Etica

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Etica di Carlo Augusto Viano

Enciclopedia filosofica ISED I

Carlo Augusto Viano

L’etica

ISEDI Istituto Editoriale Internazionale

Indice

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1. Etica e morale

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’ ■V 1.1. L’ambiguità della morale 1.2. La rigidità dell’etica > 1.3. La costanza della morale e là variazione dell’etica ìf . 1 1.4. I grandi cambiamenti del quadrò etico 1 1.5. La fine dell’eticà \ 2. Dalla polis all’impero 2.1 La nascita dell’etica

2.2. La scienza della morale 2.3. Le virtù del 'cittadino 2.4. La salvezza del saggio 2.5. Cittadini del mondo e il rifiuto dell’impero 3. Dall’impero alla chiesa 3.1. 3.2. 3.3. 3.4.

L’etica della salvezza collettiva La disciplina della chiesa Colpa e peccato Morale ecclesiastica e morale mondana

4. I dotti e la società 4.1. Il cristianesimo dei dotti 4.2. La morale dei dotti

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4.3. 4.4. 4.5. 4.6. 4.7. 4.8.

La legge della società La meccanica del piacere L’etica scientifica Il sentimento e le finzioni sociali La fine della virtù La perfezione impossibile

5. Società, natura, individuo 5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5. 5.6.

La società statale La società industriale L’etica positivistica L’etica utilitaristica Dalla società alla natura Il singolo: l’esistenza e il ruolo

6. La fine dell’etica

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6.1. La demistificazione della morale 6.2. L’originalità della conoscenza

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6.3. 6.4. 6.5. 6.6. 6.7.

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etica Senso comune, storia e progresso L’irrazionalità della morale L’abolizione dell’etica Le regole della valutazione Il primitivo, l’animale e la so­ cietà di massa

Guida bibliografica

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Nota orientativa

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Bibliografia generale

1. Etica e morale

1.1. L’ambiguità della morale Il termine “morale” ha nei nostri discorsi reali oscillazioni di significato che non sempre è facile cogliere e descrivere con esattezza. Procedendo alla buona potremmo dire che “morale” significa: 1) qualcosa che è meno di qualche altra cosa: in questo senso si parla di una certezza soltanto morale, che può fornire per esempio una prova soltanto morale e su cui può essere fondata una condanna soltanto morale; 2) qualcosa che è più di qualche altra cosa: in questo senso si dice che la morale vieta cose che la legge non vieta o che la morale condanna anche là dove i giudici non possono con­ dannare; 3) ciò che è privato: in questo senso le regole morali possono impegnare singoli o gruppi di individui informali o semi-formali; in questo senso si dice che in fatto di morale ciascuno dà da sé i principi a se stesso o che risponde solo a se stesso; in questo senso si ricuperano anche i significati (1) e (2), in quanto le re­ gole private della morale hanno qualcosa in meno rispetto alle regole pubbliche (meno estensione, meno forza), ma hanno an­ che qualcosa in più (impongono più obblighi, sono più esigenti in fatto di responsabilità); 4) ciò che è universale: in questo senso si dice che le regole morali stanno al di sopra delle altre regole, perché appunto vin­ colano tutti gli uomini e ciascuno di essi; in questo senso si dice che la morale sta a fondamento di gruppi più grandi di quelli formali, per esempio il gruppo dei paesi civili, di quelli indu­ striali, di quelli capitalistici ecc.; al limite si parla della morale dell’umanità.

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Etica e morale

Questi quattro significati si collegano variamente. Già lo ab­ biamo visto per il terzo significato. Ma qualcosa di simile vale anche per il quarto: le regole morali pretendono di essere uni­ versali perché sono meno particolareggiate e perciò si rivolgono a una classe di persone più estesa; ma proprio per questo sono la base per condanne meno costrittive, ma più variamente ap­ plicabili. Qualche volta le relazioni dei significati sembrano ri­ spondere semplicemente alla condizione di complementarità:, è chiaro che le regole sono più universali se sono meno partico­ lareggiate o che le sanzioni sono più varie se sono meno violente. Altre volte invece sembra che non si tratti di complementarità:, per esempio il carattere privato delle regole morali sembra colle­ garle sia con ambiti ristretti, come i sotto-gruppi informali o se-mi-'formali, sia con ambiti amplissimi, come i gruppi super-formali. Oppure sembra ora che gli obblighi morali siano aggiunti alla periferia di corpi normativi meglio stabiliti, e perciò siano forniti di un grado minore di obbligatorietà, di maggiore elasti­ cità, di minore esigenza in fatto di prove e di minore rigidità in fatto di sanzioni, ora che si riferiscano alle regole fondamen­ tali dei corpi normativi istituzionali e perciò siano dotati di mi­ nori esigenze in fatto di prove, di minore rigidità in fatto di sanzioni, proprio perché hanno un grado maggiore di obbliga­ torietà. I quattro significati che abbiamo isolato a titolo esemplifica­ tivo sembrano derivare dal carattere ambiguo della morale. Sem­ bra cioè che la morale faccia riferimento a un corpo di regole diverse dalla morale stessa, un corpo di norme che non abbia­ mo bisogno di nominare adesso, ma che dovrebbe avere rispetto alla morale un grado maggiore di rigidità (nelle condizioni di appartenenza delle regole al corpo, nella gerarchia delle obbli­ gazioni, nell’ambito di atti e persone cui si riferiscono, nelle prove delle trasgressioni, nelle sanzioni). Intorno a questo asse normativo rigido oscilla la morale, passando sopra e sotto di esso: questo spiega perché la morale può presentare a volte esaltate a volte depresse le condizioni del corpo normativo cem. trale, cioè può essere più o meno esigente, più o meno rigida, più o meno estesa. Non c’illudiamo di aver fatto con questo discorso qualcosa di più che mettere insieme qualche esempio e qualche metafora. Non pretendiamo certamente di aver proposto un abbozzo di spiegazione, un principio di teoria. Sarebbe possibile obbiettare subito che esempi e metafore presuppongono una situazione ben nota e diffusa nelle nostre società, dove l ’asse normativo rigido

La rigidità dell’etica

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è costituito almeno dalle leggi positive statali. Il sistema giu­ ridico ha condizioni abbastanza chiare di appartenenza di una regola al corpo normativo, ha regole concernenti i mezzi di prova delle trasgressioni e l ’irrogazione delle sanzioni, si riferisce a un corpo di specialisti deputati all’applicazione delle regole. Quando si esce da questa situazione tutto diventa più difficile. Non è detto che la semplice esistenza di codici di leggi sia sufficiente per costituire una situazione vicina a quella che abbia­ mo indicato: non è detto cioè che la differenza tra un codice nel senso moderno e preciso del termine e un codice di un antico impero o di una città-stato del mondo classico sia irrilevante. Ma la questione si fa più difficile quando si passa a società che non hanno leggi scritte e neppure scrittura; allora è perfino difficile dire che hanno regole nello stesso senso in cui le hanno società con un apparato normativo differenziato e altamente sviluppato. In questo caso si corre il pericolo di prendere il termine “regola” in un senso molto generale, che ha riferimenti difficili alla realtà esistente e con un tasso di elaborazione teorica (magari di arbi­ trarietà) piuttosto elevato. Per evitare concetti troppo elaborati si è qualche volta cercato di rintracciare nelle società primitive distinzioni che hanno un senso preciso in altre situazioni: per esempio si è cercato di vedere nelle società senza scrittura la di­ stinzione tra diritto pubblico e diritto privato, magari insistendo sul fatto che questa distinzione distribuisce le azioni umane in modi diversi nelle società primitive e nelle società sviluppate. In questo caso si corre però il pericolo di proiettare nelle società primitive schemi generali che in esse non hanno senso. Sembra perciò abbastanza facile farsi un’idea della morale, dare a essa un posto se si fa riferimento a un corpo di regole più tigide di quelle morali: le leggi scritte, il codice vanno benissi­ mo a questo proposito. Naturalmente questo riferimento pone vin­ coli pesanti sulla spiegazione che se ne serve.

1.2. La rigidità d ell’etica In questa prospettiva può sembrare non casuale né arbitrario che la tradizione risalente ad Aristotele faccia cominciare l’etica con Socrate (v, § 2.1). I legami di Socrate con Atene e le sue vicende politiche sono oscuri, ma certamente egli è testimone di un processo politico nel corso del quale la legislazione scritta si viene via via affermando come uno dei principali strumenti di po­

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tere della città-stato (polis). Questo processo viene sentito come una rottura con la tradizione e costituisce uno dei nuclei intorno ai quali si forma la cultura ateniese. Il formarsi di un corpo di leggi scritte, il rapporto tra la legge scritta e la tradizione è un punto di riferimento, talvolta esplicito e talvolta no, della lette­ ratura platonica. L’aloqe normativo che permane intorno al corpo delle leggi scritte è sentito come una minaccia agli organi di governo della democrazia cittadina classica. D ’altra parte il carattere fluttuante e indeterminato che la tradizione va assumendo di fronte alla rigidità delle leggi scritte espone la tradizione al pericolo di es­ sere catturata e sfruttata per i fini più diversi. Per Platone il si­ gnificato dell’opera di Socrate risiede proprio qui, nel tentativo di introdurre ordine e organizzazione nella morale, sottraendola all’arbitrio. Platone pretende di portare a termine l ’opera di So­ crate attingendo al modello della matematica, cioè facendo del­ l ’etica una scienza come la matematica. A questo modo la mo­ rale perde la sua arbitrarietà e la sua indeterminatezza, acquista rigidità senza ridursi alla legge scritta. L’oggetto dell’etica non è la legge, né la prescrizione, né la re­ gola, né la trasgressione, né la sanzione, ma la prestazione, cioè un comportamento che sia ima virtù. Una virtù è costituita non dall’osservanza di una norma, ma dal soddisfacimento di condi­ zioni che riguardano la vita del singolo, quella della comunità e il rapporto tra individuo e comunità. La tradizione letteraria ave­ va già elaborato al tempo di Platone un ampio inventario di virtù, da quelle guerresche della società aristocratica a quelle conta­ dine a quelle proprie della nuova aristocrazia e della città. Que­ sta letteratura della virtù ha tutta l ’ambiguità che è propria della morale. Da un lato si presenta come il quadro di una tradizione unitaria, in cui le diverse classi di virtù rappresentano le regole di gruppi umani o situazioni diverse ma compatibili; dall’altro rivela conflitti tutt’altro che risolti, vecchi modi di vita che ten­ tano di sopravvivere e nuovi modi di vita che tendono ad affer­ marsi. Tuttavia entrambi gli aspetti sono essenziali, perché è proprio di questa letteratura morale cercar di riferirsi a una tra­ dizione che si pretende unitaria e voler presentare interpretazioni globali della tradizione. Anche quando certi modi di presentare le virtù sembrano condizionati da certi gruppi reali, la lettera­ tura morale si presenta sempre come una sistemazione della vita individuale e collettiva di carattere generale. Platone riconosce questo carattere ambiguo della tradizione e vuole introdurre in essa un’unità reale. Forse i sofisti ebbero l ’idea

La costanza della morale e la variazione dell’etica

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di tentare un discorso sulla morale (un discorso metatgorale, per usare una metafora alla moda e non tanto chiarificante) anziché un discorso di morale. La scienza matematica poteva offrire l ’in­ dicazione della strada da battere. Tanto più che almeno in un filo­ ne importante della scienza antica (il filone pitagorico) la scienza si era legata all’idea della disciplina e della rinuncia. Questa idea poteva essere ripresa nella morale, cioè la scienza poteva diventa­ re la misura delle pretese morali in conflitto e anche la loro limi­ tazione. A questo modo la scienza avrebbe fatto della morale qualcosa di univoco e ordinato, con la stessa precisione di un corpo di leggi scritte; ma la morale avrebbe acquistato anche ca­ pacità di crescere come una scienza e di stabilire collegamenti effettivi con l ’uomo, la società e la realtà evitando l ’arbitrarietà delle leggi imposte da un’assemblea.

1.3. La costanza della m orale e la variazione d ell’etica Da un certo punto di vista la morale è fluida, variabile, ambi­ gua, mentre l ’etica, intesa come la scienza della morale, pretende d’introdurre precisione, fissità, costanza nella morale. Ma da un altro punto di vista le cose appaiono in modo contrario. L’etica può tentare l ’impresa d’introdurre ordine e costanza nella mo­ rale, perché questa in sé è sostanzialmente unitaria e organica. È soggetta sì a interpretazioni parziali che ne compromettono la sostanziale unità; ma queste interpretazioni sono appunto i di­ versi tentativi insufficienti di costruire etiche. Perciò sono proprio le etiche che variano, mentre il loro oggetto, magari collocato al limite, tende a rimanere costante. Questo complesso nodo di rapporti fu introdotto proprio dal programma platonico-aristotelico dell’etica come scienza di tipo matematico. L’oggetto di questa scienza, la morale, entra a far parte dell’ordine del mondo e ne eredita la fissità. Platone era membro di una grande famiglia ateniese, effettivamente legata alle lotte politiche della città. Lo sfondo dell’etica platonica è il tenta­ tivo di organizzare una scuola che potesse contare nella politica greca. Da Aristotele in poi la vocazione politica dei filosofi tende a essere spesso un fatto più letterario che reale; e già per Aristotele conta molto di più l ’ordine del mondo e quella porzione di esso che riguarda l ’anima umana, che non il palcoscenico politico ate­ niese. Questo fenomeno tenderà a diventare sempre più impor­ tante. Cioè: una volta ammessa l ’etica come conoscenza organiz­

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'litica e morale

zata della morale, il quadro entro cui l’etica colloca la morale ten­ de a diventare sempre più importante e le discussioni tra gli spe­ cialisti di etica tendono a concentrarsi intorno al quadro generale. Molto spesso proprio le innovazioni di quadro diventano il ven colo di cambiamenti del contenuto, ma non sempre questo viene riconosciuto. Anzi si tende a postulare l ’unità e l’invariabilità dell ’oggetto-morale, per trame una prova della validità del quadro che lo rende possibile. Una delle conseguenze più vistose di questo stato di cose è l ’insieme delle dottrine che costituiscono il finalismo etico, la teoria della virtù e la teoria del bene. Le grandi alternative del­ l ’etica antica tendono a mantenere costanti alcuni postulati: resi­ stenza di un fine supremo, la sua identità con il bene e l ’esistenza delle virtù. Per larghi tratti possono anche convergere nella de­ scrizione di questi oggetti morali; ma ci sono punti decisivi in cui divergono. Questi punti appartengono tutti al quadro gene­ rale dell’etica e cioè alla concezione della scienza, a quella della natura, al modo d’intendere i rapporti tra uomo e natura. La conseguenza di questa posizione dottrinale sta nella distinzione tra la morale del sapiente e quella dell’uomo volgare. Dietro que­ sta distinzione sta la barriera tra la cerchia della scuola raffinata e gli estranei, ma dal punto di vista intellettuale sta la distinzione tra la morale-oggetto, che grosso modo è costante, e il quadro, che si configura come un’interpretazione di quell’oggetto. Il che non toglie che dal quadro derivino innovazioni di contenuto rilevanti, che costituiscono poi quello che hanno di specifico per esempio la morale stoica o quella epicurea. Le considerazioni di etica, cioè sul quadro conoscitivo, diventano il modo specifico della morale colta antica. E possono diventare decisive, per esempio quando diventano la matrice di una certa teorizzazione dell’im­ pero romano. In queste pagine abbiamo introdotto una distinzione un po’ rigida tra morale e etica, considerando la prima l’oggetto e la se­ conda la disciplina che lo prende in considerazione. Dal punto di vista puramente terminologico la distinzione è arbitraria, al­ meno in parte. Lo è certamente per il mondo antico; forse un po’ meno per il nostro in cui “ etica ”, non fosse che per l’etimolo­ gia più remota, indica di solito una considerazione più colta del­ la morale. Ma certamente non è arbitraria la distinzione tra le realtà che finora abbiamo indicato con quei termini. Non inten­ diamo dire che siano esistite o esistano nel mondo una cosa come quella che abbiamo chiamato “etica” e una come quella che abbiamo chiamato “morale”. Esiste storicamente, da una cer-

I grandi cambiamenti dèi qùadro etico

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ta cultura in poi, una tendenza a riconoscere una realtà morale e una disciplina etica che la studia, e attraverso questa media­ zione l’etica e la morale sono diventate due realtà. Nelle pagine che seguono abbiamo cercato soprattutto di se­ guire le vicende dell’etica. Ci è sembrata una scelta essenziale per riuscire a scrivere uno schizzo storico di una materia tanto vasta; e ci è sembrata una scelta non arbitraria, ma giustificata dalla storia stessa che stavamo raccontando, posto che la nostra narrazione sia almeno verisimile. Naturalmente il quadro non può essere staccato del tutto dal contenuto. Ma per raccontare una storia centrata sul contenuto avremmo dovuto individuare di volta in volta gli assi normativi rigidi intorno ai quali oscilla la morale, le frange fluttuanti e i nuclei normativi profondi che introduce, i gruppi ristretti e quelli generali da cui trae vita e ai quali pretende di dare vita. Noi abbiamo invece appuntato la nostra attenzione soprattutto sui cambiamenti di quadro e sui mutamenti da essi indotti. I cambiamenti di quadro ci sono sem­ brati legati a fattori come la concezione dell’ordine del mondo, della natura, dell'uomo, della società, della storia ecc. Ma questi fattori non agiscono in isolamento, proprio perché influiscono sulla costruzione di una disciplina come l’etica, che ha un oggetto dubbio come la morale, ma che è a diretto contatto con le moti­ vazioni umane. Quei fattori agiscono in stretto contatto con un corpo di specialisti dell’etica, la cui esistenza è un fatto, anche se il loro status è quanto mai variabile e incerto; ma proprio per questo le variazioni di questo status si fanno sentire sull’etica.

1.4. I grandi cam biamenti del quadro etico Cerchiamo di delineare rapidamente i cambiamenti di quadro che ci hanno guidato e le loro interferenze con i cambiamenti di status dell’etica o dei suoi cultori. Il quadro etico elaborato dalla cultura antica si lega a tre isti­ tuzioni culturali:' la scuola, l’impero romano, il sapiente solitario. Queste istituzioni sono collegate a tre diversi modi d’intendere l ’ordine del mondo che è l ’oggetto della scienza di cui l ’etica co­ stituisce una parte. La scuola è un’istituzione abbastanza elastica, che permette diverse concezioni del mondo, purché esse riservino un posto privilegiato per l ’uomo coltivato. La concezione impe­ riale dell’etica fa riferimento a un ordine universale del mondo, che coincide con l ’intera umanità e in cui hanno posto e ricevono

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giustificazione le gerarchie umane. La concezione solitaria del­ l’etica vede nell’ordine del mondo la condanna della società. L’ordine del mondo è ancora il motivo che percorre l ’etica-cristiana medievale. Esso è ora manipolato non da dotti, maestri e sapienti, ma da preti, monaci, frati, maestri del clero. Anche que­ sta volta esso è tutt’altro che univoco. Non ha una sola espres­ sione istituzionale, perché accanto alla Chiesa rimane pur sem­ pre l ’Impero. La scienza etica degli antichi è ancora lo strumento principale per esplorare l ’ordine cosmico, ma accanto alle anti­ che virtù, nate nelle scuole dell’antichità, si sono aggiunte le virtù nate nelle comunità cristiane, coltivate nei monasteri, più volte riscoperte e ripristinate nelle ansie di riforma che continuamente percorrono il mondo cristiano. L’universalismo della Chiesa ap­ parentemente non va in crisi, almeno sul piano delle pretese, men­ tre va in crisi quello dell’Impero, aprendo lo spazio a una cui-, tura non ecclesiastica che deve svilupparsi senza fare riferimento all’ordine cosmico. D ’altra parte entra in crisi proprio la posi­ zione religiosa degli ecclesiastici, come amministratori dell’ordine divino del mondo. Agli occhi del dotto moderno il cristianesimo è ima realtà di cui bisogna ancora andare in cerca, e senza la guida dei preti; la natura è uniforme e priva di finalità; il mondo umano vario, gra­ tuito e senza senso. I nuovi dotti hanno uno status nuovo: sono piccoli nobili indipendenti come Montaigne e Cartesio, uomini di corte come Bacone e come finiranno Cartesio e Hobbes, pro­ tetti di famiglie nobili, come Hobbes e Locke. Parlare di scienza della morale questa volta è un’altra cosa, perché a Galileo e a Cartesio i trattati dei geometri e dei meccanici antichi hanno in­ segnato che cosa vuol dire cercare di rintracciare l ’ordine dei­ mondo. Quei trattati erano nati nelle scuole alessandrine dove la geometria e la meccanica si erano staccate dall’etica. Ora ri­ cucire il taglio fatto dalla scuola di Alessandria (v, § 2.4) non era facile. La natura non poteva più essere il filo conduttore per la ricerca della strada dentro la varietà dei costumi umani. Eppure la fiducia nell’etica degli antichi rimane, anche se in modo contorto. Gli antichi hanno sbagliato la loro etica, perché hanno postulato un ordine finalistico nella natura: cioè hanno dato un quadro etico errato. Ma il contenuto di quel quadro (la morale che la loro etica descrive) è sostanzialmente esatto. Fun­ ziona così il postulato della costanza della morale. Qualche corre­ zione di contenuto bisogna introdurre dando il primo posto alle virtù pubbliche rispetto a quelle private. È un mutamento molto importante, in realtà; e proviene dalla polemica anti-ecclesiastica

I grandi cambiamenti del quadro etico

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che dal Medioevo attraverso il Rinascimento arriva a Francesco Bacone. Ma la ripercussione di questa innovazione sul quadro eti­ co viene avvertita solo in parte. Tra la varietà dei costumi umani, l ’unicità della morale sco­ perta dagli antichi, la natura priva di fini, i dotti seicenteschi de­ vono trovare una strada. L’ehrore sta nell 'etica degli antichi, nel­ la loro scienza finalistica, che descrive una morale corretta, ma senza collegamenti con una realtà dissociata, che ha permesso il nascere delle false virtù solitarie già presso gli antichi, ma poi ancor più presso il cristianesimo ecclesiastico. Nasce qui l ’etica del piacere e dell’utile, che vede nel -desiderio e nella conoscenza della natura i mezzi per costruire un’etica adeguata: nessuna il­ lusione sulla natura e sugli uomini, esatta percezione dei desideri umani e delle loro possibilità, calcolo accurato delle conseguenze delle azioni sono le vie della nuova scienza della morale, che ri­ cupererà gran parte dell’etica antica, depurata delle virtù mona­ cali, anche perché Cartesio si fa guidare da Seneca, Hobbes da Tucidide e Aristotele, e Locke raccomanda il De officiis di Ci­ cerone come manuale di morale. Questa soluzione del problema aveva dei costi. Cartesio rin­ viava tutto al momento in cui il suo fantastico sapere si fosse svi­ luppato, Hobbes poneva come condizione la costruzione di imo stato assoluto non meno fantastico, mezzo mostro biblico e mez­ zo macchina mondiale, che come una grande costruzione artifi­ ciale si viene a mettere tra l ’uomo e la natura; Spinoza celebrava connubi tra misticismi ebraici e neo-platonici e il sistema carte­ siano del mondo. Ma forse l ’aspetto più inquietante era la procla­ mazione del carattere artificiale della morale, che da Hobbes si stava propagando anche negli angoli più cauti della cultura: a modo suo, con prudenza e giudizio, Faccettava perfino Locke. L’artificialità della morale era una mina pericolosa. La fece scoppiare Mandeville. Mandeville diventò un caso, anche se fu il prodotto di una letteratura moralistica che testimoniava il carat­ tere tutt’altro che unitario della realtà morale. Figli di Montaigne e del Bacone dei Saggi, moralisti francesi e inglesi del Seicen­ to danno un quadro della realtà morale del tempo dove do­ minano le figure della dissimulazione e della cattiva coscienza. Ebbene proprio Mandeville teorizza la virtù come finzioite. Più drastico di Hobbes, Mandeville proclama che la virtù non solo è artificiale: è finta. Ed è indispensabile. La fine della virtù di­ venta a poco a poco un tema costante della cultura settecente­ sca, anche se contro Mandeville combatteranno i grandi scozzesi come gli Illuministi. Ma Rousseau dirà chiaramente che il sapere

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come il sentimento si guastano nelle società numerose che inse­ guono la prosperità artificiale: cioè la virtù è davvero una fin­ zione per una società artificiale. Anche chi difendeva la virtù, da Voltaire a Hume, ormai poneva l ’accento sulla differenza tra le virtù pubbliche e l’ascesi privata. Cultura scozzese, sapere ac­ cademico tedesco, illuminismo francese da Montesquieu, a.,Rous­ seau erano i materiali che dovevano confluire nel grande sistema di Kant. Una costruzione inverosimile in cui si pretendeva di co­ struire per la prima volta l ’etica come conoscenza attendibile, en­ tro i suoi limiti, e di ricuperare la tradizione morale che arrivava fino agli stòici. Ne usciva la prospettiva di una società ragione-, vole infinitamente lontana o di una morale realizzata con infles­ sibilità nella sola coscienza. L’etica non percorse le strade del ricupero dell’infanzia e della volontà generale che Rousseau additava a essa come unica pos­ sibile. Ritrovò se stessa dopo la Restaurazione attraverso un nuovo oggetto, nuovi cultori, nuovi destinatari. In Germania i nuovi maestri dello stato, dello stato-nazione di Fichte o dello stato teologico-burocratico di Hegeì, additavano nella società sta­ tale il nuovo vero oggetto dell’etica. In Francia nuovi profeti della scienza e dell’industria vedevano nella società industriale il nuovo polo della scienza etica. In Inghilterra la costruzione di una società libera dal feudalesimo, che ricuperi i nuovi lavora­ tori urbani e ne faccia nazione, è ancora il programma della mo­ rale dei riformatori da Owen a Mill. Il quadro etico ha un’inerzia insospettabile: la vecchia teoria dei doveri è il canovaccio di Fichte, Aristotele suggerisce molti problemi a Mill, e Comte e Owen immaginano l’uomo per bene in modo non dissimile da un qualsiasi moralista di scuola. Ma la nuova etica ha un nuovo oggetto: la società, e la società carat­ terizzata con tratti nuovi, come la nazionalità, l’organizzazione burocratico-costituzionale, lo sviluppo della scienza nelle sue ap­ plicazioni pratiche, l ’industrialismo, la presenza dei lavoratori ammassati nelle città. Questi tratti individuano nuovi destinatari dell’etica e sottolineano il nuovo status del moralista: che è un professore delle nuove università come Fichte e Hegel, un profeta buco come Comte o Fourier, un industriale riformatore come Owen. In questo quadro non è più la scienza della natura a fornire il punto di riferimento per la costituzione dell’etica: sono piut­ tosto le scienze giuridiche, economiche, storiche. E nel frattempo la scienza propone con l ’evoluzionismo un quadro della natura di nuovo inquietante per l ’etica. Questa volta non si tratta della

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natura priva di fini: la grande sfida seicentesca. Questa volta la natura rivela i suoi fini, che non sono quelli delFetica. Schope­ nhauer aveva fatto valere con mezzi antiquati l’incompatibilità della natura con la morale. Ma era un intellettuale inquieto co­ me Nietzsche che giocava con rigore la lezione della nuova vi­ sione della natura e annunciava la fine dell’etica. In realtà s’era esaurita anche la spinta che aveva agito da Fichte e Comte. Nietzsche era il simbolo della solitudine intellettuale. Comte ave­ va teorizzato la centralità degli intellettuali nel mondo moderno. In Germania dopo il 1870 il prototipo dell’intellettuale sta di­ ventando l’insegnante di stato che amministra la tradizione dptta o tenta dotte avventure nel campo del sapere. La fine dell’etica tradizionale deriva per Nietzsche dall’impossibilità d’innestare il vecchio quadro etico sulla nuova concezione della natura, ma anche dal riconoscimento dell’impossibilità di comunicare dav­ vero con una società, nella quale si vede solo una massa di schia­ vi falsamente e indebitamente diventati padroni. La fine dell’etica fu proclamata apertamente nei luoghi più di­ versi: da Wittgenstein, da Heidegger, dai teologi neo-kirkegaardiani, dai neo-positivisti, dai sociologi metodologicamente più agguerriti, dai giuristi più rigorosi. I mezzi erano diversi: ardite concezioni metafìsiche e teologiche, raffinate analisi formali, di­ slocazione della morale nella sezione irrazionale o non razionale delle motivazioni, isolamento accurato delle norme pubbliche reali da quelle fittizie. L’etica moriva, mentre continuava a vivere la morale, nel regno del silenzio, delle emozioni, dell’irrazionale, del più o meno arbitrario. Fu tentata un’altra via di uscita per l ’etica, cercando il colle­ gamento con la scienza, ma non attraverso il quadro che questa dava della natura o della società, bensì attraverso il metodo. Si aprirono diverse vie. I. Si disse che la dignità della scienza consiste nel fatto che essa è conoscenza, e l ’etica è una forma specifica di conoscenza, con proprie regole. La morale potrà anche apparire irrazionale da un punto di vista particolare; ma perfino la trattazione dell’ir­ razionale può avere le proprie regole. Sul piano del contenuto questa via cercò sempre un compromesso con quella che sem­ brava la morale di fatto esistente. Nel concepirla agiva anche in questo caso il postulato della costanza della morale. La morale era il contenuto della storia o del senso comune. Alla constata­ zione della morale corrente, l’etica aggiungeva o il riconoscimento delle articolazioni della storia, o il rilevamento della sua ten­

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denza o una serie particolare di regole, che costituivano una morale raffinata per eletti. II. Si disse che l’etica non ha metodi diversi da quelli della scienza, dalla quale è diversa per una delle seguenti ragioni.

a) L’etica applica i metodi della ricerca a situazioni in cui sono rilevanti comportamenti umani. Questo tipo di soluzione puntava soprattutto sulla considerazione della natura come ambiente idea­ le per il comportamento umano e presupponeva una vasta opera di liberazione dell’uomo dalla concezione evoluzionistica della natura. b) L’etica applica i metodi della scienza, ma ne fa un uso parti­ colare, cioè li adopera per operare su prescrizioni o su significati emotivi. Nel primo caso se ne serve per costruire ragionamenti in cui prescrizioni assunte nelle premesse possono passare alle conseguenze attraverso proposizioni descrittive. Nel secondo caso proposizioni scientifiche servono a correggere valutazioni emotive, cioè a persuadere. c) L’etica applica i metodi della scienza in quanto anche essa è formulabile come un sistema assiomatico, ma la sua logica è un ampliamento della logica delle proposizioni descrittive. Le soluzioni 116 e Ile hanno un tratto in comune. Esse vedono nella conoscenza etica non tanto la fonte delle norme, quanto lo strumento di controllo è di correzione delle norme esistenti. Que­ sta funzione viene esplicata in due modi: attraverso l ’esame sul piano descrittivo delle descrizioni associate alle valutazioni e at­ traverso la generalizzazione delle regole. N ell’ambito di 116 la soluzione che parla di significato emoti­ vo è diversa da quella che pària di significato prescrittivo, per­ ché questa vede nella prima un caso di fallacia naturalistica nel senso di Moore. All’interpretazione della morale come persuasio­ ne sostituisce perciò il concetto di etica come ragionamento. Co­ me l ’etica di Moore anche questa si propone come scopo princi­ pale l’analisi e la comprensione della morale esistente, ma rin­ tracciando in essa le premesse etiche, autonome da credenze sui fatti. E si propone non tanto una morale aggiuntiva, come l ’etica dL Moore, quanto la promozione della decisione pratica come de­ cisione autonoma e della formulazione delle regole morali come regole generali. In realtà i tre tipi di soluzione del punto II vanno da soluzioni di tipo naturalistico, in cui l’accordo dell’uomo con la natura è \

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il criterio-guida dell’etica, a soluzioni di tipo sempre più forma­ listico, in cui la generalizzazione è lo strumento dell’etica. In Ila il criterio naturalistico funziona allo stato puro. In llb si ha un passaggio dal criterio naturalistico (il significato emotivo è ele­ mento naturalistico, ma questo elemento lavora attraverso la me­ diazione linguistica) al criterio formalistico, che si presenta allo stato puro in Ile. La cultura contemporanea ha ricostruito un tipo di società a regole formali molto strutturate nell’interpretazione strutturalistica della società primitiva. Il perno di questa costruzione è co­ stituito dal sistema di parentela, che in quelle società ha una fun­ zione determinante. Non è importante discutere qui la validità antropologica di questa ricostruzione. È importante osservare,che una società a regole formali molto strutturate è riconosciuta come una società diversa da quella progredita in cui viviamo. Bisogna anche aggiungere che in quella interpretazione della società pri­ mitiva la distinzione tra le regole morali e altre regole non ha importanza. Come se il fatto che quelle società garantiscono stati di equilibrio più sicuri rendesse inutili regole morali specifiche. Si direbbe quasi che l’interpretazione formale della natura sia la nostalgia di una società che non esiste più. D ’altra parte l ’interpretazione della natura che emerge dalle conoscenze contemporanee, nelle zone che più da vicino riguar­ dano la morale, diventa ugualmente imbarazzante per l ’etica na­ turalistica. Essa sollecita a collegare sempre più strettamente la morale con l’istinto. Via via che il posto della morale diventa problematico nella società umana, essa tende a diventare un aspet­ to della vita animale in generale, un modo d’essere degli istinti più che della ragione. Già la psicoanalisi aveva connesso la mo­ rale con l’economia degli istinti, ma l ’etologia, pur non preten­ dendo di ridurre il mondo umano a quello animale, ha messo in luce la rilevante base animale del nostro mondo morale.

f?5. La fine d ell’etica Nel corso della sua storia, l’etica, tentando di costituirsi co­ me scienza della morale, ha dovuto via via passare dall’uso del concetto di órdine del mondo, in cui l’uomo ha un posto, al­ l ’individuazione dell’uomo come campo specifico della natura in cui agiscono forze specifiche, alla ricerca di regole specifiche che permettano di spiegare e valutare le scelte morali. I termini corri­

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spondenti a questi mutamenti sono stati la scienza matematica intesa come esposizione dell’ordine cosmico, la meccanica celeste e naturale e la,concezione della scienza come sistema di proposi­ zioni logicamente giustificato. Di volta in volta l’etica ha cercato di riaggiustare la propria posizione in relazione ai mutamenti che avvenivano nella concezione della scienza o nel suo oggetto. L’etica ha sempre cercato di mettere in luce e di giustificare uno degli aspetti della morale, la sua pretesa di essere lq legi­ slazione di una società migliore di quella esistente: più armonica, più estesa, più ordinata, meno costrittiva. Talvolta queste quali­ ficazioni sono difese insieme, talvolta separatamente. In una pa­ rola la morale dovrebbe metter capo a una società più razionale; si può dire così proprio perché “razionale” è un termine molto vago e plastico. Più o meno il riferimento alla scienza, che è fon­ damentale per l’etica, ha agito in questo senso. Tra Ottocento e Novecento questo tentativo ha subito una sfida più grave che in precedenza. La cultura scientifica, o che ha pre­ teso di ispirarsi alla scienza, ha proclamato l ’irrazionalità o la non razionalità della morale. Questo inquietante messaggio è ve­ nuto daH’evoluzionismo, dall’economia, dalla sociologia, dal di­ ritto e perfino dalla logica, per, non parlare della psicologia. La morale ha-trovato riconoscimento e posto, e proprio nella na­ tura; ma come un elemento non razionale. E questo fatto ha ta­ gliato le radici che l ’etica sprofondava in quello che era il suo oggetto. I tipi di spiegazione che hanno condotto al riconoscimento della non razionalità della morale non hanno trascurato gli aspetti che l’etica aveva sempre cercato di mettere in luce nel suo og­ getto. È vero che la morale è il tentativo di creare una società in cui siano esaltate certe caratteristiche positive delle società esi­ stenti o siano introdotte caratteristiche positive che le società esi­ stenti non hanno. Ma è altrettanto vero che essa è un insieme di regole condivise da gruppi parziali, animati da intenti di innova­ zione, correzione, aggressione, dominio su altri gruppi. È vero che l ’ideale morale è uno strumento di ordine nella vita indivi­ duale e sociale; ma esso opera con forze aggressive che spesso mettono in pericolo l ’ordine esistente o possibile, e non le an­ nulla, limitandosi semplicemente a orientarle. La morale esiste. La sua esistenza non è stata mai provata con tanta forza come quando essa ha trovato un posto tra le componenti non razionali della motivazione o nel contesto delle forze istintuali. Quella che corre un pericolo è l’etica. Per sfuggire a questo pericolo, l ’etica ha cercato di aggirare

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l ’imbarazzante messaggio proveniente dal contenuto della scienza, ha preferito passare sul piano gnoseologico e considerare la scien­ za come un sistema di proposizioni. Parallelamente Immorale di­ venta un sistema di regole, l ’etica un discorso sulle regole. Ma le ricerche antropologiche orientate verso il reperimento di regole razionali del comportamento, formalmente giustificate, hanno col­ locato queste regole nella sfera dell’inconsapevole, pregiudicando un’altra delle pretese dell’etica, indispensabile alla sua aspira­ zione alla razionalità: quella di essere il vertice del consapevole., Via via che 1’esistenza della morale diventa certa quella del­ l ’etica diventa dubbia e pretestuosa, perché rischia di coprire gli aspetti più importanti e caratteristici della morale. Questa pro­ spettiva sembra mettere in pericolo la possibilità di orientare scientificamente o razionalmente i comportamenti. In realtà l ’eclissi dell’etica rivela che la disciplina scientifica e razionale del comportamento non deve necessariamente passare attraverso una regolamentazione della morale. Questo passaggio sarebbe ne­ cessario se le regole morali fossero le più importanti, sicché una volta controllate le regole morali tutte le altre fossero messe sotto controllo. È probabile che il primato gerarchico faccia parte delle pretese che costituiscono la sezione morale delle nostre motiva­ zioni; ma è proprio questo l’aspetto che l’etica ha isolato dal contesto della motivazione, per costituirsi come scienza. Contro questa collocazione della morale al vertice della gerar­ chia del comportamento va la considerazione della morale in ter­ mini di ritualizzazione dei comportamenti. La funzione della morale dipende, in questa prospettiva, non dal contenuto spe­ cifico delle sue regole, ma dalla capacità che esse hanno di ritua­ lizzare comportamenti, spostando conflitti dal piano dell’esecu­ zione al mondo ideale delle pretese. L’aspirazione all’universalità, che tutti i moralisti hanno cercato d’introdurre nella morale, ve­ dendo in essa un suo aspetto essenziale, esiste, ma proprio come dislocazione di un conflitto dal piano dell’esecuzione a quello della progettazione, come affermazione anticipata della vittoria di un gruppo su un altro. I due aspetti della morale, quello per cui essa è un insieme di regole di un gruppo più piccolo di quello formale e quello per cui pretende di essere norma per un gruppo più grande di quello formale, sono essenziali per il blocco e lo sviamento del conflitto. Naturalmente questa funzione della mo­ rale è fondamentale; ma le regole morali sono relativamente poco importanti nel loro contenuto, purché siano efficaci. L’etica tra­ dizionale, che ha cercato di realizzare quella che sembrava la vo­ cazione generalizzante della scienza e ha esaltato l’aspetto univer­

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salistico della morale, in realtà è sMa_ess.a. stessa uno strumento 1 di ritualizzazione. Storicamente essa è stata il tentativo di gruppi ristretti di maestri, preti, intellettuali, riformatori, profeti della ragione di far valere come universali regole di comportamento escogitate in relazione a ideali dèll’uomo, della natura, della so­ cietà. In questa prospettiva è stato nascosto l ’aspetto per cui la morale è un insieme di regole particolari, relative a gruppi parti­ colari, il fatto che essa è anche uno strumento di aggressione e di conflitto, sia pure limitato e controllato. Ma quello che l’etica tradizionale non ha mai messo in luce, trascurando gli aspetti particolaristici della morale, è il carattere che la morale assume nel contesto delle capacità culturali del­ l ’uomo. Proprio per la capacità di modificare e utilizzare gli ap­ parati naturali, l ’uomo ha ritrasformato la funzione pacificatrice della morale in strumento di controllo sociale e di aggressione. Le pretese universalistiche, che servono a bloccare e dislocare conflitti a un certo livello, diventano strumenti per condurre avanti conflitti a livello superiore. Morali religiose e nazionali offrono esempi ovvi di questo genere. Ma l’aggressione morale viene ritorta all’interno stesso del gruppo, come controllo sociale. Le grandi società, dagli antichi imperi alle società moderne, si sono costituite anche sulla base della capacità di diminuire le esecuzioni delle aggressioni. Le società più progredite controllano sempre più strettamente le manifestazioni aggressive violente, che nelle società primitive possono scatenarsi con maggiore frequenza nello spazio che ad esse riserva l’organizzazione sociale. Il no­ stro mondo contemporaneo, che ha acquistato mezzi di distru­ zione fisica potentissimi, ha riservato all’aggressione una possi­ bilità di esercizio assai limitata. Le grandi società immagazzinano in realtà nei riti organizzati, con buone proiezioni universalisti­ che, grandi quantità di aggressività psicologica, che viene usata o nei conflitti tra i grandi gruppi o all’interno stesso del grande gruppo per esercitarne il controllo. L’aspetto universalistico del­ la morale può venir usato cioè al di là del blocco dei conflitti tra i piccoli gruppi, per imporre comportamenti uniformi al di là delle necessità della ritualizzazione dei conflitti parziali. Non è escluso perciò che il miraggio della, scienza etica, che dovrebbe proporre un insieme di regole universali e armoniche, sia pròprio soltanto un miraggio. Oggi sappiamo ancora troppo poco sul funzionamento della morale, soprattutto sulle sue basi biologiche, come sulle basi biologiche del comportamento e della cultura generale. Certo è che diventa sempre meno drammatico rinunciare alla scienza etica tradizionale. La sua funzione di

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veicolo della modificazione, della correzione o della sostituzione dei criteri di comportamento esistenti in favore di criteri migliori sembra già tramontata. È stato il progetto di intellettuali che si sentivano investiti del compito di realizzare la ragione e la co­ noscenza sul piano pratico. Ma nelle società complesse di oggi quel progetto sembra poco verisimile. Sul piano dell’efficacia, non la simulazione del discorso scientifico, ma i mezzi di comu­ nicazione di massa sembrano gli strumenti più efficaci pqr otte­ nere l’uniformità dei comportamenti. È proprio quésta uniformità che viene utilizzata quale strumento di controllo sociale. E la stessa scienza agisce in questo contesto, più che come produttrice di criteri di razionalità, come produttrice di beni cui i comportamenti uniformi si riferiscono e di mezzi immediati per ottenerli. L’indagine scientifica sulla morale potrebbe consistere nello studio spregiudicato delle motivazioni, nella demistificazione dei loro meccanismi, nella descrizione delle associazioni e delle uti­ lizzazioni delle ritualizzazioni. Soprattutto oggi che molte ritualizzazioni stanno cambiando. Il rito della sottomissione e dell’ob­ bedienza che ha sempre regolato il rapporto tra giovani e adulti sta entrando in crisi investendo l’istituzione sociale in cui la vec­ chia etica è nata, e cioè la scuola. D ’altra parte la negazione del concetto stesso di ritualizzazione, cioè la rivoluzione, sta diven­ tando la tipica ritualizzazione di un atto mai eseguito, dislocato, un modo d’essere normale. Forse uno studio scientifico della mo­ rale può mettere in luce proprio gli aspetti aggressivi dell’etica tradizionale e quelli pacificatori dell’immoralismo.

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2. Dalla polis all’impero

2.1. La nascita d ell’etica Secondo Aristotele il fondatore dell’etica come scienza è So­ crate. Socrate fu infatti il primo che cercò definizioni generali delle virtù etiche (Met., x m , 4 ,1 0 7 8 b 17-25; ma cfr. anche ibid., i, 6, 987 b 1-4; x m , 9, 1086 b 2-7). La virtù (areté) è ampia­ mente presente nei poemi omerici, dove compare come attributo degli uomini e degli dei (II., ix, 498). Le virtù umane vanno dalle prestazioni guerresche all’abilità nel parlare e all’astuzia. Ma sono anche virtù delle singole parti dell’uomo, come dei piedi, connesse con l ’abilità nella corsa (IL, xv, 641-643). Il possesso delle virtù che competono a un guerriero e a un capo sono il patrimonio di un agathós, di un uomo bravo. Non si diventa agathós per opera di un maestro professionista. Gli agathoi dispon­ gono tutti di un’illustre ascendenza che risale fino agli dei. La stessa areté è un dono degli dei (Od., x v m , 130-142), appunto perché la condizione di agathós dipende dalla nascita. Questa concezione della virtù entra in crisi nel momento in cui cambia l ’immagine della società aristocratica. Esiodo mette in luce la superbia dell’antica nobiltà e il sorgere di un nuovo tipo di nobiltà, ancora peggiore, mentre i poeti lirici testimoniano la vita raffinata delle vecchie cerehie aristocratiche non più dedite al mestiere delle armi. E intanto nascono i poeti della comunità: Tirteo, Senofane, Solone. Sono questi i teorici di una nuova areté, che si esprime attraverso Yeunomìa. L’eunomia è un in­ sieme di comportamenti ispirati alla moderazione e al rifiuto dei soprusi che turbano l’equilibrio della comunità cittadina. Il co­ raggio in guerra è ora assai meno una dote individuale, come per i guerrieri di Omero, e assai più la virtù collettiva di una città. La Sparta di Licurgo, l ’Atene di Solonéìiascono da questa men­ talità.

La nascita dell’etica

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Lo strumento principale di questo nuovo assetto sociale è la

legge e il personaggio nuovo è il legislatore. La legge è una re­ gola, scritta o no, che distribuisce il potere e cerca di porre un freno agli arbitri. La nuova virtù consiste nell’osservanza della legge. In questo senso la virtù diventa uno dei fondamenti su cui. si regge la comunità cittadina. Ma la virtù, così intesa, non è più un bene familiare, legato alla schiatta e all’origine divina degli eroi. Essa è, semmai, patrimonio cittadino, frutto dell’educazione dei cittadini attraverso le leggi: il mito della Sparta di Licurgo è tipico in questo senso. Sullo sfondo di queste vicende e di queste idee si colloca la sofistica. Protagora ritiene che senza la giustizia e il pudore, le due divinità che secondo Esiodo per ultime avevano abbando­ nato il genere umano corrotto, nessuna città possa sopravvivere; e si presenta appunto come maestro di giustizia e di pudore so­ ciale. Queste virtù non s’insegnano come le altre tecniche, perché in un certo grado tutti le hanno imparate, gli imi dagli altri, i figli .dai padri, nei comuni rapporti della vita cittadina. Ma i so­ fisti danno un insegnamento più accurato, che permette non solo di essere membro della comunità cittadina, ma di dirigere la città, di parlare nelle assemblee e nei tribunali, di consigliare, di persuadere e di decidere. Alla virtù del guerriero, che deve mo­ strar il proprio valore individuale in guerra, si sostituisce la virtù di chi sa consigliare i propri concittadini e sa decidere nella vita politica. Nonostante il tentativo di presentarsi come i maestri più adatti alla comunità cittadina e come gli interpreti della tradizione, i sofisti furono sentiti come innovatori e come estranei alla tradi­ zione. Il dogma omerico veniva rovesciato con la pretesa d’in­ segnare a chiunque la virtù. Prodico dovette elaborare un pro­ prio concetto di virtù, come fatica e rinuncia, che non sempre si accordava con la mentalità cittadina. Ippia criticò le leggi posi­ tive in nome di una legge universale che doveva valere nella so­ cietà dei dotti. E Gorgia forse rinunciò perfino a fare della virtù il contenuto del proprio insegnamento. Veniva così compromesso il fondamento stesso del programma sofistico, la coincidenza del­ la virtù con l ’osservanza della legge. Antifonte faceva vedere che le leggi generano solo aggressioni tra gli uomini; Crizia credeva che la virtù fosse privilegio di pochi, che, come a Sparta, avreb­ bero dovuto esercitare un ferreo dominio sui più. Per i socratici Socrate era il personaggio che si era opposto all’Atene sviata dai sofisti che minavano il vero fondamento delle leggi, insegnavano che le virtù cambiano da città a città, da ceto

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a ceto e sono in sostanza mezzi per affermarsi. Un punto è co­ mune a tutti i socratici. Non si può parlare di una molteplicità di virtù, come se fosse possibile mettere insieme il successo nelle arti, la bravura militare, la riuscita negli affari, l ’autorevolezza nell’assemblea, la capacità di dominare. La virtù è una sola, e dalla virtù bisogna partire per stabilire ciò che è ammissibile e ciò che non lo è. Il Socrate che interviene come interlocutore prin­ cipale nei dialoghi dei socratici si riferisce sempre a questa virtù che non coincide mai con nessuna delle opere per cui sono ap­ prezzati gli ateniesi: per questo sembra estraneo alla città, che finirà con il liberarsi di lui. Il significato della figura di Socrate come fondatore dell’etica si scorge assai bene sullo sfondo della cultura cittadina. L’etica espressa dalla figura di Socrate è soprattutto una risposta pole­ mica contro la città quale si è venuta sviluppando nel v secolo a.C. e contro la cultura sofistica, che nella città ha trovato la pro­ pria domanda e il proprio mercato. Al tentativo sofistico di adat­ tare un patrimonio tradizionale, religioso, letterario, mitologico, scientifico-naturalistico alla vita cittadina, che aveva trovato la propria espressione più vistosa ad Atene, e di offrire il frutto di questo sforzo \o tto forma di un preciso programma scolastico­ pedagogico, il socratismo oppone un.rifiuto netto. L’ideale arcaico ed eroico della virtù non può essere adatto alla città moderna: il socratismo è in qualche modo un tentativo di trovare un’alter­ nativa alla città moderna, e questa alternativa si configura come richiamo a una tradizione che il mondo moderno ha tradito. L’ideale arcaico della virtù viene contrapposto al mondo sociale specializzato, la fatica e la povertà vengono considerate alterna­ tive delle tecniche che chiunque può imparare e che danno ric­ chezza, la vita dell’agricoltore è esaltata nei confronti della vita cittadina. Alla ricerca del piacere che l’uomo deve procurarsi at-, traverso la medicina, la ricchezza, gli agi, le tecniche viene con­ trapposta la visione di un piacere che deve essere preso quando c’è, ma con diffidenza, pronti a farne a meno quando vien meno, pronti a darsi la morte quando la vita diventa insopportabile. Da questo lascito socratico si sviluppa nel iv secolo a.C. la cultura tradizionalistica e restauratrice ateniese, che cerca il ricu­ pero delle tradizioni risalendo lungo la cultura sofistica. Questo ricupero diventa uno dei contenuti principali delle grandi scuole fondate ad Atene nella prima metà del iv secolo, la scuola di Iso­ crate e quella di Platone. Il programma pedagogico dei sofisti viene ripreso, emendato e istituzionalizzato in queste due grandi imprese scolastiche panelleniche, che si pongono come gli stru­

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menti di educazione delle classi elevate del mondo greco. E in queste imprese l ’etica, cioè la ripresa e la difesa della tradizione nei confronti della sofistica, sarà uno dei capisaldi del program­ ma d’insegnamento.

2 .2. La scienza della morale Il ricupero della tradizione passava per Platone attraverso il tentativo di associare l ’ideale scientifico matematico alla morale. Tra il v e il iv secolo a.C. la matematica si veniva costituendo come disciplina organizzata. I pitagorici dell’Italia meridionale avevano già dato un’interpretazione filosofica della matematica e l’avevano collegata con un particolare ideale di vita, che con­ sisteva di regole ascetiche e religiose. Platone raccoglieva tutti questi elementi per elaborare la teoria dell’etica come scienza. La virtù, se deve essere insegnabile, deve essere scienza; e la scienza è di tipo matematico. Ma l ’etica non è identica alla ma­ tematica: questa si occupa di grandezze, mentre l’etica ha per oggetto il bene, che è ciò cui tutto tende. Perciò l ’etica come sapere s’identifica con la dialettica, con la scienza dell’essere, con la sapienza, insomma. La morale non coincide neppure tutta con la sapienza, oltre la quale esistono anche altre virtù: la giustizia, il coraggio, la temperanza. Ma per Platone il coraggio e la temperanza sono virtù specifiche, proprie dei guerrieri e degli artigiani, mentre la giustizia è una virtù complessiva di tutta la comunità politica. Una città nella quale abbiano il potere quelli che hanno acqui­ stato la sapienza, realizzerà anche le condizioni per cui i soldati saranno coraggiosi e gli artigiani temperanti: e sarà una città giu­ sta. L’identificazione della morale con il sapere passa attraverso la complessa mediazione di una struttura politica ideale, nella quale la comunità politica serve non a produrre ricchezza, ma a far sì che ciascuno si possa collocare al posto dovuto nell’ordine cosmico. Platone riprendeva così il tema tradizionale della virtù, che nella cultura greca indicava un livello elevato di prestazioni, in guerra, nella vita pubblica, nell’attività letteraria o artistica ecc. Riprendeva anche il tema sofistico dell’insegnabilità della virtù, ma lo reinterpretava in chiave pitagorica, facendo della virtù una scienza. In questa operazione la virtù finiva con il perdere il ca­ rattere di prestazione eccezionale: diventava il compito di una

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classe sociale o della società nel suo complesso. La virtù si tra­ sformava da prestazione in condizione di esistenza della società. Ma Platone postulava uno stretto parallelismo tra l’individuo e la società: la giustizia è la virtù dell’individuo nel suo complesso, mentre le altre virtù sono prestazioni delle diverse parti dell’ani­ ma, che vengono chiamate in causa in misura maggiore o minore secondo la posizione che l ’individuo ha nella società. La giusti­ zia è, nell’individuo come nella società, la condizione per cui le altre virtù sono possibili, nel senso che solo con un’esatta distri­ buzione delle funzioni tra le classi sociali e le parti dell’anima la virtù e le singole virtù possono essere realizzate. D ’altra parte questa corretta distribuzione, e cioè la giustizia, si realizza solo se la vera scienza guida gli uomini. Il che può accadere solo in un’organizzazione cittadina nella quale gli uomini che non col­ tivano professionalmente il sapere obbediscono ai sapienti. A questo modo Platone pensava di realizzare l ’identificazione della morale con il sapere, attraverso la mediazione del potere po­ litico, che traduce in termini pratici e reali la supremazia della scienza. La dottrina di Platone era un tentativo di contrapporre alla città reale, nella quale gli uomini pensano solo a sopraffarsi e ad arricchirsi, una città ideale, che sia la sede per la migliore esplicazione possibile dell’attività umana, nella quale la ricchezza sia subordinata alla temperanza, al coraggio e alla sapienza. • In nome di questo programma Platone finiva con il proporre alla società colta e ricca del suo tempo precisi contenuti. Un at­ teggiamento di nobile distacco di fronte alle ricchezze, una sorta di superiorità spirituale, da conquistare con lo studio e l ’eserci­ zio, di fronte alle classi artigiane e mercantili, il distacco dalla famiglia di tipo contadino o anche di tipo urbano. D ’altra parte Platone non proponeva il ritorno a ideali militari, di tipo spar­ tano. Sparta e l ’educazione militare avevano una parte importante nella morale di Platone. Ma non erano fini a se stessi. Platone criticava appunto il militarismo, cioè la guerra come fine a se stessa. L’esercizio militare doveva accompagnarsi allo studio: que­ sta era la vera arma nuova che le classi dirigenti dovevano im­ pugnare.

2 .3 . Le virtù del cittadino Per Platone il comportamento individuale è strettamente con­ nesso all’organizzazione della collettività, sicché la virtù diventa

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un-elemento o una condizione della vita sociale. Aristotele tenta invece di costruire un’etica che sia indipendente dall’organizza­ zione sociale: e allora la virtù, come prestazione di una parte del­ l ’anima (nel senso di Platone), diventa un ingrediente primitivo e indipendente della morale. Aristotele rinuncia alla tesi rigorosa dell’unità delle virtù. Fa­ cendo leva sulla partizione dell’anima di stampo platonico, ma abbandonando lo stretto parallelismo tra parti deH’anima e classi sociali, distingue due classi di virtù: quelle della ragione, cioè della parte dell’anima che è in sé razionale, e quelle della parte dell’anima che può obbedire alla ragione. Le prime, che sono le virtù intellettive o dianoetiche consistono nell’esercizio diretto delle facoltà razionali: esse sono la sapienza, la scienza, l’intelli­ genza, l ’arte, la saggezza. Le altre sono le virtù morali o etiche e consistono nell’abito a scegliere costantemente il giusto mezzo tra eccesso e difetto di piacere e di dolore. In questo quadro chi si dedica agli studi sceglie un tipo di • ^ vita separato da quello di chi conduce una vita attiva. Quest’ul­ timo deve mostrare soprattutto le virtù del carattere: il coraggio, la temperanza, la magnanimità, l’amicizia ecc. È il tipo normale del cittadino, capace di comandare e di ubbidire, sempre pronto a sottomettersi alle leggi, sempre capace di esercitare la mode­ razióne. L’uomo di studio, il sapiente, l ’uomo di scienza sceglie un tipo di vita particolare. Non rappresenta certo una minaccia per la città: anzi anche in lui l ’esercizio delle virtù intellettuali mette una particolare disposizione a ubbidire; ma forse è meno adatto a esercitare il comando. Ma l ’aspetto caratterizzante dell’etica aristotelica rispetto a quella platonica è il fatto che essa si presenta relativamente svin­ colata dall’ordine cosmico e dal contesto politico e sociale. Da un lato l ’etica ha come quadro di riferimento l ’anima, le sUe parti, le sue attività; dall’altro le virtù di cui parla possono es­ sere esercitate in un ventaglio assai largo di condizioni politiche e sociali. Questo contenuto dell’etica aristotelica si collega a una precisa impostazione metodologica. Aristotele accetta la tesi pla­ tonica che l ’etica è scienza. Ma proprio facendone una scienza particolare si distingue da Platone. Mentre per Platone l ’etica coincide con la scienza suprema dell’essere, per Aristotele l’etica non è così strettamente dipendente dall’ordine dell’universo. Inol­ tre l ’etica, come scienza particolare, non è una scienza di tipo matematico. Non bisogna attendersi dall’etica il rigore che è pro­ prio della matematica, il procedimento per pure dimostrazioni. Anche l ’etica ha principi, che si riferiscono sempre al bene. Ma

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mentre i principi delle scienze teoretiche si colgono con l ’intel­ letto, i principi dell’etica si colgono attraverso le preferenze per i piaceri, che dipendono in gran parte dalle abitudini. Per questo l ’etica è una scienza che può essere insegnata solo a chi ha già raggiunto la maturità e che presuppone già una buona educazione mentre la matematica può essere insegnata anche ai giovani, per­ ché presuppone solo l’esercizio di poteri intellettuali validi. Platone aveva costruito la propria etica sistemando contenuti tradizionali entro lo schema di una scienza di tipo matematico; ma aveva selezionato i contenuti riferendosi a una città ideale che avesse una certa posizione nell’ordine del mondo. Questa città aveva legami con la storia reale, che è ima specie di storia deviata rispetto a quella della città ideale, nel senso che realizza in modo imperfetto la giustizia che è perfetta solo nella città ideale. Ari­ stotele pensa invece che l ’etica vada costruita tenendo conto delle preferenze degli uomini educati bene, con buone abitudini. Solo questi colgono davvero il bene attraverso l ’esatta gerarchia tra le attività che generano il piacere; e l’etica, che a essi si rivolge, illustra la struttura autentica del bene. Gli uomini per bene ai quali si rivolgeva Aristotele non erano i sapienti armati e raffinatamente ascetici ai quali pensava Pla­ tone. Erano in primo luogo cittadini e proprietari, non troppo ricchi ma non poveri: uomini medi per i quali veniva proposta la morale della misura. Famiglia e proprietà erano i due cardini di questa morale e i due punti su cui Aristotele teneva a diffe­ renziarsi dal maestro. In questa cornice la misura come giudi­ zioso coraggio verso i pericoli, come controllo verso i piaceri, come dignitosa cura nell’evitare l ’esibizionismo diventava la nor­ ma suprema di vita. Nei rapporti con gli altri contava la difesa della misura esatta della propria dignità, la capacità nel reagire al torto subito, il non cader vittima delle emozioni che suscita lo star con gli altri, come l ’invidia, la gelosia.

2 .4 . La salvezza del saggio Alla fine del iv secolo la connessione tra scienza e morale, pro­ pria della scuola platonica e aristotelica subì una grande trasfor­ mazione. La fondazione di una scuola reale ad Alessandria d’Egit­ to, alla corte dei Tolomei, provocò l’emigrazione in quella città della componente filologica e naturalistica presente nella scuola aristotelica. Atene rimase un centro importante di cultura filo-

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sofìca: l ’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele e Teofrasto -continuarono a vivere e a esse si aggiunsero le due scuole nate verso la fine del secolo, il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La cultura filosofica rimasta ad Atene sviluppò gli inte­ ressi etici e retorici, e le grandi scuole filosofiche, a cominciare dall’Accademia, continuarono ad essere centri importanti di edu­ cazione superiore. Via via che si andava costituendo una cultura di corte, Atene rappresentava un po’ il centro di libere iniziative nella cultura superiore. Le scuole di Atene ereditarono la tesi fondamentale di Platone e di Aristotele che l’etica è una scienza. Ma ormai il riferimento alla matematica non agiva più in questa formula, soprattutto do­ po che gli studi matematici e astronomici avevano preso la via di Alessandria. Anche il riferimento alla vita cittadina, ancora presente in Aristotele, si attenuava. Il termine di riferimento del­ l’etica stoica e epicurea era piuttosto la natura. Ma mentre ad Alessandria si portava avanti il tentativo, già platonico e aristo­ telico, di comprendere la natura, ad Atene la natura era vista come qualcosa da cui l ’uomo deve salvarsi. Per lo stoico Zenone il rapporto con la natura si configura come “vivere secondo na­ tura, che è vivere secondo virtù” (fr. 179). La virtù, intesa in que­ sto senso, non è se non la condotta decisa dal retto ragionamento. Si oppone alle emozioni, impulsi non contrastati dal ragionamen­ to, che vengono a turbare l’uomo. La virtù è in sostanza fi dominio della ragione sulle emozioni. La virtù è una sola perché le sue manifestazioni sono tutte forme di intelligenza, che agisce in con­ dizioni diverse e con compiti diversi, dando luogo al coraggio, alla temperanza e alla giustizia. Le emozioni sono quattro: il do­ lore, la paura, il desiderio e il piacere. Zenone era drastico: tutto ciò che non è virtù non costituisce un problema. I beni esterni e quelli del corpo possono agire sul­ l ’uomo, turbarlo attraverso le emozioni, dandogli piaceri, paure, desideri, dolori. Ma, se si eliminano le emozioni, si tagliano que­ sti legami con il mondo e i suoi beni. La natura stessa garantisce la possibilità di una condotta di questo genere, perché è essa stessa razionale: purché l’uomo, sia disposto a seguire la razio­ nalità della natura, che, nella propria provvidenza, garantisce solo la possibilità della virtù, non anche la disponibilità degli altri beni, a chi pratica la “virtù. Del resto il quadro di riferimento dell’etica di Zenone non era più né la città dei sapienti guerrieri di Platone, né la città degli uomini dabbene di Aristotele. Zenone guardava a un’ideale città di sapienti virtuosi, che del sapere fanno soprattutto uno strumento per individuare e sgominare i

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turbamenti emotivi. Ma questa città non coincide con nessuna città storica: è una città mondiale, che comprende i sapienti an­ che lontani, che lega in una comunità sola uomini e dei. Nella realtà quasi municipale di Atene il manifesto della scuola stoica conteneva il più drastico messaggio di cosmopolitismo. L’etica di Zenone consacrava anche un concetto che avrebbe avuto una grande fortuna nella tradizione etica nostrana: il do­ vere. Ciò che si deve fare è il dovere (kathèkon), che è un modo di comportarsi nelle cose che la virtù direttamente non stabilisce. La virtù è il fine dell’uomo; ma questo non basta per orientare tutti i comportamenti. Il dovere è l’insieme di determinazioni che servono a orientare il sapiente in tutte le circostanze, anche in quelle non direttamente collegate con la virtù. Il dovere è una prescrizione, ima regola: mentre la morale platonico-aristotelica era una descrizione di virtù come prestazioni, la morale stoica è un insieme di precetti o regole. Crisippo, nel n secolo a.C., darà un deciso avvio al carattere precettistico e minutamente analitico dell’etica stoica, con un’accurata e vasta descrizione delle virtù, pur non venendo meno al principio stoico dell’uni­ tà di tutte le virtù. E i successori di Crisippo come Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso costruiranno una vera e propria casistica morale, che prenderà lo spunto dai possibili conflitti tra le diverse regole di comportamento, e cercherà di comporli. Anche l ’etica epicurea si costruisce sul rapporto tra l ’uomo e la natura. Però, mentre per gli stoici la natura offre garanzie all’uomo virtuoso, per Epicuro la natura è indifferente all’uomo. La natura stoica è razionale, la natura epicurea è casuale; per­ ciò non distingue tra virtù e vizio. Tuttavia, anche così concepita, la natura epicurea è in grado di orientare in qualche modo i cri­ teri di condotta umana. È infatti sicuro almeno questo: che essa non premia le virtù e non punisce i vizi. Perciò le azioni umane andranno valutate per quello che sono in se stesse, per la loro immediata fruibilità. Per questo l ’unico criterio possibile dei giù1 dizi è il piacere. Per Epicuro “il piacere è principio e fine del vivere beatamen­ te” (ad Meri., 128, 11-129, 1) e “ogni piacere, poiché ha una natura che ci è congeniale, è un bene” (ibid., 129, 9-10). Tutta­ via non perché è bene, ogni piacere deve essere perseguito. In­ fatti il piacere è “il bene primo e connaturato” nel senso che “da esso facciamo trarre principio a ogni scelta e a ogni rifiuto e a esso ci rifacciamo giudicando ogni bene sulla misura del­ l ’emozione. E poiché questo è il bene primo e connaturato, per

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questo non è anche detto che scegliamo ogni piacere, ma talvolta trascuriamo molti piaceri, quando da essi ci deriva un dispiacere più grande, e consideriamo molti dolori migliori dei piaceri, quando ci deriva un piacere maggiore se abbiamo sopportato a lungo quei dolori... Conviene giudicare tutte queste cose con­ frontando e esaminando gli utili e i danni” (ibid., 129, 1-30, 3). Bisogna “ricondurre ogni scelta e rifiuto alla salute del corpo e all’assenza di turbamento (atarhaxia) dell’anima, perché questo è il fine del viver beato. Per questo tutto facciamo, per non sof­ frire né esser turbati” (ibid., 127, 7-128, 4). Epicuro offriva una teoria del piacere, che costituiva il fondamento per un edonismo non indiscriminato. Pertanto, “quando diciamo che il piacere è il fine, non intendiamo i piaceri dei crapuloni e quelli che si tro­ vano nelle dissolutezze..., ma il non provar dolore nel corpo e il non esser turbati nell’anima” (ibid., 131, 8-12). Il piacere è soprattutto assenza del dolore, capacità di far a meno dei pia­ ceri non connessi con desideri necessari, serenità di spirito. Mentre lo stoicismo insegna a pagare, mediante l ’ascetismo, il prezzo per l ’inserimento nell’ordine cosmico, l ’epicureismo addita l ’ascetismo come la sola via per non far affidamento sulla natura là dove la natura non può danneggiare né soccorrere l’uomo. Men­ tre nello stoicismo c’è una dimensione cosmica, proprio perché il mondo ha un ordine razionale, nell’epicureismo prende forma piuttosto una concezione privata della vita. L’epicureismo è una filosofia per comunità di fedeli, che sono uniti da vincoli di ami­ cizia, ma che si appartano. E Epicuro continua quella filosofia della morte, che doveva essere antica assai, perché appartiene al personaggio Socrate e diventerà uno dei punti di passaggio ob­ bligati della nostra tradizione.

2.5. Cittadini del m ondo e il rifiuto d ell’impero Le nuove scuole riprendevano l ’etica della virtù dando un’im­ magine quasi capovolta del mondo reale. Mentre la civiltà elle­ nistica si espandeva, fioriva un’intensa vita cittadina, si cercava la stabilità sociale e la protezione dei beni materiali, si sviluppava­ no le tecniche, le più prestigiose scuole ateniesi insistevano sulla nullità dei beni materiali, sulla salvezza dell’individuo attraverso l ’ascetismo. Quella stoica ed epicurea voleva essere una morale fondata sul disprezzo dei più, o almeno sulla riservatezza. L’idea di una morale popolare non aveva senso in queste scuole. Il ten-

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tativo platonico-aristotelico di considerare la morale come la de­ scrizione di prestazioni che tutti in qualche misura già seguono, era abbandonato con sdegno. Né era popolare la morale popola­ resca dei Cinici, che vedevano nello stoicismo una concessione ancora eccessiva agli aspetti intellettuali e conoscitivi e preferi­ vano insistere sulla rinuncia totale ai beni materiali, frutto della civiltà. Il loro sapiente era il santone, che ostenta di rinunciare a tutto, che privilegia la condizione del povero vagabondo. Paradossalmente quest’etica filosofica della rinuncia, che dava un’immagine capovolta del mondo ricco e operoso in cui agiva, doveva diventare un elemento importante nella formazione del­ l ’imperialismo romano. I rappresentanti delle scuole filosofiche greche ebbero una parte non trascurabile nei rapporti tra Roma e la Grecia. Furono appunto tre filosofi (Diogene di Babilonia stoico, Cameade accademico e Critolao peripatetico) gli amba­ sciatori mandati da Atene a Roma nel 156-155 a.C. Filosofi come Filone di Larissa e Panezio si stabilirono a Roma, dove operò an­ che lo storico Polibio. Panezio si accostò al circolo degli Scipioni e le sue dottrine morali si modellarono anche in relazione ai pro­ getti politici di questo grappo. L’ordine naturale diventò il mo­ dello cui doveva riferirsi la formazione dell’impero romano, cioè l’estensione del potere romano al di là dei confini italici, verso il mondo mediterraneo. È chiaro che in questa prospettiva l ’idea dell’ordine naturale si dissociava dalla concezione rigoristica della virtù, che era stata propria dello stoicismo originario. In qualche modo si cercava invece di ricuperare l ’idea platonico-aristotelica della virtù, intesa come qualità sociale positiva per eccellenza. Senonché in luogo della polis greca ora c’era la crescente potenza romana. Questa trasformazione è importante. La crisi della città come schema sociale universale aveva reso disponibile una concezione privata della virtù, come qualità dell’individuo apprezzabile in se stessa, comprensibile senza passare attraverso la mediazione del ruolo sociale. Gli uomini potevano essere inseriti direttamente nell’or­ dinamento politico mondiale attraverso l’esercizio della virtù che ora apparteneva a ciascuno di essi in quanto individuo. A Roma la virtù diventava il modo per garantire l ’ordine po­ litico romano, un ordine che ormai poteva andare ben al di là dei confini della città latina e italica. L’esaltazione della tradizione romana, contadina, legata alla terra, contraria all’espansione mon­ diale, propria di Catone, trovava nella morale stoica un’alterna­ tiva. Proprio la virtù porta al dominio mondiale e all’opulenza, purché nel dominio mondiale si realizzi il giusto ordine gerar-

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chico che invano Platone e Aristotele avevano cercato di pro­ porre alla città greca. Press’a poco cent’anni dopo l ’opera sul dovere di Panezio di­ ventava il modello del De officiis di Cicerone, imo dei manuali di morale più fortunati. A Cicerone l ’uomo appare ancora un es­ sere fatto per la convivenza regolata dalla ragione. Le virtù sono le condizioni fondamentali di quella convivenza. Si tratta delle quattro virtù che la tradizione classica eredita dalla sistemazione platonica. La giustizia è il cardine della convivenza umana e ren­ de compatibili gl’interessi pubblici con quelli privati. Sotto il primato della giustizia tutte le altre virtù (fortezza, sapienza e temperanza) devono promuovere l ’inserimento dell’uomo nell’or­ dine sociale. Il che per Cicerone significa la totale subordinazione della vita privata alla vita pubblica. In questa prospettiva il sag­ gio diventa colui che dirige le faccende cittadine, mentre l ’umile deve soprattutto frenare con il senso della misura il proprio egoi­ smo, che lo porterebbe a sovvertire l ’ordine della comunità. Nel momento in cui Cicerone scrive il De officiis la repubblica romana sta vivendo un’altra delle proprie crisi, una delle ultime. In questa situazione l ’opera di Cicerone appare come un appello a un mondo che non esiste più; e forse non è mai esistito. Gli sforzi di Cicerone non fermarono naturalmente la trasformazione della repubblica romana in impero e lo stoico Bruto fu la vittima emblematica di questo processo o almeno il simbolo letterario di esso. Alla fine di questa vicenda culturale doveva nascere un nuovo rapporto tra la morale e l ’impero romano. Il simbolo e il teorico di questo rapporto diverso è Seneca. Con Seneca la mo­ rale stoica si configura quale alternativa all’impero romano e alla vita dedicata al servizio della società. L’ideale ciceroniano e repubblicano della morale pubblica entra definitivamente in crisi e viene sostituito dall’ideale paleo-stoico della saggezza come fatto privato. L’impero romano non è più la patria ideale per gli eredi di Cicerone. “Nulla è fallace come la vita umana, nulla così insi­ dioso; per l’amor del cielo! Nessuno l ’accetterebbe se non fosse data a chi non sa che cosa accade. Perciò se la cosa più bella sarebbe non nascere, subito dopo viene, credo, il morire presto e il tornar subito allo stato originario” (Ad Marciam, xxm , 3). I temi classici, platonico-stoici, ma anche epicurei, della morte e del rifiuto della vita, vengono ripresi integralmente da Seneca. “Credimi, è più felice quello che non ha bisogno della fortuna di colui per il quale essa è pronta. Tutti codesti beni, che ci ral­ legrano con un piacere di facciata e fallace, il denaro, il prestigio

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sociale, il potere e molti altri, di fronte ai quali la cieca cupidità del genere umano rimane incantata, danno travaglio a chi li pos­ siede, vengono guardati con invidia e finiscono con l ’opprimere più che dar onore perfino a quelli che li posseggono; sono una minaccia più che un vantaggio” (ad Poi., ix, 5). Neppure la pa­ tria è un bene indispensabile. “Guarda dunque questo affolla­ mento” dice Seneca alla madre, “gente cui bastano a stento le case di una città immensa; la maggior parte di questa folla è priva di patria. Son venuti dai loro paesi e colonie, si può dire da tutto il mondo. C’è chi fu condotto dall’ambizione, chi dalla necessità di un pubblico incarico, chi per espletare un’ambasciata, chi dalla lussuria in cerca di un luogo adatto e ricco per l ’esercizio dei vizi, chi dal desiderio di studi liberali, chi dagli spettacoli. Qualcuno fu anche condotto dall’amicizia, qualcuno dall’opero­ sità che intendeva trovare una materia per ampiamente spiegare la virtù. C’è anche qualcuno che ha portato a vendere la propria bellezza, qualcun altro la propria eloquenza” (ad Helv., v i, 2). È un quadro significativo della Roma imperiale “la città che offre prezzi elevati per le virtù come per i vizi” (ibid., 3). Non è più la Roma che sta a capo di un impero quasi coincidente con l ’or­ dine razionale del mondo; è una città caotica e sopraffollata, dove si muovono in modo disordinato turbe di senza patria, attratti dai motivi più diversi, per i quali la distinzione di bene e di male non ha più senso. La fine della considerazione di Roma come il centro dell’ordine razionale del mondo s’inserisce in un quadro cosmico sconsolato; “Tutto ciò che per l ’uomo è meglio giace al di fuori della potenza umana, non può esser dato né tolto” (ibid., v ili, 4). Da Epitteto a Marco Aurelio l ’impostazione morale di Seneca si approfondisce e si codifica. La morale filosofica diventa sempre più uno strumento per tagliare i rapporti tra gli uomini e le cose, per ridurre l’area nella quale hanno importanza le scelte umane. La maggior parte delle cose non dipende dall’uomo e dalla sua volontà, e pertanto l ’uomo non deve neppure desiderarle: la sua sfera di potere è limitata alla coscienza. Epitteto è l ’erede dello stoicismo di Zenone e di Crisippo: nel mondo ellenizzato del­ l’impero romano egli ripropone i messaggi delle grandi scuole ellenistiche.

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3.1 . L’etica della salvezza collettiva Le grandi scuole di morale sorte in Grecia alla fine del iv secolo a.C. e il ritorno al paleo-stoicismo da Seneca a Marco Au­ relio proponevano chiaramente una morale della salvezza. Il sapiente uscito da queste scuole pensa essenzialmente a rendersi immune dalla pazzia e irrazionalità che coinvolge il mondo in cui è immerso; non si propone invece di correggere questo mondo né i suoi simili che vivono in esso. La tecnica della salvezza che viene proposta sta nella correttezza del giudizio o valutazione. In questo senso si tratta di un’etica filosofica: questa tradizione cioè conserva la tesi platonica e aristotelica secondo la quale l'etica è una scienza, cioè una disciplina della valutazione e del comportamento secondo conoscenza. L’interpretazione epicurea e stoica della scienza è ben diversa da quella di Platone o di Aristotele; ma rimane valida l ’istanza della correttezza del giudi­ zio come elemento fondamentale dell’etica filosofica. Perciò an­ che l ’etica epicurea e stoica è una tecnica per evitare errori nel comportamento. Se l ’errore di comportamento è una colpa, l ’etica classica da Platone a Seneca si configura come una forma di sa­ pere che ha il fine di evitare la colpa. Il terreno della salvezza e della colpa rappresentava un punto d’incontro e di distinzione tra l ’etica filosofica e la religione. La religione antica era, da un lato, una religione politica, strettamente legata alla vita comunitaria e istituzionale delle città antiche, senza un sacerdozio inteso come casta chiusa e un rigoroso corpo dogmatico di credenze. Ma accanto a questa forma il mondo clas­ sico conobbe anche una religione della salvezza. In questo caso le credenze e i riti religiosi dovevano garantire, non tanto la li­ ceità degli atti e la loro conformità alla tradizione sociale, quanto la liberazione dalla colpa. La salvezza religiosa, a differenza dalla

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salvezza etico-filosofica, era collettiva. La comunità degli iniziati era fondamentale e gli stessi riti cui la salvezza era legata non potevano essere compiuti da soli. Tra le religioni della salvezza quella che ebbe maggior importanza dal punto di vista delle dot­ trine etiche fu il cristianesimo. Infatti il cristianesimo accettò di fare i conti con la tradizione filosofica classica e con l ’etica da questa elaborata. Questo fatto non era arbitrario e casuale. Il cristianesimo era nato nel senso della religione ebraica, costruita intorno al rispetto della legge ricevuta direttamente da Dio e alla fedeltà al patto stipulato con Dio. I dotti ebraici dell’età ellenistica furono almeno in parte influenzati dalla filosofia greca nell’illustrazione della legge divina. Soprattutto lo stoicismo, che parlava di un’unica legge del genere umano e di patti tra gli uomini e gli dei, potè sembrare uno strumento adatto per l ’interpretazione della legge divina. Ma i concetti derivati dalla cultura ellenistica erano usati a fini religiosi e nel contesto della religione del popolo ebraico. In questo contesto giudaico-cristiano s’inserisce il cristianesimo. Esso diventa una religione della salvezza, ma la salvezza offerta dal cristianesimo è costituita dalla fede nella prossima venuta del Regno dei cieli. In attesa della venuta del Regno i cristiani dovevano vivere oltre che della fede nel rispetto delle pratiche prescritte dalla legge. Ma la legge era vista attraverso gli sche­ mi ellenistici della cultura greco-giudaica. Specialmente per ope­ ra di Paolo i tratti tipicamente ebraici della legge passarono in secondo piano, mentre acquistarono spicco gli elementi elleniz­ zanti, e anche per questo il cristianesimo si aprì ampiamente al mondo pagano. Ma c ’era un aspetto che era caratteristico del cristianesimo: attraverso la fede i cristiani aspettavano l ’avven­ to del regno di Dio non da soli, isolati, ma in comunità di at­ tesa. Queste comunità avevano regole che dovevano dirigere la vita cristiana nella fase transitoria di attesa. Ma via via che l ’avvento del regno celeste si configurò sempre più chiaramente come un fatto escatologico e non storico, quelle regole divenne­ ro il vero contenuto del cristianesimo. Molti di quei precetti erano il frutto della tradizione giudaico-ellenistica: e così la religione della salvezza per mezzo della fede si trovò a fare i conti con la tradizione etica classica, della quale era, almeno in parte, una reinterpretazione. Ma con una differenza fondamentale: che il cristianesimo additava una via collettiva di salvezza. Per i cristiani la filosofia pagana si riferiva all’esistenza prov­ visoria prima del giudizio finale; la rivelazione religiosa offriva

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i mezzi per la salvezza eterna. Ma questo compromesso non escludeva che la morale elaborata dai filosofi greci e romani non fosse sempre conciliabile con la morale delle comunità cristiane di attesa. I primi avevano elaborato regole ispirate al disprez­ zo dei beni materiali. E su questo punto il cristianesimo poteva ancora trovare un punto di contatto con la tradizione filosofica. Ma l ’attesa della prossima seconda venuta di Cristo e i legami comunitari che essa creava davano luogo a nuove forme di so­ lidarietà, a nuovi modelli di comportamento, a nuove presta­ zioni, che sono le virtù tipicamente cristiane, come la fede, la speranza e la carità. Queste virtù potevano affiancarsi alle quat­ tro virtù teorizzate nella Repubblica di Platone e riprese da gran parte della tradizione filosofica, ma esse pretendevano di dare quello che le virtù dei filosofi non davano: la salvezza dalla colpa, la liberazione totale dal mondo. Per sostenere questo compromesso con la tradizione morale pagana colta e per difendere il Cristianesimo dalla reazione del mondo pagano, gli apologisti affermavano che gl’ideali dei filosofi pagani avevano trovato la loro piena realizzazione proprio nella religione cristiana. Sui cristiani circolavano accuse M a ­ rnanti: essi trasgredivano le regole della decenza, celebravano sacrifici umani, infrangevano i divieti fondamentali nei quali la società pagana, credeva d’identificarsi. Gli apologisti doveva­ no difendere i cristiani da queste accuse, e possibilmente ritor­ cerle verso i pagani. Giustino, il capostipite degli apologisti, che vive nel n secolo d.C., narra un episodio caratteristico nella Seconda Apologia. Una donna di costumi corrotti, moglie di un uomo corrotto, di­ ventata cristiana e temperante, cerca di convertire alla tempe­ ranza anche il marito. Questi rifiuta e anzi denuncia la moglie e chi l ’aveva convertita al cristianesimo. I cristiani vengono condannati, non per la trasgressione di regole morali, ma per il fatto che sono cristiani. L’ostilità dei pagani nasce dal fatto che i cristiani osservano davvero la condotta che i pagani sanno di dover apprezzare, ma di fatto non mettono in pratica. Per molti versi l’etica filosofica pagana è ineccepibile, almeno come etica puramente umana; ma la filosofia è uno strumento del tutto inadeguato per realizzarla. Tutt’al più il sapere filosofico dei pagani può essere considerato una preparazione al messag­ gio cristiano, un M zio, che ha trovato il proprio compimento solo con la venuta di Gesù. In questo tentativo di difesa l ’aspetto escatologico del cri­ stianesimo correva il rischio di rimanere offuscato, a tutto van-

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taggio della morale terrena propria della comunità cristiana; e questa morale veniva presentata attraverso l ’etica filosofica pa­ gana. Si poteva condurre la polemica contro la società pagana corrotta, che non aveva saputo mettere in pratica i precetti dei suoi filosofi, o contro i filosofi stessi, che avevano espresso mala­ mente dottrine non false nel loro nucleo centrale e le avevano praticate peggio; ma il cristianesimo rischiava di ridursi alla maturazione di un frutto del tutto terreno. Esso veniva presen­ tato come l ’evento cui tutta la storia del mondo greco-romano metteva capo. A ll’atteggiamento pagano di esclusione si con­ trapponeva un atteggiamento cristiano di conciliazione. Ma l’at­ teggiamento cristiano di comprensione non era neppure un’ac­ cettazione completa della tradizione pagana: esso implicava che il paganesimo riconoscesse la propria incapacità di realizzare completamente gli aspetti migliori della propria cultura. Questa insufficienza della cultura pagana si legava alla tesi che il pa­ ganesimo è opera dei demoni, di potenze spirituali negative. Questa tesi mette in crisi l ’interpretazione della cultura pa­ gana come preparazione al cristianesimo, in favore di un’inter­ pretazione che insiste sul fatto che cristianesimo e paganesimo sono piuttosto alternative contrapposte. E l ’impero romano non è più considerato come una grande costruzione umana. Q uestadiagnosi storico-teologica ha dirette conseguenze nel campo del­ l ’etica, perché porta ad accentuare le differenze tra la morale cri­ stiana e quella pagana. In questa direzione operano alcuni de­ gli apologisti, in modo particolare l ’africano Tertulliano. Per Tertulliano la filosofia pagana si è sviluppata fuori della volon­ tà divina. Ha certamente detto qualcosa di vero, ma solo perché la verità si diffonde per forza propria, sia pure in modo parzia­ le. E in ogni caso la filosofia pagana ha inquinato quel tanto di verità di cui è venuta in possesso. A questa contrapposizione intellettuale Tertulliano accompagna anche una contrapposizio­ ne etica tra cristiani e pagani: i primi devono distinguersi dai secondi anche nel comportamento, nel modo di vestire, nel ri­ fiuto degli spettacoli, del servizio militare, delle consuetudini familiari e matrimoniali. Questa volta si tratta non più di acco­ gliere il distacco dal mondo presente e reale, in qualche modo sempre proposto dall’etica filosofica, ma di distinguersi netta­ mente dalla società pagana anche in quei tratti istituzionali sui quali i filosofi non avevano mai prodotto la rottura. Il filone propriamente religioso, legato alla rivelazione scritturale, alle pratiche ascetiche, alla mortificazione finisce con avere la pre­ valenza sul filone filosofico e dottrinale. Ma anche sul piano pra-

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tico il rifiuto delle grandi istituzioni sociali pagane, i giochi, le forme esteriori della religione pubblica, il servizio militare con­ tribuiscono a presentare il cristianesimo come un’alternativa an­ che morale al paganesimo, non più compatibile con questo a nessun livello.

3 .2. La disciplina della chiesa Agostino utilizzò e consumò lo schema storico secondo cui il mondo pagano aveva preparato il cristianesimo, e finì con il rovesciarlo e privarlo di ogni contenuto. Quando i Goti di Ala­ rico nel 410 saccheggiarono Roma, la crisi dello schema di con­ tinuità tra l ’impero e il cristianesimo parve evidente. La Città di Dio vuol rispondere ai cristiani sfiduciati e timorosi che con­ siderano una tragedia la caduta di Roma, in parte sostituendo alla fede storica fondata sulla continuità tra impero e cristia­ nesimo un’altra fede, e in parte screditando il vecchio schema. Il sacco di Roma e le sofferenze dei cristiani in esso coinvolti vanno attribuiti alla divina Provvidenza “che suole corregge­ re e punire con guerre i costumi corrotti degli uomini” (De civ. Dei, i, 1). Ai pagani che consideravano i cristiani responsabili del crollo Agostino domanda: “Perché afflitti dalle disgrazie vi lamentate dei tempi cristiani, se non perché desiderate la sicu­ rezza per la vostra lussuria e, eliminata ogni molestia, la dis­ soluzione nei vostri costumi corrottissimi? E non desiderate la pace e l’abbondanza di ogni genere di risorse per utilizzare onestamente questi beni, cioè con modestia, sobrietà, temperan­ za e pietà, ma per procurarvi un’infinita varietà di piaceri con spese pazze” (De civ., i, 30). L’immoralità della storia di Roma si collega strettamente con l’immoralità della religione pagana: “quegli dei non si curano dei costumi di vita delle città e dei popoli dai quali sono venerati” (De civ., il, 6). Quegli dei non hanno protetto i beni materiali e i corpi dei loro devoti, e pa­ zienza; ma soprattutto non hanno protetto la loro anima dai mali peggiori, che sono i vizi. Il segreto della vera virtù è contenuto nelle Scritture, dove gli avvertimenti “contro il lusso e l ’avarizia” sono dati con solen­ nità e autorità (De civ., n , 19). Contro l ’autentica virtù rivelata nella Scrittura i romani “dapprima per amore della libertà, poi anche per desiderio di dominio, di lode e di gloria realiz­ zarono molte grandi imprese” (De civ., v , 12). Non esiste un le-

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game diretto tra queste qualità morali e le loro imprese, perché la nascita e la sorte del loro impero è stata voluta e regolata dalla Provvidenza divina. Ma Dio ha voluto che il successo dei romani fosse la conseguenza di queste loro prestazioni. Non perché l ’amore di gloria sia la più alta delle virtù; forse non è neppure una virtù. Ma perché essa è il minore dei vizi e comun­ que evita vizi peggiori. I filosofi antichi hanno effettivamente scorto la vera virtù, che consiste nell’abbandono dei beni terreni. L’abbandono completo dei beni terrestri permetteva ai filosofi pagani di conseguire una condotta di vita migliore. Ma quella virtù diventa per i cristia­ ni il modo per conseguire la salvezza, per entrare nella città di­ vina, dove non è che sicurezza. Per Agostino i filosofi antichi hanno in fondo parlato della vera virtù, che è rinuncia del mon­ do; ma non hanno parlato del vero bene, che non consiste nella tranquillità dell’animo, bensì in Dio, cioè nella partecipazione alla città celeste. Nulla davvero vale di per sé nel mondo del­ le cose e dell’uomo; tutto vale solo perché deriva da Dio. Da queste premesse non può discendere se non una morale come obbedienza assoluta alla divinità, come scelta totale della sua città. La chiesa come società dei fedeli di Dio diventa il termine di riferimento unico e costante della morale cristiana. Allo sche­ ma storico-teologico secondo il quale l ’impero romano è la pre­ parazione del cristianesimo Agostino ha sostituito lo schema se­ condo cui impero e società cristiana sono contrapposti. Con la consacrazione della chiesa a organismo ufficiale at­ traverso l ’editto di Costantino e la successiva politica imperia­ le un elemento nuovo finiva con l ’inserirsi nella dottrina etica. La via della salvezza non era più una completa alternativa al mondo, ma diventava un mezzo di inserimento in una comu­ nità anche mondana, una comunità universale per giunta. Sol­ tanto Cicerone e i teorici dell’imperialismo romano nell’ultima fase della repubblica avevano tentato, nella filosofia pagana, una strada di questo genere; ma, quando l ’impero era diventato una realtà, la filosofia si era di nuovo presentata come un’al­ ternativa e l ’etica come una dottrina della rinuncia. Con il ri­ conoscimento del cristianesimo l ’operazione che non era riuscita con l ’impero poteva riuscire con la chiesa: questa diventava la vera società universale con la quale poteva essere ritentata l ’ope­ razione non riuscita a Cicerone. Su questo sfondo si colloca la Città di Dio di Agostino. Ma Agostino cerca di non confondere la chiesa con l ’impero e neppure di fare della prima l ’erede del secondo. Per questo egli non crede che la cultura pagana

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porti direttamente al cristianesimo, né che l ’etica pagana sia di per sé una via verso la salvezza. D ’altra parte la chiesa come so­ cietà terrena comprende tutti gli uomini e non solo quelli già destinati alla salvezza, e per questo essa è una società che è in grado di orientare tutta la vita terrena. La morale non è più la scelta del filosofo, né la via eroica del cristiano destinato alla salvezza, ma è la disciplina entro una società orientata verso la salvezza. La chiesa diventa perciò la vera mediatrice tra la morale terrena e la salvezza. La morale terrena, quella dei fi­ losofi tradizionali, è il minimo che un cristiano deve fare, il nucleo degli obblighi verso la chiesa; ma solo nell’economia di­ vina della chiesa questa morale entra nel processo della sal­ vezza. Una volta riconosciuta come istituzione ufficiale, la chiesa di­ venta fonte di obblighi autonomi accanto all’impero. Ma con una differenza: l’impero non era più un termine di riferimento della dottrina morale, almeno da Seneca in poi. L’impero era il ter­ mine di riferimento del diritto, ma il diritto appartiene al mon­ do cui la vita filosofica volta le spalle. Invece la chiesa diventa fonte di obblighi morali, essa è quella società di saggi che i fi­ losofi pagani non hanno mai realizzato.

3 .3 . Colpa e peccato Per Agostino la cultura filosofica pagana era stata un dato ben presente, un’alternativa al cristianesimo. Per i maestri del­ le scuole episcopali e abbaziali dell’età di Carlo Magno il pro­ blema è inverso: si tratta di mantenere in piedi la cultura paga­ na, senza la quale il messaggio scritturale non è più traduci­ bile nel linguaggio di tutti i giorni. Ed è questo che occorre, per­ ché la chiesa cristiana deve ora fornire le regole e il personale per costruire una nuova società civile sulle rovine dell’impero. Per gli uomini dei secoli tra il vi e il x le teorie etiche pagane erano state un lascito precario, che bisognava a tutti i costi sal­ vare. Fuori delle comunità cristiane primitive la Scrittura era diventata un codice che da solo non era più significativo per i membri della società romano-barbarica. Del resto la stessa dot­ trina cristiana era ampiamente infiltrata dalla cultura filosofica pagana utilizzata dai padri dei primi secoli. In questa situazione il patrimonio tradizionale della cultura pagana si organizza nelle tre arti del trivio e nelle quattro del

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quadrivio, che insieme costituiscono le arti liberali. Una delle tre arti del trivio è la dialettica e in questa rientra la filosofia, la quale a sua volta comprende l ’etica. All’etica appartiene lo stu­ dio delle quattro virtù cardinali, e cioè prudenza, giustizia, for­ tezza e temperanza. Questa è per esempio la sistemazione offerta dagli Etymologiarum sive originum libri (n , 24, 3-6) di Isidoro di Siviglia (vi-vn sec.). A questo modo attraverso la mediazio­ ne della cultura ecclesiastica avveniva un cambiamento impor­ tante nell’etica. La teoria morale che nella cultura greca si era presentata sostanzialmente come l ’insieme di regole di vita di un gruppo ristretto di persone, che hanno scelto di vivere se­ condo ragione e che si contrappongono alla massa, diventa par­ te essenziale dell’opera di un corpo di ecclesiastici che si pro­ pongono di dirigere la vita degli altri. Le regole della morale fi­ losofica pagana diventano lo strumento attraverso il quale la rivelazione ebraico-cristiana si configura come la norma di vita dei popoli cristiani dell’Europa. L’etica si presenta ancora come una scienza, in quanto fa parte delle discipline organizzate nel trivio e nel quadrivio. Ma dopo la nascita della cultura cristiana e soprattutto dopo Agostino essere una scienza, in generale e per l ’etica, voleva dire entrare nel mondo intellettuale retto e volu­ to da Dio, portare la traccia di Dio e essere una via che a Dio conduce. Naturalmente anche il contenuto della morale antica tende via via a mutare: la morale ecclesiastica finisce pur con il sosti­ tuire la morale dell’antico maestro di saggezza. Vengono sì ri­ cuperate le virtù fondamentali dell’etica pagana, ma a esse si aggiungono virtù tipicamente cristiane, come la castità, la pu­ dicizia, l ’umiltà, l ’obbedienza ecc., chè nascono proprio nella comunità ecclesiastica; e queste virtù entrano a far parte del modello di società che la chiesa propone ai popoli romano-bar­ barici dell’alto Medio Evo. In connessione con questo mutamento un altro se ne verifica di grande importanza per la storia dell’etica. Mentre i morali­ sti classici avevano sempre visto nell’etica filosofica uno stru­ mento per domare le emozioni, sottoponendole a misura o eli­ minandole, l ’etica cristiana sviluppa tutto un programma di vita emotiva orientata secondo contenuti religiosi. L’amore è l ’emo­ zione fondamentale del cristiano, un amore che costituisce la base della virtù teologica della carità e che perciò è diretto a tutti i membri della comunità cristiana e al di là di essi all’uma­ nità, in quanto è amore della divinità di cui l ’uomo è immagine. Ma oltre all’amore sono importanti tutte le emozioni legate alla

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mortificazione e al pentimento per i peccati. Bandite sono le emo­ zioni legate al piacere; e in questo senso l’etica cristiana può at­ tingere ampiamente all’etica filosofica classica. Ma il cristiano coltiva emozioni che mai un moralista classico avrebbe appro­ vato. Da questa impostazione dipende largamente la sensibilità mo­ rale del Medio Evo. Nelle sue Meditazioni Anseimo di Aosta vuole espressamente suscitare il timore: “La mia vita mi atter­ risce. Infatti, esaminata con cura, quasi tutta la mia vita mi ap­ pare o peccato o sterilità. E se qualche frutto in essa si scorge, è a tal punto finto, o imperfetto, o in qualche modo corrotto, che potrebbe non piacere o dispiacere a D io” (Med., i). La pau­ ra, l’emozione di cui tutta l’etica filosofica classica vuol libera­ re l ’uomo, diventa una delle emozioni privilegiate quando si de­ ve escogitare una via lungo la quale indirizzare l’uomo per ri­ condurlo alla divinità. La via per risalire a Dio, nella versione cristiana è punteggiata di emozioni che un filosofo pagano clas­ sico avrebbe considerato negative: paura, pentimento, impo­ tenza. Attraverso queste emozioni l ’uomo si libera del peccato, nella misura del possibile, e giunge a Dio redentore: “Anima mia, anima travagliata, anima, dico, misera di un misero ometto, osserva il tuo torpore, penetra il tuo peccato, esamina la tua mente” (Med., il). L’impotenza dell’uomo, la sua nullità di fron­ te alla divinità era un tema antichissimo, da cui ora il cristia­ no ricava una crisi emotiva di angoscia e paura, salutare al fine di ritrovare la strada che conduce a Dio. “Mentre il nostro aspetto esterno di uomini, che di giorno in giorno necessariamen­ te decade, gemendo sospira sotto il peso dei flagelli” scrive An­ seimo al monaco Ernosto “l’uomo interiore che è in noi, che deve rinascere di giorno in giorno, respira di sollievo esultando sollevato dal peso dei peccati” (Ep., 9).

3 .4 . Morale ecclesiàstica e morale mondana La rinascita del dibattito filosofico e culturale dopo il Mille approfondisce il solco che si era aperto tra l’etica classica e l ’eti­ ca cristiana attraverso l ’elaborazione della morale ecclesiastica. Nel Conosci te stesso di Abelardo i vizi e le virtù dell’anima sono qualità negative e positive dell’anima, che possono ave­ re svantaggi e vantaggi, ma non costituiscono il peccato: si può essere gretti, svelti d’ingegno, sapienti, ignoranti, e essere indif­

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ferentemente buoni o cattivi. Solo alcuni dei vizi e delle virtù costituiscono i costumi veri e propri, i quali costumi sono “i vizi o le virtù dell’anima che ci rendono iilclini alle cattive 0 alle buone azioni” (Scito te ipsum, Prol.). Ma “il vizio del­ l ’anima così intenso non si identifica affatto col peccato, e il peccato a sua volta non si identifica affatto colla azione cattiva” ( i b i d n , 71). Il peccato consiste nell’assenso dato al vizio, non deriva da una qualità negativa dell’anima, né con­ tribuisce a un’azione o a un’omissione indebita; il peccato co­ stituisce un atto di disprezzo della divinità, cioè riguarda stret­ tamente le relazioni che intercorrono tra l ’uomo e Dio. In questo senso il peccato è un modo d’essere negativo, cioè non ha vera e propria esistenza, perché nessuno vuole veramente disprezzare Dio. Si pecca per ragioni negative, perché non si è capaci di resistere all’inclinazione viziosa dell’anima. Il peccato è an­ che involontario, perché chi pecca intende non offendere Dio, ma perseguire l’azione vietata da Dio, cui dà il proprio con­ senso. Le tesi di Abelardo non avevano in sé nulla di nuovo. Ma Abelardo ricavava da quelle tesi conclusioni sorprendenti. Il piacere connesso all’atto peccaminoso e in genere alle inclina­ zioni dell’anima non è peccato, perché appunto il peccato con­ siste nel consenso. Il piacere sessuale o quello della gola non sono peccato, tant’è vero che sono perfettamente leciti in certe circostanze, mentre è peccato prestare consenso alle inclinazio­ ni legate a quei piaceri in certe circostanze, in cui il consenso equivale al disprezzo per la divinità. Le punizioni perseguono le azioni cattive e non il peccato, e perciò hanno la funzione di scoraggiare certi comportamenti e non di prevenire o riparare 1 peccati. L’etica di Abelardo era profondamente religiosa e proprio per questo rifiutava un compromesso nato nella cultura ecclesiastica formatasi nel tardo impero romano e nelle società romano-bar­ bariche. Ma certamente il tipo di sensibilità religiosa e morale rappresentato da Anseimo si dissolveva. Il piacere e le debolez­ ze del corpo non dovevano essere necessariamente rinnegati; non tutta la vita umana in ogni suo aspetto doveva rientrare nel processo che porta alla liberazione dal corpo e alla divinità. La vita dell’uomo e dell’anima stessa ha aspetti che non toccano la divinità, che stanno al livello dell’uomo, che la divinità ha sta­ bilito e voluto e che, proprio per questo, non possono offendere la divinità. La bontà e la cattiveria morale dell’azione dipendo­ no per Abelardo solo dall’intenzione, cioè dall’assenso non ne­

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gato agli impulsi che spingono l ’uomo verso azioni che in certe circostanze costituiscono offesa per Dio. Nulla all’infuori di questo ha rilevanza morale. Nel 1140 il concilio di Sens con­ dannava la dottrina abelardiana del peccato, “che né l ’opera, né la volontà, né la concupiscenza, né il piacere che la muove, sia peccato, e che non dobbiamo volere che si estingua”. Questa condanna fu preparata dal lavoro di Guglielmo di Saint-Thierry e dell’amico suo Bernardo di Chiaravalle. Il concilio condan­ nava la limitazione del peccato, l ’approvazione che Abelardo sembrava aver manifestato per la natura umana con le sue ten­ tazioni, i suoi piaceri, i suoi desideri, che Abelardo giudicava insopprimibili. Contro questa mentalità combatte Bernardo, il monaco e l’uomo di chiesa che tutto vuole riportare a Dio. Nel Liber de gradibus humilitatis et superbiae Bernardo sostiene che la con­ templazione e l’amor di Dio si possono raggiungere solo dopo aver percorso tutti i gradi dell’umiltà. Ma percorrere tutti que­ sti gradi di umiltà significa percorrere a ritroso la scala della superbia, umiliarsi appunto. La mistica di Bernardo è lo sche­ ma di un processo emotivo attraverso il quale l ’uomo si libera del proprio io carnale e, liberatosi dell’amore immediato di sé, torna ad amare se stesso attraverso Dio. Esiste un dramma purificatorio in cui anche l’uomo carnale è coinvolto e che culmina con la liberazione dalla carne e la contemplazione di Dio. In questo senso Bernardo si colloca sulla stessa linea di Anseimo d’Aosta e della grande cultura monastica. Il fatto che Abelardo abbia distinto tra il peccato e le azioni e abbia assolto le emozioni connesse alle azioni, non vuol dire che creda all’autosufficienza del saggio antico; anzi per Abelar­ do le emozioni naturali vanno accettate come volute anch’esse da Dio. Ma per Bernardo contro quelle emozioni si è impotenti solo fino a che si fa affidamento ai sóli mezzi dei moralisti an­ tichi. La scrittura e il movimento monastico hanno messo a di­ sposizione altri mezzi, emotivi anch’essi, capaci di purificare l’uomo. In questi due diversi modi di reagire di fronte alla tra­ dizione morale classica si rispecchiano però due situazioni cul­ turali distinte. Una è la tradizione monastica, che tende a proiet­ tare sulla chiesa intera il modello della comunità claustrale, l ’al­ tra è la posizione delle scuole libere, non monastiche, che cerca­ no di elaborare una religiosità che tien conto della società medie­ vale quale si è venuta configurando all’inizio del xii secolo. Nel secolo successivo a quello che vide le polemiche tra Ber­ nardo e Abelardo le discussioni filosofiche sulla morale si svol­

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gono non più tra un maestro libero e un monaco, ma tra frati. Però questa volta i frati operano nelle università nate proprio dall’insegnamento libero. E c’è il riferimento costante alla filoso­ fia di Aristotele. Il principale problema etico consiste appunto nel tentativo di formulare l ’etica cristiana nei termini dell’etica aristotelica. Sotto la discussione sulla morale cristiana in termi­ ni aristotelici si pone però il problema di ricomporre l’etica cri­ stiana che Abelardo aveva presentato come scissa e che Ber­ nardo si proponeva di ricostruire attraverso il riferimento al monacheSimo benedettino. I protagonisti della nuova cultura appartengono ai nuovi ordini mendicanti, i domenicani e i francescani, che si collocano in ima prospettiva diversa da quella del monacheSimo orientale e bene­ dettino. Cluniacensi, certosini, cistercensi si collocano all’interno della società feudale: le abbazie si configurano come signorie, partecipano al dissodamento delle foreste, creano stabili centri di riferimento economici e sociali. Sono l ’equivalente religioso del castello e delle istituzioni laiche, nei quali i monaci perse­ guono un cristianesimo perfetto, pur lavorando, e danno inse­ gnamento e esempio a tutti i cristiani. Inoltre quegli ordini monastici fanno riferimento soprattutto alla riforma interna del­ la chiesa e del clero. Gli ordini mendicanti nascono invece in relazione alla cristianizzazione del mondo infedele, alla ricon­ quista della Spagna, alla lotta contro le eresie, alle missioni ol­ tremare e alle crociate. Essi non si articolano in rocche religiose chiuse, come i monasteri di tradizione benedettina, non prati­ cano l ’ascesi individuale. La loro regola di vita è la povertà, il loro compito la predicazione. I frati mendicanti non cercano la perfezione individuale entro le istituzioni medievali, ma pro­ pongono un nuovo modo di vita collettiva e perseguono la diffu­ sione del cristianesimo entro le istituzioni civili della società medievale. I nuovi ordini vogliono offrire al mondo un esem­ pio di cristianesimo autentico conforme all’ideale originario di povertà, in alternativa al mondo laico; ma nello stesso tempo vogliono diffondere dentro questo mondo il credo cristiano, senza strappare a esso le persone che in esso vivono. Anche la penetrazione dell’aristotelismo va vista in questa pro­ spettiva. L’aristotelismo era considerato come l ’espressione più completa della filosofia pagana; ora si presentava come la filo­ sofia fatta propria dai filosofi arabi. Filosoficamente era la teo­ rizzazione radicale dell’autosufficienza della natura. Proprio per questo rappresentava una sfida per il programma di evangelizza­ zione degli ordini mendicanti. Alberto Magno e Tommaso d’Aqui­

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no cercarono di mostrare che il naturalismo aristotelico poteva essere riassorbito in una concezione del mondo compatibile con il dogmi del cristianesimo. Nel campo etico la principale diffi­ coltà era costituita dal fatto che secondo Aristotele la volontà umana tende fondamentalmente al bene e l ’uomo è in grado di raggiungere la felicità, attraverso la contemplazione intellettua­ le! con i soli propri mezzi naturali. Questa dottrina era in con- __ trasto con il dogma cristiano del peccato originale e rischiava di " rendere superflua la grazia. tom maso cercava di superare questa difficoltà ancorando a Dio la volontà umana che tende al bene come al proprio fine ultimo: sicché Dio è la causa della volontà. Il riferimento a Dio di tutta la volontà umana e di tutta la sfera dell’azione umana avviene attraverso molte mediazioni, che sono appunto prese dall’etica di Aristotele. Le virtù morali, quelle intellettuali e quelle teologiche rappresentano momenti successivi che porta­ no dalla naturalità più diffusa fino alla vita religiosa vera e pro­ pria. L’uomo può raggiungere un certo grado di perfezione na­ turale con i suoi mezzi, ma ha bisogno dei doni dello Spirito Santo per praticare le virtù religiose vere e proprie. Tuttavia il piano naturale e quello religioso non sono in opposizione: il primo è necessario per il secondo e il secondo costituisce un completamento del primo. Il mondo umano e civile può acco­ gliere il messaggio religioso e questo non smentisce le virtù umane. Sul versante francescano Bonaventura cercava di riprendere lo schema di Bernardo, cioè l ’interpretazione del mondo come una scala sulla quale deve salire l’uomo per raggiungere la cono­ scenza della divinità, per realizzare l ’amore per Dio, per libe­ rarsi dal mondo e dalla carne. Il tema agostiniano del mondo che reca l ’impronta della divinità è ancora sempre il fondamen­ to di questa concezione della vita morale e religiosa. Ma questa volta l ’ascesi mistica viene usata per negare qualsiasi valore ai gradini più bassi della scala. Contro il principio aristotelico che ogni atto della volontà è la realizzazione del bene in qualche misura, perché è un atto in qualche misura razionale, Bonaven­ tura intende la volontà come slancio verso Dio e come amore. Le sue manifestazioni inferiori hanno senso solo se s’inserisco­ no in un itinerario che porta l ’uomo a Dio. Le diverse collocazioni nei confronti dell’etica naturalistica di Aristotele si andavano configurando appunto come interpre­ tazioni diverse della teoria della volontà e dei rapporti tra vo­ lontà e intelletto. I domenicani, sulla linea di Tommaso, soste-

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nevano che il naturalismo aristotelico era accettabile come in­ terpretazione del piano della natura e che su questo piano la volontà può effettivamente perseguire con i mezzi propri il bene naturale. I francescani non negavano resistenza di una moralità naturale e l ’esistenza di una volontà ancora buona rpnostante il peccato. Ma non ritenevano che essa di per sé si col­ locasse sulla stessa linea dell’opera della grazia, che fosse dav­ vero un passo verso il raggiungimento di Dio. Giovanni Duns Scoto e Guglielmo d’Occam dovevano portare alle estreme cpnseguenze le dottrine francescane sulla volontà. ! All’idea della scala di ascesa verso la divinità, propria di Ber­ nardo e di Bonaventura, essi sostituiscono l ’idea che l’azipne religiosamente meritevole costituisce qualcosa di distinto dal­ l ’azione moralmente corretta. Sul piano naturale l’azione mora­ le può essere descritta nei termini dell’etica aristotelica. Ma non è questa l’azione che produce meriti di carattere religioso e che contribuisce alla salvezza. Dio ha dato attraverso la rivelazione le regole della salvezza, mentre ha dato attraverso la natura le regole del vivere civile; e le due specie di regole non vanno confuse. Le regole naturali si comprendono sul piano della na­ tura, funzionano in relazione alla struttura dell’anima umana; le regole della salvezza si comprendono sul piano della rivela­ zione, sono in sé gratuite e hanno come fondamento solo il vo­ lere divino. Alla separazione della morale religiosa dalla morale laica si accompagna la crisi del quadro imperiale e della stessa chiesa, nel momento in cui questa rivendica e ottiene l ’indipendenza dalla struttura politica della società medievale. Stati monarchi­ ci, come quello di Francia e d’Inghilterra, nobili locali, centri cittadini hanno rivendicato la propria autonomia: nasce una società che assai meno della società imperiale ha bisogno dei quadri ecclesiastici per reggersi. Nasce anche una cultura meno legata a quella della chiesa: la cultura letteraria delle corti e quella dei liberi maestri delle università. Tra l’altro questa cul­ tura è sovente la fonte delle eresie e della miscredenza. È una, cultura che si riconosce nella poesia della guerra e dell’amore, nell’aristotelismo naturalistico degli arabi, nelle strutture di po­ tere delle monarchie e delle signorie feudali e delle comunità cit­ tadine, nella vita commerciale fiorita sulla vecchia Europa con­ tadina. Per affrontare questo mondo, i maestri degli ordini men­ dicanti devono elaborare le grandi sintesi scolastiche. Tuttavia quei compromessi si basavano ancora sui presuppo­ sti della cultura patristica per cui tutto il mondo naturale avvia

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à Dio. Ma il nuovo aristotelismo ha reso meno ovvia la visione patristica. In luogo dei compromessi emergono le distinzioni. Buns Scoto e Guglielmo d’Occam indicano chiaramente nella morale laica e in quella cristiana due terreni distinti con due fina­ lità distinte. Lo stesso progetto francescano, di costruire una co­ munità cristiana fedele agli ideali delle origini in una società dedita al culto della ricchezza, era destinato a fallire. I primi con­ traccolpi di questa impresa improbabile furono subiti dall’ordine stésso, che si trovò in difficoltà a seguire i dettami di S. Francespo e dovette accettare la logica dura e realistica dell’organiz­ zazione ecclesiastica. L’ideale francescano fu ripreso dalla so­ cietà laica. La libera associazione dei laici, la pratica della po­ vertà o della comunanza dei beni, l’ideale della carità cristiana divennero gl’ideali morali che diedero vita nel Trecento a vasti movimenti ai limiti dell’ortodossia cattolica. Il pericolo nascosto in questi gruppi è la tendenza a non avvalersi della mediazione religiosa e dell’autorità morale del clero, ad accedere direttamente alla Scrittura, al di fuori dell’interpretazione ufficiale del­ la chiesa, a credere che là carità e l ’amor di Dio sia l ’unica fonte di salvezza a petto della quale riti e opere non hanno valore. La distinzione scotista tra morale religiosa e morale terrena ri­ schia di diventare una contrapposizione. E infatti quegli stessi temi diventeranno nelle mani del fran­ cescano Guglielmo d’Occam strumenti per presentare un’inter­ pretazione del francescanesimo che si richiama al programma originario di S. Francesco, ma che finisce per essere condannata dal papa, e per fornire un’interpretazione della chiesa come po­ polo dei fedeli e non come società gerarchica. Ma anche il filone domenicano e tomistico della cultura medievale darà un esito inquietante. Giovanni Eckhart sviluppa agli inizi del Trecento una mistica intellettualistica fedele al filone aristotelico e tomi­ stico del suo ordine. L’itinerario che conduce l ’uomo direttamente a Dio è fondato non tanto sulla volontà e sull’amore, come per i grandi mistici medievali, ma sulle potenze intellettuali dell’ani­ ma umana. L’intelletto offre la garanzia del raggiungimento della divinità e dell’unione con essa. In questa interpretazione il cri­ stianesimo non si lega più a nessuna morale tradizionale. “Quan­ do mi si chiede” dice Eckhart “perché noi preghiamo: perché digiuniamo, perché compiamo tutte le buone opere, perché siamo battezzati, perché (ciò che è il più) Dio si è fatto uomo: perché Dio nasca nell’anima e l’anima alla sua volta in Dio... Ogni na­ scita esprime quella dell’uomo! Perciò dice un maestro: non si trova alcun animale che non sia in qualche modo un simbolo

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deH’uomo” (“Del compimento”, in Prediche e trattati). L’unich fine di tutto l ’universo e di tutta la rivelazione è questa identifi­ cazione di Dio e dell’uomo attraverso l ’intelletto umano. “La gra­ zia non produce nessuna opera, essa è troppo alta per queste!: l ’operare è da essa così lontano come il cielo dalla terra. L’essere in Dio, l’aderire, l’essere una cosa sola con Dio, quest’è la grazik” ( ibid.). Il distacco diventa la virtù fondamentale per Eckhap, cioè l’abbandono del mondo, il riconoscimento della sua nullità. II distacco permette all’uomo di essere completamente passivò e di ridursi così interamente a Dio. “Tieniti lontano da tutti gli uomini” predica Eckhart “resta imperturbato di fronte a tutte le impressioni esteriori, renditi libero da tutto ciò che potrebbe portare alla tua natura qualche cosa di straniero, incatenarti alle cose terrene ed esserti causa di dolore” (“Distacco”, ibid.). L’or­ dine intellettuale del mondo illustrato da Tommaso d’Aquino ha portato Eckhart a una concezione passiva del credente che di fronte all’infinità intellettuale di Dio deve farsi strumento pas­ sivo di Dio stesso. La via dell’intellettualismo tentata dall’aristotelismo cristiano per cercar di conciliare il cristianesimo con l’eti­ ca pagana, considerata come l ’etica del mondo laico, finiva con il creare nuove virtù mistiche cristiane, della quiete e della ras­ segnazione, da contrapporre alle attive virtù degli uomini di mondo.

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4.1. Il cristianesimo dei dotti La dissoluzione del quadro imperiale ed ecclesiastico medie­ vale, unitario o percepito come unitario, provoca una crisi pro­ fonda nelle dottrine etiche tradizionali. La cultura laica, elabo­ rata nelle facoltà non teologiche o nelle corti, compresa quel­ la papale, si oppone a quella ecclesiastica, identificata con la cultura degli ordini mendicanti. L’aristotelismo non scolasti­ co e gli studi letterari diventano l ’espressione più importante delle nuove correnti culturali. La morale che nasce in questi ambienti è essenzialmente una morale anti-ecclesiastica, ma non necessariamente irreligiosa; anzi talvolta essa si presenta come l’incarnazione della vera morale cristiana. Per Francesco Pe­ trarca l ’imbarbarimento del messaggio cristiano è andato di pari passo con quello del retaggio antico. La conciliazione di anti­ chità e cristianesimo si colloca ancora nel futuro. E l ’ignoran­ za dei maestri medievali viene criticata nello stesso tempo in cui si fustiga l ’infingardaggine dei frati, l ’esosità dei preti, i vizi che si celano sotto la morale ecclesiastica. Nel De voluptate di Lorenzo Valla la difesa del piacere è soprattutto lo strumento per rifiutare una morale bigotta e rinunciataria, che può pia­ cere a preti e frati per tenere in soggezione il popolo, ma che non ha nulla di veramente religioso. E per Machiavelli il pre­ sente si rivela più che mai teatro di scontro di forze e scena adeguata solo per uomini forti e audaci. In .questa prospettiva la virtù appare come la condotta ispirata non all’astensione dai beni apprezzati dai più, ma come la capacità di fronteggiare e eventualmente dominare la fortuna. La fortuna è il corso incon­ trollato degli eventi; la virtù è la capacità di agire sul corso de­ gli eventi, in primo luogo non contrastandoli laddove non sono modificabili.

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In queste condizioni si andava maturando la crisi dell’etica filosofica tradizionale. Da un lato essa appariva come l ’ideale di una società finita e storicamente lontana, la società antica, appunto; dall’altro essa era una mistificazione in quanto pretèn­ deva di applicarsi direttamente alla società moderna. Un nuovo cristianesimo era l’ideale che maturava nella crisi. Era un cri­ stianesimo diverso da quello ecclesiastico dei preti e dei frati, così strettamente legato alla società medievale: era innanzi tut­ to un cristianesimo colto, che consisteva nell’educazione della mente e non si. riduceva a una serie di regole di comportamen­ to, meno che mai a un insieme di riti. I simboli di questo cristianesimo erano l’utopia di Tommaso Moro e la follia descritta da Erasmo da Rotterdam. In un mon­ do che era rapidamente cambiato, il sapere era rimasto in gran parte quello vecchio, formatosi nelle scuole medievali dei fra­ ti: proprio per questa sfasatura il mondo degli uomini appariva come il regno della follia, la vera molla che agisce in tutti gli uomini, a cominciare dai più importanti e potenti. Perfino il cristianesimo, quello vero, di cui Erasmo va in cerca, è follia, perché solo la follia ha la forza di sottrarsi alla follia univer­ sale che guida tutti gli uomini. D ’altra parte il suo amico Moro poneva in una terra inesistente, nell’isola di Utopia, il pro­ prio ideale di società perfetta. Utopia e follia erano anche i se­ gni dell’isolamento di Erasmo e Moro. In realtà il cristianesimo istituzionale stava maturando la propria crisi attraverso un pro­ cesso che non coinvolgeva solo i dotti: era la riforma prote­ stante, che però tagliava fuori umanisti raffinati come Moro e Erasmo. La riforma protestante si collegava anche alle discussioni eti­ che della cultura medievale e, soprattutto in certi circoli, a quel­ le dell’umanesimo. La distinzione tra morale e fede, tra ciò che serve a tenere insieme la società e ciò che conduce alla salvezza era un tema importante nella teologia protestante. Ma anche la descrizione dell’uomo come un essere dominato da moventi negativi, portato al male dal peccato originale contrapponeva il conciliante cristianesimo ecclesiastico al drammatico cristia­ nesimo di Lutero e Calvino. Nei suoi contenuti l’etica proposta dai riformatori non in­ novava la morale tradizionale della chiesa: la virtù come disci­ plina era ancora al centro dell’etica. Ma cambiava l ’imposta­ zione della morale. L’esercizio della virtù non procura meriti e il vizio non coincide con il peccato. Merito e peccato riguar­ dano soltanto Dio e non sono amministrati dagli uomini, nep-

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pure dai sacerdoti. Pertanto gli uomini non possono inventare nessuna prestazione meritoria e non possono cancellare nessun peccato. Un comportamento virtuoso può essere la manifestazio­ ne esterna di chi vive nella grazia, ma non sostituisce Fazione della grazia né attira verso di sé la sua azione. Questa è la li­ bertà cristiana: l ’abolizione di tutte le prestazioni imposte dal­ la chiesa per ottenere la salvezza e di tutti gli obblighi per chi ha la grazia. Ma, come aveva insegnato Agostino, nel mondo eletti e reietti convivono e del mondo Dio è padrone. Occorre perciò che anche i reietti osservino la disciplina del Signore, i suoi comandamenti, che obbediscano a lui almeno come obbe­ discono al re. In questa sfera ha sede legittima la virtù, qui vale la prestazione anche non accompagnata dalla grazia. E nelle scuole luterane i trattati di morale continuano a fiorire, virtù c doveri continuano a essere descritti. E la morale classica con­ tinua a ispirare i trattati dei riformatori. /

4.2. La morale dei dotti “Un giorno stavamo viaggiando, mio fratello signor de la Brousse e io, durante le guerre civili, quando incontrammo un signore di buone maniere. Era del partito contrario al nostro, ma non lo sapevo, perché si faceva passare per diverso da quel­ lo che era. Il peggio di queste guerre è che le carte sono così mescolate, dal momento che il vostro nemico non si distingue da voi per nessun segno visibile, né per la lingua, né per il por­ tamento, nutrito nelle stesse leggi, negli stessi costumi, nella stessa aria, che è difficile evitare confusione e disordine” (Mon­ taigne , Essais, n , 5). È Montaigne che scrive e che richiama lo sfondo costante dei suor Saggi. Un’altra volta, racconta subito dopo, incontrò truppe della sua stessa parte; ma non fu rico­ nosciuto, subì l ’assalto dei soldati e perdette cavalli e uomini. La fine dell’unità religiosa dell’Europa ha sconvolto anche i ter­ mini degli equilibri politici ch’erano usciti dalla dissoluzione dell’impero. Ora non si sa più se il vicino è amico o nemico e se chi si presenta come amico o nemicò lo sia davvero. Si è detto spesso che Montaigne è l’indagatore del proprio io. In realtà il campo di osservazione di Montaigne è il grande patrimonio letterario di un uomo colto della sua età. Ma tutto quel patrimonio culturale viene utilizzato in un presente che ha smarrito le proprie strutture tradizionali, ma anche gli idea­

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li dell’umanesimo. Per questo il mondo umano appare come il mondo del disordine: gli uomini non seguono le medesime con­ dotte, non s’ispirano agli stessi criteri, non sembra che debbano vivere insieme (ibid., n , 1). Sono i vizi che dominano gli uomi­ ni, ma perfino i vizi sono difficili da conoscere e distinguere, e perfino nei vizi gli uomini differiscono gli uni dagli altri. L’abi­ tudine e il costume dei luoghi diversi sono le grandi forze che dirigono gli uomini, che non è possibile mutare e alle quali bisogna assoggettarsi. L’unico atteggiamento che il dotto possa assumere di fronte a un mondo di questo genere è di distacco. Qualche volta conviene accettare le abitudini dei luoghi in cui si vive, o nascondere le proprie convinzioni. La morale è ben lon­ tana dall’essere una scienza, visto che tutte le scienze sono spes­ so solo frutto della boria dei dotti. La morale è per i più il do­ minio del costume, per i pochi una misurata accettazione del­ l ’irrazionalità dei più, una saggia coltivazione dei propri piace­ ri e della propria serenità in attesa della morte. L’atteggiamento di Montaigne e il suo tipo di scrittura do­ vevano avere largo successo nella letteratura morale del Seicen­ to. Egli aveva inventato un genere letterario (quello dei Saggi) che riproponeva in termini moderni autori come Seneca e Plu­ tarco. Charron è di solito indicato come il diretto continuatore di Montaigne, ma soprattutto la morale di Montaigne passò in Cartesio. Nelle terza parte del Discorso sul metodo Cartesio ri­ conosceva la necessità di elaborare una morale provvisoria: gli doveva servire, mentre andava ricostruendo l’edificio del sape­ re. Aveva tre regole: “obbedire alle leggi e alle usanze del mio paese, mantenendo sempre la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere istruito dall’infanzia”; “essere nelle azioni il più saldo e risoluto possibile”; “propormi sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna e cambiare più i miei desideri che l ’ordine del mondo”. Cartesio sperava di giungere alla conoscenza, oltre che delle verità, pure “di tutti i beni veri che mai saranno alla mia portata”. Poiché basta ben giudicare per ben fare, migliorare la conoscenza significa acquistare le virtù e gli altri beni. Ma per far questo, Cartesio si mette a os­ servare il mondo con distacco, “proponendomi d’essere spetta­ tore più che attore in tutte le commedie che in esso si recita­ no”. Questo atteggiamento gli garantisce un margine di libertà che spesso le leggi giustamente negano agli altri, per metter riparo all’incostanza degli “spiriti deboli”. In un certo senso lo sfondo era ancora quello individuato da Montaigne: il mondo è un intreccio senza senso. Ma il dotto

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ha ora strumenti diversi. Montaigne lavora soprattutto con le sue letture classiche e in un certo senso è il testimone. della distanza tra la sua letteratura e la realtà. Cartesio ha travato nella matematica e nel metodo il filo conduttore per la ricerca della verità. Il dotto si distingue dagli altri perché cerca la verità e possiede la chiave per raggiungerla. La morale provvi­ soria diventa perciò la determinazione della linea lungo la qua­ le può convivere la scienza matematica dell’universo con il com­ portamento della gente comune, che agisce spinta da opinioni infondate, varie e mutevoli. Cartesio non scrisse mai una morale definitiva, ma tentò una descrizione scientifica della vita psicologica applicando uno dei principi fondamentali della sua filosofia: la dipendenza esclusiva dal corpo di molti dei fenomeni tradizionalmente attribuiti al­ l’anima. L’uomo ha emozioni in quanto ha il corpo ed esiste un aspetto della vita emotiva che dipende soltanto dal corpo. Ma le emozioni hanno anche un aspetto che appartiene solo al­ l ’anima. Proprio in quanto le emozioni sono anche eventi spi­ rituali la morale si esercita su di esse e deve insegnare all’uomo a controllarle. Per questo scopo l ’unico strumento- è la conoscen­ za. Il corpo,- nelle sue reazioni immediate, offre una prospettiva limitata e spesso sostanzialmente errata dei beni e dei mali; la conoscenza può correggere queste valutazioni, reprimere le emozioni negative che sorgono dal corpo e sostituirle con emo­ zioni positive. L’arma centrale di tutta la morale sta nel control­ lare i desideri: bisogna desiderare solo i beni che si conoscono come tali e non esercitare nessun desiderio sulle cose che non dipendono da noi. Così le emozioni negative, che derivano solo dai mali, sono eliminate, perché non si realizzano i mali che di­ pendono da noi e non si temono i mali che non dipendono da noi. La virtù è appunto “fare le cose buone che dipendono da noi” (Pass, de Pùnte, n , 144), e lo stesso esercizio della virtù finisce con il suscitare nell’anima emozioni che la occupano e tengono lontani i troppo violenti contraccolpi del corpo. Gran parte della morale provvisoria del Discorso sul metodo passava nelle Passioni dell’anima, inserita in una teoria scienti­ fica delle emozioni. Cartesio riconosceva d’ispirarsi alla morale di Seneca. E aveva ragione. Da Seneca ricavava l’idea che il mondo è la scena su cui gli uomini recitano le loro parti, e che il saggio non deve prendere parte alla rappresentazione. Ma lo strumento migliore per realizzare questo atteggiamento, è la conoscenza scientifica: la scienza può dire quali sono le cose che davvero danneggiano l ’uomo o gli giovano; ma il prezzo da

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pagare per attenersi a queste indicazioni consiste in un taglio ra­ dicale di gran parte dei desideri umani, perché gran parte del­ le aspirazioni degli uomini non ha nessun fondamento in quel­ l ’ordine naturale che la scienza rivela con precisione. Cartesio, che aveva sempre perseguito un tipo di vita che gli garantisse l’indipendenza di cui ha bisogno lo scienziato, finì i propri giorni alla corte di Cristina di Svezia. La parabola di Cartesio poteva apparire emblematica: la corte del sovrano di­ ventava il rifugio sicuro di chi volesse esercitare la libertà e l’indipendenza lontano dal giogo che la disciplina religiosa im­ poneva agli altri, agli uomini che non raggiungono la saggezza. Il personaggio che meglio incarnò la figura del filosofo e del moralista di corte fu Francesco Bacone. Una delle sue opere più celebri e diffuse furono gli Essays or Counsels Civil and Moral pubblicati nel 1597, 1612 e 1625 e poi più volte dopo la morte dell’autore. Essi s’ispiravano ai Saggi di Montaigne: e la filia­ zione letteraria non era casuale. Anche Bacone dedica alla mo­ rale trattazioni non sistematiche, consigli, che non rientrano in un piano unitario rigoroso. La morte, la simulazione, la vita fa­ miliare e la vita solitaria, l ’unità della religione, la vendetta ecc. sono i temi dei saggi. Molto spesso il discorso di Bacone parte da una massima famosa, da una figura retorica, da una situa­ zione. Alla scienza della morale si sostituisce completamente la saggezza che indica all’uomo come comportarsi nelle situazioni difficili. Il vecchio sistema unitario, nel quale la scienza della morale si collega all’impero universale e alla chiesa universale, è saltato e ha lasciato scoperta una molteplicità di situazioni, nelle quali solo la saggezza può soccorrere l’uomo. Del resto nel De dignitate et augmentis scientiarum Bacone criticava apertamente quello che gli appariva il sistema etico tradizionale. Era una forma di sapere contemplativo, che met­ teva in primo piano sottili discussioni su concetti etici raffinati, ma che rinunciava a trovare i mezzi per promuovere il bene col­ lettivo a preferenza del bene individuale. Le alternative nel­ l ’etica tradizionale, rappresentate dalle sette filosofiche, hanno tutte in comune la concezione dell’etica come un modo per as­ sicurarsi il bene individuale, smorzando qualsiasi slancio verso il bene collettivo. Soltanto dalla considerazione del bene collet­ tivo derivano i doveri, gli officia, che stabiliscono il contenuto del comportamento che gli uomini devono tenere nella società, secondo la posizione che vi occupano.

La legge della società 4.3. La legge della società

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Bacone rappresenta in qualche modo il passaggio dalla mora­ le solitaria di Montaigne alla morale di corte: di una corte intesa però come centro di rinnovamento della vita collettiva. Questa trova il suo sostegno nel sovrano, e il sovrano ha il proprio fonda­ mento nella legge. La legge diventa il principale strumento diretti­ vo del comportamento umano. Il giusnaturalismo fu l’espressione più compiuta di questa prospettiva. Ugo Grozio nèl De, iure belli ac pacis, mostrava che tutti i comportamenti importanti, nella società politicamente organizzata come prima di essa, in guerra come in pace, possono essere regolati con leggi. Le leggi fanno sì che le azioni umane restino ciascuna entro i limiti do­ vuti e conseguano un esito soddisfacente per chi le compie. In questo senso la morale baconiana si poteva ricollegare all’etica della legge e della sovranità. Proprio Bacone infatti contrappone­ va alla morale privata della filosofia antica e poi scolastica, l ’eti­ ca pubblica che ha nella società il suo punto di riferimento e nelle leggi il suo strumento. Nel 1640 la convocazione del parlamento era l’atto iniziale delle guerre civili inglesi. In quello stesso anno Hobbes faceva circolare Elements of Law Civil and Politic. In quest’opera la legge diventava il termine di riferimento fondamentale del com­ portamento; ma la legge nelle sue espressioni primarie concer­ neva un patto mutuo tra uomini; e il primo patto tra uomini istituiva la sovranità. L’elemento baconiano, rappresentato dal­ la morale pubblica, confluiva con la teoria giusnaturalistica del­ la legge, con la dottrina della sovranità e del contratto sociale. Questi elementi rimarranno gl’ingredienti fondamentali dell’eti­ ca di Hobbes, che la riesporrà più,volte fino alla seconda metà del secolo. Non a caso la prima opera etico-politica di Hobbes usciva proprio mentre si apriva la rivoluzione puritana. La cultura pu­ ritana aveva una profonda fiducia nella legge. Il riferimento alla Bibbia, così pregnante in essa, rafforzava questo motivo etico e politico. La società politica nasce da un patto (anche questo un motivo lontanamente biblico), ma viene poi sanzionata e co­ dificata dalla legge, alla quale anche il re deve essere sottopo­ sto. La legge divina consegnata nella scrittura e la legge della co­ scienza sono gli unici punti di riferimento per la vita religiosa; la legge di natura dà i precetti fondamentali della vita politica che deve essere guidata dalle leggi positive approvate dalla comunità.

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Hobbes riteneva che la vita associata potesse essere regolata solo da leggi imposte da un potere centrale, in grado di ammini­ strare tutta la forza disponibile, e non da leggi derivanti in qual­ che modo dalla coscienza dei singoli e dal loro consenso. La morale per Hobbes esigeva leggi sicure e uniformi, e soltanto un potere centrale, in partenza superiore a tutte le coalizioni d’interesse che potessero costituirsi all’interno della società uma­ na, era in grado di garantirle. Il contrasto tra Hobbes e i puri­ tani esprimeva in modo caratteristico due diverse concezioni del­ la morale della legge. Hobbes proponeva la legge come il co­ mando che viene dall’alto, un comando perfetto e determinato, che garantisce a tutti una posizione precisa nella società. I pu­ ritani vedevano nella legge un prodotto che esprime tutta la società e garantisce soprattutto il libero sviluppo delle comuni­ tà religiose e delle virtù che in esse si coltivano. Per Hobbes la legge era lo strumento per garantire rapporti pacifici tra mem­ bri di una società politica, per assicurare che i patti e gl’impe­ gni privati da essi assunti fossero credibili. I puritani avevano invece un contenuto morale specifico da difendere: la morale religiosa della loro comunità e il tipo di comportamento nel quale i gruppi sociali che avevano aderito al puritanesimo si riconoscevano.

4 .4 . La m eccanica del piacere Rispetto ai puritani Hobbes era un dotto, un figlio di Montai­ gne: di fronte agli eventi del suo tempo si atteggiava con distac­ co, sapeva cogliere quello che di superstizioso c’è nei fenomeni religiosi e i moventi meno confessati delle azioni umane. Hobbes disponeva di una precisa descrizione dell’umanità, del modo in cui essa agisce. Le differenze naturali tra gli uomini non sono molto importanti. Contano le differenze artificiali, che derivano dalle passioni degli nomini. Ma a loro volta tutte le passioni possono essere ricondotte al desiderio di potere. Il po­ tere di un uomo consiste nei mezzi che ha per ottenere qualche bene futuro che si presenti come tale, e il valore di una perso­ na è il potere che gli si attribuisce, cioè il prezzo che si è dispo­ sti a pagare per disporre del suo potere. Il potere che_viene at­ tribuito alle persone determina le gerarchie sociali e i seghi este­ riori che le indicano. La società è perciò un insieme di uomini

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che desiderano il potere, ne dispongono in gradi diversi e co­ munque aspirano ad aumentare quello di cui dispongono. Questo quadro morale della società è comune a Hobbes e Spinoza, ma è anche un tratto caratteristico di gran parte della cultura seicentesca. In Inghilterra si diffonde una vasta lette­ ratura moralistica, fatta di saggi e di descrizioni di usi sociali c di caratteri, che in qualche modo si ispira ai Saggi di Bacone. Quasi sempre essa mira a mettere in luce gli aspetti curiosi e meno accettabili del comportamento umano e i tipi emarginati della società. Contemporaneamente in Francia circolano raccol­ te di massime e di epistole moraleggianti che danno della socie­ tà contemporanea un quadro non dissimile da quello che si ri­ cava dalla letteratura inglese. Le strutture morali portanti della società vengono interpretate in una prospettiva che non è più quella dell’etica aristotelico-stoica tramandata dalle scuole. I com­ portamenti che quella morale considerava importanti e positivi vengono ancora riconosciuti come importanti e positivi, ma di essi vien data un’interpretazione diversa. Per La Rochefoucauld “quelle che consideriamo come virtù sono spesso soltanto una raccolta di azioni diverse e d’interessi diversi che la fortuna o la nostra industriosità sanno mettere insieme” (Max., i). Per La Rochefoucauld l ’amor proprio è la molla principale delle azioni umane, lo stimolo più importante di un essere come l ’uo­ mo costantemente dominato dalle passioni. Le opere dei dotti come Montaigne, quelle dei moralisti po­ polari o aristocratici, quelle di scienziati veri come Cartesio o meno veri come Hobbes e Spinoza descrivevano un mondo morale sottosopra. La vecchia etica classico-cristiana poteva an­ cora fornire i termini per descrivere questo mondo; ma le sue spiegazioni non tenevano più. Proprio il divario tra descrizione e spiegazione dava l ’impressione del capovolgimento. Del vec­ chio arsenale solo la morale del piacere, rifiutata dal cristiane­ simo, poteva essere utilizzata come imo strumento utile per for­ mulare un’etica che desse delle strutture morali dell’azione uma­ na una spiegazione diversa da quella dell’etica tradizionale. Hobbes attingeva ampiamente a questo filone per portare a termine la propria revisione dell’etica. “Non c’è una cosa còme il Finis ultimus (il massimo scopo) o come il Summum Bonum (il bene più grande) come si dice nei libri dei vecchi filosofi mo­ rali” (Leviathan, i, 11). Bene e male non possono essere definiti in assoluto, ma sono relativi alle persone, perché “tutto ciò che è l ’oggetto dell’appetito o del desiderio di un uomo è, per quel che lo riguarda, bene” (ibid., i, 6). Erano posizioni non lontane

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da quelle di Cartesio per il quale l ’unico vero bene e male con­ sistono nell’effettiva utilità e nell’effettiva dannosità di una cosa con la quale si viene a contatto. Su questa linea Spinoza darà questa definizione: “Per bene intendo ciò che sappiamo con certezza esserci utile” (Ethica, iv, Def. i). Il piacere e l ’utilità erano i criteri fondamentali per definire il bene e il male. Que­ sti, così definiti, perdevano il loro carattere di assolutezza e di­ ventavano relativi agli uomini e alle loro diverse posizioni. Questa interpretazione della morale sembrava inquadrarsi per­ fettamente nel tipo di spiegazione che la nuova scienza adotta­ va: una spiegazione meccanica o geometrica, mai comunque una spiegazione finalistica. L’etica aristotelica e quella scolastica met­ tevano invece a proprio fondamento appunto il concetto di som­ mo bene come fine ultimo delle azioni umane. Occorreva perciò trovare un’altra causa della morale umana, che non fosse il fine ultimo buono di per sé. Il piacere e l ’utilità sembravano candi­ dati verisimili per questa parte. Infatti essi parevano in qualche modo legati alla struttura fisica dell’uomo, quella per la quale passavano processi simili ai processi materiali su cui si era eser­ citata con successo la spiegazione elaborata dalla nuova scienza. La nuova morale del piacere e dell’utile era perciò assai lon­ tana dalla sua progenitrice epicurea. Non era più un ideale morale che il saggio doveva perseguire nella valutazione accu­ rata dei piaceri, ma era una spiegazione per dar conto delle azioni umane, soprattutto di quel tanto di violento che esse con­ tenevano, dei conflitti che generavano, delle competizioni che le caratterizzavano. E con questo filo conduttore si dovevano spie­ gare anche le strutture morali, le virtù e i vizi che l’etica tradi­ zionale aveva identificato e classificato, ma di cui non aveva dato una spiegazione adeguata.

4 .5. L’etica scientifica Alla costruzione di un’etica che, attraverso i concetti di pia­ cere e di utile, non solo fosse in accordo con la filosofia ispi­ rata alla nuova scienza della natura, ma fosse essa stessa una scienza, nel senso moderno del termine, arrivò Hobbes, proiet­ tando elementi giusnaturalistici nella filosofia dell’uomo ispirata alla scienza. Per Hobbes, partendo dall’etica come analisi delle passioni si arriva alla politica: “coloro che partendo dai primi principi della filosofia con metodo sintetico siano giunti alla

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scienza delle ^passioni e delle perturbazioni dell’animo, continuan­ do per la medesima via, giungeranno alle cause ed alla necessi­ tà della costituzione delle città, e acquisiranno la scienza del di­ ritto naturale, e dei doveri civili per ogni genere di città, e ap­ prenderanno che tipo di diritto si debba alla città stessa, e an­ cora tutto il resto che è proprio della filosofia civile, per il fatto che i principi della politica risultano dalla conoscenza dei moti dell’animo, ma la conoscenza dei moti dell’animo, dalla scienza dei sensi e dei pensieri” (De corp., i, vi, 7). Le passioni sono semplici effetti delle azioni delle cose sugli uomini. Il desiderio diventa l’evento fondamentale della vita emotiva e da esso si sviluppano le passioni semplici che sono: appetito, desiderio appunto, amore, avversione, odio, gioia e do­ lore. Da queste, modificate dalle circostanze in cui si verificano o dalle loro reciprochè associazioni, derivano tutte le altre pas­ sioni. Con il riferimento al potere appare il concetto di virtù. Le virtù dipendono dalle passioni, e “le passioni che più di tutte causano differenze di ingegno sono principalmente il mag­ giore o minore desiderio di potere, di ricchezze, di conoscenza e di onore. Tutte possono essere ridotte alla prima, cioè al desi­ derio di potere, perché ricchezze, conoscenza e onore sono sol­ tanto differenti specie di potere” (Lev., i, 8). A questo punto norma suprema del comportamento diventa la legge di natura, cioè le norme che costituiscono il presupposto di un potere in grado di mantenere la pace e il rispetto dei patti reciproci tra uomini sempre in competizione per l’affermazione del proprio potere. Per Hobbes la virtù è anch’essa una passione, un’affer­ mazione del proprio potere; perciò solo una legge che presup­ ponga sempre come propria fonte la concentrazione del potere nelle mani del sovrano, può mantenere la pace tra gli uomini. All’etica come tecnica di salvezza dell’individuo nei confronti della società, che dagli stoici a Cartesio aveva largamente con­ dizionato una parte della nostra tradizione etica, si contrappo­ ne nel modo più radicale la concezione dell’etica come ade­ guazione del comportamento del singolo al potere che sta alla base della società. Se Hobbes ispira la propria scienza etica al modello meccani­ co-geometrico della scienza naturale, Spinoza si rifà al modello geometrico-deduttivo. N ell ’Ethica more geometrico demonstrata l ’etica diventa il culmine di un universo retto da leggi che hanno la stessa necessità dei teoremi della geometria e in cui gli esseri dipendono gli uni dagli altri come le proposizioni della geometria dipendono le une dalle altre. In questo quadro ogni cosa è in

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quanto si sforza di perseverare nel proprio essere, sicché Funi­ verso è un sistema di sforzi in equilibrio e in contrasto. Anche l ’uomo rientra in questo sistema, e anche il bene e il male si configurano in base alla sua tendenza a perseverare nel proprio essere: se una cosa è consona al nostro sforzo, al nostro appeti­ to o tendenza, è bene; altrimenti è male. Spinoza recepisce nel proprio linguaggio il bene-utile di Cartesio e il bene-piacere di Hobbes. Inserito in un mondo di questo genere, l ’uomo si trova in mezzo a forze che tendono ad annullarlo, e tra queste vi sono gli altri uomini. Dalla presenza di queste forze non può rice­ vere che emozioni negative, dovute alle minacce dirette verso il suo sforzo di mantenersi in vita. Per vincere queste emozioni, non potendo cambiare l ’assetto del mondo, che è rigido, l ’uomo può soltanto promuovere la propria conoscenza. Allora si ren­ derà conto che l ’uomo stesso e le cose con cui è in relazione ap­ partengono a un ordine necessario e divino e la conoscenza di quest’ordine sarà un modo in cui il suo spirito afferma la pro­ pria esistenza legandola all’ordine indistruttibile dell’universo, che coincide con Dio. Una comunità di uomini che perseguono questo tipo di vita e mettono la conoscenza al primo posto ha anche la garanzia di perfetto accordo interno, perché questi uo­ mini non si metteranno mai in contrasto reciproco per gli aspetti della vita che non incidono direttamente sul perseguimento del­ la conoscenza. Spinoza esprimeva in un contesto diverso alcune tesi dell’etica cartesiana, ma se ne serviva per la proposta di una società civile armonica, retta da leggi chiare che garanti­ scono la compatibilità degli utili dei loro membri. Attraverso iL modello meccanico o attraverso quello geome­ trico, Hobbes e Spinoza avevano agganciato la scienza della morale alla concezióne scientifica dell’universo nella quale ave­ vano introdotto dottrine giusnaturalistiche. Proprio un giusnaturalista, Puffendorf, cercava di conservare al diritto naturale un metodo scientifico dimostrativo, ma liberandolo dall’inglobamento in un sistema del mondo. Per questo si serviva di una possi­ bilità offerta dal cartesianesimo. Anche le nozioni giuridicomorali son fatte di idee, ma si tratta di modi artificiali, che non hanno riferimento a nulla di reale. Il metodo dimostrativo è un procedimento che concerne le idee e non implica nessuna ipotesi sulla natura delle cose. L’etica riguarda i modi di essere e non la sostanza delle cose. Anche per Locke le idee di modo e di relazione sono sempre indipendenti dalle idee di sostanza e hanno molti gradi di libertà in più di queste: in particolare pos-

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sono essere definite con molta precisione e non pongono proble­ mi di riferimento alle cose, sicché possono essere ordinate in modo perfetto. Per questa ragione l’etica può essere una scienza dimostrativa. Naturalmente queste precisazioni di metodo lasciavano anco­ ra scoperto il problema del ritrovamento di un criterio per sta­ bilire il contenuto dell’etica dimostrativa. Puffendorf s’inseriva nella tradizione giusnaturalistica e trovava qui contenuti suffi­ cienti da sistemare. Era una tradizione non estranea a Locke. Ma Locke distingueva tra politica e etica e, mentre utilizzava il patrimonio giusnaturalistico nel primo settore, doveva trovare qn criterio di contenuto per il secondo. La fonte cui Locke si rifà è il De officiis di Cicerone. Questo rinvio può avere il valore di un simbolo: l ’etica dimostrativa, sganciata dalla concezione mec­ canicistica della natura, può riassorbire come proprio contenuto l’etica tradizionale, quella che nelle scuole è rappresentata ap­ punto dal De officiis. Locke non scrisse mai l ’etica dimostrativa. Ne parlò nel Sag­ gio sull’intelletto umano dal punto di vista generale, specialmen­ te come un settore particolare di conoscenza. Tentò anche di scri­ verla. Tra le sue carte esistono abbozzi di quello che doveva essere un capitolo da aggiungere al Saggio per sviluppare ap­ punto l ’etica dimostrata. È evidente un certo imbarazzo di Lo­ cke. I punti di partenza della sua impresa sono due: il rappor­ to di dipendenza dell’uomo da Dio e i rapporti mutui tra gli uomini. Nel primo caso l ’etica si configura come l’insieme dei doveri dell’uomo verso Dio, nel secondo caso come l ’insieme dei doveri reciproci degli uomini. Il motivo teologico-scolastico s’intreccia evidentemente con quello di derivazione giusnatura­ listica. Locke sostituì l ’etica dimostrata con La ragionevolezza del cristianesimo. Questo mutamento era teorizzato esplicitamente da Locke. L’etica dimostrata sarebbe di per sé in grado di coprire tutti gli spazi della vita umana, di chiarire tutti gli obblighi di un uomo. Ma sarebbe un’impresa lunga e difficile. Inoltre l ’effi­ cacia di una morale di questo genere sarebbe molto limitata, perché la chiarezza dimostrativa non è ima motivazione valida per molti. Soprattutto chi non ha tempo e modo di dedicarsi agli studi e alla riflessione non potrebbe né pervenire alla cono­ scenza della morale dimostrativa, né esserne condizionato. Que­ sto è vero in modo particolare per quelli che devono lavorare per vivere e che non hanno tempo né sufficiente libertà dalla fatica fisica per dedicarsi agli studi. Per costoro l’etica è sosti­

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tuita dalla religione, specialmente dal cristianesimo che, rettamente interpretato, non contiene nulla che sia contrario alla ra­ gione. Del resto un cristianesimo ben interpretato, e perciò ragionevole, è un testo di etica valido anche per quelli che pos­ sono pervenire alla morale dimostrata. Di fatto i cristiani con­ dividono molte credenze non ragionevoli, non strettamente ne­ cessarie per essere cristiani, non del tutto compatibili neppure tra loro. Ma non importa: tutte le credenze cristiane contengono in qualche modo le fondamentali tavole dei doveri. Perfino le forme mitiche e irrazionali di cui la religione, anche quella cri­ stiana, talvolta si riveste sono veicoli d’insegnamento morale, spesso adatti, e talvolta gli unici adatti, al gran numero di per­ sone modeste che il lavoro priva della possibilità di pervenire a un’etica puramente razionale. La nascita del nuovo tipo, scientifico, di etica era dovuto alla formazione di un nuovo tipo di dotto, che si dedica all’osserva­ zione e alla spiegazione dei fenomeni naturali e allo studio della matematica. Ma Io scienziato si colloca presto in posizione cri­ tica di alterità rispetto non solo alla tradizione colta delle scuole, ma anche alla tradizione religiosa popolare. Proprio in alternativa alla morale religiosa l ’etica scientifica fa ricorso a moventi tipi­ camente umani, come il piacere, o a traduzioni puramente umane del sommo bene, che viene definito in termini di utilità. In questa nuova etica convergono motivi lontani: l ’opposi­ zione alla morale ecclesiastica, la preferenza accordata alle virtù pubbliche sulle virtù private, la spiegazione dei comportamenti umani in termini d’interessi. C’erano differenze e accentuazioni diverse all’interno della nuova etica. Cartesio guardava alla vit­ toria della conoscenza ancor tutta da conseguire, Hobbes guar­ dava allo stato assoluto, parte già realtà e parte già mito, Spinoza aveva fede nell’ordine divino del mondo. Il sapere è quello che dà successo alla conoscenza sicura, alla gran macchina dell’au­ torità, al mondo geometrico; ed è anche la via della salvezza del sapiente moderno. Chi come Locke cercava una via di accesso alla realtà morale dei più, imboccava ancora la strada della mo­ rale cristiana o scolastica. Ma, tra la morale del dotto solitario, che cerca la via della salvezza operando sulla propria mente, e il cristianesimo ragionevole, si fa luce, da Hobbes a Locke, l ’idea che le nozioni morali sono artificiali, e perciò possono essere ma­ novrate. Staccata dal sistema del mondo, la morale poteva sembra­ re più adatta a realizzare il bene collettivo di cui parlava Bacone. Ma poteva scivolare anche verso il regno delle finzioni.

Il sentimento e le finzioni sociali

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4 .6 . Il sentimento e le finzioni sociali Sulla artificialità della morale doveva svolgersi un gran dibat­ tito nella cultura settecentesca inglese. Per ricuperare il carattere naturale della morale era possibile rispolverare il sistema del mon­ do aristotelico-scolastico, rivestendolo magari con argomenti mo­ derni, che tenessero conto del giusnaturalismo e della nuova mec­ canica. Ma si potevano anche battere nuove strade. Shaftesbury ammetteva quella che era l ’assunzione principale della morale del piacere e che aveva costituito il pilastro della scienza seicentesca dell’etica. Senonché “se per la costituzione naturale di una crea­ tura razionale le stesse irregolarità di appetito che la rendono dannosa per gli altri la rendono anche dannosa per se stessa e la stessa regolarità degli affetti che la rendono buona in un senso la rendono buona anche in un altro, allora la bontà per cui è utile in questo senso agli altri è un bene reale e un vantaggio per se stessa. E così si può trovare che virtù e interesse alla fine coin­ cidono” (’;Inq., pp. 243-44). Sicché “quando in generale le affe­ zioni o passioni sono concordi con il bene pubblico o con il bene della specie..., allora il temperamento naturale è interamente buono” ( ibid., p. 250). Per l ’uomo non solo le cose esterne, che possono colpire i sensi, sono oggetto degli affetti, “ma le azioni stesse e le affezioni di pietà, gentilezza, gratitudine e i loro contrari, portati nello spi­ rito a opera della riflessione, diventano oggetti. Perciò, per mez­ zo di questo senso riflesso, nasce un’altra specie di affezione, che si dirige verso quelle stesse affezioni, che sono già state sentite e sono ora diventate il termine di un nuovo gradimento o non gradimento” (ibid., 3, p. 251). Questo apprezzamento che sorge naturale nell’uomo si dirige in modo positivo, con approvazione, verso ciò che è “naturale e onesto” e con disapprovazione verso ciò che è “disonesto e corrotto” (ibid.). Qui “il cuore” che senta rettamente nei “differenti moti, inclinazioni, passioni, disposi­ zioni e conseguente condotta e comportamento delle creature... disceme prontamente il bene e il male in relazione alla specie e al bene pubblico” (ibid., p. 252). Ciò posto, “in questo caso sol­ tanto chiamiamo una creatura degna o virtuosa, quando può avere la nozione del pubblico interesse e può pervenire alla considera­ zione o alla scienza di ciò che è moralmente buono o cattivo, ammirevole o biasimevole, giusto o sbagliato” (ibid., p. 252). Per­ ciò virtù e vizio non coincidono con comportamenti in sé buoni o cattivi, utili o dannosi, ma devono muovere da una valutazione corretta o scorretta. “E così troviamo fino a che punto valore e

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/virtù dipendono da una conoscenza del giusto e dello sbagliato ' e da un uso della ragione in grado di assicurare una corretta ap­ plicazione degli affetti” (ibid., p. 255). Questa dottrina dovrebbe garantire la permanenza dell’apprez­ zamento del bene e della virtù: “poiché il senso del corretto e dello scorretto è per noi naturale in quanto è esso stesso un af­ fetto naturale, e poiché è un principio primo nella nostra costi­ tuzione e nel modo in cui siamo fatti, non c’è nessuna opinione speculativa, persuasione o credenza che sia in grado di escluderlo o distruggerlo immediatamente o direttamente” (ibid., i, n i, 1, p. 260). Shaftesbury chiama naturali i sentimenti che portano ad apprezzare il bene collettivo e li descrive come i piaceri dello spirito, che tutta la tradizione etica, da Platone in poi, aveva esaltato come i piaceri migliori. Questi sentimenti costituiscono anche la coscienza. Invece gli affetti che si volgono all’interesse individuale sono quei moti dell’animo che hanno bisogno di es­ sere moderati, perché possono compromettere la felicità dell’in­ dividuo.. In questo senso Shaftesbury ricupera la teoria classica della virtù come misura degli affetti. Quello di Shaftesbury è un tentativo di dare un fondamento naturale all’etica in un contesto culturale dominato dalla morale del piacere. A questo scopo egli fa ricorso a un sentimento origi­ nario e nativo, che è portato naturalmente ad apprezzare il bene collettivo. Questo sentimento ha senso solo se si suppone che l’universo sia un sistema nel quale il bene di ogni essere sia for­ tificato da quello degli altri. La morale del sentimento tiene conto della frattura stabilita da Locke tra la morale e la natura. La na­ tura può essere un sistema meccanico di atomi, ma questa sua struttura non ha alcuna importanza per la determinazione del contenuto della scienza dell’etica. Tuttavia Locke un qualche le­ game tra la supposta struttura meccanica del mondo e la morale aveva mantenuto. Aveva supposto che le nozioni primitive della morale fossero il piacere e il dolore, cioè effetti fisici elementari delle cose sull’uomo, e aveva derivato le nozioni morali più com­ plicate come idee complesse. Shaftesbury invece, proprio avva­ lendosi della frattura lockiana, conferisce il carattere di nozioni, primitive direttamente ai concetti complessi della morale, come gli affetti e i comportamenti. E, anziché ricondurre sotto il senso le nozioni morali primitive, fa ricorso a un apposito sentimento morale come facoltà originaria della morale, in grado di apprez­ zare bene e male già in riferimento alla dimensione sociale. In questo senso Shaftesbury non fa che forzare la direzione già im­ boccata da Locke, di sganciamento del piano morale da quello

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delle cose e dei sensi, perfino a livello della formazione soggettiva delle nozioni. Ma poi sul piano dell’etica, resa così autonoma dal piano delle cose, Shaftesbury ricupera la naturalità della mo­ rale, che diventa addirittura il filo conduttore per ricostruire Fon­ dine del mondo disgregato da Locke. All’opera di Shaftesbury s’intreccia quella di Bernardo Mandeville, che ne rappresenta l ’opposto in quanto porta alle estre­ me conseguenze la- tesi dell’artificialità della morale. Nel 1705 Mandeville pubblicò una favola in versi intitolata L’alveare bron­ tolone: o i furfanti diventati onesti, che diventò abbastanza po­ polare. La favola del 1705 narrava di uno spazioso e popoloso alveare, dove le api “vivevano nel lusso e nell’agiatezza” (The Grumbling Hive, p. 2), erano famose per le loro leggi e la forza delle loro armi, per la scienza e l’industriosità, per il loro governo, né tirannico né selvaggiamente democratico, ma costituito da una monarchia temperata dalle leggi, quello che allora si chiamava una monarchia mista o limitata. Eppure le api di quel felice al­ veare erano tutt’altro che virtuose. L’alveare era affollato e la popolazione continuava a crescere. C’era un gran da fare per sod­ disfare piacere e vanità e per consumare quel che veniva prodotto. Chi aveva scorte e denaro guadagnava molto senza faticare; chi faticava guadagnava poco. Tutt’intorno una folla di parassiti, av­ vocati, medici, preti, ministri corrotti. Anche la giustizia era cor­ rotta e faceva sentire il proprio braccio solo sui più poveri per i delitti più appariscenti. “Così ogni parte era piena di vizio, e tuttavia l’insieme era un paradiso... I loro crimini congiuravano a renderle grandi: e la virtù, che dalla politica ha imparato mi­ gliaia di trucchi astuti, era da questi riconciliata con il vizio” (ibid., pp. 155-66). Poi si tentò di portare la virtù dentro l ’alvea­ re; e fu la miseria. Mandeville ricavava una morale: “Basta con le lamentele: solo gli sciocchi tentano di render grande un alveare onesto. Godere le comodità del mondo, esser famosi in guerra, pur vivendo nel­ l’agiatezza, senza grandi vizi, è una vana Eutopia, che sta nel cervello” (ibid., pp. 409-14). Nella prefazione del 1714 Mandevil­ le spiegava che “l’intento principale della favola... è di mostrare l ’impossibilità di godere di tutte le più eleganti comodità della vita che si possono avere a disposizione in una nazione industrio­ sa, ricca e potente e nello stesso tempo avere la benedizione di tutta la virtù e l ’innocenza cui si può aspirare nell’età dell’oro” (ibid., Pref.). Apparentemente Mandeville non professa una par­ ticolare dottrina morale. Tuttavia proprio all’inizio della prefa­ zione del 1714 esprime il proprio punto di vista sulla struttura

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morale dell’uomo: “quelli che guardano dentro la natura del­ l ’uomo, mettendo da parte arte ed educazione, possono osservare che ciò che lo rende un animale socievole consiste non nel suo desiderio di compagnia, nella sua buona natura, nella sua pietà, nell’affabilità e nelle altre grazie di un aspetto gradevole; ma essi osserveranno che le sue qualità più vili e più odiose sono le con­ dizioni più necessarie per renderlo adatto alle società più grandi e, secondo il mondo, più felici e più fiorenti” ( ib id .). L’obiettivo polemico di Mandeville, è l ’ottimismo etico, secóndo il quale l ’uomo è naturalmente socievole. L’autore classico che aveva re-7 spinto questo quadro era stato Hobbes, e proprio Hobbes aveva enunciato le tesi poste da Mandeville all’inizio della prefazione del 1714, che leggi e governo sono i veri legami sociali. Un modo di dire che la società è un ente artificiale, sovrimposto alla na­ tura dell’uomo. Nel 1714 queste posizioni entravano in contrasto con quelle di Shaftesbury, che insisteva sulla naturalità del bene collettivo, sul fatto che l’uomo per natura apprezza ciò che concorre al bene di tutti e sulla concezione della virtù come comportamento ispi­ rato appunto al bene totale. In un certo senso Mandeville si po­ neva sulla linea della morale del piacere, dell’interesse e delle passioni. Ma c’era una novità. Questa volta Mandeville non cer­ cava di ridurre le virtù a forme di piacere o di interesse calcolato e non cercava neppure vizi nascosti sotto le virtù manifeste. Di­ ceva che proprio i vizi sono il prezzo della ricchezza industriosa. Tuttavia Mandeville doveva ancora spiegare perché si instaurano le nozioni di virtù e di vizio e perché comportamenti vantaggiosi sono bollati come vizi. Tutto sommato era pur vero che i vizi, almeno qualche volta, si presentano come virtù. Le categorie di virtù e vizio sono finzioni, ma non sono gratuite. ^ Tutta la tradizione che andava da Hobbes a Locke aveva par­ lato del governo come dell’ente che dispone del monopolio della forza collettiva. Ora per Mandeville un discorso in termini di forza non è più sufficiente: nel caso dell’uomo “è impossibile che solo con la forza sia reso trattabile e riceva i vantaggi di cui è capace” (Inq.). Pertanto la cosa principale che legislatori e altri saggi che si sono adoperati per stabilire la società hanno tentato è stata di far sì che U popolo che dovevano governare credesse che per ciascuno fosse più vantaggioso vincere i propri appetiti piuttosto che compiacere a essi e fosse molto meglio pensare al­ l ’interesse pubblico piuttosto che a quello che sembrava il loro interesse privato” (Inq.). Per indurre gli uomini a reprimere in se stessi l ’appello dell’interesse privato, legislatori e saggi “osser­

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vando che nessuno era così selvaggio da non essere incantato dalla lode o così spregevole da sopportare con pazienza il disprez­ zo... esaltarono l’eccellenza della nostra natura sugli altri ani­ mali e esaltando con elogi sperticati le meraviglie della nostra sa­ gacia e l’ampiezza del nostro intelletto, accumularono migliaia di encomi sulla razionalità della nostra anima... incominciarono a istruire gli uomini con le nozioni di onore e di vergogna” (Inq.). A questo modo furono esaltati gli appetiti sociali, che gli uomini hanno in comune con le bestie, mentre furono repressi quelli egoi­ stici che caratterizzano la specie umana. Legislatori e politici hanno diviso la società in due classi: quella di coloro che ven­ gono considerati incapaci di frenare i propri istinti individuali e quella di coloro che vengono ritratti come dotati delle più alte qualità spirituali. Questa è la classe di coloro che hanno il potere, mentre la prima classe è quella dei sudditi. I sudditi si trovano in competizione reciproca per la soddisfazione dei propri bisogni, mentre i dominatori soddisfano i propri interessi sul lavoro della classe dominata, la quale invece vede nei dominatori l ’esempio del disinteresse. Pertanto i politici chiamano “vizio tutto ciò che, senza nessun riguardo per ciò che è pubblico, si fa per soddisfare un proprio appetito, e danno il nome di virtù a ogni azione con cui l’uomo, in contrasto con l ’impulso naturale, tenta di beneficare gli altri o di vincere le proprie passioni per l ’ambiziqne razionale di essere buono” (Inq.). Virtù e vizio sono dunque due nozioni artificiali, strumenti per il dominio degli uomini. La virtù è intesa classicamente come il dominio delle passioni, il trionfo dell’intelligenza sulla sensibi­ lità. Ma questo comportamento in contrasto con l’impulso natu­ rale non esiste mai. Esso è solo l ’effetto di una prospettiva socia­ le: sono i membri della classe dominante che descrivono il pro­ prio comportamento in questi termini di fronte ai membri della classe dominata. D ’altra parte il vizio è semplicemente il com­ portamento della classe dominata descritto dai membri della clas­ se dominante; ma gli stessi membri della classe dominata accet­ tano la descrizione del proprio comportamento vizioso e la de­ scrizione del comportamento dei dominanti come virtù. Vizio e virtù sono perciò soltanto due modi di seguire il proprio impulso non appena si è introdotta la mediazione sociale, cioè un rapporto di dominio, quello che permette a un insieme di animali essen­ zialmente egoisti di costituire una società. La morale del sentimento ebbe larga diffusione nella cultura di lingua inglese, ma trovò il proprio centro d’irradiazione,so­ prattutto nella filosofia scozzese. Fu Hutcheson che con la Ricerca

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sull’origine delle nostre idee di virtù o bene morale del 1725 diede una sistemazione scolastica al tema del sentimento propo­ sto da Shaftesbury. Per costruire il proprio sistema Hutcheson si serviva largamente della filosofia di Locke, ma con una modifi­ cazione fondamentale. Mentre Locke aveva cercato di derivare le nozioni morali da dati primitivi costituiti dal piacere e dal dolore attraverso la mediazione delle idee complesse di modo e di relazione, Hutcheson cerca di collocare già al livello primitivo le prime nozioni morali. Tutto sommato, la posizione di Locke dipendeva ancora dal tentativo di Hobbes di ricavare la morale dalle tendenze egoistiche dell’uomo. Ma, osservava Hutcheson, “delle azioni morali dobbiamo necessariamente avere percezioni diverse da quelle, del vantaggio: e il potere di ricevere queste percezioni può essere chiamato un senso morale , poiché ne ha la definizione, cioè ima determinazione dello spirito a ricevere un’idea dàlia presenza di un oggetto che ci viene incontro indi­ pendentemente dalla nostra volontà” (Inq., i). Questo senso si ri­ sveglia quando “le azioni che approviamo negli altri sono imma­ ginate in generale come tendenti al bene naturale dell’umanità o di una parte di essa” (ibid.). Il senso morale serve non solo ad apprezzare le azioni altrui, ma anche a produrre azioni che co­ stituiscono le virtù. Il comportamento dell’uomo ha motivazioni complesse; ma una di queste, indipendente dalle altre, è appunto il senso morale. E in generale è possibile descrivere i moventi che determinano le azioni umane e perfino calcolarne la forza re­ lativa con una specie di matematica o meccanica morale. Hutcheson cercava soprattutto di dar conto degli aspetti colla­ borativi del comportamento umano, senza postulare un ordine ra­ zionale dell’universo, come ancora Shaftesbury era stato costretto a fare, e senza introdurre la riduzione di tutti i moventi a mo­ venti egoistici, secondo la linea di Mandeville. In questo senso si era servito dell’ampliamento della filosofia di Locke. La morale diventava perciò un terreno autonomo rispetto alla ragione, che aveva il proprio fondamento distinto dall’ordine del mondo e dal calcolo dell’egoismo. Il calcolo morale che Hutcheson aveva cercato di formulare vedeva nella morale un fattore del comporta­ mento distinto dagli altri. La distinzione tra ragione e sentimento morale era ripresa in una chiave un po’ diversa da Hume, che accentuava l ’irriducibi­ lità della morale a ragione. Nel Trattato della natura umana (1739-40) Hume distruggeva la contrapposizione che era stata il fondamento di tutta la morale classica: passione e ragione ap­ partengono a domini diversi, e perciò nessuna passione potrà mai

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essere irragionevole. D ’altra parte la morale, dal momento che può esercitare un’azione effettiva sulle azioni e sugli affetti umani, non può dipendere dalla ragione, che è una facoltà puramente contemplativa. La netta distinzione tra morale e ragione si espri­ me per Hume nel fatto che le proposizioni che cadono sotto la ragione sono caratterizzate dal predicato “è ” o “non è ”, quelle che interessano la morale dal predicato “deve essere” (ought), “non deve essere” (ought not). Parallelamente si può dire che “la moralità, perciò, è più sentita che giudicata... L’impressione che sorge dalla virtù è gradevole, quella che sorge dal vizio di disagio” (Treat., ili, i, 2). Queste, emozioni sono specie partico­ lari di piacere e dolore: il che tuttavia non autorizza a costruire una teoria che colleghi dolore e piacere provati di fronte a com­ portamenti umani a circostanze oggettive determinate, non per­ mette di dedurre il piacere e il dolore da determinate proprietà permanenti dei comportamenti. Questi sono entità artificiali che s’inseriscono come atti tendenti a un fine in una natura che non è finalisticamente organizzata. La natura offre certi elementi del comportamento complesso che costituisce la virtù: per esempio la giustizia ha come presupposti l ’interesse egoistico degli uomini e la scarsezza delle risorse, ma il piacere morale generato dal com­ portamento complesso rappresentato dalla giustizia ha fondamen­ to nella simpatia che si prova verso l’interesse pubblico. La simpa­ tia è appunto il sentimento con cui si apprezza tutto ciò che tende alla pubblica utilità e che può dirigersi verso qualità che imme­ diatamente agiscono in questa direzione o verso comportamenti artificiali complessi che stabiliscono una relazione di compatibi­ lità tra l’egoismo umano e la solidarietà sociale dell’uomo. La simpatia come principio della morale doveva costituire il fondamento anche della Teoria dei sentimenti morali (1759) di Adam Smith, nella quale quel sentimento era presentato come l’apprezzamento delle emozioni che un uomo scopre e riconosce in un altro uomo. La simpatia produce risonanze emotive e com­ portamenti che hanno come fondamento questi rapporti emotivi. Di qui derivano i concetti fondamentali dell’etica, come il me­ rito, il dovere, la virtù ecc. Il sentimento che presiede alla mo­ rale non è più legato all’apprezzamento della pubblica utilità, ma è soltanto una relazione di consonanza tra gli uomini, del tutto indipendente dall’incidenza del loro comportamento sulla divisione dei beni.

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4 .7 . La fine della virtù La fine della virtù, preparata dagli scrittori di massime, dai moralisti seicenteschi e dalla cultura giansenistica, era proclamata da Montesquieu nel 1748 n^ll'Esprit des lois. In uno stato mo­ narchico la virtù non ha una funzione importante. “Nelle monar­ chie la politica fa fare le grandi cose con il minimo di virtù... Lo stato sussiste indipendentemente da tutte le virtù eroiche che troviamo presso gli antichi e di cui abbiamo soltanto sentito par­ lare. Le leggi tengono il posto di tutte le virtù di cui non c’è al­ cun bisogno” (Espr., n i, 5). Dove occorre “un ressort de-plus” è nello “stato popolare”: e qui si tratta della virtù (ibid., in , 3). La virtù occorre anche nell’aristocrazia; ma è una virtù minore, non eroica, cioè una specie di moderazione che salvi i nobili da­ gli eccessi. La virtù è il concetto cardine dell’etica antica e caratterizza in modo particolare le società classiche. Nel mondo europeo mo­ derno l’innesto dei popoli barbari sul tronco romano ha prodotto la storia della libertà politica e il suo antagonismo con il dispo­ tismo. È vero che Montesquieu si preoccupa di avvertire che la virtù di cui parla non è “una virtù morale, né una virtù cristia­ na, è la virtù politica” e precisa “ciò che chiamo la virtù nella repubblica è l’amore della patria, cioè l ’amore dell’uguaglianza” (Espr., “Avertissement de l ’auteur”). Aggiunto alle edizioni suc­ cessive alla prima, questo avvertimento non toglie che la virtù come fatto pubblico sia considerata come un tratto del passato. La caratteristica del mondo moderno e cristiano è la separazione della morale privata dalla morale pubblica. La legge è lo stru­ mento principale della vita politica, e la moralità è un elemento del tutto indipendente dalla disciplina politica e dal livello le­ gale. Le leggi semmai devono tener conto dei costumi, che sono modi di vita collettivi e che dipendono da molte circostanze, com­ prese quelle fisiche e climatiche. Sempre nel 1748 anche La Mettrie dichiara che “non c ’è virtù propriamente detta o assoluta, perché questa parola è, come mol­ te altre, un suono vano” (Disc. s.l. bonh., p. 105). È il legame tra virtù e felicità che La Mettrie nega con decisione: “la feli­ cità sarà per gli ignoranti e per i poveri, come per i sapienti e i ricchi: ce ne sarà per tutte le condizioni e, soprattutto (cosa che fa ribellare gli spiriti prevenuti), per i cattivi come per i buoni” (Disc. s.l. bonh., p. 88). Tra la felicità e la virtù non c’è nessun rapporto naturale, perché perfino “lo spirito, il sapere, la

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ragione sono di solito inutili alla felicità e qualche volta funesti e esiziali” (ibid., p. 97). Se per Montesquieu il rifiuto della virtù aveva un fondamento storico, per La Mettrie ciò che compromette la virtù è la base fisica della felicità. “I nostri organi sono suscettibili di un senti­ mento o di una modificazione che ci dà piacere e ci fa amare la vita. Se l ’impressione di questo sentimento è breve, si tratta di piacere; se è più lunga, è voluttà; se è permanente si ha la fe­ licità” ( ibid., p. 85). Accanto a questa felicità naturale c’è “la fe­ licità dell’educazione” che “consiste nel seguire i sentimenti che essa ha impresso in noi” (ibid., p. 87). Ma la felicità naturale è la più salda, la più difficile da turbare, mentre i sentimenti ac­ quisiti attraverso l ’educazione possono essere rimossi mediante la loro spiegazione. La felicità artificiale, che dipende dall’edu­ cazione, si connette con le facoltà razionali dell’uomo e con quel­ le che vengono chiamate vizi e virtù. “I legami della vita son quelli che hanno reso necessario stabilire virtù e vizi, che hanno perciò origine nelle istituzioni politiche. Infatti senza- di essi, senza questo fondamento solido, per quanto immaginario, l ’edi­ fìcio non potrebbe reggersi e crollerebbe in rovina” (Disc. s. I. bonh., p. 105). In questo senso La Mettrie aveva potuto affermare che non esiste virtù in senso assoluto: perché le virtù sono “rela­ tive alla società di cui costituiscono insieme l’ornamento e il so­ stegno” (ibid., p. 106). Le virtù costituiscono un sistema ben articolato, nel quale ogni ruolo sociale ha le proprie virtù caratteristiche. Vanità ed esi­ bizione hanno una parte preponderante nelle motivazioni di que­ ste virtù. Ma lo strumento principale con cui l ’educazione cerca di inculcare la pratica della virtù è costituito dal tentativo di introdurre fin dall’infanzia rimorsi e scrupoli per le azioni che non corrispondano al modello della virtù. Sono proprio i rimorsi che compromettono gravemente la felicità artificiale. Essi circon­ dano di un alone di tristezza tutti i piaceri che potrebbero es­ sere eventualmente ottenuti per questa via. Del resto la via della coscienza, il mezzo dello scrupolo e del rimorso non sono nep­ pure i più efficaci. Soltanto le leggi e le pene che esse stabiliscono possono dare una garanzia di sicurezza e di stabilità alla vita pub­ blica. A questo modo l ’insidia che lo scrupolo rappresenta per la felicità può essere completamente bandita. La via per un’educa­ zione razionale non trova più ostacoli, e solo nella legge sta il presidio della vita politica. Le posizioni di Montesquieu e di La Mettrie, pur così diverse tra loro, possono sembrare casi estremi. La cultura illuministica

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conosce anche la difesa della virtù. Per Helvétius l ’idea di virtù non è affatto arbitraria. “Con la parola virtù non può intendersi che il desiderio della felicità generale...” (Espr., x m ). Ma proprio la connessione tra virtù e pubblica utilità serve a distinguere le virtù di pregiudizio dalle virtù vere, cioè a eliminare il concetto tradizionale di virtù. “Chiamo virtù di pregiudizio”, dice Hel­ vétius “tutte quelle virtù che, scrupolosamente praticate, non con­ tribuiscono in nulla al benessere pubblico, come la castità delle vestali” (ibid., xiv). Le virtù vere sono invece quelle che effetti­ vamente promuovono il pubblico benessere. Se le cose stanno così, “solo con le buone leggi si possono formare uomini virtuosi. Tutta l ’arte del legislatore consiste perciò nel forzare gli uomini, facendo leva sul sentimento dell’amor di se stessi, ad essere sem­ pre giusti gli uni verso gli altri” (ibid., xxiv). La connessione tra felicità individuale e felicità collettiva era un tema caro ai moralisti inglesi e a Hutcheson, che aveva perfino pensato di costruire un calcolo della felicità, che potesse rendere massima la felicità individuale compatibile con quella collettiva. In Francia questa impostazione era ripresa da Maupertuis nelVEssai de philosophie morale. Ma la posizione di Helvétius era un po’ particolare. Infatti il tema della compatibilità tra felicità pubblica e felicità privata aveva in Inghilterra un valore chiara­ mente polemico nei confronti della filosofia di Hobbes e del suo tentativo di ridurre tutti i moventi delle azioni umane a moventi egoistici. Invece Helvétius riprendeva quel motivo con strumenti che derivano chiaramente da Hobbes. In natura l’uomo ha bi­ sogni; dalla soddisfazione dei bisogni nascono il piacere e il do­ lore da questi l ’amore del piacere e l ’odio del dolore. Ma attra­ verso l ’organizzazione sociale “le parole bene e male, create per esprimere le sensazioni di piacere e di dolore fisici che riceviamo dagli oggetti esterni, saranno estese a tutto ciò che può procurar­ ci l ’una o l ’altra di queste sensazioni, accrescerle o diminuirle, come la ricchezza e la povertà” (Espr., ix). In De l’homme il passaggio dal piacere e dolóre alla vita morale e politica in tutta la sua complessità avviene attraverso l ’amor di sé e l ’amor di potere: un altro tema che deriva da Hobbes e Spinoza. Lo strumento che permette di trasformare il desiderio di po­ tere, che di per sé sarebbe fonte di competizione, in una base di vita civile è la legislazione, che deve garantire a tutti la felicità attraverso un impiego piacevole del tempo disponibile. Il vero nemico di una legislazione di questo genere è solo l’ignoranza. Il ricupero della virtù in chiave hobbesiana serviva a Helvétius per fare della legislazione lo strumento di lotta contro l ’ignoranza e

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di organizzazione della vita individuale. La virtù, che per La IVJettrie è una specie di rito sociale, è per Helvétius il modo in cui la società plasma gli individui. Anche per Holbach Tarma più importante per instaurare il bene tra gli uomini è la cono­ scenza della verità. “La ragione è la conoscenza della vera feli­ cità e dei mezzi capaci di procurarla” (Système social, il). La conoscenza della verità “ci rende capaci di distinguere l ’utile dal nocivo, la realtà dall’apparenza, il benessere solido e duraturo dal piacere fuggitivo e passeggero” ( ibid.). La ragione applicata senza paura svela all’uomo che la virtù è il mezzo per arrivare alla felicità autentica, che nella virtù consiste la vera felicità. Lungo uq altro versante le idee morali deU’Ilhiminismo fran­ cese prendono una piega diversa. Nel Trattato di metafisica, scrit­ to tra il 1734 e il 1737 (ma pubblicato postumo), Voltaire osserva che “La virtù e il vizio, il bene e il male morale, sono dunque in ogni paese quel che è utile o nocivo alla società” (Mét., ix). A questa definizione Voltaire associa la definizione della virtù co­ me perseguimento delle azioni vantaggiose e del piacere.. E tutta­ via non accetta il relativismo totale della morale. Gli “sembra certo che ci siano leggi naturali che gli uomini siano obbligati ad accettare in tutto il mondo” (ibid.). Certamente Dio “ha dato al­ l ’uomo certi sentimenti di cui non può mai disfarsi... La benevo­ lenza per la nostra specie, per esempio, è nata con noi e opera sempre in noi... Così l’uomo è sempre portato ad aiutare un suo simile” (ibid.). Non solo gli sembra che esista una morale univer­ sale, ma respinge anche l ’idea che tutta la morale possa essere derivata da moventi egoistici (Il filosofo ignorante, xxxiv-xxxvm). Voltaire poteva condividere con Helvétius e Holbach la tesi che la virtù è caratterizzata dalla pubblica utilità, è il mezzo per rag­ giungere la pubblica utilità, ma non accettava la tesi che essa fosse in qualche modo riducibile all’egoismo, che fosse semplicemente il calcolo di un interesse accorto. Le stesse posizioni antinnatistiche di Locke gli sembravano una garanzia insufficiente per la morale universale, nella quale credeva, e il relativismo scet­ tico che aveva ispirate! il filone che va da Montaigne a Locke gli sembrava non comprovato dai fatti. Voltaire preferiva parlare del sentimento di benevolenza che, se non è ostacolato dall’egoismo, agisce in tutti gli uomini. La virtù rappresenta cioè un tratto del­ la natura umana e costituisce un’apertura dell’uomo verso la so­ cietà e gli altri uomini. Su Voltaire agivano suggestioni dei mo­ ralisti inglesi post-lockiani, come Clarke e Shaftesbury. Soprattutto la presenza di Shaftesbury fu un elemento decisivo per l’elaborazione di tutto un settore dell’etica illuministica. Nel

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1745 Diderot tradusse il Saggio sulla virtù e sul merito di Shaftesbury e scelse la morale del sentimento come punto di riferi­ mento costante dell’etica illuministica. Ancora nel 1773, critican­ do YHomme d’Helvétius, Diderot si opponeva all’etica di stampo hobbesiano che faceva derivare tutte le nozioni morali dal piacere e dal dolore sensibili. Un tema comune a gran parte dell’Illumi­ nismo, certamente anche a Helvétius, era l ’importanza delle pas­ sioni: “solo le passioni, e le grandi passioni possono elevare l ’ani­ ma alle grandi cose” (Pensées, i). “Le passioni sobrie rendono gli uomini cornimi” ( ibid., n ). All’esaltazione delle passioni si ac­ compagna quella della natura: “la natura ha fatto le buone leggi dal fondo dell’eternità; una forza legittima ne assicura l ’esecu­ zione, e questa forza che tutto può contro il cattivo non può nulla contro l’uomo perbene... io la cito al tribunale del mio cuore, della mia ragione, della mia coscienza, al tribunale dell’equità naturale” {En.tretien d’un pére). Per Diderot la ragione morale non è soltanto un calcolo, che conduce al livello morale partendo da dati semplici e non signifi­ cativi di per sé, come il piacere e il dolore sensibili. Esiste una certa originarietà delle stesse nozioni morali, che sono un dettame diretto della natura. Ma la natura non parla soltanto attraverso il ragionamento, bensì detta direttamente al cuore e al sentimento. Ciò che oppone Voltaire a Locke e Diderot a Helvétius è pro­ prio la tesi che la struttura morale è un tratto indipendente e ori­ ginario, che appartiene direttamente all’uomo per Voltaire, alla natura per Diderot. I motivi dell’etica inglese e scozzese, come si sviluppa dopo Locke, soprattutto per opera di Clarke, di Shaftesbury e di Hutcheson, costituiscono il punto di riferimento di Voltaire e di Diderot. Su un punto concordano illuministi come Voltaire, Diderot, Helvétius, Holbach. La virtù di cui la società ha bisogno non è la virtù di cui parla la tradizione, specialmente la tradizione reli­ giosa; è la virtù che consiste nella ricerca della felicità reale, in­ dividuale e collettiva. L’uomo ha una specie di vocazione natu­ rale per questa virtù; ma sono altrettanto importanti e tenaci le forze che ostacolano quella tendenza. Esse attingono a un aspetto reale della virtù che Mandeville aveva illustrato. La virtù è un mezzo potente per creare prospettive sociali artificiali, che ser­ vono a staccare l’uomo dalla natura e a produrne il dominio. Ma , per gli illuministi esiste la possibilità di una virtù naturale: è possibile respingere Hobbes o redimerlo, evitare il passaggio per Mandeville e creare una virtù che sia il prolungamento della natura. Perfino La Mettrie esige il passaggio dalla natura alla so-

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cietà e il richiamo alla natura vale per. Montesquieu come per — Voltaire, Diderot, Helvétius, Holbach, anche se la natura viene concepita in modi diversi e diversi sono i modi indicati per rea­ lizzare la restaurazione dell’ordine naturale. In ogni caso però gl’illuministi vedono nell’educazione e nella legislazione lo stru­ mento per continuare nella società l’opera della natura. Per Rousseau la società moderna non è certamente la società della virtù. “Come sarebbe dolce viver fra noi, se il contegno esteriore fosse sempre l’immagine delle disposizioni del cuore, se la decenza fosse la virtù, se le nostre massime ci servissero di regola, se la vera filosofia fosse inseparabile dal titolo di filo­ sofo!” (Discorso sulle scienze e sulle arti, i, p. 5). Contegno e cuore, decenza e virtù, massime e regole, filosofìa e filosofi sono le contrapposizioni entro le quali Rousseau tratteggia la diagnosi morale del suo tempo. Anche per Rousseau per ricuperare la virtù perduta bisogna procedere nella direzione della natura. Ma il progetto illuministico è viziato dal tentativo di ricuperare na­ tura e virtù con un sapere che deve la propria origine e il pro­ prio progresso ai vizi della natura umana: alla curiosità inutile, talvolta alla superstizione, alla vanità, alla futilità, al bisogno di impiegare il tempo vuoto. Sembra che ciò che distingue la società progredita dalla società primitiva sia la disarmonia che nella prima regna tra ragione e passioni. Presso gli uomini primitivi “la stessa causa che impe- ~ disce... di far uso della loro ragione... impedisce loro al tempo stesso d’abusare delle loro facoltà... perché non lo sviluppo delle conoscenze, né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio impediscono loro di mal fare” (Discorso sull’origine della disuguaglianza, i). In realtà nei selvaggi un altro principio tempera l’amor proprio e il desiderio della conservazione. Si tratta della pietà, “virtù tanto più universale ed utile all’uomo, in quanto precede in lui l ’uso di ogni riflessio­ ne” ( ibid., p. 55). La pietà, specialmente nella forma della com­ passione, che esige l ’identificazione con chi soffre, funziona tanto meglio nella società primitiva nella quale è più facile il processo d’identificazione. Infatti “quella che genera l ’amor proprio è la ragione; quella che lo fortifica è la riflessione: essa ripiega l ’uomo su se stesso; essa lo separa da tutto ciò che lo molesta e lo af­ fligge” (ibid., p. 56). Perciò via via che la ragione si sviluppa, si creano nuovi bisogni, si diversificano le passioni, gli uomini si differenziano, tende ad affievolirsi la pietà, cioè la reciproca com­ prensione tra un uomo e l ’altro, mentre tende ad aumentare la competizione e l ’amor di sé, due passioni cui la ragione offre

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armi potenti. Le passioni non sono le sole responsabil|i della degenerazione, e non sono neppure l ’àncora di salvezza alla quale può saldarsi l ’opera di restaurazione morale dell’umanità. Le pas­ sioni, come la ragione, decadono per il corso oggettivo della sto­ ria dell’umanità. La virtù alla quale Rousseau pensa non è il risultato di un sentimento inteso come principio dell’azione morale, e non è neppure un tratto del comportamento abbastanza diffuso da fare da contrappeso alle spinte egoistiche nella società e nel singolo. Una semplice fusione di ragione e sentimenti può dar vita alle false virtù del progresso, che coprono le forme più raffinate di egoismo. La virtù è invece proprio il tentativo di rimontare la china dell’egoismo, ricuperando i sentimenti di apertura verso gli altri che l’uomo primitivo sente più facilmente, non perché sia moralmente migliore, ma perché la società primitiva è diversa da quella progredita. La ragione può intervenire in questo pro­ cesso come disciplinamento delle passioni egoistiche progredite. La virtù è lotta contro l ’egoismo. L’uomo primitivo non è buono, anche se in lui la cattiveria non ha ancora potuto svilupparsi. Solo l ’uomo civilizzato può essere buono, nel senso che attra­ verso la ragione e le leggi può ricuperare il sentimento che l ’uo­ mo selvaggio sente con facilità. In questo senso le istituzioni ci­ vili sono condizioni indispensabili della virtù. “O Emilio! D ov’è l ’uomo dabbene che non deve nulla al suo paese? Chiunque sia, gli deve ciò che c’è di più prezioso per l ’uomo, la moralità delle sue azioni e l’amore della virtù. Nato nel fondo di un bosco, sa­ rebbe vissuto più felice e più libero; ma non avendo da com­ battere nulla per seguire le proprie tendenze, sarebbe stato buono senza merito, non sarebbe stato virtuoso” (Emilio, v, p. 707). Per Rousseau il collegamento tra natura e società non è ga­ rantito né dalla ragione né dal sentimento. Ogni uomo è figlio della società in cui vive, ne è modificato nel sentire e nel ragio­ nare. La legislazione può essere per Rousseau come per gli altri illuministi uno strumento di riconciliazione della società con la natura. Ma il compito della legislazione non può più essere solo quello di liberare le forze positive che sono presenti nell’uomo, né quello di montare dal di fuori la macchina dell’educazione. Occorre invece creare nuovi legami di solidarietà tra gli uomini, tenendo conto che la società moderna è diventata una società grande e tecnicamente progredita. Solo la creazione di nuovi vin­ coli tra il singolo e la volontà generale e l ’uso della legislazione come strumento per la lotta totale contro l’uomo nato nella so­ cietà moderna possono in qualche modo portare alla ricostru-

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zione morale dell’uomo. Per Rousseau la grande occasione è non la razior alizzazione della comunanza d’interessi che unisce il sin­ golo allq società, né la riscoperta della voce buona della natura attraverso l ’educazione, ma la lotta contro una ragione e un sen­ timento decaduti. Il vincolo di solidarietà tra singolo e comunità (un vincalo spontanèb nelle piccole comunità degli inizi della storia) ha bisogno di un rivolgimento completo, che si ottiene solo con l’instaurazione di una società dominata davvero dalla volontà generale. Rousseau ha paradossalmente assimilato la le­ zione di Hobbes e Mandeville: le virtù sociali sono riti e prospet­ tive artificiali che producono il benessere, ma rischiano di cattu­ rare per sempre nei loro incantesimi le forze della natura.

4 .8. La perfezione im possibile La storia dell’umanità come cammino verso il miglioramento, lo sviluppo della cultura, il raggiungimento di ima società colta e raffinata è uno dei temi più caratteristici di quella che venne chiamata la filosofia popolare: essa caratterizzò la cultura filosofi­ ca tedesca della seconda metà del xviii secolo, negli anni intorno al 1770. Per i filosofi di questo indirizzo la natura umana è spon­ taneamente orientata verso l ’acquisizione delle conoscenze, verso la realizzazione della moralità, verso l ’apprezzamento dei valori estetici. E queste facoltà rendono l’uomo adatto alla società e alla convivenza armoniosa con gli altri uomini. Su questa filosofia agì profondamente l’Illuminismo inglese e francese. I filosofi inglesi e scozzesi del sentimento, soprattutto Shaftesbury e Hutcheson, suggeriscono tono e impostazione dottrinale a questi filosofi; e gli illuministi francesi circolano ampiamente. Ma la continuità di natura e società, che era un motivo programmatico e polemico per gl’illuministi francesi, diventa ima concezione ottimistica del­ l’uomo e della sua storia, perché sullo sfondo della filosofia po­ polare agisce il razionalismo accademico di Wolff e la sua etica della perfezione. Dopo aver cercato di costruire una morale dimostrativa ser­ vendosi degli strumenti della filosofia cartesiana, Wolff assumeva come concetto centrale dell’etica il concetto leibniziano di per­ fezione. La semplice considerazione di ciò che costituisce la per­ fezione della natura umana permette il soddisfacimento della fe­ licità umana e l’inserimento di questo fine in un ordine divino e razionale del mondo. La “filosofia pratica universale è la scienza

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affettiva” (cioè degli atti positivi e negativi della volontà)/“pratica del dirigere le azioni libere per mezzo di regole generalissime” (Phil. Pract., Prol., § 3). Ora “se le azioni libere si determinano attraverso le stesse ragioni finali per le quali si determinano le azioni naturali, tendono alla perfezione dell’uomo; se) si deter­ minano per ragioni finali diverse, tendono alla sua imperfezione” {ibid. i, 1, § 49). ; Stabilite queste premesse, Wolff è in grado di sviluppare tutta l ’etica in modo deduttivo, realizzando così l ’ideale giovanile del­ la morale costruita con il metodo dimostrativo proprio della ma­ tematica. Il criterio fondamentale di questa etica è che le azioni di tutti gli enti debbono rientrare in un ordine naturale. Le cose che non hanno libertà o le azioni non libere degli esseri liberi realizzano da sé l ’ordine naturale, mentre nel caso delle azioni li­ bere l ’ordine naturale si presenta come la fonte di un’obbligazione. Il diritto e la morale diventano gli strumenti per mezzo dei quali l ’ordine naturale si realizza in questo dominio. L’ordine naturale garantisce a ogni ente la realizzazione della sua massima perfezione: e questo vale anche per l ’uomo. Sicché l ’ordine mo­ rale è costituito dalla massima perfezione per ciascuno degli uo­ mini. Con questa impostazione Wolff rientra in qualche modo nella prospettiva settecentesca che vede nell’etica lo strumento per garantire il massimo di bene per ciascun uomo in una con­ vivenza in cui i vantaggi di ciascuno sono perfettamente com­ patibili con quelli di tutti gli altri. In realtà poi in Wolff questa interpretazione dell’etica aveva accenti spiccatamente aristotelici. Mentre quasi tutti i moralisti dell’Illuminismo avevano polemiz­ zato contro l ’esaltazione delle virtù solitarie dell’etica classica, preferendo le virtù cosiddette sociali, Wolff riprendeva la teoria aristotelica delle virtù conferendo il primato alle virtù intellet­ tuali, in quanto sono le più caratteristiche dei poteri specifici del­ l ’uomo e perciò più delle altre contribuiscono alla sua perfezione specifica. Per certi versi la scuola di Thomasius, che rappresenta un’al­ ternativa a Wolff, con la sua netta distinzione tra la sfera este­ riore del diritto e quella interiore della morale, con la sua vici­ nanza alla morale di stampo hobbesiano, mette capo agli stessi esiti. Crusius, che attraverso Rùdiger e Hoffmann è un seguace di Thomasius, afferma: “Dopo, matura riflessione ho posto in­ sieme la condizione di perfezione propria e di felicità dell’uomo” ( Anweisung, § 157). Ma per Crusius il ricorso alla perfezione non ha il compito di conciliare la felicità individuale con l ’or­ dine universale. Crusius si avvale largamente dell’etica delle pas-

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sioni. L’uomo è sottoposto a pressioni sensibili ed emotive - e la libértà umana può essere in pericolo. Ma essa si confi­ gura proprio come possibilità di sottrarsi alla determinazione dei movènti e come possibilità dell’uomo di determinarsi in vista di un altro ordine diverso da quello dei moventi sensi­ bili: l’ordine divino. La via della virtù, con l'amore di Dio al proprio culmine, è perciò una via alternativa a quella delle passioni, e nella possibilità di scelta tra una via e l ’altra consiste la libertà umana. Ma l ’ultima parte doli’Anweisung è una Klugheitslehre, una teoria dell’abilità (che è anche competenza e saggezza). Si tratta della capacità di giudicare in primo luogo di sé e degli altri come strumenti che possono permettere o com­ promettere il raggiungimento di un fine. Rientrano nella Kliigheitslehre anche una teoria delle facoltà dell’uomo in quanto determinate dall’esperienza, una teoria del carattere e una tec­ nica per capire i motivi delle azioni degli altri. Ma allo stesso titolo rientrano in essa la politica e l ’economia e tutti gli stru­ menti necessari a rendere efficace l’azione umana. In Crusius l’in­ teresse teologico si univa così a tipici temi illuministici, come l ’analisi del carattere umano, l ’attenzione al mondo delle tecni­ che, la spiegazione del comportamento in termini di passioni. Sulla filosofia popolare l’etica della perfezione agiva assai di più nella veste conciliante di Wolff che in quella elaborata da Cru­ sius. Ma un’altra fonte di ispirazione era la filosofia della storia e della religione di Lessing, per il quale la storia umana è una sorta di lunga educazione morale del genere umano. E infatti la rivelazione è il modo in cui Dio si è rivolto a un singolo po­ polo, quello ebraico, tenendo conto delle condizioni in cui si tro­ vava. “Ma un popolo che era così rozzo, così incapace di pen­ sieri raffinati, ancora così totalmente immerso nella propria fan­ ciullezza, era forse capace di un’educazione morale? ” (Die Erziehung, § 16). La storia come educazione morale era per Les­ sing il luogo della continuità tra natura e società. La sfida all’ottimismo della filosofia popolare veniva da un personaggio che della continuità illuministica di natura e so­ cietà aveva fatto uno strumento di rottura: Rousseau. L’etica di Rousseau comprometteva la possibilità di considerare la ragione o il sentimento o entrambi come guide infallibili del comporta­ mento, di vedere nell’ordine della ragione l’ordine della natura e nelle virtù dell’uomo coltivato le virtù autentiche. A Rousseau potevano essere accostate certe posizioni di Crusius. Una conver­ genza con l ’etica di Crusius poteva essere trovata proprio nell’in­ terpretazione della moralità come alternativa al mondo della sen­

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sibilità, della razionalità che si muove nel piano della sbnsibilità e della ragione strumentale. La distinzione tra la ragióne stru­ mentale e la ragione come criterio stesso del comportafiiento co­ stituisce una delle tesi principali dell’etica di Kant a partire dalla Fondazione della metafisica dei costumi (1785). Quello