nell’America centromeridio­ nale per sensibilizzarle sul pericolo comunista25, esprimeva si­ curamente la prospettiva di una egemonia sul Mediterraneo, la volontà di approfittare della congiuntura Spagna per infligge­ re una lezione esemplare soprattutto all’Inghilterra, la cui po­ litica di non intervento, determinata fra l’altro dall’identifica­ zione del governo repubblicano con i comunisti, veniva certa­ mente interpretata come un segno di debolezza e anche come un sintomo profondo di dissenso soprattutto dei conservatori inglesi rispetto alla linea del governo Blum. Anche un uomo politico come Churchill, del resto, parlando con l’incaricato d’affari a Londra, non aveva fatto mistero della sua avversione ad appoggiare i repubblicani spagnoli26. La linea del governo fascista fu influenzata dalle continue pressioni delle rappresentanze a Tangeri e a Madrid in favore dell’incremento degli aiuti a Franco; le operazioni procedeva­ no con minore speditezza del previsto e la situazione perma­ neva incerta. Da Tangeri, il maggiore Giuseppe Luccardi am­ moniva che Franco avrebbe vinto solo se avesse ricevuto mez­ zi superiori a quelli che i repubblicani ricevevano da Francia, Russia e Inghilterra27; l ’ambasciatore esortava ad aiutare i “tradizionalisti” per assicurarne la lealtà al fascismo28: moniti che non solo rispecchiavano gli umori dei rappresentanti ita­ liani in Spagna, ma costituivano indicazioni di politica estera abbastanza precise. Sul finire di agosto appariva chiaro che gli aiuti si avvia­ vano ad assumere una dimensione che superava la fase della

    25 26 27 28

    DDI, D D I, DDI, DDI,

    V ili, V ili, V ili, V ili,

    voi. voi. voi. voi.

    rv, n. rv, n. rv, n. rv, n.

    741. 708 del 9 agosto 1936. 775 del 21 agosto 1936. 794 del 24 agosto 1936.

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    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    solidarietà più o meno simbolica. Dando seguito all’impegno di consultazione reciproca con la Germania, si avviava una fa­ se di vero e proprio coordinamento degli aiuti. Questo coordi­ namento segreto doveva passare attraverso il Sim per quanto riguardava l’Italia e attraverso la Abwehr, il controspionaggio militare, per quanto riguardava la Germania. Il 28 agosto Roatta e l'ammiraglio Wilhelm Canaris tornavano a incontrar­ si a Roma e dal verbale del loro incontro scaturiva l’impegno dei due paesi, nonostante l’embargo sugli armamenti da essi sottoscritto, di continuare e sviluppare le forniture di materia­ le bellico e di munizioni. L’aiuto, destinato a rimanere segreto, doveva passare unicamente per i canali militari, escludendo pertanto invii di privati, ciò che accresceva evidentemente le responsabilità dirette dei rispettivi governi. Doveva essere for­ nito in parti uguali da Italia e Germania, chiaramente per evi­ tare che si generassero competizioni e squilibri tra le due par­ ti. Inoltre era previsto l’invio di personale per la manutenzio­ ne dei materiali, come anticipazione dell’invio di uomini e di unità militari inquadrate. Infine, l’invio da parte dei due go­ verni di un ufficiale di collegamento ufficializzava il coordina­ mento degli aiuti e delle operazioni e istituzionalizzava il rap­ porto con Franco per mezzo, di fatto, di consiglieri. Nel collo­ quio successivamente svoltosi tra Canaris e Ciano come mini­ stro degli Esteri si esplicito infatti la necessità di far compren­ dere a Franco «che, dato che egli riceve tanti aiuti da Germania e Italia, deve anche accettarne i consigli». L’allegato elenco dei materiali già forniti a Franco dai due paesi era di per sé una riprova dell’entità che l’intervento aveva già assunto; l’impegno a fare proteggere le navi che trasportavano gli aiuti dalle rispettive marine militari accentuava ulteriormente la di­ mensione e anche i rischi dell’impegno29. Non più tardi del giorno dopo Ciano comunicava di avere accettato che l’Italia aderisse alla costituzione del Comitato per il non intervento: il meno che si possa osservare è che si trattava di un’adesione con riserva mentale. Del resto, queste non sono soltanto illazioni. Il 5 settem­ bre 1936 Ciano inoltrava a Grandi, l’ambasciatore a Londra designato a rappresentare l’Italia nel Comitato del non inter­ vento, le direttive per il suo comportamento. L’azione del Comitato era accompagnata da pregiudiziale sfiducia. «Adesso appare sempre più evidente - scriveva il ministro degli Esteri

    29 DDI. V ili. voi. IV, n. 819.

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    CAPITOLO Vili

    del governo fascista - che il suo compito dovrà essere molto platonico. Per parte nostra bisognerà discretamente fare il pos­ sibile per svuotare il comitato di ogni funzione pratica ed ef­ fettiva. D ’altra parte, le vicende quotidiane e le numerose pro­ ve di infrazione di neutralità da parte delle differenti Potenze rendono sempre più problematica la possibilità di rendere operante il cosiddetto accordo di non intervento»30. Fondamentalmente, quindi, il mandato di Grandi dove­ va consistere nel sabotare il lavoro del Comitato e nel render­ ne del tutto inutile l’operato. Grandi tutt’al più, come si dedu­ ce da un successivo dispaccio dello stesso Ciano del 7 settem­ bre, doveva agire strumentalmente per mettere la Francia con le spalle al muro. Bisognava inchiodarla alla neutralità: se que­ sta proposta fosse stata respinta, ognuno avrebbe ripreso la sua libertà e la responsabilità sarebbe ricaduta sulla Francia; se fos­ se stata accolta il governo francese si sarebbe spaccato. Bisognava insistere nel provocare fratture all’interno dello schièramento di Fronte popolare e tra francesi e repubblicani spagnoli: «Un’azione da noi svolta adesso per mettere l’accen­ to sul fatto che il governo franco-giudaico [si noti la tentazio­ ne antisemita persistente nei governanti fascisti, N.d.A.] di Blum è stato l’iniziatore della neutralità, abbandonando così il governo similare di Madrid, verrà certamente ad acuire le fri­ zioni che già esistono tra compari e, conseguentemente, ad ac­ celerare il collasso»31. Sfruttare cioè il non intervento contro Parigi e Madrid, presentando il governo Blum, per il fatto stes­ so di avere proposto il non intervento, come il protagonista del tradimento nei confronti del governo repubblicano spagnolo. Una linea che andava anche al di là del sabotaggio per tentare di rivoltare il meccanismo del non intervento contro i suoi stes­ si ideatori. Del resto, in piena esplosione antinglese della poli­ tica italiana, lo stesso Mussolini aveva sintetizzato la linea di condotta che Grandi avrebbe dovuto sostenere nel Comitato di Londra, prescrivendo che in esso «non bisognerà fare la mi­ nima concessione alle vedute della Gran Bretagna e della Francia» 32. La presenza contemporanea della Germania in Spagna fu per più versi importante per la determinazione della linea italiana. Anzitutto, gli ambienti filofranchisti della diplomazia

    30 DDI, V ili, voi. V, n. 13. 31 DDI, V ili, voi. V, n. 28. 32 D DI, V ili, voi. V, n. 17, 5 settembre 1936.

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    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    italiana trassero spunto dagli aiuti tedeschi per sollecitare un coinvolgimento sempre maggiore dell’Italia, agitando la m i­ naccia che altrimenti la Germania avrebbe catturato le simpa­ tie che dall’Italia si fossero allontanate. In secondo luogo, co­ me abbiamo già visto sulla scia dei colloqui Roatta-Canaris, il coordinamento dell’iniziativa politico-militare di Italia e Germania in Spagna impegnava i due paesi a sostenere un al­ to livello di rifornimenti alla parte nazionalista, ma soprattut­ to a fare dell’azione comune in Spagna il momento di un coor­ dinamento politico più generale. Sotto questo profilo, il pro­ tocollo dell’Asse firmato il 23 ottobre 1936 non va consicferato soltanto per l’intenzione manifestata dai due governi di ri­ conoscere il governo nazionalista (prima di fatto e successiva­ mente di diritto), quanto perché la collaborazione in Spagna veniva inserita nel contesto complessivo di una comune azio­ ne internazionale che individuava nel comuniSmo il maggior pericolo per la pace e per la sicurezza dell’Europa, e pertanto contro di esso mobilitava tutte le energie. Al di là del generale intento di combattere il bolscevismo, Ciano perseguiva il più specifico obiettivo della fascistizzazio­ ne della Spagna. Indipendentemente dalla missione che Roberto Farinacci compì per conto del Pnf, e che sollevò per ragioni concorrenziali le riserve di Cantalupo33, Ciano andò precisando sempre più nettamente l’interesse alla fascistizza­ zione, ad onta della stessa riluttanza di Franco ad identificarsi nel modello del fascismo italiano, come riferiva Cantalupo, ambasciatore a Salamanca e spalla fascista del fascista Ciano34. Proprio l’esigenza che il nuovo regime spagnolo si modellasse sull’esempio italiano era alla base dei ripetuti inviti a Franco a moderare la repressione nei territori conquistati, poiché la re­ sponsabilità dei massacri sarebbe ricaduta anche sull’Italia e ne avrebbe macchiato l’immagine, al di là dell’esito controprodu­ cente che avrebbe avuto rispetto al fine di indebolire la resi­ stenza della parte repubblicana. E in effetti «fascistizzare la Spagna» era la sintesi che Cantalupo aveva tratto dalle istruzioni di Ciano come compito della sua missione. In questo quadro gli appariva prioritario fa­ vorire la «fusione di tutte le forze nazionali al servizio di Franco e della causa dell’ordine in un blocco unitario politico spirituale e corporativo che possa servire domani di base allo

    33 DDI, V ili, voi. VI, n. 284, 16 marzo 1937. 34 DDI, V ili, voi. VI, n. 183 del 20 febbraio 1937.

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    CAPITOLO Vili

    stato totalitario». La pressione fascista pertanto doveva evitare di schierarsi a favore della falange o dei tradizionalisti, per fa­ vorirne invece la fusione in un unico b locco35. Ciano non si era limitato a fornire indicazioni generali: in più di una occasione intervenne con richieste e pressioni specifiche. Il 5 maggio 1937 scrisse all’incaricato d’affari a Salamanca di fare presente a Franco «che sarebbe forse il ca­ so di adottare fin d’ora la Carta del Lavoro»36. Un suggeri­ mento che non rimase privo di risonanza, come l’incaricato a Salamanca riferiva una settimana d o p o 37.

    I PRODROMI DELL’ASSE ROMA-BERLINO

    Abbiamo già visto come, in concomitanza con la guerra d’Africa e con l’isolamento dell’Italia dalla Società delle Nazioni, si andasse profilando, parallelamente all’allontana­ mento da Francia e Inghilterra, un cauto accostamento dell’Italia alla Germania. Sappiamo anche come, pur dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo che ad onta di ogni riconosciuta diversità veniva considerato movimento fratello del fascismo in Italia, tra gli interessi di Italia e Germania ri­ manessero aree di non coincidenza tutt’altro che irrilevanti. Non bisogna però sottovalutare che, se la genesi dell’Asse Roma-Berìino scaturì dalla crisi della metà degli anni trenta e in particolare dalla rottura dell’equilibrio mediterraneo dipen­ dente appunto dall’impresa italiana in Etiopia, sullo sfondo ciò che predisponeva Italia e Germania alla convergenza era la co­ mune convinzione che bisognasse modificare radicalmente l’ordinamento dei trattati di pace che avevano fatto seguito al­ la prima guerra mondiale. A ciò si aggiungeva ora la decisione, al di là di questa lontana affermazione programmatica e in un contesto che si profilava favorevole, di stringere i tempi per ri­ mettere in discussione la leadership di Francia e Inghilterra. Petersen ha giustamente sottolineato come l’avvicinamento del 1933-1936 rispondesse tuttavia ad una lunga aspirazione pro­ grammatica che portava inevitabilmente l’Italia e la Germania a ricercarsi l’un l’altra come punti di riferimento reciproci per forzare l’equilibrio e gli schieramenti esistenti38. Il conflitto

    35 36 37 38

    Cantalupo a Ciano, DDI, V ili, voi. vi, n. 432 del 9 aprile 1937. DDI, V ili, voi. VI, n. 551. DDI, V ili, voi. VI, n. 579. J. Petersen, H itler e Mussolini, cit., pp. 434 sg.

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    L'EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    africano ne aveva fornito l’occasione immediata. La Spagna rappresentò l’occasione per verificare e consolidare una pro­ spettiva che nei fatti era già in costruzione. Dopo l’avvento al potere del nazismo il punto di diver­ genza sostanziale che rimaneva tra Italia e Germania, al di là del problema più generale dell’influenza sulla penisola balca­ nica, era costituito dalla questione austriaca e dall’egemonia che attraverso l’Austria l’Italia aveva sperato di potere affer­ mare nell’area danubiana. La crisi austriaca del 1934 aveva rappresentato il momento di tensione più acuto nei rapporti tra Italia e Germania (cfr. capitolo V). Era quasi naturale che l’Austria finisse per diventare la vittima predestinata di una revisione della politica italiana nei confronti della Germania. Il sottosegretario agli Esteri Suvich, che per le sue origini triestine, nazionaliste e irredentiste era particolarmente sensibile al protettorato italia­ no sull’Austria, avvertì il pericolo che uno sbilanciamento a favore della Germania comportasse la progressiva presa di distanza dell’Italia dalle garanzie a tutela dell’indipendenza dell’Austria e accelerasse o quanto meno rendesse irreversi­ bile la corsa AY Anschluss. Suvich, che aveva attivamente collaborato allo scardinamento della repubblica democrati­ ca in Austria, non avrebbe colto i frutti della sua opera di­ struttiva. Più drammatica ancora era comunque la sorte di quegli uomini politici austriaci che avendo optato anche ideologicamente per la protezione italiana si trovarono in balia delle scelte che l’Italia fu costretta a fare in conse­ guenza della sua opzione africana: l ’astensione dell’Austria dalle sanzioni fu deliberata contro la stragrande maggioran­ za degli stati membri della Società delle Nazioni, in segno di amicizia nei confronti dell’Italia, ma lo fu anche in funzio­ ne e nella speranza che l’Italia continuasse a rappresentare una garanzia contro la volontà annessionistica della Germania. Il pericolo viceversa che Italia e Germania p o ­ tessero mettersi d ’accordo sulla testa dell’Austria per sacri­ ficarne l ’indipendenza incominciò a farsi strada non appena apparve chiaro che l ’irrigidimento dell’Italia verso la Germania si andava attenuando. Le preoccupazioni che l’abbandono della solidarietà con Francia e Inghilterra (il fronte di Stresa) suscitavano in am­ bienti austriaci ma anche in ambienti italiani furono fatte pro­ prie dal sottosegretario Suvich, il quale non potendo e forse non volendo neppure osteggiare ravvicinamento alla Ger­ mania, tuttavia si adoperò per mettere in evidenza quali pote­ vano essere le conseguenze di una troppo stretta associazione 301

    CAPITOLO Vili

    con quel paese. Scriveva ad esempio a Mussolini, ancora mini, stro degli Esteri oltre che capo del governo, il 29 gennaio 1936; Una politica di avvicinamento alla Germania, oltre i limiti sopra indicati, non ci procurerebbe nessun aiuto attuale da parte della Germania [...]. L’interesse tedesco di mettere l’una contro l’altra le potenze di Stresa è evidente, ma noi, pur mantenendo la nostra indipendenza per l’avvenire, non abbiamo alcun interesse a cadere nel giuoco tedesco. Altrettanto sfavorevole, secondo me, sarebbe l’impressione che la politica italiana filo-germanica susciterebbe in Austria; la reazione potrebbe essere duplice: l’idea di un abbandono italiano dell’Austria o darebbe l’Austria in mani ai Nazi, o la getterebbe nelle braccia dd sistema Francia-Piccola Intesa: nell’un caso o nell’altro noi saremmo tagliati fuori. Non si può dimenticare che, ad onta di qualche ostilità contro di noi, insormontabile in alcune parti dell’Austria, la politica ufficiale austriaca è stata ed è la più leale e la più coraggiosa nei ri­ guardi dell’Italia39. È presumibile che quando scriveva le note citate Suvich non fosse a conoscenza che il 7 gennaio Mussolini, in un col­ loquio con von Hassell, aveva dato via libera all’accordo au­ stro-tedesco destinato a spazzare via ogni residua velleità di protezione dell’Italia: l’Itafia - secondo quanto von Hassell co­ municò a Berlino - non si sarebbe opposta ad un accordo che, salvaguardando formalmente l’indipendenza austriaca, signifi­ casse nei fatti la satellizzazione dell’Austria alla Germania40. Ancora più chiaramente Suvich si rappresentava le com seguenze di un corso filotedesco per quanto riguardava l’in­ fluenza italiana sull’Austria in un nuovo appunto per Mussolini steso a distanza di una decina di giorni. Suvich tor­ nava a occuparsi delle conseguenze dell’avvicinamento del­ l’Italia alla Germania e a insistere sui limiti (che egli defini­ va impropriamente «psicologici») entro i quali questo processo avrebbe dovuto mantenersi; era bene che gli altri stati sapessero che un tale avvicinamento non aveva «più va­ sta portata». Al centro delle considerazioni di Suvich era an­ cora una volta la questione dell’Austria: l’indipendenza dell’Austria era vista come il presupposto per un rapporto di buon vicinato con la Germania. Al tempo stesso, Suvich svi­ luppava un coerente discorso sulle possibilità di espansione

    39 D DI, V ili, voi. Ili, n. 131. 40 Von Hassell al ministro degli Esteri del Reich il 7 gennaio 1936 in A D A P , C, Bd. IV, 2, n. 485.

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    LEQUILIBRJO MEDITERRANEO E L'INTERVENTO IN STAGNA

    dell’im perialism o italiano nei Balcani: anche sotto questo p ro ­ filo l’eventuale p erd ita dell’influenza sull’A ustria sarebbe stata una sconfitta p er l'Italia, p erch é avrebbe significato p re clu d er­ le le vie dell’espansione balcanica. Scriveva nel nuovo testo Suvich: Sacrificare l’Austria sarebbe, a mio modo di vedere, un colos­ sale errore. Già il fatto di mollare l’Austria dopo averla aiutata a risorgere, toglierebbe nobiltà alla nostra linea politica e non contribuirebbe al nostro prestigio. Ma non considero la cosa da questo punto di vista. Io sostengo che l'esistenza di un’Austria indipendente sia la premes­ sa e la garanzia per una nostra politica di intesa con la Germania. Il giorno in cui l’Austria fosse annessa alla Germania e la Germania si affacciasse al Brennero e sulle Alpi Giulie, quel giorno la nostra via sarà nettamente segnata perché noi saremmo legati alla solidarietà con il gruppo anti-germanico contro la minaccia tedesca. Sarebbe una illusione pericolosa quella di credere che la Germania arrivata al Brennero e a Tarvisio, si arresterà su queste posizioni sen­ za tendere ad oltrepassarle. Dico subito che fra le due posizioni quel­ la più pericolosa è la seconda. Bisogna non tener conto della storia tedesca ed ignorare la mentalità del popolo tedesco per pensare che la Germania non farà tutti gli sforzi per superare i cento chilometri che la divideranno allora dall’Adriatico. [...] Questa è una parte del problema. Un’altra parte è costituita dalla influenza che l’insediamento della Germania a Vienna avrà su tutta la politica di espansione nella penisola balcanica. La Germania a Vienna vuol dire la Germania a Budapest. La Cecoslovacchia sarà allora liquidata. La Rumenia sarà posta nel dilemma di diventare vassalla della Russia o della Germania ed è probabile che scelga quest’ultima. La Jugoslavia non domanda che di allearsi con la Germania. Gli altri paesi balcanici per tradizio­ ne o per interesse subiranno il fascino e la prepotenza di questa Germania risorta ed invadente. All’Italia saranno irrimediabilmente recisi tutti i nervi di una sua politica di espansione verso i Balcani. Questa è la vera essenza dell1Anschluss, che, come si vede, non ha a che fare con l'aspetto puramente nazionale - v ò lk is c h - che po­ trebbe essere visto da noi anche con una certa simpatia41. U na cosa co m u n que Suvich dava p e r certa, ossia il fatto che la G erm an ia stata attivam ente lavorando p e r realizzare «l’accerchiam ento p e r la caduta definitiva dell’A ustria», e a ta ­ le politica bisognava d are u n a risposta altrettan to attiva. A questo p u n to q u in d i p e r Suvich non si trattav a più soltanto di

    4i

    DDI, V ili, voi. ni, n. 194, in data 7 febbraio 1936.

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    CAPITOLO Vili

    porre limiti all’avvicinamento alla Germania ma di passare al contrattacco, sia sotto il profilo più strettamente legato all'in. dipendenza dell’Austria, non senza l’avvertenza che «ogni av­ vicinamento austro-tedesco che metta formalmente sullo stes­ so piano Italia e Germania di fronte all’Austria si risolve effet­ tivamente per noi in una situazione di inferiorità», sia sul pia­ no più generale della situazione nei Balcani. Il documento di Suvich fu vistato da Mussolini, che avrebbe espresso all’esten­ sore la sua approvazione. A quell’epoca dunque Mussolini era consapevole di quale fosse la posta in gioco nell’eventualità di un ulteriore consolidamento dei rapporti con la Germania. Nonostante l’incontro con von Hassell del 7 gennaio 1936, ancora a metà aprile Mussolini assicurava all’ambascia­ tore di Francia Louis-Charles Chambrun che nulla era mutato nell’atteggiamento dell’Italia riguardo all’Austria42. Alla metà di maggio la diplomazia italiana era informata che erano in corso colloqui tra il cancelliere Schuschnigg e l’ambasciatore tedesco von Papen per concordare un modus vivendi austrote­ desco: la parte austriaca non ne aveva fatto parola, nonostante l’impegno di informazione reciproca derivante dai protocolli di Roma del 193443. In realtà, Schuschnigg informò direttamente Mussolini il 5 giugno a Forlì dello stato dei colloqui con Berlino, ma dal verbale dell’incontro è d’obbligo dedurre che da entrambe le parti prevalse la reticenza: ben pochi particola­ ri fornì Schuschnigg, e Mussolini per parte sua assicurò che la politica italiana verso l'Austria era immutata44. A seguito del­ l’incontro Mussolini fece sapere a Berlino di essere favorevole al progettato modus vivendi 45. Le informazioni che il senatore Salata, direttore dell’Istituto di cultura e poi ministro d’Italia a Vienna, nonché interlocutore e “consigliere” politico di Schuschnigg, fece pervenire a Roma sulle trattative austrote­ desche, ancorché fornite di prima mano da Schuschnigg osten­ tavano un eccesso di ottimismo circa la tutela delle posizioni dell’Italia: ciò perché nelle proposte di Schuschnigg era previ­ sto, nello schema dell’accordo, il riconoscimento da parte del

    42 DDI, V ili, voi. in, n. 695, alla data del 17 aprile e Documents Diplomatiques Frangais 1932-1939, 2me Sèrie (1936-1939) (d’ora in poi DDF, II), Ministère des Affaires Etrangères, Commission de publication des docu­ ments relatifs aux origines de la guerre 1939-1945, Paris, Imprimerie Nationale, 1963-, tome n, n. 90, tei. di Chambrun a Flandin. 43 DDI, V ili, voi. rv, n. 208. 44 DDI, V ili, voi. IV, n. 192. 45 DDI, V ili, voi. IV, n. 208.

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    [.’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    Reich non solo dell’indipendenza austriaca, ma anche degli im­ pegni che l’Austria aveva contratto con altre potenze, ivi com­ presa l’esplicita menzione dei protocolli di Roma46. Salata, che dopo la partenza di Suvich dal ministero degli Esteri era rimasto, in rappresentanza della lobby del nazionali­ smo e del fascismo giuliani, a perorare la difesa dell’indipen­ denza dell’Austria in funzione antitedesca con una forte in­ fluenza fascista sul regime interno austriaco, ancora alla fine di giugno continuava a sperare che in occasione dell’imminente accordo austrotedesco la Germania riconoscesse esplicitamen­ te il ruolo dell’Italia nei rapporti con l’Austria. Sviluppando in un certo senso un ragionamento già anticipato da Suvich con­ statava che, se così fosse avvenuto, il Reich creerebbe con questo atto, senza nostro intervento, ma con nostro vantaggio, una specie di ponte, e insieme un limite, per un’even­ tuale collaborazione germanica alla politica danubiana sulla piat­ taforma della preesistente e prevalente amicizia dell’Austria verso l’Italia. E del tutto ottimisticamente, ma senza alcun motivato fondamento, traeva la conclusione che verrebbe così esclusa per l’avvenire ogni possibilità di conflitto tra la politica austro-germanica e la politica austro-italiana e si assicure­ rebbe che in caso di un contrasto d’interessi politici ed economici tra i due gruppi l’Austria sarebbe vincolata, per questa sua nuova espli­ cita dichiarazione verso la Germania, agli obblighi risultanti dai suoi rapporti con l’Italia. Un ottimismo che sembrava offuscato soltanto dalle per­ sistenti agitazioni naziste in Austria, che erano in palese con­ trasto con l’apparente spirito di conciliazione che animava il negoziato diplomatico47. L’accordo austrotedesco fu firmato I’l l luglio 1936. Con esso l’Austria garantiva il suo allineamento alla politica del Reich germanico. L’asserita priorità dei rapporti con l’Italia ri­ mase un’interpretazione della parte italiana, che andava certa­ mente al di là dello stesso letterale rispetto dei protocolli di Roma. Il Reich si impegnava a riconoscere l’indipendenza au­

    46 ODI, V ili, voi. IV, n. 327. 47 La citazione da DDI, V ili, voi. IV, 29 giugno 1936, ma si veda an­ che nello stesso volume il n. 429 in data 2 luglio 1936.

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    CAPITOLO Vili

    striaca, a non intervenire in alcun modo negli affari interni del paese e a non appoggiare i nazisti austriaci. Il meccanismo dell’accordo, con l’esplicita menzione dei protocolli di Roma, au­ torizzava l’Italia a farsi essa stessa garante del rispetto degli ac­ cordi 48. In apparenza, quindi, l’Italia poteva essere più che sod­ disfatta di un accordo alla cui realizzazione aveva sicuramente contribuito. Di fatto però la soddisfazione espressa da Ciano nascondeva una situazione assai più complessa, che giustifica­ va le preoccupazioni e le attese della diplomazia internaziona­ le. In realtà, benché l’Italia tentasse di accreditare la tesi di ave­ re costretto a patti la Germania, imponendole il riconoscimen­ to dell’indipendenza austriaca, ciò comunque non significava avere ottenuto la rinuncia a\YAnschluss. Il dato politico più im­ portante recepito dalle cancellerie era il fondamentale accordo ormai esistente tra Italia e Germania; prevaleva comunque la convinzione che la Germania non avesse rinunciato in alcun modo a fagocitare l’Austria. In questo caso il comportamento dell’Italia equivaleva a un tacito consenso all 'Anschluss, la cui realizzazione era soltanto questione di tempo, confermando l’impressione che, in cambio del sostegno nella questione afri­ cana, l’Italia si fosse aggregata alla Germania in un’associazio­ ne all’interno della quale l’equilibrio tendeva a volgere a favo­ re del Reich. Al di là della questione d e\YAnschluss, il significato del­ l’accordo comportava che arbitra della situazione nell’area danubiano-balcanica tornava ad essere la Germania, la cui mossa era il segnale di un nuovo espansionismo. La momen­ tanea stabilizzazione dell’area danubiana pertanto non poteva tranquillizzare nessuno. Forse l’Italia poteva sperare di eserci­ tare in tal modo una forte pressione su Francia e Inghilterra per costringerle a riconoscere l’impero e lasciare aperto uno spiraglio alla ricomposizione dell’equilibrio mediterraneo. A una settimana dall’accordo austroteaesco, la rivolta di Franco in Spagna apriva un altro fronte politico-diplomatico (e ades­ so anche militare), che però confermava un orientamento in cui i fattori strategici si cumulavano sempre più a una solida­ rietà fra regimi che andava ben al di là del semplice «paralle­ lismo di azione» di cui parlava Mussolini ancora alla metà di

    48 Per la ricostruzione degli accordi fondamentale rimane Ulrich Eichstadt, Voti Dollfuss zu Hitler. Geschichte des Anschlusses Osterreicbes (1933-1938), Wiesbaden, Franz Steiner Verlag, 1955, cap. in.

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    L'EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L'INTERVENTO IN SPAGNA

    settembre al segretario agli Esteri austriaco Guido Schmidt, e che sarebbe sfociata nell’Asse Roma-Berlino 49. Le illusioni nella possibilità dell’Italia di rimanere prota­ gonista e padrona delle sue scelte, che la dirigenza fascista con­ tinuava a farsi pur dopo l ’accordo austrotedesco (al punto che questo venne talvolta definito impropriamente anche come tri­ partito), trascuravano il fatto che la Germania stava accortamente operando per attirare l’Italia dalla sua jparte, isolandola definitivamente dalla Francia e soprattutto dall'Inghilterra con la quale il dialogo, nonostante le rozze stilettate che Grandi continuava a infliggerle, non aveva ancora subito gli strappi che si erano prodotti con la Francia, anche in seguito all’evo­ luzione della sua politica interna. Alla fine della campagna d’Africa una serie di incontri tra esponenti italiani e tedeschi introdusse una consuetudine di cordialità nei rapporti tra i due paesi. Tra questi incontri meri­ ta di essere menzionata la missione svolta dal 24 al 28 giugno 1936 in Germania da una delegazione dell’Aeronautica milita­ re guidata dal sottosegretario generale Giuseppe Valle, che ol­ tre a incontrarsi con il generale Erhard Milcn, sottosegretario all’Aeronautica tedesca, ebbe contatti con Gòring. Come ri­ sulta dalla relazione stesa da Valle al rientro in Italia, la dele­ gazione non solo era rimasta impressionata dallo stato di pre­ parazione della Luftwaffe e dalle sue potenzialità deliberatamente offensive; essa era consapevole che da parte tedesca ci si sforzava di associare l’Italia ai piani tedeschi («Desiderio vi­ vissimo di collaborare per l’egemonia in Europa»)50. Poche settimane dopo, le vicende di Spagna avrebbero resi operativi questi propositi di collaborazione, accelerandone i tempi al di là di quanto ragionevolmente prevedibile. Più importante ancora doveva rivelarsi la missione a Roma di uno stretto collaboratore del Fiihrer, il ministro Hans Frank, che il 23 settembre compì con Mussolini e con Ciano una rassegna pressoché completa dei problemi internazionali sul tappeto, sottolineando l’affinità di interessi tra i due paesi ma anche quelle politico-ideologiche tra i due regimi e inau­ gurando una consuetudine di rapporti tra le rispettive gerar­ chie politiche destinata a scavalcare la prassi delle mere rela­ zioni diplomatiche. In questa occasione Frank, prendendo spunto dalla cooperazione di fatto già funzionante in Spagna,

    49 In DDI, V il i, voi. V, n. 67 del 15 settembre 1936. 50 In DDI, V ili, voi. V, appendice I.

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    trasmise un messaggio destinato a incidere profondamente sulla condotta di tutta la politica italiana, che vi trovò la legitti­ mazione del proprio ruolo nel Mediterraneo e il riconoscimento (al di là degli impegni realmente concordati tra le par­ ti) della funzione primaria nella gestione di un nuovo ordine in formazione: Il Fiìhrer tiene a far sapere che considera il mare Mediterraneo uale un mare prettamente italiano. All’Italia spettano nel Meiterraneo posizioni di privilegio e di controllo. Gli interessi dei te­ deschi volgono verso il Baltico che è il “loro Mediterraneo”51.

    a

    L’invito a recarsi in Germania, che Frank rivolse a Mussolini e a Ciano, avviò la fase di più intensa e più stretta presa di contatto tra i due paesi. In effetti, la visita di Ciano a Berlino nella seconda metà di ottobre sortì come primo risulta­ to concreto la firma il 23 ottobre del Protocollo dell’Asse, che al di là della proclamazione del proposito di combattere priori­ tariamente «la propaganda comunista», sul quale fu messo l’ac­ cento nella divulgazione propagandistica dei risultati dell’in­ contro, sintetizzava praticamente i punti d’accordo tra i due paesi relativamente a tutti i principali problemi sul tappeto: - procedere di comune accordo nelle trattative promosse dall’Inghilterra per il cosiddetto Patto occidentale (limiti rie­ sumazione di Locamo); procedere di comune accordo nella questione della Società delle Nazioni: l’Italia non aveva ancora deciso di uscirne definitivamente, fin quando vi rimaneva avrebbe agito tenendo conto degli interessi della Germania; - procedere al più presto al riconoscimento del governo na­ zionale spagnolo (previsto dopo l’occupazione di Madrid); ad esso avrebbe fatto seguito la dichiarazione di nullità dell'em­ bargo delle armi; - comune soddisfazione per l’accordo e la normalizzazione dei rapporti austrotedeschi; - procedere di comune accordo in vista di eventuali conferen­ ze internazionali di carattere economico-finanziario e appog­ gio dell’Italia alle rivendicazioni coloniali tedesche; - impegno di collaborazione reciproca per la politica commer­ ciale nell’area danubiana;

    51 Appunto dell’incontro già in Rodolfo Mosca (a cura di), L'Europa verso la catastrofe. 184 colloqui a i M ussolini ... raccolti da Galeazzo Ciano (1936-1942), 2 voli., Milano, Il Saggiatore, 1964 [ l a ed. 1948], ora in DD1, V ili, voi. V, n. 101.

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    - impegno della Germania a riconoscere l’impero italiano in Etiopia e dell’Italia a favorire in questa occasione le aspirazio­ ni economiche tedesche nella stessa area52. Il protocollo era e doveva rimanere segreto. Alla stampa fu diramato un comunicato che metteva in evidenza principal­ mente la «concordanza di vedute» fra i due paesi e il loro pro­ posito di continuare a tenersi in stretto rapporto («Corriere della Sera», 26 ottobre 1936). Al ritorno di Ciano in Italia, dopo la visita effettuata il 24 ottobre a Hitler a Berchtesgaden, nel corso della quale Hitler proferì parole di grande ammirazione per Mussolini destinate a produrre un grande effetto propagandistico e psicologico, il significato politico dei colloqui di Berlino fu illustrato nel di­ scorso pronunciato da Mussolini a Milano alle camicie nere il 1° novembre 1936. Un discorso tutto d’attacco, che mirava a spazzare via ogni illusione circa il disarmo, la Società delle Nazioni e la sicurezza collettiva, perché, spiegava il duce del fascismo, ogni «popolo virile» sdegnava l’ipotesi di affidare il proprio destino «alle mani incerte dei terzi», per prenderle di­ rettamente nelle proprie mani. Mussolini dimenticava che si stava associando alla potenza in ascesa della Germania nazista, alla quale si apprestava a delegare la guida dell’Asse e a conse­ gnare, ironia della sorte, il destino dell’Italia. Dopo avere passato superficialmente in rassegna i rap­ porti con i vicini europei e mediterranei dell’Italia, riservando a ciascuno di essi sarcasmo e minacce, Mussolini indicava nel­ l’accostamento alla Germania la premessa di un nuovo corso della politica italiana, come politica di armamenti, «pace ar­ mata», preludio per l’affermazione degli interessi vitali dell’Italia, che suonava come una vera e propria dichiarazione di guerra. E a conferma che un nuovo punto di riferimento era sorto nel firmamento politico dell’Italia ad illustrazione dei colloqui appena conclusi con i tedeschi, pronunciava una del­ le frasi del suo repertorio più citata ma non per questo meno significativa: Gli incontri di Berlino hanno avuto come risultato una intesa fra i due paesi su determinati problemi, alcuni dei quali particolar­ mente scottanti in questi giorni. M a queste intese, che sono state con­ sacrate in appositi verbali debitamente firmati, questa verticale Berlino-Rom a, non è un diaframma, è piuttosto un asse attorno al

    52

    Testo del protocollo ora in DDI, V ili, voi. V, n. 273.

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    CAPITOLO Vili

    quale possono collaborare tutti gli Stati europei animati da volontà ai collaborazione e di pace53. L’Asse Roma-Berlino era appunto la prima pietra sulla strada che doveva portare all’alleanza italo-tedesca.

    GRANDI: L’EROE DEL N O N INTERVENTO?

    Abbiamo già anticipato come l’adesione dell’Italia all’idea del non intervento fosse del tutto strumentale e destinata soltanto a coprire l’intervento di Italia e Germania. L’affermazione, contenuta nei ricordi di Grandi, secondo la quale essa «fu da principio sincera»54 e che soltanto dopo il viaggio di Ciano in Germania «le cose mutarono», non può essere in alcun modo accettata. Sappiamo che già all’inizio di settembre, ben oltre un mese e mezzo prima del viaggio in Germania, Ciano aveva dato a Grandi esplicite istruzioni per vanificare l’opera del Comitato del non intervento, conformemente del resto al pa­ rere dello stesso Mussolini (cfr. pp. 297-298). Le intese di Ciano in Germania non fecero cne confermare un orienta­ mento già acquisito dai responsabili della politica italiana e spingere semmai questo orientamento sino all’esasperazione, dal momento che la politica nazista mirava a impedire che po­ tesse comunque ricucirsi il rapporto tra Italia e Gran Bretagna, fortemente turbato dalla guerra d’Africa. Da questo punto di vista gli accadimenti di Spagna erano quanto di meglio la di­ plomazia nazista potesse desiderare; d’altronde, poiché inte­ resse prevalente della Germania era allora prendere tempo, per potere condurre in porto il proprio riarmo, nell’ottica dei tedeschi era perfettamente chiaro che a correre i maggiori ri­ schi e ad esporsi maggiormente dovesse essere l’Italia. Nelle questioni del non intervento la Germania era di­ sposta a seguire le mosse e le iniziative dell’Italia, uno dei po­ chi campi in cui essa delegò alla partner una funzione di guida e di primo piano. Di ciò, e delle sue conseguenze diplomatiche e politiche più generali, è possibile che fosse consapevole Grandi; non ne apparve sicuramente consapevole Ciano, che aveva avocato a sé la direzione dell’impresa spagnola e che cer­ tamente interpretò l’allineamento della Germania alle posizio-

    53 B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXVIII, pp. G l-12. 54 D . Grandi, I l mio paese, cit., p. 418.

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    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    ni dell’Italia nella questione del non intervento come una for­ ma di riconoscimento della leadership mediterranea dell’Italia: un grossolano equivoco sul quale giocarono largamente gli stessi tedeschi. Anche a non citare altre fonti, le carte dell’allora diplomatico e futuro segretario di stato agli Esteri del Reich Ernst von Weizsàcker recano larga traccia della consapevolez­ za delle implicazioni dell’intervento di Italia e Germania in Spagna e dei rischi che le due potenze correvano, ma anche della convinzione che a correre i rischi maggiori dovesse esse­ re l’Italia. Annotava von Weizsàcker il 22 novembre 1936 a proposito della crisi spagnola: 1. Bisogna considerare come assodate le circostanze seguenti: L’incapacità di Franco di conseguire il dominio sulla Spagna con le proprie forze. L’interesse vitale dell’Italia ad una Spagna non bolscevica, in particolare sulla costa mediterranea. La decisione del Fiihrer di impedire una vittoria del comuni­ Smo in Spagna. Il Fiihrer è intenzionato in caso di necessità ad offri­ re anche un aiuto di fanterie in ampia dimensione. La marina tede­ sca è sul punto di intervenire per prima cosa con sommergibili con­ tro la flotta rossa. 2. Il problema per noi consiste dunque nel fondere le intenzio­ ni tedesche in Spagna con il contemporaneo interesse tedesco e con la volontà del Fiihrer di impedire incondizionatamente a tempo in­ determinato un conflitto europeo. Si pone pertanto il problema se e come il conflitto possa essere localizzato e circoscritto al teatro di guerra spagnolo. Dalla condizione di guerra coloniale [...] deriverà passo passo uno stato direttamente analogo a un rapporto bellico della Russia contro Germania/Italia. Il ritmo di questo sviluppo sarà determinato dalla rapidità con la quale Franco andrà avanti in Spagna. Quanto più lenti saranno i suoi progressi, tanto più intensi saranno i riforni­ menti da entrambe le parti, tanto più critiche le relazioni tra Germania e Russia. Comunque l’intenzione prioritaria della Russia è quella di dividere tra di loro le potenze occidentali. Da Francia e Inghilterra c’è da attendersi un comportamento esitante. La Francia a seconda delle possibilità seguirà la politica in­ glese. In Francia naturalmente non è in discussione una presa di po­ sizione filotedesca, antirussa, anche se il gabinetto Blum dovesse ca­ dere. L’Inghilterra farà tentativi di pervenire a un compromesso ma, dopo il loro insuccesso, abbandonerà dapprima le parti contendenti al loro destino. L’Inghilterra conserverà i suoi diritti e interessi di paese neutrale soprattutto per quanto riguarda questioni navali e so­ lo successivamente si intrometterà nuovamente come arbitra. Nel caso più favorevole perciò il conflitto potrà essere per un certo periodo localizzato. 3. Gli indugi di Francia e Inghilterra, la ben nota indolenza 311

    CAPITOLO Vili

    spagnola, difficoltà organizzative, mancanza di prospettive unitarie da parte dei seguaci di Franco e via dicendo potranno e dovranno con­ correre a rendere sempre più intenso l’impegno di Germania e Italia. Anche d o p o la conquista del potere resta aperto il problema se il grup­ po attorno a Franco sarà in grado di tenere con le sue sole forze. L’intera impresa così costosa, alla lunga, poggia quindi sulle nostre forze e sulla partecipazione sperabilmente sufficiente degli ita­ liani. Essa deve essere condotta contro la Russia come nemico e con­ tro la disponibilità a intervenire in senso antitedesco di Francia e Inghilterra. Tutti gli elementi antifascisti condurranno contro di noi la guerra ideologica. L’obiettivo tedesco e quello italiano saranno in un primo mo­ mento un obiettivo negativo: non desideriamo una Spagna sovietica. Ancora più pressante è questo auspicio per l’Italia come potenza me­ diterranea, e forse neppure del tutto estranea a propositi territoriali. Quest’ultima circostanza, unitamente alla disinvoltura italiana nel sa­ crificare i propri amici, ci impone di lasciare allTtalia la precedenza nella crisi spagnola anche a costo di rischi. Il rischio dell’impresa, in rapporto al profitto - bisogna considerare anche gli schieramenti eu­ ropei dopo una simile azione - è così grande che essa non può essere portata a una buona conclusione in base a criteri puramente militari, 4. Da quanto detto deriva oggi quanto segue: a) La guerra civile spagnola dovrebbe essere portata a termine con la massima celerità; b) l’Italia deve impegnarsi chiaramente e così a fondo che non potrà tirarsi indietro senza di noi. Il suo maggior interesse dovrà tra­ dursi nei nostri confronti in impegni molto più rilevanti; c) dobbiamo conservare ali impresa il carattere di campagna coloniale, condotta con volontari (niente contingenti di eserciti rego­ lari; se necessario, al caso, formazioni di SS); d) sul mare non ci dovremo in alcun caso impegnare in modo da renderci nemica l’Inghilterra. Una partecipazione attiva tedesca sul mare (anche con sommergibili) è prematura; e) colloqui militari con l’Italia e con Franco possono essere condotti direttamente dal ministero della Guerra. Ma soprattutto per quanto riguarda il settore navale, devono rimanere sotto controllo politico. La libertà di decisione che ancora ci rimane non ci deve in alcun modo sfuggire55.

    Non si può attribuire, come vorrebbe a posteriori Grandi, alla «perfidia» della diplomazia tedesca il vicolo cie­ co in cui si cacciò la politica italiana: la Germania non fece al­ tro che esasperare le possibilità che le erano state offerte dal­

    55 D ie Weizsàcker-Papiere 1933-1950, a cura di Leonidas E. Hill, Frankfurt-Berlin, Propylàen, 1974, p. 103 e ancora p. 104 in data 10 dicem­ bre 1936.

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    L'EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    l’orientamento assunto dall’Italia. L’impegno italiano in Spagna non fu nella sua genesi dovuto alle pressioni di nessu­ no: fu una scelta del regime fascista. Del resto, il Diario di Ciano reca la testimonianza diretta della paternità dell’inter­ vento e della gestione personalistica che egli ne fece. Alla da­ ta del 27 agosto 1937, Ciano redasse la nota in cui rivendica­ va a sé e al duce la responsabilità, anzi il merito, dell’inter­ vento. Né, come vorrebbero i postumi estimatori e riabilitatori di Grandi sulla scorta dei suoi ricordi autoassolutori (De Felice, Nello), gli si può attribuire il merito di avere neutra­ lizzato le istruzioni di Ciano e Mussolini per perseguire ad ogni costo le relazioni con l’Inghilterra e sabotare l’intensifi­ cazione di quelle con la Germania. Come abbiamo già visto trattando della guerra d’Africa, Grandi si dimostrò uomo di partito e di regime molto di più di quanto non lo fosse lo stesso Ciano, animato al caso persino da quello spirito squadristico che certo non si confaceva al costu­ me diplomatico (si veda l’episodio della bastonatura che il fa­ scio di Londra inflisse, su ordine appunto di Grandi, a ufficia­ li della marina italiana in visita in Inghilterra che si erano mo­ strati troppo concilianti con gli inglesi)56. Rispetto a Ciano, Grandi aveva certamente maggiore intelligenza politica, espe­ rienza e capacità di manovra, tutti strumenti che gli servivano per applicare e interpretare le istruzioni che gli pervenivano da Roma ma che non lo trasformano in un eroe del non interven­ to o in un oppositore di Ciano. Grandi rappresentava un’al­ ternativa a Ciano per il carattere, per la forza della sua perso­ nalità, forse anche per la sua non dipendenza personale da Mussolini, sebbene egli fosse intrinsecamente per convinzione più vicino al duce di quanto non potesse esserlo Ciano, di una generazione più giovane, e che doveva la sua carriera unica­ mente alla sua personale soggezione a Mussolini. Detto questo, però, risultano evidenti anche i limiti di ogni tentativo di fare di Grandi un corpo estraneo alla diplomazia fascista. Perché questo è il punto: egli rappresentò sempre l’ala più aggressiva contro le democrazie occidentali, aveva rappresentato l’ala estrema delle minacce belliciste contro l’Inghilterra, adesso il suo tentativo di spingere l’Italia all’accordo diretto con l’Inghilterra nasceva dalla convinzione che queste fossero ora le due potenze più forti nel Mediterraneo (e forse in Europa e nel mondo), ma l’ipotesi che le punte estremistiche dei suoi

    56 Riferito da P. N ello, Un fedele disubbidiente, cit., p. 325.

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    comportamenti fossero soltanto espedienti retorici strumenta­ li per spingere l’interlocutore a cedere è un’ipotesi fortemente riduttiva degli effetti anche distruttivi che il suo comporta­ mento poteva generare. D ’altra parte, il ruolo che Grandi giocò nel Comitato di non intervento non autorizza, per quanto ne sappiamo finora, altra interpretazione della sua figura di “doppiogiochista” se non in funzione della copertura degli interessi italo-tedeschi: non doppiogioco per arginare la pressione tedesca (Nello), ma doppiogioco per ingannare inglesi, francesi e sovietici sulle reali intenzioni dell’Italia. Tuttavia, per valutare complessivamente il ruolo di Italia e Germania nella guerra di Spagna è opportuno riprendere i termini generali della questione. Nell’azione del governo ita­ liano, nonostante gli appelli che emissari italiani inviavano dal­ la Spagna per un intervento politicamente più diretto - anche un collaboratore di Ciano come Filippo Anfuso in occasione delle sue missioni in Spagna non cessò di attirare l’attenzione sulla necessità di una più immediata fascistizzazione del movi­ mento di Franco57 - più importante sembrò essere l’accentua­ zione del motivo antibolscevico. L’obiettivo proclamato di combattere l’affermazione del bolscevismo in Spagna era in­ fatti suscettibile di trovare un fronte di consensi molto più ampio di quanto non sarebbe avvenuto se si fosse inalberata la bandiera della fascistizzazione della Spagna. Sebbene soprat­ tutto per il regime fascista italiano fosse difficile fare accettare la dissociazione tra fascistizzazione e opposizione alla bolsce­ vizzazione, tuttavia era possibile stabilire un ordine di priorità tra i due obiettivi che ponesse il secondo in primo piano. In questo modo sarebbe stato certamente possibile raccogliere in­ torno a questo obiettivo, non necessariamente intorno ai me­ todi per conseguirlo, un’area di consensi presso molti circoli conservatori inglesi e francesi, forse anche oltreoceano, che non avrebbero viceversa approvato parole d’ordine o piat­ taforme di carattere apertamente fascista. E ciò vale anche per il consenso, di molta parte del cattolicesimo europeo e non, al­ la campagna di solidarietà con i ribelli spagnoli. Giocava infine a favore dello schieramento antibolscevi­ co la facile spendibilità di una simile piattaforma sotto il profi­

    57 In questo senso sono particolarmente significativi, tra i dispacci in­ viati da Anfuso dalla Spagna, quelli del 6 e del 18 novembre 1936 in DDL V ili, voi. V, rispettivamente ai numeri 363 e 438.

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    lo internazionale. Anche nell'immaginario collettivo una cro­ ciata contro il bolscevismo evocava immediatamente la con­ trapposizione di due schieramenti facilmente individuabili, che davano l'idea di una forza preponderante sul versante an­ tibolscevico, la riesumazione di un cordone sanitario che in passato era stato appannaggio delle diplomazie (anche di quella vaticana) e che adesso, grazie alla propaganda degli sta­ ti totalitari e dei loro alleati, entrava in un circuito di comuni­ cazione e di ricezione molto più ampio. La risonanza in strati diffusi della società europea, presso ceti di piccola e media borghesia e non soltanto nei circoli capitalistici, garantiva a una simile piattaforma un successo la cui ampiezza andava ben oltre la semplice identificazione con partiti e movimenti di tipo fascista. L’intervento di Joseph Goebbels al congresso del Partito nazionalsocialista del settembre del 1937 in chiave violentemente antibolscevica, e nelle parole del capo nazista anche antigiudaica, rientrava in questa costruzione politico­ propagandistica, anche se proprio la sede del discorso di Goebbels non era la più adatta per smentire il carattere stru­ mentale di questa impostazione e soprattutto il nesso che uni­ va la campagna antibolscevica all'espansione dei regimi di ti­ po fascista58. La firma del Patto Anticomintern tra Germania e Giappone il 25 novembre del 1936 e la successiva adesione dell’Italia il 6 novembre del 1937 fu interpretata dagli stessi esponenti fascisti come ben più di un semplice accordo poli­ tico-propagandistico. Anticipando i tempi del Patto tripartito del 1940, Ciano vi vide una vera e propria alleanza militare. «L'Italia - annotava nello stesso giorno sul suo Diario - ha rotto l’isolamento: è al centro della più formidabile combina­ zione politica militare che sia mai esistita». Determinante per decidere le sorti e la misura dell'in­ tervento era stata la battaglia di Madrid dell’autunno del 1936: l’insuccesso nazionalista di fronte alla capitale spagno­ la, dalla cui caduta ci si attendeva una grande risonanza poli­ tica, convinse Hitler e Mussolini che la guerra non si sarebbe risolta rapidamente, ma soprattutto che Franco non era in grado di venire a capo del conflitto da solo. In quest’ottica, nel novembre, la legione Condor partì per la Spagna. I primi reparti regolari italiani, camuffati da “volontari”, si imbarca­ rono sulle navi che li avrebbero sbarcati pochi giorni dopo in

    58 Testo del discorso di Joseph Goebbels in D er Parteitag der A rbeit vom 6. bis 13. Septem ber 1937, Miinchen, 1938, pp. 134-158.

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    CAPITOLO Vili

    Spagna, nello stesso mese di novembre. Italia e Germania, che avevano concordato di riconoscere il governo di Franco subito dopo la conquista di Madrid, furono costrette ad an­ ticipare i tempi (il riconoscimento fu annunciato il 18 no­ vembre). Ma ora il riconoscimento, che nelle intenzioni ori­ ginarie avrebbe dovuto servire a dare risonanza alla vittoria di Franco, stava a significare piuttosto la discesa in campo di­ retta delle potenze dell'Asse per sostenere una battaglia più lunga e più dura del previsto. Infine, una volta impegnatesi, le potenze che il 23 otto­ bre avevano sottoscritto il protocollo dell'Asse non potevano permettersi il rischio di andare incontro ad una sconfitta. Motivi strategici, politici e di prestigio si mescolavano a que­ sto punto in un nodo inestricabile. Non va sottovalutato fra l’altro, e ritorneremo sull’argomento, che il carattere antifa­ scista inevitabilmente impresso alla lotta contro il franchismo pose al governo fascista, assai più che non al governo del Reich (sebbene la partecipazione alla guerra di antifascisti te­ deschi non fosse numericamente inferiore a quella dei volon­ tari italiani), problemi di immagine e di contropropaganda di non lieve momento. Il regime fascista avvertì fortemente l'esi­ genza di rispondere all'opera degli antifascisti con successi di prestigio e con un impegno totale. Indirettamente, una con­ ferma di questa situazione fu rappresentata dall'accanimento con il quale in determinate occasioni la stampa fascista si ado­ però per controbattere l'efficacia di notizie che colpivano du­ ramente l'opinione pubblica (tra gli esempi più clamorosi si può citare il caso della fucilazione dei preti baschi ad opera dei franchisti o, in modo ancora più evidente, il caso del bom­ bardamento nazista di Guernica), cercando di rovesciare, si­ no al limite dell'incredibile, le responsabilità per i fatti citati tutte e interamente sui “rossi”. Il 28 novembre del 1936 il governo fascista stipulò con quello franchista l’accordo politico di solidarietà nella lotta contro il bolscevismo e nella restaurazione politica, che avreb­ be regolato i rapporti reciproci negli anni futuri, garantendo fra l’altro, per esplicita richiesta della parte spagnola, il ri­ spetto dell’integrità territoriale della Spagna, colonie compre­ se, per fugare le voci di mire italiane sulle Baleari e sul Marocco spagnolo59. La Germania stipulò un analogo accor­

    59 n. 504.

    Testo del protocollo segreto Franco-Ciano ora in DDI, V ili voi. V

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    ^’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    do con la Spagna il 20 marzo del 1937 60. Nei suoi rapporti con la Spagna l’Italia accentuò fortemente le motivazioni poli­ tiche e propagandistiche. Queste non furono estranee neppu­ re alla Germania, ma l’adesione della Spagna al Patto Anticom intern, insistentemente chiesta dal Reich, fu resa pub­ blica per ragioni prudenziali imposte da Franco solo alla fine del m arzo del 1939, quando la guerra era già stata vinta: forse un preludio dell’autonomia che Franco sarebbe riuscito a con­ servare al paese stremato dalla guerra civile anche durante il secondo conflitto mondiale. Nei confronti della Spagna, tuttavia, la Germania fece va­ lere prevalentemente i suoi interessi economici, vale a dire la necessità di ricevere in cambio degli aiuti militari rifornimenti in materie prime (nel 1935 la Germania importava dalla Spagna circa il 10 per cento del minerale di ferro e il 55 per cento della pirite che era costretta a procurarsi all’estero) del­ le quali aveva bisogno per la realizzazione dei piani di riarmo. La Germania chiedeva forniture dalla produzione corrente ma anche compartecipazioni in imprese minerarie, cosa che creò qualche fastidio al progetto franchista di espropriare gli inve­ stimenti stranieri, in parte per esigenze belliche, in parte per esasperazione demagogica del riscatto nazionale del quale si faceva banditore. In realtà, nel luglio del 1937 la Germania po­ teva imporre la salvaguardia dei suoi interessi economici; una società che era stata appositamente creata, la HISMA, fungeva da centrale di gestione dei rifornimenti e dei pagamenti da e per la Spagna. A fronte di questi risultati, all’inizio del 1937 le fonti diplomatiche tedesche sottolineavano ben a ragione che l’impegno militare attivo non aveva reso all’Italia praticamen­ te nulla in termini di benefici econom ici61. Ad onta di ogni atteggiamento di sfida, né Italia né Germania volevano correre il rischio che la guerra di Spagna dilagasse immediatamente in conflagrazione generale. Ciò di­ pendeva solo in parte da loro, ma fu soprattutto la non reatti­ vità di Francia e Inghilterra alle provocazioni italo-tedesche che consentì di mantenere il conflitto circoscritto. Se non fu af­ fatto una guerra locale, la guerra di Spagna fu tuttavia un con­ flitto almeno territorialmente localizzato. Nel colloquio di

    60 Testo in A k te n zur deutschen auswàrtigen Politik 1918-1945, aus dern Archiv des Auswàrtigen A m ts, Serie D (1937-1945) (d’ora in poi ADAP, D), Bd IH, Deutschland un d der spanische Biirgerkrieg 1936-1939, n. 234. « A D A P , D, Bd. Ili, n. 207.

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    Roma del 23 gennaio 1937 tra Mussolini e Gòring, che segnò un passo importante sulla via del consolidamento dell’Asse verso un’alleanza militare, fu espressa da parte sia tedesca sia italiana l’intenzione di impegnarsi, secondo l’Italia, «fino al li­ mite estremo, senza però arrivare al pericolo di una guerra ge­ nerale», come si legge nel resoconto del colloquio steso dal­ l’interprete ufficiale Paul Otto Schmidt pubblicato tra i car­ teggi di Ciano 62. In realtà, le due potenze sapevano di potere osare moltissimo, essendo la Francia paralizzata dai suoi con­ flitti interni (comprese le stesse divisioni all’interno del Fronte popolare) e l ’Inghilterra più che mai orientata all 'appeasement con le potenze dell’Asse; restava l’Unione Sovietica sul fronte opposto, ma essa non era assolutamente in grado di fare nes­ suna mossa arrischiata da sola. Nel protocollo di Hossbach del 5 novembre 1937, che ri­ produce il fondamentale colloquio tra Hitler e i capi militari della Wehrmacht, furono esplicitate anche le ragioni per le quali la Germania, pur essendo ovviamente sempre interessata alla vittoria di Franco, non lo era altrettanto a una vittoria troppo rapida. La motivazione di questo atteggiamento riguar­ dava direttamente i rapporti con l’Italia: quanto più durava la guerra di Spagna, tanto più l’Italia era incniodata su quel ver­ sante, mentre la Germania pensava già concretamente all’Austria e alla Cecoslovacchia. Un indizio eloquente delle diversità di interessi e della concorrenza che, ad onta di ogni convergenza e di ogni comune obiettivo, rendeva sempre più complessi i rapporti tra le potenze dell’Asse. Ed anche, ancora una volta, una anticipazione significativa delle divergenze di obiettivi che avrebbero caratterizzato l’alleanza anche durante la seconda guerra mondiale. Tuttavia, anche il ragionamento di Hitler era più complesso: una vittoria che rendesse Franco pa­ drone al cento per cento della Spagna era sospetta, perché era interesse della Germania che le tensioni nel Mediterraneo ri­ manessero aperte e perché soltanto in questo caso sarebbe sta­ to possibile giustificare un’ulteriore presenza dell’Italia nelle Bafeari. A sua volta, questa presenza avrebbe creato tensioni

    62 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 138-153. Si tratta del testo italiano del resoconto, l’unico esistente, non es­ sendo stato reperito negli archivi diplomatici del Reich l'originale steso da Paul Otto Schmidt, come informa A D A P , C, Bd. VI, 1, p. 341. In questo stesso volume si veda, tuttavia, al n. 164, il tei. dell’ambasciatore von Hassell al ministro degli Esteri del Reich che conferma piena soddisfazione di Ciano per la visita di Goring.

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    tra l’Italia da una parte e Francia e Inghilterra dall’altra, fino alla possibilità di una guerra, e una volta completamente in mano ai nazionali la Spagna avrebbe potuto anche passare dal­ la parte di Francia e Inghilterra. Una ragione di più, nell’otti­ ca di Hitler, per tenere l’Italia legata alla Germania, se non al­ tro dal punto di vista dei rifornimenti di materie prime63. Rispetto alle prospettive di tempi anche lunghi accettate senza impazienza dalla Germania, la situazione dell’Italia si presentò notevolmente diversa, anche per le prevedibili riper­ cussioni interne. Mussolini e, dietro di lui, Ciano avevano con­ cepito l’intervento in Spagna come una guerra tipicamente fa­ scista, quasi alla maniera squadristica (che era un po’ l’equiva­ lente del concetto della spedizione coloniale sottolineato da von Weizsàcker), sottovalutando completamente il contesto e i caratteri del conflitto come guerra civile che coinvolgeva sin nel profondo tutti gli strati e tutte le cellule della società spa­ gnola. E avevano sottovalutato anche la consistenza militare delle forze repubblicane, dando forse eccessivo credito al gruppo di militari capeggiato da Franco. Di qui anche le sorti­ te ripetutamente registrate da Ciano contro l’inerzia, la man­ canza di intraprendenza e di capacità di conduzione militare di Franco. Ma giocavano anche altri fattori, e non soltanto psico­ logici. In primo luogo, la consapevolezza del logoramento che subivano le unità italiane, specie dopo la decisione del novem­ bre-dicembre 1936 di passare a un nuovo livello dell'interven­ to e di impegnare un vero e proprio corpo di spedizione64. La sconfitta di Guadalajara, nella quale aveva svolto una parte determinante il volontariato antifascista, lungi dal fare ri­ considerare la natura dell’impegno italiano in Spagna, suscitò nei capi fascisti solo desiderio di vendetta. Del resto, prima an­ cora di Guadalajara, Ciano non aveva mancato di esternare propositi di ritorsione nei confronti dei volontari antifascisti. Il 6 febbraio 1937 aveva telegrafato al generale Roatta: Seguiamo la vostra azione e il suo successo con orgogliosa am­ mirazione. Resta inteso che mentre i prigionieri spagnoli dovranno

    venire da noi rispettati, bisogna passare subito per le armi i merce­ nari internazionali, naturalmente, per primi, i rinnegati italiani65.

    63 Come si evince dal testo del protocollo in Friedrich Hossbach, Zwischen Wehrmacht und Hitler, Wolfenbiittel, Wolfenbùtteler Verlagsanstalt, 1949, p. 215. 64 John F. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra d i Spagna, RomaBari, Laterza, 1977, parte II. 65 DDI, V ili, voi. VI, n. 132.

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    Ciano, che fra il febbraio e il marzo del 1938 si glorierà dei feroci bombardamenti di Barcellona e mentirà sfacciata­ mente ai diplomatici inglesi sulle responsabilità italiane attri­ buendole a Franco - laddove egli stesso scrive che a dare l’or­ dine dei bombardamenti al generale Valle era stato Mussolini in persona (nel Diario alla data del 20 marzo 1938), mosso da macabre esigenze spettacolari che non necessariamente coinci­ devano con gli interessi politici di Franco (il quale di fronte al­ l’opinione pubblica spagnola non voleva assumersi la respon­ sabilità di quei massacri) - , in quegli stessi giorni, ricordando Guadalajara, annotava: «Un anno fa passai la mia più brutta giornata: Guadalajara» (19 marzo 1938). Il 17 giugno del 1937 Mussolini aveva dettato (senza firmarlo) per il «Popolo d’Italia» un articolo di fondo la cui sostanza era racchiusa in queste parole: Nella battaglia del marzo i caduti fascisti furono centinaia e cen­ tinaia e ben duemila i feriti. Il fascismo, che ha abituato gli italiani a vivere una vita di ardimento e di verità, non ha taciuto le perdite, ma ha pubblicato in questi giorni i nomi, additandoli alla riconoscenza della nazione e alla esaltazione vendicatrice delle camicie nere. Dove, quando, come non è oggi possibile dire. Ma una cosa è certa; certa come un dogma di fede, della nostra fede: anche i morti di Guadalajara saranno vendicati.

    In agosto la vendetta di Guadalajara arrivò con il trionfo della conquista di Santander nei Paesi Baschi, che fu vantata come vittoria sostanzialmente italiana - il 27 agosto 1937 il «Corriere della Sera» ne parlò in questi termini: «La vittoria di Franco, che conclude l’irresistibile avanzata delle truppe na­ zionali e legionarie sul fronte di Santander, è una vittoria squi­ sitamente fascista e italiana. Fascista e italiana la concezione strategica e tecnica della manovra, fascista e italiano il caratte­ re travolgente dell’offensiva» - senza riguardo alcuno per le di­ chiarazioni di estraneità all’intervento che Ciano faceva ripete­ re dall’ambasciatore Grandi nel Comitato di Londra. I capi ita­ liani furono certamente irritati dal fatto che Franco non tenes­ se in sufficiente considerazione i suggerimenti dell’Italia nella condotta della guerra, nonché dall’impossibilità di stabilire un comando di coordinamento con spagnoli e tedeschi - né gli uni né gli altri avevano voluto accettare una simile proposta che impediva ai militari italiani di avere direttamente voce in capitolo nella direzione delle operazioni. Soprattutto Mussolini desiderava un successo di prestigio e di sostanza del­ le unità italiane; sperava probabilmente in un’azione di forza dell’Italia anche per ragioni di carattere più generale, ossia per 320

    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    accelerare un accordo con l’Inghilterra che segnasse il ricono­ scimento del ruolo mediterraneo dell’Italia e quindi anche la sanzione della conquista dell’Etiopia indebolendo indiretta­ mente, se non isolando, l’ostilità e le riluttanze della Francia. Di questo contesto e di questo gioco fece parte anche l’e­ quivoco del non intervento. Infatti, se è vero che il non inter­ vento servì a localizzare il conflitto sul territorio della Spagna, vero è soprattutto che esso condannò il legittimo governo di Madrid ad una insultante equiparazione con i ribelli franchisti e principalmente alla paralisi del suo diritto sovrano di acqui­ stare armi ovunque le trovasse. Automaticamente, pertanto, il non intervento divenne uno strumento in più a favore dei ri­ belli e un ulteriore atto di isolamento della repubblica, con la parziale eccezione degli aiuti dell’Unione Sovietica e del Messico. Abbiamo già detto che delle potenze fasciste quella che si espose maggiormente, in omaggio al prevalente interesse me­ diterraneo, fu l’Italia, cui la formula del non intervento servì a malapena a coprire l’ampiezza del proprio impegno. La for­ mula stessa dei “volontari” doveva servire a privare di ufficia­ lità quella che era la partecipazione di un vero e proprio corpo di spedizione, con un nutrito stuolo di ufficiali dello stato mag­ giore italiano, con tre divisioni di camicie nere e una dell’eser­ cito in pieno assetto di guerra, con necessità di costante rifor­ nimento, con l’impiego di reparti dell’aviazione e della marina comandati per missione nella penisola iberica 66. Era stato Ciano ad insistere perché l’iniziativa in Spagna procedesse tra Italia e Germania senza «il minimo contrasto».

    66 L’importante pubblicazione recente dell’Ufficio storico dell’eserci­ to a cura di Alberto Rovighi e Filippo Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola 1936-1939, 2 voli., Roma, Ufficio storico Sme, 19921993, preziosa soprattutto per la mole documentaria, insiste polemicamente nel sottolineare il carattere volontario delle forze italiane impegnate in Spagna. Si tratta di chiarire il concetto del volontariato (su cui si veda J. F. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, cit., parte II), sul quale si fece volutamente e consapevolmente confusione nei dibattiti sul non inter­ vento. I volontari delle forze fasciste si componevano di uomini delle forze regolari o in età di prestare il servizio in armi che si erano volontariamente segnalati per andare in Spagna, uomini dell’esercito, della marina e dell’a­ viazione con leggera prevalenza di camicie nere, nel quadro di un’intensa campagna propagandistica per indurre il loro reclutamento. Questi volonta­ ri furono inquadrati in unità esemplate su quelle delle forze regolari, con quadri delle forze regolari. Da questo punto di vista è chiaro che essi non po­ tevano essere omologati al volontariato internazionale di origine eminente­ mente politica che militò dalla parte repubblicana.

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    Il 7 gennaio del 1937 aveva lanciato a Grandi un messaggio che voleva essere constatazione della linea in corso e istruzio­ ne per l’avvenire: «Operiamo insieme e di pieno accordo» « Ciò che Ciano ancora non sapeva o di cui non volle prendere atto era che, come sarebbe risultato da molti segnali, la Germania non intendeva intervenire in Spagna nella stessa mi­ sura in cui lo stava facendo l’Itaha. L’8 gennaio 1937 Ciano fu informato che un autorevole emissario tedesco, l’ammiraglio Canaris, aveva fatto sapere che la Germania non intendeva im­ pegnarsi in Spagna al di là di quanto stava già facendo. Il capo dell’ufficio Spagna Luca Pietromarchi commentava che i piani italiani si erano mossi calcolando «un’azione germanica con­ comitante e pressoché equivalente»; in mancanza di essa l’Italia sarebbe andata incontro a maggiori difficoltà 6768. A metà gennaio Gòring a nome del governo del Reich aveva esplicitato a Mussolini e a Ciano, in una prima riunione a Palazzo Venezia, l’ambito e i limiti dell’aiuto militare concre­ to della Germania, confermando l’impossibilità di inviare or­ ganiche unità militari. L’atteggiamento tedesco non era frutto solo di sfiducia nei confronti di Franco, che doveva essere in­ coraggiato a contare sulle sue forze e a utilizzare meglio gli aiu­ ti che aveva ricevuto. Posto che comune obiettivo rimaneva co­ munque assicurare la vittoria di Franco, la preoccupazione co­ mune era quella di dare a Ribbentrop e a Grandi «identiche istruzioni per seguire una tattica temporeggiatrice» all’interno del Comitato per il non intervento. Chiaro era comunque che le trattative in seno al Comitato dovevano servire soltanto a prendere tempo e, nelle more di un accordo che non sarebbe mai maturato (o meglio Mussolini disse che l’avrebbe sottoscritto soltanto quando la vittoria di Franco fosse stata assicu­ rata), si doveva approfittare per continuare l’invio di aiuti al­ meno fino alla fine del mese di gennaio 69. Avvenuto un altro massiccio invio di uomini e materiali, Ciano si affrettò a comunicare a Grandi che non v’era più al­ cuna obiezione a un accordo per il controllo, che ora sarebbe servito a bloccare gli aiuti dall’altra parte: ma la parola d’ordi­ ne era prendere e «perdere tempo» 70.

    67 68 69 70

    D D I, V ili, voi. v i, n . 18. DDI, V ili, voi. VI, n. 28. Verbale dell’incontro del 14 gennaio 1937 in DDI, V ili, voi. VI, n. 55D DI, V ili, v o i. VI, n . 138 in d a ta 8 f e b b r a io 1937.

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    L'EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    Grandi per parte sua non aveva bisogno di essere inco­ raggiato ad azioni di sabotaggio diplomatico. N e era maestro, come quando poteva informare dell’esclusione della Russia dal controllo navale: essendo stato proposto alla Russia il settore peggiore dell’Atlantico, essa si vide costretta a rinunciare a par­ tecipare al controllo navale che fu demandato così alle sole po­ tenze occidentali, due delle quali, Italia e Germania, dirette parti in causa! 71 Un atteggiamento che si sarebbe ulteriormen­ te irrigidito dopo la sconfitta delle truppe fasciste a Gua­ dalajara, che esaltò l’arroganza di Grandi, il quale si vantò con Ciano di avere rintuzzato il delegato russo al Comitato del non intervento dichiarandosi «sicuro che nessuno dei volontari ita­ liani in Spagna avrebbe consentito» a ritirarsi «prima che la guerra civile sia terminata»72. Una sortita che sembrò eccessi­ va persino al rappresentante tedesco, che assunse un atteggia­ mento più prudente73. Mussolini in persona istruì Grandi ad accettare la discussione di principio sul ritiro, salvo «a provar­ la come inapplicabile e a ritardarne l’applicazione» sin quando non fosse stata vendicata la sconfitta di Guadalajara74, i E, pur dopo il Gentlemen’s Agreement del 2 gehnaio, Grandi non perdeva di vista il complesso dei versanti sui qua­ li l’Italia fronteggiava l’Inghilterra e cercava di negare il lega­ me tra l’impegno in Spagna e la persistente reticenza della Gran Bretagna al riconoscimento ufficiale dell’impero, respin­ gendo sdegnosamente ogni ipotesi di nuovi accordi sull disar­ mo, rivendicando totale libertà di armamenti per l’Italia e usando l’asse Roma-Berlino come ulteriore strumento di pres­ sione nei confronti di Londra75. La fretta che l’Italia mostrava nel voler concludere le operazioni in Spagna non era in contraddizione con la tattica dilatoria che essa adottò sistematicamente nella questione del non intervento. Ciò si dimostrò anzitutto a proposito dell’at­ tuazione del piano di controllo delle potenze, poiché era suo interesse che esso entrasse in vigore più tardi possibile, per consentire che nel frattempo fossero già state poste tutte le condizioni per il massiccio intervento delle forze armate italia­

    71 Grandi a Ciano, DDI, V ili, voi. VI, n. 206 del 27 febbraio 1937. 72 DDI, V ili, voi. VI, n. 327 del 24 marzo 1937. 73 M. Merkes, Die deutsche Politile gegeniiber dem spanischen Biirgerkrieg, cit., pp. 113-114. 74 DDI, V ili, voi. VI, n. 334, in data 25 marzo 1937. 75 Riferendo il 7 aprile un colloquio con Vansittart in DDI, V ili, voi. VI, n. 425.

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    ne. Nel già citato colloquio con Gòring del 23 gennaio 1937, Mussolini esplicito senza mezzi termini la tattica del governo fascista: «Nella questione del divieto dei volontari, la posizio­ ne dell’Italia e della Germania è in ogni caso favorevole. O si arriva ad un divieto, e allora da parte italiana è stato fatto, con i forti imbarchi degli ultimi giorni, il massimo degli sforzi pos­ sibili: il numero dei volontari ha raggiunto i 44.000. Oppure il divieto non viene deciso, e allora l’Italia continuerà da parte sua ad inviare volontari in Ispagna». In realtà, il divieto fu con­ cordato a partire dal 20 febbraio, ma nulla e nessuno potero­ no impedire all’Italia di continuare a fare affluire sino all’ulti­ mo (addirittura ancora nel marzo del 1939 vi furono invii di re­ parti in Spagna) uomini in aiuto a Franco. N é si trattava di tra­ sporti clandestini o che potessero sfuggire ad un avvistamento. La stessa tattica, protagonista Grandi, l’Italia adottò quando si trattò di discutere il piano di ritiro dei “volontari”: l’importante era spingere il negoziato all’esasperazione, pro­ trarlo più a lungo possibile e dichiarandosi disposti a ritirare i “volontari” quando le forze di Franco avessero già assestato il colpo definitivo alle residue resistenze repubblicane. Soltanto il 9 ottobre 1938 sarebbe stato annunciato il rimpatrio dalla Spagna dei “legionari” italiani con più di diciotto mesi di inin­ terrotta campagna, ossia di un numero minimo di reparti poi­ ché la maggioranza non aveva ancora raggiunto una simile an­ zianità di milizia 76. Ancora un esempio della tattica non solo dilatoria ma sabotatrice in senso stretto del delegato italiano. Quando Eden lo interpellò sulla richiesta sovietica di accertare la natura delle truppe italiane, se volontari o forze dell’esercito regolare, Grandi non si accontentò di chiedere che il Comitato non la prendesse in considerazione in quanto provocazione ossia che fosse lasciata cadere, ma pretese che fosse formalmente respinta ritenendola una offesa diretta all’Italia fascista77. Imprimere «il ritmo più lento possibile» era comunque la parola d’ordine conforme alla tattica temporeggiatrice scelta da Grandi78.

    76 «Corriere della Sera», 9 ottobre 1938. Alla stessa data il ministero della Guerra prevedeva il ritiro di 10.000 uomini dalla Spagna e la riorga­ nizzazione delle «truppe legionarie», mirando a qualificare l’aiuto italiano piuttosto nella direzione della guerra e dell’addestramento dei quadri che nell’impiego diretto e massiccio di unità operative. Cfr. A. Rovighi, F. Stefani (a cura di), La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit., voi. Il, t. 2, Documenti e allegati, n. 74. 77 D DI, V il i, voi. VI, n. 446 in data 12 aprile 1937. 7» DDI, V ili, voi. VI, n. 507, 24 aprile 1937.

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    Come se tutto ciò non bastasse capitò anche l’affare di Guernica a caricare la tattica agitatoria di Grandi («Come era prevedibile - scriveva il 29 aprile da Londra - le descrizioni a carattere sensazionale inviate dai corrispondenti inglesi sulla pretesa distruzione di Guernica da parte di aeroplani tedeschi, sono state sfruttate da tutto l’antifascismo inglese per un’of­ fensiva contro i nazionali spagnuoli e i Paesi che simpatizzano per la loro causa»), il quale invocò l’iniziativa di una «contro­ propaganda»79. Per parte sua Ciano respinse la richiesta in­ glese ai un’inchiesta internazionale su Guernica e si associò soltanto a un generico appello per «umanizzare la guerra civi­

    le» 80. Una nuova manifestazione dell’atteggiamento dilatorio dell’Italia nell’ambito del Comitato del non intervento si ebbe a seguito del bombardamento di Almeria da parte della flotta tedesca (in risposta all’attacco di forze di Valencia contro la na­ ve da battaglia Deutschland). Avendo sospeso la Germania la sua collaborazione dal Comitato e dal meccanismo di control­ lo, Grandi espresse la solidarietà dell’Italia con la posizione te­ desca81, sottolineando anche la consapevolezza che soprattut­ to gli inglesi speravano di potere dividere la Germania dall’Italia. Ancora il 20 giugno Ciano ripeteva a Grandi la contra­ rietà dell’Italia al ritiro dei volontari «in un momento in cui la sorte sorride alle armi nazionali». E si attardava in una defini­ zione dei volontari che mirava a coprire bugiardamente le re­ sponsabilità delle potenze fasciste: «Persone che liberamente e generosamente sono andate a battersi per la causa nazionale e sulle quali noi non possiamo esercitare un’azione di autorità imponendo loro di ritirarsi da un’impresa alla quale non siamo stati noi a costringerli» 82. La questione dei volontari - doveva riconoscere Grandi il 23 giugno - era diventata centrale nella politica inglese verso Italia e Germania, una “ossessione” del­ la classe dirigente britannica, «un test case di politica generale spagnola ed europea», in virtù del quale la sincerità del non in­ tervento andava commisurata alla volontà di ritiro immediato dei volontari83.

    79 80 8> 82 85

    DDI, DDI, DDI, DDI, DDI,

    V ili, V ili, V ili, V ili, V ili,

    voi. voi. voi. voi. voi.

    vi, nn. 529 e 539. VI, n. 660, in data 29 maggio 1937. VI, n. 673, 2 giugno 1937. VI, n. 780. VI, n. 780.

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    CAPITOLO Vili

    Grandi dunque non aveva fatto altro che seguire la scuo­ la del suo diretto superiore gerarchico, Galeazzo Ciano. Il mo­ do nel quale egli affrontò la questione della cosiddetta «pira­ teria» nel Mediterraneo fu tipico del comportamento della di­ plomazia italiana e della sua gestione del non intervento. Quando gli inglesi, per bocca dell’incaricato d’affari a Roma, protestarono timidamente contro i sommergibili cosiddetti «pirati», dei quali non era peraltro difficile scoprire l’identità, che operavano nel Mediterraneo contro i rossi e che palese­ mente non potevano non essere italiani, Ciano non mancò di vantarsi delle sue menzogne. Alla data del 23 agosto 1937 scri­ veva nel Diario: «Ingram ha fatto un passo amichevole per i si­ luramenti nel Mediterraneo. H o risposto con molta faccia to­ sta. Se n’è andato quasi contento». La morale della diplomazia fascista era racchiusa del resto in questa alternativa: «O rifiu­ tano di riconoscerci, e siamo liberi di agire, o ci riconoscono, e siamo liberi lo stesso per la legge fascista della cosa fatta capo ha» 84. Ancora più evidenti dovevano risultare la confusione e il rovesciamento dei ruoli allorché Ciano, dopo avere rifiutato di partecipare alla conferenza di Nyon convocata per il 10 set­ tembre da Francia e Inghilterra per porre fine alle aggressioni nel Mediterraneo, con la conseguenza che l’Italia era stata esclusa dal controllo navale, registrava con evidente soddisfa­ zione l’accondiscendenza di inglesi e francesi a nuove propo­ ste dell’Italia e ad accordi suppletivi: «Accettiamo una confe­ renza tecnica per modificare le clausole di Nyon secondo i no­ stri desideri. E una bella vittoria. Da imputati siluratori a poli­ ziotti mediterranei, con esclusione degli affondatori russi»85. N é la commedia della pirateria si chiuse qui; il 12 marzo 1938 lo stesso Diario annotava: «Colazione con i pirati: il Duce ha riunito intorno a sé, a tavola, gli Stati maggiori delle navi che fecero la pirateria contro i rossi. Parla brevemente loro, esal­ tando l’opera della Marina nella guerra di Spagna». Il modo in cui fu condotta la farsa del non intervento im­ plicherebbe che se ne esaminasse l’aspetto non meno impor­ tante del perché. Si può argomentare, come del resto è stato fatto, che il non intervento non ebbe in fin dei conti impor­ tanza determinante ai fini delle sorti del conflitto. Ma una si-

    84 Galeazzo Ciano, Diario 1937-1938, Bologna, Cappelli, 1948, 3 set­ tembre 1937. 85 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 21 settembre 1937.

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    L’EQUILIBRIO MEDITERRANEO E L’INTERVENTO IN SPAGNA

    mile valutazione viene contraddetta nel momento stesso in cui si riconosce che «per la Germania e per l’Italia la politica di non intervento fu solo uno strumento per appoggiare diplo­ maticamente Franco e per impedire sviluppi politici non desi­ derati»86. Come se l’ombrello diplomatico offerto a Franco non rappresentasse di per sé un intervento di primo piano, che sbilanciava decisamente la situazione a svantaggio della parte governativa. Di più c’è da dire che la copertura che il non in­ tervento diede agli obiettivi e ai metodi della politica fascista, se creò certamente alla distanza l’illusione infondata che le po­ tenze fasciste potessero raggiungere qualsiasi obiettivo, sui tempi brevi risultò tuttavia una carta vincente. Prova ne fu che l’Inghilterra non usò nessuna delle forme di pressione che avrebbe potuto utilizzare nei confronti del governo fascista; anzi, dopo il Gentlemen’s Agreement del 2 gennaio 1937 sullo status quo mediterraneo, che era stato accelerato proprio dalla questione spagnola, finì per convalidare il 16 aprile 1938 l’in­ tesa con l’Italia, con il definitivo riconoscimento dell’impero e il sacrificio del ministro degli Esteri Eden, inviso all’Italia. L’Inghilterra, che prima aveva cercato di chiedere il ritiro del­ le forze italiane dalle Baleari, e poi (il 12 marzo 1938) si era li­ mitata a chiedere la conferma che l’Italia non avrebbe inviato altri uomini in Spagna (cosa che peraltro, nonostante le assi­ curazioni di Ciano, fu di lì a poco smentita dai fatti), alla fine si accontentò dell’assicurazione «che una volta raggiunta la vit­ toria da parte delle truppe di Franco, l’Italia non intende man­ tenere forze militari in Spagna»87. Per giunta, alla fine del 1°37, su pressioni della Germania, l’Italia si era definitivamente allontanata dalla Società delle Nazioni, dando così a intendere, al di là dello stato di agonia in cui era ormai entrato l’organismo internazionale, di voler se­ guire un proprio autonomo dinamismo, fortemente destabiliz­ zante proprio dello status quo mediterraneo. Sia che volesse compiere un estremo tentativo per impedire la saldatura defi­ nitiva tra Hitler e Mussolini, sia che ormai fosse già incammi­ nata sulla strada dell 'appeasement ad ogni costo, l’Inghilterra aveva ceduto a tutte le minacce e lusinghe dell’Italia.

    86 M . Merkes, Die deutsche Politik gegeniiber dem spanischen Biirgerkrieg, cit., p. 166. 87 Nel colloquio con l ’ambasciatore Perth del 15 marzo 1938,

    L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, p.320.

    327

    IX

    DAL GENTLEM EN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    ITALIA E GRAN BRETAGNA: L’INTESA IMPOSSIBILE

    Attraverso la conquista dell’Etiopia e l’intervento in Spagna il regime fascista era convinto di aver riportato l'Italia al rango di potenza mondiale e soprattutto di averle restituito un ruolo dom inante e determinante nel Mediterraneo. Questa convin­ zione aveva alimentato nel governo di Mussolini e nella diplo­ mazia fascista l'illusione di aver restituito all'Italia anche la possibilità di operare con la massima flessibilità nella scelta dei suoi contraenti internazionali, trattando ora con l’Inghilterra ora con la Germania, come se non dovesse tenere conto degli interessi antitetici che di fatto ostacolavano una simile libertà d ’azione e trascurando completamente di migliorare i rappor­ ti con la Francia, nei cui confronti era stata costantemente ri­ volta la polemica più immediatamente politica del regime. E in effetti la riconquista del ruolo determinante nel Mediterraneo voleva rappresentare una sconfitta della Francia, che

    Mussolini intendeva piegare senza passare, a differenza che con l’Inghilterra, per il negoziato. Vedremo più avanti le con­ seguenze di questo comportamento, in presenza dell’accelera­ zione sia dell’emancipazione della Germania dai vincoli di Versailles, sia del graduale riavvicinamento a essa da parte dell’Italia. 329

    CAPITOLO DC

    All’alba del 1937 Italia e Inghilterra firmarono il Gentlemen’s Agreement, che avrebbe dovuto portare alla di­ stensione dei rapporti tra i due paesi garantendo all’In­ ghilterra che non aveva da temere alcuna ulteriore iniziativa da parte dell’Italia in direzione della modifica dell’equilibrio del Mediterraneo. L’accordo, firmato il 2 gennaio dal ministro Ciano e dall’ambasciatore britannico Eric Drummond, era stato preceduto il 31 dicembre 1936 da uno scambio di note verbali nelle quali, in relazione all’intervento dell’Italia in Spagna, l’Inghilterra chiedeva assicurazioni che l’Italia non avesse concordato o non intendesse stringere con Franco ac­ cordi tali da alterare lo status quo nel Mediterraneo occiden­ tale, con allusione anche troppo trasparente all’eventuale ces­ sione all’Italia delle isole Baleari che erano state al centro di molte vociferazioni. La sostanza dello scambio si può dedurre dal passo cen­ trale della risposta di Ciano alle sollecitazioni di Drummond: Non ho per conseguenza alcuna difficoltà a confermare, a no­ me del governo italiano, che il governo britannico è nel vero ritenen­ do che, per quanto riguarda l’Italia, l’integrità territoriale attuale del­ la Spagna debba restare in ogni circostanza intatta e inalterata b

    La sostanza dell’accordo consisteva nel reciproco ricono­ scimento della libertà di transito nel Mediterraneo e attraverso il canale di Suez, che era stata messa in pericolo dalla spedi­ zione abissina. Ma in realtà né l’Italia né l’Inghilterra, nel fir­ mare il Gentlemens Agreement, avevano come obiettivo la normalizzazione dei reciproci rapporti. L’accordo era stato do­ minato dalla reciproca diffidenza, ulteriormente alimentata dall’incerta situazione creata anche dalle prime mosse compiu­ te dalla Germania in direzione della riconquista della sovranità militare. Da parte italiana, al di là dei timori mai sopiti nei con­ fronti di manovre dell’Inghilterra tendenti ad escluderla dal Mediterraneo, prevaleva l’intento di separare l’Inghilterra dal­ la Francia, l’unico alleato sicuro su cui potesse contare il go­ verno di Londra. L’avvicinamento all’Inghilterra, oltre che ap­ parente, era in funzione dell’isolamento della Francia, nei cui confronti l’Italia nutriva un’ostilità politica che andava certa­ mente oltre l’estraneità alla democrazia parlamentare manife­ stata anche nei confronti della Gran Bretagna. Questa, per

    1 DDI, V il i, voi. V, n. 705.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    parte sua, incominciava ad avvertire il pericolo che l’Italia si avvicinasse sempre più alla Germania, la cui ascesa rappresen­ tava la preoccupazione principale della Gran Bretagna in quanto recava in sé la minaccia di un predominio continentale tedesco. Apparentemente, questa minaccia avrebbe dovuto co­ stituire un momento di convergenza tra Italia e Gran Bretagna; di fatto, non soltanto i precedenti della situazione creata dalla guerra d’Africa e dall’atteggiamento della Società delle Nazioni, che aveva avuto nell’Inghilterra il massimo alfiere, ma anche gli sviluppi più recenti a partire dalla guerra di Spagna non avevano concorso a riavvicinare Italia e Gran Bretagna. Né il corso divergente delle due potenze era stato in definitiva rallentato dall’accordo del 2 gennaio. Nei fatti esso non fu più di una tregua. Ma mentre per l’Italia l’avere strappato l’accor­ do equivaleva all’avere ottenuto un ulteriore riconoscimento della fondatezza delle sue rivendicazioni a contare di più nel­ l’area mediterranea, da cui trarre forza per nuove richieste, l’assicurazione che l’Italia non intendeva forzare lo status quo sembrò aver appagato le linee della politica britannica. Difficilmente, d’altronde, l’Inghilterra avrebbe potuto elabo­ rare una politica attiva verso l’Italia senza tenere conto delle esigenze della Francia, tenuta viceversa volutamente al di fuo­ ri di ogni prospettiva di accordo dall’Italia, anche se la Francia stessa non intendeva in alcun modo essere coinvolta in mag­ giori implicazioni. Era d’altronde prevedibile che, se nell’area spagnola l’Inghilterra si fosse decisa a sviluppare una politica più attiva, si sarebbe mossa con maggiore impegno nei con­ fronti della Germania piuttosto che dell’Italia. Che i due paesi attribuissero un valore diverso all’accor­ do si sarebbe dimostrato ben presto anche al di là della con­ troversia ancora aperta sul non intervento in Spagna. L’11 gennaio l’ambasciatore Drummond comunicò a Ciano che il governo di Londra intendeva registrare l’accordo appena con­ cluso presso la Società delle Nazioni; alla ricniesta di Drummond se anche l’Italia intendesse fare un analogo passo, Ciano comunicò che questo non era nelle sue intenzioni2. Una risposta che non si spiegava soltanto con il desiderio dell’Italia di non ribadire la sua sudditanza alla Società delle Nazioni, dalla quale semmai meditava sempre più seriamente la seces­ sione, ma anche con l’intenzione di non attribuire all’accordo del 2 gennaio un carattere più vincolante di quanto non fosse

    2 R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, p. 135.

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    CAPITOLO IX

    una semplice dichiarazione di buone intenzioni. Proprio negli stessi giorni il maresciallo Gòring, a Roma per conto del Terzo Reich, rinnovava le pressioni perché l’Italia si affrettasse ad ab­ bandonare la Società delle Nazioni. In realtà, le ultime remore che vincolavano ancora l’Italia all’organismo internazionale erano costituite dal desiderio di vedere coronato il successo dell’impresa etiopica con il riconoscimento ufficiale della Società delle Nazioni. Il Gentlemen’s Agreement con Londra può essere interpretato anche come un passo tendente a orien­ tare l’Inghilterra a favore di un pronunciamento della Società delle Nazioni nel senso desiderato dallTtalia. Nelle sue memorie, l’allora ministro degli Esteri Eden sottolinea ripetutamente l’intenzione dell’Inghilterra, una vol­ ta ottenute le garanzie per la sicurezza nel Mediterraneo, di non interferire negli interessi di altri paesi. In questo senso po­ teva fare appello, fra l’altro, al discorso che aveva pronunciato alla Camera dei Comuni il 9 luglio 19373. L’importanza di quel discorso risiedette nel fatto che il nuovo primo ministro inglese Neville Chamberlain, che era succeduto a Stanley Baldwin alla fine di maggio e che era for­ temente orientato a cercare un modus vivenai con l’Italia e con la Germania, trasse spunto dalle positive reazioni italiane alle rassicuranti dichiarazioni di Eden per avviare uno scambio di opinioni in vista di un accordo formale. Se in apparenza Cnamberlain non faceva che cogliere gli spunti lanciati da Eden, nei fatti, nei mesi seguenti, sarebbe emersa tra i due uo­ mini di stato una divaricazione che non derivava soltanto da una questione di metodo ma rivelava una reale divergenza nel merito dei rapporti con le potenze dell’Asse. Spunto preciso all’iniziativa di Chamberlain di riannoda­ re il dialogo con l’Italia fu il messaggio di Mussolini, trasmes­ so al premier inglese il 21 luglio daU’ambasciatore Grandi. Mussolini vi sottolineava la disponibilità a discutere in senso lato il problema dei rapporti tra i due paesi, ma insisteva spe­ cificamente sulla necessità per l’Italia di ottenere il formale ri­ conoscimento dell’impero italiano in Etiopia4. Cogliendo prontamente l’occasione, Chamberlain rispondeva il 27 luglio a Mussolini, sempre per il tramite di Grandi, ribadendo le

    3 Le m emorie di Sir A n th o n y Eden, 3 voli., Milano, Garzanti, 19601968, voi. I, D i fro n te ai dittatori, pp. 566-567. 4 Donatella Bolech Cecchi, È accordo d i due imperi. Laccordo italo-inglese del 16 aprile 1938, Milano, Giuffrè, 1977, p. 10.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    profferte di amicizia e la disponibilità ad avviare la più ampia discussione dei problemi aperti tra i due paesi ma precisando che il richiesto riconoscimento dell’annessione dell’Abissinia avrebbe potuto avvenire soltanto nel quadro di un più genera­ le accordo tra i due paesi5. Così facendo, Chamberlain inau­ gurava anche una sorta di diplomazia personale, tendente ad avocare direttamente a sé il rapporto con i due dittatori delle potenze dell’Asse, che era stata certamente non ultima delle cause dell’incrinatura dei suoi rapporti con Eden. Questi nelle sue Memorie accuserà esplicitamente il primo ministro di in­ vadenza di campo e di imperizia nella conduzione diplomati­ ca, ma sottolineerà soprattutto la divergenza fondamentale tra lui e il premier nel modo di affrontare i rapporti con il dittato­ re fascista e quello nazista, vale a dire il suo dissenso da una politica di concessioni che non metteva alla prova la serietà della dittatura nel rispettare gli impegni assunti6. Ma il punto sostanziale era che Eden non era affatto con­ vinto della buona fede dell’interlocutore italiano; soprattutto il rafforzamento dell’ammassamento di truppe italiane in Libia lo rendeva sospettoso sulle intenzioni dell’Italia, che erano quanto meno da verificare. Ignaro o no che fosse delle tensio­ ni all’interno del gabinetto inglese, Mussolini non lasciò affat­ to cadere il filo teso da Chamberlain. Il 2 agosto fece perveni­ re al premier un nuovo messaggio in cui tornava a insistere sul­ la prospettiva di «pacifica coesistenza» dei rispettivi interessi per lo sviluppo dei rapporti e auspicava che fossero chiariti gli «infondati sospetti e malintesi» che ancora gravavano su alcu­ ne aree dei rapporti reciproci. Mussolini insomma accoglieva pienamente la proposta di Chamberlain di avviare i colloqui7. Nel nuovo incontro con Grandi il 2 agosto Chamberlain aveva già fatto presente che bisognava tenere conto degli in­ teressi e delle reazioni della Francia a un riavvicinamento an­ glo-italiano, ma Grandi per conto suo aveva anticipato anche che, se la riunione ginevrina del settembre successivo non avesse dato via libera al riconoscimento della conquista dell’Abissinia, i colloqui con l’Inghilterra non sarebbero pro­

    5 D. Bolech Cecchi, L’accordo d i due imperi, cit., p. 11. Resoconto del colloquio di Grandi con Chamberlain in DDI, V ili, voi. VII, n. 127. 6 L e memorie di Sir A n th o n y Eden, cit., voi. I, p. 748; voi. II, La resa dei conti 1938-1945, pp. 16 sg. 7 Lettera autografa di Mussolini per Chamberlain trasmessa da Ciano a Grandi, in DDI, V ili, voi. VII, n. 155 in data 31 luglio 1937.

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    CAPITOLO IX

    seguiti8. Nonostante l’ottimismo ostentato da Chamberlain e dallo stesso Ciano in una intervista del 3 agosto all’Universal News Service, che fu riprodotta dalla stampa italiana9, le ri­ serve appena citate rappresentavano di per sé momenti di fre­ no importanti per lo sviluppo di un negoziato. Come se ciò non bastasse, l’estate del 1937 segnò l’inten­ sificazione degli incidenti navali nel Mediterraneo, che non po­ teva non convalidare le diffidenze di Eden e che vide la con­ vocazione da parte di Francia e Inghilterra della conferenza di Nyon per il controllo del Mediterraneo, apertasi il 10 settem­ bre 1937 e alla quale, come abbiamo già visto nel capitolo V ili, l’Italia si rifiutò di prendere parte. Altro non indifferente motivo di disturbo per il negozia­ to italo-inglese e di preoccupazione per la diplomazia britan­ nica (anche a causa delle pressioni di quella francese) fu il con­ temporaneo intensificarsi dei contatti italo-tedeschi, sui quali ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. Tutto ciò non sembrò comunque incrinare, quali che fos­ sero le cautele da parte dell’Inghilterra, la volontà di avviare conversazioni a largo raggio. L’arrivo a Roma alla fine di set­ tembre di lord Perth (ossia dello stesso Drummond con il nuo­ vo titolo acquisito a seguito della morte del fratello) costituì l’occasione per la ripresa del discorso. Tuttavia, da parte italia­ na non sembrava esservi fretta e per parte sua Ciano non do­ vette nascondere cenni di scetticismo (come traspare dal Diario alla data del 27 agosto). La possibilità prospettata a fi­ ne ottobre da Eden di un incontro con Ciano, in occasione del­ la conferenza di Bruxelles delle potenze interessate al conflitto cino-giapponese10, sembrò sulle prime incontrare il favore di Ciano e dello stesso Mussolini, ma nel giro di ventiquattr’ore, con disdoro della vanità di Ciano che già pregustava la con­ centrazione su di sé di «tutti i proiettori della pubblicità mon­ diale», Mussolini fece marcia indietro: «Il colloquio con Eden, non preparato sarebbe inutile e forse dannoso per la delusione che provocherebbe»11. Il fatto è che l’Italia voleva prelimi­ narmente la garanzia che si sarebbe giunti al riconoscimento dell’impero, lasciando cadere ogni più generale motivazione dell’avvio dei colloqui. Al disappunto di Eden per il rifiuto di

    8 9 10 11

    Grandi a Ciano, in DDI, V ili, voi. vn, nn. 136 e 161. Cfr. «Corriere della Sera», 5 agosto 1937. G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 28 ottobre 1937. G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 29 ottobre 1937.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    autorizzare Ciano all'incontro di Bruxelles, Chamberlain con­ trappose un nuovo invito a Mussolini a riprendere i colloqui, mettendo nuovamente in evidenza anche la sempre più marca­ ta distanza di posizioni tra il premier e il segretario agli Esteri. Infine, il 6 novembre l’Italia aveva aderito al Patto Anticomintern che Germania e Giappone avevano firmato sin dal novembre del 1936; l’Italia vi aderiva ora come firmataria originaria per accrescere il significato della sua partecipazione alla combinazione a tre, che non era soltanto in funzione an­ tibolscevica ma anche, come è stato avvertito da più di uno studioso, in funzione antibritannica, almeno per quanto ri­ guarda le intenzioni del Giappone e dell’Italia1213. Le difficoltà che l’Italia frapponeva alla ripresa dei colloui furono pubblicate esplicitamente in due interventi ell’Informazione diplomatica, il primo del 2 novembre (n. 5), redatto direttamente da Ciano, il secondo del 10 novembre, a opera dello stesso Mussolini. Ma sintomatico dell’atteggia­ mento italiano era il commento con il quale Ciano accompa­ gnava nel Diario la notizia dell’Informazione diplomatica n. 5: la migliore risposta a Eden l’avrebbe data la firma del Patto Anticomintern «in realtà nettamente antibritannico», come già segnalato )5. Che l’interesse dell’Inghilterra ad avviare i colloqui persi­ stesse nonostante tutto fu confermato da un nuovo invito che Eden fece pervenire a Ciano. N e dà notizia lo stesso Diario al­ la data dell’l l novembre:

    3

    E venuta una nuova richiesta di Eden per un incontro a Brusselle. Ho convocato Drummond e gli ho detto che ritenevo di non poter aderire, sia per il luogo, sia per l’ambiente, a tinta indiret­ tamente societaria, sia per lo stadio preagonico in cui è ormai ridot­ ta la conferenza. Da ciò non si deve dedurre ch’io non voglio incon­ trarmi con Eden. Al contrario; ne sarei ben lieto. Ma altrove, per e dopo una opportuna preparazione per evitare che illusioni polemi­ che e delusioni debbano venir determinate da tale incontro.

    12 Cfr. Valdo Ferretti, Il Giappone e la politica estera italiana 1935-41, Milano, Giuffrè, 1995 [ristampa integrata della ed. 1983], cap. V, in partico­ lare pp. 169-171; già Ciano, del resto, aveva interpretato l’adesione dell’Italia al patto come «patto a tre anticomunista per m odo di dire, ma in realtà net­ tamente antibritannico» (Diario 1937-1938, cit., 2 novembre 1937). 13 Testi delle due informazioni nel «Corriere della Sera» rispettiva­ mente del 3 e dell’l l novembre 1937.

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    CAPITOLO DC

    Secondo la ricostruzione di Donatella Bolech, «all’inizio di dicembre, dopo una visita dei ministri francesi Chautemps e Delbos a Londra nel corso della quale si era convenuto che le trattative con l’Italia non potevano prescindere dalla cessa­ zione della propaganda antibritannica e antifrancese e che il preteso riconoscimento de jure dipendeva da una decisione della Società delle Nazioni, Eden riprese contatto con l’amba­ sciatore Grandi al quale partecipò queste risoluzioni: l’amba­ sciatore dal canto suo insistè sull’interesse preponderante del suo governo al riconoscimento. Pur rimanendo fermo a questo proposito, Eden non escludeva a priori dei negoziati; il 7 di­ cembre in un promemoria del Foreign Office scriveva: «Vorrei migliorare le nostre relazioni con l’Italia [...]. La propaganda è certamente una questione scottante»14. Certamente Eden non si aspettava che le buone intenzio­ ni sarebbero state nuovamente messe a dura prova a distanza di pochissimi giorni, allorché, I’l l dicembre, l’Italia annunciò il ritiro dalla Società delle Nazioni. Questo passo, su cui ave­ vano ripetutamente insistito di recente gli interlocutori tede­ schi, da una parte si poteva interpretare come un’ulteriore for­ ma di pressione per ottenere il riconoscimento dell’impero africano, dall’altra come una mossa in stile prettamente fasci­ sta. Quest’ultima interpretazione poteva essere avvalorata dal­ le parole con le quali Mussolini annunciò dal balcone di Palazzo Venezia «un evento - come lui stesso lo definì - di grande portata storica»: Ci allontaniamo senza alcun rimpianto dal barcollante tempio, dove non si lavora per la pace, ma si prepara la guerra [...]. Niente da fare contro un popolo come quello italiano capace di qualsiasi sa­ crificio. Abbiamo le armi del cielo, della terra e del mare: numerose e temprate da due guerre vittoriose. Ma abbiamo sopra tutto lo spi­ rito eroico della nostra Rivoluzione che nessuna forza umana al mon­ do potrà piegare m ai15. Che la decisione non fosse soltanto una ripicca dell’Italia per il ritardo nel riconoscimento dell’impero, ma avesse il si­ gnificato di un vero e proprio gesto di ostilità che mirava a sottolineare l’impotenza e il fallimento della Società delle Nazioni di fronte all’iniziativa offensiva delle potenze del Patto Anticomintern, emerge dalla nota con la quale nel

    14 D. Bolech Cecchi, L’accordo d i due im peri, cit., p. 20. 15 Dal «Corriere della Sera», 11 novembre 1937.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    Diario (alla data dell’l l dicembre 1937) Ciano sottolineava la scelta del momento: «Nessun momento più favorevole di que­ sto, anche in considerazione della travolgente vittoria nippo­ nica» nel conflitto contro la Cina. Il gesto dunque si inseriva in un contesto che lo spogliava del carattere di protesta stret­ tamente legata agli interessi dell’Italia, la quale del resto sin dal 29 novembre aveva riconosciuto il Manciukuò, convali­ dando l’aggressione giapponese alla Cina. A questo gesto si aggiunse una nuova dichiarazione della Germania che toglie­ va ogni illusione circa l ’eventualità che il Reich potesse rien­ trare nell’organismo ginevrino. Un contesto di comportamen­ ti che sottolineava appunto l’intenzione delle tre potenze del Patto Anticomintern di passare all’attacco dell’ordinamento di pace uscito dal primo conflitto mondiale. E ciò in piena contraddizione con il tentativo di Ciano di affidare al suo Diario un messaggio rassicurante. Scriveva alla data del 12 di­ cembre: Nel mondo c’è come la gioia per la nostra decisione di ieri. S’erano sparse voci così disperate e allarmanti che molti hanno con­ siderato Puscita da Ginevra come un fatto di ordinaria amministra­ zione. Ho parlato con Grandi. L’ho tirato su perché era un pò preoc­ cupato. Non vede l’intesa con Londra. Io gli ho detto che invece la vedo con lo stesso ottimismo di prima, ma che, in orni caso, la no­ stra situazione è tale da permetterci di guardare anche l’eventualità di uno scontro in perfetta serenità di spirito. Naturalmente anch’io referisco un accordo con Londra. Benché io concordi appieno col >uce nel ritenere che su un piano storico il conflitto italo-britannico sia inevitabile.

    E

    È difficile dire se Ciano si rendesse conto che il gesto italia­ no non poteva non essere percepito dall’Inghilterra come uno schiaffo. Certo è che la prospettiva di un negoziato non poteva non allontanarsi nella stessa misura in cui Eden si era più che mai convinto che ogni gesto di accondiscendenza nei confronti dei dittatori fascisti, di Hider o di Mussolini, sarebbe stato deleterio.

    GLI SVILUPPI DELL’ASSE: DAL PATTO ANTICOMINTERN all ’a n s c h l u s s

    La guerra d’Africa e la solidarietà d’armi nell’intervento in Spagna come furono all’origine dell’Asse determinarono an­ che gli sviluppi successivi dell’avvicinamento dell’Italia alla Germania. La rappresentazione di questo avvicinamento come esito dell’isolamento praticato ai danni dell’Italia da Francia e 337

    CAPITOLO IX

    Inghilterra e della loro ostilità a fare concessioni all’Italia16 non trova alcun fondamento né nella documentazione esisten­ te né nella ricostruzione logica degli eventi. Neppure si po­ trebbe attribuire il nuovo e deciso corso della politica estera italiana alle unilaterali pressioni della Germania, certamente implicite nelle peraltro vaghe profferte di spartizione delle aree di influenza in Europa quali quelle portate a Roma dal mi­ nistro Frank (cfr. capitolo V ili). Quello che Mussolini avreb­ be semplicemente definito un «parallelismo dell’azione» tra Italia e Germania ancora all’inizio del 1937, all’epoca della vi­ sita a Roma del maresciallo Goring, veniva già concepito al vertice fascista come un’intesa, più che tra due diplomazie, tra due regimi, la cui solidarietà poggiava sull’affinità ideologica e sulla somiglianza degli obiettivi: far saltare l’ordinamento di Versailles e ridisegnare la gerarchia delle potenze in Europa (e nel mondo) era l’obiettivo massimo di questa solidarietà. Tra i protagonisti di questa svolta, un posto di primo piano spetta sicuramente al ministro degli Esteri fascista Ciano, che spinse ad accelerare la minaccia nei confronti delle democrazie occi­ dentali e a conferire all’avvicinamento alla Germania il carat­ tere non di una scelta tattica ma di una svolta strategica, che perseguiva il fine globale di una revisione totale degli equilibri europei. Nella sua irresponsabile leggerezza Ciano avrebbe vo­ luto addirittura anticipare i tempi per dare fuoco alle polveri: l’ombra di una guerra non lo spaventava. Alle difficoltà di riannodare un dialogo con le odiate de­ mocrazie occidentali corrispondeva, sul versante dei rapporti con la Germania, un intensificarsi di contatti con il Reich, che superava le mere convenienze diplomatiche. Nel corso del 1937 importanti esponenti del regime nazista furono in visita in Italia: inaugurò la serie il maresciallo Gòring, un messagge­ ro quasi di casa in Italia, che nei colloqui di gennaio con Ciano e Mussolini passò in rassegna tutti i problemi internazionali sul tappeto17. All’inizio di maggio fu la volta del ministro degli Esteri von Neurath18; seguì alla fine di ottobre la visita delia delegazione del Partito nazionalsocialista guidata dal vice di Hitler Rudolf H e ss19; il 5 novembre, infine, arrivò a Roma l’in­

    16 Alludo alla tesi di R. Quartararo, Rom a tra Londra e Berlino, cit. 17 R. Mosca (a cura di), L'Europa verso la catastrofe, cit., voi I dd. 232-248. ' 18 Cfr. A D A P , C, Bd. VI, 2, nn. 354 e 355, appunti di von Neurath sui colloqui romani del 4 maggio 1937. 19 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 27 ottobre 1937.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    viato speciale di Hitler, il futuro ministro degli Esteri von Ribbentrop per partecipare alla cerimonia dell’adesione dell’Italia al Patto Anticomintern 20. Benché continuasse a dominare un certo timore per l’e­ ventualità che la Germania cercasse unilateralmente con la Francia e con l’Inghilterra vie d’intesa che in qualche modo potessero vincolare la politica dell’Italia nei confronti delle due democrazie, Ciano si buttò a capofitto nella politica di stretta intesa con la Germania, lusingato dalla prospettiva di un «combattimento» a breve scadenza e dall’illusione: «L’Italia ha rotto l’isolamento: è al centro della più formidabile combi­ nazione politica militare che sia mai esistita», come scriveva nel Diario (6 novembre 1937) con accenti che anticipavano i toni militareschi con i quali avrebbe accompagnato, poco meno di due anni dopo, la conclusione del Patto a acciaio. Né, nel suo trionfalismo, Ciano si era preoccupato di approfondire i ter­ mini dell’accordo tripartito con il Giappone, né gli era sorto il sospetto di clausole segrete tra Germania e Giappone, che, co­ me ha sottolineato Mario Toscano, confermavano un compor­ tamento di malafede da parte tedesca ma soprattutto anticipa­ vano i termini di una subalternità dell’Italia alle direttive della Germania con l’accettazione passiva delle proposte che giun­ gevano da Berlino21. Già a questo punto doveva risultare evidente che l’alli­ neamento all’Asse stava prendendo corpo con una intensità di impegno che andava ben al di là delle intenzioni originarie. Una circostanza sembra evidente nelle prospettive che l’awicinamento alla Germania comportava in generale per la politica italiana: se già dopo l’accorcfo austrotedesco dell’l l luglio del 1936 era apparso chiaro che la questione austriaca non era più al centro delle relazioni con la Germania, sia che si desse per scontata l’uscita di scena dell’Italia, sia, e questa era forse an­ cora l’opinione prevalente almeno fin quando si potè avvertire l’influenza del sottosegretario Suvich, che si ritenesse provvi­ soriamente accantonata una soluzione immediata tipo Anschluss, più che mai ora prevaleva nei dirigenti fascisti una sorta di rassegnazione alla fagocitazione dell’Austria da parte del Terzo Reich. In ciò c’era una logica stringente; l’abbando­

    20 R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe, voi. I, cit., pp. 232-248. 21 Cfr. Mario Toscano in A. Torre e al., La politica estera italiana, cit., p. 197.

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    CAPITOLO IX

    no di ogni velleità di conservare l’influenza sull’Austria non derivava soltanto dalla necessità di non riaprire un fronte con­ flittuale con la Germania nel momento in cui si stringevano i tempi di più impegnativi accordi, ma anche dalla sempre mag­ giore distanza rispetto a Francia e Inghilterra, ossia rispetto a quel “fronte di Stresa”, che solo avrebbe potuto rappresentare una forza di deterrenza rispetto ad un eventuale gesto di forza della Germania. Le nuove scelte dell’Italia implicavano, e non poteva non essere così, la rinuncia a qualsiasi tipo di pressione a largo raggio per trattenere la Germania da un passo che avrebbe modificato radicalmente l’equilibrio nell’area danu­ biana e balcanica su cui l’Italia aveva investito la più parte del­ le sue aspettative. Quando alla fine di settembre del 1937 Mussolini e Ciano si recarono in visita in Germania, Ciano scambiò il successo propagandistico della presenza di Mussolini in Germania e l’accoglienza che gli aveva fatto Hitler, sulla base anche di una forma di devozione e di rispetto personale che non significava di per sé riconoscimento di alcun primato politico, con l’illu­ soria possibilità che la Germania rappresentasse per l’Italia non più che «un terreno di manovra». Gli sfuggivano, e non era poco, il potenziale economico-militare e il dinamismo po­ litico tedesco, che nel rapporto a due era destinato ad attri­ buire alla Germania, e non all’Italia, la leadership di qualsiasi intesa. Mussolini si trattenne in Germania dal 24 al 29 settem­ bre, accompagnato, oltre che da Ciano come ministro degli Esteri, dal segretario del partito Starace e dal ministro della Cultura popolare e della Propaganda Dino Alfieri. Dopo la prima tappa a Monaco, e prima dell’incontro di Berlino tra Mussolini e Hitler (I due condottieri di cui parlava un fondo del «Corriere della Sera» di quei giorni), il capo del fascismo assistette con il Fuhrer alle grandi manovre della Wehrmacht nel Mecklemburg e si recò in visita alle officine Krupp, simbo­ lo della fucina militare tedesca. Una visita improntata alla soli­ darietà tra i due regimi, ma anche e soprattutto all’esibizione della loro forza militare 22.

    22 L’eco propagandistica del viaggio fu largamente amplificata dalla stampa; il «Corriere della Sera» vi impegnò alcune delle sue firme più pre­ stigiose, Aldo Valori, Cesco Tomaselli e lo stesso Alessandro Pavolini; i testi degli interventi di Mussolini nelle tappe del viaggio in Germania sono rac­ colti in B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXVIII.

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    Che la questione austriaca fosse in procinto di risolversi in un senso tutto e solo a favore del Reich, all’epoca della fir­ ma del Patto Anticomintern, doveva apparire già scontato. Singolare è comunque che da parte italiana il problema non fosse stato più sollevato. Quando il 16 gennaio del 1937, nel suo primo colloquio romano, Goring risollevò l’ineluttabilità dell ’Anschluss, la parte italiana non avanzò alcuna riserva circa la richiesta di Gòring che l’Italia esercitasse la sua influenza sull’Austria per ottenere un più rigoroso rispetto da parte di quest’ultima del­ l’accordo dell’l l luglio 1936 con la Germania23. Un com­ portamento che poteva avere una sua plausibilità soltanto nell’ipotesi che la parte italiana ritenesse in tal modo di argi­ nare un’accelerazione dell’iniziativa annessionistica tedesca. Un’ipotesi che pare peraltro, alla luce della documentazione esistente, decisamente ottimistica circa le intenzioni e le pos­ sibilità reali della diplomazia fascista. Le mosse dei dirigenti tedeschi, che insistevano per far capire all’Italia come l’ac­ cordo dell’11 luglio fosse un passaggio essenziale per la sta­ bilizzazione dei rapporti Roma-Berlino (in questo senso un passo esplicito era stato compiuto a Roma poco dopo la visi­ ta di Gòring dall’ambasciatore von H assell)24, non lasciano spazio a controversie interpretative. Del resto, la conferma che la diplomazia fascista era con­ sapevole dell’ormai ineluttabile Anschluss ci viene proprio dal­ le pagine del Diario di Ciano, laddove accenna ad alcune ini­ ziative della diplomazia italiana destinate, come sappiamo me­ glio oggi, a contenerne le conseguenze. Si tratta di mosse tutte destinate a ridisegnare l’equilibrio della presenza italiana nella penisola balcanica, che sarebbe stato profondamente scosso dall’estendersi della potenza germanica sull’Austria. Allu­ diamo alle prime avvisaglie di un rinnovato interesse dell’Italia a rendere più vincolante il rapporto di protezione sull’Albania e soprattutto alla svolta nei rapporti con la Jugoslavia. Sicuramente è da addebitarsi alla prospettiva della liqui­ dazione dell’influenza italiana sull’Austria come testa di ponte sull’intera area danubiano-balcanica l’intenzione di Ciano di consolidare la presenza italiana in Albania, dove egli si era re­ cato nel maggio. «Bisogna crearvi dei centri stabili di interessi italiani» scriveva nel Diario il 25 agosto del 1937 e aggiungeva:

    zi R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, p. 141. « Cfr. A D A P , D, Bd. I, n. 208.

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    CAPITOLO IX

    «Non si sa quello che l’avvenire può riservare. Dobbiamo es­ ser pronti a cogliere le occasioni che si presenteranno». Un in­ dizio, null’altro che un indizio, che convalida tuttavia due ipo­ tesi: che l’Albania era già entrata nel mirino delle realizzazioni della politica del fascismo e che Ciano intendeva farne un ter­ reno della sua personale iniziativa, come confermerà l’invasio­ ne del 1939 e come traspare da un’altra nota del 21 febbraio del 1938: «Mantengo ferma fede nel mio programma per l’Albania e qualsiasi cosa che possa aumentare il nostro presti­ gio e la nostra influenza non deve essere trascurata». Più complessa fu l’operazione di conversione della politi­ ca italiana nei confronti della Jugoslavia. L’affermazione che Ciano si lasciò scappare quasi di sfuggita nel Diario alla vigilia dell’arrivo a Roma del presidente del Consiglio Stojadinovic «L’alleanza con gli slavi ci permette di guardare con serenità l’eventualità d é \'Anschluss» - merita in realtà una non fugge­ vole attenzione. È vero che Ciano stesso era stato protagonista della firma il 25 marzo del 1937 del patto di Belgrado con lo stesso Stojadinovic e che da quella data aveva avuto inizio una revisione della politica iugoslava dell’Italia, che in passato ave­ va puntato piuttosto alla disgregazione del regno trino e aveva coltivato nei suoi confronti l’antica diffidenza, compiendo an­ che atti, come il sostegno al separatismo e al terrorismo croa­ to, che non erano certamente i più idonei a favorire un rerìproco avvicinamento25. Naturalmente, si mescolavano nella nuova fase dei rapporti con la Jugoslavia le motivazioni della grande politica e le ambizioni ai estendere Tinfluenza ideolo­ gica del fascismo italiano. Grande politica, significava collocazione della Jugoslavia nel quadro dell’ascesa dell’influenza tedesca nell’Europa cen­ trale e sudorientale e definizione dei rapporti tra la Jugoslavia e le potenze che tradizionalmente ne avevano appoggiato l’esi­ stenza dagli anni venti, ossia l’Inghilterra e soprattutto la Francia. Come risulta anche dal verbale degli incontri con Ciano e Mussolini del 6 e 7 dicembre 1937, nella nuova fase impressa da Stojadinovic la Jugoslavia non aveva accettato nes­ suna profferta della Francia ad intensificare i legami della Piccola Intesa, non mirava ad annullarli ma certamente a ren­ dere meno impegnativo e più flessibile il loro vincolo mentre si rafforzava la tendenza ad avvicinarsi alle potenze dell’Asse.

    25 Sui colloqui di Belgrado cfr. R. Mosca (a cura di), L’Europa versoi* catastrofe, cit., voi. I, pp. 164-175, ora in DDI, V ili, voi. v i, n. 345.

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    Più che l’aspetto diplomatico, ai governanti fascisti sembrava interessare l’orientamento ideologico che Stojadinovic inten­ deva imprimere allo stato jugoslavo. Al di là di generiche sim­ patie filofasciste, Stojadinovic sembrava interessato a concrete realizzazioni sulla linea della creazione di un regime autorita­ rio d’ispirazione fascista. A bella posta Ciano gli fece girare l’Italia per mostrargli le opere del regime, a cominciare dalla bonifica delle paludi pontine. La conclusione della visita in Italia con «la deposizione di corona ai martiri della Ri­ voluzione fascista» assumeva agli occhi dei governanti fascisti un significato programmatico emblematico. L’Italia non aveva soltanto strappato a Stojadinovic la garanzia che in futuro «la Jugoslavia non si troverà mai nel campo avverso all’Italia», ma anche l’esplicito riconoscimento delle sue simpatie verso il re­ gime fascista, facendo leva fra l’altro sul distacco dalla Francia che non era motivato soltanto da divergenti interessi di politi­ ca estera ma da un più profondo dissenso politico-ideologico dalla Francia del Fronte popolare2627. Abbiamo visto come l’Italia reputasse la politica per l’Austria determinata dal rispetto dell’accordo dell’l l luglio 1936 tra Austria e Germania, ma anche le ambiguità con le quali lo stesso accordo veniva considerato dalla parte tedesca. Nella primavera del 1937 molti indizi facevano ritenere che la situazione dei rapporti austrotedeschi non fosse così pacifica come si poteva credere. Il moltiplicarsi di voci di un’eventuale restaurazione asburgica promossa da ambienti anglo-francesi offrì alla Germania un facile pretesto per intensificare le sue pressioni sull’Austria. La questione riemerse con forza nel col­ loquio tra il cancelliere Scnuschnigg da una parte, Mussolini e Ciano dall'altra che si svolse a Venezia il 22 aprile 1937 21. Schuschnigg non smentì di essere favorevole ad una restaura­ zione monarchica, ma sottolineò che si trattava di un proble­ ma interno austriaco, e che comunque la questione non era at­ tuale. Non lo disse, ma non lo era anche per le opposizioni di carattere internazionale che l’eventualità della restaurazione aveva sollevato e ancor più avrebbe sollevato qualora si fosse­ ro avvicinati i tempi di una sua realizzazione. Insistette sulla pregiudiziale dell’indipendenza dell’Austria ma con una curio­

    26 R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 251-256; G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 5-11 dicembre 1937. 27 Resoconto in R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 181-190.

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    CAPITOLO DC

    sa limitazione, quasi si trattasse di una indipendenza a termi­ ne: se 1’Anschluss infatti era proiettato nel futuro, non faceva obiezione, «ma sta di fatto che la generazione attuale vuole conservare l ’indipendenza del paese». Un curioso modo di presentare il problema, che sembrava confermare che la que­ stione dell’indipendenza austriaca interessava quasi più l’Italia che l’Austria stessa. Per molti versi in effetti era così, solo che l’Italia non aveva più alcuno strumento per fare rispettare quell’indipendenza. Mussolini si illudeva quando cercava di convincere Schuschnigg che non erano urgenti né YAnschluss, né la restaurazione monarchica. L’Austria era ormai tra l’incu­ dine e il martello. E poiché l’Italia non poteva più fare a meno della Germania, era da escludere che potesse farsi garante fino in fondo dell’indipendenza austriaca. Peggio ancora, sconsi­ gliando l’Austria di ricercare appoggi al di fuori della Germania, per esempio in Cecoslovacchia - come Mussolini riferì a von Neurath il 3 maggio successivo28 - , l’Italia lavora­ va per l’ulteriore isolamento dell’Austria. Sembrerebbe che l’Austria si sia resa conto troppo tardi di non potere più contare sulla protezione dell’Italia. Sapevano i governanti austriaci che Ciano negli ultimi mesi del 1937 da­ va già per perduta la posizione austriaca? Con impareggiabile cinismo il ministro degli Esteri fascista espresse l’interesse prioritario dell’Italia all’intesa con la Germania con una anno­ tazione nel Diario del 24 novembre al momento del passaggio delle consegne tra il ministro d’Italia uscente Salata e il nuovo rappresentante a Vienna Pellegrino Ghigi: H o dato a Ghigi le istruzioni per la sua missione a Vienna. Non era molto al corrente della situazione e mi è parso un po’ spaurito. Gli ho così definito il compito del ministro d ’Italia presso il Ballplatz: un medico che deve dare l’ossigeno al moribondo, senza che se ne ac­ corga l’erede. Nel dubbio, ci interessa più l’erede che il moribondo.

    Era un processo ormai irreversibile. Ancora alla metà di dicembre, proprio mentre preparava la visita a Budapest per la riunione tripartita con Austria e Ungheria in base ai protocol­ li di Roma, Ciano rivelava con quali riserve mentali si appre­ stava a incontrare i suoi partner: «I Protocolli di Roma si sono ormai svuotati» 29.

    28 R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe , cit., voi. I, p . 191. 29 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 18 dicembre 1937.

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    A Budapest infatti, dal 10 al 12 gennaio 1938, Ciano ri­ fiutò esplicitamente di acconsentire alla dichiarazione per l’in­ dipendenza dell’Austria che gli avevano richiesto i suoi partner (Diario, 10 gennaio 1938). In tal modo, anche le prospettive di un asse orizzontale Roma-Vienna-Budapest, che nella politica di Ciano doveva porsi a completamento più che a correzione dell’Asse RomaBerlino, cadevano nel nulla30. I protocolli di Roma a questo punto si potevano considerare morti e sepolti. Come Mussolini aveva già dichiarato a Ribbentrop, nella visita a Roma il 6 no­ vembre 1937 in occasione della firma dell’adesione dell’Italia al Patto Anticomintern, l’interesse dell’Italia in favore dell’Austria era diminuito. Auspicando «di lasciare agli eventi il loro naturale sviluppo» Mussolini aveva riconosciuto così l’i­ neluttabilità deWAnschluss come la rassegnazione dell’Italia al­ la sua realizzazione. Non è qui il luogo per ricostruire il precipitare della si­ tuazione dal febbraio del 1938. Il 4 si era verificato un im­ portante avvicendamento negli alti gradi militari e diplomati­ ci in Germania, un evento che dava un senso alla riunione con i capi militari del 5 novembre 1937, allorché Hitler ave­ va illustrato i piani militari della Wehrmacht nella prospetti­ va dt\VAnschluss e delle eventuali operazioni contro Ceco­ slovacchia e Polonia. Hitler, che assunse anche il comando supremo della Wehrmacht, procedette alla nomina al dica­ stero degli Esteri di von Ribbentrop in sostituzione di von Neurath e al vertice dell’esercito impose Walther von Brauchitsch, garantendosi con esponenti di piena lealtà al re­ gime l’esecuzione sul piano diplomatico e militare della nuo­ va fase offensiva della sua strategia31. Il significato di questi eventi non sfuggì neppure a Ciano, che invece di impensierir­ sene se ne dichiarò più che soddisfatto in quanto la «nazificazione integrale» tornava ad utilità dell’Asse e spiazzava ogni accondiscendenza nei confronti di Francia e Inghilterra32. Alle origini del rimpasto di cariche del 4 febbraio vi era l’accelerazione dei piani per l’invasione dell’Austria. Il 12 feb­ braio Schuschnigg era stato convocato al Berghof da Hitler, per ricevere l’ultimatum che preludeva all 'Anschluss: Hitler

    50 Fulvio D ’Amoja, La politica estera dell’impero, Padova, Cedam, 1967, p. 101. 31 Enzo Collotti, La Germania nazista, Torino, Einaudi, 1962, p. 210. 32 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 5 febbraio 1938.

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    CAPITOLO IX

    comunicava che il Reich era disposto a confermare il ricono­ scimento dell’indipendenza dell’Austria a condizione che que­ sta consegnasse il suo governo ai nazionalsocialisti austriaci Così si può riassumere il tenore della comunicazione di Hitler. La reazione di Schuschnigg, assicura egli stesso nei suoi ricor­ di, fu di «sbalordimento»3334. Le settimane che trascorsero dal 12 febbraio al 12 marzo, data dell’ingresso in Austria della Wehrmacht, non furono che la lenta e definitiva agonia della prima repubblica danubiana ma anche dell’Europa di Versailles. A Roma le notizie giunsero a cose fatte, come se non esi­ stesse un impegno di consultazione reciproca nelle questioni di interesse internazionale. Nei suoi ricordi l’incaricato d’affari a Berlino afferma di avere avuto notizia degli eventi prima da fonti giornalistiche che per vie ufficiali3,4. Se Ciano si era illu­ so di poter ritardare VAnschluss (ma a che pro?), la mancanza di informazione nella quale i tedeschi tennero l’Italia impediva del resto che si potesse prendere qualsiasi iniziativa. Ciano, che aveva fatto di tutto perché l’Austria non si facesse illusioni sul­ la posizione dell’Italia, il 18 e il 19 febbraio 1938 affidava al Diario l’eco del disappunto di Mussolini («i tedeschi avrebbe­ ro dovuto avvertirci: invece nemmeno una parola») e di quel­ lo suo personale per avere «saputo tutto a cose fatte». Ma se anche l’Austria avesse fatto appello all’Italia, a che cosa sareb­ be servito? Non ebbe torto da questo punto di vista l’ex can­ celliere Schuschnigg a scrivere nei suoi ricordi che l’atteggia­ mento di «Roma non rappresentò per me una sorpresa»35. Rimangiandosi ogni precedente ancorché lontana profferta, Ciano se la cavava a questo punto scaricando ogni responsabi­ lità: «Un paese, la cui indipendenza è assicurata da terzi, è vir­ tualmente finito» (Diario, 23 febbraio 1938). E di conseguen­ za ancora 1’11 marzo rifiutò ogni consultazione con il rappre­ sentante diplomatico della Francia. Mussolini se la cavò affer­ mando «che si è tolto un equivoco dalla carta europea» (Diario, 13 marzo). Se si guarda all’informazione della stampa si può conclu­ dere che YAnschluss ormai non faceva più notizia, era nell’aria, si aspettava solo che fosse formalizzato. Il titolo del fondo del

    33 Kurt von Schuschnigg, Un requiem in rosso-bianco-rosso. N ote del detenuto dottor A uster, Milano, Mondadori, 1947, p. 90. 34 Massimo Magistrati, L'Italia a Berlino (1937-1939), Milano, Mondadori, 1956, pp. 143 sg. 35 K. von Schuschnigg, Un requiem in rosso-bianco-rosso, cit., p. 114.

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    «Corriere della Sera» del 13 marzo, La logica delle cose, non fa­ ceva appunto che ratificare una evoluzione data per scontata. Naturalmente si taceva che con il suo atteggiamento l’Italia ro­ vesciava definitivamente la sua prospettiva politica: l’abbando­ no della sua funzione di «fare la guardia al Brennero» veniva salutata quasi come una liberazione e come omaggio al compi­ mento dell’unità nazionale della Germania, associata all’Italia nell’Asse Roma-Berlino come baluardo «di essenziale difesa della civiltà contro la barbarie bolscevica».

    APRILE

    1938:

    «L’ACCORDO DI DUE IMPERI»

    L’incerto dialogo tra Italia e Inghilterra si era interrotto all’at­ to dell’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni. Il 20 feb­ braio 1938 le dimissioni di Eden da segretario di Stato agli Esteri avevano suggellato l’aperto esplodere nella politica bri­ tannica del conflitto con il premier Chamberlain sulla linea da seguire nei confronti dei dittatori dell’Asse e segnatamente dell’Italia. Prima ancora di conoscere le conseguenze della nuova situazione che si era creata, Ciano, almeno ora consape­ vole dell’importanza delle alternative che si ponevano, avvertì l’opportunità di inserirsi nella crisi, come scrisse nel Diario (al­ la stessa data del 20 febbraio): Ho autorizzato Grandi a fare qualsiasi gesto che possa aggiun­ gere una freccia alla faretra di Chamberlain. Un gabinetto Eden avrebbe come scopo la lotta alle dittature: prima queDa di Mussolini.

    La crisi austriaca era in pieno svolgimento e Ciano av­ vertì che era giunto il momento per accelerare la ripresa dei contatti con la Gran Bretagna; ciò avrebbe scongiurato il ri­ schio che l’Italia si trovasse completamente isolata e sbilan­ ciata dalla parte della Germania e avrebbe al tempo stesso rafforzato la posizione di Chamberlain contro la linea intran­ sigente dei sostenitori di Eden. Già il 16 febbraio, quindi pri­ ma ancora dell’uscita di scena di Eden, Ciano aveva mandato istruzioni all’ambasciatore a Londra Grandi per accelerare la ripresa delle conversazioni bilaterali sotto l’impressione della «nazificazione dell’Austria [....] se non completata, certamen­ te molto avanzata»36. Si trattava di cogliere l’occasione di

    >6 R. Mosca (a cura d i), L’Europa verso la catastrofe, cit., v o i. I, p p .

    268-270.

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    CAPITOLO IX

    un’intesa prima della realizzazione definitiva òcAY!Anschluss, per evitare che si producesse l’impressione di «un’andata a Canossa (dell’Italia) sotto la pressione tedesca». I tempi erano comunque stretti ma era necessaria una conclusione rapida. Erano evidenti le intenzioni e la necessità di lasciare uno spi­ raglio aperto sul versante delle democrazie e, per quanto fos­ se palese che la Gran Bretagna di Chamberlain rappresentava il punto di minor resistenza, non può non stupire la chiusura totale che persisteva nei confronti della Francia. In un lungo rapporto da Londra del 18 febbraio, anteriore quindi alle di­ missioni di Eden, Grandi riferì dei tempestosi colloqui che aveva avviato con Chamberlain con la presenza e la parteci­ pazione di Eden, colloqui che avevano portato allo scoperto il conflitto tra le due linee della politica britannica: Chamberlain favorevole all’apertura quasi incondizionata dei colloqui con l’Italia e Eden che subordinava l’apertura dei colloqui al­ la discussione in primo luogo della questione austriaca, ri­ chiamando gli impegni di Stresa, ossia del problema che Grandi aveva escluso in partenza da una possibile agenda del­ le conversazioni dando per scontato che l’Austria fosse desti­ nata ad essere fagocitata dalla Germania37. La nomina a nuovo ministro degli Esteri britannico di lord Halifax, solidale con Chamberlain, tranquillizzò sicura­ mente la diplomazia fascista, che d’altronde aveva fretta di im­ porre a Chamberlain l’avvio dei negoziati, ben sapendo che sulla carta dell’accordo con l’Italia egli aveva «giocato il suo avvenire politico» (Ciano, Diario, 8 marzo 1938). Gli appunti stesi da Ciano dei suoi colloqui con l’ambasciatore lord Perth consentono di confermare che, una volta avvenuto YAnschluss, e caduta quindi ogni pregiudiziale, le due parti poterono pro­ cedere con relativa rapidità alla discussione dei punti contro­ versi, tra i quali spiccava per la sua complessità e per le molte­ plici implicazioni internazionali la questione della presenza ita­ liana in Spagna e in generale il problema del ritiro dei cosid­ detti “volontari”, e soprattutto la questione del riconoscimen­ to dell’impero in Etiopia, che da parte britannica metteva in discussione i rapporti con la Società delle Nazioni e quelli con il detronizzato imperatore dell’Etiopia. Era evidente l’interesse di Chamberlain alla conclusione dell’accordo, anche per compensare la frattura intervenuta nel

    37 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi i pp

    272-301.

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    campo conservatore e le diffidenze crescenti da parte della Francia nei confronti della diplomazia britannica; ma ancora più interessata a un positivo esito delle conversazioni si dimo­ strava la parte italiana. Come ha giustamente sottolineato Bolech Cecchi, dopo la sconfitta di fatto subita con 1’Anschluss, la politica estera italiana aveva bisogno di riacquistare quota e di compensare con un accordo generale per il Mediterraneo lo scacco diplomatico e la perdita di prestigio subiti nell’Europa centro-danubiana; inoltre, l’Italia era anche la più interessata a una conclusione rapida delle trattative per potersi presentare con un successo all’appuntamento della visita a Roma di Hitler prevista per il maggio38. L’agenda dei colloqui, quale era stata concordata sin dal­ l’incontro dell’8 marzo tra Ciano e lord Perth, comprendeva l’ampia gamma del contenzioso aperto tra i due paesi: al primo posto le questioni relative alla Spagna; seguivano la conferma e le questioni dell’attuazione del Gentlemen’s Agreement del 2 gennaio 1937 e l’estensione dello status quo nel Mediterraneo; la questione del contingente militare italiano ammassato in Libia; l’adesione dell’Italia al trattato navale del 1936; le que­ stioni del Vicino Oriente (Palestina, Siria, Arabia); i problemi della propaganda antibritannica sviluppata dalle autorità fasci­ ste; ultima, non certo per importanza, la sistemazione delle molte questioni legate alla situazione dell’Etiopia, a comincia­ re dal riconoscimento dell’awenuta conquista italiana. I negoziati, nonostante la complessità dell’agenda, furo­ no portati a termine a ritmo relativamente rapido; non pare dubbio che essi furono accelerati dopo la realizzazione àsti Anschluss per gli interessi diversi ma convergenti delle due parti negoziali, come già segnalato. Si sapeva che pur dopo la caduta della pregiudiziale del­ la questione austriaca, che era stata all’origine delle dimissio­ ni di Eden, da parte britannica esisteva pur sempre una pre­ giudiziale allo sviluppo dei negoziati: un accordo con l’Italia era cioè subordinato al chiarimento della questione spagno­ la. La soluzione di una serie di problemi formali nella fase procedurale contribuì a svelenire l’atmosfera e a lasciare via libera per la conclusione degli accordi. Sia la questione della Spagna che quella dell’Etiopia sarebbero state risolte all’infuori dell’accordo formale con un contestuale scambio di no­ te: una procedura che, consentendo di usare con flessibilità

    38 D. Bolech Cecchi, L ’accordo d i due im peri, cit., pp. 53-54.

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    CAPITOLO IX

    la complessa articolazione degli accordi, non ne bloccava la pubblicazione, subordinandola alle scadenze della questione spagnola (nel quadro di impegni che non riguardavano sol­ tanto l’Italia) e di quella etiopica (essendo il riconoscimento dell’Inghilterra legato ai più generali comportamenti della Società delle Nazioni). Per quanto riguardava la questione spagnola la parte ita­ liana non ebbe alcuna difficoltà a confermare le assicurazioni, già fornite in occasione del Gentlemen’s Agreement del 1937, secondo le quali l’Italia non aveva rivendicazioni nei confronti di parti del territorio spagnolo (l’allusione era sempre alle Baleari). Si impegnò inoltre a garantire il ritiro delle proprie forze una volta che fosse stata assicurata la vittoria di Franco. Restava il pericolo che la Società delle Nazioni potesse rappresentare un ostacolo al riconoscimento inglese dell’impe­ ro. Ciano registrò nel suo Diario (il 6 aprile 1938) questa even­ tualità, che tuttavia non bloccò le trattative in seguito alle assi­ curazioni di Perth che Chamberlain era deciso in ogni caso ad andare avanti. Del tutto conciliante su questa parte preliminare, l’Italia lo fu meno sulla richiesta britannica di estendere la dichiara­ zione del gennaio del 1937 sull’impegno di rispettare lo status quo del Mediterraneo a tutte le potenze interessate. Attraverso questa formula il governo britannico intendeva neutralizzare fra l’altro le riserve della Francia, che non gradiva il negoziato unilaterale di Chamberlain con l’Italia. Ma proprio per questa ragione la parte italiana fu intransigente nel rifiutare la mossa britannica, che avrebbe fatto entrare nella combinazione di­ plomatica anche la Francia. Il rifiuto dell’Italia non era dovu­ to soltanto alla volontà di evitare che un accordo con Francia e Gran Bretagna sul Mediterraneo fosse interpretato come di­ retto contro la Germania, come correttamente intuito dalla parte inglese, ma derivava anche dalla volontà del governo Ita­ liano di non fare nessuna concessione alla Francia prima di avere affrontato in un negoziato diretto il problema delle pen­ denze con quel paese e delle rivendicazioni italiane nei suoi confronti. Fu discusso e convenuto lo scambio di informazioni mi­ litari per quanto riguardava il Mediterraneo e il Mar Rosso. Esso si poteva considerare complementare all’impegno di con­ servare l’equilibrio dello status quo\ era delimitato alle forze stanziate in quel settore escludendo il territorio metropolitano italiano e le isole britanniche, ma includendo oltre alle aree africane e del Vicino Oriente rivierasche del Mediterraneo l’Africa orientale italiana e le colonie inglesi dell’Africa orien­ 350

    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    tale. Nessun motivo di frizione rappresentò la richiesta inglese di diminuire la concentrazione militare che l’Italia aveva rafforzato in Libia all’epoca della guerra d ’Africa e che era considerata in funzione antibritannica, in quanto rivolta con­ tro l’Egitto. Nessuna difficoltà si incontrò neppure sul principio del­ l’adesione dell’Italia al trattato navale di Londra del 1936 né sulla sua modalità. L’Italia aveva bensì partecipato ai negoziati della conferenza di Londra che si erano conclusi ma aveva ri­ fiutato la sua adesione finale nel clima provocato dalla crisi abissina. La Gran Bretagna era particolarmente interessata al­ l’adesione dell’Italia, perché in tal modo questa si sarebbe vin­ colata a non cedere naviglio militare a paesi terzi, presumibil­ mente, in quel momento, alla Spagna. L’Italia subordinò la sua adesione unicamente all’entrata in vigore dell’accordo, facen­ do presente comunque che intendeva fare salvi gli impegni as­ sunti con il Cile per la fornitura di due incrociatori. Un complesso a sé era costituito dai problemi del Vicino Oriente. L’agenda prevedeva infatti: Palestina, Siria, Arabia. Il problema era stato sollevato dalla Gran Bretagna, che si rite­ neva minacciata dalla propaganda italiana in Palestina e dalla presenza di agenti italiani che sobillavano gli arabi contro la Gran Bretagna influenzando progetti di sistemazione futura della Palestina. Inoltre per il governo di Londra la garanzia dello status quo mediterraneo non doveva riguardare la Palestina. L’Italia era disponibile all’impegno di astenersi da attività che compromettessero la politica britannica, ma avanzò viceversa riserve - come risulta dal verbale dell’incon­ tro di Ciano con lord Perth dell’8 marzo - sull’esclusione del­ la Palestina dalla garanzia dello status quo. Non accettò la pro­ posta britannica di estendere alla Siria gli impegni che aveva assunto per la Palestina. Poiché la Siria era sotto controllo francese, l’Italia interpretò la richiesta come un’ennesima ma­ novra per fare rientrare anche la Francia nell’accordo anglo­ italiano, pur riconoscendo le connessioni esistenti tra la que­ stione palestinese e i problemi siriani39. Il terzo punto relativo al Vicino Oriente era rappresenta­ to dalle ripercussioni che la conquista dell’Etiopia aveva pro­ vocato nella penisola arabica. Nel protettorato di Aden e del­ lo Yemen la Gran Bretagna temeva che l’Italia potesse intensi­ ficare l’attività di agenti in funzione antinglese dopo il suo

    59 D . Bolech Cecchi, L'accordo d i due im peri, cit., pp. 59-60.

    351

    CAPITOLO DC

    consolidamento lungo le coste del Mar Rosso. Per questo chie­ se il riconoscimento dello status quo e la formalizzazione del­ l’impegno esplicito dei due paesi a non cercare «di ottenere per sé una posizione privilegiata sulla costa araba del Mar Rosso». I problemi della costa africana del Mar Rosso, che coinvolgevano l’Egitto, furono trattati nel quadro della siste­ mazione delle questioni pendenti a seguito della conquista dell'Etiopia, mentre anche per l’area del Mar Rosso e del golfo di Aden furono estesi gli impegni a scambiarsi le informazioni sulle modifiche di contingenti militari e di armamenti che era­ no stati stabiliti per il bacino mediterraneo 40. Seguivano i problemi relativi alla sistemazione della que­ stione etiopica. Per prima cosa la Gran Bretagna si impegnava a compiere presso la Società delle Nazioni i passi necessari per rimuovere gli ostacoli al riconoscimento della sovranità italia­ na in Etiopia, una volta risolti gli altri punti controversi. In at­ tesa del riconoscimento, dal quale dipendeva la delimitazione definitiva dei confini fra l’Africa orientale italiana e i territori sotto influenza o protettorato britannico, doveva entrare in funzione un accordo di “buon vicinato” per regolare i rappor­ ti tra l’Aoi e i territori con essa confinanti, con la partecipazio­ ne dell’Egitto interessato all’amministrazione del Sudan. In particolare la Gran Bretagna chiedeva esplicitamente garanzie di riconoscimento degli interessi britannici sul lago Tana, a conferma di impegni già assunti dal governo italiano all’inizio di aprile del 1936, sul finire della campagna d’Etiopia. Altre clausole di garanzie la Gran Bretagna richiese per quanto ri­ guardava l’impegno già assunto dal governo italiano di non procedere all'arruolamento degli indigeni dell'Africa italiana, se non per compiti di polizia locale; per la tutela delle missio­ ni religiose britanniche nell’Africa orientale e per la tutela de­ gli interessi commerciali britannici. Rifacendosi al trattato commerciale italo-inglese del 1883, che si estendeva al regno e alle colonie, la Gran Bretagna chiedeva che una volta verificatosi il riconoscimento dell’impero, quel trattato fosse esplicita­ mente esteso al territorio in esso incluso. Furono trattate questioni minori (le misure antischiaviste, la sorte dei disertori etiopici che intendessero tornare nel terri­ torio passato sotto sovranità italiana) e, su richiesta dell’Italia, la

    40 D. Bolech Cecchi, L’accordo d i due im peri, cit., pp. 60-61. Specificamente sullo Yemen è da vedere di R. Quartararo L'Italia e lo Yemen, cit.

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    DAL GENTLEMEN'S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    conferma della convenzione di Costantinopoli dell’ottobre del 1888 sulla libertà di transito attraverso il canale di Suez. L’accordo si profilava ampio e positivo. «Il patto è buono: completo, solido, armonico» annotava Ciano il 10 aprile. E alla vigilia della firma, il 13 aprile: «L’accordo è di vasta portata: co­ mincia un’epoca nuova nei nostri rapporti con la Gran Bretagna. Amicizia su un piede di parità: la sola amicizia che noi possiamo accettare. Con Londra e con chiunque altro». Il 16 aprile, a Roma, Perth e Ciano firmarono l’accordo. Nel Diario Ciano fu prodigo di riconoscimenti per la buona volontà e la di­ sponibilità manifestata da lord Perth. L’accordo constava di un protocollo che esplicitava le intenzioni dei due paesi di contri­ buire alla causa della pace e della sicurezza e di otto allegati (per le questioni particolari: conferma del Gentlemen’s Agreement, scambi di informazioni militari, Vicino Oriente, propaganda, la­ go Tana, obblighi militari degli indigeni, tutela delle missioni re­ ligiose britanniche, canale di Suez); dello scambio di note rela­ tivo all’adesione dellTtalia alla convenzione navale di Londra; delle assicurazioni verbali italiane sulla Palestina; dell’accordo di “buon vicinato” tra Italia, Regno Unito ed Egitto; dello scam­ bio di note sul lago Tana con l’Egitto; dello scambio di note con l’Egitto sul canale di Suez41. La risonanza dell’accordo fu grande. La valutazione di Bolech Cecchi appare equilibrata: «L’accordo di Roma era in­ dubbiamente il riconoscimento ufficiale da parte della Gran Bretagna dell’assunzione dell’Italia al rango di potenza mediterranea: l’Inghilterra, regolando su un piano di parità le que­ stioni concernenti il Mediterraneo, accettava di dividere il suo dominio sul Mediterraneo centro-orientale con un altro pae­ se»42. Mussolini, con la sua solita enfasi, vi vide essenzialmen­ te l’esaltazione dell’impero italiano: «L’accordo fra Londra e Roma è l’accordo di due imperi, e si estende dal Mediterraneo al Mar Rosso all’Oceano indiano [...]. Le direttive della nostra politica sono chiare: noi vogliamo la pace, la pace con tutti [...]. Ma la pace, per essere sicura, deve essere armata»43. Importante nell’immediato come espressione della rottura dell’isolamento nel quale l’Italia si era trovata all’atto del con­ trasto con la Società delle Nazioni sulla guerra d’Etiopia, l’ac­

    41 Tutti i testi degli accordi sono riprodotti in D. Bolech Cecchi, L’accordo di due imperi, cit., appendice A. 42 D. Bolech Cecchi, L ’accordo di due im peri, cit., p. 78. 43 Testo del discorso di Genova in B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXIX, pp. 99-102.

    353

    CAPITOLO IX

    cordo non sortì che una minima parte dei suoi effetti Soprattutto, i governanti fascisti non lo utilizzarono come alter­ nativa all’allineamento alla Germania nazista, svuotandone in tal modo le potenzialità. Il fatto stesso che entrasse in vigore sol­ tanto il 16 novembre 1938 attesta le debolezze intrinseche del­ l’accordo, la cui effettività era subordinata al ritiro delle forze italiane dalla Spagna e al riconoscimento dell’impero da parte della Gran Bretagna; esso comunque entrò in vigore dopo che il Patto di Monaco ebbe profondamente modificato il panorama e il clima delle relazioni internazionali, confermando l’ulteriore squilibrio delle forze a favore delle potenze dell’Asse e segnatamente della Germania nazista e confermando che nel confronto con le dittature a uscirne peggio continuavano ad essere le de­ mocrazie. All’atto dell’entrata in vigore l’accordo era già svuota­ to delle sue potenzialità: non aveva incoraggiato l’Italia a perse­ guire un analogo accordo con la Francia, ma soprattutto non l’a­ veva distolta dal perseguire la politica di fedeltà alla Germania, che sarebbe sfociata a poco più di un anno di distanza nell’al­ leanza del Patto d’acciaio.

    I RAPPORTI CON LA «GRANDE BATTUTA»: LA FRANCIA

    Con molte contraddizioni la diplomazia fascista si era data da fa­ re per riannodare il dialogo con la Gran Bretagna. Da una par­ te per controbilanciare il peso crescente dell’intesa con la Germania nazista e per neutralizzare un corso unilaterale ecces­ sivamente sbilanciato in quella direzione, dall’altra appunto per isolare la Francia. La tradizionale francofobia nazionalista e fa­ scista era stata ulteriormente rinfocolata, dopo la parentesi del patto Laval-Mussolini, dalla guerra d’Africa e soprattutto dalla guerra di Spagna che aveva visto, almeno all’inizio, Italia e Francia su due fronti nettamente contrapposti, nonché dall’af­ fermazione in Francia del Fronte popolare, che per le sue carat­ teristiche spiccatamente antifasciste pose la Francia in prima fi­ la tra i bersagli della politica italiana. Né il riarmo della Germania e la minaccia crescente all’indipendenza dell’Austria erano valsi a riesumare quella linea comune che in altra epoca, assando per il fronte di Stresa, aveva visto prevalere sulle rivatà tra potenze e sul contenzioso tra i due paesi lo sforzo con­ giunto per arginare i contraccolpi della ripresa tedesca. Con sprezzo, abbiamo visto, Ciano respinse le avances della Francia alla vigilia dell 'Anschluss. Con spregio non mancava di sottoli­ neare Te allusioni al «governo ebreo di Blum» (Diario, 7 aprile 1938); con soddisfazione pari all’umiliazione che voleva inflig­

    g

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    gere alla Francia scriveva il 16 aprile 1938, poche ore prima di firmare l’accordo con l’Inghilterra: L’incaricato d’affari di Francia, della grande battuta odierna, chiede udienza d’urgenza. E molto impacciato. Mi legge un lungo messaggio del suo Governo che chiede di trattare con noi, prima di Ginevra. In ciò c’è una piccola punta di ricatto: si minaccia, senza dir­ lo, un’opposizione all’iniziativa britannica per il riconoscimento. Ringrazio Blondel della comunicazione e mi riservo una risposta dopo aver conferito col Duce. Anche la Francia è al tappeto. Con il consenso di Mussolini, Ciano avviò i contatti con Jules Blondel. Lo sviluppo delle conversazioni non confermò soltanto che l’ostacolo principale alla normalizzazione dei rap­ porti con la Francia, una volta che il Consiglio della Società delle Nazioni ebbe dato via libera il 12 maggio al riconosci­ mento della sovranità italiana sull’Etiopia, era costituito dalla situazione in Spagna. Confermò anche che l’Italia non attri­ buiva interesse prioritario ma neppure genericamente rilevan­ te all’intesa con la Francia. I risentimenti psicologici, le diffi­ denze politiche e le ostilità anche ideologiche erano troppo forti. Una volta concluso l’accordo con la Gran Bretagna l’Italia riteneva di poter fare a meno di un chiarimento esplici­ to con la Francia, confidando, ma senza alcuna verifica, che questa prima o poi si sarebbe adeguata alla situazione di fatto. L’Italia non aveva perciò fretta, tanto più che non inten­ deva arrivare comunque a un accordo prima della visita di Hitler, prevista nella prima decade di maggio. Il 22 aprile Blondel aveva presentato a Ciano le richieste francesi per l’a­ genda delle conversazioni. Ciano si limitò ad annotare nel suo Diario l’esistenza di «un punto [che] sarà oggetto di contrasto: le riserve francesi per quanto concerne l’accordo italo-inglese in relazione al Mar Rosso. È chiaro - aggiungeva - che il Quai d’Orsay allarmato dalla posizione di condominio del Mar Rosso, vorrebbe entrare a far parte della combinazione». Il memorandum francese presentato da Blondel era in realtà ancora più complesso e più impegnativo. Da una parte la Francia intendeva ottenere che le fossero estesi gli impegni assunti dall’Italia con l’accordo con la Gran Bretagna, dall’al­ tra insisteva per la soluzione di controversie più strettamente legate ai rapporti bilaterali con l’Italia44.

    44

    Cfr. il testo del memorandum francese in DDF, II, tome IX, n. 217,

    allegato.

    355

    CAPITOLO IX

    Nella prima categoria di richieste rientravano: la dichia­ razione generale sul Mediterraneo; lo scambio di note sulla Spagna; Te assicurazioni sulla Siria; lo scambio di informazioni sullo stato dei rispettivi apprestamenti militari; l’accessione dell’Italia alla convenzione navale di Londra; l’adesione della Francia alla dichiarazione italo-inglese relativa alla libertà di transito nel canale di Suez. Per contro, altri punti implicavano una trattazione autonoma che si discostava dalla semplice ri­ presa del modello dell’accordo già stipulato con il governo di Londra. Il primo di questi problemi era appunto quello relativo al Mar Rosso e all’Arabia, dove la Francia aveva da far valere i suoi specifici interessi sia per quanto riguardava impegni as­ sunti con stati del settore (Yemen, Arabia Saudita), sia per quanto riguardava l’interferenza tra propri diritti e interessi e diritti altrui sulle isole del golfo di Aden. Un contenzioso spe­ cifico era rappresentato dai problemi della popolazione italia­ na in Tunisia. Ancora da negoziare era la questione dei diritti della Francia in Etiopia. Altri problemi concernevano l’appli­ cazione di parti dell’accordo del 1935 che a questo punto la Francia considerava ancora valido, mentre non lo era più dal punto di vista italiano. Il tutto condizionato dalla conclusione di un accordo sulla Spagna e dall’esito delle decisioni ginevri­ ne per il riconoscimento della sovranità italiana in Etiopia. Il 30 aprile - di ritorno dall’Albania - Ciano riprese i con­ tatti con Blondel, «molto conciliante» a suo dire; il cenno del Diario è interessante perché conferma la consapevolezza e an­ che la volontà che non convenisse arrivare ad un accordo pri­ ma della visita di Hitler e di un’intesa con la Germania45. Il 1° maggio Ciano scriveva infatti: Presento al Capo lo schema dell’eventuale trattato con la Germania. Concorda. Lo proporrò a Ribbentrop, facendogli presente che è nel co­ mune interesse sottoscriverlo. Abbiamo fatto un Patto con Londra, tra poco ne faremo uno con i francesi: se non si fissano le posizioni anche con Berlino, tutti diranno che l’Asse è liquidato e che stiamo tornando a Stresa.

    A parte il fatto che il progetto di trattato con la Germania redatto da Ciano, del quale non siamo in grado di conoscere il

    45 Fu l'impressione che trasse lo stesso Jules Blondel, come riferisce nel suo resoconto del colloquio al ministro Bonnet, in DDF, II, tome tx, n. 260.

    356

    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    testo46, non andò in porto perché sostituito dalle proposte te­ desche che in capo ad un anno avrebbero portato alla conclu­ sione del Patto d’acciaio, la prospettiva dell’accordo con la Francia da far valere nei confronti dei tedeschi era più impor­ tante dell’accordo stesso. N é l’Italia accettava alcuna sollecita­ zione a concludere con la Francia come quelle discretamente avanzate dal rappresentante britannico a Roma. Il 14 maggio la sostanza antifrancese del discorso di Genova di Mussolini non poteva sfuggire a nessuno; non sfuggì alla folla che lo tra­ sformò in una vera manifestazione contro la Francia47. La stampa francese reagì con durezza. La diversità di tono non sfuggì neppure all’ambasciatore inglese che chiese quanto me­ no un chiarimento (Diario di Ciano al 18 maggio). In quelle settimane Mussolini fece lanciare il paese in una vera e propria campagna contro la Francia e annunciò a Ciano la volontà di fare scatenare dal Partito fascista «una forte ondata di fran­ cofobia». Scriveva Ciano nel Diario, al 30 maggio: Mi autorizza a dire a Perth che le trattative con la Francia so­ no da considerarsi rotte, tanto più che la solita idiota stampa parigi­ na (la vera responsabile della crisi) vorrebbe dare all’accordo italofrancese un sapore antitedesco.

    Mentre i rapporti con l’Inghilterra rimanevano instabili pur dopo gli accordi di Pasqua, Mussolini traeva pretesto dal procrastinarsi dell’attuazione dell’intesa anglo-italiana per rin­ viare ulteriormente la ripresa del negoziato con la Francia. Ancora il 30 giugno Ciano annotava cne Mussolini «riconfer­ ma che non riprenderà le conversazioni con la Francia se non dopo l’andata in vigore degli accordi italo-britannici», il che era un elemento di pressione sulla Gran Bretagna e sulla Francia allo stesso tempo. E così la diplomazia italiana, che al­ l’epoca del negoziato con la Gran Bretagna aveva respinto ogni accenno all’eventuale coinvolgimento della Francia smentendo che vi fosse una connessione tra la sua posizione e i colloqui anglo-italiani in corso, capovolgendo ora disinvoltamente la si­ tuazione subordinava addirittura il negoziato con la Francia al­ l’attuazione degli accordi con la Gran Bretagna.

    46

    Come convincentemente sostenuto da Toscano, esso si deve consi­

    derare perduto.

    41 li discorso fu pubblicato sui quotidiani del 15 maggio 1938; negli stessi giorni il «Corriere della Sera» ed altri organi accentuavano la polem i­ ca contro gli aiuti francesi alla Spagna repubblicana. Cfr. G. Ciano, Diario

    1937-1938, cit., 14 maggio 1938.

    357

    CAPITOLO IX

    Il 3 giugno, a lord Perth che gli esponeva le preoccupa­ zioni britanniche per l’inasprimento della guerra aerea in Spagna, Ciano contrattaccava accusando Londra di inadem­ pienza per il ritardo dell’applicazione degli accordi di Pasqua. Al centro di queste accuse era l’insinuazione che fosse proprio la Gran Bretagna a protrarre la situazione e ad attendere, per dare attuazione agli accordi, il «raggiungimento di un accor­ do similare con la Francia». Sebbene la parte britannica aves­ se sempre negato una connessione simile, Ciano teneva a fare notare che, anche se solo formulata a titolo di congettura, «una tale ipotesi non poteva comunque mancare di produrre una profonda impressione nell’opinione pubblica». Ma so­ prattutto teneva a dichiarare comunque che le conversazioni con la Francia dovevano essere considerate interrotte per un lungo periodo di tempo. In pri­ mo luogo per le ragioni già esposte a Lord Perth nei precedenti col­ loqui, relative alle richieste francesi in merito al Mar Rosso e alla Spagna, e poi per la costante malafede della stampa francese, e non soltanto della stampa, tendente a far credere che qualsiasi accordo tra Roma e Parigi aveva un significato antigermanico e che l’Asse ne sarebbe stato minato.

    «Il Duce - concludeva Ciano - non intende riprendere le conversazioni con i francesi fino a quando siano adottati tali scorretti modi di agire» 48. Il disinteresse mostrato da Mussolini nella prima crisi ce­ ca della fine di maggio per la sorte della Cecoslovacchia e la disinvoltura con cui fu lasciata cadere la richiesta di consulta­ zioni da parte del governo francese (passo di Georges Bonnet del 22 maggio presso l’incaricato d’affari)49 difficilmente pos­ sono essere interpretati come espressione di non consapevo­ lezza da parte italiana della gravità della crisi in corso. Né è possibile pensare che i capi fascisti non fossero consapevoli di ciò che la Cecoslovacchia, al di là dei suoi stretti confini, rap­ presentava per l’equilibrio dell’Europa centrale e dell’Europa nel suo complesso. Piuttosto bisogna pensare che ormai, an­ che prima del Patto di Monaco, Mussolini e Ciano avessero già compiuto una scelta che nei mesi e nei due anni successi­ vi si rivelerà irreversibile, non perché non si presentassero

    48 R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, p. 355. 49 DDF, II, tome IX, n. 433; riferimento al passo francese in G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 24 maggio 1938.

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    DAI GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    possibilità di imboccare strade alternative, bensì perché ave­ vano ormai maturato una scelta politica definitiva a favore della Germania nazista. Già durante la visita di Hitler a Roma, l’Italia stava tra­ mando la violazione dell’intesa con la Gran Bretagna per il mantenimento dello status quo nel Mediterraneo: quale altro significato poteva avere infatti il proposito già allora maturato di occupare l’Albania? Alla luce di questo contesto oggi può apparire irrilevante che l’Italia non perseguisse la via dell’ac­ cordo ad ogni costo con la Francia; rapportato al clima di al­ lora, in cui si parlava apertamente dell’eventualità di una nuo­ va guerra, la parte dell’Italia sembrava quella di chi, anziché contribuire a spegnere la minaccia dell’incendio, continuava a soffiare sul fuoco. Se l’Italia accusava la stampa francese di avvelenare i rap­ porti fra Italia e Francia e di intorbidire le acque tra Italia e Germania, la stampa italiana non era da meno nel suo impegno antifrancese. Sicuro è non solo che l’Italia confermava di non essere interessata all’accordo con la Francia, ma che non sem­ brava preoccupata neppure dalla prospettiva che l’accordo con la Gran Bretagna potesse non entrare in vigore, se è vero uanto Mussolini avrebbe detto a Ciano, come questi annotò 22 giugno: «Non modificheremo di un millimetro la nostra condotta nei confronti di Franco e l’accordo con Londra en­ trerà in vigore quando Dio vorrà. Se pure, entrerà in vigore». La crisi dei rapporti con la Francia si intrecciava sempre più al dialogo faticoso che continuava con Londra, anche se l’allontanamento dei tempi dell’attuazione degli accordi di Pasqua, dovuto ai continui rinvii nella questione del ritiro dei “volontari” dalla Spagna e alla persistente violazione delle pro­ messe di embargo anche da parte dell’Italia, rischiava di tra­ scinare nuovamente nella crisi gli stessi rapporti con la Gran Bretagna. I colloqui di queste settimane tra Perth e Ciano so­ no la migliore testimonianza del nuovo corso e rappresentano anche la spia di una situazione che si andava facendo più drammatica di quanto la lettera dei documenti non dica. Mussolini non sembrava impressionarsi neppure dell’eventua­ lità che il peggioramento della situazione potesse fare scompa­ rire Chamberlain dalla scena politica 50. Era addirittura infasti­ dito dai messaggi preoccupati che Grandi inviava da Londra. Quasi con indifferenza Ciano registrava come «quasi inevita­

    G

    50 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 28 giugno 1938.

    359

    CAPITOLO IX

    bile» una nuova crisi con la Gran Bretagna il giorno prima di consegnare a Perth il testo («il documento è torte») della re­ plica di Mussolini alle osservazioni britanniche del 20 giugno (Diario, 1° luglio). Sembra difficile pensare che il cambiamento di clima che ormai si respirava non soltanto verso la Francia, sicuramente al centro di una campagna francofoba e della volontà deliberata di infliggerle un’umiliazione cocente, ma anche nei confronti della Gran Bretagna, che in qualche modo era stata scelta co­ me interlocutrice privilegiata sul versante delle democrazie, potesse essere dovuto a scatti di umore e alle oscillazioni ca­ ratteriali di un dittatore. In realtà, gli eccessi caratteriali ren­ devano ancora meno gradevoli agli interlocutori dell’Italia le scelte della politica fascista che erano rappresentate dall’op­ zione prioritaria, anche se non ancora esclusiva, a favore della Germania nazista e dall’impegno nella guerra di Spagna a fa­ vore di Franco. Lo scontro con la Francia su quest’ultimo pun­ to non era casuale né di scarso momento. I toni aspri che più di una volta Ciano usò nei confronti dei rappresentanti britan­ nici, i quali continuavano a imputare all’Italia la violazione de­ gli obblighi del non intervento51, non erano semplici scoppi d’ira, ma la spia del fatto che per l’Italia la posta spagnola era diventata un pilastro imprescindibile della sua politica. Da questo punto di vista le rimostranze inglesi circa l’inaffidabilità degli impegni assunti dall’Italia nel Comitato del non intervento non impressionarono Ciano, che continuava a mentire circa l’invio di nuovi volontari mentre non smentiva l’invio comunque di nuovi rifornimenti ai “volontari” già in Spagna, con l’affermazione tanto banale quanto ipocrita che «il Corpo Volontario italiano non può combattere armato di ramoscelli d’olivo»52. Il richiamo alle responsabilità anche italiane che Chamberlain fece il 26 luglio alla Camera dei Comuni fotografava lo stato della situazione e anche lo stallo delle relazioni con l’Italia, la quale aveva calcolato di costrin­ gere la Francia a una vera e propria capitolazione scegliendo di dimostrarle giorno per giorno che si poteva prescindere dalla sua collaborazione. Se aveva dovuto riconoscere alla Gran Bretagna la priorità nel Mediterraneo strappandole la parità del diritto di transito, non era disposta a scendere a pat­

    s' Cfr. D. Bolech Cecchi, L ’accordo d i due imperi, cit., pp. 140 sg. 52 Ciano a sir N oel Charles il 20 agosto 1938, in R. Mosca (a cura di), L'Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, p. 381.

    360

    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    ti analoghi con la Francia. Un atteggiamento che non sarebbe concepibile senza considerare il rafforzamento, alle spalle dell’Italia, dell’Asse Roma-Berlino.

    CHAMBERLAIN E L’APPEASEMENT: IL PATTO DI MONACO 53

    Nell’estate del 1938 la crisi cecoslovacca tenne l’Europa e il mondo con il fiato sospeso. Rinviata nel maggio, allorché le prime misure di mobilitazione della Wehrmacnt furono bloc­ cate dal monito anglo-francese senza che l’Italia osasse mini­ mamente intervenire né approfondire con l’ormai amica Germania la consistenza delle voci di un’imminente invasione tedesca, in agosto la questione sudeta assunse una piega mi­ nacciosa. Essa non era più un affare interno cecoslovacco, e del resto in senso stretto non lo era mai stata. Coinvolgeva sempre più direttamente la Germania, che pilotava l’azione eversiva dall’interno del movimento separatista guidato da Konrad Henlein, nazionalista tedesco e filonazista, e per que­ sta stessa ragione aveva assunto una rilevanza internazionale per il significato che, soprattutto dopo YAnschluss, non poteva non rivestire un ulteriore prevedibile passo del Terzo Reich sulla via dello smantellamento dell’ordinamento di pace di Versailles. All’inizio di agosto la questione conobbe un’ulterio­ re internazionalizzazione allorché il premier britannico Chamberlain, ormai quasi inarrestabile sulla via appease­ ment, prese un’iniziativa che nelle sue intenzioni iniziali voleva rappresentare di fatto una non richiesta mediazione. Il 3 ago­ sto inviò a Praga un uomo di fiducia del governo britannico, noto per capacità diplomatiche e per i suoi contatti personali con ambienti politici ed economici internazionali, lord Walter Runciman, con il compito di presentare al governo di Praga e a quello tedesco proposte per una sistemazione ragionevole della questione dei Sudeti che scongiurasse una soluzione mi­ litare foriera di scatenare un nuovo conflitto.53

    53

    Sulla crisi di Monaco esiste ormai una intera biblioteca, al di là dei

    testi generali di storia delle relazioni internazionali. Tra le monografie sem­ pre valido rimane il lavoro un po’ invecchiato di John W. Wheeler-Bennett, Munich. Prologue to Tragedy, London, Macmillan, 1966 [ l a ed. 1948]; più giornalistico Henri Nogueres, Monaco. La finta pace, Milano, Garzanti, 1965; Boris Celovsky, Das Miinchener Abkommen 1938, Stuttgart, DVA, 1958. Importante documento della ricezione di Monaco nell’immaginario

    collettivo rimane la ricostruzione di un giornalista d ’eccezione come Paul Nizan, Chronique de septembre, Paris, Gallimard, 1939.

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    CAPITOLO IX

    Ciò che Chamberlain non aveva previsto era che Henlein per sobillazione di Berlino, non avrebbe accettato alcuna solu­ zione che si risolvesse semplicemente in un nuovo statuto del­ la minoranza tedesca all’interno della Cecoslovacchia. Il pro­ posito di Henlein era di forzare ad ogni costo una soluzione se­ paratistica, foss’anche al prezzo di mettere a repentaglio l’esi­ stenza della Repubblica cecoslovacca. In questo contesto e in questo frangente, mentre Francia e Gran Bretagna speravano che l’Italia potesse fungere in qualche misura da moderatrice della spinta offensiva tedesca, il governo italiano non mostrava di reagire con particolare interesse all’ini­ ziativa britannica. A leggere il Diario di Ciano, che ignora la mis­ sione Runciman, sembra che Roma nulla avesse da dire. Sempre dal Diario di Ciano risulta che soltanto il 20 agosto l’ambascia­ tore Attolico, sulla base di informazioni giunte a Roma dall’ad­ detto militare a Berlino il giorno precedente, fu incaricato di re­ carsi da von Ribbentrop per conoscere le reali intenzioni dei te­ deschi a margine della situazione cecoslovacca. Ma la cosa fon­ damentale è che prima ancora di conoscere la risposta tedesca Ciano e Mussolini avevano già deciso il comportamento che sa­ rebbe stato tenuto dall’Italia: «In realtà le informazioni da Berlino lasciano sempre più prevedere la prossima crisi nella questione ceca. Si avrà la localizzazione del conflitto oppure la Francia darà fuoco alle polveri? In una tale eventualità per noi non esiste altra alternativa se non quella di schierarci subito, con tutti i mezzi, a fianco della Germania. Il Duce è deciso all’azio­ ne. Di qui, la necessità di sapere le cose per tempo e compietamente», ai fini, fra l’altro, eli «poter prendere le nostre misure tempestive alla frontiera occidentale». Dunque si era consape­ voli della minaccia di un conflitto imminente. La scarsità di informazioni che circolarono allora tra Londra e Roma da una parte e tra Roma e Berlino dall’altra fa sì che al momento attuale, fra l ’altro ancora in assenza dei Documenti diplomatici italiani relativi a questo periodo, una ricostruzione dell’atteggiamento dell’Italia sia affidata essenzial­ mente alle note del Diario e alle carte di Ciano. Sembra che Londra, non essendo fra l’altro ancora stato ratificato l’accor­ do di Pasqua, non si sia preoccupata di informare puntual­ mente Roma delle mosse della diplomazia britannica, perché dava per scontato che l’Italia avrebbe preso le parti della Germania54; quanto poi ai rapporti con la Germania, la relati­

    54 In questo senso è da vedere tutto il cap. V di D. Bolech Cecchi, L’accordo di due im peri, cit.

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    va scarsità dei contatti conferma la vecchia ipotesi di Toscano che «durante l’intera crisi dei Sudeti non esistette tra Roma e Berlino azione diplomatica concertata»55. Ciano registrò nel Diario, alla data del 26 agosto, la ri­ sposta di Ribbentrop alla richiesta di chiarimenti avanzata da Attolico, ma in termini piuttosto enigmatici: «La risposta non è del tutto chiara. C’è una gran voglia d’agire e tutto è ormai pronto o quasi: ma la decisione definitiva non sembra ancor presa». In realtà qualcosa di più Ribbentrop dovette aver det­ to, se nelle sue memorie l’allora incaricato d’affari a Berlino e primo collaboratore di Attolico, Massimo Magistrati, ne riferi­ sce quasi testualmente le parole: La Germania non ha alcuna preoccupazione perché è pronta, ad ogni modo, a risolvere in forma definitiva quel problema. Quando il momento sarà giunto, tutto si svolgerà nel migliore dei modi. L’Europa sarà ben lieta di vedersi liberata da questo incubo e non reagirà menomamente. E se Francia e Inghilterra dovessero, contro ogni previsione, attaccare, la Germania è fiduciosa di sorpassare la tempesta con i propri mezzi56. E possibile che Attolico non trasmettesse a Roma una si­ mile informazione, che a dire di Magistrati «aveva almeno il dono della chiarezza»? Essa confermava che la Germania era pronta per una soluzione integrale, conquista del territorio dei Sudeti, e che prendeva in considerazione lo scoppio di un con­ flitto, equivocando solo sul fatto che questo potesse rimanere localizzato. Nessuna traccia vi è, nelle carte pubblicate di Ciano, di un colloquio del 22 agosto con l’incaricato britannico Noel Charles, dal quale si doveva dedurre che il ministro degli Esteri fascista addossava tutta la responsabilità di una decisio­ ne al governo cecoslovacco57, rovesciando disinvoltamente le posizioni. Nel Diario del 29 agosto Ciano registrava la situa­ zione in termini inequivocabili: Hitler aspettava il pretesto (o la provocazione) per intervenire in modo da avere «agli occhi del mondo» «una giustificazione plausibile». La Francia non era pronta alla guerra e l’Inghilterra avrebbe fatto «di tutto per scongiurare un conflitto».

    55 M. Toscano nel volume di A. Torre e al., La politica estera italiana, cit., p. 218. 56 M. Magistrati, L’Italia a Berlino, cit., p. 219. 57 D . Bolech Cecchi, L’accordo d i due imperi, cit., p. 224.

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    Il 31 agosto Ciano sollecitò nuovamente Attolico ad otte­ nere maggiori dettagli sulle intenzioni della Germania. Ancora il 2 settembre registrava: Il Duce è inquieto perché i tedeschi non ci fanno conoscere che ben poco dei loro programmi nei confronti della Cecoslovacchia. Mi ordina di parlare con Assia. Vuol sapere fin dove la Germania inten­ de spingere le cose, quanto e come si aspetta di essere aiutata da noi. Attolico, nei suoi rapporti, non fornisce, per ora, elementi decisivi: è personalmente ostile ad una nostra compromissione troppo spinta. Se l’Italia lamentava scarsità di informazioni da parte te­ desca, i tedeschi lamentavano che l’Italia non chiariva mai che cosa intendesse fare. Dopo l’ulteriore sollecito di Ciano, Attolico si recò infatti dal segretario agli Esteri von Weizsàcker, il quale controreplicò che «noi effettivamente chiedevamo sempre e non mettevamo mai in chiaro il nostro pensiero»58. Con il rischio, sottolineava Magistrati, di «essere trascinati a rimorchio senza aver avuto il tempo ed il modo di esporre chiaramente ed onestamente le nostre intenzioni». Né risultati più espliciti ottenne un passo diretto di Attolico pres­ so Ribbentrop: «Nessun elemento nuovo», commentava il 3 settembre Ciano. «Se vi sarà la provocazione i tedeschi attac­ cheranno. Niente altro sarebbe stato deciso dal Fiihrer». «E chiaro - continuava Ciano - che i tedeschi non vogliono im­ metterci nel gioco» ma concludeva con una notazione conso­ latoria che non rispondeva alle effettive prospettive dell’atteg­ giamento italiano: «Ciò lascia a noi tutta e piena libertà d’azio­ ne in qualsiasi evenienza». In realtà, avendo pregiudizialmente deciso di stare dalla parte della Germania, Ciano e Mussolini non si preoccupavano nemmeno di conoscerne preventiva­ mente le mosse. Il 7 settembre il principe Filippo a Assia recò a Mussolini un lungo promemoria di Hitler: «Come conclu­ sione, attaccherà se la Cecoslovacchia provoca: oggi, non è an­ cora in grado di fissare un programma preciso». F’8 settembre comparve la prima presa di posizione uffi­ ciale sulla crisi ceca con una nota della Informazione diploma­ tica destinata alla diffusione giornalistica59. F’impressione riferita da alcuni organi di stampa all’este­ ro che l’Italia intendesse rimanere al di fuori della mischia pur

    58 M. Magistrati, L’Italia a Berlino, cit., p. 224. 59 Testo dell’Informazione diplomatica n. 19, «Corriere della Sera» 9 settembre 1938. ’

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    appoggiando moralmente la Germania dava una versione otti­ mistica dell’atteggiamento italiano. L’8 settembre, commen­ tando un passo dell’inviato francese Blondel che sollecitava chiarimenti sugli impegni assunti dall’Italia verso la Germania, Ciano annotava: «Faccio il misterioso. In realtà: non vi è nien­ te di preciso. Ma è chiaro che in qualunque evenienza il Duce intende marciare sulla linea dell’Asse». Dove è ancora una vol­ ta ribadito l’appoggio pregiudiziale che l’Italia concedeva alla Germania pur essendo all’oscuro delle sue reali intenzioni. Il 12 settembre era una data attesa da molte cancellerie: Hitler avrebbe pronunciato un discorso, più che mai atteso in queste circostanze, al Congresso nazionalsocialista di Norim­ berga. Fu un discorso offensivo, tutto all’attacco delle demo­ crazie occidentali e soprattutto della Cecoslovacchia: chiedeva il diritto aH’autodeterminazione per i tedesco-sudeti e dava lo­ ro l’assicurazione che l’intera Germania era alle loro spalle a sostegno delle loro rivendicazioni. Alle democrazie occidenta­ li mandava un chiaro messaggio ricordando l’opera di fortifi­ cazione e di consolidamento militare che la Germania stava realizzando lungo la frontiera occidentale. Ma un messaggio ri­ guardava anche l’Italia, e stupisce che nessuna fonte diploma­ tica lo raccogliesse: in chiusura del discorso, rispolverando la retorica delle nazioni che si rigeneravano, Hitler richiamava il parallelismo tra la rinascita della Germania e quella dell’Italia: due imperi che si potevano anche non amare, ma che «nessu­ na potenza al mondo» avrebbe potuto più separare60. L’alleanza tra questi “due imperi” non esisteva ancora, ma l’al­ lineamento dell’Italia alla Germania era già un fatto compiuto: se l’Italia non l’avesse voluto subire avrebbe potuto dissociar­ si da un discorso come quello di Hitler. Al contrario, mentre Grandi da Londra consigliava un’a­ zione moderatrice dell’Italia sulla Germania, Mussolini com­ mentava acido: «Una tale assurdità prova che gli inglesi hanno ormai l’utero fuor di posto». «E m’incarica - continuava Ciano - di far sapere ai tedeschi che se in questo momento hanno bi­ sogno di un’azione in loro favore, egli è pronto ad andare un passo più avanti dell’ultima Informazione diplomatica». Vale a dire che sarebbe passato dalla difesa del diritto dei tedesco-sudeti all’autodeterminazione all’esplicito sostegno

    60 Testo del discorso di Hitler nel resoconto ufficiale Der Parteitag Grossdeutschland vom 5. bis 12. September 1938, Miinchen, Zentralverlag, 1938, pp. 323 sg.

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    della loro separazione territoriale dalla Cecoslovacchia. In quello stesso 12 settembre Ciano dava istruzioni ad Attolico, che ogni tanto è assalito da crisi di paura bel­ lica e vorrebbe fare marcia indietro. Seguirà l’ordine, quindi, con molta misura. Discorso del Fuhrer. Mi sembra molto forte e non cer­ to tale da determinare una schiarita nell’atmosfera. Parla di guerra con una decisione senza precedenti. E ciò serve a determinare il cli­ ma. Anche il Duce, a quanto telefona Alfieri, trova grave il discorso di Norimberga61. Tuttavia, nonostante il discorso di Norimberga, Musso­ lini non si fece distogliere dalla linea di sostanziale solidarietà con la Germania. Anzi, sempre dal Diario di Ciano appren­ diamo che egli si diede attivamente da fare per fornire prove concrete della sua subalternità alla politica tedesca. Attolico trasmise da Norimberga, dove era riunito il vertice nazista, la richiesta di Ribbentrop, che non si era lasciato sfuggire l’of­ ferta di un’iniziativa favorevole alla Germania da parte di Mussolini, di appoggiare pubblicamente una soluzione della crisi cecoslovacca più radicale di quella contenuta nel sem­ plice sostegno alle rivendicazioni di Henlein già prevista nel­ la Informazione diplomatica dell’8 settembre, ma ormai su­ perata dagli eventi e soprattutto dallo sviluppo dell’iniziativa tedesca. Mussolini stesso si incaricò di redigere una nuova Informazione diplomatica, la n. 20 62. Nel frattempo il 12 settembre era giunta dai tedeschi, per il tramite dell’ambasciata a Berlino, la proposta di un incontro tra Hitler e Mussolini, il quale occupato in quelle settimane in una serie di impegnativi discorsi forse non casualmente nel Veneto, ossia nelle regioni nordorientali dell’Italia, non respin­ se l’idea, chiese solo di differirne la realizzazione all’inizio di ottobre, non prevedendo evidentemente il rapido succedersi degli avvenimenti. Il testo dell’Informazione diplomatica n. 20 steso da Mussolini non poteva non chiarire verso i terzi la posizione dell’Italia come ormai stabilmente e forse anche definitiva­ mente acquisita alla causa della Germania. Esso portava avan­ ti con forza il sostegno alla causa della separazione dei tedescosudeti dallo stato cecoslovacco, definito null’altro che «una au­

    61 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., alla data del 12 settembre 1938. 62 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 13 settembre 1938.

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    tentica e paradossale creatura della diplomazia di Versaglia [...] un vero mosaico» degno di essere distrutto. In questo momento dopo il discorso di Hitler la questione si sposta sul piano concreto del diritto di autodecisione e non può es­ sere negato ai sudeti specialmente da coloro che si fecero i banditori di tale diritto. Vi sono ormai due sole soluzioni possibili: la prima è quella di dare ai sudeti la facoltà di disporre del loro destino, l'altra, nel negare questo diritto. Dando ai sudetici la possibilità di scinder­ si da Praga si sceglie la via della giustizia e soprattutto quella della pa­ ce; l’altra soluzione è quella del disordine e della guerra. Runciman aveva ormai il compito di convincere Benes ad accettare la separazione dei Sudeti: «O questo o il disordi­ ne cronico di un’esistenza comune divenuta impossibile, con sbocco finale la guerra. Ma che cosa può sperare la Cecoslovacchia dalla guerra?». La conclusione era un ennesi­ mo schiaffo alle democrazie occidentali, sulle quali, in stile abbastanza prossimo a quello nazista, venivano rigettate le conseguenze di un eventuale conflitto del quale ormai si par­ lava senza mezzi termini. Forse Mussolini non lo voleva ma non mostrava neppure di temerlo, per questo non faceva nul­ la per moderare le mosse tedesche: «Nei circoli responsabili romani si pensa che i bolscevichi di oriente e di occidente pos­ sano avere interesse a scatenare una conflagrazione. Ma que­ sto non è l’interesse dell’Europa e del m ondo»63. 11 tono ma soprattutto la sostanza di questo testo erano profondamente diversi dall’Informazione diplomatica dell’8 settembre, in cui si appoggiavano ancora le richieste di auto­ nomia di Henlein nel quadro del contesto statuale della Cecoslovacchia. L’appoggio italiano alle richieste radicali di parte tedesca non poteva contribuire a moderare la situazione. Scatenò al contrario apprensioni dappertutto. Annotava infat­ ti Ciano il 14 settembre: Affluiscono al ministero molti diplomatici. In generale, vedono nero. Tutti chiedono delucidazioni circa lTnformazione diplomatica e vogliono sapere se la solidarietà italiana giungerà fino ad affiancare la Germania in caso di guerra. Non rispondo con precisione ma la­ scio intendere di sì. L’incaricato britannico domanda se autodecisio­ ne significa plebiscito. Sì. Allora dice che sarà difficile farlo accetta­ re a Benes. L’ambasciatore belga dice: “Voi chiedete alla Ceco­ slovacchia di suicidarsi”.

    63 Dal «Corriere della Sera» del 14 settembre 1938.

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    Poco dopo ci fu un colpo di scena: giunse da Berlino la notizia che Chamberlain era in procinto di partire per la Germania per essere ricevuto a Berchtesgaden da Hitler. La reazione di Mussolini fu di soddisfazione non tanto per lo scampato pericolo di guerra, bensì per l’umiliazione che veni­ va inflitta alla Gran Bretagna: «Non ci sarà la guerra. Ma que­ sta è la liquidazione del prestigio inglese. In due anni l’Inghilterra è andata due volte al tappeto» 6465.Il 15 settembre, il giorno stesso dell’incontro di Berchtesgaden tra Chamberlain e Hitler, Mussolini pubblicava su «Il Popolo d’Italia» la Lettera a Runciman, in cui, dopo aver ripetuto le ra­ gioni che condannavano all’inesistenza lo stato cecoslovacco, immaginava che l ’unica cosa che restasse da fare al lord ingle­ se dopo il discorso di Hitler del 12 settembre fosse quella di imporre a Benes il plebiscito «non soltanto per i Sudeti, ma per tutte le nazionalità che lo domanderanno». «Benes respin­ gerà il plebiscito? E allora voi gli potreste far sapere che l’Inghilterra ci penserà sette volte sette prima di scendere in guerra semplicemente per conservare uno stato-finzione [...]. Se Londra ra sapere che sta ferma, nessuno si m uove»6J. Un testo interessante non soltanto perché Mussolini ri­ peteva il solito metodo di ribaltare il gioco delle parti, addos­ sando alla Gran Bretagna la responsabilità di un eventuale conflitto, ma anche perché con evidente eccesso di zelo si in­ vestiva senza esserne richiesto del ruolo di Hitler («Chi vi scri­ ve questa lettera è in grado di dirvi - confidenzialmente - che qualora gli venissero offerti tre milioni e mezzo di Cechi, Hitler declinerebbe garbatamente, ma risolutamente, tanto re­ galo. Il Fùhrer si occupa e preoccupa dei tre milioni e mezzo di Tedeschi e soltanto di loro»). Un testo interessante anche per un’altra ragione: anticipando forse una mossa tedesca, Mussolini metteva in discussione l’esistenza stessa della Cecoslovacchia, allargando il sostegno alle rivendicazioni po­ lacche e ungheresi. Apparentemente ineccepibile dal punto di vista di principio, politicamente ciò equivaleva a scatenare contro la Cecoslovacchia una sorta di sciacallaggio internazio­ nale. Questo e non altro era il senso dell’invito a Runciman a promuovere non «il plebiscito, anzi i plebisciti». Non a caso il 16 settembre Ciano poteva annotare nell’andirivieni di amba­

    64 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 14 settembre 1938. 65 II giorno dopo, il 16 settembre, la lettera fu ripresa dal «Corriere della Sera» e da altri organi di stampa.

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    sciatori che «il polacco e l’ungherese vengono a ringraziare per l’azione svolta dal Duce e fanno presente formalmente che in­ tendono sollevare la questione delle loro minoranze». A Trieste, il 18 settembre, dimenticando che l’Italia aveva inglo­ bato una forte minoranza slava, riprendeva il motivo dei ple­ bisciti «per tutte le nazionalità che li domandano». Il nulla di fatto della visita di Chamberlain a Berchtesgaden non allentò di molto la tensione. Nei discorsi che Mussolini tenne nella seconda metà di settembre nelle città del Veneto si sentiva nell’aria l’imminenza del conflitto: a Trieste Mussolini auspicò una soluzione pacifica, ma se questa non era possibile che «il conflitto eventuale sia limitato e cir­ coscritto. Ma se questo non avvenisse - aggiunse - e si deter­ minasse pro o contro Praga uno schieramento di carattere universale, si sappia che il posto dell’Italia è già scelto» 66. Gli stessi concetti Mussolini aveva espresso a Ciano il giorno prima, come risulta dal Diario del 17 settembre: Ho preso le decisioni. Se il conflitto si produrrà in Germania, Praga, Parigi e Mosca, io resterò neutrale. Se la Gran Bretagna inter­ verrà, generalizzando la lotta e dandole un carattere ideologico, allo­ ra ci getteremo nella fornace. L’Italia e il fascismo non potrebbero es­ sere neutrali. A Udine il 20 settembre Mussolini si esaltò nel delirio di potenza: Preferiamo di essere temuti e non ci importa nulla dell’odio al­ trui perché lo ricambiamo. Bisognerà che il mondo faccia conoscen­ za cfi questa nuova Italia fascista: Italia dura, Italia volitiva, Italia guerriera. Il 22 settembre Chamberlain tornava a Bad Godesberg per sottoporre a Hitler il risultato delle pressioni anglo-france­ si su Praga: di fatto coartato, il governo ceco aveva finito per accettare il piano anglo-francese che nella sostanza altro non era che l’appoggio afla secessione del territorio dei Sudeti; la Cecoslovaccnia era sull’orlo di essere abbandonata a se stessa, soprattutto dopo che la Francia ebbe fatto capire chiaramente

    66 II discorso di Trieste in B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXIX e in precedenza nella pubblicazione a cura del ministero della Cultura popo­ lare Monaco 1938. Discorsi d i prima e dopo, Roma, Soc. ed. Novissima, 1938,

    pp. 63-68.

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    che non intendeva ricorrere allo strumento degli accordi fran­ co-cechi del 1935. Seguirono le dimissioni del governo ceco, che evidentemente non si sentiva in grado di assumersi le re­ sponsabilità dell’imposizione subita da Francia e Inghilterra. Né questa parve sufficiente a Hitler, che nell’incontro con Chamberlain approfittò per alzare ulteriormente il prezzo del­ le rivendicazioni tedesche, pretendendo che si desse luogo a un plebiscito anche nelle zone in cui la popolazione tedesca non era maggioranza. Rifiutava poi ogni garanzia nei confron­ ti della Cecoslovacchia prima che fossero soddisfatte le riven­ dicazioni ungheresi e polacche, confermando che in realtà obiettivo della Germania non era soddisfare una aspirazione nazionale tedesca ma eliminare dalla carta geografica lo stato cecoslovacco, in quanto ostacolo sulla via della marcia del Terzo Reich verso l’Est. Nella notte tra il 23 e 24 settembre Hitler formulò le nuove richieste tedesche in un memorandum che in realtà era un vero e proprio ultimatum da realizzare en­ tro la data del 1° ottobre, giorno che era stato previsto per l’in­ gresso della Wehrmacht in Cecoslovacchia67. Respinto dalla Gran Bretagna l’ultimatum, Londra avvertì Berlino che se la Francia avesse deciso di onorare gli impegni assunti con la Cecoslovacchia la Gran Bretagna non si sarebbe tirata indie­ tro. A quel punto la pace era appesa a un filo: in un violento discorso al Palazzo dello Sport di Berlino, la sera del 26 set­ tembre, Hitler non lasciava dubbi che era sua intenzione inva­ dere e distruggere la Cecoslovacchia 68. In questo frangente Mussolini continuò a tenere bordone alla Germania. Nel discorso di Padova del 24 settembre lodò la «prova suprema di moderazione» di cui aveva dato dimo­ strazione Hitler inviando l’ultimatum al governo di Praga, con «atteggiamento longanime». Tornava a profilarsi il conflitto tra le democrazie, nelle quali dominava l’irresponsabilità, e i regi­ mi totalitari. L’Italia era consapevole dei rischi della situazione. Il 25 settembre il principe d ’Assia, inviato da Hitler, ripeteva a Ciano cose ormai note: «Se per il primo ottobre, i cechi non

    67 Testo del memorandum tedesco in A D A P , D, Bd. II, Deutschland und die Tschekoslowakei 1937-1938, n. 584; sulle reazioni britanniche agli sviluppi della crisi si veda D. Bolech Cecchi, L ’accordo d i due imperi, cit., pp. 167 sg. 68 Testo del discorso di Hider in Max Domarus, Hitler. Reden und Proklamationen 1932-1945. K om m entiert von einem deutschen Zeitgenossen, 2 Bd., Miinchen, Siiddeutscher Verlag, 1965, Bd. I, Halbband 2 , 1935-1938, pp. 924-932.

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    accettano i termini dell’ultimatum, Berlino attacca. Natu­ ralmente con lo scopo di distruggere completamente la Cecoslovacchia», a costo di rischiare il conflitto con Francia e Inghilterra. Mussolini conferma che entrerà in guerra se l’Inghilterra scenderà in campo: «Anche il duce ha ripetuto la sua piena convinzione nella nostra vittoria: forza delle armi, forza irresistibile dello spirito». E in un barlume di sincerità Ciano si lasciava andare a una confessione che suonava con­ danna definitiva della politica dell’Italia: «Il Duce ed io, pur non spingendo la Germania al conflitto, non abbiamo fatto niente per trattenerla». Nessuno si era interrogato sulle possi­ bilità dell’Italia, ancora fortemente impegnata nella guerra di Spagna e nell’azione di repressione in Etiopia, di sostenere un nuovo urto bellico prevedibilmente ancora più impegnativo, ma era già deciso l’intervento. A Verona il 26 settembre, nello stesso giorno in cui Hitler pronunciava il suo discorso al Palazzo dello Sport e lanciava la sua menzognera promessa («Questa è l’ultima rivendicazione territoriale che io ho da presentare in Europa»), Mussolini continuava a soffiare sul fuoco della distruzione di Versailles, mistificandone l’agonia sotto la formula, altrettanto menzognera, dell’«Europa della giustizia per tutti e della riconciliazione fra i popoli». Il 27 set­ tembre avviò le prime misure militari nel quadro di quella che per il momento chiamò la «neutralità armata» 69. Quello stesso giorno un drammatico appello indirizzato alla radio da un Chamberlain ormai sfiduciato al popolo ingle­ se, invitato alla mobilitazione, dava la misura della crisi che era giunta al suo apice e che avrebbe potuto recedere dal punto di non ritorno nel quale sembrava pervenuta soltanto grazie a un estremo atto di resipiscenza da parte del suo principale prota­ gonista, Hitler. Cominciò a questo punto quella che una parte della sto­ riografia considera impropriamente «la mediazione di Musso­ lini». Ancora più stravagante appare poi l’interpretazione del Patto di Monaco come «prima applicazione pratica del Patto a uattro e del Patto di Pasqua»70. Mussolini, come attesta la ocumentazione, non mediò niente nella sostanza; si limitò a trasmettere ad Hitler la richiesta britannica (o meglio franco­ britannica) di un incontro a quattro. Ma prima di considerare

    Q

    69 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., alla data del 27 settembre 1938. ™ Alludiamo alla tesi di R. Quartararo, Rom a tra Londra e Berlino, cit., p. 400.

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    questa circostanza è bene ribadire quanto già emerge dalla no­ stra ricostruzione ed è confermato da Toscano, ossia che «ap­ pare evidente come il capo del governo fascista fosse in pro­ cinto di trascinare l’Italia in un conflitto senza esservi tenuto da alcun impegno formale e senza che i tedeschi si fossero preoccupati di mantenere il governo fascista al corrente dei propri propositi»71. Anzi, dalla crisi di quei giorni Mussolini trasse la conclusione che si dovessero accelerare «le basi del­ l’intesa politica con Berlino» e la creazione di «organi di colle­ gamento militare». L’appello di Chamberlain all’intervento di Mussolini pres­ so Hitler giunse a Ciano alle ore 10 del 28 settembre, a poche ore dallo scoppio imminente del conflitto. Appena Mussolini propose il rinvio di ventiquattr’ore delle ostilità, Chamberlain fece pervenire la proposta di una conferenza a quattro. Ma an­ che in un frangente del genere Ciano si preoccupava di tenere la Francia fuori dal gioco. Nel primo pomeriggio giungeva l’as­ senso di Hitler per la conferenza, che si sarebbe aperta nella mattinata del 29 settembre a Monaco di Baviera. All’alba del 29 settembre Mussolini e Hitler si incontra­ rono sul treno che doveva condurli a Monaco e Mussolini ascoltò le ultime decisioni di Hitler: o accordo rapido o inter­ vento militare. Il proposito di Hitler era chiaro: non si trattava delle rivendicazioni nazionali della minoranza tedesco-sudeta, ma di liquidare la Cecoslovacchia, che teneva immobilizzate ingenti forze della Wehrmacht (40 divisioni a detta di Hitler) e «gli lega le mani nei confronti della Francia». Seguì l’incontro con Chamberlain e Daladier, al termine del quale Mussolini «afferma la necessità di una decisione rapida e concreta e a tal fine propone di prendere a base della discussione un docu­ mento, che in realtà ci è stato telefonato la sera prima dall’Ambasciata quale desiderato del governo teaesco» (Ciano, Diario, 29-30 settembre), a conferma che Mussolini non era latore di alcuna proposta autonoma. La versione di Ciano (che ricorre con qualche variante nel testo pubblicato da Toscano) è stata nella sostanza convalidata, con qualche precisazione in più e con la specificazione che esi­ stevano proposte tedesche più radicali dovute direttamente a Ribbentrop, dall’incaricato a Berlino Magistrati72. All’alba del

    71 M. Toscano, in A. Torre e al., La politica estera italiana, cit., p. 220. 72 M. Magistrati, L'Italia a Berlino, cit., p. 254, per M. Toscano, in A. Torre e ai., La politica estera italiana, cit., pp. 228-229.

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    30 settembre l’accordo era fatto: le armi avrebbero per il mo­ mento taciuto, la Cecoslovacchia era umiliata e gettata nelle braccia dei tedeschi, l’Italia legata alla Germania. Francia e Gran Bretagna pensavano di aver salvato la pace, ma ne aveva­ no soltanto prolungato l’agonia. Il sistema di garanzie che la Francia aveva tenacemente costruito nell’Europa centrorientale saltava in un batter d’occhio con il sacrificio dell’unico stato che rappresentava per giunta, nonostante tutto, il modello democra­ tico su quel versante, ciò che rendeva ancora più cocente la sconfitta. Ma soprattutto Hitler aveva ottenuto tutto quello che aveva richiesto senza colpo ferire. L’unico relativo vantaggio per le democrazie occidentali fu quello di avere rinviato di poco me­ no di un anno l’inizio delle ostilità e di poter avviare una politi­ ca di armamenti per la quale erano in assoluto ritardo. Ma l’a­ vere escluso dalla conferenza l’Unione Sovietica aprì nuove nu­ bi all’orizzonte e soprattutto non tranquillizzò i sovietici circa il sospetto che le democrazie occidentali intendessero scaricare verso oriente il dinamismo esplosivo del riarmo tedesco. Di lì a pochi mesi anche quelle che erano sembrate con­ cessioni, peraltro modeste, da parte di Hitler si rivelarono in­ consistenti: la garanzia internazionale accordata ai resti della Cecoslovacchia non era che una parvenza, la partecipazione ce­ coslovacca alla gestione del proprio fallimento rasentava i con­ fini della presa in giro. Soltanto il forte e sincero desiderio di pace degli inglesi e quello forse meno sincero dei francesi pote­ va far pensare che Chamberlain e Daladier si fossero immolati con onore per la causa della pace. Chamberlain in particolare sembrò continuare a illudersi che fosse possibile raggiungere un duraturo accordo di pace con Hitler e con Mussolini, lad­ dove era stata appena conclusa una tregua. Fu questo grave equivoco che non gli perdonarono i suoi critici e avversari. Più cocente ancora risultava la sconfitta per la Francia, che era sta­ ta l’architetta del sistema di assicurazioni e controassicurazioni dell’Europa centro e sudorientale, nel cui contesto la Cecoslovacchia, che ora la Francia abbandonava al suo destino con disinvoltura anche maggiore della Gran Bretagna (la quale peraltro non aveva nei suoi confronti gli obblighi anche forma­ li che si era assunta Parigi), rappresentava la cerniera non solo politica ma anche strategica determinante. Si sarebbe visto a breve termine il contraccolpo dell’e­ sclusione dell’Unione Sovietica dal Patto di Monaco, come se la distruzione della Cecoslovacchia non rientrasse anche nei suoi interessi investendo in generale l’area dell’Europa centrorientale e come se la minaccia nazista non fosse prioritaria­ mente diretta, a scadenza più o meno lontana, contro territori 373

    CAPITOLO IX

    contigui o addirittura all’interno dell’Urss. Ben al di là dell’o­ missione di gesti che potessero risultare sgraditi a Hitler, l’aver tenuto lontana l’Unione Sovietica faceva sorgere il dubbio che si potesse profilare una spartizione di sfere di influenza in Europa destinata a convalidare l’egemonia tedesca sul versan­ te centrorientale. Del pari, l’aver tenuto lontani dalle questio­ ni europee in un frangente così delicato gli Stati Uniti d’America (il 28 settembre Ciano registrò senza darvi impor­ tanza «un molto tardivo messaggio di Roosevelt»), dei quali peraltro si conosceva il peso delle relazioni con la Gran Bretagna, denotava da parte tedesca e italiana un’ottica anco­ ra tutta eurocentrica della politica internazionale; ma. denota­ va anche una visione di ampiezza limitata, non completa e pro­ prio nel caso dell’eventualità bellica quanto meno parziale del potenziale americano, che veniva sottovalutato come se il pri­ mo conflitto mondiale non avesse insegnato nulla. Da parte an­ glo-francese forse l’omissione era stata determinata dalla cer­ tezza che doveva trattarsi di una controversia localizzabile e, soprattutto da parte britannica, prevaleva la presunzione di giocare ancora un ruolo prioritario nelle relazioni internazio­ nali, cui gli Stati Uniti si erano sottratti, fra l’altro rimanendo al di fuori della Società delle Nazioni.

    IMPERIALISMO E RAZZISMO

    Gli anni del sempre più pronunciato accostamento dell’Italia alla Germania coincisero con l’adozione da parte del regime fa­ scista di una vera e propria politica razziale. Nella pubblicistica sul fascismo e nella storiografia, soprattutto con riferimento al­ la legislazione emanata dal fascismo contro gli ebrei, è prevalso l’atteggiamento di considerare il razzismo antiebraico una na­ turale conseguenza dell’allineamento alla Germania nazista op­ pure, richiamando la critica e le posizioni assunte qualche anno prima dal fascismo italiano contro l’antisemitismo nazista, una mera operazione di convenienza, dettata da opportunistiche considerazioni73. Molti che si erano macchiati con la questione ebraica preferirono fare ricorso alle imposizioni della Germania per giustificare un comportamento poco commendevole.

    73 Per questi aspetti della storiografia sulla politica fascista contro gli ebrei mi permetto di rinviare al mio intervento II razzismo negato, «Italia contemporanea», 212 (settembre 1998), pp. 577-587.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    In realtà, l’iniezione di razzismo che nella seconda metà degli anni trenta fu immessa nel regime rappresenta qualcosa di più complesso e di meno estrinseco di quanto non si sia vo­ luto dare a intendere. Il razzismo contro gli ebrei, che fu cer­ tamente la forma più estrema e per la società italiana più aber­ rante di queste manifestazioni, non fu che un aspetto di un problema e di un atteggiamento più globali. Nella tradizione nazionalista del fascismo, al di là di generiche tendenze xe­ nofobe, germi ed episodi di vero e proprio razzismo, in quan­ to affermazione di una superiorità anche biologica e non solo culturale della nazione italiana, si erano già manifestati, sicura­ mente nei confronti delle popolazioni slave della Venezia Giulia (diverso è il caso della contrapposizione nazionalistica e di potenza nei confronti della popolazione sudtirolese) e di quelle delle colonie africane. La conquista dell’impero comportò un’ulteriore enfatiz­ zazione della componente razzistica, per la sua efficacia pro­ pagandistica ma anche per la necessità di formare nei quadri coloniali una mentalità che dal punto di vista fascista offrisse sufficienti garanzie di tenuta e di capacità di dominio. Rientrava in questo complesso, come già anticipato al capitolo VII, la politica di separatismo tra popolazioni indigene ed ele­ mento italiano, con la tendenza a scoraggiare ogni promiscuità. L’enfatizzazione del razzismo in senso generico corrispose in primo luogo all’inasprimento del confronto con le democra­ zie occidentali, a partire dalla guerra d’Etiopia, ed andò conso­ lidandosi negli anni immediatamente successivi. Il razzismo fu una funzione della politica interna del regime, in quanto stru­ mento di coesione interna e collante ideologico del consenso anche ai fini del sostegno delle scelte internazionali e imperiali­ stiche. Ma fu pretesto di agitazione internazionale per la stru­ mentalizzazione che dei motivi razzistici era possibile fare a so­ stegno di determinate rivendicazioni italiane. In questo quadro la propaganda fascista adottò rapidamente una serie di schemi e di stereotipi a sostegno della campagna contro le democrazie: la ricorrente denigrazione della democrazia come regime debo­ le perché corrotto dalla putredine giudaico-plutocratica, come parlamentarismo inquinato da affarismo losco infeudato a mas­ soneria e giudaismo, fece parte di un repertorio ricorrente del­ la demagogia fascista. Ma questo non fu mero gioco propagan­ distico, divenne anche strumento di lotta politica internaziona­ le, particolarmente nei confronti della Francia. Scrittori, acca­ demici e pubblicisti svolsero un ruolo di primo piano nel de­ nunciare il tradimento della Francia nei confronti della razza bianca per il modello da essa adottato nei rapporti con i popo­ 375

    CAPITOLO IX

    li di colore: di fronte al separatismo, un vero e proprio regime di apartheid, che l’Italia proponeva per la gestione dei rapporti con le popolazioni indigene e come strumento di dominazione dell’Europa sull’Africa, la politica della Francia (derivata anche dalla sua particolare situazione demografica) si caratterizzava per la liberale assimilazione e la larghezza nella concessione dei permessi di soggiorno in Francia alla popolazione africana, e consentiva pertanto maggiore permeabilità e osmosi tra le po­ polazioni che si venivano a trovare sul territorio metropolitano. Tale politica era perciò bollata come un fattore che avrebbe ul­ teriormente aggravato la degenerazione della razza bianca. Malato di spenglerismo e di smisurata volontà di dominazione, il fascismo credette di poter esprimere anche nel razzismo la sua vocazione antidemocratica e antiegualitaria. L’insulto razzi­ sta entrò a far parte dell’armamentario retorico e concettuale del regime, divenne mentalità, politica. Il razzismo divenne parte integrante della politica di po­ tenza, non fu una semplice superfetazione o verniciatura ideologico-propagandistica. Per fare un esempio sempre efficace, l’insulto contro l’«ebreo Blum» caricava le mosse della politi­ ca estera italiana di una aggressività e di una serie di associa­ zioni emotive capaci di scatenare una forte ostilità nei con­ fronti dei caratteri, tutti negativi, sintetizzati ed emblematizzati nella figura del presidente del Consiglio francese. Il razzismo era diventato una necessità, non solo al fine di generare una coscienza fascista nella popolazione italiana come volevano gli Starace, i Bottai e altri ancora, ma anche come strumento di in­ tegrazione e di creazione del consenso a sostegno delle avven­ ture imperiali e imperialistiche. Il passaggio a una nuova fase del razzismo italiano, quale si verificò con l’adozione della politica antiebraica, fu indipen­ dente da pressioni dirette della Germania, ma non fu affatto estraneo al processo di avvicinamento al Reich nazista. E que­ sto un punto importante da chiarire proprio per evitare di ve­ dere il razzismo antiebraico del fascismo come mero riflesso della politica di allineamento al nazismo. Meir Michaelis ha di­ mostrato come la politica antiebraica del fascismo abbia avuto origini del tutto autoctone, lontane da passi diretti della di­ plomazia e della politica naziste volti a imporre una simile li­ nea all’Italia74; influenze e contatti si ebbero più tardi, ma nel­

    74 Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo tedesche e la politica razziale in Italia, Milano, Edizioni Comunità, 1982.

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    DAL GENTLEMEN'S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    la fase di formazione la politica razzista antiebraica fu un’au­ tonoma opzione politica del regime italiano. La Germania en­ trava sullo sfondo in quanto sin dal 1933, e ancor più con le leggi di Norimberga del 1935, aveva dimostrato che era possi­ bile imprimere un salto di qualità all’antisemitismo, trasfor­ mandolo da fattore di eversione sociale e culturale che colpiva singoli individui a fattore di reale discriminazione dei cittadini su Base generalizzata ad opera delle leggi dello Stato. Nel con­ testo dell’Europa degli anni trenta quel messaggio, che trova­ va terreno fertile nell’antisemitismo diffuso soprattutto nell’Europa centrorientale, per i significati politici e culturali che implicava anche al di là dei rapporti in senso stretto con le minoranze ebraiche era destinato a fare scuola. Ed in questo contesto esso fu recepito dal fascismo italiano. Al di là pertanto dei singoli atti della politica estera che isolarono l’Italia dal contesto della comunità internazionale, il razzismo non fu innocuo e superficiale gesto di imitazione di una più potente e temibile dittatura. Esso connotò una fase di maggior irrigidimento delle strutture del regime in funzione della creazione di una maggiore omogeneità e compattezza in­ terna, con la quale il regime si illudeva di mostrare verso l’e­ sterno il volto della politica di potenza. Significò infatti, nel momento stesso in cui divideva i cittadini italiani espellendo dalla società gli ebrei, i quali nella stragrande maggioranza non si sentivano meno italiani e spesso neppure meno fascisti degli altri, l’inasprimento del controllo sociale, il rafforzamento ael potere amministrativo e poliziesco, l’accelerazione del proces­ so di omologazione culturale e politica, con l’incremento di misure censorie e discriminatorie, il provincialismo culturale e la rottura di altri legami personali e culturali con l’estero (proi­ bizione di autori stranieri, divieto di traduzioni, ostacoli alla stampa estera e via dicendo), l ’infrazione di un vecchio costu­ me ai liberalità nell’accoglienza ai profughi stranieri, in parti­ colare quelli attirati in Italia per sfuggire alle persecuzioni raz­ ziali o anche solo alle limitazioni agli studi, che in paesi dell’Europa orientale avevano rappresentato anche misure an­ tiebraiche. È indubbio che con il tempo la politica di consolidamen­ to dell’Asse, e più ancora il Patto d’acciaio, abbia comportato un rafforzamento della collaborazione tra Italia e Germania anche sotto il profilo della politica razziale nella sua espressio­ ne antiebraica. Qui si vuole sottolineare la spontaneità con la quale questa politica fu avviata e i riflessi che essa ebbe nei rap­ porti esterni dell’Italia. D opo il 1933 l’Italia aveva rappresen­ tato una sponda favorevole a rifugiati provenienti dalla 377

    CAPITOLO IX

    Germania o da altri paesi dell’Europa centrorientale - Polonia Ungheria, Romania, Austria - , nel senso che alcune migliaia dì ebrei si erano stabiliti in Italia o avevano potuto utilizare l’Italia come rifugio di passaggio prima di inoltrarsi in altri li­ di, e ancora dopo VAnschluss, quando già correvano in Italia pesanti minacce, il nostro paese era pur sempre servito come primo approdo quanto meno di transito. Nell’autunno del 1938 l’introduzione delle leggi contro gli ebrei - che per prima cosa penalizzavano gli ebrei stranieri, i quali venivano sempli­ cemente espulsi dal territorio italiano, e coloro che avevano ac­ quisito la residenza in Italia dopo il 1° gennaio 1919 - rende­ va insicuro anche il suolo italiano. Questo si rivelava appunto un «rifugio precario», secondo il titolo dell’importante ricerca di Klaus Voigt75. Già alla fine del luglio del 1938 primi screzi sul razzismo furono provocati da reazioni della Santa Sede, preoccupata dell’interferenza eventuale sugli accordi concordatari, più che dal fatto in sé dell’intolleranza razziale. Il 30 luglio Ciano con­ vocò il nunzio apostolico per fargli le sue rimostranze: «Il Duce considera la questione razziale come fondamentale, do­ po avvenuta la conquista dell’Impero. È all’impreparazione razziale degli italiani che dobbiamo l’insurrezione degli Amhara». L’8 agosto Mussolini «ordina che tutti gli ebrei ven­ gano eliminati dai ruoli della diplomazia. Intanto comincerò col chiamarli a Roma», aggiungeva Ciano nel suo consueto ser­ vilism o76. Che l’epurazione cominciasse dalla diplomazia ave­ va certo un suo significato: per il ruolo esposto della diploma­ zia in quel frangente della politica italiana, per l’ossessione del­ la «congiura ebraica» che Mussolini aveva montato già all’e­ poca delle sanzioni, attribuite appunto al complotto giudaico. Era una spia della sindrome del «nemico interno» che Mussolini aveva incominciato a montare e della quale ora ri­ schiava di rimanere vittima77. Ma sin dal marzo del 1938, subito dopo VAnschluss, Ciano e Mussolini si erano orientati per una politica che di fat-

    75 Klaus Voigt, II rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1943, 2 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1993-1996. 76 Citazioni da G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., rispettivamente alle date del 30 luglio e dell’8 agosto 1938. 77 Per la testimonianza di un diplomatico epurato a causa delle leggi razziali cfr. Paolo Vita-Finzi, Giorni lontani. Appunti e ricordi, Bologna, Il Mulino, 1989. Nessun cenno all’applicazione delle leggi razziali nei pur scar­ si studi sulla diplomazia in questo periodo.

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    DAL GENTLEMEN’S AGREEMENT AL PATTO DI MONACO

    t0 avrebbe portato una sempre più accentuata convergenza con la politica nazista. Un dettaglio apparentemente seconda­ rio emerge da una nota del Diario in data 24 marzo, che ri­ prende if resoconto del colloquio con l’ambasciatore statuni­ tense, tenutosi nella stessa data, riprodotto in L'Europa verso la catastrofe, fonte dalla quale citiamo: L’ambasciatore Phillips è venuto a rivolgere a nome del suo go­ verno un invito ad aderire alla costituzione di un Comitato intema­ zionale con lo scopo di facilitare l’emigrazione dall’Austria e dalla Germania dei rifugiati politici. Ho risposto all’ambasciatore che, mentre mi riservavo di infor­ mare il Duce, ritenevo di poter senz’altro opporre il più reciso e ca­ tegorico rifiuto a tale iniziativa contrastante non solo con le direttive della nostra attività internazionale, ma ancora più con la nostra mo­ rale politica. L’ambasciatore d’America ha preso atto di tale mia risposta di­ cendo che però questa non sarebbe stata compresa dal governo ame­ ricano animato da alti e nobili fini umanitari [sic]78. La versione dell’episodio nel Diario contiene a integra­ zione un commento che tradisce bene lo stato d’animo del mi­ nistro fascista: Phillips si è sorpreso della mia risposta. Vedeva nella proposta un aspetto umanitario. Io soltanto uno politico. L’abisso ai incom­ prensione tra noi e gli americani si fa sempre più profondo. Si trattava, se non andiamo errati, di un sondaggio in vi­ sta della conferenza internazionale che nel luglio successivo si sarebbe tenuta essenzialmente per iniziativa del presidente americano Roosevelt ad Evian, sulla sponda francese del lago di Ginevra, sotto l’egida della Società delle Nazioni, allo scopo di studiare le possibilità di andare incontro alle masse di pro­ fughi, nella maggior parte ebrei, che erano costretti a lasciare la Germania e FAustria. La conferenza si concluse praticamente con un nulla di fatto79, ma ciò non toglie che l’assenza

    78 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 321-322. Cfr. anche M. Michaelis, M ussolini e la questione ebraica, cit., p. 151, che riporta una versione leggermente diversa del colloquio. 79 Una sintesi informata offre Shalom Adler-Rudel, The Evian Conference on the Refugee Question, «Leo Baeck Institute Year Book», voi.

    XIII, 1968, pp. 235-273.

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    CAPITOLO IX

    dell’Italia avesse una sua rilevanza politica e morale. La rispo­ sta di Ciano era la conseguenza dell’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni, per cui formalmente l’Italia poteva rite­ nersi estranea ad iniziative che si svolgessero nel suo ambito, ma era ancora più significativa in considerazione sia dell’im­ minenza dello scatenamento definitivo in Italia della campagna razziale, sia del fatto che, pur non avendo stabilito alcun coor­ dinamento con la politica nazista, il governo fascista non era certamente disposto a fare alcuna cosa che potesse risultare sgradita a Berfino. E comunque l’Italia si isolava rispetto a un'occasione concreta di collaborazione internazionale. E via via che la crisi internazionale assumeva accenti più aspri lo sfruttamento della propaganda antiebraica si fece com­ ponente normale del frasario fascista. Si può dire che, alla fine, essa altro non fosse che un ingrediente necessario nella prepa­ razione psicologica della popolazione italiana alla guerra. Con perfetta sensibilità propagandistica e scelta di tempi, all’epoca della crisi di Monaco Mussolini agitò il problema ebraico nel corso della sua tournée nel Veneto proprio a Trieste, la città dove la persecuzione sollevava i problemi più acuti e dove la vicinanza del confine jugoslavo, in prossimità quindi delle po­ polazioni slave al di qua e al di là della frontiera, garantiva il plauso alla retorica non solo della coscienza nazionale ma del­ ta superiorità razziale degli italiani. Non è questa la sede per ricostruire le tappe della legi­ slazione razziale in Italia. Quello che premeva sottolineare è come il regime fascista abbia fatto del razzismo e specificamente dell’antiebraismo uno strumento di lotta politica così al­ l’interno come nei rapporti internazionali, contribuendo anche in tal modo ad allargare la distanza rispetto alle democrazie oc­ cidentali e ad isolare l’Italia dal consorzio internazionale, spin­ gendola sempre più ad assumersi la corresponsabilità di una persecuzione che sarebbe sfociata nella «soluzione finale».

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    X

    LA FINTA PACE: DA PRAGA AL PATTO D ’ACCIAIO

    DOPO MONACO: TRIONFO IN SPAGNA E ROTTURA DEFINITIVA CON LA FRANCIA

    Dopo Monaco, apparentemente esistevano le premesse per una distensione dei rapporti con la Francia e la Gran Bretagna. Il 16 novembre 1938 il governo britannico comunicava l’en­ trata in vigore degli accordi di aprile e il riconoscimento uffi­ ciale dell’impero, cui faceva seguito poco dopo analogo rico­ noscimento da parte della Francia b Tutto ciò non deve far pensare che l’avviata ripresa dei rapporti con la Gran Bretagna implicasse anche un’accelerazione nella ripresa dei rapporti con la Francia. In quello stesso 16 novembre in cui annotava l’incontro con lord Perth, come se fosse stato sottoscritto un trattato di pace, Ciano sottolineava che la Francia rimaneva esclusa da una combinazione analoga *2. Questa notazione non indicava soltanto che l’Italia, una volta che la sua politica si era orientata fondamentalmente verso la Germania, intendeva fa­ re riferimento per la politica mediterranea essenzialmente alla Gran Bretagna, ma esprimeva anche il permanere di una

    ' G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 16 novembre 1938. 2 Cfr. R. Guariglia, Ricordi, cit., cap. IH; Georges Bonnet, Fine di un’Europa, Milano, Rizzoli, 1951, p. 78.

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    CAPITOLO X

    profonda ostilità verso la Francia, dalla quale l ’Italia era divisa almeno da due circostanze principali: lo scontro mai spento sulla Spagna e le specifiche rivendicazioni italiane nei confron­ ti della Francia stessa. Il gelo nei rapporti era stato sottolineato dalla vacanza dei titolari delle due ambasciate a Roma e a Parigi, dopo il ri­ torno a Roma alla fine di ottobre 1937 di Cerruti, che era sta­ to richiamato in Italia come contromisura per il richiamo in Francia dell’ambasciatore de Chambrun nel 1937, e che era considerato inviso a Mussolini. Non solo la vicenda spagnola, ma prima ancora soprat­ tutto l’aggressione all’Etiopia e il comportamento alla Società delle Nazioni avevano profondamente allontanato Francia e Italia. A metà novembre del 1938 i due paesi normalizzavano almeno a livello formale i loro rapporti: l’Italia nominava il nuovo ambasciatore a Parigi nella persona di Guariglia, pro­ veniente da Buenos Aires ma in realtà uno dei più quotati esponenti della diplomazia italiana essendo stato direttore ge­ nerale di Palazzo Chigi, e la Francia nominava nuovo titolare a Roma André Frangois-Poncet, che aveva diretto l’ambasciata a Berlino e che si poteva considerare a sua volta un esperto nei rapporti con la dittatura nazista3. Lo stesso Frangois-Poncet accredita nelle sue memorie l’ipotesi che la sua destinazione a Roma fu determinata dal tentativo di sfruttare l’influenza di Mussolini su Hitler in favore del mantenimento della pace, se­ condo il ruolo che gli era stato attribuito a Monaco. Più che nei confronti della Gran Bretagna, nei confronti della Francia da parte italiana erano stati fatti valere pregiudi­ zi ideologici e risentimenti di varia natura. Mentre a proposito della Spagna la schermaglia con la Gran Bretagna, che pure al ritiro dei “volontari” aveva subordinato l’entrata in vigore de­ gli accordi di Pasqua, era rimasta sempre sul piano delle pro­ cedure e su quello diplomatico, lo scontro con la Francia tor­ nava costantemente alla contrapposizione fascismo-antifasci­ smo e soprattutto al sospetto di un possibile intervento diretto francese sotto forma di volontari e di rifornimenti bellici, an­ che dopo gli impegni assunti in sede di Comitato di non inter­ vento. Il tentativo di imporre come condizione preliminare per il ritiro completo del contingente italiano dalla Spagna il rico­ noscimento dei diritti di belligeranza a Franco era un ulteriore

    3 André Frangois-Poncet, Souvenirs d ’une ambassade à Berlin, Paris, Flammarion, 1946, p. 340.

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    DA PRAGA AL PATTO D’ACCIAIO

    ostacolo, che nasceva anche dalla diffidenza e dalla ostilità nei confronti degli sviluppi interni francesi pur dopo la caduta dei governi di Fronte popolare. La situazione interna francese era considerata sempre fluida e sempre suscettibile di improvvisi rovesciamenti alla luce della instabilità politica e del profondo disagio sociale che continuava a caratterizzare il quadro so­ cioeconomico. In un contesto di questa natura la volontà di umiliare la Francia rappresentò una costante nel comporta­ mento della diplomazia fascista specie sotto la gestione di Ciano. Mentre sembrava vi fosse interesse a mantenere i buo­ ni rapporti con la Gran Bretagna, in quanto si individuava in Chamberlain l’interlocutore sul fronte delle democrazie e il ve­ ro partner di Monaco, scarso rilievo fu attribuito al ripristino di rapporti di buon vicinato con la Francia. In realtà presso la diplomazia fascista prevalse la volontà anche fortemente ven­ dicativa di sottolineare il ruolo del tutto secondario della Francia: era la Gran Bretagna a preoccuparsi, nei rapporti con l’Italia, di incoraggiare la ripresa dei contatti con fa Francia, mentre l’Italia nulla fece per agevolare un simile stato d’animo ma soprattutto un simile percorso. Frangois-Poncet, a Roma i primi di novembre, il giorno 9 ebbe il primo incontro con Ciano nel quale, sull’onda della ri­ sonanza dell’accordo di Monaco, sottolineò l’interesse della Francia ad arrivare nei rapporti tra i due paesi alla chiarifica­ zione necessaria per superare le difficoltà che erano insorte. Dal verbale dell’incontro steso da Ciano risulta che questi menzionò per prima cosa l’ostacolo principale che aveva visto i due paesi «ai lati opposti della barricata», ossia la questione della Spagna: di fatto il riconoscimento, da parte francese, del governo di Franco si poneva tra le condizioni preliminari per­ ché l’Italia riprendesse a tutto campo le conversazioni con la Francia. Sembrava chiaro dal resoconto di Ciano che l’Italia era su questo punto intransigente e non interessata a tenere conto della situazione interna francese nella quale, come aveva tenuto a sottolineare l’ambasciatore, «forti correnti di opinio­ ne pubblica [...] propendono per la difesa ad oltranza della re­ pubblica di Barcellona»4. Anche nella versione dell’incontro che Francois-Poncet inviò a Parigi fu sottolineata l’importanza che nelle relazioni tra i due paesi assumeva la questione spagnola: «E evidente

    4 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 419422.

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    CAPITOLO X

    che nella mente di Mussolini è questa la pietra di paragone dal­ la quale dipenderà l’avvenire dei rapporti franco-italiani», an­ notò l’ambasciatore in tono complessivamente conciliante, non prevedendo che in realtà altre rivendicazioni avrebbero assunto la priorità nell’azione del governo fascista5. Il 10 novembre Mussolini lanciò la campagna per il «re­ cupero degli italiani residenti all’estero», che non poteva non suscitare preoccupazione e senso di offesa proprio in Francia, se non altro per il segnale di probabile scontro militare che vi si poteva leggere, oltre che per l’atto d’accusa che implicita­ mente veniva rivolto contro fa Francia per il trattamento riser­ vato agli italiani. Fra l’altro allo stato maggiore francese si at­ tribuiva il proposito di arruolare in caso di mobilitazione i na­ turalizzati italiani. La campagna, al di là del suo evidente in­ tento propagandistico, aveva dunque anche il sapore di una rappresaglia economica contro la Francia 6. Prima ancora di ricevere il nuovo ambasciatore francese, Ciano aveva dato le istruzioni a Guariglia, di partenza per Parigi. Al di là del giudizio non lusinghiero sulla sua persona che dava in privato («È un funzionario furbo, che legherà l’a­ sino dove vorrà il padrone»), sintetizzava il senso della diretti­ va nel «wait and see»7. Dal Diario non risulta che egli tra­ smettesse a Guariglia gli obiettivi e le rivendicazioni nei con­ fronti della Francia che Mussolini aveva formulato in quella stessa giornata, cosa che invece apprendiamo dai Ricordi di Guariglia. Narra infatti quest’ultimo che Ciano gli fece pren­ dere visione di una lettera che aveva inviato a Grandi a Londra 8. Essa conteneva rivendicazioni tali da indurre Ciano ad affidare al suo Diario una significativa ammissione: «Mi sembra che non vi siano molte speranze di un avvicinamento con la Francia». E infatti basta leggere i punti delle rivendica­

    5 Cfr. la versione dell’incontro che ne diede Frangois-Poncet in G. Bonnet, Fine di un’Europa, cit., pp. 79-81. 6 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 10 novembre 1938. Per la risonan­ za generale di questa operazione si veda Leonardo Rapone, 1 fuoriusciti an­ tifascisti, la Seconda guerra mondiale e la Francia, in P. Milza (a cura di), Les Italiens en France, cit., p. 351. Evidente risulta dalla consultazione della stampa il carattere fortemente propagandistico di tutta l’operazione. Si ve­ dano ad esempio i titoli di scatola del «Corriere della Sera» del 18 novembre 1938: Azione di poderoso stile mussoliniano. L’Italia offre lavoro in Patria a

    tutti i suoi figli emigrati. 1 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 8 novembre 1938. 8 R. Guariglia, Ricordi, cit., pp. 357-359.

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    DA PRAGA AL PATTO D ’ACCIAIO

    zioni mussoliniane per rendersi conto di quanto scarse potes­ sero essere le possibilità di un’intesa: Obiettivi: Gibuti, magari attraverso un condominio e una neu­ tralizzazione. Tunisia, in un regime più o meno analogo, Corsica, ita­ liana, mai francesizzata e quindi da aversi a dominio diretto, il confi­ ne al Varo. Non mi interessa la Savoia che non è né storicamente né geograficamente italiana. Queste le grandi linee delle nostre rivendi­ cazioni. Non fisso né uno, né cinque, né dieci anni. Il tempo verrà stabilito dagli eventi. Però tener sempre presenti queste mete 9. Ad una prima osservazione, interessante e nuovo appa­ rirà il fatto che alle tradizionali rivendicazioni africane, che avevano costituito il nucleo centrale del contenzioso con la Francia già all’epoca del patto Laval-Mussolini, e al di là della questione del trattamento degli italiani in Francia, le pretese fasciste erano ormai cresciute al punto da comprendere anche territori metropolitani francesi, la Corsica, il Nizzardo, cui avrebbe fatto seguito fra non molto la Savoia ora temporanea­ mente esclusa, con una anticipazione sui tempi del dispiega­ mento senza più limiti delle rivendicazioni territoriali di lì a pochi mesi, anzi a poche settimane di distanza. Rivendicazioni che avrebbero trovato la loro summa in uno dei tanti libelli del direttore del «Giornale d’Italia», Gayda (Italia e Francia) 10. Dal testo della lettera che Ciano indirizzò a Grandi il 14 novembre, alla vigilia quindi dell’entrata in vigore degli accor­ di di Pasqua, è possibile trarre qualche ulteriore deduzione sul significato delle rivendicazioni nei confronti della Francia. Al di là dei punti specifici del contenzioso, preliminarmente do­ veva essere chiaro che l’Italia intendeva fare ripartire un nego­ ziato considerando ormai superati gli accordi Laval-Mussolini. La loro denuncia sarebbe avvenuta a distanza di qualche setti­ mana, ma era appunto in quest’ottica che si muoveva il gover­ no fascista. Alla luce di questa premessa era comprensibile la negoziazione che Ciano e Mussolini intendevano fare delle tre questioni chiave allora all’ordine del giorno (Tunisia, Gibuti, canale di Suez), senza che ancora fossero sollevate le questioni relative al territorio metropolitano francese che pure Mussolini aveva già considerate, nelle sue confidenze a Ciano, nel pac­ chetto del contenzioso.

    9 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 8 novembre 1938. 10 Virginio Gayda, Italia e Francia. Problemi aperti, Roma, Edizioni del «Giornale d’Italia», 1939.

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    CAPITOLO X

    Delle tre questioni sollevate, la più rilevante per la novità della proposta appariva quella della Tunisia, in cui non si po­ neva più soltanto il problema dello statuto degli italiani di Tunisia, la cui funzione comunque veniva ora ulteriormente sottolineata in termini più consoni all’ormai dilagante razzismo («la sola forza viva della razza bianca in quella zona»), ma an­ che il problema più generale di un eventuale «condominio» italo-francese sulla Tunisia. Anche per Gibuti, come sbocco della ferrovia di Addis Abeba, si poneva al limite il problema di un condominio: la minaccia di dirottare i traffici su un altro porto (ma dove?) doveva fare considerare che il porto di Gibuti «privato della linfa vitale che gli viene dall’Italia e dal­ l’impero, diverrebbe rapidamente una foglia morta». Infine, la questione del canale di Suez si riduceva alla ne­ cessità, alla luce dell’uso intenso che ne faceva ora l’Italia, di ri­ vederne le tariffe portandole a tassi «equi ed onesti» n . Può apparire singolare che Ciano, prima ancora di tra­ smettere a Guariglia il programma di rivendicazioni di Mussolini, ne avesse informato Grandi (in proposito c’è una difformità tra il racconto di Guariglia alla pagina citata e il Diario di Ciano, che registra solo alla data del 14 novembre l’ordine di Mussolini di scrivere a Grandi per informarlo sulle rivendicazioni nei confronti della Francia: sembrerebbe più esatto quanto si deduce dal racconto di Guariglia). In realtà ci poteva essere una logica nel modo di procedere di Ciano: da­ to lo stato più avanzato e migliore delle relazioni con la Gran Bretagna e l’interesse sempre dimostrato dagli inglesi per i rap­ porti franco-italiani, la diplomazia fascista sperava che la Gran Bretagna si impegnasse per indurre la Francia a prendere in considerazione le richieste dell’Italia, anche se sembra fosse da escludere a priori che Londra potesse premere su Parigi per­ ché fossero esaudite le rivendicazioni italiane sul territorio me­ tropolitano francese. Si può ritenere inoltre che, così agendo, Ciano volesse sondare per via indiretta le reazioni della Francia alle richieste avanzate dall’Italia prima di farne ogget­ to di discussione diretta, anche se la pubblicità che ad esse fu data dalla stampa fascista non era la via migliore per sondare la disponibilità della Francia, che certo non poteva riservare ad esse una accoglienza favorevole. Mussolini ricevette Fran^oisPoncet il 29 novembre e fu, a detta di Ciano, un’accoglienza1

    11 II testo della lettera a Grandi in R. Mosca (a cura di), L’Europa ver­ so la catastrofe, cit., voi. I, pp. 422-424.

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    «gelida», aggravata da pesanti allusioni alla situazione interna francese. Nel riferire al suo ministro, Frangois-Poncet fornì una versione relativamente diversa del clima dell’incontro ma non nascose le impressioni dell’ostilità dell’Italia verso la Francia n .

    Fran^ois-Poncet non aveva avuto probabilmente nep­ pure il tempo di valutare lo scambio di idee che si era svolto con Mussolini quando, il giorno immediatamente successivo, un clamoroso incidente alla Camera dei fasci e delle corpora­ zioni (convocata per ascoltare la relazione sugli affari esteri di Ciano, che doveva rendere conto fra l’altro della conferenza di Monaco), riportò le relazioni italo-francesi in acque sem­ pre più tempestose. Alla fine della parte del discorso di Ciano dedicata alla Gran Bretagna, che fu accolta da applau­ si, lo scoppio di grida dall’emiciclo dei “deputati” (secondo la versione Ciano) «Tunisi, Nizza, Savoia, Corsica» fu il se­ gno, in una sede quale più ufficiale non si poteva immagina­ re, di un’ostilità alla Francia che non trovò alcuna immediata riparazione e che con tutta probabilità, nel clima della ditta­ tura, non avrebbe potuto provocare alcuna riprovazione. La soddisfazione di Ciano e dello stesso Mussolini («Il Duce era contento») che traspare dal Diario sembrerebbe confermare che non di manifestazione spontanea si era trattato, ma di ge­ sto predisposto o quanto meno previsto, in una complicità con la macchina propagandistica del Partito fascista che in quelle settimane Mussolini aveva esplicitamente ricercato proprio al margine della campagna contro la Francia. Non era forse casuale che subito dopo la seduta della Camera, in sede di Gran Consiglio del fascismo, Mussolini anticipasse «le mete prossime del dinamismo fascista», preannunciando l’Albania ed enunciando le rivendicazioni necessarie per la si­ curezza nel Mediterraneo. Rivendicazioni che, guarda caso, erano tutte, ad eccezione dell’allusione al Canton Ticino, in direzione della Francia: Tunisia, Corsica, il confine al Varo, graziando la Savoia «perché è fuori dalla cerchia alpina», esattamente le stesse che Mussolini aveva già illustrato a Ciano l ’8 novem bre1213. Presente alla gazzarra, Framjois-Poncet abbandonò la Camera: nel suo rapporto al governo francese sostenne che si trattava di manifestazione sicuramente predeterminata, che era

    12 G . Bonnet, Fine d i u n ’Europa, cit., pp. 81-83. u G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 30 novembre 1938.

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    del resto quanto pensavano anche altri rappresentanti diplo­ matici 14. Se l’Italia aveva serie intenzioni di aprire le trattative con la Francia, la manifestazione antifrancese della Camera fascista si poteva considerare sicuramente controproducente. Espres­ sione dell’accoppiata tra diplomazia e propaganda così frelente nella politica fascista, fu una mossa profondamente agliata; se mirava a esercitare pressioni sulla Francia per in­ durla a miti consigli ottenne il risultato esattamente contrario, perché fu interpretata come il vero volto della politica fascista di sopraffazione. Guariglia sostiene nei suoi Ricordi di avere immediatamente compreso il carattere dannoso e pericoloso di quanto era accaduto, e di averne informato immediatamente Ciano, affermando tra l’altro che «tutti in Francia erano asso­ lutamente convinti che le nostre manifestazioni parlamentari erano state puramente artificiali, organizzate dal Governo e personalmente da Mussolini [...] che nessuno le aveva prese sul serio», ma che proprio «perché tali questioni erano impor­ tantissime, sia daf punto di vista della sicurezza nazionale (Tunisi e Corsica) che da quello dell’economia nazionale (Gibuti e Suez)» bisognava «farle profondamente penetrare nella coscienza del popolo italiano»; Guariglia quindi non si mostrava contrario alla sostanza delle rivendicazioni ma al mo­ do in cui venivano sostenute. Soprattutto Guariglia rilevava e qui coglieva il senso più profondo delle ripercussioni dell’ac­ caduto - che «ci eravamo ormai preclusa la possibilità di ri­ prendere, per parecchio tempo, una eventuale trattativa diplo­ matica di tali questioni»15. Il 2 dicembre Frangois-Poncet esprimeva a Ciano il pun­ to di vista del governo francese, in tono moderato ma nella so­ stanza piuttosto fermo:

    S

    Il Governo francese mentre esprimeva il suo rammarico per ta­ li dimostrazioni, doveva aggiungere che tale rammarico era reso più intenso dal fatto che il Capo del Governo e i Ministri presenti non avevano fatto niente per dissociarsi dai Deputati manifestanti. Desiderava pertanto sapere se le grida dei Deputati potevano rap­ presentare le direttive della politica estera italiana.

    14 G. Bonnet, Fine di u n ’Europa, cit., p. 84; più in generale Donatella Bolech Cecchi, N on bruciare i p o n ti con Roma. Le relazioni fra l’Italia, la Gran Bretagna e la Francia dall’accordo d i Monaco allo scoppio della seconda guerra m ondiale, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 23 sg. 15 R. Guariglia, Ricordi, cit., pp. 371-372.

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    Il secondo punto che l’ambasciatore francese richiamava all’attenzione dei governo italiano, con riferimento specifico alla questione della Tunisia, mirava a chiarire se il governo ita­ liano considerava o no tuttora in vigore gli accordi MussoliniLaval del 1935 «quale base delle relazioni franco-italiane». Ostentando fair play, Ciano tenne ad assicurare l’ambasciatore che non vi era nulla di preordinato in quanto era accaduto al­ la Camera. «La sola manifestazione responsabile del Governo fascista era rappresentata dal testo dei mio discorso: in esso nessuno potrebbe riconoscere alcunché destinato ad offende­ re la Francia». Sul secondo punto, pur dando una risposta in­ terlocutoria in attesa di ordini di Mussolini, Ciano anticipava che «gli accordi del 1935 erano stati realizzati con dei presup­ posti che non hanno poi trovato nella pratica la loro conferma: in primo luogo l’atteggiamento non amichevole della Francia durante la campagna etiopica». Non era ancora la denuncia formale di quegli accordi, ma di fatto il suo preannuncio16. «Far decadere gli accordi Mussolini-Laval del 1935» era infatti la prescrizione che, come risulta dal Diario, Mussolini aveva dato a Ciano in quello stesso giorno (2 dicem bre)17. Ciò che puntualmente avvenne nelle settimane successive e non, come supposto da alcuni interpreti, in risposta a dichiarazioni di chiusura dei responsabili anglo-francesi di fronte alle riven­ dicazioni italiane, bensì appunto come naturale sviluppo della direttiva fascista che mirava a costringere la Francia a cedere, riconoscendo che ormai la sua presenza nell’area mediterranea non era così incontestata come il governo francese continuava a ritenere. Non è da escludere che la linea sempre più intran­ sigente adottata dall’Italia avesse trovato un nuovo motivo di incoraggiamento nell’accordo franco-tedesco firmato da Ribbentrop e Bonnet il 6 dicembre, senza che la Germania si fosse premunita di prendere riguardo per la posizione dell’Italia. Resta però il fatto che il 9 dicembre, con riferimen­ to agli echi incessanti della chiassata alla Camera, Ciano regi­ strava senza mezzi termini l’allusione di Mussolini all’eventua­ lità della guerra con la Francia, con l’unica attenuante che «non è ancora giunto il m om ento»18.

    16 Dal verbale dell’incontro in R. Mosca (a cura di), L'Europa verso la

    catastrofe, cit., voi. I, pp. 424-426; sprezzante il tono in G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 2 dicembre 1938. Da parte francese G. Bonnet, Fine di

    un’Europa, cit., pp. 85-86, che data tuttavia erroneamente l’incontro al 3 di­ cembre. 17 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 2 dicembre 1938. 18 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 9 dicembre 1938.

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    Quando perciò il 17 dicembre 1938 fu inviata all’amba­ sciatore francese la nota di risposta alle richieste di chiarimen­ ti del 2 dicembre, Ciano non poteva non essere consapevole che a quel punto la denuncia formale degli accordi del 1935, considerati «giuridicamente, politicamente e storicamente su­ perati», equivaleva, in assenza di una proposta per la ripresa dei negoziati, ad un nuovo congelamento sine die dei rappor­ ti 19. Così infatti fu intesa a Parigi, dove comunque l’ipotesi di cedere anche un solo palmo di territorio non veniva presa in alcuna considerazione; la risposta francese del 26 dicembre non fu giudicata da Ciano neppure degna di una replica20. Con questa battuta l’Italia rinunciava a seguire una linea di ne­ goziato con la Francia e continuava a concentrare tutti i suoi interessi nei rapporti con la Germania. L’apparente consape­ volezza che Ciano aveva dichiarato, almeno sulla carta, all’atto di consegnare a Frangois-Poncet la denuncia degli accordi del 1935 che non convenisse «per ora, tirare troppo la corda» fu in realtà di breve durata: a Ciano bastava che non si desse ai francesi il pretesto di «far saltare in aria la visita di Chamberlain» a Roma che era prevista nella prima metà di gennaio del 1939. La campagna contro la Francia aveva ricac­ ciato l ’Italia nell’isolamento, lasciare la porta aperta a Chamberlain era l’unico spiraglio che rimaneva all’Italia sul versante delle democrazie. Sebbene Chamberlain e il governo britannico fossero consapevoli che le richieste italiane nei confronti della Francia rischiavano di interferire con il patto anglo-italiano dell’aprile del 1938 sullo status quo nel Mediterraneo, Chamberlain con­ tinuava a ritenere che l’unica via per cercare di influenzare e moderare l’espansione della Germania nazista fosse fare leva su Mussolini. Questa fu fondamentalmente la ragione per la quale, pur disturbato dalle polemiche franco-italiane che indi­ rettamente si riflettevano anche sui rapporti anglo-francesi, Chamberlain aveva coltivato dopo il Patto di Monaco l’idea di una visita ufficiale a Mussolini21. La parte italiana non poteva non vedere nell’iniziativa britannica un riconoscimento del prestigio di Mussolini, che sembrava accresciuto dopo Monaco, ma soprattutto la possibilità per l’Italia di non rima­

    19 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 17 dicembre 1938. 20 Sulla reazione francese G. Bonnet, Fine d i u n ’Europa, cit., pp. 8993; D . Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., pp. 46-55. 21 In proposito per tutti gli aspetti strettamente diplomatici si veda D. Bolech Ceccni, N on bruciare i p o n ti con Rom a, cit., cap. n.

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    nere isolata e schiacciata solo sull’amicizia con la Germania. Chamberlain e Halifax arrivarono a Roma I’l l gennaio 1939; una visita «tenuta in tono minore - annotava Ciano nel suo Diario - perché tanto il Duce che io siamo scarsamente convinti dell’utilità»22. Tanto piti probabilmente in quanto erano in corso le conversazioni con i tedeschi, che dovevano sfociare nel Patto d’acciaio (cfr. pp. 430-432). I colloqui con gli esponenti britannici non erano in alcun modo considerati co­ me l’occasione di una possibile revisione della politica italiana, ma come un semplice giro d’orizzonte che doveva servire da complemento a scelte fondamentali ormai già compiute in tutt’altra direzione. I colloqui che ebbero luogo nei giorni dall’l l al 13 gennaio 1939 non approdarono ad alcun risulta­ to concreto. Dai verbali predisposti da Ciano risulta che la par­ te italiana illustrò una volta di più agli ospiti inglesi i caposal­ di della politica dell’Italia, a partire dalla sua «direttiva fondamentale», ossia dall’Asse Roma-Berlino; dalla volontà di appli­ care «con la massima lealtà» gli accordi dell’aprile 1938 con la Gran Bretagna; dall’awenuta denuncia degli accordi del 1935 con la Francia; nonché dall’importanza della questione spa­ gnola anche sotto il profilo dei rapporti con la Francia; dalla possibilità di accordi per la limitazione degli armamenti, e non già di disarmo. L’interesse principale degli uomini di Stato britannici sembrò concentrato sull’esigenza di avere chiarimenti circa le intenzioni della Germania. Stando ai verbali di Ciano e alle note del suo Diario, molta parte dell’attenzione di Chamberlain fu rivolta al pr blema degli ebrei profughi dal­ la Germania. Chamberlain espresse anche il rammarico per le difficoltà che incontravano i rapporti italo-francesi. Espresse infine «grande ansietà circa quelle che sono le vere intenzio­ ni di Hitler». Cerchiamo di riprendere questi tre blocchi di problemi. Anzitutto il problema dei rapporti tra Italia e Francia. L’argomento portò i due interlocutori ad affrontare anche quello che continuava ad essere considerato l’ostacolo principale ai rapporti tra la Francia e l ’Italia, lo stato nel qua­ le si trovava il conflitto spagnolo. La parte italiana rinviava la ripresa di qualsiasi iniziativa nei confronti della Francia alla conclusione delle ostilità in Spagna. Chamberlain avrebbe desiderato una accelerazione di queste iniziative; per parte

    22 G. Ciano, Diario 1939-1943,2 voli., Milano, Rizzoli, 1963, voi. I, al­ la data dell’11 gennaio 1939.

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    sua la guerra in Spagna sembrava fosse già finita, quanto me­ no perché ormai, a suo avviso, «non vi è più pericolo di bol­ scevismo in Spagna», punto sul quale Mussolini non era af­ fatto d’accordo, giacché vedeva ancora la «Spagna rossa» sot­ to il controllo della «polizia russa». Da buon conservatore pragmatico, Chamberlain auspicava una rapida ripresa di contatti dell’Italia con la Francia perché temeva che la cadu­ ta di Daladier potesse comportare un ritorno al governo del­ le sinistre. Egli escluse esplicitamente ogni mediazione bri­ tannica ma espresse il suo interesse al miglioramento dei rap­ porti tra Italia e Francia con un significativo paragone: «Le relazioni fra l ’Inghilterra e la Francia sono analoghe a quelle che esistono fra l’Italia e la Germania». Era, come si vede, la formula di Monaco, alla quale Chamberlain avrebbe voluto affidare le sorti della pace. Tuttavia, Chamberlain non potè esimersi dal dichiarare la propria delusione per il modo in cui la Germania si era sottratta alla possibilità di dare un seguito alla politica di Monaco. Era allarmato dal riarmo tedesco che procedeva a «ritmo febbrile», dalle voci di mobilitazione, dal timore di nuovi colpi di mano: contro l’Ucraina, contro la Francia o contro la Polonia, tutte eventualità che avrebbero determi­ nato possibili conflitti. Chamberlain chiedeva a Mussolini delucidazioni. Mussolini escluse un conflitto franco-tedesco, facendo riferimento tra l’altro all’accordo del 6 dicembre 1938. Attribuì le voci di movimenti tedeschi all’ostilità della propaganda antinazista ed espresse ottimismo anche sui rap­ porti tra la Germania e la Polonia. Sdrammatizzò il riarmo tedesco, dicendo che andava rapportato al riarmo comune a tutti gli stati, senza, per quel che si arguisce, riuscire a pla­ care le apprensioni di Chamberlain. «Comunque - insinuò Chamberlain - poiché il Duce ha detto risultargli che il Fiihrer desidera un lungo periodo di pace, si può pensare che il Fiihrer dichiari ciò pubblicamente?». Se Chamberlain, pur dopo Monaco, si proponeva ingenuamente di dar fidu­ cia a proteste di pace da parte di Hitler, Mussolini poteva soltanto menare il can per l’aia. Neppure sulla questione dei profughi ebrei Mussolini era in grado di offrire risposte concrete alle domande di Chamberlain. All’insistenza di questi che la Germania avreb­ be dovuto fare qualche sacrificio per facilitare la sistemazione degli ebrei in altri paesi, Mussolini prese le difese della Germania che intendeva «risolvere in modo totalitario il pro­ blema ebraico»: «Non bisogna però pretendere dalla Germania dei sacrifici troppo gravi perché il popolo tedesco 392

    DA PRAGA AL PATTO D’ACCIAIO

    ha molto sofferto a causa degli ebrei specialmente nell’imme­ diato dopoguerra»23. «Chamberlain - scrive Ciano nel Diario (13 gennaio 1939) - si preoccupa molto della questione poiché ha ammesso che una ulteriore immigrazione ebraica in Inghilterra vi farebbe scoppiare l’antisemitismo che già ser­ peggia in molti settori». L’altra certezza che si ricava dal Diario di Ciano è che i due capi fascisti non furono per nulla impres­ sionati dalle preoccupazioni di Chamberlain in merito al riar­ mo della Germania: le interpretarono come una prova di de­ bolezza e basta, come la riprova che «gli inglesi non si voglio­ no battere». Da qui Ciano trasse la conferma che era bene ac­ celerare l’alleanza a tre con Germania e Giappone: «Questa lo­ ro cupa preoccupazione m ’ha convinto sempre più della ne­ cessità dell’alleanza militare a tre. Avendo nelle mani un simile strumento potremo ottenere quello che si vorrà»24. Altro che le speranze di Chamberlain in una funzione moderatrice dell’Italia! Se una parte della diplomazia britanni­ ca aveva potuto sperare, ancora alla vigilia della visita di Chamberlain a Roma, che l’Italia abbandonasse la solidarietà con la Germania, i colloqui (pur senza che gli ospiti sapessero che Mussolini aveva già scelto di trasformare il Patto Anticomintern in alleanza militare) non approdarono a nulla che non fosse un generico scambio di opinioni. Per giunta, da parte italiana vi si vide un successo di prestigio che contribui­ va a offuscare una visione realistica della situazione e degli sce­ nari che si andavano profilando in una alleanza egemonizzata dalla Germania. Quanto a Chamberlain, la visita a Roma fu forse l’ultimo gesto dell ’appeasement.

    I TEDESCHI A PRAGA: LA FIN E D ELL’APPEASEM EN T

    Oltre a fissare la consegna del territorio dei Sudeti alla Germania e le modalità per la sua evacuazione entro il 10 o t­ tobre del 1938, la conferenza di Monaco aveva previsto altri importanti impegni internazionali. Anzitutto l’impegno delle quattro potenze a intervenire qualora entro tre mesi i proble­ mi delle minoranze polacche e ungheresi in Cecoslovacchia come si ricorderà era stato Mussolini a insistere perché venis-25

    25 Verbale del colloquio Mussolini-Chamberlain in R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. Il, pp. 15-24. 2i G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 12 gennaio 1939.

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    sero coinvolte tutte le minoranze - non fossero stati risolti di­ rettamente tra i rispettivi governi. In secondo luogo, l’impe­ gno delle potenze a garantire le nuove frontiere dello stato ce­ coslovacco «contro una aggressione non provocata». Francia e Gran Bretagna avevano formulato sin dal 19 settembre l’of­ ferta di garanzia alla Cecoslovacchia; Germania e Italia si ri­ servavano per parte loro di adempiere all’impegno quando fosse sistemata la questione delle minoranze polacca e unghe­ rese. Per quanto riguarda le minoranze, la questione fu af­ frontata e risolta con relativa rapidità. Prima a muoversi fu l’Ungheria, che avrebbe puntato al distacco totale della Slovacchia dallo stato cecoslovacco. Se ne allarmò lo stesso Ciano, che vi vide l’inizio di un processo centrifugo che avrebbe potuto portare allo sbriciolamento di tutto l’equili­ brio danubiano residuo e all’attivazione di altri separatismi, come quello croato, che avrebbero aperto vuoti entro i quali si sarebbe allungato un cuneo tedesco. Queste preoccupazio­ ni spinsero Ciano e Mussolini a sostenere Praga e rispettiva­ mente Belgrado contro le minacciate secessioni, pur appog­ giando una parte delle rivendicazioni dell’Ungheria, che con l’acquisizione della Rutenia subcarpatica si sarebbe trovata a confinare con la Polonia. Di fronte alle pressioni ungheresi, alla minaccia fra l ’altro di mobilitazione, Ciano si spinse a prospettare una mediazione delle potenze dell’Asse, che la Germania finì per accettare a malincuore. In realtà, la me­ diazione si risolse nell’arbitrato delle potenze dell’Asse solle­ citato dagli ungheresi. Secondo Ciano, Ribbentrop aveva conservato le sue riserve perché non aveva capito «l’impor­ tanza politica dell’arbitrato dell’A sse»25. Non a torto, vice­ versa, Ciano vi aveva visto, forse con un po’ di enfasi, «il si­ gillo sul fatto che ogni influenza franco-britannica è crollata per sempre nell’Europa danubiana e balcanica». Indi­ pendentemente dal risultato effettivo, Ciano valutava la riso­ nanza politica dell’eventuale arbitrato, ripromettendosi di trarne profitto per l ’Italia a svantaggio della Germania. Il 3 novembre, l ’arbitrato di Vienna rappresentò forse l’unica oc­ casione in cui Ciano ebbe la meglio su Ribbentrop. Egli trac­ ciò la linea di frontiera a favore dell’Ungheria avendo di mi­ ra più la conservazione del legame ai quest’ultima con l’Italia, pur dopo 1’Anschluss austriaco che aveva mandato in25

    25 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 28 ottobre 1938.

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    frantumi il patto tripartito con Vienna, che la soluzione del problema delle minoranze. Ciano dovette tenere conto del­ l’ostilità tedesca all’idea della frontiera comune tra Ungheria e Polonia, ma riuscì comunque a fare attribuire all’Ungheria la parte meridionale della Rutenia subcarpatica. L’Ungheria peraltro non cessò l’agitazione irredentistica per l’acquisizio­ ne dell’intero territorio della Rutenia, contribuendo a mante­ nere l’area in una situazione di permanente instabilità. Le po­ tenze dell’Asse uscivano ad ogni modo trionfataci anche da questa nuova piccola Monaco, che aveva comportato un ul­ teriore sgretolamento dell’integrità della Cecoslovacchia2627. Alla metà di gennaio del nuovo anno, allorché Chamberlain si recò a Roma, nessun passo viceversa era sta­ to compiuto a proposito della garanzia internazionale per l’integrità di ciò che restava dello stato cecoslovacco, sebbe­ ne Ciano avesse registrato le avvisaglie di una possibile ri­ chiesta cecoslovacca in tal senso nell’imminenza della solu­ zione delle pendenze con la Polonia e fosse consapevole che difficilmente si sarebbe potuto opporre a un passo del gene­ re22. Il problema fu risollevato da Chamberlain a conclusio­ ne della sua visita a Roma nel colloquio con Mussolini del 12 gennaio, come si apprende dal già citato verbale steso da Ciano. Sebbene la domanda posta da Chamberlain, almeno come è riferita da Ciano, appaia quanto meno strana o im­ propria - Chamberlain avrebbe chiesto a Mussolini se era fa­ vorevole alla concessione della garanzia: ma questa era un im­ pegno derivante dalla conferenza di Monaco; diverso, sem­ mai, era il problema del momento in cui concedere la garan­ zia e se, come pare di capire da quanto riferisce Ciano, Mussolini ritenesse che anche le due potenze occidentali do­ vessero ribadire la loro offerta - può essere interessante rile­ vare come da parte italiana non si manifestasse nessuna fret­ ta di adempiere all’impegno assunto a Monaco. Non siamo in grado di precisare a tutt’oggi se la linea dell’Italia fosse stata concordata con la Germania; dato che l’Italia fu tenuta all’o ­ scuro del piano tedesco di liquidare a breve scadenza quel che restava della Cecoslovacchia, mutilata prima a Monaco e poi con l’arbitrato di Vienna, si può pensare che la reticenza del governo italiano derivasse da una scelta autonoma, forse

    26 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 3 novembre 1938. 27 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 24 novembre 1938.

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    anche dalla necessità di non legarsi le mani e di lasciare la si­ tuazione fluida nel momento in cui l’Italia andava stringendo i tempi per l ’occupazione dell’Albania. Fatto si è che, alla richiesta di Chamberlain, Mussolini oppose la tattica dilatoria, subordinando la concessione della garanzia a condizioni che l’allegato ad hoc del Patto di Monaco non prevedeva. L’allegato in questione prevedeva soltanto co­ me preliminare per la concessione della garanzia l’avvenuta so­ luzione del problema delle minoranze ungherese e polacca, co­ sa che si era nel frattempo verificata. Mussolini prospettava ora una serie di sviluppi in base a una valutazione unilaterale del­ la situazione: Prima di parlare di garanzia alla Cecoslovacchia e di studiare in uale forma e da chi essa deve venir data, bisogna che il Paese si sia efinitivamente assestato all’interno attraverso una nuova costituzio­ ne, che abbia fatto una dichiarazione di neutralità e che infine le nuo­ ve frontiere, che per ora sono state tracciate solamente sulla carta, siano state anche definite sul territorio28.

    3

    Che cosa poteva avere determinato questa tattica dilato­ ria? A quanto abbiamo già anticipato possiamo aggiungere an­ che l’ipotesi che l’Italia non volesse forzare un passo che pote­ va risultare non gradito alla Germania, e che comunque anda­ va con essa concordato. Sorprendente comunque non era che l’Italia tendesse a prendere tempo ma che, stando al verbale di Ciano, Chamberlain aderisse alle motivazioni di Mussolini. Quando il 15 marzo la Wehrmacht entrò a Praga, l’Italia fu la prima a rimanerne sorpresa. La politica italiana era stata quasi interamente assorbita dagli sviluppi della situazione in Spagna, che volgeva verso il trionfo di Franco dopo la caduta di Barcellona alia fine di gennaio, e dalla preparazione a ritmi sempre più intensi della spedizione in Albania. In realtà la sor­ presa dei capi fascisti dovette essere ancora più amara in quan­ to erano in pieno sviluppo i contatti con i tedeschi per la sti­ pulazione del Patto d’acciaio. Ciano registrò soltanto il 14 marzo, e senza dare all’avvenimento l’importanza che faceva intravedere, il preannuncio dei movimenti tedeschi: Le notizie dall’Europa centrale si fanno più gravi. Per la prima volta Ribbentrop ha parlato con Attolico ed ha lasciato comprende­ re che il programma tedesco è massimo: incorporare la Boemia, ren­ dere vassalla la Slovacchia, cedere la Rutenia agli ungheresi. Non si

    28 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. n, p. 24.

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    può ancora dire come e quando ciò sarà realizzato, ma un tale even­ to è destinato a produrre la più sinistra impressione nel popolo ita­ liano. «L’Asse - era la conclusione di Ciano - funziona solo in favore di una delle parti, che diviene di un peso troppo pre­ ponderante e che agisce di sua esclusiva iniziativa con hen po­ chi riguardi per noi» 29. Una ben singolare conclusione da par­ te del ministro degli Esteri fascista, che stava spingendo l’Italia alla firma dell’alleanza con la Germania senza neanche avere predisposto un progetto da mettere in alternativa alle proposte che stava elaborando la diplomazia nazista. Non avendo altro obiettivo che quello di servirsi dell’ariete tedesco per realizza­ re le conquiste divisate dall’Italia, Ciano non aveva nulla da obiettare al metodo dei tedeschi se non il fatto di essere stati trascurati. Meditò pertanto di compensare lo smacco subito imitando quel metodo, ossia accelerando l’ingresso in Albania. Nella notte del 15 marzo arrivò la notizia dell’invasione della Cecoslovacchia: La cosa è grave, tanto più che Hitler aveva assicurato che non avrebbe mai voluto annettersi un solo ceco. L’azione tedesca non di­ strugge ormai la Cecoslovacchia di Versailles, bensì quella che era stata costruita a Monaco e a Vienna. Quale peso si potrà dare in fu­ turo a quelle altre dichiarazioni e promesse che più da vicino ci ri­ guardano? 30 Il 14 marzo Hitler aveva convocato a Berlino il presi­ dente cecoslovacco Emil Hacha per rimettergli l’ultimatum che gli intimava di consegnare il paese ai tedeschi, minac­ ciando il massiccio bombardamento aereo di Praga, mentre la Slovacchia, istigata dal Terzo Reich, proclamava la sua in­ dipendenza ed invocava l’aiuto della Germania. Il 15 marzo Hitler proclamava a Praga la costituzione del Protettorato di Boemia e Moravia. Contemporaneamente il Fiihrer spediva a Roma per l’ennesima volta il principe Filippo d’Assia per spiegare che il Reich aveva reagito alle minacce ceche e per ringraziare preventivamente l’Italia di un sostegno che non le era stato chiesto31. In quel frangente, Mussolini reagì in mo­ do difforme da Ciano: il secondo avrebbe voluto accelerare

    29 G. Ciano, Diario 30 G. Ciano, Diario 31 G. Ciano, Diario

    1939-1943,cit., voi. I, 14 marzo 1939. 1939-1943,cit., voi. I, 15 marzo 1939. 1939-1943,cit., voi. I, 15 marzo 1939.

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    l’occupazione dell’Albania; Mussolini, apparentemente più ponderato, sul momento rallentò la spinta verso l’Albania, non quella verso l’alleanza con la Germania. Quale poteva es­ sere la logica di questo comportamento? Non rappresentava­ no i fatti di Praga la riprova di quanto poco ci si potesse fi­ dare della Germania e forse l’ultima occasione per imprime­ re una correzione di rotta alla politica italiana? Mussolini non soltanto non si poneva interrogativi del genere, ma anzi si orientava in senso esattamente contrario. Non disponiamo al momento di altra fonte per rispondere ai nostri quesiti se non del solito Diario di Ciano. Da esso si de­ durrebbe che l’atteggiamento di Mussolini non era di sem­ plice rassegnazione. Egli dava per scontato che nulla più or­ mai avrebbe potuto rovesciare o fermare l’affermazione dell’«egemonia prussiana in Europa». Tanto valeva, allora, adeguarsi realisticamente alla situazione e stringere l’allean­ za; si deve supporre che egli pensasse che la Germania do­ vesse avere più riguardo per un alleato che per uno stato ter­ zo qualunque. C’è però da aggiungere che se Mussolini non si prospettava altre alternative, per esempio il riavvicinamen­ to alle democrazie occidentali, è perché oramai aveva com­ piuto una opzione fondamentale, forse più contro Francia e Gran Bretagna che a favore della Germania: ma di fatto egli si trovava a non avere altre sponde alle quali rivolgersi. Fossero il risentimento e l’odio, vero odio, per la Francia e il disprezzo più che l’odio per l’Inghilterra, oramai troppe co­ se - non solo un incontrollato desiderio di vendetta e di con­ quista, ma anche la svolta razzista e l ’enfasi dell’impero - lo avevano allontanato dalle potenze mediterranee; e in ogni modo tornare indietro ricucendo i rapporti con Francia e Inghilterra avrebbe avuto per lui il sapore di una sconfitta, mentre legarsi al carro della Germania aveva ancora il senso di trovarsi dalla parte vincente, di giocare un ruolo non pas­ sivo, di essere protagonista. U n’altra ipotesi è che Mussolini, ostentando amicizia per la Germania, volesse prevenire il peggio, conservare almeno le briciole che gli erano state pro­ messe. Lo spettro di una secessione della Croazia e di un suo passaggio sotto protezione tedesca lo inquietava. Quale che fosse comunque la fede che si poteva ancora prestare alle promesse tedesche, Ciano tentò di strappare un ultimo impegno al partner dell’Àsse. Il 17 marzo annotò: Chiamo Mackensen e gli parlo. Con molta calma ma con al­ trettanta decisione. Ricordo che il Fuhrer disse al Duce e a me che il Mediterraneo non interessa ai tedeschi: è su questa premessa che 398

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    abbiamo realizzato la politica dell’Asse. Se una tale premessa ve­ nisse a mancare, l’Asse si spezza, e un intervento tedesco nelle que­ stioni croate farebbe automaticamente fallire questa premessa5253. Ma questi fieri propositi di Ciano non ebbero nessun se­ guito, e non perché la Germania inviasse l’ennesimo messaggio rassicurante, come vedremo, ma perché la reazione di Francia e Gran Bretagna al colpo di Praga, che sembrava chiudere defini­ tivamente la politica di appeasement, tornava a sollecitare e a sol­ leticare il complesso antidemocratico dei capi fascisti. La notizia che il 17 marzo i rappresentanti di Francia e Gran Bretagna ave­ vano energicamente protestato a Berlino contro l’occupazione di Praga e la distruzione di quel che restava dopo Monaco della Cecoslovacchia non valse a indurre Ciano e Mussolini a riflette­ re sulla contrapposizione di schieramenti che si andava deli­ neando e sull’inconciliabilità ormai dei due fronti. Senza con­ cludere che ormai Mussolini era convinto che soltanto all’ombra della Germania l’Italia potesse realizzare le sue rivendicazioni, che erano prioritarie rispetto a tutto, anche al mantenimento della pace, non è possibile rendersi ragione della linea da lui adottata e, ad onta delle parole, seguita anche da Ciano. Il 20 marzo l’ambasciatore tedesco, nel consegnargli una lettera personale di Ribbentrop, diede a Ciano la conferma che «la Germania non ha alcuna mira in nessuna zona del Mediterraneo, che è considerato dal Fùhrer mare italiano» e, smentendo qualsiasi presunto interesse per la Croazia, assicu­ rava che come l’Italia si era disinteressata della questione ce­ coslovacca che la Germania aveva risolto secondo i propri in­ teressi, «così se sorgerà la questione croata sarà il turno per la Germania di disinteressarsi al cento per cento di tale proble­ ma, lasciandone la soluzione all’Italia»33. Nella sostanza, l’Italia non accennava a cambiare linea. Un cenno contenuto nei Diario di Ciano alla data del 19 marzo («Da oggi lavoro presso il Duce per l’accordo anche con le Potenze occidentali») non indicava una ricerca seria di alternative. I toni duri che Chamberlain aveva usato per la prima volta in un di­ scorso a Birmingham il 17 marzo, individuato dalla maggior par­

    52 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 17 marzo 1939; resoconto 'dell’incontro in R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. II, pp. 42-43. Dispaccio dello stesso giorno di Hans Georg von Mackensen a Berlino in A D A P , D, Bd.VI, n. 15. 53 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 20 marzo 1939; resoconto in R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. H, pp. 43-46. Resoconto di Mackensen in A D A P , D, Bd.VI, n. 45.

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    te degli interpreti come il punto di svolta della politica britanni­ ca 34, soltanto in parte furono recepiti in Italia nelle loro più profonde implicazioni. L’appello che il premier britannico rivol­ se personalmente a Mussolini il 20 marzo per invitarlo a colla­ borare a «ristabilire la fiducia e assicurare la pace» cadde prati­ camente nel vuoto, se non peggio: «Mussolini - annotava Ciano - risponderà dopo il colpo albanese: la lettera lo conferma nella sua idea di agire poiché in essa trova un’altra prova dell’inerzia delle democrazie»35. Il 21 marzo Mussolini pronunciò al Gran Consiglio del fascismo un ampio discorso sulla situazione inter­ nazionale, che ribadiva la piena adesione alla politica dell’Asse con toni che miravano volutamente a sottolineare la distanza dalle potenze occidentali anche in termini ideologici, la cui sin­ tesi era nell’ordine del giorno finale: «Il Gran Consiglio del fa­ scismo, dinanzi alla minacciata costituzione di un fronte unico delle democrazie associate al bolscevismo contro gli stati autori­ tari, fronte unico non foriero di pace, ma di guerra, dichiara che quanto è accaduto nell’Europa centrale trova la sua prima origi­ ne nel trattato di Versaglia e riafferma, specie in questo momen­ to, la sua piena adesione alla politica dell’Asse Roma-Berlino»36. In un successivo discorso del 26 marzo di tono fortemente bel­ licista e antifrancese, il rapporto agli squadristi al Foro Mussolini, egli ribadiva la stessa linea accentuando, se possibi­ le, l’opzione di carattere ideologico che guidava l’azione dell’Italia 37. Si può concludere tranquillamente che nessun passo serio fu compiuto dall’Italia né verso la Francia né verso la Gran Bretagna. Sondaggi compiuti da emissari privati, bene introdot­ ti in ambienti ufficiali come il banchiere francese Paul Baudoin, amico di Daladier, che fu ricevuto da Ciano, non sortirono alcun risultato. L’allora ambasciatore Guariglia ne diede una spiega­ zione plausibile: «I motivi del fallimento di questo infelice ten­ tativo erano evidenti. Da Roma erano state indicate delle richie­ ste, ma non si era fatto cenno ad alcuna specie di contropartita che si fosse disposti a dare alla Francia»38.

    34 Cfr. D. Bolech Cecchi, Non bruciare ip o n ti con Roma, cit., pp. 193-195. 35 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 23 marzo 1939; D. Bolech Cecchi, N on bruciare i p o n ti con Roma, cit., pp. 200-201. 36 L’ordine del giorno in B. Mussolini, Opera omnia, cit., voi. XXIV, pp. 248-249. 37 Testo in B. Mussolini, Opera omnia, cit., voi. xxrv, pp. 249-253. 38 R. Guariglia, Ricordi, cit., p. 386; sulla missione Baudoin D. Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., pp. 149-162; G. Bonnet, Fine di u n ’Europa, cit., pp. 93-97.

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    Anche a non volere interpretare le prese di posizione di Mussolini in senso direttamente provocatorio nei confronti delle democrazie occidentali, o a volerle considerare addirittu­ ra di tono moderato, restava il fatto che prevalevano in esse la richiesta preliminare del soddisfacimento delle rivendicazioni italiane (e per la Francia si sintetizzavano ormai nella triade Gibuti, Suez, Tunisi con la riserva propagandistica di Nizza, Savoia e Corsica) e la convinzione che bisognasse dare la prio­ rità al riarmo. Il commento con il quale il 30 marzo Mussolini avrebbe liquidato l’invito avanzato dal presidente del Consiglio francese Daladier nel discorso alla radio del 29 mar­ zo - dal quale appariva evidente il dissenso dal punto di vista italiano ma anche la disponibilità ad affrontare il problema delle relazioni con l’Italia - considerandolo un segno di pura chiusura («Tanto meglio, era proprio quanto desideravo» se­ condo quanto riportato da Ciano)39 potrebbe offrire la con­ ferma che Mussolini non ricercava alcuna via d’intesa con la Francia. Piccola spia psicologica: si potrebbe vedere quanto poco interesse i capi fascisti avessero a ristabilire un buon rap­ porto con la Francia nella svista con la quale lo stesso Ciano re­ gistrò nel Diario il discorso di Daladier, attribuendolo a Lavai. L’Italia ormai era così lanciata nella prospettiva albanese che la dichiarazione ai Comuni con la quale il 31 marzo Chamberlain si esprimeva chiaramente per l’assistenza alla Polonia, nel quadro finalmente di una politica di fermezza nei confronti della Germania, fu sul momento sottovalutata. In termini ancora più espliciti Chamberlain formulò a distanza di pochi giorni, il 3 aprile, sempre ai Comuni, gli impegni che la Gran Bretagna si era assunta, mentre erano in via di precisa­ zione contatti anche con l’Unione Sovietica. La formulazione di Chamberlain, che faceva seguito a un crescendo di voci (e non solo di voci: il 23 marzo la Germania aveva strappato Memel alla Lituania) sulle prossime mete dell’espansione te­ desca, non lasciava adito a equivoci: «Ripeto che, se l’indipen­ denza della Polonia dovesse essere minacciata e il popolo po­ lacco, come non dubito, decidesse di resistere contro la mi­ naccia, le mie dichiarazioni devono essere interpretate nel sen­ so che la Francia e l’Inghilterra andrebbero immediatamente in suo soccorso»40. Che è quanto sarebbe accaduto dopo l’ag­ gressione tedesca del 1° settembre 1939.

    39 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 30 marzo 1939. -*o D. Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., p. 233.

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    LA CONQUISTA DELL’ALBANIA

    Non si era ancora spenta l’eco della caduta, nel marzo, di Madrid che il 7 aprile 1939 truppe italiane sbarcarono in quat­ tro punti strategici lungo le coste albanesi. Nel giro di quaran­ totto ore il corpo di spedizione al comando del generale Alfredo Guzzoni si impadronì del piccolo stato al di là del ca­ nale di Otranto. Ciano, non dimentico dello spirito squadristico, il giorno successivo si recava in volo a Tirana a ricevere l’o­ maggio dei notabili assoldati dal regime fascista per suggellare con una presenza politica il primo atto dell’espansionismo fa­ scista sul suolo europeo41. Nel giro di pochi giorni fu formalizzata la distruzione della sovranità dell’Albania. La sottomis­ sione del paese fu totale; Ciano, il grande regista di tutta l’o­ perazione, non si preoccupò di salvare neppure le forme. Il 12 aprile fu inscenata la finzione di una assemblea costituente al­ banese che offrì la corona d’Albania a Vittorio Emanuele IH; il 16 aprile il re, che aveva esitato a dare il suo beneplacito a tutta l’operazione albanese42 ma che alla fine aveva ceduto, toccato fra l’altro nella sua vanità, accettava anche la corona di Albania, che gli consentiva di fregiarsi del titolo di re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia. In questo modo il sovrano si faceva corresponsabile di uno dei gesti più plateali della poli­ tica fascista. Seppure non eccellente nella realizzazione militare, che mise in evidenza immediatamente lacune e difetti di organiz­ zazione e di preparazione, l’occupazione dell’Albania non fu un’operazione improvvisata né una mera risposta diretta a controbilanciare la marcia verso est e sud-est della Germania nazista, che aveva conosciuto una nuova spinta con l’occupa­ zione di Praga e la distruzione della Cecoslovacchia. Come e ancor più della Spagna, l’Albania fu un’invenzione di Ciano, che a lungo aveva sognato di fare del piccolo stato la testa di ponte dell’influenza italiana nei Balcani e una sorta di feudo del suo entourage fascista. La sua attenzione per l’Albania si manifestò sin dall’inizio della sua gestione al dicastero degli Esteri, almeno dagli ultimi mesi del 1936, allorché si profilò la prima possibilità di una sua visita in Albania43.

    41 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 8 aprile 1939. 42 Ancora il 27 marzo nel Diario Ciano aveva registrato il dissenso del sovrano sull’avventura albanese. 43 Cfr. DDI, V ili, voi. V, n. 401 dispaccio di Francesco Jacomoni a Ciano.

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    DA PRAGA AL PATTO D’ACCIAIO

    Molto presto maturò in Ciano l’idea di trasformare il rap­ porto tradizionale che l’Albania aveva con l’Italia, che dopo il Secondo patto di Tirana del 1927 si configurava già chiara­ mente come una sorta di protettorato con salvaguardia forma­ le delle prerogative della sovranità4-4, in un più diretto rappor­ to di dipendenza. Nella stessa misura in cui vedeva l’Albania come trampolino di lancio sui Balcani, Ciano vi vedeva anche la destinazione di un ennesimo insediamento di popolazione, il che denotava la cultura fondamentalmente coloniale e colonialista dei protagonisti dell’espansionismo fascista. L’occupazione dell’Albania non era stata concepita nep­ pure come risposta a\YAnschluss austriaco, come talvolta si è scritto. \1Anschluss, e più tardi l’invasione tedesca della Cecoslovacchia, offrirono soltanto l’occasione per accelerare prima e per portare a compimento poi un progetto meditato a lungo che si può configurare come progetto strategico, pro­ getto di sfruttamento economico e progetto d’insediamento coloniale. Tre aspetti in sostanza di un unico, organico piano di penetrazione e di conquista, destinato, al di là del consoli­ damento di aree di potere interne alla dinamica del regime fa­ scista, a modificare gli equilibri stessi dell’intera area mediter­ ranea. Ancora una volta una sfida che il regime rivolgeva alle altre potenze mediterranee senza rendersi esattamente conto della sua portata. Fu in coincidenza del suo secondo viaggio in Albania, ef­ fettuato in occasione delle nozze di re Zogu con la contessina Appony, rampolla dell’aristocrazia magiara, dopo che già era fallito un tentativo di imporre al re di Albania una consorte le­ gata alla casa Savoia o almeno una «signorina italiana», che Ciano elaborò un primo progetto che andava al di là del pro­ posito già ripetutamente manifestato di insediare in Albania dei «centri stabili di interessi italiani» 445 o di potenziare i sim­ boli esterni della presenza italiana. Allorché riuscì a ottenere il finanziamento per la costruzione della legazione italiana a Tirana non si trattenne dal sottolineare: «La nostra Rappresentanza a Tirana deve anch’essa marcare il nostro pre­ dominio» 46. Come abbiamo accennato, Ciano tornò a Tirana alla fine di aprile del 1938, pochi giorni prima dell’arrivo in Italia del Fuhrer del nazismo. E a seguito di questa visita redasse un re­

    44 Cfr. parte I, cap. n. 45 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 25 agosto 1937. 46 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 30 agosto 1937.

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    soconto del viaggio che prospettava un piano ormai sufficien­ temente maturo per la conquista del piccolo stato oltre Adriatico, muovendo dalla prospettiva di «un avvenire di in­ tensa e proficua operosità» per il lavoro italiano in Albania. Un paese che Ciano riteneva alquanto ottimisticamente «ricco, ef­ fettivamente ricco», anche se, aggiungeva prudentemente, «molte delle sue ricchezze sembrano in un primo tempo diffi­ cili a raggiungersi». Il resoconto di Ciano si può considerare diviso in due parti: nella prima si descriveva la situazione economico-sociale dell’Albania, nella seconda veniva avanzata una serie di pro­ poste operative, cioè si anticipavano gli elementi di una strate­ gia per la conquista del paese. Già ragionando delle condizioni dell’agricoltura albanese Ciano notava lo stato molto modesto delle attività produttive, dovuto anche alla cattiva tenuta del suolo e delle infrastruttu­ re, ma si preoccupava subito di sottolineare le possibilità di larghi interventi per il miglioramento delle condizioni di colti­ vabilità del suolo, se non altro attraverso opere di bonifica, in ciò confortato dall’esperienza positiva, sia dal punto di vista del miglioramento agronomico sia sotto il profilo della colla­ borazione con i lavoratori agricoli indigeni, già compiuta nei terreni che erano stati dati in concessione all’Azienda dell’Ente italiano aziende agricole. Con una certa approssimazione cal­ colava in un milione (a suo dire «gli abitanti raggiungono, for­ se, il milione») la popolazione dell’Albania (in realtà allora si trattava di poco più di un milione di abitanti), traendone la conclusione che con i suoi 30.000 chilometri quadrati l’Al­ bania, ove fossero state realizzate le opere di bonifica, avrebbe potuto accogliere «almeno altri due» milioni di abitanti, circo­ stanza che lo induceva a incoraggiare la prospettiva di trasfe­ rirvi un largo contingente di popolazione italiana. Né gli man­ cava l’occhio per le esigenze autarchiche: la rivitalizzazione della pastorizia, con «un semplice lavoro di selezione», avreb­ be potuto dare origine a «un largo prodotto di lana di ottima qualità». Anche lo sfruttamento del legname, del resto già in cor­ so anche da parte di concessioni italiane, avrebbe potuto es­ sere intensificato con grande profitto. Quanto alla pesca nell’Adriatico, del cui sfruttamento l’Italia già deteneva il monopolio, era considerata potenzialmente ricchissima ed in prospettiva era un’altra posta attiva «per l’autarchia alimen, > di vista economico la ricchezza maggiore dell’Albania era rappresentata dai suoi giacimenti minerari. In 404

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    questa direzione decisive sarebbero state le ricerche che, grazie ai rapporti stabiliti da Ciano con re Zogu, erano state affidate all’Azienda minerali metalli italiana, che aveva ottenuto la con­ cessione per compiere una larga ricognizione in tutto il paese. «Finora, oltre quanto è noto circa i giacimenti petroliferi, gli asfalti, i bitumi, il rame, le cromiti, risulta l’esistenza di grandi banchi di ligniti di ottima qualità e situati in regioni assai facili allo sfruttamento in considerazione della viabilità del paese». L’aggiornamento delle ricerche ed anche degli strumenti carto­ grafici (compresa l’acquisizione di conoscenze accumulate dai Gesuiti e da loro tenute segrete) avrebbe dischiuso prospettive al momento non esattamente misurabili ma certo appetibili. Sicché Ciano poteva così concludere questa parte del suo rap­ porto: «L’opera di ricognizione che l’A.M.M.I. si appresta a compiere richiederà lo stanziamento di un contributo, nell’or­ dine di qualche centinaio di migliaia di lire: senza indulgere in eccessivi ottimismi, le esperienze recenti lasciano ritenere che saranno somme molto utilmente impiegate». Seguiva la parte più propriamente politico-propositiva delle riflessioni eli Ciano. Sicuro sembra cne le nozze di Zogu con la contessina magiara misero in apprensione Ciano, nel senso che si acuì in lui il sospetto di una possibile estensione dell’influenza austro-tedesca sull’Albania: «Non conviene di­ menticare che i magiari sono stati molto spesso l’avanguardia del Germanesimo e che il Reich non mostra affatto di disinte­ ressarsi dell’Albania». E in questo bisognava sicuramente indi­ viduare uno, se non il principale, ostacolo alla «nostra penetrazione in Albania». L’Italia poteva contare per il momento sul favore di Zogu, posto che fosse vero ciò che Ciano afferma, ossia che anche nell’ultimo colloquio avuto con lui il re lo aveva invita­ to «a considerare il problema albanese come una questione in­ terna italiana», incitamento del quale Ciano non sembrava proprio avere bisogno. «E evidente - era il succo politico del discorso di Ciano - che il determinarsi di una influenza tede­ sca in Albania avrebbe ripercussioni molto profonde nei Balcani; mentre invece una affermazione italiana, possibil­ mente di carattere definitivo e totalitario, varrebbe a contro­ bilanciare nei confronti del mondo balcanico l’innegabile au­ mento di peso acquistato colà dal Reich in seguito alla realiz­ zazione dell 'Anschluss». Più retorico evidentemente era, e non poteva non essere, il richiamo alla tradizione secolare o millenaria dei rapporti e in un certo senso ai diritti “storici” dell’Italia sull’Albania:

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    L’Albania, che ci appartenne ogni qual volta nella storia cer­ cammo e trovammo nei Balcani la naturale via della nostra espansio­ ne, che anche in tempi recenti mentre è stata riconosciuta dagli stra­ nieri al nostro diritto fu abbandonata dalla viltà dei governanti, è sta­ ta in sedici anni di politica mussoliniana nuovamente congiunta all’Italia da legami di grande entità. Auspicando che i più intraprendenti «figli dell’Albania» potessero trovare sotto l’Italia le stesse possibilità di ascesa che avevano trovato sotto il dominio turco, Ciano contava sulle aspettative che l’Italia avrebbe potuto suscitare: «Lasciar spe­ rare un ritorno a possibilità analoghe nell’ambito dell’Impero di Roma sarebbe molto lusinghiero - e mi è stato apertamente detto - per la parte migliore della gioventù albanese. Gli altri non contano. Ò contano molto meno». Ciano si prospettava sin d’ora le alternative per legare sempre più irreversibilmente l’Albania all’Italia. La prima via, quella in atto, consisteva nel vincolare sem­ pre di più economicamente l’Albania all’Italia, sì da rendere ineludibili anche i vincoli politici. La seconda consisteva in una spartizione concordata con Grecia e Jugoslavia: a ciascuna un pezzo d’Albania. La prospettiva di poter realizzare una simile soluzione anche a costo di «qualche colpo di mitragliatrice» non scoraggiava Ciano, che si era già reso conto anche della possibilità di ca­ lare dall’alto «fulmineamente», portando sul suolo albanese «reparti forniti d’armi automatiche, di cui gli albanesi sono privi o quasi». Forse l’inconveniente principale di una simile soluzione era che essa presupponeva l’accordo con la Jugoslavia: «L’intesa, o meglio la complicità della Jugoslavia, è condizione necessaria e sufficiente». La terza via, ossia l’unione personale dell’Albania all’Italia, sembrava quella da privilegiare. Si trattava di sfrutta­ re il dissenso tra corte e popolo: far scoppiare la crisi e pilota­ re movimenti di piazza. «Dal partito italofilo, che già esiste e che nel frattempo dovrebbe essere convenientemente poten­ ziato, far avanzare ed accogliere una richiesta di intervento per ristabilire l’ordine. Quindi indurli ad offrirci formalmente la Corona d’Albania, accettarla e convalidare l’accaduto attraver­ so un plebiscito o qualche cosa di simile. Una procedura sul ti­ po di quella dell 'Anschluss». Naturalmente anche una proce­ dura come questa era possibile a patto di avere, se non la com­ plicità, almeno la non ostilità della parte jugoslava (alla quale comunque si sarebbero dovuti riconoscere i diritti sul Kosovo), ciò che contribuisce a chiarire non soltanto le moda­ lità che furono seguite nell’occupazione del 1939 ma anche le 406

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    ragioni d i fondo del cauto avvicinamento tra Italia e Jugoslavia con l’appoggio sostanziale di Stojadinovic. Ciano aveva già in mente un vero e proprio piano d’a­ zione di operatività immediata. Anzitutto, aveva imparato qualcosa dalla lezione dell’Etiopia, tanto che per prima cosa suggerì di sollecitare l’uscita dell’Albania dalla Società delle Nazioni per evitare un altro inutile fastidio. «Il non apparte­ nere più l’Albania alla Società delle Nazioni impedirebbe a quest’ultima di ingerirsi nella questione quando la crisi d o­ vesse determinarsi». La seconda misura concreta poteva essere quella di non accogliere le richieste di Zogu per l’ammodernamento delle forze armate albanesi, del resto di fatto inesistenti. «Converrebbe invece accrescere discretamente il numero degli ufficiali italiani in servizio presso l’esercito albanese con la mis­ sione specifica di crearvi cellule annessioniste». Una terza misura poteva consistere nel consolidare gli in­ teressi italiani, che voleva dire contemporaneamente aumenta­ re il numero degli italiani residenti in Albania e quello degli al­ banesi dipendenti dagli italiani. «Costituire dei nuovi nuclei di interessi italiani sul tipo di quelli esistenti a Devoli per i petro­ li e nella piana di Durazzo per la concessione dell’E.I. A.À.». Si trattava probabilmente della misura più facile da praticare ma anche, su tempi non lunghi, di maggiore utilità per l’iniziativa italiana. La quarta via di penetrazione era rappresentata dall’ope­ ra spicciola di acquisizione di consenso presso un numero più largo possibile di albanesi, senza risparmio di mezzi, «con ac­ corta opera personale di cointeressamento, di promesse e di corruzione». Attivare le leve dell’influenza spicciola, come suggeriva Ciano con il consueto cinismo, in modo da distri­ buire a pioggia le briciole dell’assistenzialismo italiano già al­ l’opera con il Dopolavoro fascista, e attivare inoltre ogni altra possibile leva a cominciare da quella sportiva, così da inco­ minciare a fare respirare in Albania aria d’Italia, da fare «ap­ parire l’Albania quale facente parte del sistema nazionale»47. Al di là di ogni altra considerazione, stupisce la costante nel metodo di conquista di Ciano, la costante nell’uso di certe leve: viene da pensare infatti ai suggerimenti che il luogote­ nente del re avrebbe dato a Ciano due anni e mezzi dopo per conquistare la Grecia spargendo la corruzione fra i notabili del

    47 Testo dell’importante documento in R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 333-345.

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    paese. Del resto, il futuro luogotenente altri non era che il di­ plomatico che dal 1936 rappresentava l’Italia in Albania e che era stato insediato da Ciano allo scopo di minare l’indipen­ denza del minuscolo stato: Francesco Jacomoni di San Savino, autore di uno dei più mistificatori libri di memorie scritti da esponenti del regime fascista48. Come era prevedibile Mussolini si orientò, nella gamma delle possibilità prospettate da Ciano, su quella dell’unione “personale”. Con attenzione da una parte alle spinte della Germania e dall’altra alle reazioni della Jugoslavia, alla quale bisognava concedere qualcosa per rassicurarla soprattutto al confine con l’Albania, Mussolini imboccò decisamente la stra­ da della realizzazione dell’annessione. Il 30 aprile 1938, di ri­ torno dall’Albania, Ciano annotava il consenso di Mussolini in termini, ancora una volta, fuor di misura: «Pur di avere l’Albania è pronto anche a fare una guerra»49. Il 10 maggio Mussolini diede il suo assenso alle linee operative suggerite da Ciano e si prospettò un anno di tempo per arrivare alla con­ quista e completare la preparazione diplomatica e interna all’Albania necessaria per parare in partenza le prevedibili reazioni internazionali. Mussolini non poteva non prevedere reazioni ostili da parte di Francia e Inghilterra, con la quale ultima erano stati fra l’altro appena conclusi gli accorai di Pasqua che sarebbero risultati violati appunto dall’occupazio­ ne italiana in Albania; contemporaneamente, l’accelerazione della soluzione per l’Albania spingeva ad accelerare anche l’alleanza con la Germania. Quanto alla Jugoslavia, la sua po­ sizione era un’ulteriore ragione che spingeva all’accordo con la Germania: «La Jugoslavia, separata dalle sue amicizie occi­ dentali e orientali, stretta tra l'Italia e la Germania dovrà ab­ bozzare e adottare l’atteggiamento che noi abbiamo adottato di fronte AY Anschluss» 50. Dal punto di vista della penetrazione all’interno dell’Albania e della ricerca di consenso più o m eno clientelare Ciano non restò inerte: chiese l’aiuto del fido Jacom oni e si reoccupò di suggerire l’attivazione di tutte le leve dell’inuenza italiana, dalla beneficenza alla costruzione di opere pubbliche, dalle manifestazioni sportive a quelle dopolavori­ stiche. Nelle sue memorie Jacomoni attesta il suo stupore nei

    S

    48 Francesco Jacomoni di San Savino, La politica dell’Italia in Albania, Bologna, Cappelli, 1965. 49 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 30 aprile 1938. 50 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 10 maggio 1938.

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    confronti della linea annessionista di Ciano, ma non spiega che cosa fece per riportare le relazioni con l’Albania al livello del­ la «collaborazione fra stati indipendenti e sovrani», della qua­ le si proclama sostenitore51. Dal Diario di Ciano appare fauto­ re di «una soluzione intermedia», che significava svuotare del tutto l’indipendenza albanese senza ricorrere necessariamente alla forza delle armi e senza escludere la permanenza del re, pur «assoggettandolo a noi sempre più». Ciano, dal canto suo, non mancava di offrire neppure in questa occasione una visio­ ne fumettistica della situazione: «Tra le varie richieste del Re, è importante quella diretta ad ottenere un panfilo. Conviene darglielo ed armarlo con equipaggio italiano. Ciò garantisce la possibilità di fuga in qualsiasi eventualità»52. Il 14 giugno Ciano registrava T’invio in Albania di 5.000 quintali di granone per alleviare la carestia: «Questi sono i doni cui il popolo è maggiormente sensibile». Il giorno dopo Mussolini predispo­ neva l’invio in Albania del senatore Natale Prampolini, tecni­ co provato, per lo studio di un piano di bonifiche. La corte di Ciano era una vera corte dei miracolò anche Prampolini ab­ bracciò con letizia la causa albanese: «E entusiasta e dinamico come un ragazzo di venti anni» (Diario, 28 giugno). Nel frat­ tempo, continuavano le prese di contatto anche con i vertici militari per la preparazione dell’impresa. Naturalmente, era inevitabile che anche in Albania circolasse sentore delle inten­ zioni italiane: una ragione di più per rassicurare gli albanesi che l’Italia voleva lo status quo nell’Adriatico (13 luglio), men­ tre, avvicinandosi la crisi sudeta al suo apice, Ciano tornava a rassicurare anche il ministro di Jugoslavia a Roma per smenti­ re le voci di una imminente occupazione dell’Albania (26 set­ tembre 1938). All’indomani di Monaco ad un emissario del re - que­ st’ultimo doveva avere avuto sentore che si avvicinava l’ora della fine e sembrava non chiedere altro che di essere lasciato sul trono anche solo pro forma - Ciano rispose in modo tran­ quillizzante, ma contemporaneamente annotava: «Bisogna far presto, con questa Albania». D ’altronde era rincuorato nelle sue smanie di conquista dai calcoli ottimistici del senatore Prampolini: «Giudica le terre litoranee molto superiori alle no­ stre, e, senza esagerati ottimismi, pensa che dalla sola zona di bonifica potremo portare in Italia due milioni di quintali di

    51 F. Jacomoni di San Savino, La politica dell’Italia in Albania, cit., p. 86. ’ 2 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 13 giugno 1938.

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    grano» (Diario, 13 ottobre). Ma nel 1939, in base ai dati stati­ stici, l’intera Albania ne aveva prodotto poco più di un milio­ ne e duecentomila quintali: altro che esportarne due milioni in Italia! Nel Diario di Ciano gli ultimi tre mesi del 1938 sono con­ trassegnati da una sorta di gara con il tempo: si avvertono sem­ pre più le «inquietudini albanesi» e si moltiplica lo sforzo di accelerare l’intervento sulle bonifiche concentrandole a scopo propagandistico-psicologico nella zona di Durazzo, uno dei punti di sbarco previsti, per calmare gli animi degli albanesi e inorgoglire quelli degli italiani: «Anche dal punto di vista psi­ cologico, è utile che coloro che scendono in Albania, soldati e civili, abbiano la sensazione di trovarsi in una terra sana e fe­ conda e non in un acquitrino desolato. Un’impressione mi­ gliore avrebbe forse cambiato la nostra storia del 1920 e ci sa­ remmo impegnati più a fondo»53. La preparazione dell’opera­ zione Albania non dovette essere un’occupazione secondaria nei mesi della crisi europea. Ciano, spinto anche da Mussolini ad accelerare i tempi, non sembrava rendersi conto delle re­ sponsabilità che si assumeva contribuendo a dar fuoco alle polveri: incitò la Jugoslavia a saltare addosso alla Grecia per prendersi Salonicco (24 novembre), mentre fantasticava di fa­ re uccidere da sicari prezzolati re Zogu (al prezzo allora di die­ ci milioni di lire), suscitare moti di piazza, far convergere su Tirana bande assoldate dall’Italia, far invocare l ’intervento dell’Italia, offrire la corona a Vittorio Emanuele III e procede­ re infine all’annessione. Un piano, scrive Ciano (27 ottobre), di cui Jacomoni garantiva la rapida attuazione «con un mese di preavviso». A detta di Jacomoni il progetto di uccidere il re rientrò, mentre fu seguito l’obiettivo di raggiungere con lui un accordo. Ma ciò che Jacomoni non dice è che, se la via scelta era quella indolore, l’obiettivo era sempre lo stesso: liquidare il re e con lui la sovranità dell’Albania. Jacomoni non dice nep­ pure che si trovava a fare da cerniera tra il capo di una fazione ribelle, Jak Koci, già uomo di fiducia del sovrano che doveva agire direttamente contro il re, e la legazione italiana. All’alba del 1939 la manovra per la conquista del­ l’Albania era ormai in movimento. Sebbene non si trattasse più di uccidere il re, l ’eversione interna guidata dall’esterno seguì più o meno le linee indicate nel Diario di Ciano. Le vere incognite non potevano essere le reazioni interne albanesi, es­

    53 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 19 ottobre 1938.

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    sendo inconsistenti le possibilità di resistenza del governo al­ banese a un colpo di forza, ma soltanto l’atteggiamento delle otenze e degli stati limitrofi, a cominciare dalla Jugoslavia, ’idea di rendere quest’ultima compartecipe della conquista spingendola su Salonicco si era fatta strada sempre più impe­ riosamente; ma all’inizio di febbraio le dimissioni di Stojadinovic, imposte dal reggente di Jugoslavia, riaprirono l’interrogativo sul comportamento che avrebbe potuto seguire Belgrado. Il 6 febbraio Mussolini aderì alla linea di Ciano: «Accelerare i tempi». Partirono i primi ordini di mobilitazio­ ne. Nelle sue memorie Jacomoni finge di non sapere quale era l’obiettivo delle istruzioni di Ciano, come se si trattasse del­ l’innocua offerta di un nuovo accordo tra Italia e Albania. Ma il 16 febbraio Ciano fu quanto mai esplicito, confermando la tattica della seppia («intorbidare l’ambiente») già raccoman­ data pochi giorni prima. Riferiva infatti che Mussolini «con­ ferma le istruzioni che io avevo già inviate tre giorni fa a Jacomoni e che si riassumono così: mantenere viva Pagitazione popolare ma non mancare di placare i dubbi di Zog dandogli tutte le assicurazioni che desidera. Intorbidare le acque in mo­ do da impedire che le nostre vere intenzioni siano conosciu­ te» 54. A metà marzo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia mise in movimento l’accelerazione finale. Constatando che «l’Asse funziona solo in favore di una delle parti», Ciano con­ vinse un Mussolini riluttante («Mi sembra un pò meno deciso per l’operazione albanese») che l’unica reazione possibile era gettarsi sull’Albania.

    E

    È inutile nasconderci che tutto ciò preoccupa e umilia il popo­ lo italiano. Bisogna dargli una soddisfazione e un compenso: l’Albania. Ne parlo al Duce cui dico anche la mia convinzione che oggi non troveremmo né ostacoli locali né serie complicazioni inter­ nazionali per intralciare la nostra marcia. Mi autorizza a telegrafare a Jacomoni di preparare movimenti locali e personalmente ordina alla Marina di tener pronta la seconda squadra a Taranto55. Ma il giorno 16 l’incertezza di Mussolini persiste nel ti­ more di ripercussioni internazionali dai contorni per nulla chiari (Ciano: «Do ordini a Jacomoni di fermare tutto»). L’altalena delle sensazioni e delle decisioni dura pochi giorni. Del resto, Jacomoni era stato in grado di far pervenire a Roma

    54 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 16 febbraio 1939. 55 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 15 marzo 1939.

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    segnali di semicapitolazione da parte di re Zogu, che forse pen­ sava di salvarsi accettando uno sbarco simbolico di forze ita­ liane. Ma in quello stesso 23 marzo Mussolini diede l’accelera­ zione finale alla vicenda albanese. Secondo la versione di Ciano, lo stesso Mussolini redasse un progetto di accordo da sottoporre a Zogu, «brevissimo, di tre secchi articoli, che ha molto più l’aspetto di un decreto che di un patto internazio­ nale». A questo Ciano preferì elaborare un testo, con la colla­ borazione del fido Vitetti, che «salvando le forme ci consente una effettiva annessione dell’Albania»: •

    Il Duce lo approva. O Zog accetta le condizioni che noi gli fac­ ciamo, oppure occuperemo il paese con le armi. A tal fine stiamo già mobilitando e concentrando in Puglia quattro reggimenti di bersa­ glieri, una divisione di fanteria, reparti aerei e tutta la prima squa­ dra56. Secondo il testo che ne ha pubblicato Jacomoni il pro­ getto Ciano, che constava di otto articoli, formalmente assicu­ rava l’integrità e l’indipendenza dell’Albania, ma quest’ultima, attribuendo di fatto all’Italia la discrezionalità di usare qual­ siasi mezzo per proteggerla, compreso l’uso di porti, aeropor­ ti e vie di comunicazione, finiva per consegnarsi nelle mani dell’Italia. Come se ciò non bastasse, anche l’organizzazione economico-amministrativa interna dello stato albanese era ri­ messa nelle mani dell’Italia, che avrebbe nominato in ogni mi­ nistero un segretario generale a latere del titolare albanese. Un’unione doganale e monetaria avrebbe assicurato di fatto anche la fusione economica tra i due paesi57. Che cosa pensasse effettivamente re Zogu e quali possi­ bilità avesse di decidere autonomamente e soprattutto in mo­ do non conforme alla proposta di Ciano non è possibile dire. Gabellare quel testo come un patto di alleanza, come vorreb­ be Jacomoni, è quanto meno arduo: era un semplice patto di sottomissione. A Roma Ciano annotava: Sembra che il Re ciurli nel manico. Risponde di sì e poi fa dire di no dai suoi ministri. Comunque ormai la macchina è in moto e non può più arrestarsi: o la cosa sarà fatta con Zog oppure sarà fatta con­ tro eli lui. Per molte ragioni - avanti tutte quella di non essere noi ita­

    56 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 23 marzo 1939. 57 F. Jacomoni di San Savino, La politica dell’Italia in Albania cit pp. 102-103.

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    liani coloro che sparano i cannoni per primi in Europa - preferirei la prima soluzione. Ma se Zog non cede, bisogna ricorrere alle armi e ricorrervi con ogni decisione58. A questo punto non era più questione di trattative; qual­ siasi pezzo di carta fosse stato redatto, si sarebbe trattato sem­ pre di un ultimatum, che per l’Italia poteva avere l’unico si­ gnificato di esibire un qualche testo manipolato a copertura di una richiesta di intervento. In ogni caso non vi erano due par­ ti contraenti. Tutto era stato predisposto affinché, se il re non avesse ceduto e non se ne fosse andato con le buone maniere, Ciano potesse attivare la sovversione interna e la pressione mi­ litare (con la minaccia di pesanti bombardamenti aerei). In un ultimo colloquio con re Zogu la mattina del 6 aprile Jacomoni ebbe la sfrontatezza di esprimersi in questi termini: «Agitatori hanno voluto far credere che l’Italia si proponesse di soppri­ mere la sovranità albanese. L’accordo proposto non contiene nulla che possa far pensare a questo pericolo»59. Re Zogu non si lasciò piegare ad accettare raccordo; nell’impossibilità di re­ sistere e senza alcuna prospettiva di poter rompere l’isolamen­ to internazionale si apprestò a lasciare il paese con la consorte Geraldina e l’erede al trono nato due giorni prima e di fatto già detronizzato. All’alba del 7 aprile ebbe inizio lo sbarco a Durazzo, l’8 aprile il ministro aviatore atterrava a Tirana, come si conveniva all’artefice di tutta l’impresa. Ciano fu l’ideatore anche della soluzione inventata per formalizzare l’annessione dell’Albania all’Italia. All’idea di Mussolini di istituire una reggenza contrappose infatti una so­ luzione più articolata, destinata anche ad uso esterno, per sal­ vare la forma con la parvenza di una partecipazione albanese: creare un governo albanese amico, fare promuovere un’assem­ blea costituente di amici albanesi dell’Italia, da riunire il 12 aprile, che offrisse la corona d’Albania a Vittorio Emanuele III. A capo del nuovo governo albanese fu posto Stefket Verlaci, ex presidente del Consiglio; il 12 aprile un’assemblea costituente, composta di notabili fra i quali un numero sproporzionato di ecclesiastici cattolici e di aristocratici, offrì la corona di Albania, che in altra epoca era stata il simbolo dell’indipendenza alba­ nese, a Vittorio Emanuele III, secondo la vofontà di Ciano.

    58 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 28 marzo 1939. 59 E Jacomoni di San Savino, La politica d ell’Italia in Albania, cit., p. 116.

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    Contro le resistenze di quegli albanesi che avrebbero accettato un principe di casa Savoia, ma non il re d’Italia, impose la fin­ zione dell’unanimità a favore di Vittorio Emanuele III. La mes­ sa in scena del compimento dell’«unione personale» si verificò a Roma, in Palazzo Reale, il 16 aprile. Fu un atto di sottomis­ sione che suggellò la fine dell’indipendenza albanese 60. Riprenderemo più avanti il discorso sulle reazioni inter­ nazionali alla conquista dell’Albania. Vorremmo intanto chiu­ dere questo paragrafo con un cenno al tipo di amministrazio­ ne che l’Italia instaurò in Albania, particolare non secondario per stabilire anche i caratteri dell’unione dell’Albania all’Italia. La pubblicistica politico-giuridica fascista dell’epoca si è stu­ diata di definire la natura del legame che venne a crearsi tra l’Albania e l’Italia. Al di là della semplice unione personale, la stessa pubblicistica fascista riconosce il carattere reale dell’u­ nione che si verificò, data la comunanza che fu stabilita di ser­ vizi unici per attività statuali di importanza fondamentale, eu­ femismo per non parlare di “annessione”. La posizione dell’Albania nella Comunità imperiale di Roma veniva comun­ que fatta discendere, in questa pubblicistica giuridica, da una sorta di diritto storico dell’Italia (per parafrasare parole di Mussolini), in base al quale l’unione dell’Albania all’Italia si configurava come il coronamento naturale di un rapporto ma­ turato sin dall’antichità61. Altrettanto mistificatoria, ma forse più trasparente nella definizione dell’impari rapporto, si può considerare, fra le altre proposte, la formula aella Comunità gerarchica imperiale di tipo fascista avanzata da altri con au­ tentico zelo dottrinale62. Nei fatti è bene attenersi alla realtà. La regia degli affa­ ri albanesi non era a Tirana ma a Roma. Le prerogative reali furono esercitate per il tramite del luogotenente in Albania, individuato nella persona di Jacomoni; il 18 aprile fu istitui­ to il sottosegretariato degli Affari albanesi, che faceva capò al ministero degli Esteri, un pendant del ministero per l’Africa

    60 Questa ricostruzione si basa fra l’altro sulle memorie più volte ci­ tate di F. Jacomoni, che al cap. Vili recano il titolo mistificante L’Albania sceglie la sua via [sic], e sul Diario di Ciano, oltre che sui resoconti della stampa. 61 E questa l’impostazione che al problema dà una parte dei costitu­ zionalisti fascisti qui esemplata da Gaspare Ambrosini, L’Albania nella co­ munità imperiale ai Roma, Roma, Incf, 1940. 62 E il caso di Guido Lucatello, La natura giuridica dell’unione italoalbanese, Padova, Cedam, 1943.

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    italiana. L’affermazione della reciproca parità dei diritti civili e politici fra cittadini italiani e albanesi non istituì alcuna rea­ le parità, servì solo a coprire, con la nomina di alcuni albane­ si filoitaliani in organismi ufficiali italiani, la situazione di reale sudditanza nella quale erano posti gli albanesi. L’unione economico-doganale consegnava l’Albania allo sfruttamento indiscriminato da parte dell’Italia. Le forze armate albanesi furono fuse con quelle italiane, ovvero, come sarebbe più corretto dire, furono incorporate in quelle del regno d’Italia. Lo statuto elargito da Vittorio Emanuele al popolo albanese il 3 giugno 1939 non fece che ribadire la condizione di sud­ ditanza: lo pseudoparlamento consentito dallo statuto fu esemplato sul modello delle istituzioni fasciste e denominato Consiglio superiore fascista-corporativo. Alla stessa data del 3 giugno scomparve il ministero degli Esteri albanese, incor­ porato in quello italiano. Infine, presso i dicasteri albanesi fu­ rono insediati consiglieri permanenti italiani, che divennero i veri titolari dell’iniziativa politico-amministrativa. La creazio­ ne del Partito fascista albanese, come «filiazione del Partito nazionale fascista» e la creazione del Consiglio centrale del­ l’economia corporativa completarono l’opera di fascistizza­ zione politico-istituzionale e al tempo stesso di distruzione di ogni residuo frammento della sovranità albanese. Il sogno di Ciano di fare dell’Albania la «più ricca regione d’Italia» {Diario, 19 agosto 1939) è la sintesi migliore del miscuglio di megalomania e di dilettantismo che presiedette a tutta l’ope­ razione.

    LE REAZIONI INTERNAZIONALI

    L’invasione dell’Albania era avvenuta con copertura diploma­ tica relativamente scarsa. Ciano aveva tacitato le preoccupa­ zioni espresse dal ministro di Jugoslavia63; non aveva chiesto appoggio neppure alla Germania, della quale erano noti inte­ ressi nei confronti del petrolio albanese: ma all’ambasciatore von Mackensen, proprio alla vigilia dell’operazione, sottolineò che l’Albania era area di influenza italiana, senza tuttavia rive­

    63

    D 29 marzo Ciano aveva ricevuto il rappresentante diplomatico ju­

    g o sla v o Bochko Christie: «Non ha opposto obiezioni: a condizione che

    FAlbania non abbia una funzione antijugoslava», come annotava nel Diario d o p o l’incontro. Il 6 aprile tornò a ricevere Christie, il quale chiese «che co­

    munque venga formalmente salvata l’esistenza dello stato albanese».

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    lare l’imminenza dell’occupazione64. N é nell’incontro di Innsbruck del 5 e 6 aprile tra i capi di stato maggiore il gene­ rale Alberto Pariani ne fece cenno al generale Wilhelm Keitel, così come quest’ultimo nulla rivelò dei piani tedeschi contro là Polonia65. Restava soprattutto il versante franco-britannico. L’Italia era convinta che nessuno si sarebbe preoccupato dell’Albania. Il commento con il quale già il 16 marzo, nel­ l’ambito della diplomazia britannica, era stata accolta la voce di passi italiani contro l’Albania fotografa in maniera abba­ stanza corretta ed efficace la situazione che si stava profilando: in assenza di passi della Germania e della Jugoslavia «l’Italia poteva sopraffare l’Albania con la stessa facilità con .cui la Germania ha sopraffatto la Cecoslovacchia e se il Signor Mussolini vuole gloria a buon mercato la troverà più facilmen­ te in Albania che grazie alle sue sfrenate pretese contro la Francia» 66. Il 4 aprile l’ambasciatore a Roma lord Perth reiterò a Ciano la preoccupazione per un imminente intervento in Albania, «esprimendo la speranza che le voci che circolavano non corrispondessero a verità poiché non vi poteva essere “nulla che potesse recar maggior danno alle relazioni anglo-ita­ liane di un colpo di mano diretto contro quel paese”, membro della Società delle Nazioni, senza poi contare che una modifi­ ca dello status albanese costituiva una violazione dell’accordo anglo-italiano»67. Ciano non si lasciò certo intimidire da rimo­ stranze di questo tipo. Aveva già pronta la risposta che era sta­ ta fabbricata apposta per coprire il corso degli eventi messo in movimento da Roma: era stato Zogu a chiedere l’intervento di forze italiane sin dal 20 marzo e da Zogu veniva la richiesta di consolidare l’alleanza con l’Italia in vista di non ben precisate minacce alla pace nei Balcani. Il patto nella nuova versione

    64 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. 1, 2 aprile 1939; maggiori par­ ticolari fornì l’ambasciatore von Mackensen nel suo rapporto del 4 aprile a Berlino, A D A P , D, Bd. VI, n. 150. Il 5 aprile Ciano annotava con soddisfa­ zione: «Ribbentrop ha comunicato ad Attolico che Berlino vede con simpa­ tia la nostra azione a Tirana poiché ogni vittoria dell’Italia è un rafforza­ mento della potenza dell’Asse»; un punto di vista che lo stesso Ribbentrop confermò all’ambasciata a Roma in data 5 aprile, in A D A P , D, Bd. VI, n. 158. 65 Mario Toscano, L e origini diplomatiche del patto d ’acciaio Firenze Sansoni, 1956, pp. 204-222. 66 Cit. in D. Bolech Cecchi, N on bruciare i p o n ti con Roma cit nn 238-239. ’ ,P P ' 67 D. Bolech Cecchi, N on bruciare i p o n ti con Roma, cit., p. 241

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    presentata dall’Italia non intaccava la sovranità e l’indipenden­ za dell’Albania, ma era necessario sorvegliare la situazione da­ to che il re si muoveva con ambiguità e che si stavano diffon­ dendo manifestazioni contro l’Italia. Ad un successivo comu­ nicato dell’agenzia Reuter, nel quale si riferiva la preoccupa­ zione del governo britannico per l’eventuale violazione dello status quo mediterraneo, il rappresentante italiano a Londra Guido Crolla replicò - benché il comunicato non costituisse una fonte ufficiale - protestando presso il Foreign Office che l’Albania era un interesse esclusivamente italiano68, quasi si trattasse addirittura di un problema di politica interna dell’Italia. Nonostante la flebile reazione britannica era chiaro che soltanto da quella parte l’Italia poteva temere mosse che ne in­ tralciassero l’azione, ormai non più revocabile dopo gli sbar­ chi, iniziati nella prima mattinata del 7 aprile, che smentivano le assicurazioni date in precedenza dall’Italia e quelle che l’Italia continuava a fornire nel corso della spedizione militare. Mussolini in persona intervenne suggerendo a Londra gli ar­ gomenti da divulgare per ottenere reazioni positive o quanto meno moderate da stampa e politici. Tra questi in primo luo­ go «la preminenza degli interessi italiani in Albania, universal­ mente riconosciuti», u tradimento del re concretatosi con la sua fuga, il fatto che non vi era «nessuna lesione degli accordi italo-britannici dell’aprile, perché non v’è toccato alcun inte­ resse britannico» 69. Si può leggere l’intervento diretto di Mussolini come ri­ prova che l’unica interferenza esterna di cui egli poteva avere timore era per l’appunto quella della Gran Bretagna. Mussolini sapeva benissimo che, se la Gran Bretagna non pro­ testava come avrebbe dovuto e potuto fare, non era perché l’Albania non era coperta dal patto anglo-italiano, sebbene la Gran Bretagna avesse sempre riconosciuto la preminenza del­ l’interesse italiano in Albania già oggetto della conferenza de­ gli ambasciatori del 1921, ma dipendeva da valutazioni strettamente legate alla situazione internazionale di quell’aprile 1939. Nella stessa misura in cui l’Italia giocava d’azzardo fingendo di essere coperta nella sua iniziativa dal patto con l’Inghilterra, quest’ultima non intendeva muoversi, nella segreta speranza

    68 D. Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., pp. 242-243. 69 D . Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., p. 249, nota 55.

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    che l’accondiscendenza all’operazione albanese potesse indur. re l’Italia a riprendere il negoziato con la Francia. La Francia da parte sua sembrava volere ribaltare sulla Gran Bretagna la responsabilità di dover dare una risposta all’Italia, avendo quest’ultima trasgredito agli accordi anglo-italiani (di «sfida all’Inghilterra» parla ancora nelle sue memorie Bonnet) ?o; n£ si escludeva che ne potesse risultare consolidata la posizione dell’Italia nella penisola balcanica a confronto del Reich 7h Non è escluso che i francesi volessero consolarsi della lo­ ro incapacità di reagire sperando che effettivamente l’Italia vo­ lesse opporsi al dilagare dell’influenza tedesca, come del resto emergeva a tratti dalle stesse intenzioni dei protagonisti italia­ ni. Ma quanto questa ipotesi era genuina convinzione francese e quanto volontà di credere a ciò che la propaganda e la di­ plomazia fascista volevano far credere? L’allora ambasciatore a Parigi Guariglia ricorda come sin dal 4 aprile fosse stato ri­ chiesto «di accreditare negli ambienti francesi la tesi che l’Italia era stata costretta ad occupare l’Albania unicamente per colpa della politica tedesca erte oramai tendeva palese­ mente verso l’Oriente balcanico. I francesi avrebbero dovuto riconoscere che in fin dei conti era, a peggio andare, loro inte­ resse che anche l’Italia fosse presente nei Balcani e che non vi si lasciasse penetrare soltanto la Germania». Una tesi, tuttavia - aggiunge Guariglia - , che avrebbe potuto essere sostenibile solo «se Roma si fosse mostrata disposta a svolgere, accanto al­ la sua politica tedesca anche un minimum di politica francese. Ma essa non era facilmente accreditabile nella completa assen­ za di quest’ultima, anzi nel continuo sforzo da parte nostra di portare al massimo la tensione dei rapporti tra l’Italia e la Francia» 12. N é sembra che in un primo momento la Francia, seppur sufficientemente avvertita dei preparativi che preludevano allo sbarco in Albania, si fosse realmente preoccupata del fatto che l’iniziativa italiana di prendere piede al di là dell’Adriatico an­ dava a toccare un punto fermo della politica balcanica della Francia stessa. E vero che 1'Anschluss austriaco e la distruzio­ ne della Cecoslovacchia avevano spazzato via il vecchio equili­ brio balcanico-danubiano così caro alla diplomazia francese,7012

    70 G. Bonnet, Fine d i u n ’Europa, cit., p. 103. 71 E in generale D. Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma cit., p. 250. 72 R. Guariglia, Ricordi, cit., pp. 388-389.

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    ffla che l’occupazione italiana dell’Albania rischiasse di dare il colpo di grazia definitivo alla politica di status quo nei Balcani doveva essere sufficientemente evidente. Allo stato attuale del­ la documentazione, l’ipotesi che maggiormente può rendere plausibile la relativa inerzia della diplomazia francese di fron­ te sia alle voci dell’imminente realizzazione dell’iniziativa ita­ liana, sia all’awenuta occupazione dell’Albania, è che la Francia fosse talmente preoccupata, alla luce della campagna di stampa e delle minacce, di una mossa dell’Italia direttamen­ te contro aree di sovranità francese, da vedere con sollievo il fatto che l’iniziativa italiana si scaricasse in tutt’altra direzione, preludendo forse alla sua concentrazione verso altri orizzonti. Ma debole fu anche la reazione della Gran Bretagna, sul­ la quale ricadde comunque il peso dell’iniziativa delle demo­ crazie occidentali anche come potenze mediterranee e che era costretta a dare una risposta all’Italia in quanto era direttamente coinvolta nella violazione del patto per il Mediterraneo. Mussolini non aveva sbagliato neU’impegnarsi a cercare di pla­ care a priori le preoccupazioni britanniche, aveva sbagliato semmai nel ritenere che fosse semplice fare accettare al gover­ no di Londra le assicurazioni italiane. Soprattutto, ad invasio­ ne avvenuta, non poteva non rendersi conto che, se fino a quel momento gli inglesi avevano mostrato di volerlo trattare in mo­ do diverso da Hitler, per convinzione o per convenienza, a questo punto nulla più impediva l’omologazione dei due ditta­ tori e nulla più poteva impedire alla Gran Bretagna di assume­ re una posizione più rigida anche nei confronti dell’Italia. La Gran Bretagna prospettò sicuramente l’ipotesi che obiettivo principale dell’iniziativa italiana fosse la ricerca di un maggiore equilibrio nel rapporto con la Germania, ma questo non escludeva che fossero violati rilevanti interessi britannici, non solo in relazione al patto mediterraneo, ma anche al rap­ porto diretto con altri paesi, anzitutto la Grecia, nei cui con­ fronti l’occupazione dell’Albania rappresentava una minaccia immediata. In fondo, la Gran Bretagna avrebbe potuto de­ nunciare gli accordi dell’aprile 1938; non è chiaro se l’iniziati­ va albanese di Mussolini scuotesse definitivamente la fiducia che Chamberlain aveva nonostante tutto riposto in lui, o se nel premier britannico prevalesse comunque l’interesse a compie­ re altri tentativi, o meglio ad attendere per vedere se l’ipotesi sempre più remota di separare Mussolini da Hitler fosse anco­ ra praticabile. Se infatti era vero che l’iniziativa italiana poteva essere interpretata come ricerca di una propria sfera di in­ fluenza e di sopravvivenza rispetto alla pressione tedesca, al­ trettanto vero era che l’Italia si era già legata in linea di princi­ 419

    CAPITOLO X

    pio alla Germania (e Monaco lo aveva confermato), pur se non esisteva ancora un’alleanza formale, e che soprattutto l’Italia non avrebbe potuto fronteggiare una eventuale reazione jj Francia e Gran Bretagna senza il sostegno della Germania. Chamberlain inoltre, quale che fosse la sua residua dose di ap­ peasement, non poteva trascurare il fatto che tra i suoi colla­ boratori circolava ormai l’opinione, quale quella che viene at­ tribuita a sir Alexander Cadogan, secondo la quale l’Albania era la «prova che Mussolini è un gangster come la Cecoslovacchia ha provato che lo è Hitler, e noi dobbiamo eri­ gere una barriera insieme alla Grecia e alla Turchia»73. In par­ ticolare il premier si trovava a dovere fare i conti con un irrigi­ dimento della posizione del responsabile degli Affari esteri lord Halifax e di quella parte dei conservatori facente capo a Churchill e a Eden che, oltre a vedere violate le promesse e gli impegni dell’Italia, sentivano sempre più vicina la possibilità di una minaccia alla posizione imperiale britannica nel Mediterraneo. Churchill, come ha illustrato nel primo volume della sua storia-autobiografia della seconda guerra mondiale, non cessò, a partire da questo momento, di incalzare Chamberlain. Il 9 aprile non esitò a chiedere l’immediata occupazione di Corfu per prevenire un’analoga prevedibile azione dell’Italia, nel quaclro di un’azione per controassicurare i paesi dell’Europa centro e sudorientale: Ciò che ora si trova in pericolo è, niente di meno, l’intera pe­ nisola balcanica. Se questi stati continueranno a subire la pressione tedesca e italiana mentre, a loro giudizio, noi siamo incapaci di in­ tervenire, si imporrà loro la necessità di venire a patti con Roma o con Berlino. Come ci troveremo isolati allora! Saremo compromessi nell’Europa orientale a causa dei nostri impegni verso la Polonia e nel medesimo tempo ci troveremo privi di ogni speranza di stringere quella grande alleanza che una volta conclusa potrebbe significare la salvezza. E pochi giorni dopo alla Camera dei Comuni, il 13 apri­ le, disse a chiare lettere che una settimana prima «se la nostra flotta riunita avesse incrociato nelle acque a sud del Mar Jonio, l’avventura albanese non sarebbe mai stata iniziata». Un chia­ ro invito a passare ormai non tanto dalla vigilanza quanto dal­ la passività nei confronti della sfida espansionistica dei dittato­

    73 D. Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., p. 256.

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    ri ad una vera e propria azione anche militare di contenimen­ to; ormai si respirava aria di guerra, era necessario mobilitarsi, affermava Churchill con accenti accorati ma in quel frangente anche troppo facilmente lungimiranti: Se aspiriamo a far ritrarre l’Europa dall’orlo dell’abisso, se vo­ gliamo ricondurla agli altipiani della legalità e della pace, dobbiamo offrire l’esempio, senza risparmiarci. Come potremo continuare a condurre la nostra comoda vita, qui in patria, evitando persino di pronunciare la parola “coercizione”, evitando persino di prendere Ue misure necessarie a reclutare ed equipaggiare gli eserciti che iamo promesso? Le acque nere e minacciose si alzano rapide da ogni lato: come possiamo continuare a esistere [...] senza fare appel­ lo aU’intera forza della nazione, riunita entro l’orbita deU’organizzazione governativa?74

    S

    Per prevenire o placare eventuali proteste e allarmi il go­ verno fascista non lesinò le menzogne. Ancora il 7 aprile Ciano verbalizzava il contenuto di un colloquio che nella notte aveva avuto con l’inviato jugoslavo nell’imminenza dello sbarco in Albania. Non solo aveva continuato a ripetere che l’Italia in­ tendeva salvaguardare l’integrità e l’indipendenza dell’Alba­ nia, ma anche che la presenza italiana sarebbe stata tempora­ nea, il tempo di ristabilire l’ordine nel paese75. A una settima­ na di distanza l’annessione di fatto e l’unificazione anche for­ male dell’Albania all’Italia avrebbero smentito in pieno qual­ siasi promessa sulla temporaneità dell’intervento italiano, co­ me era da prevedere e come qualsiasi attento osservatore non poteva non immaginare. C’era molta ipocrisia anche nell’ac­ quiescenza di molte cancellerie, che per far buon viso a cattiva sorte, nell’opinione che fosse preferibile subire un sopruso di Mussolini piuttosto che le sopraffazioni di Hitler, finsero di prendere per buone le assicurazioni italiane o la favola che l’Albania avesse rappresentato una minaccia per l’Italia ben sa­ pendo che erano in quel momento stesso smentite e contrad­ dette dai fatti. Non tanto la Francia, che con l’Italia non aveva nessun rapporto contrattuale, ma soprattutto la Gran Bretagna aveva bisogno di credere nella polvere che l’Italia le gettava ne­ gli occhi per non ricorrere alla denuncia degli accordi di

    74 Winston Churchill, La seconda guerra m ondiale, voi. I, Da guerra a guerra, Milano, Mondadori, 1948, pp. 385-387. 75 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. n, pp. 4749.

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    Pasqua. La soddisfazione espressa da Ciano per il timore che l’azione dell’Italia aveva suscitato nei suoi possibili critici e an­ tagonisti non era che l’ulteriore riprova della irresponsabilità con la quale i dirigenti fascisti si erano lanciati nell’avventura, sicuri afmeno sul breve momento di potere sfruttare l’incertez­ za e il disorientamento delle potenze76. Dopo la conclusione dell’tfer fissato da Ciano per completare il nuovo statuto dell’Albania nel quadro delTassoggettamento all’Italia non re­ stava più ombra di ambiguità sulle intenzioni dell’Italia e sul fatto che essa si era impadronita con un colpo di forza, mitiga­ to appena dal mancato spargimento di sangue, di un piccolo stato che già era stato posto sotto il suo protettorato. Taluno si interrogò persino sulle ragioni per le quali si era avvertito il bi­ sogno ai modificare la situazione consolidata esistente, non te­ nendo conto delle esigenze di esteriorità e di prestigio che ave­ vano motivato l’iniziativa di Ciano, a tacere dei problemi di equilibrio interno al regime e della spartizione di potere di cui l’affare albanese non era che una pedina. A conti fatti, tuttavia, si trattò di un risultato negativo per la politica italiana. N e risultò accelerata la conclusione delf’alleanza con la Germania che, lungi dall’offrire protezione all’Italia, ne ribadì la subalternità. Ma ne risultò irreparabil­ mente eroso il rapporto con Gran Bretagna e Francia, che non fecero nessun gesto clamoroso di rottura, ma che incomincia­ rono a prendere le distanze dall’Italia rafforzando le misure di garanzia contro altri eventuali colpi di mano nella penisola bal­ canica e nel Mediterraneo orientale. Il 13 aprile Chamberlain annunciava alla Camera dei Comuni la concessione della ga­ ranzia di aiuto alla Grecia in caso di minaccia da parte dell’Italia, con l’adesione della Francia. Così come aveva reagi­ to alla distruzione della Cecoslovacchia con la garanzia alla Polonia, la Gran Bretagna allargava la rete di protezione con­ tro le potenze dell’Asse estendendo anche alla Romania l’im­ pegno della garanzia e coinvolgendo nella sua azione diploma­ tica anche la Turchia, che non rientrò formalmente nell’area coperta dalla garanzia ma che fu indirettamente associata all’i­ niziativa promossa dal governo britannico. Lungi dal consoli­ dare la posizione dell’Italia, la conquista dell’Albania aveva dunque provocato un vero smottamento negli equilibri dell’a­ rea non solo mediterranea ma anche continentale. «Che l’azio­ ne di Mussolini contro l’Albania fosse stata concertata con

    76 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 9 aprile 1939.

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    Hitler o meno - ha scritto Donald C. Watt - , era comunque chiaro che doveva essere considerata come un potenziale at­ tentato alla pace»77. Per giunta, nessuno degli obiettivi anche economici che l’Italia si proponeva con lo sfruttamento dell’Albania poteva essere conseguito; non lo fu a breve scadenza e non lo sarebbe stato neppure negli anni successivi, fino al 1943, perché l’Albania divenne campo di battaglia di affaristi e di cosche di interessi di fazioni interne al Partito e al regime fascista. L’allarme che la conquista dell’Albania creò nei confronti del­ la politica dell’Italia indusse lo stesso presidente Roosevelt a inviare, il 15 aprile, un messaggio di monito a Hitler e a Mussolini e a sollecitare l’impegno decennale a rispettare l’in­ tegrità, di fatto, della totalità dei paesi europei e del Vicino Oriente. Stando alla versione di Ciano, Mussolini liquidò il messaggio con una sprezzante battuta, definendolo «frutto della paralisi progressiva»78.

    L’ALLEANZA IRREVOCABILE: IL PATTO D ’ACCIAIO

    L’ipotesi della conclusione di un patto di alleanza con la Germania, che avrebbe concretamente preso corpo nella pri­ mavera del 1939, aveva una storia lunga. Indipendentemente da essa e parallelamente all’intensificarsi dei rapporti politici un importante avvicinamento si era verificato nel campo cul­ turale e negli scambi economici, con particolare riguardo al­ l’invio di lavoratori italiani in Germania 79. Già all’epoca del­ l’adesione dell’Italia al Patto Anticomintern fu adombrata la possibilità di un’alleanza militare a tre. Il Diario di Ciano, fon­ te indispensabile anche per questo aspetto, alla data del 24 ot­ tobre 1937 registra che Ribbentrop, «in un colloquio avuto ie­ ri sera con lui, mi ha predicato la necessità di un’alleanza mili­ tare tra Roma-Berlino-Tokio, in previsione dell’inevitabile con­

    n Donald Cameron Watt, 1939. Come scoppiò la guerra, Milano, Leonardo, 1989, p. 280. 18 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 15 aprile 1939. 79 Sull’intesa culturale si veda lo studio di Jens Petersen, L'accordo cul­ turale fra l’Italia e la Germania del 23 novembre 1938, in Karl Dietrich Bracher, Leo Valiani (a cura di), Fascismo e nazionalsocialismo, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 331-387; per la questione dei lavoratori Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich n el perio­ do dell’A sse 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992.

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    flitto con le potenze occidentali». Vanno tenute presenti due circostanze fondamentali all’origine dell’alleanza: il fatto che essa partiva da un nejgoziato a tre, il quale soltanto nelle ultime settimane prima della firma trasformò definitivamente in al­ leanza a due i vincoli già assunti tra le potenze dell’Asse; e l’af­ fermazione ripetuta secondo cui nei fatti l’alleanza, al di là del­ la composizione dei rispettivi interessi e della loro convergen­ za, era fondata sulla solidarietà tra i due regimi, sulla loro affi­ nità o come spesso si disse (è l’espressione adoperata anche da Ciano) sulla loro identità. Già il Patto Anticomintern fu spesso interpretato come alleanza in nuce a tutti gli effetti e certamente Ciano ne valutò l’effetto dirompente, di alleanza planetaria, prima ancora che ne fossero formalizzati gli impegni. L’idea della trasformazione del patto anticomunista in alleanza militare accompagnò con alti e bassi, ma più con la propensione a realizzarla che con la tentazione di metterla a tacere, l’intero corso della politica fa­ scista, anche se la spinta alla formalizzazione dell’alleanza ven­ ne sempre dalla parte tedesca. L’interesse dell’Italia allora era strettamente legato alla collocazione della politica italiana do­ po la guerra d’Africa e nel contesto della guerra di Spagna, per cui non meraviglia che l’alleanza venisse vista essenzialmente come strumento per scardinare prioritariamente la potenza dell’Impero britannico. Ribbentrop, ormai ministro degli Esteri del Reich, risollevò il problema nel corso della visita di Hitler in Italia, nel maggio del 1938. Annotò allora Ciano: Ribbentrop ci ha offerto un patto di assistenza militare, pub­ blico o segreto, a nostra scelta. Io ho senz’altro espresso al Duce pa­ rere contrario, così come ho fatto ritardare la conclusione di un pat­ to di consultazione e di assistenza politica. Il Duce intende farlo. E lo faremo perché ha mille e una ragio­ ne di non fidarsi delle democrazie occidentali80. In attesa che la Società delle Nazioni desse il via libera al riconoscimento dell’impero, Ciano insistette per un rinvio del­ l’impegno, non per respingere l’offerta. Ma prima ancora del­ l’offerta di Ribbentrop lo stesso Ciano dichiarava di aver pre­ disposto «lo schema dell’eventuale trattato con la Germania», che trovò il consenso di Mussolini (1° maggio). Scopo dell’ini­ ziativa di Ciano era porre «le basi di un patto di reciproco ri­ spetto da proporre ai tedeschi [...] tale da dare un contenuto

    80 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., alla data del 5 maggio 1938.

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    all’Asse» (Diario, 30 aprile 1938). C’è da pensare che Ciano in­ tendesse tenere conto dell’awenuto Anschluss austriaco e dei problemi più generali (compresa la questione dell’Alto Adige) che questo comportava nei rapporti reciproci. Del progetto Ciano, distrutto da umidità, non sappiamo più nulla81. Ribbentrop tornò alla carica con l’idea del patto di assi­ stenza militare un paio di mesi dopo 82. Dagli appunti di Ciano risulta nuovamente il desiderio suo e di Mussolini di rinviare un impegno all’evoluzione dei rapporti con l’Inghilterra, ma anche di subordinarlo all’esigenza di dargli «una larga base di popolarità», quasi i due capi fascisti fossero consapevoli delle difficoltà che un’alleanza con la Germania poteva incontrare nell’opinione pubblica italiana. Anche allora, tuttavia, un eventuale patto sembrava sempre ancorato a un accordo trian­ golare con il Giappone. Il discorso tornava ad imporsi in ter­ mini più stringenti a conclusione dei colloqui di Monaco: il 30 settembre Ribbentrop presentava a Ciano il testo di «un pro­ getto di alleanza tripartita Italia, Germania, Giappone». Neppure allora l’Italia ebbe fretta, e si può capire: l’atteggia­ mento della Francia ma soprattutto dell’Inghilterra era appena da verificare; come sempre non mancava da parte italiana H de­ siderio di impegnarsi, si trattava solo di ritardare i tempi: «Lo studieremo con molta calma, e forse, l’accantoneremo per qualche tempo» annotò Ciano83. Il testo molto semplice e stringato di Ribbentrop84 si pre­ sentava essenzialmente come la traduzione in alleanza difensi­ va del Patto Anticomintern, che prevedeva l’impegno di soste­ nere quello o quelli tra gli stati contraenti che fossero oggetto di minaccia o di aggressione non provocata da parte di terzi. Gli accordi suppletivi allegati al patto vero e proprio prevede­ vano lo sviluppo di contatti e accordi anche di carattere mili­ tare per dare al patto concretezza operativa85. I tedeschi evidentemente volevano accelerare la conclu­ sione dell’accordo; prova ne fu il fatto che il 27 ottobre Ribbentrop si presentò a Roma latore di un messaggio di Hitler. Prima ancora di incontrare Ribbentrop, Ciano si vide consegnare dagli addetti militare e navale del Giappone un te­

    81 M . Toscano, L e origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., pp. 14 sg. 82 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 11 luglio 1938. 83 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 29-30 settembre 1938. 84 Pubblicato in M . Toscano, Le origini diplomatiche d el patto d ’ac­ ciaio, cit., pp. 37-38. 85 Testi in M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., p. 38.

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    sto della proposta di patto di alleanza a tre che definì identico a quello che gli era già stato trasmesso da Ribbentrop ma che, come è stato giustamente rilevato da Toscano, proprio identi­ co non era, contenendo obbligazioni in più rispetto a quelle previste da Ribbentrop e risultando nel complesso ancora più impegnativo 86: Ciano insisteva però nel volerlo congelare per­ ché era in attesa della decisione inglese (che sarebbe arrivata in novembre) di dare vigore agli accordi di Pasqua. Ciano e Mussolini erano pertanto sempre dell’idea di procrastinare ogni decisione: «Noi dobbiamo tenere le due porte aperte. L’alleanza oggi ne chiuderebbe, forse per sempre, una e non la meno importante» 87. In realtà, il colloquio con Ribbentrop del 28 ottobre non fu risolutivo tanto ai fini della concretizzazione dell’alleanza, quanto piuttosto per capirne meglio spirito e finalità. Risultava cniaro clhe lo sbocco del discorso di Ribbentrop doveva essere lo scatenamento della guerra; ma Ribbentrop non precisava le direttrici di marcia e «non individua i nemici né segnala gli obiettivi». Affioravano modi diversi di affrontare i problemi e interessi diversi nelle due parti. Con grande ingenuità, Ciano riteneva sufficiente la circostanza che «l’alleanza esiste di fat­ to», sulla base della «grande solidarietà tra gli stati totalita­ ri» 88. Gli sfuggiva che interesse dei tedeschi era appunto quel­ lo di impedire che l’Italia potesse assumere impegni vincolan­ ti con altre potenze, e segnatamente con la Gran Bretagna. Mussolini, per parte sua, aggiunse, alle motivazioni di Ciano per rinviare una conclusione, una ragione che rappresenta uno dei fili conduttori del suo comportamento: ancora una volta bisognava stare attenti a non urtare il sentimento popolare. Questa volta Mussolini faceva esplicito riferimento ai risenti­ menti antitedeschi delle masse cattoliche, con allusione sicura aìYAnschluss e forse anche alle polemiche sul razzismo (Diario, 28 ottobre). Restava però il fatto, come Ciano doveva spiegare a Ribbentrop, «che il rinvio non significa il rifiuto e che la so­ lidarietà tra le potenze dell’Asse è totale anche senza un docu­ mento scritto». Ancora più chiare le intenzioni tedesche risultano dal verbale del colloquio con Ribbentrop steso dallo stesso Ciano.

    86 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d’acciaio, cit., pp. 46-47. 87 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 27 ottobre 1938. 88 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 28 ottobre 1938; in generale sul colloquio con Ribbentrop M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d’ac­ ciaio, cit., pp. 46-63.

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    Interessante era in questo contesto la motivazione delle ragio­ ni che spingevano a insistere per associare il Giappone all’al­ leanza: secondo il parere di Hitler la presenza del Giappone era necessaria per neutralizzare eventuali interventi degli Stati Uniti. La Germania era convinta di dovere accelerare i tempi perché si sentiva in pieno riarmo e perché si riteneva in antici­ po nella corsa agli armamenti rispetto alle democrazie occi­ dentali, con le quali anche per Mussolini lo scontro era fatale, era «nel dinamismo storico». Ancora una volta il punto di vi­ sta di Mussolini, mentre sottolineava l’inevitabilità dello scon­ tro con l’Occidente e confermava la solidarietà tra i regimi, motivava la richiesta di rinviare la conclusione dell’alleanza con la necessità di preparare lentamente il popolo italiano al­ l’accettazione del patto, distinguendo tra le masse operaie e contadine considerate «simpatizzanti con la Germania nazi­ sta» e la borghesia più interessata a guardare all’Inghilterra e turbata dal conflitto tra regime nazista e cattolicesimo: Crede che si debba arrivare alla conclusione di questa alleanza, ma fa una precisa riserva sul momento in cui converrà stringere tale patto. Premette che si esprimerà con la chiarezza che è doverosa ver­ so gli amici e che considera l’alleanza un impegno sacro che si deve in qualsiasi evenienza rispettare ed eseguire al cento per cento. Perciò bisogna fare un esame della situazione in Italia. L’Asse ormai è popo­ lare: gli italiani sono fieri di questo sistema politico che ha già dato così formidabile prova nelle recenti vicende mondiali. Nei confronti però dell’Alleanza militare l’opinione pubblica sarebbe in alcuni suoi settori ancora impreparata [...]. Il Duce afferma che è sua volontà di fare questa alleanza allorché l’idea sia stata fatta convenientemente maturare nelle grandi masse popolari. Oggi ancora non lo è. Il popo­ lo italiano è giunto alla fase “Asse”: non ancora a quella dell’alleanza militare. Vi può del resto giungere molto rapidamente 89. Come se non bastasse, Mussolini spinse l’acceleratore sul carattere offensivo dell’alleanza dando corda alle affermazioni di Ribbentrop sul trionfalismo militare dell’Asse e sulla sua im­ battibilità. Incalzò infatti Mussolini: Noi non dobbiamo fare un’alleanza puramente difensiva. Non ve ne sarebbe bisogno perché nessuno pensa di attaccare gli stati to­

    talitari. Vogliamo invece fare un’alleanza per cambiare la carta geo­ grafica del mondo. Per questo bisognerà fissarci gli obiettivi e le con­ quiste: per parte nostra sappiamo già dove dobbiamo andare. 89

    R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp.

    411-417.

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    Nulla di meglio da sentire per Ribbentrop, che intanto colse l’occasione per ripetere a Mussolini «che il Mediterraneo è destinato a divenire un mare italiano» 90. Alla luce del documento citato, l’atteggiamento dell’Italia non appare affatto di moderazione. Poteva meravigliare che neppure le sortite apertamente belliciste di Ribbentrop avesse­ ro messo sull’avviso Ciano e Mussolini; anche l’Italia dava or­ mai per scontato lo sbocco della guerra. Ciò che già è scritto nel verbale appare ancora più chiaro dal cenno con il quale Ciano, riferendo (29 ottobre) le motivazioni del rinvio ma peg­ giorando addirittura i caratteri dell’alleanza, così sintetizzava le argomentazioni di Mussolini: «Fissare il principio di alleanza offensiva anziché difensiva», che implicava a maggior ragione che fossero chiariti quegli obiettivi dell’alleanza che già in pre­ cedenza Ciano aveva notato essere ancora del tutto indefiniti. L’ipotesi adombrata da Toscano che, al di là della meta perseguita di rinviare l’alleanza, le considerazioni nel merito della stessa fatte da Mussolini potessero avere un significato meramente tattico, se non diversivo, non ci trova consenzienti. Il testo di Mussolini è un miscuglio di consapevolezza, di op­ portunismo e di irresponsabilità. A questo stadio, Mussolini era consapevole che bisognava fissare gli obiettivi dell’allean­ za: ciò fa sorgere al caso il problema di come mai non si tenne conto di tutto questo al momento della stipulazione finale. A ragione Toscano valuta che, «se il colloquio di Palazzo Venezia del 28 ottobre 1938 apparentemente segnò una battuta di ar­ resto in rapporto al progettato acceleramento delle trattative per la stipulazione di un’alleanza tripartita nippo-tedesco-italiana, esso introduce elementi nuovi e più impegnativi nel ne­ goziato italo-tedesco»91. Che comunque Mussolini fosse deciso a pervenire all’al­ leanza ad onta delle riserve avanzate e che queste riserve non fossero dettate dalla necessità di mascherare un rifiuto ma sol­ tanto da motivazioni di opportunità, quali il rinvio della data, sembra confermato dal capovolgimento relativamente rapido del suo atteggiamento nella seconda metà del novembre suc­ cessivo, meno di un mese dopo l’incontro di Palazzo Venezia con Ribbentrop. Il 24 novembre per tramite dell’ambasciatore Attolico fece sapere che, se Francia e Inghilterra avessero tra­

    90 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. I, pp. 411-417. 91 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., p. 61.

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    sformato, come gli sviluppi facevano prevedere, la loro «intesa cordiale» in una vera e propria alleanza militare, egli non avrebbe avuto più reticenze nella definizione dell’alleanza 92. Fu a questo punto, certo anche sotto la pressione del peg­ gioramento dei rapporti con la Francia e del dubbio, sorto in seguito all’accordo franco-tedesco del 6 dicembre 1938, che la Germania potesse compiere passi contrari agli interessi italiani, che Mussolini maturò la decisione di accelerare i tempi della conclusione dell’alleanza. E che di alleanza a tre ancora si trat­ tasse risulta anche da un’altra circostanza che contribuì per par­ te sua a convincere Mussolini che si doveva marciare verso la direttrice di arrivo: la conferma dell’impegno giapponese nel negoziato a tre, recatagli dall’ambasciatore nipponico a Berlino Hiroshi Oshima d’accordo con Ribbentrop, quasi si trattasse di una pressione congiunta nippo-tedesca. Il 15 dicembre Ciano registrò il colloquio tra Oshima e Mussolini: il primo non si li­ mitò a sostenere l’intenzione del Giappone, prioritariamente ri­ volta contro l’Urss sulla scia del Patto Anticomintern, ma ac­ cennò anche alla volontà di liquidare gli interessi britannici dal­ l’area del Pacifico, che era probabilmente ciò che Mussolini vo­ leva sentire. Ma se non andiamo errati fu in questa occasione che Mussolini per la prima volta accennò ad assumere un im­ pelino determinato nel tempo: Il Duce ha ripetuto le consuete argomentazioni sulla necessità di ritardare di qualche tempo la trasformazione del Patto ed ha indi­ cato quale epoca in cui prenderà le sue decisioni quella che va da metà gennaio a metà febbraio93. Indipendentemente dagli sviluppi di una trattativa a due con il governo nipponico, che si prolungava da m esi94, l’orientamento di Mussolini a favore del patto a tre sembrava or­ mai determinato: il 23 dicembre confidò a Ciano l’intenzione di aderire al «Patto di assistenza triangolare, secondo la pro­ posta di Ribbentrop» {Diario). Che Mussolini fosse orientato per la firma del patto come patto tripartito fu confermato dalla lettera del 2 gennaio 1939 con la quale Ciano, facendo riferimento al colloquio del 28 ot­ tobre, informò Ribbentrop che Mussolini proponeva per la fir-

    92 Testo di Attolico in M . Toscano, Le origini diplomatiche del patto d'acciaio, cit., pp. 84-85. 93 G. Ciano, Diario 1937-1938, cit., 15 dicembre 1938. 94 M . Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., cap. II.

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    ma l’ultima decade di gennaio. Perché Mussolini aveva deciso di accelerare i tempi? La lettera di Ciano si dilungava sulle ri­ vendicazioni italiane nei confronti della Francia, in primo luo­ go per sottolineare l’autonomia del patto rispetto al conten­ zioso con la Francia, ipotesi peraltro oggettivamente discutibi­ le, ma soprattutto perché l’acuirsi della crisi con la Francia avrebbe reso più accettabile agli occhi dell’opinione pubblica l’alleanza con la Germania: Ma fin d ’ora si può affermare una cosa sicura: la tensione italofrancese ha reso molto più popolare in Italia l’idea dell’alleanza con la Germania, e questo è già, ai nostri fini, un risultato positivo e con­ creto. Ciano e Mussolini davano ormai per scontati l’esistenza dell’alleanza militare tra Francia e Gran Bretagna, l’appoggio militare degli Stati Uniti alle democrazie occidentali e le scelte belliciste della Francia. Ciò premesso, il Duce considera ormai necessario che il Triangolo anticomunista diventi un sistema e che l’Asse potrà fron­ teggiare qualsiasi coalizione se avrà nella sua orbita e legati al suo de­ stino i paesi che lo possono in Europa rifornire di materie prime, e cioè principalmente: Jugoslavia, Ungheria e Romania. L’accordo, co­ me Voi stesso ci proponeste, dovrà venire presentato al mondo come un Patto di pace, che assicura alla Germania e all’Italia la possibilità di lavorare in piena tranquillità per un periodo abbastanza lungo di tempo 95. A parte l’intima contraddittorietà tra l’aspirazione a un lungo periodo di tranquillità e la previsione, ribadita da Mussolini proprio in quei giorni, dell’inevitabile scontro con le democrazie occidentali, la cosa forse più sorprendente del do­ cumento era la sicurezza con la quale Ciano e Mussolini pre­ vedevano la firma a brevissima scadenza del patto: Ciano rese noto addirittura che, a partire dal 23 gennaio, data del suo ri­ torno dalla prevista visita in Jugoslavia, era disponibile a re­ carsi a Berlino per la firma. Ciò non indicava soltanto la fretta che ormai si era fatta strada a Roma, alla vigilia fra l’altro del­ la visita di Chamberlain (della quale si dava ormai per sconta­ to che non avrebbe avuto alcuna influenza sugli orientamenti

    >

    95 II, pp. 12-14.

    Testo in R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, c

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    della politica fascista), ma significava anche, dal punto di vista della sostanza del patto, che l’Italia si affidava interamente al­ la parte tedesca. Non vi sono segni che a Roma si stesse lavo­ rando per mettere a punto proposte autonome da parte italia­ na. A Roma si stava lavorando sempre pili alacremente per l’occupazione dell’Albania; non è da escludere pertanto che l’i­ potesi di accelerare la conclusione del patto derivasse anche dall’eventualità che esso potesse servire da copertura dell’affa­ re albanese. La lettera di Ciano non toccava altri punti rilevanti del contenzioso aperto tra Italia e Germania: essi sono appena ac­ cennati nel Diario, in previsione dell’incontro che Ciano ebbe il 3 gennaio 1939 con l’ambasciatore a Berlino Attolico, il qua­ le doveva consegnare la lettera di Ciano a Ribbentrop. Si trat­ tava di fare chiarezza sui rapporti commerciali tra i due paesi e di affrontare il problema dell’Alto Adige (a questo proposito già nel Diario di Ciano alla data del 2 gennaio si trova questa notazione: «Sarebbe bene dar corso al progetto Hitler per riti­ rare i tedeschi che vogliono partire»). Il 5 gennaio Attolico riferì a Ciano del suo incontro con Ribbentrop: egli proponeva la data del 28 gennaio per la firma del patto. Meno celeri si prospettavano i «due desiderata» su questioni specifiche di cui si era fatto latore Attolico. Sul capi­ tolo «maggiore correttezza nelle relazioni economiche», in particolare sul «caso speciale della “punta”» sembravano va­ ghe le promesse di Ribbentrop, che comunque rinviava alle de­ cisioni di Hitler 96. Per l’Alto Adige non si poneva in discus­ sione la sostanza dell’accordo, bensì i tempi, richiedendo la co­ sa «una elaborazione lunga e paziente». Ribbentrop in sostan­ za respingeva le motivazioni a far presto della parte italiana, che voleva eliminare sotterranee agitazioni fomentate dal go­ verno tedesco. Attolico concludeva prevedendo che su en­ trambi i punti «incontreremo delle forti resistenze» 97. Ma in quel frangente la fretta di concludere era così evi­ dente che Ciano censurò il comportamento di Attolico con queste parole, che squalificavano l’operato dell’ambasciatore: «Però Attolico è andato troppo in là nel fare apparire quali con-

    96 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d'acciaio, cit., p. 1 0 1. L’allusione alla «punta» riguarda la percentuale in valuta libera delle espor­ tazioni in Italia cne l’Italia era tenuta a pagare in base all’accordo econom i­ co italo-tedesco del 1934. 97 Testo del rapporto di Attolico a Ciano del 5 gennaio 1939, in M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d’acciaio, cit., pp. 100-102.

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    dizioni dell’alleanza la questione economica e quella dell’Alto Adige». La parte italiana soprattutto sulla questione altoatesina non voleva clamore: «Deve essere liquidata tranquillamente, senza inutile ed eccessiva pubblicità» 989. Anche i tedeschi ormai dovevano essere convinti che si approssimavano i tempi della firma a tre, se il 6 gennaio Attolico poteva spedire a Ciano una nuova redazione delle proposte di Berlino, contenente anche un protocollo aggiunto segreto, accompagnandola con alcuni rilievi critici Il testo fu inviato anche a Tokio e ITI gennaio Attolico trasmetteva a Roma la proposta di Ribbentrop di dare luogo alla firma del patto il 28 gennaio 10°. Il 25 gennaio Attolico avvertiva Ciano, su richiesta di Ribbentrop, che si era verificata una battuta d’arresto causata dalle lungaggini dei giapponesi, per cui bisognava ritardare la data101. Passarono due settimane senza che le trattative andasse­ ro avanti. Mussolini, che ora era diventato impaziente, si indi­ spettì anche con Ribbentrop. Notava Ciano l’8 febbraio: Il Duce è scontento dei ritardi giapponesi per la conclusione dell’alleanza tripartita e deplora la leggerezza con cui Ribbentrop ha assicurato che il governo di Tokio era d’accordo. Sarebbe d’idea di concludere alleanza a due, senza Giappone, dato ch’essa varrebbe da sola a fronteggiare lo schieramento di forze anglo-francese e non avrebbe nessun sapore antinglese o antiamericano102103. Dove importanti appaiono due circostanze: l’uscita di sce­ na ormai del Giappone e la determinazione di Mussolini a con­ cludere comunque l’alleanza a due. Alla fine di febbraio la posi­ zione dei giapponesi si chiarì definitivamente: essi erano tornati all’ipotesi primitiva del Patto Anticomintern, ossia alla funzione esclusivamente antirussa del patto10}. Tuttavia fino al 4 maggio le riserve via via espresse dalla parte nipponica, pur ritardando continuamente la possibilità di una conclusione, non diedero via libera all’alleanza a due italo-tedesca. Nel frattempo, però, italia-

    98 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 7 gennaio 1939. 99 Testi in M. Toscano, L e origini diplomatiche del patto d ’acciaio cit pp. 103-105. 100 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit pp 109-110. 101 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit pp 114-115. 102 G. Ciano, Diario 1939-1943, dt., voi. I, 8 febbraio 1939. 103 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, dt., pp. 144 Sg.

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    ni e tedeschi non persero del tutto il loro tempo: il 15 marzo i te­ deschi entrarono a Praga, il 7 aprile gli italiani sbarcarono in Albania. Mentre da parte tedesca si insisteva nell’attendere una risposta positiva da parte del Giappone, l’Italia era pii! direttamente interessata a stringere il negoziato a due; una anticipazio­ ne in questo senso fu rappresentata dalla sollecitazione dell’Italia a dare corso intanto a contatti di coordinamento tra gli stad mag­ giori italiano e tedesco. Era evidente che Roma e Berlino davano una rilevanza diversa alla presenza del Giappone nella combina­ tone a tre; se la Germania non intendeva rinunciarvi, a costo di ritardare anche di molto la conclusione di un accordo, l’Italia si mostrava molto più disponibile a fare a meno del terzo partner. Pertinente appare pertanto il commento di Toscano che a pro­ posito del lungo rapporto di Attolico a Ciano del 4 marzo 1939, nel quale si riferivano gli ulteriori sforzi di Ribbentrop per con­ vincere l’interlocutore italiano a non avere fretta «onde non com­ promettere l’adesione giapponese», concludeva: «Era pur sem­ pre il solito dualismo fra la concezione continentale di Roma e quella mondiale di Berlino»104. La distruzione della Cecoslovacchia ad opera della Ger­ mania nazista in aperta violazione del Patto di Monaco mette­ va anche l’Italia con le spalle al muro; è vero che la garanzia che le potenze avrebbero dovuto esplicitare nei confronti del­ l’integrità cecoslovacca non era decollata, tuttavia l’Italia era pur sempre firmataria degli accordi del 30 settembre 1938. La violazione degli accordi da parte della Germania apparente­ mente avrebbe potuto liberare l’Italia dai vincoli dell’alleanza che di fatto si andava preparando. Ma, come abbiamo già ac­ cennato, lungi dal pensare alla possibilità di imboccare una via alternativa, Mussolini valutò il colpo di Praga come un’occa­ sione in più per ribadire la solidarietà con la Germania, foss’anche solo perché intimidito dalla constatazione dell’ormai avvenuta affermazione dell’egemonia tedesca in Europa. Sempre sensibile al problema degli umori del popolo italiano nei confronti della possibile alleanza con la Germania, Mussolini fu per breve tempo frenato; seppure preoccupato per le voci di possibili interferenze tedesche nelle intenzioni dei separatisti croati, che avrebbero tolto ulteriore spazio alle aspirazioni italiane, era tuttavia deciso a continuare sulla stra­ da imboccata. Ancora una nota del Diano di Ciano, del 19 marzo 1939, ci informa che il capo del fascismo «conviene sul-

    104 M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., p. 152.

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    la impossibilità di presentare adesso al popolo italiano un’al­ leanza con la Germania. Si rivolterebbero le pietre». E mentre Mussolini meditava solo di diluire i tempi dell’alleanza e Ciano di riprendere i contatti con le potenze occidentali, la reazione alla violazione del Patto di Monaco partorì soltanto un altro passo che non poteva che allontanare ulteriormente l’Italia dalle democrazie occidentali, ossia l’accelerazione dell’occupa­ zione dell’Albania. L’impresa colpiva soprattutto le relazioni con quella delle due democrazie, l’Inghilterra, che era stata più disponibile a intendere le ragioni dell’Italia ma che sul mante­ nimento dello status quo mediterraneo aveva impostato la sua strategia diretta a neutralizzare il dinamismo delle potenze to­ talitarie. Gli umori filoccidentali di Ciano durarono poco: l’im­ presa albanese rinverdì il suo spirito squadristico. L’arrivo di Gòring a Roma il 14 aprile non modificò la linea dell’Italia, an­ zi contribuì ad accelerarne il riallineamento nell’orbita dell’Asse. Sebbene fossero colpiti dall’asprezza degli accenti di Gòring contro la Polonia, preludio del prossimo colpo della politica nazista, Ciano e anche Mussolini furono falsamente rassicurati dalle parole dello stesso Gòring, che non promette­ va certo l’abbandono dell’idea della guerra, già fatta propria dai due capi fascisti, ma soltanto la congrua dilazione necessa­ ria perché le potenze dell’Asse potessero mettere a punto la lo­ ro preparazione 105. Il 20 aprile Ciano registrava «un molto grave rapporto di Attolico che denuncia come imminente l’azione tedesca contro la Polonia. Sarebbe la guerra, quindi abbiamo diritto di essere informati per tempo. Dobbiamo poterci preparare e dobbia­ mo preparare l ’opinione pubblica ad un evento che non può arrivare di sorpresa. H o dato ordine ad Attolico di accelerare il mio incontro con Ribbentrop»106. L’incontro fu stabilito a Como fra il 6 e l’8 maggio. Fu il precedente immediato del Patto d’acciaio. L’incontro Ciano-Ribbentrop fu preceduto il 25 aprile da una interessante comunicazione di Attolico che informava Roma che Ribbentrop aveva comunicato ai giapponesi l’inten-

    105 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 16-17 aprile 1939; M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., p. 245, che utilizza anche la documentazione diplomatica di parte tedesca. 106 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 20 aprile 1939; M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., pp. 250-253.

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    zione di pervenire, nelle more delle decisioni di questi ultimi, a un patto bilaterale, al quale il Giappone avrebbe potuto ade­ rire successivamente. Per la prima volta Berlino si allontanava dall’ipotesi del patto a tre. Più importante ancora era la comu­ nicazione che Ribbentrop avrebbe portato a Como uno sche­ ma di trattato, e che invitava l’Italia a fare altrettanto107. Nel frattempo, la denuncia da parte di Hitler del patto navale an­ glo-tedesco del 1935 e del patto tedesco-polacco del 1934, di­ vulgata nel discorso al Reichstag del 28 aprile, aggiunse altre preoccupazioni al quadro delle relazioni intemazionali; i so­ spetti su un possibile colpo di mano tedesco contro la Polonia trovavano nuova esca. Ciano tuttavia, stando alle note del Diario stese il 27 e 28 aprile, non parve percepire la pericolosita delle nuove mosse tedesche. Con quali istruzioni Ciano si apprestò a incontrare Ribbentrop a Milano (la sede scelta da ultimo)? La diplomazia italiana come aveva preparato l’incontro? A suo tempo Toscano ha fatto conoscere i dispacci da Berlino con i quali l’ambasciatore Attolico segnalava l’opportunità di precisare in maniera inequivocabile la portata degli impegni reciproci e la delimitazione dei rispettivi interessi108. Il 4 maggio Mussolini fissò per Ciano un appunto contenente le istruzioni per i col­ loqui di Milano. Il testo conteneva una serie di princìpi essen­ ziali per i contenuti e i tempi delle iniziative dell’Italia. Fondamentale pare l’affermazione che, pur ritenendo la guer­ ra inevitabile, le due potenze dell’Asse, ma in particolare l’Italia, avevano bisogno «di un periodo di pace non inferiore ai tre anni» per completare la propria preparazione; lo sforzo bellico poteva essere sostenuto con successo a partire dal 1943. La divisa della politica italiana veniva lapidariamente sintetiz­ zata nel motto: «Parlare di pace e prepararsi alla guerra». A leggere tutte le motivazioni che venivano addotte per giustifi­ care il triennio di preparazione, verrebbe fatto di concludere che si trattava di un calcolo di tempi molto ottimistico: per rag­ giungere gli obiettivi prefissati (pacificazione in Etiopia, siste­ mazione militare in Libia e Albania, aggiornamento delle co­ struzioni navali, rinnovamento delle artiglierie, realizzazione dei piani autarchici per vanificare un eventuale blocco navale contro l’Italia, realizzare l’E 42 per introitare valuta estera, ef-

    107 Testo in M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., pp. 253-254. 108 M. Toscano, L e origini diplomatiche del patto d ’acciaio, cit., pp. 269-274.

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    fettuare il rimpatrio degli italiani dalla Francia, decentrare l’in­ dustria dal Nord all’Italia meridionale, approfondire i rappor­ ti Italia-Germania) non sarebbero bastati forse molti trienni. L’Italia non disperava che il Giappone potesse essere del­ la partita, sempre che entro il triennio avesse concluso la sua guerra in Cina. Per quanto concerne i suoi obiettivi, al centro dei bersagli italiani rimaneva la Francia; peggio ancora, l’Italia svalutava i protocolli d ’aprile con la Gran Bretagna e la relati­ va distensione consentita, privandosi quindi di qualsiasi altra sponda nella trattativa con la Germania. Nella rassegna dei paesi minori, chiare erano le direttive per la Jugoslavia: «La politica italiana è definitiva. La Jugoslavia entra nella sfera pre­ valente degli interessi italiani». Incerta rimaneva la posizione nei confronti dell’Urss, su cui erano circolate voci di contatti promossi dalla Germania (e fatte conoscere a Roma da Attolico). Mussolini suggeriva un atteggiamento assai prudente, favorevole solo ad impedire che la Russia si aggregasse al blocco avversario. Sulla natura dell’alleanza militare, non essendo ancora escluso il patto a tre, veniva anticipato un principio assai peri­ coloso: «Gli accordi militari devono essere attentamente pre­ parati, in modo che - specificate le circostanze - divengano quasi automaticamente operanti». Importante appare, pur nella stringatezza dell’appunto, il rapporto che si veniva a delineare dal punto di vista tecnico­ economico tra i due partner dell’alleanza: l’Italia avrebbe chie­ sto alla Germania forniture di materie prime (carbone) e mac­ chinari; anche in caso di un conflitto limitato con la Francia l’Italia non avrebbe chiesto uomini ma mezzi. Il principio del­ la subordinazione tecnologica alla Germania, che sarà una co­ stante nei concreti rapporti tra le due potenze, trova già qui una precoce formulazione. Da segnalare ancora nel documento di Mussolini il cen­ no alla questione dell’Alto Adige, per la quale si sottolineava indirettamente l’urgenza di una soluzione attraverso l’indica­ zione dei pericoli che tale questione lasciava aperti109. Il 6 e 7 maggio Ciano e Ribbentrop posero a Milano le ba­ si dell’alleanza, il negoziato per il Patto d’acciaio di fatto non ha storia: una volta presa la decisione di principio la parte italiana si affidò alla formulazione predisposta dalla parte tedesca, no­ nostante i ripetuti avvertimenti di Attolico. L’informazione che

    109 II documento in M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d ’ac­ ciaio, cit., pp. 278-280.

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    DA PRAGA AL PATTO D ’ACCIAIO

    ne abbiamo proviene dal verbale dei colloqui steso da Ciano, da poche integrazioni dei documenti diplomatici tedeschi e soprat­ tutto dal testo del patto no. Ricalcando nel suo verbale i punti della nota stesa da Mussolini per i colloqui, Ciano registrava la convinzione, con­ divisa dalla Germania, «della necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni», anche se pro­ babilmente sottovalutò l’affermazione di Ribbentrop secondo la quale «ciò non vuol dire che prima di questo periodo la Germania non sia pronta alla guerra». Anche Ribbentrop co­ munque riteneva che in posizione di vantaggio si trovassero le potenze dell’Asse, «la cui posizione militare e politica si è molto rafforzata in questi ultimi tempi attraverso al soluzione del problema cecoslovacco e l’occupazione dell’Albania». Ribbentrop non nascose l’interesse prioritario della Germania per la Polonia, mostrando intransigenza sulla questione di Danzica e sul corridoio extraterritoriale tra la Germania e il Baltico; non escluse l’eventualità di un conflitto armato (disse chiaramente che la Polonia in questo caso sarebbe stata liqui­ data «in meno di due settimane») ma non mise il partner ita­ liano al corrente del fatto che il Fùhrer era sul punto di im­ partire l’ordine alla Wehrmacht di «attaccare la Polonia alla prima occasione utile», come avrebbe chiarito ai responsabili militari il 23 maggio, ossia il giorno dopo la firma del patto con l’Italia. Sulle singole voci dell’appunto di Mussolini, Ribbentrop sottolineò il sostanziale consenso tedesco alle valutazioni ita­ liane; in particolare ribadì l’interesse a non alterare l’equilibrio in Jugosfavia e confermò che in caso di crisi nel settore «dovrà l’Italia, quale Paese che ha interessi assolutamente prevalenti in Jugoslavia, dirigere la soluzione della crisi». Altro punto im­ portante nello scambio di idee che aveva preceduto l’incontro di Milano era la valutazione della situazione della Russia: Ribbentrop insistette che «bisogna cògliere l’occasione che si presenta favorevole per impedire l’adesione della Russia al blocco antitotalitario»; insistette inoltre sull’opportunità di evitare «qualsiasi esagerata manifestazione in senso filorusso», sottolineando peraltro che nei rapporti tra l’Asse e l’Urss si era prodotta una distensione. L’ultimo punto particolare affrontato nel colloquio ri-

    no L’esame critico di questa fase finale in M. Toscano, Le origini di­ plomatiche del patto d ’acciaio, cit., cap. IV.

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    guardava la questione dell’Alto Adige, sulla quale Ribbentrop confermava la disponibilità ad arrivare ad una soluzione con­ creta, prevedibilmente attraverso l’evacuazione della parte del­ la popolazione che non intendeva rimanere in Italia (certo più dei 10.000 tedeschi ex austriaci dei quali si parlava nel verba-

    le). Ovviamente il punto centrale dell’incontro fu rappresen­ tato dalle prospettive di conclusione dell’alleanza militare. In proposito era stato previsto quanto segue: Per quanto concerne l’alleanza militare Ribbentrop si riserva di mandarci al più presto uno schema di trattato di alleanza che do­ vrebbe venire da noi esaminato e discusso. La firma del Patto pro­ pone che abbia luogo a Berlino non appena possibile ed in forma molto solenne. Ribbentrop, che non ha del tutto abbandonato l’idea di acquisire il Giappone all’alleanza militare, ha molto apprezzato il suggerimento del Duce di formulare l’alleanza in modo tafe da costi­ tuire un Patto aperto all’adesione di quegli stati che intenderanno in seguito parteciparvi11b Ciano ricevette lo schema del patto predisposto da parte tedesca il 13 maggio (Diario) mentre si recava a Firenze per ac­ compagnarvi il reggente Paolo e il ministro degli Esteri jugo­ slavo in visita in Italia. «In massima va bene», annotò. «Vogliamo però aggiungere una frase che riguardi le frontiere - garantite per sempre - gli spazi vitali e la durata del Patto». Aggiungendo: «Non ho mai letto un patto simile: è una vera e ' propria dinamite». Alludeva con tutta probabilità all’automa­ tismo del patto, che ne garantiva la pronta esecutorietà, ma che costituì anche una trappola per l’Italia; e non soltanto ai lega­ mi indissolubili che si creavano tra Italia e Germania moltipli­ candone la forza d’urto nei confronti delle democrazie occi­ dentali. Il 14 maggio Mussolini parlando a Torino preannuncio l’imminente firma dell’alleanza: Non ci sono attualmente in Europa questioni di ampiezza e di acutezza tale da giustificare una guerra, che da europea diventereb­ be, per logico sviluppo degli eventi, universale. Ci sono dei nodi nel­ la politica europea, ma, per sciogliere questi nodi, non è forse neces­ sario di ricorrere alla spada. Tuttavia, bisogna che questi nodi siano

    m Verbale dei colloqui in R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la ca­ tastrofe, cit., voi. n, pp. 53-58.

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    DA PRAGA AL PATTO D ’ACCIAIO

    una buona volta risolti, perché talora si preferisce a una troppo lun­ ga incertezza una dura realtà. Questo non è soltanto il pensiero dell’Italia, ma è anche il pen­ siero della Germania, e quindi dell’Asse, di quell’asse che, dopo es­ sere stato per molti anni un’azione parallela dei due regimi e delle due rivoluzioni, diventerà, attraverso il patto di Milano e attraverso l’alleanza militare che sarà firmata entro questo mese a Berlino, una comunione inscindibile dei due Stati e dei due popoli [...]. Noi marceremo con la Germania, per dare all’Europa quella pace con giusti­ zia, che è nel desiderio profondo di tutti i popoli112. Il 21 maggio Ciano e Ribbentrop firmarono a Berlino il testo del patto di amicizia e di alleanza nello schema proposto dalla parte tedesca, con assai modeste modifiche proposte dall’Italia, secondo i suggerimenti trasmessi dall’ambasciatore Attolico che aveva colto parecchi punti deboli del testo113. L’emendamento politicamente più rilevante richiesto dall’Italia riguardava il preambolo del patto, in cui il semplice cenno alla «politica comune» dei due regimi era sostituito dall’affermazio­ ne più impegnativa - la quale implicitamente inseriva nel patto l’intangibilità del confine al Brennero secondo i desiderata dell’Italia - secondo la quale «con le frontiere comuni, fissate per sempre, è stata creata tra l’Italia e la Germania la base sicu­ ra per un reciproco aiuto ed appoggio». Il progetto del patto constava, oltre che della premessa, di sette articoli che prevedevano: l’obbligo di consultazione permanente tra le due parti; l’impegno di reciproco appoggio politico e diplomatico in caso di minaccia dall’esterno di una delle due parti; l’impegno di immediata assistenza militare del­ l’altra parte contraente quando «dovesse accadere che una del­ le parti entrasse in complicazioni belliche con un’altra o con al­ tre potenze (art. 3)»; il coordinamento economico e militare in caso di guerra; l’impegno in caso di guerra a non concludere armistizio o pace separata; il carattere illimitato della durata del patto. Le modifiche chieste dall’Italia non riguardavano tutti i rilievi avanzati da Attolico. In particolare, e sorprendentemen­ te, Ciano non colse il principale, ossia la rinuncia all’esplicito carattere difensivo del patto e la formulazione di «una solida­ rietà talmente integrale da fare - e a giusto titolo - ritenere che

    U2 B. Mussolini, Opera om nia, cit., voi. XXIV. pp. 272-275. U3 Dispaccio di Attolico a Ciano del 12 maggio, in M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d'acciaio, cit., pp. 333-335.

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    essa sia non solo difensiva, ma anche offensiva», che implicava appunto il rischio per l’Italia di essere trascinata in un conflit­ to grazie ad un automatismo che non consentiva di sindacarne le motivazioni. Questo significava che l’Italia doveva prestare aiuto alla Germania anche qualora ad aggredire fosse stata quest’ultima. E vero che lo stesso valeva per la Germania nei confronti dell’Italia, ma era chiaro, allo stato dei rapporti di forza, del dinamismo e del potenziale espansionistico della Germania, che era l’Italia a correre i rischi maggiori. Solo sulla questione della durata illimitata del patto l’Italia chiese e ottenne di fissare in dieci anni la portata del­ l’impegno. Allegato al patto era un protocollo addizionale segreto, che prevedeva la costituzione di organismi tecnici di collaborazione tra i due paesi nel settore militare, economico, delle informazioni e della propaganda. Il testo del protocollo segre­ to emerse, soltanto nell’immediato dopoguerra, nel corso del processo intentato contro i capi nazisti dalla corte internazio­ nale di Norimberga114. Come si vede la parte tedesca aveva imposto tutti i pro­ pri punti di vista: concepito in origine come difensivo, il patto era diventato offensivo e l’Italia vi risultava subalterna nel qua­ dro del rispettivo dinamismo dei partner dell’alleanza. La pas­ sività dell’Italia nella elaborazione dell’alleanza lasciò ogni ini­ ziativa ai tedeschi, che nulla fecero per scoprire le loro carte e rendere l’Italia partecipe dei loro piani, destinati a trascinare anche la corresponsabilità dell’Italia.

    APPENDICE IL PATTO D ’ACCIAIO

    Sua Maestà il Re d’Italia e d’Albania, Imperatore d’Etiopia e il Cancelliere del Reich tedesco ritengono giunto il momento di confer­ mare con un Patto solenne gli stretti legami di amicizia e di solidarietà che esistono tra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Considerato che, con le frontiere comuni, fissate per sempre, è stata creata tra l’Italia e la Germania la base sicura per un reciproco aiuto ed appoggio, i due governi riconfermano la politica, che è già stata da lo­ ro precedentemente concordata nelle sue fondamenta e nei suoi obiet­ tivi e che si è dimostrata altamente proficua tanto per lo sviluppo de­ gli interessi dei due paesi quanto per la sicurezza della pace in Europa.

    114 Se ne vedano i testi riportati qui di seguito.

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    DA PRAGA AL PATTO D'ACCIAIO

    Il popolo italiano ed il popolo tedesco, strettamente legati tra loro dal­ la profonda affinità delle loro concezioni di vita e dalla completa soli­ darietà dei loro interessi, sono decisi a procedere anche in avvenire l’u­ no a fianco dell’altro e con le loro forze unite per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace. Su questa via indicata dalla storia, l’Italia e la Germania intendono, in mezzo ad un mondo inquieto e in dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea. Allo scopo di fissare a mezzo di un Patto questi principi, hanno nominato loro plenipotenziari: Sua Maestà il Re d’Italia e d’Albania Im peratore d’Etiopia, il ministro degli Affari esteri conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo; il Cancelliere del Reich tedesco, il ministro degli Affari esteri signor Joachim von Ribbentrop; i quali, dopo essersi scambiati i loro pieni poteri, trovati in debita e dovuta forma, hanno convenuto i seguenti articoli:

    1. Le parti contraenti si manterranno permanentemente in con­ tatto allo scopo di intendersi su tutte le questioni relative ai loro inte­

    ressi comuni e alla situazione generale europea. 2. Qualora gli interessi comuni delle parti contraenti dovessero essere messi in pericolo da avvenimenti intemazionali di qualsiasi na­ tura, essi entreranno senza indugio in consultazione sulle misure da adottare per la tutela di questi loro interessi. Qualora la sicurezza o al­ tri interessi vitali di una delle due parti contraenti dovessero essere mi­ nacciati dall’esterno, l’altra parte contraente darà alla parte minacciata il suo pieno appoggio politico e diplomatico, allo scopo di eliminare questa minaccia. 3. Se, malgrado i desideri e le speranze delle parti contraenti, do­ vesse accadere che una di esse venisse ad essere impegnata in compli­ cazioni belliche con un’altra o altre potenze, l’altra parte contraente si porrà immediatamente come alleato al suo fianco e la sosterrà con tut­ te le sue forze militari, per terra per mare e per l’aria. 4. Allo scopo di assicurare, per il caso previsto, la rapida appli­ cazione degli obblighi di alleanza assunti con l’art. 3, i governi delle due parti contraenti approfondiranno maggiormente la loro collabora­ zione nel campo militare e nel campo dell’economia di guerra. Analogamente i due governi si terranno costantemente in contatto per l’adozione delle altre misure necessarie all’applicazione pratica delle disposizioni del presente Patto. I due governi costituiranno, agli scopi indicati nei summenzionati paragrafi 1 e 2, commissioni permanenti, che saranno poste sotto la direzione dei due ministri degli affari esteri. 5. Le parti contraenti si obbligano fin da adesso, nel caso di una guerra conaotta insieme, a non concludere armistizio o pace se non di pieno accordo tra loro. 6. Le due parti contraenti, consapevoli dell’importanza delle loro relazioni comuni con le potenze loro amiche, sono decise a mantenere e a sviluppare di comune accordo, anche in avvenire, queste relazioni, in armonia con gli interessi concordati che le legano a queste potenze. 7. Questo Patto entra in vigore immediatamente al momento della firma. Le due parti contraenti sono d’accordo nello stabilire a 441

    CAPITOLO X

    dieci anni il primo periodo della sua validità. Esse prenderanno accor­ di in tempo opportuno, prima della scadenza di questo termine, circa il prolungamento della validità dd Patto. In fede di che, i plenipotenziari hanno firmato il presente Patto e vi hanno apposto il loro sigillo. Scritto in doppio originale, in lingua italiana e in lingua tedesca, i due testi facendo egualmente fede. PRO TO CO LLO SEGRETO

    All’atto della firma del patto d’amicizia e di alleanza, si sono concordati da entrambe le parti i seguenti punti: 1. I due Ministri degli Affari Esteri prenderanno al più presto opportuni accordi circa l’organizzazione, la sede e i metodi di lavoro delle commissioni per le questioni militari e le questioni di economia di guerra, come previsto dall’art. 4 del Patto. 2. Per l’attuazione dell’art. 4, par. 2, i due Ministri degli Affari Esteri concorderanno al più presto le misure necessarie atte a garan­ tire una costante collaborazione, in conformità con lo spirito e le fi­ nalità del Patto in materia di stampa, servizio d’informazioni e pro­ paganda. A questo scopo, in particolare, i due Ministri degli Affari Esteri assegneranno rispettivamente all’Ambasciata del proprio Paese nella capitale alleata uno o più specialisti di particolare prova­ ta capacità per la costante discussione, in diretta e stretta collabora­ zione con i rispettivi Ministeri degli Affari Esteri, dei passi opportu­ ni da compiersi in materia di stampa, servizio d’informazioni e pro­ paganda per lo sviluppo della politica dell’Asse e come contromisu­ ra alla politica delle potenze nemiche. Galeazzo Ciano Joachim von Ribbentrop

    442

    XI

    L’ALLEANZA INEGUALE: DAL PATTO d ’a c c ia io

    ALLA NON BELLIGERANZA

    DAL MEMORIALE CAVALLERO AL PATTO TEDESCO-SOVIETICO

    Le conseguenze del Patto d’acciaio non tardarono a farsi sen­ tire. Quelle più rilevanti dal punto di vista delle reazioni inter­ nazionali alla formalizzazione dell’alleanza tra Italia e Germania provennero da parte britannica. La Gran Bretagna, che nel maggio del 1939, in risposta all’occupazione dell’Albania, aveva concluso un accordo di aiuto reciproco con la Turchia per completare l’operazione difensiva che aveva av­ viato con le garanzie alla Grecia e alla Romania nel Mediterraneo, vide nell’alleanza militare italo-tedesca una en­ nesima riprova che l’Italia non intendeva attenersi all’impegno di non alterare l’equilibrio nel Mediterraneo, cardine degli ac­ cordi di aprile del 1938. Già il 3 giugno l’abolizione del mini­ stero degù Esteri albanese e l’obbligo del ritiro delle rappre­ sentanze diplomatiche estere da Tirana, confermando l’annes­ sione dell’Albania all’Italia sotto ogni rispetto, avevano spaz­ zato via anche una copertura apparente agli sforzi che la Gran Bretagna aveva fatto per sdrammatizzare in ogni modo la con­ quista dell’Albania. Ma ora appariva pressoché impossibile re­ gistrare il nuovo mutamento imposto dall’Italia senza prende­ re posizione o tentare almeno di chiarirne il significato. Sia da parte britannica sia da parte italiana si valutò in questo fran443

    CAPITOLO XI

    gente quale senso potesse conservare l’accordo del 16 aprile, e se non fosse viceversa il caso di denunciarloh Chi aveva meno interesse a un passo del genere era il governo italiano, proprio nel momento in cui protestava il carattere pacifico e comunque difensivo del patto con la Germania. Questo tuttavia non escludeva la conduzione agitatoria della politica estera da par­ te sia di Ciano, che sull’onda del successo della sua visita ber­ linese rintuzzò facilmente gli umori antitedeschi, sia di Mussolini, spinto continuamente a giocare con minacce belli­ ciste dalla sua convinzione di potere fare pagare alla Francia l’ostilità alla politica africana del fascismo. Non è certo casuale che dopo la conclusione del Patto d’acciaio Mussolini si sentisse rafforzato, per quanto a torto, e maturasse nuovi progetti imperialistici, come per esempio li­ quidare definitivamente la Jugoslavia e annettere all’Italia la Croazia, come confidava a Ciano (Diario, 26 maggio 1939). Non era questo, del resto, il solo indizio del fatto che l’Italia, una volta conquistata l’Albania, si sentiva di avere «assunto nei Balcani un ruolo di primaria importanza anche sotto l’aspetto militare e strategico», come Ciano si espresse con il rappre­ sentante diplomatico italiano in Bulgaria 12. Nel frattempo, il 28 maggio la visita di presentazione a Mussolini del nuovo ambasciatore inglese Percy Loraine (che sostituiva lord Perth, richiamato in patria all’epoca dell’occu­ pazione dell’Albania) si risolveva in un duro scontro verbale aperto dalle accuse di Mussolini contro «la non dubbia poli­ tica di accerchiamento» che egli imputava alla Gran Bretagna per la risposta data, con gli accordi con Grecia, Romania e Turchia, all’occupazione dell’Albania. L’impressione che Ciano riferiva in termini categorici dello stato delle relazioni tra Italia e Gran Bretagna («il Patto è morto e, forse, Chamberlain con lui») almeno per la prima parte si poteva considerare sostanzialmente pertinente3. Come abbiamo vi­ sto, la conclusione del Patto d’acciaio aveva lasciato aperti non soltanto i problemi legati ai momenti applicativi dell’ac­ cordo, ma anche questioni che i firmatari (è il caso di dire, piuttosto che i negoziatori) non avevano affrontato. Tra que­ ste ultime certamente la più rilevante era la questione delle ri-

    1 Per l’intera problematica si veda l’accurata ricostruzione fatta da D. Bolech Cecchi, N on bruciare ip o n ti con Roma, cit., cap. VII. 2 Cfr. DD1, V ili, voi. Il, n. 60. 3 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 27-28 maggio 1939.

    444

    DAL PATTO D ’ACCIAIO ALLA N ON BELLIGERANZA

    spettive sfere di influenza delle potenze dell’Asse e ora del Patto, che in passato sembrava stesse così a cuore soprattutto alla contraente italiana, ma di cui viceversa l’Italia nelle ultime settimane non aveva rivendicato la definizione, fosse nella fretta di concludere, fosse per l’ottimismo trionfalistico di cui si circondò la conclusione dell’alleanza. Tra i primi passi che furono compiuti vi fu la nomina del­ le commissioni miste italo-tedesche previste dall’allegato se­ greto per rendere operative le condizioni dell’alleanza. Vicepresidente delle commissioni economica e militare fu no­ minato l’allora generale di corpo d’armata Ugo Cavallero, il fu­ turo capo di stato maggiore generale4. A lui, all’atto di recarsi in Germania per i previsti contatti, Ciano inoltrò un prome­ moria che Mussolini aveva redatto per Hitler. Ciano ne infor­ ma nel suo Diario sotto la data 27-28 ma dandone una versio­ ne riduttiva, come se esso riguardasse solo «la necessità per l’Asse di occupare subito, in caso di conflitto, l’Europa centro­ balcanica». In realtà il documento di Mussolini aveva portata assai più larga e impegnativa. Il testo del cosiddetto memoriale Cavallero 5 per essere valutato nella sua portata va confrontato con le istruzioni che Mussolini aveva dato a Ciano il 4 maggio, in vista dell’incontro con Ribbentrop a Milano. Di quel testo il promemoria riprendeva integralmente la parte relativa alle motivazioni per le quali l’Italia aveva bisogno di un lasso di tempo fino a tutto il 1942 per completare la propria prepara­ zione. Per il resto, il documento sviluppava autonomamente una serie di considerazioni di carattere politico generale e stra­ tegico muovendo dall’ottica della inevitabilità dello scontro bellico con le democrazie occidentali. L’Italia, che era rimasta inerte all’atto della stesura dei termini dell’alleanza, suggeriva adesso una serie di indicazioni operative destinate, se avessero incontrato il consenso di Hitler, ad essere utilizzate ai fini dei piani operativi dei due stati maggiori. Non si trattava perciò di evitare la guerra ma soltanto di decidere come condurla. Il testo combinava pertanto analisi della situazione pre­ sente, spiegazione dei tempi per la realizzazione del riarmo dell’Italia, giustificazioni ideologiche e propagandistiche e obiettivi politico-strategici.

    4 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 29 maggio 1939. 5 DDI, V ili, voi. XII, n. 59. Testo tedesco in A D A P , D, Bd. VI, n. 459 allegato.

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    CAPITOLO XI

    Dal punto di vista ideologico-propagandistico, la guerra imminente era considerata inevitabile in quanto scontro tra ricchi e poveri, tra potenze conservatrici e popoli giovani ri­ volti al futuro («La guerra fra le nazioni plutocratiche e quin­ di egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e povere è inevitabile»). Dal punto di vista delle prospettive politiche, la premes­ sa fondamentale che costituiva l’elemento di vantaggio per le potenze alleate era rappresentata dalle «posizioni strategiche conquistate in Boemia e Albania». Contrariamente al vecchio testo il nuovo prevedeva, come conseguenza dell’awenuta conclusione dell’alleanza, l’irrigidimento della coalizione av­ versa che veniva indicata, dando già per scontato l’accordo tra le democrazie occidentali e l’Urss, nel «triangolo LondraParigi-Mosca», dal quale era prevedibile l’ostilità dal punto di vista economico e morale. La risposta sarebbe stata l’attivazio­ ne «sino all’estremo [de]i piani autarchici» e il contrattacco sotto ogni profilo sul terreno morale (propagandistico). Era anticipata una strategia politica di incrinatura del fronte interno nemico sfruttando ogni elemento di disgrega­ zione materiale e morale, ivi compresi l’antisemitismo, Tantibolscevismo e il pacifismo: Oltre all’azione di sabotaggio materiale vero e proprio - atten­ tati, ecc. - ogni sforzo dovrà essere intrapreso per incrinare l’unità in­ terna dei nemici col favorire i movimenti anti semiti, coll’aiutare i movimenti pacifisti (caso Paul Faure in Francia), col patrocinare le autonomie regionali (Alsazia, Bretagna, Corsica, Irlanda), coll’accellerare la decomposizione dei costumi, coll’eccitare alla rivolta le po­ polazioni coloniali. L’ingresso della Russia bolscevica nell’Occidente [sic] - con­ dotta per mano da Londra - è un elemento indubbiamente favore­ vole allo sviluppo di questi piani. Dal punto di vista strategico-militare il documento descri­ veva l’area occidentale contronata dalle potenze dell’Asse come impenetrabile dall’esterno, da forze di terra, e usava l’espressio­ ne letterale «murate». Il fronte del Reno, le Alpi, la Libia erano considerati settori stabili, di difesa reciproca, teatro perciò di guerra aereo-navale. L’Etiopia viceversa era considerata base of­ fensiva contro le limitrofe colonie francesi e inglesi. Grande im­ portanza si annetteva alla conquista dell’Albania che aveva tra­ sformato il controllo dell’Adriatico: «L’Adriatico è un mare in­ terno che può essere ermeticamente chiuso». Sul versante orientale e sudorientale, invece, la guerra avrebbe assunto «un carattere dinamico», anche se si dava per 446

    DAL PATTO D’ACCIAIO ALI A N ON BELLIGERANZA

    scontato che nessun aiuto avrebbero ricevuto la Polonia né gli «altri stati garantiti», che pertanto avrebbero dovuto fare asse­ gnamento unicamente sulle proprie forze. La parte centrale del documento, quella che implicava le maggiori responsabilità dell’Italia, riguardava la strategia d’at­ tacco che veniva suggerita alle forze dell’alleanza per poter ali­ mentare, con le conquiste territoriali e lo sfruttamento delle ri­ sorse dei territori conquistati, la loro area di dominazione e so­ stenerla contro il prevedibile blocco continentale. La lettera del documento offre un’anticipazione del contributo dell’Italia alla guerra di rapina e alle pratiche di Nuovo ordine europeo, compresa la violazione dell’integrità territoriale degli stati mi­ nori, che saranno realizzate negli anni successivi per iniziativa soprattutto (ma non soltanto) del Terzo Reich: La guerra che le grandi democrazie preparano è una guerra di usura. Bisogna quindi partire dall’ipotesi più dura, che è la possibile al cento per cento. L’Asse non riceverà più nulla dal resto del mondo. Questa ipotesi sarebbe grave, ma le posizioni strategiche conquistate dall’Asse riducono di molto la gravità e il pericolo di una guerra di usura. A tale scopo sin dalle prime ore della guerra, bisogna impa­ dronirsi di tutto il bacino danubiano e balcanico. Non contentarsi di dichiarazioni di neutralità, ma occupare i territori e sfruttarli ai fini dei rifornimenti bellici alimentari e industriali. Con questa operazio­ ne che dovrebbe essere fulminea e condotta con decisione estrema non solo si metterebbero fuori combattimento i “garantiti”, cioè Grecia, Romania e Turchia, ma si avrebbero le spalle sicure. In que­ sto gioco noi possiamo contare su due pedine favorevoli: l’Ungheria e la Bulgaria. L’ultimo punto del promemoria, l’ottavo, è quello più ge­ neralmente noto, nel quale si ribadiva la subalternità tecnologi­ ca dell’Italia alla Germania e si confermava lo squilibrio tra i due partner dell’alleanza ponendo come essenziale merce di scam­ bio nei rapporti con il partner le braccia dei lavoratori italiani: L’Italia può mobilitare proporzionalmente un numero maggio­ re di uomini che la Germania. A una abbondanza di uomini corri­ sponde una modestia di mezzi. L’Italia - nel piano bellico - sarà quindi più uomini che mezzi: la Germania più mezzi che uomini. Una forma di divisione del lavoro che era già stata speri­ mentata nel corso della guerra di Spagna e che già lì era stata giocata a favore della Germania, la quale aveva evitato il logo­ ramento delle proprie risorse di uomini, aveva perfezionato i propri meccanismi tecnici e posto l’ipoteca su forniture im­ portanti di materie prime. 447

    CAPITOLO XI

    Documento “confidenziale”, il memoriale di Mussolini era destinato al Fùhrer, come Ciano sottolineava nel presenta­ re a Ribbentrop il generale Cavallero 6. Questi incontrò la pri­ ma volta von Ribbentrop il 3 giugno e in questa occasione gli consegnò il messaggio di Mussolini per il Fiihrer, come si af­ frettò a comunicare a Ciano7. Ribbentrop a sua volta fece co­ noscere una prima risposta il 6 giugno: l’ambasciatore Attolico comunicò a Ciano che il Fùhrer aveva ricevuto il do­ cumento «e tiene a fare sapere che egli è in generale piena­ mente d’accordo con le considerazioni in esso esposte». Aggiungeva però che intendeva trattenersi personalmente con Mussolini «specie in relazione a qualcuno dei punti enuncia­ ti» e prospettava l ’idea di un incontro al Brennero. Indicava per ora genericamente il periodo, «quest’estate», senza ulte­ riori specificazioni8. Tuttavia, tranne un’ulteriore generica affermazione di ap­ prezzamento dello scritto di Mussolini da parte del Fùhrer, che Ribbentrop comunicò direttamente a Ciano il 9 giugno 9, nes­ sun passo fu compiuto nell’immediato dalla parte tedesca per sopperire ai vuoti anche di informazione evidenziatisi nel mo­ do in cui si era concluso l’incontro tra Ciano e Ribbentrop. Nonostante i segnali di avvertimento che da Berlino venivano inviati da Attolico, il quale vedeva crescere pericolosamente la crisi per Danzica, Ciano continuò a pensare che l’ambasciato­ re attraversasse «endemiche crisi di paura» (come annotò nel Diario alla data del 19 luglio: altrove lo accusò addirittura di panico). Sebbene fosse vagamente attraversato dal sospetto che i tedeschi celassero qualcosa e si sottraessero all’obbligo di consultazione fissato nel patto di alleanza, sembrava piuttosto incline a farsi trascinare da un immotivato ottimismo e trion­ falismo, lo stesso che in un momento così delicato gli faceva ' igere l’acceleratore, dalla postazione albanese, sulla leva ’interventismo del Kosovo, in funzione della disgregazione jugoslava10. L’incontro Mussolini-Hitler fu previsto in un primo tem­ po per il 4 agosto (Ciano, Diario, 19 luglio). Almeno questa volta Ciano sembrò consapevole che, alla luce degli aweni-

    K

    6 DDI, V ili, voi. XII, n. 71. 7 DDI, V ili, voi. xii, n. 102. 8 Attolico a Ciano, DDI, V ili, voi. XII, n. 130. 9 DDI, V ili, voi. xii, n. 171. 10 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 26 maggio 1939. 448

    DAL PATTO D'ACCIAIO ALLA NON BELLIGERANZA

    menti imminenti di cui si avvertiva sentore, fosse necessario «prepararlo bene per evitare che si risolva in un formidabile buco nell’acqua». E aggiungeva quella che si profilava come la proposta forte da parte italiana: «Forse, visto che il program­ ma bellico deve per molte ragioni venir ritardato più a lungo possibile, si potrebbe parlare col Fùhrer di lanciare una pro­ posta di conferenza internazionale». Ma quale lo scopo della conferenza? Si trattava solo di prendere tempo o c’era la vo­ lontà di arrivare a una conclusione positiva? O, come sembra di capire da un successivo intervento (Diario, 22 luglio), era anche un modo per tentare di capire quali fossero le intenzio­ ni dei tedeschi, ossia per stanarli? Purtroppo dal modo nel quale Ciano presenta la proposta, che fu fatta propria da Mussolini con maggior convinzione di quella con la quale Ciano stesso la propose, prevale l’impressione che in essa la componente strumentale fosse prioritaria, che prevalesse cioè la tendenza a prender tempo. A che pro una conferenza? «Ciò - annotava Ciano il 19 luglio - ci darebbe i seguenti vantaggi: o le democrazie accettano di venire intorno ad un tavolo a ne­ goziare, ed allora devono finire col cedere e mollare parecchio, o rifiutano ed in tal caso noi abbiamo il vantaggio di aver pre­ so un’iniziativa pacifista che disgrega la posizione interna degli altri e rafforza fa nostra posizione polemica». Ma già il 22 lu­ glio si dimostrava scettico «sulle possibilità che la conferenza na di riunirsi nuovamente», e insisteva nella proposta solo per lo scompiglio che poteva gettare nel campo avverso. Ci crede­ va di più Mussolini, che senza che la proposta fosse stata an­ cora inoltrata alla parte tedesca aveva già «elaborato un pro­ getto di comunicato per l’incontro del Brennero: è basato sul­ la proposta di conferenza internazionale» u . Sintomatica del fatto che la consultazione reciproca tra i due partner dell’alleanza faceva sempre acqua, a due buoni mesi dalla conclusione del patto, era la riflessione di Ciano se­ condo la quale si doveva comunque premettere «che la nostra proposta vale solo in quanto i tedeschi non abbiano preventi­ vamente deciso di fare la guerra, poiché in tal caso sarebbe inutile discutere». Ma sintomatico anche del logoramento del rapporto con l’ambasciatore a Berlino Attolico, reo forse di rappresentare la situazione con più realismo e più conoscenza delle intenzioni dei tedeschi di quanto Ciano non volesse af­ ferrare, pur senza atteggiarsi a eroe né proporsi quale protago-1

    11 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 22 luglio 1939.

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    CAPITOLO XI

    nista di una sistematica opposizione alla linea della diplomazia fascista12, fu il fatto che Ciano, diffidando ormai di lui, volle che a tutti i negoziati d’ora in poi partecipasse anche l’incari­ cato d’affari a Berlino Magistrati, con il quale aveva maggiore confidenza essendo fra l’altro suo cognato, il marito della so­ rella 13. Già prima che Attolico incontrasse Ribbentrop per pro­ spettargli la proposta dell’Italia, Ciano dubitava che la Germania potesse accettarla (Diario , 24 luglio). Lo stesso 24 luglio Attolico ricevette le istruzioni per il colloquio con Ribbentrop che Ciano aveva affidato a Magistrati1415. Si tratta di un testo piuttosto lungo, fondato su una contraddizione: da una parte, di fronte all’incalzare della crisi di Danzica, l’Italia era dell’avviso che il precipitare verso la guerra non vi avrebbe trascinato soltanto la Polonia ma anche le democra­ zie oqcidentali, per cui si imponeva la valutazione «se lo sca­ tenamento di una conflagrazione convenga oggi o meno». Dall’altra parte però, pur facendo riferimento al promemoria Cavallero e aggiungendo altre motivazioni a sostegno della convenienza di non scatenare una guerra subito (per esempio il fatto che la Spagna, di cui si valutava il peso contro la Francia, si stava orientando per aggregarsi anch’essa all’al­ leanza con le potenze dell’Asse, ma aveva bisogno di tempo per prepararsi), le istruzioni dicevano a chiare lettere cne «occorre dire innanzi tutto in forma chiara e senza malintesi che se il Fiihrer ritiene sia veramente oggi giunto il momento opportuno per una guerra l’Italia è disposta ad acconsentirvi al cento per cento». U n’affermazione preliminare stupefa­ cente, che non è sufficiente definire come prova delle oscilla­ zioni e delle non risolte contraddizioni della politica italiana, ma che attesta viceversa in pieno la sua ribadita subalternità: apparivano infatti sconfessate le ragioni per le quali si era so­ stenuta la necessità di aspettare almeno tre anni per darsi una preparazione adeguata, ma soprattutto si accettava a priori

    12 Si veda su di lui il giudizio di Enrico Serra in Leonardo A. Losito (a cura di), Bernardo Attolico, Fasano, Schena 1994; D.C. Watt, 1939, cit. Milano, Leonardo, 1989, pp. 268-270. 15 All’episodio Massimo Magistrati non fa cenno nelle sue memorie; esso però, oltre che dal contesto, risulta dall’esplicita affermazione di Ciano: «Sono scettico, molto scettico ormai su Attolico, che ha perso la testa. Mando un telegramma ordinando che Magistrati partecipi a tutti i negozia­ ti» (G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, alla data del 22 luglio 1939) « Testo in DDI, V ili, voi. XII, n. 662.

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    DAL PATTO D’ACCIAIO ALLA N ON BELLIGERANZA

    una valutazione che poteva rispecchiare gli interessi della Germania, non comunque quelli dell’Italia né quindi, presu­ mibilmente, quelli dell’alleanza. Un secondo punto da rilevare nel testo di Ciano erti il ca­ rattere europeo della progettata conferenza, concepita essen­ zialmente come colpo ad effetto, non per conseguire un risul­ tato concreto e non limitato. Da notare che la limitazione all’Europa riportava in primo piano sostanzialmente la formu­ la di Monaco, che tanto successo aveva recato alle potenze dell’Asse: Il carattere di tale conferenza dovrebbe essere assolutamente europeo, per poter decidere, si ripete, unicamente sui problemi stret­ tamente europei, ossia interessanti le relazioni tra le grandi Potenze europee. Verrebbero così escluse la Russia, dato che essa è Potenza a carattere intercontinentale, l’America e il Giappone. Si riunirebbero quindi intorno al tavolo soltanto la Germania, l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, la Polonia (dato il suo interesse diretto a quei pro­ blemi), e, per controbilanciare nettamente la Polonia stessa, la Spagna che verrebbe così ad essere posta senz’altro nel plano di grande Potenza europea occidentale. )

    Il documento di Ciano conteneva infine un ultimo ele­ mento degno di essere richiamato, ossia una sorta di dichiara­ zione di metodo che era anche una dichiarazione ideologica, una professione di fede “autoritaria” che svelava anche la con­ vinzione secondo cui la conferenza sarebbe risultata utile per le potenze dell’Asse, né le avrebbe esposte al rischio di perde­ re la faccia, circostanza nella quale risiedeva la superiorità del­ la diplomazia fascista sulle democrazie: In una conferenza internazionale infatti i Paesi autoritari sono sempre in vantaggio perché i loro rappresentanti sono liberi, e pron­ ti a qualsiasi azione, senza essere schiavi delle ripercussioni sulle pub­ bliche opinioni. E a ciò si aggiunge per loro, soprattutto, la grande forza che è costituita dall’essere sempre pronti a ricorrere, in caso di necessità, ad un’immediata soluzione di forza, mentre nei Paesi de­ mocratici ciò non appare possibile. In conclusione quindi, nel caso di una Conferenza europea sulle basi suesposte, Germania ed Italia, strettamente unite e sicure delle loro mosse, avrebbero grande pro­ babilità di successo.Il* Il 26 luglio Ciano registrava il risultato negativo del col­ loquio tra Attolico e Ribbentrop nei pressi di Salisburgo: ne­ gativa la reazione di Ribbentrop alla proposta della conferen­ za. «Ne parlerà al Fiihrer ma è ormai facile supporre che la co­ sa non andrà in porto». L’unica soluzione immediata sembra451

    CAPITOLO XI

    va il rinvio del previsto incontro «tra i due capi» {J)iario, 26 lu­ glio). Dai dispacci inviati nello stesso giorno da Attolico u emerse chiaramente il disinteresse dei tedeschi, ai quali non in­ teressava neanche il carattere “tattico” della conferenza, su cui tanto insisteva la parte italiana. Erano infatti anzitutto convin­ ti che la continuazione della «guerra dei nervi» in atto avrebbe stroncato gli avversari e li avrebbe costretti a cedere; Hitler inoltre non era disposto a mettersi attorno a un tavolo con nes­ suno, meno che mai con la Polonia: il fatto stesso di sedersi at­ torno a un tavolo poteva dare un’impressione di debolezza, una conferenza per giunta implicava l’obbligo di concessioni che Hitler non intendeva comunque fare. Inoltre se la confe­ renza, come tutto lasciava prevedere, fosse fallita, la responsa­ bilità sarebbe stata fatta ricadere su Italia e Germania. Una ra­ gione di più per non farne nulla. Attolico era consapevole che non c’era nessuna schiarita in vista per la Polonia («La guerra dei nervi non può continuare all’infinito») ma sembrò tran­ quillizzato dal fatto che l’interlocutore tedesco affermava di es­ sere d’accordo che convenisse per il momento evitare una con­ flagrazione generale, per cui si sarebbe astenuto da azioni di forza, ritenendo per il momento sufficiente «potere isolare la Polonia». Probabilmente Attolico non colse quale fosse il dato più importante che emergeva da tutti i contatti: che la Germania non intendeva farsi legare le mani da nessuno, tan­ tomeno dalla sua alleata. Negativi sulla conferenza, i tedeschi non lo erano altret­ tanto sull’ipotesi dell’incontro Hitler-Mussolini. Attolico ebbe un nuovo colloquio con Ribbentrop e tornò a riferirne a Ciano il 28 luglio1516. Ma in Attolico restavano i dubbi sull’atteggia­ mento dei tedeschi, tanto che - a quanto diceva - aveva posto a Ribbentrop l’interrogativo diretto sulle ragioni dell’incontro al massimo livello a breve scadenza: «Ifchances are for war rin­ contro si comprende ed è anzi necessario, if they are not, esso può essere utilmente differito». Ma il colloquio non aveva tranquillizzato del tutto Attolico, che in coda riferiva voci di un imminente colpo di mano tedesco su Danzica, previsto ad­ dirittura per il 15 agosto. L’incontro era rinviato. Da un successivo dispaccio di Attolico, che comunicava su informazione di Ribbentrop che

    15 Cfr. DD1, V il i, voi. XII, in particolare n. 687 in data 26 luglio 1939; resoconto tedesco in A D A P , D, Bd. VI, n. 718. 16 Attolico a Ciano, in D DI, V ili, voi. XII, n. 717.

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    DAL PATTO D’ACCIAIO ALLA N ON BELLIGERANZA

    Hitler si era preso altro tempo per valutare la necessità o me­ no dell’incontro con Mussolini, risultava chiaro che per la Germania l’urgenza di una consultazione immediata sembrava superata17. Non così i dubbi dell’ambasciatore, il quale si ar­ rovellava a cercare di interpretare il senso delle cose dette e non dette. Poiché l’incontro era rinviato ma non scartato, Attolico continuava a pensare che i tedeschi avessero «qualco­ sa di pressante e importante allo stesso tempo da dirci». E ri­ spondeva: «In che questo qualcosa possa consistere non è, al­ lo stato degli atti, difficile indovinare: la Germania non esclu­ de la possibilità di una guerra immediata». Ma con ciò si tor­ nava al problema degli obblighi assunti dalle due parti con­ traenti con il Patto d’acciaio. L’incontro, si domandava al­ quanto ingenuamente Attolico, significava che Mussolini avrebbe potuto influenzare (ma lo voleva?) Hitler, mentre ri­ fiutarlo «o continuare a procrastinare equivarrebbe praticamente a lasciare alla Germania piena libertà di azione fino ad accettare un fatto compiuto suscettibile di implicare anche noi». L’argomentare di Attolico sembrava ribadire costantemente la preoccupazione che l’Italia potesse restare tagliata fuori dal momento decisivo e decisionale: Ribbentrop parla con la massima indifferenza di una guerra di dieci anni. Questo significa, però, non preoccuparsi affatto degli in­ teressi degli altri e nella specie dei propri Alleati, cui frattanto, e cioè ancora in tempo di pace, si lesina il carbone e si negano 50 batterie controaeree di cui la Germania ha già da un anno nelle proprie ma­ ni quasi il doppio del controvalore. Dubito forte che la Germania, appunto allo scopo di poter resistere indefinitamente e nella sua mo­ destia ritenendosi d’altra parte l’elemento preponderante e decisivo della vittoria ci tratterebbe in tempo di guerra, per quanto riguarda gli approvvigionamenti, meglio di quanto ci tratta in tempo di pace. Dalla risposta data ieri e da me telegrafata si dovrebbe argui­ re che il Fiihrer non abbia, ancora, in cuor suo deciso per la pace e per la guerra. Decidere veramente non potrebbe mai - a rigor di lo­ gica e ai trattato - senza l’Italia18. Un testo per più di un verso profetico non solo per la prassi dell’alleanza instaurata nell’immediato ma anche per le modalità con le quali si sarebbe sviluppato il rapporto tra i due

    17 Attolico a Ciano, in DDI, V ili, voi. XII, n. 731 in data 31 luglio 1939. 18 Attolico a Ciano, in DDI, V ili, voi. XII, n. 743 in data 1° agosto 1939.

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    partner nel corso di un eventuale conflitto. Tutto ciò non fu minimamente compreso dal ministro degli Esteri fascista. La sua reazione a quello che considerava l’allarmismo di Attolico fu che egli avesse «perso del tutto la testa» (Diario, 2 agosto), in ciò confortato dal disaccordo di Magistrati con Attolico 19 Il 4 agosto Ciano mostrava di voler venire a capo di quel­ lo che continuava a considerare l’allarmismo dell’ambasciato­ re a Berlino: Continua il bombardamento allarmistico di Attolico. Non rie­ sco a veder più chiaramente la situazione. Comincio a pensare al­ l’opportunità di un mio incontro con Ribbentrop. È venuto il mo­ mento di saper veramente come stanno le cose. Il giuoco è troppo grosso per attenderne inerti gli sviluppi1920. Il 6 agosto riceveva il consenso di Mussolini all’idea del­ l’incontro con Ribbentrop, partendo dalla premessa che all’Italia non convenisse seguire la Germania sulla strada della guerra subito, per le ragioni già esplicitate nel memoriale Cavallero; l’incontro Hitler-Mussolini avrebbe avuto luogo senza fretta in un secondo momento, dopo che i ministri degli Esteri avessero aperto la strada al chiarimento. Il 9 agosto Ribbentrop diede il suo consenso all’incontro, che avrebbe avuto luogo a Salisburgo ITI agosto. Alla vigilia della partenza Ciano annotava: Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi, documenti alla mano, che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia. La no­ stra preparazione non è tale da lasciarci credere sicura la vittoria. Le possibilità sono del 60 per cento: così almeno giudica il Duce. Tra tre anni, invece, le possibilità saranno dell’ottanta per cento. Mussolini ha sempre in mente l’idea di una conferenza internazionale. Credo che la cosa sarebbe ottima21. I colloqui, che si svolsero a Salisburgo dall’11 al 13 ago­ sto, furono il primo atto della commedia degli inganni che si svolse tra i contraenti dell’alleanza, ma anche la riprova prima che a cacciarsi in una posizione di subalternità nei confronti della Germania erano stati i capi fascisti. Il furore antitedesco

    19 Cfr. lettera di Magistrati a Ciano del voi. XII, n. 740 e Massimo Magistrati, L'Italia a Mondadori, 1956, pp. 389-390. 20 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. 21 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi.

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    1° agosto 1939 in DDI, V ili, Berlino (1937-1939), Milano, I, 4 agosto 1939. I, 9 agosto 1939.

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    che Ciano ostentò nei Diari a partire da quest’epoca non si tra­ dusse mai in linea politica; Mussolini, nelle oscillazioni dei suoi comportamenti, finì per assecondare sempre i tedeschi perché i suoi sogni di gloria e di grandezza dipendevano interamente dal successo delle loro armi. A nulla valsero pertanto l’intenzione e il tentativo di met­ tere in evidenza la difformità di valutazione della situazione tra i due alleati. Prima àncora che avessero luogo gli incontri tra Ciano da una parte, Ribbentrop e Hitler dall’altra, Mussolini aveva steso di suo pugno un progetto di comunicato sui collo­ qui che doveva sottolineare la volontà delle due parti di risol­ vere le questioni internazionali pendenti per via di negoziati. «Il Duce - annotò Ciano il 10 agosto - è più che mai convinto della necessità di ritardare il conflitto». Bisognava fare presen­ te ai tedeschi che era da evitare un conflitto con la Polonia «poiché è ormai impossibile localizzarlo e una guerra generale sarebbe per tutti disastrosa». Nei Documenti diplomatici italia­ ni si trovano due redazioni del progetto di comunicato dei col­ loqui: nella prima si sottolineava che le potenze alleate avreb­ bero resistito con la forza «ad ogni tentativo di aggressione che fosse diretto contro di loro», ma che erano d’accordo nel voler perseguire la via della pace e il metodo dei normali negoziati diplomatici per risolvere i «problemi che turbano così grave­ mente la vita dell’Europa». Nella seconda, più secca, si mani­ festava l’intenzione di resistere «alla politica di accerchiamen­ to voluta dalle grandi democrazie» ma si ribadiva la volontà di procedere per le normali vie diplomatiche alla soluzione dei problemi aperti22. Così redat.o il comunicato rappresentava il punto di vista di uno soltanto dei due partner. La Germania non aveva nessuna intenzione di sottoscrivere un impegno di pace, neppure a termine, quale in sostanza era anche la solu­ zione proposta dall’Italia. Alla fine infatti non vi fu neppure un comunicato comune; la stampa si sarebbe limitata a dare noti­ zia dell’awenuto incontro registrando una generica identità di vedute. Il che non aveva impedito all’agenzia ufficiosa tedesca di diffondere unilateralmente un’informazione che sottolinea­ va la «concordanza del cento per cento» tra le parti e la non necessità di ulteriori colloqui tra le stesse23.

    22 I testi in DD1, V il i, voi. XII, nn. 809, 810. 23 II testo della comunicazione del Deutsche Nachrichten Bùro fu in­ viato a Roma da Magistrati, che richiamava l’attenzione sul fatto che l’amba­ sciata a Berlino non ne era stata preventivamente informata, ed è ora ripro­ dotto in D DI, V ili, voi. XIII, n. 28 in data 14 agosto 1939.

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    La realtà dei colloqui è riflessa nel Diario di Ciano e nei verbali che il ministro fascista redasse a parte. Il tono risentito di Ciano lo fa apparire addirittura prevenuto nella sua diffi­ denza verso Ribbentrop: «Troppe volte ha mentito circa le in­ tenzioni germaniche verso la Polonia per non sentire il disagio di quanto deve dirmi e di quanto si appresta a fare». Quindi i capi fascisti sapevano con quale tipo ai interlocutori avevano a che fare: e allora perché si erano messi dalla loro parte? Questo interrogativo apparentemente elementare e banale è la chiave di volta per cercare di capire tutto il comportamento della po­ litica fascista e in particolare della direttrice di Mussolini, dalla conclusione dell’alleanza all’entrata in guerra e oltre. La convinzione che Ciano trasse dal colloquio con Ribbentrop fu nettissima, nulla avrebbe arrestato la Germania sulla via della guerra: «La volontà del combattimento è impla­ cabile. Egli respinge ogni soluzione che possa dare soddisfa­ zione alla Germania ed evitare la lotta. Sono certo che anche qualora si desse ai tedeschi più di quanto ànno chiesto, attac­ cherebbero lo stesso perché sono presi dal dèmone della di­ struzione». Il giorno 12 Ciano incontrò anche Hitler: l’impres­ sione non mutò, «impassibile e implacabile nella sua decisio­ ne», dice che «localizzerà il conflitto con la Polonia», ma era delirio di onnipotenza pensare che tutto potesse dipendere da lui soltanto. Lungi dal circoscrivere il conflitto Hitler tentò di lusingare la parte italiana, come vedremo non senza successo: «Parla con molta calma e si eccita soltanto quando consiglia a noi di vibrare al più presto il colpo di grazia alla Jugoslavia». N é Hitler né Ribbentrop mostravano di avere compren­ sione per i problemi e le difficoltà che la guerra immediata avrebbe posto all’Italia. «In fondo - confidava a se stesso Ciano il 12 agosto - sento che l’alleanza con noi vale per i te­ deschi soltanto per quel quantitativo di forze che noi potremo distrarre dai loro fronti. Niente di più. Le nostre sorti non li in­ teressano. Sanno che la guerra sarà decisa da loro e non da noi. Ci promettono, alla fine, un’elemosina». Questo che nelle in­ tenzioni di Ciano doveva essere il bilancio distruttivo dell’al­ leanza appena conclusa era in realtà il giudizio più spietato (e involontariamente veritiero) che potesse essere espresso sulla bancarotta della politica fascista. Ma il risentimento che continuò a covare nell’animo di Ciano era condiviso solo parzialmente da Mussolini. Ciano era furente per essere stato attirato in una trappola («Ci hanno in­ gannato e mentito») ed ebbe la vaga sensazione che si prepa­ rasse la fossa per il regime e per il paese. E pose il problema se in fondo il comportamento tedesco non liberasse l’Italia dagli 456

    DAL PATTO D'ACCIAIO ALLA N ON BELLIGERANZA

    impegni appena assunti, anche se darne pubblica espressione non poteva non equivalere ad una forte autocolpevolizzazione. «Comunque dato il contegno tedesco io ritengo che noi ab­ biamo le mani libere e propongo di agire di conseguenza, di­ chiarando cioè che noi non intendiamo partecipare a un con­ flitto che non abbiamo voluto né provocato» (13 agosto). In realtà, l’unico modo per uscire da il’impasse sarebbe stato quel­ lo di denunciare l’alleanza appena stipulata, a costo di confes­ sare la propria insipienza e la propria irresponsabilità, non cer­ to per professare un’innocenza che la politica fascista non po­ teva comunque invocare. Di questo inestricabile cumulo di re­ sponsabilità e di reciproci inganni dovette essere più consape­ vole Mussolini, il quale stretto tra l’orgoglio di non confessare gli errori commessi, un malinteso senso di onore e la volontà espansionistica, finì per lasciarsi determinare principalmente da quest’ultima: «Le reazioni del Duce sono di varia natura. Dapprima mi dà ragione. Poi dice che l’onore lo obbliga a marciare con la Germania. Infine afferma che vuole la sua par­ te di bottino in Croazia e in Dalmazia». Difficile pensare che in questa situazione e con questo stato d’animo l’Italia potesse esercitare una funzione moderatrice. I verbali degli incontri stesi da Ciano (e pubblicati la pri­ ma volta nella raccolta L’Europa verso la catastrofe) nella so­ stanza non aggiungono nulla a quanto annotato nel Diario24. Consentono tuttavia di cogliere con maggiore incisività la drammaticità dello scontro che si verificò tra le posizioni dei due interlocutori. Ribbentrop, incalzava Ciano, era «chiuso nella sua pervicace ed irragionevole volontà di conflitto». Ribbentrop parte da due assiomi sui quali è vano tentare con lui di discutere poiché risponde ripetendo l’assioma stesso ed evitan­ do qualsiasi argomentazione. Questi assiomi sono: 1. Il conflitto non si generalizzerà e l’Europa assisterà impas­ sibile all’implacabile stritolamento della Polonia da parte della Germania. 2. Che anche qualora Francia ed Inghilterra volessero interve­ nire, si trovano nella materiale impossibilità di recare offesa alla Germania ed all’Asse ed il conflitto finirebbe sicuramente con la vit­ toria delle Potenze totalitarie. Ribbentrop non mancò di sottolineare l’atteggiamento ostile all’Asse della Jugoslavia e auspicò che, approfittando pe­

    24 Cfr. R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe, cit., voi. li, pp. 78-88.

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    raltro della debolezza di quest’ultima, «l’Italia voglia cogliere l’occasione dell’affare polacco per liquidare la sua partita con la Jugoslavia, in Croazia e in Dalmazia». Tutto a suo avviso concor­ reva a rendere la situazione favorevole all’iniziativa tedesca. Nell’America vedeva i segnali di una crescente volontà di neu­ tralità ed isolamento. Quanto al progetto di comunicato predi­ sposto da parte italiana, nessuno dei suoi princìpi poteva essere accettato; l’allusione al metodo delle trattative diplomatiche sa­ rebbe stata interpretata come una prova di debolezza da parte delle potenze dell’Asse25. Né diverso fu l’andamento del colloquio con Hitler. L’azione contro la Polonia fu al centro delle sue argomentazioni: «Hider si dichiara deciso a liquidare definitivamente la situazio­ ne entro il 15 ottobre», con le argomentazioni già note, in ag­ giunta alle quali ripetè la convinzione che il conflitto con la Polonia sarebbe rimasto localizzato. Da notare che il colloquio con Hitler, che insisteva nell’incitare l’Italia a liquidare la Jugoslavia, riserbava almeno due sorprese. La prima, che era piuttosto una velenosa insinuazione destinata a fare ingoiare all’Italia situazioni ben altrimenti compromettenti, era un cenno alla questione dell’Alto Adige, per la quale sin dal 21 giugno era­ no in corso i negoziati veri e propri, dei quali Hitler si servì per fare pesare sull’Italia il prezzo che la Germania sosteneva di ave­ re già pagato per ottenerne il consenso all’alleanza. Con dubbia analogia - si deve ritenere - con la questione delle minoranze te­ desche in Polonia, Hitler «ripete per ben due volte - e con mol­ ta energia - che il ritiro degli allogeni dall’Alto Adige è stato un duro colpo al prestigio germanico e suo personale». La seconda era la rivelazione, al di fuori di ogni consulta­ zione come d’obbligo in base all’alleanza appena conclusa, e in termini anche più espliciti di quanto già non fosse emerso dai col­ loqui con Ribbentrop, che i rapporti tedesco-sovietici erano alla vigilia di una svolta assai importante. Si trattava di una delle informazioni più rilevanti che Hitler utilizzò a sostegno della te­ si che il conflitto con la Polonia sarebbe rimasto localizzato. «La Russia non si muoverà. Le trattative di Mosca [dei franco-ingle­ si, N.d.A.] sono state un completo fallimento [...]. Al contrario procedono molto favorevolmente i contatti russo-germanici, ed è proprio di questi giorni una richiesta russa per l’invio a Mosca di un plenipotenziario tedesco che dovrà trattare il patto di amici­ zia». Alle obiezioni di Ciano circa l’impegno delle due potenze di

    25 R. Mosca (a cura di), L ’Europa verso la catastrofe, cit., voi. Il, ver­ bale dell’incontro con Ribbentrop, pp. 78-81.

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    prendere due-tre anni di tempo prima di promuovere iniziative suscettibili di provocare conflitti, Hitler oppose la necessità di

    una urgente iniziativa tedesca contro la Polonia. In tal modo, egli ieva un imprevisto problema di interpretazione generale deleanza: i due-tre anni valevano, semmai, per il caso di un con­ flitto generale, non per un’iniziativa localizzata e singolare come quella della Germania in Polonia. Quest’ultima rientrava nell’e­ saltazione delle azioni individuali da parte di ciascuna delle po­ tenze - anche questo un modo singolare di intendere i patti a al­ leanza - come mezzo per esaltare l’alleanza nel suo complesso: così le iniziative unilaterali dell’Italia in Abissinia, in Spagna, in Albania, avevano esaltato la potenza complessiva dell’Asse. Si trattava in verità di iniziative assunte comunque al di fuori di im­ pegni di alleanza (e nel caso dell’Abissinia anche all’infuori dell’Asse) che ancora non esistevano, per cui erano avvenute, be­ ne o male, in un contesto diverso anche dal punto di vista giuri­ dico. Il secondo colloquio con Hider del 13 agosto non portò al­ tre novità se non la conferma che ormai la macchina da guerra te­ desca era inarrestabile. L’Italia era tacitata con l’invito ad occu­ parsi dell’area di influenza che a parole le veniva riconosciuta: «L’azione contro la Polonia prova quale sia la vera direttrice di marcia del popolo tedesco. L’Italia, che invece è per sua posizio­ ne geografica la Nazione dominante nel Mediterraneo, dovrà sul­ le sponde di questo mare affermare e allargare il suo impero. Non vi sono possibilità di contrasto fra i due imperialismi. Ricorda che anche Bismarck scrisse una lettera a Mazzini per af­ fermare questa verità». La vera novità di questo secondo incon­ tro con Hitler era che Ciano apprese che in realtà l’azione tede­ sca avrebbe avuto inizio anche prima della metà d’ottobre: «Termine ultimo per l’inizio delle operazioni: la fine di agosto». La conclusione dell’incontro, con la preghiera di trasmettere a Mussolini l’invito a presenziare alle rappresentazioni wagneriane a Bayreuth, non sembra uno scenario adeguato a rendere una at­ mosfera così carica di nubi come quella che Ciano trovò e lasciò a Salisburgo 26.

    H

    26 R. Mosca (a cura di), L’Europa verso la catastrofe, cit., voi. II, pp. 8288 sui colloqui con Hitler. E opportuno precisare che dei colloqui CianoRibbentrop non esiste un resoconto tedesco, nei documenti diplomatici te­ deschi risultano i resoconti dei colloqui Hitler-Ciano, in ADAP, D, Bd. VII, nn. 43 e 47. Poco o nulla aggiunge il breve racconto che dei colloqui fa l’in­ terprete ufficiale Paul Schmidt, Statist aufder diplomatischen Biibne 1923-45, Bonn, Athenaum Verlag, 1954 [1* ed. 1949], pp. 446-448; inoltre M. Magistrati, L’Italia a Berlino, cit., pp. 394-403.

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    Stando alle note di Ciano, le uniche d’altronde assieme ai ricordi di Magistrati che rendano da parte italiana testimonian­ za di quelle drammatiche settimane, i tentennamenti di Mussolini durarono poco. Anche se non è dato vedere che co­ sa proponesse in alternativa Ciano, per il quale si trattava di rin­ viare ma non di revocare l’eventualità del conflitto, è sicuro che prima ancora di ricevere ulteriori notizie sulla conclusione del patto tedesco-sovietico, circa il quale l’Italia aveva avuto da fon­ te diretta qualche indiscreta anticipazione a Salisburgo, Mussolini aveva confermato la sua linea di solidarietà con la Germania nell’imminente conflitto. Al ritorno di Ciano da Salisburgo l’Italia aveva acquisito la consapevolezza ultima che la Germania era in procinto di aggre­ dire la Polonia: permaneva la grande incognita, se il conflitto sa­ rebbe rimasto localizzato o meno. La prospettiva che comunque atterriva Ciano non sembrava distogliere Mussolini dal desiderio di tenere fede all’alleanza, ma soprattutto di approfittare dell’e­ ventuale marcia militare tedesca per gettarsi nella mischia, av­ ventandosi sulla Jugoslavia a predare «la sua parte di bottino in Croazia e in Dalmazia»27. L’alternanza di umori che caratterizzò il comportamento di Mussolini nelle ultime settimane di agosto, senza che mai preva­ lesse la propensione a revocare il patto di alleanza, non sembra essere stata modificata neppure dal fatto nuovo dell’awenuta conclusione del patto tedesco-sovietico che sarebbe stato firma­ to a Mosca il 23 agosto 1939. La notizia pervenne a Roma nella tarda serata del 21 agosto, allorché Ciano cercò di mettersi in contatto con Ribbentrop per indurlo ad un ennesimo incontro e apprese invece che il ministro degli Esteri del Reich era in attesa dì importanti notizie da Mosca, cui fece seguito poco dopo “il colpo di scena”, ossia la comunicazione che Ribbentrop era in procinto di partire per la capitale sovietica per firmare «il patto politico con i Soviet». Ma quanto si trattò di un colpo di scena? Talvolta è stato enfatizzato il fatto che il partner tedesco avrebbe tenuto all’oscu­ ro la parte italiana dei negoziati in corso con l’Unione Sovietica, quasi a fornire all’Italia un’ulteriore prova dell’inadempienza del­ la Germania ai patti. In realtà, già aalla pubblicazione dei docu­ menti diplomatici italiani e tedeschi, ma soprattutto dallo studio non più recente ma sempre valido di Toscano 28, dovrebbe esse­

    27 G. Ciano, Diario 1939-1943, cit., voi. I, 13 agosto 1939. 28 Cfr. Mario Toscano, L’Italia e gli accordi tedesco-sovietici dell’agosto 1939, Firenze, Sansoni, 1955.

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    re risultato chiaro che l’Italia era sufficientemente informata, an­ che se non fu mai consultata formalmente. Fu informata diret­ tamente da Berlino, dallo stesso ministero degli Esteri, sia pu­ re ad intermittenza e sempre a cose fatte. E a Salisburgo Ribbentrop e Hitler accennarono esplicitamente a quei nego­ ziati. Ma già il 5 agosto erano pervenute a Roma due comuni­ cazioni diverse ma convergenti: dall’ambasciatore Augusto Rosso da Mosca 29 e da Attofico da Berlino30, nelle quali si da­ va per certo il positivo sviluppo dei negoziati commerciali e non si escludeva la possibilità di un accordo politico. I segnali dunque non erano mancati. La relativa sorpresa che si è volu­ ta sottolineare pone altri problemi: perché la parte italiana, che pure aveva auspicato il miglioramento dei rapporti con l’Urss, non sentì il bisogno di chiedere maggiori e più incalzanti infor­ mazioni ai tedeschi? Al più tardi il 17 agosto l’ambasciatore Rosso comunicava a Roma che dall’ambasciatore tedesco a Mosca Friedrich von Schulenburg aveva appreso la possibilità di una rapida conclusione di un patto di non aggressione con l’Urss31. L’evidenza documentaria pone in luce l’incapacità della politica fascista di cogliere l’importanza dei segnali e del­ le informazioni pervenutele e conferma quindi come del ruolo subalterno nel quale fu tenuta l’Italia non fu responsabile sol­ tanto il comportamento dell’alleata ma anche, se non in primo luogo, la colpevole insipienza della diplomazia italiana. Questa stessa insipienza non consentì ai diplomatici fa­ scisti di cogliere esattamente neppure il significato dell’awenuta conclusione del patto. A leggere le annotazioni del Diario di Ciano sembra che anch’egli fosse stato stregato dal «colpo da maestri» messo a segno dai tedeschi; la prima rea­ zione fu come sempre di giubilo per lo smacco subito da Francia e Inghilterra, con l’occhio sempre rivolto alla possibi­ lità, ora a maggior ragione, di approfittare per lanciarsi contro la Jugoslavia. Ciano, l’uomo che diceva di voler abbandonare l’alleanza con la Germania, non aveva trovato di meglio che accelerare le manovre dei separatisti croati: «Io ho comincia­ to a mobilitare i nostri amici croati in Italia e in luogo» (22 agosto). L’accordo, tornava a riflettere il giorno dopo, non era poi «così fondamentale». Ancora più preoccupante fu il fatto che l’Italia avesse ricevuto informazioni parziali; il 25 agosto

    29 Rosso a Ciano in data 5 agosto 1939, in DDI, V ili, voi. XII, n. 780. 30 Attolico a Ciano in data 5 agosto 1939, in DDI, V ili, voi. XII, n. 787. n DDI, V ili, voi. XIII, n. 69.

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    l’ambasciatore Rosso comunicava di aver avuto a Mosca un colloquio con Ribbentrop dal quale risultava che «patto già firmato sarà accompagnato da Protocollo o scambio di note» su cui Ribbentrop avrebbe riferito a Ciano quanto prima ^ Commenta Toscano: Bisogna riconoscere che le informazioni date da Ribbentrop a Rosso, pur senza entrare nei particolari delle intese convenute con Stalin e con Molotov, [...] erano quanto meno sufficienti a richiama­ re l’attenzione di Palazzo Chigi sull’esistenza di un protocollo segre­ to tedesco-sovietico, che, dati i temi discussi e la procedura verbale preannunciata dal ministro degli esteri nazista per riferire a Ciano, non poteva non essere di grande im portanza3233.

    L’Italia non colse la rilevanza di queste informazioni e non sfruttò la notizia dell’esistenza di un protocollo segreto, che avrebbe potuto svelare alla diplomazia fascista la vera portata dell’accordo. Al di là del patto di non aggressione, per l’imme­ diato esso comportava anche un piano di spartizione dell’Europa centrorientale, che in cambio di rilevanti pegni ter­ ritoriali a favore dell’Urss consentiva alla Germania di assestarsi su posizioni avanzate nel centro dell’Europa, a conferma di co­ me il contenzioso con la Polonia non fosse altro che un pretesto per l’acquisizione di posizioni di forza e di potenza. Il 25 agosto Hitler in persona inviava a Mussolini una lettera per illustrare il significato dell’accordo appena concluso con l’Urss (il quale creava «una situazione politica mondiale completamente nuova, che deve essere considerata come un fortissimo guadagno per l’Asse», come si esprimeva lo stesso Hitler) e per sollecitare la solidarietà dell’Italia («una piena comprensione» era l’espressio­ ne letterale usata da Hitler). Era di fatto l’annuncio dell’apertu­ ra delle ostilità contro la Polonia, una volta assicuratisi che non vi sarebbero state difficoltà da parte dell’Urss34. Scrive Ciano nel Diario alla data del 25 agosto: Prendo lo spunto [...] per persuadere il Duce a scrivere a Hitler: noi non siamo pronti a marciare: lo faremo se ci darete tutto quello che di mezzi bellici e di materie prime può abbisognarci. Non

    32 Rosso a Ciano, in DDI, V ili, voi. XIII, n. 264. 33 M. Toscano, L’Italia e gli accordi tedesco-sovietici, cit., pp. 90-91. 34 II testo della lettera, già pubblicato in Hitler e Mussolini. Lettere e documenti, Milano, Rizzoli, 1945, n. 1 è ora in DDI, V ili, voi. XIII, n. 245.

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    è comunicazione come io avrei voluto: ma è già qualcosa. Il ghiaccio è rotto. [...] La telefono. La lettera di Mussolini a Hitler esprimeva soddisfazione per il riawicinamento alla Russia e precisava l’atteggiamento pratico dell’Italia nei termini seguenti: Se la Germania attacca la Polonia e il conflitto rimane localiz­ zato l’Italia darà alla Germania ogni forma di aiuto politico, econo­ mico che le sarà richiesto. Se la Germania attacca la Polonia e gli Alleati di questa con­ trattaccano la Germania, Vi prospetto l’opportunità di non assume­ re io l ’iniziativa di operazioni belliche date le attuali condizioni della preparazione militare italiana ripetutamente e tempestivamente se­ gnalate a Voi, Fùhrer, e a von Ribbentrop. Il nostro intervento può tuttavia essere immediato se la Germania ci darà subito i mezzi bellici e le materie prime per soste­ nere l’urto che i franco-inglesi dirigeranno prevalentemente contro di noi. Nei nostri incontri la guerra era prevista dopo il 1942, e a quell’epoca sarei stato pronto per terra per mare e per aria, secondo i piani concordati3536. Ciano trasmise la nota delle esigenze italiane ad Attolico}6. Il senso della richiesta italiana è racchiuso in que­ ste parole di Ciano: «Le nostre necessità sono enormi, poiché le scorte sono nulle o quasi. Si redige la lista: è tale da uccide­ re un toro, se la potesse leggere» (Diario, 26 agosto). Mussolini accompagnò la lista di materie prime (a prescindere dalle esi­ genze di armamenti e di macchinari industriali) rinnovando la motivazione della situazione d’attesa dell’Italia, quasi a volersi scusare con Hider: Io non vi avrei mandato questa lista o avrebbe contenuto un minor numero di voci e cifre molto minori, se avessi avuto il tempo d’accordo previsto per accumulare scorte e accelerare il ritmo del­ l’autarchia. Senza la certezza di questi rifornimenti, ho il dovere di dirvi che i sacrifici ai quali io chiamerei il popolo italiano - sicuro di esse­ re obbedito - potrebbero essere vani e compromettere con la mia an­ che la vostra causa37. 35 Testo già in H itler e M ussolini, cit., n. 2, ora in DDI, V ili, voi. xm, n. 250. 36 Cfr. la nota 2 al documento in D D I citato alla nota precedente. 37 Testo in Hitler e Mussolini, cit., n. 4, ora in DDI, V ili, voi. xm, n. 293.

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    CAPITOLO XI

    Di rimando, Hitler confermò che la Germania non era in grado di soddisfare le richieste di forniture dell’Italia e insinuò che se avesse ricevuto altri lavoratori italiani avrebbe potuto aumentare la produzione di munizioni e con ciò coprire buo­ na parte del fabbisogno italiano38. Come si vede, la Germania non perdeva occasione di spremere dall’Italia il potenziale di manodopera del quale aveva bisogno. La divisione del lavoro - loro la tecnica, noi gli uomini - suggerita e programmata da Mussolini funzionava. Ed era il contributo dell’Italia che Hitler forse preferiva al contributo militare diretto, nonostan­ te l’idea della neutralità dell’Italia nella guerra imminente po­ tesse sembrare a Mussolini un fattore di declassamento sotto il profilo morale, prima ancora che sotto quello della politica di potenza. Hitler non avrebbe potuto forzare l’immediato in­ gresso in guerra dell’Italia, proprio perché sapeva di non pote­ re dare gli aiuti richiesti. Si limitò perciò a prendere atto della decisione di Mussolini, chiedendo soltanto che l’Italia non an­ nunciasse prematuramente la sua intenzione di non scendere direttamente in campo per non alleggerire la pressione nei confronti di Francia e Inghilterra e quindi per tenere inchio­ date sulle posizioni delle democrazie occidentali a contatto con le frontiere italiane (anche e soprattutto coloniali) il mag­ gior numero possibile di forze nem iche39. L’intervento dell’Italia era rinviato nell’immediato, non era procrastinato sine die né tanto meno annullato. Questo fu il senso del comunicato con il quale il pomeriggio del 1° set­ tembre il governo fascista, condannato al fallimento un ultimo tentativo di Ciano di indurre la Germania a sedersi al tavolo del negoziato con Francia e Inghilterra, dopo che all’alba il Reich aveva iniziato l’invasione della Polonia, annunziò che «l’Italia non prenderà iniziativa alcuna di operazioni milita­ ri»40. L’allargamento del conflitto il 3 settembre con la scesa in campo di Francia e Inghilterra non modificò per il momento

    38 Lettera di Hitler dello stesso 26 agosto in Hitler e Mussolini, cit., n. 5, ora in DDI, V ili, voi. xin, n. 298. 39 Hitler e Mussolini, cit., n. 7, e in DDI, V ili, voi. xm , n. 329 origi­ nale tedesco e traduzione leggermente difforme da quella pubblicata nell’e ­ dizione Rizzoli. 40 Testo del comunicato in Hitler e Mussolini, cit., p. 24 con una in­ terpolazione di cui non si conosce la fonte e in «Corriere della Sera», 2 set­ tembre 1939. Per il quadro complessivo nel quale si collocava la decisione delTItalia rinviamo al cap. vili della ricostruzione di D. Bolech Cecchi, Non bruciare i ponti con Roma, cit.

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    DAL PATTO D ’ACCIAIO ALLA NON BELLIGERANZA

    la linea dell’Italia. Ma non di neutralità tra le parti in causa do­ veva trattarsi, bensì di “non belligeranza”. E il fatto che essa dovesse preludere all’ingresso dell’Italia in guerra al fianco della Germania non può essere oggetto di molti dubbi. Così come non restano dubbi circa il fatto che Mussolini si illuse an­ cora una volta di poter determinare il momento ed il contesto più favorevoli per l’ingresso in guerra dell’Italia. Tutte le ma­ nifestazioni della stampa fascista furono orientate a sostenere le ragioni della guerra della Germania e riecheggiano la soddi­ sfazione per la cancellazione delle «ultime tracce di Versailles» ad opera delle armi tedesche, spingendosi dunque ben al di là dell’esplicito ordine del ministero della Cultura popolare di non usare la menzione della “neutralità” 41. Del resto, già il 23 settembre il discorso di Mussolini alle gerarchie del fascismo bolognese non poteva non risuonare come campana di guerra: la parola d’orcline era quella di intensificare la preparazione bellica, nella convinzione che «astenersi da iniziative di carat­ tere bellico non significa che la guerra si possa eternamente evitare»42. Un messaggio meno cifrato di quanto si potrebbe pensare.

    41 Cfr. Claudio Matteini, Ordini alla stampa. La politica interna ed estera del regime fascista nelle “disposizioni” emanate ai giornali dal ministero della cultura popolare, Roma, Editrice polilibraria italiana, 1945, p. 77, alla data del 17 novembre 1939. L’espressione su Versailles citata nel testo si ri­ ferisce all’editoriale del «Corriere della Sera» del 9 settembre 1939, L’Italia

    fascista e gli avvenimenti europei. 42 Dall’editoriale del «Corriere della Sera» del 24 settembre 1939.

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    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    La fonte fondamentale del nostro lavoro è costituita dalla rac­ colta dei Documenti diplomatici italiani (DDI nel testo), editi a cura della Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici presso il ministero degli Affari esteri e precisamente dalle serie VII (1922-1935), 16 voli., 1953-1990, V ili (1935-1939), 1952-e IX (1939-1943), 1954-, Roma, Istituto po­ ligrafico dello Stato; con l’unica eccezione ancora del 1938 e del primo semestre del 1939 essi coprono ormai l’intero arco del regime fascista sino alla crisi del 1943. Tra le altre raccol­ te documentarie delle quali ci siamo serviti - oltre ai discorsi e agli scritti di Mussolini per i quali facciamo riferimento alla as­ sai imperfetta raccolta dell 'Opera omnia, 36 voli., a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Firenze, La Fenice, 1951-1963 - da segnalare i materiali documentari dell’attività dei ministri degli Esteri Grandi e Ciano. Del primo esiste un’ampia raccolta do­ cumentaria, selezionata da lui stesso: Dino Grandi, La politica estera dell’Italia dal 1929 al 1932, 2 voli., prefazione di Renzo De Felice, introduzione e cura di Paolo Nello, Roma, Bonacci, 1985. Si tratta di un’edizione criticamente poco accurata, ricca di omissioni e non esente da manipolazioni su cui ricbiamò l’attenzione MacGregor Knox, I testi “aggiustati” dei discorsi 467

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    segreti di Grandi, «Passato e presente», 13 (gennaio-aprile 1987), pp. 97-117; essa tende a riprodurre un’immagine apo­ logetica dell’opera di Grandi, “defascistizzandola”: operazione cui non sfuggono neppure i due volumi biografici dello stesso Paolo Nello, e in particolare Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio, Bologna, Il Mulino, 1993. Per quanto riguarda Galeazzo Ciano, documento fondamentale per la storia della politica estera e insieme testimo­ nianza di costume del periodo fascista rimane il Diario, che ci­ tiamo per quanto riguarda la prima fase da Diario 1937-1938, Bologna, Cappelli, 1948 e per gli anni successivi da Diario 1939-1943,2 voli., Milano, Rizzoli, 1963 [ l a ed. 1946]. Esso va integrato con i verbali degli incontri tra Mussolini, Ciano e di­ plomatici e uomini di Stato stesi da Ciano e raccolti da Rodolfo Mosca, L’Europa verso la catastrofe. 184 colloqui di Mussolini... raccolti da Galeazzo Ciano (1936-1942), 2 voli., Milano, Il Saggiatore, 1964 [ l a ed. 1948]. Da ricordare ancora, sebbene in gran parte superata dalla pubblicazione dei documenti di­ plomatici italiani e tedeschi, la vecchia raccolta del carteggio Hitler e Mussolini. Lettere e documenti, con introduzione e no­ te di Vittorio Zincone, Milano-Roma, Rizzoli, 1946, purtroppo mai ristampata e integrata con criteri scientifici. Dell’ormai sterminata documentazione politico-diploma­ tica relativa alle altre potenze e della memorialistica straniera si è tenuto conto nella misura minima necessaria a integrare le fonti italiane e a fornire qualche indispensabile riscontro, ci­ tando di volta in volta le relative fonti. A cavallo tra memorialistica e documentazione si colloca­ no memorie e ricordi autobiografici di esponenti della diplo­ mazia e di protagonisti della politica estera del fascismo, che qui si citano per quanto attiene al periodo considerato nel vo­ lume. In particolare: Pompeo Aloisi, journal: 25 juillet 193214 juin 1936, Paris, Plon, 1957; Giuseppe Bastianini, Uomini cose fatti. Memorie di un ambasciatore, Milano, Vitagliano, 1959; Renato Bova Scoppa, Colloqui con due dittatori, Roma, Ruffolo, 1949; Roberto Cantalupo, Fu la Spagna. Ambasciata presso Franco, Milano, Mondadori, 1948; Paolo Vita-Finzi, Giorni lontani. Appunti e ricordi, Bologna, Il Mulino, 1989; Dino Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1985; Raffaele Guariglia, Ricordi 1922-1946, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1949; Raffaele Guariglia, Primi passi in diplomazia e rapporti dal­ l’ambasciata di Madrid 1932-1934, a cura di Ruggero Moscati, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1972; Francesco Jacomoni di San Savino, La politica dell’Italia in Albania, 468

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    Bologna, Cappelli, 1965; Mario Luciolli, Palazzo Chigi: anni

    roventi. Ricordi di vita diplomatica italiana dal 1933 al 1948, Milano, Rusconi, 1976; Massimo Magistrati, L’Italia a Berlino (1937-1939), Milano, Mondadori, 1956; Egidio Ortona, Diplomazia di guerra. Diari 1937-1943, Bologna, Il Mulino, 1993; Pietro Quaroni, Valigia diplomatica, Milano, Garzanti, 1956; Fulvio Suvich, Memorie 1932-1936, a cura di Gianfranco Bianchi, Milano, Rizzoli, 1984. A queste opere specifiche del settore bisogna aggiungere la memorialistica più generale di politici e militari (Luigi Federzoni, Alessandro Lessona, Giuseppe Bottai, Pietro Badoglio) del periodo fascista, tra la quale spicca per competenza e larghezza d’orizzonte l’opera dell’ex ministro per gli Scambi e Valute Felice Guarneri, Battaglie economiche fra le due guerre, a cura di Luciano Zani, Bologna, Il Mulino, 1988 [ l a ed. Battaglie economiche tra le due grandi guerre, 2 voli., Milano, Garzanti, 1953]. Tra le opere generali sulla storia d’Italia del periodo, che dedicano adeguata attenzione alla politica estera, vanno ricor­ dati almeno Giorgio Candeloro, Il fascismo e le sue guerre 1922-1939, in Id., Storia dell’Italia moderna, 11 voli., Milano, Feltrinelli, 1956-1986, voi. IX; Enzo Santarelli, Storia del mo­ vimento e del regime fascista, 2 voli., Roma, Editori Riuniti, 1967; Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira, Storia dell’Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1956; Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Ruggiero Romano, Corrado Vivanti (coordinata da), Storia d’Italia, 6 voli., Torino, Einaudi, 19721976, voi. IV, Dall’Unità a oggi, t. 3; Nicola Tranfaglia, La pri­ ma guerra mondiale e il fascismo, in Giuseppe Galasso (diretta da), Storia d’Italia, 24 voli., Torino, Utet, 1976-1995, voi. XXII; Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, 6 voli., Roma-Bari, Laterza, 1995-, voi. IV, Guerre e fa ­ scismo 1914-1943 (ed ivi il saggio di Elena Aga Rossi che cite­ remo più avanti). Per quanto riguarda le opere specifiche sulla politica estera del fascismo, ben poche sono quelle che abbracciano l’intero arco del ventennio. Fra queste un classico della pole­ mica antifascista come il libro di Gaetano Salvemini, Mussolini diplomatico (1922-1932), Bari, Laterza, 1952 che aveva visto la luce in origine in Francia nel 1932 e che era limitato quindi al primo decennio della politica fascista, ma che successivamen­ te sarà rifuso nell’opera dello stesso Salvemini Preludio alla se­ conda guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1967, e la pubblica­ zione, importante in quanto anticipa anche carte delf Archivio del ministero degli Esteri, di Augusto Torre e al., La politica estera italiana dal 1914 al 1943, prefazione di Giuseppe 469

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    Rossini, Roma, Eri, 1963 (contributi di Augusto Torre, Rodolfo Mosca, Ruggero Moscati, Renato Grispo, Renato Mori, Mario Toscano, Gianluca André, Pietro Pastorelli). I contributi che si riferiscono al ventennio fascista sono quindi nella maggioranza di carattere storiografico e interpre­ tativo, o svelti profili di carattere generale. Tra i contributi del primo tipo, utili fra l’altro per una ricostruzione della storia della storiografia della politica estera del fascismo nel suo divenire fortemente condizionata anche dai tempi di pubblicazione dei DDI, sono tuttora meritevoli di segnalazione le rassegne di Giorgio Rumi, Tendenze e caratteri degli studi sulla politica estera fascista (1945-1946), «Nuova ri­ vista storica», gennaio-aprile 1967, pp. 149-168 e Pietro Pastorelli, La storiografia italiana del dopoguerra nella politica estera fascista, «Storia e politica», ottobre-dicembre 1971, ora ripreso in id., Dalla prima alla seconda guerra mondiale.

    Momenti e problemi della politica estera italiana 1914-1943, Milano, Edizioni universitarie Lettere Economia e Diritto, 1997. Inoltre discutono problemi interpretativi generali: Salvatore Sechi, Imperialismo e politica fascista (1882-1939), «Problemi del socialismo», settembre-dicembre 1972, pp. 766796; Jens Petersen, La politica estera del fascismo come proble­ ma storiografico, in Renzo De Felice (a cura di), L’Italia fra te­ deschi e alleati, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 11-55; Enzo Collotti, Fascismo: la politica estera in Nicola Tranfaglia (diret­ to da), Il mondo contemporaneo, 10 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1978-1981, voi. I, Storia d’Italia, a cura di Fabio Levi, Umberto Levra, N. Tranfaglia, t. 1, pp. 434-446; Marco Palla, Imperialismo e politica estera fascista, in Guido Quazza e al., Storiografia e fascismo. Con appendice bibliografica, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 75-98; MacGregor Knox, Il fascismo e la politica estera italiana, in Richard J. B. Bosworth, Sergio Romano (a cura di), La politica estera italiana 1860-1985, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 287-329. Appartengono al secondo tipo i saggi generali di Luigi Salvatorelli, Il fascismo nella politica internazionale, ModenaRoma, Guanda, 1946, tra i primissimi contributi ad una rifles­ sione sulla politica estera del fascismo con particolare atten­ zione al contesto generale in cui questa operò; di Mario Donosti, Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista, Roma, Edizioni Leonardo, 1945, frutto delle riflessioni di un diplo­ matico del periodo (l’autore è in realtà Mario Luciolli); di Giorgio Rumi, Idimperialismo fascista, Milano, Mursia, 1974, che si valse già della prima conoscenza archivistico-documentaria degli atti della politica fascista. Qualche spunto offrono 470

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    anche opere di più lungo periodo come Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza. L’Italia dall’Unità ad og­ gi, Bologna, Il Mulino, 1991 e soprattutto Brunello Vigezzi, politica e opinione pubblica in Italia dall’unità ai giorni nostri. Orientamenti degli studi e prospettive della ricerca, Milano, Jaca Book, 1991. Un capitoletto sul periodo del fascismo si trova in­ fine nello svelto profilo di Liliana Saiu, La politica estera italia­ na dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999. Un discorso a parte merita l’opera di Renzo De Felice che, pur senza avere mai affrontato organicamente la politica estera del fascismo, su di essa è intervenuto ripetutamente in diversi impegnativi capitoli della sua monumentale biografia di Mussolini, oltre ad avere largamente promosso e influenzato gli studi dei suoi allievi e collaboratori. Alle acquisizioni cono­ scitive e documentarie recate con la sua opera non corrispon­ de a nostro avviso un adeguato impianto interpretativo e con­ cettuale; il nostro dissenso dall’interpretazione di molti atti della politica fascista nella presentazione che ne fa De Felice è così radicale che nel testo abbiamo generalmente omesso di se­ gnalarlo, limitandoci ad indicare di volta in volta le parti del­ l’opera relative ai singoli argomenti affrontati. La passiva rice­ zione del modello interpretativo offerto pro domo sua da Dino Grandi e la sottovalutazione degli elementi dell’ideologia fa­ scista nella politica estera sono tra i punti di metodo fonda­ mentali alla base della ricostruzione di D e Felice di cui, dal punto di vista generale, sono da vedere almeno Alcune osser­ vazioni sulla politica estera mussoliniana, in R. De Felice (a cu­ ra di), L’Italia fra tedeschi e alleati, cit., pp. 57-74. Va notato che, come non esistono storie generali della po­ litica estera del fascismo, non esiste neppure una compiuta sto­ ria dell’amministrazione degli Esteri nel periodo fascista. Tra gli strumenti al momento esistenti vanno segnalati, nell’ambito dell’opera a cura di Guido Melis, IdAmministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica. Le strutture e i dirigenti, 4 voli., Bologna, Il Mulino, 1992, il volume a cura di Vincenzo Pellegrini II Ministero degli affari esteri, e, per quanto riguarda il personale diplomatico, la ricognizione per ora più accurata ma pur bisognosa di molte integrazioni di Fabio Grassi Orsini, La diplomazia, in Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario Giuseppe Rossi (a cura di), Il regime fascista. Stori, e storio­ grafia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 277-328. Qualche cenno anche in Enrico Serra, La burocrazia della politica estera italia­ na, in R. J. B. Bosworth, S. Romano (a cura di), La politica este­ ra italiana, cit., pp. 69-89. Da sottolineare comunque che l’as­ senza pressoché totale di biografie scientifiche di esponenti 471

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    della diplomazia e della politica estera e coloniale del periodo del fascismo lascia ancora spazio ad una larga area di ricerche, oltre che ad interrogativi cui non è ancora dato di rispondere compiutamente. Un primo tentativo di ricostruzione Biografi­ ca è offerto dagli atti del convegno nel cinquantenario della morte dell’ambasciatore Attolico in Leonardo A. Losito (a cu­ ra di), Bernardo Attolico, Fasano, Schena, 1994. Da segnalare anche la scarsa attenzione negli studi per il rapporto propaganda-politica estera che tanta importanza eb­ be nel periodo del fascismo sia per quanto riguarda l’immagi­ ne che dell’estero si volle affermare in Italia, sia per la stru­ mentalizzazione che del fascismo fu fatta all’estero. In man­ canza di studi generali, tra i pochi contributi degni di nota se­ gnaliamo almeno Enrico Deeleva, Politica estera, storia, propa­ ganda: l’ISPl di Milano e la Branda (1934-1943), in Jean Baptiste Duroselle, Enrico Serra (a cura di), Italia e Franda 1939-1945, 2 voli., Milano, Franco Angeli, 1984, voi. I, pp. 294-356; e Jerzy W. Borejsza, Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Roma-Bari, Laterza, 1981 che affronta il problema più generale dell’infiltrazione fascista in un’area ben determinata, ben oltre quindi la semplice propa­ ganda. Osservazioni analoghe si potrebbero fare anche per il rapporto politica estera-spirito pubblico, che in un regime co­ me quello fascista assume rilievo anche dal punto di vista del­ la relazione tra politica estera e affari interni: per questo aspet­ to, al di là di citazioni di studi particolari, un primo approccio può essere fornito dalla documentazione offerta da Simona Colarizi, JJopinione degli italiani sotto il regime, 1929-43, Roma-Bari, Laterza, 1991. Va da sé che lo studio della politica estera del fascismo implica la cornice del più generale contesto internazionale; per questa parte generale, al di là cioè degli studi specifici, indi­ chiamo come punti di riferimento l’opera ormai classica di Pierre Renouvin, Le crisi del secolo XX , 1929-1945, 2 voli., Firenze, Vallecchi, 1961, e Ennio Di Nolfo, Storia delle rela­ zioni internazionali 1918-1922, Roma-Bari, Laterza, 1994. Per l’inquadramento nell’ambito del fascismo internazionale mi permetto di rinviare a Enzo Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989. Non può meravigliare che la prima fase degli studi sulla politica estera del fascismo abbia visto i contributi concentrar­ si sulle origini della politica del regime e sul primo decennio, rispecchiando lo stato di pubblicizzazione della documenta­ zione. Debitrice dei DDI è la prima opera generale dovuta a 472

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    Ennio Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana 19191933, Padova, Cedam, 1960, che sviluppa e documenta anche molte delle suggestioni precocemente avanzate da Salvemini. Tra origini ed esordio si colloca il libro di Giorgio Rumi, Alle origini della politica estera fascista 1918-1923, Bari, Laterza, 1968; tra gli studi sui preliminari e il passaggio dallTtalia libe­ rale al fascismo ci limitiamo a richiamare la nuova edizione di Franco Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981 [ristampa accresciuta dell’edizione del 1965] e Franco Gaeta (a cura di), Antologia della stampa nazionalista, Bologna, Cappelli, 1965; Massimo Legnani, Espansione economica e poli­ tica estera nell’Italia del 1919-21, «Il Movimento di liberazione in Italia», 108 (luglio-settembre 1972), pp. 3-51. Il volume di Giampiero Carocci, La politica estera dell’Italia fascista 19231928, Bari, Laterza, 1969 rimane lo studio introduttivo miglio­ re alla svolta del 1925; dello stesso Carocci sono da vedere, an­ che per le loro implicazioni metodologiche, gli Appunti sull’im­ perialismo fascista negli anni '20, «Studi storici», V ili, 1967, n. 1, pp. 113-137; di carattere generale è lo studio di Alan Cassels, Mussolini’s Early Diplomacy, Princeton, Princeton University Press, 1970. Si vedano inoltre Ruggero Moscati, Gli esordi del­ la politica estera fascista. Il periodo Contarmi. Corfu, in A. Torre e al., La politica estera italiana, cit., pp. 84-87; Ettore Anchieri, E esordio della politica estera fascista, «Il Politico», settembre 1955, pp. 211-231. Tra gli studi particolari: James Barros, The Corfu Incident o f 1923. Mussolini and the League o f Nations, Princeton, Princeton University Press, 1965; Ettore Anchieri, L’affare di Corfu alla luce dei documenti diplomatici italiani, «Il Politico», dicembre 1955, pp. 374-395. Conserva valore testimoniale Legatus (pseudonimo di Roberto Cantalupo), Vita diplomatica di Salvatore Contarmi, Roma, Sestante, 1947. Sull’Albania come questione chiave della politica estera dalla prima guerra mondiale al fascismo si vedano: Pietro Pastorelli, L’Albania nella politica estera italiana 1914-1920, Napoli, Jovene, 1920; Pietro Pastorelli, Italia e Albania 1924-

    1927. Origini diplomatiche del Trattato di Tirana del 22 no­ vembre 1927, Firenze-Empoli, Poligrafico toscano, 1967 (Biblioteca della «Rivista di studi politici internazionali»); Giovanni Zamboni, Mussolinis Expansionspolitik a u f dem Balkan. Italiens Albanienpolitik vom I. bis zum II. Tiranapakt im Rahmen des italienisch-jugoslawischen Interessenkonflikts und der italienischen «imperialen» Bestrebungen in Sùdosteuropa, Hamburg, Helmut Buske Verlag, 1970; Sergio Pelagatti, Cattività politico-militare italiana in Albania tra il 473

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    1927 e il 1933 nelle carte del generale Alberto P'ariani, «Storia contemporanea», XXII, 1991, n. 5, pp. 809-848. Per l’atteggiamento verso l’emigrazione e i fasci all’estero dopo le considerazioni preliminari cu Enzo Santarelli, Intorno ai fasci italiani all’estero, in Id., Fascismo e neofascismo. Studi e problemi di ricerca, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 113-134, gli studi più importanti sono di Domenico Fabiano, La Lega Italiana per la tutela degli interessi nazionali e le origini aei Pasci italiani all’estero (1920-1923), «Storia contemporanea», XVI, 1985, n. 2, pp. 203-250 e soprattutto Emilio Gentile, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all’estero (1920-1930), «Storia contemporanea», XXVI, 1995, n. 6, pp. 897-956. Studi su aree regionali: Aldo Albonico, Immagine e destino delle comunità italiane in America latina attraverso la stampa fascista degli anni ’30, «Studi emigrazione», 65 (marzo 1982), pp. 53-72; Alfio Bernabei, Esuli ed emigrati italiani nel Regno Unito 1920-1940, Milano, Mursia, 1997; Philip V. Cannistraro, Per una storia dei Fasci negli Stati Uniti (1921-1929), «Storia contemporanea», XXVI, 1995, n. 6, pp. 1061-1144; Mauro Cerutti, Fra Roma e Berna. La Svizzera italiana nel ventennio fascista, Milano, Franco Angeli, 1986; Daria Frezza Bicocchi, Propaganda fasci­ sta e comunità italiane in USA: la Casa italiana della Columbia University, «Studi storici», XI, 1970, n. 4, pp. 661-697; Emilio Gentile, L’emigrazione italiana in Argentina nella politica di espansione del nazionalismo e del fascismo, «Storia contempo­ ranea», XVII, 1986, n. 3, pp. 335-396; Pierre Milza, Le fascisme italien à Paris, «Revue d’Histoire moderne et contemporaine», luglio-settembre 1983, pp. 420-452; Fiorenzo Momati, Gli intellettuali, il partito e il fascismo italiano a Losanna, «Storia contemporanea», XXVI, 1995, n. 6, pp. 1003-1059; Leonardo Rapone, L'emigrazione come problema di politica estera. La questione degli Italiani in Francia nella crisi dei rap­ porti italo-francesi, 1938-1947, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1993, n. 1, pp. 151-195 (al di là della cronolo­ gia pone in realtà problemi di carattere generale); Roberta Suzzi Valli, Il fascio italiano a Londra. Uattività politica di Camillo Pellizzi, «Storia contemporanea», XXVI, 1995, n. 6, pp. 957-1001; Christine Wiegandt-Sakoun, Le fascisme italien en France, in Pierre Milza (a cura di), Les Italiens en France de 1914 à 1940, Roma, Ecole frangaise de Rome, 1986, pp. 421469. Per la propaganda all’estero, nella assoluta povertà di stu­ di, si veda Patrizia Salvetti, Immagine nazionale ed emigrazione nella Società “Dante Alighieri’’, Roma, Bonacci, 1995. Il nucleo più cospicuo degli studi più recenti è concen­ 474

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    trato sulla fase più dinamica della politica fascista, ossia sugli anni trenta. Tra gli studi di carattere diplomatico fondamenta­ le per il contesto è anzitutto Fulvio D ’Amoja, Declino e prima

    crisi dell’Europa di Versailles. Studio sulla diplomazia italiana ed europea 1931-1933, Milano, Giuffrè, 1967; inoltre, dello stesso autore, La politica estera dell’impero. Storia della politica estera fascista dalla conquista dell’Etiopia all’Anschluss, Padova, Cedam, 1967. Importante ma isolato negli studi rimane Traute Rafalski, Italienischer Easchismus in der Weltwirtschaftskrise 1925-1936, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1984. Propone spunti interpretativi generali Howard James Burgwyn, Il revi­ sionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Milano, Feltrinelli, 1979. Tra gli eventi di questo periodo attenzione particolare ebbe il Patto a quattro studiato da Giancarlo Giordano, Il patto a quattro nella politica estera di Mussolini, Correggio Emilia, Forni, 1976. Tra la pubblicistica del periodo fascista conserva valore documentario Francesco Salata, Il patto Mussolini. Storia di un piano politico e di un negoziato diplomatico, Milano, Mondadori, 1933. Il libro di Rosaria Quartararo, Roma tra Londra e Berlino. La politica estera fascista dal 1930 al 1940, Roma, Bonacci, 1980 si muove nella prospettiva infon­ data (oltre che inaccettabile) dellTtalia vittima delle altrui pressioni tacendo o minimizzando il bellicismo della politica fascista. Riprende la tematica del disarmo Cesare La Mantia, Il disarmo nella politica estera italiana 1931-1932, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1989; sottolinea il ruolo marginale dell’Italia Luca Micheletta, La dichiarazione dell’eguaglianza di diritti della Germania dell’11 dicembre 1932, «Storia contem­ poranea», XXVI, 1995, n. 5, pp. 695-730. Per la svolta degli anni trenta un’intelligente traccia in­ terpretativa nel quadro di una proposta di periodizzazione del­ l’intero arco della politica estera del fascismo nel saggio di Elena Aga Rossi, La politica estera e l’impero, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, cit., voi. IV, pp. 245-303. Per i rapporti con le potenze occidentali si veda Giovanni Buccianti, Verso gli accordi Mussolini-Laval. Il riavvicinamento italo-francese fra il 1931 e il 1934, Milano, Giuffrè, 1984; Francesco Lefebvre D ’Ovidio, L'intesa italo-francese del 1935 nella politica estera di Mussolini, Roma, Tip. Aurelia, 1984; Paola Brundu Olla, E equilibrio difficile. Gran Bretagna, Italia e Francia nel Mediterraneo, 1930-37, Milano, Giuffrè, 1980; e soprattutto Donatella Bolech Cecchi, L’accordo di due imperi. L’accordo italo-inglese del 16 aprile 1938, Milano, Giuffrè, 1977 e della stessa autrice, Non bruciare i ponti con Roma. Le rela­ 475

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    zioni fra l’Italia, la Gran Bretagna e la Francia dall’accordo di Monaco allo scoppio della seconda guerra mondiale, Milano, Giuffrè, 1986. Sui rapporti con la Gran Bretagna ancora Donald Cameron Watt, Gli accordi mediterranei anglo-italiani del 16 aprile 1938, «Rivista di studi politici internazionali», gennaio-marzo 1959. Per quanto riguarda il complesso dei problemi relativi al­ l’area danubiano-balcanica, al di là della bibliografia richiama­ ta nel contributo di Teodoro Sala, sono da ricordare per il ti­ tolo, più che per il contenuto, Nicola La Marca, Italia e Balcani fra le due guerre. Saggio di una ricerca sui tentativi di espansio­ ne economica nel Sudest europeo fra le due guerre, Roma, Bulzoni, 1979. In particolare sui rapporti con l’Austria: Enzo Collotti, Il fascismo e la questione austriaca, «Il Movimento di liberazione in Italia», 81 (ottobre-dicembre 1965), pp. 3-25; Enzo Collotti, Fascismo e Heimwehren: la lotta antisocialista nella crisi della prima repubblica austriaca, «Rivista di storia contemporanea», 1983, n. 3, pp. 301-337; Ennio Di Nolfo, I rapporti italo-austriaci dall’avvento del fascismo all’Anschluss, «Storia e politica», 1974, n. 1-2, pp. 33-81; Pietro Pastorelli, L’Italia e l’accordo austro-tedesco dell’l l luglio 1936, ora in Id., Dalla prima alla seconda guerra mondiale, cit., pp. 93-117. Fondamentale rimane sempre Julius Braunthal, La tragedia dell’Austria, Firenze, La Nuova Italia, 1955, che riproduce il carteggio Dollfuss-Mussolini ora ripreso nei DDL Sull’intreccio tra rapporti con l’Austria e rapporti con l’Ungheria sono da ricordare il saggio di Gyòrgy Rànki, Il pat­ to tripartito di Roma e la politica estera della Germania, «Studi storici», III, 1962, n. 2, pp. 343-375 e la pubblicazione docu­ mentaria a cura di Lajos Kerekes, Abenddàmmerung einer Demokratie. Mussolini, Gòmbós und die Heimwehr, WienZùrich, Europa Verlag, 1966; inoltre Alfredo Breccia, La poli­ tica estera italiana e l’Ungheria 1922-1933, «Rivista di studi po­ litici internazionali», 1980, n. 1, pp. 93-112; Howard James Burgwyn, La trojka danubiana di Mussolini: Italia, Austria e Ungheria, 1927-1936, «Storia contemporanea», XXI, 1990, n. 4, pp. 617-687. Sui rapporti con la Jugoslavia vedere tra l’altro Teodoro Sala, Le basi italiane del separatismo croato (1929-1941), in Massimo Pacetti (a cura di), L!imperialismo italiano e la Jugoslavia (Atti del convegno italo-jugoslavo, Ancona, 14-16 ottobre 1977), Urbino, Argalìa, 1981, pp. 283-351; Jams J. Sadkovich, Opportunismo esitante: la decisione italiana di ap­ poggiare il separatismo croato 1927-1929, «Storia contempora­ nea», XVI, 1985, n. 3, pp. 401-426; Antonio Tasso, Italia e 476

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    Croazia, voi. I, 1918-1940, Macerata, Tip. S. Giuseppe, 1967. Sempre valido Amedeo Giannini, Documenti per la storia dei rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia, Roma, Istituto per l’Europa orientale, 1934. Il libro di Alfredo Breccia, Jugoslavia 19391941. Diplomazia della neutralità, Milano, Giuffrè, 1978, seb­ bene cronologicamente orientato già in prospettiva del secon­ do conflitto mondiale, va comunque segnalato se non altro per l’accurata ricognizione delle fonti e della letteratura. Sulla guerra d’Etiopia, oltre ai titoli citati più avanti nell’Aggiunta alla nota storiografico-bibliografica a cura di Nicola Labanca, si ricordano, per quanto riguarda la ricostruzione del contesto diplomatico internazionale alla vigilia dell’aggressione italiana George Webster Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell’equilibrio europeo, Bari, Laterza, 1970; sui preparativi Giorgio Rochat, Militari e politici nella preparazione della cam­ pagna d’Etiopia. Studio e documenti 1932-1936, Milano, Franco Angeli, 1971; Giorgio Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia. Studi militari 1921-1939, Treviso, Pagus, 1991; sul de­ corso e le modalità della guerra Angelo Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-1941, Milano, Feltrinelli, 1965; Angelo del Boca, Gli italiani in Africa orientale, voi. II, La conquista del­ l’impero, Roma-Bari, Laterza, 1979; Angelo del Boca (a cura di), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, con contri­ buti di Giorgio Rochat, Ferdinando Pedriali, Roberto Gentilli, Roma, Editori Riuniti, 1996; Gianfranco Bianchi, Rivelazioni sul conflitto italo-etiopico, Milano, Ceis, 1967 (dalle carte inedite De Bono); Renzo De Felice, Mussolini il duce, 2 voli., Torino, Einaudi, 1974-1981, voi. I, Gli anni del consenso 1929-1936, cap. VI. Sul ruolo della propaganda nella campagna etiopica: Mario Isnenghi, Il radioso maggio africano del «Corriere della Sera», in Id., Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, pp. 92151; Adolfo Mignemi (a cura di), Sì o no padroni del mondo. Etiopia 1935-36. Immagini e consenso per un impero, Novara, Istituto storico della Resistenza, 1982; Rosario Mascia, Stampa e regime durante la guerra d’Etiopia. Dovere di cronaca, «Storia e dossier», aprile 1996, pp. 61-65; Luigi Goglia, La propagan­ da italiana a sostegno della guerra contro l’Etiopia svolta in Gran Bretagna nel 1935-36, «Storia contemporanea», XV, 1984, n. 5, pp. 845-907. Sugli sviluppi e le conseguenze internazionali: Renato Mori, L’impresa etiopica e le sue ripercussioni internazionali, in A. Torre e al., La politica estera italiana, cit., pp. 159-187; Renato Mori, Mussolini e la conquista dell’Etiopia, Firenze, Le 477

    NOTA STORJOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    Monnier, 1978; Aldo Caioli, II conflitto italo-etiopico e la Società delle Nazioni (3 ottobre 1933-3 maggio 1936), Trieste, Università degli studi, 1994; Esmonde M. Robertson, Mussolini fondatore dell’impero, Roma-Bari, Laterza, 1979; Max Gallo, LAffaire d ’Ethiopie aux origines de la guerre mon­ diale, Paris, Editions di Centurion, 1967; Manured Funke, Sanktionen und Kanonen. Hitler, Mussolini und der internationale Abessinienkonflikt 1934-1936, Diisseldorf, Droste Verlag, 1970 [tr. it. Sanzioni e cannoni 1934-1936. Hitler, Mussolini e il conflitto etiopico, Milano, Garzanti, 1972]. Sviluppa le relazioni tra politica navale e politica estera dopo la guerra d’Africa sotto il profilo della preparazione di una guerra di aggressione contro Francia e Inghilterra lo stu­ dio di Robert Mallet, The Italian Navy and Fascist Expansionism 1933-1940, London-Portland, Frank Cass, 1998, del quale peraltro non abbiamo potuto tener conto nel­ l’elaborazione del nostro lavoro. Sulla guerra di Spagna per il contesto generale si rinvia al­ le bibliografie specializzate: Juan Garcia Duran, La guerra civil espanola: fuentes, Barcelona, Editorial Critica, 1985; Nanda Torcellan, Gli italiani in Spagna. Bibliografia della guerra civile spagnola, Milano, Franco Angeli, 1985; tra gli studi più recenti sono fondamentali John F. Coverdale, I fascisti italiani alla guer­ ra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977; R . D e Felice, Mussolini il duce, cit., voi. II, Lo Stato totalitario 1936-1940, cap. IV. Si ve­ dano inoltre Hugh Thomas, Storia della guerra civile spagnola, Torino, Einaudi, 1963, e per i rapporti con lTtalia Manfred Merkes, Die deutsche Politik gegeniiber dem spanischen Bùrgerkrieg 1936-1939, Bonn, L. Ròhrscheid Verlag, 1961. La pur eccellente sintesi di Paul Preston, La guerra civile spagnola 1936-1939, Milano, Mondadori, 1999, trascura tuttavia fonti e bibliografia relative alla partecipazione italiana. Dal punto di vista documentario, da segnalare la rilevan­ te documentazione, pubblicata dall’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito con i quattro volumi (di cui due docu­ mentari) a cura di Alberto Rovighi e Filippo Stefani, La parte­ cipazione italiana alla guerra civile spagnola, Roma, Ufficio sto­ rico SME, 1992-1995. La storiografia italiana ha trascurato gli aspetti dell’inter­ vento fascista in Spagna concentrandosi, da una parte, sulla definizione dei caratteri della Spagna nazionalista, e dall’altra sull’opposizione antifascista e sulla partecipazione dell’antifa­ scismo alla guerra di Spagna. Per il primo aspetto si veda Luciano Casali (a cura di), Per una definizione della dittatura franchista, Milano, Franco Angeli, 1990; Luciano Casali, 478

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    Partito-, società e stato nei documenti del fascismo, del nazional­ socialismo e del franchismo, Bologna, Clueb, 1995. Per il se­ condo aspetto Luciano Casali, l i opinione pubblica italiana e la guerra civile spagnola, «Revista Internacional de Sociologia», 52 (ottobre-dicembre 1984), pp. 733-748. Sui rapporti tra Italia e Germania: Renzo De Felice, Mussolini e Hitler. I rapporti segreti 1922-1933, Firenze, Le Monnier, 1975; Meir Michaelis, I rapporti tra fascismo e nazi­ smo prima dell’avvento di Hitler al potere (1922-1933), «Rivista storica italiana», settembre 1973, pp. 544-600; Klaus-Peter Hoepke, La destra tedesca e il fascismo, Bologna, Il Mulino, 1971; Ettore Anchieri, Les rapports italo-allemands pendant Pé­ re nazifasciste, «Revue d’histoire de la deuxième guerre mon­ diale», VII, 26 (aprile 1957), pp. 1-23; Elisabeth Wiskemann, L'Asse Roma-Berlino, Firenze, La Nuova Italia, 1949; Jens Petersen, Hitler e Mussolini. La difficile alleanza, Roma-Bari, Laterza, 1975; Jens Petersen, Deutschland und Italien im Sommer 1933. Der Wechsel des italienischen Botschafters in Berlin, «Geschichte in Wissenschaft und Unterricht», 1969, n. 6, pp. 330-341; Jens Petersen, L’accordo culturale fra l’Italia e la Germania del 23 novembre 1938, in Karl Dietrich Bracher, Leo Valiani (a cura di), Fascismo e nazionalsocialismo (Atti del­ la settimana di studio 10-14 settembre 1984), Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 331-387; Brunello Mantelli, Dagli “scambi bilanciati” all’Asse Berlino-Roma, «Studi storici», XXXVII, 1996, n. 4, pp. 1201-1226; Mario Toscano, Le origini diploma­ tiche del patto d’acciaio, Firenze, Sansoni, 1956; R. D e Felice, Mussolini il duce, cit., cap. V. Sulla politica razzista del governo fascista: Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Milano, Comunità, 1982; Michele Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, Torino, Zamorani, 1994; Enzo Collotti, Die Historiker und die Rassengesetze in Italien, in Christof Dipper, Rainer Hudemann, Jens Petersen (a cura di), Faschismus und Faschismen im Vergleich. Wolfgang Schieder zum 60. Geburtstag, Kòln, SH-Verlag, 1997, pp. 59-77; Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1943, voi. I, Firenze, La Nuova Italia, 1993. Sulla questione dell’Alto Adige: Mario Toscano, Storia di­ plomatica della questione dell’Alto Adige, Bari, Laterza, 1967; Renzo De Felice, Il problema dell’Alto Adige nei rapporti italotedeschi dall’Anschluss alla fine della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1973. Sui rapporti economici: Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Ferzo Reich nel perio­ 479

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    do dell’Asse 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992. Sui rapporti con gli Stati Uniti: Gian Giacomo Migone, La stabilizzazione della lira: la finanza americana e Mussolini, «Rivista di storia contemporanea», aprile-giugno 1973, pp. 145-185; Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980; Claudia Damiani, Mussolini e gli Stati Uniti 1922-1935, Bologna, Cappelli, 1980; John P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, Bari, Laterza, 1972. Sul Giappone: Valdo Ferretti, Il Giappone e la politica estera italiana 1935-41, Milano, Giuffrè, 1995. Sui rapporti con altre aree: Renzo D e Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1988; Gianni Sorti, Gandhi in Italia, Bologna, Il Mulino, 1988; Furio Biagini, Mussolini e il sioni­ smo. 1919-1938, Milano, M&B Publishing, 1998 (non reca al­ cun contributo nuovo rispetto all’opera appena citata di De Felice); Anne Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio (1922-1940), Roma, Bonacci, 1987; Gianfranco Cresciani, Fascismo, antifascismo e gli italiani in Australia 1922-1945, Roma, Bonacci, 1979; Luigi Bruti Liberati, Il Canada, l’Italia e il fascismo 1919-1945, Roma, Bonacci, 1984; Joseph Schroder, I rapporti fra le potenze dell’Asse e il mondo arabo, «Storia contemporanea», II, 1971, n. 1, pp. 145-164; Rosaria Quartararo, L’Italia e lo Yemen. Uno studio sulla politica di espansione italiana nel Mar Rosso (19231937), «Storia contemporanea», X, 1979, n. 4-5, pp. 811-871. Sui rapporti con la Russia sovietica: Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca. La diplomazia italiana in Russia 1861-1941, Roma, Bonacci, 1993 (in particolare i capitoli IV e V); Rosaria Quartararo, Italia-Urss 1917-1941.1 rapporti politi­ ci, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, sebbene non sia in alcun modo condivisibile l’ipotesi dell’autrice che l’atteggia­ mento verso l’Urss dimostrerebbe come «Mussolini, in politi­ ca estera fu sempre privo di ogni dogmatismo ideologico, ri­ cercando esclusivamente l’utilità nazionale e scegliendo i pro­ pri partner dove li poteva trovare, e ciò del tutto indipenden­ temente dalle considerazioni di ordine ideologico». Sugli sviluppi successivi al Patto di Monaco e al Patto d’acciaio si veda in primo luogo l’ampio affresco di Donald Cameron Watt, 1939. Come scoppiò la guerra, Milano, Leonardo, 1989. Saggi particolari sull’atteggiamento dell’Italia ormai in prospettiva della guerra: Ettore Anchieri, Dal patto d ’acciaio al convegno di Salisburgo, «Il Politico», 1953, n. 1; Ettore 480

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBUOGRAFICA

    Anchieri, Dal convegno di Salisburgo alla non belligeranza ita­ liana, «Il Politico», 1954, n. 1, pp. 32-43; Mario Toscano, Il

    Patto d ’Acciaio - La seconda guerra mondiale - La “non bellige­ ranza” dell’Italia, in A. Torre e al., La politica estera italiana, cit., pp. 231-257; Mario Toscano, L’Italia e gli accordi tedesco­ sovietici dell’agosto 1939, Firenze, Sansoni, 1955; J. B. Duroselle, E. Serra (a cura di), Italia e branda 1939-1943, cit., voi. I; Ennio Di Nolfo, Romain Rainero, Brunello Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1938-40), Milano, Marzorati, 1988; Enzo Collotti, La politica dell’Italia nel settore danubiano-balcanico dal patto di Monaco all’armisti­ zio italiano, in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mon­ diale, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, 1967, pp. 5-71; Friedrich Siebert, Italiens Weg in den Zweiten Weltkrieg, Frankfurt a.M., Athenàum Verlag, 1962; Giuseppe Vedovato, Il conflitto europeo e la “non belligeranza” dell’Italia, Firenze, Sansoni, 1943.

    A G G IU N TA A LLA N O T A STO RIO G RAFICO -BIBLIO G RAFICA

    a cura di Nicola Labanca Sulla politica coloniale. A ben vedere la politica coloniale non è solo un settore della politica estera, né in una potenza libe­ rale né tantomeno in un regime tendenzialmente totalitario co­ me quello fascista italiano. Di conseguenza la storia coloniale dovrebbe occuparsi non soltanto delle vicende diplomatiche legate alla conquista e alla gestione dei territori imperiali, ma anche di quelle legate all’edificazione all’oltremare di società nuove (appunto, coloniali), e infine della rilevanza nella vita della madrepatria dell’oltremare stesso: in termini di propa­ ganda, di economia e altro. In Italia, com’è noto, studi così completi sono assai scarsi in generale e soprattutto per il pe­ riodo fascista. Oltre che a ritardi propriamente storiografici ciò non può non essere legato anche alla disponibilità delle principali fonti archivistiche, troppo a lungo sottratte alla libera consultazione da parte del Comitato per la ricostruzione dell’Opera dell’Italia in Africa che ne ha sempre rivendicato il controllo senza però sfruttarle e studiarle come esse avrebbero meritato. Tranne eccezionalissimi casi, le carte non sono così state prese in esame nemmeno per la pubblicazione dei Documenti diplo­ matici italiani, che risultano quindi per le vicende coloniali uti­ 481

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    li ma quanto mai lacunosi. Peraltro il Comitato, a differenza che per il periodo della prima guerra d’Africa, non ha pubbli­ cato per il periodo fascista raccolte documentarie ma solo stu­ di, spesso tendenziosi. Come se ciò non bastasse, va ricordato che l’attenzione degli studiosi, stranieri e italiani, si è prevalentemente appun­ tata sugli anni dell’impresa d’Etiopia (sulla quale cfr. più ol­ tre): l’interesse per il momento culminante ha però fatto di­ menticare la rilevanza della politica coloniale fascista, tanto ri­ spetto a quella delle altre potenze coloniali quanto rispetto al suo stesso epilogo del 1935-1936. Anche le opere generali di storia della politica estera riservano episodica attenzione alla dimensione internazionale della politica coloniale, salvo per quanto concerne appunto i prodromi diplomatici della guerra d’Etiopia. Con tali premesse si comprenderà perché si deve spesso rinviare ad opere sul contesto di lungo periodo: Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Roma-Bari, Laterza, 1976-1984, e dello stesso autore, Gli italiani in Libia, RomaBari, Laterza, 1986-1988; Giorgio Rochat, Il colonialismo ita­ liano. Documenti, Torino, Loescher, 1973; Jean-Louis Miege,

    L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1976; Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il coloniali­ smo italiano da Adua all’impero, Roma-Bari, Laterza, 1981; Nicola Labanca, Storia dell’Italia coloniale, Milano, Fenice 2000, 1994; testo canonico della storiografia colonialista e fa­ scista, Raffaele Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contempora­ nea. Da Assab all’impero, Milano, Hoepli, 1938. Tra le fonti documentarie si veda il recente Luigi Federzoni, 1927. Diario di un ministro del fascismo, Firenze, Passigli, 1993, anche se si riferisce ad un brevissimo periodo. Renzo D e Felice ha fatto scarsissimi accenni nella sua biografia mussoliniana alle que­ stioni coloniali (ma si veda soprattutto De Felice, Mussolini il duce, cit., voi. I), mentre già E. Santarelli, Storia del movimen­ to e del regime fascista, cit., vi aveva prestato maggiore atten­ zione. Fra i primi studi, viziati spesso da indulgenze, cfr. Carlo Giglio, La questione del Lago Tana (1902-1941), Firenze, Poligrafico toscano, 1951, e Enrico De Leone, La colonizzazio­ ne dell’Africa del Nord, voi. II, La Libia, Padova, Cedam, 1960. Già all’inizio degli anni settanta, Rochat aveva delineato i ca­ ratteri di fondo dell’elaborazione della politica coloniale in un tornante decisivo (G. Rochat, Militari e politici nella prepara­ zione della campagna d ’Etiopia, cit.) e documentato la rilevan­ za e la paradigmaticità della “riconquista” della Libia per l’in­ tera politica coloniale-militare del fascismo (Giorgio Rochat, 482

    NOTA STORIOGRAFICO-BIBLIOGRAFICA

    La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1930-31 nei documenti dell’archivio Graziani, «Il Movimento di libera­ zione in Italia», 110 (gennaio-marzo 1973), poi sviluppato in Giorgio Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31), in Enzo Santarelli e al., Omar Al-Mukhtar e la ri­ conquista fascista della Libia, Milano, Marzorati, 1981). Più tar­ di Luigi Goglia, Sulla politica coloniale fascista, «Storia con­ temporanea», XIX, 1988, n. 1, aveva abbozzato una proposta interpretativa che però non ha mai sviluppato e documentato. Fra gli studi monografici relativi ad una sola colonia, o ad un solo tema, cfr. Claudio Segrè, Gli italiani in Libia. Dall’età giolittiana a Gheddafi, Milano, Feltrinelli, 1978. Fra i pochi studi recenti per il periodo 1922-1934 cfr. Giampaolo Calchi Novati, IIannessione dell’Oltregiuba nella politica coloniale ita­ liana, «Africa», XL, 1985, n. 3, ora in Id., Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo, Roma, Istituto italo-africano, 1992; Angelo Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1991; Nicola Labanca (a cura di), Il Africa in vetrina. Storie di musei e dì esposizioni coloniali in Italia, Treviso, Pagus, 1992; e - per un tema importante - Giuseppe Maione, I costi delle imprese coloniali, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, cit. Una storia sociale del colonialismo italiano per il 19221934, come per il 1935-1943, è ancora da fare.

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    IND ICE DEI N O M I

    Abd el-Krim, 92 Adler, Friedrich, 48 Adler-Rudel, Shalom, 379 n. Aga Rossi, Elena, 86 n., 469,475 Agnelli, Giovanni, 237 Alatri, Paolo, 6 n. Albonico, Aldo, 474 Alessandro I, re di Jugoslavia, 233,234 Alfieri, Dino, 340, 366 Alfonso XIII, re di Spagna, 289 Al-Mukhtar Omar, 123 e n., 483 Aloisi, Pompeo, 195, 277, 468 Ambrosini, Gaspare, 414 n. Amendola, Giovanni, 104 n., 121 e n. Anchieri, Ettore, 32,473,479,480 André, Gianluca, 470 Anfuso, Filippo, 314 e n. Appony, Geraldina, 403, 413

    Ardemagni, Mirko, 280 Arfé, Gaetano, 170 n., 251 n. Asso, Pier Francesco, 95 n. Astuto dei Lucchesi, Riccardo, 127 Attolico, Bernardo, 191 e n., 362-364, 366, 396, 416 n„ 428,429 n„ 431 e n„ 432-436, 439 e n„ 448 e n„ 499, 450 e n., 451,452 e n., 453 en., 454, 461 e n„ 463, 472 Auriti, Giacinto, 52,53 Averescu, Alexandru, 228, 229 Avezzana, Romano, 157 Badoglio, Pietro, 85 e n., 106, 122,133, 202, 207, 220, 228, 254 n„ 270, 469 Baer, George Webster, 134 n., 259 n„ 477

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    INDICE DEI NOMI

    Balbo, Italo, 78, 80, 85 e n., 86, 101, 176, 177,287 Baldwin, Stanley, 332 Barros, James, 27 n., 473 Barthou, Louis, 234 Bastianini, Giuseppe, 143, 144 e n„ 145-149, 150 n„ 151, 161, 162, 167, 468 Baudoin, Paul, 400 e n. Bendotti, Angelo, 207 n. Benes, Edvard, 80, 176, 187, 367, 368 Bernabei, Alfio, 162 n., 474 Bettinelli, Anna, 84 n. Bessis, Juliette, 100 n. Bethlen, Stefano, 59, 60, 61 n. Biagini, Furio, 480 Bianchi, Gianfranco, 21 n., 110 n„ 132 n„ 469, 477 Bismarck, Otto von, 459 Blondel, Jules, 355, 356 e n., 365 Blum, Léon, 279, 281, 282, 284, 291,296, 298, 354,376 Bobbio, Norberto, 7 n. Bodrero, Alessandro, 231, 232 Bolech Cecchi, Donatella, 332 n., 333 n., 336 e n., 349 e n., 351 n., 352 n., 353 en., 360 n., 362 n„ 363 n„ 370 n„ 388 n„ 390 n., 400 n., 401 n., 416 n„ 417 n., 418 n., 420 n., 444 n., 464 n„ 475 Boninsegni, Pasquale, 154 Bonnet, Georges, 358, 381 n., 384 n., 387 n., 388 n., 389 e n., 390 n., 400 n., 418 e n. Bonservizi, Nicola, 157, 158 Borejsza, Jerzy, W. 472 Borgese, Giuseppe Antonio, 169 Boris, III re di Bulgaria, 231 Bosco, Giacinto, 265 n. Bosworth, Richard J.B., 9 n., 238 n., 470, 471 Bottai, Giuseppe, 274 e n., 376, 469

    Bova Scoppa, Renato, 277 n., 468 Bracher, Karl Dietrich, 423 n., 479 Brauchitsch, Walther von, 345 Braunthal, Julius, 476 Breccia, Alfredo, 61 n., 476, 477 Bresso, Paola, 248 n. Briand, Aristide, 71 e n., 74 Brundu Olla, Paola, 132 n., 475 Bruti Liberati, Luigi, 480 Buccianti, Giovanni, 102 n., 132 n„ 475 Burgio, Alberto, 54 n., 115 n. Burgwyn, Howard James, 33 n., 57 n., 58 n., 60 n., 241 n., 475, 476 Burnham, James, 162 Cadogan, Alexander, 420 Caetani di Sermoneta, Gelasio, 147, 148, 167 Caioli, Aldo, 477 Calchi Novati, Giampaolo, 92 n., 103 n., 483 Canaris, Wilhelm, 297, 299, 322 Candeloro, Giorgio, 131 n., 136 n„ 469 Canevari, Emilio, 95 n. Cannistraro, Philip V., 168, 169 n., 474 Cantalupo, Roberto, 9 e n., 17, 27 n., 80 e n., 106 n., I l i n., 124 n„ 299, 300 n„ 468, 473 Carocci, Giampiero, 25 e n., 26 e n., 29 n., 32, 33 n., 38 n., 58 e n., 59 e n., 85 n., 87 n., 107 n., 131 n.,211 en.,214 en.,215, 216 e n., 218 n„ 222 n., 224 e n., 225 e n., 227 e n., 229 e n., 232 n., 239 n„ 243, 473 Casali, Luciano, 478 Cassels, Alan, 473 Castronovo, Valerio, 210 n., 237 n. Casucci, Costanzo, 250 n.

    486

    INDICE DEI NOM I

    Cataluccio, Francesco, 103 n. Cavaliere, Ugo, 443, 445, 448, 450,454 Cavour, Camillo Benso conte di, 68, 178 Celovsky, Boris, 361 n. Cerruti, Vittorio, 188 n., 273, 276, 280-282. 291, 382 Ceretti, Mauro, 153 e n., 474 Chabod, Federico, 219 e n. Chamberlain, sir Austen, 34,107 Chamberlain, Neville, 278, 283, 332, 333 e n., 334, 335, 347, 348, 350, 359-362, 368-373, 383, 390-392, 393 e n„ 395, 396, 399, 401, 419, 420, 422, 430, 444 Chambrun, Louis-Charles Pineton de, 304 e n., Charles, sir Noel, 360 n., 363 Chautemps, Camille, 336 Cherubini, Giovanni, 87 n., 235 n. Chiaramonte Bordonaro, Antonio, 48 Chiavolini, Alessandro, 188 n. Christie, Bochko, 415 n. Churchill, Winston, 278, 283, 296, 420, 421 e n. Ciano, Galeazzo, 16-18, 22-24, 25 e n„ 60,164, 172 e n„ 227, 284, 289-468 passim Ciarlantini, Franco, 170 Ciasca, Raffaele, 85 e n., 275,276 n„ 482 Ciocca, Pierluigi, 97 n. Colarizi, Simona, 134 n., 248 n., 472 Collotti, Enzo, 50 n., 87 n., 131 n., 209 n„ 222 n., 227 n„ 230 n., 231 n„ 241 n„ 244 n„ 345 n„ 470, 472, 476, 479, 481 Colosimo, Gaspare, 103, 104 n. Contarmi, Salvatore, 25, 26 e n., 27 e n., 28, 41 e n., 42 n., 43,

    54, 56, 105, 106 n„ 109, 111 n., 124 n„ 213, 214, 223, 224, 473 Conti, Ettore, 116 e n. Coppola, Francesco, 4, 9 e n., 11 en.,32, 164,218, 227 e n. Corradini, Enrico, 4-6, 7 n., 137 Cortese, Paolo, 233 Coselschi, Eugenio, 164 Cot, Pierre, 291 Coverdale, John E, 319 n., 321 n., 478 Cresciani, Gianfranco, 480 Crispi, Francesco, 96, 101, 130 Crolla, Guido, 417 Daladier, Edouard, 182, 372, 373, 392, 400, 401 Damiani, Claudia, 61 n., 63 n., 65 n., 147, 480 D’Amoja, Fulvio, 80 n., 106 n., 191 e n„ 345 n„ 475 D’Annunzio, Gabriele, 3 De Benedetti, Emilio, 236 e n. De Biasi, Agostino, 167 De Bono, Emilio, 106, 107 n„ 122, 127, 132, 133, 134 e n„ 254, 270, 477 De Cecco, Marcello, 95 n., 238 e n. Deeleva, Enrico, 472 De Felice, Renzo, 22, 33 n., 34, 52 n., 82 n., 85 e n., 86 n., 90 e n., 110 n., 115 n., 119 n., 124 n., 132 n., 134 e n., 135 n„ 136 n., 208 n„ 210, 217 n.,218n„ 233 n., 259 n„ 313, 467, 468, 470, 471,477-480, 482 De Giorgis, Giovan Battista Emilio, 205 De Jouvenel, Henry, 181 e n. Del Boca, Angelo, 14 n., 83 n., 85 e n., 86 n., 87 n., 95 n., 105 n., 112 n„ 113 n„ 249 n„ 270 n., 274 n„ 471, 477, 482, 483

    487

    INDICE DEI NOMI

    Delbos, Yvon, 336 De Leone, Enrico, 482 Del Negro, Piero, 86 n. De Martino, Giacomo, 168 e n. De Michelis, Giuseppe, 139,140 n. De Rosa, Fernando, 154 De Rossi del Lion Nero, Pier Filippo, 289, 290,291 n. De Stefani, Alberto, 98, 238 De Vecchi di Val Cismon, Cesare Maria, 106, 120 e n., 121, 127 Diggins, John P, 61 n., 169 e n., 480 Di Marzio, Cornelio, 148, 149 Dinaie, Ottavio, 170 Di Nola, Carlo, 46 n. Di Nolfo, Ennio, 26 e n., 29 n., 33 n.,69 n., 72 e n., 83 n., 106 n„ 134 n„ 472, 473, 476, 481 Dipper, Christof, 479 Dogo, Marco, 206 n., 222 e n., 223 n„ 229 n.,231 n. Dollfuss, Engelbert, 194, 240, 241,243,306 n„ 476 Domarus, Max, 370 n. Donosti, Mario (vedi Luciolli Mario) Dradi Maraldi, Biagio, 206 n., 207 n. Drummond, sir Eric, poi lord Perth, 327 n„ 330, 331, 334, 335, 348-351, 353, 357-360, 381,416, 444 Duran, Juan Garcia, 478 Duroselle, Jean Baptiste, 472, 481 Eden, Anthony, 196, 197, 256, 261, 278, 283, 324, 327, 332 e n„ 333 e n„ 334-337,347-349, 420 Eichstadt, Ulrich, 306 n. Ellenbogen, Wilhelm, 48 Fabiano, Domenico, 474

    Falco, Gian Carlo, 97 n. Farinacci, Roberto, 299 Paure, Paul, 446 Federzoni, Luigi, 17, 98, 103, 104 n., 107 n„ 112, 113 e n., 121 e n., 122, 125, 127, 130, 469, 482 Ferrara, Patrizia, 84 n. Ferretti, Valdo, 335 n., 480 Filesi, Cesira, 104 n., 121 n. Filippo, principe di Assia, 364, 370,397 Firpo, Massimo, 92 n. Flandin, Pierre-Etienne, 198, 304 n. Forges Davanzati, Roberto, 218, 232 Franco, Francisco, 17, 80 n., 172, 285, 287-291, 293, 296, 297, 299, 300, 306, 311, 312, 314, 315, 316 e n„ 317-320, 322, 324, 327, 350, 359, 360, 382,383,396, 468 Frangois-Poncet, André, 382 e n„ 383, 384 n„ 386-388, 390 Frank, Hans, 307, 308, 338 Franzina, Emilio, 171 n. Frassati, Alfredo, 13 e n. Frezza Bicocchi, Daria, 169 e n., 474 Fuà, Giorgio, 95 n. Fucci, Franco, 107 n., 134 n. Funke, Manfred, 264 n., 266, 267 n., 478 Gaeta, Franco, 6 n., 473 Galasso, Giuseppe, 469 Galli, Carlo, 231, 232 e n. Gallo, Max, 259 n„ 478 Gamelin, Philippe, 202 Gandhi, 480 Gasbarri, Carlo, 104 n. Gasparini, Jacopo, 124 Gayda, Virginio, 218, 385 e n. Gennari, Egidio, 252

    488

    INDICE DEI NOMI

    Gentile, Emilio, 6 n., 142 n., 145 n„ 147, 148, 149 n„ 152 n„ 474 Gentili, Anna Maria, 92 n. Gentilli, Roberto, 477 Gheddafi, Muammar, 86 n., 483 Ghezzi, Carla, 112 n. Ghigi, Pellegrino, 344 Giannini, Amedeo, 54 n., 477 Giglio, Carlo, 92 n., 482 Giolitti, Giovanni, 7, 13, 38, 205 n. Giordano, Giancarlo, 183 e n., 475 Giovanna di Savoia, 231 Giovannucci, Francesco Saverio, 33 n. Giunta, Francesco, 219 Goebbels, Joseph, 315 e n. Goglia, Luigi, 85 n., 86 e n., 87 n„ 115 n„ 126 n„ 477, 482, 483 Goldinger, Walter, 46 n. Gòmbòs, Gyula, 61 n., 240, 242, 476 Gòring, Hermann, 164, 184, 192,193 n„ 307,318 e n„ 322, 324,332,338, 341,434 Gotti Porcinari, Carlo, 124 n. Grandi, Dino, 15, 17, 18, 21, 22, 27,31,33 n„ 34, 51, 52 e n., 53,59, 65 e n., 66 e n., 67 e n., 68, 69,71 e n„ 72, 73 e n„ 74, 75 e n., 76 e n., 77 e n., 78, 79 e n., 80, 109 e n., 110 n. 119 e n„ 139, 140 e n., 148-150, 162, 167, 168 e n., 175, 176 e n., 212,214,217,218 e n., 223 e n., 232, 240, 256, 260, 261, 272, 273 e n., 276, 277, 280, 283-285 , 286 n., 297, 298, 307, 310 e n„ 312-314, 320, 322, 323 e n„ 324-326, 332, 333 e n„ 334 n.,336,337,347, 348,359,365,384, 385,386 e

    n„ 467, 468, 471 Grange, Daniel, 125 n. Grassi Orsini, Fabio, 14 e n., 17 n.,27 n„ 87 n„ 471, 482 Gravelli, Asvero, 163 Graziani, Rodolfo, 85 e n., 106, 127, 274 e n„ 483 Grifone, Pietro, 95 n. Grispo, Renato, 470 Guariglia, Raffaele, 13 e n., 14, 17, 56 e n„ 106 n„ 132, 199 e n., 381 n., 382, 384 e n., 386, 388 e n., 400 e n., 418 e n., 468 Guarino, Giuseppe, 99 n. Guarneri, Felice, 95 n., 225 e n., 237, 238, 244 e n„ 245 e n„ 246 e n., 266 e n., 469 Guerri, Giordano Bruno, 25 n. Gulick, Charles A., 46 n. Guzzoni, Alfredo, 402 Hacha, Emil, 397 Hailè Selassiè, 118, 119 n., 135, 269, 270, 274 Halifax, lord Edward Wood, 348,391,420 Hassell, Ulrich von, 193 n., 243, 244 n„ 291, 302 e n„ 304, 318 n., 341 Henlein, Konrad, 361, 362, 366, 367 Herriot, Edouard, 78, 79 e n., Hess, Robert, 103 n. Hess, Rudolf, 338 Hill, Leonidas E., 312 n. Hindenburg, Paul von, 78 Hirschman, Albert O., 95 n., 245 e n. Hitler, Adolf, 35, 46 n„ 78, 178, 180, 183, 188, 189 e n„ 192, 193 n„ 195, 199, 215, 240, 241, 243, 244 e n„ 245 n„ 264 n., 300 n., 306 n., 309, 315, 318, 319 e n„ 327, 337-340,

    489

    INDICE DEI NOMI

    345, 346, 349, 355, 356, 359, 363, 364, 365 e n., 366-369, 370 e ri., 371-374, 382, 391, 392, 397, 419-425, 427, 431, 435, 445, 448, 452-456, 458, 459 e n., 461, 462 e n., 463 e n., 464 e n., 468, 479 Hoare, sir Samuel, 136,267,268, 271 Hoepke, Klaus-Peter, 165, 479 Hoover, Herbert, 65, 66, 79 Horthy, Nicola, 59, 61 n. Hossbach, Friedrich, 319 n. Hudemann, Rainer, 479 Ingram, Edward, 326 Insabato, Enrico, 124 n. Ipsen, Cari, 101 n. Isnenghi, Mario, 86 n., 87 n., 112 n„ 477 Jacomoni di San Savino, Fran­ cesco, 402 n., 408 e n., 409 n., 410, 411, 412 e n., 413 e n., 414 e n., 468 Keitel, Wilhelm, 416 Kennedy, Paul, 89 n. Kerekes, Lajos, 61 e n., 476 Kerensky, Aleksandr Fedorovic, 279,284 Klinkhammer, Lutz, 207 n., 209 n. Knox, MacGregor, 9 n., 73 n., 79 n., 87 n., 110 n., 211 e n., 215 en.,241 n„ 467, 470 Koci, Jak, 410 Labanca, Nicola, 82 n., 84 n., 86 n., 91 n., 100 n„ 105 n„ 113 n., 115 n„ 477, 481-483 La Manda, Cesare, 69 n., 475 La Marca, Nicola, 476 Lavai, Pierre, 69, 100, 132 n., 136, 194, 197-200, 216, 258,

    259, 260 e n., 262 , 267, 268, 271, 279, 354, 385, 389, 401, 475 Ledeen, Michael A., 164 n., 208 n. Lederer, Ivo J., 220 e n., 221 n. Lefebvre D ’Ovidio, Francesco 132 n„ 259 n„ 475 Legatus (vedi Cantalupo, Ro­ berto) Legnani, Massimo, 14 n., 15 e n., 105 n., 236 n., 239 n., 471,473 Lenin, Vladimir Il’ic Ulianov detto, 89, 90 n., 251 Lessona, Alessandro, 43, 44, 101,255,469 Levi, Fabio, 81 n., 470 Levra, Umberto, 81 n., 470 Litvinov, Maksim, 191 Lojacono, Vincenzo, 44, 224 Loraine, Percy, 444 Losito, Leonardo A., 450 n., 472 Lucatello, Guido, 414 n. Luccardi, Giuseppe, 296 Luciolli, Mario, 83 n., 160 e n., 469, 470 Luigi di Savoia, duca degli Abruz­ zi, 121 Mac Donald, James Ramsay, 79, 182, 198 Mackensen, Hans Georg von, 398,399 n., 415, 416 n. Magistrati, Massimo, 346 n., 363 e n., 364 e n., 372 e n., 450 e n., 454 e n., 455 n., 459 n., 460, 469 Maione, Giuseppe, 95 n., 483 Malladra, Giuseppe, 109 e n. Mallet, Robert, 478 Mantelli, Brunello, 423 n., 479 Manzoni, Gaetano, 71 n. Marcus, Harold G., 119 n. Markov, Walter, 93 n. Mascia, Rosario, 477

    490

    INDICE DEI NOMI

    Massobrio, Giulio, 134 n. Matteini, Claudio, 465 n. Matteotti, Giacomo, 48, 61, 108, 156-158, 161, 166, 211, 223, 230, 236 Mazzini, Giuseppe, 459 Mazzolini, Quinto, 233 Mazzotti, Vittorio, 232 e n. Melis, Guido, 105 n., 471 Merkes, Manfred, 291 n., 323 n., 327 n„ 478 Michaelis, Meir, 376 e n., 379 n., 479 Micheletta, Luca, 475 Micheletti, Bruna, 206 n. Micheletti, Luigi, 206 n. Michels, Roberto, 101 Miege, Jean-Louis, 85 e n., 107 n., 482 Mignemi, Adolfo,. 86 n., 117 n., 477 Migone, Gian Giacomo, 61 n., 63 n., 64 e n., 67 e n., 147,238 e n., 480 Milch, Erhard, 307 Milza, Pierre, 158 e n., 384 n., 474 Minardi, Salvatore, 69 n., 133n. Minniti, Fortunato, 132 n. Mira, Giovanni, 469 Misciattelli, Piero, 211, 212 n. Molotov, Vjaceslav Michailovic Skrjabin detto, 462 Morelli, Anne, 154, 155 n., 156 n., 480 Mori, Renato, 132 n., 262 n., 470, 477 Mornati, Fiorenzo, 154 e n., 474 Mosca, Rodolfo, 308 n., 318 n., 331 n„ 338 n., 339 n., 341 n„ 342 n„ 343 n„ 344 n., 347 n., 348 n., 358 n., 360 n„ 379 n., 383 n„ 386 n„ 389 n., 393 n., 396 n., 399 n., 407 n., 421 n., 427 n„ 428 n., 430 n„ 438 n.,

    457 n., 458 n., 459 n., 468, 470 Moscati, Ruggero, 26 e n., 32, 33 n„ 468, 470,473 Mussolini, Arnaldo, 73 n. Mussolini, Benito, passim Napolitano, Matteo Luigi, 33 n. Nello, Paolo, 22, 52 n., 109 n., 313 e n„ 314, 467, 468 Neurath, Konstantin von, 184, 193 n„ 338 e n„ 344, 345 Nincic, Moncilo, 57 e n. Nitti, Francesco Saverio, 7,103 e n., 154 Nizan, Paul, 361 n. Nobile, Annunziata, 101 n., 137 n. Nogueres, Henri, 361 n. Noli, Fan, 40, 41 Orano, Paolo, 20 e n. Oriani, Alfredo, 5 e n. Orlando, Vittorio Emanuele, 13 e n , 103, 104 Ormos, Maria, 61 n. Ottona, Egidio, 469 Oshima, Hiroshi, 429 Pacetti, Massimo, 58 n., 476 Palla, Marco, 87 n., 470 Pankhurst, Richard, 274 n. Paolo, principe reggente jugosla­ vo, 242,438 Papen, Franz von, 184, 304 Paradisi, Mariangela, 87 n. Pareto, Vilfredo, 154 Padani, Alberto, 416, 474 Parini, Piero, 17, 139, 148, 151, 152 e n., 171 Parlato, Valentino, 90 Pasic, Nikola, 54 Pastorelli, Pietro, 38 n., 41 n., 42 n., 43 n., 44 n., 45, 57 n., 222 n„ 470,473,476

    491

    INDICE DEI NOMI

    Paul-Boncour, Joseph, 181 n., Rànki, Gyòrgy, 476 Rapone, Leonardo, 384 n., 474 182, 183 Renouvin, Pierre, 189 e n., 472 Pavelic, Ante, 233, 234 Pavolini, Alessandro, 340 n. Renzetti, Giuseppe, 165, 188 e n. Ribbentrop, Joachim von, 322, Pedone, Antonio, 95 n. 339, 345, 356, 362-364, 366, Pedrazzi, Orazio, 17, 146, 288, 372, 389, 394, 396, 399, 416 290, 291 n., 423-425,426 e n„ 427-429, Pedriali, Ferdinando, 477 Pelagalli, Sergio, 473 431, 432, 434-442, 445, 448, Pellegrini, Vincenzo, 84 n., 471 451-457,458 e n., 459 n„ 460463 Pellizzi, Camillo, 152, 153 n., Roatta, Mario, 297, 299, 319 161 e n., 162,474 Robertson, Esmonde M., 136 n., Perfetti, Francesco, 132 n. 262 n., 478 Petersen, Jens, 165, 189 e n., 243, 244 n„ 245 n., 300 e n„ Robinson, Ronald, 101 n. Rocco, Alfredo, 4, 5, 7 n., 210, 423 n., 470, 479 227 Petracchi, Giorgio, 480 Phillips, William, 379 Rochat, Giorgio, 81 n., 84 n., 85 Pieri, Piero, 85 n. e n., 109 n., 122 n., 123 n., 132 n., 134 n., 206 n„ 209 n., 253 Pieri, Romano, 206 n., 207 n. Pietromarchi, Luca, 322 n., 254 n., 270 n., 274 n., 477, Pintor, Luigi, 105 n. 482, 483 Pio XI, papa, 287 Rochira, Ubaldo, 232 Pirelli, Alberto, 237 Romano, Ruggiero, 86 n., 469 Pizzigallo, Matteo, 111 n. Romano, Sergio, 9 n., 205 n., 238 n„ 470, 471 Poggio, Pier Paolo, 206 n. Potemkin, Vladimir, 191 Romersa, Luigi, 120 n. Prampolini, Natale, 409 Roosevelt, Franklin Delano, 202, Preston, Paul, 478 374, 379, 423 Preti, Luigi, 115 n. Rosenberg, Alfred, 164 Preziosi, Giuseppe, 146 Rosselli, Carlo, 142,249,250 e n. Prezzolini, Giuseppe, 169, 170 Rosselli, Nello, 142 Procacci, Giuliano, 115 n., 249 n. Rossi, Mario Giuseppe, 14 n., 105 n., 471 Quaroni, Pietro, 28 n., 469 Rossini, Giuseppe, 26 n., 470 Quartararo, Rosaria, 29 n., 124 Rosso, Augusto, 461 e n., 462 e n. n„ 125 n„ 126 n., 132 n„ 135 Rousseau, Jean-Jacques, 176, 177 n„ 191 n„ 338 n., 352 n., 371 n„ 475,480 Roux, Georges, 279 Quazza, Guido, 87 n., 470 Rovighi, Alberto, 321 n., 324 n., 478 Rafalski, Traute, 475 Rumi, Giorgio, 7 n., 32, 104 n„ 147, 470, 473 Ragionieri, Ernesto, 86 n., 469 Rainero, Romain, 84 n., 132 n., Runciman, Walter, 361, 362, 481 367, 368 492

    INDICE DEI NOMI

    sabbatucci, Giovanni, 86 n., Siebert, Friedrich, 481 469, 475 Simon, sir John, 182, 196-198, 200 >acco, Nicola, 168 Skalnik, Kurt, 46 n. Sadkovich, Jams J., 235 n., 476 Sofri, Gianni, 480 Saiu, Liliana, 471 Sala, Teodoro, 58 n., 208 n., 212 Sola, Ugo, 45 n„ 227 n„ 237 n„ 239 n„ 476, Sonnino, Sidney, 220 481 Sori, Ercole, 100 n., 137 n. Salata, Francesco, 166, 178 e n., Spriano, Paolo, 252 n. 183, 185, 186 n., 304, 305, Stalin, Visarionovic Dzugasvili Iosif detto, 462 344, 475 Salazar De Oliveira, Antonio, 91 Starace, Achille, 273, 274 n., 340, 376 Salengro, Roger, 282 Salvatorelli, Luigi, 26 e n., 33 e Stefani, Filippo, 321 n., 324 n., 478 n„ 469,470 Salvemini, Gaetano, 19, 20 e n., Stimson, Flenry, 65 e n. Stojadinovic, Milan, 227, 242, 141, 169, 170 e n„ 469, 473 342, 343, 407 Salvetti, Patrizia, 142 n., 474 Santarelli, Enzo, 85 n., 87 n., 104 Strappini, Lucia, 7 n. n„ 123 n„ 142 n„ 249 n„ 469, Sturzo, Luigi, 211 Susmel, Duilio, 8 n., 18 n., 25 n., 474, 482, 483 467 Santoro, Carlo Maria, 471 Susmel, Edoardo, 8 n., 18 n., 467 Sarfatti, Michele, 479 Suvich, Fulvio, 15, 21 e n., 178, Savonarola, Girolamo, 211 198,202 n„ 219,233,260,263 Sbacchi, Alberto, 86 e n., 105 n. e n„ 271, 273, 280, 283, 301Schanzer, Carlo, 26 305,339, 469 Schieder, Wolfgang, 479 Suzzi Valli, Roberta, 161 n., 474 Schmidt, Guido, 307 Schmidt, Paul Otto, 318 e n., Szinai, Miklos, 61 n. Szucs, Laszlo, 61 n. 459 n. Schober, Johann, 51 Tamaro, Attilio, 17, 54 e n. Schròder, Joseph, 480 Tamborra, Angelo, 220 Schubert, Karl von, 77 Schulenburg, Friedrich Werner Tardieu, André, 71, 74-78 Tasso, Antonio, 477 von,461 Schuschnigg, Kurt, 194, 304, Tattara, Giuseppe, 96 n. Teliini, Enrico, 26, 213 343, 345, 346 e n. Teruzzi, Attilio, 101, 127 Scialoja, Vittorio, 49 n. Thomas, Hugh, 478 Sechi, Salvatore, 470 Tito, Josip Broz detto, 208 Segrè, Claudio, 86 e n., 483 Tomaselli, Cesco, 340 n. Seipel, Ignaz, 47, 49, 50 Serra, Enrico, 101 n., 132 n.,450 Tomolo, Gianni, 97 n., 99 n. Torcellan, Nanda, 478 n„ 471, 472,481 Seton Watson, Christopher 101 n. Torre, Augusto, 26 n., 33 n., 105 n., 339 n.,363 n.,372 n.,469, Sforza, Carlo, 13 e n., 26, 83 n. 493

    INDICE DEI NOMI

    470, 473,477,481 Tosatti, Giovanna, 105 n. Toscano, Mario, 103 n., 339 e n., 357 n., 363 e n., 372 e n., 416 n., 425 n., 426 e n., 428 e n., 429 n„ 43 In., 432 n.,433 en„ 434, 435 e n., 436 n., 437 n., 460 e n., 462 e n., 470, 479, 481 Tranfaglia, Nicola, 20 n., 81 n., 87 n„ 92 n„ 205 n„ 208 n„ 210 e n., 211 n., 235 e n., 238 n., 240, 241 n„ 243 n„ 469, 470 Trento, Angelo, 171 n. Treves, Anna, 138 n.

    Viola, Guido, 242 Vita-Finzi, Paolo, 378, 468 Vitetti, Leonardo, 17, 285, 286, 412 Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 63 n„ 130, 402, 410, 413-415,440, 441 Vivanti, Corrado, 86 n., 469 Vivarelli, Roberto, 6 n. Voigt, Klaus, 378 e n., 479 Volpi di Misurata, Giuseppe, 64, 121, 122, 127, 205 e n„ 210, 238 Volta, Alessandro, 164 n. Voltaire, Francois Marie Arouet detto, 176

    Umberto I, re d’Italia, 130 Umiltà, Carlo, 232 n. Ungari, Paolo, 7 n.

    Weizsàcker, Ernst von, 311, 312 n„ 319, 364 Watt, Donald Cameron, 323 e n., 476,480 Weinzierl, Erika,46 n. Wheeler-Bennett, John, W 361 n. Wiegandt-Sakoun, Christine, 158 n., 160 n., 474 Wiskemann, Elisabeth, 479

    Vaccarino, Giorgio, 481 Valiani, Leo, 423 n., 479 Valitutti, Salvatore, 10 n. Valle, Giuseppe, 307, 320 Valori, Aldo, 340 n. Vansittart, sir Robert, 256, 261, 272, 323 n. Vanzetti, Bartolomeo, 168 Vedovato, Giuseppe, 111 n., 481 Vendramini, Ferruccio, 208 n. Venturi, Marcello, 209 n. Vergani, Orio, 25 n. Verlaci, Stefket, 413 Vidau, Luigi, 233 Vidotto, Vittorio, 86 n., 469, 475 Vigezzi, Brunello, 471, 481

    Zamboni, Giovanni, 38 n., 45, 222 n„ 473 Zani, Luciano, 95 n., 237 e n., 244 n., 246 e n„ 469 Zincone, Vittorio, 468 Zingarelli, Italo, 232 Zogu, Ahmet, 40-45, 224, 403, 405,407,410-413,416 Zoli, Corrado, 95 n., 120

    494

    BIBLIOTECA DI STORIA

    1.

    Stelio Marchese, Le origini della rivoluzione vietnamita ( 1895-1930)

    2.

    Michele Fatica, Origini delfascismo e del comuniSmo a Napoli (1911-1915)

    3.

    Alessandro Roveri, D al sindacalismo rivoluzionario al fascismo. Capi­

    4.

    Stefano M erli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale (18801900). Voi. II (il primo volume è stato ripubblicato in ristampa ana­ statica nella collana «Strumenti»)

    5.

    Idomeneo Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano. Dalla nascita al fascismo. Voi. I: La Federterra. Voi. II: La CGdL

    6.

    Sergio Bertelli, Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografìa barocca

    7.

    Georges Haupt, La I I Internazionale, prefazione di Lelio Basso, tra­ duzione di Rossella Codignola

    8.

    Per la critica del sottosviluppo meridionale. Antologia di scritti a cura di Edmondo M . Capecelatro e Antonio Carlo

    9.

    Leon Poliakov, Storia dell'antisemitismo, presentazione di Roberto Finzi, traduzione di Roberto Salvadori. Voi. I: Da Cristo agli Ebrei di Corte. V oi. II: D a M aom etto ai M a rra n i. V oi. Ili: D a Voltaire a Wagner. Voi. IV: L'Europa suicida, 1870-1933

    10.

    Peretz Merhav, Storia del movimento operaio in Israele (1905-1970), traduzione di R. V.

    11.

    Carlo Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla rivoluzionefrancese (l’opera è stata ripubblicata in ristampa anastatica nella collana «Strumenti»)

    12.

    Giuseppe Carlo Marino, La formazione dello spirito borghese in Italia

    13.

    Silvio Accame, Gaetano De Sanctis tra cultura e politica. Esperienze di cat­

    talismo agrario e socialismo nel Ferrarese (1870-1920)

    tolici militanti a Torino (1919-1929) 14.

    Raymond Carr, Stona della Spagna, presentazione di Giorgio Spini, tra­ duzione di Orietta Albata Guaita. Voi. I: 1808-1874. Voi. II:

    15.

    Claus Gatterer, Cesare Battisti. Ritratto di un «alto traditore»

    16.

    Alessandro Roveri, La Santa Sede tra rivoluzione francese e Restaurazione.

    1874-1939

    Il cardinale Consalvi (1813-1815) 17.

    Giovanni Cherubini, Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società

    italiana del basso Medioevo 18.

    Franek Sznura, L'espansione urbana di Firenze nelDugento, presentazione di Elio Conti

    19.

    Valerio Marchetti, Gruppi ereticali senesi del Cinquecento