Etnosemiotica. Questioni di metodo 8883535324, 9788883535321

Nel 1960 Claude Lévi-Strauss sostenne la tesi di una sostanziale sovrapposizione del campo dell'antropologia a quel

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Etnosemiotica. Questioni di metodo
 8883535324, 9788883535321

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Segnature Collana diretta da Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone 38

Copyright © 2007 Meltemi editore, Roma L’editore si dichiara disponibile a riconoscere i diritti a chi ne sia legalmente in possesso È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

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a cura di Maurizio Del Ninno

Etnosemiotica Questioni di metodo

MELTEMI

Il curatore ringrazia Paolo Fabbri per la paziente e proficua discussione delle impostazioni teoriche e Riccardo Michelini per il prezioso contributo redazionale.

Indice

p.

7

Presentazione

23

Elogio dell’antropologia Claude Lévi-Strauss

45

La deduzione della gru Claude Lévi-Strauss

59

Il folclore come forma di creazione autonoma Pëtr Bogatyrëv, Roman Jakobson

69

Fiabe di magia e fiabe cumulative Vladimir Jakovlevicˇ Propp

87

La battaglia di Sentino Georges Dumézil

97

Degli dei e degli uomini Algirdas Julien Greimas

111

Dal folclore alla mitologia. A proposito di alcuni elementi folclorici: motivo e cliché Joseph Courtés

121

Aspetti antropologici della lingua. Ingiurie e categorie animali Edmund R. Leach

139

Disneyland. Degenerazione utopica Louis Marin

157

La “corsa dei ceri” a Gubbio. Stato di una ricerca Maurizio Del Ninno

175

Analisi semiotica dei numeri di clown Paul Bouissac

193

Il racconto genealogico spartiate: la rappresentazione mitologica di una organizzazione spaziale Claude Calame

213

Mandrake e la magia della comunicazione Antonino Buttitta

225

De Tex fabula narratur Paolo Fabbri

237

Bibliografia

Presentazione

1) Che cos’è dunque l’antropologia sociale? Nessuno, mi sembra, è stato più vicino a definirla – benché solo per preterizione – di Ferdinand de Saussure, quando, presentando la linguistica come una parte di una scienza ancora da nascere, egli riserva a quest’ultima il nome di semiologia, e le attribuisce, come oggetto di studio, la vita dei segni in seno alla vita sociale. Lui stesso, d’altronde, non anticipava forse la nostra adesione, quando, per l’occasione, paragonava il linguaggio “alla scrittura, all’alfabeto dei sordomuti, ai riti simbolici, alle formule di cortesia, ai segnali militari ecc.”? Nessuno contesterà che l’antropologia annoveri, nel proprio campo, almeno certuni di tali sistemi di segni, ai quali si aggiungono molti altri: linguaggio mitico, segni orali e gestuali di cui si compone il rituale, regole di matrimonio, sistemi di parentela, leggi consuetudinarie, talune modalità degli scambi economici. Intendiamo quindi l’antropologia come l’occupante in buona fede in quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio; e in attesa che, almeno per certi settori di questo campo, non si costituiscano scienze speciali all’interno dell’antropologia (Lévi-Strauss 1960a, pp. 43-44). 2) Sotto il nome di etnolinguistica [si è costituito] un luogo di incontro tra etnologi e semiotici, che, oltrepassando la semplice descrizione delle lingue naturali esotiche, si è interessato, fin dall’inizio, alle loro particolarità semantiche. (…) Dato che la semiotica generale autorizza a trattare come discorsi o testi le concatenazioni sintagmatiche non linguistiche (gestuali, somatiche ecc.), il quadro di esercizio dell’etnolinguistica si allarga verso un’etnosemiotica: le analisi, ancora poco numerose, dei rituali e dei cerimoniali, lasciano supporre che l’etnologia sia suscettibile di divenire, una volta di più, il luogo privilegiato della costituzione di modelli generali dei comportamenti significanti (Greimas, Courtés 1979, p. 135).

1. Etnosemiotica Nei primi decenni della seconda metà del Novecento le scienze sociali sono state attraversate da una forte spinta innovatrice, prodotta dall’influsso della semiotica e della linguistica. La raccolta di saggi che qui presentiamo intende ripercorrere, per risvegliarne la produttività, alcuni momenti significativi di quell’impatto in ambito antropologico. Le due citazioni in epigrafe, ugualmente programmatiche, ma caratterizzate da una differente portata di tiro, lasciano registrare le difficoltà di tradurre in pratica le aspettative teoriche e delimitano i confini del dibattito che verremo esplicitando.



MAURIZIO DEL NINNO

Le difficoltà in questione possono essere ricondotte, in parte, a quella inattualità che è stata individuata come propria della semiotica in generale (Fabbri, Marrone 2000, p. 7). Ma si può aggiungere anche una certa resistenza, una conflittualità disciplinare, un’incomprensione, che proviene inaspettatamente dai vicini stretti, etnolinguisti e antropologi di area “semiotica”1. In ogni caso, nel momento come quello attuale, caratterizzato dalla crisi indotta dal pensiero postmoderno e dallo svanire della distinzione noi/altri, che porta gli antropologi a rivedere il quadro teorico e a interessarsi dei “mondi contemporanei”2 – terreno su cui la semiotica lavora da sempre –, sembra utile riproporre all’attenzione degli studiosi e dei giovani ricercatori, una serie di saggi fondamentali per la definizione di un’area di lavoro parimenti aperta allo sguardo dell’antropologo e a quello del semiotico3. Rilanciando la proposta greimasiana, designiamo con il termine etnosemiotica questa area di studi4, la quale interseca campi cui è stato o è fatto riferimento con le etichette di antropologia cognitiva, etnoscienza, antropologia simbolica, semiotica della cultura5. Può essere di qualche utilità tracciarne brevemente le coordinate e le linee di sviluppo. 1.1. Di là dalla programmatica affermazione di Saussure, richiamata sopra nell’esergo di Lévi-Strauss, un primo incontro tra antropologia e semiotica si sviluppa nel Circolo Linguistico di Praga6. Come è noto questa scuola, riunisce accanto a studiosi praghesi anche alcune figure che avevano dato vita al Circolo di Mosca e al Formalismo russo, in particolare Roman Jakobson, Nikolaj S. Trubeckoj, linguisti famosi che si interessarono occasionalmente di folclore, e l’etnografo Pëtr Bogatyrëv. A questa scuola, è ben noto, si deve la distinzione tra fonetica e fonologia, fondata sulla definizione di fonema come fascio di tratti distintivi. L’importanza di questa nozione è bene illustrata nel breve ciclo di lezioni statunitensi tenute nel 1942-43 da Jakobson (1976). Gli studi di fonetica articolatoria e acustica, osserva lo studioso, consideravano il suono linguistico in tutta la sua materialità7. Incapaci di individuare un qualsiasi principio di ordine, essi lasciavano lo scienziato davanti a una “quantità schiacciante di particolari” (p. 38). Solo la ricerca del loro senso, cioè “il passaggio dalla fonetica alla fonologia, permette di cogliere, nei suoni, i fonemi come fasci di tratti distintivi, unità sistematiche che servono a distinguere i significati delle parole” (p. 49). Il problema della descrizione dei suoni della lingua è solo un caso particolare all’interno della pluralità di eventi di cui l’etnografo è chiamato a dar conto e la cui descrizione, se non guidata da un criterio di pertinenza, rischia di disperdersi nella pura enumerazione. L’estensione del criterio della pertinenza dal piano linguistico al piano antropologico è subito acquisita dai praghesi come mostra il brano di Trubeckoj (1939), volto a spiegare il fonema grazie a un esempio tratto dallo studio dei costumi popolari: [La fonologia] può anche essere paragonata allo studio dei costumi (abbigliamento) nel quadro dell’antropologia. La differenza fra persone grasse e magre, oppure alte e basse è essenziale per il sarto che deve realizzare praticamente un dato costume. Dal punto di vista dell’antropologia però queste differenze non hanno alcun valore: interessa solo la forma fissata per convenzione dal costume. I vestiti di un uomo disordinato sono spor-

PRESENTAZIONE



chi e spiegazzati, le persone distratte hanno spesso qualche bottone non agganciato – ma tutti questi sintomi non hanno nessun senso per la ricerca antropologica sui costumi. Invece l’antropologo si interessa di qualsiasi particolarità anche minima che differenzi, secondo l’uso corrente, il costume della donna sposata da quello della ragazza nubile, ecc. I gruppi di individui caratterizzati da varietà del costume antropologicamente pertinenti spesso coincidono all’incirca con gruppi caratterizzati da particolarità linguistiche (“glottiche”) e specialmente da particolarità della “fonologia della presentazione”: i due sessi, le varie età, le classi sociali o i ceti, le classi culturali, i cittadini, i campagnoli infine i gruppi locali (p. 24).

Naturalmente è nel lavoro di Bogatyrëv, in particolare ne Le funzioni dell’abbigliamento popolare nella Slovacchia morava (1937), che troviamo il riscontro più compiuto8. Molto opportunamente Maria Solimini, che ci ha preceduto in queste osservazioni, nota che il funzionalismo etnografico praghese non opera con categorie trovate già pronte nella linguistica, ma costruisce i suoi modelli parallelamente e in un rapporto di stretta collaborazione con lo studio della lingua e in conformità con il dettato saussuriano9. Ma soprattutto, continua Solimini, questo principio porterà la scuola a opporsi al “realismo ingenuo”, vale a dire a criticare L’illusione di poter partire da fatti concreti, da oggetti reali, intesi come dati naturali, come aventi una identità assoluta, indipendente e antecedente rispetto a qualsiasi apparato concettuale, a qualsiasi sistema di categorizzazione, di classificazione (Solimini 1982, p. 16).

Il contributo della scuola praghese è molto noto, ma è parso opportuno ricordarlo come base per alcune osservazioni sull’attualità. L’estensione del principio della descrizione sulla base dei tratti pertinenti al piano etnografico fornisce l’etnografo di un potente strumento descrittivo, molto più preciso e raffinato della successiva thick description (Geertz 1973a), un concetto che parimenti invita, anche se confusamente, a concentrare la descrizione sul criterio di pertinenza. Soprattutto, almeno fino a un certo livello, garantisce un’adeguatezza della descrizione molto più solida della instabile “interpretazione”, cui fa riferimento Geertz. La scuola praghese, infatti, individua il problema che anima Scrivere le culture10 già negli anni Trenta e propone al riguardo la regola risolutiva dell’individuazione dei tratti culturali pertinenti (comunitariamente fondati), che molti antropologi si ostinano a disconoscere. Va, al riguardo decisamente denunciata l’ignoranza e il fraintendimento dell’insegnamento praghese come mostra la paradossale inversione del valore della coppia etic ed emic (phonetic/phonemic)11: l’approccio (fon)etico, che Jakobson indica come del tutto inadeguato ai fini della descrizione linguistica, finisce infatti con l’assumere valore scientifico, perché invariante, mentre quello (fon)emico è inteso come una semplice descrizione dal punto di vista dei nativi e diventa in definitiva trascurabile in quanto condizionato culturalmente. Certamente James Clifford è più fine del rozzo Harris (1968, pp. 764-776), cui alludeva la frase precedente, e opportunamente ricorda, fra coloro che hanno destituito l’oggettività del reale a convenzione sociale, i nomi di Saussure, Jakobson, Whorf, Sapir e Wittgenstein (Clifford 1986, p.

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34) ma di certo si lascia sfuggire che convenzione non è arbitrarietà e che attraverso la nozione di langue è stata fondata la possibilità di dare un fondamento alla descrizione linguistica (e, parimenti, a quella etnografica). 1.2. A cogliere ed esaltare il contributo della scuola di Praga, aprendo formalmente la strada all’area di studi che qui si cerca di riproporre, è stato Claude LéviStrauss, che ne deriverà la rivoluzionaria prospettiva dell’antropologia strutturale. È proprio seguendo il corso di Jakobson all’École libre des hautes études di New York, cui abbiamo fatto riferimento sopra, che egli scopre la linguistica strutturale e la semiologia saussuriana: La linguistica strutturale – egli dirà al riguardo – doveva insegnarmi (...) che, invece di lasciarsi sviare dalla molteplicità del termini, è importante considerare i rapporti più semplici e più intelligibili che li uniscono (Jakobson 1976, p. 8).

Possiamo elencare con precisione i principi essenziali che Lévi-Strauss trae dalla linguistica, poiché egli stesso li enuncia in un famoso articolo12: a) Passaggio dallo studio dei fenomeni coscienti a quello della loro infrastruttura inconscia. b) Rifiuto di considerare i termini come entità indipendenti, prendendo invece come base dell’analisi le relazioni fra i termini. c) Nozione di sistema. d) Ricerca di leggi universali, sia per induzione, sia per deduzione logica. Variamente formulate, asserzioni che rinviano a questi criteri si ritrovano ogni volta che Lévi-Strauss presenta il proprio lavoro. L’acquisizione del concetto d’impoverimento della materia, operato dalla cultura in tutte le sue manifestazioni e che deriva dalla necessità della mente umana di ordinare la ricchezza dei dati empirici in un numero ridotto di categorie, costituisce un punto fermo che guida tutta l’opera di Lévi-Strauss, da Le strutture elementari della parentela (1949) fin oltre i quattro volumi di Mitologica (1964b; 1967a; 1968; 1971a; 1985; 1991). Il processo articolatorio della significazione pervade ogni qualità sensibile e fonda l’ordinamento del mondo: caldo e freddo, crudo e cotto, lontano e vicino, silenzio e rumore diventano così tratti distintivi attraverso cui è possibile attribuire a esso un senso. Forte dell’insegnamento praghese della necessità di un approccio semiotico alle pratiche comportamentali (le greimasiane “concatenazioni sintagmatiche non linguistiche”), Lévi-Strauss arriverà ad affermare, come visto nella prima epigrafe: Intendiamo (...) l’antropologia come l’occupante in buona fede in quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio; e in attesa che, almeno per certi settori di questo campo, non si costituiscano scienze speciali13.

1.3. La dirompente novità di tale prospettiva non poteva mancare di incontrare la viva resistenza della tradizione accademica. Come da una pentola che bolle e trabocca, le idee sono comunque fuoriuscite, diffondendosi in varie direzioni. Spetta soprattutto ad Algirdas Julien Greimas il merito di aver dato un grande contributo

PRESENTAZIONE

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alla qualità e alla consapevolezza di questa area. Come è stato bene sottolineato (Fabbri 2000), è a lui che dobbiamo l’importante svolta degli studi semiotici costituita dal passaggio dall’idea di segno a quella di testo. Sviluppando la lezione di Louis Hjelmslev che aveva operato la frantumazione del segno in figure, Greimas coordina e lega le figure nell’unità superiore del discorso. Ora, è importante notare che, oltre che dal linguista danese, questa spinta verso il discorso (o testo) giunge a Greimas anche da Lévi-Strauss e da altri due studiosi di ambito “antropologico”: Vladimir J. Propp e Georges Dumézil14. In particolare, la revisione dello schema delle trentuno funzioni di Propp15, intrapresa da Greimas nella Semantica strutturale (1966, pp. 233-268), costituisce il primo momento di una generalizzazione progressiva il cui esito è il “percorso generativo”16. La rilettura dello schema delle funzioni della Morfologia della fiaba permette a Greimas di individuare quello che più tardi sarà denominato lo schema narrativo canonico17, basato su una serie di regolarità sintagmatiche, l’iterazione della prova18, e su regolarità paradigmatiche, costitutive dell’inversione del contenuto del racconto19. In altre parole, viene individuata la possibilità di leggere le varie fasi del discorso come un processo di trasformazione. In questo senso, il discorso è definito come un algoritmo, sequenza ordinata di operazioni che permettono di passare dallo stato iniziale allo stato finale20. Premesso che la Morfologia di Propp è il punto di riferimento esplicito del lavoro di Greimas, è opportuno ricordare che il modello di lettura in questione è già tutto presente, in modo implicito, in due saggi di Lévi-Strauss: quello su Les Chats di Baudelaire, scritto in collaborazione con Jakobson21, e La gesta di Asdiwal (1959)22. La nozione di “testo” o “discorso” è, dunque, la novità dell’area semiotica. Una sintetica e chiara formulazione del suddetto concetto si ritrova nella scuola sovietica23. Lotman (1970, pp. 67-69) definisce il testo in base ai criteri di espressività (“il testo è fissato in certi segni”); delimitazione (inizio/fine) e strutturalità (“il testo non è una semplice successione di segni in un intervallo tra due limiti esterni: gli è propria una organizzazione interna che lo trasforma – al livello sintagmatico – in un complesso strutturale”). Ci sembra utile ribadire la portata euristica del concetto, che ci fornisce uno schema di lettura e di organizzazione del corpus da analizzare, la cui efficacia è tanto più forte, quanto più quest’ultimo appare “disordinato”. 1.4. Siamo in grado ora di tornare all’affermazione lévi-straussiana iniziale (epigrafe 1) della coincidenza del progetto semiotico con quello antropologico. Rispetto a essa, la posizione di Greimas (epigrafe 2) è meno invasiva, accontentandosi di scavare una postazione etnosemiotica a fianco all’area della consolidata sorella maggiore, l’etnolinguistica. A questo punto è possibile riconoscere nella proposta greimasiana il tentativo di un accomodamento tattico: non può sfuggire, infatti, la profonda coincidenza del suo progetto semiotico con quello antropologico. La distinzione tra livello semio-narrativo e livello discorsivo, che sorregge l’articolazione del percorso generativo, dà conto, da una parte, di un fare umano universale, il porsi di ogni rappresentazione attraverso un soggetto sempre e comunque volto a conseguire un oggetto di valore (un tratto dell’ésprit humain, potremmo dire secondo la formulazione lévi-straussiana); dall’altra, della “diversità” culturale, la multiformità delle possibili figure in cui esso può essere investito. In que-

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sto quadro, si può osservare che l’elegante semplicità della “struttura assiologica figurativa” fornisce un preciso strumento per ordinare l’apparente caoticità degli universi figurativi secondo il presupposto di Lévi-Strauss. Dietro la proiezione della struttura figurativa elementare (acqua, fuoco, aria, terra), sul quadrato della struttura assiologica24, è, infatti, facile riconoscere la preoccupazione dell’antropologo contro le ricorrenti interpretazioni junghiane: Non abbiamo mai invocato un simbolismo archetipico dell’acqua, ma abbiamo anzi lasciato scrupolosamente da parte questo problema. Ci basta poter dimostrare che, in due contesti mitici particolari, una variazione del valore semantico dell’acqua è funzione di altre variazioni (Lévi-Strauss 1964a, p. 245)25.

1.5. Vorrei a questo punto richiamare l’attenzione sul saggio di Edmund Leach, il più lontano nella linea che presentiamo, ma che ci riporta al nucleo sostanziale di quanto stiamo qui dibattendo e che articola insieme linguistica, semiotica e antropologia. Intendo riferirmi alla cosiddetta “nebulosa saussuriana”: il fatto che la significazione nasca per segmentazione di un continuum indistinto26. La lingua, la cultura, il senso della vita, tutto si fonda, infatti, sull’articolazione, sul taglio ombelicale che la semiosi impone al dato bruto del sensibile. Nel suo saggio Leach illustra con grande semplicità che è il processo d’inculturazione che ci insegna a vedere il mondo “a pezzettini”, come un puzzle di tessere perfettamente coincidenti, secondo un’immagine molto vicina a quella di Benjamin Lee Whorf (1956): Noi segmentiamo la natura seguendo le perforazioni tracciate dalla lingua che parliamo. Le categorie e i tipi che isoliamo nel mondo fenomenico, non li troviamo perché salterebbero agli occhi dell’osservatore. In effetti, il mondo ci si offre sotto forma di un flusso caleidoscopico d’impressioni che noi dobbiamo organizzare e questa organizzazione è effettuata sulla base del sistema linguistico che è nella nostra mente.

Lungamente discussa27, questa formulazione conserva a nostro avviso la sua consistenza e dà conto bene della distanza dal “reale” che le tre discipline condividono e che costituisce il loro specifico e il loro fondamento comune. Questo dato, che lega in modo indissolubile la cultura e la significazione e su cui si erige la costruzione etnosemiotica, va ribadito e salvaguardato in rapporto a certe tendenze volte persistentemente a rimuoverlo. Al riguardo vale la pena di soffermarsi su un recente dibattito suscitato dal numero di «Rassegna Italiana di Sociologia», dedicato a Pensare la cultura28. Alcuni studiosi di antropologia29 hanno fatto il punto sul concetto di “cultura”: in un’epoca caratterizzata dalla globalizzazione e dai “traffici culturali”, esso, almeno in una certa tradizione che lo vuole territorialmente determinato, appare, pure secondo personali sfaccettature, come un fardello di cui fare a meno. Di contro, i sociologi (Giglioli, Ravaioli 2005) oppongono una condivisibile resistenza a tale assunto e, riprendendo la nozione di cultura di Geertz30, si ritrovano a riconoscere e a sottolineare l’importanza di una prassi semiotica di fronte ad antropologi, che fanno invece muro a una tale concezione31. Pure vicini alle ragioni da loro addotte, prendiamo però distanza dalla loro fiducia verso Geertz32, il cui richiamo all’approccio semiotico ci sembra in definitiva

PRESENTAZIONE

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superficiale, come si rileva dal suo uso della nozione di testo e dalla sua ignoranza degli apporti precedenti33. Contro un simile approccio, è opportuno proclamare la pregnanza semiotica del concetto di cultura, cui, parimenti alla lingua saussuriana, va riconosciuto l’originario carattere articolatorio, di segmentazione della “nebulosa in cui niente è delimitato”, pratica fondamentale in cui si incontrano, saussurianamente, ancora prima che parsonsianamente, il simbolico e il sociale, i quali non si danno se non come gemelli (anche in caso di idioletto si deve, infatti, prevedere un io scisso che concordi i “tagli” con un egli debraiato). Ribadita l’importanza fondativa di questo atto iniziale, pare utile ricordare che proprio in esso s’innesta quell’instabilità, segnalata da Lévi-Strauss come fondatrice del pensiero mitico: uomini di strada o di scienza, membri di “società complesse” o “semplici”, locali o no, il problema degli spazi vuoti che culturalmente siamo costretti a ignorare, ci sottopone, pur nella varietà delle soluzioni, a una serie di sotterfugi volti a rispondere all’imperativo esistenziale di “tirare a campare” che è dei singoli e delle comunità. 2. I saggi di questa raccolta Il lettore non mancherà di cogliere in ognuno dei saggi presentati la peculiarità e la ricchezza propria. Non pare inutile, tuttavia, chiarire le ragioni della loro presenza e del loro ordinamento. Delle prime si cercherà di dare conto nei brevi resoconti dedicati a ciascuno. Circa la successione, si noterà solo che essa segue in genere la linea della data di pubblicazione, con qualche piccolo spostamento dovuto alla necessità di avvicinare contributi apparentati dal metodo o dall’oggetto. Fa eccezione l’apertura, riservata a due saggi di Lévi-Strauss (1960a; 1971b): è sembrato giusto, infatti, iniziare con il magistrale Elogio dell’antropologia, che, in virtù dell’affermazione programmatica contenuta, può essere considerato una sorta di manifesto dell’etnosemiotica. A esso, si è fatto seguire subito la densissima “Deduzione della gru”, per dare al lettore la misura della riflessione lévi-straussiana. L’ordine cronologico inizia con il contributo di Roman Jakobson e Pëtr Bogatyrëv, un saggio ormai storico, e va avanti, in fila serrata (Vladimir Propp, Georges Dumézil, Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés) fino al saggio di Edmund Leach, un contributo che rompe la sequenza temporale e si distingue anche per il fondamento strettamente linguistico; la sua importanza dal nostro punto di vista è già stata illustrata sopra. La ripresa del flusso cronologico orienta a questo punto l’attenzione verso la lettura di pratiche non verbali: lo spazio di Disneyland (Louis Marin) e quello della festa tradizionale (Maurizio Del Ninno), le pratiche del circo (Paul Bouissac) per fermarsi, infine, su alcune sfaccettature del pensiero mitico, individuate ora nella toponomastica della Grecia antica (Claude Calame), ora nella contemporaneità del fumetto (Mandrake: Antonino Buttitta; Tex Willer: Paolo Fabbri), due felici azioni, queste ultime, di avanscoperta verso la conquista di un terreno libero da ipoteche disciplinari, che iscrivono questa raccolta nel contemporaneo. Va da sé che altri saggi e altri autori avrebbero potuto figurare, con uguale o maggiore pertinenza. Ma la scelta riflette anche un percorso personale di ricerca

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che, a dispetto del richiamo a un ordine strutturale, la storia ha fortemente contribuito a tracciare. 2.1. Elogio dell’antropologia È la famosa lezione pronunciata da Lévi-Strauss al Collège de France nel 1960. Posto all’ingresso, questo scritto designa in chiaro il nostro intento. In primo luogo come scelta di campo: è agli antropologi che si parla, più che ai linguisti o ai semiotici. D’altra parte il saggio, riportando l’antropologia a Émile Durkheim e Marcel Mauss, vale a dire nel solco di una tradizione cui pure si riconnette la semiologia saussuriana (v., tra altri, Ferraro 1983, pp. 267-268) mostra e rinsalda al meglio le radici di quanto veniamo qui proponendo34. Naturalmente, il punto dello scritto di Lévi-Strauss che più ci preme sottolineare è quello della già richiamata definizione di antropologia come “l’occupante in buona fede in quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio”. Ma va ricordato anche che in questo scritto, con elegante semplicità, Lévi-Strauss affronta e libera il campo da un problema oggi inconsistente, ma che è stato molto dibattuto soprattutto in Italia: si può parlare di un oggetto come di un segno35? Infine, abbandonando le ragioni semiotiche, è opportuno rinviare il lettore all’ultima pagina del saggio, dove una testimonianza di grande rispetto verso modi di vita lontani illustra il più grande insegnamento dell’antropologia. 2.2. La deduzione della gru Come è noto, la riflessione di Lévi-Strauss sul mito è complessa36. Soprattutto, lo sviluppo “a rosone” dell’analisi, ne impedisce un’esemplificazione sintetica. Il saggio che presentiamo, apparso come tale in Structural Analysis of Oral Tradition (Maranda, Köngäs Maranda, a cura, 1971), ma derivante da uno stralcio del secondo volume delle Mitologiche (Lévi-Strauss 1967a), ha il merito di costituire un esempio conchiuso di analisi37. La sua importanza, però, deriva dal fatto che definisce formalmente le due procedure alla base del pensiero mitico (e della sua analisi): la deduzione empirica e la deduzione trascendentale, due concetti, che con estrema semplicità e chiarezza, in poche righe fanno piazza pulita, del coacervo di riflessioni su pensiero prelogico, magia contagiosa, simpatica e successive derivazioni che a lungo hanno intralciato la riflessione antropologica. Un passo, da cui traspare la definizione di mito come operazione di “ipercodifica”, può servire per aiutare il lettore meno preparato a orientarsi nell’analisi di LéviStrauss e nel reperire il punto di incontro tra mitologia e semiotica: Modi del linguaggio, i miti e le fiabe ne fanno un uso “iper-strutturale”: formano per così dire un “meta-linguaggio” in cui la struttura è operante a tutti i livelli (...). Indubbiamente anch’essi, in quanto discorso, impiegano regole grammaticali e parole. Ma alla dimensione abituale se ne aggiunge un’altra, perché regole e parole servono qui a costruire immagini e azioni che rappresentano, ad un tempo, significanti “normali” in relazione ai significati del discorso, ed elementi di significazione, in relazione ad un sistema significativo supplementare, che si situa ad un altro piano (1960b, pp. 196-197).

La Deduzione della gru offre al riguardo un’ottima esemplificazione.

PRESENTAZIONE

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2.3. Il folclore come forma di creazione autonoma Il saggio, scritto nel 1929 da Bogatyrëv e Jakobson38, è apparso per la prima volta in Italia solo nel 1967 su «Strumenti critici», rivista che ha molto contribuito al dibattito sullo strutturalismo e sulla semiotica nel nostro paese39. Attraverso la nozione di langue e parole, gli autori risolvono in modo brillante l’annosa questione dell’origine individuale o collettiva dei fenomeni folclorici40. Il momento della loro nascita – osservano gli autori – non è, infatti, quello della loro creazione, sempre individuale (atto di parole), ma quello dell’adozione da parte di una comunità (atto di langue). Accolto con grande favore dagli studiosi italiani41, il saggio è una prima, chiara, esemplificazione di come nozioni di tipo semiotico possano trovare riscontro nel campo dei fatti culturali42. 2.4. Fiabe di magia e fiabe cumulative Nel riportare una testimonianza del lavoro di Vladimir J. Propp, autore di grande fama nell’ambito degli studi folclorici e di cui è già stata ricordata l’importanza in ambito semiotico43, è sembrato utile scegliere una via alternativa rispetto alla ben nota Morfologia della fiaba. Presentiamo così due frammenti. Il primo brano, Le fiabe di magia, è parte del capitolo terzo di Russkaja skazka (1984), un saggio che ha il pregio di costituire una presentazione abbreviata sia della Morfologia (1928), sia delle Radici storiche (1946), dando al lettore ignaro un’idea d’insieme dei due lavori. Nello scorcio che presentiamo44, sono illustrate insieme, in parallelo, le due costanti individuate nel 1929: l’individuazione dei sette personaggi e la sequenza delle trentuno funzioni. Il secondo brano è stralciato da uno scritto del 1967, La fiaba cumulativa russa, pubblicato in Italia nel 197345. Esso mostra che, per tutta la vita, Propp è rimasto fedele ai principi della ricerca dello “schema compositivo”, secondo il percorso della Morfologia della fiaba. Di questo lavoro condivide infatti i meriti e i limiti46. Il lettore delle critiche di Lévi-Strauss alla Morfologia di Propp (Lévi-Strauss 1960b), non mancherà di riconoscerne qui la loro piena trasponibilità. 2.5. La battaglia di Sentino Come accennato, insieme a Propp e a Lévi-Strauss, Georges Dumézil costituisce uno dei maggiori riferimenti della riflessione greimasiana. Il lettore troverà delineati più avanti, proprio nel saggio di Greimas (infra, pp. 97-109), i tratti salienti della figura di questo studioso, il cui lavoro è retto dal presupposto che le società indoeuropee sarebbero tutte caratterizzate da una implicita concezione tripartita del mondo e della società: la vita degli uomini, come quella degli dei, sarebbero, cioè, regolate dal gioco armonioso di tre funzioni, tra loro in rapporto gerarchico: la sovranità religiosa (il potere magico-giuridico); la forza fisica (specialmente guerriera), la fertilità (pace, abbondanza, tranquillità…)47. Tratto da Idee Romane (Dumézil 1969), il saggio che abbiamo scelto ad esempio si lascia leggere con grande interesse per il vivace quadro descrittivo delle pratiche rituali. Esso costituisce uno dei momenti essenziali nella dimostrazione che le “origini di Roma” sono una costruzione che prende forma nella seconda metà del IV secolo e il cui calco è costituito dall’ideologia indoeuropea delle tre funzioni. Nei due riti che caratterizzano la battaglia e ne determinano l’esito (la devotio di P. Decio

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Mure e il votum di Q. Fabio), sono individuabili, infatti, i caratteri della prima e della terza funzione; poiché la battaglia inizia con un segno premonitore della vittoria romana – l’apparizione di una cerva inseguita da un lupo, animale emblematico di Roma ed espressione della seconda funzione – è possibile ravvisare nell’evento, nel suo insieme, il trifunzionalismo che fonda la società romana delle origini. Per una coincidenza felice, lo stesso quadro di riferimento si ritroverà nel saggio dedicato alla Corsa dei Ceri a Gubbio (infra, pp.157-174). 2.6. Degli dei e degli uomini Con una decisa operazione metonimica, è stato dato il titolo del tutto a quella che è, in realtà, l’“Introduzione” del libro dedicato da Greimas alla mitologia della Lituania (1979a). Poiché si tratta di un lavoro volto a stabilire le coordinate fondamentali per lo studio della mitologia di questa area, il testo costituisce un importante contributo teorico, ricco di preziosi suggerimenti e intuizioni. È articolato in tre parti. La prima muove dall’insegnamento di Dumézil e LéviStrauss e illustra i fondamenti della nuova mitologia. La seconda, più legata al particolare, mira a definire i parametri della mitologia lituana, delineando un modello di analisi che può essere proiettato su tutto il terreno europeo. La terza tratta di questioni di metodo, affrontando il problema della qualità mitica dei testi di letteratura orale (racconti mitici veri e propri, fiabe di magia, microracconti) e delle pratiche rituali. 2.7. Dal folclore alla mitologia Collaboratore stretto di Greimas, che con lui ha condiviso la redazione dei due dizionari (Greimas, Courtés 1979; 1985), Joseph Courtés ne è sicuramente l’allievo più fedele e ne segue attentamente il dettato. Come già ricordato, in Semantica Strutturale (1966) Greimas, sulla base delle osservazioni di Lévi-Strauss (1960b), inizia un’operazione di generalizzazione dello schema delle trentuno funzioni di Propp fino a ridurlo alla sequenza delle tre prove (qualificante, principale, glorificante). Nonostante la sua importanza, questo primo rifacimento si limita ad approfondire l’aspetto sintattico del modello e trascura l’aspetto semantico, che pure costituiva il centro della critica di Lévi-Strauss (ib.) a Propp. Raccogliendo il testimone, Courtés, sulla base di un corpus di fiabe di magia, porta avanti l’indicazione lévi-straussiana, affrontando il livello all’epoca meno esplorato: quello delle figure. In questo percorso, Courtés approfondisce l’aspetto paradigmatico della fiaba e mette in evidenza che i costrutti configurazionali presenti nel testo orale si ritrovano anche nella pratica folclorica, avvalorando così il rapporto di contiguità tra mito e folclore. 2.8. Aspetti antropologici della lingua Esponente della scuola antropologica inglese, Edmund Leach ha costituito in campo internazionale, insieme a Mary Douglas (1966; 1970; 1975; 1982; 1985), un’isola aperta ai riferimenti dello strutturalismo lévi-straussiano e della semiotica48. Tra i contributi più vicini a quanto stiamo esponendo, oltre al divulgativo Culture and Communication (Leach 1976), segnaliamo una sua rielaborazione dei riti di passaggio di Van Gennep (1909), che delinea un modello vicino alla definizione algoritmica del testo di Greimas (Leach 1961, pp. 193-212; Del Ninno 1987)49. Il saggio che

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presentiamo, significativamente apparso in una raccolta intitolata New Directions in the Study of Language (Lenneberg, a cura, 1964), ha avuto una vasta eco e ha costituito la base per ulteriori studi50. Secondo quanto già detto sopra, la sua spiegazione del tabù presenta, da una parte, un’interessante esemplificazione del processo di segmentazione che la lingua impone alla “nebulosa primitiva”, dall’altra una chiara indicazione dell’importanza del suo effetto modellizzante, apportando un deciso contributo a favore dell’ipotesi Sapir-Whorf51. 2.9. Disneyland. Degenerazione utopica52 Figura di spicco sul piano internazionale, presenza abituale nei seminari del Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica di Urbino negli anni Settanta e Ottanta, Louis Marin è stato in primo luogo uno studioso dei sistemi di rappresentazione, dall’antichità classica a oggi. La vastità di interessi lo ha portato a toccare temi quali la fiaba, il teatro, la cucina, lo spazio sociale o l’utopia53. Proprio dal libro dedicato a quest’ultimo tema è tratto il saggio che presentiamo, uno scritto da cui traspare almeno un’aria di famiglia con quella che è stata definita la “scuola di Parigi” e che si caratterizza per una lettura “testuale” dello spazio. Tra gli spunti più interessanti segnaliamo l’idea di “percorso”54 in termini di enunciazione, un’intuizione ripresa più tardi da de Certeau in “Camminare per la città” (in 1990, pp. 143-167). Stupefacente per la nitidezza con cui mette in evidenza l’ideologia degli Stati Uniti, il saggio costituisce anche un utile modello di riflessione sull’articolazione degli spazi urbani, terreno su cui si addensano varie promettenti riflessioni rivendicabili dall’approccio etnosemiotico (Lynch 1960; Barthes 1970b; Lotman 1985; de Certeau 1990; Augé 1986; 1994b). 2.10. La Corsa dei Ceri a Gubbio. Stato di una ricerca Nato come bilancio provvisorio di una ricerca allora in corso, ma non più portata avanti se non episodicamente, il lavoro si fonda sui principi che in questa sede si tenta di riproporre. Al riguardo, possiamo sottolineare due punti: 1) l’efficace applicazione della nozione di testo come algoritmo di trasformazione che sorregge l’analisi: sotto questo aspetto, il saggio può essere letto in contrapposizione a concezioni più blande, già criticate; 2) con riferimento al modello trifunzionale duméziliano, il saggio offre un riscontro della possibilità di ritrovare quelle tracce della mitologia indeuropea “al riparo del cristianesimo” su cui si interroga, nei panni di mitologo lituano, Greimas. 2.11. Analisi semiotica dei numeri di clown Sotto questo titolo sono riuniti due differenti contributi scelti all’interno del largo repertorio di riflessioni di Paul Bouissac sul circo, un settore molto trascurato dell’etnologia europea, sul quale l’autore ha il merito di essere intervenuto, oltre che con grande competenza “etnografica”, con mirabili analisi strutturali55. Nel primo dei due scritti (La profanazione del sacro nei numeri dei clown), Bouissac, non distante dai presupposti che fondano Verbal abuse di Leach, muove dall’affermazione che un sistema culturale si regge su un ristretto numero di norme inespresse, “specie di assiomi culturali impliciti o dogmi silenziosi” da cui deriverebbero tutte le altre regole. All’interno di questo quadro, il suo obiettivo è di dimo-

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strare che molti numeri di clown si fondano proprio sulla denuncia di tali principi inespressi. Ne deriva, per quanto ci concerne, un’illustrazione del principio lévistraussiano di ordine dietro il caos, che passa per una lettura “testuale” dei numeri dei clown, articolata in base alla prima formulazione dello schema narrativo canonico greimasiano (prova qualificante, principale, glorificante) (v. Greimas, Courtés 1979, pp. 228-231). Nella seconda parte, Il circo: operazioni e operatori semiotici, Bouissac, cercando di trattare in termini personali il problema della trasformazione del testo, riprende il concetto di operatore logico per delucidare l’articolazione dei contenuti. All’interno di questo quadro colloca gli “operatori topologici” (pista/spazio esterno; posizione centrale/posizione periferica; spostamento diametrale/spostamento trasversale), l’“opposizione clown bianco/augusto” e la “torta in faccia”, dando luogo a tre analisi molto serrate. 2.12. Il racconto genealogico spartiate: la rappresentazione mitologica di una organizzazione spaziale Studioso del mondo greco, Claude Calame ha al suo attivo una formazione semiotica maturata tra il Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica di Urbino e l’École de Paris (1982; 1990) e si muove anche sul terreno dell’antropologia dove è stato impegnato in prima linea nel dibattito intorno al “discorso” antropologico (Calame, Kilani, a cura, 1999; Calame 2002; 2003). La considerazione che la mitologia può esprimersi attraverso generi variegati è un’acquisizione tra le più importanti dell’area. Muovendo da questo dato, il saggio di Calame esplora, attraverso le categorie narrative greimasiane, il rapporto tra la toponomastica greca e la genealogia dei primi re di Sparta. Si arriva così non solo a individuare nel racconto genealogico i caratteri del racconto mitico, ma anche a delinearne l’impronta del trifunzionalismo indoeuropeo. La parte conclusiva mette in evidenza i caratteri peculiari di questo sottogenere della narrazione. 2.13. Mandrake e la magia della comunicazione Fondatore di “Uomo & Cultura”, promotore dei «Quaderni del circolo semiologico siciliano» e del Simposio internazionale “Strutture e generi delle letterature etniche” (Avalle, Buttitta et al. 1978), un momento decisivo della fondazione di questi studi, Antonino Buttitta (v. 1979a; 1996) è tra coloro che hanno maggiormente contribuito allo sviluppo degli studi di antropologia e semiotica in Italia. Muovendo dal gruppo di Klein e dal quadrato semiotico della veridizione, il saggio che presentiamo mira a riflettere sul valore della menzogna, una nozione che manifesta una forte gracilità verso il segreto e comunemente caratterizzata da valore negativo, ma che pure si distingue per un ruolo positivo nelle pratiche rituali. Questa particolarità è ricondotta alla procedure del pensiero mitico, che operano una inversione del dispositivo del pensiero logico. Il riscontro è dato dall’analisi di manifestazioni narrative tratte dall’ambito della fiaba – due varianti del racconto del “figlioserpente”, provenienti dall’Italia meridionale – e da quello del fumetto, attraverso la figura di Mandrake. In particolare, l’analisi di una strip del 1938, A Hollywood, permette a Buttitta di evidenziare la stessa rappresentazione capovolta del modello della veridizione individuata per la versione del “figlio serpente” di Piana degli Albanesi.

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2.14. De Tex fabula narratur Allievo diretto di Greimas, fondatore, insieme a Pino Paioni, del Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica di Urbino, Paolo Fabbri, è da sempre al centro degli studi semiotici e instancabile animatore del dibattito disciplinare. Il saggio che presentiamo muove da un episodio di Tex Willer, eroe tra i più popolari del fumetto italiano, collocandosi sul crinale che unisce sociologia della cultura e sociosemiotica. Dopo aver evidenziato, attraverso il ricorso alla nozione lévi-straussiana di mythe à tiroirs, lo sfaldarsi del mito in “fabulismo”, Fabbri mostra che certi tratti discorsivi – densità semantica e sintattica, rime narrative e figurative, giochi lessicali – non sono appannaggio solo della grande letteratura. Ma soprattutto, il Tex di Fabbri, sulla scia della Disneyland di Marin e del Mandrake di Buttitta, ci trascina nel vivo della cultura di massa, esplicitando un dato importante da ribadire in sede conclusiva: quello dell’arbitrarietà di ogni frontiera fra “noi” e gli “altri”56.

1 Per i primi pensiamo, per esempio, a un’evidente freddezza verso l’apporto strutturale e semiotico da parte di uno studioso attento quale Giorgio Raimondo Cardona (v. ad esempio, in 1976 la sommaria trattazione di LéviStrauss). Un segnale differente viene, tuttavia, dalla più recente produzione di Duranti (1997; 2001), che accoglie istanze semiotiche e lascia intravedere l’apertura di un fertile spazio di incontro. Per i secondi, il riferimento è in particolare a Clifford Geertz che, pure iscrivendosi nell’approccio “semiotico”, appare a nostro avviso inopportunamente impegnato a offuscare quanto la tradizione di questi studi ha messo a disposizione. 2 Nel suo progetto di un’antropologia dei mondi contemporanei, Marc Augé rimarca la frantumazione del soggetto che ha attraversato tutto il Novecento e richiama l’attenzione sulla difficoltà di stabilire una soglia netta di confine tra noi e gli altri, osservando, con Rimbaud, che “Io sono un altro” (1994a, p. 72). Fra i suoi lavori in questa direzione (1986; 1992; 1994a; 2003) ci pare fondativo, in particolare, il suo Pour une Anthropologie des mondes contemporains (1994b). 3 Come mostra l’incontro a Disneyland di due studiosi, tra loro così lontani quali Louis Marin (1973b: infra, pp. 63-71) e Marc Augé (1997, pp. 17-25). Il saldarsi, attraverso la semiotica, di due tradizioni di studio, una riguardante il lontano, l’altra il vicino, era già stato segnalato anni fa da Jurij M. Lotman e Boris Uspenskji (1973, p. XIX): “Ultimamente hanno occupato un posto notevole le ricerche dei semiotici francesi (…). Di questa tendenza è caratteristico soprattutto l’interesse per l’indagine semiotica delle varie forme della vita sociale; di qui il legame naturale con i problemi dell’antropologia, dell’etnografia, del folclore, della mitologia e, d’altro lato, coi problemi della moda, della réclame, ecc. Se Lévi-Strauss studia la vita e la cultura dei non-Europei, manifestando una struttura nelle forme che tradizionalmente sembrano troppo semplici per diventare oggetto di ricerca (il cibo, l’abbigliamento), Barthes, studiando la cultura francese contemporanea nelle sue manifestazioni quotidiane (i suoi lavori sulla moda e sulla “mitologia” contemporanea), scopre lo “strano” nell’abituale”. 4 Nell’accezione qui proposta, il termine è stato per la prima volta usato da Algirdas Julien Greimas nel 1971, nel corso di una relazione al Congrès international d’ethnologie européenne (Greimas 1973). In verità, Voigt (1986, p. 235) individua, in quello stesso anno, altri tre casi di conio del termine, tutti indipendenti: Stepanov 1971, Hoppal 1971, Voigt 1971. È chiaro che, sulla scia del rapido sviluppo dello strutturalismo e dell’approccio semiotico, l’idea era “nell’aria”, come testimonia anche l’articolo di Mihai Pop (1970). 5 Per l’uso americano di questo termine, proprio della semiotica sovietica, v. Winner Portis 1982. 6 L’importanza di questa scuola al di fuori degli studi linguistici è ampiamente riconosciuta sia sul piano internazionale, sia in Italia (Angioni 1971; Cirese 1973; Miceli 1982; Solimini 1982). 7 “In carne ed ossa”, secondo la colorita espressione dell’autore (Jakobson 1976, p. 26). 8 Bogatyrëv si preoccupò, infatti, di applicare in campo etnografico sia i concetti saussuriani, sia le acquisizioni del Circolo stesso. Vedi al riguardo, oltre il suo contributo in questa raccolta (pp. 59-68), anche gli altri suoi scritti (1931; 1975; 1980). 9 “Ciò che collega linguistica ed etnografia non è il fatto che la seconda cerchi nella prima la propria fondazione, ma è la comune fondazione semiotica: linguistica ed etnografia, studio del fonema e studio dei tratti pertinenti dell’abbigliamento popolare rientrano entrambe nella scienza generale dei segni, la semiotica, come già indicava Saussure” (Solimini 1982, p. 82). 10 Il riferimento è, ovviamente, a Writing Culture, il testo derivato dai seminari di Santa Fe, sul tema della “costruzione del testo etnografico” (v. Clifford, Marcus, a cura, 1986). 11 I termini emic/etic (emico/etico) sono stati coniati da Kenneth Lee Pike (1954-60) in rapporto a phonemic/ phonetic, opposizione equivalente a quella illustrata sopra tra fonologia e fonetica: “emico” si riferisce a un approc-

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cio alla descrizione basato sugli elementi culturalmente pertinenti; “etico” designa un sistema descrittivo in cui i dati sono registrati dall’esterno, senza distinzione di rilevanza. 12 Si tratta dei quattro principi illustrati da Trubeckoj in La phonologie actuèlle (1933). V. anche Lévi-Strauss 1945, p. 47. 13 Tale rivendicazione, però, non avrà riscontro negli scritti successivi. Poiché i principi-guida indicati non hanno mai cessato di guidare l’opera di Lévi-Strauss, è probabile che l’allontanamento da tale tipo di affermazioni sia dovuto a ragioni analoghe a quelle che portarono Georges Dumézil ad allontanarsi dal termine struttura (v. Eribon 1992, p. 331). Per una più ampia trattazione dell’apporto lévi-straussiano, v. Miceli 1982, la parte seconda in particolare. 14 Nel Dictionnaire di Greimas, Courtés (1979) i nomi dei tre autori ricorrono spesso citati insieme, sorta di triade di numi tutelari. Del loro contributo alla semiotica hanno cominciato a dar bene conto Fabbri e Marrone in Semiotica in nuce (a cura, 2000). Al riguardo v. anche Coquet, a cura, 1982, pp. 20 sgg., 34-36). È importante notare che a guidare la rilettura greimasiana di Propp sono proprio Lévi-Strauss e Dumézil: “Certains sémioticiens n’ont pas su tenir compte des résultats des recherches d’un Dumézil ou d’un Lévi-Strauss mettant en évidence l’existence de structures profondes, organisatrices des discours mais sous-jacentes aux manifestations de la narrativité de surface de type proppien” (Greimas 1976c, p. 6). 15 Come è noto, nella Morfologia della fiaba (1928), Propp sviluppa un’analisi precorritrice, che potrebbe bene servire a illustrare i quattro principi che Lévi-Strauss riprende da Trubeckoj. Egli parte dalla constatazione che, al di là della variazione dei protagonisti e del contenuto particolare delle loro azioni è possibile individuare nelle fiabe di magia delle costanti. Gli è così possibile ridurre la fiaba a una concatenazione di trentuno funzioni (“l’operato del personaggio per lo svolgimento della vicenda”) e di sette personaggi, definiti ciascuno dalla propria sfera d’azione). 16 V. “Generativo (percorso-)” in Greimas, Courtés 1979, pp. 157-160. 17 V. “Narrativo (schema)” in Greimas, Courtés, 1979, pp. 228-231. 18 Prova qualificante (in Propp; la serie di funzioni che hanno a che fare con l’acquisizione del mezzo magico); prova principale (relativa alla rimozione del danno: in Propp, lotta e vittoria); prova glorificante (adempimento del compito difficile e conseguente identificazione dell’eroe). Vedi Greimas 1966, pp. 233-268. 19 Cfr. i tanti eroi della fiaba, inizialmente poveri e/o sciocchi, che ritroviamo ricchi, o si rivelano savi, al termine. 20 “Per algoritmo s’intende la prescrizione di un ordine determinato nell’esecuzione di un insieme di istruzioni esplicite in vista della soluzione di un certo tipo di problema dato” (Greimas, Courtés 1979, p. 29). 21 Pubblicato, si noti, su «L’Homme. Revue française d’anthropologie» (Jakobson, Lévi-Strauss 1962). 22 Significativamente, i due saggi appaiono entrambi nel primo volume di Semiotica in nuce (Fabbri, Marrone, a cura, 2000, pp. 116-128, 148-167). 23 La ricerca di una linearità nella costruzione di questa introduzione non ci permette di soffermarsi sul contributo della semiotica russa. 24 Il lettore che lo desideri, può ripercorrere questi termini, via Dizionario (Greimas, Courtés 1979, s.v.) o via Maupassant (Greimas 1976a, p. 126). 25 La stessa denominazione di “struttura elementare della significazione”, concetto base del pensiero greimasiano, può apparire a questo punto come un segreto omaggio alle lévi-straussiane Strutture elementari della parentela. Ricordiamo che il rapporto Lévi-Strauss-Greimas è affrontato anche in Pozzato 2001b. 26 “Filosofi e linguisti sono stati sempre concordi nel riconoscere che, senza il soccorso dei segni, noi saremmo incapaci di distinguere due idee in modo chiaro e costante. Preso in se stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente è distinto prima dell’apparizione della lingua (…). Noi possiamo dunque rappresentarci (…) la lingua come una serie di suddivisioni contigue proiettate, nel medesimo tempo, sia sul piano indefinito delle idee confuse, sia su quello non meno indeterminato dei suoni” (Saussure 1922, p. 136). Questo richiamo alla “nebulosa” saussuriana non vuole ignorare l’appunto mosso da Hjelmslev (1961), che ne rimarca il semplice carattere di “pedagogico esperimento ragionativo” (p. 54); ma è proprio questo suo aspetto che induce a farvi riferimento. 27 Essa è certamente rozza rispetto alla più attuale formulazione della chiusura del linguaggio in termini di “illusione referenziale” e “illusione enunciazionale” (Fabbri, Marrone, a cura, 2001). 28 Pensare le culture, «Rassegna italiana di sociologia», XLV, 1, 2004. 29 Matilde Callari Galli, Ugo Fabietti, Vincenzo Matera, Anna Maria Rivera. 30 Fondata sulla distinzione di Talcott Parsons tra struttura simbolica e struttura sociale. 31 Salvo un riferimento bibliografico della Callari Galli al lavoro di Buttitta; in particolare, dispiace osservare un’implicita rimozione della prospettiva semiotica in Matera, un autore pure linguisticamente preparato. Nel quadro di rimozione dell’apporto semiotico-strutturale, tra i vari saggi citati sul concetto di cultura va rilevata l’assenza dell’importante contributo di Leach (1978). Significativamente, in esso l’autore perviene alla conclusione che “attualmente, più che l’aspetto economico, funzionale e storico degli studi sulla cultura (…) è l’aspetto simbolico [il riferimento è allo strutturalismo lévi-straussiano] ad offrire la prospettiva più ampia di ulteriore sviluppo e promettenti aperture” (p. 268). 32 D’altra parte la nota 1 di Giglioli, Ravaioli mi pare concordare con il mio punto di vista. 33 Opportunamente Augé osserva: “Considerare la cultura come un insieme di testi che ‘dicono qualche cosa di qualcosa’ vuole dire esporsi al rischio di fare dire loro qualsiasi cosa e in particolare dei truismi” (1994a, p. 85). Va

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notata inoltre la svalutazione del lavoro di Lévi-Strauss, condotta peraltro attraverso un’accorta pratica del “colpisci e fuggi” e mai sul piano del confronto diretto: Nel “Combattimento dei galli”, dopo aver commentato il proprio approccio, e affermato che “il corollario (…) secondo il quale le forme culturali possono essere trattate come testi (…) deve ancora essere sfruttato sistematicamente”, Geertz conclude (in nota): “Lo ‘strutturalismo di Lévi-Strauss potrebbe sembrare un’eccezione ma lo è solo apparentemente, perché, invece di prendere miti, riti totemici, norme matrimoniali o che altro come testi da interpretare, Lévi-Strauss li prende come messaggi cifrati da risolvere’” (Geertz 1973b; p. 442, n. 40). Si potrebbe pensare a una semplice sottovalutazione del lavoro del maestro francese, ma l’operazione di discredito che regge le sue osservazioni sulla scrittura di Tristi tropici in Opere e vite (1988, pp. 33-54) induce a considerare la nota in questione come un sottile, elegante colpo di fioretto per liquidare un’opera e un autore ponderosi. D’altra parte, come già accennato, l’idea di considerare l’antropologia come un gioco di “interpretazione di interpretazioni” (1973a, p. 45) apre la via a una crisi ingiustificata del lavoro etnografico. Nell’ambito dello strutturalismo “classico”, già Émile Benveniste (1962) aveva segnalato che a un certo livello, quello della “lingua in uso”, entra in gioco la libertà del soggetto: ma è una libertà che si fonda su livelli rigidamente strutturati. Se è vero, dunque, che il fare del soggetto non può essere codificato a priori e il sistema simbolico presenta margini di “gioco”, è pur vero che tali margini sono molto più ristretti e definiti di quelli che l’antropologia interpretativa prefigura. 34 Una citazione di Mauss (1902) pare particolarmente illuminante per il nostro proposito: “I fatti sociali in generale, i fatti religiosi in particolare, sono cose esterne. Sono l’atmosfera intellettuale nella quale viviamo; e noi li pensiamo allo stesso modo in cui ci serviamo di una lingua materna, senza volontà e soprattutto senza coscienza delle cause stesse dei nostri atti. Come il linguista deve ritrovare sotto alle inesatte trascrizioni di un alfabeto i veri fonemi che venivano pronunciati, così sotto alle migliori informazioni degli indigeni, oceanici o americani, l’etnografo deve ritrovare i fatti profondi, che sono pressoché inconsci perché esistono soltanto nella tradizione” (v. Augé 1994a, p. 73). 35 Tracce del dibattito restano in Cirese 1977. La sola citazione di due saggi, Semprini, a cura, 1999 e Marsciani 1999 può essere sufficiente per indicare quanto ormai siamo lontani da questo falso problema. 36 “Ho cominciato a riflettere sulla mitologia nel 1950, ho terminato dopo le Mitologiche nel 1970. Per vent’anni sveglio all’alba, ubriaco di miti, ho veramente vissuto in un altro mondo” (Lévi-Strauss, Eribon 1988, p. 185). Per le opere di Lévi-Strauss sul mito v. 1964a; 1967a; 1968; 1971a; 1985; 1991. 37 Citiamo al riguardo anche The Raw and the Cooked (Lévi-Strauss 1972), stralciato questa volta da Il crudo e il cotto, sempre per una raccolta di saggi curata da Pierre Maranda (a cura, 1972). 38 Il lungo sodalizio tra i due autori, compagni di studi universitari e poi fondatori del Circolo di Mosca, è bene ricostruito da Solimini (1982, p. 11). 39 Al riguardo deve essere ricordato anche il contributo di “Uomo & Cultura”, dei «Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano» e, soprattutto, dei «Documenti di lavoro e prepublicazioni» del Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica di Urbino. 40 Come osserva Cesare Segre nella nota introduttiva all’articolo, proprio nel 1929 usciva su «La Critica» il primo e principale capitolo di Poesia popolare e poesia d’arte di Benedetto Croce. Per il dibattito intorno all’articolo in Italia v. Solimini 1982, pp. 13, 53-55. 41 Il saggio è stato ripubblicato più volte, per esempio nei Materiali per lo studio delle tradizioni popolari (Carpitella, a cura, 1976, pp. 1-21) e in Bogatyrëv 1975, pp. 66-78. 42 Proprio alla distinzione langue/parole ricorre Lévi-Strauss per chiarire l’origine del mito: “Ogni mito deve, in ultima analisi, trarre la sua origine da una creazione individuale. Su questo non vi sono dubbi, ma per passare allo stato di mito è necessario che una creazione non rimanga individuale e che perda (…) gran parte di quei dovuti alla probabilità che la compenetravano all’inizio e che potevano essere attribuiti al carattere, al talento, alla fantasia e alle esperienze personali dell’autore” (1971a, pp. 589-590). 43 “Come è noto la semiotica è cominciata con l’analisi delle fiabe russe di magia fatta da Vladimir Propp e dei miti bororo fatta da Claude Lévi-Strauss” (Greimas 1995, p. 177). 44 Nell’edizione italiana, il saggio va da p. 191 a p. 279. La parte che presentiamo si arresta a p. 220. 45 In russo il saggio è uscito postumo, in Fol’klor i dejstvitel’nost’ [Folclore e realtà. Saggi scelti], Moskva 1976 (v. Propp 1984, p. 346, nota 1. Il capitolo V di questo libro è dedicato proprio alle “fiabe cumulative: pp. 338-346). 46 Anche in questo caso, infatti, il problema è quello di riclassificare, sulla base della formula compositiva, un raggruppamento di fiabe già presenti nell’indice di Aarne e Thompson. 47 L’ipotesi si fonda sulla constatazione della sostanziale identità di principio riscontrabile, in India, in una gerarchia sociale (la suddivisione della società a¯rya in tre classi: sacerdoti, guerrieri, allevatori-cacciatori) e a Roma in una gerarchia divina (la triade precapitolina: Giove, Marte Quirino) (v. Dumézil 1969). 48 Erede diretto di questa tradizione è Stanley J. Tambiah, il cui contributo (1968; 1969; 1973a; 1973b; 1985; 1990) è molto importante per i temi qui discussi. 49 Di questo autore segnaliamo in italiano anche le “voci” sull’Enciclopedia di Einaudi, “Anthropos” (vol. I); “Cultura/culture” (vol. III); “Etnocentrismi” (vol. V); “Natura/cultura” (vol. VIII). 50 Bulmer 1967; Tambiah 1969; 1973a. Ma vedi anche il contributo di Paul Bouissac (infra, pp. 175-192). 51 Per alcuni punti salienti del dibattito al riguardo, v. Berlin, Kay 1969; Cardona 1976; Duranti 2001; Kay 2001.

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Ricordiamo che Disneyland è anche il tema di un’analisi di Augé (1997: v. supra, nota 3). V. al riguardo la sua ampia bibliografia (Marin, Fabre 2001). 54 Circa questo tema, v. anche l’interessante Marin 1987. 55 Si veda in particolare Bouissac 1976. Il lettore italiano ha a disposizione anche Bouissac 1981. Per una nota critica v. Semprini 1986. 56 Il saggio è stato oggetto di un ampio dibattito, apparso nella sezione “controversie” di «E/C» (Rivista dell’Associazione Semiotica on line). 53

Elogio dell’antropologia* Claude Lévi-Strauss

Signor amministratore, cari colleghi, signore, signori, Poco più di un anno fa, nel 1958, il Collège de France ha voluto creare nel suo seno una cattedra di antropologia sociale. Questa scienza è troppo attenta alle forme di pensiero, che chiamiamo superstiziose quando le incontriamo fra noi, perché non mi sia consentito di rendere alle superstizioni un omaggio preliminare; la particolarità dei miti, che nelle nostre ricerche occupano tanto posto, non è forse quella di evocare un passato abolito, e di applicarlo, come un cifrario, alla dimensione del presente, al fine di svelarvi un senso in cui coincidano le due facce – quella storica e quella strutturale – che l’uomo vede della propria realtà? Mi sia dunque anche permesso, in questa occasione in cui tutti i caratteri del mito si presentano riuniti, di procedere seguendo il suo esempio, cercando di discernere il senso, e la lezione, dell’onore che mi viene fatto, in alcuni avvenimenti passati; cosí, persino la data della vostra deliberazione attesta, miei cari colleghi – con il bizzarro ritorno della cifra 8, già illustrato dall’aritmetica di Pitagora, dalla tavola periodica dei corpi chimici e dalla legge di simmetria delle meduse – che la creazione di una cattedra di antropologia sociale, proposta nel 1958, rinnova una tradizione alla quale chi vi parla, anche se lo desiderasse, non avrebbe più il potere di sfuggire. Cinquant’anni prima della vostra decisione iniziale, Sir James George Frazer pronunciava, all’Università di Liverpool, la lezione inaugurale della prima cattedra al mondo che fosse intitolata “di antropologia sociale”. Cinquant’anni prima – cioè un secolo fa – nascevano, nel 1858, due uomini – Franz Boas ed Émile Durkheim – di cui i posteri avrebbero detto che furono, se non i fondatori, almeno gli artefici che edificarono, l’uno in America, l’altro in Francia, l’antropologia quale noi oggi la conosciamo. Non potevo esimermi dall’evocare qui questi tre anniversari, questi tre nomi. Quelli di Frazer e di Boas mi offrono l’occasione di mettere in evidenza, sia pur brevemente, tutto quello che l’antropologia sociale deve al pensiero angloamericano, e quello che io personalmente gli devo, poiché proprio in stretta unione con esso i miei primi lavori furono concepiti ed elaborati. Ma non stupitevi se Durkheim occuperà il posto più rilevante in questa lezione: egli incarna la parte essenziale del contributo francese all’antropologia sociale, benché il suo centenario, celebrato con grande risalto in numerosi paesi stranieri, sia da noi passato quasi inosservato, e non sia stato ancora solennizzato da nessuna cerimonia ufficiale1.

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Come spiegare questa ingiustizia nei suoi confronti, che è anche un’ingiustizia verso noi stessi, se non come una conseguenza minore dell’accanimento che ci spinge a dimenticare la nostra storia, ad averne persino “orrore”, – come ha detto Charles de Rémusat – sentimento che espone oggi l’antropologia sociale al rischio di perdere Durkheim, come ha già perduto Gobineau e Démeunier? Eppure, cari colleghi, quei pochi fra voi a cui mi uniscono ricordi lontani non mi smentiranno se rammento che intorno al 1935, quando i nostri amici brasiliani volevano spiegarci le ragioni che li avevano indotti a scegliere missioni francesi per formare le loro prime università, citavano sempre due nomi: prima, certo, il nome di Pasteur; e poi quello di Durkheim. Ma riservando a Durkheim queste considerazioni, noi obbediamo a un altro dovere. Nessuno, più di Marcel Mauss, sarebbe stato sensibile all’omaggio che si rivolge a lui oltre che al suo maestro di cui divenne il continuatore. Dal 1931 al 1942, Marcel Mauss occupò, al Collège de France, una cattedra dedicata allo studio della società, e il passaggio in questo istituto dello sventurato Maurice Halbwachs fu così breve, che è lecito, mi pare, senza tradire la verità, ritenere che, creando una cattedra di antropologia sociale, voi abbiate voluto ripristinare quella di Mauss. In ogni caso, chi vi parla è troppo debitore al pensiero di Mauss per non compiacersi di immaginare questo. Certo, la cattedra di Mauss era intitolata “sociologia”, poiché Mauss, che tanto ha lavorato, assieme a Paul Rivet, a rendere l’etnologia una scienza di pieno diritto, non ci era ancora riuscito completamente intorno al 1930. Ma, per attestare il legame di continuità fra i nostri insegnamenti, basterà ricordare che, in quello di Mauss, l’etnologia assumeva un posto sempre crescente; che, sin dal 1924, egli proclamava che il “posto della sociologia” era “nell’antropologia”; e che, salvo errore, Mauss fu, nel 1938, il primo a introdurre le parole “antropologia sociale” nella terminologia francese. Non le avrebbe certo sconfessate oggi. *** Anche nei suoi procedimenti più audaci, Mauss non ha mai avuto la sensazione di allontanarsi dalla linea durkheimiana. Meglio di lui, forse, possiamo oggi renderci conto di come, senza tradire una fedeltà tanto spesso affermata, egli abbia saputo semplificare e ammorbidire la dottrina del suo grande predecessore. Tale dottrina continua a stupirci, per le imponenti proporzioni, la potente impalcatura logica, e per le prospettive che apre su orizzonti in cui tanto resta da esplorare. La missione di Mauss fu quella di determinare e di sistemare il prodigioso edificio, sorto al passaggio del demiurgo. Bisognava esorcizzare alcuni spettri metafisici che ancora vi trascinavano le loro catene, metterlo definitivamente al riparo dai gelidi venti della dialettica, dal tuono dei sillogismi, dai lampi delle antinomie... Mauss, però, ha premunito la scuola durkheimiana contro altri pericoli. Durkheim fu probabilmente il primo a introdurre, nelle scienze dell’uomo, quell’esigenza di specificità che doveva permettere un rinnovamento di cui la maggior parte di esse – e in particolare la linguistica – ha beneficiato agli inizi del XX secolo. Per ogni forma di pensiero e di attività umane, non si possono porre problemi di natura o di origine prima di avere identificato e analizzato i fenomeni, e scoperto in quale misura le relazioni che li uniscono bastino a spiegarli. È impossibile discutere

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su un oggetto, ricostruirne la storia senza sapere, anzitutto, che cosa esso sia; in altri termini, senza avere esaurito l’inventario delle sue determinazioni interne. Tuttavia, quando oggi rileggiamo Les Règles de la méthode sociologique, non possiamo impedirci di pensare che Durkheim abbia applicato tali principi con una certa parzialità: li ha certo invocati, per costituire il sociale come categoria indipendente, ma senza tener conto che questa nuova categoria comportava, a sua volta, ogni sorta di specificità, corrispondenti ai diversi aspetti in base ai quali la comprendiamo. Prima di affermare che la logica, il linguaggio, il diritto, l’arte, la religione, sono proiezioni del sociale, non conveniva aspettare che le scienze particolari avessero approfondito, per ognuno di tali codici, la loro organizzazione e la loro funzione differenziale, permettendo, così, di capire la natura dei rapporti reciproci che li connettono? A rischio di essere accusati di paradosso, ci sembra che, nella teoria del “fatto sociale totale” (tanto spesso celebrata in seguito, e tanto mal capita), la nozione di totalità sia meno importante della particolarissima maniera in cui Mauss la intende: sfaldata, potremmo quasi dire, e costituita da una moltitudine di piani, distinti e congiunti. Anziché apparire come un postulato, la totalità del sociale si manifesta nell’esperienza: istanza privilegiata che si può cogliere al livello dell’osservazione, in casi ben determinati, quando si “scuotono... la totalità della società e dei suoi istituti”. Ebbene, questa totalità non sopprime il carattere specifico dei fenomeni, che restano “a un tempo giuridici, economici, religiosi, e persino estetici, morfologici”, dice Mauss, nell’Essai sur le don; tanto che essa consiste nella rete delle interrelazioni funzionali fra tutti questi piani. Tale atteggiamento empirico di Mauss spiega come egli abbia tanto presto superato la ripugnanza che Durkheim cominciava a provare nei confronti delle indagini etnografiche. “Quello che conta, – diceva Mauss – è il melanesiano di questa o quell’isola...”. Contro il teorico, l’osservatore deve sempre avere l’ultima parola; e, contro l’osservatore, l’indigeno. Infine, dietro le interpretazioni razionalizzate dell’indigeno – che diventa spesso osservatore, e persino teorico della propria società – si cercheranno le “categorie inconsce” che, scriveva Mauss in una delle sue prime opere, sono determinanti “in magia, come in religione, come in linguistica”. Ora, tale analisi approfondita avrebbe permesso a Mauss, senza contraddire Durkheim (poiché sarebbe stato su di un nuovo piano), di ristabilire, con le altre scienze dell’uomo, ponti talvolta imprudentemente tagliati: con la storia, dato che l’etnografo si colloca nel particolare; e anche con la biologia e con la psicologia, non appena si fosse riconosciuto che i fenomeni sociali sono “anzitutto sociali, ma anche, in pari tempo, fisiologici e psicologici”. Basterà spingere abbastanza lontano l’analisi per raggiungere un livello in cui, come dice ancora Mauss, “corpo, anima, società, tutto si mescola”. Questa sociologia bene in carne considera uomini, così come li dipingono i viaggiatori e gli etnografi che hanno condiviso la loro esistenza in maniera fuggevole o duratura. Essa li rivela implicati nel loro particolare divenire storico, e situati in uno spazio geografico concreto. Essa ha, dice Mauss, “il principio e il fine (...) di cogliere il gruppo nel suo insieme e il suo comportamento complessivo”. Se la disincarnazione era uno dei pericoli che incombevano sulla sociologia durkheimiana, Mauss l’ha protetta con pari successo da un altro rischio: l’automati-

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smo. Troppo spesso, dopo Durkheim – e anche fra taluni che si credevano affrancati dalla sua ipoteca dottrinale – la sociologia era apparsa come il prodotto di una razzia; compiuta frettolosamente a spese della storia, della psicologia, della linguistica, della scienza economica, del diritto e dell’etnografia. Ai frutti di questo saccheggio, la sociologia si accontentava di aggiungere le sue ricette: qualunque problema le si ponesse, si poteva essere certi di ricevere una soluzione “sociologica” prefabbricata. Se non siamo più a questo punto, lo dobbiamo, in gran parte, a Mauss, al cui nome occorre associare quello di Malinowski. Nello stesso periodo – e, senza dubbio, aiutandosi a vicenda – essi hanno mostrato, Mauss come teorico, Malinowski come sperimentatore, quel che poteva essere l’amministrazione della prova nelle scienze etnologiche. Per primi, essi hanno chiaramente capito che non bastava scomporre e sezionare. I fatti sociali non si riducono a frammenti sparsi, sono vissuti da uomini, e questa coscienza soggettiva è una forma della loro realtà né più né meno dei loro caratteri oggettivi. Mentre Malinowski instaurava la partecipazione intransigente dell’etnografo alla vita e al pensiero indigeni, Mauss affermava che l’essenziale “è il movimento del tutto, l’aspetto vivo, l’istante fuggevole in cui la società assume, in cui gli uomini assumono consapevolezza sentimentale di se stessi e della loro situazione di fronte agli altri”. Tale sintesi empirica e soggettiva offre la sola garanzia che l’analisi preventiva, spinta sino alle categorie inconsce, non abbia lasciato sfuggire nulla. E, probabilmente, la prova rimarrà in larga misura illusoria: non sapremo mai se l’altro, con cui non ci possiamo comunque confondere, opera, in base agli elementi della sua esistenza sociale, una sintesi esattamente sovrapponibile a quella da noi elaborata. Ma non è necessario andar così lontano; occorre solo – e, a ciò, basta l’intimo convincimento – che la sintesi, anche approssimativa, dipenda dall’esperienza umana. Dobbiamo assicurarcene, dal momento che studiamo uomini; e siccome noi stessi siamo uomini, ne abbiamo la possibilità. La maniera in cui Mauss pone e risolve il problema, nell’Essai sur le don, porta a vedere, nell’intersecarsi di due soggettività, l’ordine di verità più vicino al quale le scienze dell’uomo possano aspirare, quando affrontano il loro oggetto nella sua integralità. Non inganniamoci: tutto ciò, che sembra così nuovo, era implicitamente presente in Durkheim. Si è spesso rimproverato a quest’ultimo di avere, nella seconda parte delle Formes élémentaires, formulato una teoria della religione tanto vasta e generale che sembrava rendere superflua la minuziosa analisi delle religioni australiane che l’aveva preceduta e – si sarebbe auspicato – preparata. Il problema è di sapere se l’uomo Durkheim sarebbe potuto giungere a tale teoria, senza essersi prima sforzato di sovrapporre, alle rappresentazioni religiose ricevute dalla propria società, quelle di uomini la cui evidenza storica e geografica garantiva che sarebbero stati integralmente “altri”, non complici o accoliti insospettati. Tale appunto è il procedimento dell’etnografo quando si reca sul terreno, poiché – per scrupoloso e obiettivo che voglia essere – egli alla fine dell’indagine non incontra mai né se stesso, né l’altro. Tutt’al più può pretendere, con l’applicazione di se stesso sull’altro, di individuare ciò che Mauss chiamava “fatti di funzionamento generale”, dei quali egli ha mostrato che erano più universali e avevano più realtà. Completando così l’intenzione durkheimiana, Mauss liberava l’antropologia dalla falsa contrapposizione, introdotta da pensatori come Dilthey e Spengler, fra la spiega-

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zione nelle scienze fisiche e la spiegazione nelle scienze umane. La ricerca delle cause si conclude nell’assimilazione di un’esperienza, che però è, nello stesso tempo, esterna e interna. La famosa regola di “considerare i fatti sociali come cose” corrisponde al primo procedimento, che al secondo basta verificare. Discerniamo già l’originalità dell’antropologia sociale: essa consiste – anziché contrapporre spiegazione causale e comprensione – nell’individuare un oggetto che sia, nello stesso tempo, oggettivamente molto lontano e soggettivamente molto concreto, e la cui spiegazione causale possa fondarsi su quella comprensione che, per noi, non è altro che una forma supplementare di prova. Una nozione come quella di empatia ci ispira grande diffidenza, per i suoi presupposti irrazionalistici e mistici. Formulando un’esigenza di prova addizionale noi immaginiamo piuttosto l’antropologo alla stregua dell’ingegnere che concepisce e costruisce una macchina per una serie di operazioni razionali: bisogna però che la macchina funzioni, la certezza logica non basta. La possibilità di provare su di sé l’esperienza intima dell’altro è solo uno dei modi disponibili, per ottenere quest’ultima soddisfazione empirica, di cui le scienze fisiche e le scienze umane sentono in egual misura bisogno: non tanto una prova, quanto forse una garanzia. *** Che cos’è dunque l’antropologia sociale? Nessuno, mi sembra, è stato più vicino a definirla – benché solo per preterizione – di Ferdinand de Saussure, quando, presentando la linguistica come parte di una scienza ancora da nascere, egli riserva a quest’ultima il nome di semiologia, e le attribuisce, come oggetto di studio, la vita dei segni in seno alla vita sociale. Lui stesso, d’altronde, non anticipava forse la nostra adesione, quando, per l’occasione, paragonava il linguaggio “alla scrittura, all’alfabeto dei sordomuti, ai riti simbolici, alle formule di cortesia, ai segnali militari ecc.”? Nessuno contesterà che l’antropologia annovera, nel proprio campo, alcuni di tali sistemi di segni, ai quali si aggiungono molti altri: linguaggio mitico, segni orali e gestuali di cui si compone il rituale, regole di matrimonio, sistemi di parentela, leggi consuetudinarie, talune modalità degli scambi economici. Intendiamo quindi l’antropologia come l’occupante in buona fede di quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio; e in attesa che, almeno per certi settori di questo campo, non si costituiscano scienze speciali all’interno dell’antropologia. Occorre però precisare la definizione che abbiamo dato in due maniere. Anzitutto, ci affretteremo a riconoscere che alcuni fatti che abbiamo appena citato sono pure di competenza di scienze particolari: economia, diritto, scienza politica. Tuttavia, queste discipline considerano soprattutto i fatti che sono più vicini a noi, e quindi che presentano per noi un interesse privilegiato. Diciamo che l’antropologia sociale li considera, sia nelle loro manifestazioni più lontane, sia nella prospettiva della loro espressione più generale. Da quest’ultimo punto di vista, essa non può fare niente di utile, senza collaborare intimamente con le scienze sociali particolari; ma queste ultime, dal canto loro, non potrebbero pretendere alla generalità, se non grazie al concorso dell’antropologo, il solo che sia capace di allegar loro verifiche e inventari cercando di renderli completi.

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La seconda difficoltà è più seria; ci si può chiedere infatti se tutti i fenomeni, di cui l’antropologia sociale si interessa presentino davvero il carattere di segni. Ciò è abbastanza chiaro, per i problemi che studiamo più di frequente. Quando consideriamo un certo sistema di credenze – diciamo il totemismo – una certa forma di organizzazione sociale – clan unilineari, matrimonio bilaterale – il problema che ci poniamo è per l’appunto: “che significa tutto ciò?”; e, per rispondervi, ci sforziamo di tradurre, nel nostro linguaggio, regole primitivamente date in un linguaggio diverso. Ma ciò vale anche per altri aspetti della realtà sociale, quali l’attrezzatura, le tecniche, i modi di produzione e di consumo? Sembrerebbe che qui si abbia a che fare con oggetti, non con segni dato che il segno, secondo la celebre definizione di Peirce, è “ciò che sostituisce qualcosa per qualcuno”. Che cosa sostituisce dunque un’ascia di pietra, e per chi? L’obiezione è valida fino a un certo punto e spiega la ripugnanza che alcuni provano ad ammettere, nel campo dell’antropologia sociale, fenomeni che dipendono da altre scienze, come la geografia e la tecnologia. Il termine di antropologia culturale è quindi opportuno per contraddistinguere questa parte dei nostri studi e per sottolinearne l’originalità. Eppure, è ben noto, e l’averlo stabilito, d’accordo con Malinowski, fu uno dei titoli di gloria di Mauss che, soprattutto nelle società di cui ci occupiamo, ma anche nelle altre, questi settori sono pregni di significato. Per tale aspetto, ci concernono già. Infine, l’intenzione esauriente, che ispira le nostre ricerche, trasforma in assai larga misura l’oggetto. Certe tecniche, prese isolatamente, possono apparire come un dato assoluto, retaggio storico o risultato di un compromesso fra i bisogni dell’uomo e le costrizioni dell’ambiente. Ma, quando le situiamo nell’inventario generale delle società che l’antropologia si sforza di costituire, esse appaiono sotto una luce nuova, poiché le immaginiamo come l’equivalente di altrettante scelte che ogni società sembra fare (espressione di comodo, che va spogliata del suo antropomorfismo) entro una data gamma di possibili di cui fisseremo l’elenco. In tal senso si capisce come un certo tipo di ascia di pietra possa essere un segno: in un contesto determinato, esso sostituisce, per l’osservatore capace di comprenderne l’uso, l’utensile diverso che un’altra società impiegherebbe con gli stessi fini. Allora, anche le tecniche più semplici in una qualunque società primitiva assumono il carattere di un sistema analizzabile nei termini di un sistema più generale. La maniera in cui certi elementi del sistema sono stati riuniti, e altri esclusi, permette di intendere il sistema locale come un insieme di scelte significative, compatibili o incompatibili con altre scelte, che ogni società, o ogni fase del suo sviluppo, si è vista indotta a operare. *** Ponendo la natura simbolica del suo oggetto, l’antropologia sociale non intende dunque distaccarsi dai realia. Come lo potrebbe, dal momento che l’arte, in cui tutto è segno, si avvale di tramiti materiali? Non è possibile studiare gli dei ignorando le loro immagini; i riti, senza analizzare gli oggetti e le sostanze che l’officiante fabbrica o manipola; le regole sociali, indipendentemente dalle cose che loro corrispon-

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dono. L’antropologia sociale non si rinchiude in una parte del campo dell’etnologia; non separa cultura materiale da cultura spirituale. Nella prospettiva che le è propria – e che dovremo situare – attribuisce loro lo stesso interesse. Gli uomini comunicano mediante simboli e segni; per l’antropologia, che è una conversazione dell’uomo con l’uomo, tutto è simbolo e segno, posto come intermediario fra due soggetti. Per tale deferenza nei confronti degli oggetti e delle tecniche, oltre che per la certezza di operare su significati, la nostra concezione dell’antropologia sociale ci allontana sensibilmente da Radcliffe-Brown che, sino alla morte, avvenuta nel 1955, ha tanto contribuito a dare autonomia alle nostre ricerche. Secondo le teorie, sempre meravigliosamente limpide, del maestro inglese, l’antropologia sociale sarebbe una scienza induttiva, che – come le altre scienze di questo tipo – osserva fatti, formula ipotesi, sottomette queste ultime al controllo dell’esperienza, per scoprire le leggi generali della natura e della società. Essa si separa dunque dall’etnologia, che si sforza di ricostruire il passato delle società primitive, ma con strumenti e metodi così precari da non poter recare, all’antropologia sociale, insegnamento alcuno. Nell’epoca in cui è stata formulata, intorno al 1920, questa concezione – ispirata dalla distinzione durkheimiana fra circumfusa e praeterita – rappresentava una salutare reazione contro gli abusi della scuola diffusionista. Ma poi “la storia congetturale” – come diceva Radcliffe-Brown, non senza disprezzo – ha perfezionato e raffinato i suoi metodi, grazie agli scavi stratigrafici, all’introduzione della statistica in archeologia, all’analisi dei pollini, all’impiego del carbonio 14, e, soprattutto, grazie alla sempre più stretta collaborazione instauratasi fra gli etnologi e i sociologi da un lato e gli archeologi e gli studiosi di preistoria dall’altro. Possiamo dunque chiederci se la diffidenza di Radcliffe-Brown verso le ricostruzioni storiche non corrispondesse a una tappa dello sviluppo scientifico, una tappa che sarà presto superata. Per contro, molti di noi formulano, sull’avvenire dell’antropologia sociale, previsioni più modeste di quelle incoraggiate dalle grandi ambizioni di RadcliffeBrown. Essi si rappresentano l’antropologia sociale non sul modello delle scienze induttive, quali erano concepite nel XIX secolo, ma piuttosto come una sistematica, il cui fine consista nell’identificare e nel fare il repertorio dei tipi, nell’analizzare le loro parti costitutive, nello stabilire fra loro correlazioni. Senza questo lavoro preliminare – di cui non possiamo nasconderci che sia stato appena affrontato – il metodo comparativo, preconizzato da Radcliffe-Brown, rischia infatti di segnare il passo: o i dati che ci proponiamo di confrontare sono tanto vicini, geograficamente o storicamente, che non si è mai sicuri di avere a che fare con fenomeni distinti; oppure sono troppo eterogenei e il confronto diventa illegittimo, perché si avvicinano cose che non si possono confrontare. Sino a qualche anno fa era stato riconosciuto che in Polinesia, da pochi secoli, le istituzioni aristocratiche fossero state introdotte da gruppi di conquistatori venuti da fuori. Ma ecco che la misura della radioattività residuale di vestigia organiche, provenienti dalla Melanesia e dalla Polinesia, rivela che il divario, fra le date di occupazione delle due regioni, è meno grande di quanto non si supponesse, per cui, in pari tempo, le concezioni sulla natura e sull’unità del sistema feudale devono essere modificate; infatti, almeno in questa parte del mondo, non è più escluso, dopo le belle ricerche di Guiart, che esso sia anteriore all’arrivo dei conquistatori, e che certe forme di feudalesimo possano nascere in umili società di giardinieri.

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In Africa, la scoperta dell’arte di Ife, altrettanto raffinata e sapiente di quella del Rinascimento europeo, ma forse a esso anteriore di tre o quattro secoli, e preceduta, sempre in Africa, molto tempo prima, dall’arte della civiltà cosiddetta di Nok, influisce sull’idea che ci possiamo fare delle recenti arti dell’Africa nera e delle culture corrispondenti, in cui siamo ormai tentati di vedere repliche impoverite, e quasi rustiche, di forme d’arte e di civiltà elevate. L’accorciamento della preistoria del Vecchio Mondo e l’allungamento di quella del Nuovo – che il carbonio 14 permette di prospettare – porteranno forse a ritenere che le civiltà sviluppatesi sulle due sponde del Pacifico furono ancora più apparentate di quanto non sembri, e – esaminate ciascuna per conto proprio – a capirle altrimenti. Bisogna studiare fatti del genere, prima di affrontare ogni classificazione o comparazione. Se infatti ci affrettiamo a postulare l’omogeneità del campo sociale, e ci culliamo nell’illusione che esso sia immediatamente confrontabile in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli, ci lasceremo sfuggire l’essenziale. Misconosceremo il fatto che le coordinate richieste, per definire due fenomeni in apparenza molto simili, non sempre sono le stesse, e neppure nello stesso numero; e crederemo di formulare leggi della natura sociale, mentre ci limiteremo a descrivere proprietà superficiali, o a enunciare tautologie. Disprezzare la dimensione storica, con il pretesto che i mezzi per valutarla in modo approssimativo sono insufficienti, induce a soddisfarsi di una sociologia rarefatta, in cui i fenomeni sono come scollati dal loro supporto. Regole e istituzioni, stati e processi, sembrano fluttuare in un vuoto, in cui ci si ingegna a tendere una rete sottile di relazioni funzionali. Ci si assorbe interamente in questo compito. E si dimenticano gli uomini, dal pensiero dei quali tali rapporti si stabiliscono, si trascura la loro cultura concreta, non si sa più da dove vengano né cosa siano. Non basta, infatti, che alcuni fenomeni possano essere chiamati sociali perché l’antropologia si affretti a rivendicarli come di propria competenza. Espinas, che è un altro di quei maestri che ci permettiamo il lusso di dimenticare, aveva certamente ragione, dal punto di vista dell’antropologia sociale, quando contestava che le formazioni, prive di radici biologiche, avrebbero avuto lo stesso coefficiente di realtà delle altre: “L’amministrazione di una grande compagnia ferroviaria, – scriveva nel 1901, – non è affatto una realtà sociale (...) né lo è un esercito”. La formula è eccessiva, poiché le amministrazioni sono oggetto di studi approfonditi, in sociologia, in psicologia sociale, e in altre scienze particolari; ma ci aiuta a precisare la differenza che separa l’antropologia dalle precedenti discipline: i fatti sociali che studiamo si manifestano in società, ciascuna delle quali è un essere totale, concreto e connesso. Non perdiamo mai di vista il fatto che le società esistenti sono il risultato delle grandi trasformazioni sopraggiunte nella specie umana, in certi momenti della preistoria e in certi punti della Terra, e che una catena ininterrotta di avvenimenti reali colleghi tali fatti a quelli che possiamo osservare. Questa continuità cronologica e spaziale tra l’ordine della natura e l’ordine della cultura, su cui Espinas ha tanto energicamente insistito, in un linguaggio che non è più il nostro (e che, perciò, talvolta fatichiamo a capire), fonda pure lo storicismo di Boas. Essa spiega perché l’antropologia, benché sociale, si proclami solidale con l’antropologia fisica, di cui spia le scoperte con una specie di avidità. Infatti, anche se i fenomeni sociali devono essere provvisoriamente isolati dal resto, e trattati come

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se dipendessero da un livello specifico, sappiamo bene che di fatto, e anche in linea di diritto, l’emergenza della cultura rimarrà per l’uomo un mistero, fintanto che egli non riuscirà a determinare, al livello biologico, le modificazioni di struttura e di funzionamento del cervello, di cui la cultura è stata, nello stesso tempo, il risultato naturale e il modo sociale di comprensione, pur creando l’ambito intersoggettivo, indispensabile per spiegare trasformazioni che sono, certo, anatomiche e fisiologiche, ma non possono essere né definite né studiate riferendosi solo all’individuo. *** Questa professione di fede storica potrà sorprendere, poiché ci hanno talvolta rimproverato di essere chiusi alla storia, e di riservarle un posto trascurabile nei nostri lavori. In effetti, non la pratichiamo, ma ci teniamo a riservarle i suoi diritti. Crediamo solo che in questo periodo di formazione in cui l’antropologia sociale si trova, nulla sarebbe più pericoloso di un eclettismo pasticcione, che cercasse di dare l’illusione di una scienza compiuta, confondendo i compiti e mescolando i programmi. Ebbene, si dà il caso che in antropologia, la sperimentazione preceda sia l’osservazione che l’ipotesi. Uno dei caratteri originali delle piccole società da noi studiate, sta nel fatto che ciascuna di esse costituisce un’esperienza bell’e fatta, in virtù della sua relativa semplicità e del numero ristretto di variabili richieste per spiegare il suo funzionamento. D’altra parte, però, queste società sono vive e noi non abbiamo né il tempo né gli strumenti per agire su di esse. Rispetto alle scienze naturali, beneficiamo di un vantaggio e soffriamo di un inconveniente: troviamo le nostre esperienze già preparate, ma esse sono ingovernabili. È dunque naturale che ci sforziamo di sostituir loro dei modelli, cioè dei sistemi di simboli che tutelino le proprietà caratteristiche dell’esperienza, ma che, a differenza dell’esperienza, abbiamo il potere di manipolare. L’audacia di un procedimento simile è, tuttavia, compensata dall’umiltà, potremmo quasi dire dal servilismo, dell’osservazione così come la pratica l’antropologo. Abbandonando il suo paese, il suo focolare, per periodi prolungati; esponendosi alla fame, alla malattia, talvolta al pericolo; esponendo le sue abitudini, le sue credenze, e le sue convinzioni, a una profanazione di cui si rende complice, quando assume, senza restrizioni mentali né secondi fini, le forme di vita di una società straniera, l’antropologo pratica l’osservazione integrale, quella dopo cui non esiste più nulla, se non l’assorbimento definitivo – ed è un rischio – dell’osservatore, da parte dell’oggetto osservato. Questa alternanza di ritmo fra due metodi – il deduttivo e l’empirico – e l’intransigenza con cui pratichiamo entrambi, in forma estrema e quasi purificata, conferiscono all’antropologia sociale il suo carattere distintivo, rispetto agli altri rami della conoscenza: di tutte le scienze, essa probabilmente è la sola a valersi della soggettività più intima come di un modo di dimostrazione oggettiva. Poiché è pure un fatto oggettivo che lo stesso individuo, che si è abbandonato all’esperienza e si è lasciato modellare da essa, diventi il teatro di operazioni mentali, che, senza abolire le precedenti, trasformano l’esperienza in modello, rendendo possibili altre operazioni mentali. In fin dei conti, la coerenza logica di queste ultime si fonda sulla sincerità e sull’onestà di colui che può dire, come l’uccello esploratore della favola:

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“Ero lì, quella cosa mi successe. Crederete di esserci anche voi”, e che riesce, in effetti, a comunicare tale convinzione. Ma questo continuo oscillare fra teoria e osservazione esige che i due piani siano sempre distinti. Per ritornare alla storia, mi sembra che per essa valga la stessa esigenza, a seconda che intendiamo dedicarci alla statica o alla dinamica, all’ordine della struttura o all’ordine dell’avvenimento. La storia degli storici non ha bisogno di essere difesa, ma non significa attaccarla affermare (come riconosce Braudel) che, oltre a un tempo corto, esiste un tempo lungo; che taluni fatti dipendono da un tempo statistico e irreversibile, e altri da un tempo meccanico e reversibile; e che l’idea di una storia strutturale non ha nulla che possa scandalizzare gli storici. L’una e l’altra vanno di pari passo, e non è contraddittorio che una storia di simboli e di segni generi sviluppi imprevedibili, pur mettendo in funzione combinazioni strutturali il cui numero è limitato. In un caleidoscopio, il combinarsi di elementi identici dà sempre nuovi risultati. Ma la storia degli storici vi è presente – non foss’altro che nella successione delle scosse che provocano le riorganizzazioni di struttura – e le probabilità che riappaia per due volte la stessa disposizione sono praticamente nulle. Non intendiamo quindi riprendere, nella sua forma primitiva, la distinzione introdotta dal Cours de linguistique générale fra ordine sincronico e ordine diacronico, cioè quell’aspetto della dottrina saussuriana da cui, con Trubeckoj e Jakobson, lo strutturalismo moderno si è più risolutamente allontanato; quello, del resto, a proposito del quale recenti documenti rivelano come i redattori del Cours abbiano potuto, talvolta, forzare e schematizzare il pensiero del maestro. Per i redattori del Cours de linguistique générale, esiste un’opposizione assoluta fra due categorie di fatti: da un lato, quella della grammatica, del sincronico, del conscio; dall’altro, quella della fonetica, del diacronico, dell’inconscio. Solo il sistema conscio è coerente; l’infra-sistema inconscio è dinamico e squilibrato, composto da aspetti del passato e,,, insieme, da tendenze future non ancora realizzate. Il fatto è che Saussure non aveva ancora scoperto la presenza degli elementi differenziali dietro il fonema. Su un altro piano, la sua posizione prefigura indirettamente quella di Radcliffe-Brown, nel convincimento che la struttura sia dell’ordine dell’osservazione empirica, mentre invece si situa al di là. Tale ignoranza di realtà nascoste comporta, in entrambi, conclusioni opposte. Saussure sembra negare l’esistenza di una struttura ogni qual volta essa non sia immediatamente data; RadcliffeBrown l’afferma, ma, vedendola dove essa non c’è, toglie alla nozione di struttura la sua forza e la sua portata. In antropologia come in linguistica, sappiamo ormai che il sincronico può essere inconscio quanto il diacronico. In tal senso si riduce già il divario che le separa. D’altra parte, il Cours de linguistique générale pone relazioni di equivalenza tra fonetico, diacronico e individuale, che formano l’ambito della parola; e fra grammaticale, sincronico e collettivo, che sono l’ambito della lingua. Ma abbiamo imparato, da Marx, che il diacronico può anche esserci nel collettivo, e, da Freud, che il grammaticale può anche compiersi all’interno stesso dell’individuale. Né i redattori del Cours, né Radcliffe-Brown, si sono sufficientemente resi conto che la storia dei sistemi di segni congloba evoluzioni logiche, riferendosi a livelli di strutturazione diversi, che vanno anzitutto isolati. Se esiste un sistema conscio, quest’ultimo può risultare solo da una specie di “media dialettica” tra una molteplicità

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di sistemi inconsci, ciascuno dei quali concerne un aspetto, o un livello, della realtà sociale. Ebbene, tali sistemi non coincidono, né per struttura logica, né per aderenza storica. Essi sono come diffratti su una dimensione temporale, la cui densità conferisce alla sincronia la sua consistenza, e senza la quale essa si dissolverebbe in un’essenza tenue e impalpabile, un fantasma di realtà. Non sarebbe quindi troppo azzardato suggerire che, nella sua espressione orale, l’insegnamento di Saussure non dovesse essere molto lontano dalle profonde osservazioni di Durkheim che citerò; pubblicate nel 1900, sembrano scritte oggi: Certo, i fenomeni che concernono la struttura hanno qualcosa di più stabile dei fenomeni funzionali; ma, fra i due ordini di fatti, esistono solo differenze di grado. La struttura si incontra anche nel divenire (...). Essa si forma e si decompone senza posa; è la vita giunta a un certo grado di consolidamento; e distinguerla dalla vita da cui deriva, o dalla vita che determina, equivale a dissociare cose inseparabili.

*** In verità, proprio la natura dei fatti che studiamo ci incoraggia a distinguere, in essi, quanto dipende dalla struttura da quanto appartiene alla sfera dell’avvenimento. La prospettiva storica, per importante che sia, può essere raggiunta solo alla scadenza: dopo lunghe ricerche, che – come provano la misura della radioattività e la palinologia – non appartengono quasi mai al nostro campo. Per contro, la diversità delle società umane e il loro numero – che alla fine del XIX secolo ammontava ancora a parecchie migliaia – ce le fanno apparire come sciorinate nel presente. Niente di strano se, rispondendo a questa sollecitazione dell’oggetto, adottiamo un metodo più fondato sulle trasformazioni che sulle flussioni. Esiste, infatti, una strettissima relazione fra il concetto di trasformazione e quello di struttura, che tanto posto ha nei nostri lavori. Radcliffe-Brown l’ha introdotto nell’antropologia sociale ispirandosi alle idee di Montesquieu e di Spencer; se ne serviva per designare la maniera durevole in cui gli individui e i gruppi sono collegati all’interno del corpo sociale. Per lui, di conseguenza, la struttura appartiene all’ordine del fatto; essa è data nell’osservazione di ogni particolare società. Questa teoria deriva, certo, da una precisa concezione delle scienze naturali, ma non avrebbe già più potuto essere accettabile per un Cuvier. Nessuna scienza può oggi considerare le strutture del proprio campo come riducentisi a una qualsiasi disposizione di parti qualsiasi. Solo è strutturata la disposizione che obbedisce a due condizioni: deve essere un sistema retto da coesione interna; e tale coesione, inaccessibile dall’osservazione di un sistema isolato, si rivela nello studio delle trasformazioni, grazie alle quali ritroviamo proprietà similari in sistemi diversi in apparenza. Come scriveva Goethe: Tutte le forme sono simili, e nessuna è uguale alle altre, Cosicché il loro coro guida verso una legge nascosta.

Questa convergenza delle prospettive scientifiche è molto confortante per le scienze semiologiche, di cui l’antropologia sociale fa parte, poiché i segni e i simboli possono avere la loro funzione solo nella misura in cui appartengono a sistemi,

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retti da leggi interne di implicazione e di esclusione; e poiché è tipico di un sistema di segni essere trasformabile, o, in altri termini, traducibile nel linguaggio di un altro sistema, con l’aiuto di permute. Il fatto che una simile concezione sia potuta sorgere in paleontologia, incoraggia l’antropologia sociale a nutrire un sogno segreto: essa appartiene alle scienze umane, come il suo nome proclama a sufficienza; ma, se si rassegna a stare in purgatorio fra le scienze sociali, è solo perché non dispera, nell’ora del giudizio finale, di risvegliarsi fra le scienze naturali. Cerchiamo di mostrare, con due esempi, come l’antropologia sociale lavori a giustificare il suo programma. È noto quale funzione assuma la proibizione dell’incesto nelle società primitive. Proiettando, se mi è lecita l’espressione, le sorelle e le figlie fuori del gruppo consanguineo, e assegnando loro sposi provenienti a loro volta da altri gruppi, essa stabilisce, fra tali gruppi naturali, legami di imparentamento, i primi che si possano qualificare come sociali. La proibizione dell’incesto fonda così la società umana, e, in un certo senso, essa è la società. Per giustificare questa interpretazione, non abbiamo proceduto in modo induttivo. Come avremmo potuto, trattandosi di fenomeni la cui correlazione è universale, ma fra i quali le diverse società inventano ogni sorta di connessioni eteroclite? Per di più, non si tratta qui di fatti, ma di significati. Il problema che ci ponevamo era quello del senso della proibizione dell’incesto (nel XVIII secolo lo si sarebbe chiamato il suo “spirito”), e non dei suoi risultati, reali o immaginari. Occorreva dunque, per ogni nomenclatura di parentela e per le corrispondenti regole di matrimonio, stabilire il loro carattere di sistema. E ciò era possibile solo al prezzo di uno sforzo supplementare, consistente nell’elaborare il sistema di tali sistemi, e nel metterli fra loro in un rapporto di trasformazioni. Così, quel che era ancora soltanto un immenso disordine, si organizzava in forma di grammatica: enunciato che riassume tutte le maniere concepibili d’instaurare, e di mantenere, un sistema di reciprocità. Ci troviamo a questo punto. E ora, come dovremo procedere per rispondere all’interrogativo seguente, che è quello dell’universalità di tali regole nell’insieme delle società umane, incluse le società contemporanee? Anche se non definiamo la proibizione dell’incesto nella stessa maniera degli australiani o degli amerindiani, essa esiste anche tra noi: ma ha ancora la stessa funzione? Potrebbe darsi che noi ne siamo condizionati per ragioni diversissime, come la tardiva scoperta delle conseguenze nocive delle unioni consanguinee. Potrebbe anche darsi – come pensava Durkheim – che l’istituzione non abbia più tra noi una funzione positiva, e che sussista solo come vestigia di credenze desuete, ancorate nel pensiero collettivo. O non dobbiamo pensare piuttosto che la nostra società, caso particolare di un genere più vasto, dipenda, come tutte le altre, per la sua coerenza e per la sua stessa esistenza, da una rete – divenuta fra noi infinitamente instabile e complicata – di vincoli tra famiglie consanguinee? Nel caso affermativo, bisognerà forse ammettere che la rete sia omogenea in tutte le sue parti, oppure riconoscere in essa tipi di strutture, diverse secondo gli ambienti e le regioni; e variabili, in funzione delle tradizioni storiche locali? Questi problemi sono essenziali per l’antropologia, poiché la risposta che verrà loro data deciderà della natura intima del fatto sociale, e del suo grado di plasticità. Ora, è impossibile decidere con l’aiuto di metodi desunti dalla logica di Stuart Mill. Non possiamo far variare i legami complessi che una società contemporanea presup-

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pone – sui piani tecnico-economico, professionale, politico, religioso e biologico –, interromperli e ristabilirli a volontà, nella speranza di scoprire quelli indispensabili all’esistenza della società come tale, e quelli di cui essa potrebbe in fondo fare a meno. Ma potremmo, fra i sistemi matrimoniali la cui funzione di reciprocità sia meglio stabilita, scegliere i più complessi e i meno stabili; potremmo costruirne modelli in laboratorio, per determinare come funzionerebbero se implicassero un numero crescente di individui; potremmo inoltre deformare i nostri modelli, nella speranza di ottenere modelli dello stesso tipo, ma ancora più complessi e più instabili... E confronteremmo i cicli di reciprocità così ottenuti, con i più semplici che sia possibile osservare sul terreno, nelle società contemporanee, per esempio nelle regioni caratterizzate da isolati di piccole dimensioni. Mediante passaggi successivi, dal laboratorio al terreno, dal terreno al laboratorio, cercheremmo di colmare progressivamente il vuoto tra due serie, l’una nota, l’altra ignota, intercalando una serie di forme intermedie. In sostanza, non faremmo nient’altro che “elaborare un linguaggio”, i cui soli meriti consisterebbero nella coerenza, come per ogni linguaggio, e nel rendere conto, con un piccolo numero di regole, di fenomeni sino allora considerati diversissimi. In mancanza di una inaccessibile verità di fatto, avremmo raggiunto una verità di ragione. *** Il secondo esempio si riferisce a problemi dello stesso tipo, affrontati a un altro livello: si tratterà sempre della proibizione dell’incesto, ma non più nella sua forma regolamentare: bensì come tema di riflessione mitica. Gli indiani irochesi e algonchini raccontano la storia di una ragazza, esposta alle imprese amorose di un visitatore notturno, che essa crede suo fratello. Tutto sembra denunciare il colpevole: aspetto fisico, abiti, guancia graffiata (che prova la virtù dell’eroina). Formalmente accusato da costei, il fratello rivela di avere un sosia, o più esattamente un doppio: fra loro, infatti, il legame è così stretto che ogni evento capitato all’uno si trasmette automaticamente all’altro: vesti lacerate, ferita al viso..., per convincere la sorella incredula, dinanzi a lei, il giovane assassina il suo doppio; ma, nello stesso tempo, egli pronuncia il proprio decreto di morte, poiché i loro destini sono legati. Allora, la madre della vittima vorrà vendicare il figlio; è una potente strega, signora dei gufi. C’è una sola maniera di sviarla: che la sorella si unisca al fratello, e che costui si faccia passare per il doppio da lui ucciso; l’incesto è così inconcepibile che la vecchia donna non potrà sospettare il raggiro. Ma i gufi non ci cascheranno, e denunceranno i colpevoli che peraltro riusciranno a fuggire. In questo mito, l’ascoltatore occidentale ritrova senza fatica un tema che la leggenda di Edipo ha fissato: le precauzioni prese per evitare l’incesto lo rendono in realtà ineluttabile; in entrambi i casi, il colpo di scena consiste nell’identificazione di personaggi dapprima presentati come distinti. È una semplice coincidenza – tale che cause diverse spieghino come, in entrambi i casi, gli stessi motivi vengano a trovarsi arbitrariamente riuniti –, oppure l’analogia dipende da ragioni più profonde? Effettuando l’accostamento, non abbiamo forse prodotto un frammento d’insieme significante?

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Se dovessimo rispondere affermativamente, l’incesto del mito irochese, tra fratello e sorella, costituirebbe una permuta dell’incesto edipico tra madre e figlio. La congiuntura che rende il primo inevitabile – doppia personalità dell’eroe maschile – sarebbe una permuta della doppia identità di Edipo, ritenuto morto e tuttavia vivo, bambino condannato ed eroe trionfante. Per completare la dimostrazione, bisognerebbe scoprire, nei miti americani, una trasformazione dell’episodio della sfinge, che costituisce il solo elemento della leggenda di Edipo ancora mancante. Orbene, in questo caso particolare (che ci ha suggerito di sceglierlo invece di altri), la prova sarebbe davvero cruciale: come Boas per primo ha rilevato, gli indovinelli, o gli enigmi, sono, assieme ai proverbi, un genere quasi del tutto mancante fra gli indiani dell’America Settentrionale. Se s’incontrassero enigmi nel campo semantico del mito americano, non sarebbe dunque un caso, ma la prova di una necessità. In tutta l’America Settentrionale, si trovano solo due situazioni “da enigmi”, la cui origine sia incontestabilmente indigena: fra gli indiani pueblos delle regioni sudoccidentali degli Stati Uniti, esiste una famiglia di buffoni cerimoniali che pongono enigmi agli spettatori, e che i miti descrivono come nati da un commercio incestuoso. D’altra parte, ci si ricorda che la strega del mito precedentemente riassunto, e che minaccia la vita dell’eroe, è una padrona dei gufi: ora, proprio fra gli algonchini, si conoscono miti in cui i gufi, talvolta l’antenato dei gufi, pongono, sotto pena di morte, enigmi all’eroe. Anche in America, di conseguenza, gli enigmi presentano un duplice carattere edipico: per via dell’incesto, da un lato; d’altro lato, per via del gufo, nel quale siamo portati a vedere una sfinge americana, in forma trasposta. Presso popoli separati dalla storia, dalla geografia, dalla lingua e dalla cultura, sembra dunque che esista la stessa correlazione fra l’enigma e l’incesto. Per consentire il paragone, costruiamo un modello dell’enigma, che esprima nel modo migliore le sue proprietà costanti nelle diverse mitologie, e definiamolo, in tale prospettiva, come una domanda a cui si postula che non ci sia risposta. Non considereremo qui tutte le trasformazioni possibili di questo enunciato, e ci accontenteremo, per fare l’esperimento, di rovesciarne i termini; eccone il risultato: una risposta per cui non ci sono domande. In apparenza, si tratta di una formula completamente priva di senso. Eppure è evidente che esistono miti, o frammenti di miti, di cui questa struttura, simmetrica e inversa rispetto all’altra, costituisce la forza drammatica. Mancherebbe il tempo per raccontare gli esempi americani. Mi limiterò dunque a evocare la morte del Budda, resa inevitabile perché un discepolo omette di porre la domanda attesa, e, più vicini a noi, i vecchi miti, rielaborati nel ciclo del Graal, in cui l’azione è sospesa alla timidezza dell’eroe nei confronti del vaso magico, di cui non osa chiedere “a che cosa serva”. Questi miti hanno un’esistenza indipendente, o bisogna considerarli a loro volta come una specie di genere più vasto, di cui i miti, di tipo edipico, costituiscono solo un’altra specie? Ripetendo il procedimento precedente, cercheremo se, e in qual misura, gli elementi caratteristici di un gruppo possano essere ricondotti a permute (che saranno, qui, inversioni) degli elementi caratteristici dell’altro gruppo. Ed è proprio quel che avviene: da un eroe che abusa del commercio sessuale, tanto da spingerlo sino all’incesto, si passa a un casto, che se ne astiene; un personaggio sottile, che conosce tutte le risposte, fa posto a un innocente, che non sa nemmeno porre domande. Nelle varianti americane di questo secondo tipo, e nel ciclo del

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Graal, il problema da risolvere è quello del “gaste pays”, cioè dell’estate revocata; ebbene, tutti i miti americani del primo tipo, ossia del tipo “edipico”, si riferiscono a un inverno eterno, che l’eroe revoca quando risolve gli enigmi, determinando così l’avvento dell’estate. Semplificando molto, Parsifal appare dunque come un Edipo rovesciato: ipotesi che non avremmo osato considerare, se avessimo dovuto accostare una fonte greca a una fonte celtica, ma che s’impone in un contesto nordamericano, in cui i due tipi sono presenti presso le stesse popolazioni. Tuttavia non siamo arrivati al termine della dimostrazione. Non appena si verifica che, all’interno di un sistema semantico, la castità ha, con “la risposta senza domanda”, un rapporto omologo a quello che il commercio incestuoso ha con “la domanda senza risposta” dobbiamo anche ammettere che i due enunciati di forma sociobiologica sono, a loro volta, in un rapporto di omologia con i due enunciati di forma grammaticale. Fra la soluzione dell’enigma e l’incesto, esiste una relazione, non esterna e di fatto, ma interna e di ragione, e proprio per questo civiltà tanto diverse fra loro come quelle dell’antichità classica e dell’America indigena, possono indipendentemente, associarli. Come l’enigma risolve, così l’incesto avvicina termini destinati a rimanere separati: il figlio si unisce alla madre, il fratello alla sorella, come fa la risposta che riesce, contro ogni previsione, a raggiungere la sua domanda. Nella leggenda di Edipo, quindi, non è arbitrario che il matrimonio con Giocasta segua la vittoria sulla Sfinge. Oltre al fatto che i miti di tipo edipico (di cui diamo così una definizione precisa) assimilano sempre la scoperta dell’incesto alla soluzione di un enigma vivente, impersonato dall’eroe, su piani e in linguaggi differenti, i loro diversi episodi si ripetono; e forniscono la stessa dimostrazione che ritroviamo, nei vecchi miti del Graal, in forma rovesciata: l’audace unione di parole mascherate, o di consanguinei dissimulati a se stessi, genera l’imputridimento e la fermentazione, lo scatenarsi di forze naturali – si pensi alla peste tebana – come l’impotenza, in materia sessuale (come pure nell’annodare un dialogo proposto), estingue la fecondità animale e vegetale. Alle due prospettive, che potrebbero entrambe sedurre la sua immaginazione, di un’estate o di un inverno eterni, ma che sarebbero, l’una lincenziosa sino alla corruzione, l’altro puro sino alla sterilità, l’uomo deve risolversi a preferire l’equilibrio e la periodicità del ritmo stagionale. Nell’ordine naturale, quest’ultimo risponde alla stessa funzione cui, sul piano sociale, soddisfa lo scambio delle donne nel matrimonio e lo scambio delle parole nella conversazione, purché l’uno e l’altra siano praticati con la franca intenzione di comunicare; cioè, senza astuzie né perversità, e, soprattutto, senza secondi fini. *** Ci siamo accontentati di prospettare le grandi linee di una dimostrazione – che sarà ripresa nei particolari, in un futuro corso di lezioni2 – per illustrare quel problema dell’invarianza che l’antropologia sociale cerca di risolvere, al pari di altre scienze, ma che, in essa, si presenta come la forma moderna di una domanda che si è sempre posta: quella dell’universalità della natura umana. Non volgiamo forse le spalle a questa natura umana quando, per individuare le nostre invarianti, sostituiamo i dati dell’esperienza con modelli sui quali ci abbandoniamo a operazioni astratte, come l’algebrista con le sue equazioni? Ce l’hanno

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talvolta rimproverato. Ma, a parte il fatto che l’obiezione ha poco peso per il praticante – che sa con quale puntigliosa fedeltà alla realtà concreta egli paghi la libertà che si concede di sorvolarla per alcuni brevi istanti – vorrei ricordare che procedendo in tal modo, l’antropologia sociale si limita solo a riprendere per proprio conto una parte dimenticata del programma che Durkheim e Mauss le avevano tracciato. Nella Prefazione alla seconda edizione delle Règles de la méthode sociologique Durkheim si difende contro l’accusa di avere abusivamente separato il collettivo dall’individuale. Questa separazione, egli dice, è necessaria, ma non è escluso che in futuro si giunga a concepire la possibilità di una psicologia solo formale, che sarebbe una specie di terreno comune alla psicologia individuale e alla sociologia (...). Sarebbe necessario cercare, con il confronto dei temi mitici, delle leggende e delle tradizioni popolari, delle lingue, in che modo le rappresentazioni sociali si richiamino e si escludano, si mescolino le une nelle altre o si distinguano (...).

Tale ricerca, osserva concludendo, appartiene piuttosto al campo della logica astratta. È curioso notare quanto Lévy-Bruhl sarebbe stato vicino a questo programma, se non avesse scelto a priori di relegare le rappresentazioni mitiche nell’anticamera della logica, e se non avesse reso irrimediabile la separazione, quando rinunciò, più tardi, alla nozione di pensiero prelogico; ma solo per scaricare, come dicono gli inglesi, il bambino con l’acqua del bagno: negando alla “mentalità primitiva” il carattere cognitivo che gli concedeva all’inizio, e respingendola tutta quanta nella sfera dell’affettività. Più fedele alla concezione durkheimiana di una “oscura psicologia” soggiacente alla realtà sociale, Mauss orienta l’antropologia “verso la ricerca di quel che è comune agli uomini (...). Gli uomini comunicano mediante simboli (...) ma possono avere questi simboli, e comunicare per loro tramite, solo perché hanno gli stessi istinti”. Una concezione simile, che è anche la nostra, non presta forse il fianco a un’altra critica? Se il vostro fine ultimo, si dirà, è quello di cogliere certe forme universali di pensiero e di moralità (l’Essai sur le don termina infatti con conclusioni di morale), perché dare alle società, che chiamate primitive, un valore privilegiato? Non si dovrebbe, per ipotesi, arrivare agli stessi risultati partendo da qualunque società? È l’ultimo problema che vorrei considerare, prima di por fine a una più lunga lezione. Ciò è tanto più necessario in quanto, fra gli etnologi e i sociologi che mi ascoltano, alcuni, che studiano le società in rapida trasformazione, contesteranno forse il concetto che implicitamente sembro avere delle società primitive. I loro pretesi caratteri distintivi, essi possono credere, si limitano a un’illusione, effetto dell’ignoranza in cui siamo di quel che succede davvero; obiettivamente, non corrispondono a realtà. Certo il carattere delle inchieste etnografiche si modifica man mano che scompaiono le piccole tribù selvagge che un tempo studiavamo, fondendosi in insiemi più vasti in cui i problemi tendono ad assomigliare ai nostri. Ma, se è vero, come Mauss ci ha insegnato, che l’etnologia è un modo originale di conoscenza più che una fonte di cognizioni particolari, ne concluderemmo solo che oggi l’etnologia si amministra in due maniere: allo stato puro, e allo stato diluito. Cercare di approfondirla là dove

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il suo metodo si mescola ad altri metodi, dove il suo oggetto si confonde con altri oggetti, non è prova di un sano atteggiamento scientifico. Questa cattedra sarà dunque consacrata all’etnologia pura il che non significa che il suo insegnamento non possa essere applicato ad altri fini, né che esso si disinteresserà delle società contemporanee che, a certi livelli e sotto certi aspetti, sono di diretta competenza del metodo etnologico. Quali sono, allora, le ragioni della predilezione che proviamo per quelle società che, in mancanza di un termine migliore, chiamiamo primitive, benché primitive non siano certamente? La prima, confessiamolo francamente, è d’ordine filosofico. Come ha scritto Merleau-Ponty, “ogni qualvolta il sociologo [ma in realtà si riferisce all’antropologo] ritorna alle vive fonti del suo sapere, a quel che, in lui, opera come modo di capire le formazioni culturali più lontane da lui, fa spontaneamente della filosofia”. Infatti, la ricerca sul terreno, da cui ha inizio ogni carriera etnologica, è madre e nutrice del dubbio, atteggiamento filosofico per eccellenza. Questo “dubbio antropologico” non consiste solo nel sapere che non si sa nulla, ma nell’esporre risolutamente quel che si credeva di sapere e persino la propria ignoranza, agli insulti e alle smentite inflitte, a idee e abitudini carissime, da idee e abitudini che possono contraddirle al più alto grado. Al contrario di quanto suggerisce l’apparenza, noi pensiamo che l’etnologia si distingua dalla sociologia per il suo metodo più strettamente filosofico. Il sociologo oggettivizza, per paura di essere tratto in inganno. L’etnologo non prova questa paura, poiché la remota società da lui studiata non lo coinvolge, e poiché non si condanna in anticipo a estirparne tutte le sfumature e tutti i particolari, e persino i valori, insomma, tutto ciò in cui l’osservatore della propria società rischia di essere implicato. Scegliendo un soggetto e un oggetto radicalmente distanti l’uno dall’altro, l’antropologia corre, però, il rischio che la conoscenza dell’oggetto non colga le sue proprietà intrinseche, ma si limiti a esprimere la posizione relativa, e sempre mutevole, del soggetto rispetto a esso. È possibilissimo, infatti, che la pretesa conoscenza etnologica sia condannata a restare bizzarra e inadeguata quanto quella che un visitatore esotico avrebbe della nostra società. L’indiano kwakiutl, che Boas invitava talvolta a New York, perché gli servisse da informatore, era indifferente allo spettacolo dei grattacieli e delle strade solcate da automobili. Egli riservava tutta la sua curiosità intellettuale ai nani, ai giganti, e alle donne barbute che venivano allora esibite in Times Square, ai distributori automatici di piatti cucinati, alle sfere di ottone che ornavano l’inizio delle ringhiere delle scale. Per ragioni che non posso evocare qui, tutto ciò metteva in causa la sua particolare cultura, ed essa sola egli cercava di riconoscere in taluni aspetti della nostra. A modo loro, gli etnologi non cedono forse alla stessa tentazione, quando si permettono, come fanno tanto spesso, di interpretare i costumi e le istituzioni indigene, nell’intento inconfessato di inquadrarle meglio nelle teorie del momento? Il problema del totemismo, che molti di noi considerano diafano e insostanziale, ha pesato per anni sulla riflessione etnologica, e noi oggi comprendiamo che tale importanza derivava da un certo gusto dell’osceno e del grottesco, che è come una malattia infantile della scienza religiosa: proiezione negativa di un timore incontrollabile del sacro, di cui l’osservatore stesso non è riuscito a liberarsi. Così, la teoria del totemismo si è costituita “per noi”, non “in sé”, e nulla garantisce che, nelle sue forme attuali, essa non dipenda ancora da una simile illusione.

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Gli etnologi della mia generazione sono confusi dalla repulsione che a Frazer ispiravano certe ricerche alle quali egli aveva dedicato la sua vita: “cronaca tragica – scriveva – degli errori dell’uomo: follie, vani sforzi, tempo perduto, speranze frustrate”. E siamo quasi altrettanto sorpresi di apprendere, dai Carnets, come un Lévy-Bruhl considerasse i miti, che, secondo lui, “non hanno più su noi nessuna azione (...) racconti (...) strani, per non dire assurdi e incomprensibili (...) dobbiamo fare uno sforzo per interessarcene (...)”. Certo, abbiamo acquistato una conoscenza diretta delle forme di vita e di pensiero esotiche, che ai nostri predecessori mancava; ma ciò non dipende anche dal fatto che il surrealismo – cioè un momento evolutivo interno alla nostra società – ci ha trasformato la sensibilità, in quanto ha avuto il merito di scoprire, o di riscoprire, in seno ai nostri studi, un lirismo e una probità? Resistiamo dunque alle seduzioni di un oggettivismo ingenuo, ma senza disconoscere che, per la sua stessa precarietà, la nostra posizione di osservatori ci procura insperate garanzie di oggettività. Proprio nella misura in cui le società cosiddette primitive sono molto lontane dalla nostra, noi possiamo cogliere in esse quei “fatti di funzionamento generale”, di cui parlava Mauss, che hanno possibilità di essere “più universali” e di avere “più realtà”. In tali società – e cito sempre Mauss – “si colgono uomini, gruppi e comportamenti (...), li si vedono muovere come in meccanica, si vedono masse e sistemi”. Questa osservazione privilegiata, perché distante, implica certo talune differenze di natura fra quelle società e le nostre: l’astronomia esige non solo che i corpi celesti siano lontani, ma anche che il tempo non scorra colà allo stesso ritmo, altrimenti la Terra avrebbe cessato di esistere molto tempo prima che l’astronomia nascesse. *** Certo, le società cosiddette primitive sono nella storia; il loro passato è antico quanto il nostro, poiché risale alle origini della specie. Nel corso dei millenni, esse hanno subito ogni sorta di trasformazioni, e attraversato periodi di crisi e di prosperità; hanno conosciuto guerre, migrazioni, alterne vicende. Ma si sono specializzate in vie diverse da quelle che noi abbiamo scelto. Forse sono rimaste, per certi aspetti, vicine a condizioni di vita antichissime; il che non esclude che, su altri piani, se ne allontanino più di noi. Pur essendo nella storia, queste società sembrano aver elaborato, o mantenuto, una saggezza particolare, che le induce a resistere disperatamente a ogni modificazione della loro struttura che permetta alla storia di fare irruzione in esse. Quelle che, ancora di recente, avevano protetto meglio i loro caratteri distintivi, ci apparivano come società ispirate dalla preoccupazione dominante di perseverare nel loro essere. La maniera in cui sfruttano l’ambiente garantisce, in pari tempo, un modesto livello di vita e la protezione delle risorse naturali. A onta della loro diversità, le regole matrimoniali che esse applicano presentano, secondo i demografi, un carattere comune, che è quello di limitare al massimo e di mantenere costante l’indice di fecondità. Infine, una vita politica fondata sul consenso, e tale da non ammettere decisioni che non siano quelle prese all’unanimità, sembra concepita all’unico scopo di escludere quel motore della vita collettiva che utilizza scarti differenziali fra potere e opposizione, maggioranza e minoranza, sfruttatori e sfruttati.

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Insomma, queste società che potremmo chiamare “fredde”, perché il loro clima interno è vicino allo zero di temperatura storica, si distinguono, per il ridotto numero di componenti e per il modo meccanico di funzionare, dalle società “calde”, apparse in diversi punti del mondo in seguito alla rivoluzione neolitica, e in cui il differenziarsi fra caste e fra classi è senza tregua sollecitato e produce energia e divenire. La portata di questa distinzione è soprattutto teorica, in quanto probabilmente non esiste nessuna società concreta che, nel suo complesso e in ogni sua singola parte, corrisponda esattamente al primo o al secondo tipo. Inoltre, anche in un altro senso, la distinzione rimane relativa, se è vero, come crediamo, che l’antropologia sociale obbedisca a una duplice motivazione: retrospettiva, poiché i generi di vita primitivi stanno per scomparire, e dobbiamo affrettarci a raccoglierne le lezioni; e prospettiva, nella misura in cui, divenendo coscienti di un’evoluzione il cui ritmo precipita, ci sentiamo già i “primitivi” dei nostri pronipoti, e cerchiamo di autoconvalidarci, avvicinandoci a coloro che furono – e sono ancora, per un breve periodo – così come una parte di noi persiste a rimanere. D’altra parte, le società che chiamavo “calde” non possiedono nemmeno loro questo carattere in assoluto. Quando, l’indomani della rivoluzione neolitica, le grandi città-Stato del bacino mediterraneo e dell’Estremo Oriente hanno imposto la schiavitù, hanno costruito un tipo di società in cui gli scarti differenziali fra gli uomini – certuni dominanti, altri dominati – potevano essere utilizzati per produrre cultura, a un ritmo sino allora inconcepibile e insospettato. Rispetto a questa formula, la rivoluzione macchinista del XIX secolo rappresenta, non tanto un’evoluzione orientata nel medesimo senso quanto un impuro abbozzo di soluzione differente: ancora per un pezzo, fondata sugli stessi abusi e sulle stesse ingiustizie, pur rendendo possibile il trapasso, alla cultura, di quella funzione dinamica che la rivoluzione protostorica aveva assegnato alla società. Se, Dio non voglia, fosse richiesto all’antropologo che presagisca il futuro dell’umanità, certo egli non lo concepirebbe come un prolungamento o un superamento delle forme attuali, ma, piuttosto, sul modello di una integrazione che unifichi progressivamente i caratteri tipici delle società fredde e delle società calde. La sua riflessione si ricollegherebbe al vecchio sogno cartesiano di mettere le macchine, come automi, al servizio degli uomini; seguirebbe la sua traccia nella filosofia sociale del XVIII secolo, e sino a Saint-Simon; questi infatti, annunciando il passaggio “dal governo degli uomini all’amministrazione delle cose”, anticipava sia la distinzione antropologica fra cultura e società, sia quella conversione di cui i progressi della teoria dell’informazione e dell’elettronica ci fanno, almeno, intravedere la possibilità: da un tipo di civiltà, cioè, che inaugurò un tempo il divenire storico, ma al prezzo di una trasformazione degli uomini in macchine, a una civiltà ideale, che riuscirebbe a trasformare le macchine in uomini. Allora, essendosi la cultura integralmente assunta il compito di fabbricare il progresso, la società sarebbe liberata da una maledizione millenaria, che la costringe ad asservire gli uomini perché progresso ci sia. Allora, inoltre, la storia si farebbe da sola, e potrebbe, ancora una volta, assumere quella struttura regolare e quasi cristallina, di cui le società primitive meglio conservate ci insegnano che non è contraddittoria con l’umanità. In tale prospettiva, per quanto utopistica, l’antropologia sociale troverebbe la sua più alta

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giustificazione, poiché le forme di vita e di pensiero da essa studiate non avrebbero più soltanto un interesse storico e comparativo: corrisponderebbero anche a una possibilità permanente dell’uomo, sul quale l’antropologia sociale, soprattutto nelle ore più buie, avrebbe la missione di vegliare. Questa vigile sorveglianza non potrebbe essere attuata dalla nostra scienza – e non se ne sarebbe nemmeno capita l’importanza e la necessità – se in recondite regioni della Terra, alcuni uomini non avessero ostinatamente resistito alla storia e non fossero rimasti come una prova vivente di quel che vogliamo salvare. *** Per concludere questa lezione, vorrei, in realtà, signor amministratore, cari colleghi, evocare in poche parole la particolarissima emozione che l’antropologo prova quando entra in una casa la cui tradizione, ininterrotta per quattro secoli, risale al regno di Francesco I. Soprattutto se è un antropologo americanista, dati i vincoli che lo legano a quell’epoca, che fu l’epoca in cui l’Europa ricevette la rivelazione del Nuovo Mondo, e si aprì alla conoscenza etnografica. Avrebbe voluto viverla; che dico, la vive ogni giorno col pensiero. E poiché, singolarmente, gli indiani del Brasile, fra i quali ho fatto il mio tirocinio, potrebbero aver adottato come motto “rimarrò costante”, il loro studio finisce per assumere due qualità: quella di un viaggio in terra lontana, e quella – ancor più misteriosa – di una esplorazione del passato. Ma, anche per questa ragione – e ricordandoci che la missione del Collège de France fu sempre di insegnare la scienza in cantiere – ci sfiora la tentazione di un rimpianto. Perché mai questa cattedra è stata creata così tardi? Come è possibile che l’etnografia non abbia ricevuto il posto che le spettava quando era ancora giovane, e i fatti conservavano la loro novità e la loro ricchezza? Ci piace infatti immaginare che questa cattedra sia stata istituita nel 1559, quando Jean de Léry, ritornando dal Brasile, redigeva la sua prima opera, e venivano pubblicate Les singularités de la France antarctique di André Thevet. Certo, l’antropologia sociale sarebbe più rispettabile e più provveduta, se il riconoscimento ufficiale le fosse giunto nel momento in cui cominciava ad abbozzare i suoi progetti. D’altra parte, supponendo che tutto si fosse svolto così, essa non sarebbe quello che è oggi: una ricerca fervida e inquieta, che stimola l’indagatore con interrogativi morali oltre che scientifici. È consono, forse, alla natura della nostra scienza, il fatto che sia sorta simultaneamente come uno sforzo per colmare un ritardo, e come una meditazione su uno scarto, al quale certe sue caratteristiche fondamentali devono essere attribuite. Se la società è nell’antropologia, l’antropologia è a sua volta nella società: l’antropologia infatti ha potuto allargare progressivamente il suo oggetto di studio, sino a includervi la totalità delle società umane; però è sorta in un periodo tardivo della loro storia, e in un piccolo settore della Terra abitata. Anzi, le circostanze della sua comparsa hanno un senso, che diventa comprensibile solo quando le ricollochiamo nel quadro di uno sviluppo sociale ed economico particolare: indoviniamo allora che esse si accompagnano a una presa di coscienza – quasi un rimorso – del fatto che l’umanità sia potuta, così a lungo, rimanere alienata a se stessa; e, soprattutto, del fatto che quella frazione dell’umanità, che ha prodotto l’antropologia, sia poi la stessa che

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rese tanti altri uomini oggetto di esecrazione e di disprezzo. Sequela del colonialismo, vengono talvolta definite le nostre inchieste. Le due cose sono certamente collegate, ma nulla sarebbe più falso che ritenere l’antropologia come l’ultima incarnazione della mentalità coloniale; una ideologia vergognosa che gli offrirebbe una possibilità di sopravvivenza. Quel che chiamiamo Rinascimento fu, per il colonialismo e per l’antropologia, una nascita vera e propria. Fra l’uno e l’altra, faccia a faccia sin dalla loro comune origine, un dialogo equivoco è proseguito per quattro secoli. Se il colonialismo non fosse esistito, il rigoglio dell’antropologia sarebbe stato meno tardivo; forse, però, l’antropologia non sarebbe, stata nemmeno incitata a quello che è divenuto il suo ruolo, a rimettere in causa cioè l’uomo intero, in ognuno dei suoi esempi particolari. La nostra scienza è giunta alla maturità il giorno in cui l’uomo occidentale ha cominciato a rendersi conto che non avrebbe mai capito se stesso, finché sulla faccia della Terra, una sola razza, o un solo popolo, fosse stato da lui trattato come oggetto. Solo allora l’antropologia ha potuto affermarsi per quello che è: una impresa, che rinnova ed espia il Rinascimento, per estendere l’umanesimo a guisa dell’umanità. Permetterete dunque, miei cari colleghi, che dopo aver reso omaggio ai maestri dell’antropologia sociale all’inizio di questa lezione, le mie ultime parole siano per quei selvaggi, la cui oscura tenacia ci offre ancora modo di assegnare ai fatti umani le loro vere dimensioni: uomini e donne che, nell’istante in cui parlo, a migliaia di chilometri da qui, in una savana rosa dai fuochi di sterpi o in una foresta grondante di pioggia, fanno ritorno all’accampamento per dividere un magro nutrimento, ed evocare insieme i loro dei; quegli indiani dei tropici, e i loro simili sparsi per il mondo, che mi hanno insegnato il loro povero sapere in cui consiste, tuttavia, l’essenziale delle conoscenze che voi mi avete incaricato di trasmettere ad altri; ben presto, ahimè, destinati tutti all’estinzione, sotto il trauma delle malattie e dei modi di vita – per essi ancora più orribili – che abbiamo portato loro; e verso i quali ho contratto un debito di cui non mi sentirei liberato nemmeno se, al posto in cui mi avete messo, potessi giustificare la tenerezza che mi ispirano, e la riconoscenza che ho per loro, continuando a mostrarmi quale fui fra loro, e quale, fra voi, vorrei non cessare di essere: loro allievo e loro testimone.

* Lezione inaugurale della cattedra di Antropologia sociale tenuta al Collège de France il 5 gennaio 1960. Stampata per la prima volta nell’Annuario interno del Collège de France nella collana di lezioni inaugurali, col. n. 31 (Lévi-Strauss 1960a). La presente traduzione è tratta da Lévi-Strauss 1967b. 1 Una commemorazione ha avuto luogo, alla Sorbona, il 30 gennaio 1960. 2 Cfr. la nostra relazione per il 1960-61, Annuaire du Collège de France 1961-1962, pp. 200-203.

La deduzione della gru* Claude Lévi-Strauss

Il pensiero mitico si fonda sull’applicazione regolare di certe procedure logiche, che è compito primario dell’analisi scoprire e denominare. Due di tali procedure, che possiamo chiamare deduzione empirica e deduzione trascendentale, ricorrono con particolare frequenza e l’analisi qui contenuta ha lo scopo di illustrarne il funzionamento. Si ha deduzione empirica, quando un mito attribuisce una funzione, un valore o un significato simbolico a un essere naturale sulla base di un giudizio empirico che associ in modo duraturo l’essere con l’attribuzione. Da un punto di vista formale l’esattezza del giudizio empirico è irrilevante. Così entrambe le seguenti associazioni derivano ugualmente da deduzioni empiriche, anche se la prima riflessione si fonda su un’osservazione corretta, mentre la seconda è puramente immaginaria: 1) Un’associazione basata sull’osservazione corretta risulta dal legame che di frequente i miti instaurano tra il mondo medio e uccelli, quali il picchio, che trascorrono molto del loro tempo sul tronco degli alberi, cioè tra l’alto e il basso. 2) Un’associazione immaginaria, invece, risulta dall’attribuzione di poteri curativi contro il morso del serpente e la carie del dente a certi semi che hanno la forma di zanne. Per estensione, possiamo anche usare il termine “deduzione empirica” ogni volta che il mito attribuisce a una creatura naturale proprietà inverse a quelle suggerite da una esatta o inesatta osservazione, purché la situazione totale del mito sia anch’essa l’inverso di quella in cui l’osservazione potrebbe essere fatta. Per esempio, gli indiani dell’America tropicale credono che gli uomini e i giaguari si nutrano della stessa selvaggina e che la differenza tra le due specie consista nel fatto che gli uni cuociono la loro carne mentre gli altri la mangiano cruda. Ora, se un mito si riferisce al tempo in cui gli uomini non avevano ancora il fuoco e quindi mangiavano carne cruda, si può legittimamente concludere, estendendo la deduzione empirica, che in quel tempo fossero i giaguari ad avere il fuoco e a cucinare la selvaggina, poiché la deduzione empirica diretta attesta l’esistenza di un tratto distintivo nelle abitudini alimentari degli uomini e dei felini della giungla. Cos’è invece la deduzione trascendentale? Non necessariamente essa riposa su una base empirica vera o falsa, diretta o indiretta e, più che dall’attribuzione di certe proprietà a un dato essere, deriva dalla consapevolezza di una necessità logica, quella di attribuire certe proprietà a un dato essere perché la deduzione empirica ha in precedenza connesso questo essere con altri sulla base di un insieme di proprietà correlative. Ecco un esempio. Secondo la deduzione empirica, la rana gioca il ruolo di creatrice o di annunciatrice della pioggia. Gli indiani dell’America tropicale attribuisco-

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no questo ruolo principalmente alla rana arboricola: la cunauaru dei tupi e carib (Ila venulosa) che, dicono, emette il suo grido quando sta per piovere. Questa rana ha alcune abitudini particolari. Vive nella cavità degli alberi dove l’acqua permane per lunghi periodi e in questa acqua colloca, parzialmente sommerse, le celle coniche che modella con la resina e in cui depone le uova. Questo fatto e la continua applicazione della deduzione empirica diretta portano il pensiero mitico sudamericano a concepire una relazione di correlazione e di opposizione tra la rana cunauaru e le specie di api della famiglia Meliponidae che fanno il nido in un tronco cavo asciutto e modellano le celle per l’allevamento delle larve con cera mescolata a resina (e talvolta a fango), depositando il miele nelle loro casealbero. Certamente, le rane arboricole e le api si rassomigliano e si oppongono: nidificano in tronchi vuoti e costruiscono celle di resina o di una sostanza equivalente; ciò nonostante, le rane vivono con l’acqua (anche nel cuore della stagione secca) ma non hanno miele, mentre le api vivono con il miele accumulato (che non esiste in nessun altro posto) ma senza acqua. Le api sono anche più esplicitamente opposte all’acqua, poiché il pensiero indigeno associa il miele alla stagione secca, periodo in cui viene raccolto. Finora abbiamo usato solo la deduzione empirica; ma per spiegare le successive associazioni di correlazione e di opposizione avremo bisogno di una nuova procedura. Per i tupi settentrionali – tembe e tenetehara – i giaguari sono i primi possessori del miele e coloro che per primi l’hanno trasmesso agli uomini (Nimuendaju 1915, p. 294; Wagley, Galvão 1949, pp. 143-144). Gli indiani dell’Amazzonia credono che la rana sia la madre dei giaguari (Roth 1915, pp. 133-135) o anche che possa trasformarsi in questo animale (Tastevin 1922: articolo “cunawaru”). Restringendo l’investigazione all’etnozoologia si potrebbe ritenere che queste credenze siano inesplicabili. La loro comprensione richiede che siano inserite in un complesso sistema di relazioni dove ogni singola asserzione esiste solo come un aspetto dell’intero. Secondo la deduzione empirica diretta, la rana è la signora (attuale) dell’acqua e, secondo la deduzione empirica indiretta (invertita), il giaguaro è generalmente il signore del fuoco. Se la rana è opposta all’ape, che ha il miele invece di acqua (mentre la rana stessa ha acqua invece di miele), possiamo introdurre la deduzione trascendentale per concludere che il giaguaro (opposto alla rana dalla deduzione empirica) deve essere come l’ape e quindi possedere in qualche modo il miele. Da questa deduzione deriva la sua posizione di signore del miele nei miti dei tupi settentrionali. Ne deriva anche che il giaguaro e la rana devono formare (come fanno la rana e l’ape) una coppia di termini in opposizione e correlazione. Perciò essi sono trasformabili l’uno nell’altro; e l’identità mitica di Kunawaru-imö = “grande Cunauaru” data al giaguaro sovrannaturale dagli indiani oayana (Goeje 1943, p. 48) sembra essere la prova incarnata di questa inferenza logica. Proponiamo di applicare le idee e i principi metodologici ora definiti all’analisi comparativa di tre miti della Guyana. Per ragioni di chiarezza e di convenienza, i miti sono indicati qui con gli stessi numeri che hanno nei nostri principali lavori (Lévi-Strauss 1964a; 1967a), in particolare nel secondo volume, dove sono più compiutamente discussi. Ecco i miti.

LA DEDUZIONE DELLA GRU

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M259 - Warrau: la fidanzata di legno Nahakoboni, il cui nome significa “colui che mangia molto”, non aveva figlie e divenuto vecchio, cominciò a preoccuparsi. Senza figlie, niente genero: chi dunque si sarebbe preso cura di lui? Decise così di scolpire una ragazza nel tronco di un susino; dato che era molto abile, la giovane risultò di una bellezza meravigliosa e tutti gli animali vennero a corteggiarla. Il vegliardo li respinse uno dopo l’altro; ma quando si presentò Yar, il Sole, Nahakoboni pensò che un tale genero meritasse di essere messo alla prova. Gli impose diversi compiti, di cui trascureremo i particolari. Il Sole se la cavò onorevolmente e ottenne in matrimonio la bella Usi-diu (letteralmente, in inglese, “seed-tree”). Ma quando cercò di consumare il matrimonio scoprì che ciò era impossibile perché il creatore di sua moglie aveva dimenticato un particolare essenziale che ora si confessava incapace di aggiungere. Yar consultò l’uccello /bunia/ (Ostinops sp.) che gli promise di aiutarlo. L’uccello si lasciò prendere e vezzeggiare dalla fanciulla e, approfittando di un’occasione favorevole, praticò l’apertura mancante da cui fu poi necessario estrarre un serpente celato all’interno. Ormai nulla ostacolava la felicità della giovane coppia. Il suocero però era molto irritato dal fatto che il genero fosse rimasto scontento del suo lavoro e che avesse chiamato l’uccello /bunia/ per ritoccarlo. Così attese pazientemente il momento propizio per vendicarsi. Quando venne il periodo delle piantagioni, distrusse più volte, magicamente, il lavoro del genero che tuttavia riuscì a coltivare il proprio campo con l’aiuto di uno spirito. Avendo anche ultimato la costruzione di una capanna per il suocero, nonostante la malevolenza del vecchio, fu infine in grado di dedicarsi alla propria casa; lui e sua moglie vissero felici per molto tempo. Un giorno Yar decise di fare un viaggio verso ovest. Poiché Usi-diu era incinta, le consigliò di fare delle tappe brevi: avrebbe dovuto solo seguire le sue tracce avendo cura di andare sempre a destra; del resto egli avrebbe sparso delle piume sui sentieri che giravano a sinistra per evitare ogni possibile confusione. All’inizio andò tutto bene, ma la donna rimase perplessa quando arrivò in un luogo dove il vento aveva spazzato via le piume. Allora il bambino che portava in grembo cominciò a parlare e le indicò la strada. Le chiese anche di raccogliere dei fiori. Nell’inchinarsi la donna fu punta da una vespa sotto la cinta. Nel tentativo di ucciderla, colpì se stessa. Il bambino racchiuso nel grembo credette che il colpo fosse destinato a lui e si rifiutò di guidare ancora la madre, che si smarrì del tutto. Finì con l’arrivare a una grande capanna il cui solo abitante era Nanyobo (nome di una grossa rana) che le apparve nelle sembianze di una donna molto vecchia e molto forte. Dopo averla ristorata, la rana pregò la viandante di spidocchiarla, raccomandandole di fare attenzione a non schiacciare i parassiti fra i denti, poiché erano velenosi. Spossata dalla fatica, la giovane dimenticò la raccomandazione e procedette nel modo abituale. Cadde subito morta. La rana aprì il cadavere e ne estrasse non uno, ma due superbi bambini, Makunaima e Pia, che allevò teneramente. I due bambini crebbero, cominciarono a cacciare gli uccelli, poi i pesci (con arco e frecce) e la grossa selvaggina. “Soprattutto non dimenticate – diceva loro la rana – di essiccare il vostro pesce al sole e non al fuoco”. Tuttavia essa li mandava a raccogliere legna e quando loro tornavano il pesce era sempre cotto a puntino. In verità la rana vomitava fiamme per cucinare e le ringoiava prima del ritorno dei due giovani, di modo che non vedessero il fuoco. Spinto dalla curiosità, uno di loro si trasformò in lucertola e spiò la vecchia. La vide vomitare il fuoco ed estrarre dal suo collo una sostanza bianca che assomigliava all’amido del Mimusops balata. Disgustati da queste pratiche, i fratelli decisero di uccidere la madre adottiva. Dopo aver diboscato un campo, la legarono a un albero che avevano lasciato nel mezzo; accatastarono tutto intorno della legna e le diedero fuoco. Mentre la vecchia bruciava, il fuoco che era nel suo corpo passò nelle fascine, le quali erano di legno /hima-heru/ (Gualtheria uregon? Cfr. Roth 1924, p. 70) da cui oggi si ottiene il fuoco per frizione (1915, pp. 130-133).

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Wilbert riporta una versione abbreviata di questo mito (M260), ridotta all’episodio della donna scolpita, figlia di Nahakoboni. In questa versione vari uccelli tentano successivamente di rompere l’imene. Alcuni falliscono, perché il legno è troppo duro; a causa del tentativo, resta loro un becco curvo o spezzato. Un altro riesce nell’intento e il sangue della giovane donna riempie una pentola; diverse specie di uccelli vengono a cospargersi con il sangue che è prima rosso, poi bianco, poi nero: così essi acquistano il piumaggio che li caratterizza. L’“uccello brutto” arriva per ultimo ed ecco perché le sue penne sono nere (Wilbert 1964, pp. 130-131). Facciamo notare che Roth chiama il bunia “uccello puzzolente”. M264 - Carib: la Rana, madre del giaguaro C’era una volta una donna incinta dei gemelli Pia e Makunaima. Ancor prima di essere nati, essi vollero visitare il padre, il Sole, e pregarono la madre di prendere la strada che conduceva a ovest. Si incaricarono di guidarla, ma in cambio la madre doveva cogliere per loro dei bei fiori. La donna coglieva qua e là ma si impigliò con il piede in un ostacolo, cadde e si ferì. Sgridò i bambini che, irritati, si rifiutarono di indicarle la strada; così si smarrì e arrivò esausta alla capanna di Kono(bo)-aru, la rana che annuncia la pioggia, il cui figlio, il giaguaro, era di una crudeltà famosa. La rana ebbe pietà della donna e la nascose in una giara da birra. Ma il giaguaro fiutò la carne umana, scoprì la donna e la uccise; nello squartare il cadavere, trovò i gemelli e li affidò alla madre. Avvolti dapprima in un po’ di cotone, i bambini crebbero rapidamente e raggiunsero l’età adulta in un mese. La rana diede loro archi e frecce e li mandò a uccidere l’uccello /powis/ (Crax sp.), che – spiegò – era colpevole dell’uccisione della loro madre. I ragazzi fecero allora un massacro di /powis/; per aver salva la vita l’ultimo uccello rivelò loro la verità. Furiosi, i fratelli si fabbricarono delle armi più efficaci con le quali uccisero il giaguaro e sua madre, la rana. Si misero poi in cammino e giunsero a un boschetto di “cotton-trees” in mezzo al quale si trovava una capanna dove viveva una vecchia che in realtà era una rana. I due giovani si stabilirono da lei. Andavano ogni giorno a caccia e, quando tornavano, trovavano della manioca cotta. Eppure nella zona non c’era nessuna piantagione. I fratelli spiarono allora la vecchia e scoprirono che estraeva l’amido da una placca bianca collocata dietro le spalle. Rifiutando ogni cibo, i giovani invitarono la rana a stendersi su un letto di cotone cui diedero fuoco. La rana rimase gravemente bruciata ed ecco perché la sua pelle si presenta oggi raggrinzita e rugosa. Pia e Makunaima si rimisero in cammino alla ricerca del padre. Passarono tre giorni con una femmina di tapiro che vedevano assentarsi per ritornare grassa e grossa. Così la seguirono fino a un susino e qui scossero energicamente la pianta facendo cadere tutti i frutti, maturi o verdi che fossero. Furiosa per lo spreco di cibo, la bestia li picchiò e se ne andò. I fratelli la seguirono per un giorno intero. Infine la raggiunsero e stabilirono una tattica. Makunaima avrebbe tagliato la strada all’animale, lanciandogli un arpione quando questi fosse tornato indietro. Ma Makunaima rimase impigliato nella corda, che gli tagliò una gamba. Quando la notte è chiara, li si può vedere: il tapiro forma le Iadi, Makunaima le Pleiadi e, più sotto, il Cinto di Orione raffigura la gamba tagliata (Roth 1915, pp. 133-135). M266 - Macushi: la fidanzata di legno Furioso per il fatto che si pescasse di frodo nei suoi stagni, il Sole affidò la loro sorveglianza alla lucertola d’acqua, poi al coccodrillo. Era lui il ladro e continuò a rubare allegramente; alla fine il Sole lo colse sul fatto e gli tagliò il dorso con il coltello, dando ori-

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gine alle caratteristiche scaglie. Per aver salva la vita, il coccodrillo promise la figlia al Sole. Solo che non ne aveva e dovette scolpirne una nel tronco di un susino selvatico. Lasciando al Sole il compito di animarla se gli fosse piaciuta, il rettile andò a nascondersi nell’acqua aspettando gli eventi. Fa così ancora oggi. La donna era incompleta, ma un picchio in cerca di cibo le scavò la vagina. Abbandonata dal marito, il Sole, ella partì alla sua ricerca. La storia continua come in M264 tranne che, dopo la morte del giaguaro, Pia trova nelle viscere di quest’ultimo i resti di sua madre e la risuscita. La donna e i suoi due figli si rifugiano presso una rana che estrae il fuoco dal proprio corpo e che rimprovera Makunaima quando lo vede divorare la brace che gli piace molto. Makunaima decide allora di partire. Scava un canale che si riempie d’acqua, inventa la prima piroga e vi s’imbarca con la famiglia. I due fratelli imparano dalla gru l’arte di accendere il fuoco per percussione e compiono altri prodigi. In particolare furono loro a provocare la comparsa delle cascate, ammucchiando le rocce nei fiumi per catturare il pesce. Divennero così pescatori anche più abili della gru, e questo suscitò numerose liti fra Pia da una parte e la gru e Makunaima dall’altra. Infine si separarono e la gru condusse Makunaima nella Guyana inglese. Pia e la madre vissero dunque soli, viaggiando, cogliendo frutti selvatici e pescando, fino al giorno in cui la madre, stanca, si ritirò in cima al Roraima. Allora Pia rinunciò alla caccia e incominciò a insegnare agli indios le arti civili. È a lui che si devono gli stregoni-guaritori. Infine Pia raggiunse la madre sul Roraima dove restò per un certo periodo. Prima di lasciarla le disse che tutti i suoi desideri sarebbero stati esauditi purché, nel formularli, essa avesse chinato la testa e si fosse coperta il viso con le mani. È quello che fa ancora oggi. Quando è triste e piange sulla montagna si alza la tempesta e le sue lacrime scorrono a torrenti lungo i pendii (p. 135).

Compariamo ora i tre miti sopra riassunti da un punto di vista puramente formale. Nel mito warrau i diversi stadi dell’eroina si succedono con ammirevole regolarità: completata dall’uccello bunia (che la perfora: cfr. Lévi-Strauss 1964a, p. 371, nota 33), essa è impregnata dal Sole (che la riempie). In seguito inghiotte imprudentemente i parassiti (che a loro volta la riempiono) e la rana svuota il suo cadavere dei gemelli che l’occupavano. Il secondo e il terzo episodio connotano dunque “riempimento”, o dal basso, o dall’alto: l’uno passivo, l’altro attivo; e quanto alle conseguenze, questo negativo (poiché comporta la morte dell’eroina), quello positivo (permettendole di dare la vita). È possibile considerare il primo e il quarto episodio come opposti ai due precedenti nel senso che connotano lo svuotamento in contrasto con il riempimento? Una tale affermazione vale certo per il quarto episodio dove il corpo dell’eroina è effettivamente svuotato dai bambini che conteneva; ma il primo episodio, che riguarda l’apertura della vagina assente, non sembra assimilabile al quarto stricto sensu. Tutto avviene come se il pensiero mitico avesse percepito questa difficoltà e si fosse subito impegnato a risolverla. La versione warrau introduce, infatti, un incidente che, a prima vista, potrebbe sembrare superfluo. Affinché l’eroina divenga una donna vera e propria, non è sufficiente che l’uccello bunia la apra: bisogna anche che il padre si rimetta al lavoro (benché poco prima avesse proclamato la propria incompetenza) ed estragga dalla vagina da poco “scavata” il serpente che costituiva un ostacolo supplementare alla penetrazione. L’eroina non era dunque soltanto otturata, ma anche piena; e l’incidente del serpente non ha altra funzione se non quella di

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trasformare l’azione di perforare in quella di svuotare. Dopo queste considerazioni, la costruzione del mito può essere riassunta nel seguente schema: 1. eroina bucata da un uccello, con conseguente evacuazione del serpente 2. eroina fecondata dal sole 3. eroina che ingerisce parassiti mortali 4. eroina sventrata dalla rana

} {

} }{ }{ {

passivo

passivo attivo passivo

} { } }{ }{ {

basso anteriore basso anteriore alto anteriore basso anteriore

} { } }{ }{ {

eroina svuotata

(+)

eroina riempita

(+)

eroina riempita

(–)

eroina svuotata

(–)

Se si tiene conto che il secondo e il quarto episodio formano una coppia (poiché la rana svuota il corpo dell’eroina degli stessi bambini di cui l’aveva riempita il Sole), ne consegue che il primo e il terzo episodio devono formare anch’essi una coppia, e cioè: serpente evacuato passivamente dal basso, con risultato positivo / parassiti ingeriti dall’alto attivamente, con risultato negativo. In questa prospettiva il mito consiste in due sequenze sovrapponibili, ciascuna formata da due episodi opposti tra loro (eroina svuotata/riempita; eroina riempita/svuotata); e ognuno di questi episodi si oppone al corrispondente episodio dell’altra sequenza. Perché questo raddoppiamento? Possiamo agevolmente affermare che i primi due episodi raccontano in senso figurato quello che gli ultimi due esprimono letteralmente: l’eroina è anzitutto resa “mangiabile” (idonea alle relazioni sessuali) per essere “mangiata”. Dopo di che essa è resa mangiabile (uccisa) per essere nelle altre versioni effettivamente mangiata. Ma un’attenta lettura del mito suggerisce che il raddoppiamento delle sequenze potrebbe avere un’altra funzione. Sembra, infatti, che la prima parte del mito – in cui, non dimentichiamolo, il Sole è l’eroe – si svolga secondo un ciclo stagionale di cui le prove imposte al Sole segnano le tappe: caccia, pesca, debbiatura, piantagione, costruzione di una capanna. Parallelamente, la seconda parte comincia con il viaggio del Sole verso ovest ed evoca un ciclo giornaliero. Formulata così, l’ipotesi può sembrare debole ma il confronto con le altre versioni permetterà di confermarla1. Sempre a proposito di M259, si noterà che sul piano eziologico il mito ha solo e soltanto una funzione: spiegare l’origine della tecnica di produzione del fuoco per frizione. Consideriamo ora il modo con cui i carib (M264) raccontano la stessa storia, che essi affrontano incominciando direttamente dalla seconda parte. La sequenza giornaliera (viaggio in direzione del Sole) passa dunque all’inizio; ma non è tutto: in correlazione alla soppressione della prima parte, ne troviamo, aggiunta alla fine, una nuova, dedicata alle avventure dei due fratelli con una nuova rana e con la femmina di tapiro. Ci sono sempre due sezioni e sembra proprio che quella posta qui per ultima restituisca il ciclo stagionale: caccia, debbiatura, raccolta di frutti selvatici che cominciano a matu-

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rare in gennaio. Dunque l’ordine delle due sequenze, quella stagionale e quella giornaliera, si inverte passando dalla versione warrau alla versione carib. Questa inversione dell’ordine delle sequenze è accompagnata da un radicale cambiamento nel sistema delle opposizioni di cui ci siamo serviti per definire nei loro rapporti reciproci i quattro stadi attraversati dell’eroina. Il secondo stadio occupa ora il primo posto, poiché il racconto comincia quando l’eroina rimane incinta per opera del Sole, mentre il quarto (corpo dell’eroina svuotato dai bambini che conteneva) resta immutato. Ma fra questi due estremi appaiono due nuovi episodi, e cioè un n. 2: l’eroina si nasconde in una giara (che essa riempie); e un n. 3: è tirata fuori da questo recipiente. La versione warrau tratta l’eroina come un contenente alternativamente svuotato (episodi 1 e 4) e riempito (episodi 2 e 3), mentre la versione carib la definisce attraverso l’opposizione contenente/contenuto, rispetto alla quale l’eroina esplica un ruolo attivo o passivo, essendo essa stessa ora un contenente, ora un contenuto. L’assunzione di questi ruoli è all’inizio positivo, poi negativo.

1. eroina impregnata dal Sole 2. eroina che riempie una giara 3. eroina cavata dalla giara 4. eroina sventrata dal giaguaro

} {} }{ }{ {

contenente

(+)

contenuto

(+)

contenuto

(–)

contenente

(–)

Adesso sono il primo e il quarto episodio da una parte e il secondo e il terzo dall’altra a far coppia. In seno a ognuna delle due sequenze, gli episodi si riproducono, a parte l’inversione del contenente e del contenuto, mentre da una sequenza all’altra gli episodi che concordano formano un chiasma. *** Le due trasformazioni che abbiamo individuato a livelli diversi, uno formale e l’altro semantico, corrispondono a una terza trasformazione sul livello eziologico. La versione carib spiega solo l’origine delle costellazioni, Iadi, Pleiadi e Orione, che in questa regione del mondo annunciano il cambiamento di stagione. Alle numerose indicazioni già fornite in questo senso (Lévi-Strauss 1964a, pp. 289-291) aggiungeremo la testimonianza di Ahlbrinck (1931, voce “Sirito”), che si riferisce a popolazioni guyanesi di lingua e cultura carib: “Quando Sirito, la Pleiade, è visibile di sera (nel mese di aprile), si odono dei colpi di tuono. Sirito è infatti in collera perché gli uomini hanno tagliato una gamba a Ipetiman (Orione). E Ipetiman si avvicina. Ipetiman appare nel mese di maggio”. Ammettiamo quindi che M264 si riferisca implicitamente all’inizio della “grande” stagione delle piogge (nella Guyana ci sono quattro stagioni, due piovose e due

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asciutte), la quale si estende dalla metà di maggio alla metà di agosto. Questa ipotesi offre due vantaggi. In primo luogo, collega la versione carib (M264) e la versione macushi (M266), la quale si riferisce esplicitamente all’origine delle piogge e delle tempeste, provocate dalla tristezza intermittente dell’eroina, le cui lacrime scorrono a torrenti dalla vetta del Roraima. In secondo luogo, possiamo verificare oggettivamente, attraverso i suoi riferimenti astronomici e meteorologici, l’ipotesi che i miti ora analizzati ritracciano, rovesciandolo, un itinerario che i miti gé e bororo, studiati in Il crudo e il cotto, ci avevano già indicato. Il tentativo di integrare i miti gé e bororo concernenti le stagioni avevano condotto all’equazione: Pleiadi-Orione : Corvo = stagione asciutta : stagione delle piogge

Ora, sappiamo che nei miti della Guyana l’insieme Pleiadi-Orione annuncia la stagione delle piogge. Che ne è allora della costellazione del Corvo? Quando essa raggiunge lo zenit nel mese di luglio, la si associa a una divinità responsabile dei violenti temporali che caratterizzano la fine della stagione piovosa (Lévi-Strauss 1964a, p. 305; sulla mitologia dei temporali da luglio a ottobre nel mare dei Caraibi e la sua associazione con l’Orsa Maggiore – la cui ascensione retta è vicina a quella del Corvo – cfr. Lehmann-Nitsche 1924-25, pp. 125-128); d’altro lato, sempre nella Guyana, la levata della Chioma di Berenice (stessa ascensione retta dell’Orsa Maggiore e del Corvo) connota la siccità. Otteniamo dunque l’equazione inversa rispetto a quella precedente. Pleiadi-Orione : Corvo = stagione delle piogge : stagione asciutta2

Arriviamo così alla versione macushi (M266) che, come abbiamo visto, si riferisce in modo esplicito all’origine della stagione delle piogge. Ma non è tutto, giacché a differenza degli altri due miti finora discussi, M266 possiede una doppia funzione eziologica. Come mito d’origine della stagione delle piogge, coincide infatti con M264; come mito sull’origine di una tecnica di produzione del fuoco (che la gru insegna agli eroi), coincide con M259. Questa duplice similarità è però imperfetta. L’allusione alle piogge che troviamo in M266 è diurna (si vedono scorrere le lacrime che formano dei torrenti), mentre quella fatta da M264 è notturna (visibilità di certe costellazioni). E se M259 evoca la produzione del fuoco per frizione (vale a dire, con due pezzi di legno), M266 si riferisce invece alla produzione del fuoco per percussione (con due pietre), tecnica anch’essa nota agli indigeni della Guyana. Pertanto, come ci si poteva aspettare, M266 contiene degli episodi che appartengono in proprio a ognuna delle altre due versioni. Esso comincia con la storia della fidanzata di legno che manca alla versione carib e finisce con le avventure dei gemelli, dopo il loro soggiorno presso la rana, mancante nella versione warrau. Ma, facendo questo, inverte tutti i particolari: il suocero è messo alla prova al posto del genero; l’eroina è forata dal picchio invece che dal bunia; vittima del giaguaro antropofago, essa non muore ma risuscita; l’eroe divora la brace irritando così la rana. Si noterà anche che il bunia warrau agisce per lascivia, il picchio macushi cercando cibo: mangia dunque l’eroina in senso proprio. Simmetricamente, nella seconda



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parte della versione macushi, il giaguaro la mangia solo in modo figurato dato che egli muore prima di aver digerito la sua preda e che questa risuscita non appena estratta dal ventre della belva. I tre miti, M259, M264, M266, si riferiscono o all’origine del fuoco sul piano della cultura (frizione o percussione) o a quella dell’acqua sul piano della natura (stagione delle piogge) o a entrambe. Ora, prima che venisse prodotto con tecniche culturali, il fuoco esisteva già secondo vie naturali: vomitato da un animale, la rana, che a sua volta attiene all’acqua. Simmetricamente (e su questo punto è capitale l’apporto di M266), prima che fosse prodotta con un mezzo naturale, la pioggia, l’acqua esisteva già a titolo di opera culturale, poiché Makunaima, vero ingegnere dei lavori pubblici, la fa prima sgorgare in un canale scavato da lui e nel quale vara la prima piroga. Ora Makunaima, mangiatore di brace ardente, attiene al fuoco come la rana all’acqua. I due sistemi eziologici sono simmetrici. Pertanto nei nostri miti la stagione delle piogge si presenta quale progressione dalla natura alla cultura. Tuttavia, ogni volta, il fuoco (all’inizio contenuto nel corpo della rana) o l’acqua (successivamente contenuta nel corpo della madre) si spandono: il primo negli alberi, dai quali si ricaveranno i bastoni per fare il fuoco, l’altra sulla superficie della Terra, nella rete idrografica naturale (opposta alla rete artificiale creata, prima, dal demiurgo). In entrambi i casi abbiamo a che fare con una dispersione. *** Come spiegare allora l’ambiguità dei nostri miti, che sembra risultare sin d’ora dalla loro doppia funzione eziologica? Per rispondere a questa domanda occorre rivolgersi al personaggio della gru, che in M266 rivela agli eroi la tecnica di produrre il fuoco per percussione. L’uccello designato da Roth con il nome inglese di crane svolge una parte importante nei miti guyanesi. È proprio questo uccello che porta (o aiuta l’uccello mosca a portare) agli uomini la pianta del tabacco che cresceva in un’isola ritenuta inaccessibile. Un altro mito carib inizia così: “C’era una volta un indio cui piaceva molto fumare: al mattino, come a mezzogiorno o alla sera, non lo si vedeva fare altro che prendere un pezzetto di cotone, battere due pietre insieme, fare il fuoco e accendersi il tabacco” (Roth 1915, p. 192). Sembra dunque che, attraverso la gru, si trovino collegati la tecnica di produzione del fuoco per percussione e il tabacco. Trasportando l’uccello mosca fino all’isola del tabacco, la gru, che lo tiene stretto tra le cosce, lo sporca di escrementi (p. 335); si tratta quindi di un uccello con una particolare tendenza a defecare. È possibile forse attribuire questa connotazione escrementizia alle usanze alimentari dei grandi trampolieri, che si nutrono dei pesci morti abbandonati dalle acque quando arriva la stagione asciutta (Ihering 1940, voce “Jabiru”). Nei miti funebri degli arawak della Guyana, un emblema che rappresentava la gru bianca veniva portato in giro solennemente in occasione dell’incenerimento delle piccole ossa dei defunti (Roth 1924, pp. 643-650). Una fase dei riti funebri degli umutina ha il nome del martin pescatore (Schultz 1961-62, p. 262). Infine, visto che almeno uno dei nostri miti (M264) ricorre alla codificazione astronomica, non si dimentichi che certi indiani del Sud, i bororo e i matako fra gli altri, chiama-

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no una parte della costellazione di Orione con il nome di un trampoliere, mentre i carib delle Antille chiamavano “mangiatore di granchi” (nome di una specie di piccolo airone) una stella dell’Orsa Maggiore, che si riteneva comandasse il tuono e gli uragani (Lehman-Nitsche 1924-25, p. 129). Se questo simbolismo fosse non casuale, fornirebbe un’illustrazione supplementare del sistema delle costellazioni sul quale abbiamo già richiamato l’attenzione. Consideriamo un altro aspetto del problema. I miti parlano di due tecniche: frizione e percussione. Secondo M259 il fuoco prodotto per frizione era in origine vomitato dalla rana e, dal canto suo, M266 riferisce che l’ispiratrice della tecnica per percussione fu la gru, uccello cui un altro mito della Guyana affibbia una forte propensione a defecare. Tra questi miti, quello che segue svolge un ruolo intermedio. M272 -Taulipang: origine del fuoco Una volta, quando gli uomini non conoscevano ancora il fuoco, viveva una vecchia di nome Pelénosamó. Essa accatastava della legna sul focolare e vi si accovacciava sopra: dal suo ano uscivano le fiamme e la legna prendeva fuoco. Il suo speciale talento le permetteva di mangiare la manioca cotta, mentre gli altri la esponevano al calore del sole. Un giorno una bambina rivelò il segreto della vecchia. Poiché non voleva dividere con nessuno il suo fuoco, le legarono le gambe e le braccia, la posero sopra della legna e le aprirono l’ano con la forza. Il fuoco che essa evacuò si trasformò nelle pietre chiamate /Wato/ (= fuoco), quelle che danno il fuoco quando vengono battute una contro l’altra (KochGrünberg 1917-28, II, p. 23; III, pp. 48-49).

Sulla base delle due proposizioni mitiche, secondo cui il fuoco ottenuto per frizione era originariamente vomitato mentre quello ottenuto per percussione era originariamente evacuato, si arriva all’equazione: frizione : percussione = bocca : ano

Ma dai nostri materiali si può ricavare di più, poiché essi si prestano a un’analisi che costituisce un test per il nostro metodo. In tutto il mondo, e particolarmente nell’America del Sud, la tecnica di produzione del fuoco per frizione possiede una connotazione sessuale: il legno passivo è chiamato femmina, quello al quale s’imprime un movimento rotatorio, o che si fa scorrere avanti e indietro, è chiamato maschio. La retorica del mito traspone il simbolismo sessuale, universalmente percepito, attribuendogli un’espressione immaginaria: l’atto sessuale (copulazione) è sostituito da un movimento dell’apparato digerente (vomito). Non è tutto; la femmina, passiva sul lato simbolico, diviene attiva sul piano immaginario; e gli organi interessati, rispettivamente la vagina e la bocca, entrambi anteriori, rispetto a un asse il cui secondo polo è occupato dagli orifizi posteriori, sono definibili sulla base di un’opposizione tra basso e alto: Piano simbolico + , passiva anteriore basso

→ → →

Piano immaginario + , attiva anteriore alto

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LA DEDUZIONE DELLA GRU

Per la tecnica di produzione del fuoco per percussione, l’etnografia non fornisce rappresentazioni simboliche, la cui evidenza intuitiva e la cui generalità siano paragonabili a quanto sopra. Ma M272, rafforzato dalla posizione che la gru occupa nei miti (vecchia che evacua, uccello che evacua, entrambi signori del fuoco prodotto per percussione), ci mette in grado di dedurre il simbolismo di questa tecnica a partire dalla sua espressione immaginaria, che è la sola data. Sarà sufficiente applicare le stesse regole di trasformazione, verificate empiricamente nel caso precedente. Questa applicazione ci dà le seguenti equazioni: Piano immaginario + , attiva posteriore basso

→ → →

Piano simbolico + , passiva posteriore alto

Qual è dunque l’organo che può definirsi come posteriore e alto in un sistema in cui “posteriore e basso” = “ano” e “anteriore e alto” = “bocca”? Non abbiamo scelta: non può che essere l’orecchio, come abbiamo del resto dimostrato a proposito di un altro problema (Lévi-Strauss 1964a, p. 182). Il risultato è che sul piano immaginario (cioè sul piano mitico), il vomito è il termine correlativo e inverso rispetto al coito e la defecazione il termine correlativo e inverso rispetto alla comunicazione acustica. Si vede subito in che modo l’esperienza verifica l’ipotesi deduttivamente ottenuta: la percussione è sonora, la frizione silenziosa e questo spiega perché la gru sia l’iniziatrice della prima. In verità sussiste qualche incertezza sull’identità dell’uccello che Roth chiama crane. Alla lettera, la parola si riferisce all’uccello del genere Grus, ma alcune indicazioni dell’autore (Roth 1915, pp. 646-647; 1924, p. 338) lasciano pensare che egli voglia parlare di una specie di airone, il Botaurus tigrinus. Ma anche se Roth avesse attribuito erroneamente il nome della gru a un airone, il suo sbaglio sarebbe solo più significativo, giacché, da un capo all’altro del continente americano, e anche altrove, i miti parlano della gru in rapporto al suo chiassoso richiamo3 e gli ardeidi, cui potrebbe riferirsi Roth, devono il loro nome scientifico (Botaurus) al loro grido simile, si dice, al muggito di un toro, o forse al ruggito di una belva... La tecnica di produzione del fuoco più fortemente marcata sotto l’aspetto del rumore è dunque opera di un uccello rumoroso. Osserviamo anche che essa è rapida, mentre l’altra è lenta. Questa doppia opposizione fra rapido-rumoroso e lento-silenzioso rinvia all’altra, più fondamentale, tra mondo “bruciato” e mondo “putrido”, che abbiamo messo in risalto in Il crudo e il cotto, dove figura in seno alla categoria del putrido riflessa in due modalità, quella dell’“ammuffito” (lento e silenzioso) e quella del “corrotto” (rapido e rumoroso): quest’ultima marcata per l’appunto dalla scampanata. Ora, nel momento in cui incontriamo di nuovo l’opposizione canonica tra l’origine dell’acqua (congruente al putrido) e quella del fuoco (congruente al bruciato), vediamo apparire, in seno alla categoria del bruciato, due modalità culturali simmetriche: frizione e percussione, le cui rispettive posizioni simboliche riflettono in termini metonimici (perché stiamo parlando di due cause reali dello stesso effetto) le posizioni occupate metaforicamente (essendo le significazioni di ordine morale) dalle modalità naturali dell’ammuffito e del corrotto all’interno della categoria del putrido. Per convincersene è sufficiente confrontare i seguenti due schemi, che corrispondono esattamente l’uno all’altro (v. Lévi-Strauss 1964a, p. 443):

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CLAUDE LÉVI-STRAUSS

PUTRIDO

ammuffito

BRUCIATO

corrotto

(lento)

(rapido)

PUTRIDO

BRUCIATO

frizione (lento)

percussione (rapido)

Il passaggio dalla metafora alla metonimia (o viceversa) che abbiamo discusso nelle pagine precedenti e in altri lavori (v. Lévi-Strauss 1962; 1964b) è tipico del modo in cui ha luogo una serie di trasformazioni per inversione quando gli stadi intermedi sono sufficientemente numerosi. Anche in questo caso è dunque impossibile che ci sia una parità reale fra il punto di partenza e il punto di arrivo, eccettuato soltanto l’aspetto universale dell’inversione che genera l’intero gruppo di trasformazione dei miti. In equilibrio su un asse, il gruppo manifesta il suo squilibrio su un altro. Questa costrizione inerente al pensiero mitico salvaguarda il suo dinamismo e gli impedisce di raggiungere una situazione veramente stazionaria. In linea di diritto, se non di fatto, il mito non possiede inerzia. Per concludere questa incompleta analisi dei tre miti della Guyana, presenteremo alcune brevi note, rinviando il lettore interessato a un’analisi esauriente al secondo volume di Mitologica (1967a). In primo luogo, è bene rilevare che l’opposizione tra metafora e metonimia non è per nulla identica a quella fra deduzione empirica e deduzione trascendentale delineata all’inizio di questo articolo. Gli esempi che abbiamo dato mostrano, infatti, che la deduzione empirica è basata sulla percezione sia di similarità sia di contiguità (causa-effetto). La deduzione trascendentale, invece, richiede non una semplice valutazione ma un vero processo dialettico. La “deduzione della gru” può essere chiamata trascendentale nel senso dato alla parola dalla filosofia kantiana. Per fare questa deduzione dobbiamo chiederci a quali condizioni le valutazioni disgiunte che occorrono nei miti sulla base della deduzione empirica possono mostrarsi coerenti. Si noti tuttavia che nel caso in esame la deduzione trascendentale sembra essere rivolta verso l’esperienza, dalla quale ha cercato di estrarre proprietà che potessero retrospettivamente legittimarla. Questo tentativo dà alla deduzione trascendentale il carattere di una deduzione empirica: la gru può essere associata all’origine del fuoco per percussione, perché essa è tra l’altro un uccello chiassoso. Simili considerazioni possono avere un ruolo in altri casi, anche se il ricercatore non può sempre distin-

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guere il pretesto empirico. Ciononostante queste considerazioni devono sempre essere tenute presenti poiché il mito, una volta che esiste, si pone agli indigeni come una prova incontrovertibile di esperienza. Così tutte le deduzioni trascendentali acquistano a posteriori i tratti della deduzione empirica e, come risultato, richiamano nuove deduzioni trascendentali a un livello più alto. Le relazioni concepite semplicemente tra esseri e proprietà, si pongono in sistema attraverso la creazione di relazioni tra le relazioni o, in altre parole, di proposizioni. Queste stesse proposizioni, ridotte retroattivamente allo stato di relazioni, devono essere legate insieme attraverso l’uso di proposizioni più complesse, le quali entrano a loro volta in catene per formare ancora altre proposizioni a un altro livello ancora. Un tale punto di vista ci permette di intravedere le possibilità di una tipologia mitica che rinunci ad ogni criterio esterno. Ci si servirà, infatti, di un unico criterio interno e formale, vale a dire del grado di ordine al quale i miti di una regione o di una popolazione (o per una singola popolazione, certi miti saranno così distinti da altri) interrompono il processo di composizione che muove dalla base etnobotanica ed etnozoologica indigena. Questa base può essere anche chiamata “etnoscienza” purché non si dimentichi che essa costituisce il primo gradino in una dialettica destinata, per sua natura, a fiorire in una logica e in una filosofia.

* Titolo originale: The Deduction of the Crane (Lévi-Strauss 1971b). 1 Su questo argomento, v. Lévi-Strauss 1964a, pp. 227-230. Sul legame tra la stagione secca e le prove imposte al genero, v. Preuss 1921-23, pp. 476-499. 2 Si ricordi che in Brasile il regime delle piogge si inverte se si passa dalla costa nordorientale all’altopiano centrale o dalla costa settentrionale alla meridionale (Lévi-Strauss 1964a, pp. 290-291). 3 Le gru sembrano essere della stessa opinione. Uno di questi uccelli, privato del suo compagno, contrasse un’attrazione sentimentale per una campana di ferro il cui suono le ricordava l’altra gru (Thorpe 1963, p. 416). A proposito del grido della gru nei miti del Nord America, v. Gatschet 1890, p. 102: “La gru Sandhill (Grus canadensis) è fra tutti gli uccelli quello che grida di più e più forte”; e i chippewa credono che i membri del clan della gru abbiano voci possenti e forniscono gli oratori della tribù (Kinietz, in Lévi-Strauss 1962, p. 131). Per la Cina v. Granet 1926, p. 504, nota 2: “Il suono del tamburo si estende dovunque fino a Lo-Yang quando una gru bianca vola attraverso la Porta del Tuono” e il riferimento al Pi-fang, che “assomiglia alla gru”, danza su un piede e produce fuoco (p. 526).

Il folclore come forma di creazione autonoma* Pëtr Bogatyrëv, Roman Jakobson

Lo sbandamento spontaneo-realistico della mentalità teoretica, tipico della seconda metà del secolo XIX, è ormai un fatto superato dalle nuove correnti del pensiero scientifico. Solo nell’ambito di certe discipline umanistiche i cui rappresentanti si lasciarono assorbire dalla raccolta dei materiali e da particolari compiti specifici al punto da non mostrare nessuna inclinazione a un ripensamento dei presupposti filosofici (donde l’arretratezza delle loro posizioni teoretiche), il realismo spontaneo poté diffondersi e spesso rafforzarsi ancora all’inizio del nostro secolo. Ma per estranea che sia agli scienziati moderni tale concezione filosofica (almeno là dove non è diventata un catechismo, un rigido dogma), tutta una serie di enunciati, che sono una derivazione diretta dai presupposti teoretici della scienza della seconda metà dell’Ottocento, sopravvive in parecchi campi della cultura come zavorra passata di contrabbando, come residuo che frena l’evoluzione scientifica. Un prodotto tipico del realismo spontaneo era la tesi, diffusissima, dei neogrammatici che la lingua individuale è la sola e l’unica lingua reale. In forma epigrammatica possiamo dire che secondo questa tesi, insomma, solo la lingua di un dato individuo in un dato istante rappresenta una realtà effettiva, mentre tutto il resto non sarebbe che un’astrazione teoretico-scientifica. Ora, niente più di questa tesi, che fu uno dei pilastri dei neogrammatici, è estraneo alle moderne tendenze della linguistica, la quale, accanto alla lingua individuale, particolare (la parole, secondo la terminologia di Ferdinand de Saussure), riconosce anche la langue, cioè “un insieme di convenzioni accettate da una data comunità per assicurare la comprensione della parole”. In questo sistema tradizionale, intersoggettivo, il singolo parlante può introdurre delle modificazioni personali che però vanno interpretate solo come individuali deroghe alla langue e solo in rapporto a quest’ultima: diventano invece fatti della langue dopo che la comunità sua portatrice li ha sanzionati e accolti come validi per tutti. Qui sta appunto la differenza tra le modificazioni linguistiche, da un lato, e dall’altro gli errori linguistici individuali (lapsus), prodotti questi del capriccio, delle forti passioni o delle inclinazioni estetiche dell’individuo parlante. Dovessimo porci il problema del “concepimento” di questa o quella innovazione linguistica potremmo immaginare taluni casi nei quali le modificazioni si determinano in seguito a una sorta di socializzazione, a un generalizzarsi di errori linguistici individuali (lapsus), di individuali sentimenti o deformazioni estetiche. Ma c’è pure un’altra via alla loro insorgenza, cioè possono verificarsi come conseguenza non evitabile, normale, di precedenti modificazioni linguistiche e realizzarsi direttamente

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nella langue (la nomogenesi dei biologi). Quali comunque ne siano le condizioni, noi possiamo parlare di “nascita” di una innovazione linguistica solo a partire dal momento in cui si pone come un fatto sociale, quando cioè la comunità linguistica se l’è appropriata. Ora, se dal campo della scienza linguistica passiamo a quello del folclore, noi c’imbattiamo in fenomeni analoghi. La vita di un tema folclorico in quanto tale incomincia solo dal momento in cui è stato accolto da una data comunità e di esso esiste solo quanto questa comunità ha fatto proprio. Supponiamo che un membro di una comunità abbia cantato in poesia qualcosa di suo. Quest’opera orale, creata da tale individuo, se per una ragione o per l’altra dovesse riuscire irricevibile dalla comunità, o se dovessero gli altri membri della comunità non farla propria, sarebbe condannata a scomparire. Soltanto la casuale attenzione di un raccoglitore potrebbe salvarla, trasferendola dalla sfera della poesia orale a quella della letteratura scritta. Un poeta francese degli anni Sessanta del secolo scorso, il conte di Lautréamont, offre un esempio tipico dei cosiddetti poètes maudits, cioè dei poeti messi al bando dai loro contemporanei, non riconosciuti, condannati alla morte del silenzio. Pubblicò un libretto che non fu degnato di alcuna attenzione e non trovò occasione di diffondersi, come le rimanenti sue opere rimaste inedite. All’età di ventiquattr’anni lo raggiunse la morte. Passano decenni. Nella letteratura sopravviene il cosiddetto movimento surrealista che ha più di una consonanza con la poesia di Lautréamont. Questi viene riabilitato, le sue opere pubblicate; lo si celebra come un maestro, incomincia il suo influsso. Ma che cosa sarebbe accaduto di Lautréamont se fosse stato solo autore di poesie non scritte? Le sue opere sarebbero scomparse con la morte, senza lasciare tracce. Abbiamo citato qui il caso estremo di un poeta di cui fu rifiutata l’intera opera. Ma può accadere che soltanto alcuni aspetti, certe peculiarità formali o singoli motivi vengano respinti o non ricevuti dai contemporanei. In questi casi l’ambiente adatta l’opera a se stesso manipolandola, e tutto quanto dall’ambiente è lasciato cadere cessa semplicemente di esistere come fatto di folclore: viene messo fuori uso e muore. In un’opera di Goncˇarov l’eroina, prima di leggere un romanzo, cerca di sapere la soluzione dell’intreccio. Supponiamo che in una data epoca il lettore medio proceda allo stesso modo. Potrebbe anche, per esempio, nella lettura di un’opera saltare tutte le descrizioni di paesaggi che gli sembrano un impaccio, un noioso peso morto. Ma comunque un romanzo possa essere svisato dal lettore, comunque possa contraddire, con la sua composizione, ai precetti della scuola letteraria del tempo, per quanto non venga completamente compreso, la sua esistenza potenziale perdura intatta: verrà una nuova epoca che forse ne riabiliterà gli aspetti già rifiutati. Trasferiamo ora questi fatti nella sfera del folclore: supponiamo che la comunità esiga che lo scioglimento dell’intreccio le sia reso noto in anticipo, e noi vedremo che ogni narrazione folclorica farà suo il tipo di composizione che troviamo nel racconto di Tolstoj La morte di Ivan Il’icˇ, dove lo scioglimento precede la narrazione. Se alla comunità le descrizioni naturali non piacciono, esse sono lasciate cadere nel repertorio folclorico ecc. Insomma nel folclore si conservano solo quelle forme che sono funzionali per una data comunità. E naturalmente una

IL FOLCLORE COME FORMA DI CREAZIONE AUTONOMA

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certa funzione formale può essere soppiantata da un’altra; ma non appena una forma cessa di essere funzionale, essa muore nel folclore, mentre in un’opera letteraria mantiene una sua esistenza potenziale. Ancora un esempio dalla storia letteraria: i cosiddetti “eterni compagni”, gli scrittori che nel corso dei secoli sono stati interpretati variamente a seconda delle diverse tendenze, dei differenti punti di vista e con sempre nuove soluzioni. Talune peculiarità di questi scrittori, già estranee ai loro contemporanei, incomprensibili, inutili, sgradite, acquistano in seguito grande valore, diventano a un tratto attuali, si mutano cioè in fattori produttivi. Anche questo è possibile solo nel campo della letteratura. Quale sarebbe stata, ad esempio, nella poesia orale la sorte dell’opera ardita e “inattuale” di Leskov, divenuta un fattore produttivo solo molti decenni dopo, nell’attività letteraria di un Remizov e dei successivi prosatori russi? L’ambiente in cui viveva Leskov ne avrebbe depurato l’opera dalla sua bizzarria stilistica. In una parola, lo stesso concetto di tradizione letteraria è profondamente diverso da quello di tradizione folclorica. Nel campo del folclore la possibilità di una riattualizzazione dei fatti poetici è molto più ridotta. Morti che siano i rappresentanti di una data tradizione di poesia, questa non può più essere risuscitata, mentre nella letteratura rivivono e tornano a essere produttivi fenomeni vecchi di uno o anche più secoli1. Da quanto si è detto appare chiaramente che l’esistenza di un’opera di folclore non può non presupporre un gruppo sociale che l’accolga e la sanzioni. Nelle ricerche folcloriche non bisogna mai perdere di vista il principio fondamentale della “censura preventiva della comunità”. Usiamo con intenzione la parola “preventiva” perché nell’esame di un fatto folclorico non sono in causa i momenti della sua biografia anteriori alla nascita, il “concepimento” o la vita embrionale, ma proprio la sua “nascita” in quanto fatto di folclore e il suo destino successivo. I folcloristi, particolarmente gli slavi che dispongono forse del materiale più vivo e ricco d’Europa, sostengono spesso la tesi che non esiste nessuna differenza di principio tra poesia orale e letteratura e che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a indiscutibili prodotti della creazione individuale. Questa tesi è sorta appunto grazie alle suggestioni del realismo spontaneo: non abbiamo nessuna esperienza diretta di creazione collettiva, quindi si deve postulare un creatore individuale, un iniziatore. Un tipico rappresentante della scuola dei neogrammatici, tanto nel campo degli studi linguistici quanto in quello degli studi folclorici, Vsevolod Miller, si esprime in questi termini riguardo ai soggetti del folclore: “Da chi sono stati inventati? Dalla creazione collettiva della massa? Ma anche questo è un luogo comune perché l’esperienza umana non conosce creazioni siffatte”. Questa proposizione rispecchia ovviamente le nostre abitudini quotidiane: la forma corrente e più comune di creazione non è quella orale, per noi, bensì la scritta, e così i nostri modi abituali di rappresentarci le cose vengono proiettati, egocentricamente, anche nel campo del folclore. Come data di nascita di un’opera letteraria vale il momento in cui il suo autore la fissa sulla carta; analogamente, anche per un’opera orale si considera il momento in cui viene oggettivata per la prima volta, vale a dire recitata dall’autore, mentre in realtà quell’opera diventa un fatto del folclore solo dal momento in cui viene accolta dalla comunità. I sostenitori della tesi del carattere individuale della creazione folclorica tendono a sostituire al concetto di collettività quello di anonimia. In un noto manuale della poesia orale russa, ad esempio, si legge:

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Anche se nel caso di un canto rituale non sappiamo chi sia stato il creatore del rito, chi abbia composto il primo canto, è ovvio che tale fatto non contraddice all’idea della creazione individuale, semmai prova soltanto che il rito è così remoto da non consentirci di stabilire né l’autore né le circostanze da cui nacque il canto più antico strettamente connesso a quel rito; e inoltre che l’ambiente in cui nacque non aveva nessun interesse per la personalità dell’autore, sicché non ne ha conservato memoria. L’idea di creazione collettiva, pertanto, qui non ha alcuna ragione di essere (M. Speranskij).

La teoria non tiene conto del fatto che un rito senza la sanzione della comunità non può esistere, che è una contradictio in adiecto, e che, se anche questo o quel rito poté contenere in nuce un’espressione individuale, c’è tanta distanza da quell’espressione al rito, quanta dalla deformazione linguistica individuale all’evoluzione grammaticale vera e propria. Quanto si è detto sulla formazione del rito (o di un’opera di tradizione orale) si può applicare anche alla sua evoluzione (o all’evoluzione folclorica in genere). La differenza, usuale in linguistica, tra modificazione della norma e innovazione individuale (differenza che ha conseguenze non solo quantitative, ma anche primarie, qualitative) è ancora quasi del tutto ignota nello studio delle tradizioni popolari. Una delle principali differenze tra folclore e letteratura risiede nel concetto stesso dell’essenza di un’opera d’arte. Nel folclore il rapporto tra l’opera d’arte e la sua oggettivazione, ossia le cosiddette varianti dell’opera introdotte dalle diverse persone che la recitano, corrisponde esattamente al rapporto tra langue e parole. L’opera del folclore è extra personale, come la langue, e vive di una vita puramente potenziale, non è insomma che un insieme di determinate norme e impulsi, un canovaccio di tradizione attuale che i recitanti animano con i loro apporti individuali, come fanno i creatori della parole rispetto alla langue2. Nella misura in cui queste innovazioni individuali della lingua (o del folclore) rispondono alle esigenze della comunità e anticipano l’evoluzione regolare della langue (o del folclore), esse vengono socializzate e diventano fatti della langue (o elementi dell’opera folclorica). L’opera letteraria è oggettivata, ha una sua esistenza concreta, indipendente dal lettore, e ogni nuovo lettore si rivolge direttamente a essa. Non è come per l’opera folclorica dove la trasmissione avviene da recitante a recitante: qui si va direttamente dall’opera al recitante. Si può bensì tener conto delle interpretazioni precedenti, queste però non sono che una delle componenti della trasmissione dell’opera, e non l’unica sua fonte, come nel folclore. Il ruolo del recitante di un’opera folclorica non si può assolutamente identificare con quello del lettore, o del recitante, e neppure dell’autore di un’opera letteraria. Dal punto di vista di chi la recita, un’opera folclorica rappresenta un fatto della langue, è impersonale, vive indipendentemente da lui, benché gli sia sempre possibile deformarla e introdurvi elementi nuovi, per renderla più poetica o per aggiornarla. Per l’autore di un’opera letteraria, questa rappresenta un fatto della parole; non è un dato preesistente fornitogli a priori, ma qualcosa che deve venire realizzato dall’individuo. Di “dato” non c’è che l’insieme delle opere d’arte valide in quel momento: sul loro sfondo, o meglio, sullo sfondo dei loro requisiti formali, deve venire creata e intesa la nuova opera (sia che essa faccia proprie alcune delle loro forme, sia invece che le modifichi o le respinga).

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Una delle differenze sostanziali tra folclore e letteratura sta dunque nel fatto che è proprio dell’uno regolarsi sulla langue, dell’altra invece sulla parole. Secondo l’esatta definizione della sfera del folclore data da Potebnja, il poeta stesso non ha nessuna ragione di considerare la sua opera come specificamente sua, e quelle di altri poeti del suo stesso ambiente come estranee. Il ruolo della censura esercitata dalla comunità, come abbiamo già osservato, è diverso dalla letteratura al folclore. Qui la censura è determinante, e costituisce il presupposto necessario della nascita stessa dell’opera. Anche lo scrittore tiene conto, in maggiore o minor misura, delle esigenze dell’ambiente; solo che, per quanto egli cerchi di adeguarvisi, nel suo caso non sussiste quella fusione inscindibile tra censura e opera che caratterizza il folclore. Un’opera letteraria non è predeterminata dalla censura, non può dipenderne interamente; può solo anticiparne pressappoco le richieste, a volte indovinando, a volte no; e ci sono peraltro richieste della comunità che trascura del tutto. Nel campo dell’economia si ha un equivalente del rapporto tra letteratura e consumatori nella cosiddetta “produzione per il mercato”, mentre il folclore si avvicina piuttosto alla “produzione su commessa”. Lo scompenso tra le richieste dell’ambiente e un’opera letteraria può essere dovuto a errore, oppure a intenzione cosciente, quando l’autore si proponga di modificare quelle richieste e di fare opera di rieducazione letteraria. Questo tentativo di condizionare la richiesta può anche non avere successo. La censura non cede, tra le sue norme e l’opera si crea un’antinomia. In genere si tende a raffigurarsi gli “autori del folclore” sul modello e a somiglianza del “poeta letterario”, ma è una trasposizione che non corrisponde alla realtà. Contrariamente al “poeta letterario”, il “poeta folclorico” – come ha giustamente osservato Ani?kov – non crea “un ambiente nuovo”; l’intenzione di modificare l’ambiente gli è anzi del tutto estranea. Il predominio assoluto della censura preventiva, che rende inutile ogni ribellione dell’opera, determina una categoria particolare di collaboratori alla creazione poetica e costringe l’operatore folclorico a rinunciare ad ogni attentato contro la censura stessa. La tendenza a eliminare la barriera tra storia della letteratura e storia del folclore aveva raggiunto il suo massimo nell’interpretazione del folclore come espressione della creazione individuale. Ma noi, come appare da quanto si è detto, crediamo che la tesi vada sottoposta a una revisione radicale. Assumerà, questa, il significato di una riabilitazione della concezione romantica, così duramente attaccata dai sostenitori di quella dottrina? Senza dubbio. La caratterizzazione della differenza tra poesia orale e letteratura offerta dai teorici romantici conteneva tutta una serie di osservazioni esatte, e avevano ragione i romantici, quando sottolineavano il carattere tribale della creazione poetica orale e la paragonavano alla lingua. Ma accanto a queste tesi giuste si trovavano nella loro concezione altre affermazioni che non reggono più alla critica scientifica dei nostri giorni. Anzitutto i romantici sopravvalutavano l’autonomia genetica e il carattere primitivo del folclore; solo le ricerche della generazione successiva hanno saputo dimostrare quale ruolo straordinario vi giochi la presenza di quel fattore che i moderni studiosi tedeschi designano come “sedimento culturale” (gesunkenes Kulturgut). Potrà sembrare che il riconoscimento dell’importanza, talvolta persino esclusiva, di questo “sedimento culturale” nel repertorio popolare limiti sostanzialmente il ruolo della

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creazione collettiva. Ma non è cosí. Le opere d’arte mutuate nella poesia popolare dagli strati sociali superiori possono bensí essere prodotti tipici di un’iniziativa personale e di una creazione individuale, ma per sua natura la questione delle fonti di un’opera di folclore esula dall’ambito della folcloristica. Ogni problema di fonti eterogenee diventa suscettibile di interpretazione scientifica solo se viene considerato dal punto di vista del sistema in cui è stato integrato, ossia in questo caso dal punto di vista del folclore. Per la scienza delle tradizioni popolari ciò che conta non è l’origine e l’esistenza di fonti esterne al folclore, ma la funzione del prestito, la scelta e la trasformazione della materia mutuata. Sotto questo aspetto la tesi ben nota: “il popolo non produce, riproduce” si spunta, perché niente ci autorizza a tracciare una barriera invalicabile tra produzione e riproduzione, ponendo quest’ultima quasi su un gradino inferiore. Riproduzione non significa accettazione passiva, e in questo senso tra un Molière, che rielabora antiche pièces, e il popolo che, per servirci dell’espressione del Naumann, “sofistica” una canzone d’arte non c’è differenza di fondo. Trasporre un’opera appartenente alla cosiddetta “arte monumentale” al livello del cosiddetto “primitivo” è di per sé un atto di creazione. Tale, infatti, è sia la scelta dell’opera che si traspone sia il suo adattamento a diverse abitudini ed esigenze diverse. Le forme letterarie preesistenti, passando nel folclore, decadono a materia da rielaborare. Sullo sfondo di una mutata tradizione poetica, di una tradizione diversa e di un diverso rapporto con i valori d’arte, l’opera viene reinterpretata in modo nuovo, e anche quell’aspetto formale che a prima vista pare essersi mantenuto non si può considerare identico al suo modello: in queste forme d’arte, come dice Tynjanov, il valore delle funzioni viene commutato. Dal punto di vista funzionale, il solo che ci permetta di comprendere i fatti artistici, una stessa opera d’arte, prima e dopo di essere assunta nel folclore, rappresenta in effetti due cose sostanzialmente diverse. La storia del poema di Pusˇkin, L’ussaro, offre un esempio caratteristico di come le forme d’arte che passano dal folclore alla letteratura e viceversa modifichino le loro funzioni (cfr. Bogatyrëv 1923). Il racconto, caratteristico nella tradizione popolare, dell’incontro di un uomo semplice con l’aldilà (dove il punto centrale consiste nella descrizione delle apparizioni infernali) è stato trasformato da Pusˇkin in una serie di quadri di genere mediante la psicologizzazione dei personaggi e la motivazione psicologica delle loro azioni. Pusˇkin ha dato una coloritura umoristica sia al protagonista – l’ussaro – sia alla superstizione della gente. La favola, di cui si è servito, è popolare, ma nella rielaborazione del poeta questa sua “popolarità” diventa un artificio, ha valore per così dire di “segnale”. La parlata, semplice, del narratore popolare è considerata da Pusˇkin materia seducente per un travestimento in versi regolari. Il suo poema ritornò poi nel folclore, accolto in alcune varianti della commedia più diffusa del teatro popolare russo, Zar Massimiliano, dove è impiegato, con altri prestiti letterari, per ampliare un episodio additizio; è, vale a dire, uno dei numeri del colorito divertissement recitato dall’ussaro, protagonista di quell’episodio. L’audace vanteria dell’ussaro non meno della buffonesca rappresentazione della genia infernale corrispondono bene allo spirito dell’estetica giullaresca. Ma, naturalmente, l’humour di Pusˇkin, tendente a un’ironia romantica, ha poco in comune con la farsa dello Zar Massimiliano che della sua opera si è servita. Persino nelle varianti che l’hanno modificato relativamente poco, il poema di Pusˇkin viene sentito in modo molto singolare dal pubblico educato dal folclore, soprattutto quando recita-

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to sullo sfondo degli altri numeri da attori popolari. Nelle altre varianti questo cambiamento di funzioni viene realizzato immediatamente nella forma: lo stile parlato dialogico, proprio del poema di Pusˇkin, viene trasformato con facilità in un verso parlato folclorico, e del poema non resta che la trama non più motivata, in cui si inseriscono i soliti scherzi buffoneschi e i soliti giochi di parole. Ma per quanto siano strettamente intrecciati gli sviluppi della letteratura e della poesia orale, per intensi e continui che siano i loro reciproci influssi, per quanto il folclore abbia spesso avuto a che fare con il materiale letterario e la letteratura con quello folclorico, non per questo siamo autorizzati a cancellare la frontiera, fondamentale, tra poesia orale e letteratura per amore della ricerca delle fonti. Un altro notevole errore della caratterizzazione romantica del folclore, oltre all’affermazione del suo carattere primitivo, sta nella tesi che solo un popolo non strutturato in classi, vale a dire una sorta di personalità collettiva con un’anima sola e una sola concezione del mondo, o, se si vuole, una comunità senza le manifestazioni individuali dell’attività umana, possa produrre folclore, essere insomma il protagonista della creazione collettiva. Oggi questa associazione tra creazione collettiva e “comunità culturale primitiva” la troviamo nell’opera di Naumann e nella sua scuola, che ha parecchi punti di contatto con i romantici. Nel folclore manca ogni forma di individualismo. Non dobbiamo peritarci di cavare paragoni dal regno animale: esso ci offre infatti i paralleli più immediati (...). La vera arte popolare è arte comunitaria, ma allo stesso modo in cui sono prodotti di una vera e propria arte collettiva i nidi delle rondini, gli alveari, i gusci delle lumache (Naumann 1921, p. 190).

“Tutti obbediscono a una stessa spinta, – scrive ancora Naumann dei portatori della cultura collettiva – tutti sono animati dagli stessi intendimenti e dagli stessi pensieri” (p. 151). In questa concezione però c’è un pericolo, quello che si ritrova in ogni rigida deduzione da una manifestazione sociale alla sfera mentale, per esempio dalle particolarità del linguaggio a quelle del pensiero (e qui Anton Marti ha chiarito egregiamente il pericolo di una simile identificazione). Accade lo stesso nell’etnografia: la supremazia assoluta della mentalità collettiva non è per nulla il presupposto indispensabile della creazione collettiva, benché alla perfetta realizzazione di questa una mentalità siffatta fornisca un terreno particolarmente favorevole. Anche una cultura permeata di individualismo non ignora la creazione collettiva. Basti pensare agli aneddoti diffusi al giorno d’oggi negli ambienti colti, ai pettegolezzi e alle voci quasi leggendarie, alle superstizioni e ai nuovi miti, alle convenzioni sociali e alla moda. Del resto gli etnografi russi che hanno compiuto ricerche nei villaggi dei dintorni di Mosca possono documentare la coesistenza di un ricco e vivace repertorio folclorico con un ambiente contadino molto differenziato sotto l’aspetto sociale, economico, ideologico e persino dei costumi. Il perdurare di una poesia (o letteratura) orale si spiega con ragioni non solo psicologiche ma anche, in notevole misura, funzionali. Si veda, per esempio, la coesistenza della poesia orale con la letteratura nei medesimi ambienti colti russi del XVI e XVII secolo: la letteratura svolgeva qui alcune funzioni culturali, la poesia orale certe altre. Nelle relazioni cittadine naturalmente la letteratura prevale sul folclore,

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cioè la “produzione per il mercato” è maggiore di quella “su commessa”; ma al villaggio, conservativo, la poesia individuale come fatto sociale è altrettanto estranea quanto la “produzione per il mercato”. Una volta ammessa la tesi del folclore come frutto della creazione collettiva, la scienza delle tradizioni popolari si trova di fronte a una serie di compiti concreti. Senza dubbio la trasposizione dei metodi e dei concetti derivati dall’elaborazione della materia letteraria al campo della folcloristica ha recato spesso pregiudizio all’analisi delle forme d’arte popolari. In particolare si è sottovalutata la notevole differenza che corre tra un testo letterario e la trascrizione di un’opera di folclore, che già di per sé inevitabilmente la sfigura e la traspone in un’altra categoria. Sarebbe equivoco parlare delle stesse forme in rapporto al folclore e alla letteratura. Così per esempio il verso, concetto che a prima vista sembra avere lo stesso significato sia per l’uno sia per l’altra, ha nel folclore funzione completamente diversa. Marcel Jousse, che ha indagato con finezza lo stile ritmico orale (style oral rythmique), giudica la diversità così importante da riservare i concetti di “verso” e “poesia” esclusivamente alla letteratura, mentre per la creazione orale usa le espressioni corrispondenti di “schema ritmico” e “stile orale”, per evitare che si attribuiscano a quei termini i contenuti letterari consueti. Egli spiega magistralmente la funzione mnemotecnica degli “schemi ritmici”. Lo stile ritmico orale in un “milieu de récitateurs encore spontanés” è interpretato da lui in questo modo: Immaginiamoci una lingua che possegga due o trecento frasi rimate e quattro o cinquecento schemi ritmici, tramandati in formule esattamente fissate, senza le modifiche proprie della tradizione orale: l’invenzione personale consisterebbe in tal caso nel formare, usando questi schemi come modello, altri schemi ritmici, simili nella forma e uguali nel ritmo e nella struttura (...) e possibilmente nel contenuto, procedendo per analogia e aiutandosi con le formule fisse (Marti 1925).

Qui si trova chiaramente definito il rapporto fra tradizione e improvvisazione, fra langue e parole, nella poesia orale. Nel folclore il verso, la strofa e altre forme compositive ancora più complicate formano da una parte un vigoroso appoggio alla tradizione e dall’altra (fattore strettamente connesso col primo) un mezzo efficace per la tecnica dell’improvvisazione3. La tipologia delle forme del folclore deve costituirsi su basi indipendenti dalla tipologia della letteratura. L’elaborazione della tipologia fonologica e morfologica è uno dei problemi più attuali della linguistica. È oramai provato che esistono leggi strutturali universalmente valide, che nessuna lingua infrange: si constata che la molteplicità delle strutture fonologiche e morfologiche è limitata e può venir ricondotta a un numero relativamente esiguo di tipi-base, e che tale fenomeno è legato al fatto che la pluralità delle forme della creazione collettiva è essa stessa limitata. La parole infine permette una varietà di modificazioni più ricca della langue. A queste constatazioni della linguistica comparata si possono contrapporre da una parte la molteplicità di temi propria della letteratura, e dall’altra la serie limitata di argomenti fiabeschi propri del folclore. Questa limitazione non può venir spiegata né dalla comunanza delle fonti né da quella psichica o da circostanze esterne. Le leggi generali della composizione poetica favoriscono la formazione di soggetti analoghi; queste

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leggi, come pure quelle che regolano la struttura della lingua, sono più uniformi e rigide nella creazione collettiva che in quella individuale. Il compito immediato che si pone alla folcloristica sincronica sta nel caratterizzare il sistema delle forme d’arte che costituiscono il repertorio attuale di una data comunità: un villaggio, un comune, una unità etnica. Occorre qui tener conto dei rapporti fra le forme appartenenti a uno stesso sistema, della loro gerarchia, della differenza tra quelle produttive e le altre che hanno cessato di esserlo. Grazie al repertorio folclorico non si distinguono solo gruppi etnografici e geografici, ma anche gruppi caratterizzati dal sesso (folclore maschile e femminile), dall’età (bambini, giovani, vecchi) o dalla professione (pastori, pescatori, soldati, briganti ecc.). Nei limiti in cui queste categorie professionali producono folclore a uso interno, tali cicli folclorici possono essere paragonati con i gerghi. Vi sono inoltre repertori folclorici appartenenti a un dato gruppo, ma destinati a consumatori estranei alla categoria. In questi casi la produzione di poesia orale è una delle caratteristiche professionali del gruppo. Così ad esempio in gran parte della Russia i canti spirituali sono recitati quasi esclusivamente dai kaliki perexozˇie – mendicanti girovaghi, spesso organizzati in speciali associazioni. La recita di poesie spirituali è una delle loro principali fonti di guadagno. Tra questo caso, di netta separazione fra produttore e consumatore, e l’estremo opposto, quando cioè quasi tutta la comunità è contemporaneamente produttrice e consumatrice (come accade per proverbi, aneddoti, stornelli e certi tipi di canti, rituali e non rituali), esiste tutta una serie di tipi intermedi. In un determinato ambiente può farsi avanti un gruppo di persone di talento, che assume più o meno il monopolio della produzione di un certo genere di folclore (per esempio di fiabe). Non si tratta di professionisti; l’attività poetica non è la loro occupazione principale, la loro fonte di guadagno; sono piuttosto dilettanti, che dedicano alla poesia le loro ore di libertà. Non si può constatare qui una completa identità tra produttore e consumatore, ma neppure una netta separazione. Il confine è incerto. Vi sono individui che sono più o meno narratori di fiabe, ma contemporaneamente anche ascoltatori; il produttoredilettante diventa facilmente consumatore, e viceversa. Anche nel caso di distinzione tra produttore e consumatore il carattere collettivo assume tratti particolari. Abbiamo qui una comunità di produttori, e la “censura preventiva” dipende meno dal consumatore di quando si abbia identità tra produttore e consumatore, perché allora la censura bada in ugual misura agli interessi della produzione e del consumo. Solo a una condizione la poesia orale non rientra più, per sua stessa natura, nel campo del folclore e non rappresenta più una creazione collettiva: nel caso cioè che una compagnia di professionisti ben coordinata e dotata di una salda tradizione professionale prenda di fronte a determinati prodotti poetici un atteggiamento di ossequio inteso a cercare in tutti i modi di conservarli immutati. Una serie di esempi dimostra che ciò si è verificato più di una volta nella storia, in maggiore o minor misura. Così nel corso dei secoli gli inni vedici furono tramandati dai sacerdoti oralmente, in raccolte, o “a canestri”, per usare la terminologia buddistica. Tutti gli sforzi erano diretti a impedire che quei testi venissero deformati, e a parte alcune innovazioni di secondaria importanza tale risultato fu infatti raggiunto. Laddove il compito della comunità consiste solo nel conservare un’opera poetica divenuta canone intoccabile, non esiste più censura creatrice, né improvvisazione o creazione collettiva.

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A riscontro dei casi-limite della poesia orale si possono ricordare anche quelli della letteratura. Così ad esempio, pur senza uscire dalla letteratura, sono peculiari dell’attività degli autori anonimi e dei copisti del Medioevo alcuni tratti che la avvicinano alla produzione orale: spesso il copista tratta l’opera da copiare come materiale passibile di adattamento ecc. Ma per numerosi che siano i fenomeni intermedi tra creazione individuale e collettiva, non intendiamo seguire l’esempio di quel sofista che si scervellava a chiedersi quanti granelli di sabbia bisogna togliere da un mucchio perché cessi di essere un mucchio. Tra due sfere culturali affini vi sono sempre zone di confine e di transizione. La circostanza tuttavia non ci autorizza a negare l’esistenza di due generi diversi, né l’utilità di tenerli distinti. Se l’accostamento della storia del folclore a quella della letteratura ha permesso a suo tempo di chiarire una serie di problemi di carattere genetico, la distinzione fra le due discipline e la riaffermata autonomia della folcloristica faciliterà presumibilmente l’interpretazione delle funzioni del folclore, dei suoi fondamenti strutturali e delle sue peculiarità.

* Titolo originale: Die Folclore als eine besondere Form des Schaffens (Bogatyrëv, Jakobson 1929). 1 Osserviamo pure che nella sfera del folclore non solo la tradizione, ma anche la coesistenza, in uno stesso ambiente, di forme stilistiche come espressione di tendenze diverse, è molto più limitata di quanto non avvenga nella letteratura; alla pluralità degli stili corrisponde cioè per lo più nel folclore una pluralità di generi. 2 Occorre tener presente – come osserva Murko – che i cantori non declamano, come noi, un testo fisso, ma, almeno fino a un certo punto, lo ricreano continuamente. 3 Gesemann (1926) offre indicazioni stimolanti sulle particolarità specifiche di questa tecnica dell’improvvisazione.

Fiabe di magia e fiabe cumulative* Vladimir Jakovlevicˇ Propp

1. Caratteristiche generali della fiaba di magia 1.1. Elementi costanti ed elementi variabili della fiaba di magia (...) In base a quali criteri si distingue e si definisce il concetto di “fiaba di magia”? Quali fiabe vi rientrano e quali no? (...) Prendiamo ad esempio la fiaba della donna malvagia e infedele: il marito ne scopre l’infedeltà e lei lo trasforma in un cane; lui scopre il sistema per riottenere l’aspetto umano e, a sua volta, trasforma la moglie in una cavalla e la usa per trasportare l’acqua. Aarne1 la considera una fiaba di magia, poiché in essa si compiono magie. Noi non possiamo assolutamente concordare con tale scelta, poiché non tutte le fiabe in cui compare una magia sono automaticamente “fiabe di magia”. Infatti, questa è un’autentica fiaba novellistica. Per il momento non entreremo nei particolari e ci limiteremo a definire la fiaba di magia utilizzando non il vago concetto di “magia”, ma le costanti che le sono proprie. (...) Raffrontiamo alcuni intrecci tratti dal ciclo di fiabe sulla matrigna e la figliastra (tipo 480 = AA 480*B, *C): 1) Un contadino, a causa dell’odio che la seconda moglie nutre per la figlia che lui ha avuto dal suo primo matrimonio, conduce la fanciulla nel bosco e la consegna a una baba-jaga. La baba-jaga le assegna lavori di ogni sorta: “ordinò alla bambina di filare con la rocca, di accendere la stufa, di fare provviste” e così via. La fanciulla svolge così bene il lavoro che la baba-jaga la ricompensa generosamente. Allora la matrigna invia nel bosco la propria figlia, che però non vuole far nulla. La baba-jaga la fa a pezzi, e il contadino ne porta a casa le ossa (Af. 102). 2) La matrigna odia la figliastra. Per allontanarla spegne tutti i fuochi in casa e la manda dalla baba-jaga a prendere il fuoco. La vecchia accoglie la giovare con le parole: “Se verrai a vivere e lavorare con me, allora ti darò il fuoco”. La fanciulla esegue puntualmente tutti i suoi ordini. La baba-jaga allora le dà il fuoco, col quale vengono bruciate la matrigna e sua figlia (Af. 104). 3) Un vecchietto, su ordine della seconda moglie, conduce la figlia, avuta dal primo matrimonio, nel bosco. Morozko (Gelo) cerca di congelarla, ma lei risponde così dolcemente alle sue domande che lui ne ha compassione e la ricompensa generosamente. La moglie allora manda nel bosco le proprie figlie. Queste si comportano con arroganza, e Morozko le fa morire assiderate (Af. 95-97). 4) La matrigna odia la figliastra. Il padre la conduce nel bosco e la abbandona in una tana scavata nella terra. Lì vive un orso che gioca con lei a mosca cieca senza riuscire a prenderla. L’orso la ricompensa generosamente. La matrigna manda nel bosco la propria figlia, ma questa si impaurisce e l’orso la sbrana (Af. 98).

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Compiremo ora solo un’esposizione molto sintetica dello schema dei tipi. Il numero di esempi potrebbe essere più consistente. Osserviamo che cosa accade alla fanciulla nel bosco; a prima vista le sue avventure sono del tutto disparate. – La baba-jaga le fa fare tutti i lavori di casa. – Morozko prova a congelarla. – L’orso gioca con lei a mosca cieca e così via. (...) Se cerchiamo di definire concettualmente le situazioni che deve affrontare la fanciulla, si può notare che sono assai simili: c’è una prova, seguita da una ricompensa quando la prova viene superata o da una punizione in caso contrario. La prova, la ricompensa o la punizione sono elementi che si ripetono, “grandezze costanti” di queste fiabe. Tutto il resto può cambiare. I personaggi sono diversi. (...) La difficoltà consiste nell’identificare correttamente le azioni analoghe. Le azioni determinanti ai fini dello sviluppo dell’intreccio saranno definite “funzioni”. Dagli esempi riportati si nota che proprio tali funzioni sono gli elementi che si ripetono costantemente nelle fiabe di magia, mentre tutto il resto può variare. (...) Cercheremo di stabilire quante sono le funzioni note della fiaba di magia e, anticipando le conclusioni, si può affermare che il numero delle funzioni è estremamente ristretto, si riduce a poco più di trenta. Dobbiamo poi porci il problema della loro successione. Vedremo che, anche se sono possibili oscillazioni e variazioni, nel complesso la successione è sempre la stessa. In ciascuna fiaba non compaiono necessariamente tutte le funzioni, ma questo non influenza l’ordine della loro successione. Ne deduciamo, quindi, che tutte le fiabe di magia sono di struttura omogenea. L’insieme della successione delle funzioni – poiché le fiabe di magia sono caratterizzate da una struttura omogenea – può essere definita anche “struttura compositiva della fiaba”. Di conseguenza il genere delle fiabe di magia non può essere identificato in base alla presenza di elementi magici né in base all’indice dei tipi, ma solo in rapporto alla sua struttura compositiva, e in tal modo il risultato ha un carattere scientifico preciso. La difficoltà maggiore consiste nel dare una definizione logicamente corretta di funzione. La funzione e l’azione non sono certo la stessa cosa. Ripetiamo: la funzione di un personaggio fiabistico è l’azione definita dal punto di vista del suo significato nell’ambito dello sviluppo dell’intreccio. Così, ad esempio, se il diavolo sale su un tappeto volante e vola via, il volo è un’azione, ma quest’azione deve ancora essere definita dal punto di vista del suo significato funzionale in rapporto allo sviluppo dell’intreccio. In questo caso la funzione sarà quella di trasferimento nel luogo delle ricerche, e il volo è la forma in cui si realizza questa funzione. Una stessa azione può avere varie funzioni. Ad esempio, il diavolo può andare in nave, ma questa non è la funzione del personaggio. Il contenuto della funzione è dato soltanto dal significato che l’azione assume per il corso degli avvenimenti. Ad esempio, andare in nave può avere la funzione di trasferire l’eroe nel luogo dove compirà le sue gesta eroiche. Ma può rappresentare anche una fuga o, al contrario, un inseguimento e così via. I particolari li scopriremo più avanti. (...) 1.2. L’esordio “In un certo reame, in un certo Stato c’era una volta”: è in questo modo tranquillo ed epico che comincia la fiaba di magia. (...) La formula “in un certo

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reame” indica l’indeterminatezza spaziale del luogo dell’azione. Questa formula introduttiva è caratteristica delle fiabe russe. (...) “in un certo reame” è un topos della fiaba di magia e in un certo senso mette in chiaro che l’azione si compie al di fuori del tempo e dello spazio. Segue poi la presentazione dei personaggi: vivevano “un nonno e una nonna” o “un contadino”, “lui (lei) aveva tre figli”, “un re, che aveva tre figlie di una bellezza inconsueta” e così via. Non è certo una descrizione realistica della famiglia. La situazione iniziale di norma comprende persone di due generazioni, vecchi e giovani. Sono i futuri protagonisti della narrazione, e la fiaba non introduce mai personaggi superflui: ogni personaggio ha un ruolo preciso nella narrazione. I personaggi della generazione più vecchia di norma allontanano l’eroe da casa, i più giovani se ne vanno di casa; l’uno e l’altro avvengono in forme varie e con motivazioni diverse. (...) La situazione iniziale o introduttiva a volte si presenta decisamente positiva. Tutto va bene: il figlio e la figlia sono “belli e in salute”. “C’era un mercante ricchissimo: aveva una figlia d’una bellezza mai vista”. (...) Se la narrazione della fiaba inizia, ad esempio, con la descrizione di una semina, i raccolti sono sempre abbondanti ecc. È facile constatare che il benessere iniziale serve da contrasto con la miseria successiva, prelude a una disgrazia. (...) La sventura si avvicina in modo strisciante: tutto comincia quando uno dei personaggi, della situazione iniziale, si allontana da casa per un certo periodo. Ad esempio, il principe parte per una terra lontana e lascia sola la moglie incinta. (...) Definiamo tale funzione “allontanamento”. Il suo significato sta nel fatto che i giovani si separano dai vecchi, i forti dai deboli. Le donne, le fanciulle, i bambini indifesi restano soli, in modo da preparare il terreno per la sventura. (...) L’allontanamento molto spesso è accompagnato da divieti. Una forma particolarmente forte di divieto è la stanza proibita. Il padre, morendo, proibisce al figlio di entrare in una delle stanze del palazzo: “In quel ripostiglio non devi guardare”. È però più frequente incontrare divieti del tipo “non uscire di casa”. (...) A volte il divieto nella fiaba è ridotto a consiglio. Ad esempio il cavallo avverte l’eroe che ha trovato una penna d’oro: “Non prender la penna d’oro se non vuoi conoscere il dolore” (tipo 531 = K531, Af. 169). Il divieto nel folclore è sempre infranto, altrimenti non vi sarebbe intreccio. Il divieto e l’infrazione sono funzioni appaiate; peraltro la presenza di funzioni appaiate è abbastanza frequente nella fiaba. (...) L’infrazione del divieto comporta, a volte immediatamente, una qualche sventura. Le principessine uscite a passeggiare in giardino dopo aver lasciato il terem vengono rapite da un drago. Ivasˇecˇka viene rapito da una strega, il principe vede nella stanza proibita il ritratto di una donna bellissima, cade in deliquio, perde la tranquillità dell’animo finché non decide di andarsene di casa ecc. L’infrazione del divieto causa la prima sventura. La sventura induce quindi una reazione, e in questo modo si dà inizio allo svolgimento dell’azione della fiaba. La sventura iniziale rappresenta dunque l’elemento fondamentale dell’esordio. Per questa funzione (divieto e infrazione) entrano in scena personaggi ben precisi – draghi, la jaga, servitori infedeli, animali, ladri ecc. – che possiamo definire antagonisti, nemici dell’eroe. (...) L’antagonista, dopo aver fatto la sua comparsa, e avere ingannato la propria vittima, le arreca un danno. Le forme in cui è prodotto il danno sono estrema-

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mente eterogenee. La forma più diffusa è il rapimento. Il drago rapisce la principessa o la figlia del contadino; la strega rapisce Ivasˇecˇka. Durante lo svolgimento dell’azione, quando, in sostanza, l’azione si ripete da capo i fratelli rapiscono la fidanzata o rubano il bottino dell’eroe o i suoi mezzi magici; l’uccello di fuoco ruba le mele d’oro, il generale ruba la spada del re ecc. (...) La sostanza del concetto di rapimento consiste nella separazione, nella sparizione, che si possono conseguire anche con mezzi diversi dal rapimento. Così, ad esempio, nella fiaba della principessa-ranocchia il principe, infrangendo il divieto, brucia la pelle di rana della moglie, e lei scompare per sempre, vola via. L’effetto, in questo caso, è assolutamente uguale a quello di un eventuale rapimento. Lei se ne vola via dicendo: “Addio, cercami ai confini della terra, nell’ultimo dei regni”. (...) 1.3. Mancanza Tuttavia non tutte le fiabe di magia iniziano con una disgrazia; a volte al suo posto c’è il disagio per la mancanza di qualcosa. L’effetto ottenuto è lo stesso di quello del rapimento. L’eroe, ad esempio, va a cercarsi una fidanzata: va incontro alle medesime avventure che affronterebbe qualora andasse alla ricerca della principessa rapita. Agli oggetti rubati corrispondono oggetti strani o magici di cui si avverte la mancanza all’inizio della fiaba. Così, ad esempio, il vecchio re è malato (“gli si sono indeboliti gli occhi”). Invia il figlio a prendere le mele della giovinezza e l’acqua della vita. In altre parole, la mancanza, l’insufficienza di qualcosa sono l’equivalente morfologico del rapimento o del furto. Disgrazia o mancanza iniziale che sia, è necessario che l’eroe ne venga a conoscenza; allora il re fa proclamare un bando. (...) Alla mancanza di qualcosa corrisponde il momento di presa di coscienza di tale mancanza. Una famiglia vive tranquilla e d’un tratto si rende conto che manca qualcosa. A volte questa mancanza non ha nessuna motivazione esterna (ci sono tre figli: “Un giorno padre e madre decisero di farli sposare”), altre volte è introdotto il motivo della percezione di tale mancanza. A questo scopo serve, ad esempio, la stanza proibita, in cui l’eroe vede il ritratto di una bella fanciulla: allora egli parte a cercarla. Vediamo dunque che nella tipica fiaba di magia tutto l’esordio ha la funzione di allontanare l’eroe di casa. Possiamo affermare che l’esordio è costituito da quegli elementi che preparano la disgrazia (allontanamento, divieto e infrazione), dalla disgrazia stessa o dalla mancanza a essa corrispondente, dalle richieste di aiuto o dalla missione che viene affidata all’eroe, o dal desiderio dell’eroe stesso di reagire. Egli chiede il permesso di andar via, chiede la benedizione ecc. Infine, l’eroe si allontana da casa. 1.4. I tipi di eroe Abbiamo esaminato alcuni casi tipici di disgrazia in quanto tale, ma non abbiamo prestato attenzione all’oggetto della disgrazia. La situazione iniziale presenta uomini appartenenti a due generazioni – i vecchi e i giovani – e la disgrazia può colpire tanto gli uni quanto gli altri. Questo, come vedremo, non influisce sullo sviluppo dell’intreccio ma si riflette sul carattere, sulla tipologia dell’eroe. In un caso l’eroe parte spinto dal proposito di metter fine alla disgrazia altrui. Egli

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cerca la principessa o la regina rapita, va a combattere contro il drago, va a cercare le mele della giovinezza per il padre ecc. È l’eroe-cercatore. In questa categoria si può anche far rientrare l’eroe che parte per cercarsi una fidanzata. L’altro caso è quello in cui l’eroe viene cacciato di casa, come la figliastra o il bambino preso dalla strega o la bambina maldestra (kosorucˇka). A volte si verifica il rapimento – come per la povera Teresecka – ma nessuno va a cercare la vittima. Questo tipo di eroe può essere definito eroe-vittima. La fiaba può cominciare non solo da una disgrazia o da una mancanza, ma anche in altri modi (come, ad esempio, la fiaba di Sivko-Burko), ma di questi casi ci occuperemo più avanti. 1.5. I donatori Di tutta l’azione, il momento più teso e acuto per l’eroe è quello che segue l’uscita di casa. Egli va alla ventura, senza conoscere né la via né la meta. (...). La struttura compositiva della fiaba di magia è caratterizzata dalla presenza di due regni. Uno è quello da cui la fiaba comincia: “In un certo reame, in un certo Stato...”. Vi sono narratori che aggiungono: “proprio quello in cui viviamo noi”. A questo reame se ne contrappone un altro, che si trova “ai confini della terra” (za tridevjat’ zemel’) e che si chiama “ultimo dei reami” (tridesjatoe carstvo). La baba-jaga è la guardia di confine, vigila sull’ingresso di quel mondo lontano. Per accedervi bisogna passare attraverso la sua piccola izba. (...) In questa piccola capanna vive la jaga. La jaga è un personaggio assai complesso e non certo univoco. (...) La funzione principale della jaga, dal punto di vista dello sviluppo dell’azione, sta nel fatto che dà all’eroe il mezzo magico o l’aiutante magico, e l’azione entra in una nuova fase. La jaga appartiene alla categoria dei donatori. L’incontro con il donatore è una forma canonica di sviluppo dell’azione. L’eroe lo incontra sempre casualmente, ed è lui che gli fa guadagnare o gli procura il mezzo magico. Il possesso del mezzo magico predetermina il successo e la conclusione dell’azione. (...) La jaga non è certo l’unico donatore. Vi sono figure che le sono simili di carattere, e, forse, ne rappresentano una forma un po’ più dolce. Sono vecchietti e vecchiette di ogni genere, incontrati per caso: indicano la strada e qualora non diano direttamente il mezzo o l’aiutante magico, suggeriscono il modo per trovarlo (ad esempio, come ottenere o far nascere un cavallo magico e così via). Vi sono anche donatori di tutt’altro tipo. Tra questi figurano gli animali riconoscenti. (...) Non è qui necessario elencare tutti i personaggi con la funzione di aiutante, è importante piuttosto chiarire che il punto di vista dello sviluppo dell’azione appartengono tutti alla stessa categoria: con il loro aiuto l’eroe riceve il mezzo magico, sottoponendosi a volte preventivamente a una prova (funzioni di prova e di conseguimento del mezzo magico). (...) 1.6. Gli aiutanti e i mezzi magici Il donatore, quindi, incontra l’eroe per caso: è la forma canonica della sua comparsa. Mediante la consegna del mezzo o dell’aiutante magico s’introduce un personaggio nuovo. Se è un essere vivente, un uomo, uno spirito, un animale, pos-

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siamo definirlo aiutante magico; se si tratta di un oggetto sarà un mezzo magico. Le loro funzioni sono uguali. Tanto il cavallo quanto il tappeto volante portano l’eroe in un altro regno. Tra gli aiutanti magici la forma più antica è senza dubbio l’uccello, che nella fiaba di solito è un’aquila o un qualche uccello fantastico. (...) Gli aiutanti, in tutta la loro molteplicità, sono accomunati dalla stessa identità funzionale, ossia anche se hanno forme diverse compiono azioni simili. Vedremo poi in che modo aiutano l’eroe. Nella stessa categoria degli aiutanti magici si possono far rientrare anche gli oggetti magici. Nella fiaba gli oggetti agiscono esattamente come esseri viventi e da questo punto di vista li possiamo convenzionalmente chiamare “personaggi”. Ad esempio, la spada magica ferisce il drago, lo taglia a pezzettini e indica la strada all’eroe. Se il mondo degli aiutanti delle fiabe è ricco, la quantità d’oggetti magici è quasi incommensurabile. Non esiste oggetto che in date circostanze non possa avere una connotazione magica. (...) Se le forme degli oggetti e degli aiutanti magici sono assai varie, al contrario le loro azioni sono assai limitate. L’uniformità delle azioni è mascherata sotto la molteplicità degli esecutori e delle forme di esecuzione. (...) Ma a questo punto bisogna correggersi: non si può dire che l’eroe cammina, ma piuttosto (ben più sovente) che vola. È la prima funzione dell’aiutante, ovvero del mezzo magico; trasporta l’eroe in volo coprendo enormi spazi. Possiamo dunque identificare la funzione del trasferimento. L’oggetto delle ricerche si trova “ai confini della terra”, “nell’ultimo dei reami”. La struttura compositiva della fiaba si fonda in buona parte sulla presenza di due mondi: uno reale, presente, e un altro magico, fiabistico, ossia irreale, in cui tutte le leggi terrestri risultano inoperanti e ne regnano invece altre. (...) La funzione dello spostamento dell’eroe in un altro regno la indicheremo sinteticamente come “trasferimento”. Il trasferimento dell’eroe è una delle funzioni principali dell’aiutante. 1.7. Lo scioglimento L’ultimo dei regni non viene mai descritto in termini concreti. Esteriormente non si distingue in nessun modo dal nostro. (...) È là che l’eroe deve affrontare la lotta col nemico; la sua forma più terribile è la lotta contro il drago, motivo internazionale, che la fiaba russa contiene con maggior frequenza e sviluppo. La vittoria sul drago non sarebbe certamente possibile in assenza dell’aiutante o di un’arma magica. (...) Seguendo lo sviluppo dell’azione, individuiamo la funzione di lotta o combattimento e quella di vittoria. La vittoria sul drago determina la liberazione della ragazza da lui rapita o reclusa. Questa funzione è accoppiata a quella di rapimento, e può dunque considerarsi uno scioglimento. Che l’oggetto ricercato sia prodigioso – come l’uccello di fuoco, le mele della giovinezza, l’acqua della vita – o meno, dal momento in cui viene raggiunto si ha, di norma, il ritorno dell’eroe. La lotta o il combattimento, in questi casi, non sono un elemento essenziale. Naturalmente il ritrovamento della persona, della principessa, della fanciulla cercata deriva dal corso degli avvenimenti come conseguen-

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za della vittoria. Ma nei casi in cui non c’è lotta (di norma questa possibilità è correlata al tipo di mancanza della situazione iniziale), l’oggetto ricercato deve essere preso e portato via. Osservando le forme che può avere l’appropriazione dell’oggetto, vedremo che si tratta anche in questo caso di un furto o di un rapimento. Il compito si riduce a ingannare i guardiani, addormentare o domare i leoni e il drago o a stare attenti a non svegliarli, non far vibrare le corde tese alle pareti. L’eroe prende sempre l’oggetto personalmente, l’aiutante di solito gli insegna come si fa. Oltre al furto di un oggetto, può esserci il rapimento di una persona. Così, per rapire la principessa, il cavallo si trasforma nel più misero dei vecchi e si mette a chiedere l’elemosina. “Mentre la bella fanciulla tirava fuori il borsellino coi soldi, saltò fuori Ivan figlio di contadino, la prese tra le braccia, e le tappò la bocca con tale forza che non poteva emettere nemmeno il più piccolo suono” (tipo 531, Af. 185). Il furto o rapimento non è l’unica forma di scioglimento, ma è quella principale. Grazie ai mezzi magici, l’eroe esce dalla situazione di disgrazia in un modo che ha una diretta corrispondenza con la situazione iniziale dell’intreccio. Chi è stato rapito, o colui che è stato ricercato, viene ritrovato, chi è stato stregato viene disincantato, chi è stato ucciso viene resuscitato, il recluso viene liberato ecc. (...) Abbiamo affermato che il ritrovamento della fanciulla può avere due valenze: o viene liberata (e allora la comparsa dell’eroe per lei è una fortuna e una liberazione) o, al contrario, è portata via di forza. Per la struttura compositiva questo non ha importanza, poiché in entrambi i casi al ritrovamento segue il matrimonio, ma tale matrimonio a volte viene preparato da azioni particolari che rappresentano l’inizio delle complicazioni. 1.8. Le complicazioni Nei casi in cui l’eroe trova la principessa tenuta prigioniera dal drago e chiacchiera con lei in attesa del suo ritorno, a volte sprofonda in un sonno da bogatyr’ da cui non si riesce a svegliarlo. “La principessa Marfa aveva un coltellino temperamatite, col quale fece un taglietto sulla guancia del principe Ivan. Lui si svegliò, saltò ritto in piedi e si batté col drago” (tipo 507, Af. 125). L’importanza di questo evento viene riconosciuta solo in seguito: l’eroe sarà riconosciuto dal taglio che gli ha fatto la principessa. Possiamo dunque identificare la funzione di marchiatura dell’eroe. (...) Questa funzione preannuncia una complicazione, una separazione (...). Dopo il rinvenimento dell’oggetto delle sue ricerche, l’eroe torna. Il ritorno è identificabile come funzione. Il ritorno può consistere nel ritorno a casa, e con esso la fiaba finisce. Ma non è affatto detto che sia sempre così. A volte il ritorno assume l’aspetto di una fuga, e questa è in rapporto diretto col rapimento o furto come forma di appropriazione. Può succedere che sulla via del ritorno l’eroe venga inseguito, ma dall’inseguimento si salva sempre. Le forme d’inseguimento o fuga, e di vittoria sull’inseguitore sono molto varie. (...) Ma anche dopo il salvataggio riuscito dall’inseguimento, il destino dell’eroe non è ancora definitivamente determinato. È vero che giunge a casa, o meglio fino alle porte della città, o in un campo non lontano da casa. Sfortunatamente, là incontra i suoi fratelli che hanno fallito e cattivi. L’eroe per qualche motivo (la

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fiaba non dà molte motivazioni razionali) proprio in quel momento si stende a riposare e si assopisce. I fratelli gli rubano immediatamente tutto ciò che porta con sé (fidanzata, oggetti prodigiosi ecc.) e lui o è ucciso oppure è gettato in un profondo burrone. La fiaba, in sostanza, ricomincia da capo. La disgrazia che affligge ora l’eroe dà inizio a una serie di avvenimenti analoghi a quelli iniziali. Lo sviluppo segue lo stesso corso. L’eroe nuovamente acquisisce e utilizza il mezzo magico ecc. Questo significa che la fiaba può essere costituita da due o più parti che chiamiamo movimenti. Incomincia in certo senso un altro ciclo di avventure, un altro movimento, o concatenazione di eventi che culminano di nuovo col ritorno dell’eroe. Questa volta l’eroe, in realtà, giunge a casa ma non si fa riconoscere e si ferma a vivere nella casa di qualche calzolaio o orefice o entra al servizio del re come stalliere, cuoco, giardiniere ecc. Ecco la funzione dell’arrivo in incognito. Nel frattempo i suoi fratelli o altri falsi eroi, essendosi appropriati dei suoi oggetti e della fidanzata, si arrogano anche i suoi diritti: chiedono la mano della principessa. Questa è la funzione delle pretese infondate del falso eroe. In altra forma, vediamo esemplificata tale funzione nei casi in cui dopo la battaglia col drago un qualche generale o condottiero spia, da dietro un cespuglio, la scena dell’eroe che uccide il drago. L’eroe si addormenta, il falso eroe rapisce la principessa liberata e si spaccia per il vincitore. 1.9. Il compito difficile Comunque sia, la principessa non si sposa con il ladro. Per sottrarsi al falso eroe, chiede che siano assolte alcune condizioni, sapendo che il falso eroe non è in grado di farlo: lo può fare solo il vero eroe, che possiede i mezzi magici. Il compito difficile ha lo scopo non solo di scoraggiare il falso eroe, ma anche di scoprire, di attirare, di trovare il vero eroe. Il motivo del compito difficile è uno dei più popolari della fiaba di magia. Trovare il vero eroe è solo una delle tante possibili motivazioni del compito. Nella fiaba Sivko-Burko il compito viene dichiarato pubblicamente con bando a tutto il popolo. La richiesta di adempimento del compito può non essere motivata da un rapporto di diffidenza della fanciulla verso il falso fidanzato, ma da una diffidenza generale per qualunque eventuale fidanzato. In tal modo si sottolinea la totale inaccessibilità della fidanzata. In questo caso il compito può essere affidato non dalla principessa ma da suo padre. Il contenuto dei compiti è molto vario. Funzionalmente sono tutti uniti da un elemento: sono eseguibili solo dall’eroe che possiede proprio il mezzo o l’aiutante magico corrispondente al compito da svolgere. (...) In tutti i casi viene messa alla prova l’attrezzatura magica dell’eroe; ma proprio grazie a questa attrezzatura magica egli esegue sempre il compito. È indispensabile rilevare che il motivo del compito difficile non è sostituibile col motivo della lotta contro il drago o delle corrispondenti forme di lotta. In base a questo criterio si possono identificare due tipi di fiabe: quelle che si sviluppano mediante il motivo della lotta e quelle che si sviluppano attraverso il motivo del compito difficile. Se i due tipi sono fusi in un solo testo, la fiaba forma allora due movimenti: il primo si sviluppa con la lotta, il secondo con il compito

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difficile. Si può identificare ancora un terzo tipo, che non comprende nessuno di questi due motivi, ad esempio il ciclo di fiabe sulla matrigna e la figliastra. Tale osservazione potrebbe dare inizio a una classificazione e a una sistematizzazione scientifica della fiaba di magia. 1.10. Il matrimonio e l’incoronazione dell’eroe La fiaba ora può passare alle nozze e all’incoronazione dell’eroe. Prima però devono ancora svilupparsi alcuni motivi che esigono di essere portati a termine. L’esecuzione di un compito difficile naturalmente fa sì che l’eroe nascosto sia riconosciuto (identificazione). Può essere riconosciuto dal marchio in fronte, dalla stella, dalla ferita, dal fazzoletto ecc. Il falso eroe, invece, è smascherato (smascheramento) e punito (punizione). La punizione è sempre menzionata molto di sfuggita, mentre lo smascheramento a volte è elaborato in forme più complesse, al punto che tutto viene raccontato nuovamente dall’inizio in presenza del falso eroe, che con tale racconto svela la sua vera identità. Lo scioglimento finale non ha ormai più ostacoli. L’eroe si sposa ed è incoronato davvero. Fino a quel momento egli a volte cambia aspetto, cambia sembianze in modo miracoloso (trasfigurazione). Ad esempio, passa attraverso le orecchie del cavallo, oppure fa il bagno nel latte bollente e ne esce bello e giovane. 1.11. L’unità della struttura compositiva e la molteplicità degli intrecci Questa è la struttura interna, la struttura compositiva della fiaba di magia. Lo schema esposto è l’unità di misura mediante la quale le fiabe possono essere identificate come fiabe di magia in modo non approssimativo, con una sufficiente precisione scientifica. Le fiabe di magia si distinguono dalle altre non in base al criterio del “fantastico” o del “magico” (queste caratteristiche sono applicabili anche ad altri tipi di fiaba), ma in base alle particolarità della struttura compositiva che la distinguono dagli altri tipi di fiaba. Perciò la struttura compositiva delle fiabe di magia è sempre la stessa. In questo consiste la loro uniformità, la loro costante. Non in tutte le fiabe figurano tutte le funzioni. O meglio, la totalità delle funzioni è individuata solo per via comparativa. La scelta della funzione e della forma determina l’intreccio, in altre parole un certo schema compositivo fonde insieme una grande quantità di intrecci diversi costruiti su una stessa base. Perciò le fiabe sulla matrigna e la figliastra sono costruite sull’allontanamento da casa (disgrazia iniziale), l’invio, la messa alla prova, la ricompensa e la punizione, il ritorno; altre, come la fiaba della lotta contro il drago, sono costruite sul rapimento, il richiamo dell’eroe, l’invio, la lotta contro il drago e il ritorno; altre ancora, come Sivko-Burko, su un compito difficile, la messa alla prova e la ricompensa, l’adempimento del compito, il matrimonio e l’incoronazione, e così via. Vediamo dunque che l’uniformità della struttura compositiva lascia molto spazio alla creatività. È tuttavia straordinario che l’autentica fiaba folclorica russa, che sfrutta ampiamente tutte le possibilità creative offerte da questo genere letterario, non infranga mai la legge stessa dell’uniformità. Ciò significa che la fiaba di magia rappresenta un’unità, che i suoi intrecci sono legati tra loro. Perciò il metodo della scuola finnica che suddivide tutto il contenuto delle fiabe in intrecci o tipi (l’in-

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dice di Aarne), e studia ogni tipo separatamente, è viziato alla base. Al contrario, tutti gli intrecci sono in rapporto strettissimo tra loro e devono essere studiati in questo rapporto; lo studio interno di ciascun intreccio e possibile solo sulla base dello studio degli intrecci nel complesso. Quanto qui esposto si potrebbe definire sintassi della fiaba (...). 2. La fiaba cumulativa russa 2.1. In ogni scienza vi sono piccoli problemi i quali peraltro possono avere una grande importanza. Nel folclore uno di tali problemi è quello delle fiabe cumulative. La cerchia dei problemi legati allo studio di queste fiabe è molto ampia. Uno tra essi è quello della classificazione scientifica delle opere di prosa popolare. Quali fiabe si debbano chiamare cumulative è una questione che finora ha avuto le risposte più disparate. Andreev [1929] quando tradusse in lingua russa l’indice degli intrecci di fiabe di Aarne e lo completò con nuovi tipi, v’introdusse di propria iniziativa un tipo sintetico, sotto il numero 2015 I (2016, 2018), e lo denominò Kumuljativnye (cepnye) skazki raznogo roda [Fiabe cumulative (a catena) di vario genere]. Sono indicati in tutto tre esempi, e mancano riferimenti alle raccolte di favole russe. Nel 1928 lo studioso americano Stith Thompson tradusse l’indice di Aarne in inglese e lo completò. Qui per le fiabe cumulative sono già previsti duecento numeri (2000-2199: Cumulative Tales). Ma non tutti i numeri sono effettivamente riempiti, e sono indicati ventidue tipi. Questi numeri rimangono nell’ultima edizione dell’indice pubblicato nel 1964. Sono riempiti quasi tutti i numeri previsti (cfr. Aarne 1911; Andreev 1929; Aarne, Thompson 1928). L’indice di Aarne-Thompson è utile come prontuario empirico dei tipi esistenti di fiabe. È stato tradotto in molte lingue, e l’esistenza di un unico sistema internazionale permette di orientarsi con più facilità. D’altro lato, però, quest’indice è decisamente dannoso, poiché suggerisce idee confuse e completamente sbagliate sul carattere e la composizione del repertorio favolistico. Si è commesso un elementare errore logico: le rubriche sono stabilite secondo caratteristiche che non si escludono a vicenda, di conseguenza abbiamo la cosiddetta classificazione incrociata. Ad esempio, la rubrica delle fiabe sugli animali è organizzata secondo il carattere dei personaggi, mentre la rubrica delle favole di magia è organizzata secondo il carattere della narrazione, secondo lo stile. Tra le favole di magia sono previste, ad esempio, rubriche come “fiaba dell’avversario portentoso” e “fiaba dell’aiutante portentoso”. Ma come fare con le fiabe in cui l’aiutante portentoso aiuta nella lotta contro l’avversario portentoso? La comparsa, nelle ultime edizioni, della rubrica delle fiabe cumulative introduce un altro principio nuovo: esse sono organizzate e definite secondo la propria composizione. Tralasciamo la critica della rubricazione del vastissimo materiale favolistico in questo indice, poiché è stata fatta più volte. Il difetto principale è che qui sono state violate le regole della logica sui principi di classificazione. Una norma elementare esige che in ogni classificazione le rubriche debbano essere definite

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secondo caratteristiche che si escludono a vicenda. Nell’indice di Aarne questa regola non è rispettata, e si ha un esempio tipico della cosiddetta classificazione incrociata. Queste classificazioni non hanno valore conoscitivo, benché in mancanza di una vera classificazione scientifica a volte possano essere empiricamente utili. Nel catalogo di Aarne-Thompson come punto di riferimento può servire il particolareggiato indice alfabetico degli argomenti allegato al catalogo e non la classificazione. La classificazione scientifica non deve violare le regole della logica. Trovare una classificazione scientifica per un materiale così eterogeneo, instabile e vario come le fiabe è molto difficile, eppure bisogna tentare di farlo: bisogna porre la prima pietra. Penso che una fiaba debba essere definita e classificata in base alle proprie caratteristiche strutturali. Nel libro Morfologija skazki [Morfologia della fiaba] (Propp 1928) ho tentato di distinguere, secondo le caratteristiche strutturali, la classe delle fiabe di solito chiamate di magia. È lecito supporre che il principio della definizione delle fiabe secondo le caratteristiche strutturali possa essere posto a base della futura classificazione scientifica delle fiabe in generale; a questo scopo bisogna studiare diversi tipi di strutture di fiaba. Nelle ultime edizioni del catalogo di Aarne le fiabe cumulative sono definite appunto secondo il carattere della loro struttura; qui si è tentata una via giusta, ma la si è solo tentata. Infatti, quali fiabe si debbano chiamare cumulative è una questione che rimane oscura, e con ciò si spiega il fatto che una grande quantità di fiabe cumulative è dispersa in altre rubriche e viceversa: non tutte le fiabe incluse nel gruppo delle fiabe cumulative in realtà appartengono a esse. Il sistema di Aarne, con la sua classificazione incrociata, non permette di dare un’esatta e univoca distinzione e definizione dei generi: il tentativo dei traduttori d’inserire in quest’indice varie correzioni ha un carattere di compromesso. Qui non occorrono correzioni, ma è necessario un sistema sostanzialmente nuovo di classificazione, basato sullo studio della poetica della fiaba. Prima di affrontare direttamente il problema della catalogazione delle fiabe cumulative, bisogna dare una pur preliminare definizione di ciò che sarà inteso col termine “fiaba cumulativa”. A questo proposito mancano unità e chiarezza di opinioni. Nell’indice di Aarne redatto da Thompson si trova il termine “fiabe cumulative”, ma manca la definizione di ciò che s’intende con questo termine. Moltissime fiabe cumulative, com’è stato già detto, sono disperse in altri gruppi (soprattutto nella serie delle favole sugli animali) e viceversa: non tutte le fiabe collocate nella rubrica delle fiabe cumulative in realtà lo sono. Questo stato di cose riflette la confusione che a questo proposito regna nel folclore moderno. La letteratura dedicata alle fiabe cumulative è assai vasta, ma non c’è una definizione universalmente accettata di questo concetto. La storia dello studio è ottimamente esposta nel libro di Martti Haavio Kettenmärchenstudien (FFC, n. 88, Helsinki 1929). Quanto grande sia ancora, tuttavia, il disaccordo nell’interpretazione dell’essenza di questo tipo di fiaba si vede, ad esempio, dall’articolo in Handwörterbuch des deutschen Märchens (Berlin-Leipzig 1924), dove Taylor, autore dell’articolo Formelmärchen, sostiene che le fiabe cumulative nascono sulla base degli incubi visti in sogno (pp. 166, 325). Eppure l’autore possiede

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un’enorme erudizione in materia. Criticare questo punto di vista non è neppure necessario. 2.2. Prima di cominciare lo studio delle fiabe cumulative dobbiamo definire, almeno in via preliminare, che cosa s’intende con questo termine. Non cercheremo di dare formulazioni astratte, ma di caratterizzare in modo più o meno esatto questo genere nell’ambito di una cultura nazionale. Se questo tentativo riuscirà, i suoi risultati potranno essere applicati allo studio della creazione artistica di altri popoli, il che creerà la base per lo studio completo storico-comparato di questo genere letterario e permetterà un certo progresso nella classificazione scientifica e nella catalogazione delle favole. Il procedimento artistico fondamentale di queste fiabe consiste nel fatto che gli stessi atti o elementi sono ripetuti più volte finché la catena creatasi in tal modo non si spezza o si disfa o si scioglie nel senso inverso, decrescente. L’esempio più semplice di fiaba cumulativa è la favola russa Repka [La rapa]. Un vecchio vuole raccogliere la rapa che ha seminato, ma non riesce a tirarla fuori della terra. Chiama in aiuto la moglie, poi la nipotina, poi varie persone ancora e infine il cane. L’aggiunta di ogni nuovo personaggio è descritta con espressioni assolutamente identiche. La storia finisce che grazie allo sforzo di tutta la rapa è tirata fuori della terra. In alcuni casi è sottinteso che a questo punto tutti cadono. La fiaba è tutta qui. In questo caso abbiamo una catena di corpi umani (col cane che termina questa catena). A questa fiaba è perfettamente applicabile la denominazione tedesca delle fiabe del genere, Kettenmärchen, fiabe a catena. Però, a ben guardare, questa denominazione è troppo stretta. Le fiabe cumulative sono costruite non solo secondo il principio della catena, ma anche secondo varie forme di aggiungimento o accrescimento che finiscono con qualche allegra catastrofe. In inglese esse sono collocate nella categoria delle formula-tales e vengono chiamate cumulative, accumulative stories (in connessione con la parola latina cumulare). In tedesco, oltre il termine Kettenmärchen, ci sono dei termini più felici, come Häufungsmärchen, fiabe d’accumulazione, oppure Zählmärchen, fiabe d’enumerazione. In francese esse si chiamano randonnées (girare attorno allo stesso luogo). Non tutte le lingue hanno elaborato una denominazione speciale per queste fiabe. Gli esempi citati dimostrano che in tutte le espressioni usate si accenna a un’accumulazione. Nell’accumulazione, varia di forma, consiste tutto l’interesse e tutto il contenuto di queste fiabe. Esse non contengono alcun “avvenimento” interessante o significativo dal punto di vista dell’intreccio. Al contrario, questi avvenimenti sono insignificanti (oppure cominciano come insignificanti) e la futilità loro a volte fa da contrasto comico al mostruoso crescendo delle conseguenze che ne derivano e alla catastrofe finale (all’inizio si rompe un uovo, alla fine brucia tutto il villaggio). In primo luogo rivolgeremo l’attenzione al principio compositivo di queste fiabe. Tuttavia bisogna prendere in considerazione la loro veste verbale, nonché la forma e lo stile dell’esecuzione. Sostanzialmente si possono individuare due tipi di fiabe cumulative. Un tipo, seguendo l’esempio del termine inglese formulatales, si può chiamare fiaba-formula. Esse sono infatti una pura formula, un puro

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schema. Si dividono tutte in anelli sintattici uguali che si ripetono. Tutte le frasi sono molto brevi e hanno la stessa struttura. Le fiabe dell’altro tipo sono composte di anelli epici identici, ma ogni anello può ricevere forma sintattica diversa e più o meno particolareggiata. Il termine fiabe-formula a esse non si addice, benché per la composizione appartengano alle fiabe cumulative. Esse vengono narrate con calma epica, nello stile delle favole di magia o delle altre fiabe in prosa. Come esempio di questo tipo di fiaba cumulativa può servire la favola Mena [Lo scambio]: il protagonista scambia il cavallo con una vacca, la vacca con un maiale ecc. (Andr., Thomps, 1415) fino ad arrivare a un ago che egli perde, cosicché torna a casa a mani vuote. Queste fiabe, a differenza delle fiabe-formula, possono essere chiamate epiche. Il principio compositivo (cumulazione) in entrambi i casi è lo stesso, e ciò spiega il fatto che qualche volta la fiaba-formula possa essere raccontata “epicamente” e viceversa. In genere, tuttavia, si deve notare che ogni tipo tende a varie tecniche d’esecuzione. Inoltre si deve tener conto del fatto che le fiabe-formula possono assumere la forma non solo di poesia ma anche di canzone. Queste fiabe si possono trovare sia nelle raccolte di fiabe che nelle raccolte di canzoni. Ad esempio, nella raccolta di canzoni di P. V. Sejn Velikoruss v svoich pesniach, obrjadach, obyc´ajach... [Il grande russo nelle sue canzoni, cerimonie, abitudini...] (San Pietroburgo 1898) ci sono canzoni la cui composizione è basata sulla cumulazione. Più avanti citeremo esempi di questa raccolta che rispondono alla nostra definizione delle fiabe cumulative. Però noi non annoveriamo tra i cumulativi quei testi che sono composti di sole enumerazioni senza un principio e una fine narrativi. Ad esempio, nella canzone 984 sono enumerati i nomi di oltre settanta uccelli, ognuno dei quali occupa una carica nel regno degli uccelli (l’aquila è il re, il pavone è il generale, il pappagallo è lo scrivano, i cigni sono i principi e così via). Questa non è una narrazione. La composizione delle fiabe cumulative, indipendentemente dalla forma d’esecuzione, è di estrema semplicità. Essa consta di tre parti: l’esposizione, la cumulazione e il finale. L’esposizione è composta per lo più di un avvenimento insignificante o di un’elementare situazione di vita quotidiana: un vecchio semina la rapa, una vecchia prepara un tortello, una ragazza va al fiume per risciacquare la scopa, si rompe un uovo, un contadino prende di mira una lepre ecc. Tale esposizione non può essere chiamata annodamento dell’azione, poiché l’azione non si dispiega dall’interno, ma dall’esterno, per lo più in modo del tutto fortuito e inatteso. In questo elemento dell’inatteso sta uno dei principali effetti artistici di tali fiabe. All’esposizione segue la catena. I modi di collegare la catena all’esposizione sono estremamente numerosi. Facciamo alcuni esempi, senza tentare, per ora, alcuna sistematizzazione. Nella già ricordata favola sulla rapa (Andr. 1960, *D I; Thomps. 1960) la creazione della catena è dovuta al fatto che la rapa è radicata forte nella terra, non è possibile tirarla fuori e così vengono chiamati in aiuto personaggi sempre nuovi. Nella favola Terem muchi [La casetta della mosca] (Andr., *282) una mosca si costruisce una casetta o va ad abitare in un guanto abbandonato o in un teschio ecc. Ed ecco che uno dietro l’altro, in ordine crescente di grandezza, arrivano gli animali e chiedono asilo nella casetta: prima un pidocchio, una pulce, una zanzara, poi una ranocchia, un topolino, una lucertola, poi ancora una lepre, una

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volpe e altri animali. Ultimo viene l’orso che conclude tutto sedendosi sulla casetta e schiacciando tutti. Nel primo caso (Repka) la creazione della catena è motivata e intrinsecamente necessaria, nel secondo (Terem muchi) non c’è alcuna necessità logica nella comparsa di animali sempre nuovi. Secondo questa caratteristica si potrebbero distinguere due tipi di queste favole. Domina il secondo: l’arte di queste favole non esige alcuna logica. Per l’individuazione dei tipi di fiabe cumulative questa differenza non ha importanza sostanziale, e noi non la faremo. I principi secondo i quali cresce la catena sono estremamente vari. Ad esempio, nella fiaba Petus´ok podavilsja [Il galletto soffocato] (Andr., *241, I; Thomps., 2021) abbiamo una serie di rimandi: il galletto manda la gallina dal fiume a prendere acqua, il fiume la manda dal tiglio a chiedere una foglia, il tiglio la manda da una ragazza a prendere del filo, la ragazza la manda dalla mucca a chiedere del latte e così via, e non c’è alcuna logica nel rapporto tra i personaggi e gli oggetti a cui essi mandano (il fiume, ad esempio, manda a prendere delle foglie). La logica qui non è necessaria e perciò non la si cerca neppure. Altre favole sono costruite su una serie di scambi o sostituzioni, e lo scambio può avvenire in ordine crescente dal peggio al meglio o, al contrario, in ordine decrescente dal meglio al peggio. Per esempio, la fiaba Za kurocˇku utocˇku [Un’anatra in cambio di una gallina] racconta che una volpe per la sua gallina di cui si dichiara derubata (ma che invece lei stessa si è mangiata) chiede un’ochetta, per un’ochetta una tacchina ecc. (Andr., Thomps., 170). Invece nella già citata favola Mena (Andr., Thomps., 1415) il cambiamento avviene dal meglio al peggio. Un contadino, dopo aver guadagnato un lingotto d’oro, lo scambia con un cavallo, il cavallo con una vacca, la vacca con un maiale ecc. fino ad arrivare a un ago che egli perde, e perciò torna a casa a mani vuote. Lo scambio crescente può avvenire nella realtà oppure è solo immaginato. Un contadino, prendendo di mira col fucile una lepre, immagina di venderla e di comperarsi col ricavato un porcellino, poi una vacca, poi una casa e infine di sposarsi ecc. La lepre scappa (Andr., 1430 *A, Thomps., 1430). In una favola europea occidentale, in modo analogo fantastica una lattaia, portando sulla testa una brocca di latte per venderlo. La brocca cade e si rompe, e insieme a essa vanno in frantumi i suoi sogni. Una serie di fiabe cumulative è costruita sulla comparsa successiva di ospiti inattesi ecc. Dal contadino o dalla contadina si fanno invitare sulla slitta la lepre, la volpe, il lupo, l’orso. La slitta si rompe. Caso analogo: il lupo chiede di appoggiare sulla slitta una zampa, poi un’altra, poi la terza, poi la quarta. Quando vi mette anche la coda, la slitta si rompe (Andr., Thomps., 158). Caso inverso: il cinghiale, il lupo, il toro, l’orso non riescono a scacciare una capra petulante che ha occupato la casetta di un leprotto. Riesce a scacciarla invece una zanzara (un’ape, un riccio; Andr., 212). Un tipo particolare costituiscono le fiabe basate sulla creazione della catena di corpi umani o animali. I lupi si mettono uno sull’altro per mangiare un sarto arrampicato sull’albero. Il sarto: “Quello che sta sotto la pagherà più salata!” Il lupo che sta sotto a tutti scappa spaventato, e gli altri cadono (Andr., Thomps., 121). Gli abitanti di Posˇechon´e vogliono prendere acqua da un pozzo. Il pozzo non ha la catena, ed essi si attaccano uno all’altro. L’ultimo in basso vorrebbe già attinger l’acqua,

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ma il primo in alto non ce la fa più a reggere il peso. Apre le mani per sputarvi sopra e tutti cadono nell’acqua (Thomps., 1250). Infine si può individuare un particolare gruppo di fiabe nelle quali tutti i personaggi aggiunti si struggono per delle sciocchezze. Si rompe un uovo. Piange il vecchio, lo imitano la moglie, la perpetua, il sagrestano, lo scrivano, il prete, i quali non solo versano lacrime, ma esprimono la loro desolazione con qualche atto assurdo: stracciano i libri di chiesa, suonano le campane ecc. Tutto finisce con l’incendio della chiesa o addirittura di tutto il villaggio (Andr., *241, III). Una ragazza piagnucolona va al fiume per sciacquare la scopa. Guardando l’acqua si figura questo quadro: “Se avrò un figlio, questi annegherà”. Al suo pianto si uniscono una paesana, la madre, il padre, la nonna ecc. Il fidanzato la lascia (Andr., Thomps., 1450). Tra le fiabe cumulative si possono annoverare anche quelle in cui tutta l’azione si fonda su diversi tipi di dialogo comico e senza fine. Come esempio si può citare il dialogo Bene ma male. I piselli crescono troppo radi (male), sono radi ma coi baccelli ben grossi (bene) ecc., senza un particolare legame tra gli anelli (Andr., Thomps. 2014). Dotate di un sistema compositivo estremamente ben delineato, le fiabe cumulative differiscono dalle altre anche per lo stile, per la veste verbale e per la loro forma d’esecuzione. Tuttavia, bisogna tener conto che per la loro forma d’esecuzione e per lo stile queste fiabe, com’è stato detto, si dividono in due tipi. Alcune sono raccontate con calma e lentezza epiche, come tutte le altre fiabe. Esse possono essere chiamate cumulative solo in base alla loro composizione. Appartiene a questo tipo, ad esempio, la favola già ricordata Mena che di solito viene annoverata tra le fiabe novellistiche, oppure la favola Za skalocˇku utocˇku [L’anatra in cambio del mattarello] che negli indici viene annoverata tra le fiabe sugli animali. Allo stesso tipo “epico” appartengono le favole del ragazzo d’argilla che divora tutto sul suo cammino, della lattaia sognatrice, della catena di scambi dal peggio al meglio o dal meglio al peggio, ricordate sopra. Le altre favole sono caratterizzate da una tecnica narrativa peculiare e tipica. In esse all’accumulazione o all’accrescimento degli eventi corrisponde l’accumulazione e la ripetizione di unità sintattiche perfettamente uguali che si distinguono solo per la denominazione di sempre nuovi soggetti o oggetti o di altri elementi sintattici. L’aggiunta di nuovi anelli in questi casi può effettuarsi in due modi: in un caso gli anelli vengono enumerati uno dopo l’altro. L’altro tipo di aggiunta è più complesso: quando s’aggiunge un nuovo anello, si ripetono tutti i precedenti. Come esempio di questo tipo può servire la fiaba Terem muchi (Andr., 282). Ogni nuovo venuto domanda: “Casa-casetta, chi abita qui?”. Chi risponde enumera tutti i già arrivati, cioè prima uno, poi due, poi tre e così via. In questa ripetizione sta il fascino di queste fiabe, e il loro senso è riposto nell’esecuzione vivace ed espressiva. In questo caso ogni animale è caratterizzato da una parola spiritosa, di solito in rima: il pidocchio-strisciatore (vosˇ’-popolzucha), la pulce-filatrice (blocha-poprjaducha), il topo-che-si-rintana (mysˇka-norysˇka), il topolino-cosino (mysˇecˇka-tjutjurusˇecˇka), la lucertola-frusciante (jasˇcˇerka-sˇerosˇerocˇka), la rana-gracidona (ljagusˇka-kvakusˇka) ecc. La loro esecuzione richiede un’abilità non comune. Per il loro modo d’esecuzione esse si avvicinano a volte ai proverbi e a volte sono cantate. Tutto il loro interesse è rivolto alla parola espressiva come tale.

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L’accumulazione di parole è interessante solo quando le parole sono interessanti di per sé. Perciò queste favole tendono alla rima, al verso, alle consonanze e alle assonanze, e in questa tendenza gli esecutori non si fermano di fronte ai neologismi audaci. Così la lepre è chiamata fila-sul-monte (na gore uvertysˇ) o scappa-in-campagna (na pole sverten’), la volpe salta-dappertutto (vezde poskokisˇ), il topo codadietro-l’angolo (iz-za ugla chlysten’) ecc.2. Tutte queste parole sono neologismi audaci ed espressivi che sarebbe inutile cercare nei vocabolari. Tale espressività lessicale rende queste fiabe il divertimento prediletto dei bambini i quali amano tanto le parole nuove, spiritose e colorite, le filastrocche ecc. Le fiabe cumulative europee possono essere chiamate a pieno diritto genere per l’infanzia per eccellenza. Possono essere chiamate cumulative soltanto le fiabe la cui composizione è interamente basata sul principio della cumulazione. Inoltre la cumulazione può entrare come episodio o come elemento inserito nelle fiabe di qualsiasi altro sistema compositivo. Ad esempio, l’elemento di cumulazione è presente nella fiaba della principessa Nesmejana (Andr., Thomps., 559), dove un pastore fa ridere la principessa perché, grazie a mezzi magici, attacca l’uno all’altro sempre nuovi animali e persone, formando un’intera catena. Non affronteremo qui il problema delle fiabe cumulative dal punto di vista storico. Prima di fare questo tentativo è necessario dare una descrizione scientifica del materiale non nell’ambito di un solo popolo, ma nell’ambito di tutto il repertorio internazionale esistente. Vorremmo soltanto sottolineare che una descrizione esatta è il primo grado dello studio storico, e che finché non è data una descrizione scientifica sistematica del genere letterario, non si può porre il problema dello studio storico. Qui non staremo a pronosticare i modi e le vie di uno studio storico di queste fiabe. Tale studio può essere attuato soltanto sulla base di un’analisi comparata degli intrecci e dei vari complessi nazionali. Uno studio separato dei singoli intrecci o dei loro gruppi non darà risultati generali sicuri. Se si tocca il problema della forma d’esecuzione di queste fiabe, si deve anche precisare che una parte delle fiabe cumulative è rimata e a volte cantata. Alcuni casi possono essere considerati allo stesso titolo (e sono considerati sia dagli esecutori sia dai raccoglitori) o come canzoni, e allora figurano nelle raccolte corrispondenti, o come fiabe. Attualmente, poiché non si possiede un inventario delle fiabe cumulative, e spesso queste non sono neppure considerate come una categoria a sé, l’insieme dei problemi riguardanti le fiabe cumulative non può essere risolto con sufficiente completezza. Il principio di cumulazione è sentito da noi come un relitto del passato. È vero, il lettore colto moderno leggerà o ascolterà con piacere alcune fiabe di questo tipo, ammirando soprattutto il tessuto verbale di queste opere, e tuttavia queste fiabe non corrispondono più alle nostre forme di coscienza e di creazione artistica. Esse sono il prodotto di forme di coscienza più remote. Uno studio storico dettagliato di queste fiabe che comprende il materiale di vari popoli dovrà scoprire le serie qui presenti e i processi logici a esse corrispondenti. Il pensiero primitivo non conosce il tempo e lo spazio come prodotti dell’astrazione, né conosce le generalizzazioni. Esso conosce soltanto la distanza empirica nello spazio e un segmento di tempo empirico misurato dalle azioni. Nella vita e nella

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fantasia lo spazio è superato non partendo da un punto iniziale per arrivare immediatamente a quello terminale, ma attraverso i concreti punti intermediari realmente dati: così camminano i ciechi, passando da un oggetto all’altro; l’infilata non è soltanto un procedimento artistico, ma è anche una forma di pensiero che si manifesta sia nel folclore sia nel linguaggio. Nello stesso tempo la favola manifesta già un certo superamento di questo stadio. Da noi queste fiabe sono riservate ai bambini, e non se ne creano di nuove. L’arte di raccontare queste fiabe per forza viene dimenticata e va decadendo lasciando il posto a nuove forme di narrazione più rispondenti all’epoca moderna.

* Sotto questo titolo sono riuniti due diversi scritti: 1) Caratteristiche generali della fiaba di magia, stralcio del terzo capitolo di Propp 1984; 2) La fiaba cumulativa russa, costituito dalle prime due parti di Propp 1973 (pp. 87-96). 1 Cfr. Aarne 1911. I criteri classificatori di questo autore sono messi in discussione notamente da Propp 1928, p. 14 (N.d.C.). 2 Di questi neologismi, qui tradotti letteralmente, è impossibile rendere l’originalità morfologica (N.d.T.).

La battaglia di Sentino* Georges Dumézil

Alla memoria di Sven B. Norberg

Esistono elementi concordanti che ci autorizzano a pensare che “la storia” delle origini romane abbia preso la forma che conosciamo nella seconda metà del IV sec. e nel primo trentennio del III. Roma era allora troppo potente per dispensarsi dall’acquisire una nascita illustre: greci e letterati locali si adoperarono per crearla. Non certo a partire dal nulla, ma nemmeno sulla base di ricordi o di documenti storici. A partire invece da una sorta di folclore in cui si esprimeva un’antichissima concezione della società, se non addirittura del mondo. Era allora sufficiente organizzare la materia di quel folclore, quei racconti, secondo l’uso romano e inserirli nello spazio romano: da una parte i costumi civili e militari dell’epoca, velati d’antichità dalla menzione dei reges; dall’altra i luoghi circostanti con le loro popolazioni, così come li conoscevano gli autori dell’operazione. Ecco allora che una quantità di dettagli della costruzione ha assunto un’aria di verosimiglianza, che ha finito per coprire l’inverosimile di tutto l’insieme, grazie a nomi propri di popoli contemporanei e di gentes a quell’epoca o da poco importanti, e grazie anche a un’operazione di anacronistica appropriazione di alcune grandi battaglie o di recenti fondazioni. Insomma le origini di Roma sono una costruzione, nel disegno della quale, l’ideologia indoeuropea delle tre funzioni – forza sacra, forza guerriera, ricchezza e fecondità, cura della terra, massa ecc. – ancora profondamente sentite, ha giocato un ruolo direttivo: sia nella successione dei quattro tipi di re preetruschi (v. Dumézil 1969, pp. 187199), sia nella formazione di Roma attraverso l’unione di due o tre componenti etniche preesistenti, di cui ognuna ha portato la sua specificità in una delle tre funzioni (o, secondo la variante a due componenti, una in due funzioni, l’altra in una). Nella seconda parte di Mythe et Épopée, I, [Dumézil 1968], ho presentato lo stato attuale della ricerca su questi due problemi, che studio da tempo. Connessa a questo interesse per le origini, si è verificata una trasformazione circa un punto importante dell’antica teologia: il terzo dio della triade precapitolina, Quirino, che la sua definizione di terza funzione, la sua cerchia teologica e il suo rapporto etimologico con Quirites, rendevano più vicino agli uomini, è stato assimilato all’eroe cui si riconosceva il merito d’aver creato la città e la sua organizzazione sociale: Quirino è diventato Romolo morto e divinizzato. Non era facile, però, ricondurre a questo nuovo dogma tutto, ciò che si sapeva di Quirino e in particolare il suo culto, e l’attività del suo flamine. Questo dogma, infatti, non s’impose mai completamente: un’altra tesi, incompatibile con questa, si è formata anche nel bagaglio degli “storici” e ha fatto di Quirino il dio principale fra quelli giunti alla comunità romana, attraverso la sua componente sabina, di terza funzione. Quirino-Romolo e Quirino

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sabino sono coesistiti fino alla formazione dell’Impero e oltre, e questa coesistenza ha contribuito non poco ad offuscare quanto si credeva di sapere, sulla teologia di questo venerabile dio (1966, pp. 224-245). L’inizio del III secolo è dunque di grande interesse, nella storia delle idee romane, sia perché la struttura concettuale delle tre funzioni è ancora tanto forte da imporsi come schema alla storia delle origini (è così che è giunta infatti anche nei nostri manuali), sia perché questa nuova infatuazione per “la storia” vi intacca, vi altera nel suo terzo elemento la più antica espressione teologica della struttura stessa, la triade Giove Marte Quirino. In queste condizioni, sono venuti a costituirsi due racconti di battaglie, che illustrano entrambi le modalità d’azione, i vantaggi e gli inconvenienti delle tre funzioni. Una di queste battaglie, quella che concerne le origini, è interamente fittizia; l’altra si limita a interpretare un fatto contemporaneo, conservato come tale; da un lato, quindi, la prima battaglia di Roma; dall’altro la battaglia di Sentino. La filosofia della prima battaglia può essere esposta in poche parole1: il semidio Romolo, rex augur, combatte (con o senza l’appoggio dell’etrusco Lucumone, vero tecnico della guerra) contro Tito Tazio, re dei ricchi sabini. Dal punto di vista della seconda funzione guerriera le due parti combattono con pari esito e nessun discrimen può verificarsi su questo piano; ma Tito Tazio e Romolo hanno inoltre, ognuno, un mezzo supplementare, la carta vincente della propria funzione, uno la ricchezza, l’altro la protezione di Giove. Da qui i due episodi della guerra, di cui ognuno darebbe la vittoria a una delle parti, se non fosse necessario, per l’avvenire, che la lotta terminasse senza vittoria. Tito Tazio, comprando a prezzo d’oro il tradimento di Tarpeia, s’impadronisce d’una posizione dominante del Campidoglio; Romolo, nel panico delle sue truppe, invoca Giove, che risolleva il morale dei soldati e riporta in vantaggio il suo popolo. La materia dei due episodi è recente: quello di Tarpeia riproduce un tema di folclore tante volte utilizzato dai greci e proveniente certamente da questi; l’invocazione a Giove Statore, e il miracolo che ne consegue, sono la proiezione nel passato di un fatto del 295. Ma questa materia recente è stata richiamata, scelta, si potrebbe dire, dal quadro che essa ha riempito e che è antichissimo: era necessario che i ricchi sabini dimostrassero quanto può la ricchezza e che il rex augur mettesse in azione la forza speciale a lui conferita dagli auguria iniziali. In questa utilizzazione epica dell’ideologia delle tre funzioni, che le distribuisce in due campi avversi e in cui il valore guerriero si trova in qualche modo annullato come funzione, perché esso è dappertutto, in tutti i cuori, e in tutte le braccia, le altre due funzioni, la prima e la terza caratterizzano invece ciascun gruppo di combattenti: come di dovere, la prima appartiene al fondatore, la terza ai suoi nemici, e anche se non porta alla vittoria decisiva, l’azione della prima è più forte di quella della terza, di cui sopprime la naturale conseguenza. Ma nell’immagine, certamente ritoccata, ripensata, che l’annalistica ci offre dell’autentica battaglia di Sentino, le cose non si svolgono allo stesso modo. Questa volta, se la funzione guerriera, comune ai due eserciti, si ritrova ancora neutralizzata, senza effetto decisivo (benché il dio suo patrono abbia particolarmente incoraggiato i romani) e non fa altro che prolungare una battaglia incerta, le altre due funzioni, però, la prima e la terza, si congiungono al servizio di Roma, visto che il nemico non ha apparentemente nessun alleato divino. Ma la teologia delle funzioni, gli dei che la rappresentano, sono quelli dell’epoca, dell’anno 295 e non più la semplicissima e omogenea triade Giove Marte Quirino 2.

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LA BATTAGLIA DI SENTINO

*** La svolta del IV secolo è, per Roma, un periodo difficile e decisivo. Le guerre sannitiche non sono finite. La sconfitta delle Forche Caudine (321) è stata immediatamente vendicata, l’Apulia e la Campania sono state riconquistate, il Sannio devastato. Ma in questa Italia, in parte non sottomessa, in parte mal sottomessa, si riformano, appena vinte, coalizioni pericolose. Nel 311, i sanniti coinvolgono gli etruschi, gli umbri, gli ernici e, per due anni, saranno necessarie dure battaglie per ricondurli alla pace. Nel 300 si accende una nuova guerra che i sanniti dovranno sì pagare con la rovina totale del loro paese (298-296) ma nella quale faranno entrare, con uno sforzo disperato, i loro alleati etruschi e umbri, e perfino i galli d’Oltralpe. S’imponeva quindi l’unione sacra: concordia, unus animus, una mens. Alla vigilia dei comizi consolari del 296, il patrizio Q. Fabio, che un’unanime volontà portava al consolato, chiede e ottiene che gli si dia come collega il plebeo P. Decio (Tito Livio, X, 22) e, a un livello del tutto diverso, una ragazza patrizia sposata con un plebeo e alla quale le matrone della sua classe d’origine rendevano difficile la vita, apre un santuario – senza avvenire – alla Pudicitia Plebeia. Ma lo stesso anno, tra uno scatenarsi di prodigi come sempre si verificano in tempi d’incertezze e di minacce, l’insieme dei responsabili di Roma, magistrati patrizi e plebei, fanno, non congiuntamente ma parallelamente, una serie di offerte molto interessanti, che rivela la forma che a quell’epoca aveva assunto la teologia delle tre funzioni (Tito Livio, X, 23, 11-13): Nello stesso anno, Cn. e Q. Ogulnio, edili curuli, citarono in giudizio un certo numero d’usurai. Con il ricavo della confisca dei loro beni fecero costruire la porta di bronzo del Campidoglio, vasi d’argento per le tre tavole poste nella cella di Giove, e la statua di Giove con la quadriga che si trova sulla sommità del tempio. Vicino al fico Ruminale posero le statue dei due fanciulli fondatori della città sotto le mammelle della lupa [simulacra infantium conditorum urbis sub uberibus lupae posuerunt]3. Fecero pavimentare con pietra quadrata il percorso [semitam] che va dalla Porta Capena al tempio di Marte. Gli edili plebei da parte loro, con le ammende inflitte a contadini sui pubblici pascoli, organizzarono dei giochi e posero delle coppe d’oro nel tempio di Cerere.

La struttura religiosa è chiara e raggruppa le più grandi figure divine dell’epoca: per i patrizi, Giove, Marte e anche, con il suo inseparabile e vano Remo4, un Romolo-dio (se non fosse dio, e capace di aiutare gli uomini, come avrebbe potuto ricevere, a che cosa sarebbe servita un’offerta analoga a quelle che ricevono Giove e Marte?) cioè sicuramente Romolo-Quirino (visto che Romolo non è mai stato divinizzato sotto altro nome); per i plebei, Cerere. L’antica triade precapitolina riappare dunque al completo. Essa conserva il senso (sovranità, forza guerriera) di due dei suoi termini, ma è così alterata nel terzo (anticamente fecondità, massa ecc.) che il Quirino corrispondente qui a Romolo non può più rappresentare la terza funzione: come il Romolo dell’annalistica, egli appartiene alle due funzioni superiori, e innanzitutto si trova a essere il doppio di Marte, suo “padre”, che, nella raffigurazione stessa è ricordato dalla lupa. La terza funzione è rappresentata dalla grande dea della fecondità Cerere ed è la massa plebea che si fa carico del suo culto (Dumézil 1966, pp. 331-333), come già dagli inizi della libera res publica, dalla fondazione affronta-

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GEORGES DUMÉZIL

ta dei templi di Giove Giunone Minerva e di Cerere Liber Libera. Cosicché alla struttura primitiva, patrizia: Giove

Marte

Quirino (+ una quantità di divinità agricole minori, sotterranee ecc.)

viene a trovarsene sostituita un’altra, dove culti patrizi e plebei si completano: Giove

Marte (+[Quirino-] Romolo)

Cerere

A quest’epoca, e probabilmente da molto tempo, Cerere era più adatta dell’antico Quirino a rappresentare la terza funzione. Se si paragona questa struttura non soltanto con la triade canonica Giove Marte Quirino ma a triadi equivalenti e certamente antiche, allora ne appaiono l’originalità e la novità. Ho mostrato spesso che, a differenza di Giove e di Marte, capi indiscussi del loro livello, Quirino, come terzo, era solo unus inter pares o, nel linguaggio annalistico, uno degli “dei di Tito Tazio”5, il più politico del gruppo (cfr. Quirites) e questo spiega probabilmente perché egli figura, più spesso di tutti gli altri, nella triade canonica. In altre occasioni veniva messo in risalto un altro aspetto della complessa terza funzione e cioè, quando si costituivano triadi quali “Giove Marte Ops” nella Regia (Ops è l’Abbondanza), “Giove Marte Flora” (Venere più tardi probabilmente) nella teoria delle più antiche corse di carri (Flora, dea della fioritura, specialmente dei cereali, è inoltre una protettrice di Roma). In queste strutture, come si vede, Quirino era puramente e semplicemente sostituito da un’altra divinità arcaica dello stesso livello, presa fra gli “dei di Tito Tazio” (in cui Ops e Flora sono le prime due nominate da Varrone, Della lingua latina, V, 74), il che converge con il fatto che il flamen Quirinalis è al servizio di molte divinità di questo gruppo (Conso, strettamente congiunta a Ops; Larenzia): virtualmente, quindi, Quirino restava presente con il suo orientamento tradizionale. Nella lista delle offerte del 296 invece, il Romolo che ha preso il posto di Quirino, col quale era identificato dalla leggenda, era inadatto a rappresentare qualunque cosa al livello tradizionale di Quirino: a dire il vero era esterno alla teologia delle tre funzioni, fuori di essa, e vi si era aggregato, come un’appendice che si ripiega senza aggiungere nulla, sotto gli dei delle due prime funzioni, lasciando la terza senza titolare. Questo posto vacante è occupato da Cerere, che vi è certamente adatta, ma che era esterna agli “dei di Tito Tazio”, alla cerchia di Quirino, e dal momento della sua ascesa politica agli inizi della Repubblica, essa era stata fortemente influenzata, come il suo omonimo osco, dalla Demetra greca. È molto probabile che quelle fondazioni, come del resto tutto ciò che è relativo ai templi, agli oggetti del culto, siano autentiche. Ora, nel racconto di Tito Livio circa gli avvenimenti dell’anno seguente, sono appunto tutte le divinità beneficiarie di quelle offerte, e solo di quelle, che intervenendo a turno, ognuna secondo la propria competenza, si associano per dare a Roma una vittoria clamorosa. La corrispondenza è troppo bella per non sentirsi in dovere di pensare che il quadro teologico della battaglia sia stato costruito dopo, al di là dei fatti, a partire dal quadro delle offerte, per la massima gloria di Roma e dei suoi dei.

LA BATTAGLIA DI SENTINO

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Lo stesso Tito Livio avverte (X, 30, 4-7) che i fatti di quella famosa giornata furono amplificati: La gloria della battaglia avvenuta quel giorno sul territorio del Sentino è grande, anche se ci si attiene al vero. Ma certi l’hanno gonfiata d’esagerazioni, attribuendo all’esercito nemico 40.330 fanti, 6.000 cavalieri e 1.000 carri, contando cioè probabilmente gli umbri e gli etruschi e facendoli partecipare alla battaglia. Allo stesso modo, per aumentare anche le forze dei romani, aggiungono il proconsole L. Volumnio ai consoli e il suo esercito alle legioni dei consoli. Nella maggior parte degli Annali, però, la vittoria spetta proprio e solo ai due consoli.

Non solo gli annalisti avevano magnificato l’avvenimento del 295. Se si crede a Tito Livio, una letteratura popolare se n’era impadronita già al momento del trionfo del console sopravvissuto: Nei rozzi canti militari (inconditis carminibus militaribus), i soldati celebravano tanto la vittoria di Q. Fabio, quanto la morte gloriosa di P. Decio, evocando la memoria di suo padre e associando le loro due deuotiones (...)

Questa duplice deuotio, del padre e del figlio in circostanze troppo simili, è sempre apparsa sospetta: deve essere quindi Tito Livio responsabile del contenuto che egli attribuisce agli incondita carmina. Ma il racconto che egli ha trasmesso, molto bene articolato e carico di religione, deve essere ancora molto più lontano dal “vero”. Più costruito di quanto egli non pensi. Eccone l’analisi. A. Il lupo di Marte I consoli prepararono tutto in modo di arrivare alla battaglia, e provocarono il nemico per due giorni senza che avvenisse nulla di memorabile. Entrambe le parti persero degli uomini e queste scaramucce ebbero solo l’effetto di accendere il desiderio di uno scontro generale senza mai poterlo determinare. Il terzo giorno tutte le truppe scesero in campo. Quando furono schierate, una cerva, scacciata dai monti da un lupo che l’inseguiva, attraversò la pianura che separava i due eserciti; poi i due animali si diressero in senso opposto, la cerva verso i galli, il lupo dalla parte dei romani. Questi aprirono le loro file per fare passare il lupo [lupo data inter ordines uia], i galli trafissero la cerva. Allora un soldato romano che era tra gli antesignani gridò: “La fuga e la morte passano da quella parte dove vedete disteso l’animale sacro a Diana. Da questa parte il lupo di Marte, vincitore, scampato al pericolo senza ferite, ci ha ricordato la nostra origine che risale a Marte e il nostro fondatore!” [Tum ex antesignanis Romanus miles: “Illa fuga, inquit, et caedes uertit, ubi sacram Dianae feram iacentem uidetis. Hinc uictor Martius lupus, integer et intactus, gentis nos Martiae et conditoris admonuit”].

E la battaglia s’accende, violenta, equilibrata. All’ala destra, Q. Fabio ha davanti a sé i sanniti, li lascia stancare, e tiene sulla difensiva le sue due legioni. All’ala sinistra romana, di fronte ai galli, le altre due legioni hanno un capo meno giudizioso. B. La devotio di P. Decio Mure Decio, invece, più focoso data l’età e la vivacità del suo carattere, spiegò tutte le forze che aveva all’inizio dell’azione: e poiché un attacco con la fanteria gli sembrava troppo lento,

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mise in azione la sua cavalleria, e, unendosi lui stesso a uno squadrone di giovani cavalieri più intrepidi, incita i capi di questa coraggiosa giovinezza a piombare insieme a lui sul nemico promettendo loro che doppia sarebbe stata la gloria se la vittoria fosse cominciata dall’ala sinistra e dalla cavalleria. Due volte fecero voltare le spalle al nemico; ma alla seconda carica, quando guadagnavano terreno e si erano già inoltrati in mezzo agli squadroni nemici, un nuovo genere di combattimento li riempì di terrore. Il nemico, tutto armato su dei carri di varie forme, irrompe con gran rumore di cavalli e di ruote e spaventa i cavalli dei romani, che non erano abituati a questo frastuono. Allora un terrore, quasi simile a un delirio, disperde quella vittoriosa cavalleria; nella confusione della fuga, uomini e cavalli cadono gli uni sugli altri. Lo scompiglio si diffonde anche tra le legioni e molti soldati delle prime file furono schiacciati dall’urto dei cavalli e dei carri spinti in mezzo alle loro file. Inoltre la fanteria gallica, che, accortasi del loro spavento, s’era messa a inseguirli, non lasciò loro il tempo di riprendere fiato e di riaversi. Allora Decio grida: “Dove fuggono? Quale speranza hanno nella fuga?”. Ferma quelli che fuggono, richiama quelli che si erano già dispersi. Infine, vedendo che nessuna forza umana poteva trattenerli, presi come erano dallo spavento, invocando il nome di P. Decio, suo padre, disse: “Perché tardare a conformarmi al destino della mia famiglia? È stato concesso ai Decii di offrirsi come vittime espiatorie per scongiurare i pericoli pubblici. Immolerò le legioni nemiche e me stesso alla Terra e agli dei Mani” [Iam ego mecum hostium legiones mactandas Telluri ac Diis Manibus dabo]. Pronunciate queste parole, chiese al pontefice M. Livio, cui scendendo in campo aveva proibito di lasciarlo un solo istante, di dettargli la formula che doveva ripetere per immolare sé e le legioni nemiche per l’esercito del popolo romano dei “quirites”. Poi, con gli stessi termini e con le stesse cerimonie, si immolò come aveva fatto suo padre P. Decio nella guerra contro i latini, sulle rive del Veseri. Dopo le preghiere rituali, egli aggiunse “che avrebbe provocato davanti a sé il terrore e la fuga, la strage e il sangue, la collera degli dei celesti e inferi; che avrebbe lanciato orribili anatemi contro le insegne, le armi offensive e difensive dei nemici, e che il luogo che gli sarebbe stato mortale, lo sarebbe stato anche per i galli e per i sanniti”. Dopo queste imprecazioni contro se stesso e contro i nemici, spronò il suo cavallo nel più folto dell’esercito gallico e cadde trafitto dai dardi verso i quali correva. Da quel momento non fu più possibile pensare che fossero gli uomini ad agire nei fatti di quella giornata. I romani, dopo la perdita del loro capo, cosa che, abitualmente, sparge terrore in un esercito, pongono fine alla fuga e vogliono ricominciare la battaglia. I galli, e in particolare il plotone che si trovava nei pressi del corpo del console, come colpiti da vertigine, lanciano a caso inutili giavellotti; alcuni restano immobili e non cercano né di fuggire, né di combattere. Nel frattempo, dall’altra parte, il pontefice Livio, cui Decio aveva rimesso i littori e aveva ordinato di assumere la funzione di capo, grida ad alta voce “che la vittoria è dei romani, poiché con la morte del console avevano pagato il tributo agli dei [uicisse Romanos, defunctos consulis fato]; che i galli e i sanniti appartengono alla madre Terra e agli dei Mani [Gallos Samnitesque Telluris matris et deorum Manium esse]; che Decio trascinava e chiamava a sé l’esercito che aveva immolato insieme a se stesso e che, nel campo nemico, tutto era in preda alle Furie e al panico [rapere ad se ac uocare Decium deuotam secum aciem, furiarumque ac formidinis plena omnia ad hostes esse].

Senza difficoltà, con l’aiuto di qualche rinforzo inviato da Fabio, l’ala sinistra respinge gli assalitori, mentre nell’ala destra, comincia l’offensiva, e Fabio piomba sui sanniti stanchi costringendoli a ritirarsi nei loro accampamenti. Sostenuti ormai

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dalle loro sole forze, i galli formano la testuggine, serrano le file e resistono. Fabio organizza una manovra di accerchiamento. C. Il votum di Q. Fabio a Giove vincitore Egli stesso, dopo aver fatto voto a Giove Vincitore di un tempio e delle spoglie dei nemici, si avviò verso il campo dei sanniti dove si precipitava, costernata, la moltitudine dei fuggiaschi. Poiché le porte non potevano ricevere tanta folla, coloro che non poterono entrare nel campo tentarono di battersi davanti alle palizzate. Il generale sannita Gellio Egnazio vi perse la vita. Alla fine i sanniti furono respinti entro lo steccato. Il loro campo fu occupato senza molti sforzi e i galli, sorpresi alle spalle, furono circondati. In questo giorno i nemici persero venticinquemila uomini e ottomila furono fatti prigionieri. Questa vittoria costò molte vite ai romani, poiché perirono settemila uomini dell’esercito di Decio e millesettecento di quello di Fabio. Fabio, dopo aver ordinato di cercare il corpo del suo collega, fece ammucchiare le spoglie dei nemici e le bruciò in onore di Giove Vincitore. Il corpo del console sepolto sotto mucchi di galli non poté essere ritrovato quel giorno. Il giorno seguente i soldati lo riportarono nel campo versando molte lacrime e Fabio tralasciando ogni altra preoccupazione, si occupò dei funerali del suo collega al quale rese i massimi onori e pagò il tributo di lodi che egli meritava.

*** Se si raffrontano le divinità beneficiarie delle offerte del 296 con quelle che intervengono in favore di Roma nel corso di questo lungo racconto, le differenze sono solo le seguenti: 1) Tellus prende il posto di Cerere, divinità a essa strettamente congiunta (Dumézil 1966, pp. 325-328). È nota infatti la solidarietà delle due dee, di cui è comune una parte del culto; visto che si trattava di inghiottire materialmente nel mondo sotterraneo il generale deuotus e l’esercito nemico, il termine, o piuttosto l’aspetto Tellus della coppia era meglio qualificato dell’aspetto Cerere. Si pensi alla bella definizione di Ovidio (Fasti, I, 671-674): Rendetevi propizie le madri delle coltivazioni, Tellus e Ceres, con il loro specifico farro e le viscere d’una scrofa gravida. Cerere e la Terra adempiono alla stessa funzione: una fornisce alle colture la loro origine (causa), l’altra il loro luogo (locus).

Qui è appunto il luogo che è importante. A dire il vero la distinzione è secondaria poiché, per il mundus che si trova nel suo santuario, per certi riti funebri (pp. 309-311 e 330), Cerere non è meno congiunta di Tellus a quei Di Manes che la deuotio invoca con Tellus. 2) Dei due fratelli, resta Romolo solo (suo fratello sparisce, accessorio inutile e inefficace poiché non divinizzato), e quanto alla funzione egli non è più che un doppio di Marte, senza originalità. La leggendaria lupa della loro infanzia è marziale. Nella tavola delle offerte, la lupa di bronzo era almeno separata dagli oggetti militari e conservava una qualche autonomia al conditor urbis (o, inesattamente ed enfaticamente, ai conditores). Nella battaglia, il lupo in carne e ossa che appare e che si offre ai romani è innanzitutto Martius Lupus e il conditor s’inserisce, umilmente, come una sorta d’agente di trasmissione tra la nazione romana e il suo vero padre, Marte.

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Cosicché sul campo di battaglia, il quadro degli interventi divini si riduce chiaramente a tre, sottolineati dalla ripetizione della parole uictor e uinco: uictor, il lupo di Marte incita direttamente i soldati e vede il suo segno interpretato da uno di essi; Tellus e gli dei sotterranei, che più tardi accoglieranno il sacrificio del console plebeo, permettono al pontefice di annunciare uicisse Romanos defunctos consulis fato; infine Giove ascoltando il voto del console patrizio che gli promette un tempio sotto l’epiteto Victor, fa perire il generale nemico e annienta ogni resistenza. Se si considera non più la struttura teologica, ma i procedimenti dell’azione militare, quella che si sviluppa sotto i nostri occhi, come in una immagine d’Épinal in tre scene, è una vera e propria teoria trifunzionale della vittoria: ci sono tre modi di comporre una vittoria e, si può aggiungere, ce ne sono solo tre. In primo luogo, beninteso, la pugna in sé e per sé: comandare con consapevolezza un esercito che si batte con ardore e disciplina, nell’unità geometrica e meccanica della legione; attraverso la parola e l’esempio far sì che i soldati siano coscienti del dovere e delle speranze del momento, senza reconditi pensieri di “Quirites”; ricordare loro che sono uomini “marziali” per eccellenza, passati in rassegna al Campo di Marte e messi in via presso Marte alla Porta Capena, e che ogni guerra aperta nel mese di marzo con le cerimonie del dio Marte per chiudersi in autunno con le purificazioni ancora sotto il suo patrocinio, è come una “sacra primavera” in cui si riforma la società esclusiva dei guerrieri, dei maschi, tesa verso il suo unico scopo: combattere. Tutto questo non è però sempre sufficiente. Accade che l’equilibrio dell’ardore e della disciplina si spezzi e penda verso la temerarietà; il nemico è numericamente forte, usa stratagemmi e novità e a volte ha del talento; il generale può lui stesso fallire, o semplicemente il discrimen prolungarsi più di quanto non desideri. Dispone allora di due rimedi eccezionali, il uotum e la deuotio. Questi due mezzi hanno in comune il fatto che scienza, coraggio e tutte le forze umane passano in secondo piano per far posto al miracolo; è anche con questi mezzi che il generale, o altri di sua scelta, diventa l’elemento essenziale del proprio esercito, riassume in sé le sue “chance” per impegnarle in un audace scambio con l’invisibile. Nei particolari, tuttavia, le due operazioni si oppongono. Il uotum sul campo di battaglia è solo un caso particolare di una delle procedure più comuni della religione dello Stato romano: sia in pace sia in guerra, nella buona o nella cattiva sorte, il rappresentante della comunità può promettere a qualunque divinità qualunque offerta, e generalmente si tratta d’un nuovo tempio e d’un culto sotto un nuovo epiteto. L’operazione è ottimistica, nel senso che i termini della vittoria sono ravvicinati e le perdite romane, di conseguenza, diminuite; che il pagamento è rinviato in avvenire, mentre il profitto è immediato; che il generale si rivolge a un partner personale, di sua scelta, a un deus ben definito e ben nominato, con il quale stringe o stringe di nuovo durevoli relazioni giuridiche, fondate sulla benemerenza e sulla riconoscenza; infine che il generale sopravviverà e avrà non solo l’incarico ma, a capo e in nome della società consolidata, la gloria di eseguire la fondazione promessa. Il caso perfetto e il prototipo leggendario di tali uota, è quello fatto a Giove: per due volte, nelle guerre che hanno seguito il ratto delle sabine, si dice che Romolo si sia in questo modo rivolto al rex del cielo, e a lui solo, promettendogli un culto di Giove Feretrius, dispensatore di spoglie opime, e un altro di Giove Stator, placatore della paura.

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La deuotio ha le tetre apparenze di un atto di disperazione. Il generale romano, o il cittadino romano che egli sostituisce alla sua persona, è, oltre che un piaculum, uno psicopompo, o piuttosto una guida dei corpi, che si offre per condurre nell’altro mondo legiones auxiliaque hostium, la totalità dell’esercito nemico. Inoltre non deve scegliere un destinatario: una formula fissa ha previsto tutto; tutti insieme gli dei di tutte le zone dell’universo, specialmente la Terra e i mani, sono pregati di ristabilire la situazione romana, e chiamati a consumare direttamente l’abbondante e sanguinosa offerta. Infine, lungi dal consolidare l’ordine stabilito del suo esercito e della società, il generale lo dissolve eliminandone il capo, abdica in qualche modo alle sue responsabilità ordinarie rimettendole nelle mani del pontefice massimo, prima di offrirsi, cittadino con la sola carica mistica, ai colpi del nemico; e se, eccezionalmente, malgrado la sincerità del suo sacrificio, egli dovesse sopravvivere alla battaglia, sarebbe fino alla sua morte impius, senza piaculum possibile, incapace d’atti religiosi pubblici e privati, inadatto quindi alla sua carica come ad ogni magistratura. Nella forma attenuata della deuotio, in cui non è il generale stesso che fa deuotio, ma quem uelit ex legione romana scripta ciuem, cioè un qualunque “quirite” mobilitato, nel caso in cui questi, destinato alla morte, sopravviva alla battaglia, viene permessa l’espiazione che si svolge in una forma caratteristica: si seppellisce una effigie lunga almeno sette piedi, e si fa sacrificio di un animale. Queste tre modalità di vittoria rispondono a tutte le possibilità logiche. Riflettono innanzitutto i tre regni dell’universo: la superficie della terra, luogo del visibile e delle azioni degli uomini; l’invisibile luminoso di lassù, l’invisibile tenebroso di laggiù. Utilizzano i meccanismi concepibili dell’azione: lo sforzo del coraggio umano, il patto pio proposto a un dio ragionevole, il pasto gettato all’abisso sempre avido. Tra il uotum e la deuotio come modalità di vittoria, si possono riconoscere due altri tratti differenziali che convergono con i caratteri già noti della prima e della terza funzione. 1) Quanto al partner soprannaturale, il uotum è un patto stretto con un dio personale, scelto, con Giove nella specie superiore ed esemplare del genere, mentre la deuotio mobilita collettivamente, gerarchicamente, esaustivamente, tutti gli dei e l’apice dell’enumerazione e dell’azione è rivolta verso gli dei Manes e Tellus. Ritroviamo così l’opposizione molto arcaica tra il singolare da una parte, il collettivo o il plurale dall’altra; in India si ritrova questa opposizione tra gli dei individuali di prima e di seconda funzione e i Visˇve-Deva¯h·, “Tutti-Dei” frequentemente posti nella terza. Inoltre la si trova, non meno chiara, nella leggenda delle origini romane, quando, dopo il trattato che pone fine al loro conflitto e associa i loro due popoli, Romolo fonda solo il culto di Giove, mentre Tazio, oltre a quello di Quirino, ne fonda altri quindici, fra cui quelli del sotterraneo Veiove e di molti altri dei e dee del suolo e della fecondità. 2) Giove, dopo essere stato il dio del rex, sotto la Repubblica è rimasto il dio rex; è il dio dei magistrati con imperium, degli auspicia maiora, degli imperatores trionfanti. Ora il magistrato cum imperio che fa un uotum accentua, esalta la sua qualità di capo; egli prende un impegno in nome del popolo, nel suo nome lo rispetterà, riprodurrà una volta di più il gesto del re Romolo che aveva detto a Giove, nella prima dedica, dopo il primo uotum: Haec tibi uictor Romulus rex regia arma fero,

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templumque eis regionibus, quas modo animo metatus sum, dedico... Consacrandosi invece agli dei infernali, il magistrato cum imperio che fa la deuotio, si ritira da vivo dal suo popolo, rimette solennemente i suoi littori non a un ufficiale, ma al pontefice massimo, dicendogli esse pro praetore, di fare la funzione di capo; libera quindi praticamente i suoi milites dal sacramentum personale che essi gli hanno giurato e li lascia, massa decapitata, quasi “Quirites”, senz’altro magistrato che il sacerdote, sotto la salvaguardia degli dei. Questo racconto, così denso, riporta oltretutto una testimonianza preziosa sulla “costruzione della storia romana”, sulla malleabilità che conservava la materia storica anche dopo l’anno 300. È stato da molto tempo sottolineato quello che vi è di sospetto nella ripetizione a opera del figlio della deuotio attribuita al padre. Ma è tutto il quadro della battaglia che appare troppo ben strutturato per essere l’eco, anche abbellita, di “fatti”. Solamente il culto promesso a Giove Vincitore, come tutte le fondazioni di questo genere, deve essere autentico. L’insieme è stato costruito in tre tempi per raffigurare le tre forze, le uniche tre, dalle quali un esercito, un generale, possono aspettarsi la vittoria: il furore cieco di Marte, spesso insufficiente di per sé; l’appetito neutralizzato della Terra; il dono decisivo di un dio di “lassù”.

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Titolo originale La bataille de Sentino (in Dumézil 1969, pp. 171-185). Da ultimo, v. Dumézil 1966, pp. 68-82 e 1968, pp. 285-336. 2 La materia qui trattata è ripresa in parte in 1952, pp. 145-154. 3 L’espressione di Tito Livio è ambigua; v. 1966, p. 227, nota 3. 4 Visto che Romolo è rappresentato nella sua prima infanzia come lattante della lupa, come poteva essere assente il suo gemello? 5 Per il senso di quest’espressione, v. 1966, p. 160, nota 34 e pp. 240-241. 1

Degli dei e degli uomini* Algirdas Julien Greimas

1. La mitologia come oggetto 1.1. La mitologia come ideologia La costituzione della mitologia in disciplina autonoma tra le scienze sociali è legata al nome di Georges Dumézil: la lotta da lui condotta nel corso di diversi decenni (contro gli amatori della mitologia che considerano i miti come opere d’immaginazione, contro gli storici positivisti in cerca di fatti mitici e non della loro significazione, contro diverse teorie filosofiche che si proponevano di spiegare in un sol colpo, con appena qualche categoria, il pensiero mitico dell’umanità intera) si è conclusa con una vittoria che ha permesso, nel corso degli anni Sessanta, di riconoscere la mitologia come un ambito suscettibile di un progetto di ricerca legittimo. Il punto di partenza di Dumézil è molto semplice: consiste nell’affermare una corrispondenza tra il mondo divino e il mondo umano poiché, in un certo senso, il mondo divino è solo il riflesso del mondo umano, della sua organizzazione, delle sue tensioni e delle sue aspirazioni fondamentali. L’analisi delle religioni dei popoli indoeuropei gli ha permesso di formulare l’ipotesi secondo cui, a grandi linee, la loro struttura sociale generale trova il suo equivalente nella struttura del mondo divino e nella ripartizione delle funzioni divine. In altri termini, la religione di un popolo non è altro che l’ideologia grazie alla quale la comunità pensa se stessa e riflette le relazioni tra gli uomini e le loro contraddizioni, sublimando sul piano divino tutto questo insieme. Così, per esempio, alle tre classi sociali caratteristiche delle società indoeuropee – i sacerdoti, i guerrieri, gli agricoltori e gli allevatori – corrispondono tre sfere della sovranità divina: alla classe dei sacerdoti, la sfera della sovranità contrattuale e magica; alla classe dei guerrieri, la sovranità fondata sulla forza e alla classe degli agricoltori e degli allevatori, il dominio che fonda e protegge tutti i “beni di questo mondo”: cibo, fortuna, salute e bellezza. Prima di ogni altra cosa, senza disquisire sui particolari delle diversi parti costitutive di questa teoria, senza preoccuparsi di sapere se la distribuzione delle funzioni di sovranità sia comune all’insieme delle mitologie indoeuropee, senza neanche domandarsi se il mondo divino riflette in maniera diretta l’organizzazione delle società umane facendo economia di mediazioni complementari, si deve sottolineare l’importanza indiscutibile del contributo di Dumézil. Le sue ricerche confermano le prime ipotesi e portano a comprendere: – che né gli dei né gli altri esseri mitici sono creazioni fantasiose dell’immaginario umano: queste “favole” sono mezzi figurativi che permettono di parlare dell’uomo, del mondo e dell’ordine cosmico;

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– che il pensiero mitico non è né confuso né frutto del caso e si effettua nel quadro organizzato delle attività divine e all’interno del sistema delle loro funzioni; – che la mitologia serve a esprimere – in senso molto ampio – l’ideologia politica della società studiata. Da questa concezione della mitologia si deduce un’altra importante constatazione metodologica: la mitologia, lungi dall’essere come si pensava comunemente la collezione dei miti di un dato popolo, costituisce una struttura ideologica suscettibile di manifestarsi in qualsiasi forma “letteraria”. Cercando, da comparatista, le corrispondenze tra le strutture mitiche dei diversi popoli indoeuropei, Dumézil le ha trovate, a Roma, redatte sotto forma di avvenimenti storici, in India, come episodi autonomi di un’epopea, in Irlanda, sotto forma di leggenda ecc. In altri termini – e questo caratterizza l’approccio scientifico della mitologia – le ricerche mitologiche non possono cominciare con la definizione aprioristica del “mito” come genere letterario, né dalla costituzione di un corpus di racconti chiamati “miti” e dalla loro analisi, secondo quanto previsto dalle procedure di descrizione elaborate nel XIX secolo: al contrario, i racconti mitici costituiscono solo una delle numerosi fonti che permettono di tentare la ricostruzione delle strutture mitiche. 1.2. La mitologia come filosofia Claude Lévi-Strauss, in un campo molto distante – quello della mitologia dei popoli amerindi – adatta ed estende la metodologia elaborata da Dumézil, pur scegliendo, per le sue analisi, un punto di partenza molto diverso. Il suo articolo The Structural Study of Myth, pubblicato nel 1955 nel «Journal of American Folclore»1, è considerato spesso come data di nascita di questa nuova concezione della mitologia. Sulla base dell’analisi del mito di Edipo, egli constata che ciascun mito può essere letto in due maniere. Letto orizzontalmente, esso appare come un racconto completamente trasparente, ma nello stesso tempo, che non significa nulla. Se, invece, è letto verticalmente – in altre parole osservando che certi tratti semantici del racconto, anche se presentati attraverso figure differenti, si ripetono costantemente e prendono la forma di strutture di significazione organizzate – il mito appare come un testo confuso, difficilmente decifrabile, ma portatore di senso. Compito della mitologia con aspirazioni scientifiche è, in primo luogo, l’elaborazione di metodi di lettura dei testi mitici che le permettano di manifestarsi come la totalità delle storie che l’umanità si racconta e che esprimono, in modo indiretto, i principali interrogativi che questa si pone, cercando di risolvere i vari problemi filosofici che incontra. Senza negare l’apporto di Dumézil, Lévi-Strauss ne allarga la problematica: là dove Dumézil percepiva solo l’espressione dell’ideologia sociale, Lévi-Strauss distingue la manifestazione di una filosofia dalle dimensioni di una cultura. Avendo a che fare non più con forme di religione istituzionalizzata, ma con mitologie provenienti dalle cosiddette società arcaiche, egli cerca di mettere in evidenza un certo numero di dimensioni fondamentali attraverso cui l’umanità pensa la cultura. Anche considerando solo il passaggio dal cibo crudo, comune a tutti gli esseri viventi, al cibo cotto o arrostito, o il passaggio dallo stato di nudità ai vestiti o alla parure, si capisce che l’uomo, negando la natura, giunge alla cultura: si tratta di temi generali di rifles-

DEGLI DEI E DEGLI UOMINI

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sione che si ritrovano probabilmente in tutte le mitologie. Si può naturalmente non essere d’accordo con questa o quella affermazione o dimostrazione, ma il contributo non fa che sottolineare innanzitutto quella che viene considerata come la concezione attuale della mitologia, cioè che essa è la forma caratteristica del pensiero figurativo proprio dell’umanità che cerca di risolvere, su questo piano e con questi mezzi, i suoi problemi fondamentali. Per rispondere alla delicata questione del perché la lettura superficiale del mito resti incomprensibile mentre l’esistenza del suo senso profondo non ponga problemi, Lévi-Strauss suggerisce, come spiegazione, l’ipotesi dell’inconscio collettivo. Considerato che i problemi che le mitologie cercano di risolvere sono di tipo universale e che i mezzi figurativi di espressione, così come la lingua parlata da ciascuna comunità etnica, anche se relativi, non dipendono dai capricci individuali, ma costituiscono il tesoro comune di queste società, il contenuto trasmesso sotto forma di un racconto mitico continua a circolare tra le persone, anche se le forme d’espressione non sono perfettamente comprese o non lo sono del tutto. Che si accetti o no l’ipotesi dell’inconscio collettivo – i metodi di ricerca non vengono per questo cambiati – resta in ogni caso un problema fondamentale, quello della leggibilità dei miti. Il testo mitico, come qualsiasi altro racconto, può essere compreso solo a condizione che il suo destinatario disponga di un codice semantico che gli permetta di decifrare il testo ricevuto. In altre parole, per comprendere i miti non basta avere un corpus esaustivo, bisogna creare un dizionario mitico appropriato che permetta la loro lettura. 1.3. La mitologia come cultura Il problema del codice semantico appare dunque come una condizione necessaria per la costituzione definitiva della metodologia in questo campo. Si comprende allora che la nuova generazione di mitologi cerchi, in un certo senso, di ritornare alle tesi di Dumézil, per il quale, si è visto, la mitologia in quanto struttura è indipendente dai testi-miti attraverso cui si manifesta. Ne risulta una nuova estensione del concetto di mitologia, la quale finisce con l’identificarsi con la cultura di una comunità, delimitata nel tempo e nello spazio e considerata come un tutto. Nei suoi studi di mitologia della Grecia antica, Marcel Detienne riserva uguale attenzione alle “teorie scientifiche” dell’epoca, ai manuali d’agricoltura, alle descrizioni botaniche o zoologiche, ai regimi alimentari, all’utilizzo dei profumi e delle pietre preziose ecc., e ai racconti mitici, considerando questi campi come logiche figurative locali, utilizzate dal pensiero mitico. Invertendo la problematica formulata da Lévi-Strauss, secondo cui la mitologia è la totalità dei miti decifrati con l’aiuto di un codice semantico, le nuove tendenze di questa disciplina identificano la mitologia al codice semantico, suscettibile, in ultima istanza, di generare i racconti mitici. Senza dare troppa importanza alle diverse tendenze e alle divergenze metodologiche che oggi si manifestano e che sono solo segno di vitalità, le fondamenta della mitologia sono sufficientemente solide e restano accettabili per tutti gli studiosi: la mitologia è l’espressione della cultura di una società; in quanto testo culturale, essa può e deve essere letta e interpretata con l’aiuto di un sistema interno che l’organizza, e non attraverso categorie aprioristiche imposte dall’esterno (…).

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2. Problemi di mitologia lituana 2.1. Etnologia o storia della cultura? Definita in maniera così estensiva, la mitologia si presenta come un metodo d’analisi delle culture delle diverse società. Nei casi in cui cerca di descrivere le culture delle comunità senza scrittura, dette arcaiche, può essere considerata come un ambito dell’etnologia. Se s’interessa alla descrizione di antiche culture storiche – e nello stesso tempo alla loro ricostruzione – la mitologia diventa una componente essenziale della storia della cultura. Benché questo non modifichi il suo statuto essenzialmente antropologico di “scienza dell’uomo”, tuttavia essa è indotta a utilizzare nei due casi approcci differenti, materiali e fonti di diversa natura. Nella mitologia etnologica, un ruolo importante è giocato dai rapporti diretti del ricercatore – o dei suoi intermediari – con la comunità vivente, mentre la mitologia storica deve accontentarsi del materiale già esistente ma inverificabile, provando a colmare le lacune delle fonti con ipotesi ritenute coerenti. Da questo punto di vista, l’oggetto di studio da noi scelto – lo studio della mitologia lituana – è misto poiché il materiale di cui disponiamo è, infatti, storico ed etnografico. Si tratta, da un lato, di fonti scritte: alcune allusioni alla religione pagana nelle cronache dei popoli vicini per il periodo tra il XIII e il XV secolo, e, a partire da questo secolo e fino al XVII, descrizioni più frequenti e più dettagliate dei rituali e degli usi di una religione già degradata, le cronache lituane. Una seconda fonte non meno importante è costituita dai materiali etnografici, accuratamente raccolti dal XIX secolo fino ai nostri giorni, nei quali è possibile riconoscere i resti di antiche credenze e di usi sopravvissuti al riparo della religione dominante, il cristianesimo. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che ogni raccolta di materiali è in primo luogo condizionata dallo scopo per il quale è compiuta: esso può essere esplicito, presentato, ad esempio, sotto forma di ipotesi scientifica, ma può anche restare implicito, imposto dall’ideologia dominante. Gli Archivi del folclore, costituiti grazie agli sforzi benevoli di persone di buona volontà, sono necessariamente eterogenei e soggetti nel tempo a tendenze ideologiche differenti. Il mito del “genio del popolo” coltivato dopo Herder e Goethe, ad esempio, spingeva i ricercatori a concentrare la loro attenzione sulla “bellezza” del folclore lituano: ecco così ricche collezioni di canti lirici che hanno poco a che fare con la mitologia e con la stessa storia. Un altro mito, successivo, confuso spesso con il primo, è quello della “cultura popolare”, del “popolarismo”: dobbiamo a esso eccellenti raccolte di fiabe, di proverbi, descrizioni di usi festivi, spesso di buona qualità. Le teorie dominanti del folclore – e soprattutto la teoria dei generi letterari applicati al folclore – hanno favorito i “grandi” generi folclorici a discapito dei “piccoli”. Queste osservazioni, lungi dallo sminuire il valore del materiale etnografico, vogliono richiamare l’attenzione sul suo carattere anomalo. Ne emerge che solo una piccola parte di materiale può essere utilizzato nelle ricerche di mitologia storica. D’altra parte, il ricorso a questo genere di archivi non può non sollevare il problema del campo scientifico al quale questo materiale è destinato: la scienza si costituisce a partire dalla definizione del suo oggetto e dei suoi metodi, e non da tale o tal altro materiale accumulato a caso. Allora, le descrizioni della vita rurale della seconda

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metà del XIX secolo, effettuate sulla base del materiale disponibile, con il ciclo annuale delle feste e dei lavori, con i matrimoni, i battesimi e i funerali iscritti in un altro ciclo, quello della vita individuale, possono essere considerate come studi sociologici condotti sulle società contadine arcaiche, chiuse, caratteristiche di tutta l’Europa dell’epoca. Il regime socialista della Romania, lasciando non collettivizzata tutta la regione di Maramures¸, alla pari di una riserva di indiani in America, ha fornito le condizioni ideali per lo sviluppo di questo tipo di sociologia. In sé legittimo, questo campo scientifico non ha però niente a che vedere con le ricerche mitologiche di cui noi ci occupiamo. L’equivoco nasce quando il folclorista-sociologo pretende di essere sia il critico della letteratura orale sia lo specialista dell’antica mitologia lituana, operando una confusione di “generi” scientifici. 2.2. Mitologia o religione? Parlando di mitologia lituana bisogna tener conto del fatto che essa fa parte, quale elemento costitutivo, della mitologia comparata dei popoli indoeuropei. Il ricercatore ne ricava naturalmente dei vantaggi: la comparabilità delle strutture mitiche, vale a dire la possibilità di riconoscere somiglianze e differenze esistenti tra mitologie, l’aiuto nella costruzione d’ipotesi che precisino gli scopi e i programmi delle sue ricerche, la possibilità di ricostruire antichi rituali religiosi divenuti in “epoca folclorica” giochi o burla. Tuttavia, l’appartenenza della mitologia lituana a un’area mitologica più vasta comporta anche degli obblighi. Georges Dumézil ha richiamato ormai da molto tempo l’attenzione degli studiosi di mitologia sulla dimensione particolarmente importante del pensiero mitico, soprattutto quello degli indoeuropei: l’ideologia della sovranità e, in modo più generale, la distribuzione dei poteri che reggono l’universo. È evidente che non si può cercare quest’ideologia nel pensiero mitico della comunità rurale del XIX secolo. La sovranità suppone l’esistenza di un’etnocomunità relativamente sviluppata, divisa in classi sociali. In altri termini, se designiamo col nome di religione2 la forma specifica che assume la mitologia fornita d’articolazioni gerarchiche e sistematiche, accompagnate dalle corrispondenti istituzioni sociali, il fatto che si possa parlare o meno di religione lituana, dipende dalla rappresentazione che ci si fa del popolo lituano antico, così come si è manifestato politicamente attraverso l’organizzazione di uno Stato. Il problema è più serio di quanto non appaia a prima vista. Seguendo le idee dominanti tra i folcloristi-mitologi, gli antichi lituani veneravano i “corpi celesti”, le “forze della natura” divinizzate e altre “oggetto dell’immaginazione”: una tale concezione della mitologia non ha niente a che vedere con una religione nazionale comparabile alle altre religioni indoeuropee. Le cose vanno allo stesso modo per quanto concerne la concezione della storia: la Lituania del Medio evo era quasi unanimemente considerata, fino a non molto tempo fa, come una società senza classi, formata da tribù di uomini liberi. Ricerche storiche e archeologiche recenti correggono in buona parte quest’immagine primitiva della Lituania antica. Scavi archeologici hanno mostrato l’uniformità della cultura materiale – del seminativo, degli attrezzi agricoli e della tecnologia in generale – comune a tutto il territorio etnico della Lituania del tempo, fatto che presupponeva l’intensa circolazione di uomini e di beni. Tutto questo è possibile – è noto – solo nel caso in cui un’organizzazione politica minima garan-

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tisca la sicurezza delle strade. Si tratta di eventi che corrispondono, per l’Europa occidentale del periodo, all’inizio della formazione della cultura medievale. Le stesse ricerche attestano il compimento, non meno importante, del processo di rivoluzione religiosa, avvenuta tra il VI e il X secolo: alla costruzione di basi comuni della cultura materiale corrisponde una certa uniformazione delle forme religiose, manifestata in primo luogo dal diffondersi dell’usanza di cremare i morti. I miti di Sovius e sˇventaragis corrispondono allora a fatti storici testimoniati dall’archeologia. Le ricerche storiche, d’altra parte, cominciano progressivamente a mettere in luce i principi dell’organizzazione sociale e politica che hanno permesso al popolo lituano di costituirsi in Stato: benché il concetto troppo generale di feudalesimo non permetta di distinguere i tratti specifici della società lituana non bisogna, tuttavia, dubitare che il popolo lituano si presentasse all’epoca come una società differenziata e gerarchicamente organizzata. È soltanto su tali basi sociali che si può concepire la religione lituana come comparabile alle altre religioni di tipo indoeuropeo. L’espansione dello Stato lituano3, che difficilmente si spiega con ragioni di dominazione demografica o economica, doveva quanto meno basarsi sulla coerenza e la solidità ideologiche. Infatti, se si considera che la religione è l’espressione figurativa dell’ideologia dell’epoca, possiamo affermare che alla formazione dello Stato e alla sua espansione doveva corrispondere un periodo di fioritura religiosa. Per tali considerazioni, la ricostruzione della mitologia lituana, oltre a costituire un contributo al comparatismo indoeuropeo, costituisce anche un obiettivo fondato e attuale. 2.3. Storia e struttura I progressi metodologici realizzati recentemente dall’archeologia, i quali permettono di ricostruire, attraverso pochi elementi sparsi, interi siti e rivelano così città antiche con le loro istituzioni politiche e sociali, non possono lasciare indifferente la metodologia storica nel suo insieme. Per analogia, si potrebbe pensare alla descrizione mitologica di epoche antiche o mal conosciute, come a un’operazione che cerca di ristabilire, da frammenti e pezzi sparsi, insiemi mitici coerenti. Una simile ricostruzione tuttavia non mira, né può mirare, a restituire un periodo storico nella sua totalità, con le contraddizioni interne e gli elementi eterogenei. La ricostituzione della mitologia significa solo la descrizione di un dato stadio strutturale. (…) Per di più, le somiglianze e/o le differenze registrate sul piano dell’espressione devono essere considerate secondarie qualora, sul piano del contenuto più profondo, sia possibile riconoscere identità semantiche. Gli abiti femminili e il modo di indossarli, ad esempio, possono cambiare nel corso della storia: queste variazioni devono essere considerate insignificanti se la funzione sociale dell’abbigliamento – la possibilità di riconoscere le classi d’età e lo stato sociale della donna – resta invariata e corrisponde alle esigenze strutturali dell’insieme culturale da descrivere. In altri termini, lo scopo ultimo della ricostruzione di una mitologia consiste nel ricreare, al di là delle diversità delle forme figurative e della loro variazione, un universo semantico autonomo. Dal punto di vista dello storico della cultura, l’universo semantico così ricostituito dal mitologo corrisponde probabilmente a quello che egli chiamerà l’ideologia o la cultura dominante dell’epoca.

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3. L’attenzione per il metodo Posto che la mitologia sia una sorta d’archeologia culturale, i metodi che permettono di effettuare i suoi scavi devono teoricamente aiutare a ricostruire il vaso intero da qualche frammento, a tracciare la pianta di una città a partire da pochi resti murari. In altri termini, sul piano metodologico, ogni fatto mitico registrato deve essere considerato, come parte integrante di un insieme più vasto4. Ogni oggetto mitico, ogni sequenza del racconto mitico devono servire da materiale per l’elaborazione di un modello ipotetico capace d’interpretare sia l’oggetto o la sequenza in questione, sia altri oggetti ivi afferenti. La ricostruzione mitologica deve dunque formulare senza sosta nuove ipotesi la cui convalida si fonda, come in altre discipline a vocazione scientifica, in base ai soli criteri di coerenza interna. 3.1. Testi di letteratura orale Il compito della ricostruzione della mitologia lituana consiste innanzi tutto nel ricercare, riconoscere e interpretare elementi mitici isolati e nel tentativo di iscriverli in strutture e dimensioni mitologiche più ampie. Questi elementi possono manifestarsi sotto le diverse forme di letteratura orale. Le fonti storiche ed etnografiche offrono un certo numero di racconti mitici veri e propri, che nessuno, fino a oggi, ha mai tentato d’interpretare come tali: si tratta, per esempio, del mito di Sovius5, di quello della fondazione della città, o del mito del diluvio. Per interpretare tali miti, si potrebbero utilizzare metodi già sperimentati dalla mitologia comparata che si basano sul principio fondamentale, la ricostruzione del codice semantico soggiacente. Tuttavia, il numero relativamente poco elevato di miti che hanno forma canonica – dato questo che si spiega con il grande ritardo con cui è iniziata la loro raccolta – obbliga il mitologo a porsi una domanda più generale: ammesso che la mitologia lituana sia sopravvissuta e che possa essere ricostruita, quali sono le forme e i mezzi attraverso cui essa si manifesta nel contesto lituano? Le fiabe di magia possono essere considerate una delle forme di conservazione dei miti. Per rendersi conto della loro specificità è sufficiente comparare a caso alcune varianti lituane di questi racconti con le versioni più conosciute dell’Europa occidentale. Facciamo qualche esempio: mentre Pollicino appare nei racconti classici alla Perrault, come il fratello più piccolo, intelligente, che salva i suoi fratelli dall’Orco con un’astuzia, il Pollicino lituano, benché occupi anche qui il ruolo narrativo del trikster, è un essere mitico nato dal peto della vecchia o dal pollice mozzato del vecchio, che gioca i suoi tiri migliori quando si trova nella pancia della vacca o del lupo. In Francia o in Germania, un racconto che tratti dell’apparizione del fidanzato morto s’iscrive nella categoria generale della manifestazione dei fantasmi e degli spiriti; la versione lituana, introduce invece, alcuni elementi mitici e tenta di risolvere il problema altamente filosofico della separazione definitiva tra morti e vivi. Un racconto conosciuto sin dall’antichità, che rappresenta un padre che vuole sposare la figlia, trova corrispondenze nel contesto lituano, non solo nei racconti che evidenziano le minacce dell’incesto tra padre e figlia, ma soprattutto in numerose varianti della vita incestuosa tra fratello e sorella, che risolvono, sul piano mitico, il problema del passaggio dalla parentela consanguinea alla parentela acquisita.

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Tutto questo non corrisponde, sicuramente, alla classificazione dei generi della letteratura orale elaborata nel XIX secolo, sulla cui base la maggior parte degli specialisti di folclore “sa” cos’è un mito e cos’è una fiaba. Dumézil, interrogato sull’argomento, durante il Simposio di Palermo dedicato a questo tema (1970)6, ha risposto di aver tentato senza successo per tutta la vita di trovare criteri espliciti che permettessero di distinguere i due generi. D’altra parte, la valorizzazione delle fiabe lituane, che noi tentiamo di fare, contraddice la teoria della migrazione delle fiabe e dei motivi dominante nel XIX secolo – e che in alcuni ambienti trova sempre i suoi difensori – secondo cui, viaggiando per monti e valli, le fiabe europee sono arrivate dalla lontana India. Si dovrebbe dedicare uno studio intero al rinnovamento di questa problematica veramente complessa. Notiamo, solo di sfuggita, che tre distinti problemi sembrano confusi in questo dossier: il carattere universale, comune a tutta l’umanità, delle strutture narrative; il problema della migrazione dei motivi, che cambiano significato e collocazione passando da un racconto all’altro; l’utilizzo di queste strutture e di questi motivi per l’investimento dei contenuti mitici e delle configurazioni mitologiche. Almeno in parte, noi ci allineiamo al parere di Dumézil, secondo cui le fiabe di magia possono essere interpretate come il risultato della degradazione dei miti o anche della loro desemantizzazione totale, che si manifestano in primo luogo attraverso la scomparsa dei nomi propri dei personaggi antropomorfi e la sostituzione delle loro funzioni mitiche con oggetti magici ed esseri straordinari. Riteniamo, dunque, di avere il diritto, almeno in qualche caso giustificato, di considerare alcuni racconti lituani come miti degradati e di tentare la loro interpretazione sul piano mitologico, restituendo ai personaggi i loro “veri” nomi mitici e determinando le loro funzioni divine. Su tali principi teorici e metodologici si basa, ad esempio, la ricostruzione del mito di Ausˇrine˙. Tra i miti e le fiabe di magia si situano dei microracconti compositi che, insieme e in successione, hanno a che fare con la leggenda, i racconti di credenze e le storie “vere”. Mentre i miti o le fiabe presuppongono lo spiegamento ampio delle strutture narrative, questi microracconti ne presentano solo briciole sparse, descrivendo ora un avvenimento straordinario, ora un essere mitico nelle sue diverse manifestazioni. In questo caso, la procedura da utilizzare è l’inverso della precedente. Il mitologo, invece di analizzare il racconto segmentandolo, deve ricostruire un tutto ipotetico a partire da frammenti isolati. Quale esempio di questo genere di tecnica si può citare la descrizione dei Kaukai 7. (…) Tuttavia, l’unico criterio solido per riunire i microracconti in un genere letterario particolare, sembra essere quello della verità, del “credere”, che sia i narratori sia i narratari manifestano nei confronti degli avvenimenti e dei personaggi messi in causa. Dato che il credere è un’attitudine relativa e non categorica, il grado di credenza accordato a tale o tal altro racconto è fortemente variabile. D’altra parte, il credere si manifesta spesso sotto forma di termini complessi, vale a dire che le persone tendono contemporaneamente a credere e a non credere a un fatto o a un’affermazione. Così, per esempio, affermare che il contadino lituano del XIX secolo “credeva” e “non credeva” all’esistenza delle “fate” (laume˙s) non ha per noi alcun senso. Anche ammettendo che nella nostra società, chiusa e in un periodo storico determinato, sia possibile suddividere la letteratura orale in racconti cui nessuno crede e in racconti cui tutti credono, si osserverà che tale ripartizione si modifica necessa-

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riamente nel corso del tempo: nel XVI secolo, Mazˇvydas, autore del primo catechismo in lituano, credeva ai Kaukai, alla loro esistenza “reale” e collocava nel campo della magia nera la collaborazione con loro, mentre i racconti del XIX secolo li rappresentano come esseri che vivono “in un’altra parrocchia” o che sono stati visti da questo o questo altro avo. Per la ricostruzione mitologica questo criterio di verità non è pertinente né efficace. Sicché, la descrizione degli esseri mitici secondo la loro presenza in questo o quel genere di letteratura orale non sembrerebbe accettabile. 3.2. Testi rituali Dal materiale puramente “letterario” bisogna distinguere i dati accumulati dagli informatori che osservano, studiano e descrivono una certa società: si tratta di descrizioni di lavori e di feste, di usi e di pratiche, religiose o “superstiziose”, di danze e di giochi ecc. Questo materiale, anche se nella maggior parte dei casi è accessibile al mitologo in forma linguistica e testuale, differisce dal primo perché registra la comunità osservata non attraverso la sua espressione linguistica e narrativa, ma nei suoi comportamenti somatici, manifestati attraverso i gesti e i movimenti del corpo, i quali sono, per il mitologo, altrettanto significativi dell’espressione linguistica orale. La problematica delle mutue relazioni tra le due dimensioni espressive – linguistica e somatica –, che permettono alla comunità di autoraccontarsi e significarsi, e che fino a poco tempo fa si è tentato di interpretare nel quadro relativamente ristretto delle interrelazioni tra mito e rito, non sembra poter trovare una soluzione unica. Le descrizioni dei rituali o delle credenze, per esempio, appaiono in primo luogo al mitologo come elementi importanti di quel codice semantico che deve permettergli di analizzare i racconti mitici. In compenso, rituali e credenze, presi separatamente, restano per lui incomprensibili e privi di senso finché non riesce a interpretarli nel quadro di un sistema mitologico comune. Il riconoscimento dell’esistenza di questa relazione dialettica tra parola significativa e comportamento significativo è lungi dall’essere una spiegazione definitiva, soprattutto non deve costituire un ostacolo all’analisi approfondita dell’una o dell’altra dimensione prese separatamente. Grazie al suo rapido sviluppo, dagli anni 1960, la semiotica ci ha abituato a considerare i rituali allo stesso modo delle concatenazioni di comportamenti stereotipati chiamati “usi”, cioè come specifici testi non-linguistici che possiamo analizzare usando gli stessi metodi usati per i testi linguistici di carattere narrativo. Di più: gli usi di una comunità chiusa, solidamente strutturata, presi nel loro insieme costituiscono un sistema normativo autonomo che permette all’etnologo rumeno Mihai Pop di parlare della possibilità di una “grammatica degli usi”, la cui descrizione è uno dei compiti essenziali del folclorista. In altre parole, passando dal piano della letteratura orale a quello della descrizione degli usi – credenze – rituali, si ritrova lo stesso problema generale dell’analisi dei testi mitici e della ricostruzione dei sistemi mitologici che, a loro volta, bisogna cercare di risolvere singolarmente, tenendo conto delle relazioni costanti tra le due dimensioni dell’espressione mitica. Ci troviamo di fronte a simili testi rituali e alle difficoltà legate alla loro interpretazione quando tentiamo di comprendere, ad esempio, la significazione delle feste cicliche, quelle che si ripetono tutti gli anni. Abitualmente, le descrizioni etnografiche distinguono feste del lavoro e feste calendariali. Tuttavia, è evidente a prima vista che questa divisione non è sufficientemente fondata: le feste agricole e i rituali che

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le contraddistinguono non sono legate a un calendario cristiano fisso a causa delle condizioni climatiche instabili, ma le feste dell’allevamento, che non hanno alcuna ragione di essere separate dalle prime, coincidono in parte con feste della Chiesa, la festa di San Giorgio o la Pentecoste, ad esempio. Dal punto di vista mitologico, le une come le altre sono in primo luogo legate alle divinità protettrici dei lavori dei campi o del bestiame: il primo compito consiste dunque nel ricostruire il legame tra le divinità – di cui spesso rimangono solo degli elenchi con qualche annotazione – e le feste e i rituali destinati a mantenere la comunicazione con il sacro. Si tratta di una prima classificazione che permette di attribuire ad ogni campo dell’attività agricola la dimensione della significazione mitica che la riguarda. Ogni attività agricola deve, d’altra parte, essere considerata come un processo globale che si dispiega lungo un periodo in cui si iscrivono rituali e feste che delimitano ciascuna delle sue fasi: ad esempio, il processo annuale di coltivazione del grano comporta, oltre ad aspetti incoativi (aratura, semina), anche aspetti durativi (“la visita del grano”) e, infine, aspetti terminativi (mietitura, gabjauja). Un siffatto approccio ai vari ambiti dell’attività agricola permette al mitologo di costituire un testo rituale globale che, nella struttura, assomiglia al testo linguistico narrativo e l’aiuta a trovare similitudini che, ripetendosi nei segmenti rituali autonomi, facilitano l’interpretazione del significato d’insieme. Ciascuno di questi processi agricoli, inoltre, è ciclico e globalmente ripetitivo: sicché la concatenazione del ciclo lavorativo dell’anno precedente con i lavori dell’anno a venire esige una particolare forma mitica. Restando sempre sull’isotopia della coltivazione del grano, osserviamo che essa si manifesta da una parte con la pratica di portare a casa e conservare lo jevaras, il “covone di grano”, e con la costruzione mitica del “ponte di jeveras” che lega i due anni e, dall’altra parte, per il fatto che la gabjauja, festa del riempimento dei granai, fa eco a un’altra: quella di Grandine˙s, festa dell’apertura dei granai. I testi rituali non solo hanno, dunque, una struttura interna propria, ma sono legati gli uni agli altri, formando così un insieme coerente di lavori e di feste. La proposta appena fatta di attribuire ogni ambito dell’attività agricola a una divinità particolare – di assegnare, per esempio, la coltivazione del lino al dio Vaizˇgantas – è soltanto una semplificazione metodologica: un solo ambito può essere subordinato a molte divinità e, al contrario, una sola divinità può possedere un’ampia sfera d’azione. Abbiamo incontrato questo fenomeno, ad esempio, nella descrizione delle feste di Gabjauja: se la protezione contro l’incendio del grano che sta per seccare è posta sotto il padronato del dio Jagaubis, lo scopo finale dell’operazione agricola, la trasformazione del grano in cibo, dipende dalla benevolenza dello Spirito del Grano. Il testo rituale, come si vede, può comprendere segmenti differenti destinati a esprimere relazioni contrattuali – di supplica e di riconoscenza – con divinità particolari. Le descrizioni delle feste del calendario a nostra disposizione si fanno carico, in parte, di una simile segmentazione del testo. Le relazioni tra gli elementi cristiani e quelli pagani di una festa sembrano molto larghe: durante le feste natalizie sono significativi dal nostro punto di vista soprattutto la vigilia e il giorno dopo, e non il giorno di Natale in sé; la passeggiata e le serenate notturne dei lalauninkai, le altalene installate per le ragazze, il “giorno della grandine” sono altrettanti segmenti che apparentemente non hanno niente in comune né con la

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Pasqua né tra di loro. La Pentecoste è, al contempo, la festa delle vacche, la “visita del grano” e il “pascolo mattutino delle ragazze”, simulacro del loro futuro matrimonio. La comparazione di queste feste con quelle del calendario delle feste romane dà l’impressione che spesso sia possibile interpretarle come sincretismi più o meno riusciti di diverse feste “pagane”. La logica della loro descrizione esigerebbe, dunque, all’inizio la loro decostruzione, la loro divisione in programmi rituali autonomi, e, infine, l’inserimento di questi programmi nei testi rituali omogenei; solo dopo sarà possibile tentare, con l’aiuto di una nuova ricostruzione, di ricomporre – come si è tentato di fare con la festa di Kriksˇtai 8 –le feste autentiche integrate nell’antica religione lituana. La difficoltà di realizzare in maniera soddisfacente tale programma metodologico appare chiaramente quando si ha a che fare con la desemantizzazione dei testi rituali. Una data pratica cerimoniale, in passato significativa per tutta la comunità, nelle descrizioni del XIX e del XX secolo si è trasformata in “usi” profani (ad esempio, quelli di Natale) o in “gioco” (l’altalena). Così come le fiabe di magia che, nella maggior parte dei casi, appaiono degradazioni dei racconti mitici, anche gli usi spesso possono essere spiegati come ripetizioni stereotipate di rituali che hanno perso il loro senso: in entrambi i casi la loro comprensione e la loro lettura ricordano, ancora una volta, la necessità di costituire un codice semantico. 3.3. Il dizionario mitologico Leggendo le descrizioni etnografiche delle feste cicliche si è colpiti non solo dall’importanza dei banchetti, ma anche dalla varietà delle vivande preparate in queste occasioni e soprattutto dall’adattamento delle vivande ad ogni festa, giacché esiste un legame costante tra i piatti preparati e le feste celebrate. Il riconoscimento di questa correlazione permette allora di parlare dell’esistenza di un sistema particolare di “usi alimentari” nel quale il mitologo deve trovare la significazione rituale che serviva loro da base. Una domanda, fino a poco fa molto dibattuta, consisteva nel chiedersi se gli antichi lituani possedessero “altari” e, in caso di risposta positiva, che genere di sacrifici vi praticassero. Queste domande potrebbero sembrare inutili se non si considerano alcuni principi di base che reggono il sacrificio, principi come: a) la vittima scelta deve essere gradita al dio al quale è immolata: il capro nero, il porcellino bianco, il gallo rosso ecc.; b) le cerimonie sacrificali costituiscono una forma di convivialità tra uomini e dei poiché comportano spesso la divisione del cibo offerto: libagioni, primizie, inviti di serpenti alla degustazione ecc.; c) dal punto di vista positivista, la parte destinata agli dei è molto poco importante dato che la loro natura divina non necessita di abbondanti quantità di nutrimento terreno e nella maggior parte dei casi essi si accontentano del fumo e degli aromi. La partecipazione della comunità alla festa solenne si manifesta dunque con la consumazione collettiva della parte di cibo a essa assegnata, cosa che, con la decadenza dei rituali e la loro degradazione in usi, si trasforma negli abbondanti banchetti descritti dagli etnografi. L’importanza del codice alimentare come modo d’espressione del sacro è più o meno grande secondo la religione considerata: notiamo di sfuggita che la separazione del cristianesimo dal giudaismo si è manifestata con la violazione dei divieti alimentari (Pietro a casa di Cornelio). È possibile, forse, sostenere che gli

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usi alimentari osservati nell’ambito delle grandi feste possano essere considerati come un mezzo metodologicamente efficace per attribuire alle differenti divinità la loro sfera di sovranità e di azione, e per precisare le loro relazioni con gli esseri zoologici e botanici. Il semplice fatto che il cibo dei banchetti dei raganos “streghe” sia senza sale, che la consumazione della carne sia interdetta al di fuori delle feste del bestiame, che al di fuori delle feste di fine battitura il gallo, offerto al dio Jagaubis, sia mangiato solo dagli uomini, mentre, in un altro caso, la coda della scrofa sia riservata alla sola padrona di casa, costituiscono dei segni mitici che dipendono dal codice culturale generale. Un certo tipo di ceci mangiati la vigilia di Natale, delle focacce arrostite al fuoco, i sikiai, i “dolci della cicogna”, costituiscono solo esempi scelti a caso tra tanti altri, che il mitologo deve imparare a decifrare. La birra, normale o tiepida, utilizzata per le abluzioni rituali, l’idromele consumato in casi determinati, il “vino verde”, il “sangue della nuora”, il cvikinas sono solo elementi di una isotopia di bevande raffinate la cui importanza nelle pratiche rituali è indiscutibile. Si potrebbero fare considerazioni simili riguardo ai piani d’espressione che ricoprono la problematica della malattia e della salute. La morfologia del corpo umano, in cui ciascun organo, dal dito mignolo alla testa, compreso il fegato, i polmoni, la milza e il cuore, possiede un significato e un ruolo simbolico, costituisce una sorta di geografia microcosmica che sussume tutta la problematica dell’uomo, persona complessa e omogenea a un tempo. Questo corpo è abitato da esseri autonomi che sono le malattie: kaltu¯nai, gumbai, klynai o kunige˙s che crescono o si spandono, salgono o scendono, escono dagli occhi o dalle unghie, che talvolta vincono la resistenza dell’uomo. La tipologia delle malattie – che resta da fare – si rivelerebbe in relazione costante col mondo delle divinità che le governano e le distribuiscono, ma che possono anche scacciarle dal corpo umano. Alcune malattie, inoltre, sono curate con formule magiche rituali, altre con medicamenti, beveraggi e unguenti di diverso tipo. La confezione di questi medicamenti, la scelta degli ingredienti che li compongono – tutto un vasto capitolo di “medicina popolare” – è lungi dall’essere il risultato del caso: così come i banchetti, con i loro piatti obbligatori, costituiscono il sistema degli usi alimentari, allo stesso modo si può parlare degli “usi curativi” che riflettono le antiche pratiche del trattamento rituale delle malattie, basato sulla correlazione tra le divinità e le piante. Così concepito, il codice mitico della botanica sarà di grande aiuto per la ricostruzione della mitologia lituana. Il grande Dizionario della lingua lituana (13 volumi pubblicati), risponde solo parzialmente ai bisogni del mitologo. La necessità di un dizionario esclusivamente mitologico si fa sentire sempre più vivamente.

* Il presente saggio è la parte introduttiva di Apie dievus ir zˇ mones. Lietuviu Mitologijos Studios (Greimas 1979a). La trad. it. è di Irene Falconieri ed è stata condotta in base alla trad. fr. (“Introduction”, in Greimas 1985, pp. 11-27; © Puf). Di tale libro il lettore italiano ha a disposizione altre due parti (1979a; 1986c). 1 L’articolo, con alcune aggiunte e modifiche, è ora in Lévi-Strauss 1958, pp. 231-261 (N.d.C.). 2 Anche se tale definizione non è indispensabile. 3 In rapporto ai secoli XIII e XIV, si potrebbe anche parlare di imperialismo lituano. 4 È possibile forse riconoscere in questo passo un’affermazione più generale di Greimas: “Il modello metodologico che ci sembra al momento il più adatto per la strategia della ricerca semiotica (…) consiste nel costruire, ogni

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volta che ci si trova in presenza di un fenomeno non analizzato, la sua rappresentazione, in maniera tale che il modello sia più generale del fatto esaminato e che il fenomeno osservato vi si iscriva come una delle sue variabili. È così che la pratica del testo può approdare a considerazioni teoriche che superano la sua singolarità, trasformando le ‘problematiche’ in concetti operativi e in parametri metodologici, sottoponibili ovviamente a ulteriori, eventuali conferme” (Greimas 1976a, pp. 245-246) (N.d.C.). 5 V. al riguardo Greimas 1986b (N.d.C.). 6 Il riferimento è al simposio internazionale “Strutture e generi delle letterature etniche”. Per gli Atti v. Avalle, Buttitta et al. 1978 (N.d.C.). 7 Divinità domestiche analizzate nel primo capitolo del libro (N.d.C.). 8 Riferimento all’ultimo capitolo del libro (N.d.C.).

Dal folclore alla mitologia. A proposito di alcuni elementi folclorici: motivo e cliché* Joseph Courtés

Come abbiamo precisato, la nostra ricerca poggia su un solo universo culturale: come mostrano le citazioni effettuate, anche se abbiamo avuto cura di prendere gli esempi da tutte le regioni della Francia e anche in terra canadese, il materiale proviene unicamente dalle tradizioni orali francofone. Poiché ciò che comunemente chiamiamo “motivo” si sposta non solo all’interno di uno stesso universo socioculturale (da una fiaba tipo a un’altra, ad esempio), ma anche da un’area culturale a un’altra, non ignoriamo i limiti del nostro lavoro. Al riguardo, sarebbe interessante vedere, per esempio, se, in un altro universo culturale, figure diverse da quella della “stella”, corrispondano all’insieme dei tratti figurativi: /brillante/+/luminoso/+/celeste/. Detto questo, il nostro lavoro non mira ad alcun comparativismo generalizzato. Ci atteniamo per il momento alla tradizione francese e vorremmo semplicemente completare le nostre osservazioni, relative a quei racconti orali forse fin qui un po’ troppo ripetuti, con altre provenienti da pratiche (essenzialmente gestuali) più o meno note, appartenenti allo stesso universo culturale. La preoccupazione di allargare il nostro corpus ad altri elementi di tipo non verbale si giustifica facilmente: prelevando dalle fiabe francesi un certo numero di figure per legarle secondo un dispositivo di opposizioni paradigmatiche e dichiararle così “motivi”, abbiamo sicuramente dato l’impressione che la nostra scelta sia stata perlomeno arbitraria, puramente intuitiva. Non potremmo negare, in effetti, che tutta la nostra descrizione poggi, in definitiva, su un principio di estrazione, di selezione, di isotopia: ma, estendendo il nostro campo di esplorazione – non foss’altro che in vista di un’eventuale conferma delle nostre ipotesi – vorremmo soprattutto mostrare che la ricorrenza delle stesse categorie e delle stesse figure in un materiale differente (in quanto essenzialmente non linguistico) non è un fatto casuale: come direbbe Claude Lévi-Strauss, “qualcosa che assomiglia a un ordine traspare dietro il caos” (1964a, p. 15). Il “caos”, nel campo di ciò che chiameremo le pratiche tradizionali, si nota maggiormente in quanto, a differenza dei racconti e delle fiabe, non abbiamo organizzazione sintagmatica ad ampio raggio delle figure. Ciò equivale già ad affermare che le annotazioni alle quali procederemo avranno un aspetto piuttosto disordinato. Evidentemente qui – ancor più di prima – saremo lontani dall’esaustività. Ci limiteremo a qualche dato particolare, censito da folcloristi qualificati, che appaia praticamente omologabile agli elementi citati nella nostra presentazione del ciclo dell’eroina. Di fronte a un materiale abbastanza eteroclito, che i folcloristi stessi hanno difficoltà ad analizzare, noi disponiamo già di una griglia di lettura – il codice figurativo – che ci permetterà di dare senso a osservazioni a prima vista lontane tra loro.

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Abbiamo lungamente insistito sull’opposizione celeste/acquatico (“sole”, “stella”, “pozzo”, “fontana” ecc.), così come su quella luminoso/oscuro (“giorno”/“notte”, “bianco”/“nero” ecc.). Abbiamo sottolineato il carattere “mediatore” dell’eroina (a livello attoriale), degli spazi (“ponte”, “fontana” ecc.) e anche dei tempi (“chiaro di luna”). Ritroveremo un po’ tutto questo, in una forma abbastanza comparabile, in un rito della notte tra il 30 aprile e il primo maggio a Metz, riportato da R. de Westphalen (1934) e ripreso tale e quale dalla Ségalen (1981, p. 82), che si accontenta di ricordare, a mo’ di commento, che questo rito mette in gioco la verbena, pianta di Venere – astro associato all’amore nel pensiero popolare –, e l’acqua purificatrice che bisogna agitare con la mano del cuore, situandosi così sulla sola dimensione sintagmatica, quella del tema dell’/amore/. Rileggiamo con lei il rito in questione: Poco prima del nascer del giorno, le ragazze nubili andavano ad addobbare i pozzi e le fontane con mais, con ghirlande verdeggianti e fiorite, con corone e con nastrini; al levar del sole, esse danzavano con i ragazzi attorno ai pozzi e alle fontane. L’acqua dei pozzi e delle fontane acquistava a mezzanotte, il giorno del 1° maggio, delle virtù magiche, preventive e curative. La fanciulla cercava di mettere a profitto questo potere dell’acqua. Ella, dopo aver ben pulito un secchio con della verbena, prima del levar del sole, ne staccava da un cespuglio un ramo, dicendo nove volte: “Emïn, rèbïn, voyïn”. Poi andava alla fontana e doveva riempire il secchio nel senso del corso dell’acqua, proprio nel momento in cui il sole appariva. Velocemente ritirava il secchio e vi immergeva la mano sinistra muovendo le dita: se non era stata vista da nessuno, poteva essere sicura di vedere nell’acqua la figura del futuro sposo.

Come si nota, grazie alla nostra sottolineatura, il rito – raffrontato per esempio al comportamento di Pelle d’Asino che consulta la madrina presso la “fontana” per sapere cosa rispondere al padre che vuole sposarla, o a quello dell’eroina di Le Fate che cerca il suo “setaccio” nel “ruscello” (v. 22 e 24) o a quello di Cenerentola che riceve un “vestito di sole” e diviene, per questo, desiderabile come sposa (in tutte le fiabe del ciclo che la concerne, l’eroina finisce sempre per sposarsi) – assume tutto un altro significato, se non un’altra dimensione, rispetto a quello, tendente allo psicologico, proposto dalla folclorista: Il pensiero popolare – scrive Ségalen (1981, p. 80) per introdurre il rito di Metz – mette in rapporto diretto il cuore, sede dei sentimenti, e l’oggetto che deve essere il messaggero segreto dell’amore.

Per confermare la nostra proposta si noterà che, se nel rito di Metz in questione, la “visione” dello sposo viene cercata nell’“acqua”, altrove essa è talvolta richiesta alla “luna” – vale a dire nell’opposto universo del /celeste/ – senza che, peraltro, venga necessariamente abbandonata la dimensione /acquatica/ (cfr. la menzione dello “sgrondo del tetto” nel passaggio che segue): rileviamo solo, tra le tante, questa usanza delle Alpes vaudoises raccolta da Sébillot (1969, I, p. 50), che mette in gioco, sul piano soggiacente, differenti opposizioni figurative, come quelle (giorno)/notte, brillante/(opaco), celeste/terrestre, terrestre/acquatico, orizzontalità (“letto”, “incrocio”)/verticalità (“scendere”, “posare”) ecc.:

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La vigilia di Natale, a mezzanotte, bisogna scendere dal proprio letto posando a terra per primo il piede sinistro e, se la luna brilla, andare a un incrocio e dire: Luna, mia bella luna Tu che conosci la mia fortuna Oh! fammi vedere in sogno Chi avrò per amante. Si recita la stessa formuletta andando, tra le undici e mezzanotte all’indietro, dalla parte dello sgrondo del tetto.

Numerosi folcloristi si attengono a un legame privilegiato tra la “donna” e la “luna”, essendo il ciclo dell’astro legato a quello della psicologia femminile; come scrive Ségalen a proposito della donna: La luna è (...) sua alleata nella ricerca amorosa (1981, p. 82).

Neppure i lavori dei più eruditi folcloristi forniscono, però, spiegazioni plausibili per quanto concerne la menzione simultanea – nel rito di Metz precedentemente citato – dell’“acqua” e del “sole”: essi ci appaiono, infatti, più impegnati a stabilire al meglio correlazioni tra i termini, tra “donna” e “luna”, ad esempio, o – un po’ come nel caso dell’“orso” simbolo della /collera/, rilevato da Panofsky – tra figura e tema (la “verbena” considerata come pianta dell’/amore/), piuttosto che a evidenziare categorie figurative soggiacenti, quali quelle che si manifestano nelle usanze che abbiamo appena richiamato. È poi vero che, nel quadro di una determinata pratica, non necessariamente figurano ambedue i termini di una categoria: è il caso della fanciulla che per sapere chi sarà il suo sposo deve contare ogni sera, come si faceva un tempo a Liegi, “per sette giorni, sette stelle, e ricominciare pazientemente se anche una sola volta le nuvole si interpongono” (Sébillot 1969, I, p. 54); ciò ricorda la v. 13 di Cenerentola in cui la “nocciola” non ha alcuna figura in posizione antagonista. Nelle nostre pratiche tradizionali, la figura della “nocciola” è quasi esplicitamente associata alla sessualità e, più generalmente, al tema della /fecondità/. Soffermiamoci subito sul legame che tra la “nocciola” e il /terrestre/, specialmente attraverso la fertilità del suolo. Il rapporto si stabilisce qui grazie alla bacchetta di nocciolo (che in qualche versione di Cenerentola serve da “bacchetta magica”). Citiamo, in questo senso, la pratica degli aratori che, in alcune zone della Lorena, fanno bruciare leggermente, al falò di San Giovanni (festa che sappiamo essere legata al “sole”, e dunque al /celeste/), una bacchetta di nocciolo che essi piantano nei campi di canapa per preservarli dal temporale e per far crescere la canapa alta quanto la bacchetta (Van Gennep 1949, p. 1880).

Più che sull’influenza del nocciolo sulla fecondità del suolo, che nessun folclorista manca di sottolineare, vorremmo richiamare l’attenzione sul rapporto del nocciolo con la coppia celeste/acquatico, richiamata qui indirettamente attraverso la menzione del “temporale”. Prendiamo quindi quest’altra usanza raccolta da Sébillot (1969, III, p. 386) in un’altra regione della Francia:

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Nel Delfinato, per allontanare i bruchi da un campo di colza o di cavoli, si piantano delle bacchette di nocciolo, di prima fioritura, di un anno, a ciascun angolo, meno uno che deve servire da porta di uscita per i bruchi, e si dice: “Insetto roditore, io ti caccio nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo”. Quando i rami sono stati messi a ciascun cantone, si vedono uscire i bruchi da quello lasciato senza; questa operazione deve essere fatta appena prima del levar del sole o appena prima del calar del sole.

Più esplicita ancora, ai nostri fini, è la pratica, raccolta da Van Gennep (1951, p. 2155) in cui il nocciolo occupa proprio la posizione mediana (dunque /terrestre/) tra il /celeste/ (raffigurato dal “sole”) e l’/acquatico/, in cui esso viene “immerso”: Nel Loiret, si scacciano i bruchi da un orto mandandoli alla fiera; si sceglie un giorno di fiera in una località vicina; il mattino, prima del nascer del sole, si prende nella mano destra una bacchetta di nocciolo, preventivamente immersa nell’acqua, poi nella mano sinistra si prendono tre bruchi che si portano fuori del giardino nella direzione del paese dove si tiene la fiera: gli insetti scompaiono come per incanto.

Il passaggio dalla fertilità del suolo alla sessualità umana non costituisce un’estrapolazione indebita: capita, per esempio, che la bacchetta di nocciolo serva simultaneamente alle due funzioni: Il giorno della santa croce, i contadini della Franca Contea facevano benedire i fasci di croci di nocciolo preparate dai pastori, che sarebbero poi state collocate nei campi. I giovani che, durante la mietitura, le avessero trovate, si sarebbero sposati entro l’anno (Sébillot 1969, III, p. 387).

Nella Franca Contea, ma anche in Lorena, l’associazione della “nocciola” con le “fanciulle” e con il “grano” ricorda, almeno indirettamente, l’eroina di La fidanzata sostituita (fiaba tipo 403) che, pettinandosi, fa cadere “grano e frumento”: Il 31 dicembre o il primo dell’anno, i ragazzi accendevano dei pezzi di legna tagliata e andavano fin sul limitare dei campi di grano gridando: “Buona annata ritorna – Del pane, del vino – E tutti i beni – Delle nocciole per le fanciulle – Delle noci per i ragazzi”; poiché molte nocciole nell’annata indicano abbondanza di grano (Van Gennep 1958, p. 3046).

Il legame tra “nocciola” e “fanciulla” da maritare (considerata, dunque, sotto l’angolazione della sessualità) è un dato costante nelle nostre tradizioni popolari. A sostegno di questa affermazione, notiamo ad esempio quest’usanza abbastanza frequente in molte regioni della Francia: In molti villaggi della zona di Beauraing, le fanciulle donano delle nocciole ai pretendenti che le vanno a trovare il primo dell’anno, e quest’uso è così radicato, che questi ultimi, invece di dire: “Vado ad augurare buon anno alla tale”, dicono: “Vado a prendere le mie nocciole” (Sébillot 1969, III, p. 400).

L’associazione tra sessualità e “nocciola” appare evidente soprattutto quando viene tolta la censura. Ne abbiamo un esempio, nel corso delle feste bretoni, del

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gioco detto del “Fouil Jakot” che consiste, per i ragazzi, nel cercare nelle tasche delle ragazze, le nocciole, noci o mele, che esse vi hanno messo, approfittando così dell’occasione per concedersi le libertà e le carezze, previste dal gioco. Questa pratica si potrà facilmente confrontare con l’espressione proverbiale: “Ha rotto la sua nocciola”, detto di una ragazza che abbia avuto rapporti sessuali prima del matrimonio, o con l’adagio bretone secondo il quale “quando si va in due a raccogliere le nocciole, si torna a casa in tre” (1968, I, p. 69). Non ci si stupirà, dunque, nel vedere che il rituale del matrimonio lega a sua volta la “nocciola” alla donna. È ben noto il lancio di “nocciole” sugli sposi praticato in molte parti della Francia: quest’uso estremamente frequente del lancio di frutta secca (nocciole, noci, mandorle) – così come lo vediamo menzionato, per esempio, nella Storia di Gian-l’han-preso (romanzo occitano del 1756) studiato recentemente da E. Le Roy Ladurie in Il denaro, l’amore e la morte in Occitania –, si ritrova persino nel cerimoniale del battesimo che vede però, soprattutto nel corso del XIX secolo, la sostituzione di nocciole e mandorle con i confetti. A tale rituale delle nocciole si può ricollegare questa pratica locale – forse legata indirettamente all’universo /acquatico/ attraverso la figura del “ponte” – descritta da Van Gennep (1947, p. 1371): Ad Arles, si teneva una volta, sul ponte di Trinquetaille, il lunedì di Pasqua, la fiera delle nocciole, alla quale i giovani e le fanciulle si recavano in gruppo e si lanciavano manciate di nocciole (...).

e integrata dal seguente commento: era probabilmente (...) un rito di fertilizzazione (1953, p. 2738).

La presenza di “nocciole” al matrimonio assume altre due forme. Si nota, da una parte, che nel paese di Kerneval, si davano nocciole alla sposa durante tutta la prima notte di nozze (Sébillot 1969, III, p. 401), o che, come avveniva spesso in Bretagna, il ragazzo e la damigella d’onore passavano tutta la notte (delle nozze) nella camera, senza svestirsi e occupati a dare nocciole da rompere al marito (1968, I, p. 109).

D’altro lato, si può citare quest’altra usanza, abbastanza frequente nel Nord, nell’Ovest e nel Centro della Francia, di cui daremo una variante raccolta in Beauce: In Eure-et-Loire, nella zona di Bonneval, alla fine del XVIII secolo, se uno degli sposi non lasciava dopo di lui un fratello o una sorella da sposare, sua madre, dopo cena, danzava la “pouchette rousse”. Si chiamava così una specie di minuetto. La danzatrice portava attaccata alla sottana una piccola tasca piena di nocciole alle quali aveva mischiato alcuni confetti. La tasca era forata in basso, in modo che ad ogni passo e ad ogni movimento uscisse qualcosa attraverso l’apertura. Tutti si disputavano quello che cadeva dalla taschina. Svuotato il sacchetto, la danza era finita (Van Gennep 1946, pp. 640-641).

Se si raffronta allora il costume di Kerneval con quello di Bonneval, si vede che, nel primo caso, la giovane sposa ingurgita, per così dire, le nocciole, mentre, nel secondo, la madre sembra restituirle: considerando che la danza della “pouchette” è

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eseguita dalla madre solo in occasione del matrimonio dell’ultimo figlio, vale a dire una volta portato a termine il programma tematico-narrativo della /fecondità/, si dedurrà che si danno “nocciole alla sposa durante tutta la prima notte di nozze” (Kerneval), per annunciare, evidentemente, la sua /fecondità/ futura. Detto questo, e a differenza dell’accostamento attuato in precedenza tra il “nocciolo” e la “terra”, l’associazione delle “nocciole” con la “fanciulla” o la “donna” non sembra far intervenire sull’asse paradigmatico (vs sintagmatico cui appartiene, per esempio, la /fecondità) – come ci si sarebbe potuto attendere – opposizioni figurative del genere celeste/acquatico. Tuttavia, se si ammette che i due termini di una categoria non sono sempre manifestati simultaneamente, si comprenderanno meglio certi dettagli delle pratiche tradizionali. Segnaliamo ad esempio, in questo senso, sulla scorta di Ségalen (1981, p. 63) – la quale peraltro riprende questo dato da Bouteiller – che il giovane innamorato incide talvolta una “stella” sulla “nocciola” che sarà portata alla cintura, appesa come “gioiello”, dalla fanciulla amata; inoltre il giovane qualche volta porta sul gilet una “stella”, ricevuta come pegno proprio dalla fanciulla. Se il legame tra “nocciola” e /celeste/ è così riconoscibile, sia pure, talvolta, in modo attenuato, quello tra “nocciola” e “acquatico” è invece spesso esplicito, come testimonia, per esempio, la visita che i giovani rendono, il martedì grasso, alle fanciulle da marito nella regione di Rupt (Vosgi): Dopo i saluti e i complimenti d’uso, il più sveglio della banda chiede alla fanciulla, presentandole una bacinella d’acqua che egli ha portato, il permesso di prenderle la mano sinistra e di immergerla piano piano nell’acqua. Questa abluzione si compie con studiata lentezza. Quando essa è infine terminata, un nuovo ragazzo si fa avanti e reclama a sua volta una grazia, quella di poter asciugare le due dita bagnate con un asciugamano che egli ha appositamente domandato alla padrona di casa. La fanciulla ben educata non si accontenta di ripagare queste galanterie con ringraziamenti; ella offre ai suoi visitatori mele, pere, e soprattutto nocciole (Sauvé 1890, pp. 92-93).

Come non comparare, allora, quest’usanza con quella attestata nel Delfinato, secondo la quale “il primo che andava alla fontana il primo giorno dell’anno, lasciava lì vicino delle nocciole o delle mele” (Sébillot 1969, II, p. 302). Se anche i due casi differiscono per lo scopo da raggiungere – dal momento che esso è ogni volta iscritto entro articolazioni sintagmatiche differenti – l’opposizione paradigmatica tra il /terrestre/ (cui appartiene la “nocciola”) e l’/acquatico/ (“abluzione”, “fontana”) che è loro comune, ci autorizza ad accostarli. Abbiamo visto che, oltre alla “nocciola”, il ciclo dell’eroina utilizza altre figure di “contenitore”, anch’esse situate – secondo il nostro postulato – nell’isotopia della /fecondità/. Come ben sappiamo, le “noci” e le “mandorle” accompagnano molto spesso le “nocciole” nel lancio di frutta secca, al quale abbiamo accennato a proposito delle cerimonie di matrimonio o di battesimo. Segnaliamo allora che: nelle Hautes Alpes, verso il 1840, sulla tavola imbandita all’ingresso di ciascun villaggio, quando si sapeva che sarebbe passato di lì un corteo nuziale, c’erano due noci caramellate, una per ciascun sposo, e un bicchiere di liquore che gli sposi non osavano rifiutare di bere metà ciascuno: questo significava che essi dovevano essere uniti come i gusci di una noce (p. 401).

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Nello stesso senso: In alcune località, a Berre, per esempio, si conservavano i gusci delle mandorle consumate nel corso del Cenone di Natale per spargerle nei campi al fine di ottenere un’abbondante raccolta (Galtier 1969, p. 30).

A proposito dell’“uovo”, incontrato in più punti del nostro corpus, conviene ricordare che le fanciulle vi facevano spesso ricorso per conoscere in anticipo quale sarebbe stato il loro futuro marito: questo ruolo, affidato all’“uovo” (appartenente, secondo la nostra ipotesi, al /terrestre/), è lo stesso che in precedenza abbiamo visto assumere dall’“acqua” o dalla “luna”, vale a dire dall’/acquatico/ o dal /celeste/. Segnaliamo anche, ma da un punto di vista sintagmatico, che l’accettazione – o talvolta il rifiuto – del pretendente da parte dei genitori della fanciulla, in occasione della richiesta ufficiale di matrimonio, poteva esprimersi spesso attraverso il dono di un uovo: l’offerta di uova, di frittate e di nocciole ha immediatamente un senso fecondatore, tanto più che, popolarmente, una bella ragazza è paragonata a una buona gallina ovaiola, idea che, si vedrà, si esprime anche attraverso il rito dei polli (Van Gennep 1943, p. 275).

E persino la figura della castagna – incontrata nella v. 8 di La ricerca dello sposo scomparso – può essere associata al matrimonio, se si crede ciò che si dice in terra di Cévennes: Se una fanciulla fa saltare le castagne in una padella forata e quelle vengono cotte a puntino, ella è destinata ad essere felice nel matrimonio; se invece, le lascia bruciare, tutti le consigliano di non sposarsi, poiché certamente la sfortuna si accanirà su di lei. L’usanza obbliga anche il giovane che deve sposarsi a lanciare, per due volte, tutte le castagne fuori della padella e a riprenderle tutte in un colpo solo. Se una sola esce dal recipiente, egli perderà la moglie l’anno stesso del matrimonio, e se è così maldestro da sparpagliarle ogni volta, sarà invece lui a morire per primo (Sébillot 1969, III, p. 397).

Tutt’altro, come abbiamo più volte suggerito, è lo statuto del “baule”. A proposito di questa figura, ricordiamo subito un’osservazione di Van Gennep nel capitolo che egli dedica ai “preparativi di nozze” (1943, p. 357): Nella maggior parte delle province, il matrimonio era spesso simboleggiato, almeno anticamente, attraverso il baule o l’arca, solo mobile importante durante tutto il corso del Medio Evo, e che fino a questi ultimi tempi ha giocato un certo ruolo nella vita domestica del Cotentin e del Bessin. Esso è stato rimpiazzato poco a poco dall’armadio che, ai nostri giorni, serve da vero simbolo matrimoniale, anche più del letto; è così anche in Bretagna dove il giorno del trasporto dei mobili, è detto giorno dell’armadio.

Trasportato così nel corso della cerimonia di matrimonio, il baule contiene abitualmente il corredo della sposa, al punto che, per esempio, in Alsazia si diceva “Du hirdsch nomme wenn di Truwe woll isch”: tu non ti sposerai finché il baule non sarà pieno (Ségalen 1981, p. 114).

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Qui si chiarisce quanto detto in precedenza, cioè che il “baule” travalica, per così dire, la configurazione del “contenitore” per connotare altri elementi adiacenti: se pure il “baule” gioca il ruolo di “contenitore”, esso si distingue, almeno in parte, per il proprio contenuto più corrente, vale a dire i gioielli o la biancheria confezionata per la fanciulla da sposare. Accade qualcosa di simile per gli “strumenti di filatura” che, nel “giorno dell’armadio”, accompagnano la mobilia: Un posto d’onore, di solito in cima al carico, fu attribuito fin verso la fine del XIX secolo alla rocca, simbolo per eccellenza del lavoro femminile e al tempo stesso augurio di buon matrimonio, di benessere futuro, di abbondanza e anche di fecondità; la si accompagnava sia con un filatoio nuovo, sia con uno che era servito per lungo tempo ad una delle nonne. Filatoio e rocca erano infiocchettati. Talvolta una delle madri, o delle madrine o delle damigelle d’onore, seduta sul carro, in mezzo ai mobili o vicino al conduttore, faceva finta di filare una matassa di filaccia di canapa o di lino (Van Gennep 1943, p. 357).

Come il “baule”, anche gli “strumenti di filatura” travalicano, in qualche maniera, la stretta configurazione della “filatura”, non foss’altro che per il fatto di essere associati, al pari del baule stesso, alla “donna” e, più ampiamente, all’/economia domestica/. Che si tratti del “baule” o degli “strumenti di filatura”, ci si accorge che queste figure – a differenza dei motivi, che attengono alle relazioni paradigmatiche (il “sole” e il “fiume”, ad esempio, si oppongono secondo il celeste/acquatico) – hanno piuttosto la tendenza ad associarsi ad altre sull’asse sintagmatico: sia nelle pratiche gestuali appena citate, sia nelle fiabe tipo esaminate precedentemente, la “rocca” o il “filatoio”, ad esempio, richiamano, in posizione di /soggetto/, la figura della “donna” o della “fanciulla”, conformemente a una abitudine socioculturale ben determinata. Non possiamo dunque che sorprenderci dei due commenti di Van Gennep che, a proposito del “baule” e della “rocca”, parla di “simbolismo”. A nostro avviso non si tratta per niente di “simbolismo”: se il “baule” e la “rocca” figurano nel cerimoniale del matrimonio, è proprio per il loro aspetto programmatico (di ordine sintagmatico), dal momento che la loro posizione anaforica e/o cataforica è un dato secondo, che non giustifica il fatto che si parli di “simbolo”. Se, infatti, il simbolismo gioca nell’ordine del paradigmatico, esso non potrà definirsi attraverso la distribuzione sintagmatica, la sola a essere qui sottolineata. Siamo così giunti a concludere che se i motivi (“sole”, “luna”, “asino” ecc.) stabiliscono tra loro relazioni paradigmatiche articolabili in categorie figurative (del tipo luminoso/oscuro, brillante/opaco, celeste/acquatico ecc.), quelle altre figure – spesso definite finora “desemantizzate” – come il “baule” o la “rocca”, apparterranno invece a un’organizzazione sintagmatica che privilegia l’ordinamento tematiconarrativo: così la filatura richiede un /soggetto di fare/, in particolare una “filatrice”, un /oggetto/, la “filaccia” ecc. Si nota allora che niente ci impedirebbe di avere un “filatore” in luogo di una “filatrice”, essendo la posizione di /soggetto di fare/ appannaggio di qualsiasi attore figurativo. Se, come nel caso delle nostre fiabe tipo e delle nostre pratiche socioculturali tradizionali, solo la “donna” o la “fanciulla” possono sostenere questo ruolo, ciò è dovuto semplicemente a uno stereotipo culturale che associa regolarmente la “filatura” al mondo femminile. Di qui l’effetto di

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“connotazione” provocato, sembrerebbe, da queste figure della “filatura” e del “baule”. Pertanto, a differenza del caso della “nocciola” o del “sole”, qui non abbandoniamo per niente l’asse sintagmatico a favore di quello paradigmatico. Per distinguere allora chiaramente lo statuto della “nocciola” da quello del “baule”, nel primo caso, proponiamo di parlare di “motivo”, mentre nel secondo, si tratterà di un “cliché” socioculturale. Con riguardo alle nostre annotazioni precedenti, definiremo il “cliché” come un’associazione stereotipata di configurazioni differenti (“baule” = “contenitore” + “biancheria” + “donna” + ...). Contrariamente a quanto abbiamo potuto lasciar intendere, nel “baule” non c’è, a dire il vero, connotazione: si tratta solamente, a nostro avviso, di un fenomeno di pluriconfigurazione in cui ciascuna configurazione costituente è controllata da una organizzazione sintagmatica, da un dispositivo tematico-narrativo. Si potrà allora considerare il “baule” – in tutti i contesti, e solo in essi, in cui l’abbiamo incontrato – come una sorta di “connettore” configurativo. Detto questo, qui conviene soprattutto sottolineare che il codice figurativo messo in luce dalle fiabe di magia non è affatto appannaggio esclusivo di questi racconti, poiché le figure scelte per manifestarlo – l’abbiamo appena visto – si ritrovano in modo equivalente, in una forma meno narrativizzata, anche nei riti, nelle usanze o, più genericamente, nella totalità delle pratiche dette folcloriche. Dalle indicazioni sopra riportate, come da altre possibili, si noterà che uno stesso universo semantico, nel nostro caso di natura figurativa, si esprime in forme variabili, come dimostra l’insieme completo delle tradizioni popolari: non a caso ciò che si chiama comunemente “folclore” ricopre, in definitiva, pressoché tutti gli aspetti della vita umana di un dato gruppo socioculturale, in un momento storicamente determinato: aspetti della vita umana che, quasi si trattasse di “generi”, abbiamo classificato come “racconti” (“fiabe” e “leggende”), “credenze”, “usanze”, “riti” ecc., arrivando a includere anche “danza”, “mobilia”, “habitat”, “attrezzi” ecc. In effetti, sembrerebbe proprio che, con il riconoscimento di un codice figurativo soggiacente, si metta in luce un significato – di tipo non narrativo (e dunque complementare all’approccio proppiano) – di livello profondo, indipendente da tutti quei differenti “oggetti” folclorici che gli servono occasionalmente da supporto e la cui totalità pare davvero circoscrivere un universo semantico omogeneo. Nessuno ignora che Claude Lévi-Strauss abbia fatto ricorso, per l’interpretazione dei miti amerindiani, a quegli elementi – detti secondari – che sono le credenze, i rituali e altre pratiche consuetudinarie: proprio per questo carattere apparentemente eterogeneo, la procedura comparativa inglobante di Lévi-Strauss è stata, talvolta, fortemente contestata. Postulando – e dimostrando – l’esistenza di un codice figurativo unico, estendibile all’insieme degli elementi appartenenti a generi differenti, oggi sembra possibile superare questa difficoltà e giustificare una più ampia utilizzazione di tutti i materiali offerti dalle tradizioni popolari.

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Il saggio è tratto dalla terza parte di Courtés 1986, pp. 249-261.

Aspetti antropologici della lingua. Ingiurie e categorie animali* Edmund R. Leach

Oggetto di questo saggio è uno dei temi classici dell’antropologia: il tabù. Esso non rientra, sotto questa forma, nel campo del discorso classico della psicologia sperimentale, ma il tema che tratterò ha equivalenti in psicologia. Quando gli psicologi discutono del meccanismo della “dimenticanza”, fanno spesso intervenire il concetto di “interferenza”; l’idea è che esista una tendenza a reprimere le nozioni che presentano una specie di sovrapposizione semantica (Postman 1961). La mia tesi è invece che noi possiamo arrivare a concetti verbali distinti semanticamente solo reprimendo la percezione della zona di frontiera che si trova fra essi. Esporre gli aspetti antropologici del linguaggio nello spazio che mi è concesso è come scrivere una storia dell’Inghilterra in trenta righe. Propongo dunque di affrontare un tema specifico piuttosto che un tema generale. Per l’antropologo la lingua è una parte della cultura, non qualche cosa in se stessa. La maggior parte dei problemi che si pongono agli antropologi riguarda la comunicazione umana: la lingua è uno dei mezzi di quest’ultima, ma anche i comportamenti abituali sono mezzi di comunicazione e l’antropologo ha l’impressione di potere, anzi di dovere, prendere in considerazione questi due modi di comunicazione nello stesso tempo. Linguaggio e tabù Il nostro simposio verte sul linguaggio, ma il mio tema è un tema di non-linguaggio. Invece di studiare cose che sono dette e fatte, ho intenzione di parlare di cose che non sono né dette né fatte. Il mio tema è il tabù, l’espressione inibita. La letteratura antropologica, come la letteratura psicologica, abbonda di ampie descrizioni e spiegazioni di proibizioni e di inibizioni apparentemente irrazionali. Questo genere di “tabù” può riguardare sia il comportamento, sia la lingua, e bisogna notare che le sanzioni protettrici si rassomigliano molto nei due casi. Se fosse mia intenzione ora di farmi arrestare dalla polizia, potrei spogliarmi completamente o dire un mucchio di cose molto oscene: i due procedimenti sarebbero ugualmente efficaci. I tabù linguistici e i tabù comportamentali non solo prevedono le stesse sanzioni, ma sono anche strettamente legati: è il caso del comportamento sessuale e delle parole che indicano il sesso. Ma l’associazione tra azione e parola non è semplice come sembra. Non si tratta forzatamente di una relazione causale. Non è per niente detto che certi tipi di comportamento siano tabù, e che, di conseguenza, il linguaggio a essi legato diventi tabù. Può anche accadere, talvolta, che le parole siano tabù di per sé, per ragioni linguistiche (fonemiche). Il legame causale è in questo caso invertito: un

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tabù di comportamento viene a riflettere un precedente tabù verbale. Nel resto del saggio, mi limiterò a sfiorare questo complesso argomento. Uno dei tipi familiari di tabù puramente linguistici è il gioco di parole, che si produce quando si fa una battuta confondendo due significati apparentemente diversi dello stesso modello fonemico. Consideriamo un gioco di parole divertente o scandaloso perché sfida un tabù che di solito ci proibisce di riconoscere l’ambiguità del modello fonico. In molti casi, i tabù verbali di questo genere hanno sia aspetti sociali sia linguistici. In inglese – non credo in americano – la parola queen (“regina”) ha un omonimo quean. Queste parole sono foneticamente indistinguibili (KW I¯N). Queen è la sposa del re o comunque una sovrana; quean, che una volta voleva dire prostituta, designa ora in genere un omosessuale maschio. Fuori del mondo degli uomini, troviamo delle queen bees (“regine delle api”) e delle brood queen cats (“gatte riproduttrici”): le due espressioni indicano una grande fecondità, ma quean è una vacca sterile. Sebbene queste due parole si presentino come diverse, persino opposte, denotano in realtà la stessa idea. Queen è una donna con uno statuto anormale, in senso positivo, quello della virtù; quean è una persona di carattere depravato o di sesso incerto, una femmina che ha uno statuto anormale in senso negativo, quello del peccato. Tuttavia, il carattere anormale che è loro comune le trasforma entrambe in esseri soprannaturali; come pure lo sono, in metafisica, i contrari Dio e Diavolo. In questo caso, il tabù che ci permette di separare i due concetti ambigui, in modo che possiamo parlare di queens senza pensare alle queans e viceversa, è simultaneamente sia linguistico sia sociale. Dobbiamo notare che il tabù opera in modo da distinguere due modelli fonemici identici, ma senza sopprimere completamente il modello. L’inibizione non c’impedisce di dire KW I¯N. Tuttavia, un modello fonemico molto vicino, quello che è prodotto modificando la dentale N per farla diventare la bilabiale M e abbreviando la vocale mediana (KW I¯M) è una delle parole oscene meno stampabili della lingua inglese. Informatori americani mi hanno assicurato che questa parola è stata oggetto di una rimozione così completa che non ha nemmeno attraversato l’Atlantico, ma ciò non mi pare del tutto vero, poiché si possono trovare in alcuni dizionari prove contrarie1. È difficile parlare di ciò che non si può dire, ma spero di aver provato il primo punto del mio ragionamento. Il tabù è insieme comportamentale e linguistico, sociale e psicologico. Poiché sono antropologo, ciò che mi riguarda particolarmente sono gli aspetti sociali del tabù. Psicanalisti di diversa formazione s’interessano soprattutto ai tabù individuali che vertono sulle funzioni orale, anale e genitale. Gli psicologi sperimentali s’interessano a fenomeni che sono essenzialmente dello stesso tipo quando esaminano il processo della dimenticanza, o diversi tipi d’inibizione muscolare. Ma questi diversi tipi di rimozione sono così ben intrecciati nella rete del linguaggio che non si può discutere l’uno o l’altro dei tre quadri, antropologico, psicologico o linguistico, senza essere inevitabilmente condotti a tener conto degli altri due. Categorie animali e oscenità verbali Considerata la natura del problema affrontato, nel corso di questo articolo avrò poche cose da dire sul linguaggio propriamente detto. Studierò la connessione esi-

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stente tra alcune categorie di animali e alcune oscenità verbali. Certamente, è molto più facile parlare di animali che di oscenità! Queste ultime resteranno il più delle volte nel retroscena, ma il lettore non dovrà perderle di vista. Così come queen (“regina”) è pericolosamente vicino a ciò che non si dice, ci sono animali del tutto familiari che solo grazie a un fonema evitano il sacrilegio o peggio ancora. Nei processi inglesi di stregoneria del XVII secolo, si è molto spesso affermato che il Diavolo appariva sotto forma di cane (dog), cioè come Dio (god) rovesciato. In Inghilterra usiamo ancora questa metatesi quando chiamiamo un colletto di sacerdote dog collar invece di God collar. Allo stesso modo basta un piccolissimo spostamento vocalico nella parola fox (“volpe”) per produrre l’osceno fux. Si può senza dubbio considerare in un certo modo che fatti come questi sono accidenti linguistici, ma questi accidenti hanno un’utilità funzionale per il nostro modo di usare la lingua. Come mostrerò, ci sono buone ragioni sociologiche perché le categorie inglesi dog e fox, così come la categoria inglese queen (quean), evochino associazioni tabù nel loro vicinato fonemico. Come antropologo, non pretendo di capire gli aspetti psicologici del fenomeno del tabù. Non capisco cosa accade quando una parola, una frase, o un dettaglio di comportamento è rimosso, ma posso osservarlo. In particolare, posso osservare che quando i tabù verbali sono infranti, ciò comporta un fenomeno sociale specifico che colpisce nello stesso tempo l’attore e i suoi ascoltatori in un modo suscettibile di descrizione specifica. Inutile andare oltre. Questo fenomeno è ciò che chiamiamo oscenità. In linea generale si possono distinguere tre categorie di linguaggio osceno: 1) le parole sporche, che di solito si riferiscono al sesso e agli escrementi; 2) le bestemmie e le imprecazioni; 3) le ingiurie animali, che identificano un essere umano con un animale. In pratica, queste categorie non si distinguono molto nettamente l’una dall’altra. Così la parola bloody (“sanguinante”) è oggi una sorta di aggettivo leggermente osceno. Secondo alcuni, infatti, sarebbe una parola “sporca”, perché associato al sangue mestruale, ma sembra che storicamente venga da un’imprecazione: By our Lady! (“per la Madonna!”). D’altra parte il semplice espletivo damn! che si immagina oggi sia una abbreviazione di damnation, quindi un’imprecazione, era una volta goddam! (God’s animal mother, “quella bestia della madre di Dio”), un’espressione che univa il blasfemo con l’ingiuria animale. Queste categorie di parole volgari sembrano ricorrere nella maggior parte delle lingue. Le parole sporche non pongono problemi. Gli psicologi spiegano in modo adeguato e convincente perché l’attività sessuale e gli escrementi siano di solito la fonte stessa dell’oscenità. Nemmeno la lingua delle imprecazioni e delle bestemmie pone problemi. Una teoria sul carattere sacro degli esseri soprannaturali ha buone possibilità di far intervenire la nozione di sacrilegio che, a sua volta, spiega le emozioni suscitate dall’imprecazione e dalla bestemmia. Ma è meno facile spiegare le ingiurie animali. Perché espressioni quali you son of a bitch! (“figlio di una cagna”) oppure you swine! (“porco”) hanno le connotazioni che hanno mentre you son of kangaroo (“figlio di un canguro”) oppure you polar bear (“orso polare”) non hanno alcun senso? Per un antropologo, il tema dell’ingiuria animale è fondamentale. Quando un nome d’animale è utilizzato come imprecazione vuol dire che si attribuisce una certa efficacia al nome stesso. Ciò significa chiaramente che la categoria in questione è, in qualche modo, tabù e sacra. Così, per un antropologo, l’ingiuria animale fa parte di un vasto campo di studi che comprende anche il sacrificio animale e il totemismo.

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Rapporto tra l’attitudine degli animali a essere mangiati e il loro statuto sociale Nel corso delle sue osservazioni etnografiche, l’antropologo rileva che, in una data situazione culturale, certi atteggiamenti rituali riguardano alcuni animali e non altri; e che, inoltre, l’intensità dell’implicazione rituale varia molto da una specie all’altra. Perché? La risposta non è mai evidente, ma c’è una domanda che è in generale pertinente e di cui bisogna tener conto: si possono mangiare gli animali della specie in questione? Una delle ipotesi su cui si basa il seguito di questo articolo è che l’ingiuria animale ha un certo rapporto con quello che Radcliffe-Brown ha chiamato il valore rituale della categoria animale in questione. Vado oltre, e suppongo che questo valore rituale sia legato in modo ancora indeterminato ai tabù e alle regole che riguardano il fatto di uccidere e mangiare questi animali come pure altri. Nei miei esempi farò riferimento solo a categorie della lingua inglese. Postulo, tuttavia, che i principi che invoco siano molto generali, anche se non necessariamente universali. (…) Tabù non è termine propriamente inglese, ma viene dalla Polinesia. Nell’uso corrente, il suo senso non è definito con precisione in inglese. Gli antropologi lo utilizzano correntemente per parlare di proibizioni che sono esplicite e che si fondano su sentimenti di peccato e di sanzione soprannaturale a livello cosciente. Un esempio tipico è dato dalle prescrizioni sull’incesto. Altro esempio: le regole messe per iscritto nel Levitico XI, versi 4-47, che proibiscono agli israeliti di mangiare tutta una serie di “animali impuri”. In questo articolo, tuttavia, utilizzerò il concetto di tabù alimentare in un senso più generale, in modo che copra tutte le classi di proibizioni riguardanti il nutrimento, esplicite e implicite, coscienti e incoscienti. Determinazione culturale e linguistica del valore degli alimenti L’ambiente fisico di qualsiasi società umana contiene una vasta scelta di materie commestibili e nutrienti ma, nella maggior parte dei casi, solo una piccola parte di quest’ambiente alimentare è effettivamente classificata come nutrimento potenziale. Una tale classificazione concerne la lingua e la cultura, non la natura. Essa ha una grande importanza pratica ed è percepita in quanto tale. La nostra classificazione non è solo corretta, è moralmente giusta, ed è un segno della nostra superiorità. Le cosce di rana sono ricercate dai buongustai in Francia, ma non sono considerate cibo in Inghilterra: ciò spinge gli inglesi a trattare i francesi da rane, con il disprezzo che ciò comporta. La conseguenza di queste discriminazioni culturali è che la parte commestibile del nostro ambiente cade di solito in una delle seguenti principali categorie: 1) sostanze commestibili riconosciute come alimenti e costituenti parte del normale regime alimentare; 2) sostanze commestibili riconosciute come alimenti possibili, ma proibite o permesse solo in condizioni particolari (rituali). Sono sostanze coscientemente cariche di tabù; 3) sostanze commestibili che non sono riconosciute come alimenti per la cultura e la lingua. Queste sostanze sono incoscientemente cariche di tabù.

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Di solito, quando gli antropologi parlano di tabù alimentari, pensano solo alla mia seconda categoria; essi hanno in mente esempi quali le proibizioni del maiale per i giudei, del bue per i brahmani, oppure l’atteggiamento dei cristiani di fronte al pane e al vino della messa. Ma la mia terza categoria, le sostanze commestibili non classificate come alimenti, merita altrettanta attenzione. La natura del tabù è del tutto diversa nei due casi. La proibizione del maiale per i giudei è un affare rituale ed esplicito; essa dice in effetti: “Il maiale è un alimento, ma i giudei non devono mangiarne”. L’obiezione degli inglesi contro il fatto di mangiare carne di cane è altrettanto forte, ma si fonda su una premessa diversa. Essa deriva da questo presupposto categorico: “Non si mangia carne di cane”. Ora, il cane è perfettamente commestibile e, in certe parti del mondo, si allevano cani solo per mangiarli. A dire il vero, anche l’uomo è commestibile, sebbene un inglese trovi disgustosa questa idea. Penso che la maggior parte degli inglesi sarebbe disgustata allo stesso modo all’idea di mangiare cane. Credo che questo disgusto derivi in gran parte da una questione di categorie verbali. Ci sono contesti, nell’inglese parlato, nei quali si può pensare all’uomo e al cane come a esseri della stessa natura. L’uomo e il cane sono “compagni”; il cane è l’“amico dell’uomo”. D’altra parte, uomo e alimento sono categorie antitetiche. L’uomo non è un alimento, dunque nemmeno il cane può esserlo. Beninteso, le nostre categorie linguistiche non sono sempre ben ordinate o logiche, ma i casi marginali che, a prima vista, sembrano eccezioni a una regola generale, hanno spesso un interesse particolare. Per esempio, i francesi mangiano carne di cavallo. In Inghilterra, sebbene si possa dare carne di cavallo ai cani, essa è ufficialmente classificata come impropria al consumo da parte dell’uomo. I negozi che vendono carne da macelleria ordinaria non sono autorizzati a vendere carne di cavallo e a Londra dove vivono volgari stranieri che, nonostante i pregiudizi degli inglesi, mangiano queste cose, essi sono obbligati ad acquistarle in un negozio che ha l’insegna salumificio e non macelleria! A mio avviso, tutto questo è perfettamente coerente con l’atteggiamento particolare adottato dagli inglesi di fronte ai cani e ai cavalli. Gli uni e gli altri sono creature sacre e soprannaturali circondate da sentimenti che, in modo ambiguo, sono sentimenti di timore e d’orrore. È chiaro che le regole, i pregiudizi e le convenzioni di questo tipo hanno un’origine sociale; tuttavia, i tabù sociali hanno una contropartita linguistica e, come mostrerò, questi accidenti della storia etimologica si accordano gli uni con gli altri in modo stupefacente. Sotto l’aspetto linguistico, il cavallo ha certamente l’aria molto innocente, come anche il cane e la volpe. Tuttavia, il più delle volte, in inglese parlato, il cavallo, horse, è ’orse o pure ’oss e, sotto questa forma, condivide con il suo compagno, l’asino, ass, un’inconfondibile vicinanza con il posteriore umano2. Ecco dunque qual è il problema. Gli inglesi trattano certi animali come se fossero tabù-sacri. Questa sacralità si manifesta in tanti modi, in parte con il comportamento, come quando ci è proibito di mangiare la carne degli animali in questione, in parte in modo linguistico, come quando un modello fonemico, all’ombra di quello della categoria animale stessa, si trova a essere fonte di oscenità, di empietà ecc. Possiamo farci qualche idea delle ragioni per le quali certi esseri viventi sono trattati a questo modo?

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Tabù e carattere particolare delle categorie nominabili Prima di andare avanti, esporrò a grandi linee una teoria generale del tabù che trovo particolarmente soddisfacente nel mio lavoro di antropologo. Questa teoria mi sembra molto adatta ai fattori d’ordine psicologico e linguistico. Nella forma in cui la presento, è una “teoria di Leach”, ma essa ha varie origini evidenti, quali in particolare le discussioni di Radcliffe-Brown sul valore del rito, le riflessioni di Mary Douglas sugli animali anomali e la versione data da Lévi-Strauss della dialettica hegeliano-marxista, nella quale mostra che gli elementi sacri del mito sono fattori di mediazione fra termini contraddittori. Parto dalla considerazione che l’ambiente fisico e sociale di un bambino è percepito da quest’ultimo come un continuum; esso non racchiude “cose” intrinsecamente separate. Si insegna in tempo utile al bambino a imporre al suo ambiente una specie di griglia discriminatoria che serve a caratterizzare il mondo come composto da un grande numero di cose separate, ciascuna designata da un nome. Questo mondo è una rappresentazione delle nostre categorie linguistiche, e non viceversa. Poiché la mia lingua madre è l’inglese, è per me naturalmente evidente che bushes (“arbusti”) e trees (“alberi”) sono specie di cose differenti. Non lo penserei se non mi fosse stato insegnato così. Ora, se ogni individuo impara a costruire in questo modo il proprio ambiente, è di capitale importanza che le distinzioni fondamentali siano definite chiaramente e senza ambiguità. Bisogna che non ci sia assolutamente nessun dubbio sulla differenza tra me e quello o tra noi e loro. Ma come raggiungere questa certezza di discriminazione se la nostra percezione normale ci mostra solo un continuum? Un diagramma può aiutarci. La nostra percezione senza inibizione (senza educazione) riconosce un continuum (fig. l):

Fig. 1. Questa retta è una rappresentazione schematica della continuità della natura. Non ci sono interstizi nel mondo fisico.

Ci viene insegnato che il mondo consiste in “cose” distinte da nomi; dobbiamo dunque educare la nostra percezione a riconoscere un ambiente discontinuo (fig. 2):

Fig. 2. Rappresentazione schematica di ciò che porta un nome in natura. Numerosi aspetti del mondo fisico restano senza nome nelle lingue naturali.

Giungiamo a questa seconda specie di percezione, frutto di apprendimento, per mezzo dell’utilizzazione simultanea della lingua e del tabù. La lingua ci fornisce i nomi per distinguere le cose, il tabù ci impedisce, per inibizione, di riconoscere le parti del continuum che separano le cose (fig. 3).

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“cose nominate”

parti tabù dell’ambiente “non cose” Fig. 3. Relazione degli oggetti carichi di tabù col mondo dei nomi.

Si può anche rappresentare lo stesso tipo di ragionamento con un diagramma di Venn semplificato utilizzandone solo due cerchi (fig. 4).

P

~P

Sovrapposizione tabù “sia p sia ˜p” Fig. 4. Relazione tra ambiguità e tabù.

Sia un cerchio p rappresentante una particolare categoria verbale. Tagliamo questo cerchio con un altro cerchio ~p che rappresenta l’“ambiente” di p, da cui desideriamo distinguere p. Se, con l’immaginazione, dichiariamo tabù ogni considerazione sulla zona di sovrapposizione, che è comune ai due cerchi, allora potremo persuaderci che p e ~p sono del tutto distinti, e la logica della discriminazione binaria sarà soddisfatta3. La lingua dunque non solo fornisce una classificazione delle cose; essa modella effettivamente il nostro ambiente; mette ogni individuo al centro di uno spazio sociale ordinato in modo logico e rassicurante.

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In quest’articolo mi occuperò particolarmente della serie di categorie verbali che operano distinzioni nelle zone di spazio sociale, in rapporto alla “distanza da EGO”. Per esempio, consideriamo le tre serie (a), (b), (c): (a) (b) (c)

Ego Ego Ego

sorella casa pets

cugina fattoria bestiame

vicina campi e boschi selvaggina

estranea lontano animale selvaggio

Per ciascuna di queste tre serie, le parole così sistemate designano categorie progressivamente più lontane dall’EGO, ma credo che si possa andare più lontano. Spero d’essere capace di mostrare che se scriviamo queste serie di parole: (A) (B) (C)

A1 A2 A3

B1 B2 B3

C1 C2 C3

D1 D2 D3

E1 E2 E3

l’enunciato relazionale A1:B1:C1:D1:E1 è uguale all’enunciato relazionale A2:B2:C2:D2:E2 o all’enunciato relazionale A3:B3:C3:D3:E3. In altre parole, il nostro modo di usare le parole della serie (c), serie di animali, ci permette di fare affermazioni sulle relazioni di parentela che appartengono alla serie (a). Ma vado troppo veloce. Torniamo alla mia teoria del tabù. Se funzioniamo nel modo che ho suggerito, ossia se siamo capaci di percepire l’ambiente come composto di cose separate solo reprimendo il nostro riconoscimento delle non-cose che riempiono gli interstizi, allora, certamente, ciò che è represso assume un particolare interesse. Indipendentemente dal fatto che ogni investigazione scientifica è dedicata alla “scoperta” della parti dell’ambiente che sono al confine del “già conosciuto”, c’è un fenomeno, descritto variamente da antropologi e psicologi: tutto ciò che è tabù è oggetto non solo di un interesse particolare, ma anche di angoscia. Tutto ciò che è tabù è sacro, ha valore, importanza, potenza, è pericoloso, intoccabile, sporco, non menzionabile. Posso darne un’illustrazione citando zone diametralmente opposte dove questo approccio al tabù ben si accorda con fatti osservabili. In primo luogo, tutto ciò che esce dal corpo umano è universalmente oggetto di tabù intenso in particolare le feci, l’urina, lo sperma, le secrezioni mestruali, i capelli tagliati, i pezzetti di unghie, la sporcizia corporale, la saliva, il latte materno4. Questo si accorda con la nostra teoria. Queste sostanze sono ambigue in modo fondamentale. Il primo problema che si presenta al bambino, e in modo continuo, è quello di determinare la frontiera iniziale. “Che cosa sono io rispetto al mondo?”. “Dove sono i miei limiti?”. In questo senso fondamentale, le feci, l’urina, lo sperma ecc. sono, e nello stesso tempo non sono, me stesso. Il tabù che ne risulta è così forte che, persino da adulto, parlando ad ascoltatori adulti, capita che io mi riferisca a queste sostanze con le parole monosillabiche che ho utilizzato quando ero bambino; oppure devo menzionarle utilizzando il loro nome latino. Ma, siamo chiari, queste sostanze non sono semplicemente considerate sporche: esse sono potenti. Sono, infatti, sostanze di questo genere a essere in tutto il mondo i primi ingredienti delle “medicine” magiche. All’estremo opposto, consideriamo il caso della santità degli esseri soprannaturali. La credenza religiosa è dovunque legata alla discriminazione tra vivo o morto.

ASPETTI ANTROPOLOGICI DELLA LINGUA

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Dal punto di vista logico, vita è semplicemente l’antitesi binaria di morte. I due concetti sono le facce opposte della stessa moneta, non possiamo avere l’una senza l’altra. Ma la religione cerca sempre di separarli. Viene così creato un ipotetico “altro mondo”, antitesi di “questo mondo”. In questo, vita e morte sono inseparabili, nell’altro sono separate. Questo è abitato da uomini mortali imperfetti; l’altro è abitato da non-uomini immortali (gli dei). La categoria dio è così costruita come l’antitesi binaria di uomo. Ma c’è un inconveniente. Un dio lontano in un altro mondo è forse ragionevole dal punto di vista logico, ma è sicuramente insoddisfacente dal punto di vista emotivo. Perché siano utili, gli dei devono essere a portata di mano; la religione si mette dunque a ricostruire un continuum tra questo mondo e l’altro. Ma si noti bene in che modo. Il fossato tra le due categorie distinte dal punto di vista logico, questo mondo/l’altro mondo, è pieno di ambiguità tabù. Il fossato è congiunto da esseri soprannaturali molto ambigui: divinità incarnate, madri vergini, mostri soprannaturali che sono metà uomini e metà bestie. Si attribuisce specificatamente a queste creature marginali e ambigue il potere di mediazione tra dei e uomini. Esse sono oggetto del tabù più intenso, sono più sacre degli dei stessi. Se consideriamo i fatti concreti e non la teologia teorica, il principale oggetto di devozione nella Chiesa cattolica è la Vergine Maria, madre umana di Dio. Anche qui, sono le categorie ambigue che attirano il più grande interesse e i sentimenti più intensi di tabù. La teoria generale è che il tabù si applica a categorie che sono anomale in rapporto a opposizioni di categorie ben distinte: se A e B sono due categorie verbali tali che B è definita come “ciò che A non è” e viceversa, e se c’è una terza categoria C che si interpone in questa distinzione in modo tale che C possiede degli attributi di A e di B, allora C sarà tabù. Ma torniamo alle nostre considerazioni sulle categorie animali e i tabù alimentari inglesi. Nomi di animali e di alimenti in inglese Come classifichiamo, noi che parliamo inglese, gli animali, e qual è il legame tra questa classificazione, la questione degli animali uccisi per essere mangiati e le ingiurie verbali? La distinzione fondamentale sembra racchiusa in tre parole: Pesci:

animali che vivono nell’acqua. Categoria molto elastica, comprende anche i crostacei (shell-fish, “pesci con la conchiglia”).

Uccelli:

animali bipedi, con le ali, che depongono uova (non necessariamente volano: per esempio, i pinguini, gli struzzi).

Bestie:

mammiferi quadrupedi che vivono sulla terra.

Consideriamo la tavola 1. Tutti gli animali che si possono mangiare sono o pesci, o uccelli, o bestie. Resta un gran numero di animali classificati sia come rettili, sia come insetti, ma questo residuo ambiguo è classificato nella sua totalità come non



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buono da mangiare. Tutti i rettili e tutti gli insetti sono, sembra, considerati come nemici dell’uomo, che può sterminarli senza pietà. Fa eccezione solo l’ape, alla quale, significativamente, è riconosciuta spesso una capacità intellettiva e di organizzazione tutta sovrumana. Il tabù ostile si applica più fortemente alle creature più anomale in rapporto alle grandi categorie; si pensi per esempio ai serpenti, animali terrestri senza zampe che depongono uova. Gli uccelli e le bestie, animali a sangue caldo e i cui rapporti sessuali hanno luogo in modo “normale”, sono per questo in una certa misura affini all’uomo. Il fatto che il concetto di crudeltà sia applicabile al nostro comportamento verso gli

NATURA

esseri animati

esseri inanimati

a sangue caldo (carne)

a sangue freddo (non carne) creature ambigue

CREATURE TERRESTRI BESTIE

INSETTI

UCCELLI

(commestibili talvolta) addomesticati PETS

(non commestibili)

PESCI

RETTILI

(commestibili)

(non commestibili)

(ambigui)

BESTIAME

CREATURE ACQUATICHE

selvaggi

CACCIAGIONE

ANIMALI SELVAGGI

(commestibili secondo certe regole) (non commestibili)

CASA

FATTORIA

CAMPI E BOSCHI

(vicino) (non commestibili)

LONTANO

(lontano)

(commestibili se castrati)

(non commestibili)

(commestibili se cacciati nella stagione appropriata)

EGO-cane-gatto-cavallo

asino capra

porco-bue-pecora

coniglio-lepre-cervo-volpe [rabbit cunny]

animali dello zoo

I nomi in corsivo nell’ultima riga sono quelli che sembrano particolarmente carichi di valore tabù, come indica il loro uso come parole volgari, o la loro associazione metafisica o ancora il loro uso eufemistico.

Tav. 1. Distinzione degli esseri viventi in ambito inglese..

ASPETTI ANTROPOLOGICI DELLA LINGUA



uccelli e le bestie ma non verso i pesci, lo mostra bene. L’abbattimento del bestiame a fini alimentari deve essere fatto con metodi umanitari; in Inghilterra abbiamo anche trappole per topi non cruente! Ma è del tutto permesso uccidere un gambero gettandolo vivo nell’acqua bollente. Quando si applicano tabù alimentari religiosi, essi riguardano solo la carne, quasi umana, degli uccelli e delle bestie a sangue caldo; i cattolici possono dunque mangiare pesce il venerdì. In Inghilterra il solo pesce comune soggetto a restrizioni per ciò che concerne il modo d’uccisione e il suo consumo è il salmone. Esso è anomalo per almeno due aspetti: ha il sangue rosso ed è allo stesso tempo pesce di mare e d’acqua dolce. Ma, in quanto appartenenti ai mammiferi, le bestie sono molto più vicine all’uomo degli uccelli che depongono uova. La Society for the Prevention of Cruelty to Animals, la AntiVivisection Society, Our Dumb Friends League e altre organizzazioni di questo genere dedicano la maggiore parte della loro attenzione ai quadrupedi, e, poiché il mio tempo è limitato, seguirò anch’io il loro esempio. Struttura delle terminologie concernenti il nutrimento e la parentela Gli antropologi hanno molte volte notato una tendenza universale alle associazioni rituali e verbali tra l’azione di mangiare e i rapporti sessuali. Ecco dunque un’ipotesi plausibile: il modo in cui gli animali sono ordinati in categorie in rapporto alla loro commestibilità corrisponderà in qualche maniera al modo in cui gli esseri umani sono ordinati in categorie in rapporto alle relazioni sessuali. Su questo problema gli antropologi hanno raccolto una grande quantità di dati comparativi. La generalizzazione che segue non è certamente un universale, ma presenta una validità molto generale. Dal punto di vista di un qualsiasi EGO maschile, le giovani donne del suo mondo sociale si ripartiscono in quattro grandi classi: 1) le molto vicine – le “vere sorelle”, che costituiscono sempre una categoria molto incestuosa; 2) le parenti, ma non molto vicine – le “cugine germane” (sorelle cugine) nella società inglese, le “sorelle sociali” in molti tipi di sistemi che hanno una filiazione unilineare e un’organizzazione di lignaggio segmentata. Di regola è proibito o molto disapprovato sposare una donna di questa categoria, ma relazioni sessuali prematrimoniali possono essere tollerate o persino probabili; 3) le vicine (amiche) non parenti, affini potenziali. È in questa categoria che EGO può di solito aspettarsi di trovare una sposa. Questa, categoria comprende anche i nemici potenziali, dato che l’amicizia e l’ostilità sono aspetti alternati della stessa relazione strutturale; 4) le estranee lontane – si sa che esistono, ma non è possibile nessuna relazione sociale, di nessun tipo. Ora, gli inglesi classificano la maggior parte dei loro animali in quattro categorie molto simili: 1) quelli molto vicini: i pets (animali familiari) che non si possono mai, proprio mai, mangiare;

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2) quelli ugualmente domestici, ma che non sono altrettanto vicini (“animali da cortile”) che, per la maggior parte, possono essere mangiati, ma solo se non sono adulti o se sono castrati. Solo raramente mangiamo un animale domestico adulto e intatto5. 3) gli animali dei boschi e dei campi, game, “selvaggina”, categoria verso la quale proviamo alternativamente amicizia e ostilità. Questi animali vivono sotto la protezione dell’uomo, ma non sono domestici. Si possono mangiare quando sono integri, ma si uccidono solo in certi periodi dell’anno, secondo rituali fissi di caccia; 4) gli animali-selvaggi, lontani, non sottomessi al controllo dell’uomo e che non sono buoni da mangiare. Presentando le cose in questo modo, appare un insieme di equivalenze: proibizione di incesto proibizione di matrimonio unita a rapporti sessuali prematrimoniali alleanza matrimoniale, ambiguità amico/nemico nessuna relazione sessuale con estranei lontani

non è buono da mangiare castrazione unita al fatto che questo animale è buono da mangiare buono da mangiare sessualmente intatto; alternanza amicizia / ostilità animali selvaggi, lontani, non buoni da mangiare

La corrispondenza tra i caratteri “sessualmente accessibile” e “buono da mangiare” non è fortuita, come mostra un altro bisticcio di tipo linguistico. L’espressione legale arcaica che designava la selvaggina era beasts of venery (“animali da caccia”). Il termine venery può avere due significati: la caccia e i piaceri sessuali. Un bisticcio simile rende conto della rassomiglianza fonemica tra venery e venerate (“venerare”), che ci ricorda quella esistente tra quean e queen. Il campo sessuale e l’autorità sono entrambi fonte di tabù (di rispetto) ma in senso contrario. C’è una quinta grande categoria di animali in inglese, trasversale in rapporto alle altre e carica di tabù in modo significativo, è vermin. La definizione che il dizionario dà di questa parola è molto ambigua: mammals and birds injurious to game, crops ecc.; foxes, weasels, rats, mice, moles, owls, noxious insects, fleas, bugs, lice, parasitic worms, vile persons. [mammiferi e uccelli nocivi alla selvaggina, ai raccolti ecc.; volpi, donnole, ratti, topi, talpe, gufi, insetti nocivi, pulci, cimici, pidocchi, vermi parassiti, persone vili].

Si può anche definire vermin come pests (“insetti o piante nocive”) (cioè plagues “peste, flagelli”). Sebbene i vermin e i pests siano intrinsecamente non commestibili, i conigli e i piccioni, definiti pests quando attaccano i raccolti, possono anche essere classificati come selvaggina, e diventare così buoni da mangiare. Lo stesso accade se le due specie sono allevate nella fattoria. Tornerò sul caso dei conigli. Prima di andare avanti, riprenderò l’ultima parte del mio ragionamento sotto una forma abbastanza diversa. La mia tesi è che noi facciamo distinzioni binarie e in



ASPETTI ANTROPOLOGICI DELLA LINGUA

seguito creiamo tra i termini di una distinzione una categoria intermedia ambigua (e carica di tabù). Così: p uomo (non-animale)

sia p, sia ~ p “uomo-animale” (pet)

ADDOMESTICATO

6 SELVAGGINA

(amichevole)

(amichevole/ostile)

~p non uomo (animale) SELVAGGIO

(ostile)

Abbiamo già indicato che il valore rituale (tabù) si lega in modo marcato alle categorie intermedie pets (“animali familiari”) e game (“selvaggina”), e tornerò su questo argomento, ma vedremo ora che atteggiamenti di tabù ancora più intenso si manifestano quando andiamo a considerare creature che possono trovare il loro posto solo negli interstizi della tavola precedente, per esempio le capre, i maiali e i cavalli che non sono propriamente animali familiari, i conigli che non sono veramente selvaggina e le volpi che sono animali selvaggi, ma che sotto certi punti di vista sono trattati come selvaggina (v. Tav. 1). Nella tavola 2 diamo la lista dei nomi più comuni dei più comuni animali inglesi. Queste serie di nomi possiedono certe caratteristiche linguistiche. Quasi tutti gli animali familiari della casa, gli animali domestici della fattoria e gli animali dei campi e dei boschi portano nomi monosillabici: dog (“cane”), cat (“gatto”), bull (“toro”), cow (“vacca”), ox (“bue”) ecc., mentre per le bestie selvagge più lontane, i monosillabi sono rari. Il vocabolario è molto elaborato nella categoria degli animali della fattoria e più esiguo sia in quella degli animali familiari della casa non buoni da mangiare sia in quella delle bestie selvagge. Così il bestiame ha dei termini distinti per designare 1) un maschio integro, 2) una femmina integra, 3) un giovane animale ancora poppante, 4) una femmina non adulta, 5) un maschio castrato: per esempio: bull (“toro”), cow (“vacca”), calf (“vitello”), heifer (“giovenca”), bullock (“bue”), con varianti locali. Ciò non è stupefacente, date le necessità tecniche del lavoro della fattoria, ma sembra strano che il vocabolario concernente i pets sia così ristretto. Così per il cane si ha solo: dog (“cane”), bitch (“cagna”), pup (“cucciolo”) e tra questi termini bitch è fortemente tabù e raramente utilizzato; per il gatto si ha solo: cat (“gatto”), kitten (“gattino”). Se si deve fare una differenziazione di sesso tra i pets si può dire bitch (“cagna”) e tom cat (“gatto maschio integro e domestico”). Ciò implica che un cane è, altrimenti, supposto maschio e un gatto femmina. Cane e gatto, infatti, sono dei termini che formano coppia e sembrano servire da paradigma per un marito e una moglie che litigano. Per gli animali dei campi e dei boschi, tutti i maschi sono bucks e tutte le femmine does. Tra gli animali selvaggi, distinguiamo i giovani di un piccolo numero di specie, designandoli con il termine cubs. Per un numero ancora più esiguo, distinguiamo la femmina come una variante del maschio: tiger-tigress, lion-lioness ma, in genere, non hanno sesso. Fox, la volpe, è un caso molto particolare, eccezionale sotto tutti gli aspetti. È un monosillabo, il maschio è un cane (dog), la femmina una vixen, il piccolo un cub. Gli elefanti e alcuni altri “animali dello zoo” sono distinti come bulls (“tori”), cows (“vacche”) e calves (“vitelli”), prestiti diretti dall’insieme dei nomi del bestiame.

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EDMUND R. LEACH

Un uso curioso sembra suggerire che abbiamo vergogna di uccidere gli animali di grande taglia. Una volta morto, il bue bullock diventa beef, il maiale pig diventa pork, il montone sheep diventa mutton, il vitello calf diventa veal e il cervo deer diventa venison (“cacciagione”). Ma gli animali più piccoli restano ciò che erano: lamb (“agnello”), hare (“lepre”) e rabbit (“coniglio”) e anche gli uccelli restano gli stessi, morti o vivi. Le capre goats sono “nearly pets” (quasi degli animali familiari) e, in modo corrispondente (per gli inglesi), la carne di capra quasi non si mangia. Una padrona di casa inglese sarebbe molto seccata se scoprisse che il suo montone era una capra!

Femm. Maschio Piccolo Cane Cane da caccia Gatto Capra Maiale

Dog

Asino Cavallo Vacca (bue) Montone Volatile Anatra

Ass Horse4 Cow (Ox)5 Sheep Fowl Duck

Oca Piccione Coniglio Lepre Cervo

Goose Pigeon Rabbit Hare Deer

Cigno Volpe

Swan Fox

1

Bitch

Hound Cat (Tom) Goat (Nanny) (Billy) Pig Sow Boar

Giovane Giovane Maschio maschio1 femmina1 castrato

Puppy

Bow wow

Whelp Kitten Kid Piglet

Doggy Pussy ? Piggy

2

Gilt

Hog Porker

Colt

Filly Heifer

Gelding Steer Bullock

Stallion Bull

Foal Calf

Ewe Hen Duck

Ram Cock Drake

Lamb Teg Chick Cockerel Pullet Duckling

Goose

Gander

Gosling Squab

Doe Doe Doe Hind

Buck Buck Buck Stag7 Dog

3

Hogget

Mare Cow

Vixen

Linguag. infantile

Capon

Carne da macello

(Mutton) Pork, Bacon, Ham

Ee-yaw Gee-gee Moo-cow Veal Beef 6 Baa-lamb Mutton ? Chicken QuackQuack Bunny

Leveret Venison Cygnet Cub8

Altre distinzioni di sesso: per la maggior parte degli uccelli, salvo l’anatra e l’oca, si può fare la distinzione tra cocks (galli) e hens (galline). La balena, il tricheco, l’elefante e alcuni altri animali di grossa taglia sono distinti come bulls (tori) e cows (mucche). Il leone e la tigre sono pensati come maschi, data l’esistenza della forma femminile: lioness, tigress. La femmina di certe specie è denotata prefissando il pronome she (lei); così she-bear (lei-orsa). 2 Hogget: un verro di due anni. Questo termine può anche essere applicato a un giovane cavallo (colt) o a un giovane montone (teg). 3 Hog: può applicarsi anche ai maiali in genere, come swine (porco). 4 Notare anche pony, piccolo cavallo adatto a essere montato dai bambini. 5 Ox (Oxen): è un nome di specie in generale, ma ora arcaico; se è utilizzato, si applica a un maschio castrato. Il nome comune della specie è ora cows (vacche) o cattle (bestiame). Cattle è in origine come capital = live stock (capo vivo). Il plurale arcaico di cow è kine (cfr. kin, genitore). 6 Beef: al singolare = carne macellata, ma beeves, al plurale, si riferisce agli animali vivi (= bullocks, buoi). 7 Hart: cervo anziano con corna reali. 8 Cub (whelp): comprende i giovani di molti animali selvaggi: tigri, orsi, lontre, ecc.

ASPETTI ANTROPOLOGICI DELLA LINGUA



Ingiurie animali e abitudini alimentari Si può estendere l’uso della maggior parte dei monosillabi denotanti animali comuni alla descrizione di qualità degli esseri umani. Questa utilizzazione è spesso ingiuriosa, ma non sempre. Bitch (“cagna”), cat (“gatto”), pig (“maiale”), swine (“maiale”), ass (“asino”), goat (“capra”), cur (“botolo”) sono degli insulti; ma lamb (“agnello”), duck (“anatra”) e cock (“gallo”) sono termini amichevoli, persino affettuosi. Degli animali vicini possono servire anche da eufemismi quasi osceni per le parti del corpo che non si possono nominare. Così cock (“gallo”) = pene, pussy (“gattino”) = peli pubici della donna e, in America, ass (“asino”) = arse (“culo”) (v. tav. 2). È un principio così generale che gli animali vicini, familiari siano denotati con monosillabi che le rare eccezioni attirano l’attenzione. Sembra che l’utilizzazione di parole foneticamente complesse per designare animali “vicini” sia sempre il risultato di una sostituzione di una parola tabù con un eufemismo. Così donkey ha sostituito ass (per l’asino) e rabbit ha sostituito coney (per il coniglio). Quest’ultimo termine sopravvive solo nella lingua dei pellicciai, dove è pronunciato in modo da rimare con Tony, ma la sua etimologia risale al latino cuniculus e il coniglio del XVIII secolo era un cunny, terribilmente vicino a cunt (“fica”), parola che ha cominciato a essere stampabile in Inghilterra solo quando è stata autorizzata la pubblicazione dell’Amante di Lady Chatterley. La cosa interessante è che, mentre il cunny degli adulti è diventato l’innocente rabbit, il linguaggio infantile ha conservato bunny. Credo che nella New York di oggi un Bunny Club presenti almeno una rassomiglianza superficiale con una Cunny House della Londra del XVIII secolo7. Certi animali sembrano essere portatori di una carica ingiusta di ingiuria. È noto che il maiale sia un ripulitore di pattumiere, ma anche il cane lo è per natura, e non è razionale considerare “sporco” il primo, mentre alleviamo il secondo in casa. Credo proprio che abbiamo un particolare sentimento di colpa nei confronti dei maiali. Dopo tutto, i montoni danno la lana, le vacche danno il latte, le galline danno le uova, ma noi alleviamo maiali solo per ucciderli e mangiarli, cosa che suscita un sentimento di vergogna che ben presto finisce con il ricadere sul maiale stesso. Del resto ancora recentemente nelle campagne inglesi il porco, con la sua porcilaia posta nell’aia della fattoria, era, rispetto a ogni altro, l’animale buono da mangiare più vicino a far parte del casamento. Come il cane, il maiale era nutrito con i resti della cucina casalinga. Uccidere e mangiare un commensale di questo genere, è veramente sacrilego! In contrasto sorprendente con i nomi monosillabici degli animali vicini, troviamo all’altra estremità della scala una vasta classe di animali veramente selvaggi, che di solito incontriamo solo allo zoo. Queste creature non sono affatto classificate come potenziale nutrimento. Per differenziare questi estranei che si trovano fuori dal sistema sociale inglese, abbiamo dato loro nomi a metà latini, molto lunghi: elephant, hippopotamus, rhinoceros ecc. Non è per perversità scolastica: sono più di mille anni che queste parole fanno parte della lingua corrente. La categoria intermedia, quella degli animali che vivono nei campi e nei boschi, sessualmente integri, addomesticati-selvaggi, che possiamo cacciare per il consumo alimentare, ma solo obbedendo a regole fisse, in certi periodi dell’anno, ha oggi in Inghilterra un’estensione molto ridotta. Comprende certi uccelli, per esempio: grouse (“gallo cedrone”), pheasant (“fagiano”), partridge (“pernice”), hares (“lepri”) e, in

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EDMUND R. LEACH

certe regioni, deer (“cervo”). Come abbiamo già indicato, sia i conigli, sia i piccioni occupano una posizione marginale in questa categoria. Poiché tutti questi animali sono protetti durante una parte dell’anno affinché si possa ucciderli nel resto del tempo, il nome collettivo di game (“cacciagione” che vuol dire anche “gioco”) è perfettamente appropriato. Gli antropologi hanno creato l’espressione relazioni di scherzo per uno stato di cose in qualche modo analogo presso gli esseri umani, spesso istituzionalizzato tra gruppi che hanno relazioni di parentela. Come l’osceno coniglio, che è in modo ambiguo game o vermin, occupa una posizione intermedia tra le categorie di animali che vivono nella fattoria e quelli che vivono nei campi e nei boschi (tav. 1), così la volpe sta sulla linea di demarcazione tra animali dei campi e dei boschi, commestibili, e le bestie selvagge che non lo sono. In Inghilterra, la caccia e l’uccisione delle volpi costituiscono un rituale barbaro circondato da tabù straordinari e fantastici. L’intensità dei sentimenti risvegliati da queste attività è quasi inimmaginabile. Tutti i tentativi fatti per limitare questi usi, considerati “crudeli”, sono miseramente falliti. La caccia alla volpe presenta aspetti linguistici che riguardano direttamente il mio tema. Troviamo, per esempio, come accade spesso in altre società in contesti analoghi, che il carattere sacro della situazione è denotato da inversioni di linguaggio, dall’utilizzazione di termini particolari per oggetti familiari ecc. Così le volpi sono cacciate da packs (“mute di cani”) e, alla conclusione dell’uccisione rituale, si taglia loro la testa e la coda conservate come trofei, ma niente di tutto questo può esprimersi in linguaggio volgare. Della volpe stessa si può parlare come di un cane (“dog”), mentre i cani sono descritti come hounds (“segugi di volpi”), la testa della volpe è una “maschera” (“mask”), la sua coda una “spazzola” (“brush”) ecc. È molto sconveniente utilizzare altre parole per tutte queste cose. Anche la caccia alle lontre, alle lepri e ai cervi assume talvolta un carattere rituale paragonabile a quello della caccia alla volpe, e i cani da caccia cambiano così identità per diventare ora hounds (“segugi”), ora beagles (“cani da lepre”). Tutto ciò sostiene la mia prima ipotesi: la categoria dog, in inglese, è veramente qualcosa di molto speciale. Ciò implica che se ordiniamo gli animali familiari in una serie secondo la loro distanza sociale a partire da EGO (tav. 1), constatiamo che il tabù (valore rituale) che li riguarda, indicato da differenti tipi e intensità di restrizioni sul fatto di ucciderli e mangiarli, dall’eventuale carattere ingiurioso, dalle associazioni metafisiche, dall’esecuzione dei riti, dalla introduzione di eufemismi ecc., non è distribuito a caso. Le diverse varietà di tabù sono disposte sulla tavola a intervalli in modo da spezzare il continuum in sezioni. Il tabù serve a separare EGO dal mondo, poi il mondo stesso è diviso in zone di distanze sociali che corrispondono qui alle espressioni: fattoria, campi e boschi, lontananza. Credo che questo tipo di analisi sia più d’un semplice esercizio intellettuale; essa può aiutarci a capire il nostro comportamento irrazionale in ogni genere di occasione. Per esempio, coloro che hanno familiarità con la letteratura sull’argomento, si accorgeranno senza fatica che le credenze relative alla stregoneria, in Inghilterra, sono fondate proprio su una confusione tra le categorie sulle quali ho richiamato qui l’attenzione. Si supponeva che le streghe potessero prendere la forma di un animale e possedessero dei demoni familiari, capaci di trasformarsi in qualsiasi animale, ma

ASPETTI ANTROPOLOGICI DELLA LINGUA



ci si attendeva in genere di vederle apparire sotto la forma di un cane, di un gatto o di un rospo. Alcuni di questi demoni familiari non hanno riscontro nella storia naturale; uno di essi è descritto con “zampe come quelle dell’orso ma di taglia non più grande di quella di un coniglio”. L’ambiguità di queste creature era considerata segno delle loro doti soprannaturali. Come notava Hopkins, il celebre smascheratore di streghe del XVII secolo: “Nessun mortale, da solo, avrebbe potuto inventarle”. Era mio intento porre domande, più che fornire spiegazioni. I diagrammi che ho presentato non sono forse dei più utili, ma, almeno, ho stabilito che la classificazione degli animali familiari in inglese è ben lontana dall’essere semplice; non è solo una lista di nomi, ma uno schema complesso di identificazioni sottilmente distinte, non solo per specie, ma anche per tonalità psicologica. Il nostro trattamento linguistico di queste categorie riflette il tabù o il valore rituale, ma questi due termini sono semplicemente espressioni generali che ricoprono tutto un complesso di sentimenti e attitudini, l’impressione, forse, che l’aggressione, che si manifesta nella sessualità o nell’uccisione, sia in qualche modo un turbamento dell’ordine naturale delle cose, una specie di empietà necessaria.

* Titolo originale: “Anthropological Aspects of Language: Animal Categories and Verbal Abuse”, in Lenneberg, a cura, 1964, pp. 23-63. Nella traduzione, curata da G. Sabbatini e M. Del Ninno, è stato omesso l’ultimo paragrafo del saggio (A Non-European Example). 1 L’Oxford English Dictionary non dice niente dell’oscenità, ma cita Quim come “antica variante scozzese” della parola oggi del tutto caduta in disuso Queme (“piacevole”). Partridge (1949) stampa la parola intera (mentre si tira indietro per f*ck e c*nt). Lo stesso chiosa le “parti femminili” e dà queme come variante. Funk, Wagnalls e Webster, nelle ultime edizioni, ignorano entrambi questo termine ma in Wentworth, Flexner 1961 troviamo: quim n. 1 = queen; n. 2 (tabù) = la vagina. È chiaro dunque che questo schema fonemico è proprio nella penombra di queen, parola permessa. I dizionari americani indicano che l’ambito coperto dai significati di queen (quean) è lo stesso dell’inglese, ma la differenza d’ortografia non è fermamente mantenuta. 2 I tabù inglesi e americani sono diversi. In inglese l’animale si scrive ass e le natiche arse, ma, secondo Partidge (1949), arse è stato considerato non stampabile, o quasi, tra il 1700 e il 1930 (sebbene figuri nell’OED). La terza edizione di Webster scrive le due parole ass, notando che arse è una variante pulita di quest’ultima parola, che ha anche il senso osceno di relazioni sessuali. Funk e Wagnalls, distinguono ass (“animale”) e arse (“natiche”) e non rimandano dall’uno all’altro termine. Wentworth e Flexner (1961), danno solo ass, ma con tre significati tabù: il retto, le natiche e la vagina. 3 Nella logica ordinaria, se “p” è vero, allora “~p” è falso, e viceversa. “Sia p sia ~p” è dunque una contraddizione priva di senso. Così, seguendo il gioco del linguaggio della logica formale, la possibilità di considerare la zona tratteggiata della figura 4 è esclusa. Tuttavia, in altri tipi di giochi di linguaggio, come quelli utilizzati per formulare i dogmi religiosi, enunciati autocontraddittori sono costantemente affermati come articoli di fede. La contraddizione è sempre tabù, ma non lo è al punto che non la si possa considerare affatto. Per una discussione delle questioni sollevate, v. Wittgenstein 1953, §§ 99-136 e altrove. 4 Sembra che l’unica, interessante eccezione parziale siano le “lacrime”. Le lacrime possono acquistare un carattere sacro: in effetti, le lacrime dei santi sono diventate reliquie e, in certe circostanze sacre quali i funerali è previsto si possano versare delle lacrime. A mio avviso, le lacrime non sono sentite sporche o contaminanti come le altre secrezioni. 5 Si adducono di solito due ragioni per la castrazione degli animali domestici. La prima, ed è una ragione valida, è che l’animale castrato è più docile. La seconda, che – mi assicurano – non ha valore scientifico, è che un animale castrato produce carne più saporita in un tempo più breve. 6 Game (N.d.T.). 7 Di regola, gli uccelli sono al di fuori del soggetto trattato in questo articolo, ma, nel considerare le ambiguità prodotte dai casi di omonimia linguistica, possiamo notare: che tutti gli uccelli commestibili sono fowl (“uccello, pollame”) (cioè foul, [“disgustoso”] = filthy [“sporco”]); che pigeon ha sostituito dove (“colomba, piccione”), forse a causa dell’associazione di questa parola con lo Spirito Santo; e che la parola squabble (“lite furiosa, in particolare tra due sposi”) viene da squab (“giovane piccione”).

Disneyland. Degenerazione utopica* Louis Marin

Tesi Un’utopia degenerata è un’ideologia realizzata sotto forma di mito. Promemoria 1) L’ideologia è la rappresentazione del rapporto immaginario degli individui con le loro condizioni reali d’esistenza. 2) L’utopia è un luogo ideologico: l’utopia è una specie di discorso ideologico. 3) L’utopia è un luogo ideologico dove l’ideologia è messa in gioco: l’utopia è una scena di rappresentazione dell’ideologia. 4) Il mito è un racconto che formula strutturalmente la soluzione di una contraddizione sociale fondamentale. Commenti Nel presentare quest’analisi di Disneyland come spazio utopico, abbiamo un doppio scopo: anzitutto mostrare la permanenza, la solidità di certe strutture d’organizzazione spaziale che possiamo, a buon titolo, qualificare come utopiche. Ritroviamo tali strutture nei piani architettonici e nelle opere che collochiamo intuitivamente in questo stesso insieme, inoltre esse soddisfano funzioni che si determinano in rapporto alla realtà, alla storia, alle relazioni umane, funzioni che abbiamo precisato teoricamente e speculativamente e che abbiamo classificato con l’espressione di pratica utopica. Forza critica di neutralizzazione, questa definisce nell’ideologia lo spazio di costruzione della teoria sociale. Ritroveremo queste strutture e queste funzioni nella topografia di uno spazio reale in California, e nell’uso che ne fa il visitatore. Da questa angolazione, il possibile percorso seguito dal visitatore, enuncia la narrazione affabulatrice caratteristica dell’utopia, mentre la mappa dei luoghi riveste il ruolo della descrizione e occupa il posto del quadro rappresentativo, anch’esso specifico dell’opera utopica. Nello stesso tempo vogliamo far scorgere in questo caso un esempio di degenerazione della pratica utopica nel suo prodotto e mostrare come la figura utopica è, in questo processo negativo, interamente percorsa dall’ideologia che, nella fase d’emergenza, essa contribuiva a riflettere e a far apparire fittizia. Così Disneyland è un’utopia investita d’ideologia per il fatto che è la rappresentazione del rapporto immaginario che la classe dominante della società americana intrattiene con le proprie condizioni reali d’esistenza e, più precisamente, con la storia reale degli Stati Uniti e con lo spazio esterno. Essa è la proiezione fantastica della storia della

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LOUIS MARIN

nazione americana nella sua doppia instaurazione rispetto allo straniero e al mondo naturale, vale a dire la metafora dislocata della rappresentazione ideologica. Questa proiezione ha evidentemente una funzione ideologica: alienare il visitatore in una rappresentazione della vita quotidiana, in un’immagine del passato e del futuro, dell’estraneo e del familiare; conforto, benessere, consumo, progresso tecnico e scientifico indefinito, onnipotenza e buona coscienza, questi sono i valori della violenza e dello sfruttamento che si mostrano sotto i generi visibili della legge e dell’ordine. Ma, poiché ogni pressione ideologica, ogni forma e ogni aspetto dell’alienazione capitalista e imperialista moderna viene rappresentata, poiché Disneyland è la rappresentazione della rappresentazione costitutiva dell’ideologia contemporanea, poiché questo luogo è una scena e uno spazio di proiezione dove si può vedere e sperimentare l’ideologia della classe dominante della società americana, è possibile pensare che il mondo realizzato da Walt Disney assolva alla stessa funzione ideologicocritica che riconosciamo alla produzione utopica. Ciononostante, questo non si verifica, poiché la scena utopica, spazio di messa in gioco dell’ideologia attraverso cui l’utopia opera la sua funzione critica, non si realizza: per la semplice ragione che il visitatore di Disneyland è sulla scena; attore della scena che vi si recita, egli è preso dal suo ruolo come un topo in trappola e si aliena nel suo personaggio ideologico senza sapere che lo sta recitando. In questo modo, Disneyland non “funziona” come una rappresentazione della rappresentazione ideologica. L’utopia di Disney è tale solo nel momento in cui un metadiscorso analitico, che consideri la sua mappa per costruirne le strutture semantiche, e che assuma il percorso del visitatore come un racconto, il suo itinerario come una “lessia” possibile del quadro, le pone in relazione le une con le altre, nelle loro divergenze e nelle loro correlazioni e in tal modo mostra le loro istanze nascoste e i loro effetti di senso ideologici. L’utopia degenerata ricondotta al suo testo e al suo quadro può allora ricominciare a produrre e a scoprire ciò che sapevamo già, da quando è disponibile una teoria dell’economia politica e dell’ideologia. In altre parole, il visitatore di Disneyland è nella posizione dell’attore cerimoniale del racconto mitico delle origini antagoniste della società. Egli, al momento della visita, ne mima le contraddizioni e nel suo gesticolare rituale, che lo conduce dalla caverna dei pirati al sottomarino atomico, dal palazzo della Bella Addormentata nel Bosco al razzo spaziale, rovescia nella scena i determinismi della vita quotidiana per riaffermarli, legittimati e giustificati, tramite il suo gesto instauratore; la sua passeggiata è il racconto mille volte rinnovato dell’armonizzazione ingannatrice dei contrari, la soluzione fittizia della loro tensione conflittuale. Traducendo in performance l’utopia di Disney, il visitatore “realizza” l’ideologia della classe dominante come il racconto mitico instauratore della società in cui vive. Il limite Una delle caratteristiche più importanti della figura utopica che il discorso iscrive nello spazio immaginario della mappa è un tratto che ne interdice definitivamente l’iscrizione geografica: si tratta dell’esistenza di uno iato, di uno scarto tra la realtà di questo mondo e la figura dell’altro. Questa distanza è assai spesso dotata di un mar-

DISNEYLAND. DEGENERAZIONE UTOPICA



chio sia nel contenuto narrativo, sia nel significante. Così il manoscritto ritrovato per caso dal narratore dell’utopia, si dà come il giornale di bordo di un vecchio marinaio, ed è privo delle prime pagine, proprio quelle in cui erano riportate le coordinate geografiche dell’isola meravigliosa; così il narratore testimone sarà colto da una profonda perdita di sensi nel corso di un naufragio per risvegliarsi nel continente perduto; così il servitore avrà un attacco di tosse proprio nel momento in cui sarà rivelata la posizione esatta di Utopia. Sembra che sia questa la condizione che consente di iniziare il viaggio nella Città perfetta, e che questo vuoto sia necessario per avviarne la descrizione. In altri termini, questo marchio significante del testo utopico indica l’operazione figurativa nel discorso, segnalando la condizione di possibilità della rappresentazione: essa è la trasposizione semiotica della cornice del quadro, sia che questa trasposizione utilizzi la svolta del significante o quella del significato per effettuarsi. Questo scarto è uno spazio neutro, luogo del limite, frontiera tra la realtà (il mondo nella sua articolazione spazio-temporale, geografica e storica) e l’utopia, che rivela il lavoro di neutralizzazione della pratica utopica: l’utopia non è soltanto una contrada lontana, all’altro capo del mondo, nel profondo della terra o nell’alto del cielo. Essa è l’Altro Mondo, il mondo come altro, l’altro del mondo. Essa è l’inverso di questo mondo, il suo negativo nel senso fotografico del termine. L’utopia è così il prodotto del lavoro tramite il quale un sistema determinato ed elegantemente dotato di coordinate spazio-temporali, è convertito in un altro sistema anch’esso determinato ed elegantemente dotato di coordinate proprie, di strutture, di sue regole di articolazione. Il limite, di cui il marchio di frontiera è l’indice, è così lo zero di passaggio, il punto di valico. Limite esterno A Disneyland, lo spazio neutro del limite si sviluppa secondo tre linee dotate, ciascuna, di una funzione semiotica precisa dove ritroveremo le tre funzioni del quadrolimite della rappresentazione: il parcheggio delle automobili o limite esterno, la linea della biglietteria d’entrata o limite intermedio, il circuito della ferrovia di Santa Fe e Disneyland o limite interno. Il primo luogo è uno spazio aperto, isotropo, senza limite potenziale, debolmente strutturato dalla rete geometrica indefinitamente estensibile di spazi e di lotti numerati. Il visitatore abbandona qui l’automobile personale che lo ha accompagnato fino a questa periferia di Los Angeles, abbandono che è l’equivalente del naufragio, della scomparsa, o della lacerazione del vecchio racconto utopico, poiché il visitatore in verità è solo una performance possibile del testo utopico, narrazione in atto e testo/discorso agito di questa “utopia” contemporanea, elemento di superficie “antropomorfizzato” di questo testo iscritto di cui egli riattiva i segni e i marchi secondo regole sintattiche precise che la guida di Disneyland enuncia. Quando conosciamo l’importanza della vettura privata negli Stati Uniti, e in California in particolare, il parcheggio in cui questa viene lasciata acquisisce, al di là della sua funzione utilitaria, una sovradeterminazione semiotica nello spazio e nel comportamento: esso è il segno di un cambiamento di attività e del passaggio al suo contrario, il marchio di una mutazione di codice, di uno spostamento di enunciazione, di una proiezione metaforica: all’utilità pragmatica e all’inserimento in un sistema regolato di segni e di comportamenti, alla messa in atto di un agire produttivo, occorre sostituire l’altro di

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LOUIS MARIN

questi segni e di questi comportamenti, il sistema aperto dei simboli ludici, il libero campo del “consumo” gratuito, il percorso passatista e aleatorio dentro lo spettacolo. Limite intermedio Il secondo luogo è lineare e discontinuo: è costituito dalle biglietterie d’entrata verso le quali si dirige il visitatore, preso in custodia da mini-bus che solcano i viali del parcheggio. Il loro superamento è la condizione necessaria per entrare a Disneyland, poiché qui si effettua un’operazione di sostituzione dei segni monetari: non si tratta, infatti, di comprare un biglietto d’entrata tramite una certa somma di denaro, ma di acquistare, per gioco d’equivalenza, la moneta di Disneyland; ed è attraverso quest’ultima che il visitatore potrà partecipare alla vita “utopiana”: non si tratta di comprare dei beni che si possono ottenere o consumare con il denaro “reale”, ma di possedere i segni o almeno i significanti del lessico “utopiano”, grazie ai quali il percorso del visitatore acquisirà la sua significazione in una propria performance. Secondo abbandono, secondo scambio, secondo momento del lavoro di neutralizzazione operato dal limite: dopo l’automobile, il denaro, dopo la Ford, il dollaro, per raggiungere l’Altro Mondo con un altro mezzo di trasporto, per acquisire i segni di un altro discorso che non è più, almeno in apparenza, lo scambio monetario. Il primo di questi nuovi segni che il visitatore emette è quello che, di rimando, gli dà il permesso di entrare, cioè di discorrere il percorso “utopiano”, di parlare la prima frase di questo discorso. Lo scambio dei dollari e dei segni “utopiani” può essere più o meno importante, più o meno denso. Questo criterio quantitativo determina direttamente il volume generale e la complessità del discorso utopiano che il visitatore potrà articolare, e indirettamente il numero delle regole sintattiche delle differenti unità significanti, e, con esse, il numero degli enunciati-percorsi possibili del visitatore. Così, per fare un esempio, il visitatore scambia sei dollari per dieci “segni utopiani” composti da una A, una B, due C, tre D, tre E che gli permettono di “enunciare”i seguenti percorsi possibili: e/o anche la Carrozza a cavalli della Main Street, l’Omnibus della Main Street, la Vettura dei Pompieri della Main Street, il Castello della Bella Addormentata nel Bosco, il Carosello di Re Artù,

e/o anche il Cinema della Main Street, la Casa di Robinson svizzero, le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, la Crociera sul battello a vapore, il Treno del circo Casey,

e/o anche il Teatro del mondo fantastico, il Salone del tè matto, gli “Autopies”, lo stand di tiro a segno ecc.

e/o anche i Razzi spaziali, le Canoe da guerra degli indiani, il Viaggio sulla luna ecc.

e/o anche la Caverna dei Pirati, il Sottomarino sotto la banchisa del Polo Nord, la “Casa Stregata” ecc.

e/o anche il Paradiso polinesiano, i Bobsleighs del Cervino, la Crociera su un fiume tropicale ecc.

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Limite interno Il terzo luogo è circolare e lineare, continuo e articolato al contempo: è costituito della ferrovia di Santa Fe e Disneyland, punteggiato da qualche stazione. Il visitatore supera quest’ultimo limite attraverso due tunnel che lo conducono nell’Altro Mondo. Quest’ultimo limite non costituisce quindi una frontiera per il “narratore”, poiché egli non utilizza necessariamente il veicolo che la percorre per penetrare nell’“utopia”, ma è tale per lo spazio “utopiano” che con essa trova il suo limite estremo, sotto forma di mezzo di comunicazione eroico, ma arcaico, che lo recinge. Non si entra tramite esso a Disneyland, e non se ne esce; se ne percorre la frontiera circolare dove la sua rappresentazione al contempo comincia e termina. La ferrovia di Santa Fe e Disneyland traccia il percorso dell’“isola felice”: costituisce l’ultimo limite della “cornice” del quadro e il primo lineamento della figura. Con esso, il mondo esterno è definitivamente neutralizzato nella prima iscrizione del “luogo-in-nessun-luogo”. Tuttavia, questa pura frontiera invalicabile (se non attraverso i due tunnel) è trasgredita dalla ferrovia del futuro, la monorotaia, che non recinge nulla, poiché la rotaia sospesa è sorretta da piloni, ma che collega l’hotel di Disneyland a una regione dell’utopia, “Il Mondo-Domani”. Così il limite è dato e con esso la sua trasgressione. È il passato che cinge l’“isola utopiana” con la copia in scala ridotta della locomotiva della conquista dell’Ovest. Ma è la tecnologia avanzata del futuro che valica il limite e collega lo spazio felice al mondo della realtà. Il progresso tecnico dunque è solo una trasgressione: esso si definisce tramite la regola che trasgredisce. Sul limite estremo dell’“Utopia”, con il primo disegno della figura, con l’enunciato iniziale del percorso narrativo-descrittivo, si esplicita la tensione senza fine della neutralizzazione che lavora nello spazio differenziante tra la realtà e l’utopia: quello del limite e del suo superamento. L’utopia non è soltanto un mondo differente, non soltanto è il mondo della differenza, ma anche è la differenza del mondo, l’“altro” del mondo. È quanto esprime la doppia neutralizzazione dell’autovettura e del denaro e l’inversione nel loro altro “utopico”, la prima, nei veicoli di trasporto del XIX o del XXI secolo; la seconda, nei “segni monetari-utopiani” i quali funzionano non tanto come equivalenti astratti di scambio di beni di consumo, quanto come segni che permettono agli enunciati possibili e limitati un discorso-percorso dello spazio “utopiano”, conversione che si produce sopra e al di là dell’ultimo limite, che è anche il primo disegno della figura. La linea della ferrovia è semioticamente il risultato significante delle due forme neutralizzanti di spazio che il narratore ha percorso all’inizio: alla superficie aperta, indefinita, a struttura debole del parcheggio, si oppone la linea ridotta, discontinua, a struttura forte, della biglietteria, e questa opposizione trova la sua riconciliazione nella linea circolare, che racchiude in maniera continua uno spazio chiuso, anisotropo, a struttura forte, pur autorizzandone l’accesso tramite la punteggiatura di segmenti contigui: riconciliazione che fa apparire così l’ambivalenza del “lavoro” di neutralizzazione, al contempo tensione della contraddizione e armonizzazione possibile dei contrari al grado zero della loro sintesi. La trasgressione della monorotaia sottolineerà ancora questa ambivalenza, dando a essa però una dimensione temporale: la sintesi possibile, al grado zero, delle contrarietà dello spazio (superficie//linea, continuo//discontinuo, apertura//chiusura, isotropia//anisotropia ecc.) riceve una determinazione storica che la specifica e la sovradetermina, quella di una tensione del passato e del futuro, dal XIX secolo al XXI.

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L’articolazione dello spazio nella sua ambivalenza è quindi il supporto di un’opposizione storica, che riceverà dai diversi enunciati-percorsi del visitatore una valorizzazione multipla. Questa sovradeterminazione costituisce il “quadro stesso del suo discorso”, l’ingiunzione latente e insistente di un significato imposto, che annulla il presente tramite il doppio polo storico-assiologico dell’origine e della fine, della passata conquista dell’Ovest e di quella futura dello “Spazio”. L’accesso al centro, finzione1 Disneyland è uno spazio centrato. Una strada conduce direttamente al centro: “La Grande Strada America” (Main Street USA). Ma questa strada verso la piazza centrale è anche quella che conduce direttamente il visitatore verso il “MondoFantastico”, uno dei quattro distretti di Disneyland. L’asse più evidente e più insistente dell’“utopia” dirige quindi il visitatore non solo dalla circonferenza al centro, dalla frontiera al cuore dello spazio chiuso, ma anche dalla realtà alla finzione; del resto è la finzione che costituisce l’insegna pubblicitaria, il segno di Disneyland, l’immagine di marca dell’utopia stessa. In cosa consiste Fantasyland? Questo luogo frontale del percorso è fatto d’immagini di personaggi, d’animali ecc., di racconti di fate illustrate da Walt Disney nei suoi disegni animati, film, album, riviste ecc. È fatto d’immagini: ciò significa che queste immagini sono rese reali e viventi grazie alla loro trasposizione in materiali reali, legno, pietre, caucciù, plastica, gesso…, e grazie alla loro “animazione”, attraverso uomini travestiti da personaggi dei fumetti o del cinema. L’immagine è raddoppiata dalla realtà in due sensi contrari: da un lato, l’immagine diventa realtà. Essa non è il semplice supporto dell’intento dell’attore di raggiungere l’altra cosa, di cui egli è semplice rappresentante. L’attore è diventato il raffigurato, il “Cavaliere” dell’incisione di Dürer è diventato non soltanto “il cavaliere dipinto”, il termine finale del progetto del ritrarre, ma il cavaliere in carne e ossa; tuttavia, con un movimento inverso, la realtà qui si trasforma in immagine; il raffigurato non è altro che l’attore e il Cavaliere, la Morte o il Diavolo non possiedono altra realtà che quella del loro sembiante, un essere colto attraverso la neutralizzazione dell’immaginario. Così, il narratore-visitatore ritrova di nuovo la realtà che aveva lasciato all’esterno attraverso il doppio gioco del limite neutralizzante la sua automobile e il suo denaro, ma la ritrova come realtà dell’immaginario, con la potenza, la violenza, e anche la fissità immobile e stereotipata della finzione. In altre parole, il luogo utopico verso il quale ci conduce direttamente la Main Street USA è solo il ritorno fantastico della realtà, la resurrezione della realtà nel suo altro che è l’allucinazione. Questo ritorno di una realtà dimenticata, neutralizzata e infantile che si produce nella realtà della finzione, vale a dire nell’allucinatorio compimento del desiderio, è, infatti, mediato da un sistema di rappresentazioni, elaborate da Walt Disney, che costituiscono un codice e un lessico retorico e iconico perfettamente dominato dal narratore-visitatore. Il ritorno della realtà dimenticata si attua solo nella e tramite questa formazione secondaria che, oltre a essere materiale d’immagini e di rappresentazioni che modellano il desiderio, costituisce anche la realtà stessa della finzione dove il desiderio è catturato nella sua illusione.

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Ne deriva la violenza esercitata nell’immaginario dalla finzione di questo distretto di Disneyland: l’altro della realtà appare – e in ciò, il “Mondo fantastico” è il luogo utopico privilegiato di Disneyland – ma appare come la realtà delle immagini banalizzate, routinizzate, dei film di Walt Disney, segni poveri di un’immaginazione omogeneizzata dai mass-media; questo altro è proprio l’illusione dove il desiderio si materializza, ma tale illusione è la forma collettiva, totalitaria, che l’immaginario di una società ha ricevuto e dove essa si forza a un faccia-a-faccia assimilato, digerito e caricaturizzato della propria immagine. Come a Disneyland l’organizzazione utopiana dello spazio riceve una sovradeterminazione storico-ideologica che ne indirizza il senso e il valore, ugualmente la funzione essenziale della figura utopica, che è quella di manifestare un’illusione di desiderio in una configurazione relativamente libera, si trova qui pervertita e bloccata in un sistema di rappresentazioni immobili e totalitarie: nuova inflessione di senso – ne incontreremo altre – tramite cui i processi utopici scoprono la loro appartenenza ideologica e l’indebolimento notevole della loro forza critica. La funzione pratica del centro La Main Street USA è, in un certo modo, una semplice via d’accesso. Infatti, per visitare Disneyland, per enunciare totalmente il discorso-percorso, essa è il mezzo per raggiungere il centro e per scegliere un itinerario, vale a dire per avviare la formulazione della parola performativa di questa lingua. Il narratore potrà nel centro, e a partire dal centro, articolare tra loro le diverse unità narrative, le sequenze multiple del suo percorso per mezzo dei segni che ha ricevuto all’entrata in cambio del suo denaro. In altri termini, a livello del testo utopico, la Main Street USA costituisce il canale di trasmissione del racconto che il visitatore recita mentre percorre Disneyland. Essa permette la comunicazione. La sua funzione è fatica: la più semplice, ma la più primitiva delle funzioni, poiché con essa, nessuna informazione viene scambiata, non altro che l’informazione stessa è possibile; essa avvia la relazione di emissione e di ricezione del discorso, relazione circolare come la figura utopica in cui essa s’instaura, poiché in questo caso l’emittente del messaggio, il visitatore-narratore, è tutt’uno con il suo ricevente, essendo Disneyland migliaia di letture aggrovigliate, una pluralità di lessici costitutivi del testo utopico che i visitatori scambiano senza fine, secondo i codici, lessico e sintassi, imposti dai registi dell’utopia di Walt Disney. Pluralità semiotica Ora questa funzione semiotica, condizione di possibilità dei messaggi-percorsi nella lingua utopiana di Disney, è iscritta strutturalmente tramite una lessia di second’ordine nella figura diagrammatica della somma aperta e tuttavia finita dei percorsi possibili, vale a dire la mappa di Disneyland. Infatti, guardando la mappa si constata ciò di cui non ci si accorge quando si percorre il racconto dell’entrata e del centro, che la Main Street USA non è solo una via, ma un distretto, un “Mondo” che separa e collega i distretti-mondi dell’ovest e dell’est. L’asse che permette al narratore di raggiungere il centro per iniziare qui il suo discorso narrativo e situarsi in una

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posizione di parola-percorso che gli permette di enunciarlo, è, per lo spettatore, uno spazio o un luogo della mappa, della sinossi figurativa e dello schema della finzione utopica che articola il “Mondo-Frontiera” e il “Mondo-Avventura” da una parte (a ovest o alla sua sinistra) al “Mondo-Domani” dall’altra (a est o alla sua destra): questo spazio gli mostra al contempo le loro relazioni e le loro differenze, senza che egli percepisca, se non dai loro nomi, come e cosa comunichino. Questo distretto è la condizione di possibilità di articolazione della mappa: con esso, ciò che prima si presentava come il momento aleatorio di una scelta o di una partenza possibile, si inserisce nella visibilità. Se si aggiunge infine che, nel percorso della Main Street USA, si narra un primo racconto, racconto originale poiché è quello stesso dell’utopia essendo il racconto della trasformazione della realtà nel suo altro, la finzione divenuta realtà e la realtà divenuta finzione, allora vediamo manifestarsi tra racconto e descrizione, tra narrazione e mappa, tra realtà e immaginario, il plurale funzionale della Main Street che per l’appunto porta il nome USA, la sua diversità e la sua polivalenza semiotica a cui occorrerà dare i contenuti semantici. La Main Street USA è un asse orientato verso il centro, luogo privilegiato della circolarità utopica, poiché esso è la condizione di possibilità di tutti i racconti-percorsi possibili della totalità: fenomenologicamente, è il momento in cui il visitatore sceglie l’inizio del suo itinerario. Ma essa è anche l’asse di fondazione dell’utopia, poiché tramite essa si racconta originariamente come la realtà si trasforma nel suo altro, il suo fantastico ritorno nell’allucinazione dell’immagine reale. Tuttavia, al livello della figura sinottica, essa è lo spazio che divide l’utopia in due parti, orientandola secondo la destra e la sinistra, l’est e l’ovest, e anche il luogo che ne permette la comunicazione e che gioca, sul piano e nella superficie della visibilità, il ruolo che giocava, nel racconto e nella dinamica del percorso, il polo dell’asse orientato, la “Plaza” dove la “Main Street” termina. Condizione di possibilità dell’articolazione dello spazio nel visibile, essa è condizione di possibilità del discorso nel racconto: elemento testuale essenziale – spazio e asse, centro e vettore, elemento che divide e unisce –, la Main Street USA è un operatore d’articolazione e di costruzione a tutti i livelli del testo visibile e narrabile. Polivalenza semantica La pluralità delle funzioni semiotiche della Main Street USA pone la questione della sua polivalenza semantica e della sua ragione: nell’insieme dello spazio “utopico”, infatti, questa via è il solo luogo dove ha corso il denaro del mondo esterno, dove il dollaro ha un valore effettivo, per acquistare non solo souvenir, ma qualsiasi specie di merce, vestiti, caramelle, rullini, macchine fotografiche ecc. In altri termini la Main Street USA, per realizzare perfettamente il suo ruolo di strada commerciale di una piccola città del Middle West nel 1880, nel grande gioco “sovradeterminante” del passato storico, deve esibire le sue boutique, i suoi negozi di derrate alimentari e di beni di consumo. Le boutique sono parte del gioco, della pièce teatrale che si sta rappresentando. Ma, nello stesso tempo, essa è il luogo dello scambio reale, il luogo della mercificazione e del consumo vero e proprio dove le imprese americane moderne vendono i loro prodotti. Tuttavia, questa realtà trasgressiva della chiusura utopiana è nascosta dietro la funzione inizia-

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le e più apparente della via che conduce alla piazza centrale e al “Mondo fantastico”. Questa funzione gioca un ruolo di schermo secondario per la vera, unica funzione della Main Street USA, quella di essere un luogo di verità e di consumo, lo spazio reale della mercificazione. È nella Main Street che, in fin dei conti, si effettua il ritorno della realtà in un sistema mediato di rappresentazioni collettive, realtà “altra” come il ricordo dimenticato dell’infanzia nell’immagine ben presente del mondo di Walt Disney. In definitiva, tutta quest’impresa è per la gloria di un autore di film d’animazione. Ma queste immagini, queste rappresentazioni, divenute realtà, hanno come funzione, nella Main Street che conduce il visitatore direttamente al loro spettacolo, di occultarne la verità: essere il luogo della realtà nell’utopia, la piazza dove il visitatore contempla nelle vetrine il suo doppio e il suo esatto contemporaneo, dove il denaro ritrova la sua potenza, dove nessuna delle attività utopiane ha luogo. Nel “Mondo fantastico”, è certo la sua immagine che egli percepisce, ma attraverso le deformazioni metriche e formali di un sistema immaginario di rappresentazioni che la collettività condivide. Nella Main Street, l’individuo, la persona privata, il consumatore è abbandonato a se stesso e affronta nell’utopia la prova della realtà esterna: l’esterno è all’interno e trae da quest’interiorizzazione solo una potenza supplementare di persuasione consumatrice, poiché è catturata nel gioco utopiano che manifesta la “scenografia” della via: questa la mette in scena con le case in legno della fine del XIX secolo, dipinte con colori vivaci. Per il suo allestimento, la Main Street USA appartiene a uno dei distretti dell’ovest di Disneyland, il “Mondo Frontiera”, che evoca il passato eroico dalla conquista del West. Ma, per il contenuto reale delle sue boutique, per le merci esposte dietro le sue vetrine, essa si ricollega al distretto dell’est, il “Mondo-Domani”, dove si trovano le copie dei prodotti della tecnologia e della scienza americana più avanzate. Che la Main Street si chiami USA, Stati Uniti d’America, è solo una prova supplementare dell’operazione che questo luogo effettua nell’utopia di Disneyland: dietro questo nome – per la virtù, per la potenza che gli appartiene in proprio – si “realizza”, ma sul piano della rappresentazione, la riconciliazione dei contrari: passato e futuro, tempo e spazio, gratuità ludica e serietà dello scambio commerciale, reale e immaginario. L’utopia vi si compie nella sua perfezione, ma la perfezione è solo uno spettacolo; la sua armonia è una rappresentazione. Da questo punto di vista, il lavoro della finzione utopica si trascrive in una figura ideologica in cui esso si immobilizza; ed è in questo modo che un’utopia perde la sua forza critica che la lavora nell’ideologia ove essa è già catturata e dove ormai essa cessa di recitare per rappresentare il faccia-a-faccia che gli uomini hanno con se stessi, nell’immaginario. I mondi di Disneyland: dal racconto al sistema delle lessie Abbandoniamo a questo punto il movimento di enunciazione del narratore alla casualità dei suoi discorsi multipli: la sintassi del suo discorso è stata definita al contempo dai limiti, il cui superamento equivale all’accettazione di un certo numero di codici, e dal percorso dell’asse che conduce al centro, il quale com-

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pleta l’apprendimento dei codici e dà al narratore la possibilità di “discorrere-ilsuo-racconto”, le condizioni fatiche della sua parola, i canali della sua comunicazione. Ma, nello stesso tempo, egli ha ricevuto, da tali codici e da tali possibilità di comunicare, delle regole supplementari, delle ingiunzioni nuove, delle determinazioni che vincolano, se non il suo percorso, almeno, nonostante la sua libertà, gli effetti di senso del suo percorso. Dal tragitto ingresso-centro, deriva non solo la possibilità di cominciare a emettere la sua comunicazione, ma anche la sovradeterminazione del suo discorso possibile attraverso una certa rappresentazione della storia nell’immaginario, e attraverso un inquadramento di questo immaginario in un sistema di stereotipi rappresentativi dal quale egli deve prendere in prestito le immagini per esprimersi. Possiamo ormai fare ricorso alla mappa, cioè al testo utopico nella sua totalità visibile e sostituire al racconto possibile e alla narrazione performativa la descrizione reale, assertoria, di un ordine di coesistenze nello spazio. Ciò significa supporre metodologicamente come effettuato il sistema dei percorsi-discorsi nella struttura del testo-schema, di cui la mappa è una delle rappresentazioni: il nostro metadiscorso analitico entra nel quadro, si sviluppa sotto forma di rappresentazione totalizzante, sostituto strutturale della successione dei percorsi possibili, sistema delle lessie. Il quadro-mappa ha una parte sinistra e una parte destra, determinate dalla sua relazione con lo spettatore che guarda la mappa dell’utopia. Esso lo orienta così in uno spazio di secondo ordine di cui egli è il punto di vista privilegiato. È questo punto di vista che rimette in gioco la figura utopica, immobilizzata nella rappresentazione immaginaria del narratore, sovradeterminata ideologicamente; ma la rimette in gioco al prezzo di un’illusione, di una sostituzione che rischia fortemente di passare inosservata. Infatti, lo spettatore è necessariamente, nella sua stessa funzione di spettatore, fuori dal quadro, e, all’occorrenza, fuori dall’utopia di Disneyland, non nel mondo esterno che essa neutralizza e trasforma con la sua figura, ma in uno spazio “secondo” che comprende lo spazio utopico, attraverso una coestensione perfetta e senza residuo, e ne forma il modello analogico. L’operazione di rimessa in gioco consiste nel sostituire alla successione dei percorsi, alla sintagmatica delle lessie plurali, il loro modello paradigmatico, in cui esse sono presenti nel loro annullamento. Così la struttura sta per la manifestazione, la lingua per la parola, il sistema dei paradigmi per la successione aleatoria dei sintagmi, l’analogon totalizzante per l’articolazione delle unità narrative e delle sequenze di percorso. È possibile che questa sostituzione sia necessaria al metadiscorso analitico per effettuarsi. Ma esso deve almeno tematizzarla per non confondere i processi narrativi e il sistema del testo nello studio delle figure architettoniche che sono al contempo “spettacolari” e “percorribili”, funzionando ai due livelli dello spettacolo e della dimora, della rappresentazione e dell’abitazione. Il privilegio alienante d’insiemi significanti come Disneyland è di spostare l’abitabilità dello spazio nella sua rappresentazione, di fare dell’organizzazione dinamica dei luoghi nell’unità aleatoria di un percorso, una rappresentazione spettacolare, sicché il movimento di sostituzione del diagramma e del modello analogico al percorso e alla casa, può rimanere completamente occulto.

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La mappa di Disneyland La parte sinistra del quadro è formata da due distretti: due mondi, il “Mondo Frontiera” e il “Mondo Avventura”, dotati di un centro eccentrico, “New Orleans Square”. Il “Mondo Frontiera” rappresenta scene di conquista dell’Ovest nel passato: racconti di conquista i cui archivi s’iscrivono nell’appropriazione americana sempre più crescente di terre e di risorse sfruttabili; la frontiera non scrive un limite, ma una trasgressione. Ritroviamo nel “contenuto semantico” di questo discorso utopico, ciò che ci era apparso come costitutivo del suo codice generale: la frontiera al contempo chiusura e trasgressione; il limite, pretesto alla trasgressione. È notevole, infatti, che gli episodi del “Mondo-Frontiera” siano essenzialmente quelli del viaggio di conquista e di sfruttamento, dai battelli di Mike Fink e le zattere di Tom Sawyer fino ai convogli mulattieri di sfruttamento delle miniere di metalli preziosi e alle grandi navi a ruota e a vapore del Mississippi: penetrazione, conquista sui primi possessori della terra, gli indiani, la cui presenza è marcata in rappresentazione dagli stand di tiro a segno e dalle canoe di guerra. Il “Mondo Avventura” è la rappresentazione di scene della vita selvaggia nelle contrade esotiche, con il rischio degli scontri e degli incidenti di un viaggio in battello su un fiume tropicale. Se il “Mondo-Frontiera” significava la distanza temporale della storia passata della nazione americana, il “Mondo Avventura” significa la distanza spaziale della geografia del mondo esterno all’America del Nord, mondo della barbarie naturale, campo attuale di possibili iniziative, poiché l’avventura è anche una frontiera e i cannibali primitivi che spuntano dalle rive appaiono come avversari sfruttabili, proprio come gli indiani dell’altro distretto, ormai eliminati o sottomessi. Rappresentando la distanza temporale e spaziale, ribaltando le violenze della storia reale passata nello spazio distanziato dell’etnologia, i due distretti dell’ovest, nella parte sinistra del quadro, esprimono l’esteriorità dello spazio geografico e l’interiorità della distanza storica, ma in rappresentazione; così esse si ritrovano facilmente assimilate, confuse e neutralizzate, l’una con l’altra, per effetto dell’esibizione sulla medesima scena. La parte destra del quadro è occupata da un solo distretto, e comprendiamo immediatamente la ragione di questa rottura di simmetria rispetto alla parte sinistra. Si tratta del “Mondo-Domani” concepito essenzialmente sotto la forma di Futurocome-Spazio, futuro einsteiniano, spazio-tempo che realizza quindi la sintesi armonica delle due dimensioni del mondo in generale che la parte sinistra del quadro rappresentava nella loro propria distanza e alla loro distanza specifica, il tempo come la storia nazionale passata e lo spazio come esotismo primitivo straniero. Il “Mondo Domani”, è lo spazio come tempo, l’universo posseduto dalla scienza e dalla tecnica americane, già presente qui e ora. Il “Mondo Domani” possiede anch’esso il suo centro eccentrico, il teatro a carosello, mobile, del Progresso, offerto dalla General Electric, sul quale ritorneremo. Modelli Possiamo costruire ora due diversi modelli che presentano, l’uno, la mappa di Disneyland, diagramma puramente analogico dello spazio reale, l’altro, la struttura semantica di questa mappa, di cui articola con più precisione le opposizioni:

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Ferrovia Santa-Fe Disneyland (6) Mondo Fantastico (2) Mondo Frontiera (3) New Orleans Square

Plaza

Mondo Domani (5)

Mondo Avventura(4) Carosello del Progresso

Main Street

(7)

USA (1)

biglietterie

(6)

Parcheggio (6) Fig. 1. Mappa diagramma di Disneyland.

Finzione Mondo Frontiera (3)

Tempo

Storia

Passato

//

Mondo Fantastico (2)

L’America

Mondo Spazio Presente

U

Lontano Estraneo Oggi = Main Street USA (1)

Domani Tempo Futuro

Mondo Avventura (4) Limite/i (6)

Realtà (7) Fig. 2. Struttura semantica della mappa di Disneyland.

U

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Di nuovo, il centro Due osservazioni su tali modelli di cui il primo rappresenta, il secondo simboleggia, all’interno degli spazi di secondo e terz’ordine, il sistema delle lessie – percorso dello spazio di prim’ordine che è la figura utopica iscritta nella topografia urbana di Los Angeles. La prima riguarda la funzione semiotica del centro nella struttura semantica. Il centro della struttura non è il centro della mappa; in altri termini la struttura non è una mappa semplificata. Il centro simboleggia la pluralità delle funzioni semiotiche della Main Street USA come accesso al centro, asse di conversione della realtà in finzione e della distanza storico-geografica disgiunta in congiunzione tecnica e scientifica dello spazio e del tempo. La seconda è ugualmente relativa al centro: si noterà che la Main Street USA è formalmente e materialmente, semioticamente e semanticamente, un luogo di scambio e di lavoro, scambio e transito di merci e di oggetti di consumo reali, ma anche scambio e transito di significazioni che la mappa e la struttura della mappa hanno fatto apparire. Il centro della struttura funziona così al contempo all’interno della struttura e fuori di essa: all’interno della struttura, poiché esso è rigorosamente determinato dalle due grandi correlazioni che la costituiscono, realtà e finzione da una parte, distanza storico-geografica e spazio-tempo dall’altra. Ma esso non è soltanto il punto d’intersezione dei due assi semantici: in una certa misura, esso li produce. Infatti, è attraverso esso che i poli contrari delle correlazioni si scambiano l’uno con l’altro, che la realtà diventa finzione e la finzione realtà, che la distanza esterna-interna del lontano esotico e del passato nazionale si trasforma in spazio-tempo, universali-americani, della scienza e della tecnologia, e viceversa, che la scienza e la tecnica americane si convertono in passato storico ed estraneità esterna. Il centro è infatti dotato di una grande polivalenza semantica; esso cumula tutte le funzioni semiotiche. Esso offre la presenza, nella scenografia del passato, dei prodotti dell’avvenire; esso è asse, superficie, distretto e via d’accesso. Esso è la rappresentazione della mediazione dialettica trasformatrice-creatrice delle soluzioni narrative; esso è l’immagine delle invenzioni determinate dalla storia nei suoi differenti livelli. Il fatto che questa rappresentazione, questa immagine, si chiami “Stati Uniti d’America” e si declini al presente, svela l’ultima operazione che il centro realizza nello spazio utopico: la conversione della storia in ideologia, nello scoprirsi, esso stesso, investito di ideologia. Non è inutile aggiungere, per concludere questa considerazione, che scopriamo nel centro strutturale della mappa l’esistenza di un elemento che è stato spesso notato nell’organizzazione dello spazio pittorico rappresentativo dal Quattrocento agli Impressionisti: un elemento centrale attraverso cui si effettua la conversione delle figure semantiche e delle funzioni semiotiche del quadro e la cui polivalenza permette, in particolare nel quadro della storia, la conversione del tempo in spazio e del racconto in simbolo. Che Disneyland sia una rappresentazione e che il suo centro strutturale sia in qualche modo la rappresentazione di questa rappresentazione e il luogo in cui essa si produce nel suo sistema, certo, poteva essere dato per scontato in anticipo per il suo carattere spettacolare: come tale l’utopia di Disney obbedisce alle leggi generali della rappresentazione. Infine la mediazione “rappresentativa” della Main Street USA mostra che probabilmente, in questo luogo utopico, le merci sono delle significazioni e le significazioni delle merci. Per la vendita dei pro-

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dotti di consumo up-to-date nello scenario di una strada del XIX secolo, tra realtà adulta e finzione infantile, l’utopia di Walt Disney converte le une nelle altre e reciprocamente: ciò che viene acquistato qui, sono segni; ma questi segni, sono merci. I centri eccentrici I distretti di sinistra e di destra del quadro sono dotati di centri secondari i quali sono essi stessi collegati in modo significante. “New Orleans Square” a sinistra, come il “Carosello del Progresso” a destra sono, entrambi, gli elementi metaforico-metonimici dei sotto-insiemi di cui fanno parte. Il primo riunisce, nello stesso luogo, due attrazioni (non bisogna dimenticare che la parte sinistra del quadro è composta di due distretti disgiunti semanticamente e topograficamente, distanti, l’uno e l’altro, nella storia e nella geografia), la “Caverna dei Pirati” del mar dei Caraibi e la “Casa Stregata” ispirata a un racconto di Poe. Il secondo rappresenta una successione di scene dalla vita domestica del XIX secolo ai giorni nostri che sono già il domani e la cui “morale” è la soddisfazione progressiva dei bisogni umani attraverso la tecnologia e la scienza: lo spazio e il tempo vi sono riconciliati, poiché i personaggi di ieri si ritrovano magicamente identici a quelli di domani e la modesta fattoria dell’“origine” si trasforma progressivamente in un duplicato perduto tra due firmamenti, quello della volta stellare e quello dell’illuminazione della città. Attrazioni tra le altre attrazioni dei distretti in cui sono collocate, “New Orleans Square” e il “Carosello del Progresso” condensano al loro interno la significazione dei Mondi di cui sono le parti. La finzione dell’accumulazione primitiva La “Caverna dei Pirati” rivela tutto il suo contenuto semantico primitivo soltanto in un racconto. Il narratore qui deve riprendere la parola per raccontare il suo percorso sotterraneo, giacché l’organizzazione sintagmatica dell’itinerario che egli segue a bordo di una barca contiene la chiave di un primo ed essenziale strato di significazione. Infatti, prima sequenza del discorso, questa caverna è innanzitutto un luogo in cui cadaveri, scheletri semivestiti, sono distesi su mucchi di monete d’oro e d’argento, cumuli di pietre preziose, di gioielli, di vasi d’oro ecc. Seconda sequenza: il visitatore assiste, in seguito, a una battaglia navale (il battello dei pirati spara cannonate ai vascelli di un porto) e la sua barca scivola tra le due linee di fuoco; terza sequenza, la città è presa d’assalto dai pirati sbarcati: uccisioni, violazioni, saccheggi, isterismi di donne, divampare dell’incendio; il bottino viene accatastato sulle barche e sui galeoni. Ultima sequenza, infine, la barca del visitatore lascia la caverna, salutata dai pirati che fanno gozzoviglia per festeggiare la loro vittoria. La narrazione, lo si comprende, vi si sviluppa secondo una successione cronologica inversa: infatti, se le sequenze seconda, terza e quarta sono correttamente ordinate, quella che è la prima nell’ordine dell’enunciazione discorsiva dovrebbe essere l’ultima nell’ordine della storia: non è forse a partire dal suo presente che il narratore scopre un pezzo di passato e il suo presente non è contemporaneo alla fine dei pirati? Quest’inversione complessa del corso del tempo nell’organizzazione del grande sintagma narrativo ha

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un doppio senso: etico e moralizzatore innanzitutto; il crimine non paga. Come talvolta nelle fiabe, l’argomento morale è presente all’inizio, con rappresentazione degli scheletri stesi sopra i loro tesori. Ma, al di là di questo semantema di superficie, il ribaltamento della cronologia degli avvenimenti tipici in quella del racconto che li prende in carico, mostra una sorta d’equivalenza formale delle cronologie e, allo stesso tempo, prepara la loro neutralizzazione. In questo luogo che è al di là dello spazio, poiché è una caverna, il tempo del racconto e il tempo dell’evento si scambiano, il tempo dell’enunciazione e quello dell’enunciato si uguagliano: il narratore, allorché comincia il suo percorso nello spazio, conosce la fine della storia, di cui vedrà lo svolgimento temporale successivo. L’organizzazione sintagmatica del suo percorso ha, di primo acchito, un valore paradigmatico riconosciuto in manifestazione nella lezione morale che essa cela. La successione cronologica è neutralizzata nel luogo della rappresentazione, dalla scena dello spettacolo. Considerazioni analoghe potrebbero essere fatte a proposito della “Casa Stregata”. Economia morale e morale economica Ma se introduciamo la narrazione con le ambivalenze cronologiche del suo enunciato e della sua enunciazione nello schema strutturale della mappa, se colleghiamo il paradigma che essa espone nella successione del suo racconto alle altre relazioni costitutive della strutturazione della figura totale, e in particolare alla relazione matriciale che produce il centro della struttura, allora appare un secondo livello di senso: il centro infatti è un “oggi reale”, vale a dire un luogo di scambio di merci e di prodotti, un mercato di beni di consumo e un luogo di consumo. Correlato al centro eccentrico della parte sinistra del quadro, il centro dell’utopia di Disney mostra al visitatore che la vita è uno scambio costante e un consumo perpetuo. Correlativamente, la “Caverna dei Pirati” (e la “Casa Stregata”) gli insegnano, al di là della lezione morale e delle emozioni del percorso, che la distanza storico-geografica spostata e condensata nell’al di là dello spazio e del tempo che esse rappresentano è un luogo fantastico dove l’accumulazione feudale delle ricchezze, la tesaurizzazione “ispanica” del Vecchio Mondo, non solo sono moralmente condannabili, ma segni e sintomi di morte. Il tesoro sepolto nella caverna è una cosa morta. La merce prodotta e venduta è un bene vivo perché prodotto e consumabile. Il mito del progresso tecnico La validità di questa correlazione significante si afferma se costruiamo nella struttura la sequenza della “Caverna dei Pirati” e del “Carosello del Progresso”. Infatti, la rappresentazione che la General Electric offre al visitatore è prodotta su una scena circolare e mobile: il narratore non percorre un itinerario, come nella “Caverna dei Pirati”, sia pure cronologicamente un po’ offuscato. Egli è divenuto spettatore immobile e passivo, seduto su una poltrona, e assiste, dal punto fisso dell’oggi, al movimento del tempo: non più il tempo della storia, ma la cronaca lineare indefinita della tecnica e della scienza. Ma, come la successione narrativa del racconto della

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“Caverna dei Pirati”, la dinamica del “Carosello del Progresso” è, almeno in apparenza, un po’ “disordinata”. Il piano della scena è mobile e il suo movimento, circolare. I “quadri” cui assiste lo spettatore non si presentano attraverso una successione discontinua di scene che evidenziano una tappa determinata del progresso, ma attraverso una progressione continua. Come potrà, tuttavia, la circolarità tradurre questa progressione, giacché la sua caratteristica è di ritornare costantemente al suo punto di partenza? In verità, se la “morale” della rappresentazione è la linearità interminabile del progresso scientifico e tecnico, il movimento circolare continuo della scena è un semplice significante della riconciliazione del tempo e dello spazio colto e rappresentato come la progressione cumulativa indefinita dei beni di consumo e della cornice “utensilare” dell’individuo. Il movimento circolare mostra il carattere indefinito del progresso, come l’organizzazione specifica dello spazio della rappresentazione traduce la soddisfazione passiva dei bisogni multipli. Nessuna allusione al denaro, ancora meno alla sua accumulazione sterile e mortale: la ricchezza rappresentata non appartiene all’ordine dei segni monetari o dei metalli preziosi. Essa testimonia la complessificazione crescente della sfera dell’utensileria che progressivamente costituisce la totalità dell’ambiente umano. Essa segnala, in un certo modo, il dominio dell’individuo attraverso l’utensile sotto forma di sua integrazione perfetta a tale ambiente che, in tal modo, lo “agisce” meccanicamente. I segni della ricchezza sono costituiti dall’ampiezza e dalla diversità, non del consumo – come nel centro strutturale “reale” dell’utopia – ma dei mezzi e degli strumenti di consumo, delle sue mediazioni tecniche e scientifiche. I centri eccentrici sono, abbiamo detto, le parti metaforico-metonimiche degli insiemi di cui sono gli elementi. È grazie agli effetti di senso che essi inducono sulla totalità e sui loro grandi sottoinsiemi, che ci sarà possibile mettere in evidenza una relazione fondamentale che struttura l’utopia di Disney. Essa articola in maniera diversificata e complessa la macchina e il vivente, la tecnica e l’individuo e, in definitiva, la natura e la cultura. Macchina e vivente Le parti a sinistra del quadro hanno mostrato le selvagge contrade esotiche e l’eroica conquista dell’Ovest contro i feroci indiani e le belve selvagge. Alla fine, l’ideologia semplice che si manifesta nelle scene e nelle attrazioni che vi sono mostrate, è quella della cultura trasmessa dagli americani del XIX secolo e dai bianchi, adulti, civilizzati, maschi, allo spazio esterno e straniero. Ora, tutti gli esseri viventi che scorgiamo in questi mondi occidentali dell’utopia (e ciò è ancora più reale dei pirati e dei fantasmi di “New Orleans Square”), sono delle riproduzioni, dei doppi: la “Caverna dei Pirati” è la caverna platonica dove passeggiano simulacri, con la differenza che non sono le loro ombre sui muri, ma essi stessi che i visitatori vedono. Tuttavia è la stessa cosa, poiché essi sono dei quasi-viventi. Potrebbero essere presi per reali e, come nella caverna platonica, i burattinai sono nascosti. Nondimeno, niente è reale; tutto ciò che vive è solo un artificio, tutta la “natura” è solo un simulacro. In altri termini, la natura è mostrata come un mostro primitivo e selvaggio. Ma questo mostro è solo un’apparenza che afferra la macchina nella gra-

DISNEYLAND. DEGENERAZIONE UTOPICA

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tuità ludica dell’utopia, dell’Altro Mondo. Questo mostro è un thauma, una meraviglia intricata. Tuttavia, in questo gioco d’artificio e nell’attività disinteressata degli automi, spunta una verità che occorre liberare dalle apparenze. Ciò che si manifesta nella parte sinistra della mappa, è che la macchina è la realtà o la verità del vivente. Ritroviamo nell’utopia degenerata di Disney il grande gesto epistemico del meccanismo che abbiamo sottolineato nell’utopia originaria di Moro e la cui affermazione è coestensiva con la nascita e lo sviluppo del capitalismo industriale. Ritroviamo il meccanismo, certo, ma non si tratta affatto di un sapere offerto agli Utopiani grazie al quale essi possano ammirare nell’Universo l’opera di un Dio artigiano; si tratta di una macchina dissimulata di cui ignorano gli ingranaggi, e il cui piano è di farsi dimenticare, di farsi prendere per il suo contrario: la vita naturale. Il modello ridotto Ma questa verità nascosta degli elementi della parte sinistra del quadro, si rivela essa stessa a destra, nel “Mondo-Domani”: le macchine sono là, presenti ovunque, eclatanti, dai sottomarini atomici al razzo verso la luna, come se ciò che era dissimulato nei due distretti della distanza storico-geografica fosse divenuto esplicito attraverso la mediazione del centro, della Main Street USA. Nondimeno, se le macchine sono così evidenti, non sono però vere macchine: il razzo lunare non è un vero razzo; il sottomarino atomico non è un vero sottomarino. Esse non sono neanche false. La loro realtà è quella del modello ridotto: non si tratta di duplicati falsi ma di veri modelli, nei quali, per decisione del loro costruttore, si ritrovano conservati un certo numero di relazioni caratteristiche dell’oggetto reale. Falsi viventi e macchine nascoste a sinistra, macchine palesi e veri modelli a destra; la natura reale è l’apparenza, la macchina-modello ridotto è la realtà. L’utopia di Disney opera lo scambio della natura biologica e della tecnica meccanicistica, all’incrocio tra l’apparenza e la realtà, dove l’una e l’altra si neutralizzano. Così si estenua la forza utopica del neutro nell’ideologia della rappresentazione e della macchina. Ciò che indica qui l’utopia nel doppio gioco del vero e del falso, del vivente e dell’artefatto, è l’immagine del doppio allontanamento di cui risente l’individuo di questa società, della doppia distanza che egli prova nei riguardi della natura e della scienza: egli non incontra più la natura oppure ciò che incontra è una natura preservata, riservata. E la scienza lo agisce, lo domina attraverso la mediazione della tecnica e delle macchine che creano più bisogni di quanti non ne soddisfino. La natura che egli vede è una rappresentazione la cui faccia nascosta è una macchina. La macchina che egli utilizza e con la quale gioca è il modello ridotto di una macchina che lo cattura e che si prende gioco di lui. Ritroveremo la stessa funzione dei modelli ridotti in un’altra isotopia, nel “Mondo fantastico”. Abbiamo visto che questo Mondo è fatto di “immagini realirealizzate” di fiabe messe esse stesse in scena e in immagini da Walt Disney. Il “Mondo fantastico” è il ritorno della realtà, ma sotto la sua forma regressiva e allucinatoria: la realtà entra e si trasforma nel suo altro in utopia, ma quest’altro non è che una realtà immaginaria. Ora, quest’immaginario reale è la ripetizione, la riproduzione di ciò che il narratore ha visto nella “Caverna dei Pirati” e nella “Casa stre-

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gata”, ma regressivamente, in piccolo, a misura di bambino. Vi rincontreremo le stesse finzioni di morte, di onnipotenza, di distruzione, di violenza, di cannibalismo, ma come modelli ridotti di ciò che animava le due grandi attrazioni di “New Orleans Square”. Modelli ridotti come quelli del “Mondo-Domani”, ma modelli ridotti della morte, dell’estraneità e dell’esotico nell’immaginario, al contrario di quelli della scienza e della tecnica che sono la vita, il consumabile, il familiare nella loro immagine. Da questo punto di vista, il “Mondo fantastico” è una complessa ma importante mediazione tra le macchine di Domani e le finzioni storico-geografiche della Frontiera e dell’Avventura metaforizzata nella scena dei Pirati e del Fantasma. Potremmo, certo, guidati dalle relazioni della struttura semantica della mappa, articolare il dominio del Vivente, “grandezza natura” e quello della Macchina, “modello ridotto”. Il primo è un’apparenza naturale nella distanza del passato storico e dello spazio geografico. Il secondo è la verità culturale nel qui e ora della vita americana che si percepisce come la vita universale: la funzione dell’utopia di Disney nel suo centro è stata di rappresentare la trasformazione dell’uno nell’altro, di esplorarne l’ideologia sulla scena e nella cornice dell’utopia. Tracciamo, per finire, le nuove relazioni che abbiamo fatto apparire attraverso il metadiscorso analitico nella struttura semantica della mappa:

Sovra-naturale Cattiva accumulazione di ricchezze = morte

Passato Storia // // Lontano Estraneo

Naturale Falsa duplicazione di esseri reali = organismo

Finzione Falsi modelli ridotti = Immaginario

America oggi scambio reale di prodotti-merci

= Reale Veri utensili Realtà

Sovra-culturale Vari modelli ridotti di macchine = utensile

Spazio Qui U U Tempo Domani

Culturale Progresso indefinito del consumo tecnologico = vita

Fig. 3. Struttura semantica della rappresentazione ideologica di Disneyland.

* Titolo originale: Dégénerescence utopique: Disneyland (Marin 1973b). 1 In francese, fantasme (N.d.T.).

La “corsa dei ceri” a Gubbio. Stato di una ricerca* Maurizio Del Ninno

1. La festa dei ceri1 di Gubbio, per la complessità degli elementi che mette in gioco, per il rilievo che assume all’interno della città, per la profondità storica che ne rende probabile un collegamento con le Tavole Eugubine, si propone allo studioso come un terreno particolarmente fecondo per saggiare alcuni strumenti offerti dalla semiotica per l’analisi delle pratiche sociali. Tale obiettivo, già presente nell’analisi del 1976, è stato approfondito in saggi successivi (1981a; 1981b; 1983a), che, in modo differente, sviluppano l’ipotesi che sia possibile concepire la festa come un algoritmo di trasformazione, una suite ordinata di operazioni che permettono di passare da uno stato iniziale a uno finale2. Nonostante l’arco di tempo durante il quale il fenomeno è stato oggetto di osservazioni, molti sono ancora i problemi irrisolti. Riteniamo pertanto opportuno formulare qui, nelle linee essenziali, lo stato della ricerca. 2. L’articolazione spaziale della festa. Una prima segmentazione In un primo momento l’attenzione è stata rivolta principalmente a delineare il carattere testuale dell’evento e a mettere in evidenza l’esistenza di regolarità di tipo paradigmatico manifestate dall’iterazione di unità con strutture e contenuti invertiti. La “corsa dei ceri”, apparentemente insensata se analizzata nelle sue caratteristiche peculiari come fenomeno a sé stante, mostra invece una profonda coerenza appena inserita nella complessa rete di cortei e processioni3 che le ruotano intorno. Lo schema che segue propone in forma grafica alcune relazioni così individuabili.

discesa ceri

b

sfilata santi

c

mattino

a

sfilata ceraioli mostra

e

processione

f g

pomeriggio

d

corsa discesa santi

piazza della Signoria

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MAURIZIO DEL NINNO

Esso mette in evidenza che il susseguirsi delle varie sfilate deriva da un modello nel quale il blocco a, b, c si oppone a quello e, f, g, e dove i singoli spostamenti sono correlabili in coppie oppositive, ruotanti intorno al momento centrale (la “mostra”). In effetti i percorsi del mattino sono tra loro in rapporto di discontinuità (si arriva in un punto, si parte da un altro), quelli del pomeriggio sono invece continui, i primi riflettono una sorta di logica dell’assemblage, i secondi quella del démontage. Una caratteristica importante, comune ai due gruppi, è che in ciascuno, due dei tre percorsi (a, b, e f, g) si svolgono in senso orario. Poiché durante la “mostra” “sant’Ubaldo” e “san Giorgio” avanzano in un senso e “sant’Antonio” nell’altro, ritroviamo qui, compressa in un unico momento, la stessa relazione che intercorre fra a, b e f, g rispetto a c ed e4. È tuttavia l’analisi dei singoli accoppiamenti a confermare il processo di inversione. La prima connessione si può stabilire tra la “discesa dei ceri” e la “corsa”: i due percorsi, congiunti dal rapporto logico di andata e ritorno, sono opposti sul piano delle modalità. All’andata i ceri sono portati orizzontalmente, al passo (lentamente), con la tendenza a osservare una certa distanza tra una “famiglia” e l’altra; al ritorno la verticalità del cero, la velocità e la tendenza alla congiunzione sono le regole assolute. È nei confronti di questi due movimenti che appare in particolare la funzione mediatrice della “mostra”: essa, infatti, opera il trasferimento dei ceri dal luogo di arrivo (piazza della Signoria) a quello di partenza (via Savelli) e durante questo periodo i ceri sono portati ora al passo, ora di corsa (mediazione lento-veloce). Da notare che la loro posizione pertinente è quella obliqua degli “inchini” (mediazione orizzontale/verticale)5. Il secondo rapporto di correlazione va a stabilirsi tra la “sfilata” e la “discesa” dei “santi”. Infatti, nonostante l’itinerario differente, abbiamo ancora un rapporto di andata-ritorno (b va dalla chiesa dei Muratori al luogo di congiunzione con i ceri; g va dal luogo di separazione alla chiesa dei Muratori). I due percorsi sono in opposizione sull’asse sacro/profano; infatti, sebbene in entrambi i casi si trasportino i “santi”, solo al mattino si parla di processione, con conseguente presenza delle marche religiose relative (per esempio, il segno della croce da parte del pubblico). La “discesa” invece ha un carattere nettamente profano sia per la licenziosità dei canti, più forte che in altri momenti, sia per la presenza delle donne, che viene connotata sessualmente. Gli ultimi due cortei, la “sfilata dei ceraioli” e la “processione di sant’Ubaldo”, congiunti dal senso antiorario del loro spostamento, si distinguono in particolare per una strana opposizione spaziale. La “sfilata” muove da Porta Castello per arrivare a piazza della Signoria; la “processione” invece parte da piazza della Signoria per arrestarsi all’incrocio di via Savelli con via Dante. In entrambi i casi, ma per tratti differenti, il percorso prevede che sia lasciato aperto l’anello che si sarebbe formato compiendo l’intero giro della città, sebbene il segmento mancante debba essere necessariamente compiuto (i ceraioli devono, infatti, recarsi da piazza della Signoria, dove ha luogo la “colazione”, a Porta Castello per poter partecipare alla “sfilata”; a sua volta la statua di sant’Ubaldo deve essere riportata, sciolta la processione, al duomo, cioè in prossimità di piazza della Signoria). La figura 2 mette in evidenza la diversa articolazione dei due cortei.

LA “CORSA DEI CERI” A GUBBIO. STATO DI UNA RICERCA

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pomeriggio

mattino

Vedremo più avanti (§ 4) il valore di tale differenziazione. Questi primi dati, certamente molto riduttivi rispetto alla complessità dell’evento, hanno comunque portato a individuare nella festa un’istanza istauratrice dell’unità sociale, che si manifesta in particolare nel processo di integrazione in atto tra i discesa “giusta ceri ceri durante la “corsa”a(vedi il problema della distanza”, in Del Ninno 1976, p. 54). In effetti i ceraioli, in tre gruppi antagonistici (le tre “famib inizialmente divisi sfilata santi glie”), sono nell’ultimo percorso (la “discesa dei santi”) riuniti in un corteo privo di c sfilata ceraioli distinzioni di colore. d mostra Un altro risultato della prima analisi riguarda il fatto che l’esame delle caratteristiche, che a diversi livelli contraddistinguono le e processione tre divinità cui fanno capo le tre “famiglie” (sant’Ubaldo, vescovo; san Giorgio, guerriero; sant’Antonio, protettore corsa f dei contadini), ha permesso di riconoscere l’impianto trifunzionale della festa. discesa santi 1981b), secondo i rilievi posti da g L’approfondimento successivo della ricerca (1981a; Dumézil (1979), ha dato sufficiente consistenza a questa ipotesi, che appare ora capace di chiarire alcuni aspetti della “corsa” (v. infra, § 5). piazza della Signoria

porta Castello

via Dante – via Savelli

sfilata dei ceraioli processione di S. Ubaldo

3. La “vita” di sant’Ubaldo Un passo avanti nell’individuazione dello schema soggiacente alla festa è derivato da una rilettura della “vita” di Ubaldo6. La nuova analisi (Del Ninno 1981b; 1983a) trae spunto dal riscontro di un’apparente incoerenza del testo agiografico. Fin da bambino Ubaldo ha un comportamento molto pio e dà prova delle sue future qualità facendo scaturire una fonte per dissetare la madre. Ordinato sacerdote, in virtù della sua fama, la vicina Perugia desidera averlo come vescovo: la

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modestia porta però il futuro santo a rifiutare tale incarico. Quando, poco dopo, muore il vescovo di Gubbio, il lettore si aspetta dunque che la scelta ricada su Ubaldo; il clero della sua città invece non prende neppure in considerazione il suo nome e, discorde sulla decisione, demanda il caso al papa, il quale, inaspettatamente, nomina proprio Ubaldo. Gli eugubini, viene detto, sono felicissimi di questa scelta, ma apprendiamo poco dopo che molti sono i patimenti che l’umile vescovo deve subire (i monaci gli sbattono la porta del chiostro in faccia, un cavaliere lo prende a schiaffi, altri lo deridono con vari appellativi). Come mai, a differenza di quanto avviene a Perugia, a Gubbio Ubaldo è così poco amato? Prima di cercare una risposta occorre segnalare che più tardi l’atteggiamento degli eugubini cambia. Il punto di svolta, sorta di pivot narratif, può essere individuato nel seguente episodio: Un capomastro, eseguendo delle opere murarie, fa confluire delle acque di scolo nella vigna del vescovo, il quale si reca a protestare. Il muratore, irato, gli dà una spinta e lo fa cadere nella fossa della calce. Ubaldo si rialza e si allontana in silenzio. La popolazione, venuta a conoscenza dell’accaduto, vuole punire l’offensore, ma Ubaldo, dopo aver avocato a sé ogni decisione, perdona l’uomo ormai pentito.

Questo avvenimento, in definitiva abbastanza banale, segna, all’interno del racconto, l’inizio della progressiva magnificazione del santo. Come mai? Perché gli eugubini, in altri momenti indifferenti a quanto capita al loro vescovo, sentono in questo caso la necessità di intervenire? Alle varie domande si può rispondere osservando che la “vita” di Ubaldo è caratterizzata da una trasformazione che vede il santo distaccarsi da un Destinatore (v. Greimas, Courtés 1979) figurativizzato dall’acqua (negativo per la città di Gubbio), cui appare inizialmente legato (vedi la sua qualifica di signore di tale elemento), per avvicinarsi a un Destinatore (amico degli eugubini), espresso a livello figurativo come fuoco. È possibile, infatti, riscontrare che prima Ubaldo compie azioni o frequenta luoghi che rinviano all’acqua; successivamente, invece, ha spesso a che fare con il fuoco o con sue manifestazioni (luci, folgori, calore, secco). Eccone alcuni esempi: I) ancora fanciullo, studia presso la chiesa di San Secondo, martire umbro fatto annegare nel Tevere; II) fa sgorgare una fonte per dissetare la madre (ripete lo stesso miracolo in altra occasione); III) per motivi diversi si allontana da Gubbio per recarsi in località quali l’eremo di Fonte Avellana, Fano e Ravenna (città marinare: in particolare a Ravenna si reca nella chiesa di Santa Maria al porto); IV) ritrova miracolosamente asciutta e indenne la regola canonica, rimasta accidentalmente esposta alla furia di un temporale ma, V) è inetto contro un improvviso incendio che distrugge la città. Egli è dunque un vero signore dell’acqua, impotente in quanto tale di fronte al fuoco. Passando all’esame della seconda parte, incontriamo I) il suo miracolo più famoso, attraverso il quale salva Gubbio dall’assedio di undici città nemiche. Mentre è in corso lo scontro decisivo, egli appare ai nemici emanando “tuoni, lampi, fulgori” (Eugeni 1628, p. 57): così incute loro paura e li induce alla fuga. Tramite il fuoco, salva quindi ora la città, che prima dal fuoco si era mostrato incapace di salvare. Più

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LA “CORSA DEI CERI” A GUBBIO. STATO DI UNA RICERCA

tardi II) una malattia lo costringe a uno strano decubito, che sembra ricordare una pratica di essicazione: ricoperto da innumerevoli piaghe, passa il suo tempo attaccato a un’asse, sospesa orizzontalmente tra due sedie, fino a ridursi pelle e ossa, a “rinseccolire”. Ormai è vicino alla morte e III) va a trascorrere gli ultimi giorni nella chiesa di San Lorenzo: sicché egli, che bambino aveva studiato nella chiesa di un martire dell’acqua, in punto di morte si porta nella chiesa del più famoso martire del fuoco. Infine, IV) muore il giorno di Pentecoste, cioè il giorno della discesa dello Spirito Santo in forma di lingue di fuoco. Si può anche segnalare che circa i suoi funerali il biografo ricorda che in modo eccezionale la città “tutte le notti è rischiarata da ceri e lampade” e che per tutto il tempo una “calura straordinaria (...) bruciava dall’alto la terra in modo più intenso del solito” (cfr. Dolbeau 1977, p. 23). Calore e luce distinguono dunque questo momento. È facile constatare che i due diversi periodi della vita di Ubaldo hanno per gli eugubini conseguenze molto differenti: alla fine del primo registriamo, infatti, la distruzione della città causata dall’incendio; alla fine del secondo, cioè alla morte del santo, troviamo concordia sociale e abbondanza dei beni. Ecco, infatti, quanto viene osservato da un biografo: Tutto quell’anno fu per i Gubbini un Giubileo, tutto ricolmo d’allegrezza; di contento; e di gioja: diviene quell’anno grato per l’abbondanza di tutto il bisognevole: diviene dolce e amabile per la concordia e la pace (...). Perocché in quel giorno ed anno si riunì in pace la città e il Territorio, e intieramente terminò la guerra, che per tanto tempo era stata tra loro. S’usava eziandio in tanta gran copia la misericordia verso de’ poveri, che fuori dell’usato non avevano più bisogno i poveri di chiedere; ma piuttosto eglino erano pregati, che si degnassero di ricevere (Reposati 1760, pp. 193-195).

Pare dunque possibile asserire la seguente proposizione: acqua : rovina della città = fuoco : rifiorire della città.

All’interno di questa lettura diviene chiaro il valore della lite con il capomastro, il cui senso può essere individuato spostando l’attenzione dagli effetti del litigio, elemento che la superficie del testo pone come rema, alla sua causa: il rifiuto del vescovo di ricevere acqua nella sua vigna. Dato che tale rifiuto è operato da chi fino ad allora si era caratterizzato per il legame con tale elemento (con effetti negativi per la città), è chiaro che esso segna una svolta accolta positivamente dagli eugubini, che perciò cominciano ora ad amare e rispettare il loro pastore. Possiamo riassumere quanto sopra esposto attraverso i due seguenti schemi. fase 1 Soggetto Ubaldo Destinatore

Oggetto

Destinatario

acqua

rovina di Gubbio

abitanti di Perugia

fase 2 Soggetto

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Destinatore

Oggetto

acqua

rovina di Gubbio

Destinatario abitanti di PerugiaMAURIZIO DEL NINNO

fase 2 Soggetto Ubaldo Destinatore

Oggetto

Destinatario

fuoco

benessere di Gubbio

abitanti di Gubbio

Nella fase 1, l’attribuzione del ruolo di Destinatario a Perugia, città che anche nelle glosse esplicative, sia del racconto agiografico sia della festa, è presentata come il principale nemico degli eugubini7, è giustificata dal fatto che essa, dopo l’incendio che distrugge Gubbio, sceglie quale vescovo proprio Ubaldo, che di tale incendio si sente responsabile. D’altra parte, quasi a motivare l’ambiguità del rapporto tra Ubaldo e Perugia, una versione asserisce che egli è figlio di madre perugina e padre eugubino. L’associazione madre-Perugia-acqua è comunque presente nell’episodio della fonte, fatta scaturire miracolosamente (v. supra). È, infatti, per placare l’improvvisa e insostenibile sete da cui è colta la donna8 nel corso di un viaggio a Perugia che ha luogo il miracolo9. Avendo riscontrato nella “vita” di Ubaldo una trasformazione che presuppone la negazione dell’acqua e l’asserzione del fuoco, siamo indotti a cercare una trasformazione omologa sul piano dell’articolazione spaziale della festa, soprattutto perché il corteo di chiusura (la “discesa dei santi”) ci mette di fronte alla presenza del fuoco. In effetti, essa avviene alla luce delle fiaccole, mentre si canta O lume della fede (l’inno a sant’Ubaldo)10, mentre la pianura che si estende ai piedi di Gubbio si illumina (si illuminava?) di falò. L’omologia con il racconto agiografico è tanto più forte in quanto anche in questo caso riscontriamo un processo di pacificazione e concordia sociale. Come già accennato, i ceraioli ora scendono insieme, in un corteo indistinto durante il quale le “camicie”, mostrate con compiacimento durante il giorno come segno di appartenenza a questa o quella corporazione, improvvisamente spariscono sotto le “giacche”, indossate per ripararsi dall’umidità della sera (ma prima rifiutate anche in caso di freddo o pioggia). Affronteremo nel paragrafo successivo il problema della congiunzione con l’acqua11 nel momento iniziale. Basterà per ora notare che tale elemento è sicuramente implicito nella “sfilata dei ceraioli”, essendo presente metonimicamente nella “brocca” portata dai tre “capodieci”; il luogo di partenza del corteo, d’altra parte, è situato in prossimità della vecchia Porta della Foce (oggi Porta Metauro). Poiché la sfilata assume un carattere di forte antagonismo fra le tre “famiglie”, rappresentando per ciascuna un momento di ostentazione delle proprie forze, e poiché, nel contesto medievaleggiante che fa da sfondo (costumi, gonfaloni, periodo in cui è vissuto Ubaldo ecc.), è indubbio che tale divisione sociale implichi disagio e patimento12, pare possibile affermare che anche all’interno della festa ritroviamo la proposizione:

LA “CORSA DEI CERI” A GUBBIO. STATO DI UNA RICERCA

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acqua : rovina della città = fuoco : rifiorire della città

A questo punto è ormai chiaro che possiamo riconoscere nella rottura della brocca, che ha luogo durante “l’alzata” (v. nota 2, sub d), l’equivalente dell’episodio del muratore nella vita di Ubaldo: la negazione dell’acqua13.

4. La “processione del Cristo Morto” e la festa dei ceri La serie di riflessioni finora svolte porta a riconsiderare il limite di apertura del testo. In effetti, la démarche hypothético-déductive, che spinge a ricercare trasformazioni semantiche tra l’inizio e la fine di un testo, permette di rilevare un’inadeguata articolazione di taluni assi (euforia/disforia14, lento/veloce, acqua/fuoco). Per quanto riguarda la categoria timica, il polo euforico sembra caratterizzare l’intero svolgimento della festa, piuttosto che la sola parte finale. In particolare, rispetto a questa categoria, la “discesa dei Ceri” ha uno statuto ambiguo; infatti, se è vero che il cero orizzontale, trasportato a spalla, fa pensare a un corteo funebre (disforia), la presenza dei bambini a cavalcioni su di esso, le manifestazioni di gioia che accompagnano il corteo e l’accoglienza degli eugubini al suo arrivo in città, portano ad assegnargli anche il valore opposto. Una uguale ambiguità rileviamo sempre durante la “discesa” (opposta alla “corsa”: cfr. § 2) sull’asse lento/veloce; il corteo ha certo un andamento lento, ma tale qualità non è così esasperatamente ricercata come la velocità al momento della risalita. Infine, come accennato, alla presenza del fuoco, individuabile nell’ultimo spostamento, non fa riscontro, in quello iniziale, la presenza dell’acqua. Le incongruenze indicate si risolvono pienamente ponendo la festa dei ceri in relazione con un altro avvenimento che anima la città di Gubbio: la “processione del Cristo Morto”, che ha luogo il Venerdì Santo. A tracciare un ponte verso questa data intervengono più fattori: in primo luogo un principio metodologico basilare dello strutturalismo, che prevede il concetto di gerarchia del testo (v. Lotman 1970, p. 69). Secondariamente, l’affermazione di Propp per cui “una singola festa (...) può essere compresa correttamente solo quando si studi l’intero ciclo annuale delle feste” (1963, p. 42). Infine il fatto che il periodo che da Pasqua va a Pentecoste15 (ovvero alla festa dei ceri, dato che quella data fluttua intorno a questo avvenimento), periodo che delimita gli ultimi giorni di vita di Ubaldo, è l’unica indicazione crononimica fornita al testo agiografico. D’altra parte la “processione del Cristo Morto”, cui partecipano attivamente, in qualità di cantori, gli stessi personaggi che animano la corsa, non può essere nelle coscienze eugubine slegata da quanto avverrà più tardi. Tracce di questo legame non mancano: i suonatori del “campanone” del Palazzo dei Consoli, il cui suono costituisce “l’anima della festa”, denominano “stagione lirica” la serie di suonate che va da Pasqua alla “corsa dei ceri piccoli”16 e le suonate effettuate per Pasqua sono per molti il preludio di quelle dei ceri. Un elemento formale connette attualmente i due eventi: i “capodieci” delle tre

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“famiglie” intervengono alla processione del Venerdì Santo recando ciascuno una candela contrassegnata da un nastro del colore distintivo. Ci pare pertanto pienamente legittimo attribuire un valore significativo alla successione dei due eventi. Prima di procedere ulteriormente, è però necessario fornire alcuni elementi descrittivi. La processione del Venerdì Santo parte dalla chiesa di Santa Croce della Foce e qui fa ritorno dopo aver compiuto la circumambulazione della città. La chiesa sorge fuori Porta Metauro (già Porta della Foce), proprio in prossimità del luogo dove il Camignano entra nella cinta muraria; il suo lato sinistro è a picco sulla sponda del torrente, là dove il letto fluviale è più alto e impervio; certamente può essere valorizzata in modo disforico, perché durante l’anno è utilizzata solo in questa occasione. La processione vuole essere una rappresentazione drammatica della Passione ed è aperta da un incappucciato che reca nelle mani un teschio. Sebbene questo stia a rappresentare il luogo dello svolgimento degli eventi (il Golgota), la sua è certo un’apparizione macabra e annuncia l’aspetto funebre del corteo. Sfilano poi altri incappucciati che recano i vari simboli della Passione (la croce, la corona, i chiodi ecc.). Seguono infine le statue dei protagonisti del dramma: il Cristo Morto, disteso su un cataletto, e la Madonna Addolorata (una spada le trafigge il cuore). Dietro ciascuna statua due gruppi di cantori si alternano nell’esecuzione dei versetti del Miserere; dietro ciascun gruppo s’inserisce, senza una disposizione rigida, la folla che partecipa per tratti più o meno lunghi alla processione. Il percorso, che segue in linea generale il perimetro interno delle mura e muove in senso antiorario, è caratterizzato da un’estrema lentezza che i partecipanti non mancano di rilevare: l’intero giro è compiuto in circa tre ore (dalle 18,00 alle 21,00). Una sosta è osservata per la deposizione del cataletto del Cristo sul “pietrone”17: mentre i cantori innalzano i loro versi, la folla bacia i piedi della statua e fa offerte floreali. Un’altra ha luogo in piazza Quaranta Martiri, dove la statua di Cristo è portata nella chiesa dell’Ospedale civile. Più avanti, all’arrivo della processione, in prossimità di Porta Romana viene acceso un grosso falò. Un altro, della stessa grandezza, è allestito poco più avanti, di fronte alla chiesa di San Marziale; quattro grosse torce sono esposte nel tratto intermedio. Nessun rituale particolare è previsto in prossimità dei fuochi dove piuttosto, a causa del fumo e del calore eccessivo, la processione sembra scompigliarsi. Sulla strada del ritorno, le statue del Cristo e della Madonna si fermano per alcuni minuti nella chiesa di San Martino, mentre gli altri elementi fanno ritorno direttamente a Santa Croce. All’arrivo delle due statue al luogo di partenza, i due gruppi di cantori si fronteggiano a lungo, alternandosi in una vera gara di resistenza che termina quando uno dei gruppi, al termine di uno dei suoi turni, si allontana: l’altro allora innalza un ultimo verso e si allontana a sua volta18; la cerimonia è così conclusa. Come accennato, considerare questa processione come momento di apertura di un processo che ha termine con la festa dei ceri permette di chiarire molti aspetti di quest’ultima.

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In primo luogo vediamo risolversi le aporie indicate sopra: la disforia, la lentezza e l’acqua (che marca la chiesa di Santa Croce, punto di partenza e d’arrivo della processione) sono ora evidentemente presenti nella sequenza di apertura. Inoltre l’aspetto ambiguo della “discesa” dei ceri viene a chiarirsi, dato che essa può essere considerata come momento di mediazione tra i due termini opposti (vita vs morte): se il cero orizzontale rimanda alla morte (che valorizza disforicamente le sequenze iniziali), la presenza dei bambini al di sopra di esso può essere letta come manifestazione dell’isotopia della vita, che verrà affermata alla chiusura del testo. Ma la “processione del Cristo Morto” offre spunti ulteriori. Essa non si distingue solo per la congiunzione con l’acqua ma anche per la mancata congiunzione con il fuoco, che, come abbiamo visto, incontra lungo il suo cammino; si noti, non in un punto qualsiasi ma in quello più lontano da Santa Croce, all’estremità orientale del percorso, al suo punto di svolta. Una tale caratterizzazione della processione permette sia di attribuire al movimento antiorario il valore di negazione del fuoco, sia di supporre che i due luoghi (zona di Santa Croce e il tratto di via tra Porta Romana e San Marziale) restino marcati dai due elementi (acqua e fuoco). Se ora mettiamo in relazione la “processione del Cristo Morto” con i due cortei che il 15 maggio muovono in senso antiorario (v. supra, § 2), possiamo osservare che, nonostante la disgiunzione attoriale e temporale, i tre percorsi manifestano una stupefacente continuità spaziale, rivelando un’interessante trasformazione. Seguiamo in dettaglio gli spostamenti. La “sfilata dei ceraioli” parte dallo stesso luogo nel quale arriva (e da dove ha origine) la processione del Venerdì Santo19, segue in linea generale lo stesso percorso, rifiuta anch’essa, proseguendo per via XX settembre, la congiunzione con il fuoco (presente in modo virtuale nel tratto Porta Romana-San Marziale) ma, a differenza della prima, si arresta al Palazzo dei Consoli. Possiamo dunque supporre che, nonostante il rifiuto del fuoco, il mancato ritorno a Santa Croce stia a significare una parallela disgiunzione con l’acqua (confermata in effetti poco dopo dalla rottura della “brocca”). Nel pomeriggio la processione religiosa sembra voler reintegrare i valori rifiutati dalla “sfilata”; parte, infatti, da piazza della Signoria (marcata dall’acqua delle “brocche” infrante) e ripercorre il cammino antiorario degli altri due spostamenti, apparentemente dunque con l’intento di ribadire la negazione del fuoco: ma, come sappiamo, si arresta nel punto di incontro con i ceri, cioè proprio al centro del tratto marcato dai fuochi il giorno del Venerdì Santo. Possiamo dunque affermare che i tre cortei presentano una graduale azione di congiungimento con il fuoco: il primo ritorna all’acqua, il secondo si ferma in un punto intermedio, il terzo opera con esso un’unione virtuale che sarà realizzata attraverso la successiva “corsa”; qualche ora dopo, infatti, i ceraioli scendendo dal monte al lume delle fiaccole faranno proprio qui, a San Marziale, ingresso in città. Siamo ora in grado di capire il particolare rapporto esistente tra la “processione di sant’Ubaldo” e la “corsa”, che insieme costituiscono una sorta di risposta polemica alla “processione del Cristo Morto”. Mentre questa, rifiutato il fuoco, prosegue il suo lento percorso antiorario, i due cortei del 15 mag-

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gio esprimono un profondo ripensamento: all’improvviso l’andatura è invertita, il passo lento diventa una corsa precipitosa, volta a raggiungere il fuoco. Essi costituiscono dunque una sorta di riassunto generale della festa, presentandosi come un continuum20, caratterizzato da una brusca inversione di programma (dall’acqua al fuoco). Almeno a livello di superficie, gli eugubini non mancano di sottolineare questo aspetto; giacché narrano, con compiacimento di partecipanti alla processione che, cambiati velocemente gli abiti, si gettano nella “corsa” (presupponendo dunque un’iniziale incompatibilità fra i due cortei e la successiva trasformazione dell’uno nell’altro)21. 5. Rottura e reintegrazione dell’ordine sociale: “birate” e “corsa” È opportuno a questo punto segnalare che la rottura dell’ordine sociale (v. supra, § 2) non si configura tout court quale divisione della città in parti (le “fazioni”, cui pure allude la “vita” di Ubaldo), bensì come messa in discussione della unità trifunzionale gerarchicamente ordinata, perseguita sia nel tentativo latente di sconvolgere l’ordine, sia stabilendo un’eccessiva distanza (autonomia) delle parti (cfr. “la discesa dei ceri” e la “mostra”). A tale affermazione porta una attenta lettura delle “birate” le quali, piuttosto che una semplice enfatizzazione della “corsa” in una serie di triplicazioni ridondanti, per il carattere rotatorio e per le trasformazioni che subiscono lungo l’arco sintagmatico debbono essere considerate un momento fondamentale della festa. Rispetto a quello lineare, il movimento circolare appare, infatti, un luogo privilegiato di sovversione dell’ordine gerarchico. Per vari motivi: I) la linearità, in quanto spostamento da un luogo a un altro, presuppone sempre una trasformazione (disgiunzione da X, congiunzione con Y); la “birata”, spostamento che riporta al punto di partenza, rappresenta invece un momento di pausa e dunque di crisi del processo di trasformazione; II) soggiacente allo spostamento lineare è sempre l’ordine sintattico (gerarchia) che quello rotatorio tende invece a confondere: poiché i tre ceri finiscono spesso con il disporsi in modo equidistante sulla circonferenza, non è più chiaro chi corre dietro a chi; III) infine, dato che le vie nelle quali la corsa si svolge sono molto strette, le “birate” costituiscono l’unico spazio potenziale in cui la rottura della gerarchia (nella forma interdetta del “sorpasso”22, potrebbe realizzarsi: basterebbe, infatti, sgusciare fuori dal circolo prima degli altri per guadagnare la prima posizione. Il potere dirompente delle “birate” è però oggetto di una progressiva trasformazione. Osservando in dettaglio le sei serie possiamo constatare quanto segue: le prime due, effettuate in assenza dei tratti distintivi specifici (statue di santi, “camicie”) e con i ceri in posizione orizzontale (sicché risulta difficilmente percepibile la differenza della loro forma) costituiscono il momento di massima confusione; nella seconda coppia, essendo presenti gli elementi mancanti sopra è in atto un principio di riconoscimento della gerarchia; le ultime infine, effettuate nel chiostro, singolarmente e secondo l’ordine prestabilito da ciascun cero23 prima in posizione verticale e poi in posizione orizzontale, affermano il riconoscimento definitivo della gerarchia. L’eliminazione dei tratti

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distintivi, che si verifica quando il cero passa dalla posizione verticale a quella orizzontale, si può interpretare come l’asserzione della gerarchia anche al di fuori delle sue marche. In questo senso abbiamo qui un preludio al comportamento dei ceraioli, che poco dopo, durante la “discesa dei santi” ricopriranno la loro “camicia”24. La fusione delle tre “famiglie” in un corteo indistinto durante la “discesa” non asserisce dunque il ritorno a una generica uguaglianza, ma piuttosto l’unanime riconoscimento delle tre unità e della loro relazione gerarchica. Circa le due serie di “birate” centrali, dobbiamo notare che esse danno luogo a due diversi comportamenti dei ceri: al mattino “sant’Ubaldo” e “san Giorgio” si dirigono verso via XX Settembre e “sant’Antonio” verso via dei Consoli; al pomeriggio invece si dirigono tutti nella stessa direzione. Al riguardo, come era già stato osservato (Del Ninno 1976, p. 54), occorre dire che è possibile leggere la prima serie come un tentativo non riuscito di stabilire un rapporto di integrazione (la “mostra” è, infatti, distinta da una eccessiva autonomia dei tre ceri, ciascuno occupato a fare visita ai propri maiores). Le “birate” della sera invece manifestano il conseguimento dell’accordo: il comune obiettivo della “corsa” verso il monte determina, infatti, la loro integrazione. All’interno di questa lettura si chiarisce perché la tensione agonistica della “corsa” diminuisce una volta superata la piazza: gli avvenimenti dell’ultimo tratto (distacchi, cadute, “fendute”) hanno, infatti, minore importanza in rapporto, si dice, al numero inferiore di testimoni. La realtà è piuttosto che ormai “il gioco è fatto”: il “sorpasso” è, infatti, ormai impossibile dato che la strada è così stretta che in un tratto (il “bughetto”) i ceraioli corrono il rischio di strusciare contro il muro; il rispetto della gerarchia qui non è più solo una norma imposta (e che potrebbe eccezionalmente essere infranta) ma una costrizione materiale. La “corsa”, spostamento lineare opposto a quello rotatorio delle “birate”, che mette in causa non tanto le unità e la loro gerarchia, quanto piuttosto la distanza rispettiva, svela dunque la sua funzione: ridurre la discussione sulla relazione gerarchica entro limiti accettabili. Sorprendentemente una tale logica è formulata in modo esplicito a un altro livello. Si narra, infatti, che dopo aver pacificato la lite fra le due fazioni, fingendosi ferito a morte, Ubaldo abbia invitato gli eugubini a regolare pure con lo scontro fisico le loro discordie, ma senza fare ricorso alle armi (v. avanti, Appendice A, episodio 22): il “gioco delle pugna” che aveva una volta luogo a Gubbio e di cui ci restano molte testimonianze (Reposati 1760, pp. 133-137; Menichetti 1982, pp. 435-447) avrebbe avuto origine proprio da questa raccomandazione. Che il “sorpasso” dei ceri equivalga a uno scontro delle fazioni a carattere mortale (con le armi) è facilmente deducibile dal fatto che uno dei compiti attribuiti al “capoccetta” (o “capoaccetta”, il personaggio che con un’ascia in mano precedeva, fino a qualche anno fa, ognuno dei tre ceri) era proprio quello di intervenire per evitare il “sorpasso”: “l’ammanicchiamento” – operazione in cui i portatori anteriori di un cero si attaccano a quelli posteriori di quello che precede, frenandone dunque la corsa – è invece risolto a suon di pugni.

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6. Le anime dei morti, le api, i ceri L’allargamento del testo sopra proposto permette di rilevare la presenza di un’isotopia semantica finora trascurata: quella della morte. A uno sguardo retrospettivo è facile riscontrare un’iterazione di questo tema. In primo luogo a esso rimandano i ceri che nella posizione orizzontale, per la forma, la materia (tavole di legno) e la modalità di trasporto ricordano la bara (la sezione dei prismi che costituiscono il cero è d’altra parte identica, nella forma, al coperchio dell’urna ottagonale che racchiude il corpo di Ubaldo). Anche la deposizione orizzontale dei ceri all’interno del Palazzo dei Consoli (nel periodo che va dalla prima domenica di maggio al 15) ricorda questo loro aspetto e la sala stessa ha un carattere spettrale, perché essa, in quanto sede del museo locale, presenta ai lati lapidi e urne funerarie25. In posizione verticale, la sagoma dei ceri richiama quella simile delle colonne ottagonali, terminanti a cuspide, che sorreggono la cancellata che delimita la zona più alta del cimitero di Gubbio. Proprio quest’ultimo è d’altra parte oggetto di una visita che la mattina del 15 maggio, verso le ore 7,00, i “capitani” e i “capodieci” della festa effettuano per offrire una corona di fiori ai ceraioli defunti. Anche alcune visite che i ceri compiono durante la “mostra” richiamano questo carattere (cfr. la visita al mausoleo dei Quaranta Martiri, vittime di un eccidio nazista, e quelle a luoghi o persone “liminari”: ospedale, ceraioli anziani, infermi). L’insieme di questi elementi fonda dunque in modo consistente l’ipotesi di una tematica funeraria. Qual è, allora, il suo valore? Considerata la presenza, in prossimità della basilica di Sant’Ubaldo, punto di arrivo della “corsa”, di un’edicola dedicata a san Michele Arcangelo, raffigurato quale psicopompo26, ci chiediamo se l’avvenimento non abbia in senso lato un carattere esorcistico, volto ad allontanare le anime dei defunti. A sorreggere questa interpretazione interviene sia il fatto che Anita Seppilli, autrice di un approfondito saggio storico-culturale sulla festa (1972), delinea a partire da altri dati l’ipotesi di un legame tra festa dei ceri e culto dei morti, sia, in particolare, il fatto che a Gubbio è viva la problematica della “porta del morto”27. Se una tale pratica sia stata mai effettuata, interessa qui poco; importa solo registrare che il problema dell’espulsione delle anime dei morti sia in questa area oggetto di riflessione. Ci preme segnalare il particolare interesse di questa ipotesi che permette di tornare a un tema già affrontato in precedenza: il legame tra corsa dei ceri e api. Questi insetti, le cui rappresentazioni mitiche attraverso laboriose vie ipotetiche abbiamo ritenuto di trovare dietro i ceri (v. Del Ninno 1981b), non sono (o non sono stati) il simbolo delle anime dei defunti? In attesa di un approfondimento di questa nuova prospettiva, è necessario porsi almeno la questione di come collegare l’investimento figurativo qui proposto a quanto sopra asserito circa il tema della instaurazione dell’ordine gerarchico. Allo stato attuale della ricerca, la sola risposta capace di rendere conto in maniera unitaria delle due isotopie sembra essere la seguente: in una società organizzata in classi l’affermazione della morte porta alla constatazione dell’eguaglianza; la reintegrazione della vita passa allora per la reintegrazione delle

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differenze (gerarchia). La “corsa” dunque sarebbe non solo una procedura volta a espellere le anime dei morti, ma al tempo stesso, come abbiamo visto, a attuare la ricomposizione sociale. Appendice A Episodi della vita di sant’Ubaldo28 Ubaldo nasce da nobile famiglia. Ancora bambino, fa scaturire una fonte. Studia presso la chiesa dei SS. Mariano e Giacomo. Si trasferisce nella chiesa di S. Secondo. Va a studiare a Fano. Ivi, rifiuta di andare a vedere il passaggio di una regina. Torna a Gubbio e si stabilisce prima presso la chiesa di S. Secondo, poi presso quella dei SS. Mariano e Giacomo. Rifiuta di sposarsi. Diventa priore. La città si incendia e la canonica resta distrutta. Si reca a Ravenna, presso la chiesa di S. Maria al Porto. Durante il viaggio di ritorno smarrisce la “regola” per i confratelli. Riordina la vita morale del monastero. Nominato vescovo di Perugia, ottiene la dispensa papale. Muore il vescovo di Gubbio e al suo posto il papa nomina Ubaldo. Ubaldo è oggetto d’insulti. Un chierico gli sbatte in faccia la porta del chiostro. Rifiuta di dare la scomunica. I chierici si rifiutano di servirgli la messa. Il capomastro, cui era andato a fare rimostranza per i danni arrecati alla sua vigna, lo fa cadere nella fossa della calce. Un cavaliere dà uno schiaffo a Ubaldo che cade sbattendo il viso. Ubaldo pone fine alla lotta fra due fazioni di Gubbio, fingendo di essere rimasto ferito nella rissa. Salva la città dall’assedio di 11 città nemiche. Salva la città dall’esercito di Federico Barbarossa. Sana una paralitica. Illumina un cieco. Un altro cieco, in viaggio per chiedergli la grazia, recupera la vista. Ad un terzo cieco promette la luce eterna in luogo di quella terrena. Un sacerdote di nome Azzone guarisce avendo visto in sogno Ubaldo. Ubaldo è stremato da varie sofferenze; il suo corpo si riempie di pustole. Dietro pressanti richieste da parte dei concittadini, Ubaldo malato celebra la messa di Pasqua. In questa occasione, contro il suo solito, per tutta la mattina si astiene dal bere. Inoltre mette pace tra un padre e colui che a questi aveva ucciso il figlio. Trascorre il periodo fra Pasqua e l’Ascensione presso la chiesa di S. Lorenzo. Muore il giorno di Pentecoste

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Appendice B Pianta della città 1 2 3 13

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1) Porta S. Ubaldo 2) Chiesa di S. Croce della Foce 3) Porta Metauro 4) Piazza della Signoria 5) Via XX settembre 6) Via dei Consoli 7) Chiesa di S. Marziale 8) Chiesa dei Muratori 9) Via Savelli 10) Via Bardi 11) Via Dante 12) Porta Romana 13) “Pietrone” 14) PortaCastello (o di S. Lucia) 15) Corso Garibaldi 16) Piazza S. Antonio 17) Chiesa di S. Martino 18) Piazza Quaranta Martiri

Il saggio è gia apparso, con lo stesso titolo, in «Quaderni di antropologia e semiotica», 1, 1983. La festa dei ceri ha luogo a Gubbio il 15 maggio, in onore del patrono, sant’Ubaldo, vescovo eugubino vissuto nel XII secolo. I ceri sono tre macchine di legno, costituite ciascuna da due prismi ottagonali sovrapposti. Essi sono conservati durante l’anno nella basilica del santo. Per la festa vengono trasportati in città; durante “l’alzata” (v. nota 3) all’estremità superiore è innestata la statua del santo, a quella inferiore una “barella” che permette il trasporto a spalla dell’insieme da parte dei “ceraioli” (colui che occupa il posto centrale è detto “capodieci”). Ognuno dei tre ceri è dedicato a un santo (Ubaldo, Giorgio, Antonio), protettore di una “famiglia” o “corporazione” (muratori; artigiani e commercianti; contadini e professionisti). I ceraioli delle tre famiglie si distinguono per il colore delle “camicie” (giallo, azzurro, nero), che ripete quello della veste dei santi. La festa ha diversi piani di manifestazione: ad esempio le suonate del “campanone” del Palazzo dei Consoli o i pasti collettivi (uno, pantagruelico, prevede la partecipazione di quasi mille persone), ma il livello più significativo è quello spaziale, costituito dal continuo sfilare di cortei e processioni. 2 V., al riguardo, Greimas, Courtés 1979, in particolare le voci algorithme, discours, narratif (schéma). Mi permetto di ricordare che, sebbene elaborato all’interno del progetto semiotico di reperire i principi generali di organizzazione del discorso, lo schema narrativo greimasiano trae spunto dalla Morfologia della fiaba di Propp e, in definitiva, può essere utilmente messo in correlazione con quella “legge delle sequenze” che è alla base de I riti di passaggio di Van Gennep (v. Del Ninno 1982). 3 Eccone l’elenco: a) “discesa dei ceri”: ha luogo la mattina della prima domenica di maggio. I ceri, in posizione orizzontale e con a cavalcioni bambini di 3-5 anni, vengono portati dalla basilica di Sant’Ubaldo al Palazzo dei Consoli. Il corteo è suddiviso in tre segmenti, che avanzano mantenendo molta distanza l’uno dall’altro: in testa è il cero di sant’Ubaldo, seguito, secondo una regola che resterà costante in ogni momento, da quello di san Giorgio a sua volta seguito da quello di sant’Antonio. Nel chiostro della basilica, alla partenza, e nella piazza, all’arrivo, i ceri fanno di corsa tre “birate” (giri concentrici). b) “processione (sfilata) dei santi”: verso le 8,30 del 15 maggio le statuine dei tre santi sono prelevate dalla chiesa di San Francesco della Pace (o “dei muratori’) e portate al Palazzo dei Consoli. I ceraioli ora sono in costume (calzoni bianchi e “camicie”). I “santi” sono collocati su un’unica barella (Ubaldo al centro, Giorgio a destra, Antonio a sinistra). Sono presenti un sacerdote, il sindaco e il presidente dell’Università dei muratori. c) “sfilata dei ceraioli”: alle 10,00, dopo aver fatto colazione nelle sale inferiori del Palazzo dei Consoli, i ceraioli si riuniscono a Porta Castello (o di Santa Lucia), luogo di partenza della sfilata. Una dietro l’altra, le tre “famiglie” percorrono, questa volta in senso antiorario, le vie della città, ciascuna guidata dal proprio “capodieci”, il quale porta fieramente la “brocca” (un’anfora che verrà infranta durante “l’alzata”). La sfilata termina a piazza della Signoria, con l’ingresso dei ceraioli nel palazzo. d) “alzata” e “mostra”: poco dopo (nel frattempo ha avuto luogo la consegna delle chiavi della città al “primo capitano”, responsabile dell’andamento della festa) i ceraioli escono dal Palazzo dei Consoli per porta1

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re al centro della piazza, colma di folla, i vari elementi che avevano accumulato nell’interno: i ceri, le “barelle”, le statuine dei santi, le “brocche”. I ceri sono tenuti in posizione orizzontale, sulle spalle dei ceraioli; alle estremità superiori sono innestate le statuine, a quelle inferiori, le “barelle”. I “capodieci”, eretti tra le stanghe della “barella”, al segnale del primo capitano, lasciano cadere alla base del cero l’acqua delle “brocche”, che sono poi lanciate in aria. Subito i tre ceri sono “alzati” e, dopo aver effettuato di corsa tre “birate”, si disperdono nelle vie adiacenti: “sant’Ubaldo” e “san Giorgio” si dirigono verso via XX Settembre, mentre “sant’Antonio” effettua una quarta birata e si porta in via dei Consoli. Al centro della piazza intanto, coloro che hanno rischiato di rimanere colpiti dalle “brocche” e poi di essere travolti dai ceri in corsa si azzuffano per accaparrarsi i cocci, che si ritiene portino fortuna. Qualora qualcuno riesca ad afferrare al volo una delle “brocche”, deve comunque infrangerla e dividere i pezzi con i presenti (anche chi ne raccoglie un pezzo grande rischia di essere picchiato se non lo divide con gli altri). Mentre “sant’Ubaldo” e “san Giorgio” si dirigono verso via XX Settembre, “sant’Antonio” effettua una quarta birata e si porta in via dei Consoli. Fino verso le 14,00, ora entro cui devono ritrovarsi in via Savelli, i tre ceri vanno in giro per la città, ognuno per proprio conto, a riverire con “l’inchino” e/o con le “birate” determinati luoghi o persone (l’ospedale, il mausoleo dei Quaranta Martiri, il duomo, i “capitani” della festa, i vecchi ceraioli ecc.). Dalle ore 14,00 alle 18,00, ora della corsa, i ceri restano fermi in via Savelli, oggetto di visita dei turisti e degli eugubini. e) “processione di sant’Ubaldo”: parte alle ore 17,00 dalla cappella Ranghiasci (piazza della Signoria); la statua di sant’Ubaldo viene trasportata cerimonialmente fino al luogo di partenza dei ceri (incrocio tra via Dante e via Savelli). Muove in senso antiorario. f) “corsa dei ceri”: appena, attraverso via Barbi, vedono passare in via Garibaldi la processione, i ceri si portano, con un breve spostamento al termine di via Savelli. All’arrivo della statua del santo, tra questa e il cero di sant’Ubaldo ha luogo uno scambio di “inchini”. Subito dopo il vescovo dà la benedizione e i ceri si lanciano in corsa precipitosa, uno dietro l’altro. Come è noto, la corsa è caratterizzata dal tentativo di raggiungere chi precede e/o di allontanarsi da chi segue, evitando cadute o oscillazioni (“fendute”) del cero che determinerebbero una sorta di irrimediabile “fuori gioco”. L’itinerario prevede tre tappe. In piazza della Signoria hanno luogo tre birate. All’arrivo alla basilica, se la distanza lo permette, “sant’Ubaldo” chiude fuori del chiostro “san Giorgio”; mentre all’esterno si solleva un rumore assordante, nell’interno il cero compie tre “birate” intorno al pozzo, poi è abbassato e smontato. La statuina viene portata subito in chiesa mentre il cero si attarda a effettuare ancora tre “birate” (questa volta in posizione orizzontale). Solo alla fine “san Giorgio” e “sant’Antonio” vengono fatti entrare per compiere le stesse azioni. g) “discesa dei santi”: deposti finalmente i tre ceri all’interno della chiesa, negli appositi piedistalli, e sistemati i tre “santi” sulla loro “barella” i ceraioli, dopo aver a lungo battuto sui primi e aver più volte stretto fra le dita le vesti dei secondi, si riuniscono al canto dell’inno al patrono (O lume della fede) sotto l’urna di sant’Ubaldo. Poi finalmente fusi in un corteo indistinto, accompagnano le statue dei tre santi alla chiesa dei Muratori. La discesa, almeno fino a qualche anno fa, avveniva a lume di fiaccole (tale usanza è in via di sparizione a seguito dell’introduzione dell’ora legale). 4 Il processo generale di inversione è confermato ulteriormente da altri particolari che riteniamo utile riportare non tanto per illustrare la precedente analisi, quanto per completare il quadro descrittivo della festa. Se si confrontano, ad esempio, i vari momenti dell’“alzata”, con quelli corrispondenti dell’operazione di smembramento del cero all’arrivo sul monte, non si potrà ritenere casuale la continua regolare azione di inversione: per l’“alzata” i ceri sono trasportati da un luogo chiuso (la sala del Palazzo dei Consoli) a uno aperto (piazza della Signoria) e montati in modo tale che durante l’operazione la statua del santo sia in posizione posteriore, rispetto alla base del cero, e con la faccia verso l’alto. All’arrivo sul monte, la scomposizione avviene in un luogo chiuso, il chiostro, e la statua del santo è in posizione anteriore, con la faccia rivolta verso il basso. Si noterà anche che l’“alzata” è marcata dalla presenza dell’acqua (per essere preceduta dalla “sfilata dei ceraioli” in cui si recano le “brocche” e per il versamento di acqua alla base del cero), mentre l’azione di smontaggio del cero è marcata dalla presenza del fuoco (per le fiaccole che si accendono nel percorso successivo, la “discesa dei santi”). Inoltre, mentre nel primo momento un oggetto viene gettato via (la “brocca”, che deve essere necessariamente rotta) ed è punito chi ostacola l’avvenimento, nel secondo un altro deve essere recuperato (la “cavija”, il cuneo di ferro che tiene fermo l’incastro tra cero e barella), ed è (era) premiato con l’invito a partecipare l’anno successivo al pranzo dei ceraioli colui che lo ritrova (ritrovava). 5 V. supra, nota 3, sub d. 6 Per l’indicazione delle varie versioni, manoscritte o a stampa, della vita di Ubaldo, v. Cenci 1917 e Dolbeau 1977. 7 Così nell’interpretazione dell’espressione “Fa più male la nebbia che il vento” (uno dei versi di Fazzoletto puntato davanti, il canto che distingue la “sfilata dei ceraioli”) si sostiene che “la nebbia fa più male” perché i perugini erano soliti, si dice, approfittare della scarsa visibilità per tendere agguati agli eugubini. Il “vento”, che spazza via la nebbia, fa dunque meno “male” (ma si noti la relazione dei due fenomeni atmosferici con l’acqua e il fuoco). Anche il verso “puttana la mamma con tutte le figlie”, appartenente alla stessa canzone, fa riferimento a Perugia, promotrice della lega contro Gubbio (le città aderenti sarebbero “le figlie”). [Circa l’identifi-

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cazione nebbia = acqua / vento = fuoco, supportata da banali operazioni di deduzione empirica, possiamo oggi richiamare le parallele osservazioni di Lévi-Strauss 1984]. 8 Una simile irresistibile sete caratterizza la vita di Ubaldo: egli riuscirà a liberarsene solo in prossimità della morte (v. infra, Appendice A, episodio 33). 9 Ancora oggi visibile sulla strada che da Gubbio porta a Perugia. 10 La prima strofa dell’inno è la seguente “O lume della fede / De la chiesa splendore / Foco d’ogni core / Ubaldo santo”. 11 Pare opportuno ricordare una credenza citata da Bencivenni (1887, p. 238), oggi scarsamente diffusa, la quale acquista finalmente un senso: “Rammentiamo nei paesi circonvicini (...) che a Gubbio è tradizione debba piovere un poco la mattina (corsivo mio) dei Ceri e se ciò non avviene gli abitanti salgono sui tetti e vi rovesciano grandi recipienti d’acqua, per avere l’apparenza della pioggia”. 12 L’interpretazione di “Fazzoletto” riportata sopra (v. precedente nota 7) lega però la “sfilata”, più che alle lotte interne, alla guerra contro le città nemiche; ma i due pericoli sono strettamente concomitanti, come mostra il fatto che Ubaldo è costretto a intervenire contro entrambi (v. Appendice A, episodi 22 e 23). 13 È possibile spiegare l’uso di raccogliere i cocci della “brocca” (vedi n. 3, sub d) come un’enfasi della negazione dell’acqua. Non basta, infatti, il gesto di buttare via il recipiente; come si ricorderà, esso deve essere necessariamente rotto per dar luogo alla ripartizione dei cocci. Ed è ovvio che questi portino fortuna, poiché la rottura della “brocca” (negazione dell’acqua) segnala il passaggio al “benessere” della città. D’altra parte il loro possesso prova che la brocca è stata rotta e garantisce l’irreversibilità dell’evento. La ricomposizione della “brocca”, infatti, doveva una volta sembrare un’operazione possibile, dato che san Donato, martire di Arezzo venerato anche a Gubbio, era famoso proprio per la miracolosa ricomposizione di un calice infranto (v. La legenda aurea di Jacopo da Varagine). Considerando “l’alzata” come un micro-récit, iscritto in un discorso più largo, possiamo forse chiarire perché l’acqua contenuta nella “brocca” è gettata proprio sul punto di innesto tra cero e barella. Affinché questa azione acquisti senso occorre accettare l’affermazione che la parte superiore del cero è marcata dal fuoco. Cosa che credo sia possibile asserire in base a tre considerazioni: I) l’estremità superiore del cero è sempre distinta dal fuoco (tale attributo è presupposto dal nome dato alla macchina); II) dei tre santi che vengono innestati, due sono marcati dal fuoco: sant’Ubaldo, invocato come “lume della fede” e sant’Antonio, la cui statua ha il fuoco nel palmo della mano; III) alcune foto scattate alla fine dell’Ottocento mostrano che tale estremità recava allora delle decorazioni a forma di sole. L’acqua dunque non è gettata sul punto di innesto con la barella in quanto tale, ma in quanto estremità inferiore del cero. Ed è possibile intravedere il senso di questa operazione: il cero orizzontale, acceso da una parte e bagnato dall’altra, costituisce una sorta di diagramma che presenta agli eugubini le due alternative in bilico: la lotta intestina e la carestia da una parte, la pace e l’abbondanza dall’altra. L’opposizione acqua/fuoco che sembra caratterizzare la vita di Ubaldo e la giornata del 15 maggio (v. § 3) si manifesterebbe dunque a un terzo livello, che potremmo definire oggettuale (i ceri stessi). 14 Euforia e disforia sono i due termini della categoria timica, la cui denominazione è motivata dal senso della parola timia (umore, disposizione affettiva di base): v. Greimas, Courtés 1979. 15 Periodo che deve avere una sua unità profonda all’interno della nostra cultura, dato che esso costituisce, nella liturgia cattolica, il periodo della Riconciliazione. 16 Oltre alla corsa dei ceri grandi, ha, infatti, luogo la corsa dei ceri mezzani (la domenica successiva al 17 maggio) e quella dei ceri piccoli (effettuata di solito la prima domenica di giugno e riservata a ragazzi di circa 8-10 anni). 17 Si tratta di una pietra, grande circa un metro quadro, a forma ellittica, disposta a livello del piano stradale, di fronte al Palazzo dei Capitani del Popolo. Si suppone che essa sia legata ai riti illustrati nelle Tavole Eugubine (v. Costantini 1970). 18 Questo confronto è denominato “battifondo”. 19 Non solo Porta Santa Lucia è vicina a Porta della Foce, ma la “sfilata dei ceraioli” si costituisce in modo formale proprio davanti al “pietrone”, dove il Venerdì Santo viene deposta la statua del Cristo morto per la duplicazione delle azioni rituali compiute poco prima nella chiesa di Santa Croce (bacio della statua o offerta di fiori). 20 Come dimostra non solo il fatto che i ceri partono solo dopo la benedizione vescovile, ma anche quello, meno noto, che il suono del “campanone”, che comincia quando la processione parte da piazza della Signoria, termina solo quando su questa piazza arrivano i ceri. 21 Alla contiguità spazio-temporale dei due percorsi si aggiunge così anche quella attoriale. 22 Le regole della corsa, come accennato, escludono la rottura della successione, ma tale possibilità, accarezzata o temuta, ricorre tuttavia nel parlato. 23 Occorre precisare che attualmente solo le “birate” del cero di Ubaldo sono separate dalle altre (per la chiusura fuori della porta del chiostro degli altri due ceri). “San Giorgio” e “sant’Antonio” possono effettuarle anche singolarmente ma accade spesso che esse, almeno in parte, avvengano contemporaneamente, in rapporto al maggior o minor tempo che i ceraioli delle due “famiglie” impiegano per rialzare il cero fatto passare orizzontalmente sotto la porta (per le “birate” verticali) e per il suo “smontaggio” (per le “birate” orizzontali). In

LA “CORSA DEI CERI” A GUBBIO. STATO DI UNA RICERCA

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ogni caso, non è previsto qui un dispositivo che assicuri la sincronia delle “birate”, come negli altri momenti. D’altra parte all’inizio del secolo anche fra le “birate” degli ultimi due ceri era interposta la chiusura della porta del chiostro (v. Fofi 1900, p. 13). 24 Sembra qui all’opera una sorta di deduzione empirica invertita (Lévi-Strauss 1971b, p. 34) che caratterizza anche altrove la festa: una delle prime cose che gli eugubini spiegano ai turisti circa il 15 maggio è che in questo giorno non ci sono tra loro differenze. Tale osservazione, mentre conferma la nostra ipotesi che l’ordine trifunzionale è messo in discussione, contrasta tuttavia con la constatazione empirica della divisione della città in tre “famiglie”. In modo parallelo, il ritorno all’accettazione della divisione gerarchica si manifesta attraverso l’eliminazione dei colori distintivi. 25 Tale aspetto non è sfuggito agli eugubini. Origene Rogari, sacerdote locale, in una sua descrizione della festa scrive, infatti, a proposito del banchetto: “si direbbe un simbolo della generosa ospitalità eugubina; non solo un simbolo, ma una realtà, che sarebbe anche più lieta e appetitosa se non ci fosse laggiù, in fondo alla grande sala, quel lugubre sarcofago che ricorda l’eterna sentenza Memento mori” (Rogari 1977, p. 53). 26 San Michele, capo delle milizie celesti e instancabile combattente delle potenze infernali, è, infatti, anche guida delle anime dei trapassati (v. la Messa dei defunti). A lui è dedicata a Gubbio anche la terza delle “capellucce” che si incontrano lungo il sentiero che dalla città porta alla basilica di Sant’Ubaldo (v. Del Ninno 1981a [ora1983a]). 27 Con tale nome sono indicate le porte murate, poste a un livello più alto rispetto al piano stradale, presenti in molti edifici di epoca medievale. Almeno nell’Ottocento era comune la credenza che esse rispondessero alla necessità di trasportare fuori di casa i defunti, attraverso un’apertura particolare, subito dopo richiusa per impedire alle anime di rientrare nell’abitazione. Per quanto riguarda tale uso a Gubbio e nelle zone limitrofe v. Salmi 1955 e Bischi 1981; a un livello più generale v. De Gubernatis 1873 e Frazer 1907. Pare opportuno sottolineare la possibilità di una correlazione fra la chiusura della “porta del morto” e quella e chiostro della chiesa di Sant’Ubaldo (v. nota 23 e anche Appendice A, episodio 17). 28 La segmentazione proposta deriva soprattutto dalla “vita” di Giordano (Dolbeau 1977), ma sono stati integrati avvenimenti illustrati da altri biografi (v. Del Ninno 1981b). L’ordine degli episodi non è, nelle varie versioni, sempre costante; in particolare Giordano anticipa l’incendio di Gubbio, di solito situato dopo l’episodio 13.

Analisi semiotica dei numeri di clown* Paul Bouissac

1. La profanazione del sacro nei numeri dei clown 1.1. La nozione di rituale è stata ampiamente impiegata negli ultimi decenni in quelle discipline basate sulla osservazione del comportamento sociale, sia umano sia animale. Etologi, sociologi, sociobiologi, antropologi, semiotici e altri hanno trovato questa nozione utile per caratterizzare alcuni comportamenti codificati che hanno luogo nelle interazioni individuali così come in quelle collettive. Questo fenomeno ha generato una certa confusione concettuale nonostante i tentativi di integrare i vari usi, compreso quello originario d’ordine religioso, in un quadro unitario, in modo da poter stabilire a posteriori la validità scientifica o filosofica dell’estensione di questa nozione (per esempio Douglas 1973; D’Aquili et al. 1979). Lewis (1976, pp. 129144) ha concisamente ricostruito il passaggio di questo concetto prima dalla religione all’etologia, poi dall’etologia alle scienze sociali mostrando la sua attuale imprecisione, se non la sua inconsistenza. Oltre alle classiche definizioni proposte dai sociologi della religione, abbiamo, infatti, a un’estremità la definizione tecnica data dagli etologi, per i quali la ritualizzazione è un “processo attraverso cui i modelli di comportamento non-comunicativi evolvono in modelli comunicativi” (Eibl-Eiblesfeldt 1979, p. 14); all’estremità opposta, il termine è usato da alcuni antropologi di inclinazione teologica con un valore molto vicino al suo primitivo significato religioso (v. Douglas 1973; Turner 1974). Fra questi due estremi si trovano varie altre posizioni: per alcuni questo termine indica le sequenze ripetitive e stilizzate che regolano l’interazione sociale; per altri una modalità per mettere a fuoco l’efficacia, da un punto di vista esistenziale, di alcuni eventi collettivi caratterizzati da un profondo coinvolgimento dei partecipanti (v. Schechner 1977). In quest’ultimo senso, il rituale può essere considerato come uno sforzo per portare avanti valori religiosi in un mondo desacralizzato o per riconoscere nella particolare intensità di alcune esperienze collettive non religiose la riemergenza del sacro nelle culture occidentali. A livello concettuale, un’ulteriore confusione è provocata dal fatto che a questa varietà di usi si sovrappone la controversia, in atto da anni nell’ambito dell’antropologia culturale, tra coloro che asseriscono che i rituali fondamentalmente sono riesecuzioni di miti e coloro che mettono in evidenza la loro funzione catartica. In questo contesto, per amor di chiarezza, è di estrema importanza che chiunque usi il termine “rituale” specifichi – anche se in modo provvisorio – il senso in cui lo intende. La succinta definizione data da Schwimmer nel suo lucido Religion in Culture (1980) ci servirà come punto di partenza, per questo saggio: “Un rituale è un’azione codificata dalla tradizione [traditional patterned action] che può essere sia

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a carattere dimostrativo sia trasformativo” (p. 513). Noi considereremo i clown del circo come impegnati in tale tipo di azioni. Queste, in particolare, sembrano chiaramente appartenere al tipo dimostrativo, in quanto le performance consistono nel presentare alcune regole del contesto culturale e nell’eseguire alcune particolari operazioni su queste regole, come ho già dimostrato in precedenti scritti (Bouissac 1978; 1979; 1982a). Queste operazioni, che costituiscono un metadiscorso effettuato sulle regole implicite che modellano la cultura in questione, sono di solito di natura trasgressiva o sovversiva, e in quanto tali sono racchiuse all’interno di rigidi confini di tempo e di spazio. Intento di questo saggio è di suggerire che le performance dei clown del circo mostrano le regole fondamentali, non scritte, sulle quali poggia la nostra costruzione di un universo dotato di senso culturalmente vincolato. “Mostrare” dovrebbe essere qui inteso non solo come “illustrare” ma piuttosto come “rappresentare esaustivamente”, “rendere il senso esplicito attraverso varie manipolazioni formali”. Se, in concomitanza, succede qualcosa nel pubblico come risultato di queste “dimostrazioni”, questo qualcosa sarà di tipo cognitivo, interno ai limiti definiti da un contesto giocoso, ma non potrà essere considerato una trasformazione dello stesso tipo di quelle effettuate dai rituali trasformativi, quale per esempio un cambiamento di status. Sembra comunque probabile che questi rituali dimostrativi comportino una trasformazione permanente degli attori stessi in quanto soggetti sociali. Il pubblico occidentale del circo tende a considerare i clown non come attori, professionisti di qualche abilità, ma come clown, cioè come individui definiti da un preciso status sociale, temuti e amati allo stesso tempo. Questo atteggiamento generale è chiaramente documentato nel mondo odierno. Da un lato il clown è esaltato come l’eroe dei bambini, una figura benevola, colui che dona gioie e giocattoli. Dall’altro egli è stigmatizzato: la parola “clown” può anche essere usata come insulto. Un persistente tema letterario concorre con numerose tradizioni folcloriche a classificare il clown come un emarginato; nei film americani ambientati nel circo egli è molto spesso l’assassino insospettato oppure un criminale in incognito; ci sono anche radicate credenze secondo cui i clown sono depravati moralmente ed è diffusa l’opinione che lavorare come clown in un circo sia sicuramente la conseguenza di qualche evento sfortunato. Non è forse comune l’opinione che i clown, dietro la felice espressione ingannatrice della loro maschera dipinta, siano individui tristissimi? Cosa hanno fatto per meritare questo trattamento così particolare? 1.2. L’attenzione di questo saggio è rivolta proprio allo speciale tipo di operazioni eseguite dai clown del circo, le cui caratteristiche potrebbero spiegare questo stato di cose. Non tutte le gag dei clown hanno lo stesso valore metaculturale. Alcune performance sono dolci e benigne; altre si rivolgono ad aree molto sensibili del nostro sistema culturale. Vorremmo sostenere che alcune gag particolari, che fanno parte del normale repertorio, equivalgono a profanazioni rituali del sacro e sono la causa dello status sociale stigmatizzato del clown. (…) Ci sembra quindi evidente che è la natura della regola trasgredita, e non la quantità di trasgressione, che distingue la profanazione dalla semplice infrazione di una regola. (…) Un aspetto singolare della profanazione è che in genere non comporta drastiche conseguenze di nessun tipo, naturali o soprannaturali. Mangiare carne il Venerdì

ANALISI SEMIOTICA DEI NUMERI DI CLOWN

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Santo non causa immediati terremoti. Solo nelle opere teatrali la statua del commendatore torna alla vita per punire il profanatore Don Juan. Naturalmente alcuni sistemi legali possono rendere la profanazione il peggior crimine e condannare a morte i profanatori per evitare che il sacro perda prestigio, ma questo richiede un massiccio consenso che le società complesse in genere non hanno. Più che nell’infrazione di una regola esplicitata in un codice legale la profanazione consiste nel mettere a nudo la regola delle regole, il principio o i principi così fondamentali per tenere insieme il sistema normativo da non poter essere formulati. (…) È come se un sistema culturale, con tutte le regole prescrittive e proibitive che formano il suo corpo, si basasse in realtà su alcune regole cruciali ma informulabili, degli assiomi culturali impliciti o dogmi silenziosi, da cui tutte le altre regole deriverebbero e sarebbero giustificate ma che sarebbero essi stessi indimostrabili, ingiustificabili e, in definitiva inermi. Il sacro sarebbe dunque definito da questa necessaria arbitrarietà, sulla quale poggiano tutti i comportamenti significativi e le norme motivate. Da questo punto di vista, la relativa esclusione del clown dalla società “normale” potrebbe essere spiegata dal fatto che egli “mostra” questi assiomi culturali nel senso che rivela la loro arbitrarietà e inconsistenza manipolando le regole che da essi derivano. (…) 1.3. Vorremmo qui meglio discutere l’asserzione che la profanazione denota una classe di azioni che confutano questi principi impliciti, trasgredendo alcune regole che derivano da essi oppure esibendo un comportamento che implica un sistema di regole derivanti dalla loro negazione. I clown sarebbero quindi specializzati in tali azioni dimostrative eseguite in modo rituale, il solo in cui l’impensabile e l’indicibile possono essere attuati all’interno del sistema. Certo, sorge il problema di definire se tali rituali siano stati inventati dalla società come sfoghi catartici, come sogni collettivi dell’inconscio culturale, ovvero se ci sia in ogni sistema sociale un’irreprimibile, intrinseca propulsione cognitiva a rappresentare il sistema stesso; ovvero, infine, se si possa trovare una migliore spiegazione. Ma questo problema che, dopotutto, può essere veramente insolubile, non sarà affrontato nel corso di questo saggio; ci concentreremo invece su un obiettivo più facile: la descrizione e l’analisi di alcuni numeri di clown in rapporto alla nostra ipotesi di considerarli come profanatori rituali. Come già detto altrove, ricerche precedenti (1972a; 1977) sembrano indicare che non tutti i numeri si qualificano come profanazioni dirette e di rilievo. I clown spesso operano simbolicamente su regole culturali secondarie; inoltre, per amore del “buon gusto” o dei “buoni affari”, sulla loro creatività viene esercitata una certa censura – o autocensura – che può causare nelle operazioni metaculturali alcuni “spostamenti”. Comunque ci sono parecchi spettacoli che si riferiscono direttamente ad alcuni grandi temi sui quali la maggior parte delle società, se non tutte, basano i loro rituali, quali la nascita, le alleanze matrimoniali e la morte. Persino nelle società complesse o “desacralizzate”, questi temi socio-esistenziali sono articolati attraverso istituzioni e normative ancorate ad assiomi culturali impliciti. Alcuni problemi, quali la linea di demarcazione che distingue il mondo umano da quello animale o il momento preciso in cui la vita umana comincia e finisce o la struttura delle identità, sono tali da lasciare spazio a risposte che presentano necessariamente un alto grado d’arbitrarietà. Ma potrebbe, se non in un modo molto particolare, una società ammettere ciò mentre, allo stesso tempo, costruisce un sistema di significati auto-presuppo-

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sti? Il primo esempio che introdurremo riguarda uno spettacolo di clown breve ma di sicuro effetto e appartiene al repertorio tipico dei clown europei. Prima vorremmo però ricordare che tradizionalmente i clown in Europa lavorano in coppia: il clown bianco, che incarna enfaticamente tutte le caratteristiche culturali (competenza artistica, aspetto sofisticato, importanza sociale ecc.), e l’augusto, una figura caricaturale simile a un barbone, in cui tutte le caratteristiche del primo sono invertite. Come ho già mostrato altrove (1979)1, questa coppia deve essere interpretata come una matrice semiotica e non come una relazione personalizzata a senso unico tra il persecutore e la sua vittima; questo saggio fornirà ulteriori esempi di questo aspetto importante, anzi cruciale, troppo spesso dimenticato. Il numero vede impegnato soltanto l’augusto: il clown bianco prende parte all’azione marginalmente, come se fosse uno spettatore coinvolto per caso, e interviene solo alla fine, per allontanare il partner dalla pista, esprimendo indignato la sua disapprovazione. Sostanzialmente l’azione si svolge nel modo seguente: L’augusto, con un grottesco abbigliamento femminile e con un abbondante seno finto, entra nella pista spingendo una carrozzina per neonati; egli agisce come agirebbero una madre o una balia se dentro ci fosse un bambino che dorme. Improvvisamente si sentono grida fortissime e stridule venir fuori della carrozzina; l’augusto allora chiede agli inservienti del circo di andare a prendere del latte. Questi ritornano poco dopo con una enorme bottiglia (o un serbatoio di vetro) piena di liquido bianco. Il capo di un tubo di gomma collegato al contenitore viene infilato nella carrozzina, là dove si suppone sia situata la bocca del bambino. Il livello del latte si abbassa a gran velocità e la bottiglia è presto svuotata. Non appena il “bambino” comincia a piangere di nuovo, l’augusto lo tira su e il pubblico improvvisamente scopre che il “bambino” in realtà è un porcellino vestito.

Questa rivelazione costituisce il momento forte, per così dire, della gag ed è proprio a questo punto che il clown bianco interviene. Talvolta l’azione è ampliata nel modo seguente: L’augusto s’incarica della cura del “bambino” ma a un certo punto per le troppe grida, o perché vuole passare a qualche altra temporanea occupazione, affida il bambino a uno “spettatore”, o agli inservienti del circo. Il maialino subito “urina” abbondantemente addosso al suo nuovo custode, fra le immancabili risate del pubblico.

L’operazione eseguita in questo numero consiste prima di tutto nella sostituzione di un neonato con un maialino, o piuttosto nel trattare il secondo come se fosse il primo. Due forti temi culturali sono così legati insieme: da un lato la cura che gli uomini devono avere delle loro progenie come premessa per la sopravvivenza della specie e la conseguente sacralizzazione dei neonati; dall’altro, l’intensa attenzione culturale rivolta in differenti paesi, compreso il nostro, a una particolare specie animale, il maiale. Inoltre, se teniamo conto della versione ampliata, dobbiamo aggiungere un terzo importantissimo tema: l’urina e i suoi effetti contaminatori in quanto escremento. Insomma, il clown esegue una congiunzione che equivale a enunciare un’identità e questa operazione ha come risultato la sua espulsione dalla pista. Data la natura dei due principali temi coinvolti, l’azione è di considerevole importanza.

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Il maiale non è in effetti un animale qualsiasi: in alcune culture è considerato l’abominio della creazione ed è oggetto di rigidi tabù: Douglas (1966), Harris (1977, pp. 31-48) e altri hanno affrontato questo problema in modo esauriente. In tali culture, con molta probabilità, questo numero di clown darebbe luogo a incidenti. Ci sono poi culture che tradizionalmente fanno assegnamento sull’allevamento di questo animale per il fabbisogno di proteine e anche in queste esso è oggetto di norme e di rituali; l’intimità fra uomini e maiali in alcune tribù della Nuova Guinea (Rappaport 1967) ne è un esempio estremo. Tuttavia l’attenzione che gli viene rivolta dagli antropologi (occidentali) è veramente ossessiva: ci sono infatti ben poche probabilità che il pangolino, a dispetto della ricca mitologia e dei riti che lo concernono, possa godere di una popolarità comparabile. Questo naturalmente potrebbe essere interpretato come un sintomo del fatto che anche la nostra cultura è tradizionalmente imperniata sul maiale e tale rimane in molti modi, diretti e indiretti. Ciò è fondamentale per comprendere il significato di questo numero da clown all’interno del contesto culturale nel quale ricorre. In un recente libro sul carnevale francese (Gaignebet 1979, pp. 57-64), è messa in evidenza l’importanza del maiale nella cultura tradizionale europea sia da un punto di vista economico sia mitico. Infatti, molte caratteristiche concorrono a dotare questo animale di uno status particolare, come è stato sottolineato anche da Leach (1964) in un importante articolo dove si dimostra che il maiale è carico di interdizioni. Molte caratteristiche sia anatomiche sia ecologiche contribuiscono a situare il maiale in stretta prossimità con gli uomini: la pigmentazione della sua pelle, l’inconsueta chiarezza del colore dei suoi peli che lo fa apparire quasi nudo, la relativa espressività della sua faccia che si presta così bene all’antropomorfizzazione, il fatto che in una tradizione agricola a economia di sussistenza esso sia tenuto più vicino alla casa rispetto agli altri animali domestici o quello che sia nutrito allo stesso modo degli uomini, dato che mangia i loro avanzi o cibo cucinato appositamente, infine la diceria secondo la quale nessun’altra carne più di quella umana abbia il sapore di quella del maiale. Il rituale di ammazzare i maiali all’alba prima che sorga il sole, con reconditi accenti di assassinio o di sacrificio, e il fatto che questo evento sia un’occasione per rinforzare i legami di vicinato, confermano ulteriormente il suo status unico tra gli animali da cortile, al confine con la sfera di quelli da compagnia. Per inciso, non bisogna dimenticare che nel Medioevo, in un periodo in cui la Chiesa istruiva processi contro gli animali sospetti di comportamento diabolico, i maiali erano quelli più spesso incriminati. Le vite strettamente intrecciate dell’uomo e del maiale portano alla necessità di una loro forte differenziazione sul piano simbolico e cognitivo. Sia in inglese, sia in francese, e senza dubbio in molte altre lingue europee essere accusato di comportarsi come un maiale o di essere un maiale corrisponde all’essere escluso dalla specie umana. Nessun altro animale sembra essere fonte di tanti insulti. Esso, infatti, impersonifica la vera e propria essenza dell’animalità con i suoi “vizi”: ingordigia, egoismo, presunzione, indecenza. Un detto francese afferma che “nel cuore di ogni uomo dorme un maiale”. La lista sarebbe infinita. Tornando ora al neonato, è evidente come il suo comportamento sia sorprendentemente vicino a quello del maiale, in particolare per quanto riguarda il sudiciume, abbondantemente prodotto alle due estremità del tratto digestivo, e il rumore. Questo è un periodo della vita umana in cui il confine fra umanità e animalità è particolarmen-

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te sfocato perché l’in-fante umano, come il nome stesso indica, non mostra ancora il segno distintivo: la parola. Ma nello stesso tempo la società si prende cura di affermare la natura umana del neonato integrandolo simbolicamente attraverso varie forme rituali. L’identità del comportamento del neonato e di quello animale viene negata a dispetto dell’evidenza del contrario. L’enunciato prodotto dal clown confonde dunque due categorie la cui disgiunzione appartiene ai sacri principi sui quali una cultura è costruita, cioè umano versus animale. Ma la profanazione è ancor più grave perché i “termini” coinvolti sono effettivamente situati in una zona indistinta, liminare, in cui le differenze oggettive fra le due categorie non sono affatto ovvie, e la distinzione deve essere sostenuta e costantemente rinforzata dai più disparati accorgimenti culturali. Inoltre, la gravità della confusione sacrilega è qui generata dal fatto che il maiale è l’animale commestibile per eccellenza poiché viene allevato unicamente per tale scopo e poiché, come dicono i francesi, “del maiale tutto è buono, dalla testa ai piedi”, mentre i bambini sono perentoriamente definiti non commestibili, nonostante tutti i temi ossessivi che ricorrono nelle fiabe popolari in cui cadono vittime di streghe antropofaghe e addirittura di macellai di carne suina, come nella vecchia canzone francese dei tre piccini uccisi e messi in un barile di carne di maiale fino a che un santo non andò a risuscitarli. (…) Una più dettagliata analisi del numero dovrebbe tener conto sia della quantità di “latte” e della rapidità con la quale è consumato – indubbiamente un’enfasi dell’affinità tra allevare un maiale e un bambino – sia dell’abbigliamento e della gestualità dell’augusto. Ai fini di questo saggio sarà sufficiente notare la conclusione dell’operazione, vale a dire l’espulsione del profanatore, talvolta sottolineata dalla contaminazione (urina), che un simile tipo di operazione trasgressiva dovrebbe normalmente implicare nella logica del sistema. È sintomatico che, secondo le osservazioni fatte finora, la crisi della contaminazione si ha solo quando la confusione delle categorie comincia a diffondersi, per così dire, nel gruppo sociale, poiché essa avviene dopo che qualcun altro ha assecondato il gioco dell’augusto, accettando di badare al “bambino”. 1.4. Un’altra area di grande sensibilità culturale è il gruppo di regole che governa le alleanze matrimoniali. È generalmente accettato che le culture si esprimono in questo campo con un alto grado di sofisticata arbitrarietà, spesso legittimata da fragili ideologie. Il numero che sarà adesso analizzato, esempio rappresentativo del modo in cui i clown trattano il nostro sistema di alleanze matrimoniali, fa parte del repertorio di base dei circhi europei. È considerato di sicuro successo presso ogni pubblico d’Europa e il fatto che la sua esecuzione non richieda dialogo parlato semplifica il lavoro dei clown quando viaggiano in paesi di cui non conoscono la lingua. La seguente descrizione è basata su osservazioni e registrazioni fatte nell’estate del ’81 in Danimarca al circo Schumann. Il titolo tradizionale del numero è Gli usignoli e si svolge nel modo seguente: Il clown bianco entra in pista fischiando come un usignolo (usa un apparecchietto invisibile, sistemato in bocca) diffondendo il suo richiamo amoroso. Dopo qualche secondo si sente un forte pigolio da dietro la tenda dell’entrata: un’evidente risposta al suo richiamo. L’augusto entra in pista vestito grottescamente da donna: gonna rosa sgargiante,

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grande fiocco blu sul petto prominente, cappello con fiori, borsetta. “Lei” guarda lui con sguardo languido ed egli immediatamente “si innamora”, le si inginocchia davanti e le prende la mano continuando a fischiare amorosamente. “Lei” brutalmente ritira la mano, gli fa segno di mantenersi a distanza e mostra le dita, mettendo in evidenza che non porta la fede e parodiando il fatto di essere una ragazza rispettabile, che non dà ascolto al primo arrivato. Il clown bianco indietreggia di qualche passo e ostenta la sua forza, esibendo i bicipiti e mostrando il petto. “Lei” reagisce con una risata ironica, sempre con il fischio, e gli sputa negli occhi con disprezzo. Nonostante questo primo fallimento, il maschio riprende il corteggiamento con gesti e melodie piene di passione. Ma “lei” lo prende in giro scimmiottando il suo comportamento e ribadisce, con le movenze del corpo, di non essere tipo che si faccia impressionare facilmente. Il clown bianco allora tira fuori un mazzo di rose e glielo offre. “Lei” si precipita verso i fiori con un’espressione di avidità e un pigolio impaziente. Ma lui ritira le rose, indicandole a segni che, per averle, deve prima baciarlo. “Lei” assume un’espressione incredula, poi si gira verso il pubblico e indica con un gesto che lui è completamente matto; quindi gli strappa violentemente i fiori dalle mani, li odora, fa una faccia disgustata, come se puzzassero, e li getta verso di lui, per terra. A questo punto egli si mostra offeso e si dirige verso il pubblico, rivolgendo il suo richiamo d’amore a nuovi eventuali soggetti. Improvvisamente si ferma davanti a una spettatrice e inizia un nuovo corteggiamento. Il clown abbandonato guarda furioso, corre verso di lui, lo colpisce con la borsetta e minaccia la rivale. Quando ritornano al centro della pista il clown bianco esprime sentimenti ancora più appassionati e versa persino una lacrima. “Lei” mostra qualche interessamento, lo bacia sulla fronte ma subito riprende le distanze. A questo punto egli tira fuori dalla tasca un braccialetto d’oro e con questo le va davanti. “Lei” glielo strappa dalle mani, lo esamina, lo mette nella borsetta e finalmente gli permette di avvicinarsi e di accarezzarle la gola, esprimendo la sua soddisfazione con estatici pigolii; quando egli smette, “lei” gli fa segno di continuare, ma dopo un po’ torna alla posizione e all’atteggiamento iniziali. Il clown bianco mette allora in mostra la sua ricchezza sfogliando un mazzo di banconote che tiene in tasca; poi mima il seguente enunciato: “Costruiremo un nido e vi dormiremo insieme”. “Lei” risponde nello stesso modo: “Certo, così resterò incinta e avrò tanti bambini” (questo lo esprime mettendo la mano a diverse distanze dal suolo, come se stesse contando bambini di altezze diverse), e conclude con un vistoso gesto volgare che significa “niente da fare”. Il clown bianco le offre una manciata di banconote, ma “lei” ne vuole sempre di più, fino a riempirsi letteralmente le tasche. Alla fine, fa segno di accettare la proposta. Sopraffatto dalla gioia “lui” tira fuori dalla giacca un enorme cuore di velluto rosso e glielo porge: “lei” prende a calci “lui”, poi lo bacia. Escono di pista con aria cerimoniosa mentre l’orchestra suona la marcia nuziale di Mendelssohn.

Da questa trascrizione verbale è possibile ricavare alcune categorie di comportamento sociale codificato riguardanti il corteggiamento, la seduzione e il matrimonio. Il “maschio” ostenta in successione: la ricerca di una compagna, l’amore a prima vista, l’esibizione seduttrice delle sue qualità fisiche, l’offerta simbolica di regali, prima fiori, poi gioielli e quindi soldi, e infine una proposta di rapporto sessuale. La sua strategia fa ricorso alla gelosia, alla pietà, alla commozione e alla sottomissione. La marcia nuziale conclusiva suggerisce che una cerimonia formale è il risultato dei suoi sforzi. Per quanto riguarda la “femmina” possono essere identificate altre fasi di comportamento stereotipato: accettazione del corteggiamento, scoppio di gelosia

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quando il maschio mostra interesse per un’altra femmina e, soprattutto, la presentazione di alcuni test, sanciti da compensi graduali, secondo una calcolata strategia tesa a stabilire la relazione su serie basi economiche. Ma la morfologia di questa transazione matrimoniale è più complessa di quanto una lista di comportamenti stereotipati possa suggerire. Questo numero rappresenta un commento sofisticato al sistema di alleanza matrimoniale in vigore nella cultura contestuale. I principi impliciti che formano il comportamento “normale” sono “dimostrati” dai due clown in modo analogo alla formazione di una teoria sociologica o antropologica. E come gli specialisti si esprimono in un metalinguaggio descrittivo che permette al loro tentativo di non interferire con il funzionamento del sistema, così i clown prendono due misure che possono essere considerate dei prerequisiti per iniziare il loro rituale dimostrativo: primo, fingono di essere uccelli; secondo, non usano il linguaggio verbale esplicito ma un eloquente fischiettio la cui funzione referenziale è minima. Entrambe le misure sono notevolmente appropriate: la prima perché, come Lévi-Strauss (1962, p. 223) ha messo in evidenza, nelle società tradizionali europee gli uccelli si prestano a felici metaforizzazioni delle relazioni sociali umane; la seconda a causa del ruolo preminente giocato dal fischio nel comportamento seduttivo di alcune di queste culture. Inoltre, sempre in questa area, gli usignoli sono, fra i vari uccelli, quelli più comunemente associati all’amore sia come passione romantica sia come tema erotico. Infatti, da un lato il folclore europeo offre molti esempi in cui il canto dell’usignolo rappresenta un’illegittima attrazione sessuale, dall’altro, fin dal tempo dei trovatori esso è simbolo dell’amore puro e appassionato. Così, attraverso le ridondanze introdotte nel metalinguaggio usato, questo spettacolo è profondamente radicato nelle istituzioni che regolano la sessualità e la procreazione. Con queste premesse, torniamo alla descrizione del numero e cerchiamo di tradurla in termini più generali: il maschio s’impegna nella seduzione naturale; la femmina invoca la legge culturale riferendosi all’anello nuziale. Il maschio enfatizza in seguito la sua forza fisica, in una ostentazione di esibizionismo, il suo carisma verbale, o meglio vocale, la competenza tecnica delle sue carezze. La femmina nega sostanzialmente il valore di questi sentimenti, umori, sforzi, manovre e sistematicamente traduce ogni fase del processo di corteggiamento in termini di transazione economica, prendendo la proposta sul serio soltanto quando comincia a ricevere regali di valore. Infatti, rifiuta i fiori, un prodotto dalla natura deperibile per eccellenza, che si rovina così presto che come regalo, in questo contesto, “puzza” e solo dopo aver stabilito la relazione su solide basi economiche accetta di copulare all’interno della cornice istituzionale, come viene sottolineato dalla marcia nuziale. A questo punto il maschio, la cui passione è giunta al parossismo, “le offre il cuore” e lei per tutta risposta lo prende a calci, ultimo segno che la transazione matrimoniale era basata su due diversi sistemi di valore. In questo modo, poiché lo spettacolo non presenta le particolarità psicologiche dei due individui coinvolti e poiché esso è eseguito ripetutamente in una vasta area culturale con successo costante, sembra ovvio dedurre che il “dramma” eseguito abbia un riferimento sociale generale. In effetti, i due clown, il cui status di clown bianco e d’augusto rimane inalterato ed evidente per l’intero numero, pongono in contrasto con estrema chiarezza due concezioni dell’alleanza matrimoniale: da un

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lato questa è vista come conseguenza dell’amore reciproco, cioè di un sentimento individuale e selettivo; dall’altro come una transazione economica, uno scambio regolato, governato da leggi istituzionali in cui i sentimenti individuali svolgono un ruolo secondario, se non nullo. La società occidentale contemporanea coltiva l’idea che ogni alleanza matrimoniale è, o dovrebbe essere, basata su una libera scelta motivata dall’amore e che le considerazioni sociali o economiche che potrebbero avere una qualche parte non sono che perversioni dell’istituzione. Comunque, etnologi e sociologi che hanno studiato questo settore hanno generalmente scoperto un sistema che regola la maggior parte dei legami, i cui limiti sono sociali ed economici (per esempio Winch 1958; Winch, Mc Ginnis, Barringer 1962; De Heusch 1971). Questo carattere culturale e storico dell’“amore” come sentimento istituzionalizzato è stato in effetti sottolineato dagli storici della cultura e dai sociologi. Nel suo studio sulla famiglia nella società americana, Goode (a cura, 1964) nota che “in molte società l’amore è visto come una minaccia al sistema di stratificazione, e i più anziani raccomandano di non servirsene quale criterio di scelta del compagno”, e suggerisce che il fatto che “il bambino sia socializzato per innamorarsi” corrisponde a una forma di condizionamento, volta a sostituire l’autorità dei genitori, poiché il criterio selettivo opera all’interno dei limiti dell’omogamia. Si potrebbe aggiungere che la letteratura e il cinema americano trovano più “interessante” la crisi causata da “esogamia + amore” di quella che deriva da “omogamia – amore”. Infatti una serie di costrizioni implicite delinea in anticipo per ogni individuo un possibile o anche probabile tipo di alleanza. Ma, allo stesso tempo, la nostra cultura effettua una mistificazione celebrando ossessivamente l’Amore come una forza determinante e spesso sacra. “Gli usignoli” si basano sulla trasformazione della teoria elettiva del matrimonio nella teoria restrittiva, che esplicita la “verità” del nostro sistema. I principi impliciti che offrono il significato di questo decisivo comportamento sociale vengono messi a nudo e la vacuità dell’ideologia che tenta di mascherarli è esposta chiaramente. La marcia nuziale, che conclude la transazione, indica che non siamo testimoni di un caso di amore venale, ma al contrario di una regolare, normale, istituzionale alleanza matrimoniale. Ma non è tutto. Questa trasformazione è attuata dalla coppia clown bianco/augusto che costituisce un’esemplificazione dell’opposizione cultura/natura. Potrebbe sembrare strano che il clown bianco, che personifica i valori iperculturali, sia il campione del sentimento naturale e che l’augusto, che impersona la negazione della cultura, promuova la legge culturale. Tuttavia questo è coerente con la nostra analisi perché la distribuzione dei ruoli denuncia da sola il carattere ideologico della teoria elettiva e la natura culturale dell’“amore”, opposto a un sistema di costrizioni il cui carattere fondamentale lo fa sembrare, per contrasto, più naturale in quanto svela la natura sociale del sistema coinvolto. 1.5. (…) Per concludere, alla luce degli esempi dati in rapporto all’argomento generale di questo simposio, vorremmo discutere alcuni argomenti. Il primo punto riguarda la natura del rituale. Il modello di Victor Turner (1982) del dramma sociale come forma universale, “materia prima da cui sono stati tratti molti generi di performance, sia estetiche sia culturali” si adatta a questi esempi? Oppure, cosa ancora più importante, aiuta a comprenderli? Indubbiamente il numero del maiale può essere letto come una rottura del normale flusso della vita di tutti

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i giorni che mostra, nella versione allargata, l’avvio di un processo di contaminazione prima che avvenga la riparazione mediante l’espulsione del clown dalla pista. Ma il numero degli uccelli è difficilmente riportabile a questa struttura, a meno che, con drastica riduzione, non si voglia considerare il maschio come un trasgressore che intende sedurre la femmina al di fuori del vincolo matrimoniale che è infine da questa ricondotto nel giusto. Come tutti i modelli sintattici, per esempio quello della grammatica narrativa di Greimas, il modello di Turner lascia fuori la dimensione semantica o cognitiva e trascura la grande varietà di strategie sintattiche (per esempio la morfologia della profanazione), considerate come variazioni irrilevanti oppure realizzazioni superficiali. Inoltre, la sua visione eraclitea della società come luogo di tensioni continue, conflitti e cambiamenti, non preclude qualsiasi possibilità di conoscenza? Due obiezioni possono essere sollevate contro un simile generico approccio. Primo: non è troppo difficile dimostrare che per certi aspetti un ampio numero di processi sociali ha alcune cose in comune. Certo la percezione di somiglianze in oggetti per altri aspetti diversi tra loro è una fase cruciale della ricerca scientifica; ma non è ugualmente importante spiegare le differenze? Infatti, non è forse la spiegazione dei dettagli la vera sfida di una scienza dei processi sociali? In teoria una valida legge generale dovrebbe tener conto di tutti i dati osservabili che appartengono al suo settore. Ma il concetto di “dramma sociale” non fa molto di più che tradurre in termini teatrali e morali i concetti di omeostasi e catastrofe, che sono applicabili a un campo così vasto che non si può più distinguere tra un rituale religioso, un numero di circo, un cerimoniale, il livello di un lago, l’incremento di popolazione di un gruppo di topi, il formarsi di una nuova colonia di api, la variazione della temperatura corporea e un attacco di cuore, per menzionare solo alcuni esempi. In secondo luogo, osservare che nella società si verificano tensioni, conflitti e cambiamenti – cosa che non può essere negata – non porta necessariamente alla conclusione che la società sia essenzialmente “un processo in movimento” (p. 1). L’asserzione ontologica di Turner non prende in considerazione il fatto che qualsiasi organizzazione sociale non fa che tentare di ostacolare il trascorrere rovinoso del tempo. Questo, naturalmente, implica una lotta costante e la necessità di trovare mezzi di controllo per prevenire o ritardare la naturale separazione delle lussazioni delle istituzioni sociali. Sono esattamente queste costruzioni culturali relativamente stabili che formano l’oggetto primario di una scienza della cultura umana. LéviStrauss, nella sua visione parmenidea, afferma che i miti sono macchine costruite per fermare il tempo. Questo non potrebbe essere detto per la cultura in generale? L’addomesticamento del tempo è in verità un requisito essenziale per l’edificazione della cultura. L’obiezione possibile che la stabilità di un sistema è fittizia è certamente valida, ma il punto è che si tratta di una finzione collettiva che dura per un tempo abbastanza lungo, in rapporto agli standard umani, da costituire un interessante oggetto di studio. Il concetto di sincronicità non è soltanto una comodità metodologica; potrebbe essere usato, forse, come sinonimo di società. Le vaste organizzazioni cognitive che caratterizzano le società godono di una notevole stabilità. Nella nostra cultura persino un creazionista e un evoluzionista condividono una grande quantità di assunti culturali, nonostante i loro punti di vista apparentemente inconciliabili, sicché è molto probabile che essi partecipino alla comprensione e al godimento sia del numero del maiale sia di quello degli uccelli. Inoltre, essendo

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comportamenti tradizionalmente codificati, i rituali sono per così dire gli specchi della sincronicità che riflettono e danno un corpo durevole all’organizzazione cognitiva attraverso la quale una società dà senso a se stessa e all’ambiente che la circonda. Persino quando i rituali offrono alla società strumenti per riflettere su se stessa, attraverso un metalinguaggio che rende possibile manipolare cognitivamente gli assiomi impliciti in modo relativamente sicuro, la stabilità del sistema non è realmente messa in pericolo. Così piuttosto che concentrarsi sul movimento o sul processo rischiando di perdere di vista ciò che cambia, sembra in realtà che tentare di descrivere il sistema o la struttura come se fossero fuori dal tempo sia molto più utile se vogliamo capire il rituale, il teatro e, anche, il circo. 2. Maschere e torte in faccia: gli operatori semiotici 2.1. Le maschere come operatori semiotici Come si può osservare in tutta l’area culturale europea – da più di un secolo – il numero dei clown dei programmi di circo è caratterizzato dall’opposizione di due personaggi, il clown bianco e l’augusto, riconoscibili grazie alla maschera che si disegnano sul viso, al tipo di costume che indossano e al comportamento sociale che adottano. Non si tratta in questa sede di affrontare il problema delle origini di questa “coppia” primordiale, ma di analizzare il suo funzionamento in quei drammi, nel senso originale del termine che sono le entrées comiche. È noto che il clown bianco, qualunque sia l’interpretazione personale di ogni artista, si distingue per il trucco bianco che gli ricopre il viso e per il/i sopracciglio/i dipinto/i in nero, in modo dissimmetrico, che aggiunge a questa maschera; la pelosità è nascosta o disciplinata con cura (riga, ciocca laccata, ciuffo frontale ben pettinato ecc.); le sporgenze naturali vengono attenuate quanto più possibile. Il suo costume è raffinato (tessuto prezioso, perle, calze di seta, pizzi ecc.) e le sue maniere indicano l’agiatezza sociale, la padronanza della parola e delle arti, l’autorità insomma che danno il potere e il sapere. Si badi che questa agglutinazione di segni è suscettibile di molte varianti; ogni clown ad esempio si riconosce per la forma particolare del disegno del sopracciglio, essendo l’elemento pertinente il suo carattere dissimmetrico. Il clown bianco dunque si presenta come un segno complesso che costituisce un emblema determinato della cultura. Quanto all’augusto, può essere considerato come la somma dell’inversione di tutti i segni che definiscono il clown bianco: esagerazione dei tratti simmetrici del viso, accentuazione e rinforzo delle protuberanze e dei colori naturali, abbondanza e disordine della pelosità o calvizie spinta, abiti mal tagliati, troppo grandi o troppo stretti, colori di cattivo gusto, passo incerto, mancanza di maniere, incompetenza linguistica e artistica, comportamento infantile o senile... Questo contrasto colpisce chiunque si occupi del problema dei clown e del comico, ma può anche abbagliare l’osservatore presentandosi come una complementarità dei ruoli dal tipo padrone/schiavo, carnefice/vittima, cittadino/campagnolo, e ciò avviene molto facilmente in quanto l’augusto è talvolta vittima di sevizie (colpi, scherzi, inganni). D’altronde arte e letteratura si sono impadronite allegramente di questa opposizione per privilegiare l’aspetto doloroso e passivo a tal punto da aver costruito un oggetto che non riflette la realtà del clown così come la rivela un’osservazione

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rigorosa (Bouissac 1972b). In effetti, un’entrée comica non è la reiterazione ossessiva del contrasto posto all’inizio tra il clown bianco e l’augusto, ma una sequenza di operazioni semiotiche effettuate su delle proposizioni culturali grazie a quei due “operatori”, nel doppio senso della parola, che sono il clown bianco e l’augusto. Affermare che l’augusto è “quello che prende gli schiaffi” è semplicemente falso; egli svolge, allo stesso modo del suo collega, un ruolo di manipolatore dei contenuti culturali. L’effetto globale di un’entrée, dove, lo ricordiamo, non avviene solo la persecuzione di un capro espiatorio, è il risultato di concatenazioni logiche che si sviluppano nell’ambito della matrice costituita dal clown bianco e dall’augusto, che può essere definita come una posizione della cultura implicante una negazione della natura e un’inversione o negazione della cultura implicante una posizione della natura; relazioni che si potrebbero esprimere in tabella iscrivendo nella colonna del clown bianco cultura sulla prima linea e (natura) sulla seconda e rispettivamente (cultura) e natura nella colonna dell’augusto o che si potrebbero anche articolare in un quadrato semiotico secondo la prospettiva greimasiana. Come mostreremo ora con l’aiuto di due esempi, i clown non sono sostanze, o proposizioni, bensì operatori. Il miele è il nome di un’entrée comica chiamata talvolta Le api, attestata nel repertorio di molti clown europei da almeno un secolo, ma che con tutta probabilità è molto più antica2. Si svolge nel modo seguente (con varianti che non mettono in discussione la struttura della scenetta): Quando il clown bianco appare e si accinge a iniziare il numero, l’augusto lo interrompe annunciando che detesta il lavoro e che ha deciso di smettere di lavorare. Il clown bianco gli assicura che ha trovato il modo per bere e mangiare senza lavorare. L’augusto manifesta il desiderio di conoscere il segreto; l’altro gli spiega allora che basta imitare le api. Innanzi tutto lo trasformerà con l’ipnotismo in un piccolo animale: la regina delle api. Gli basterà quindi stare seduto sulla seggiola che si trova al centro della pista e quando un’ape operaia verrà a svolazzare davanti a lui, dovrà solo dire: “Ape, dammi del miele”. Ad ogni modo sarà il clown bianco stesso a interpretare il ruolo dell’ape procacciatrice di miele. Detto fatto, davanti all’augusto beato che troneggia sulla seggiola, il clown bianco abbozza dei passi di danza, fa un giro di pista “svolazzando” e arriva davanti alla “regina”. Ma passando dietro all’augusto, si è riempito la bocca d’acqua (una bottiglia era stata messa sul bordo della pista) e quando l’altro gli chiede il miele, gli sputa l’acqua in faccia. L’augusto protesta violentemente mentre si asciuga il viso, ma il clown bianco lo calma suggerendogli di fare a un altro lo stesso scherzo. Proprio in quell’istante un “membro del personale” attraversa la pista per prendere congedo dai suoi colleghi, perché si è stufato del lavoro. L’augusto coglie l’occasione e gli propone di imitare le api, durante un dialogo burlesco nel quale dice tutto il contrario e deve essere corretto dal clown bianco che svolge il ruolo di suggeritore. Finalmente tutto è a posto. L’augusto va a cercare l’acqua “svolazzando”, ma per molte volte non riesce a bagnare la sua vittima perché “perde” l’acqua per strada o inciampa versandosela addosso, o l’inghiotte per distrazione, oppure l’idea dello scherzo che sta per fare lo fa ridere obbligandolo a sputare l’acqua anzitempo. Nel frattempo il clown bianco porge di nascosto dell’acqua all’altro collega, cosicché quando l’augusto ricorda a quest’ultimo che deve dire “Ape, dammi il miele”, riceve nuovamente un fiotto d’acqua in piena faccia. Bagnato per la seconda volta, manifesta la sua collera, ma il partner lo calma invitandolo a non prendersela e gli dà una tromba con cui l’augusto, dopo alcune gag, suonerà da professionista per concludere il numero.

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Questa descrizione in stile colloquiale permette innanzi tutto di constatare che, pur avendo assunto un ruolo di vittima, l’augusto esce di pista da eroe. D’altra parte lo scherzo, considerato isolatamente, si può descrivere nel modo seguente: un individuo rifiuta di dover lavorare per poter mangiare e soccombe alla seduzione del miele, di cui si conosce, dopo i lavori di Lévi-Strauss (1967a), la valenza pericolosa, in quanto è nella natura ciò che più assomiglia alla cultura (infra-cucina). Infatti, grazie alla trappola tesa da un altro individuo, il rinnegato riceve per due volte un violento getto d’acqua in piena faccia al posto di raccogliere senza sforzo il miele che si aspettava. Dato il legame che esiste nel pensiero simbolico tra l’acqua (sotto forma di tempesta) e il tabacco, e dato il valore limite del tabacco in rapporto alla cultura (ultra-cucina), lo scenario può essere così riassunto: 1) negazione della cultura tramite rifiuto della cucina (lavorare per mangiare); 2) affermazione (deludente) della natura tramite la produzione di un’infra-cucina (mangiare senza lavorare); 3) affermazione reale della cultura tramite produzione di una ultra-cucina (lavorare per non mangiare). Sono tre operazioni successive, nel corso delle quali un estraneo si è trasformato nel suo inverso secondo un movimento oscillatorio ben espresso da questa riflessione di Claude Lévi-Strauss (pp. 515-516): Come l’alleanza matrimoniale è perpetuamente minacciata “ai confini” dal lato della natura dall’attrazione fisica del seduttore e dal lato della cultura dal rischio d’intrighi tra affini che vivono sotto lo stesso tetto, così anche la cucina si espone al rischio, con l’incontro del miele e con la conquista del tabacco, di oscillare tutt’intera dal lato della natura o dal lato della cultura, anche se, per ipotesi, essa dovrebbe rappresentare la loro unione.

Si noterà come, nello scenario, le api sono al tempo stesso strumento della seduzione e della repressione, ruolo ambiguo che coincide con le posizioni limite tra natura e cultura che esse occupano, in quanto contemporaneamente produttrici di miele e modelli di ultra-società, con tutti i rischi di disumanizzazione che ciò implica. Si vede dunque come queste operazioni si articolino grazie alla matrice formata dal clown bianco e dall’augusto. Si potrebbe forse addirittura azzardare che essi costituiscono la forma dell’espressione di questo “discorso” metasemiotico. Quanto meno sono, in quanto maschere di segni inversi e di valore ben definito, applicabili a un numero teoricamente infinito di scenari sul contenuto dei quali operano delle trasformazioni che costituiscono la specificità dell’entrée comica. Il secondo esempio permetterà di precisare questa ipotesi. Il clown bianco inizia il numero eseguendo qualche esercizio di prestidigitazione assieme al presentatore. All’inizio fa apparire e sparire dei fazzoletti, poi annuncia, brandendo un boccale di latte, che farà sparire il liquido nel cappello a cilindro posato sulla seggiola vicino a lui. In quell’istante arriva l’augusto che s’impadronisce del boccale e ne versa il contenuto in un bicchiere immaginario da cui “beve” l’invisibile contenuto. Non ci occuperemo qui degli aspetti tecnici del numero che permettono di ottenere tali effetti d’illusione. L’augusto esegue la manovra più volte, fino a che il boccale è vuoto, poi esce di pista lasciando il clown bianco esterrefatto. Ripresosi dall’interruzione, costui inizia un nuovo esercizio di magia con delle funicelle, ma l’augusto entra nuovamente in pista, portando una valigia a forma di cane, che si apre come una custodia per chitarra. Ne fa uscire un cane immaginario e lo lega con una delle funicelle prese al clown bianco; anche se l’ani-

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male è invisibile, la corda è tesa come se vi fosse un cane attaccato in fondo. L’augusto fa quindi passeggiare il cane davanti al cappello a cilindro che era stato lasciato in giro dopo la fine del primo esercizio, gli fa segno di urinare nel cappello alzando la zampa. Si presume che l’animale obbedisca. Lo riporta allora alla custodia e ve lo rinchiude per poi andarsene. Ma ritorna subito indietro, prende il cappello e versa al suolo il contenuto che vi si trova. Infine esce sotto lo sguardo stupito e scioccato del suo partner3. Riapparirà in seguito per proseguire il numero con un duo musicale.

Limitiamoci a queste due sequenze iniziali che formano un insieme, in quanto implicano entrambe un elemento liquido, un elemento invisibile e un oggetto comune (il cappello), e notiamo che questi elementi si combinano nel modo seguente: 1) un liquido visibile (latte), che si deve far scomparire in un contenitore visibile (il cappello), scompare in effetti in un oggetto invisibile (bicchiere); 2) un oggetto invisibile (cane) produce un liquido visibile (urina) nel cappello dove doveva scomparire il latte. Un processo dunque arriva a conclusione, ma durante il percorso l’elemento liquido si è conservato invece di sparire; solo la sua natura si trasforma. Tutti gli oggetti in gioco sono fortemente “marcati”: il latte, elemento naturale vicino al miele nel senso che è un cibo fornito “già cotto” dalla natura; l’urina, anche se di cane, residuo della digestione di un liquido; il cappello a cilindro, infine, simbolo per antonomasia della cultura a causa della sua funzione sociale e delle connotazioni multiple che l’associano alle cerimonie, alle classi dirigenti, e ai maghi che vi operano delle metamorfosi poco naturali! Che l’oggetto posto in partenza dal clown bianco come strumento della sparizione del latte (negazione della natura) venga trasformato dall’augusto in strumento dell’apparizione dell’urina (affermazione della natura), ci mostra con chiarezza che abbiamo a che fare con un altro caso di operazione semiotica di secondo grado, poiché non si tratta di una produzione di senso del tipo di quelle che costituiscono il testo quotidiano della natura, ma di una produzione di effetti semiotici particolari che sono allo stesso tempo “insensati” e pertinenti. Se paragoniamo questi due esempi, che sono rappresentativi dell’insieme dei numeri dei clown, constatiamo che l’augusto non è necessariamente oggetto di sevizie e inganni. Il suo ruolo manifesto dipende dalle operazioni semiotiche che vengono effettuate dalla matrice clown bianco/augusto. Mentre, ne “le api” un eccesso di natura si trasforma in un eccesso di cultura, nella seconda entrée avviene il contrario. Ad ogni modo l’opposizione Natura/Cultura, pertinente in molte entrées comiche, non esaurisce assolutamente il repertorio dei clown, tanto più che questo repertorio è in continua espansione. L’arte del clown è una “grammatica” produttiva che “opera” sui contenuti continuamente rinnovati di una cultura storicamente determinata. L’esempio seguente, osservato nel 1978, ne fornirà la prova. 2.2. Funzione dell’operatore “torta in faccia” Elemento tradizionale dell’arsenale comico, i titoli di nobiltà della “torta in faccia” risalgono senz’altro all’antichità. Il lancio o l’applicazione di una sostanza semiconsistente sulla faccia di un antagonista passa per uno degli espedienti più facili per provocare il riso degli spettatori. I comici di tutti i tempi ne hanno fatto un tale uso e abuso che l’espressione è stata generalizzata a qualsiasi operazione o tema ripetuto fino alla nausea. Tuttavia la sua efficacia è indubbia. Forse perché quest’azione –

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in se stessa abbastanza insignificante – ha una funzione di operatore nella misura in cui struttura delle interazioni sociologiche di cui può modificare la forma. Ciò è ben messo in evidenza nell’entrée comica che analizzeremo ora. Si noti che la matrice clown bianco/augusto vi si manifesta in una forma particolare che combina due varianti osservate frequentemente nei numeri dei clown contemporanei. Da un lato l’opposizione tradizionale vi si traduce in un modo attenuato: direttore di pista/augusto (i segni distintivi dell’augusto sono realizzati in modo congruente a quelli del direttore). Dall’altro l’augusto è impersonato da più individui, tra i quali esistono dei rapporti di ridondanza e di complementarità che il gergo del mestiere designa con i nomi di “pitre” e “contre-pitre”, e quest’ultima categoria può differenziarsi in primo, secondo, terzo contre-pitre, o anche più in casi eccezionali. L’entrée in questione comprende il direttore e alcuni inservienti di pista da una parte e, dall’altra, un augusto principale (Charlie Cairoli) accompagnato da due colleghi (Jimmy e Charlie Junior). Mentre monta, sotto la guida del direttore, gli accessori per il numero (una tavola, una seggiola, un secchio di vernice), un inserviente rovescia “per disattenzione” il secchio di vernice sulla tavola. Il direttore inizia a lamentarsi e a domandarsi come riparare al guaio, quando entra in pista una squadra di “operai edili”. È composta da Charlie che regge una tavoletta e una cazzuola da decoratore, da Jimmy che spinge una carriola e da Charlie Junior che porta due secchi d’acqua. Tutti questi accessori sono pieni di schiuma bianca. Il direttore si rivolge a Charlie per domandargli aiuto. Charlie inizialmente rifiuta, in quanto ha terminato il turno e intraprendere quella pulizia al di fuori delle ore legali, in una specializzazione che non è sua, significherebbe trasgredire i regolamenti sindacali. Può essere utile specificare che questa entrée comica è stata ideata e rappresentata in Inghilterra e, soprattutto, a Blackpool, ovvero nel cuore del Nord-Ovest industriale del paese. Il direttore insiste, fa appello all’amicizia e specifica che il salario non sarà denunciato. Finalmente Charlie e i suoi compagni, dopo una breve consultazione, accettano. Uscendo il direttore li supplica di fare il più in fretta possibile. Jimmy inizia allora a pulire la tavola, ma spingendo con il dorso della mano la vernice verso il bordo, sporca Charlie, che in cambio gli spiaccica in faccia la tavoletta piena di schiuma. Charlie chiede dell’acqua per lavare la vernice che ha macchiato il davanti dei suoi pantaloni; Jimmy afferra un secchio d’acqua e gliene lancia il contenuto sulle gambe. Charlie, a sua volta, s’impadronisce della spugna di cui si stava servendo Junior e la schiaccia con forza sulle guance di Jimmy, poi gliela infila nei pantaloni dal davanti. Junior trova lo scherzo divertente e vuol fare lo stesso; scambia la tavoletta che aveva appena recuperato con la spugna e si appresta a colpire di nuovo Jimmy; ma questi si abbassa, schiva il colpo ed è Charlie a riceverla sulle natiche, a inciampare e a cadere col naso nella tavoletta piena di schiuma. Ciò provoca l’ilarità di Jimmy il quale si siede sulla seggiola che si trova vicino alla tavola. Charlie va a cercare un secchio d’acqua, lo fa scivolare sulla tavola fino a rovesciarlo addosso a Jimmy. Questi si impadronisce della cazzuola, la riempie di schiuma e l’introduce nei pantaloni di Charlie, dal davanti. Junior scoppia a ridere e si siede sulla tavola che cede sotto il suo peso. Rialzandosi fa cadere il pannello pieghevole sulle dita di Charlie. Gli scambi di “cortesie” si susseguono in questo modo fino a che i tre compari sono fradici e coperti di schiuma. A questo punto riappare il direttore e scopre con rabbia che la pista è coperta d’acqua e schiuma, e che i “pulitori” sono fradici. Chiama allora un inserviente e gli ordina di pulire. In pochi secondi acqua, schiuma e vernice vengono asciugate; la pista è pulita e l’inserviente non si è affatto sporcato compiendo il lavoro. Il direttore biasima gli “operai”

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additando loro l’esempio di efficacia, rapidità e pulizia dell’inserviente. A questo punto i tre clown agguantano l’inserviente e lo immergono nella carriola piena di schiuma; poi, quando il malcapitato ne riemerge, gli lanciano dei secchi d’acqua. Tutti escono di pista bagnati nello stesso modo.

L’analisi delle sequenze che compongono questo numero indica che esse attualizzano tutte, a eccezione delle prime due (perturbazione e contratto), lo stesso modello sintattico: un agente applica o getta un liquido o un semi-liquido su un paziente per mezzo di uno strumento o di un recipiente. A partire da questo modello sintattico si può definire, in termini generali, la “torta in faccia”. L’identità dell’agente e del paziente, così come le parti del corpo di quest’ultimo che vengono colpite, costituiscono le “proposizioni” sulle quali si effettua l’operazione. Ora, in questa entrée si constata che Charlie è tante volte (sette) in posizione d’aggressore quante ne è in posizione di vittima e che la stessa cosa vale per Jimmy e Junior (4 volte). Senza affrontare qui in dettaglio l’organizzazione “testuale” dell’insieme, notiamo tuttavia che dopo una serie riguardante solo due attori, le sequenze fanno intervenire un terzo attore, inizialmente con il ruolo di tramite, poi come complice. Nell’ultima sequenza i tre attori si uniscono per aggredire una quarta persona. Inoltre le zone colpite sono le regioni facciali (bocca), anali o genitali. Vi è una perfetta equità nella distribuzione del ruolo del paziente, in quanto l’attore che si trova più spesso in questa posizione è ugualmente quello che si trova più spesso nel ruolo inverso. Quanto alle zone colpite, sono distribuite in modo complementare tra gli attori. Se ora prendiamo in considerazione le determinanti culturali degli attori e delle azioni, possiamo specificare i contratti che vengono trasformati da tali azioni. È innanzi tutto importante notare che quest’entrée si iscrive in uno schema contrattuale. L’insieme degli attori presenti in un momento o nell’altro in pista si divide in due classi: quella dei lavoratori (inservienti, operai edili) e quella dei dirigenti (il direttore). Costui è vestito elegantemente; si esprime con autorità e distinzione; fa eseguire il lavoro e distribuisce rimproveri ed elogi. La prima azione è un errore professionale (o un sabotaggio): un impiegato rovescia un secchio di vernice; la seconda azione è un contratto stipulato fuori dalle regole: il lavoro verrà eseguito dopo le ore legali e la sua remunerazione non sarà denunciata. Notiamo anche che la natura del lavoro è di essere un servizio, nel senso che non si tratta di produrre un oggetto, ma di pulizie, di far sparire della materia indesiderabile, in un certo senso l’inverso di una produzione. Ora questo contratto, che trasforma una squadra omogenea di costruttori (casco, carriola da muratore, cazzuola, tavoletta da decoratore) in spazzini, ha per obiettivo di trasformare allo stesso modo la struttura sociale della squadra, più precisamente di rovesciarla poiché, alla cooperazione definita come il compimento di lavori complementari allo scopo di una realizzazione completa esteriore, si sostituisce una struttura di competizione interna dove ognuno aggredisce l’altro. Le azioni successive mostrano il funzionamento di un’anti-squadra e la produzione di un anti-lavoro dato che, invece di far scomparire un po’ di materia, tutti gli sforzi finiscono con aumentarne la quantità. Il servizio diventa una produzione. Il ritorno del direttore e la scenetta del “bravo operaio” ristabiliscono la struttura di competizione tra squadre e ricuciono d’incanto la coesione operativa dei tre operai, che presentano all’uscita di pista le caratteristiche che li distinguevano al loro ingresso.

ANALISI SEMIOTICA DEI NUMERI DI CLOWN

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Rimane da porre il problema della relazione tra queste operazioni di inversione e le loro conseguenze e l’utilizzazione specifica di acqua e schiuma. Certamente, la “torta in faccia” è l’operatore che permette di effettuare il cambiamento di struttura del gruppo. Ma la selezione delle regioni anatomiche sembra essere tanto più pertinente in quanto è sistematica. Senza dubbio si deve considerare, come ipotesi di principio, che queste determinazioni del testo svolgono un ruolo critico – o ridondante – nella produzione complessiva di senso. La materia utilizzata implica due categorie: “liquido” e “semiconsistente”, che possiamo rappresentare in modo iconico in virtù dello scarto: bevanda e cibo da una parte, urina ed escrementi dall’altra. Questo schema si trova rinforzato dal fatto che le applicazioni e i lanci sono localizzati a volte sulle regioni urinarie e anali, a volte sul viso. Al termine del loro numero i tre clown sono “sporchi di pipì, di cacca e sbrodolati”. Il primo commento che viene in mente è che le trasformazioni di struttura che hanno luogo a livello del gruppo umano escludono automaticamente gli attori dalla cultura e spiegano che lo svolgimento delle loro funzioni naturali non è più controllato dalle “regole dell’etichetta” e dalle “norme igieniche”, identiche in questo al comportamento dei bambini molto piccoli. Ma questa sporcizia ai due estremi del tubo digestivo presenta un interessante carattere supplementare: viene applicata dall’esterno. Contrariamente a quanto avviene in altre entrées di clown e soprattutto in altre entrées di Charlie Cairoli, non vi è alcuna forma d’ingestione (reale, mimata o parziale), né alcuna allusione sonora ai processi digestivi o di escrezione. Tutto avviene dunque come se gli attori non ricavassero alcun profitto dal processo generale della digestione, dato che non c’è ingestione, ma ne subissero però i fastidi. Ciò si accorderebbe con le operazioni di trasformazione del testo che consistono essenzialmente nell’invertire i termini del contratto sociale. Ad ogni modo lo studio di un certo numero di entrées mostra che l’inversione pura e semplice di un sistema non costituisce un’operazione semiotica, dato che l’inversione di tutti i segni non trasforma le relazioni di un sistema, ma ne sviluppa un negativo di natura fondamentalmente tautologica. Ora, questo stesso procedimento d’imbrattamento è applicato al termine dell’entrée a un attore (l’inserviente) che, invece, ha rispettato scrupolosamente i termini del contratto e che, tuttavia, in fin dei conti, non fa una fine migliore degli altri. Bisogna dunque esplicitare la relazione esistente tra l’errore professionale iniziale, l’accordo stabilito tra Charlie e la sua squadra e il direttore, le modalità della sua non-esecuzione, il rispetto dell’accordo preso dal direttore di pista con l’inserviente e il risultato di questo lavoro per il bravo operaio che il direttore elogia. L’operazione sembra proprio mettere in gioco tutto il sistema socioeconomico contestuale – ricordiamoci che Blackpool è una stazione di villeggiatura popolare ed è il polo d’attrazione del Nord-Ovest industriale dell’Inghilterra – e lungi dall’accontentarsi di rovesciare i termini in modo ridondante, enuncia una proposizione sotto forma di equazione nella quale non solo “lavoro” = “anti-lavoro” in rapporto agli interessi reali del lavoratore, ma anche “svantaggi conseguenti dal lavoro” > “svantaggi conseguenti dall’anti-lavoro”. L’operazione trasforma dunque un testo ideologico latente sul quale effettua una critica radicale all’interno della quale il ruolo svolto dalla “torta in faccia” è proprio quello di un operatore.

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Il concetto di effetto di senso o di produzione di senso è in un primo momento solo il riconoscimento di un fenomeno semiotico “primitivo” a partire dal quale si tenta di ricostruire le operazioni inconsce che presuppone. Nel caso del circo, il fatto che un pubblico numeroso segua con interesse lo svolgimento di uno spettacolo e manifesti la sua comprensione e il suo gradimento con applausi e risate, ben dimostra che siamo in presenza di processi simbolici pertinenti alla cultura in seno alla quale si osserva il fenomeno. La metodologia adottata per analizzare questi effetti di senso consiste innanzi tutto nell’identificazione, in un numero specifico, delle classi d’oggetti e di situazioni che sono presentate insieme e nel seguirne poi le trasformazioni. Così facendo, si constata che questi oggetti e le loro relazioni rappresentano delle categorie culturali che possono essere apprese solo tramite il sistema di classi che costituisce l’universo cognitivo degli spettatori e le regole che le governano. Nell’ultima entrée analizzata, è la struttura socio-economica che determina la relazione capitale/lavoro nella società inglese a essere posta dal primo istante del numero. Abbiamo visto come questa proposizione iniziale sia trasformata in seguito. In questo capitolo si è insistito in particolare sui mezzi in virtù dei quali si operano tali trasformazioni. L’osservazione intensiva di un corpus di numeri mostra che alcuni schemi di comportamento ricorrenti, in se stessi forme vuote (categorie binarie di spostamento in rapporto a una struttura topologica, quadrato semiotico formato dalla categorizzazione del termine “simmetria” ecc.), permettono di trasformare le “proposizioni”, se vengono applicati alle situazioni poste, come anche alle situazioni già trasformate. La loro grande generalità e la loro indipendenza in rapporto alle situazioni che modificano ci è sembrata giustificare la loro qualifica di operatori. In questo capitolo non si pretende di averne compilato una lista completa. È una delle ragioni per le quali la formalizzazione dei numeri è ancora un compito prematuro. Si può tuttavia concepire la possibilità un giorno di enunciare le regole della “grammatica” del circo, formalizzando le operazioni semiotiche che fondano la specificità di quest’affascinante spettacolo.

* Sono stati riuniti sotto questo titolo due differenti saggi: Bouissac 1982b e 1979 (la parte utilizzata comprende le pp. 172-182). 1 Il riferimento è al saggio che segue (N.d.C.). 2 Un’analisi più dettagliata di questo numero figura in Bouissac 1978. 3 Anche nel caso di questo numero, per un’analisi più dettagliata, v. Bouissac 1978.

Il racconto genealogico spartiate: la rappresentazione mitologica di una organizzazione spaziale* Claude Calame

1. Il quadro comparativo: l’antroponimo come emblema spaziale Già dall’epoca detta arcaica si conosceva il gusto marcato che gli antichi greci avevano mostrato nei riguardi della forma genealogica: genealogia degli dei in Esiodo, genealogia eroica di Ecateo, genealogia dei re leggendari delle città a Corinto per opera del poeta epico Eumelo, o ad Atene, dove essa si pone all’inizio dello svolgimento cronografico definito dalla lista degli arconti. Non c’è niente di sorprendente in questa proliferazione di lavoro genealogico; è nota la sua doppia funzione di misurare il tempo storico e di legare il presente della città al suo passato leggendario. Sparta non fa eccezione, anche se a noi moderni restano solo le tracce tardive di questo interesse per la genealogia: in Pausania il Periegeta e nella Biblioteca attribuita ad Apollodoro. Dal VII sec. a.C., troviamo in Tirteo eco dell’esistenza di una genealogia regia che legava i sovrani di Sparta ai leggendari Eraclidi (…). Affronteremo più avanti il problema storico e letterario dell’attribuzione di una data alla genealogia regale lacedemone. Prima ci sia consentito di leggere il racconto che il Periegeta pone in maniera significativa all’inizio della descrizione del suo itinerario attraverso la Laconia (Pausania III, I, 1-5). Dopo le Erme, raggiungemmo la Laconia da ovest. Secondo quanto dicevano gli stessi Lacedemoni, il primo re di questo paese fu Lelege, un autoctono, e da lui si è cominciato a chiamare gli abitanti di questi paesi Lelegi. Lelege ebbe un primo figlio, Milete, e poi un altro, Policaone. Dirò altrove dove e perché Policaone partì in esilio. Alla morte di Milete, prese il potere Eurota, suo figlio. Costui costruì un canale per far defluire l’acqua stagnante verso il mare e, poiché l’acqua scorreva in superficie formando un fiume, lo chiamò Eurota. Non avendo figli maschi, lasciò il suo regno a Lacedemone, la cui madre era Taigeta che diede il suo nome alla montagna; fra l’altro, secondo quanto si racconta, suo padre era Zeus. Lacedemone prese in moglie Sparte, figlia di Eurota; preso il potere, egli per prima cosa cambiò i nomi del paese e degli abitanti dando ad essi il proprio nome; in seguito fondò una città alla quale diede il nome della moglie e che, ancora oggi, è chiamata Sparta. Anche Amicla, figlio di Lacedemone, volle lasciare qualcosa degno di essere ricordato e costruì una città in Laconia. Giacinto, il più giovane e bello dei suoi figli, morì prima del padre e la sua tomba si trova ad Amicle, sotto la statua di Apollo. Alla morte di Amicla il regno passò ad Argalo, il maggiore dei suoi figli e quando Argalo morì, passò a Cinorta. Cinorta ebbe un figlio, Ebalo; quest’ultimo prese come sposa una donna d’Argo, Gorgofone, figlia di Perseo, dalla quale ebbe un figlio, Tindareo; contro costui lottò Ippocoonte, che reclamava il trono per diritto di anzianità. Con l’aiuto

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d’Icario e dei suoi seguaci, superò ampiamente in potenza Tindareo e lo costrinse a ritirarsi impaurito: i Lacedemoni dicono che egli andò a Pellana, ma una leggenda messenica dice che Tindareo fuggì in Messenia, presso Afareo, figlio di Periere e fratello di Tindareo da parte di madre. Si dice anche che egli si stabilì in Messenia, a Talame, dove ebbe dei figli. Sostenuto da Ercole, più tardi Tindareo tornò indietro e recuperò il trono. Salirono al trono così anche i suoi figli e anche suo genero, Menelao, figlio di Atreo; in seguito, fu la volta di Oreste, marito di Ermione, figlia di Menelao. Al ritorno degli Eraclidi, durante il regno di Tisameno, figlio di Oreste, entrambi i distretti, Messenia e Argo, ebbero re scelti fra loro. Argo ebbe Temeno e Messenia Cresfonte. A Lacedemonia, poiché i figli d’Aristodemo erano gemelli, videro la luce due casate regali: dicono che così piacesse anche alla Pizia.

Chiunque sia sensibile alla rappresentazione discorsiva dello spazio nota subito, nelle prime generazioni dei re lacedemoni, la coincidenza fra antroponimi e toponimi: Eurota, Taigeta, Sparte, Lacedemone, Amicla, sono sia attori regali sia specifiche località. Strana maniera di delimitare uno spazio e di costituire una geografia politica facendo susseguire in un racconto le nascite dei re alle alleanze matrimoniali. [… Dobbiamo chiederci, dunque, perché] la sequenza antroponimica spartiate assume la forma d’una genealogia? Più che della questione del ruolo sociale svolta dal discorso mitico, si tratta qui della funzione narrativa, della sua forma discorsiva e testuale. Di conseguenza, non è più il comparatismo a dover essere chiamato a fornire la spiegazione, ma l’analisi narrativa; e questo nonostante che la forma genealogica, in rapporto al modello che ha tentato di formulare la narratologia, comporti aspetti singolari, per molti versi sconcertanti. 2. Il quadro narrativo: la genealogia come racconto dello spazio In termini generali, si può definire il racconto come la trasformazione di uno stato in uno stato nuovo, per effetto di una fare trasformatore esercitato da un soggetto impegnato in una relazione polemica con un antisoggetto. Orbene, nella narrazione genealogica si ritrova certo una successione di stati distinti, ma non si registra, se non in programmi secondari, né fare trasformatore di un soggetto, né confronto polemico che opponga all’azione del soggetto quella di un antisoggetto. La genealogia sfugge dunque all’ordine del racconto? In effetti, essa sembra collocarsi ai limiti del genere narrativo. Del doppio aspetto della funzione narrativa (giunzione e trasformazione) e degli enunciati che ne derivano (enunciato di stato ed enunciato di fare), il racconto genealogico conserva solo la congiunzione (nella figura dell’alleanza matrimoniale) e, di conseguenza, l’enunciato di stato. Inoltre, sotto forma del generare sessuato o della partenogenesi la genealogia presenta proprio un modo dell’enunciato di fare. C’è infatti trasformazione nell’apparizione di un nuovo essere, frutto dei processi della generazione e della nascita; ma il soggetto operatore di questa trasformazione ricopre, dal punto di vista degli attori che sussume, sia i genitori antropomorfi, sia una forza d’ordine fisiologico che fa diventare il nuovo essere indipendente dalle qualità dei suoi genitori (…). La procreazione permette dunque sul piano figurativo l’affermazione di

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nuovi stati senza che gli stati precedenti siano realmente messi in causa: la trasformazione si ha non per inversione dei contenuti, ma per accrescimento di questi. Inoltre, dal punto di vista attanziale, questo soggetto operatore che assume lungo tutto il corso del racconto la forma e la figura del processo di generazione rappresenta in effetti il destinatore dei sovrani che si succedono gli uni agli altri; un destinatore singolarmente neutro dal punto di vista delle modalità che lo definiscono; un destinatore che lascia ai soggetti (i re che egli manipola) carta bianca nelle loro azioni. Poiché, dal punto di vista narrativo, il racconto genealogico si compone essenzialmente di enunciati di stato e poiché questo tipo di enunciati consiste nell’attribuzione di una serie di qualità-predicati al soggetto semio-narrativo interessato, la nostra analisi sarà particolarmente attenta ai valori attribuiti a ciascuno degli attori che figurano nella genealogia; tanto più che i greci sono soliti trarre dai nomi propri degli attori una conferma delle qualità attribuite loro dagli enunciati di stato del racconto. 3. La genealogia spartiate e il suo sviluppo spaziale 3.1. Lelege e i lelegi: la generazione autoctona Come ad Atene, il primo re lacedemone è autoctono. Questa qualificazione primordiale ancora alla terra di Laconia un essere il cui nome, tuttavia, rinvia a una moltitudine di luoghi della Grecia, sia continentale, sia ionica (...). Oscillante fra l’autoctonia e il suo contrario, l’esteriorità territoriale, la dinastia lelege incarna in ogni caso l’alterità che permette l’affermazione dell’identità. Da qui la sua posizione primordiale, aborigena. Come tutti i racconti, la genealogia prende avvio da una situazione di mancanza, e la sola “azione” attribuita a re Lelege nel racconto genealogico spartiate è quella di attribuire ai suoi sudditi il proprio nome, nome che significa verosimilmente “l’indistinto”. Ma questa mancanza iniziale, per lo sradicamento autoctono e soprattutto per il processo di generazione, contiene essa stessa gli elementi dell’universo semantico che sta per essere affermato: modo di assumere e raffigurare, come nelle prime frasi della teogonia di Esiodo, la transizione da uno stato di indifferenziazione a una prima esistenza semanticamente marcata. E si noterà che, in modo significativo, due tradizioni parallele a quella di Pausania, danno a Lelege una moglie; la differenziazione non appare dunque nella partenogenesi, ma si costituisce subito nella dualità maschile/femminile. Incarnato nella figura di una naiade o di una ninfa, questo femmineo appartiene anche al dominio dell’esteriore e del non civilizzato. 3.2. Milete: lo spazio della cultura cerealicola Nella tradizione seguita da Pausania, Lelege finisce per diventare, attraverso il processo di generazione, causa di differenziazione. Il racconto genealogico attribuisce al primo sovrano di Sparta due figli e una figlia. Il primogenito, Milete, porta nel suo stesso nome la traccia dell’azione che la leggenda gli attribuisce: si ritiene che egli sia l’inventore del mulino (mulé) poiché è il primo uomo a macinare (alésai) del grano in un luogo detto Alesie, posto fra il sito della futura Sparta e il monte Taigeto.

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Grazie a questo doppio gioco etimologico, la genealogia non si accontenta di ritagliare un primo spazio nel territorio dei Lelegi ancora non definito: vi incolla anche uno dei tratti che costituiscono il fondamento stesso della rappresentazione greca della civilizzazione, il grano macinato, emblema dell’attività agricola e, più precisamente, della cultura cerealicola in opposizione alla caccia e alla pastorizia. Nessuno stupore dunque nel trovare in questo luogo, ove Milete getta la base materiale ed economica della civiltà spartiate, un santuario di Lacedemone, il sovrano che – vedremo – darà il suo nome al paese. Con gli altri figli di Lelege, il territorio lelege subisce, a partire dal punto centrale segnato dalla civiltà del grano macinato, alcune notevoli estensioni spaziali. Anzitutto dal lato della Messenia: Policaone, il figlio minore, non ha un posto istituzionale vicino a suo fratello, successore di Lelege. Si ritira dunque in esilio di là del Taigeto e sposa, nella futura Messenia, Messene, figlia di Triope d’Argo. Per assicurare la conquista del paese, al quale darà il proprio nome e prima di dare a esso la capitale Andania, Messene ricorre all’aiuto degli argivi da una parte e dei lacedemoni dall’altra. Una figura femminile assicura dunque l’identità e la definizione civica del territorio messenico, mentre un contingente di uomini interviene da Argo, per dare alla conquista una conferma militare, e da Sparta, per prendere le redini del potere politico. La coincidenza del femminile e del maschile da un lato, dell’ascendenza argiva e della sovranità spartiate dall’altra, sarà sottolineata dalla fondazione del santuario di Zeus sul monte Itome, al centro del territorio messenico, a opera di Messene l’argiva e di Policaone lo spartiate. Ricordiamo che, come Lelege, Triope è legato a numerosi movimenti migratori ed è capostipite di varie genealogie di monarchi: in particolare in Tessaglia, dove è associato ai Lapiti, o anche a Rodi e in Caria, dove compì il percorso inverso a quello dei Lelegi. Triope gioca un ruolo importante, anche se negativo, nell’istituzione del culto di Demetra; non è escluso che, attraverso la figlia, egli porti in Messenia i valori della cultura cerealicola, indispensabile allo sviluppo di questo territorio, bramato dagli spartiati proprio per la sua ricca agricoltura. In seguito, attraverso la mediazione del racconto genealogico, la futura Sparta si sviluppa, di là dal suo centro agricolo fondato da Milete, re mugnaio, anche verso est: il centro di Terapne deve, infatti, il proprio nome a quello della figlia di Lelege. Certo non è un caso se la leggenda fa apparire all’inizio della genealogia di Sparta il probabile luogo di residenza, o in ogni caso il luogo di culto, dei sovrani “micenei”: Menelao, Elena e i Dioscuri, i gemelli suoi fratelli. Questo non significa che il racconto genealogico, che, si vedrà, risale all’inizio dell’epoca classica, mantenga intatto il ricordo di avvenimenti che risalgono al XIII sec. a.C., ma a Sparta, come in molte altre città greche, vi è un sito miceneo che, a partire dall’epoca arcaica, serve come riferimento al culto reso agli eroici protagonisti della guerra di Troia. I dati archeologici indicano che il sito di Sparta non è stato probabilmente occupato prima del periodo protogeometrico (a partire dal X sec. a.C.), ma in compenso Terapne è, assieme ad Amicle, il più ricco sito miceneo della regione. La stessa assenza di insediamenti a Sparta prima del protogeometrico prova la vacuità di qualsiasi utilizzazione del racconto genealogico come documento storico della prima Sparta. D’altra parte, una rappresentazione genealogica risalente al periodo classico non avrebbe potuto non collocare, in rappor-

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to al centro, un luogo di culto leggendario, a quell’epoca di primaria importanza. Come vedremo più avanti (§ 4), il racconto genealogico rifà la storia secondo la prospettiva della situazione politica di Sparta agli inizi del V sec. a.C. 3.3. Eurota: l’estensione dello spazio coltivato Torniamo al centro e alla discendenza agnatizia diretta di Milete, iniziatore della cultura cerealicola a Sparta. Successore di Milete è suo figlio, Eurota. La tradizione genealogica attribuisce a questo terzo re di Sparta il risanamento della piana della Laconia: il canale, tracciato in questa occasione per permettere alle acque stagnanti di fluire verso il mare, diverrà il fiume che porterà il suo nome. Un testo tardivo aggiunge che il drenaggio della futura valle dell’Eurota ha luogo dopo il diluvio; dal punto di vista della cronologia leggendaria, la citazione di un evento ripreso dalla leggenda tessala di Deucalione dovrebbe collocare la bonifica prima dell’apparizione del primo uomo, cioè, nella cronologia spartiate, prima dell’avvento di Lelege, legato egli stesso all’epoca del diluvio. La datazione dell’intervento civilizzatore non presenta una coerenza cronologica perfetta, ma s’inserisce armoniosamente nella serie di azioni culturali dei primi sovrani della Grecia leggendaria. In ogni caso, la bonifica voluta da Eurota rappresenta un secondo allargamento dello spazio lacedemone, coincidente con un’estensione della civilizzazione: non soltanto Alesie, ma tutta la piana dell’Eurota diviene adatta all’agricoltura. L’Eurota sarà d’ora in poi il fiume della civilizzazione. (…) 3.4. Lacedemone e Sparte: il centro civico Eurota, che non ha discendenti maschi, ci mette di fronte a una stasi del processo di legittimazione agnatizia. Egli darà allora sua figlia Sparte in moglie a uno degli altri grandi eroi fondatori della Laconia: Lacedemone, figlio di Zeus e della ninfa Taigeta. Indipendentemente dalle ragioni della sostituzione della linea uterina al lignaggio agnatizio, registriamo una riorganizzazione dello spazio laconiano. Anzitutto per la determinazione di un centro politico e per l’inclusione di questo centro in un territorio ben delimitato. L’inclusione è rappresentata figurativamente come una chiusura del femminile nel maschile: Sparte è “abbracciata” da Lacedemone. Il figlio di Zeus e Taigeta comincia difatti dando al paese e ai suoi abitanti il proprio nome; successivamente fonda una città cui dà il nome della moglie. Il paese di Lacedemone, la Lacedemonia, possiede ora la sua capitale, una capitale fondata da un uomo, e non da una donna, come nel caso di Andania, in Messenia. Con questa definizione toponimica, la genealogia, non solo costruisce una storia, ma tende anche a razionalizzare un uso linguistico alquanto fluttuante; per gli antichi come per i moderni, Sparta designa solo la città dallo stesso nome, mentre Lacedemonia rinvia sia alla città, sia alla regione di cui è capitale e ricopre così il senso del termine geografico di Laconia. Dando una coerenza a una denominazione il cui uso è vago già in Omero, il racconto genealogico toglie agli abitanti del paese il nome aborigeno e assegna loro un’identità definitiva, di ordine politico: gli abitanti della piana dell’Eurota non sono più Lelegi balbuzienti, bensì dei Lacedemoni, ossia uomini liberi che hanno il diritto di cittadinanza all’interno dello Stato della Lacedemonia; nell’antichità, la denominazione Lacedemoni rimanda sempre e molto ufficialmente a un’entità di ordine

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politico, non etnico. Gli atti fondatori dei predecessori di Lacedemone stesso sono percorsi da un’isotopia di ordine agricolo; quelli di Lacedemone definiscono un quadro civico. Proprio al civismo d’altra parte rimanda la parentela di Lacedemone con Zeus: il nuovo re di Sparta è figlio del re degli dei, il garante dell’ordine del mondo. La discendenza divina lo mette sullo stesso piano degli altri figli di Zeus, eroi civilizzatori, in genere, e/o fondatori di città. Minosse, fondatore e re di Cnosso, Arcade, eroe eponimo degli arcadi, Zete e Anfione, costruttori di Tebe, Epafo, creatore di numerose città, e se ne potrebbero citare ancora. (…) Lacedemone è inoltre autore di delimitazioni spaziali attuate attraverso i nomi. Rende omaggio alla moglie, che gli trasmette il potere politico dei Lelegi, dando il suo nome alla nuova capitale, e alla madre, la ninfa figlia di Atlante sedotta da Zeus, battezzando con il suo nome la più alta catena montuosa del paese. Alla delimitazione del territorio di Lacedemonia e del suo centro politico, Sparta, si aggiunge pertanto l’identificazione di un limite, o piuttosto del limite per eccellenza. La catena del Taigeto separa, infatti, nettamente la Laconia dalla Messenia, giacché le sue cime arrivano a più di 2.400 m. Il Taigeto non appare però come semplice limite topografico: coincidendo con la figura di una ninfa, riveste anche il valore della marginalità incarnato, in Grecia, non tanto nella figura della madre quanto in quella della ninfa. Uno dei pannelli scolpiti che ornano il famoso trono di Amicle, nelle vicinanze di Sparta, raffigura la giovane Taigeta rapita da Zeus; la ninfa è dunque una giovane ragazza costretta a subire la violenza del maschio, al di fuori della cornice legale del matrimonio. La leggenda aggiunge che la parthénos, perseguitata dalle insistenze del dio, beneficia dell’aiuto della vergine Artemide, che la trasforma in cerva. Questa metamorfosi iscrive doppiamente la ninfa nella giurisdizione della dea signora dell’extra-civilizzato: vergine e cerva, in un paesaggio montano e selvaggio, ella finisce con il divenirne l’incarnazione stessa. Già Pindaro citava la cerva dalle corna d’oro consacrata da Taigeta a Ortosia, l’Artemide di Sparta. Così, attraverso il proprio nome e la legittimità del potere regale che trasmette, la moglie di Lacedemone iscrive lo spazio che definisce il nuovo re di Sparta nel dominio del politico, mentre sua madre rappresenta, ai bordi di questo territorio civilizzato, il dominio liminale del selvaggio. Si noterà che altre versioni della leggenda di Eurota attribuiscono al re-fiume, oltre Sparte, altre figlie: la più significativa risale, se non a Pindaro, in ogni caso a Sosibio, uno storico spartiate dell’epoca ellenistica; la leggenda fa di Eurota il padre non di Sparte ma di Pitane: da qui il nome di una delle obaí, uno dei “quartieri” della Sparta classica: altro modo questo di iscrivere nella discendenza di Eurota il centro politico della Laconia. (…) 3.5. Amicla: espansione del territorio politico e del suo centro In una genealogia interamente patrilineare, la breve interruzione matrilineare, rappresentata dal matrimonio di Lacedemone con Sparte, unica erede del potere d’Eurota, porta dunque sia a definire un centro civico della Laconia e dell’origine divina del potere del re, sia a delimitare il dominio del selvaggio, regno di Artemide. L’ascesa al potere di Amicla, figlio di Lacedemone e di Sparte, segna il ritorno alla linea agnatizia; questo ritorno coincide con una complementare definizione del cen-

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tro civico. Amicla, infatti, fonda una città che prenderà il suo nome. L’archeologia ci dice che, come Terapne, Amicle, un borgo distante una decina di chilometri da Sparta, costituiva un centro importante in epoca micenea e che all’inizio dell’epoca arcaica era diventato il principale luogo di culto della città. Nel corso del sec. VIII, fu associata ai quattro obaí che formavano la città di Sparta; in questo modo essa fu integrata al centro politico. Così, dunque, se con Terapne, la figlia di Lelege, era anzitutto il luogo di culto reso agli eroi “omerici” a entrare nello spazio definito dal racconto genealogico, con Amicla, figlio di Lacedemone e Sparte, l’inclusione del centro miceneo si opera, sia sul piano politico, sia su quello del culto degli eroi: l’aspetto politico di questa inclusione narrativa è rappresentato nell’atto di fondazione di un pólisma. L’aspetto del culto, invece, s’incarna dal punto di vista narrativo nella figura di uno dei figli di Amicla, l’efebo Giacinto, atleta ucciso per errore da Apollo, e insieme a lui onorato in una delle maggiori feste della Sparta antica. Le Giacinzie, infatti, inserite nella celebrazione della fase finale dell’iniziazione dei giovani spartiati, ragazzi e ragazze, costituivano una festa che riuniva ad Amicle tutti i gruppi sociali della comunità civica. Prima di passare alla generazione successiva, dobbiamo ricordare Euridice, figlia di Lacedemone e Sparte, il cui matrimonio esogamico con Acrisio, re d’Argo, estese, per alleanza, lo spazio lacedemone dal lato dell’Argolide. Le indicazioni sulla portata delle pretese territoriali e politiche di Sparta date dall’iscrizione nella genealogia di un’alleanza matrimoniale con uno dei primi re d’Argo ricevono d’altronde a Sparta stessa un’eclatante conferma, sia sul piano dello spazio, sia su quello del culto. Al centro della città di Sparta sorgeva, infatti, un tempio a Era Argiva, protettrice d’Argo; il tempio era stato eretto – aggiunge la leggenda – proprio da Euridice, figlia di Lacedemone. Ma la natura stessa della relazione matrimoniale che raffigura e fonda le pretese spartiati sullo spazio argivo, conferisce alla rappresentazione di questa “annessione” un carattere molto differente da quella dell’annessione della Messenia. Nella prospettiva spartiate, l’unione matrimoniale di Policaone con Messene è uxorilocale ma patrilineare; quella di Euridice con Acrisio è virilocale, ma matrilineare. Vedremo che questa inversione nel carattere delle alleanze matrimoniali, configurante pretese territoriali, riflette una precisa situazione storica e politica nella relazione di Sparta con i suoi vicini e nell’organizzazione del territorio dell’intero Peloponneso. 3.6. I figli di Amicla: conferma del centro e apertura verso l’esterno Il leggendario fondatore d’Amicle non resta certo celibe. Secondo Apollodoro, convola a giuste nozze con Diomeda che, attraverso suo padre Lapite, fondatore della famiglia dei Lapiti, lega la dinastia dei re di Sparta alla genealogia tessalica. La lapita Diomeda assicura ad Amicla una numerosa discendenza maschile, ma la quantità sembra avere come corollario una certa mancanza di carattere. Abbiamo già citato Giacinto, senza dubbio il più originale dei tre figli; con lui si completa sul piano cultuale l’inclusione di Amicle nella città di Sparta. Egli, però, non è il primogenito e, alla morte di Amicla, il potere passa ad Argalo. Sebbene muoia giovane, Argalo, ha anch’egli un figlio dal quale discenderanno prima Agenore, poi Patreo, eroi eponimi e fondatori di Patrasso, in Acaia. I re di origine spartiate che il racconto genealogico colloca nel paese degli achei diffondono praticamente in tutto il Peloponneso

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la rappresentazione clanica dell’impresa spaziale dei Lacedemoni. Ma la genealogia ufficiale di Sparta sembra dimenticare molto velocemente Argalo e mette sul trono di Lacedemone Cinorta, secondo figlio di Amicla. Di questo re, dall’esistenza ugualmente effimera, si conosce solamente la tomba che gli spartiati gli avevano eretto e che, ancora al tempo di Pausania, si ergeva al centro della città, di fianco al monumento funebre dedicato a Castore, il Tindaride. Si noterà tuttavia che il nome di Argalo e, parimenti, quello di Cinorta sono associati ai differenti nomi attribuiti agli obaí, i “villaggi” che formavano la città di Sparta; come il padre, i figli di Amicla assumono dunque la qualità di eroi eponimi degli elementi spaziali e politici costitutivi del centro civico. 3.7. Ebalo: la riaffermazione del triangolo Argo-Sparta-Messenia Con la discendenza di Cinorta, il racconto genealogico, dopo aver rappresentato attraverso le alleanze concluse il processo di sviluppo e di definizione semantica di un territorio, va in qualche modo a “dinamizzare” questa prima costruzione. La dinamizzazione, all’interno dello spazio ormai delimitato, inizia con il matrimonio di Ebalo, figlio di Cinorta, con Gorgofone, figlia di Perseo, ossia attraverso il matrimonio del re di Sparta con la propria nipote incrociata. In questo matrimonio non è forse tanto importante l’alleanza con una rappresentante della linea collaterale quanto, nel quadro di riavvicinamento tra Sparta e Argo, l’unione di una donna che è già stata sposata e con figli di primo letto. Secondo Pausania, infatti, Gorgofone aveva sposato in prime nozze Periere, figlio di Eolo; il doppio matrimonio farebbe dunque di Gorgofone la prima donna sposata due volte. Ma questa doppia alleanza ha conseguenze spaziali molto rilevanti. La leggenda racconta, infatti, che alla quinta generazione la discendenza di Policaone, primo re di Messenia, si esaurì. A proporsi di riprendere il trono di Messenia è proprio Periere il Tessalico. Dopo essere stata fondata una prima volta – come si ricorderà – dall’argiva Messene, con l’aiuto del marito Policaone, spartiate e lelego, la Messenia è oggetto quindi di un secondo atto di fondazione, grazie all’intervento di Periere il Tessalico che sposa in prime nozze ancora un’argiva, Gorgofone. Sia la qualità del padre di Periere, Eolo, sia quella dei figli stessi provano che questa ripresa di potere corrisponde a un nuovo atto fondatore. Eolo non è solo l’avo degli Eoli in una funzione di fondatore di un popolo che, come noto, assicura la sua discendenza da Deucalione ed Elleno, l’eroe che ha lasciato il suo nome ai greci-elleni, ma è anche il padre di sette figli ognuno dei quali sarà fondatore di una città-Stato (…). L’instaurazione di Periere sul trono di Messenia e il suo matrimonio con l’argiva figlia di Perseo, mira in definitiva a eliminare, con un atto fondatore, il potere spartiate. Vedremo che il secondo matrimonio di Gorgofone con lo spartiate Ebalo sarà indirettamente all’origine, attraverso cugini incrociati, sia di un nuovo riavvicinamento tra i due paesi, sia della relazione polemica destinata a opporli. (…) Ci sono alcuni indizi che permettono di vedere nella figura di Ebalo quella di un fondatore, analoga alla sua controparte messena, Periere. Gli spartiati avevano, infatti, costruito un heròon al nipote di Amicla, legato dalla sua posizione topografica al santuario di Poseidone Genéthlios, il guardiano dei géne vale a dire delle grandi famiglie claniche costituenti il primo nucleo di cittadini spartiati. (…) Ecco,

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dunque, contrapposti, Periere, secondo fondatore eolo della Messenia, ed Ebalo, iniziatore di una nuova dinastia dopo il ricentramento religioso e politico di Sparta, impersonato, come detto, dalla figura di Amicla. 3.8. I figli di Gorgofone: “déviances” e polemiche I figli dati da Gorgofone, la figlia di Perseo, prima a Periere, poi a Ebalo, proseguono all’inizio l’opera fondatrice del loro padre rispettivo. 3.8.1. Il ramo della Messenia Periere ha dunque due figli. Il maggiore, Afareo, si affretta a dare alla Messenia una nuova capitale. Il vecchio capoluogo, Andania, ancora abitato da Periere, continuerà a costituire il centro di uno dei culti misterici più importante della Grecia, dopo Eleusi. D’altra parte, Afareo sposa Arene, la figlia dello spartiate Ebalo; e come Policaone aveva scelto per denominare la Messenia il nome di Messene, sua moglie, così egli dà alla città che ha appena fondato il nome della sua giovane sposa. I legami della Messenia con Sparta sono dunque di nuovo stretti nell’alleanza matrimoniale, ma, dal punto di vista spartiate, mediante una donna e non più un uomo, come nella seconda generazione del racconto genealogico, con Policaone. Inoltre, se Gorgofone era la prima donna a sposarsi due volte, Arene e Afareo hanno la stessa madre: la loro alleanza rappresenta dunque un secondo strappo alla norma del matrimonio unico ed esogamico. Del resto Afareo riceve anche ad Arene di Messenia il cugino di secondo grado Neleo, come lui nipote di Eolo. Egli procede allora a una divisione del regno e attribuisce al cugino parallelo di secondo grado, cacciato da Iolco da suo fratello gemello Pelia, la parte occidentale e marittima della Messenia di cui Pilo diventa la capitale. (…) A questa divisione territoriale, che afferma una seconda volta i legami eoli e non spartiati della Messenia, si aggiunge l’accoglienza che Afareo riserva alla figura che rappresenta il corrispondente ateniese di Neleo: Lico, figlio di Pandione, cacciato da Atene dal fratello Egeo. Lico, s’impegnerà nella riattivazione dei misteri di Andania, sul modello di quelli di Eleusi. Il territorio della Messenia, dopo un tentativo di controllo spartiate, si apre dunque di nuovo verso nord, dal lato della Tessaglia e dell’Attica. 3.8.2. Il ramo spartiate Dal lato spartiate della discendenza di Gorgofone, si assiste alla stessa concomitanza contraddittoria dell’opera di rifondazione della città e di relazioni anormali e polemiche tra i rappresentanti del potere politico. La figlia di Perseo dà a Ebalo tre figli che entrano in conflitto non appena si pone il problema della successione. Tindareo, erede legittimo poiché figlio maggiore, riprende il potere del padre; ma Ippocoonte, con il pretesto di essere anche lui tale, si unisce a Icario, il più piccolo, per contestare la legittimità del potere di Tindareo che è costretto ad abbandonare il trono di Sparta ai fratelli. (…) 3.9. I Tindaridi: la polemica centripeta La riconquista del potere a partire dai confini del territorio laconico implica lo scontro tra i figli di Tindareo e quelli di Ippocoonte. Questa sequenza narrativa della

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genealogia ci costringe a un’anticipazione, per soffermarci un momento sulla generazione successiva a quella di Tindareo: anticipazione tanto più necessaria poiché se la tradizione attribuisce a Ippocoonte dodici, a volte venti, figli, d’altra parte essa riveste i figli di Tindareo con la figura prestigiosa dei Dioscuri. Certo, agli Ippocoontidi non sono mancati gli onori del culto a Sparta, ma che dire dei Dioscuri, divenuti l’incarnazione divina del néos, del giovane atleta che, dopo l’iniziazione, accede allo statuto di cittadino-soldato? Ci si concentrerà qui sull’aspetto genealogico delle molteplici qualità attribuite ai Tindaridi e alla rappresentazione spaziale che ne deriva. Castore e Polluce sono, dunque, figli di Tindareo e Leda, figlia di Testio l’Etolo presso il quale il re di Sparta si era rifugiato in seguito al colpo di mano del fratello Ippocoonte. Ma i Dioscuri, Diòs kouroi, secondo la tradizione più antica che presenta insieme questi eroi gemelli sia nella loro discendenza umana sia divina, sono per definizione anche figli di Zeus. Questa doppia filiazione ci riporta nuovamente, come per Lacedemone, alla responsabilità di Zeus nella riconquista del potere; gli artefici ne sono, infatti, i Dioscuri in virtù del sostegno dato a Tindareo, loro padre terreno. La riaffermazione del potere legittimo a Sparta assume parimenti una forma spaziale, poiché l’intervento dei Dioscuri ha inizio dai confini del territorio spartiate, dove l’esilio ha relegato il padre. Quando la loro paternità è attribuita a Zeus, i Dioscuri nascono sul monte Taigeto. E quando la leggenda li fa figli di Tindareo, essi nascono a Pefno, piccola isola posta sulla frontiera fra Messenia e Laconia. Da qui, Ermes li trasporta a Pellene, un altro territorio di frontiera. Infine, il testo genealogico sul quale si fonda la presente analisi pone la nascita dei Dioscuri a Talame, villaggio della Laconia non lontano da Pefno. Le differenti versioni della leggenda dell’esilio di Tindareo e della nascita dei Dioscuri imprimono dunque alla costruzione genealogica spartiate un movimento centrifugo fin qui non rilevato. Ma questo movimento dal centro verso i margini del territorio mira – si è già detto – solo a meglio preparare un nuovo investimento del centro. Precisamente, a questo primo movimento di scarto dal centro, corrisponde, nelle strutture semio-narrative sottese al racconto genealogico, un brusco cambiamento. La genealogia spartiate si è presentata fino a questo punto come una somma di enunciati di stato. Sotto forma di alleanze coniugali, questi enunciati hanno progressivamente definito sia i limiti del territorio spartiate, sia le sue aperture all’esterno, delimitando così lo spazio di un buon vicinato. Nata all’interno, al centro stesso di questo spazio, l’improvvisa rivalità tra i figli di Ebalo introduce una relazione polemica che si traduce narrativamente nell’apparizione di un anti-soggetto e in un enunciato del fare (“Ippocoonte caccia Tindareo”). Spazialmente, l’irruzione del confronto nel racconto si traduce con il movimento centrifugo appena descritto. 3.9.1. Il combattimento contro gli Ippocoontidi La situazione di mancanza creata dall’esilio ingiusto di Tindareo sarà rovesciata dall’intervento dei Tindaridi contro i figli di Ippocoonte: l’equilibrio narrativo rotto dalla relazione polemica deve essere ristabilito. Senza entrare nei dettagli di un racconto che ci condurrebbe molto al di là delle frontiere della Laconia, bisogna tuttavia osservare che la leggenda fa pesare il ritorno all’equilibrio sulle spalle di Eracle.

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È infatti al famoso civilizzatore, figlio di Zeus e della Alcmena di Micene, che la genealogia, divenuta narrazione, attribuisce il ritorno di Tindareo sul trono di Sparta. La tradizione leggendaria non lascia sussistere alcun dubbio circa il ruolo di questo destinatore arbitrante il confronto tra il soggetto rappresentato da Tindareo e l’antisoggetto incarnato in Ippocoonte. La reintegrazione dell’ordine e della legittimità a Sparta s’iscrive in una serie di interventi di Eracle nelle differenti città del Peloponneso: il combattimento dell’eroe a fianco dei Tindaridi per riconquistare il potere usurpato da Ippocoonte, e difeso dai suoi figli, è infatti motivato, narrativamente, dall’aiuto apportato da questi ultimi a Neleo. Neleo e i suoi figli avevano infatti osato opporsi all’intervento di Eracle a Pilo e l’eroe risparmierà nella lotta contro i Neleidi solo Nestore, il futuro re della città che parteciperà alla guerra di Troia. Tralasciando vari dettagli dell’azione di Eracle indicati dal racconto leggendario, ci limitiamo a sottolineare che nel VII sec. a.C., Alcmane aveva già messo in bocca a uno dei cori di giovanette per i quali egli componeva dei Parteni il mito delle lotte di Eracle contro gli Ippocoontidi. Poiché egli fa di questi ultimi i rivali in amore dei Dioscuri, il problema della successione politica sul trono di Sparta si combina dunque di nuovo con la questione dell’alleanza matrimoniale: come nelle tappe precedenti del racconto genealogico, la presa di possesso d’uno spazio politico è connessa all’impianto e all’integrazione della femminilità. 3.9.2. La lotta contro gli Afaretidi La relazione polemica non s’istaura solo all’interno. Essa diventa anche il nuovo modo di affermare un potere all’esterno del territorio delimitato dal racconto genealogico. La lotta condotta da Eracle e i Tindaridi contro gli Ippocoontidi ci ha dunque fatto passare dalla generazione del padre a quella dei figli, anche se il suo esito ristabilisce il potere di Tindareo, il padre. Dopo i figli di Ippocoonte, secondo la leggenda, i Dioscuri, in un episodio che non è integrato – occorre riconoscerlo – nel testo genealogico, devono affrontare i figli di Afareo, erede del trono di Messenia. In breve, si ricorderà semplicemente che oltre ad Afareo, la tradizione leggendaria attribuisce a Periere un secondo figlio di nome Leucippo. Il primo, dal suo matrimonio con Arena, figlia di Ebalo lo Spartiate, ha due figli, Ida e Linceo; il secondo è padre di due figlie, Ilera e Febe meglio conosciute come le Leucippidi. Le figlie di Leucippo, ancora ragazze, finiscono col trovarsi al centro della rivalità amorosa fra Castore e Polluce, figli di Tindareo lo Spartiate (loro cugini incrociati), e Ida e Linceo, figli di Afareo di Messene (loro cugini paralleli). La leggenda, che risale al poema epico dei Cypria e alla quale fa allusione Pindaro, presenta più versioni. Nonostante le inevitabili variazioni che esse presentano, ciascuna verte sull’infrazione di regole sociali: tentativo di matrimonio endogamico (gli Afaretidi stanno per sposare le Leucippidi, loro cugine parallele), sovversione delle regole dell’ospitalità (i figli di Afareo, ospiti dei Tindaridi, si prendono gioco di questi ultimi); azione di ratto senza rispetto della regola del dono compensatorio (secondo gli Afaretidi, le Leucippidi sono portate via dai figli di Tindareo senza dare una dote al padre delle ragazze), rapina d’ordine economico (i Dioscuri rubano agli Afaretidi i buoi da lavoro), infrazione delle regole della lotta oplitica (i figli di Afareo attaccano Polluce lanciandogli una pietra presa dalla tomba del padre), morte nell’abbandono (gli Afaretidi muoiono soli – éremoi –, dice Pindaro).

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Ma nella varia articolazione dell’intreccio, al centro della leggenda si ritrova sempre l’unione coniugale delle Leucippidi con i Dioscuri. Ancora una volta, il controllo politico di Sparta sulla Messenia è dunque presentato attraverso l’alleanza matrimoniale. Con il matrimonio tra le figlie di Leucippo e i figli di Tindareo e con la scomparsa fisica dei loro pretendenti messeni, i figli di Afareo, la leggenda toglie alla famiglia di Periere ogni discendenza maschile e dunque ogni pretesa al trono di Messenia. Ancora una volta, come nel caso dell’avvento di Periere, il trono di Messenia si trova senza eredi legittimi; ora, però, l’interruzione della linea di legittimità in Messenia deriva da fatti di guerra o, più precisamente, da atti violenti e devianti, caratteristici, nella rappresentazione greca delle classi d’età, dell’attività del neo-iniziato in procinto di diventare cittadino-soldato. Rovesciando le regole del comportamento adulto, secondo l’immagine che i greci si fanno dell’adolescenza, questi atti arrivano ad assimilare i figli di Afareo a mostri selvaggi che condividono la natura primordiale e violenta dei Titani. Sul piano narrativo, ne consegue non più il controllo di Sparta sulla Messenia attraverso alleanze coniugali, ma la totale sottomissione di quest’ultima mediante una lotta agonale, che assume gli aspetti devianti della primordialità. (…) 3.9.3. Elena e la sua eredità La reistituzionalizzazione del potere a Sparta, cominciata da Tindareo, prosegue dunque narrativamente sui toni della polemica. In gioco è la riaffermazione del potere monarchico, come ben dimostra il duplice intervento di Zeus, già presente all’epoca della prima delimitazione del centro politico della Laconia attuata da Lacedemone. Zeus, padre divino dei Dioscuri, interviene infatti a fianco di Polluce per abbattere Ida con un fulmine, come aveva fatto con i Titani suoi rivali nella Titanomachia; Zeus è anche il padre divino di Elena, erede al trono di Sparta dopo la scomparsa dei fratelli: Castore, il mortale, è stato ucciso durante un combattimento con gli Afaretidi, mentre l’altro, Polluce, protetto dal padre Zeus, è reso immortale. Il vecchio Tindareo si rivolge dunque allo sposo di Elena, Menelao, per affidare a lui il trono di Sparta. (…) 3.10. Ermione e Oreste: l’aporia dell’endogamia Lo scambio coniugale tra Sparta e Argo assume una forma ulteriore nella generazione successiva, quando Ermione, figlia unica di Menelao e di Elena, sposa Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra. In questo modo Oreste diviene erede sia del potere argivo sia di quello spartiate; ma questa concentrazione, che corrisponde all’unione di cugini doppiamente paralleli, è per definizione condannata al fallimento. Dal punto di vista spartiate, infatti, questa doppia alleanza endogamica mette fine ad ogni legittimità patrilineare e virilocale centrata su Sparta; essa scompiglia tutte le categorie definite dai lignaggi che, fino ad allora, avevano associato la legittimità politica alla continuità familiare. La leggenda fa del resto morire Oreste non a Sparta, ma in Arcadia. 3.11. Gli Eraclidi: lo stabilirsi definitivo del potere a Sparta Come abbiamo visto, la seconda operazione istituzionale messa in atto nel racconto genealogico aveva avuto l’effetto di affermare attraverso il matrimonio di

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Sparte e Lacedemone l’aspetto politico di un centro spaziale. Al contrario, la terza assume lo svolgimento narrativo della polemica e la figura semantica della lotta guerriera ed è, per quanto riguarda Sparta, fondamentalmente negativa. La stessa Elena, erede del trono dopo la sparizione dei fratelli, i Dioscuri, fugge a Troia. Inoltre, dalla trasmissione del potere per filiazione matrilineare e uxorilocale non deriva alcun ricentramento del potere, come era invece avvenuto nel caso di Sparta. Non è sorprendente, dunque, che Tisameno, unico figlio dei cugini Oreste ed Ermione, non arrivi a ristabilire la situazione. La sua eredità deviante non fa che preparare il ritorno degli Eraclidi e la loro instaurazione sul trono di Sparta e nelle altre regioni del Peloponneso, che in seguito dipenderanno dal loro potere. Conseguenza di questo intervento bellicoso è una nuova divisione del Peloponneso, che ripete la divisione originale del racconto genealogico spartiate e l’installazione di dinastie definitive: a Temeno l’Argolide; a Cresfonte la Messenia; e ai due figli di Aristodemo, il terzo fratello, la Laconia. Euristene e Procle saranno così gli iniziatori della duplice monarchia spartiate, con la doppia dinastia degli Agiadi e degli Euripontidi. Del resto la leggenda sembra iscrivere subito la supremazia di Sparta nel racconto dell’intervento degli Eraclidi. È, infatti, solo attraverso un inganno che Cresfonte riesce a ottenere la Messenia; la legittimità del suo potere è dunque messa in causa fin dall’inizio. D’altra parte Erodoto stesso afferma che i Lacedemoni facevano nascere i due gemelli iniziatori della loro doppia dinastia regia da un’unione di Aristodemo con una donna di nome Argia. Attraverso la via coniugale, aggiunge lo storico di Alicarnasso, le dinastie eraclidee non solo risalgono a Eracle, ma possono anche richiamarsi, dal lato argivo, a Perseo e a suo nonno Acrisio. Lo stabilirsi del potere eraclideo nel Peloponneso marca dunque un nuovo inizio, pur riprendendo e riaffermando lo schema spaziale che si era configurato nelle prime tappe del racconto genealogico. 4. Nascita di una genealogia. Il contesto storico Considerato come rappresentazione di uno spazio, il racconto genealogico spartiate pone varie domande di ordine storico. Ho affermato che preferivo lasciare ad altri lo spinoso problema di un’eventuale corrispondenza tra le azioni e gli attori messi in scena dalla genealogia e ipotetici avvenimenti storici “agiti” da protagonisti “reali”. Senza rifiutare una simile possibilità, è bene ricordare che l’archeologia permette almeno di mostrare che Sparta era materialmente inesistente al momento in cui, verso il XV secolo a.C., una cronologia relativa indurrebbe a collocare l’intervento di Lelege e dei suoi discendenti! Quanto a Terapne e Amicle, siti micenei molto attivi nel XIII sec. a.C., si è visto come l’istituzione dei culti eroici nel corso del VIII sec a.C. abbia attribuito loro una funzione nuova: marginale in rapporto al ruolo civico che comincia ad assumere Sparta, ma essenziale per l’ideologia fondatrice della città arcaica e delle pratiche rituali che la materializzano. Lo scarto che il racconto genealogico ha scavato tra la propria messa in scena e una qualunque “realtà” storica è dunque tale da scoraggiare ogni tentativo di riconoscere nella prima il riflesso, anche deforme, della seconda. D’altra parte è legittimo domandarsi se la leggenda, in quanto rappresentazione, e in particolare in quanto rappresentazione d’ordine ideologico, non corrisponda

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alla “narrativizzazione” di uno stato preciso della ripartizione politica del territorio in una situazione storica data. Questa situazione coinciderebbe dunque con il momento della formazione del racconto genealogico, i cui elementi rinvierebbero alla sua situazione d’enunciazione. (…) Ultima osservazione: se si vuole evitare di cadere in un cerchio ermeneutico, maneggiare con precauzione la corrispondenza tra l’immagine spaziale definitiva offerta dalla genealogia e il momento storico in cui il territorio conosce effettivamente una ripartizione analoga. Dal lato del racconto genealogico dunque, affermato ad ogni momento di reistituzionalizzazione e confermato dalla ripartizione del Peloponneso tra gli Eraclidi, si trova il triangolo Argo-Sparta-Messenia, con Sparta come vertice. Questa immagine ha potuto prendere corpo solo dopo la sottomissione definitiva della Messenia durante il VII sec. (…) La politica di espansione di Sparta verso l’Argolide, che prende la figura ideologica dell’annessione della genealogia achea per iscriverla nella genealogia aborigena, ha lasciato numerose tracce, in particolare in Erodoto. In pieno sec. V lo storico, infatti, si fa eco dei tentativi degli spartiati per ottenere, dalla metà del sec. VI, l’egemonia nel Peloponneso e dei loro sforzi per giustificarli dalla pretesa ascendenza achea dei loro sovrani. Si può in conseguenza immaginare che il racconto genealogico analizzato ha trovato la sua forma canonica e di conseguenza il suo quadro enunciativo nel periodo di consolidamento dell’egemonia spartiate sulla maggior parte del Peloponneso, durante la seconda metà del VI secolo e il primo quarto del V. 5. La genealogia narrativa come processo simbolico Come è stato ripetutamente affermato, la funzione ideologica della genealogia spartiate è di rappresentare all’interno di precise condizioni storiche di espansione della città, non solo uno spazio nei suoi limiti politici e nei suoi valori sociali, ma anche la maniera in cui questa situazione spaziale si è, poco a poco, costituita. Ma perché la forma genealogica? 5.1. L’ideologia indoeuropea delle tre funzioni In primo luogo, probabilmente, perché la forma genealogica permette attraverso il processo narrativo di crescita sopra descritto (§ 2) di proiettare uno sviluppo lineare (diacronico) su una rappresentazione statica (sincronica). Posto che la genealogia spartiate assuma la funzione ideologica che gli è stata assegnata, ci si può domandare ad esempio se essa non sia marcata dallo stampo dell’ideologia delle tre funzioni indoeuropee. Risposte in questo senso sono già state tentate, non senza successo, per quanto riguarda la doppia monarchia spartiate (raddoppiamento della prima funzione) e meno felicemente per la ripartizione tripartita del Peloponneso tra gli Eraclidi. Se l’intervento dei discendenti di Eracle rappresenta per il racconto genealogico qui analizzato il punto di arrivo, perché il suo svolgimento fino a questa nuova partenza non porta ugualmente l’impronta dell’ideologia delle tre funzioni? L’impronta trifunzionale è sicuramente visibile (…) nell’atto di costituzione dello spazio messenico: marca del potere religioso e politico nell’istituzione del

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culto di Zeus, voluto da Messene e Policaone, primi sovrani di Messenia; intervento della funzione guerriera grazie all’appoggio dei soldati spartiati e argivi nel processo di occupazione del territorio della futura Messenia; allusione probabile all’attività di produzione agricola nel conflitto che oppone il padre di Messene a Demetra Triopate. L’impronta è anche verosimilmente presente nel processo di costituzione di Sparta e della Laconia così come è presentato nel racconto genealogico. Il calco dell’ideologia delle tre funzioni si manifesta qui colla ripartizione delle dieci generazioni regie precedenti l’intervento degli Eraclidi in tre gruppi che si succedono nella temporalità narrativa della genealogia. Da Lelege a Eurota passando per Milete, l’isotopia che attraversa gli atti fondatori di questi sovrani articola prima di tutto i valori legati alla terra e alla cultura cerealicola: il racconto comincia dunque per attualizzare la funzione di produzione. Da Sparte e dal suo sposo Lacedemone, figlio di Zeus, continuando con Amicle, il fondatore di Amiclea, poi suo figlio Giacinto, all’origine delle feste amiclee celebrate in onore di Apollo, è chiaramente la funzione politica e religiosa che prende corpo. Ebalo assume in seguito – lo abbiamo visto – una posizione di intermediario tra norma e devianza, tra stasi narrativa e racconto polemico, ed è anche intermediario tra l’affermazione del triangolo spaziale d’origine e la sua contestazione. Questa mancata reinstituzionalizzazione caratterizzerà le tre generazioni successive (Tindareo, Dioscuri ed Elena, Ermione e Oreste): le lotte agonali e guerriere di cui questi eroi sono i protagonisti attualizzano la funzione militare. Così, grazie alla forma genealogica, diacronia e sincronia vengono a coincidere in una probabile manifestazione dell’ideologia indoeuropea delle tre funzioni. 5.2. La messa in prospettiva enunciativa Ma di là del calco indoeuropeo e della coincidenza tra struttura statica o lineare e schema genetico, il racconto genealogico permette soprattutto di dare forma al passaggio da un grado zero a uno stato differenziato, ossia è capace di sostituire temporaneamente le regole della narrazione tradizionale che presuppone sempre la dualità nell’opposizione attanziale tra un soggetto e un antisoggetto o, se si accetta l’esistenza del livello della sintassi e della semantica fondamentali, le relazioni di contrarietà e di contraddizione che articola il quadrato semiotico della teoria greimasiana. Da questo punto di vista, lo svolgimento del racconto genealogico spartiate è perfettamente significativo, in particolare nella manifestazione spaziale: nelle prime due fasi del suo sviluppo (delimitazione territoriale che assicura il fondamento economico della Laconia, delimitazione del centro politico e dei confini del suo territorio), il testo utilizza pienamente le possibilità narrative specifiche della genealogia con gli attributi di qualità originali che costituiscono, grazie alla mediazione di enunciati di stato, ogni nuova nascita e ogni congiunzione matrimoniale. Il territorio che si costituisce nella genealogia aumenta sia spazialmente, sia qualitativamente, senza rovesciamenti essenziali, con la figura dei differenti attori posti in essere da ogni nuovo enunciato di stato. Tutto accade, insomma, come se l’attore costante che assicura l’unità della narrazione nel racconto tradizionale fosse sostituito qui dallo spazio. È proprio l’unità territoriale che assicura, infatti, la coerenza narrativa del racconto genealogico, indipendentemente

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dalla successione degli attori. Inoltre, la generazione del territorio e dei suoi rappresentanti a partire da un unico essere autoctono permette di mettere in prospettiva la genealogia e di istituire definitivamente Sparta come il centro della sua focalizzazione. La posizione di Lelege rinvia così a quella dell’enunciatore del racconto genealogico. Ma quando il centro, il suo territorio e i suoi limiti sono definiti nel triangolo Argo-Sparta-Messenia, si accende il confronto: appaiono allora, dal doppio matrimonio dell’argiva Gorgofone, le tensioni fra i tre poli. Attraverso le alleanze matrimoniali, fino a questo stadio semplici coperture degli enunciati di stato attualizzati, la genealogia si “narrativizza” e diventa il luogo di un fare polemico. Il matrimonio di Ermione e di Oreste sembra il solo modo per ristabilire l’equilibrio narrativo, attraverso il potere unico che questa unione istituisce sulle parti contrapposte, ma è solo un’apparenza, poiché l’alleanza col suo carattere doppiamente endogamico contiene le ragioni stesse della sua inanità. Ne consegue il ritorno degli Eraclidi e la riaffermazione della figura spaziale a cui avevano già condotto le prime due fasi del processo genealogico. Questo movimento di dinamizzazione del racconto genealogico è sostenuto da una sottile orchestrazione di contrappunto strutturale che organizza fra loro le differenti sequenze narrative portatrici dell’azione. In un primo tempo, la fase di definizione del territorio economico della Laconia, che ingloba le prime tre generazioni, appare come una prefigurazione dell’integrazione dei differenti elementi che provoca il legame di Lacedemone con Sparta. Questa prima fase del racconto rappresenta il mito del mito: è un po’ il mito di fondazione della storia leggendaria che inizia con l’ascesa al trono di Lacedemone. Ma è soprattutto nel momento in cui, dalla settima generazione, il racconto si dinamizza, che le variazioni e le risposte ritmiche su uno stesso tema diventano percettibili. Per prima cosa, il doppio matrimonio di Gorgofone segna, attraverso la duplice congiunzione che implica, sia un legame, sia una separazione fra la Messenia e la Laconia; il legame grazie alla continuità femminile che Gorgofone assicura fra i due paesi; la separazione poiché il primo matrimonio dell’eroina argiva con Periere l’Eolide mette fine alle pretese di legittimità familiare che gli spartiati potevano avanzare in virtù della discendenza lelege e laconica di Policaone e dei suoi successori. Con l’ottava generazione la scissione compare all’interno di ciascuna delle due regioni disgiunte nella settima: divisione della Messenia per opera di Afareo in una parte di cui mantiene il controllo e in un territorio posto sotto l’autorità di Neleo a Pilo; lotta intestina in Laconia fra Tindareo e il fratello Ippocoonte. Alla nona generazione assistiamo al mescolamento incrociato delle diverse fazioni createsi nella generazione precedente: la parte neleide della Messenia si trova a fianco del partito spartiate d’Ippocoonte l’usurpatore contro i Dioscuri il cui padre, Tindareo, aveva trovato rifugio presso Afareo, in Messenia. In questo scontro la sola a sopravvivere sarà Elena: il suo matrimonio con Menelao, tentativo d’alleanza con un rappresentante del terzo vertice del triangolo spaziale definito dalla genealogia, avrà le catastrofiche conseguenze endogamiche e politiche che sono state descritte. La sapiente orchestrazione dei movimenti che organizzano la parte “dinamizzata” del racconto genealogico prepara dunque la rovina finale con il ritorno illusorio a un’unità fittizia; prepara il ritorno e la successione degli Eraclidi.

IL RACCONTO GENEALOGICO SPARTIATE



5.3. La genealogia come racconto mitologico Anche se s’iscrive nella categoria generale della narrazione, il racconto genealogico costituisce un sottogenere dai contorni ben definiti. Ma, in quanto tipo narrativo, corrisponde forse in maniera più diretta alla categoria del mito: categoria puramente eurocentrica, non bisogna dimenticarlo. Secondo quanto mi è stato possibile formulare seguendo le tappe del percorso generativo della produzione del senso proposto da Greimas, si arriva alle constatazioni sottoindicate. Cominciamo dal piano più superficiale delle strutture discorsive e del processo di discorsivizzazione: dal punto di vista dell’attorializzazione, gli attori della narrazione genealogica grazie ai loro poteri specifici si collocano nel dominio del sovraumano (unioni con ninfe, interventi di Zeus o d’Apollo, comportamenti mostruosi ecc.). Lo stesso vale per il processo di temporalizzazione: uno sguardo all’albero genealogico formulato dal racconto permette di cogliere l’intervento di Zeus, come attore, in tutte le tappe dello svolgimento narrativo. In compenso, sul piano della spazializzazione, come avviene in generale nei racconti che il senso comune occidentale definisce miti, i luoghi descritti nella finzione narrativa coincidono con luoghi geograficamente e socialmente definiti nella cultura interessata. Riprendendo il concetto di “referenziazione” proposto da Bertrand, c’è qui referenziazione diretta a una geografia reale. Passando alle strutture semio-narrative, possiamo osservare che la genealogia si distingue dalla categoria canonica del racconto, e di conseguenza da quella di mito, al livello della sintassi narrativa di superficie: si è già segnalato, nelle prime fasi dello sviluppo del racconto, l’assenza dell’operazione narrativa di disgiunzione e la rarità degli enunciati di fare. Al contrario, attraverso il processo di referenziazione sopra citato, gli attori-soggetto, che occupano le posizioni attanziali definite a questo livello sintattico, sono suscettibili di assumere il ruolo di destinatori in rapporto alla pratica sociale entro cui il racconto genealogico trova il suo quadro di enunciazione. È specialmente su questo piano che si manifesta la sua funzione ideologica. Inoltre, per quanto concerne la semantica narrativa di superficie, il processo di tematizzazione concerne non solo uno spazio costruito a partire da categorie “indigene” (come nel caso di qualsiasi racconto mitologico), ma riguarda anche la generazione che, quale destinatore degli attori regi successivi, assicura al racconto genealogico sia la coerenza sintattica, sia la coesione semantica. Quanto al livello profondo delle strutture semio-narrative, le prime fasi di sviluppo del racconto genealogico corrispondono a una capacità specifica del mito: quella di asserire come veri due termini contrari. Nel racconto genealogico spartiate, singolare e duale, maschile e femminile, civilizzato e selvaggio, interno ed esterno sono messi fianco a fianco senza che un percorso sintattico articolato secondo la relazione di contraddizione neghi uno dei termini per meglio affermare l’altro. Infine, secondo un modello che è invece proprio del racconto genealogico, uno spazio “temporalizzato” si trova a fondare, a livello profondo, i differenti valori attualizzati ai livelli più superficiali. (…) 5.4. La funzione simbolica La genealogia regia costituisce dunque un vero principio di spiegazione e di manifestazione figurata del passaggio dall’uno al multiplo e al differenziato. La scelta di que-

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CLAUDE CALAME

sta forma paranarrativa s’iscrive nel funzionamento generale del processo detto “simbolico”; a partire da una situazione storica data (la configurazione politica del territorio controllato da Sparta alla fine del sec. VI e le pretese che essa avanza al riguardo), si sceglie nell’ambiente naturale o culturale un elemento o una struttura particolarmente focalizzatori e scuscettibili di rappresentare questa situazione e di giustificarla ideologicamente. In una scelta che si rivela in generale parzialmente arbitraria, è necessario rico-

Pelops (Elis)

Atreus (Argos)

Agamemnon = Klytemnestra Helen = Menelaos

=

Tantalos

6

7

8

9

10

Teisamenos

Hermione

=

4 generations

12/20 Idas Hippokoontidai

Eurysthenes Prokles (Sparta)

Aristodemos = Argeia

Aiolos (Iolkos)

Lynkeus Hileira

Phoibe

Leukippos

Gorgophone = Perieres (Messenia)

Perseus

Danae

Eurydike = Akrisios (Argos)

Lakedaimon

Hyakinthos

=

Zeus = Taygete

Triopas

Phorbas (Argos)

Kretheus

Hylos

Herakles

Zeus

Kresphontes (Messenia)

Nestor Aristomachos

Neleus (Pylos) Kleodaios

Polykaon = Messene (Messenia)

Hippokoon Ikarios Arene = Aphareus

Oibalos

Castor Pollux

Tyndareus = Leda = Zeus

La genealogia dei primi re di Sparta.

Temenos (Argos)

Orestes

(Thessaly) Dimomede = Amiklas

Zeus

5 Argalos Kynortas

Sparte

Eurotas = Kleta

Myles = Tledike Therapne

(Sparta) Leiex = Kleocheareia/Peridea

4

3

2

1

? Lapithes (Thessaly)

IL RACCONTO GENEALOGICO SPARTIATE

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CLAUDE CALAME

noscere che il modello della generazione sessuata, per la sua qualità biologica di fondamento e per la sua capacità di produzione di relazioni sociali, di addice perfettamente alla descrizione di un ordine sociale differenziato. A questa motivazione della scelta del modello genealogico, si può aggiungere il rapporto metaforico che può legare la produzione di uno stato nuovo alla nascita di un neonato; e all’accumulazione delle nascite corrisponde la crescita il cui prodotto è un territorio semioticamente marcato. Ma la generazione passa anche per l’unione matrimoniale e questa unione corrisponde a un’operazione di congiunzione essenziale che si aggiunge all’accrescimento e all’addizione che permette il processo di generazione. È, infatti, attraverso l’unione coniugale che la femminilità è integrata al centro civico, femminilità che è in genere figura dell’esteriorità. Questa esteriorità può essere definita riguardo alla civiltà dell’uomo adulto (la donna di Lelege è una ninfa o una naiade; Taigeta, madre di Lacedemone, è vergine e ninfa), oppure può significare lo straniero in rapporto al territorio politico (Messene è argiva; Diomede, moglie di Amicla, è tessalica; Gorgofone, moglie di Ebalo, è originaria di Argos; Leda, sposa di Tindareo, è etolica). La femminilità ha le sue radici dunque non tanto nel non civilizzato, quanto nell’esteriore, nel differente. Ma proprio grazie a questo radicamento e all’alleanza matrimoniale, attraverso di essa si opera il passaggio dall’esteriore all’interiore, il passaggio dall’altro al medesimo. La marginalità, spesso attribuita all’immagine greca della donna, ha dunque solo un valore condizionale, è là solo per permettere all’identità adulta e politica di costituirsi. Nella generazione successiva, l’unione illegale e selvaggia di Zeus con Taigeta, la parthénos si trasforma nel matrimonio eminentemente politico del figlio Lacedemone con Sparte, andando così a rafforzare, in mancanza di un erede maschio, la legittimità patrilineare spartiate. Di più, l’alleanza matrimoniale, espressione del passaggio dei due coniugi allo statuto di adulti, corrisponde narrativamente alla sanzione di uno stato; essa è dunque capace di significare nel racconto al cui interno funziona come un operatore narrativo, lo stabilirsi di un ordine; un operatore d’ordine sintattico assume, dunque, nella figura che riveste, un ruolo metaforico. Infine, il processo di procreazione e di successione delle generazioni condivide con la narrazione una certa immagine della linearità dello svolgimento temporale; con però questa particolarità figurativa: per una volta è lo spazio che trova una rappresentazione temporale, e non il contrario. Non è forse, in definitiva, proprio il modello genetico che, nell’Ottocento, è servito da fondamento per ogni spiegazione di carattere scientifico? Ecco, dunque, quanto basta a rimettere in causa sia una distinzione troppo definitiva tra pensiero “razionale” e pensiero “simbolico”, sia il preteso fondamento arbitrario di quest’ultimo.

* Versione abbreviata di Le récit généalogique spartiate: la représentation mythologique d’une organisation spatiale (Calame 1987a). La trad. it. è di G. Pignotti. Anche a suo nome, si ringrazia Giacomo Piva che ha rivisto la traduzione dei nomi propri. Del saggio esiste anche una versione inglese (Calame 1987). Per ragioni di spazio sono stati eliminati tutti i riferimenti bibliografici che il lettore interessato potrà trovare nell’originale. Su indicazione dell’autore, segnaliamo comunque: riguardo all’analisi semio-narrativa: Greimas, Courtés 1979; Adam 1991; sul racconto genealogico in Grecia: Graf 1993, pp. 121-141; sulla storia di Sparta: Cartledge 1979; Musti, Torelli, a cura, 1991; sul matrimonio greco: Vernant 1974; sul concetto di mito e sul processo simbolico: Calame 1996a, pp. 15-68; 1996b.

Mandrake e la magia della comunicazione* Antonino Buttitta

1. L’antimateria del senso La ormai scontata percezione di natura e cultura non come due opposte realtà ma come ostensioni di un unico continuum, soltanto operativamente dissociabile, comporta necessariamente l’unicità del loro statuto strutturale. Gli esiti epistemici di questo fatto si rendono evidenti in tutta la loro complessità quando ci si confronti con i momenti più avanzati della fisica contemporanea. Delle conquiste conoscitive che a questa dobbiamo, forse la più gravida di risultati imprevedibili e per certi riguardi inquietanti, è la scoperta accanto alla materia dell’antimateria: con in più il sospetto della loro reciproca presupposizione. Oggi la rivoluzionaria intuizione di Paul A. M. Dirac, del 1928, che per ogni particella atomica si dovesse prevedere l’esistenza di un’antiparticella con caratteristiche identiche ma carica elettrica opposta non ha più bisogno di dimostrazione (Quigg 1991). Per intendere esaustivamente i fatti studiati dalle cosiddette scienze umane, il problema, pertanto, non è, andando oltre l’apparire, di limitarsi a considerarne l’interna struttura, l’ideologia sottesa, seguendo per esempio Greimas, come risultato di elementi opposti e correlati ai loro contraddittori, oppure inversi, pensando al gruppo di Klein (Greimas 1970). Così operando si riesce a cogliere solo il contenuto ideologico profondo dei fenomeni osservati. Considerando poi che, in quanto decodificati come messaggi, essi ricavano il loro senso, come è per ogni atto semiotico, dal rapporto con il contesto, resta inoltre esclusa la comprensione del loro senso (Parisi 1997; Buttitta 2002). Per altro, se alla materia corrisponde un’antimateria, al senso deve corrispondere un suo inverso: un’antimateria del senso. Ogni idea, valore, concetto, modello debbono avere non solo i loro opposti, che pur sempre appartengono alla materia del senso, ma anche i loro inversi. Non gli inversi subcontrari già previsti nel gruppo di Klein, ma gli inversi totali come loro immagini speculari, con le stesse caratteristiche ma con valori opposti. La possibilità di produrre antimateria di senso è data, come vedremo, dalle procedure del pensiero mitico, per il loro riconosciuto potere di permutare l’ordine delle nostre rappresentazioni logico-razionali della realtà (Lévi-Strauss 1958, pp. 231 sgg.). L’operazione mentale che giustifica il ruolo mediatore assunto dai bambini tra adulti e anime dei defunti, dunque tra vita e morte, ai

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ANTONINO BUTTITTA

fini delle continuità dei cicli vitali, naturali e sociali, evidente in molti rituali festivi, non è, infatti, spiegabile in termini logico-razionali (Lévi-Strauss 1952; Buttitta 1996, pp. 277 sgg.). In sostanza l’equazione deducibile dal gruppo di Klein: x : y = 1/x : 1/y, solo attribuendo agli inversi il valore di contradditori dei contrari, come suggerito dal carré di Greimas, dunque: x : y = y¯ : x¯, consentendone la permutazione in x : y¯ = y : x¯, attiva i meccanismi che determinano in alcuni casi l’inversione del senso. Quanto detto si precisa riflettendo sul quadrato semiotico della veridizione di Greimas (1983): verità

im ma ne nz a

e

on azi t s e nif ma non apparire

non essere

menzogna

{

{

apparire

{

{ segreto

essere

falsità

La connessione del piano dell’immanenza e della manifestazione nel caso della prima coppia di contrari, essere vs apparire, rappresenta, in orizzontale, la deixis dei valori positivi: la verità; nella seconda coppia, non apparire vs non essere, quella dei valori negativi: la falsità. In modo analogo ma in verticale, il positivo è dato dal non apparire correlato all’essere, il segreto (dissimulazione); il negativo dall’apparire correlato al non essere: la menzogna (simulazione). In sostanza è l’intersecarsi di immanenza e manifestazione che consente ai destinatori e ai destinatari dei messaggi, una volta decise per tacita intesa le “marche di veridizione”, di distinguere il vero dal falso, il verosimile e l’inverosimile. Distinzioni che in quanto dipendenti da situazioni e contesti concreti, solo uno schema di questo tipo, legittimando la perimetrazione arbitraria di sperimentato e immaginario, realtà e rappresentazione, può consentire. In questo modo ciascuno di noi potendo stabilire verità e falsità indipendentemente da ogni evidenza, e contando, attraverso quello che Greimas chiama “fare persuasivo”, sul coinvolgimento degli altri, naviga liberamente nel grande mare della comunicazione: nel quotidiano ma soprattutto nelle arti e nella politica (ib.).

MANDRAKE E LA MAGIA DELLA COMUNICAZIONE

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2. La menzogna del serpente Queste considerazioni impongono una riflessione più attenta sul valore della menzogna, la cui connotazione negativa, per altro corrispondente al comune sentire, è proposta non solo dallo schema greimasiano ma anche da altre operazioni logicamente ispirate. Restano, infatti, irrisolti due problemi: il ruolo positivo attribuito alla simulazione nelle pratiche rituali e non solo; la coincidenza di fatto tra la deixis del segreto con quella della menzogna, nel senso che l’essere e il non apparire si identificano per inversione con l’apparire e il non essere. La letteratura di ogni tempo è ricca di esempi. Odisseo mente ad Antinoo (XVII, 415-444), a Penelope (XIX, 165-202, 221-248), a Laerte (XXIV, 244-279, 303-314), perfino ad Atena (XIII, 256-286). La domanda è ovvia: è Odisseo che si nasconde sotto altre vesti oppure sono le vesti che nascondono Odisseo, è e non appare oppure appare e non è? Insomma siamo in presenza di un segreto o di una menzogna? E qualunque sia la ragione che ha suggerito al Poeta il ricorso a quest’ultima, possiamo dire che il ricorrente mentire dell’Eroe, di cui l’inganno del cavallo è una fisica metafora, lo rende per questo meno eroico? E di Amleto che si finge pazzo e che apparendo ciò che non è (la menzogna), ricorre significativamente alla fiction teatrale per denunciare ciò che è e non appare (il segreto), condanneremo il comportamento? Proseguendo con altri esempi di facile ricordo, c’è il rischio di scivolare nell’elogio della menzogna, già fatto da altri (Nigro, a cura, 1990). Importa piuttosto spiegare il percorso mentale che produce l’inversione della griglia logica grazie alla quale la menzogna assume il ruolo di ristabilitrice della verità. In una raccolta di fiabe italo-albanesi è compreso un racconto molto breve di Plataci (alb. Pllataci) in provincia di Cosenza (Perrone, a cura, 1967, pp. 402403). Una donna – narra la fiaba – aveva un figlio serpente. Questi obbliga la madre a trovargli moglie. Durante il banchetto di nozze si sporge dal crivello, dove è stato collocato, per prendere un pezzetto di carne. La sposa ne ha paura, provocando il risentimento dello stesso serpente, che durante la notte la uccide nel sonno. Dopo un anno il figlio serpente costringe la madre a trovargli una nuova sposa, “che però subì la medesima sorte della prima”. Passa ancora un anno, e la mamma gli trova “un’altra fidanzata molto bella”. Durante il banchetto si ripete la scena dei precedenti matrimoni. La sposa però non ebbe paura, anzi “lo accarezzò con gioia. Allora il serpente, vedendo che la moglie gli voleva bene, la notte si trasformò in un giovane molto bello”. La fiaba è chiaramente una riduzione e attualizzazione di un racconto più antico e complesso. Il messaggio esplicito in essa contenuto, di evidente matrice cristiana, che l’amore può tutto, non giustifica l’utilizzazione di un motivo molto arcaico e diffuso, quale quello dello sposo serpente. Questa osservazione è avvalorata da un racconto raccolto da Cristina Gentile (Schirò 1923, pp. 459-466) nei primi del Novecento a Piana degli Albanesi. Non una donna qualunque ma una gentildonna ricchissima – dice la versione di Piana – rosa dal dolore di non potere avere figli un giorno, disperata esclama: “Gran Dio a ogni costo tu devi darmi un figlio anche se dovrà avere aspetto di serpente”. E appunto quello che accade, con grande afflizione per la sventurata madre. Il marito addirittura muore per il dolore.

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ANTONINO BUTTITTA

Quando il serpente fu cresciuto, espresse con ostinata insistenza la volontà di prendere moglie. Non una donna qualsiasi come nella versione di Plataci, ma una fanciulla nobile e bella. La madre, disperata, conscia della impossibilità di trovare per il figlio una sposa di tale condizione, si rivolge a una donna “povera, ma rispettabile” che aveva tre bellissime figlie. A questa la madre chiede una delle tre ragazze in sposa per il figlio, presentando la cosa nella maniera più efficace. “È vero che egli è un serpente – ella dice alla madre della futura sposa – ma è assai mansueto, fa i fatti suoi (...). Aggiungi che tutte le mie ricchezze, un giorno o l’altro, saranno della giovinetta e che essa vivrà da grande signora, e che a te non mancherà mai il pane e il sale in casa”. Con lo stesso argomento la madre povera convince la figlia. Si celebra il matrimonio. Gli sposi vanno a letto e, appressandosi il mattino, lo sposo serpente chiede alla sposa l’ora. La ragazza con estrema sincerità risponde: “Deve essere appunto l’ora in cui il babbo (che l’anima sua abbia luce!) prendeva la zappa e se ne andava a lavorare il maggese”. Ottiene per tutta risposta di essere rifiutata come sposa dal serpente. Passa del tempo e il figlio serpente rinnova la richiesta alla madre. Questa si reca dalla precedente donna e chiede in sposa per il serpente la seconda figlia. Dopo la prima notte si ripete la stessa scena del precedente matrimonio. Alla richiesta dell’ora da parte del marito serpente, la sposa con sincerità risponde: “Deve essere l’ora in cui la buon’anima di mio padre prendeva la corda e andava a far legna”. Anche questa volta la sposa viene ripudiata. Dopo altro tempo il figlio serpente rinnova la richiesta alla madre. Tutto si svolge come nei due casi precedenti. La terza e ultima figlia della donna povera alla richiesta dell’ora però, mentendo, risponde: “Deve essere l’ora appunto in cui il babbo prendeva il suo focoso cavallo e se ne andava a passeggio”. Risultato: il serpente, felice di avere finalmente la sposa come da lui desiderata, si trasforma in un bellissimo giovane. “E perché – dice la sposa – finora sei stato chiuso in quell’orribile pelle?”. “Perché questo è il mio destino per colpa di mia madre. Essa mi volle anche che dovessi essere un serpente, e come serpente deve vedermi. Ma ogni qualvolta che noi saremo soli, io prenderò il mio vero aspetto e tu ti compiacerai di me, come fai adesso”. Così discorrendo il giovane fu colto dal sonno. Allora la giovinetta che cosa fece? Si levò cautamente, prese la pelle serpentina e la bruciò nel focolare; poi corse dalla suocera: “Signora mamma, vieni a vedere tuo figlio!”. Frattanto il giovane si destò, affrettandosi per andare a cacciarsi dentro la pelle del mostro; ma non la ritrovò là dove l’aveva lasciata. La sposa si mise a ridere e gli disse di non affaticarsi a cercarla, perché essa stessa l’aveva bruciata con le proprie mani. Egli, saputo ciò, l’abbracciò e baciò in fronte dicendo: “Con la tua saggezza, o bella, sei riuscita a rompere l’incanto!”. Una prima lettura dei due racconti conferma che si tratta di versioni di un’unica fiaba. La figura dell’eroe serpente, associato in vario modo ai rapporti fra i sessi e a nascite miracolose, si riscontra in un arco temporale e spaziale tanto esteso da far escludere senza pericolo di sbagliare che esso possa essere nato successivamente alla diffusione del cristianesimo. Senza bisogno di far ricorso al serpente biblico, è sufficiente ricordare alcuni fatti significativi. Nella mitologia greca Giove sotto forma di serpente, oltre che di toro o di cigno, si accoppia con divinità o eroine. Alessandro Magno accreditava la leggenda di essere nato da Olimpia e dal dio

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Ammone. Questi altri non era che il dio egiziano Amon, successivamente sincretizzato con Zeus, il quale era venerato anche sotto forma di serpente. Plutarco afferma appunto che Olimpia fu fecondata da un serpente. Livio racconta che la madre di Scipione l’Africano partorì dopo essere stata visitata da un serpente. In Egitto questo animale era il simbolo stesso della fecondità e a esso facevano ricorso le donne sterili. Ciò spiega perché nei paesi arabi fosse assolutamente proibito mangiare la carne di serpente tranne alle donne sterili. Non a caso nelle Mille e una notte le mogli di un re egiziano e del suo visir partoriscono due maschi grazie al consiglio di Salomone di mangiare carne di serpente. Uno dei motivi più diffusi della narrativa orale slava è la nascita dell’eroe Volga Vseslavic da una donna fecondata da un serpente (Cocchiara 1956, pp. 13 sgg.; Brelich 1958). Per finire, nella stessa narrativa orale italo-albanese il tema è presente in forma rovesciata: aspetto di serpente ha una ragazza la quale riassume forma umana dopo avere sposato un principe (Perrone, a cura, 1967, pp. 29-32). Sul significato del matrimonio tra poveri e ricchi ricorrente nelle fiabe, non è il caso di insistere. Nella letteratura orale esso è largamente presente e le sue motivazioni ideologiche sono del tutto evidenti (Giallombardo 1973, pp. 11-12). Importa rilevare che, come nella nostra fiaba, l’ascesa sociale dell’eroe è più frequentemente dovuta non a imprese eroiche in cui sia necessaria forza fisica, ma al superamento di prove, quali lo scioglimento di enigmi, in cui è richiesta abilità intellettuale (Schirò 1923, pp. 372 sgg.). Il messaggio a livello manifesto è evidente e ne è evidente anche il fine consolatorio. I poveri, socialmente più deboli, sono moralmente e intellettualmente più forti dei ricchi. Grazie alla loro bontà (Plataci) e intelligenza (Piana degli Albanesi) essi possono, infatti, conquistare la ricchezza. Dal punto di vista morfologico la fiaba di Piana presenta una struttura molto semplice, che secondo i simboli funzionali stabiliti da Propp (1928) può essere così rappresentata: X W LV Rm neg.; W LV Rm neg.; W LV Rm N

Per altro, la triplicazione delle prove, come già evidenziato da Axel Olrik (1973, pp. 197-232), è una caratteristica quasi costante della narrativa orale mondiale. Appare dunque evidente che gli elementi cristiani presenti nelle due versioni della fiaba sono aggiunte ulteriori a un racconto che per le sue caratteristiche tematiche e morfologiche presenta tratti molto più antichi. Il primo dato su cui riflettere è che la rottura dell’equilibrio esistenziale, da cui muove l’azione narrativa nella fiaba di Piana, è provocata da una richiesta innaturale della madre. L’accoglimento di questa richiesta interrompe il normale ordine della natura. Il problema del racconto a questo punto è quello di ricondurre il caos a cosmos. È importante che come una donna ha scatenato il primo, sia una donna a ristabilire il secondo. A livello profondo la narrazione è articolata dalla opposizione essere vs apparire. Il protagonista è uomo ma appare serpente a causa di un incantesimo. L’eroina è povera ma appare ricca grazie a una abile menzogna. È proprio questa inattesa menzogna a provocare lo scioglimento delle opposizioni e il ristabilimento dell’ordine. Eccone lo schema logico:

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marito serpente

marito non serpente

moglie non povera

verità

apparire

moglie povera

falsità

essere

ANTONINO BUTTITTA

Il danno iniziale, “il giovane ha l’aspetto di un serpente”, è correlato al dato da cui viene negato, “la fanciulla è ricca”. L’evidente falsità di quest’ultimo fatto falsifica il primo. Il meccanismo logico adottato per ristabilire l’ordine in fondo è semplice. Identica operazione noi facciamo quando per dichiarare la falsa identità di qualcuno diciamo: “egli è (...) come noi siamo turchi”. In questo modo noi non intendiamo affermare il falso sul nostro conto ma omologare a un fatto che si dà come evidentemente falso, altro fatto ingannevolmente presentato come vero. Identica è l’operazione logica sottesa al discorso della fanciulla: “tu sei serpente come io sono ricca”. Poiché ricca non è, il serpente non è tale. La menzogna, in quanto capovolgimento della realtà, spezza l’incantesimo che ne ha prodotto l’iniziale stravolgimento. 3. Il pensiero mitico La struttura paradigmatica del racconto di Piana degli Albanesi non è riferibile né al gruppo di Klein, né al carré di Greimas. Un confronto con lo schema della veridizione di quest’ultimo mostra tuttavia che le procedure del pensiero mitico, sottostanti all’ordine sintagmatico della fiaba, non stravolgono il dispositivo del pensiero logico ma, procedendo in modo analogo per opposizioni, contraddizioni e correlazioni, seguendo dunque lo stesso percorso, ne invertono la direzione. Da un lato, a differenza di quanto accade nello schema greimasiano dove immanenza e manifestazione s’intersecano pur restando autonome, il pensiero mitico enfatizza la loro contrapposizione; dall’altro, proprio grazie a essa, disponendo gli operatori logici su

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l’uno e l’altro piano, servendosi come mediatore della menzogna (apparire + non essere), omologa i piani contrapposti e ne annulla la contrapposizione. In questo modo impone la verità sulla falsità. È questo potere del pensiero mitico di proporre una rappresentazione non opposta ma inversa della realtà, affiancando e affermando il senso mediante un’antimateria di senso, a presiedere alla produzione del simbolico e a determinare la natura ambigua dei suoi esiti concreti: sia quando espressi in figure linguistiche e immagini artistiche sia quando fisicamente realizzati in ruoli attanziali. Non è un caso che le caratteristiche e le azioni degli eroi mitici siano in genere connotate da ambiguità, né casualmente le forme attraverso le quali si esprimono le procedure del pensiero simbolico sono denunciate dalle maschere. L’opinione corrente sul loro significato, per altro giustificato da alcuni usi, è che esse abbiano solo una funzione simulatoria oppure dissimulatoria, appartengano cioè alla sfera della menzogna o della segretezza. Loro carattere sarebbe dunque quello di dotare di una identità altra chi le indossa. Le imagines mortuarie romane bastano a provare il contrario. La loro funzione, come è ovvio, non è quella di proporre l’alterità dei defunti ma di affermare la loro identità. A questo proposito significative sono le bautte veneziane, il cui uso era obbligatorio nelle cerimonie ufficiali con l’evidente funzione di esibire i ruoli dei loro portatori, confermando così l’ordine sociale. È un caso evidente di uso delle maschere né simulatorio né dissimulatorio ma diretto a ribadire identità e verità. Le stesse bautte venivano utilizzate dagli appartenenti alla nobiltà per conservare il segreto nei loro spostamenti, dunque diversamente dal caso precedente, per non essere identificati. Si tratta allora di un uso dissimulatorio delle maschere? A ben vedere, si dissimulava il soggetto non la classe di appartenenza. Ha pertanto ragione Damish (1979, p. 776) nel sostenere che “fra le nozioni di maschera e di identità, il rapporto non è solo di esclusione e neppure di annullamento, ma di complementarità, se non di complicità”. Di fatto, rispetto alla percezione e costruzione della realtà per opposizioni e correlazioni secondo procedure logico-razionali, le maschere invertono posizioni e valori degli elementi posti in relazione, proponendo un loro ordine capovolto. L’inversione e nello stesso tempo riaffermazione dei ruoli sociali presente in molti rituali festivi, di cui il Carnevale è un modello, è una prova del significato delle maschere. Attraverso di esse, in rapporto alla situazione d’uso, può apparire ciò che non è (la menzogna), ciò che è e non appare (il segreto), ma anche ciò che è e appare (la verità) e ciò che non è e non appare (la falsità). Questo valore totalizzante diretto a sussumere e sublimare ogni possibile contraddizione della realtà, questo significato equivoco e multiplo delle maschere (Bril 1983) è proprio del pensiero mitico. È grazie alla sua possibilità di negare e affermare nello stesso tempo che esso, capovolgendo la realtà vissuta, ci persuade del suo senso del reale attraverso il non senso dell’immaginario. 4. Le menzogne di Mandrake Una verifica significativa di quanto fin qui detto è rappresentata da Mandrake, un noto personaggio dei fumetti (Della Corte 1968). Non c’è da sorprendersi. Le

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figure canoniche, maschere appunto, di questo genere di letteratura già al loro apparire hanno assunto e non a caso, anche fra i non giovani, lo stesso valore degli eroi mitici destinati in ogni cultura a sussumere e risolvere attese, contraddizioni e frustrazioni in una dimensione speculare a quella della realtà vissuta. Non a caso a Lee Falk, autore di Mandrake, si deve anche l’invenzione di The Phantom (L’Uomo Mascherato), modello esemplare degli eroi dei fumetti connotati da forti valenze mitiche (Buttitta 1996, pp. 183 sgg.). Mandrake, le cui strips comparvero per la prima volta l’11 giugno del 1934 e furono disegnate fino al 1965 da Phil Davis, è stato uno dei personaggi più amati e quindi più rappresentativi del mondo dei fumetti. In Italia le sue avventure apparvero sull’Avventuroso a partire dal 20 gennaio 1935. Nei caratteri esteriori Mandrake è del tutto diverso dagli altri eroi dei fumetti. È un mago da palcoscenico. Pratica illusionismo, ipnotismo e altri trucchi che ha appreso, laureandosi in un’improbabile Università della Scienza sperduta in una remota valle del Tibet. La sua alterità è segnalata anche dall’abbigliamento. Si muove nel quotidiano in un impeccabile abito di scena, con cilindro e bastone, frac blu e mantellina rossa. È accompagnato da Lotar, un muscoloso negro in vesti non meno inconsuete: indossa una canottiera in pelle di leopardo, calzoncini corti stretti in vita da una fascia rossa e talora porta un fez. È significativo che nessuno dei personaggi coinvolti nelle avventure dei due, ovunque si svolgano, tra i ghiacci del Polo o nei deserti africani, nello spazio astrale o sul fondo del mare, noti il loro strano aspetto. La non conflittualità di finzione e realtà è un segnale eloquente della dimensione mitica in cui si svolgono le loro avventure. A differenza degli altri eroi mitici, Mandrake converte sempre il contenuto invertito in contenuto posto grazie a illusionismo e ipnosi. La sua arma dunque è la finzione. Ciò che appare ma non è, cioè la menzogna, ristabilisce la verità sulla falsità, l’ordine sul disordine, il cosmos sul caos. Il ruolo di aiutante di Lotar, in realtà non sempre necessario, serve solo a segnalare il ruolo subalterno della forza fisica rispetto al potere simulatorio del nostro eroe. Di esso egli si serve contro ladri, truffatori, assassini ma anche, dato per noi più eloquente, contro esseri dotati di poteri magici e misteriosi: altri maghi, fachiri, fantasmi, folletti e perfino extraterrestri. Suo principale oppositore, che significativamente appare nella prima strip, L’uomo del mistero (11 giugno 1934-24 novembre 1934), è il Cobra, un individuo malvagio dotato di poteri straordinari. Rispetto al nostro discorso particolarmente illuminante è la strip intitolata A Hollywood (30 gennaio 1938-14 maggio 1938): una fiction dentro la fiction. Mandrake si reca nella Città del cinema e sta per firmare un contratto con una società di produzione, ma il contratto è ingannevole. Una clausola apparentemente insignificante consente ai produttori di ridurre il compenso del Mago a loro discrezione. La penna però non scrive, anzi, penna e contratto si mettono a parlare rivelando l’inganno. È solo l’inizio di una storia tutta impostata opponendo menzogna a menzogna. Mandrake mediante una finzione ha smascherato due mentitori. In seguito il mago firma un contratto con un altro produttore e il giorno dopo affronta il primo provino. Sua partner è una delle più famose attrici del momento, Marilyn Dawn. Il provino va bene e il regista gli chiede di mostrargli uno dei suoi trucchi magici. La macchina da presa però, come lo stesso Mandrake

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ha avvertito, non li riprende. Un dettaglio insignificante ai fini dello svolgimento delle successive vicende, ma particolarmente importante ai fini della comprensione del loro contenuto ideologico. Ha la funzione, infatti, di rimarcare il carattere illusorio delle situazioni che il mago riesce a creare grazie ai suoi poteri. Segue un episodio in cui Mandrake smaschera un finto incidente. Un uomo finge di essere investito da Marilyn al volante della sua auto, Mandrake, che ha visto tutto, rivela il trucco. Dei complici dell’investito immaginario intervengono in sua difesa e stanno per colpire il mago. Lotar pensa a sistemarli energicamente. In questo caso la verità viene ristabilita senza ricorso alla magia. Mandrake ha visto bene. Lotar si è servito della sua forza reale. Arriviamo ora al nucleo centrale della storia. Marilyn nasconde a Mandrake di avere una sosia, Nettie. Alcuni episodi mettono in sospetto Mandrake che però non riesce a capire, pur avvertendo la differenza di comportamento tra l’una e l’altra. Nettie si stanca di questa situazione e accordandosi con Farrel, manager di Marilyn, l’unico a saperle distinguere, si sostituisce a lei. Grazie alla complicità di Farrel l’inganno riesce. Nettie prende il posto di Marilyn approfittando della sua partenza per un breve periodo di vacanza. Al suo ritorno Marilyn viene ritenuta Nettie anche dalla sua cameriera e secondo gli ordini della vera Nettie non viene fatta entrare nella sua casa, ormai occupata da quest’ultima. Dopo vari tentativi, anche legali, Marilyn è costretta a rassegnarsi. Neppure Mandrake, a cui si rivolge, infatti, la riconosce come tale. Solo la macchina da presa, che è lo strumento per produrre fiction e significativamente proprio per questo non si può ingannare, mette in crisi il trucco. Nettie, infatti, non sa recitare e il film realizzato con lei come partner di Mandrake rischia di essere un fiasco. Il mago, cui dal produttore viene mostrato il film, a questo punto entra in azione. È la fiction dunque a portare alla scoperta della verità. Resosi invisibile, Mandrake assiste a un equivoco colloquio tra Nettie e Farrel. Decide pertanto di andare a trovare Marilyn che ora fa la commessa e ormai è talmente frastornata da cominciare a credere, come lei stessa dice, “di essere Nettie e non Marilyn Dawn”. Mandrake la sottopone a ipnosi e si convince di trovarsi di fronte alla vera Marilyn. Il mago mette in opera senza successo vari tentativi per smascherare Nettie. Alla fine lui stesso, sotto le spoglie di un vecchio zio inesistente di Marilyn, si presenta a Nettie che lo accoglie con grandi espressioni di affetto. Mandrake sta al gioco e Nettie con Farrel decidono di presentarlo al produttore per fugare ogni dubbio sulla identità della falsa Marilyn. Entra a questo punto in scena la Marilyn vera che dichiara che non può trattarsi di suo zio visto che non ne possiede. La conferma viene dallo stesso Mandrake che, liberandosi dall’abile mascheramento sotto cui si è nascosto, smaschera – il gioco di parole è qui utile – l’inganno di Nettie e di Farrel. La sicura prospettiva del carcere per i due conclude felicemente la storia. La simulazione ha sconfitto la simulazione e ancora una volta Mandrake, The Magician, ha fatto trionfare la verità sulla menzogna. Come dice una delle vignette finali della storia: “Il grande gioco di Nettie e di Farrel finisce dietro le sbarre anziché alle luci della ribalta”. La stessa strip continua narrando un’altra avventura di Mandrake a Hollywood. Alcuni banditi rapiscono un giovane attore prodigio per ottenere un lauto riscatto. Il rapimento è reso possibile dal fatto che uno dei banditi si finge l’autista del ragazzo. La sua liberazione finale avviene grazie ai trucchi illusionistici del mago. È in sostan-

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Finto Marilyn Nettie

Marilyn

Finto zio Mandrake

verità

apparire

Mandrake

falsità

essere

za una conferma della struttura ideologica della prima storia. La sua organizzazione logica è così rappresentabile:

Come si vede, confermando il significato mitico del racconto, è la stessa rappresentazione capovolta del modello della veridizione, che abbiamo riscontrato nella fiaba di Piana degli Albanesi. In sostanza la logica del mito impone la verità sulla falsità mediante la menzogna, attribuendo a questa il valore ambiguo che assumono tutti i segni quando comunicati in funzione simbolica. Il messaggio è chiaro e Mandrake ne è una metafora. Come nell’India vedica, “c’è una verità della menzogna (...) nel senso che la verità tutta intera è quella che include la menzogna” (Malamoud 1992, p. 7). La falsa etimologia proposta per la parola sati-ya, “verità”, spiega e denuncia le procedure del pensiero mitico che portano a questa conclusione. La prima sillaba (sa) e l’ultima (ya) sono la verità vera e propria, la seconda (ti) è la anrta, la menzogna. “In questo modo la menzogna è solidamente tenuta, da una parte e dall’altra, dalla verità e acquista essa stessa un essere di verità” (ib.). Per intendere il successo e dunque il senso di un personaggio come Mandrake, prodotto come abbiamo visto di itinerari logici che solo sul capovolgimento del reale possibile al mito trovano raccordo ed esplicitazione, è necessario riportarsi all’America del tempo in cui esso è nato e da dove ha intrapreso il suo cammino su giornali e riviste di tutto il mondo. Sono gli anni dopo le grandi crisi del 1929-33 del New Deal di Franklin D. Roosevelt, eletto nel ’32, con le sue speranze e i suoi successi. È un’America che ha ritrovato il benessere e l’illusione di un mondo felice. In qualche misura, e sia pure alla lontana, respira la stessa atmosfera della Francia di Luigi XIV, che vede crescere e dilatarsi accanto all’aristocrazia, e per sua estensione,

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un nuovo ceto di militari e prelati, di “uffiziali” e mercanti, animato da una visione ottimistica della realtà. E un mondo che crede nelle fiabe, che ha in Parigi il centro di produzione di una letteratura ispirata al fiabesco e resa fisicamente visibile nelle architetture e nei giardini di Versailles (Soriano 1968). Hollywood negli anni Trenta del Novecento è il centro di produzione di analoga rappresentazione irrealistica della realtà, che nei grattacieli delle grandi concentrazioni urbane ha la sua esibizione fisica e la sua metafora. Dell’ideologia di questa affluent society profondamente individualistica, che nel mito del superman ha la più diretta espressione, la letteratura a fumetti, affermatasi appunto in questi anni, costituisce il trasparente rispecchiamento. Non solo gli eroi del romanzo popolare dell’Ottocento vengono ad assumere altri e più visibili connotati, ma cominciano a dotarsi di poteri, come appunto Mandrake, oltre il possibile perché tutto in prospettiva appare possibile. Al criterio del verosimile narrativo suggerito da Aristotele si sostituisce quello dell’inverosimile. Quanto maggiore è la inverosimiglianza tanto più efficace e persuasiva è la vicenda narrata. Mandrake in questo senso si deve ritenere un precursore insieme a personaggi quali Flash Gordon, dei successivi Spiderman, Silver Surfer, Devil, Doctor Strange e così via. Comunque li si voglia leggere, sono spie inquietanti e conferma, per inversione, di una società che sembra riconoscersi solo nella logica del profitto e del successo. Significativo è il fatto che Mandrake, non diversamente da altri eroi, in genere interviene in difesa della proprietà privata. Parrebbe paradossale che il pratico si sostenga attraverso il mitico, sfere in apparenza contrapposte. In realtà un personaggio come Mandrake, attraverso la comunicazione del magico, ci insegna a cogliere tutta la forza della magia della comunicazione che, per essere l’unica condizione d’esistenza per gli uomini, è il luogo dove alla fine si incontra e si scioglie ogni possibile contraddizione del mondo in cui ci è dato vivere, permettendoci di pensare con Calderón che “en la vide todo es verdad todo mentira”1.

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Apparso originariamente in Casetti, Colombo, Fumagalli, a cura, 2003, pp. 161-175. Per ulteriori riferimenti bibliografici in argomento, si vedano: Barthes, Greimas et. al. 1966; Bettetini 1975; Borghini 1984; Buttitta et al. 1974; Clair, a cura, 1962; Della Corte 1961; Eco 1976; Giammanco 1964; 1965; Heisenberg 1984; Lodi Rizzini, Venturelli, Zenoni 1998; Marrone 1992; Omboni, a cura, 1972; Strazzulla 1970; Trombino 1992; Vernant 1990. 1

De Tex fabula narratur* Paolo Fabbri

1. Sfida e mediazione Le prefazioni, che precedono un testo nella successione lineare, sono conclusioni anticipate. Se non sono testi di convenienza, ma risultanti della lettura, si prestano a riflessioni generali. La brevità, che è regola di genere, chiede la formulazione icastica delle tesi e invita a riformulare le ipotesi. Nella prefazione a un libro sul fumetto, Alberto Abruzzese (1994) sfidava i teorici dell’informazione: “a leggere fumetti – a leggerne molti, da quelli seriali e collettivi della civiltà di massa a quelli postmoderni della produzione d’autore – e a correre il promettente rischio di mettere finalmente in discussione se stessi e i propri modelli culturali”. Se, tra gli studiosi imbalsamati dall’alfabeto, è disposto a fare un’eccezione semiologica, Abruzzese sottolinea però l’“alone oscuro che circonda la semiotica”, in particolare quella di Umberto Eco. Riconosce il debito che spetta all’analisi fondatrice di Steve Canyon (Eco 1964), ma ritiene che i problemi e le ricerche sul fumetto siano ormai irriducibili alle analisi del Superuomo di massa (Frezza 1999). Ricercatori di sociologia e semiotica delle culture non possono che convenire, alla condizione che vengano soddisfatte alcune esigenze. Nel modo di attaccare la cultura di massa – cultura-evento e non solo monumento – le armi intelligenti delle due discipline non sono d’identico calibro. Come far collimare l’esplorazione coerente dell’immaginario collettivo contemporaneo e la rilevazione empirica delle forme espressive e di contenuto dei linguaggi dei media? È possibile mantenere l’allacciamento tra i livelli generali della teoria comunicativa e i modelli teorici e metodologici? Non è ovvio connettere strumenti euristici ad hoc per linguaggi in piena mutazione e i requisiti interpretativi: per esempio come parlare di testi sincretici e multimediali? Oppure: l’immaginario è solo una collezione di immagini? Si può parlare propriamente di miti contemporanei? Avanziamo una proposta teorica o un suggerimento di metodo. La semiotica può raccogliere la sfida e il dubbio di Abruzzese a due condizioni: 1) se accetta che i linguaggi delle cultura di massa sono direttamente riflessivi, e cioè contengono un proprio livello teorico espresso con autonomia di mezzi. Gli strumenti semiotici deduttivi vanno quindi sempre registrati testualmente, cioè applicati e disimplicati dal testo. D’altra parte 2) la sociologia del presente dovrebbe aggiustare la distanza critica necessaria perché l’appartenenza al processo di produzione, comunicazione e interpretazione dei linguaggi si trasformi in significazione. E perché la partecipazione all’immaginario collettivo diventi “comprensione” è richiesto il livello di “spiegazione” proprio alla mediazione semiotica (Fabbri 1998). Mediazione che si situa a livel-

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lo dei testi dove viene costruito e non solo rappresentato quel piano di senso e di valore, quei riferimenti di secondo grado e quelle relazioni intersoggettive virtuali che allargano e approfondiscono la nostra ingenua (taked for granted) ontologia (Ricœur). 2. Il lettore striptico Testi “positivi” come dispositivi di trasformazione di senso. Questa premessa implica una scelta testuale adeguata. Se accettiamo il rischio di esporci al fumetto, come Abruzzese ci propone, è perché i buoni esempi sono fertili ma insufficienti e la loro dieta è sempre unilaterale. Ma sociologia e semiotica delle culture, discipline a vocazione empirica, sono tenute a dar l’esempio, se non perseguono l’autoassoluzione, logica e filosofica, degli exempla ficta. Il fumetto però non è un mero esempio di metodo. Come ha visto Abruzzese (1994), lo studio di questi “spettri che si aggirano nella cultura di massa” ha un ruolo esemplare nel fantasticare che getta le reti dei miti collettivi e della innovazione espressiva: riciclaggio della memoria letteraria, figurativa e cinematografica; estremo rafforzamento del segno; ripetitività delle situazioni; organizzazione semantica per circuiti di consumo; somatizzazione dei miti e delle passioni; intreccio dei generi e loro ironizzazione.

La semiotica, anche nello studio delle strip, non ha mantenuto alcune promesse. Nonostante alcune notevoli ricerche1, restano da esplorare le modalità espressive sincretiche e va modellata la competenza del lettore che chiameremmo striptico: lettore, visore e decifratore2. Si tratta anche di differenze di scuola: mentre gli studi di semiotica generativa segnano una marcata preferenza per l’analisi semantica e narrativa (Floch), quelle ispirate alla semiotica interpretativa sono più attente al significante e riducono la narratività a un genere o tecnica discorsiva (Barbieri). Mentre gli approcci descrittivi descrivono efficacemente inquadrature e punti di vista (Fresneault-Deruelle, Groensteen, Rio), con felici convergenze cinematografiche (problemi di Enunciazione), le prime insistono sui ritmi del contenuto al livello della fabula (cioè dell’Enunciato). Per un tentativo di ri-specificazione sociosemiotica è necessario invece tener fermo il raccontare come forma di intelligibilità narrativa e integrare nel suo ritmo le cadenze del contenuto e quelle dell’espressione. D’altronde un modello euristico dovrebbe prevedere qualche risultato impreveduto sull’immaginario collettivo e sui dispositivi della testualizzazione “striptica”. 2.1. L’eroe: alti fatti e disfatta Dovendo scegliere in questo “strano mondo di referenze fittizie popolato di fantasmi necessari”, la scelta di corpus è caduta su Tex Willer, carattere in “equilibrio sapiente tra componenti popolari del racconto avventuroso e i tratti sofisticati di riproduzione del cinema, se non della storia e del documento” (Frezza 1999). È figura di prua, eroe sincretico di quanti lo seguiranno nel mondo del fumetto italiano. La scelta, un albo del 1968, con soggetto e sceneggiatura di Gianluigi Bonelli e disegni di Aurelio Galleppini, è dovuta al mantenimento d’una certa linearità romanzesca, attenuata se non scomparsa nei fumetti “post–modern”. Se si presta all’analisi

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narrativa, questa linearità crea però un effetto di “falsa innocenza”, che esercita una resistenza specifica all’analisi mentre contribuisce a legittimare le mutazioni antropologiche del quotidiano che il fumetto comporta e trasporta. D’altra parte, proprio la scelta di questo popolare eroe di carta, consente di riproporre la figura dell’attore narrativo con le sue avventure e del suo destino in un contesto “epico”: l’universo semantico e figurativo del western. Per approfondirne il significato antropologico e per confermare o mettere in causa alcuni tratti fissi della locuzione mitica. I cow-boys non sono solo, come pretendeva Borges, un divertimento per cavalli. Ma per questo è necessaria una “mossa” preliminare che fonda la specificità semiotica della narratività. Come sappiamo, da Lukács a Bachtin, il romanzo moderno ha rovesciato la gerarchia aristotelica fra intrigo e carattere. Nella Poetica il racconto classico e tradizionale era una messa in intrigo, l’esito della configurazione d’azioni e passioni, e i personaggi erano solo variabili. La modernità invece fa del carattere la costante narrativa: come eroe esemplare d’una situazione sociale (picaro o cavaliere); come protagonista del romanzo di formazione (intento a diventare se stesso) o istanza d’un flusso di coscienza. La semiotica strutturale, con un ritorno percepito come rottura, ha inteso spersonalizzare, decronologizzare e logicizzare il racconto: ha ripreso il lessico dei motivi e la sintassi narrativa delle funzioni. Ha isolato personaggi sintattici (attanti) che ha distinto dai loro ruoli figurativi (gli attori); ha cercato enunciati narrativi soggiacenti alle realizzazioni nei diversi mezzi espressivi. Solo in seguito, dopo aver costruito modelli semantici più astratti o schematici ma estrapolati dall’analisi testuale, la semiotica discorsiva pone il problema dell’analisi retorica e stilistica con cui tornare alla densità del testo dato. Il metodo permette allora di mettere in evidenza correlazioni inedite, parallelismi, inversioni e trasformazioni funzionali impreviste; la generalizzazione rinuncia a molto, ma sono molte le singolarità che recupera e raccoglie (Fabbri 1998; Floch 1997). 3. Text & Cotext “Ah se fossi un indiano, ecco qua, pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nel vento…” Kafka

Abbiamo deciso la lettura “striptica” di una sequenza che chiameremo: “il Sinistro Meticcio”, iscritta nell’episodio La Sconfitta. Nel conflitto con una potente famiglia (i Baker, padre e figlio) che controlla con la forza una piccola città di frontiera, Tex, spalleggiato da Kit Carson e dallo sceriffo, ha dapprima la meglio. Ma i Baker assoldano un sicario, il “sinistro” meticcio Ruby Scott, che vive, con la squaw Sahuara, nella riserva indiana Papago. Il meticcio, nonostante l’opposizione di Sahuara e i cattivi presagi, sfida Tex in un duello all’aperto e col trucco di una fondina girevole (a swivel) lo vince e ferisce in più punti. Mentre si attarda in città a bere, nonostante l’opposizione dello sceriffo prima, poi del barman del saloon, sopraggiunge Tex, che, seppure con la mano sinistra, lo sfida e lo uccide. Toccherà poi a Sahara sopprimere il mandante, il giovane Baker, e questo provocherà l’accesso di follia nel padre, e la sua morte nelle fiamme del ranch.

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La sequenza della “sconfitta” di Tex – è il titolo dell’album – è iscritta come un programma strumentale nel programma narrativo che ristabilisce la giustizia attraverso la vittoria sui Baker. Vittoria ottenuta non da Tex ma dalla vendetta indiana e dall’incendio. Non è l’eroe ma un fatto del destino che Tex segnala però con frasi premonitrici: “i Baker giocano col fuoco”, “si sono scottati le mani” o con la sua locuzione preferita “fiamme d’inferno”, pronunciata nel momento della provvisoria sconfitta. Sono frasi che assicurano la coesione narrativa e segnalano l’eroe come medium d’una istanza superiore, il fato che punisce vizi e follie dei Baker. Se è il destino che ripristina la giustizia, il compito dell’eroe è un altro e ha a che fare con la sua stessa identità. La sequenza del doppio duello tra Tex e Ruby Scott è narrativamente autonoma. Ruby Scott è qualificato da diversi epiteti-formulari che, secondo la tradizione epica, costituiscono delle immagini fisse. Sono qualificazioni negative che segnalano il suo ruolo sinistro di Sicario: assassino, beccamorto, demonio, infernale, con un particolare accentuazione sul velenoso (serpente, serpente a sonagli, velenoso). E la sua astuzia non virile (Tex lo chiama furbone e damerino). Ma la sua qualifica più netta è quella di Meticcio: gli epiteti sono sporco meticcio, mezzo verme, mezzo sangue. Questa condizione mista e instabile è sottolineata in tutto il corso del racconto sul piano dell’essere e quello del fare: dal vestito alle armi, dalla fisionomia al linguaggio. Ruby vive nella riserva solo a metà tempo e non crede alla squaw né alle cerimonie indiane che presagiscono la sua morte. Eppure lo stregone indiano ha gettato esattamente le sorti: il suo feticcio annuncia la morte del meticcio: anche visivamente i due corpi giaceranno nella stessa posizione. Alla fine la comunità indiana che lo vendica, lo respingerà come una cattiva medicina: ha voluto vivere come un bianco e verrà sepolto nella terra dei bianchi. L’identità del meticcio, che porta un nome bianco Ruby Scott, si trova solo nella morte. Il termine complesso che assomma il bianco e l’indiano è insostenibile: la colt di Tex è l’operatore “fatale” della sua disgiunzione. Eppure è chiaro prima facie che il Sinistro Meticcio è l’immagine speculare, identica e invertita, di Tex. Come afferma esplicitamente Sahuara, anche Tex è un capo “indiano” navajo, sposo di una indiana ma con un nome indiano, Aquila della Notte. Il “ranger” si trova di fronte a se stesso, rovesciato nei valori, nella fisionomia e nella tenuta vestimentaria minuziosamente rappresentata. In entrambi i duelli, Tex si presenta sempre alla spalle di Ruby: per sorprenderlo con il sole negli occhi, per aspettare poi che l’altro gli faccia fronte. Quando si presenterà all’ultima sfida, con la destra inutilizzabile, si rivelerà ambidestro, e ucciderà appunto con la sinistra il Sinistro Meticcio. Il quale prevale in un primo tempo grazie a un inganno, – il tipico oggetto magico che ha il fellone delle favole – la fondina con lo swivel, cioè con un perno girevole, che è anche un raggiro. Willer si trova di fronte allo swiller, il beone meticcio – beve e fa bere gli indiani – che nessuno osa guardare negli occhi (swivel-eye è il segno di strabismo). E lo ucciderà senza avere in testa l’inevitabile cappello, ma con la fronte cinta da una benda che riproduce la fascia della sua identità indiana: Tex uccide, con la sinistra e come Aquila della Notte, l’insostenibile, sinistro meticcio. 3.1. Primo piano sulle ferite Il fumetto di Tex è un vero salasso delle enciclopedie della cultura di massa. Il motivo del meticcio proviene forse da Salgari3: il Sandy Hook, de La scotennatrice, che vive

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con ed è vestito come i pellerossa, si tinge la pelle e si fa chiamare Mocassino Rosso (Pozzo). Ed è promesso a un avvenire nel mondo della strip fino al Magico vento di Gianfranco Manfredi, in cui l’eroe è un ex bianco che porta appunto un nome indiano. Ma più delle fonti, anche cinematografiche – la fisionomia del Sicario proviene forse dal Jack Palance de Il cavaliere della valle solitaria e la fondina-raggiro da L’uomo che uccise Liberty Valance – ci interessa l’organizzazione della significazione. L’eroe della nostra sequenza è duale, come segnala l’esatta simmetria delle inquadrature e dei punti di vista del primo duello. Dal punto di vista enunciativo, la focalizzazione narrativa porta piuttosto su Ruby: l’episodio è particolarmente avaro di primi piani di Tex, mentre il suo avversario, specie nella presentazione, è progressivamente e strettamente inquadrato. Ma un elemento semiotico dell’enunciato narrativo ci orienta altrimenti: le ferite. Il meticcio cade colpito da un unico colpo al cuore; grazie al raggiro della fondina, Tex è colpito invece in più punti, minuziosamente e clinicamente descritti: la mano, la spalla e la tempia. Dagli studi di folclore e mitologia sappiamo che la narrazione popolare prevede che l’eroe riceva, nel corso del duello, un marchio che è segno di vocazione e stimmata di valore (Dumézil). È la funzione 17 nella classificazione narrativa di Propp, intermedia tra la 16, il duello, e la 18, la vittoria. Ora, queste ferite di Tex presentano una notevole proprietà, portano sulle tre funzioni somatizzate che definiscono la competenza dell’eroe. Il capo, la tempia in particolare, segnala la prima funzione di saggezza e capacità di comando; la mano rappresenta la destrezza e il valore; la spalla, metonimia del cuore, sta per la vitalità del corpo. L’eroe è provato, cioè qualificato dalle ferite che gli permetteranno di avere il sopravvento e di differenziarsi dalla relazione speculare con l’avversario. È, etimologicamente, la sua autopsia. Ma Tex, spesso colpito, non presenta mai cicatrici-segno: alla fine d’ogni episodio, l’eroe trova infatti la trasfigurazione che gli consente di intraprendere intatto la nuova storia. Il ferito è invulnerabile perché l’eroe non invecchia, non si “attempa”. Le mitologie non hanno memoria causale ma solo consecuzione temporale. 4. Mitismo e fabulismo La lettura semiotica, qui senza aloni d’oscurità, suggerisce qualche riflessione sui nostri modelli culturali, come Abruzzese ci chiede? È presto detto: i testi culturali sono recalcitranti. Certamente il Tex della Sconfitta addita alcune proprietà distintive del suo “mitismo”. Se per mito intendiamo le proprietà di un corpus di narrazioni in grado di risolvere sul piano immaginario delle contraddizioni reali (Lévi-Strauss 1973b), allora l’instaurazione della giustizia come destino e la dissoluzione della condizione “meticcia”, sono due mitemi che il racconto ha concatenato nella figura del Sicario Mezzo-sangue. Spetta all’eroe scindere le due identità, bianca e indiana, del fellone, per conservarle, distinte, ma partecipative, in se stesso4. Quanto alla giustizia, essa avviene come valore impersonale, “destinante trascendente” di cui Tex è solo strumento. Ma mentre il mito prevede la metamorfosi o la deformazione dei propri attanti, l’avventura di Tex si ripete in una versione formulare: egli è un rivelatore identico di proprietà che

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sono gli antagonisti a portare; il ranger, più che un esploratore, è uno sperimentatore di significati che gli vengono dall’altro in forma rovesciata. Per questo le sue imprese somigliano a quello che Lévi-Strauss (ib.) chiama “mythes à tiroir”, cioè al feuilleton. Le trasformazioni sono sostituite dalle ripetizioni; al tempo circolare succede quello seriale; il leitmotiv ascende verso la ritualità e di qui alla locuzione formulare. Si configura così una combinatoria invariante, schema di genere intermedio tra il lessico dei motivi d’una cultura e le combinazioni illimitate di testi varianti. Non ha torto l’antichista Dupont quando sostiene che Omero è il Dallas dell’antichità, e Dallas televisivo – “canto epico in immagini, forma contemporanea dell’antica letteratura orale” – l’Omero degli anni Ottanta. E sottolinea il carattere immobile e fuori tempo del mondo TEXano di finzione, in cui gli eventi non modificano l’ordine delle cose, e il tempo non è quello dell’America contemporanea, ma quello del racconto. Al punto che, scrive: “come gli scali di Ulisse, gli episodi potrebbero succedersi in qualunque ordine”. Eppure c’è in Tex e in questa peripezia eroica in particolare, un tratto specifico, che è connesso alla semantica mitica del primo universo western. Qui la fisionomia etica dell’eroe ha i caratteri del bene, nettamente opposti a quelli del male; egli è l’agente della “elaborazione d’una civiltà che è già sfuggita all’epopea collettiva senza diventare ancora la meccanica impersonale del progresso, momento di verità in cui gli uomini sembrano fare la storia e sapere perché la fanno” (Glucksmann). Ma il cinema e il fumetto hanno successivamente introdotto nell’unità epica il principio di un destino tragico e contradditorio. L’immagine del “velenoso” sicario, il quale introduce nella “legalità” del duello, l’illegalismo della bassa bisogna e quella del Meticcio che intorbida le nette appartenenze razziali, sono tratti esemplari di questa variazione. Resta tuttavia, a un eroe come Tex, una coerenza di senso e una coesione narrativa – l’ombra o il riflesso di un’aura – che lo separano da altri eroi, come ad esempio Corto Maltese o Ken Parker, le cui ferite si guarirebbero solo per salute e atletismo. Questi personaggi, ricchi in dubbi e pentimenti, sembrano pronti a redigere la loro autobiografia letteraria, là dove Tex si incammina verso una nuova avventura. Non si tratta neppure di scrupolo storico: la fondina con lo swivel è esistita e gli indiani papago – o tohono o’odham – stavano davvero nel deserto di Sonora: il loro spagnolo interiettivo è verosimile. Il problema non è il mitismo, ma il “fabulismo” e il destino. L’eroe è dato e non si compie; ha incorporato il destinante, cioè i valori e i segni che necessitano tutti gli atti della sua esistenza; la sua traiettoria (“più plastica come carattere – direbbe Bachtin – più pittorica come tipo”) è esecuzione del destino. Barthes, nelle sue Mythologies, ha visto con perspicacia la rapida estrazione della pistola – accelerata dallo swivel – come un esiguo “gesto tecnico temporale che (…) manifesta il potere del destino”. Gesto silenzioso che ha diritto di vita e di morte e taglia il tempo e il linguaggio. Di qui la stereotipia e l’ingenuità del temperamento eroico che caratterizza il suo fabulismo: l’avventurosità di Tex non può essere critica. Come non comprendere il suo successo in un’epoca che ha perso il senso del proprio destino e ne cerca dovunque i simulacri: dai segni zodiacali agli sport estremi (Baudrillard)? Quando questa ricerca si estingue, basteranno al lettore gli effetti speciali – exploit del racconto, prodezze del disegno – del fumetto Supereroico5.

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5. Ritmi: anafore e cadenze A Tex mancano dunque le caratteristiche mitiche – ambivalenza e metamorfosi e quelle “psicologiche” – complessità e singolarità. Ma i tratti del suo temperamento si spiegano, nel corso delle sue avventure, come ricorrenze di comportamento di fronte a situazioni e antagonismi impreveduti. Di qui le simmetrie e le antifrasi sul piano narrativo, che vanno dagli episodi ai gesti caratteristici, fino alle rispondenze linguistiche e visive tra il fuoco metaforico e quello reale, il feticcio e il meticcio, Willer e lo swiller, lo swivel dell’arma e quello degli occhi. L’andamento narrativo del fumetto, “sensibile al demone dell’etimologia e a quello dell’analogia” (Rey), è condotto e punteggiato da queste “rime” semiotiche che danno al testo una sintassi simile ai proverbi, condensatori dell’immaginario collettivo. È un livello caratterizzante della lettura striptica che assicura oltre allo svolgimento delle sequenze, un altro circuito di senso, un co-testo interno al testo e una presa seconda di senso. Un succedaneo della mitologia? Si tratta in ogni caso di una proprietà semantica della narrazione del fumetto che ne orienta i caratteri stilistici, dalla dimensione plastica (topologica, eidetica, cromatica) e grafica fino alla collocazione delle vignette nella pagina e alle sequenze ritmiche. I semiologi del fumetto hanno studiato la coesione discorsiva, che nello spazio parcellare della pagina è ottenuta in via anaforica: “la costruzione iconografica riposa su una gigantesca anafora, sul perpetuo rinvio al già mostrato, dopo il già detto” (Rey). Tocca infatti al rinvio anaforico assicurare una tenuta alle deformazioni delle inquadrature e alle variazioni dei punti di vista o di svista. Ad esempio nel nostro album, i numerosi “esterni” – saloon, ranch, tende indiane – che interrompono inaspettatamente la rappresentazione diretta delle conversazioni prolungate e situano intanto gli avvenimenti. Oltre agli interventi extradiegetici del narratore – che operano il raccordo temporale all’interno di una stessa sequenza (mezz’ora dopo) o regolano le concomitanze narrative (intanto) – è la cadenza delle azioni o passioni (la determinazione di Tex, lo sgomento di Ruby) che scandiscono la narrazione. È una logica di intervalli di contenuto e dell’espressione. Il ritmo del narrare, cioè l’intersezione delle cadenze semantiche e discorsive, è intrecciato al piano delle simmetrie, cioè alle rime semiotiche che danno un’impreveduta punteggiatura di senso. Come il singolare parallelismo tra due elementi lontani nella linearità del racconto: il feticcio nel cerchio della terra indiana e il meticcio nella bara di legno di pino, entrambi sotto gli occhi della squaw! I miti, per Lévi-Strauss (1971a), esibiscono, infatti, una “capacità anagrammatica dell’insieme significante” già intuita da Saussure. “Trasformazioni di questo tipo costituiscono”, continua il mitologo, “i fondamenti di ogni semiologia”. Dispositivo fondamentale e arcaico che si perpetua “non per conscia osservanza delle regole, ma per conformità inconscia a una struttura ‘poetica’ percepita in modo intuitivo”6. A lungo si è ritenuto che questi tratti discorsivi – densità semantica, e sintattica, rime narrative e figurative, giochi lessicali – fossero l’appannaggio della grande letteratura e fondassero una gerarchia di valori testuali. Per l’attuale revisionismo culturale, la cultura popolare non possiederebbe queste qualità: giochi del significante, bellezza del plot. Ma il racconto della sconfitta dell’invitto Tex non prova forse il contrario? Come la funzione poetica del linguaggio non si limita alla poesia, così la

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“letterarietà”, se esiste, va cercata altrove, come suggeriva Eco (1964). Ad altri l’onere della prova, ma la critica dovrà farsi più clinica. 6. Storie da riscrivere e rivedere Eco (1999) osservava che tra i semiologi c’è chi riserva ai testi della cultura di massa un trattamento “spartachista”, lasciando ai riceventi l’onere interpretativo dell’attribuzione di senso. Lascerebbe invece “aristocraticamente” ai testi di cultura alta, l’onore dell’analisi narrativa e discorsiva. È questo “l’alone oscuro della semiotica” che teme Abruzzese? Chi scrive non ha questa dicotomia di metodo e di oggetto. Crede alla forma della finzione d’ogni testo; al suo diverso potere d’innovazione semantica e di creare nuovi riferimenti, cioè degli inediti possibili rispetto ai dati dell’esperienza. Come diceva Hosbawn, il cinema ha contato più del cubismo, per cambiare il nostro sentire. E in questo senso tutte le favole, Tex compreso, sono vere (Calvino). Per Abruzzese “le storie e le teorie del fumetto si possono riscrivere. Forse si debbono riscrivere”. (T)ex-novo? Si riscrivano dunque con l’organon dei concetti semiotici e la sua prospettiva disciplinare7. Nella caverna platonica, insieme alle ombre parlanti dei simulacri esterni, stavano anche quelle degli spettatori. Non è sorprendente che sui testi si proietti anche la nostra ombra.

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Questo articolo è in Per Alberto Abruzzese, a cura di V. Giordano, I. Pezzini, L. Sossella, L. Valeriani, Roma, Sossella, 2002. 1 Tra le più estese e complete cfr. Floch 1997. Il tentativo, ambizioso e opinabile, è di mostrare come l’andamento delle sequenze narrative di Tin Tin nel Tibet sia, nella sua disposizione diagrammatica, omologo alla forma di un mandala tibetano. Sarebbe quindi iconica la stessa struttura della storia. 2 Prendo il termine da Alain Rey, uno dei primi e mal conosciuti semiologi del fumetto. Cfr. peraltro il capitolo sui mutanti che converge per molti aspetti con le analisi di Abruzzese (1979). 3 Sul difficile rapporto tra Salgari e gli indiani cfr. Pozzo 2000. Sulla derivazione di Tex dal mondo salgariano e in particolare dal Ciclo della Praterie una ricerca resta da fare. È forse la ragione della “italianità” di Tex e delle sue scarse traduzioni. 4 Dei pards di Tex fa parte Kit, figlio del capo bianco dei Navahos e di Lilyth, e Tiger Jack, indiano navaho la cui moglie è stata uccisa, come quella di Tex, dai bianchi (cfr. l’Albo 387, Voglia di uccidere). A differenza di Tiger Jack, nel nostro episodio è la moglie indiana a vendicare il meticcio ucciso. In ogni modo, Tex è il solo meticcio “culturale”. 5 In America il genere del fumetto western, come molti altri, è morto negli anni Sessanta, in coincidenza con la seconda e definitiva ascesa del fumetto Supereroico, che ne ha esteso e tramutato l’eredità espressiva e semantica. 6 E aggiungeva: “Tutto sommato l’obiezione che incontriamo oggi da parte di spiriti conservatori, i quali rifiutano d’ammettere che l’ispirazione poetica riposa sul gioco d’una combinatoria, si fonda anch’essa su di un vecchissimo misticismo che dai tempi più remoti ha regolarmente represso nell’inconscio i veri meccanismi della creazione estetica” (1971a, pp. 613-614). 7 Sulla possibilità d’un incontro a mezza via tra semiotica e sociologia e per una elaborazione sociosemiotica autonoma, cfr. le fondate osservazioni di Pozzato, per cui non ci sono “semiologi profeti nella patria della sociologia”. C’è tuttavia consenso circa la posizione della semiotica saussuriana nel paradigma delle scienze umane.

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Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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