Essenze della libertà. Guida alla lettura delle ricerche filosofische di F. W. J. Schelling

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Essenze della libertà. Guida alla lettura delle ricerche filosofische di F. W. J. Schelling

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L’ESSENZA DELLA LIBERTÀ Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche di F.W.J. Schelling a cura di Francesco Forlin e Martino Dalla Valle

MIMESIS Filosofie

© 2010 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www. mimesisedizioni. it / www. mimesisbookshop. com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 E-mail: mimesised@tiscali. it Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: info. mim@mim-c. net

INDICE

PREFAZIONE

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INTRODUZIONE

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LA FREIHEITSSCHRIFT E GLI INIZI DI UNA NUOVA FILOSOFIA

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LA QUESTIONE DEL PANTEISMO di Davide De Pretto 1. Fra continuità e cambiamento: l’introduzione delle Ricerche filosofiche 3. Il panteismo come immanenza delle cose in Dio 4. Il vero senso dell’idealismo

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L’OSCURO RETAGGIO DELL’ESSERE di Monica Marchetto 1. Il concetto di fondamento nella filosofia dell’identità 2. La natura in Dio 3. Il male come positivo sovvertimento dei principi 4. La critica di Schelling a Leibniz 5. La sensibilità non è il male

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DELLA PERSONA

di Guido Cusinato 1. La critica alla concezione formale della libertà 2. Oltre l’idealismo e il realismo 3. La nascita di una filosofia della persona 4. La Selbsheit egologica e il male 5. L’esemplarità del Dio diveniente e la libertà dell’uomo

IL MALE NELLA STORIA di Francesco Forlin 1. Introduzione 2. La principialità del male: primo discorso speculativo 3. I due princìpi all’opera: primo discorso storico. 4. La libertà in questione: secondo discorso speculativo. 5. Conclusione. Il volere del fondamento e la creatura: secondo discorso storico

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L’INSOPPRIMIBILE MALINCONIA DI OGNI VITA di Davide Sisto 1. La personalità come compenetrazione armonica di natura e spirito 2. Il sole nero della malinconia 3. La vita come contraddizione e conflitto

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FILOSOFIA E SALVEZZA di Martino Dalla Valle 1. Miseria e splendore del nostro destino 2. La “noche oscura” di Schelling 3. Filosofia e mysterium iniquitatis 4. La linea d’ombra 5. Conclusione

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PREFAZIONE

Il volume raccoglie gli interventi al seminario su L’essenza della libertà umana 1809-2009, tenutosi a Padova il 29-30 ottobre 2009 per commemorare a due secoli di distanza dalla sua apparizione uno dei testi più originali della nostra tradizione speculativa e che proprio nel cuore della Modernità “riposiziona” il ruolo e il senso della libertà e della razionalità. Infatti, la Freiheitschrift di F.W. J. Schelling non è solo il tentativo più significativo di ripensare l’“auto-nomia” della libertà umana intesa come libertà da coazione e necessità o come atto di porre se stesso, ma propone anche una “genealogia” della ragione che la sradica dal riferimento moderno all’autoreferenzialità coscienziale per collegarla al farsi persona antemondano di Dio, a un’autentica teo-gonia che frantuma il concetto di ens perfectissimum e del mondo come pacifica creatio, assicurata nel suo senso una volta per tutte. La Geburt Gottes manifesta in forma paradigmatica il trauma proprio di ogni nascita e di ogni distacco dal Grund originario quale condizione indispensabile per poter superare il radicamento oscuro di un Urwollen tutto racchiuso su di sé e divenire il principio della luce e dell’amore. Fatta “co-originaria” con il “divenire di Dio” dal fondamento, la libertà umana esperisce non solo i dolori che accompagnano ogni costituirsi di un sé ma assume anche una valenza cosmica in quanto partecipe testimone dell’esplicarsi della natura da e in Dio. In questo modo Schelling cerca di conciliare la necessaria presenza di tutte le cose in Dio e la libertà umana come facoltà del bene e del male e così salvare il finito dalla nullità e il male dall’irrealtà. Grazie alla sua libertà l’uomo assume un ruolo mediatamente “demiurgico”, perché l’atto in cui si “di-stacca” dal centro e si afferma come sé colora di mestizia la finitezza che caratterizza la natura nel suo rapporto con il principio da cui deriva, ma soprattutto si trova inevitabilmente investito del compito sovrumano di dare senso alla realtà “positiva” del male di cui è l’autore: una sorta di antropo-dicea di cui la storia successiva ha mostrato l’immane tragicità e la nostra inanità.

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L'essenza della libertà

Come si può intuire, le riflessioni svolte da Schelling nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana rappresentano non solo un momento di rottura nei confronti della “banalizzazione del male” con cui il pensiero moderno ha cercato di esorcizzare la domanda sull’origine del male e delle ripetute tragedie di cui è stato impotente testimone, ma anche un “classico” che dobbiamo riprendere in mano nonostante le asperità teoretiche e un contesto teogonico e cosmogonico spaesante la piattezza del nostro rapporto con il mondo e la storia. In questa prospettiva, la lettura-commento che il volume propone risponde in maniera perfetta a questa esigenza, in quanto coniuga una precisa analisi speculativa con una responsabile preoccupazione pedagogica. Gian Franco Frigo

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INTRODUZIONE

Le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi vedono la luce nel 1809 durante il primo soggiorno di Schelling a Monaco di Baviera, dal 1806 al 1820. Redatte nel corso del 1806, occupano un posto centrale nella biografia intellettuale del filosofo impegnato in questa fase in una profonda revisione del proprio pensiero. Gli attacchi diretti da più parti alla cosiddetta “filosofia dell’identità”, con le accuse incrociate di nuovo dogmatismo, ateismo, panteismo e infine la ancor più grave denuncia di fumosità, astrattezza e scarso rigore da parte del vecchio compagno di studi e sodale Hegel (passi troppo celebri per essere ricordati), senza contare l’interiore irrequietezza del pensiero schellinghiano sempre proiettato oltre se stesso, hanno sicuramente inciso nella “svolta” di Monaco. Non deve stupire che il lavoro di conoscenza derivi dall’interazione fra conflitti interiori spesso sconosciuti all’autore stesso e agoni intellettuali con avversari del presente e del passato e che naturalmente la letteratura critica registra più agevolmente dei primi. Benché il costume filosofico oggi imperante sia un finto accordo dei dotti o viceversa una rispettosa indifferenza, non si dovrebbe dimenticare che la natura della filosofia, come di ogni altra opera di conoscenza, è principalmente “polemica”, “agonistica”, e che molto spesso le scoperte e i rivolgimenti del pensiero nascono da un non sempre dichiarato agone con il presente e la tradizione. A cavallo tra la filosofia dell’identità di Jena e Würzburg e le grandi sperimentazioni della parentesi di Stoccarda ed Erlangen, prima del rientro a Monaco nel 1827, le Ricerche appaiono a tutti gli effetti un’opera riluttante a qualunque definizione manualistica. Rimangono un unicum anche nella produzione schellinghiana. Ma qual è la novità di un’opera che se per un verso rappresenta una cesura con l’idealismo, per altro verso dissimula nelle pieghe di una prosa “narrativa” eloquente e immaginosa lo stesso schema logico che presiedeva all’Identitätsystem? Per Heidegger si tratta di «ciò che di più grande Schelling abbia fatto» e di «una delle opere

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più profonde della filosofia tedesca e quindi della filosofia occidentale»1. Non solo, ma, sempre nell’opinione di Heidegger, le Ricerche rappresenterebbero addirittura (ecco la novità) «il trattato che scuote la Logica di Hegel prima ancora della sua apparizione»2. Affermazione che come tutte quelle del suo genere significa qualcosa solo a patto di non appiattirla sul terreno della risibile competizione fra partiti filosofici. Heidegger vuole piuttosto segnalare il fatto che proprio nelle Ricerche si affaccia per la prima volta, in pieno “idealismo assoluto”, la possibilità di una filosofia post-idealistica o, con le parole di Heidegger, la possibilità di un «secondo inizio» della filosofia3. Hegel, com’è noto, dopo un lungo apprendistato lontano dalle luci della ribalta, si rivela proprio negli anni delle Ricerche l’astro nascente della nuova filosofia, mentre sulla scena dello schellinghismo cala lentamente il sipario. Si invertono le parti. La fama di Hegel diventerà sempre più grande anche al di fuori della Germania, mentre Schelling lavorerà nell’ombra a un piano completamente diverso ma altrettanto ambizioso: la “filosofia positiva”. Eppure a noi sembra che il grande avversario del nuovo corso di pensiero non sia tanto Hegel, che non è quasi scalfito dalle semplificazioni schellinghiane, quanto piuttosto Schelling stesso o, meglio, la sua anima “razionalista” (che convive/confligge con una “gnostica”), e che in Hegel riconosce, come in uno specchio, un’antica ambizione personale, che nella Logica hegeliana osserva compiersi il futuro del passato. Se è indubbio che la dialettica hegeliana perfeziona quello che Schelling aveva soltanto abbozzato negli anni dell’idealismo trascendentale e dell’Identitätsystem (e naturalmente fa molto di più), è altrettanto vero che Schelling, che ha ormai abbandonato l’idea consolante dell’identità prestabilita di tutte le cose, può ricominciare proprio dal punto in cui Hegel ritiene di aver concluso, ovvero dall’identità di vita e conoscenza4. Non è, infatti, proprio da quest’identità (schellinghiana prima che hegeliana) che le Ricerche prendono le distanze? E, ancora, non sarà proprio da questa identità, come dal supremo concetto della ragione - un concetto solo “negativo”, puramente formale -, che la “filosofia positiva” riprenderà a ritroso il cammino verso l’esistenza, dal momento che non vi è altra conoscenza tranne quella delle forme vuote delle categorie e che la vita è sempre sul punto di sfuggirle? 1 2 3 4

M. Heidegger, Schelling. Il trattato sull’essenza della libertà del 1809, tr. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1998, p. 29. Ivi, p. 164. Ivi, p. 256. Cioè l’Idea assoluta con la quale si conclude appunto la Scienza della logica (cfr. Dottrina del concetto, sez. III, cap. III).

Introduzione

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Non più dall’essere al concetto, ma dal concetto all’essere: l’altro inizio della filosofia. Quella filosofia che appariva solo come un momento superato della dialettica hegeliana custodiva in realtà il futuro di cui detta dialettica formerà il passato o il contrappunto “negativo”. Ma solo se si capisce che questo gioco delle parti è ancora dettato dall’illusione dialettica della continuità logica fra essenza ed esistenza, si può riconoscere nelle Ricerche quell’invito a meditare la cesura e la differenza da cui dipende, infine, la possibilità di un “secondo inizio” della filosofia. Se, dunque, le Ricerche sono quasi una critica ante litteram della Logica hegeliana, è per via di un’anticipazione più essenziale di quella meramente cronologica: l’anticipazione che il pensiero fa delle proprie possibilità inevase e che lo trasforma in un’interiore, incessante “psicomachia”. In tal senso è possibile che nell’autonarrazione di Schelling, in cui si consuma la scissione della vita dalla conoscenza, Hegel svolga la funzione del “doppio”, dell’alter ego, della finzione “negativa” o “razionalista”. Contro questo “doppio”, che non è altro se non la “protesi” dello schellinghismo, le Ricerche rivendicano la scoperta del fatto nudo dell’esistere: l’infondatezza e la superfluità dell’essere rispetto all’essenza, l’infelice ed esaltante intuizione di poggiare su nulla, la fragilità e malinconia di ogni vita di fronte alla sua verità, la morte, sono altrettanti motivi del nuovo inizio della filosofia tedesca che si compie con Schelling. Non sorprende che a partire da questo momento la sua filosofia accolga elementi “demonici”, basti pensare a Clara, dal momento che lo psicodramma schellinghiano ha la tendenza a proiettarsi esternamente sulla scena della natura in cui a darsi battaglia sono le forze elementari della tenebra e della luce, antropomorfismi rispettivamente della volontà e dell’intelletto. Le Ricerche avanzano ora la pretesa di confrontarsi e addirittura oltrepassare l’idealismo (incluso l’idealismo dello stesso Schelling) proprio sul terreno in cui l’idealismo si era dimostrato più avanzato: la libertà quale momento fondante dell’esistenza. Già Kant si era incamminato su questa strada con la scoperta della natura “pratica”, che è come dire libera, del pensiero, ma soltanto Fichte era stato capace di dare a questa intuizione una forma sistematica. E il giovane Schelling, diviso fra Kant e Fichte, con un occhio di riguardo a Spinoza, non aveva esitato a mettersi sulle orme del “sistema della libertà” profetizzato da Fichte. Ma negli anni delle Ricerche avviene qualcosa che risveglia nel filosofo un sentimento antico, inconfessato, apertamente in contrasto con l’ottimismo della filosofia idealista, e che riporta Schelling indietro al solito Kant (e, forse, più indietro ancora a quel Marcione della dissertazione di Tubinga): il sentimento del male radicale, dell’azione pervasiva ed incontrastata del male nel mondo,

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L'essenza della libertà

il dramma della malattia e della morte che non sopporta giustificazioni teologiche o filosofiche preoccupate più di far tornare i conti in casa propria che di mettere gli uomini di fronte alla verità, quale che sia. Proprio la questione “teologica” o, se si preferisce, “antropologica” (a quest’altezza per Schelling non c’è differenza, ed anzi potrebbe darsi che sia proprio qui, prima che in Hegel, l’origine della domanda che da Feuerbach e Nietzsche arriva sino ai giorni nostri intorno ai legami fra antropologia e teologia, cultura e religione), è ciò che l’idealismo ha maggiormente frainteso: Dio ridotto a “ordine morale” o essenza meramente spirituale è forse più vicino all’idea che di Dio si fanno i filosofi, ma centra poco con quella Personalità vivente e volitiva di cui narrano le scritture; ed anche il concetto del male che la tradizione greco-cristiana e da ultimo Fichte hanno dimezzato a semplice mancanza, privazione, passività, soddisfa forse le esigenze di quelle cosmologie, ma se messo a confronto con la brutale realtà della sofferenza e della morte, della violenza e dell’ingiustizia di cui ciascuno può far esperienza appare solo un fantasma concettuale, uno spettro evanescente; infine la libertà stessa, proprio quella libertà che è il vanto dell’idealismo, è anch’essa forse troppo poco “concreta” finché dimentica che libertà è non solo possibilità del bene, ma del bene e del male, di entrambi allo stesso titolo, e che proprio questa “indifferenza” al cuore della scelta è la causa dell’angoscia che pervade la vita degli uomini. Un filo rosso lega la nuova definizione della libertà a Kierkegaard e agli esistenzialisti. Non si può tralasciare, inoltre, che il generale richiamo alla concretezza e alla positività dell’incontro con il mondo equivale anche alla scoperta delle tensioni e delle contraddizioni della vita umana, costantemente in equilibrio precario fra le sue opposte determinazioni, protesa alla luce ma trattenuta e sedotta da un eterno “retaggio di tenebra”, destinata al cielo spirituale ma ancorata alla terra e all’animale, illuminata da coscienza e ragione eppur attraversata e plasmata da una primordiale volontà di vita, da un desiderio egoistico radicato nell’inconscio: volere di volere, desiderio di desiderio, che Kojève (seppur con il pensiero al solito Hegel) definirà “desiderio antropogeno” e Freud chiamerà libido. Naturale, allora, che il “nuovo pensiero” ebraico di Franz Rosenzweig chiami in soccorso proprio Schelling nel suo corpo a corpo con l’idealismo hegeliano, per tacere, infine, dell’influenza che proprio le Ricerche, grazie alla scoperta dell’Ungrund, dell’infondatezza dell’essere, avranno nello sviluppo del pensiero heideggeriano. L’elenco degli autori che hanno contratto qualche debito nei confronti di Schelling potrebbe allungarsi indefinitamente, includendo i nomi più diversi e lontani fra loro, da Bloch a Marcel, da Pareyson a Cacciari, se non fosse più urgente tentare un bilancio della filosofia schellinghiana alla

Introduzione

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luce degli eventi che ci separano da essa. Perché a cosa è valso opporre la possibilità alla necessità, rimettere al centro il futuro contro la prepotenza del passato, lottare per il riscatto dell’individuo dall’invadenza dell’universale, richiamare la trascendenza a custode della verità contro le pretese della dialettica, se tutto ciò non ha impedito alla filosofia di servire come “apprendista stregone” della grosse Politik novecentesca? Domanda che può apparire impropria e forse addirittura sconveniente, ma che oggi non è possibile evitare quando si ascolti un filosofo parlare di libertà. Dopo Auschwitz e Kolyma non solo la poesia non è più possibile (se non nei modi e nelle forme di un’incessante rivolta contro la poesia), ma anche la filosofia ha dovuto gettare lontano il suo vecchio abito logoro di ottimistica fiducia nelle sorti magnifiche e progressive. Con questa consapevolezza dobbiamo domandarci quale sia oggi l’eredità schellinghiana. Ma è un compito che esorbita dal presente lavoro e a cui vorremmo invece invitare il lettore che avrà avuto la pazienza di leggerlo fino alla fine. *** A coronamento del convegno sulle Ricerche che si è svolto a Padova il 29 e 30 ottobre 2009, in occasione del bicentenario dell’opera, ci è parso opportuno intraprendere la pubblicazione di un testo che, riprendendo da presso i lavori seminariali, potesse colmare quello che è un vero e proprio vuoto nella letteratura italiana. Non esisteva, infatti, un libro interamente dedicato alla lettura ed al commento analitico delle Ricerche. Seguendo l’esempio di una monografia di analogo tenore apparsa in Germania nel 1995, abbiamo ritenuto di mantenere un ordine di interventi in grado di seguire passo a passo l’andamento del discorso schellinghiano. Unica eccezione, il saggio iniziale di Guido Cusinato, contenente una proposta di filosofia della persona che investe il contenuto delle Ricerche nel suo insieme e ben si adatta ad evocare sin da subito la fecondità del testo schellinghiano. I contributi di Davide De Pretto, di Monica Marchetto, di Davide Sisto e dei sottoscritti prendono invece in considerazione di volta in volta circa una ventina di pagine dell’opera in questione – indicate all’inizio di ogni saggio secondo la numerazione dell’edizione tedesca di riferimento – e, non allontanandosi mai troppo dal contenuto delle stesse, ne spiegano il significato giustificandone al tempo stesso il legame con quelle che hanno preceduto e con quelle che seguiranno. Si è cercato di assegnare le pagine agli studiosi che, in virtù delle loro competenze e ricerche pregresse, erano fra i più indicati a svolgerne ed ampliarne il contenuto ed a tentare, ove possibile, di porre in evidenza non solo le luci, ma anche le ombre del testo,

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L'essenza della libertà

vale a dire le asperità ed i vicoli ciechi nei quali l’ardito corso di pensieri schellinghiano rischia di imbattersi. Lavoro di interpretazione ed approfondimento, dunque, ma avendo in ogni caso sempre in vista quello che resta il fine principale della presente pubblicazione: fornire al lettore mosso anche solo da semplice curiosità, dunque senza essere un “addetto ai lavori”, uno strumento valido ad introdurre alla lettura ed allo studio delle Ricerche, a nostro parere uno dei mattoni decisivi nella costruzione dell’idealismo, ma anche una delle “pietre d’inciampo” dello stesso, sulla quale hanno fatto variamente leva alcuni fra i maggiori pensatori del secolo appena trascorso. Se almeno uno dei lettori che avrà avuto la pazienza e la benevolenza di credere in questo progetto potrà dire di aver trovato fonte di ispirazione nelle riflessioni suscitate dal testo di Schelling contenute nel libro che tiene ora fra le mani, lo scopo per il quale quest’ultimo è stato concepito potrà senz’altro dirsi raggiunto. Padova-Perugia, luglio 2010 Martino Dalla Valle, Francesco Forlin

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GUIDO CUSINATO

LA FREIHEITSSCHRIFT E GLI INIZI DI UNA NUOVA FILOSOFIA DELLA PERSONA

1. La critica alla concezione formale della libertà Nella Freiheitsschrift Schelling dopo aver affermato che Wollen è Urseyn osserva che questo è il punto più alto a cui «è stata innalzata la filosofia del nostro tempo attraverso l’idealismo: e solo da quest’ultimo possiamo propriamente cominciare la ricerca del nostro oggetto […] ma l’idealismo stesso per quanto ci abbia portato ad una concezione così elevata e per quanto sia certo che ad esso dobbiamo il primo concetto perfetto di libertà formale […] ci lascia perplessi [rathlos] a proposito della dottrina della libertà» (VII, 350351). Alla concezione idealistica che, fondandosi sull’autonomia dell’Io, fornisce «da una parte solo il concetto più generico della libertà, dall’altro quello meramente formale», Schelling contrappone un nuovo «concetto reale e vivente» della libertà, quello secondo cui «essa consiste in una facoltà del bene e del male» (VII, 352). Di fronte a questa svolta Schelling stesso ammette esplicitamente l’insufficienza per quanto precedentemente sostenuto sulla libertà del volere, sul bene e il male e sulla personalità (VII, 334). La tesi che cercherò di sviluppare in questo mio intervento è che nella Freiheitsschrift il concetto della libertà come facoltà del bene e del male non sia comprensibile all’interno della tradizionale visione della libertà come libera scelta e implichi un decisivo spostamento di interessi da una filosofia della coscienza a una filosofia della persona1. Nonostante le apo1

In una direzione diversa si è mossa B. SANDKAULEN, Dieser und kein anderer? Zur Individualität der Person in Schellings „Freiheitsschrift“, pp. 35-54, in T. BUCHHEIM – F. HERMANNI (Hrsg.), »Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunkeln Grunde«. Schellings Philosophie der Personalität, Akademie Verlag, Berlin 2004. Secondo Sandkaulen nella Freiheitsschrift Schelling avrebbe importato da Jacobi il concetto di personalità, ma senza riuscire a slegarsi da Spinoza (B. SANDKAULEN, op. cit., p. 52). Di conseguenza nella Freiheitsschrift il concetto di personalità rimarrebbe sfuocato e nello sforzo di andare oltre Spinoza sarebbe approdato al massimo alla intellegible Tat di Kant o alla Selbstbestimmung di Fichte. Il limite del ragionamento di Sandkaulen è, a mio avviso, quello d’in-

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rie già nella Freiheitsschrift la nuova concezione del male implica un importante sviluppo nella riflessione sul problema dell’identità e il concetto di personalità arriva a separare il proprio destino da quel soggetto egologico che poi, nella Darstellung der reinrationalen Philosophie, risulterà terminare nel Aufgeben der Selbstheit (XI, 556). Qui, alla crisi della vita contemplativa, Schelling risponde con una complessa teoria della persona intesa come Umkehrung dell’Umwille. Diverse interpretazioni hanno invece visto nel sempre più accentuato depotenziamento della Selbstheit, della soggettività, dell’Io egologico, delle idee e della ragione un esito nichilistico e irrazionale2. Tale depotenziamento si può tuttavia interpretare anche diversamente: non come una irrazionalistica crisi della ragione, ma come la messa in crisi di una egoità eccessivamente incurvata su se stessa, come il tentativo di riformulare il problema dell’identità oltre un Io astrattamente soggetto della coscienza. Nel progressivo scollamento fra Io egologico e personalità, il depotenziamento del soggetto non è l’ultima parola di Schelling sul tema dell’identità, quanto solo un momento della filosofia negativa, a cui segue, nella filosofia positiva, una più precisa messa a fuoco della singolarità personale e del suo statuto ontologico. La progressiva decostruzione della filosofia del soggetto, se non dello stesso idealismo, non sfocia nell’Ohnmacht der Vernunft, ma piuttosto procede di pari passo allo sviluppo di una teoria della persona3. È in questa prospettiva che l’estasi degli Er-

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terpretare il superamento della Selbstheit egologica non come presupposto del divenire della persona, ma come ricaduta in una non ben precisata «höchste Selbstlosikeit» (ivi, p. 45) o in una improbabile «unpersönliche Aufhebung der Person» (ivi, pp. 52-53). Plausibile mi sembra invece l’ipotesi di un influsso di Jacobi nel risvegliare in Schelling l’interesse nei riguardi del concetto di persona. Sull’importanza del confronto fra Schelling e Jacobi rinvio al lavoro di C. CIANCIO, Il dialogo polemico tra Schelling e Jacobi, Edizioni di Filosofia, Torino 1976. Una decisa rivalutazione dell’influsso di Jacobi su Schelling è stata proposta da S. PEETZ, Die Freiheit im Wissen. Eine Untersuchung zu Schellings Konzept der Rationalität, Klostermann, Frankfurt am Main 1995. Secondo Peetz il confronto con Jacobi permette a Schelling di sviluppare un concetto di personalità contrapposta a una teoria della soggettività limitata al momento puramente riflessivo e autocritica nei confronti dell’idealismo (cfr. S. PEETZ, op. cit., pp. 317-318). Cfr. in particolare O. Marquard, Transzendentaler Idealismus, Romantische Naturphilosophie, Psychoanalyse, Verl. für Philosophie Dinter, Köln 19872. Una opinione diversa è espressa da Moiso, secondo cui è proprio l’incapacità di pensare a una “personalità libera” che precipita il razionalismo verso la “distruzione della ragione” (cfr. F. Moiso, Gott als Person, in O. Höffe – A. Pieper (Hrsg.), F. W. J. Schelling: Über das Wesen der menschlichen Freiheit, Akademie Verlag, Berlin 1995, p. 191). Cfr. G. Cusinato, Oltre l’intuizione intellettuale. Estasi e critica della ragion pura in Schelling, in «Filosofia e teologia» 3, 2000, p. 560.

La Freiheitsschrift e gli inizi di una nuova filosofia della persona

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langer Vorträge, intesa come Selbstaufgegebenheit dell’Io (IX, 233), non si traduce nel nulla nichilistico ma piuttosto nell’annullamento di quella egoità autoreferenziale che aveva usurpato il centro dell’esistenza umana4. Ma come sarebbe possibile questa estasi estraniante dal proprio egoismo, questa Umkehrung, se la personalità fosse autoreferenzialmente solo se stessa e non invece il lebendiges Band von sich selbst und einem Anderen? Inglobando l’alterità nella propria identità originaria la singolarità personale diventa un ente altamente instabile, scopre in sé un principio d’indeterminazione che non la porta certo a eliminare la Selbstheit, ma tuttavia a trascenderne il curvamento autoreferenziale5. Se si costituisce in rapporto all’alterità – quindi qualcosa che sfugge al controllo della propria volontà particolare e che rimane imprevedibile al proprio intelletto – allora la singolarità personale si differenzia dalla soggettività egologica in quanto non dà forma a se stessa nell’autoprogettualità. La libertà della persona come facoltà del bene e del male6 induce a superare la concezione formale della libertà come libertà di scelta incondizionata in quanto fa riferimento a qualcosa di esterno all’autonomia dell’autocoscienza e all’autoposizione dell’Io: non è in essi che la libertà personale trova la propria fondazione. Tale facoltà rimane estranea pure alla precedente definizione di personalità come «unità della coscienza» (I, 200). Una personalità come pura unità della coscienza potrebbe porsi al massimo il problema dell’autonomia e della scelta incondizionata raggiungendo in tal modo solo un’«essenza formale della libertà». A questo proposito Schelling osserva che «il concetto comune di libertà, secondo cui consiste in una facoltà completamente indeterminata di volere tra due opposti contraddittori, senza determinati motivi, l’uno o l’altro […] conduce alle più grandi assurdità. Potersi decidere per A oppure per -A senza alcun motivo determinante sarebbe, a dir il vero, solo un privilegio di agire in modo del tutto irrazionale, e in questo senso l’uomo non si distinguerebbe nel modo più eccellente dal noto animale di

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Cfr. G. Cusinato, Die Persönlichkeit und der Wille als Signal zur Umkehrung, in E. Hahn (Hrsg.), Negativität und Positivität als System : internationale Tagung der Schelling-Forschungsstelle Berlin, Total-Verl., Berlin 2009, pp. 57-77. Ciò non deve tuttavia indurre a pensare che nella personalità la Selbstheit vada eliminata: «ogni coscienza è concentrazione […] di sé. Questa forza negativa, ricondotta a se stessa di un essere è la vera forza della personalità in esso, la forza della Selbstheit» (VIII, 74). Sulla problematica del male nella Freiheitsschrift si segnala il lavoro di F. Forlin, Limite e fondamento. Il problema del male in Schelling (1801-1809), Guerini e Associati, Milano 2005, 267-365.

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L'essenza della libertà

Buridano» (VII, 382). È una strada impercorribile in quanto «se la libertà non si può salvare con nient’altro se non con la totale casualità [Zufälligkeit] delle azioni, allora non la si può salvare affatto» (VII, 383). Ciò che prescinde da ogni vincolo interno dell’individuo è proprio il generale. Tuttavia, nella Darstellung der reinrationalen Philosophie, Schelling nota che nell’uomo, al contrario di quanto sostiene Kant, ciò che porta alla felicità non è l’autonomia del generale bensì proprio l’individuale (XI, 569). Ma l’individuale è tale in quanto espressione di vincoli interni. Il problema di un qualche vincolo interno sarebbe superfluo solo per una concezione formale della libertà, che ha già astratto dall’individuo concreto e vivente a favore del generale, ma diventa invece centrale non appena ci si interroghi sulla libertà concreta di un individuo personale. È evidente che un aspetto essenziale della libertà è l’essere liberi da pressioni e vincoli esterni, ma estendere automaticamente questo schema nei confronti delle motivazioni e delle aspirazioni più profonde del mio essere e della mia interiorità, le medesime attraverso cui costituisco la mia stessa identità, significherebbe azzerare proprio ciò che costituisce la mia individualità personale. Per arrivare a una scelta assolutamente incondizionata dovrei annichilire anche me stesso come individualità particolare. Ponendo la libertà in termini di facoltà del bene e del male Schelling evidenzia che la libertà di scelta ha un senso solo se esprime il modo di essere di chi la compie, non se è un puro esercizio formale di autonomia. Nella misura in cui c’è un individuo, c’è un punto di vista. E nella misura in cui c’è un punto di vista, c’è un’ermeneutica e una funzionalizzazione della scelta: sono libero in quanto scelgo, ma non nel senso di rendere autonoma la scelta dal mio stesso essere, dal mio stesso punto di vista, quanto al contrario di riuscire, attraverso la scelta, a pormi in ascolto del nucleo più originario della mia persona. La nuova prospettiva fa riferimento a una scelta che rende liberi proprio perché “legata” al processo in fieri della costituzione dell’identità personale. Il problema della libertà a questo punto si sposta dalla scelta incondizionata al rapporto sussistente fra il proprio essere e il proprio agire, quindi alla logica che dirige la stessa Offenbarung, in quanto in contrasto con Spinoza Dio non è necessitato a fare qualcosa «come se le sue azioni seguissero da lui con necessità logica» (VII, 394). È nelle Stuttgarter Privatvorlesungen che Schelling mette in discussione la necessaria implicazione di volontà e scelta. Chi sa che cosa vuole, lo prende senza bisogno di scegliere, chi invece ricorre alla scelta in realtà non sa ancora che cosa vuole e quindi propriamente neppure vuole: «wer

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weiß, was er will, greift zu ohne Wahl. Wer wählt, der weißt nicht, was er will, und will daher auch nicht» (VII, 429). 2. Oltre l’idealismo e il realismo L’enfasi posta fin dalle prime righe della Prefazione sul passaggio dall’opposizione fra natura e spirito a quella fra necessità e libertà indica come per la Freiheitsschrift il punto di riferimento rimanga pur sempre quel radicamento spinoziano della libertà dell’uomo in Dio. L’errore di Spinoza, ripete spesso Schelling, non consiste affatto nel far seguire tutto dalla natura divina con necessità, ma nell’aver interpretato tale necessità come priva di vita e impersonale (VII, 397): la «natura intera ci dice che essa non può esistere in virtù di una necessità meramente geometrica; in essa non c’è una pura e altisonante ragione, ma personalità e spirito» (VII, 395). La dinamica del ragionamento di Schelling è mossa dall’esigenza di evitare la libertà di scelta incondizionata dell’asino di Buridano come la necessità geometrica di Spinoza. In ambedue i casi si arriva infatti a uno scollamento fra libertà e personalità: non solo la libertà incondizionata è propria solo di un soggetto che prescindendo da se stesso è diventato amorfo e impersonale, ma altrettanto impersonale risulta anche un Dio dominato da una necessità geometrica in cui gli accadimenti avvengono nella forma di una deduzione da una legge universale. La «legge universale», da cui deriva la creazione, viene ricondotta alla «persona di Dio»: «la creazione non è un evento dato, ma un atto. Non esistono conseguenze di leggi universali, ma è Dio, cioè la persona di Dio, la legge universale, e tutto ciò che accade, accade in virtù della personalità di Dio: non per una astratta necessità» (VII, 396). È il percorso che porta alla vivificazione della sostanza spinoziana. All’inizio l’intenzione di Schelling era quella di rileggere il realismo di Spinoza attraverso l’idealismo di Fichte, la necessità interiore attraverso la Thathandlung dell’Io fichtiano. Ma se inizialmente l’azione libera consisteva nell’atto della Selbstbestimmung e la Selbstbestimmung des Geistes era identificata nel Wollen (cfr. I, 395), ora la Selbstbestimmung e la Selbstsetzung non hanno la forza di rimettere in moto la sostanza spinoziana, limitandosi piuttosto ad astrarre il suo momento soggettivo e a porla in movimento solo nel pensiero. In definitiva «il concetto del puro idealismo quanto quello del puro realismo è necessariamente un essere impersonale, di cui il concetto fichtiano e quello spinoziano sono la dimostrazione più chiara» (VII, 395). Il superamento della concezione formale della libertà implica il passaggio alla personalità come libera facoltà di decidersi per il bene o il male. Non si

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tratta certo di una decisione unica e compiuta, ma di un decidersi continuo che scandisce il divenire stesso della persona, anche rimettendo in discussione il già deciso. E questo perché è un dar forma e un costituire la propria identità personale in un processo ermeneutico, e quindi fallibile, volto a decifrare l’esemplarità originaria che per prima ha aperto la possibilità di superare il male. La novità ontologica non è come nell’idealismo di Fichte l’autoposizione dell’Io, ma ciò che ne è alla base: il fatto di essere indeterminati. La differenza fra l’uomo e l’animale consiste nel fatto che nell’uomo la Selbstheit, che nell’animale rimane un principio oscuro, un cieco desiderio (VII, 372), riesce a elevarsi alla Geistigkeit diventando qualcosa che eccede la logica vitale e che Schelling designa con il temine di “personalità”. La Sehnsucht umana, a differenza del cieco desiderio, è una instabilità insoddisfatta alla ricerca di nuovi equilibri. La prima creazione fissa solo l’essenza dell’animale, un’essenza invariabile e determinata dall’istinto, non quella dell’uomo: proprio perché la persona è un passaggio, l’identità umana non è un dato ma piuttosto un compito. Ciò determina un radicale ripensamento dell’etica, che non è più come in Spinoza un insieme di regole per esplicitare e dispiegare la propria identità, ma diventa un sapere volto a formare un’essenza ancora incompiuta. Quella necessità geometrica, che Spinoza vede sprigionarsi da un’essenza già data, viene invece negata da Schelling: se «l’essenza fosse un essere morto […] o un essere semplicemente già dato, allora da essa seguirebbe un’azione necessaria e sarebbe tolta all’uomo la responsabilità e ogni libertà. Ma invece proprio questa necessità interiore è libertà: l’essenza dell’uomo è il suo proprio atto [That] […] questo in quanto l’uomo nella creazione originaria è un’essenza non decisa […] solo egli può decidersi» (VII, 385). Se l’atto non si fonda sull’essenza, allora la personalità va compresa a partire dal rapporto che ha con l’atto, non da un’auto-apprensione ideale della propria essenza come già data: nella «coscienza, nella misura in cui è mera auto-apprensione ideale, non può certo trovarsi quel libero atto [That] che diventa necessità, perché esso la precede, così come precede l’essenza (essa solo la fa)» (VII, 386). Per Schelling il «libero atto» non si fonda sulla coscienza e neppure viene dedotto da un’essenza già definita in quanto li precede entrambi: non c’è una coscienza pienamente autonoma che poi compie atti liberi e neppure un atto libero volto alla realizzazione operosa di un’essenza già data7, piuttosto è l’atto libero che dà forma all’essenza. 7

È questo a mio avviso il fraintendimento in cui cade anche Nancy a proposito del concetto schellinghiano di libertà, cfr. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino 2000.

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Ci sono qui a mio avviso elementi sufficienti per rivedere, almeno in parte, l’interpretazione offerta nel 1940 da Fuhrmans sul concetto schellinghiano di libertà8. Una volta emancipatosi completamente dalla Notwendigkeik di Spinoza, cosa che tuttavia nella Freiheitsschrift non si era ancora verificata, Schelling intenderebbe l’accadimento libero in termini di casualità (Zufälligkeit)9. Partendo da questi presupposti Fuhrmans arriva alla conclusione che la libertà in Schelling sarebbe un accadere imprevedibile perché non legato alla realizzazione di qualcosa di predefinito e quindi un processo creativo capace di dar vita a un nuovo inizio. Proprio per questo ogni accadimento libero non può mai essere previsto dal pensiero e può essere invece solo riconosciuto a posteriori, cioè attraverso l’esperienza, aprendo in tal modo la strada al superamento della prospettiva idealistica10. Supponendo un’essenza già compiuta Fuhrmans può tuttavia salvare la creatività e l’imprevedibilità di un’azione libera solo supponendo una Selbstbestimmung incondizionata del soggetto capace di agire in modo arbitrario11. Ora a mio avviso all’idea di un atto libero e creativo si può arrivare in modo più agevole proprio rinunciando all’idea di un’essenza già compiuta: la creatività e l’imprevedibilità non dipenderebbero dalla Zufälligkeit 8

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H. Fuhrmans, Schellings letzte Philosophie, Junker u. Dünnhaupt, Berlin 1940, 178. Nonostante su specifiche tematiche l’interpretazione di Fuhrmans risulti, a volte, sconcertante, la sua capacità di far risaltare nel testo schellinghiano l’esigenza di una rivalutazione del «leibliches und weltliches Seins» e contemporaneamente di sviluppare l’idea di un Dio personale e vivente, irriducibile all’idealismo, ha pochi equivalenti e risulta ancora oggi estremamente feconda. La tesi di fondo di Fuhrmans è che nei Weltalter Schelling sarebbe arrivato, nella prospettiva del teismo cristiano, a una radicale riabilitazione del mondo empirico e della vita, ma che successivamente, anche a causa del riemergere di motivi platonici, sarebbe ricaduto nell’idealismo (cfr. H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, Schwann, Düsseldorf 1954). La mia difficoltà deriva dal non comprendere una così esplicita avversione di Fuhrmans per Platone, contrapposto frontalmente al cristianesimo. Un tentativo di rivalutare l’influsso di Platone e del platonismo in Schelling è invece offerto da H. Holz, Spekulation und Faktizität. Zum Freiheitsschriften des mittleren und späten Schelling, Bouvier, Bonn 1970. Più in generale cfr. W. Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, Klostermann, Frankfurt am Main 1972; B. Mojsisch – O. F. Summerell (Hrsg.), Platonismus im Idealismus. Die platonische Tradition in der klassischen deutschen Philosophie, Saur, München-Leipzig 2003. Sull’interpretazione di Fuhrmans, cfr. G. Riconda, Horst Fuhrmans interprete di Schelling, in «Annuario Filosofico», 1989 (V), pp. 305-326. «Alles Geschehen aus Freiheit gehört wesentlich zum Bereich des Zufälligen. […] Dieses Zufällige ist vielmehr ein Rang höher als das Notwendige» (H. Fuhrmans, Schellings letzte Philosophie, cit., p. 183). Ivi, pp. 176-177. Ivi, p. 184.

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dell’atto, ma dall’incompiutezza dell’essenza rispetto all’atto che la fa. In definitiva non è la casualità o l’autonomia, ma la struttura stessa dell’essere persona che permette all’uomo di essere libero. Anche in questo caso il fenomeno della libertà risulterebbe conoscibile solo a posteriori e implicherebbe un superamento dell’idealismo a favore di quello che Schelling definirà più tardi empirismo filosofico o metafisico (cfr. ad es. XIII, 114). 3. La nascita di una filosofia della persona Nella Freiheitsschrift l’esplicitazione del nuovo concetto di personalità ha dietro di sé un importante periodo di gestazione. L’essenza della personalità consiste nel fatto che essa «si fonda sul legame di un principio autonomo con una base indipendente da esso, in modo che entrambi si compenetrino totalmente e siano una sola essenza» (VII, 395). Un concetto che ritroviamo nella Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre12 del 1806 in cui, al di là del contesto ancora ambivalente, è riconoscibile un nuovo significato di rivelazione: un’identità che non si rivela come Selbstbejahung, come affermazione di sé, ma piuttosto come risultato di una tensione, e quindi come «il Band vivente di se stesso e di un Altro»13. Il passaggio è quello dalla “rivelazione”, come perentoria manifestazione di un’essenza già predeterminata, alla “auto-rivelazione”, come espressione del divenire di una forma ancora incompiuta della persona. Finché Schelling intende l’Offenbarung di Dio nel senso di una Selbstbejahung che lascia spazio solo a una «absolute Passivität», la libertà umana non può esser compresa sulla base di un’iniziativa che parte da Dio. Alla base del nuovo concetto di personalità c’è invece l’intuizione di un più complesso processo di costituzione dell’identità individuale: non una Selbstheit che si limita a dispiegare e manifestare la propria essenza conclusa, ripro12 13

Sull’importanza di questo testo per il concetto di persona ha insistito con efficacia T. Buchheim, Grundlinien von Schelling Personbegriff, in T. Buchheim – F. Hermanni (Hrsg.), »Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunkeln Grunde«, cit., pp. 11-34. «Ein Wesen, das bloß es selbst wäre, als ein reines Eins […] wäre nothwendig ohne Offenbarung in ihm selbst, denn es hätte nichts, darin es sich offenbart würde, es könnte eben darum nicht als Eins seyn, denn das Seyn, das aktuelle wirkliche Seyn, ist eben Selbstoffenbarung. Soll es als Eins seyn, so muß es sich offenbaren in ihm selbst, es offenbart sich aber nicht, wenn es bloß es selbst, wenn es nicht in ihm selbst ein Anderes, und in diesem Anderen sich selbst das Eine, also wenn es nicht überhaupt das lebendige Band von sich selbst und einem Anderen ist» (SW VII, 54).

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ducendo ed espandendo linearmente se stessa a scapito dell’altro da sé, ma piuttosto un essere che avendo una tensione originaria da risolvere non mira all’autoaffermazione di un’essenza già conclusa che non ha, ma piuttosto a generare un divenire volto alla realizzazione di qualcosa che ancora non è. È l’Io egologico, non la persona, che risolve la propria tensione nel senso di una Selbstbejahung della propria volontà, quindi di una manifestazione diretta della volontà di potenza del proprio essere concluso. Invece nel concetto di Selbstoffenbarung l’essere non è più meramente causa sui, ma si costituisce nella generazione oltre se stesso. È partendo da queste premesse che nella Freiheitsschrift la Selbstoffenbarung diventa la chiave per risolvere il rapporto fra finito e infinito: ciò che consegue dall’essenza divina viene compreso nel senso della Zeugung infatti «comunque si possa pensare il modo in cui gli esseri conseguono da Dio, non si tratterà mai di qualcosa di meccanico, di un semplice causare o collocare […] né potrà essere un’emanazione […] il procedere delle cose da Dio è una Selbstoffenbarung di Dio. Ma Dio può rivelarsi solo in ciò che è simile a Lui» (VII, 346-347). Un ulteriore presupposto per la comprensione del concetto di personalità nella Freiheitsschrift è rappresentato dalla recensione a Niethammer Der Streit des Philanthropinismus und Humanismus14. Schelling attraverso Niethammer si avvede della centralità del concetto di Bildung, ma non lo applica al concetto astratto di Vernunft, come accadeva in Niethammer, bensì al divenire concreto della persona (VII, 525). Mentre la Bildung zur Vernunft di Niethammer si limita infatti a sviluppare concettualmente l’idea di genere umano, la Bildung zur Persönlichkeit di Schelling è concretamente posta al servizio della formazione all’individuo (VII, 516). Nella Bildung zur Persönlichkeit è posto esplicitamente non solo il problema della personalità, ma soprattutto quello del Personönlichwerden (VII, 525) in cui s’intuisce che il processo di formazione della personalità non sia lo “sviluppo” di qualcosa che c’è già, ma un dar forma a qualcosa che ancora non c’è. Se l’uomo è un passaggio, un’essenza incompiuta, il divenir persona è il dare una forma a tale incompiutezza attraverso una ri-nascita. In un passo 14

A questo proposito Shibuya ha messo in luce come sia proprio a partire da questa recensione a Niethammer, uscita all’inizio del 1809 e quindi prima della Freiheitsschrift, che comincia a delinearsi positivamente in Schelling il concetto filosofico di “personalità”. Cfr. R. Shibuya, Individualität und Selbstheit. Schellings Weg zur Selbstbildung der Persönlichkeit (1801-1810), Schöningh, Padernborn-München-Wien-Zürich 2005, pp. 143-155. Su questo concorda anche Buchheim, cfr. T. Buchheim – F. Hermanni (Hrsg.), »Alle Persönlichkeit ruht auf einem dunkeln Grunde«, cit., pp. 18-19, nota 23.

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giustamente famoso della Freiheitsschrift, Schelling nota che nell’esistenza «l’angoscia della vita stessa spinge l’uomo fuori dal centro in cui è stato creato; poiché questo centro, come la purissima essenza di ogni volere, è fuoco che consuma ogni volontà particolare; per poter vivere in esso, l’uomo deve morire ad ogni essere proprio»15 (VII, 381). Ecco la Bildung che genera il divenire della persona è la nuova esistenza che si apre oltre questo «morire ad ogni essere proprio». Il divenir persona ritorna all’intensità esistenziale del centro trascendendo la ricurvatura autoreferenziale della propria Selbstheit che, sotto la pressione dell’angoscia della vita, lo disperdeva negli affanni del quotidiano facendolo sprofondare nella dissipazione esistenziale della periferia. È evidente che in questa prospettiva il tumultuoso divenire della persona non è più contenibile nella necessità tutta geometrica di Spinoza: il potenziamento esistenziale schellinghiano spezza qui la linearità spinoziana. La continuità spinoziana entra in crisi e viene continuamente messa in discussione dall’esperienza della Trennung, del morire e rinunciare a tutto per guadagnare ogni cosa. Dal punto di vista di Schelling, il problema di Spinoza è quello di volere arrivare alla beatitudine senza aver prima compiuto l’atto dell’imparare a morire nel senso dell’imparare a risvegliarsi, in tal modo però raggiunge solo un Dio non vivente, una sostanza rigida, una necessità impersonale, appunto la preistoria del divino. Non meraviglia quindi che negli Erlanger Vorträge Schelling tenga a precisare che pochi filosofi hanno compreso il senso della nota tesi platonica secondo cui occorre abbandonare tutto per guadagnare tutto, e che fra questi filosofi certamente non vi è Spinoza (IX, 218). 4. La Selbsheit egologica e il male Ponendo la libertà dell’uomo in Dio16, ma negando contemporaneamente la soluzione spinoziana al problema del male (VII, 354), la Freiheitsschrift fa esplodere definitivamente il problema della teodicea senza nascondersi dietro facili soluzioni di facciata, come quella del concursus. Infatti anche 15

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Quello del passo citato è tuttavia un esser posti fuori dal centro in un senso ben diverso dall’estasi di Erlangen, dove la centricità da trascendere è invece proprio quella autoreferenziale dell’ego. La direzione dell’estasi di Erlangen è l’“excentricità” antropologica che verrà sviluppata nel periodo di Berlino (cfr. ad es. XII, 56). «L’immanenza in Dio e la libertà sono così poco in contraddizione tra loro, che anzi proprio ciò che è libero, in quanto è libero, è in Dio, e ciò che non è libero, in quanto non è libero, è necessariamente fuori di Dio» (VII, 347).

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in questo caso «Dio apparirebbe innegabilmente come coautore del male, dal momento che permetterebbe il male in un essere del tutto dipendente non è molto meglio che concorrere a causarlo» (VII, 353). Ma se la libertà dell’uomo è in Dio da che cosa deriva la sua opacità, la sua problematicità? È di fronte a queste tematiche che si apre lo squarcio di una nuova immagine del divino e dell’umano e con essa di una nuova antropologia filosofica. Innanzitutto la novità della Freiheitsschrift consiste nell’evidenziare che i problemi della teodicea non possono più essere risolti in un infinito palleggio di responsabilità fra finito e infinito, e di conseguenza sposta l’origine del problema all’interno di Dio stesso, nella tensione originaria fra Grund ed Existenz. La personalità fa necessariamente riferimento a un fondamento oscuro, infatti «alle Persönlichkeit ruht auf einem dunkeln Grunde» (VII, 413), oscurità che rinvia al tema della nascita in quanto «ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce; il seme deve essere immerso nella terra e morire nelle tenebre affinché nasca e si schiuda ai raggi del sole» (VII, 360). Il «lebendiges Band von sich selbst und einem Anderen» libera la Selbstheit dalla propria tendenza autoreferenziale e le permette di svilupparsi nella forma della personalità, ma nel raggiungere questo nuovo orizzonte essa si espone alla possibilità del male. Il male è una Selbstheit che ha la capacità di elevarsi alla Geistigkeit, e quindi di diventare personalità grazie al principio dell’amare, ma che poi si rinchiude nuovamente su se stessa, sottomettendo a sé quel principio dell’amare che l’aveva elevata, impedendosi in tal modo di generare una qualche Selbstoffenbarung. Nel male l’uomo, invece di fare della propria Selbstheit una Basis, un Organ, uno strumento, la eleva a principio dominante, a onnivolenza (Allwille) trasformando lo spirituale in mezzo al servizio della manifestazione della propria volontà individuale (VII, 389). In tal modo il male propriamente è l’Umkehrung dei due principi attraverso la volontà: «la volontà che esce dalla propria soprannaturalità per farsi volontà particolare e creaturale, pur rimanendo universale, mira a invertire il rapporto dei principi, innalzando il fondamento al di sopra della causa e a usare lo spirito, che essa non ha ricevuto che per il centro, fuori di esso e contro la creatura, dal che segue la rovina in lei stessa e fuori di essa» (VII, 365). Una possibilità sconosciuta all’animale. È vero infatti che ogni essere naturale ha un «doppeltes Prinzip» (VII, 362), e che il principio oscuro che deriva dal fondamento è identificato con la Eigenwille della creatura, ma questo, non elevandosi alla Geistigkeit, rimane mera Sucht, una volontà cieca (blinder Wille) (VII, 363) che opera stabilmente nella natura come strumento della volontà universale, come Band delle forze nella natura, e risulta quindi incapace di male. Nell’uomo invece la Selbstheit diventa

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qualcosa di ontologicamente nuovo: una volontà propria singolare e consapevole che si rende autonoma, a differenza dell’animale, nei confronti delle leggi della natura e, a differenza di Dio, nei confronti dell’amare. Essa rimane dunque libera da entrambi i principi, in una situazione altamente instabile seppur malinconica. Dopo che il male fu eccitato «l’uomo si è appigliato dall’eternità alla […] fame di egoismo e tutti quelli che sono nati sono nati con l’annesso oscuro principio del male» (VII, 388). Si tratta di una perversione che com’è noto Schelling non esita a paragonare alla malattia: lo sviluppo di un ordine parassitario che cresce invertendo l’ordine di cui si nutre.17 In questa Umkehrung l’amare di Dio non è più il Band delle forze nell’uomo: «se nell’uomo il principio oscuro della Selbstheit e della volontà propria è attraversato completamente dalla luce ed è tutt’uno con essa, allora Dio, come l’eterno amare, […] è il Band delle forze in lui. Ma se i due principi sono in contrasto allora un altro spirito viene a trovarsi nel luogo in cui dovrebbe esserci Dio: un Dio rovesciato» (VII, 389-390) che può sempre essere colto dalla «falsa immaginazione» di una “egoità infiammata”. «Di qui sorge la fame di un egoismo che […] diventa sempre più misero e povero, ma appunto per questo sempre più bramoso, avido, velenoso» (VII, 390). 5. L’esemplarità del Dio diveniente e la libertà dell’uomo Pur riconoscendo la rottura che essa rappresenta, va tuttavia notato che nella Freiheitsschrift la filosofia della persona è ancora all’inizio e manterrà anche negli anni successivi una certa instabilità relativamente allo statuto ontologico della singolarità personale finita, instabilità che si riflette ad es. nelle difficoltà interpretative relativamente all’uso nelle Stuttgarter Privatvorlesungen del termine «unpersönlich»18. Partendo dal presupposto che la libertà dell’uomo sia radicata in un fondamento che è in Dio, pur essendo diverso da Dio, la Freiheitsschrift non riesce infatti a risolvere 17

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Il «concetto del male, l’unico corretto, secondo il quale esso si fonda su di una positiva inversione [positive Verkehrheit] o rovesciamento [Umkehrung] dei principi, è stato ripreso nei tempi moderni specialmente da Franz Baader e chiarito con profonde analogie fisiche, segnatamente con quelle della malattia» (VII, 366). Su questo punto rinvio al significativo contributo di C. Ciancio, Schelling: dall’individuo alla persona, in «Annuario Filosofico»,1990 (VI), pp. 245-272. In particolare sulla spiegazione del termine «unpersönlich» cfr. le pp. 254-255. Più in generale sul concetto di persona in Schelling cfr. M. Vetö, Le fondement selon Schelling, Editions Beauchesne, Paris 1977, pp. 516-571.

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ancora l’instabilità dello statuto ontologico della singolarità personale finita. Decisamente fallimentari risulteranno poi tutti quei tentativi di stabilizzarla ontologicamente facendo riferimento all’universalità della ragione o rendendola uno strumento dell’affermazione dell’ideale. La conquista di uno statuto ontologico viene piuttosto guadagnata solo nel momento in cui Schelling porrà il divenire della persona finita in riferimento non al fondamento che è in Dio, ma alla stessa Selbstoffenbarung di Dio in quanto persona. Un’iniziativa che dunque parte da Dio. La mia ipotesi è che affinché ciò avvenga sia necessario un profondo ripensamento dell’immagine del divino stesso nel senso di un Dio vivente che non s’impone nel comando ma s’incarna come esemplarità personale. È solo attraverso una presa di posizione nei confronti dell’esemplarità che la singolarità personale raggiunge finalmente uno statuto ontologico proprio, ma così facendo s’acutizza ulteriormente il problema del male. Nel definire la libertà come facoltà del bene e del male Schelling traccia anche la distinzione fra l’uomo, in cui la libertà «è in sé indifferente al bene e al male» (VII, 354) e Dio, che non può volere intenzionalmente il male. Ne consegue che se «la libertà è una facoltà di volere il male, allora essa deve avere una qualche radice indipendente da Dio. Così incalzati si può essere tentati di gettarsi in braccio al dualismo» (VII, 354). È per non cadere in tale abbraccio che Schelling anticipa quell’annuncio della morte della vecchia immagine del divino, statico e senza vita, che troverà poi una eco ben più vasta in Nietzsche, e da cui prenderà avvio pure quella discussione sul Dio diveniente che tanto spazio ha avuto nel XX secolo. Prima della Freiheitsschrift la personalità era identificata con le forme dell’identità soggettiva, centro della coscienza che al di fuori di sé lasciava spazio solo a un oggetto passivo: la stessa ipotesi di un Dio personale capace di rivelarsi concretamente nel mondo sensibile veniva rifiutata categoricamente in quanto avrebbe comportato la riduzione dello spirito umano ad «assoluta passività» (I, 476)19. La nuova teoria della personalità permette ora a Schelling di proporre l’idea che la presenza del divino non sia qualcosa che toglie spazio alla libertà umana, ma al contrario l’unico spazio in cui essa possa svilupparsi: «affermare che Dio trattenga la sua onnipotenza affinché l’uomo possa agire o sia libero, non spiega nulla: se Dio ritirasse la propria potenza [Macht] anche per un solo istante l’uomo cesse-

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Una «individuelle Einwirkung Gottes auf die Sinnenwelt und auf den menschlichen Geist […] nun läßt aber eine Offenbarung […] d.h. eine reelle Einwirkung des höchsten Wesen auf den menschlichen Geist, dem letzteren nichts als absolute Passivität übrig» (I, 476-177).

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rebbe di essere» (VII, 339). Se la libertà fosse possibile solo nell’assenza di Dio, allora ci troveremmo di fronte a un Dio negativo, un Dio incapace di fare il proprio mestiere. Qual è il mestiere di Dio? È quello di fecondare e promuovere la vita, un po’ come fa l’acqua per la fecondità di un campo. L’acqua non impedisce alle sementi di un campo di germogliare e crescere secondo la propria inclinazione e autonomia, al contrario è la mancanza di acqua, l’aridità e la siccità, che annienta definitivamente l’autonomia delle sementi. Un Dio che, per non danneggiare, deve ritirarsi fino a rendersi assente non è un Dio inutile: è un Dio velenoso, un Dio rovesciato. Tutto ruota attorno al modo di concepire la libertà in Dio stesso: se questa si esprime direttamente come un dato compiuto, allora affermare che l’uomo ha la sua libertà in questo dato diventa contraddittorio, perché alla libertà umana non rimarrebbe altro che piegarsi senza alcuna remora a un comando onnipotente e apodittico. Se invece in Dio la libertà è essa stessa il risultato di un processo, affermare che la libertà dell’uomo è in Dio potrebbe significare che la libertà dell’uomo può ripercorrere tale processo nell’imitatio Dei: la libertà dell’uomo non trovandosi di fronte un comando, ma un esempio non verrebbe automaticamente schiacciata. La concezione del Dio diveniente20 si esplicita nella risposta alla domanda sul perché esista il male e non invece la perfezione fin dall’inizio: «Dio è 20

Secondo Fuhrmans la tesi del Dio diveniente, già anticipata nella Freiheitsschrift (cfr. H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, cit., pp. 220-223), verrebbe esplicitata nei Weltalter in una prospettiva conciliabile con il teismo cristiano. Fuhrmans individua in Schelling la tesi secondo cui «indem Welt sich ändert, dieses “Gegenüber” Gottes, dieser Raum seiner explicatio, ändert sich gleichsam auch Gott, ja, er wird darin immer reicher und immer vollendeter. Und erst am Ende, wenn alles zu ihm zurückkehrt, dann ist Gott der “ganze” Gott, der vollkommene Gott. Gott und Welt sind so in wesenhaftem Bezug. Gott ist nicht weltlos und Welt ist nicht gott-los, sondern beide sind von Grund auf aufeinander bezogen. Gottes anfängliche “Unvollkommenheit” begründet Sein und Geschichte der Welt. Geschichte der Welt aber die Lebendigkeit Gottes […] Der Gott des Aristoteles, der Gott der reinen theoria schien ihm so ein von Grund auf “toter” Gott, ein Gott zudem, den Welt nicht interessieret. Griechisches Denken hatte hier dem Sein den Primat gegeben – ein Primat, den Schelling mit dem ganzen Idealismus abgelehnt hat» (H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, cit., p. 463). Questo passo non esclude, ma anzi presuppone una dimensione di trascendenza: come nota Riconda a proposito dell’interpretazione di Fuhrmans «Dio diventa persona consapevole di sé prima della posizione del mondo. […] tuttavia la creazione una volta avvenuta si traduce in un arricchimento della sua vita» (G. Riconda, Filosofia moderna e problematica del male nelle Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit di Schelling, in «Paradosso» 5 1993, pp. 2324). È interessante sottolineare come questa posizione di Schelling presenti delle sorprendenti analogie con la tesi del werdender Gott elaborata da Max Scheler

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una vita, non semplicemente un essere. Ma ogni vita ha un destino ed è sottomessa al patire e al divenire» (VII, 403). Dio non è persona compiuta fin dall’inizio, piuttosto Dio diviene persona: «a tale destino anche Dio stesso si è volontariamente sottomesso, già nel momento in cui, per divenire personale, separò in primo luogo il mondo della luce da quello delle tenebre» (VII, 403). In quella che nelle pagine precedenti veniva descritto come «Entzweiung von Licht und Finsterniß» si risvegliava lo «spirito del male» a cui lo «spirito dell’amare» contrappone un più alto ideale che è all’origine della creazione (VII, 377). In tale sdoppiamento prende dunque avvio contemporaneamente il divenire della persona e la possibilità del male, anche se quest’ultimo si realizza solo nel divenir persona dell’uomo21. Tuttavia per non cadere nell’equivoco di Eschenmayer22 l’autogenerazione di Dio come persona va distinta dalla prima creazione. Dal momento che in Dio c’è un fondamento indipendente si danno due inizi dell’autorivelazione: «il primo inizio verso la creazione è la Sehnsucht dell’Uno di generare se stesso, ovvero la volontà del fondamento. Il secondo inizio è la volontà dell’amare […], il solo attraverso cui Dio si rende personale» (VII, 395). La questione essenziale è che il divenire di Dio non coincide con il divenire dell’uomo: diventando persona attraverso l’amare, Dio apre il camino della seconda creazione ed è questo cammino a rappresentare per l’uomo l’esempio originario della possibilità di superare il male. Il divenir persona di Dio si offre come un esempio che indirizza il divenir persona dell’uomo non verso l’idea somma di un Bene apoditticamente predeterminato, ma verso la direzione aperta del miglioramento. Nel delineare questa azione esemplare e non coercitiva del divino si può far riferimento a due passi di Schelling in cui vengono esplicitati i concetti di persuasione verso il meglio23 e quello per cui Dio sarebbe la «causa non del Bene, ma del Meglio»24. In quanto attraversato dalla tensione fra fondamento ed esistenza, Dio stesso è stato coinvolto nella possibilità del male, ma per l’appunto solo per realizzarne il definitivo superamento. Dio non crea il male, piuttosto diven-

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fra il 1923 e il 1928. Su questa tesi di Schelling si espresse invece negativamente Pareyson, secondo cui Dio «resta in ultimo come era all’inizio: era già tutto, non s’è arricchito: non esiste il werdender Gott» (L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi Torino 1995, p. 63). Su questo aspetto cfr. Stuttgarter Privatvorlesungen, VII, 434. «Sie leihen Gott die Sehnsucht selbst zu gebären» (VIII, 148) Il riferimento è al noto passo 48a del Timeo dove Platone «afferma del Nus che esso orienta la necessità verso il meglio attraverso la persuasione» (Darstellung der reinrationalen Philosophie, XI, 394). Darstellung des Philosophisches Empirismus, X, 255. Il riferimento questa volta è al passo del Timeo 29e-30a.

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ta l’esempio primo della possibilità di superarlo. La dimostrazione dell’esistenza del Dio personale va in tal modo rovesciata: Dio, riportando in se stesso una vittoria definitiva del bene sul male, dimostra empiricamente che il male può essere superato e che non esiste solo il male. In tal modo il radicamento della libertà umana in Dio non è più esattamente quello della Freiheitsschrift: la libertà umana più che nel fondamento che è in Dio, rimanendo diverso da Dio, trova ora il proprio fondamento nell’imitazione del processo con cui Dio ha definitivamente sconfitto in sé il male. Venendo dopo può seguirlo, può prenderlo come esempio. L’esemplarità del percorso già compiuto da Dio diventa in tal modo quel punto di riferimento, esterno alla propria autoreferenzialità, di cui ha bisogno la libertà umana: senza punti di riferimento esterni un uomo nel deserto finirebbe con il camminare per tutta l’esistenza in cerchio; senza rendersene conto annullerebbe il divenire della propria persona ritornando in continuazione al proprio punto di partenza. Tuttavia l’esempio del superamento del male riesce a promuove il divenire della persona solo se non viene imposto ma accolto con un atto volontario della personalità umana. Per questo nell’offrire all’uomo la libera possibilità di prendere posizione nei confronti del proprio esempio, Dio lascia aperta nell’uomo la possibilità di scegliere il male. Senza questa possibilità l’uomo si sarebbe limitato a clonare passivamente un percorso già compiuto da Dio senza mai poter tuttavia divenire esso stesso una persona ontologicamente reale. Ma senza questo divenir persona dell’uomo, Dio stesso non potrebbe realizzare compiutamente la propria rivelazione. Per questo non vi può essere nessun dubbio sul fatto che la possibilità del male «sia stata necessaria alla rivelazione di Dio» (VII, 373). Dio come esempio dell’inscindibile unità dei principi può rivelarsi solo a un essere personale che è tuttavia distinto da lui, può diventare «reale solo nello spirito dell’uomo, infatti se tale unità fosse nell’uomo così insolubile come in Dio, l’uomo non sarebbe distinto da Dio, si risolverebbe in Dio e non vi sarebbe rivelazione» (VII, 373). La facoltà del bene e del male va dunque interpretata in riferimento al divenire concreto della persona, ma questo per ontologizzarsi implica a sua volta la presa di posizione nei confronti dell’esemplarità del precedente processo divino che ha aperto l’inizio della seconda creazione. Il male rappresenta pertanto l’Umkehrung o per lo meno la resistenza a quel cammino che in Dio ha portato alla conciliazione del volere del fondamento con il volere dell’amare. Il bene invece è la facoltà di imitare l’esempio divino liberando il proprio centro dalle logiche egologicamente autoreferenziali. In termini più ampi: così come il male è tutto ciò che ritarda e trattiene la seconda creazione, Dio è tutto ciò che la favorisce.

La Freiheitsschrift e gli inizi di una nuova filosofia della persona

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Tuttavia dal punto di vista dell’uomo il punto di partenza non può che essere l’Umkehrung stessa in quanto la facoltà del bene e del male si trova già di fronte a se il fatto compiuto di un “peccato originale” ora materializzatosi nell’usurpazione del centro dell’uomo da parte dell’egoismo. Questo significa che il male non è altro che l’accettazione inerziale, abitudinaria di una Umkehrung già avvenuta, mentre il bene è l’Umkehrung dell’Umkehrung. La figura ontologica dell’Umkehrung dell’Umkehrung è di conseguenza la persona. È un concetto che verrà esplicitato solo nello Schelling di Berlino: di fronte alla scelta umana per il male, Dio non può intervenire direttamente e si ritira nell’Unwille. La persona diventa allora la cifra dell’Umkehrung dell’Unwille. In questo modo Schelling, attraverso il medesimo concetto di Umkehrung, consegue due risultati: la definizione ontologica del male e della persona. Ma viene contagiata pure la stessa concezione di Dio: Dio è ciò che dopo essere divenuto persona si fa uomo per promuovere con il suo esempio l’Umkehrung dell’Unwille nella persona umana. In Schelling la personalità è l’estensione all’uomo di quella Umkehrung compiuta esemplarmente da Dio per realizzarsi come Herr des Seyns. Lo smascheramento in Dio e poi nell’uomo del Grund come Abgrund e il suo rovesciamento da Herr a Untergeordnetes rinvia al problema centrale del rapporto fra Unwille e personalità: Dio nel mondo che è caduto non agisce più come Wille bensì solo come Unwille, il che significa che, per ritornare ad essere Herr des Seyns nel mondo, Dio come Padre ha bisogno di una figura intermedia: il Figlio. Il ritirarsi di Dio non si risolve così nel Dio assente, ma nel Dio che invia il Figlio. Ma non è qui intenzione di Schelling sostituire la filosofia con la fede: tali termini vanno compresi in senso filosofico. Il Figlio rappresenta il rovesciamento dell’Unwille che è nel mondo, il non non fiat, e in tal modo diventa la fonte dell’essere personale. L’essenza della persona umana è quella d’incarnare in sé l’esempio di tale Umkehrung: la persona diventa un umgekehrtes Ich come la volontà della persona un umgekehrter Wille25.

25

Cfr. G. Cusinato, L’ontologia della persona nella prospettiva dell’ultimo Schelling, in C. Chiurco – I. Sciuto (a cura di), Verità, fede, interpretazione. Saggi in onore di A. Petterlini, il Poligrafo, Padova 2009, pp. 231-243.

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DAVIDE DE PRETTO

LA QUESTIONE DEL PANTEISMO (SW 333-357)

Voglio notare qui che il mio errore fondamentale nei confronti della nostra epoca sta nel fatto che io non considero la natura meccanicamente, ma dinamicamente.1 La filosofia della natura conosce solo un unico principio supremo ed in questo senso toglie ogni dualismo, salvo quello nel principio supremo stesso. Ma per quanto riguarda il dualismo derivato, che viene alla luce solo nel mondo fisico e morale, sarebbe strano se proprio l’autore della filosofia della natura, partito dall’aver stabilito il dualismo come legge fondamentale di tutta la realtà, fosse colui che l’avesse estirpato. Nel trattato sull’essenza della libertà umana egli si è dichiarato in modo sufficientemente chiaro sul riconoscimento di esso anche come legge fondamentale del mondo morale. Il signor Jacobi dovrebbe quindi mostrare dove, come, con quali principi tratti dalla mia dottrina io avrei in verità tolto ogni distinzione fra ragione e non ragione, giusto e sbagliato, bene e male.2

1. Fra continuità e cambiamento: l’introduzione delle Ricerche filosofiche Quando, nella primavera del 1809, Schelling pubblicò le Philosophische Untersuchungen, viveva ormai da tre anni a Monaco, libero dagli impegni dell’insegnamento ed immerso nell’elaborazione della “parte ideale» del suo sistema, ancora in armistizio temporaneo con Jacobi ed interessato con Ritter ai fenomeni di rabdomanzia del ciarlatano Campetti e con Baader alla tradizione teosofica tedesca; il 13 maggio 1808 era stato «nominato segretario generale dell’appena istituita Accademia delle arti figurati1

2

F. W. J. Schelling, Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre, SW, I, Bd. VII, p. 103; Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina fichtiana migliorata, in J. G. Fichte – F. W. J. Schelling, Carteggio e scritti polemici, a cura di F. Moiso, Prismi, Napoli 1986, p. 306. F. W. J. Schelling, Denkmal der Schrift von den göttlichen Dingen etc. des Herrn Friedrich Heinrich Jacobi, in SW, I, Bd. VIII, pp. 27-28.

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ve ed il 27 maggio cavaliere dell’Ordine al Merito Civile della Corona Bavarese»3: come scrive Tilliette, quello che il 7 settembre diverrà «l’anno funesto» della sua vita, per la morte dell’amata moglie Caroline, «era tuttavia cominciato sotto i migliori auspici»4. Fu il mattino del 5 febbraio 1809 che Schelling diede inizio al primo abbozzo dell’Aufsatz o Abhandlung für Krüll, come viene chiamato nel Tagebuch5; il lavoro proseguì abbastanza regolarmente per due mesi e si concluse nel pomeriggio dell’11 aprile, mentre il 27 il filosofo ne ricevette la prima copia stampata6. Tuttavia non si trattava dell’esemplare delle Ricerche ma del primo – ed unico – volume dei suoi Philosophische Schriften, al cui interno furono pubblicate, ed è piuttosto curioso che un testo generalmente giudicato a sé e non di rado considerato l’incipit della nuova fase della philosophie en devenir, sia stato pubblicato per espressa volontà dell’autore in una raccolta di scritti «per lo più di contenuto idealista»7 e, ad eccezione del discorso sulla arti figurative, risalenti a più di dieci anni prima e finalizzati nel complesso a «rendere comprensibile il sistema fichtiano» più che ad esporre le proprie Ansichten8: assieme alle Ricerche 3 4

5

6

7

8

F. W. J. Schelling, Selbstbiographie, in Schellingiana Rariora, gesammelt und eingeleitet von L. Pareyson, Bottega d’Erasmo, Torino 1977, p. 564. X. Tilliette, Schelling. Biographie, Calmann-Lévy, Paris 1999, p. 167. In generale su questi particolari biografici cfr. ivi, pp. 158-160 e pp. 180-186 per il trauma dovuto alla morte di Caroline, e dal lato più filosofico X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, I. Le système vivant 1794-1821, Vrin, Paris 1970, pp. 497510; per una memorabile ricostruzione legata alla Spätromantik cfr. H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, Schwann, Düsseldorf 1954, pp. 75-127. F. W. J. Schelling, Philosophische Entwürfe und Tagebüch 1809-1813. Philosophie der Freiheit und der Weltalter, hrsg. von L. Knatz, H. J. Sandkühler, M. Schraven, Meiner, Hamburg 1994, p. 8. Schelling aveva dedicato il mese di gennaio – soprattutto la sua seconda metà – alla lettura e rilettura della Teodicea di Leibniz, delle opere di Agostino, del De servo arbitrio di Lutero e di altri scritti su temi affini (ivi, pp. 6-7). Ivi, p. 20. Per le fasi di gestazioni dell’opera e le parti via via inviate all’editore, cfr. ivi, pp. 14-17. Qui basti solo ricordare il grande ripensamento fra il 15 ed il 17 marzo: «riletto quanto già scritto del saggio e visto che il progetto è da cambiare, la ricerca sul panteismo da anteporre; il piano progettato per intero» (ivi, p. 13). F. W. J. Schelling, Vorrede [scil.: ai Philosophische Schriften], in Schellingiana Rariora, cit., p. 353. Nei Sämtliche Werke la Vorrede è smembrata ed ogni passo è riportato in nota allo scritto corrispondente (cfr. SW, I, Bd. I, pp. 159, 283 e 345), a parte l’Über das Verhältniß der bildenden Künste zu der Natur (non introdotto da un commento “filosofico”) e le Philosophische Untersuchungen, ove figurano come Vorbericht i due terzi della Vorrede originale. F. W. J. Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, SW, I, Bd. X, p. 95; Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, trad. di G. Durante, intr. di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 77.

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vennero infatti ristampati il Vom Ich del 1795, che «mostra l’idealismo nella sua più fresca apparizione, e forse in un senso che più tardi perse» perché «l’Io è preso ovunque ancora come assoluto, o semplicemente [schlechthin] come identità del soggettivo e dell’oggettivo, non come soggettivo», ed i Philosophische Briefe del medesimo anno, in cui «le osservazioni contenute nella nona lettera […] sullo svanire di tutte le opposizioni dei principi contrastanti nell’assoluto, sono i chiari germi delle successive e più positive concezioni»9 che avevano segnato la prima vera – ma ancora latente – rottura con Fichte; poi le Abhanglungen zur Erläuterung des Idealismus der Wissenschaftslehre del 1796-179710 ed infine – con un salto decennale da Jena a Monaco – l’Über das Verhältniss der bildenden Künste, il discorso tenuto il 12 ottobre 1807 per l’onomastico del re di Baviera. Già questa collocazione preannuncia la sembianza di «opera di transizione, geniale ma incerta e per così dire anfibia» delle Ricerche11, il loro esser volte al passato e proiettate nel futuro, legate all’Identitätsphilosophie che però sembra uscire trasformata da tale legame, come già notarono alcuni contemporanei: August Wilhelm Schlegel, ad esempio, dopo aver letto il testo, chiese a Schelling se avesse sempre pensato in questo modo perché «nei suoi scritti precedenti non avrei presupposto questa dottrina», né la trovava nel Sistema dell’idealismo trascendentale ed in Filosofia e religione12, e nei due secoli successivi gli interpreti hanno fatto più o meno coro a Schlegel, affidando in ogni caso alle Ricerche un ruolo chiave nelle distinzioni fra le presunte fasi del pensiero di Schelling13. 9 10

11 12 13

F. W. J. Schelling, Vorrede, cit., pp. 353-354. Come ricorda Tilliette, il titolo originale di questa raccolta, originariamente pubblicata nel glorioso «Philosophisches Journal» di Niethammer, era Allgemeine Übersicht der neuesten philosophischen Litteratur, che venne mutato nel titolo citato proprio nell’edizione del 1809 (X. Tilliette, Schelling. Biographie, cit., p. 49). X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, I. cit., p. 500. A. W. Schlegel a F. W. J. Schelling, 19 agosto 1809, in F. W. J. Schelling, Briefe und Dokumente, hrsg. von H. Fuhrmans, Bd. I. 1775-1809, Bouvier, Bonn 1962, p. 444. Sulla discussioni delle varie posizioni, cfr. F. Forlin, Limite e fondamento. Il problema del male in Schelling (1801-1809), prefazione di X. Tilliette, Guerini, Milano 2005. Piace ricordare che la posizione di Tilliette – oggi giustamente dominante – che ha dimostrato il carattere costantemente en devenir della filosofia schellinghiana, fosse già stata preannunciata in modo esemplare e filosofico da Heidegger nel corso del 1936 dedicato alle Ricerche filosofiche: «[…] a proposito di Schelling, si usa volentieri accennare al fatto che questo pensatore ha mutato continuamente il suo punto di vista, considerando ciò a volte persino come un difetto legato al carattere. La verità è che raramente un pensatore ha combattuto fin dal suo esordio in maniera così appassionata come Schelling per la sua sola ed unica posizione. […] Schelling […] doveva sempre di nuovo abbandonare

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Il proposito dell’opera rimane invece immutato e sembra anzi saldarsi sul tronco dell’Identitätsphilosophie e portarsi «fin laddove dovrebbe realmente finire sul cammino della prima esposizione»14, la Darstellung del 1801, che rimaneva «l’unica esposizione scientifica del suo sistema», a cui – afferma Schelling nella Vorrede agli Schriften (o nel Vorbericht delle Ricerche) – si deve necessariamente accompagnare la «parte ideale della filosofia», che ora viene appunto presentata per la prima volta «con piena chiarezza» (334; 79-80). E basta già questo proposito a giustificarne la collocazione nella stessa serie dei testi meist idealistischen Inhaltes: infatti il tutto della filosofia – nonché «lo scopo dei suoi [scil.: di Schelling] sforzi» – è e rimane la «reciproca compenetrazione di realismo e idealismo» (350; 90), della parte reale e della parte ideale della filosofia, ossia delle due ottiche parziali costituite da un lato dalla Naturphilosophie, ormai sganciata dalla sua parte “applicativa” (la spekulative Physik15), e dall’altro dall’Idealismus, giacché «l’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo ne è il corpo; e solo tutt’e due insieme formano un tutto vivente» (356; 95) e, se realizzati in modo veramente filosofico, entrambi ricreano e ritrovano al proprio interno il loro apparente opposto:

14 15

tutto, per tornare sempre di nuovo a fondare lo stesso» (M. Heidegger, Schelling: Vom Wesen der menschichen Freiheit (1809), in Id., Gesamtausgabe, II, Bd. XLII, hrsg. von I. Schüßler, Klostermann, Frankfurt am Main 1988, p. 10; Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, trad. di C. Tatasciore, presentazione di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1998, pp. 34-35). F. W. J. Schelling a K. J. H. Windischmann, 9 maggio 1809, in Aus Schellings Leben. In Briefen, hrsg. von G. L. Plitt, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2003, Bd. II, 1803-1829, p. 157. Cfr. 350; 90-91: «[…] la filosofia della natura […] come semplice fisica poteva stare a sé, ma in rapporto alla filosofia tutta quanta fu sempre considerata soltanto come una parte di essa, la parte reale, suscettibile di essere innalzata in un vero e proprio sistema razionale, solo se completata con la parte ideale, nella quale domina la libertà». Se in precedenza la Naturphilosophie «non è altro che fisica, propriamente è soltanto fisica speculativa» (F. W. J. Schelling, Einleitung zu seinem Entwurf eines Systems der Naturphilosophie, in F. W. J. Schellings HistorischKritische Ausgabe, I, Bd. VIII, hrsg. von M. Durner und W. G. Jacobs u. M. von P. Kolb, Frommann-Holzboog, Stuttgart 2004, p. 32), già nel 1802 a Schelling non interessava «che sotto un altro riguardo anche la teoria della natura, in quanto fisica speculativa, assuma i propri principi dalla filosofia della natura» giacché la Theorie der Natur «è solamente derivata da essa, quantunque venga quasi ovunque confuso con essa» (F. W. J. Schelling, Über das Verhältnis der Naturphilosophie zur Philosophie überhaupt, in SW, V, 107-108). Su queste trasformazioni della Naturphilosophie dal «contatto avido con l’esperienza e la scienza al lavoro» alla penetrazione dell’idea ed alla «sacra solennità» che riceve a partire dal 1801, cfr. X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, I. cit., pp. 381-407 (qui p. 384).

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il realismo, purché proceda effettivamente dal vero essere, cioè da quello assoluto, perviene anche da solo alla conoscenza assoluta, vale a dire all’autocoscienza. Così è per il realismo di Spinoza. L’idealismo, purché consideri realmente la conoscenza assoluta, cioè l’autoaffermazione, avanza sicuro fino all’indifferenza di questa con l’essere e si risolve nel suo contrapposto16.

Schelling aveva originariamente previsto una serie di testi «in cui sarà gradatamente esposta tutta la parte ideale della filosofia» (416; 136) e che in un certo senso sembrava riprendere la serie di dialoghi inaugurata dal Bruno e proseguita da Filosofia e religione, pur privo della forma dialogica esterna e rimasto oscuro «per difetto di esposizione» (334; 79), ma tale Undeutlichkeit non concerneva la forma dialogica interna, tant’è che nelle stesse Ricerche «quantunque manchi la forma esterna del dialogo, tutto sorge come in maniera dialogica» (410; 140): la scelta non è casuale perché la forma dialogica «è l’unica che la filosofia, divenuta autonoma, può assumere in uno spirito indipendente e libero, e non viene mai richiesta quando si deve raggiungere uno scopo, perché non può mai servire come mezzo, e ha il suo valore in se stessa»17. Ed è precisamente quanto nota Heidegger fin dalle Untersuchungen del titolo: «che cosa indica questo titolo? Delle ricerche, non l’esposizione e la comunicazione di risultati, né la semplice caratterizzazione di un punto di vista. Noi veniamo costretti a seguire e ad accompagnare il movimento dell’interrogazione filosofica»18; è indubbio che, adottando la forma dialogica interna, Schelling intendesse precisamente questa costrizione, la costrizione di un processo “organico” contrapposta a quella dei tanti dialoghi scritti all’epoca, che del dialogo possedevano solo la forma esterna e si riassumevano in un mero ammaestramento di stampo catechistico e nel tentativo di fondare una setta per privare gli altri e se stessi «della libertà della ricerca» di cui il filosofo «sempre si è dichiarato e sempre si dichiarerà partecipe» (410; 140). Ma questa è solo la conseguenza dello sforzo autocritico e razionale che in Schelling possiede la filosofia e che non a caso ricorre anche nel suo rifiuto che il proprio sistema – e più in generale ogni sistema – presenti «l’eterno e immutabile sistema» in tutta la sua ampiezza (347; 89). Tale presa di posizione è una rivendicazione della libertà come condizione necessaria ed imprescindibile dell’atto di filosofare che non può scadere nella forma 16 17 18

F. W. J. Schelling, Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre, cit., 53; 270. F.W. J. Schelling, Philosophie und Religion, in SW, I, Bd. VI, p. 13; Filosofia e religione, trad. di V. Verra, in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 35. M. Heidegger, Schelling, cit., 14; 39.

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meccanicista di una costruzione comunque artefatta, qual è la supposta definitività del sistema. Nel continuum dialogico che caratterizza l’esposizione, priva di un’articolazione in paragrafi e capitoli, è tematicamente e testualmente separabile solo quella parte che lo stesso Schelling definì una «semplice introduzione alla ricerca vera e propria», finalizzata alla necessaria «rettificazione di concetti essenziali, che in tutti i tempi, ma specialmente ai nostri giorni, sono stati confusi» (95). Pur con tutte le dovute distinzioni, si potrebbe perciò affidarle un ruolo affine a quello svolto dalla Propedeutica filosofica nei corsi di Würzburg: se quest’ultima rispondeva alla «necessità non oggettiva, ma soggettiva»19 di «fare emergere, attraverso una ricostruzione storica dei sistemi, una problematica in riferimento alla quale soltanto si comprende l’esposizione della filosofia vera e propria»20, l’introduzione alle Ricerche si riferisce alle accuse ed alle critiche il filosofo aveva ricevuto su alcuni temi dell’Identitätsphilosophie che svolgono un ruolo cruciale anche in questo testo, delucidando come si sarebbe dovuti intenderli e come ora si dovranno intenderli, e preparando con ciò il terreno alla trattazione vera e propria. Ma il vero tema che la domina è quello designato con la «paurosa parola panteismo, con la quale oggi si indicano a piacere le cose più diverse e della quale molti si servono come di uno strumento da usare facilmente e senza riflessione per sfogare almeno la loro rabbia impotente contro ciò che essi non sono capaci di confutare, perché non sono nemmeno capacità di comprenderlo»21. Benché queste parole risalgano ad alcuni decenni successivi, il loro senso è esattamente lo stesso che Schelling vi avrebbe dato – e di fatto vi dà – nel 1809, e si fonda sul continuo riaffiorare del Pantheismusstreit nei litigi fra i dotti tedeschi della Goethezeit: è un fatto che il panteismo sia rimasto al centro della deutsche klassische Philosophie in una poliedricità di significati – o almeno di altrettanto varie sfumature interpretative –, derivanti dalla sovrapposizione di concettualizzazioni alquanto diverse fin dall’introduzione del termine da parte di Toland nel 1705 e, nel corso del secolo, dalla sua sovrapposizione allo “spinozismo”, a sua volta divulgato ed inteso in modi non meno disparati ma per lo meno come una sorta di intuizione panica del tutto declinata nelle parole d’ordi-

19 20 21

F. W. J. Schelling, Propädeutik der Philosophie, in SW, I, Bd. VI, p. 73; Propedeutica della filosofia, a cura di F. Palchetti, ETS, Pisa 1998, p. 31. G. Riconda, Schelling storico della filosofia (1794-1820), Mursia, Milano 1990, p. 126. F. W. J. Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 44-45; 38.

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ne dell’hen kai pan o dell’Eins und Alles22. Se si esamina con attenzione l’epoca, si noterà che il celebre Pantheismusstreit risorse costantemente al punto che se ne possono distinguere tre fasi – quando non tre Pantheismusstreite tout court – con riferimenti filosofici affatto peculiari: se il primo fu quello citato, scatenato da Jacobi con la divulgazione della profession de foi spinozista di Lessing – per così dire, il Pantheismusstreit per antonomasia –, ed il terzo ebbe ad oggetto la filosofia hegeliana e si svolse in pieno Vormärz, il secondo toccò Schelling e precisamente le sue repliche nelle Philosophische Untersuchungen alle accuse che gli provenivano da più, ma soprattutto da una sua vecchia conoscenza dei tempi di Jena, e si protrasse fino al memorabile pamphlet contro Jacobi del 1812. § 2. La crociata di Schlegel Di fatto il terreno era già fecondato da una miriade di scritti che mettevano sotto accusa la pretesa attribuita alla filosofia schellinghiana di presentare una conoscenza assoluta, di dedurre a priori l’intera natura, identificarla con Dio e soprattutto risolvere tutto in un’unità indistinta: nelle lezioni di storia della filosofia il filosofo stesso ricordava che dall’espressione das absolute Identitätssystem i più conclusero «che in questo sistema erano annullate tutte le differenze, e specialmente ogni differenza tra materia e spirito, tra bene e male, ed anche tra verità ed errore, e che, secondo questo sistema, tutto era una sola cosa nel senso comune della parola»23. Ma al di là di una coorte di fanatici che lo infastidì soprattutto a Würzburg, fu Fichte a farsi araldo di tali accuse con durissimi attacchi che Schelling giudicò «a tradimento e alle spalle dell’avversario»24, 22

23 24

In particolare su quest’ultimo punto, cfr. G. F. Frigo, «L’ateo di sistema». Il “caso Spinoza” nella storiografia filosofica tedesca dall’Aufklärung alla Romantik, in Aa.Vv., Spinoza 1677-1977, a cura di F. Chiereghin, «Verifiche», 4, 1977 (VI), pp. 811-859 e V. Verra, F. H. Jacobi. Dall’illuminismo all’idealismo, Edizioni di «Filosofia», Torino 1963, pp. 69-155 (in particolare 69-82 per lo sfondo storico su cui il Pantheismusstreit si iscrisse). Il panteismo finì per giocare anche un ruolo “autorappresentativo” nella coscienza dei dotti tedeschi dell’epoca: lo stesso Schelling scriveva che il deutsches Gemüt non poté conciliarsi col materialismo di fine ’700 e riuscì a concepire la filosofia meccanicistica dominante solo «in quella che si presumeva la sua più alta espressione», la filosofia di Spinoza (348; 89). F. W. J. Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 107; 87. F. W. J. Schelling, Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre, cit., 125; 323.

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ma anche un nucleo centrale di fortissimo spessore teoretico, centrato su quella che il filosofo di Rammenau riteneva un’identificazione immediata dei processi della riflessione con l’autocostruzione dell’assoluto stesso, come scrisse nella celeberrima lettera del 15 ottobre del 1801: «lei è andato all’assoluto immediatamente con il suo pensiero, senza ricordarsi di esso, e senza por mente al fatto che poteva essere solo questo pensiero ad aver dato forma, sottomano, con le sue leggi immanenti, e senza che lei se ne accorgesse, all’assoluto»25. Proprio questa mancata riflessione sui processi riflessivi e la loro inevitabile oggettivazione nell’assoluto ed il conseguente scambio – o, meglio, contrabbando – di quest’ultimo con l’assoluto della riflessione del filosofo costituivano per Fichte la causa prima dell’errore e della “cecità” di Spinoza e di quelli peggiori – perché successivi alla grande luce trascendentale – di Schelling. Tuttavia Fichte declinò questa critica anche in modo popolare e la congiunse al significato ordinario dello spinozismo/panteismo, accusando Schelling di aver divinizzato la natura, di avere – come ribatté l’interpellato – «considerato l’erba come erba, la pietra come pietra» ed aver «fatto di questa erba come erba e di questa pietra come pietra la Divinità»26. Fu solo su questo punto che Schelling ricevette il sostegno di un antico avversario, ora più agguerrito che mai, che con le sue critiche indirette funse da causa scatenante di questo secondo Pantheismusstreit: Friedrich Schlegel. Questi, nella recensione del 1808 a tre scritti “popolari” di Fichte (L’essenza del dotto, i Tratti fondamentali dell’epoca presente e L’avviamento alla vita beata), scriveva che Schelling aveva ampiamente dimostrato che la natura nel suo senso «non ha assolutamente nulla in comune con quel mondo sensibile oggettivo» a cui sembrava riferirsi Fichte, ma reintroduceva l’accusa di panteismo proprio quando sembrava difendere il filosofo da essa: «ma se nella lamentela contro Fichte è forse contenuta l’esigenza tacita di identificare la natura e la divinità al modo di Spinoza, allora il biasimo e l’attacco non colpiscono semplicemente lui, ma tutti 25 26

J. G. Fichte a F. W. J. Schelling, 15 ottobre 1801, in Gesamtausgabe, III, V, 91; in J. G. Fichte – F. W. J. Schelling, Carteggio e scritti polemici, cit., p. 156. F. W. J. Schelling, Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre, cit., 86; 294. Sul rapporto Fichte-Schelling la bibliografia è notoriamente sterminata: qui ci si limita a rimandare a G. Rametta, Le strutture speculative della dottrina della scienza. Il pensiero di J. G. Fichte negli anni 1801-1807, Pantograf, Genova 1995, pp. 37-49 e 106-112 per la critica teoretica di Fichte, ed a M. Dalla Valle, Schelling: dall’io all’universo. Il soggetto e la costruzione della scienza, in Aa.Vv., Metamorfosi del trascendentale. Percorsi filosofici tra Kant e Deleuze, a cura di G. Rametta, Cleup, Padova 2008, pp. 84-90 per la risposta e la controcritica di Schelling.

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coloro che a partire da Platone godono di buon nome nella filosofia»27. E questa era solo la punta dell’iceberg di un attacco che percorreva tutta la prima parte della recensione e che si era presentato in modo ben più forte – quantunque meno diretto – nell’Über die Sprache und die Weisheit der Indier, che Schlegel aveva appena pubblicato. Alla base del conflitto fra i due si trovavano certo ragioni personali pregresse – che avevano non poco contribuito alla catastrofe (culturale) di Jena sei-sette anni prima della sua omonima per mano di Napoleone28 – ma soprattutto un’impostazione irriducibilmente diversa: Schelling riteneva Schlegel un esempio paradigmatico di «dilettantismo poetico e filosofico»29 e, pur dichiarando di avere per lui «la massima stima» e di considerarlo «di gran lunga superiore a Novalis ed a tutti gli altri», gli appariva assolutamente insufficiente in filosofia e solo un «filologo nel senso più alto della parola»30; da parte sua, Schlegel non apprezzava affatto l’Identitätsphilosophie e Steffens ricordava d’avere udito da lui «la trovata altrimenti attribuita a Hegel: «al buio tutti i gatti sono grigi»31; dopo aver letto «il nuovo sistema di Schelling» (la Darstellung del 1801), scrisse a Schleiermacher d’esser rimasto inorridito nel non trovarvi altro che un gelido Spinozismo «ma solo senza l’amore, cioè senza l’unica cosa a cui io tengo in Spinoza»32. Peraltro già in quegli anni si stava manifestando sem27 28

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F. Schlegel, Rezension: Fichte, in Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, I, Bd. VIII, Studien zur Philosophie und Theologie, hrsg. von E. Behler und U. Struc-Oppenberg, Schöningh-Thomas, München-Paderborn-Wien-Zürich 1975, pp. 67-68. Per le ricostruzioni di queste vicende complesse e spesso meschine, cfr. X. Tilliette, Schelling. Biographie, cit., pp. 89-103, 123-128 e 168-169 (per quanto riguarda il Pantheismusstreit del 1808-1809) e le ricostruzioni di Fuhrmans in F. W. J. Schelling, Briefe und Dokumente, Bd. I, cit., pp. 153-162, 187-192 e 209-216. Invece, per un ampio inquadramento filosofico dell’ambiente jenese ed in particolare delle prospettive di Schelling e Schlegel – in cui si ricostruisce altresì lo studio che il secondo aveva fatto degli scritti del primo –, cfr. M. Cometa, Iduna. Mitologie della ragione. Il progetto di una “neue Mythologie” nella poetologia preromantica: Friedrich Schlegel e F. W. J. Schelling, Novecento, Palermo 1984. F. W. J. Schelling a J. G. Fichte, 31 ottobre 1800, in F. W. J. Schelling, Briefe und Dokumente, hrsg. von H. Fuhrmans, Bd. II, 1775-1803. Zusatzband, Bouvier, Bonn 1973, p. 283; in J. G. Fichte – F. W. J. Schelling, Carteggio e scritti polemici, cit., p. 96. F. W. J. Schelling a G. H. Schubert, 28 aprile 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, pp. 153-154. H. Steffens, Was ich erlebte, Bd. IV, Breslau 1840, p. 312, cit. in E. Behler – U. StrucOppenberg, Einleitung a Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, I, Bd. VIII, p. L. F. Schlegel a F. D. Schleiermacher, 12 aprile 1802, in X. Tilliette, Schelling im Spiegel seiner Zeitgenossen, Bd. I, Bottega d’Erasmo, Torino 1974, p. 94. Anche il Bruno non gli piacque e lo giudicò «un primo, rozzo e debolissimo tentativo», comunque preferibile alla desolazione della Darstellung, concludendo che «il mi-

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pre più impellente in Schlegel il desiderio di convertirsi al cattolicesimo, che si realizzò pubblicamente solo nel fatidico 1808 e, come accadde a non pochi nel corso di quei Krisenjahre, alla conversione religiosa si accompagnò una conversione filosofica verso posizioni estremamente ostili nei confronti della razionalità che si faceva portavoce delle sue conquiste moderne33: anche la cosiddetta “triade idealista” la sottopose a costante critica, definendola meccanicismo, intelletto et similia, ma la battaglia era fatta in nome della ragione contro un suo pervertimento sin troppo diffuso34, mentre in Schlegel il tutto sembrava davvero assumere le sembianze d’un attacco alla ragione tout court, sfociante in quella che molti – fra cui Schelling – considerarono una wahre Gouvernanten-Philosophie35, una

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sticismo in Schelling mi ha fatto spesso ridere» (F. Schlegel a F. D. Schleiermacher, 15 settembre 1802, in ibidem). Sulla vicenda della conversione, cfr. E. Behler – U. Struc-Oppenberg, Einleitung a Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, I, VIII, pp. CXVII-CXXX. Per la posizione di Schlegel in quegli anni cruciali cfr. G. Oesterle, Friedrich Schlegel in Paris oder die romantische Gegenrevolution, in Aa.Vv., Les romantiques allemands et la Révolution francaise, édit par G.-L. Fink, Straßburg 1989, pp. 163-179. Già all’epoca il fenomeno sempre più diffuso di conversioni al cattolicesimo venne notato dai contemporanei: così August Wilhelm Schlegel scriveva che «a nessun osservatore del moderno idealismo tedesco può sfuggire che, dall’afelio in cui si trovò al suo primo apparire, sia spostato nel perielio dei tipi di rappresentazione religiosi» portando come esempio i recenti lavori di Fichte (A. W. Schlegel a F. W. J. Schelling, 19 agosto 1809, cit., p. 444). Per Fuhrmans anche Schelling rientra in questo clima e proprio «attraverso la critica di Schlegel […] è giunto a visioni profonde, e da qui emerge infine l’essenziale dell’intera svolta schellinghiana. Per noi l’aspetto capitale di tutta questa svolta è inequivocabilmente la svolta dall’idealistico al cristiano, dalla chiarezza del sistema dell’identità agli ambiti più oscuri della teosofia» (H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, cit., p. 173). Vi rientra appieno anche Schelling, e la critica alla razionalità che si trova ad esempio nelle lezioni di Stoccarda «non nasce, come viene universalmente sostenuto, da una predilezione tipicamente “romantica” per il cosiddetto “irrazionale”, ma dalla problematica moderna di una razionalità corrotta. L’idea della corruttibilità dello spirito fa nascere l’ipotesi che anche il proprio sistema filosofico non sia nient’altro che un errore ricco di spirito. Questo sospetto inquietante produce quegli sforzi di razionalità autocritica, che […] sonda i propri confini e possibilità» (P. L. Oesterreich, La guerra come «fenomeno supremo». Sulla dottrina antropologica della libertà in Schelling, in Aa.Vv., Filosofia e guerra nell’età dell’idealismo tedesco, a cura di G. Rametta, FrancoAngeli, Milano 2003, p. 174) e che non viene meno nemmeno nell’esplorazione degli abissi a cui è particolarmente dedito in quegli anni. F. W. J. Schelling a G. H. Schubert, 28 aprile 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, p. 153. Così, secondo Schelling, “B.” aveva definito la posizione di Schlegel nell’Über die Sprache und die Weisheit der Indier. È difficile attestare l’identità di questo “B.”: per Fuhrmans «la cosa più probabile» è che si tratti di

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«nuova bacchettoneria, che oggi traffica col timor di Dio e la religione, ed a cui congiunge la vita e l’essenza più sciolta e rilassata» e «coi fiori dell’Antichità, i profumi indiani e le radici della scienza orientale» prepara «un veleno narcotico e sconquassatore dei nervi che storpia tutte le forze indipendenti dello spirito»36. Quest’impressione si rafforzava perché l’oggetto della critica spesso ossessiva di Schlegel non era l’illuminismo, ormai trattato come un cane morto, ma proprio la filosofia classica tedesca, e se con l’andar del tempo la critica alla «totalità panteistica della natura» attribuita a Schelling finì per smussarsi, ciò fu dovuto principalmente al fatto che un’altra concezione lo riempì d’un orrore ben maggiore di quanto non avesse fatto la Darstellung del 1801: il nuovo avversario – e ai suoi era davvero «l’avversario» in senso biblico – fu Hegel, che «osava» concepire l’assoluto «come pensiero assoluto e ragione assoluta»37. Ma nel 1808 la polemica contro il panteismo – ed indirettamente contro Schelling – occupava gran parte dell’Über die Sprache und die Weisheit der Indier: se si eccettua la «dottrina dei due principi», nelle filosofie orientali a cui aveva dedicato la seconda parte del testo Schlegel non vedeva altro che gradi progressivi di panteismo disposti in una successione di sistemi che, con la medesima progressione, si allontanavo dalla verità e si innalzavano sempre più alla ragione. Dall’Y-king, attraverso il Taoismo da una parte e le dottrine Vedanta ed il sistema Sankhya dall’altra, il panteismo percorreva tutti i suoi stadi fino a raggiungere la sua forma perfetta in quella che venti anni più tardi Schlegel definirà «setta della ragione propriamente dialettica»38, ossia la «dottrina dei Buddhisti», da lui ricollegata

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Baader, benché tre giorni prima questi avesse scritto ad August Wilhelm Schlegel una lettera d’elogio per l’opera del fratello specialmente per la Sprachkunde, ma questo «non rende impossibile un biasimo del lato propriamente filosofico» (F. W. J. Schelling, Briefe und Dokumente, Bd. III, 1803-1809. Zusatzband, Bouvier, Bonn 1975, p. 597), mentre Tilliette osserva finemente che tale iniziale potrebbe «rinviare a Giordano Bruno» (X. Tilliette, Schelling. Biographie, cit., p. 430). F. W. J. Schelling a G. H. Schubert, 11 marzo 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, pp. 149-150. F. Schlegel, Philosophie der Geschichte, in Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, I, Bd. IX, hrsg. und eingel. von J.-J. Anstett, Schöningh-Thomas, München-Paderborn-Wien-Zürich 1971, p. 425. Anche da parte di Schelling si assiste ad una diminuzione delle ostilità: «l’odio si è smussato, l’ascia di guerra è stata sepolta […], si sono visti, hanno trascorso assieme un pomeriggio da Ringseis. Questo non basta per parlare di riconciliazione […]. Egli [scil.: Schlegel] è tuttavia troppo intelligente per non accorgersi d’una convergenza, e gli invierebbe volentieri la sua Filosofia della storia se fosse sicuro di un’accoglienza priva di pregiudizi» (X. Tilliette, Schelling. Biographie, cit., p. 281). F. Schlegel, Philosophie der Geschichte, cit., p. 129.

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direttamente alla «recente filosofia tedesca»39 perché vi vedeva all’opera un processo identico che partiva dal medesimo stato di scissione; questo, non essendo più colto miticamente ma in modo razionale, richiedeva la propria risoluzione per mezzo d’una qualche forma di unità che il panteismo realizzava sopprimendovi i due termini o espandendone uno all’infinito ed inglobando l’altro al suo interno: se il panteismo non è un semplice modo di pensare o una semplice disposizione dell’animo, come negli indiani Yoghuis e Sonnyasis secondo l’esposizione del Bhogvotgita, ma appare più o meno come sistema scientifico, allora non è mai diverso da un gioco combinatorio che procede secondo un semplice meccanismo della ragione a partire da un positivo ed un negativo, che in fondo è espresso meglio da una simbolica di numeri come questa che dalle parole. Ora, poiché questo ha già luogo nella più antica forma di panteismo, è allora molto probabile che sia sorto dal dualismo, attraverso la sua successiva interpretazione e degenerazione. Non appena la dottrina dei due principi non fu più religione ma sistema, il pensiero non poté mancare di unificare e risolvere le due forze fondamentali in qualcosa di più alto40.

Non era certo difficile capire a chi si riferisse Schlegel parlando di Combinationsspiel e Mechanismus der Vernunft, tanto più che nella coeva recensione a Fichte ribadì il parallelismo fra il processo della filosofia orientale e quello della filosofia occidentale41, e da tale unificazione risolventesi in un annientamento traeva quelle che credeva fossero le tesi fondamentali del panteismo: «che tutto è buono, che tutto è solo uno ed ogni parvenza [Anschein] di ciò che chiamiamo torto o cattivo è solo una vuota illusione», donde la totale soppressione dell’«eterna distinzione fra bene e male» e la conseguente indifferenza verso le azioni42, la giustificazione della pigrizia e dell’arroganza43 e la dannosità per la fantasia, giacché sotto il suo dominio 39 40 41

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F. Schlegel, Über die Sprache und die Weisheit der Indier, in Kritische FriedrichSchlegel-Ausgabe, I, VIII, p. 243. Ivi, p. 247. Guardando alla «predilezione generale per Spinoza» di Lessing ed alla congiunzione operata da Schelling fra i «principi metafisici» di Spinoza e «le idee dell’antichissima filosofia orientale», Schlegel concludeva che «questo può certo stupire chi ha in mente solo la grande diversità e la fondamentale inconciliabilità dei due sistemi ma non i vari passaggi ed i gradi intermedi che possono aver luogo fra i due e che hanno anche realmente avuto luogo nel progresso della filosofia asiatica» (F. Schlegel, Rezension: Fichte, cit., p. 71). F. Schlegel, Über die Sprache und die Weisheit der Indier, cit., p. 119 e 229. Cfr. ivi, p. 243: «una volta fatta questa grande scoperta, una volta trovata questa scienza e saggezza della ragione per cui tutto è uno, che abbraccia ed annienta tutto e tuttavia è tanto facile, allora non si ha bisogno di altre ricerche; tutto ciò

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«la mitologia poté ancora restare solo come allegoria, come un involucro esoterico o un gioco della poesia»44. La causa di tutte queste degradazioni è ovviamente l’unitotalità: proprio perché tutto è uno, non solo il bene è il male, ma Dio è il mondo e quindi ogni cosa è Dio, l’infinito stesso, e da qui si arriva «tanto naturalmente» alla «più chiara e decisa confessione che tutto è nulla», perché «se prima tutto il resto è annientato e sparito dinanzi al concetto meramente astratto e negativo dell’infinito, infine questo stesso sfugge e si risolve in nulla perché originariamente era vuoto e privo di contenuto»45, concludendo nel medesimo «nulla senza fondo» che Schlegel aveva trovato nella Darstellung del 1801 e dimostrando in tal modo «che ogni veduta e filosofia panteistica non può condurre a niente di più alto d’una siffatta ragione meramente atea»: per questo «tutti coloro che sono al di là delle prime difficoltà della speculazione converranno certamente che identificare la natura e la divinità al modo di Spinoza sia un sistema assolutamente riprovevole»46. Heine scrisse che fu «aggirandosi nell’oscuro bosco della filosofia della natura» che alla fine Schelling si trovò «faccia a faccia con la grande statua di Spinoza»47. Per Schlegel la statua non gli ordinò di pentirsi – l’aveva già fatto invano Fichte48 – ma lo trascinò con sé all’inferno. 3. Il panteismo come immanenza delle cose in Dio L’introduzione alle Ricerche intende rispondere proprio a questi attacchi velati, ma duri49, alla è «polemica artificiosa e basata su equivoci» di Schle-

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che gli altri sanno o credono per altre vie è solo errore, illusione e debolezza intellettuale, così come tutto il mutamento e tutta la vita sono una vuota parvenza». Ivi, p. 261. Ivi, p. 245. F. Schlegel, Rezension: Fichte, cit., p. 71. H. Heine, Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland, in Id., Werke und Briefe in zehn Bänden, hrsg. von H. Kaufmann, Aufbau Verlag, BerlinWeimar 1972, Bd. V, pp. 228-229; Perla storia della religione e della filosofia in Germania, in Id., La Germania, a cura di P. Chiarini, Bulzoni, Roma 1979, pp. 235-236. Cfr. l’invito a ravvedersi in J. G. Fichte a F. W. J. Schelling, 15 gennaio 1802, in J. G. Fichte, Gesamtausgabe, III, Bd. V, p. 113; J. G. Fichte – F. W. J. Schelling, Carteggio e scritti polemici, cit., p. 150. Ad esempio il 26 febbraio il Tagebuch registra «lavorato come al solito e letto Friedrich Schlegel sugli Indiani» (F. W. J. Schelling, Philosophische Entwürfe und Tagebüch 1809-1813, cit., p. 12) ed il 18 marzo: «riletta la recensione di Schlegel negli HJ [scil.: «Heidelbergische Jahrbücher»]» (ivi, p. 13). Schlegel appariva tanto presente nel testo, che suo fratello August Wilhelm ricordò a Schelling che «l’affermazione che il panteismo sia l’unico possibile sistema della ragione non è

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gel, alla sua «descrizione crassa, estremamente generica ed incompleta del panteismo»50, a cui si aggiungevano altri elementi come il tentativo «sotto mano di sollevare contro di me un partito»51, quello dei Frömmler in cui Schlegel era ormai arruolato e di cui Schelling aveva già dovuto subire a Würzburg la «fanatica persecuzione»52. Eppure – come il filosofo stesso riconobbe – la sua replica fu «troppo mite», al punto da pregare Windischmann di rimproverarglielo pubblicamente, confessando d’essersi sentito costretto a «mantenere una certa misura a causa della vecchia familiarità con lui [scil.: Schlegel]»53. In realtà non fu solo un riguardo personale ad attenuare quella vis polemica che Schelling aveva già saputo in più occasioni sfoggiare magistralmente, ma il modo in cui costruì la risposta, strutturata non tanto (o non solo) come un’apologia sui ipsius ma all’interno di un problema filosofico di più ampia portata: il rapporto fra ragione e libertà a partire dagli stessi termini posti da Schlegel54.

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nuova: Lessing l’ha dichiarato, Jacobi ci ha scritto un proprio libro sopra. Quindi perché lei si è tenuto solo a mio fratello e non ha affatto citato quelli?» (A. W. Schlegel a F. W. J. Schelling, 19 agosto 1809, cit., pp. 443-444). Sulla disputa sul panteismo fra Schelling e Friedrich Schlegel, cfr. anche G. Riconda, Schelling storico della filosofia (1794-1820), cit., pp. 170-188 e, per un inquadramento dei punti essenziali, le note di Fuhrmans in F. W. J. Schelling, Briefe und Dokumente, cit., Bd. I, pp. 414-416, Bd. III, pp. 530-532. F. W. J. Schelling a G. H. Schubert, 28 aprile 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, p. 153. Schelling criticava anche «l’elemento storico dei sistemi filosofici» orientali, trattato in modo «superficiale e falso» (F. W. J. Schelling a G. H. Schubert, 27 maggio 1809, in ivi, p. 160) e si rimproverava «di non aver mai fatto un cenno a quanto di storicamente falso c’è nelle sue esposizioni» (F. W. J. Schelling a K. J. H. Windischmann, 17 giugno 1809, in ivi, p. 164). F. W. J. Schelling a K. J. H. Windischmann, 9 maggio 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, p. 157. F. W. J. Schelling, Antwort auf mehrere Anfragen, in Schellingiana Rariora, cit., p. 226, ma cfr. tutti i testi in ivi, pp. 219-238. F. W. J. Schelling a K. J. H. Windischmann, 17 giugno 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, p. 163. Subito dopo Schelling aggiunge che «molto è rimandato ad un nuovo trattato che doveva apparire assieme a quello [scil.: le Philosophische Untersuchungen] ed al cui compimento sono stato impedito dalle inquietudini per la guerra». Al di là delle peculiarità della sua interpretazione, è merito di Heidegger aver accentuato l’aspetto prettamentre filosofico e non apologetico dell’introduzione, vedendone la «vera intenzione» nella dimostrazione della necessità della «trasformazione radicale della posizione della questione» dall’opposizione fra natura e libertà a quella fra necessità e libertà, ossia fra uomo e Dio (M. Heidegger, Schelling, cit., 105; 112) e quindi del bisogno di procedere lungo questo nuovo sentiero: «nella introduzione, il movimento di pensiero si arresta là dove essa doveva condurre, nel punto in cui è ormai evidente la necessità di una nuova impostazione, e il passo avanti verso nuove questioni è divenuto inevitabile» (ivi, 180; 173).

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Qualche mese più tardi Schelling scrisse a Windischmann che «il suo [scil.: di Schlegel] concetto estremamente crasso e generico del panteismo non gli fa certo presagire la possibilità di un sistema in cui la libertà, la vita, l’individualità e gli stessi bene e male sussistano con l’immanenza delle cose in Dio»55. Si può ben dire che proprio la dimostrazione di questa possibilità costituisca il fine dell’introduzione delle Ricerche, dove il panteismo è mantenuto come necessario riferimento della ragione ma è riferito con eguale necessità alla libertà: del circolo ragione-panteismofatalismo Schelling accetta – e dichiara apertamente d’accettare – sia l’idea che «ogni veduta della ragione debba in un certo senso esser ricondotta» al panteismo (339; 83), sia che la ragione dovrebbe strutturarsi in forma sistematica «poiché nessun concetto può essere determinato isolatamente, e soltanto la dimostrazione della sua connessione col tutto può dargli la piena completezza scientifica» (336; 81): sarebbe mero dilettantismo voler fare a meno del sistema in nome del sentimento o di qualche altra facoltà perché si sfocerebbe nell’opinione, nel Meines di hegeliana memoria, laddove «già molto prima che l’uomo pensasse di farne uno, un sistema esisteva: il sistema del mondo», cioè «un sistema già sussistente di per sé, e precisamente nell’intelletto divino», ed è questo che dev’essere trovato e non inventato56. È innegabile che il sentimento della libertà sia necessario, ma solo se non si ferma al suo essere sentimento e si articola sistematicamente: in quest’accentuazione dell’esigenza sistematica emerge appieno l’essenza razionale del filosofare schellinghiano, particolarmente evidente nella critica alla «polemica contro la ragione e la scienza» (413; 134) e soprattutto nella difesa del «principio dialettico, cioè l’intelletto che separa ma, appunto perciò, ordina e configura organicamente», che dà alla filosofia misura e regola, e che in definitiva è «il modello, secondo cui [scil.: essa] si deve guidare» (415; 135). Schelling non intende – né ha mai inteso – venir meno all’idea che la filosofia non possa non essere ragione, «una conoscenza e scienza del divino, una conoscenza completamente chiara e adeguata, perché del divino o non può esserci nessuna conoscenza, o può essercene solo una di questo genere»57 ed anzi proprio la Naturphilosophie l’aveva restaurata «nella sua antica dignità di conoscenza del divino»58; an55 56 57 58

F. W. J. Schelling a K. J. H. Windischmann, 9 maggio 1809, in ivi, Bd. II, p. 156. F. W. J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen, in SW, I, VII, p. 421; Lezioni di Stoccarda, trad. di L. Pareyson, in Id., Scritti sulla filosofia, la religione e la libertà, cit., p. 143. F. W. J. Schelling, Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre, cit., 29; 252. Ivi, 102; 306.

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che nelle tinte fosche delle Ricerche si imprime la luce della ragione, quel «lato diurno» che «finora è risaltato forse troppo nelle mie esposizioni»59, ma che non può abdicare alla fede o alla Nichtphilosophie, e tanto meno alla cattiva abitudine di «giudicare i sistemi filosofici con l’atteggiamento con cui si conducono i giudizi sugli eretici» (412; 133). Ma pur accettando il panteismo e la sistematicità della ragione, Schelling si rifiuta di trarre la conseguenza apparentemente ovvia che la ragione sia allora intrinsecamente congiunta anche al fatalismo. Anzi, da questo lato il fine dell’introduzione consiste nel mostrare non solo la citata possibilità che panteismo e libertà sussistano in un sistema ma soprattutto la necessità che sia così e che la loro sussistenza non sia un’indifferenza (nel senso comune del termine) ma una relazione intrinseca e reciprocamente necessaria, tale cioè che ognuno dei due elementi dimostri necessariamente l’altro ed il sistema si regga solo in virtù di questo circolo, escludendo perciò la possibilità d’una vera libertà che non si riferisca al panteismo e d’un vero panteismo che non si riferisca alla libertà – in altri termini, l’introduzione dimostra che il panteismo è l’unica possibile via per salvaguardare la libertà come reale. Come già si è visto, «panteismo non significa altro che la dottrina dell’immanenza delle cose in Dio» ma quest’Immanenz non designa un’identificazione totale di Dio con ogni singola cosa (339; 83): anzi, ben lungi dall’identificare i due termini, essa li distingue assolutamente e, nel provarlo, Schelling riprende le definizioni spinoziane: se «Dio è ciò che è in sé e può esser concepito solo per se stesso: il finito, invece, è ciò che è necessariamente in altro, e che soltanto per quest’altro può esser concepito», allora le cose «differiscono da Dio toto genere, […] sono assolutamente separate da Dio in ciò che esse possono essere soltanto in e per un Altro (cioè per Lui), che il loro concetto è derivato» mentre «il concetto di Dio è il solo che sia per se stante e originario» (339; 83). In tal senso, se A designa l’infinito ed A/a (ossia A nella sua determinazione “a”) il finito, A e A/a non si identificano collassando l’uno nell’altro, ma in A/a A è solo il positivo e non il finito in quanto tale (345; 86); e se anche si definisse il finito – per usare «la più dura espressione di Spinoza», ma intesa nel suo giusto senso – come l’infinito modificato, allora proprio in quanto modificato esso non è l’infinito in quanto tale: per riassumere con le più tarde lezioni monachesi, se «l’idea più comune del panteismo e anche dello spinozismo» consiste nel fatto «che ogni cosa particolare, ogni corpo, per esempio, è soltanto, secondo tale idea, un Dio modificato, e quindi che ci sono altrettanti Dei 59

F. W. J. Schelling a G. H. Schubert, 27 maggio 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, p. 161.

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quante cose particolari», allora Spinoza non è né panteista né spinozista in questo (falso) senso dei due aggettivi, perché «se l’essere che è tutto, e che quindi, in quanto tale, non può essere un essere particolare, è Dio, allora, appunto per ciò, Dio non può essere nulla di particolare» e fra Dio ed il particolare si pone una «differentia totius generis»60. Ma più che da questa mancata considerazione speculativa, le errate concezioni del panteismo derivano dal fraintendimento del significato logico dell’identità, e forse fu anche pensando al passo di Schlegel su «tutti coloro che sono al di là delle prime difficoltà della speculazione», che Schelling scrisse che «tali equivoci, se non sono intenzionali, presuppongono un grado di inesperienza dialettica, che la filosofia greca aveva già superato quasi dai suoi primi passi, inducono a raccomandare lo studio approfondito della logica, come un pressante dovere» (342; 85). Infatti «è chiaro anche a un bambino che in nessuna proposizione possibile, la quale esprima, in un certo senso chiarito a parte, l’identità del soggetto col predicato, si enuncia una medesimezza [Einerleiheit] o anche soltanto una connessione immediata» (341; 84): dicendo «il corpo è blu», non si intende certo che “corpo” e “blu” siano un’Einerleiheit o, per usare un’espressione di quattordici anni prima, un’unicitas, l’«unità derivata ed empirica (quella del concetto dell’intelletto che si rende sensibile nello schema di numero)»61, eppure Schlegel ed altri intendono proprio in questo modo le proposizioni filosofiche, dimostrando una totale «incomprensione della legge di identità» (342; 85) che li conduce ad esiti involontariamente comici: si può davvero supporre che, affermando che «la cosa e il concetto della cosa sono uno», Spinoza intendesse dire che si può «battere il nemico, invece che con un esercito, col concetto di un esercito» (343; 137)? Eppure dovrebbero ammetterlo tutti coloro che sostengono che in 60

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F. W. J. Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 45-46; 38-39. Già negli Aphorismen Schelling rilevava che «a ciò che è solo nella misura in cui è un’altra cosa, non si addice una realtà uguale a ciò che per esso è l’essere, e vi è qui sempre una differenza non tanto di grado, bensì di specie (totius generis), allo stesso modo in cui il giorno si distingue dalla notte, e l’essere dal non essere», ed in nota aggiungeva: «è la differenza che Spinoza stabilisce tra “quod in alio est, per quod etiam concipitur” e “quod in se est et per se concipitur” (la natura libera ed eterna)» (F. W. J. Schelling, Aphorismen über die Naturphilosophie, in Sämtliche Werke, I, Bd. VII, § 49, p. 208; Aforismi sulla filosofia della natura, a cura di G. Moretti e L. Rustichelli, EGEA, Milano 1992, p. 118). F. W. J. Schelling, Vom Ich als Princip der Philosophie, in Historisch-Kritische Ausgabe, I, Bd. II, hrsg. H. Buchner und J. Jantzen, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1980, § 9, p. 108; Dell’Io come principio della filosofia, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1991, p. 59.

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un’ottica “panteista” Dio sia il finito nella sua finitezza o la somma di tutte queste finitezze. La logica antica non incorreva in simili sciocchezze perché aveva distinto perfettamente il soggetto ed il predicato come «l’antecedente e il conseguente (antecedens et consequens) e con ciò esprimeva il significato reale della legge di identità», allo stesso modo in cui li aveva «contrapposti come l’implicito e l’esplicito» nelle proposizioni tautologiche (342; 85) o secondo la connessione «di principio e conseguenza», ed in ciò enucleava non un’unità priva di progresso, che «perciò stesso sarebbe priva di sensibilità e di vita», ma «un’unità immediatamente creativa» (345-346; 87). Pertanto Schlegel ha ragione nelle sue definizioni del panteismo ma assolutamente torto nel modo in cui le intende e le esplica perché non riesce a coglierne nemmeno il significato più superficiale62: è vero che il panteismo afferma che «il perfetto è l’imperfetto», ma questa proposizione significa solo che «l’imperfetto non è per ciò e in ciò che è imperfetto, ma per il perfetto che è in lui», ed egualmente la grande proposizione incriminata «il bene è il male» significa solo che «il male non ha la potenza di essere per se stesso, e quello che è in lui, è (considerato in sé e per sé) bene» (341; 85). Del resto, già negli Aphorismen Schelling aveva scritto che A è B significa solo «che A è l’esse (l’essenzialità [Wesenheit]) di B (il quale, per questo non sarebbe dunque per se stesso, ma è in virtù del legame [Verknüpfung] con A)» e che dunque «A, per il fatto stesso che è l’essenza o l’esse di B, è cioè B, non diviene per questo identico al semplice B stesso», riportando come esempio «l’infinito è il finito, il libero, immediatamente e come tale è il concatenato» e «questo corpo è rosso», dove «la qualità del colore rosso è qui ciò che non potrebbe essere per sé, ma che è per la sua identità con il soggetto corpo: essa è insomma il predicato», giungendo alla medesima conclusione ripetuta tre anni dopo: «se dunque diciamo che la sostanza è come tale il finito, cioè come A = B, allora essa è questo finito e di fatto non è null’altro, senza che perciò stesso diventi, per sé, identica logicamente alla singolarità (a B)» 63. Tutto 62

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A questo proposito si potrebbe dire che il Leitmotiv dell’introduzione alle Ricerche sia un’affermazione che Schelling farà decenni più tardi sul rapporto di Schlegel col pensiero indiano, sostituendo a quest’ultimo il panteismo: «il pensiero indiano è assai più profondo, e questo studioso potrebbe certo aver tradotto esattamente un passo, che anche a me è ben noto, ma indubbiamente non deve averlo ben capito» (F. W. J. Schelling, Philosophie der Mythologie, in Sämmtliche Werke, II, Bd. II, p. 449; Filosofia della mitologia, a cura di L. Procesi, Mursia, Milano 1999, p. 292). F. W. J. Schelling, Aphorismen über die Naturphilosophie, § 34, 205; 113-114 (trad. modificata). Heidegger – fra gli altri – ha indicato chiaramente che la discussione “occasionale” sulla copula delle Ricerche «costituisce anche una base

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questo ha conseguenze catastrofiche sulla presunta identità fra panteismo e fatalismo: l’argomento di Schlegel va in pezzi nel momento in cui si riafferma una differenza irriducibile in seno all’identità e questa differenza è dovuta proprio all’identità, ossia nel momento in cui l’identità assoluta viene distinta dall’Einerleiheit e colta come «un’unità organica di tutte le cose», precisamente come «in ogni organismo v’è unità, senza che tuttavia le parti di esso debbano venir ritenute tra loro identiche»64. Eppure Schelling conviene appieno con Schlegel nel giudicare fatalista il sistema di Spinoza, ma quella sorta di convivenza di panteismo e fatalismo che sussiste nell’autore dell’Ethica – e che sembrerebbe contraddire l’intento schellinghiano – non dipende da una loro presunta unità ma dall’intervento di un terzo termine che produce il fatalismo ed in sé non è legato al panteismo: la «concezione meccanicistica prevalente» tanto in Spinoza quanto nell’età moderna, che nemmeno «la teoria dinamica fatta risorgere da Kant» riuscì a superare, risolvendosi anch’essa «in una più alta meccanica» (333; 79). Non solo il meccanicismo non è legato al panteismo ma, intervenendo in esso, lo muta in una concezione astratta perché deforma il concetto dell’assoluto in cui le cose sono: l’errore fondamentale di Spinoza «non consiste nel fatto che egli pone le cose in Dio, ma nel fatto che esse sono cose, nella sua concezione astratta degli esseri del mondo, anzi della stessa infinita sostanza, che appunto non è per lui che una cosa» (349; 90). Per questo il panteismo affetto da meccanicismo non è più vero panteismo: viene meno tutto il senso dell’immanenza, di ciò che è immanente e soprattutto di dio, dell’assoluto o dell’in sé, perché «in quanto è cosa [oggetto] non è in sé, e se è in sé, non è cosa»65. Qui ritornano implicitamente le considerazioni sul bedingen già svolte quattordici anni prima nel § III del Vom Ich, dove il Ding è il finito nel senso di condizionato (bedingt), di

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essenziale per l’intero trattato» (M. Heidegger, Schelling, cit., 130; 133), in quanto la relazione soggetto-predicato «è figura e cifra di quella fondamento/esistenza» (F. Forlin, Limite e fondamento, cit., pp. 283-284). F. W. J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen, 421; 143. Si può riassumere il tutto con quanto scriveva Hartmann: «ciò che al primo sguardo appare paradossale non presenta affatto, visto da qui, difficoltà di comprensione. Il panteismo pone una dipendenza generale. Ma il principio d’identità, da cui tutto dipende, è una potenza creatrice, non una morta datità. Solo da esso si può acquisire il concetto adeguato della dipendenza» (N. Hartmann, Die Philosophie des deutschen Idealismus, de Gruyter, Berlin-New York 1974, p. 142; La filosofia dell’idealismo tedesco, a cura di V. Verra, Mursia, Milano 1972, p. 146). F. W. J. Schelling, Zum Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 84; 68. Nel testo il passo è riferito alla cosa in sé di Kant.

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«fatto cosa», di ciò che non è in sé ma è posto da altro66, e come principio il dogmatismo presuppone appunto «una cosa incondizionata, cioè una cosa che non è una cosa»67, un morto essere privo di progresso e di vita che si converte inevitabilmente in Ding inanimato senza essere colto nel suo movimento produttivo: la stessa natura naturans finisce per essere trattata immediatamente come natura naturata e, come Schelling afferma l’anno successivo, è determinata «in fondo soltanto mediante il concetto di identità che in lui resta vuoto perché manca l’opposizione», mentre «è proprio qui, dove Spinoza non cerca niente, che si trova il concetto del Dio vivente»68. Fra panteismo e fatalismo v’è quindi un rapporto non di semplice differenza ma di opposizione, perché il panteismo è davvero immanenza delle cose in Dio – è cioè davvero panteismo – solo se le cose non si limitano ad essere cose e perciò Dio non diviene cosa (nonostante tutti i predicati che gli si attribuiscano), non è «il Dio dei morti, ma dei viventi» (346; 88), il vero incondizionato. Il meccanicismo non può non convertire nel morto e nelle catene da condizione a condizionato, la cui necessità astratta esclude ogni libertà e con ciò ogni possibile attività riducendola alla mera esecuzione passiva di quanto è stato impresso dalla causa; per questo il fatalismo non è che l’altra faccia del meccanicismo ed il vero panteismo non può che essere non fatalista nella misura in cui per essere se stesso dev’essere non meccanicista. Ma – per ironia della sorte – a parte questo panteismo, ogni altra posizione che ammetta una qualche connessione fra uomo e Dio, non può che risolversi in fatalismo e negare la libertà dell’uomo, in quanto Dio è posto come onnipotente e quindi avocante a sé ogni libertà. Schelling vi ritorna verso la fine dell’introduzione, dopo aver definito la libertà come «facoltà del bene e del male»: al di là del significato del male rispetto a Dio e della ripresa del vecchio argomento di Epicuro, il problema scaturisce anche qui dal fatto che ammettendo una relazione fra uomo e Dio, anche solo «che tra Dio e gli esseri del mondo intercorra una connessione assai larga» o il mero 66

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F. W. J. Schelling, Vom Ich, cit., § 3, 89; 37. Cfr. quanto Schelling scriveva nel Sistema dell’idealismo trascendentale: «l’incondizionato non può essere cercato nel mondo degli oggetti […] Incondizionato significa ciò che assolutamente [schlechterdings] non può divenire cosa [Ding], cosa [Sache]. Il primo problema della filosofia si può quindi esprimere anche così: trovare qualcosa che non possa assolutamente venir pensata come cosa» (F. W. J. Schelling, System des transscendentalen Idealismus, in F. W. J. Schellings Historisch-Kritische Ausgabe, I, Bd. IX, Teilbd. I, hrsg. von H. Korten und P. Ziche, Frommann-Holzboog, Stuttgart, 2005, pp. 58-59; Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi, Rusconi, Milano 1997, p. 107 – trad. modificata). F. W. J. Schelling, Vom Ich, cit., § 4, 94; 42. F. W. J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen, cit., 443-444; 160-161.

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concursus, Dio figura se non altro come «concausa del male» (353; 92) e quindi negazione della libertà dell’uomo. In questa prospettiva fra uomo e Dio si presenta inevitabilmente una forma d’opposizione che Hegel definirebbe intellettualistica: l’uno distrugge l’altro perché o Dio nega l’uomo avocando a sé ogni libertà, o l’uomo è costretto a negare Dio per potersi affermare come libero, così come si è costretti a negare Dio – se non altro a negarne teoreticamente la perfezione e l’onnipotenza, e dunque a negarlo in toto – per la presenza del male. È vero che si può ovviare a questo problema con uno degli escamotages tradizionali, negando la realtà del male o ponendola come un grado minore di perfezione – e Schelling l’aveva fondamentalmente sostenuto fino a pochi anni prima69 – ma, negando in qual si voglia modo tale realtà, «dilegua anche il concetto reale di libertà» (353; 92) ed il filosofo si sbarazza velocemente di questi espedienti. Ma al contempo non si può nemmeno negare la relazione ed anzi l’unità fra uomo e Dio: perfino il “rozzo” dualismo, sostenuto (secondo Schelling) da Schlegel, presuppone un’unità originaria che si sia scissa o rotta70, come le tesi emanatiste presuppongono quell’originaria unità con Dio da cui ci si sarebbe progressivamente allontanati (354-355; 93-94). Pertanto l’unica via per risolvere queste difficoltà è quella solitamente considerata la più rigorosa negazione della libertà: «salvare l’uomo con la sua libertà nell’essere divino stesso», ossia il tanto vituperato panteismo (339; 83). 4. Il vero senso dell’idealismo In realtà non è solo il panteismo a salvaguardare la libertà, giacché nella storia del pensiero quest’ultima ha conosciuto la sua più grande affermazione in un’altra posizione filosofica, che costituisce «la vera consacrazione della più alta filosofia dei nostri tempi»: l’idealismo (351; 91). In esso la libertà è «l’inizio e la fine di ogni filosofia»71 e non si esaurisce nella forma 69

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Per un esempio paradigmatico, cfr. F. W. J. Schelling, System der gesammten Philosophie und der Naturphilosophie insbesondere, in SW, I, VI, § 305 ed Anm., pp. 541-548. Nelle Ricerche Schelling definisce questa tesi come «la vera opinione di Spinoza» (354; 93). F. W. J. Schelling a K. J. H. Windischmann, München, 17 giugno 1809, in Aus Schellings Leben, cit., Bd. II, p. 164. F. W. J. Schelling, Vom Ich, cit., § 6, 101; 51. L’espressione ricorre in molte opere, come nel Sistema dell’idealismo trascendentale: «l’inizio e la fine di questa filosofia è la libertà, l’assolutamente [absolut] indimostrabile che si comprova solo attraverso se stesso. – Ciò che in tutti gli altri sistemi minaccia di rovinare la libertà, in questo sistema viene derivato dalla libertà stessa. L’essere, in questo

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stoicizzante del «dominio del principio intelligente sul sensibile e sugli appetiti» (345; 87), né nell’astratto libero arbitrio: con l’idealismo emerge il concetto vero di libertà, consistente nell’autoposizione e nella Selbsttätigkeit che, con la grande luce kantiana, costituiscono «l’essenza dell’Io»72. Anche Schlegel parlava dell’idealismo, intendendo non «semplicemente la dottrina dell’egoità o della nullità della parvenza [Schein] esteriore, ma ogni filosofia che proceda dal concetto della forza spontanea [selbstthätigen] e dall’efficacia vivente, quindi anche il sistema degli Stoici, di Aristotele e di molti Greci ancor più antichi»73, e vi scorgeva la coincidenza con «la dottrina orientale dei due principi e dell’eterna lotta fra bene e male […] nel fatto che in questa concezione soltanto l’attività, la vita e la libertà vengono considerate come ciò che è veramente reale, mentre la morta quiete e l’immobile perseveranza vengono rigettate come nulle e vuote»74. Schelling cita queste parole quasi alla lettera rilevandone la superficialità, giacché il vero idealismo richiede che si dimostri anche «reciprocamente, che ogni reale (la natura, il mondo delle cose) abbia per suo principio attività, vita e libertà, o, secondo l’espressione di Fichte, che non soltanto l’Io sia tutto, ma che anche, all’inverso, il tutto sia Io», aggiungendo con chiaro riferimento all’ormai Gouvernanten-Philosoph: «se coloro che lo [scil.: l’idealismo] giudicano o se lo appropriano, sospettassero che la libertà ne è il più intimo presupposto, in quale diversa luce lo considererebbero e lo intenderebbero! Solo chi ha gustato la libertà, può capire il desiderio di trovare dovunque analogia con essa, di estenderla a tutto l’universo» (351; 91). Forse la stoccata è anche politica, ma è soprattutto filosofica, perché il suo vero senso – che è peraltro anche quello dell’idealismo e della libertà – si ritrova solo all’interno di quella filosofia che Schlegel ha condannato come panteismo e che con l’idealismo si trova invece nel più stretto dei rapporti. Va peraltro ricordato che quando Schelling parla di idealismo in questa pagine, intende certo la posizione che attribuisce a Kant e soprattutto a Fichte, che fu il primo a parlare «di una filosofia fondata sulla libertà, e fondò sull’indipendenza dell’Io non solo, come Kant, la filosofia pratica, ma anche la filosofia teoretica e quindi tutta la filosofia»75, ma intende anche la propria filosofia, incrociando continuamente i due significati perché

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sistema, non è che la libertà tolta [aufgehobene]» (F. W. J. Schelling, System des transscendentalen Idealismus, cit., p. 67; 121 – trad. modificata). F. W. J. Schelling, Vom Ich, cit., § 8, 103; 53. F. Schlegel, Über die Sprache und die Weisheit der Indier, cit., p. 303. Ivi, p. 229. F. W. J. Schelling, Zum Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 96; 77.

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di fatto sono in sé incrociati. Il filosofo aveva inaugurato l’aspra battaglia contro Fichte con una professione di “idealismo assoluto” quale affermazione dell’identità assoluta di Io e natura76 e Gleichsetzung di assoluto e sapere assoluto77, che risolveva le astrattezze dell’idealismo “soggettivo” e soprattutto cambiava la «nota tonica della finitezza» che ne governava l’intera costruzione78. Infatti, per quanto avesse riconosciuto l’incondizionatezza della Tathandlung ed avesse giustamente fatto consistere in essa il principio della filosofia, Fichte l’aveva poi vincolata al soggetto opposto all’oggetto, riducendo quest’ultimo ad un accidente determinato dal primo e la stessa Tathandlung ad «un’azione assolutamente libera dell’anima stessa: nel porsi per se stessa, mediante il suo proprio agire, come finita, come distinta dal Tutto assoluto e dunque nella necessità di intuire non questo Tutto assoluto, ma soltanto le sue negazioni e le sue limitazioni»79. Ad Erlangen Schelling dirà che l’idealismo fichtiano è «il perfetto opposto dello spinozismo, o uno spinozismo invertito, in quanto Fichte oppose all’oggetto assoluto di Spinoza che annientava ogni soggetto, il soggetto nella sua assolutezza, l’atto [That] al mero essere immobile di Spinoza»80 ma, proprio perché ne fu solo l’inversione, la posizione fichtiana ripresentò al proprio interno problemi affini a quelli di Spinoza ed in primis il meccanicismo: Fichte considera la natura come un che di morto, «qualcosa che non doveva esserci e che era solo perché non ci fosse, vale a dire perché potesse essere eliminato», e non riconosce nessun «modo di essere vivo che non sia quello dell’Io»81, gettando il resto in balia del più duro meccanicismo ed al conseguente utilitarismo rispetto all’Io, come Schelling leggeva nell’aborrita Bestimmung des Menschen: insomma «in fisica, come in filosofia, egli è un puro e semplice meccanicista, e mai un presentimento 76 77

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F. W. J. Schelling, Über das Verhältnis der Naturphilosophie zur Philosophie überhaupt, cit., p. 112. F. W. J. Schelling, Fernere Darstellung aus dem System der Philosophie, in Sämtliche Werke, I, Bd. IV, p. 404; Ulteriori esposizioni tratte dal sistema della filosofia, in Id., Filosofia della natura e dell’identità. Scritti del 1802, a cura di C. Tatasciore, Guerini, Milano 2002, p. 82. Cfr. M. Dalla Valle, Schelling: dall’io all’universo, cit., pp. 54-55 ma in generale l’intero saggio per il senso dell’idealismo assoluto in rapporto al concetto di costruzione. F. W. J. Schelling, Propädeutik der Philosophie, cit., 80; 39-40. Ivi, 125; 94. F. W. J. Schelling, Zum Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 92; 74. Come avvisa il figlio di Schelling in una nota a piè di pagina, il passo proviene da un manoscritto del periodo di Erlangen. F. W. J. Schelling, Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre, cit., 91-92; 298-299.

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di vita dinamica ha rischiarato il suo spirito»82. Perciò lo stesso concetto di libertà da lui sostenuto rimane «da un lato soltanto il più generico, dall’altro semplicemente il concetto formale» (352; 92) perché limitato al solo Io nella sua indipendenza dalla natura, posta a sua volta come vuota di libertà: anche qui per superare «la limitazione» fichtiana «della vera vita e dell’essere all’Io della coscienza ossia al soggetto», dovuta alla «sua variamente comprovata incapacità di vedere nell’essere l’autoaffermazione»83, e riuscire a cogliere questa Selbstbejahung, bisogna porsi «nel punto di vista della produzione», come già richiesto dalla Darstellung del 180184. Fu proprio su questo punto che – nella sua storia del pensiero – intervenne Schelling, «costretto ad accogliere la filosofia nel punto dove Fichte l’aveva posta»85: se, come rimarcava a Schlegel, l’essenziale sta nell’estendere la libertà a tutto l’universo, quest’estensione non è altro che il riconoscimento dell’«identità del principio dinamico col principio spirituale» (333; 79) e cioè di quell’«unità del dinamico col sensibile e con lo spirituale» che costituì la lebendige Basis da cui «crebbe la filosofia della natura» (350; 90). Il punto è cruciale perché vi si riannodano tutti i fili dell’introduzione dimostrando perché il panteismo in questo senso sia l’unica posizione che garantisca un concetto concreto di libertà. Fra gli esempi di proposizioni fraintese da Schlegel e da altri, il filosofo ne riportava uno già presente in forma affine negli Aphorismen: «il necessario e il libero sono uno», da intendersi nel senso che «ciò che è l’essenza del mondo morale è (in ultima istanza) anche l’essenza della natura» (342; 85). Com’è noto, questo Satz costituiva il cardine attorno a cui da più di dieci anni ruotavano la coppia idealismo-realismo e la Naturphilosophie, pur con sensi diversi che però Schelling richiamava come uguali o almeno come aventi a proprio fondamento il nuovo senso che ora veniva alla luce; nel presente caso è proprio da esso e dalla dinamicità della Naturphilosophie che il filosofo pose in primo piano il concetto di «produzione [Zeugung], cioè il porre qualcosa di per sé [Selbständigen]» (346; 88), sul quale si giocava la possibilità del panteismo in rapporto alla libertà e, in definitiva, l’unica possibilità per la libertà stessa: in una visione meccanicistica il prodotto si limita ad essere semplicemente Ding, un qualcosa di meramente condizionato, ed anche la sua causa o il producente figurano non meno Ding di ciò di cui sono causa; solo in una visione dinamica il 82 83 84 85

Ivi, 103; 307. Ivi, 53; 270. F. W. J. Schelling, Darstellung meines Systems der Philosophie, SW, I, Bd. IV, p. 109. F. W. J. Schelling, Zum Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen, cit., 93; 75.

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prodotto è attivo in se stesso, reca in sé la stessa attività per cui è prodotto e ha una relativa indipendenza a seconda del suo grado, in modo che «l’assoluta causalità in un essere solo» non si limita a lasciare «per gli altri soltanto passività incondizionata» (339; 83) ma, dando loro la sua impronta, li fa essere in forma determinata ciò che lui stesso è, comprende cioè una dipendenza che non si limita ad essere dipendenza ma acquisisce un proprio sé. Indubbiamente anche nella più meccanica delle concezioni del rapporto di dipendenza non si può non riconoscere a ciò che è dipendente una pur minima forma di Selbständigkeit, altrimenti non consisterebbe in sé ma si risolverebbe immediatamente nel suo principio (che allora non sarebbe principio di nulla), ma il meccanicismo non riesce a riconoscerlo: solo dal punto di vista dinamico della Naturphilosophie ci si può innalzare a quella visione superiore che supera d’un colpo le astrattezze sia del meccanicismo che dell’idealismo, operando «l’ultimo atto potenziante, per il quale l’intera natura si trasfigura in sensibilità, intelligenza e infine ragione» e riconoscendo che «il volere è l’essere originario» (350; 91). Questa era stata la conclusione tanto di Fichte che dello stesso Schelling in quel suo «passaggio ed esercizio preliminare»86 che fu il Sistema dell’idealismo trascendentale, dove «l’astrazione assoluta», cioè «l’atto [Handlung] grazie a cui l’intelligenza si innalza assolutamente al di sopra dell’oggettivo» e che «non può essere condizionato da alcuno degli atti precedenti» ma come «un immediato autodeterminarsi», era appunto il «volere, nell’accezione più generale del termine»87. Anche nelle Ricerche il volere assume i predicati dell’originarietà (cfr. 350; 91: «assenza di principio, eternità, indipendenza dal tempo, autoaffermazione») ed il tutto viene giudicato risultato dell’idealismo – ma risultato vero e compreso concretamente solo se si va al di là dell’astrattezza attribuita all’idealismo e ci si riferisce ad un’Unterscheidung che costituisce uno dei cardini attorno a cui ruota l’in86

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F. W. J. Schelling, Philosophische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, in SW, I, Bd. XI, p. 370; Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, a cura di L. Lolito, Bompiani, Milano 2002, p. 225. E cfr. il giudizio sullo scritto come «svolgimento dell’idealismo fichtiano» nelle lezioni Zur Geschichte der neueren Philosophie (96; 77). F. W. J. Schelling, System des transscendentalen Idealismus, cit., 230-231; 406407. E cfr. ad esempio anche ivi, 272; 475: «il puro autodeterminarsi in sé […] non è altro che il puro io medesimo, vale a dire l’elemento comune sul quale ogni intelligenza è, per dir così, disposta, l’unico in sé che tutte le intelligenze hanno in comune. In quell’atto di volontà assoluto e originario, che abbiamo postulato in quanto condizione di ogni coscienza, il puro autodeterminare diviene così immediatamente oggetto per l’io, e nulla di più è contenuto in questo atto. Ora, quel medesimo atto originario di volontà è però già per se stesso un atto assolutamente libero».

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tera opera ed anzi il «punto essenziale» in cui la filosofia schellinghiana si distingue da quella di Spinoza (350; 90): si tratta di una distinzione che – rimarca Schelling rimandando alla Darstellung del 180188 – «è tanto antica quanto la prima esposizione scientifica di essa», quella «tra l’essenza, in quanto esiste, e l’essenza, in quanto è semplice fondamento di esistenza» (357; 95), già implicitamente preannunciata dalla discussione della forma proposizionale. Tuttavia l’introduzione si limita ad accennarla, appunto ad introdurla perché il suo fine è dimostrare l’anzidetta possibilità della struttura del discorso successivo: il panteismo è l’unica possibile via per salvaguardare la libertà dell’uomo solo se l’assoluto è inteso come vivente, ed è vivente solo se al contempo è l’assoluto dei viventi, il Dio dei vivi; ma perché questi siano viventi, debbono sì essere prodotti ma proprio in questa produzione debbono acquisire un’indipendenza «che continua ad agire per sé», proprio come i pensieri rispetto all’anima – il che equivale a dire che se Dio è libero e propriamente è libertà, allora lo è anche l’uomo e lo è appunto perché è in Dio, e che non si può concepire altrimenti Dio se non come libertà e creazione in atto e rivelazione di esseri liberi: «il seguire delle cose da Dio è una rivelazione che Dio fa di se stesso. Ma Dio può rivelarsi soltanto in ciò che è simile a lui, in esseri liberi e agenti per se stessi; per il cui esistere non si dà altro principio che Dio, ma che sono, così come Dio è» (347, 88). In tal modo la «dottrina antichissima, secondo cui il simile si conosce col simile» (337; 81) si coniuga con il concetto «di una assolutezza o di una divinità derivata», che diviene «l’idea centrale di tutta la filosofia» (347; 88) e, nell’esempio sopra riportato di A/a, non viene sottolineata solo la radicale differenza nell’identità fra assoluto e finito, ma

88

Cfr. F. W. J. Schelling, Darstellung meines Systems der Philosophie, cit., § 54, Anm., pp. 146-147 ed a § 93, Anm. 1 ed Erkl., pp. 163-165. In entrambi i casi il tema trattato è di Naturphilosophie e concerne la forza di gravità da pensare «come l’identità assoluta non in quanto questa è, bensì in quanto è il fondamento del suo proprio essere, quindi essa stessa non è nella realtà effettiva» (ivi, § 54, Anm., p. 147) e «del diverso essere della forza di gravità e della luce» in quanto quest’ultima «è l’esistere dell’identità assoluta stessa» (ivi, § 93, Erkl., p. 165). Nel Denkmal veniva richiamato un altro passo: «per natura intendiamo l’identità assoluta in generale nella misura in cui viene considerata non come essente ma come fondamento del suo essere» (ivi, § 145, Erkl., p. 203) e Schelling proseguiva: «qui l’identità assoluta essente viene distinta da quella non-essente, che è solo fondamento […] della sua esistenza, e quest’ultima soltanto è definita [Erklaert] come natura. Quindi io affermo che la natura è l’identità assoluta non (ancora) essente (meramente oggettiva) – invece il signor Jacobi mi fa affermare che essa soltanto sia, il che equivale a dire che ad essa soltanto spetti il predicato di essere» (F. W. J. Schelling, Denkmal der Schrift von den göttlichen Dingen, cit., p. 25).

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anche quella fra gli stessi finiti: mentre «nelle altre sue conseguenze A/b, A/c…» la sostanza abita «solo in modo transitorio, in quella conseguenza che è l’anima umana = a» essa abita «eternamente, e perciò A/a sarebbe separata da se stessa come A in maniera eterna e imperitura» (345; 86-87) ma nell’unità organica in cui A/a è simile ad A, è libero e selbständig proprio in virtù della sua immanenza in A senza tuttavia smettere di essere finito e diverso da A. In questo senso, come ha scritto Heidegger, «in quanto libertà, la libertà dell’uomo è qualcosa di incondizionato; in quanto libertà dell’uomo, essa è qualcosa di finito. Pertanto la questione che si trova nel concetto della libertà umana, è la questione di un’incondizionatezza finita o, ancor più chiaramente, la questione di una incondizionatezza condizionata, di una indipendenza dipendente («assolutezza derivata») […]. Là dove c’è libertà, è richiesto il panteismo. Viceversa: […] quando è posto il panteismo ben compreso, la libertà è richiesta necessariamente»89. Con ciò l’ouverture si chiude ed inizia il dramma. La prima scena si apre sull’abisso dischiuso dal «concetto reale e vivente» della libertà come «facoltà [Vermögen] del bene e del male» e dalla conseguente presenza del male; a quest’ultimo, che costituisce la «difficoltà più profonda dell’intera dottrina della libertà» (352; 92), Schelling aveva già dedicato alcune pagine, ma – come si è visto – per mostrare che il panteismo non presentava problemi maggiori di tutte le altre posizioni al suo cospetto: ora, nell’affrontarlo, la strada percorrerà i meandri della distinzione fra Grund ed Existenz, rimanendo sempre all’interno di quell’immanenza che, sola, pone lo spirito nella «libertà assoluta che è autentico organo dell’infinito»90.

89 90

M. Heidegger, Schelling, cit., 122-123; 128. F.W. J. Schelling, Propädeutik der Philosophie, cit., 74; 32.

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MONICA MARCHETTO

L’OSCURO RETAGGIO DELL’ESSERE (Schelling, Ricerche filosofiche, SW VII, 356-373)

Scopo di Schelling nella prima parte delle Ricerche è quello di dedurre la possibilità del male dai primi fondamenti, mostrando come questa stessa possibilità si radichi nella fondamentale «distinzione tra l’essenza in quanto esiste e l’essenza in quanto è semplice fondamento di esistenza»1. Per capire il senso di questa distinzione, che Schelling considera tanto antica quanto la prima esposizione scientifica della filosofia della natura, è opportuno in primo luogo inserirla nel contesto in cui si presenta per la prima volta e nei testi immediatamente successivi; per poi passare, in secondo luogo, a considerare le delucidazioni che Schelling stesso dà a riguardo nell’ambito del dialogo polemico con Jacobi e di quello amichevole, ma non meno polemico, con Eschenmayer. Solo dopo avere tentato di chiarire la distinzione fondamentale, ci si potrà volgere all’analisi della teoria schellinghiana del male come sovvertimento positivo dei principi. 1. Il concetto di fondamento nella filosofia dell’identità Nel 1801 Schelling concepisce il principio come assoluta identità, e cioè come una identità che si conosce come identità e in ogni cosa si afferma in modo infinito. Nella sua autoaffermazione l’assoluta identità esiste sotto forme infinitamente molteplici che, essendo in sé identiche, si distinguono tra loro solo in forza di una differenza meramente formale, riconducibile alla mera prevalenza quantitativa del soggettivo o dell’oggettivo. E però, poiché l’identità assoluta non può non porsi identicamente nel soggetto come nell’oggetto, la soggettività viene posta come prevalente anche là dove l’oggettività è prevalente, in modo che soggetto e oggetto si equilibrino, riducendosi all’indifferenza. In questo orizzonte tematico la materia viene concepi-

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F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 357 (tr. it. in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Milano 1974, p. 95).

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ta da Schelling come la prima forma in cui esiste l’identità assoluta, ovvero come la prima totalità relativa, segnata dalla prevalenza dell’oggettività. Per costruire la materia come questa prima realtà determinata, egli mette innanzitutto in relazione il concetto di identità con quello di forza2. Già nel § 37 della Allgemeine Deduction del 1800 egli aveva sostenuto che l’identità assoluta, essendo per sé un abisso di inattività, si manifesta come forza, a condizione che si dia l’opposizione: data l’opposizione di forza attrattiva e forza repulsiva, l’identità diviene attiva come forza di gravità, e cioè come una forza che tende a conciliare l’opposizione, dando una misura determinata ad entrambe le forze e costituendo ogni singolo prodotto come un punto di indifferenza relativa. L’argomentazione è ripresa nella Esposizione del mio sistema del 1801: l’identità assoluta è fondamento di realtà della materia solo attraverso la mediazione di A e B, delle due forze fondamentali e, dunque, solo a condizione che si dia la loro opposizione: data l’opposizione, l’identità assoluta è «in sé» – cioè non più «per mezzo di A e B»3 – fondamento dell’essere-reali di A e B, il che significa che essa immediatamente si pone come la forza costruente che, limitando entrambe le forze fondamentali, le realizza costituendole come fondamento immediato di realtà della materia. La forza di gravità è dunque l’identità assoluta, «non in quanto questa è, ma in quanto essa è il fondamento del suo proprio essere, dunque di per sé non è nella effettualità»4. Come forza di gravità, l’identità è fondamento della materia, cioè del primum existens; ma, come questo fondamento, non è di per sé già esistente: «nella forza di gravità l’identità assoluta non è ancora (ist noch nicht). Infatti, essa è solo dopo che A e B sono stati posti come essenti»5; il che significa che l’identità assoluta non 2

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Nella Darstellung meines Systems Schelling cerca innanzitutto di dedurre le due forze fondamentali di attrazione e repulsione ricorrendo al concetto di Grund der Realität: nel § 52 egli precisa infatti che l’essenza dell’identità assoluta, in quanto questa è immediatamente fondamento di realtà, è forza (Kraft) e che ciò segue dal concetto di forza (Akademie-Ausgabe (AA) I, 10, p. 146; trad. di E. De Ferri, riveduta da G. Semerari, Bari 1969, p. 66). Ora, A e B, il soggettivo e l’oggettivo, sono rispetto alla materia il suo fondamento immediato di realtà e, poiché in ognuno di essi è la stessa assoluta identità e questa, come fondamento immediato di realtà, è forza, allora A e B, il soggettivo e l’oggettivo, si danno nella materia come forze, ovvero come forza attrattiva e come forza repulsiva (cfr. Darstellung meines Systems, § 53, Zus. 2; AA I, 10, p. 146; trad. cit., p. 66). F. W. J. Schelling, Darstellung meines Systems, § 54 Anm.; AA I, 10, p. 147 (trad. cit., pp. 67-68). Ibid. (p. 68, trad. leggermente modificata). Ibid. J. Jantzen commenta così questo difficile passo: «[…] poiché fondamento può essere solo pensato se è fondamento di qualcosa, parlare di fondamento dipende dal parlare di esistenza» (Die Möglichkeit des Guten und des Bösen, in O. Höffe

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esiste nell’attività che determina gli opposti all’unità, ma solo nell’unità realizzata e in ciò che è posto tramite questa. E c’è di più: la natura intera è l’identità assoluta in quanto questa è semplice fondamento, perché natura è «tutto quanto si trova al di là dell’essere assoluto dell’identità assoluta»6. Nel 1804, Schelling aggiunge alcune importanti notazioni, distinguendo la gravità dalla luce: a) la gravità, intesa come fondamento di realtà della materia, è ciò attraverso cui e in cui la materia (la massa per sé inerte) è ed è reale7; proprio essendo fondamento di realtà, essa non è di per se stessa reale, e dunque, lungi dal poter essere rappresentata empiricamente, rimane una profondità insondabile8. La luce è non già fondamento, ma causa: mentre

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– A. M. Pieper, F. W. J. Schelling: Über das Wesen der menschlichen Freiheit, Akademie Verlag, Berlin 1995, pp. 61-90, p. 81; tr. it. Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, a cura di F. Moiso e F. Viganò, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 157-182, p. 174, modificata). Il fondamento dunque non sarebbe fondamento se non attraverso il fondato, ovvero attraverso la realtà comune di A e B. Per Buchheim invece Schelling alluderebbe qui al fatto che il fondamento fonda autenticamente solo dopo e in vista dell’esser-dato del risultato: infatti, il fondamento per sé è indeciso e non determina cosa diviene reale; è piuttosto l’esistente, presupposto, ciò che decide delle possibilità, per sé indecise, contenute nel fondamento (cfr. T. Buchheim, Das Prinzip des Grundes und Schellings Weg zur Freiheitsschrift, in H. M. Baumgartner – W. G. Jacobs, Schellings Weg zur Freiheitsschrift. Legende und Wirklichkeit, Akten der Fachtagung der Internationalen Schelling-Gesellschaft 1992 (Schellingiana), Stuttgart-Bad Cannstatt 1996, pp. 223-239, p. 235). La difficoltà del passo in questione si concentra soprattutto nel verbo “ist”: se quell’ist significa existiert, come Schelling sembra suggerire altrove – ad esempio al paragrafo 93 della Darstellung dove sostiene che «l’identità assoluta in generale è o esiste (ist oder existiert) immediatamente per il fatto che A e B come tali sono posti come essenti» (AA I, 10, p. 162; trad. cit., p. 86) –, allora, che l’identità assoluta nella gravità non sia ancora, potrebbe significare, altrettanto plausibilmente, che l’identità assoluta, come fondamento, non esiste già in se stessa. Ivi, § 145 Erkl.; AA I, 10, p. 202 (trad. cit., p. 130). Ma non solo nella gravità, bensì «attraverso tutta la serie» (ivi, § 145, Zus. 3; AA I, p. 204, trad. cit., p. 132), l’identità assoluta torna a costituirsi come fondamento (per sé non esistente) del suo esistere e dunque come ciò attraverso cui, a ogni livello di costruzione del prodotto, l’opposizione va a fondo, facendo esistere qualcosa di superiore. E infatti, l’identità assoluta, ponendo le forze fondamentali come entrambe reali e cioè togliendo la loro opposizione, si fa fondamento di realtà della materia e, tramite questa, fondamento del suo esistere come luce (cfr. ivi, § 93; AA I, 10, p. 162, trad. cit., p. 86). Ugualmente, al termine del processo dinamico, l’identità assoluta, essendo fondamento della realtà comune di luce e coesione, «è fondamento del suo essere come A3 attraverso coesione e luce, così come essa era fondamento del suo essere come A2 attraverso la gravità» (ivi, § 145; AA I, 10, p. 202, trad. cit. modificata). Cfr. F. W. J. Schelling, System 1804, SW VI, p. 250. Cfr. ivi, p. 256.

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la gravità è il fondamento da cui le cose particolari nascono e in cui sussistono, ma anche ciò che le riduce alla radice del loro consistere, la luce è la causa che costringe la gravità a porre le cose particolari come particolari9. 2. La natura in Dio Ora, è chiaro che, nel 1809, il fondamento in Dio, questo «essere certo inseparabile da Lui e tuttavia distinto»10, non può essere, per Dio come esistente, ciò che la gravità è, nel 1804, per le cose particolari: il fondamento in Dio non è ciò in cui e attraverso cui Dio è ed è reale, perché Dio è in sé essente; né Dio viene o sorge dal suo fondamento. Nello scritto del 1812, dove Schelling risponde alle obiezioni che Eschenmayer aveva mosso alla Freiheitsschrift, Schelling precisa che Dio come esistente non può mai venir fuori dal fondamento della sua esistenza, perché «il fondamento dell’esistenza non può essere fondamento di niente che vada oltre, appunto, l’esistere puramente come tale; non però fondamento di ciò che esiste, del soggetto dell’esistenza»11. Eschenmayer aveva fatto notare che, se Dio deve avere il fondamento della sua esistenza in se stesso, allora il fondamento in Dio cessa di essere fondamento e coincide con l’esistenza, per cui non ha senso parlare di un fondamento in Dio distinto dalla sua esistenza12. Schelling gli risponde che, se è vero che Dio ha in sé il fondamento della sua esistenza, è anche vero che il fondamento di Dio, che pure implica e coincide con l’esistere, rimane distinto, in quanto è per sé non essente, dal soggetto dell’esistere che è il veramente essente13: solo concependo fino in fondo questa distinzione è possibile pensare in modo non astratto Dio come causa sui. Come soggetto dell’esistenza, Dio non viene dal suo fondamento, perché è in se stesso: il fondamento, lungi dall’essere ciò da cui il soggetto sorge o ciò in cui è, è il medio, la base e la condizione del suo esistere effettivamente. Per spiegare cosa intenda, Schelling torna a parlare della luce, già concepita nel 1801 come identità per sé esistente (contrapposta alla gravità che è solo fondamento) e nel 1804 come causa: La luce è appunto l’Essente (in sé) secondo il suo concetto […]. Ma proprio perché è l’Essente-in-sé, ha bisogno, per essere come questo in-sé-Essente, 9 10 11 12 13

Cfr. ivi, p. 266. F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 358 (trad. cit., p. 96). F. W. J. Schelling, Antwort (1812), SW VIII, p. 172. Cfr. Eschenmayer an Schelling (1810), SW VIII, p. 137. Cfr. F. W. J. Schelling, Antwort (1812), SW VIII, p. 164.

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cioè per provarsi come tale, per rivelarsi attivamente, del principio dell’oscurità che reagisce: questa è allora fondamento [Grund] (base, sostrato, condizione [Grundlage, Unterlage, Bedingung]) della sua attualizzazione14.

Se la luce è ciò che è in sé essente, il fondamento è ciò che (in sé) da se stesso è non essente, natura, secondo il significato che Schelling attribuiva a questo termine fin dal 1801: mentre la luce, assoggettandosi le tenebre, si rivela attivamente ed esiste come sé, il fondamento, che per sé non è, giunge all’essere solo facendosi strumento della rivelazione della luce. Così, Schelling può concludere che, se l’oscurità è fondamento dell’esistere della luce come sé, la luce è la causa dell’essere-in-sé dell’oscurità, perché trae dal non-essente qualcosa di essente, cioè la creatura15. Anche nel Monumento anti-jacobiano Schelling insiste molto sull’idea dell’inseparabilità di causa e fondamento. Il Monumento è una risposta allo scritto Le cose divine del 1811, in cui Jacobi accusa apertamente Schelling di non aver saputo concepire niente che andasse oltre o che fosse al di sopra della natura, e di avere inteso questa natura come una produttività assoluta che non produce niente di distinto da sé o di per sé consistente, ma solo il mutamento; e che anzi non è se non questa mutevolezza in sé immutabile, una vana irrequietezza, che non fa l’essere ma il nulla. Nel difendersi da queste accuse, Schelling dà importanti chiarimenti su come si debba intendere il fondamento in Dio e sulla ineliminabilità della natura dal concetto di un Dio vivente. Già la distinzione fondamentale del 1801 implica necessariamente che la natura in Dio non sia l’unico vero Dio16: la natura, ovvero l’identità assoluta in quanto è solo fondamento della sua esistenza, ha al di sopra di sé Dio come soggetto. Questa natura o fondamento in Dio non è però da intendere come Jacobi intende il fondamento quando considera il procedere fondativo della ragione strumentale, ovvero come la ragione sufficiente da cui si deriva la conseguenza, che esplica o specifica il contenuto già dato nel fondamento: il rapporto tra fondamento ed esistente non si deve considerare come una vuota identità, tale per cui lo stesso contenuto è considerato ora come il fondamento ora come il fondato. Come è vero che il procedere dimostrativo non è un progredire attraverso proposizioni identiche, bensì un vero sviluppo in cui la potenza precedente 14 15 16

Ivi, p. 173. Cfr. ivi, p. 174. Cfr. F. W. J. Schelling, Denkmal der Schrift von den göttlichen Dingen (1812), in W. Jaeschke (Hrsg.), Der Streit um die göttlichen Dinge (1799-1812). Mit Texten von. Goethe, Hegel, Jacobi, Novalis, Schelling, Schlegel u.a. und Kommentar, Meiner, Hamburg 1999, Bd. II, pp. 245 e 248.

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si assoggetta e si fa non essente rispetto alla potenza seguente, così è anche vero che il fondamento in Dio è ciò che si assoggetta e si fa non essente rispetto a Dio come esistente17. Il rapporto tra fondamento ed esistente non è però neanche un rapporto di mera alterità: il fondamento non è una qualche base solo estrinsecamente connessa a Dio come esistente. Schelling infatti precisa che la natura in Dio, ovvero la natura che sta al centro della speculazione di quello che Jacobi denomina naturalismo, contrapponendolo al teismo, non è affatto la natura delle cose o «una natura esterna in relazione a Dio»18, ma la natura divina, Dio come natura: la natura di Dio certo non è Dio stesso, ma è tuttavia la sua Aseität19; essa è l’individualità, assoggettando la quale Dio si eleva alla personalità, il vigore (Stärke), senza il quale anche la suprema bontà non si eleva alla perfezione della sua effettualità. Senza questa natura Dio rimane sospeso nell’aria, manca di ogni vitalità e non trova l’inizio della sua rivelazione. La distinzione tra fondamento e causa, fondamento ed esistente è del resto anche ciò che unicamente permette di concepire il mondo in Dio, senza però trasformare Dio in mero sostrato del condizionato20. Fin dalle Ricerche Schelling puntualizza infatti che sussiste una contraddizione tra il fatto che le cose, essendo toto genere differenti da Dio, non possono divenire in lui considerato assolutamente, e il fatto che esse tuttavia devono divenire in lui, dato che nulla è fuori di lui: questa contraddizione è superabile solo se si ammette che le cose «hanno il loro fondamento in ciò che in Dio non è Lui stesso»21. Ora, ci si chiede come le cose divengono nella natura di Dio, come Schelling concepisca il processo creativo a partire da ciò che in Dio non è Lui stesso. Citando Böhme22, Schelling precisa che la natura è «il desiderio, che prova l’eterno Uno, di generare se stesso»23. Si badi: Dio non ha desideri; piuttosto: Dio, inteso come natura, è il desiderio originario, la brama, die Sehnsucht. Nel suo fondamento Dio è una nostalgia ineffabile, un volere privo di intelletto, che si muove presago verso l’intelletto, ma 17 18 19

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Cfr. ivi, pp. 265 e 266. Ivi, p. 269. Cfr. ivi, p. 268. A proposito del dialogo polemico tra Schelling e Jacobi, cfr. M. Ivaldo, Filosofia delle cose divine, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 205 ss. Sulla differenza tra fondamento e causa in Jacobi, cfr. B. Sandkaulen, Grund und Ursache, Wilhelm Fink Verlag, München 2000. Cfr. F. W. J. Schelling, Denkmal, cit., pp. 273-274. F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 359 (trad. cit., p. 96). Cfr. J. Böhme, Mysterium Pansophicum, in J. Böhme, Sämtliche Schriften, hrsg. von A. Faust u. W.-E. Peuckert, Fr. Frommanns Verlag, Stuttgart 1955-61, Bd. IV, spec. pp. 97-99. F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 359 (trad. cit., p. 97).

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non è ancora intelletto. Ma Dio rischiara il suo fondamento, elevandosi alla perfezione di un legame assoluto con esso, cosicché, corrispondentemente al desiderio che il fondamento è, si produce una interna rappresentazione riflessa, per la quale, non potendo essa avere nessun altro oggetto all’infuori di Dio, Dio si contempla in immagine. Questa rappresentazione è il Primo in cui Dio, considerato assolutamente, si realizza, sebbene soltanto in se stesso24.

Anche Dio ha una condizione della propria esistenza: ma questa non è in lui un fondamento di oscurità, perché Dio la subordina completamente a sé fino a contemplarsi in immagine. Questa immagine è la parola del desiderio, ciò che dice la nostalgia ineffabile del fondamento, ciò in cui Dio, venendo a sé, si fa oggetto a se stesso, realizzandosi prima di dare avvio al processo creativo. Elevatosi sul suo fondamento, Dio viene a sé ed è spirito, circolazione vivente, movimento del tenersi in sé e del dispiegarsi fino a sé. Lo spirito è l’assoluta identità di esistente e fondamento, ma come tale non è il più alto: al di sopra dello spirito è l’unità comune, uguale verso tutto, cioè l’amore25. Mosso dall’amore26 – e dunque nel desiderio che il fondamento sia indipendente da lui e tuttavia in unità con lui –, Dio esprime nella natura la parola in cui si era idealmente realizzato. Ora, «il primo effetto dell’intelletto in essa [nella natura] è la separazione delle forze»27: il fondamento, in quanto è la natura di Dio, non può non contenere, per quanto in forma contratta, l’essenza stessa di Dio; affinché questa essenza racchiusa nel profondo si manifesti, è necessario che le forze vengano scisse, che il loro groviglio venga spezzato. Anzi: perché tutto sorga dal fondamento, è necessario non solo che le forze vengano scisse, ma anche che la forza oscurante reagisca all’azione che il principio ideale esercita su di essa28. Questa reazione della base non ostacola il processo di trasfigurazione del fondamento ma, al contrario, lo intensifica29. Alla fine 24 25 26 27 28 29

Ivi, pp. 360-361 (trad. cit., p. 98). Cfr. ivi, p. 408 (trad. cit., p. 131). Cfr. ivi, p. 361 (trad. cit., p. 98). Ibid. Cfr. ivi, p. 361 (trad. cit., p. 98) e p. 404 (trad. cit., p. 128). In questa idea di una necessaria reazione del fondamento, come anche nella concezione del fondamento come base, si riflette la ricezione schellinghiana della teoria schubertiana della reazione della base (Reaktion der Basis), teoria cui Schelling fa esplicito riferimento nella lettera a Schubert del 28 aprile 1809 (cfr. H. Fuhrmans (Hrsg.), Schellings Briefe und Dokumente, Bouvier, Bonn 1975, Bd. III, p. 596). Posto che il fondamento della vita risiede nell’opposizione tra un principio ma-

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di un processo di progressiva elevazione, l’intelletto riesce a portare alla luce finanche il punto più profondo dell’oscurità; riesce cioè a trasfigurare il fondamento nell’unità dell’intelletto. In ogni essere che sorge vi sono due principi: un principio oscuro, per cui le cose sono nel fondamento e che è il volere individuale della creatura, e il principio dell’intelletto o volontà universale; in ogni essere naturale questi due principi sono posti in unità, ma sono uniti solo secondo un determinato grado. Nell’uomo invece il principio oscuro è innalzato a perfetta unità con il principio dell’intelletto: «il principio emerso dal fondamento della natura, per il quale l’uomo è separato da Dio, è l’ipseità [Selbstheit] in lui, che però, per la sua unità col principio ideale, diviene spirito [Geist]»30. Questa unità non si dà tuttavia nell’uomo nello stesso modo in cui essa si dà in Dio: mentre in Dio i due principi non possono essere separati e sono uniti in un vincolo indissolubile, nell’uomo essi possono essere separati ed è proprio in questa separabilità che consiste la possibilità del male. 3. Il male come positivo sovvertimento dei principi Poiché l’uomo ha una radice indipendente nella natura, egli è libero da Dio (come esistente); poiché in lui il volere individuale è divenuto identico al volere universale e si è così elevato, come volere creaturale, al di sopra della creatura, egli è altresì libero dal principio ideale che opera nella natura, e vive «sopra e al di fuori della natura»31 stessa. Posto nel punto di indifferenza, l’uomo ha il potere di sovvertire l’ordine dei principi, e cioè «di innalzare il fondamento sopra la causa»32: il volere individuale, che nell’uomo è trasformato nel volere universale, è destinato a restare nel centro, e cioè a fare da portatore e conservatore del principio più elevato; esso non deve aspirare ad essere per sé, perché è appunto ciò che, non essendo per se stesso, dà consistenza e stabilità al principio superiore, a ciò

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schile, attivo, libero, capace in sé di essere espressione del tutto – e che si manifesta a livello chimico negli acidi –, e un principio femminile, passivo e ricettivo, di grande coesione e individualità, legato alla terra – che si manifesta chimicamente nelle basi, è convinzione di Schubert che il principio basico non si limiti a subire l’azione del principio maschile, ma anche reagisca, fino ad indurre nell’acido una recettività nei confronti di un influsso superiore (cfr. G. H. Schubert, Ahndungen einer allgemeinen Geschichte des Lebens, Bd. II-1, Leipzig 1807, pp. 154-158). F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 364 (trad. cit., p. 100, leggermente modificata). Ibid. Ivi, p. 365 (trad. cit., p. 101).

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che realmente deve essere. Il male si dà, allora, quando l’uomo pone al di sopra della causa (del principio ideale, del volere universale) ciò che sarebbe destinato a stare nel fondo e a fare da fondamento; quando, dunque, il volere particolare cessa di essere strumento della realizzazione del volere universale, e cerca di attuare se stesso come volere particolare. La teoria schellinghiana del male come sovvertimento dei principi ha una chiara matrice baaderiana; è lo stesso Schelling a rivelarlo, facendo esplicito riferimento a due opere baaderiane uscite rispettivamente nel 1807 e nel 1808. Il primo scritto si intitola significativamente Sull’affermazione che non vi può essere un cattivo uso della ragione: la tesi, richiamata da Baader già nel titolo, è quella sostenuta da Jacobi nel discorso (tenuto all’Accademia bavarese delle scienze nel 1807) Sulle società di cultura, il loro spirito e scopo. In questo discorso Jacobi cerca di chiarire se la vita dell’uomo abbia un fine e quale esso sia: l’uomo avrebbe in comune con gli animali i sensi e l’intelletto; tipicamente umana sarebbe invece la ragione, con la quale l’uomo conosce Dio e la virtù. L’intelletto collega, distingue, pesa, soppesa, ma non è capace di stabilire fini originari: da se stesso, l’intelletto non sa cosa è buono o cattivo, ma solo cosa è un più o meno [ein Mehr oder Weniger]. […]. Stabilire un primo fondamento o uno scopo ultimo, questo sta totalmente fuori della sua sfera di competenza33.

Porre limiti assoluti, conoscere l’inizio e la fine o il fine ultimo delle cose: questo è prerogativa della ragione. Ora, è opinione di Jacobi che un’epoca non possa essere giudicata positivamente, se allo sviluppo tecnico e ai progressi ottenuti con l’intelletto o ragione strumentale non si accompagna lo sviluppo di quello che vi è di propriamente umano nell’uomo: la ragione. Egli finisce dunque con il criticare aspramente la sua epoca, contraddistinta, a suo dire, dal tentativo di addomesticare la vera umanità, ponendola sotto il dominio di una «animalità acculturata che si crede di più»34. Con ciò, Jacobi è ben lungi dal proporre l’annichilimento dell’intelletto e dei suoi guadagni; egli è, al contrario, convinto che l’intelletto non sia incompatibile con la ragione: usati correttamente essi devono piuttosto promuoversi a vicenda. Un cattivo uso della ragione non può darsi; e anche un cattivo uso dell’intelletto può darsi 33 34

F. H. Jacobi, Über gelehrte Gesellschaften, ihren Geist und Zweck, in F. H. Jacobi, Werke Gesamtausgabe, hrsg. von K. Hammacher und W. Jaeschke, MeinerFrommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt-Hamburg 1998-, Bd. V-1, p. 358. Ivi, p. 360.

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solo quando questo è stato già in parte soffocato e nella stessa misura oscurato dalla sensibilità che esso è destinato a governare35.

Nel suo scritto Über die Behauptung Baader puntualizza innanzitutto che, se anche l’uomo e l’animale hanno in comune l’intelletto, questo dimora al di sopra dell’animale mentre abita nell’uomo, cosicché si può dire soltanto dell’uomo e non dell’animale che ha l’intelletto36. In secondo luogo, l’origine della corruzione umana non risiederebbe per Baader nel fatto che l’uomo ha rinunciato alla ragione, abbassandosi al livello di animale intelligente: Sarebbe certo augurabile che la corruzione nell’uomo arrivasse solo fino a questo punto, cioè fino a un puro – franco – divenire animale. Ma non è così. L’uomo può stare purtroppo solo al di sopra o al di sotto dell’animale37.

Per Baader c’è sicuramente un male che riguarda ciò che è umano nell’uomo, una corruzione della ragione che non consiste nella sua assenza o nel suo oblio, ma piuttosto nella sua perversione (Verkehrtheit): L’uomo non riesce a darsi o a sacrificarsi all’animale, ovvero ad animalizzarsi, senza prima negare in sé un Positivo, il veramente Umano. Ma questa negazione […] non è un ignorare semplicemente passivo, ma un atto positivo, dinamico e […] potente dell’animo, attraverso cui la sollecitazione, non meno positiva, di quell’Umano alla rivelazione di sé viene respinta e soffocata, e proprio in questo ponderato suicidio della vita più nobile e nel dispotico volere elevare la cattiva ipseità, ponendola al suo posto e luogo (cioè nel divinizzare quest’ultima) consiste il peccato38.

Baader precisa meglio la sua posizione in un altro scritto, Sul rigido e sul fluido, pubblicato nel 1808 negli Jahrbücher der Medizin als Wissenschaft curati da Markus e Schelling, scritto al quale Schelling fa altresì riferimento nelle Ricerche39. In Über Starres und Fliessendes, Baader chiarisce che la vita riposa solo sull’unità di materia e forma, talmente che l’intensità dell’unione dà la misura della consistenza dei corpi. Tanto nel rigido, quanto nel liquido è data invece la separazione della forma dalla materia: il rigido ha la forma senza la materia; il liquido la materia senza la forma. Il 35 36 37 38 39

Ivi, pp. 362-363. Cfr. F. Baader, Über die Behauptung, daß kein übler Gebrauch der Vernunft sein könne, in Baaders Sämtliche Werke (BW), hrsg. von F. Hoffmann, Leipzig 1851, Bd. I, p. 35. Ivi, p. 36. Ivi, p. 38. Cfr. in particolare F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, pp. 366-367, nota 1; trad. cit., p. 102, nota 15.

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rigido mostra una grande continuità con se stesso, ma non ha nessuna forza di penetrazione chimica. Nel liquido, alla scarsa coesione si accompagna una grande potenza chimica40. La vita però non è né nel rigido né nel fluido: essa sorge solo là dove il rigido e il fluido vanno a fondo, togliendosi in un terzo che, impedendo ai due opposti di realizzarsi in modo esclusivo41, costituisce ciò che unicamente consiste, l’unica sostanza. Ma con la stessa energia con la quale evidenzia la necessità che gli opposti vadano a fondo, Baader afferma anche che proprio quella opposizione, quel fuoco oscuro che minaccia ad ogni istante di erompere, costituisce lo stimolo, il pungolo che alimenta e sostiene lo slancio della vita che «si eleva, si tende o, gonfiandosi [come un’onda], si rivela»42. In questo fuoco oscuro risiede però un pericolo – e si tratta di un pericolo mortale –, perché ciò che è destinato a servire come base, può infiammarsi e pretendere una vita per sé: il male fisico e quello morale hanno origine in questa infiammazione. Ora né fuoco né acqua erano come tali, cioè come sfere divise, nel processo organico, ma quello era nel processo organico come centro (come mysterium), questo come aperto o come periferia, e proprio l’apertura, l’elevazione, l’infiammazione del primo, insieme alla chiusura del secondo, diede la malattia e la morte. Così, in generale, l’ipseità, l’individualità è chiaramente la base (Basis), il fondamento (Fundament) o il centro naturale di ogni vita creaturale; non appena però questo stesso cessa di essere centro che serve l’unità ed entra nella periferia dominando lui stesso, allora brucia in essa come furore tantalico (tantalischer Grimm) del solipsismo e dell’egoismo (dell’egoità accesa)43.

4. La critica di Schelling a Leibniz Schelling – che pure nel 1804 interpretava il male spinozianamente come una privazione che, in verità, è solo negazione, ovvero «un mero atto 40

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Cfr. F. Baader, Über Starres und Fliessendes, BW III, p. 271. Nel 1792 Baader aveva dedicato un saggio al tema della fluidità, difendendo l’idea kantiana, secondo la quale la fluidità di una materia dipende dal grado della resistenza che essa oppone non già alla rottura, bensì allo spostamento reciproco delle sue parti (cfr. F. Baader, Ideen über Festigkeit und Flüssigkeit, BW III, pp. 182-202). A proposito della relazione tra affinità chimica e coesione nella Chimica del primo Ottocento, cfr. F. Moiso, Gott als Person, in O. Höffe – A.M. Pieper, op. cit., pp. 189-220, p. 194 ss.; trad. cit., pp. 273-300, p. 276 ss.). Cfr. F. Baader, Über Starres und Fliessendes, cit., p. 272. Ivi, p. 275. Ivi, pp. 275-276. A proposito, cfr. F. Moiso, Vita natura libertà: Schelling (17951809), Mursia, Milano 1990, pp. 321 ss.

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dell’immaginare, o del considerare le cose nella loro relazione reciproca»44 – recepisce ora la lezione baaderiana e si convince della forza positiva del male. Alla luce di questa convinzione, egli stigmatizza inevitabilmente la teoria leibniziana del male come mera privazione. Nei Saggi di Teodicea, Leibniz distingue il male metafisico da quello fisico e da quello morale45: il male metafisico consisterebbe in una privazione del bene o della perfezione, il male fisico nella sofferenza e il male morale nel peccato. Leibniz concepisce in particolare il male morale come un tipo di manchevolezza che si manifesta nelle creature intelligenti sotto la forma della privazione di una tensione più alta46: posto che intelletto e volontà sono le condizioni di ogni azione morale, e che il volere è spinto ad agire dalla rappresentazione del bene maggiore47, il male ha origine da una privazione del volere che, indotto da una rappresentazione fallace – e cioè da una rappresentazione che presenta quel che è un bene minore rispetto ad altri come un bene maggiore –, sceglie quel che è solo apparentemente il meglio48. Alla fine, il male è una privazione dell’intelletto e ha origine nell’intreccio tipicamente umano di rappresentazioni chiare e confuse. Come semplice privazione, il male non ha per Leibniz una causa efficiens ma solo una causa deficiens49: Dio è certamente causa di realtà delle creature e delle loro azioni, cosicché la realtà positiva di un’azione cattiva è sicuramente da ricondurre a Dio, che pone in essere e mantiene la forza intellettiva e volitiva dell’uomo: non a Dio può essere però ricondotta la privazione di questa forza, ciò che rende l’azione umana cattiva. Nel § 30 della Teodicea, Leibniz precisa infatti che «Dio è la causa dell’aspetto materiale del male, che consiste in ciò che è positivo, ma […] non lo è di quello formale, che consiste nella privazione»50. Ciò significa che, mentre 44 45

46 47 48 49 50

F. W. J. Schelling, System 1804, SW VI, p. 543. Su ciò cfr. F. Hermanni, Das Böse und die Theodizee, Kaiser; Gütersloher Verl.-haus, Gütersloh 2002, pp. 141-146. Cfr. G. W. F. Leibniz, Essais de Théodicée, § 21, in G. W. F. Leibniz, Die Philosophischen Schriften, hrsg. von C.I. Gerhardt, Georg Olms, Hildesheim 1960- [Nachdruck der Ausgabe Berlin 1875-], Bd. VI, p. 115 (trad. it. in G. W. F. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, vol. III, Utet, Torino 2000, p. 123). Cfr. ivi, § 33, p. 122 (trad. cit., p. 130). Cfr. ivi, § 45, p. 128 (trad. cit., p. 137). Cfr. ivi, § 154, p. 201 (trad. cit., p. 220). Cfr. ivi, § 33, p. 122 (trad. cit., p. 130). Ivi, p. 120 (trad. cit., p. 129). Leibniz illustra la sua tesi con un esempio famoso: le creature sono come barche che differiscono tra loro solo per il carico e che, discendendo lungo uno stesso fiume, si muovono con velocità diverse. La corrente è la causa del movimento delle barche; non è però causa del loro rallentamento, che dipende dalla maggiore quantità di materia nelle barche più cariche e, quindi,

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l’elemento materiale del male, il positivo che lo riguarda, viene da Dio, l’elemento formale del male, ovvero la privazione, viene dalla limitatezza che affetta la creatura già nel regno delle verità eterne o delle rappresentazioni che stanno nell’intelletto divino, dal momento che l’imperfezione fa parte del concetto di ogni sostanza diversa da Dio. Da ciò consegue quindi che l’origine del male non è nel volere di Dio, bensì nella natura ideale delle creature, in quanto questa è racchiusa nelle verità eterne, che sono nell’intelletto divino indipendentemente dalla sua volontà51. Ora, Schelling coglie senz’altro la profondità della distinzione leibniziana tra intelletto e volere, in cui sembra profilarsi segretamente la stessa distinzione tra fondamento ed esistente; tuttavia, nonostante l’ingegnosità riconosciutagli nell’affrontare la questione del male, Leibniz non riuscirebbe a comprenderne fino in fondo l’abissalità: per lui, infatti, il male […] si risolve ancora in qualcosa di semplicemente passivo, in limitazione, manchevolezza, privazione, che sono concetti contrastanti con la natura propria del male. Poiché già la semplice riflessione che l’uomo, cioè la più perfetta di tutte le creature, sia l’unica capace di male, mostra che il fondamento di esso non può consistere affatto nella mancanza o nella privazione52.

Nell’interpretazione di Schelling, Leibniz tenterebbe di dar conto del malum morale rabbassandolo a malum metaphysicum: riconducendo però il male morale alla limitatezza originaria delle creature, Leibniz misconoscerebbe il fatto evidente che il male morale si presenta unito non già alla limitatezza, bensì all’eccellenza delle forze. Fallace poi sarebbe l’interpretazione che Leibniz dà dell’inerzia come semplice privazione. È pur vero che, nel 1804, Schelling interpretava l’inerzia come il segno della totale passività e dell’assoluta mancanza di realtà che caratterizzano la materia nella sua finitezza, ovvero la materia considerata come massa53: allora egli

51 52 53

dalla inerzia naturale della materia: la materia tende di per sé alla lentezza o alla privazione di velocità; essa tende non già ad agire contro la forza che produce il movimento, bensì a limitarne l’effetto tramite la sua ricettività. Così come la corrente è causa del movimento delle barche ma non è causa del loro rallentamento, allo stesso modo Dio è causa della perfezione nella natura e nelle azioni delle creature, mentre la privazione della forza intellettiva e volitiva e il male che ne deriva sono causati dalla «limitazione della recettività della creatura» (ibid.; trad. cit., p. 128): la causa deficiens, per cui le creature sono solo limitatamente ricettive nei confronti della positività proveniente da Dio, è la limitatezza delle creature stesse. Cfr. ivi, §. 20, p. 115 (trad. cit., p. 122). F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 368 (trad. cit., p. 103). Cfr. F. W. J. Schelling, System 1804, SW VI, p. 245.

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elogiava Leibniz per la sua capacità di vedere nell’inerzia della materia l’esempio di una «originaria privazione nelle cose create»54, e arrivava perfino ad identificare questa totale privazione di attività con il peccato originale della materia55. Ora, nel 1809, egli sottolinea, al contrario, che l’inerzia non può venire pensata come una semplice privazione, ma è certamente qualcosa di positivo, cioè l’espressione dell’interiore individualità del corpo, della forza con cui esso cerca di affermarsi come essere singolo56.

Riferendosi alla distinzione leibniziana tra un elemento materiale del male, proveniente da Dio, e un elemento formale, derivante dalla limitatezza originaria della creatura, Schelling fa notare che, se è vero che l’elemento materiale del male e quello del bene sono tra loro identici mentre l’elemento formale è diverso, è altresì vero che «questo elemento [cioè l’elemento formale] deriva proprio dall’essere e dal positivo stesso»57. L’elemento formale cioè non starebbe nella privazione, ma nella disarmonia delle forze. Questa disarmonia è ben lungi dall’essere compresa, quando essa viene intesa come mera privazione dell’unità: «perché non è la separazione delle forze in sé ciò che costituisce disarmonia, ma la loro falsa unità»58. 5. La sensibilità non è il male Ugualmente incapaci di comprendere questa disarmonia sarebbero poi tutte quelle teorie per le quali l’unico fondamento del male starebbe nella sensibilità o nell’animalitas59. Intendere la sensibilità o l’animalità come il 54 55

56 57 58 59

Ibid. Cfr. ivi, p. 246. Si badi però al fatto che, mentre Leibniz spiega l’inerzia naturale della massa attraverso una vis passiva derivativa che, a sua volta, si radica nella prima materia (o vis passiva primitiva), ovvero in quell’aspetto dell’operare percettivo delle monadi che è il segno della loro imperfezione, Schelling concepisce l’inerzia nel 1804 come il segno di una totale passività, nell’intenzione antifichtiana di chiarire che l’Io, come principio della finitezza, non è capace di produrre altro che una mera mancanza di realtà (cfr. R. Shibuya, Individualität und Sebstheit. Schellings Weg zur Selbstbildung der Persönlichkeit (1801-1810), Ferdinand Schöningh, Paderborn 2005, pp. 114 ss.). F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 370 (trad. cit., p. 104). Ibid. Ivi, p. 371 (trad. cit., p. 104). Poco prima di redigere la Freiheitschrift, Schelling pubblica nella Jenaische Allgemeine Literatur-zeitung (6.1809, 1, Num. 13-14-15) la recensione di un interessante scritto di F.I. Niethammer, Der Streit des Philanthropinismus und Huma-

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fondamento unico del male significa infatti sopprimere il male: se l’origine del male è nella sensibilità, essendo questa solo passiva, non si capisce come si possa ancora parlare di azioni malvagie. Ammesso che dalla sensibilità risultino azioni malvagie, poiché la sensibilità fa parte della natura dell’uomo, l’uomo non ne sarebbe responsabile. Ma soprattutto, posto che la razionalità nel male rimanga inattiva, per Schelling rimane da spiegare perché essa non agisce: se non agisce perché decide e vuole non agire, allora il male risiede in questo volere e non nella sensibilità; se non ci si può opporre alla potenza della sensibilità, allora il male non è che semplice debolezza. In ogni caso, i seguaci di questa dottrina – che Schelling definisce monoteleti in riferimento al monotelismo del VII secolo – sopprimono il male perché ammettono un solo volere, ovvero il volere del bene come volere radicato nel principio intelligente. In verità, tanto il male quanto il bene risultano dall’unione di due principi, e ciò che li distingue è solo il modo in cui si costituisce questa unione: come nel bene non agisce solo il principio intelligente, ma questo principio unito all’individualità, così nel male non agisce solo il principio tenebroso, ma il principio tenebroso che, divenuto identico all’intelletto, anziché rimanere al suo fondamento, si solleva al di sopra di esso. Ma come non è affatto il principio intelligente o il principio della luce in sé, che agisce nel bene, ma quel principio legato all’individualità, cioè elevato a spirito, così il male non segue dal principio della finitezza in sé, ma dal principio tenebroso e individuante portato in intimità con il centro60.

Ancora una volta la proclamazione della libertà che compete all’uomo esige l’altissimo prezzo del riconoscimento dell’enorme responsabilità che ad essa, ineluttabilmente, si accompagna.

60

nismus in der Theorie des Erziehungsunterrichts unserer Zeit, uscito a Jena nel 1808. Già in questa Recensione, Schelling fa presente che costituisce un grave errore di giudizio assumere «che nell’uomo, nel quale ha inizio chiaramente un conflitto più elevato, la spiritualità abbia il suo opposto nell’animalità» (cfr. F.W.J. Schelling, Niethammer-Rezension, SW VII, p. 519). A proposito della Recensione, cfr. R. Shibuya, op. cit., pp. 143 ss. F. W. J. Schelling, Philosophische Untersuchungen, SW VII, p. 372 (trad. cit., p. 105).

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FRANCESCO FORLIN

IL MALE NELLA STORIA (SW VII, 373-394)1

1. Introduzione Enunciate le fondamentali definizioni delle Ricerche, vale a dire la libertà come «facoltà del bene e del male» e la distinzione fra fondamento ed esistenza, Schelling passa, nelle pagine centrali dello scritto, a discutere l’utilizzo delle stesse al fine della comprensione della storia e del male in essa presente. Il suo argomentare segue un andamento che potremmo definire sinusoidale, nel senso che ad un momento a carattere prevalentemente teoretico-metodologico ne segue uno in cui i guadagni speculativi appena introdotti vengono puntualmente applicati. Spiega il filosofo: abbiamo cercato di dedurre il concetto e la possibilità del male dai primi fondamenti e di scoprire la base generale di questa dottrina, consistente nella distinzione fra l’esistente e ciò che è fondamento dell’esistenza. Ma la possibilità non include ancora la realtà, e questa propriamente è il grande oggetto in questione (SW VII, p. 373; RF, p. 106)2.

Questo passo si rivela di grande interesse, poiché, oltre ad introdurci alla trattazione dell’oggetto della nostra relazione, contiene un riferimento importante alla distinzione fra possibilità (Möglichkeit) e realtà (Wirklichkeit) di qualcosa. Alla prima viene associata la categoria di concetto (Begriff), e Schelling dice molto chiaramente che l’aver provato la realtà di quest’ultimo non può equivalere in nessun caso all’aver provato la realtà dell’esistenza (Existenz) dello stesso oggetto. Questo perché «la 1 2

Il riferimento è naturalmente ai Sämmtliche Werke, hrsg. v. K. F. A. Schelling, Cotta, Stuttgart 1856-61, Bd. VII, pp. 333-416, nelle citazioni delle Ricerche d’ora in poi SW seguito dal numero di pagina cui la citazione si riferisce. La traduzione italiana utilizzata è quella di Susanna Drago del Boca presente in F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1990, d’ora in poi RF seguito dal numero di pagina cui la citazione si riferisce.

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L'essenza della libertà

possibilità non include ancora la realtà»: in quel verbo einschliessen (= includere) c’è tutto il peso della rivendicazione del margine di autonomia dell’esistente rispetto al razionale. Non si sarebbe troppo lontani dal vero se si cogliesse in questa riga una delle prime formulazioni, pure ancora in nuce, della distinzione fra filosofia positiva e filosofia negativa che terrà banco nell’ultima fase della ricerca schellinghiana. Già nel 1809 ciò che interessa il filosofo, e che pertanto costituisce «il grande oggetto in questione», è la realtà effettiva di qualcosa, più della sua possibilità3. 2. La principialità del male: primo discorso speculativo Ciò è ancora più vero nel caso in cui il discorso verta sul particolare argomento delle Ricerche, vale a dire il male: e invero non si tratta di spiegare all’incirca come il male diventi reale nell’uomo singolo, ma la sua universale attività, ossia come abbia potuto scaturire dalla creazione come un principio assolutamente generale, dappertutto in lotta col bene. Poiché esso, almeno come opposizione generale, è innegabilmente reale, non vi può essere fin da principio nessun dubbio che sia stato necessario alla rivelazione di Dio (SW VII, p. 373; RF, p. 106).

Il male va compreso non nella sua manifestazione singola, ma quale principio cosmico generale. Da questo punto di vista, peraltro, il filosofo non dubita che esso sia «necessario» (notwendig) alla rivelazione di Dio. L’emergere del finito, l’irriducibilità del reale rispetto al possibile di cui si è dato conto pochissime righe fa non bastano ad incrinare l’intima compiutezza di un filosofare che, in un modo o nell’altro, continua a volere se stesso come sistemico 3

Questo tratto del pensiero schellinghiano emerge con particolare chiarezza nella lezione VIII sulla Filosofia della Rivelazione, laddove viene sottolineato con forza il primato del notwendig Existierendes (il necessariamente esistente). Su questo punto ci permettiamo di rinviare al nostro La portata metafisica del primato del notwendig Existierendes, presente in A. Allegra – G. Marchetti (a cura di), Le forme dell’oggetto. Percorsi della rappresentazione nella filosofia moderna, Morlacchi, Perugia 2007, pp. 79-94. Per una introduzione al problema della metafisica dell’atto ed alla parabola storica di una filosofia in grado di salvaguardare la precedenza dell’essere sul pensare si faccia invece riferimento a E. Gilson, L’essere e l’essenza, a cura di R. Frattini e M. Roncoroni, Massimo, Milano 1988. Segnatamente alle pp. 174-216 viene affrontata dall’autore la questione del rapporto della metafisica dell’atto in relazione alla rivoluzione kantiana ed all’idealismo di Hegel: pur non essendo Schelling direttamente menzionato, il discorso getta lumi interessantissimi circa il plesso dell’esistenza e della filosofia positiva.

Il male nella storia

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e non concede sconti alla contingenza: la realtà del male serve la causa della più alta affermazione del bene4. Ed è proprio la natura principiale, cosmica del male a non poter fare di quest’ultimo un semplice incidente di percorso, giacché ogni essere può rivelarsi soltanto nel suo opposto, l’amore solo nell’odio, l’unità nella discordia. Se non vi fosse nessuna separazione dei principi, l’unità non potrebbe mostrare la sua onnipotenza: se non ci fosse dissidio, non potrebbe divenir reale l’amore (SW VII, p. 373; RF, p. 106).

L’esistenza di questa polarità dialettica degli opposti – e non dei contrari – che Schelling fa sussistere fra bene e male, lo porta a valutare per un istante l’eventualità del dualismo quale spiegazione più logica e coerente: ora pare che la sollecitazione al male possa derivare soltanto da un essere fondamentalmente malvagio, e che l’assunzione di un tal essere sia proprio inevitabile, e giustissima quella interpretazione della materia platonica, secondo cui essa è un Dio originariamente opposto, e perciò un essere in sé malvagio (SW VII, p. 374; RF, pp. 106-107).

Naturalmente, però, questa ipotesi viene subito scartata sulla scorta di quanto da Schelling detto nelle pagine precedenti e di seguito subito riconfermato: il male non nasce nel creatore, anzi esso come tale, può sorgere soltanto nella creatura, poiché soltanto in essa la luce e la tenebra, ossia i due principi, possono essere uniti in maniera separabile (SW VII, pp. 374-375; RF, p. 107).

L’unità in cui Dio consiste è inseparabile perché Dio, uscendo dal proprio fondamento, ha reso definitivamente attuale la posizione del fondamento come possibilità di esistenza e non come esistente. Ma questa articolazione, che in Dio è originaria, nella creatura è divenuta, ed è pertanto instabile5. 4

5

Adriano Bausola riteneva che questo tratto resti confermato nel corso dell’intero arco speculativo schellinghiano giungendo pertanto ad affermare che proprio l’ideazione di una filosofia della Rivelazione, anziché di una teologia della Rivelazione, mostrasse la tenuta dell’impianto idealistico, destinato in ogni caso a riassorbire ogni eccedenza tanto del male quanto dell’esistenza. Da questo punto di vista la lettura di Bausola, proposta nel saggio Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Vita e Pensiero, Milano 1965, dipende per molti versi dal fondamentale studio di W. Schulz, Die Vollendung des deutschen Idealismus in der Spätphilosophie Schellings, Neske, Pfullingen 1955. Pare evidente come questo sia uno dei punti più ardui nell’ambito della proposta contenuta nelle Ricerche: «date le predette condizioni teoretiche questo può essere

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L'essenza della libertà

A questo riguardo va detto che qui si incontra un nodo problematico di formidabile complessità, dallo scioglimento o meno del quale dipende direttamente il senso ultimo da assegnare al pensiero di Schelling. Da un lato è chiara la distinzione fra la differente struttura ontologica del creatore e quella della creatura, imperniata sulla differenza che intercorre fra un’unità inseparabile ed una separabile; dall’altro risulta tuttavia difficile non riferire anche alla prima quella natura di “fondamento mobile” che sembra spettarle in virtù della relazione fra fondamento ed esistenza, l’approfondimento della quale ci costringerebbe però ad eccedere l’ambito delle pagine oggetto del presente intervento6. Ci basti però riportare all’attenzione del lettore il fatto che Dio può esser definito come «esistente», in quanto ha egli stesso ancorato la propria esistenza alla riconduzione a latente potenzialità del fondamento, con la conseguenza – del tutto accettata ad anzi rivendicata da Schelling nelle pagine precedenti delle Ricerche come passo in avanti rispetto al «morto Dio-sostanza» di Spinoza – che in questo movimento di auto fondazione risiede il principio della “vitalità” dell’Assoluto schellinghiano. L’unità di Dio è pertanto eterna, perché conseguita prima del tempo,

6

un programma plausibile ma la sua realizzabilità non è per questo garantita. Al di là di ogni considerazione sulla bontà o meno della distinzione fra fondamento ed esistenza nell’ambito della filosofia della natura, ritengo che l’utilizzo di tale distinzione in Dio sia non meno rovinoso delle ipotesi emanazionistiche e dualistiche giustamente respinte da Schelling»; trad. nostra (W. Jaeschke, Freiheit um Gottes willen, in H.M. Baumgartner – W. Jacobs (Hrsg.), Schellings Weg zur Freiheitsschrift. Legende und Wirklichkeit, Fromman-Holzboog, Stuttgart 1996, pp. 202-223). Sull’idea di “fondamento mobile” riposa l’interpretazione del pensiero schellinghiano di cui si trova migliore testimonianza nelle pagine iniziali dello studio di S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Bari 2006. Givone, che dichiara apertamente il debito contratto nei confronto di Pareyson citato quale principale esponente di una “ontologia della libertà” da opporre alla “ontologia della necessità” di Severino, spiega che o il principio viene posto come “essere” o viene posto come “nulla”, laddove con quest’ultimo termine si intende la perenne e suprema disponibilità di Dio a trascendere persino il proprio essere, oltre che il Suo diritto a non essere fatto oggetto dell’attività giudicativa del nostro pensiero entificante. Evidentemente ciò che è “nulla” quoad nos è “tutto” sub spaecie aeternitatis. In questo modo Givone scava un solco profondo fra Schelling e quella stessa “metafisica dell’atto” di cui si è detto supra, nota n.3, riconducendo il filosofo di Leonberg a ciò che, impropriamente, potremmo specularmente definire come una “metafisica della potenza”. Impossibile non scorgere sullo sfondo la riflessione di Heidegger, nella quale si consuma il consapevole rovesciamento del primato aristotelico dell’atto in favore di un primato della potenza. Su questo punto, data anche la strettissima attinenza con il testo schellinghiano qui in esame, si rinvia senz’altro a M. Heidegger, Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, a cura di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli 1998.

Il male nella storia

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ma nondimeno è essa stessa “divenuta”: se quella della possibilità del male in Dio è certo una possibilità da sempre esclusa, essa resta tuttavia sullo sfondo, né l’impostazione del pensiero schellinghiano sembra in grado di scacciarla, pena la rinuncia all’intuizione fondamentale che la anima7. Torniamo ora a seguire il ragionamento schellinghiano. La domanda sul male si presenta in questo modo: la questione è appunto sul modo come abbia potuto il male sorgere per la prima volta in una creatura. Perciò, dunque, a chiarire il male non ci è dato altro al di fuori dei due principi in Dio (SW VII, p. 375; RF, p. 107).

Quella sul male è una domanda che prende le mosse dalla creatura, l’animo della quale è l’unico luogo in cui si possa iniziare a fare esperienza del male, ma che da essa risale al creatore, in quanto la risposta non si trova sul piano creaturale poiché questo, non potendo esibire la propria ragion d’essere, rinvia a ciò che gli sta alle spalle. Anche in questo caso riemerge la già sottolineata ambiguità del discorso schellinghiano: il problema si mostra nell’uomo, ma la sua risoluzione può essere ritrovata solo in Dio, meglio ancora nella “struttura interna” di Dio, vale a dire i «due princìpi» in esso, con il che anche il creatore viene coinvolto nel discorso. Molta della successiva ricerca su Dio di Schelling può essere intesa come lo sforzo di dare alla luce quella che potremmo definire una nuova “teodicea idealistica”, mirante per l’appunto ad allontanare il più possibile il sospetto che la cupa opacità del principio tenebroso del male possa in qualche modo offuscare la pura luce di Dio. Nel 1809 Schelling non è ancora giunto ad una piena messa a fuoco del problema, né è probabilmente del tutto consapevole di quanto lontano potrà egli arrivare mettendo a tema in modo analitico la distinzione fra esistenza e fondamento in Dio; tuttavia, soprattutto nelle pagine conclusive dello scritto in questione, si ha già un assaggio delle difficoltà alle quali la riflessione schellinghiana si espone, precisamente nell’introduzione del plesso Grund – Ur-Grund – Un-Grund8. Ma de hoc satis: ciò che ora ci 7

8

Su questo punto seguiamo la lezione di Pareyson. Quest’ultima, anche nella forma nella quale viene riproposta da Givone, enfatizza la dimensione tragica del pensiero schellinghiano sul male, facendo leva sull’idea-guida del male in Dio, inteso come eventualità scartata ab aeterno da Dio stesso nell’atto autofondativo nondimeno in certo modo presente, se non altro come residuo di opacità, ed in grado di intaccare ogni metafisico ottimismo. Su questo punto cfr. L. Pareyson, Un discorso temerario: il male in Dio, in «Annuario Filosofico», 1988 (IV), pp. 7-55. Circa la specifica difficoltà del plesso in questione, inteso allo stesso tempo come vertice speculativo delle Ricerche e luogo di “involuzione” della riflessione schellinghiana, ci sia consentito di rinviare al nostro Grund, Urgrund, Ungrund. La

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L'essenza della libertà

interessa è il modo in cui Schelling collega la dialettica dei principi in Dio alla creatura per farne la chiave di volta del problema del male. Egli dice: il volere del fondamento fin dal principio della creazione eccita il volere individuale della creatura (SW VII, p. 375; RF, p. 108).

La prima considerazione possibile al riguardo è la seguente: al volere del fondamento in Dio corrisponde il volere individuale della creatura, dal che si evince che al volere dell’esistenza – o volere «dell’amore»9 – in Dio corrisponda il volere universale nella creatura. Seconda considerazione: questi rapporti non hanno semplice valore euristico o teoretico; al contrario essi esprimono le dinamiche profonde sulle quali si innerva la volontà umana, al punto che il volere divino del fondamento è mozione prima del volere individuale umano. La domanda decisiva è a questo punto quella che indaga sul motivo per il quale il volere del fondamento in Dio dovrebbe essere così interessato ad agire sul volere individuale umano. Rispondere a questa domanda equivale a nostro parere a collocare nella giusta posizione tutte le pagine delle quali ci stiamo occupando e, sia per questo motivo sia perché la risposta si presenta in effetti più avanti nel testo, ci riserviamo di tornare sull’argomento a mò di conclusione. Per adesso cerchiamo di penetrare più a fondo il senso delle parole schellinghiane: stabilita la natura del rapporto fra i due princìpi divini ed umani, resta la questione di capire cosa effettivamente possa comportare quella «eccitazione del volere individuale della creatura» da parte del volere del fondamento, e come essa possa gettare lumi sul problema del male. Risponde Schelling: uno sguardo su tutta la natura ci convince che quest’eccitazione è avvenuta, per cui ogni vita ha raggiunto l’estremo grado dell’acutezza e della determinazione (SW VII, p. 376; RF, p. 108).

La «determinazione» dei viventi, la loro diversificazione, presente in natura «in estremo grado», è conseguenza dell’affermazione del volere in-

9

domanda senza risposta al termine della Freiheitsschrift di F. W. J. Schelling, in «Giornale di metafisica», 28, 2006, pp. 111-129. Quest’ultimo viene definito da Buchheim come «forma rafforzata ed altissima di gioia nei confronti di ogni esistenza altra da sé»; trad. nostra (T. Buchheim, Das Prinzip des Grundes und Schellings Weg zur Freiheitsschrift, in H. M. Baumgartner – W. Jacobs (Hrsg.), Schellings Weg zur Freiheitsschrift, cit., p. 231). Mentre il volere dell’amore è espansivo e per questo evidentemente aperto all’alterità, quello del fondamento è centrato su se stesso: esso diviene principio del male nel momento in cui tale tendenza centripeta viene ad ostacolare ed a contrapporsi positivamente a quella centrifuga del primo.

Il male nella storia

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dividuale: è traccia visibile di un male che, da puramente eventuale in Dio, è divenuto reale nell’uomo. Schelling ricava questa informazione – l’avvenuta realizzazione della possibilità del male – dall’osservazione della natura: il dato osservato ed esperito costituisce così il punto di partenza di un cammino che, ben lungi dal dedurre dall’alto la struttura del reale, parte dal basso e ne cerca le trascendentali condizioni di possibilità. In aggiunta a ciò, viene in questo modo confermata l’idea schellinghiana di un male non semplicemente delimitato alla sfera morale, ma inteso quale fondamento originario dell’esistenza, in quanto tende a farsi attuale nell’essere creato, e quindi di fatto è soltanto la più alta potenza del fondamento che agisce nella natura (SW VII, p. 378; RF, p. 109).

A questo punto, in cui è chiaro come Schelling ritenga la storia ed il mondo umani come il grande palcoscenico destinato ad ospitare l’incontro e lo scontro dei due princìpi cosmici, il discorso del filosofo prende momentaneamente congedo dalla speculazione e viene a considerare la sua applicazione alla storia stessa, inaugurando il secondo momento della nostra analisi. 3. I due princìpi all’opera: primo discorso storico. È un’esigenza profonda, quella che spinge costantemente Schelling a “prendere sul serio” la finitezza, nella convinzione che in essa si riveli qualcosa di altrimenti ineffabile. Le dinamiche reciproche dei due principi informano di sé la storia umana e forniscono al filosofo una chiave ermeneutica privilegiata e definitiva. Si inizia dall’origine, dal tempo più antico: questo tempo antichissimo comincia però con l’età dell’oro, della quale è rimasto all’attuale stirpe umana un debole ricordo soltanto nella leggenda, un tempo di beata indifferenza, dove non c’era né bene né male (SW VII, p. 379; RF, p. 110).

Il senso di deja-vu che si impadronisce di chiunque abbia presenti le successive lezioni sulla filosofia della Mitologia non potrebbe essere più forte: è evidente che l’applicazione alla storia umana di quella che Schelling chiamerà più tardi Potenzenlehre è un vero punto forza del suo pensiero10. All’indistinzione originaria, l’indeterminata potenza di essere, l’abis10

La “dottrina delle potenze”, cui Schelling attende analiticamente nelle lezioni XXIII della Filosofia della Rivelazione, è l’autentica intelaiatura speculativa dell’ultima riflessione del filosofo di Leonberg. Nell’idea di «tensione» (Spannung) extra-

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so del fondamento in Dio fa riscontro, nella storia umana, l’antichissimo tempo di «beata indifferenza», «l’età dell’oro in cui non c’era né bene né male». L’uomo conserva un pallido ricordo di questo tempo «soltanto nella leggenda»11. Ma l’età dell’oro, come insegna la tradizione, è destinata a svanire, a cedere il passo ad altre età. Schelling accetta questa impostazione ma nel suo sistema essa discende da una serie causale ben precisa, determinata dalle relazioni fra i due princìpi in lotta fra loro. L’età del ferro appare allorché il principio che agiva nel fondamento apparve finalmente come principio conquistatore della terra, per sottomettere tutto e fondare un solido e duraturo regno della terra (SW VII, p. 379; RF, p. 110).

Ancora una volta ci interroghiamo sul motivo di questa attività malevola del volere del fondamento nei confronti dell’umanità ed ancora una volta chiediamo al lettore la pazienza di attendere la risposta fino a che questa non venga esplicitamente fornita da Schelling. Ma l’impressione destata nell’immaginazione dall’idea della storia umana come luogo nel quale si danno convegno i massimi princìpi cosmici resta fortissima: sempre più distinta appare la tendenza del fondamento, che, presagendo la luce che sta per venire, comincia già a porre tutte le forze fuori dell’indifferenza, per incontrarla in piena opposizione (SW VII, p. 379; RF, p. 110).

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divina Schelling esprime qui chiaramente come tale articolazione sia destinata ad informare di sé l’intero reale, alla luce di un sistema nel quale le singole potenze si rivelano come princìpi cosmici e teogonici, situandosi alla base delle varie forme e personificazioni – dapprima mitologiche, poi rivelate – nelle quali il divino si manifesta alla coscienza umana. Su questo punto cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 329-485 e Id., Filosofia della Mitologia, a cura di L. Procesi, Mursia, Milano 1990, pp. 33-59. Non è poi così lontano il 1793, quando uno Schelling appena diciottenne dedicava proprio a miti e leggende il secondo dei propri scritti. D’altro canto, è necessario notare come in quel caso l’interesse del filosofo, variamente influenzato da Heyne e Herder, si appuntasse al mito non in quanto racconto delle origini, ma quale luogo di fondazione identitaria. Probabilmente è questo il punto di partenza di quella che, dopo l’incontro con gli Schlegel, sarebbe diventata la teorizzazione schellinghiana della via al mito moderno presente nella Filosofia dell’Arte del 1803. Circa il primo punto cfr. F. W. J. Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo, a cura di F. Forlin, Mimesis, Milano 2009; circa la genesi della nozione di mito moderno in Schelling vedansi invece C. Cesa, La filosofia politica di Schelling, Laterza, Bari 1969, pp. 30-54, M. Cometa, Iduna. Mitologie della ragione, Novecento, Palermo 1984, pp. 70-82 e T. Griffero, Senso e immagine. Mito e simbolo nel primo Schelling, Guerini, Milano 1994, pp. 213-237.

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Non solo il volere del fondamento, ma anche quello dell’esistenza segue – o forse sarebbe meglio dire: determina – le linee di evoluzione della vicenda umana, entrando nel tempo e nello spazio come «luce che sta per venire». A questo punto non è più la filosofia della Mitologia ad essere evocata, ma quella della Rivelazione12, ed è lo stesso Schelling a dirlo con le notissime parole che seguono: poiché solo il personale può salvare il personale, e Dio deve divenire uomo, affinché l’uomo vada di nuovo a Dio. Ristabilito il rapporto del fondamento con Dio, solo allora è data di nuovo la possibilità della guarigione (SW VII, p. 380; RF, p. 111).

Esiste un culmine ben precisato nel confronto fra i due principi, ed è quello in cui il volere dell’amore si fa egli stesso creatura, nell’Incarnazione: a quel punto comincia una consapevole lotta del bene e del male che dura fino al termine del presente, lotta in cui appunto Dio si rivela come spirito, cioè come reale actu (SW VII, p. 380; RF, p. 111).

Questa lotta non si svolge solo di fronte all’uomo, ma anche in lui. Già abbiamo detto che, in generale, il volere individuale della creatura è principio del male, e che la sua attivazione riposa su quella del volere del fondamento in Dio. Ora aggiungiamo un tassello: una naturale tendenza dell’uomo al male sembra spiegabile già con ciò, che il disordine delle forze introdotto con il risveglio del volere individuale della creatura, gli è stato partecipato fin dalla nascita (SW VII, pp. 380-381; RF, p. 111).

L’uomo nasce con il marchio di una «naturale tendenza al male», spiegabile col fatto che il «risveglio del volere individuale della creatura» ha già da sempre avuto luogo. Anche questo passo sembra convalidare l’impressione che il creato qua talis sia percorso da un’inquietudine che non può che derivare dal volere del fondamento, ossia in qualche modo da Dio stesso: Schelling si avvede del rischio di fraintendimento cui la sua posi12

Al termine del processo mitologico, coincidente per Schelling con una vera e propria “schiavitù” della coscienza di fronte alle potenze, si inaugura, con la Rivelazione, l’età della libera relazione fra Dio ed umanità. Le scansioni delle potenze, tuttavia, non per questo perdono la loro validità: è in base alla loro successione che il divino giunge alfine a mostrarsi come Persona ed a fare il Suo ingresso fisico nella storia, non più in forma mitologica ma in forma ormai reale. Cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, cit., pp. 883-963 e L. Procesi, La genesi della coscienza nella Filosofia della Mitologia di Schelling, Mursia, Milano 1990.

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zione soggiace, dal momento che più la tendenza al male viene pensata come originaria e naturale più si finisce col dover fare i conti con una teodicea, e si affretta ad aggiungere che nonostante questa generale necessità il male rimane sempre una scelta propria dell’uomo: il male come tale non può costituire il fondamento, e ogni creatura cade per propria colpa. Ma come mai ora accada nel singolo uomo la decisione al bene o al male, questo è ancora completamente oscuro, e sembra esigere una particolare ricerca (SW VII, pp. 381-382; RF, p. 112).

Ma l’affermare una necessità come tale non equivale al dimostrarla, ed il semplice dire che «ogni creatura cade per propria colpa» ha tutto il tono di un asserire apodittico che intende chiudere la discussione senz’altro indugiare. Che il male “come tale” non costituisca il fondamento è acquisito: il male consiste eventualmente nel fondamento che vuol farsi esistente, che dal regime di pura potenzialità di esistere vuol passare all’atto. Per questo motivo esso non è mai presente in Dio, in quanto Dio conserva il fondamento come ciò che è stato da sempre escluso. Tuttavia non può d’altro canto essere messo in dubbio che nel fondamento – anche quello di Dio – giaccia addormentato il principio del male. Non è forse il volere del fondamento ad eccitare il volere individuale della creatura? E come può la creatura cadere «per propria colpa» se il disordine delle forze le è stato «partecipato fin dalla nascita»? 4. La libertà in questione: secondo discorso speculativo. Precisamente a queste domande intende dare risposta Schelling introducendo direttamente il problema della libertà. Quest’ultimo, peraltro, era già stato fatto oggetto dell’attenzione schellinghiana nelle pagine precedenti, allorché la libertà era stata definita come «facoltà del bene e del male». Ma quella definizione vale soprattutto per Dio ed è da porsi in relazione con la scoperta della distinzione fra esistenza e fondamento, sulla quale a sua volta riposa quella fra volere dell’amore e volere del fondamento. Ora invece si tratta precipuamente della libertà umana, riguardo alla quale Schelling scrive: in linea generale, solo l’idealismo ha elevato la dottrina della libertà su quel terreno, dove soltanto è comprensibile. L’essenza intelligibile di ogni cosa, e specialmente dell’uomo, è, secondo l’idealismo, fuori di ogni connessione causale, così come è fuori o sopra il tempo. Perciò non può mai esser determinata da qualcosa che precede, giacché anzi essa medesima precede come assoluta unità tutto quello che è o diviene in essa, non secondo il tempo, ma secondo il concetto (SW VII, p. 383; RF, p. 113).

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Il riferimento ad una «causalità secondo concetto» rende esplicito il debito contratto da Schelling nei confronti di Kant13: noi esprimiamo così il concetto kantiano, non proprio esattamente con le sue parole, ma tuttavia così come crediamo che dovrebbe venir espresso per essere comprensibile (SW VII, pp. 383-384; RF, p. 113),

il che vuol dire che, al pari di Fichte, Schelling crede di poter interpretare lo “spirito” della filosofia kantiana procedendo oltre la “lettera” della stessa. In realtà, nell’idea che la natura umana secondo quell’essenza che essa è, cioè secondo la propria natura, dovrebbe servire di determinazione a se stessa (SW VII, p. 384; RF, p. 114)

si rinviene ben più della soggettività metafisica fichtiana che di quella trascendentale kantiana, del che in effetti si avvede lo stesso Schelling allorché trae le somme di quanto fin qui detto scrivendo: l’Io, dice Fichte, è il suo proprio atto; coscienza è posizione di sé, e l’Io non è niente di diverso da questo, ma appunto la stessa posizione di sé (SW VII, p. 385; RF, p. 114).

Il termine Tat = atto dell’autoposizione, impiegato da Schelling, è termine fichtiano per eccellenza e Schelling cita infatti l’autore della Dottrina della Scienza senza reticenze. Resta tuttavia notevole il fatto che l’intuizione dell’intero plesso venga ricondotta a Kant, al quale si dovrebbe il passaggio epocale da una filosofia che cerca di dimostrare la realtà del libero arbitrio esibendo la indeterminazione del soggetto, ad una che persegue il medesimo scopo esibendo la capacità di autodeterminazione dello stesso. Libero è non quel soggetto che semplicemente non figura più all’interno della catena di nessi causali non avendo alle sue spalle nessun fattore causante, ma quello che non vi figura più perché in grado di ritornare circolarmente su se stesso, rompendo in questo modo il rapporto causa-effetto. Debito nei confronti di Kant, dunque: ma questo debito si spinge ancora più avanti e per porne in luce l’intera estensione dobbiamo passare all’ultima parte del nostro discorso, nella quale Schelling torna a rivolgere la sua attenzione alla storia. 13

Per quel che concerne la presenza di Kant nelle Ricerche si faccia riferimento a J. Hennigfeld, F. W. J. Schellings »Über das Wesen der menschlichen Freiheit«, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2001, pp. 97-110.

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Dopo che nella creazione, attraverso la reazione del fondamento alla rivelazione, è stato suscitato il male, l’uomo si è concentrato dall’eternità nell’individualità e nell’egoismo, e tutti coloro che nascono sono generati con l’annesso tenebroso principio del male (SW VII, p. 388; RF, p. 116).

I punti decisivi sono due: il suscitamento del male «attraverso la reazione del fondamento alla rivelazione», e «l’annesso tenebroso principio» col quale gli uomini vengono al mondo. In realtà i due punti sono uniti dal momento che l’universale realtà del principio tenebroso può affliggere gli uomini fin dalla nascita solo in quanto l’evocazione del male è avvenuta «dall’eternità», mediante una «reazione del fondamento» che non può evidentemente dipendere soltanto dall’uomo. Qui, crediamo, il sistema schellinghiano rischia di fare corto circuito, perché da un lato intende preservare quale asserto inconfutabile il fatto che l’uomo cada «per propria colpa», ma dall’altro pretende anche di mostrare la generale ed insuperabile affezione malvagia che avvolge ogni uomo «sin dalla nascita»14. Parlando di un male suscitato al contempo dall’uomo ma «dall’eternità», Schelling intende indubbiamente fare i conti con la dottrina del Peccato Originale, tentando di presentare il male come originato da una scelta eterna perché fatta da quello che, nelle lezioni sulla filosofia della Rivelazione, sarà chiamato Urmensch = l’uomo primigenio15, l’Adamo che pecca prima della storia e del tempo, e dunque in senso stretto dall’eternità, ma le conseguenze del peccato del quale si fanno sentire nella storia, e che anzi, a rigor di logica, istituiscono la storia in quanto, per così dire, luogo della morte, dell’errore, e del male. Il problema supplementare del dover fare i conti con la – già di per sé spinosa – dottrina del Peccato Originale consiste a nostro parere nella differenza che intercorre fra il Dio del Genesi ed il Dio di Schelling. Il primo, infatti, consta di pura luce, di puro essere. Il secondo di luce che è uscita dalle tenebre, di essere autofondantesi, di un’esistenza attuale – per usare i termini specifici delle Ricerche – che ha alla propria base un fondamento puramente potenziale16. Nell’ambito di quest’ultima 14

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Circa questa difficoltà della posizione schellinghiana riportiamo quanto scrive Hennigfeld, per il quale «dal momento che qualcosa può rivelarsi solo nel suo contrario, il male deve divenir reale in modo da rendere possibile la più alta rivelazione del bene e la compiuta efficacia dell’amore. Ma come può l’uomo esser caricato della responsabilità di questo processo universale? È ancora possibile pensare in modo sensato la libertà finita se quest’ultima viene riassunta all’interno di una necessità infinita?»; trad. nostra (J. Hennigfeld, F. W. J. Schellings «Über das Wesen der menschlichen Freiheit», cit., p. 109). Cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, cit., pp. 565-637. Su questo punto, peraltro già sfiorato supra, nota 5, può essere di una certa utilità il confronto con la polemica anticartesiana presente nello studio di C. Journet, Il male.

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costellazione di pensiero Adamo non è appeso alla contingenza del creato al pari di ogni altra creatura, perché coincide con quello Urmensch che Schelling definirà Dio divenuto, o, detto in modo ancora più pregnante, coscienza di Dio. Anche se nel 1809 Schelling non giunge ancora ad una tale chiarezza di espressione, già si può dire che la colpa di un uomo che cade dopo esser già nato «con l’annesso tenebroso principio del male» ed in virtù di un suscitamento del male che affonda le sue radici in una reazione alla rivelazione del fondamento stesso, finisca col gettare una luce sinistra non solo sull’intera creazione, ma su Dio medesimo, come dirà Pareyson17. Ma Schelling rifiuta questa ipotesi, e preferisce concentrarsi sulla costituzione dell’uomo: soltanto quel male introdotto per propria azione, ma fin dalla nascita, può quindi chiamarsi il male radicale, ed è degno di nota che Kant, il quale non si era innalzato nella teoria a un atto trascendentale, determinante tutto l’essere umano, semplicemente attraverso la fedele osservazione del fenomeno del giudizio morale sia pervenuto in ulteriori ricerche al riconoscimento di un fondamento soggettivo (come egli si esprime) delle azioni umane, che precede ogni atto che cada sotto i sensi, e che tuttavia deve essere esso medesimo ancora un atto di libertà; mentre Fichte, che aveva formato nella speculazione il concetto di un tale atto, nella dottrina dei costumi si rinchiuse di nuovo nel filantropismo dominante, e volle trovare quel male che precede ogni azione empirica soltanto nella pigrizia della natura umana (SW VII, p. 389; RF, p. 117).

La vera questione è dunque quella del radikal Böse, di un male radicale che dev’essere allo stesso tempo «introdotto per propria azione» ma «fin dalla nascita». Schelling svela qui il secondo motivo del suo debito nei confronti di Kant. Quest’ultimo, com’è noto, introdusse nella discussione filosofica il termine di «male radicale»18, attingendo, a parere di Schelling,

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Saggio teologico, a cura di B. Massara, Borla, Roma 1993, pp. 105-106. La critica dell’autore, infatti, può essere estesa non solo a Cartesio ma all’intero panorama di quel paradigma di pensiero mirante al ribaltamento del primato dell’atto sulla potenza. In questo progetto, nel quale Journet vede una prosecuzione del volontarismo medioevale di Ockham, si lascia a nostro parere cogliere alla perfezione quella differenza fra il Dio delle Ricerche ed il Dio del Genesi di cui si è detto nel testo. Circa il confronto fra volontarismo francescano e metafisica dell’essere tomista si faccia invece riferimento al già citato studio di E. Gilson, L’essere e l’essenza, cit., pp. 71132; cfr. anche C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione, EDIVI, Roma 2005, pp. 325-347, in cui l’accento è posto sull’originalità della sintesi tomista. Cfr. supra, nota 6. Con la nozione di radikal Böse Kant intende la «tendenza innata di invertire i moventi nelle massime del nostro arbitrio». Va detto peraltro come per Kant tale presenza si giustifichi in ambito morale, dal momento che essa esiste «affinché, nel rispetto incondizionato per la legge, sia restaurato l’originario ordine morale

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ad un livello di profondità maggiore di quello sul quale si muove lo stesso Fichte19. Solo Kant, infatti, ha teorizzato il male radicale come insopprimibile predisposizione dell’uomo al male, che Schelling evidentemente traduce come una sorta di retaggio del volere del fondamento. E come quest’ultimo in Dio consiste nell’opposizione al volere dell’amore, dell’unità, così nell’uomo esso corrisponde al volere dell’individuo, in modo che la generale possibilità del male consiste, come si è detto, in ciò, che l’uomo, invece di fare della sua individualità la base e l’organo, può innalzarla a principio dominante, e a chiave di ogni volere, cercando invece di rendere lo spirituale in sé un mezzo (SW VII, p. 389; RF, p. 118).

Non l’individuale in sé, ma l’individuale voluto per sé, ossia come universale, esprime la realtà del male umano: realtà, quest’ultima, che riposa in ogni caso sul volere del fondamento in Dio perché, come sappiamo, da quest’ultimo «eccitata». 5. Conclusione. Il volere del fondamento e la creatura: secondo discorso storico Giunti a questo punto siamo in grado di seguire Schelling nel momento successivo, consistente nella risposta alla domanda circa la ragione di quello che potremmo definire “interessamento” del volere del fondamento alla perdizione della creatura. La risposta, in altre parole, alla domanda: perché il volere del fondamento in Dio dovrebbe eccitare il volere individuale della creatura? In virtù di questo legame, infatti, Schelling ha già descritto

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tra i moventi e sia quindi ristabilita, nel cuore dell’uomo, la disposizione al Bene in tutta la sua purezza». Cfr. I. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2001, p. 141. Per una puntualizzazione sintetica della presenza di Fichte nelle pagine di nostro interesse delle Ricerche si faccia riferimento a W. Jacobs, Die Entscheindung zum Bösen oder Guten, in O. Höffe – A. Pieper (Hrsg.), Über das Wesen der menschlichen Freiheit, Akademie Verlag, Berlin 1995, pp. 125-148. Osserva Jacobs che «la difesa dell’idea che la libertà consista nell’autodeterminazione dovrebbe essere intesa come polemica nei confronti del Sistema di etica di Fichte del 1798. Che Schelling si contrapponga a Fichte diviene particolarmente chiaro nel momento in cui egli si serve di Kant contro di lui»; p. 135, trad. nostra. La distanza che separa Fichte e Schelling viene riassunta da Jacobs in questo modo: «mentre Fichte considera l’uomo in quanto essere collocato all’interno del tempo e non fonda la libertà in Dio, Schelling tratta dell’essenza trascendentale dell’uomo e radica la sua libertà nella natura di Dio»; p. 146, trad. nostra.

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nelle pagine precedenti il volere del fondamento come «principio conquistatore della terra», impegnato a «sottomettere tutto»; si tratta ora di capire il motivo di questo stato di cose. Scrive il filosofo: a ragione esso viene rappresentato non soltanto come nemico di ogni creatura (perché questa sussiste soltanto per il vincolo delle forze) e particolarmente dell’uomo, ma anche come suo tentatore, che lo alletta al falso piacere e ad accogliere il non essere nella sua immaginazione, nel che viene aiutato dall’inclinazione al male propria dell’uomo, i cui occhi, non potendo sostenere lo splendore del divino e della verità, sempre ripiegano verso il non essere. Così ha principio il peccato, che porta l’uomo dal vero essere al non essere, dalla verità alla menzogna, dalla luce alle tenebre, per diventare esso medesimo principio creativo e, con la forza del centro, che ha in sé, dominare tutte le cose (SW VII, p. 390; RF, p. 118).

Le parole decisive sono quelle che Schelling mette fra parentesi. Il volere del fondamento è nemico di ogni creatura perché questa sussiste in conseguenza del «vincolo delle forze». La locuzione tedesca merita in questo caso di essere citata per la sua maggiore pregnanza: la creatura sussiste in virtù del Band der Liebe = vincolo dell’amore, nel quale Dio stesso, evidentemente, consiste. La creatura attesta l’avvenuto conseguimento dell’equilibrio divino, l’avvenuta riduzione del volere del fondamento a pura base del volere dell’amore o, ancora, l’avvenuta uscita di Dio dal proprio fondamento, dal momento che solo Dio in quanto tale, in quanto esistente volere dell’amore, e non in quanto “Dio prima di Dio”, “Dio originario” cui allude l’eterna possibilità contenuta nel fondamento, può comprovare la propria conseguita attualità con l’atto d’amore per antonomasia, vale a dire la Creazione. Di conseguenza, mettere in discussione l’equilibrio del quale consta la creatura equivale in certa misura al rimettere in discussione lo stesso equilibrio divino e poiché quest’ultimo si realizza mediante la riduzione a latente possibilità del fondamento, inevitabilmente è questo ciò che il volere del fondamento ha di mira, allorché intende farsi attuale. È come se la vicenda storica della creazione, che trova il suo compimento nella vicenda umana, consentisse al volere del fondamento di disporre di una seconda possibilità, dopo essere già stato sconfitto dal volere dell’amore di Dio nel momento stesso in cui Dio è venuto ad esistenza scegliendo l’essere anziché il nulla. Ecco dunque che i due princìpi si affrontano per la seconda e decisiva volta, su questa nostra Terra, prendendo la nostra forma umana, in un momento storico ben determinato nel tempo e nello spazio: ecco Satana di fronte a Cristo. Dal nostro punto di vista la posta in gioco è quella della redenzione dell’umanità, ma in realtà per Schelling la posta in gioco di questa

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tragedia cosmica è ben altra e riguarda la ridiscussione dell’intera creazione e forse, per quanto Schelling non osi mai dirlo, di Dio stesso, che al momento dell’Incarnazione sembra essere disposto a “rischiare tutto” una volta per tutte (avrebbe Cristo potuto cedere alle tentazioni dell’Avversario nel deserto? O avrebbe Egli potuto davvero allontanare da Sé l’amaro calice nel Getsemani?20), in una drammatica ripetizione di quella decisione originaria avvenuta prima di ogni tempo. L’introduzione del volere del fondamento in Dio conduce a questo genere di considerazioni. Ma il filosofo scrive: anche questo doveva esser fatto manifesto, perché soltanto in opposizione alla colpa si rivela quell’intimissimo vincolo delle cose e l’essenza di Dio (SW VII, p. 391; RF, pp. 118-119).

Vi è qui una riproposizione della dottrina della felix culpa, quale unico antidoto possibile al problema del Peccato Originale21: quest’ultimo, portando seco la necessità dell’Incarnazione per la Redenzione, rende possibile una vittoria del bene sul male, dell’essere sul non essere, del volere dell’amore su quello del fondamento che non è più solo interna a Dio, ma 20

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Schelling prende molto sul serio quest’ordine di domande nella XXXIII lezione sulla Filosofia della Rivelazione, oggetto precipuo della quale è proprio il rapporto di Cristo con Satana. In realtà sembra difficile immaginare che risposta schellinghiana ad entrambe le questioni evocate possa suonare affermativa, giacché essendo Satana la personificazione di una potenza tanto quanto lo è Cristo «egli non è un principio incondizionatamente malvagio, ma uno che è necessario alla stessa Provvidenza divina» (F. W. J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, cit., p. 1299). Troviamo qui, nell’ultima grande impresa filosofica di Schelling, la conferma di una impostazione sostanzialmente “ottimistica” che tende a convergere verso una palingenesi finale nella quale la radice stessa del male viene strappata ed il principio di questo ricondotto a pura latenza. La distanza fra la dottrina teologica e la posizione schellinghiana resta in ogni caso notevole, dal momento che in virtù dell’impianto idealistico del suo pensiero Schelling non perviene mai ad una autentica riproposizione dell’assoluta gratuità della Creazione biblica. La culpa si rivela felix dal punto di vista umano, poiché rende necessario l’intervento salvifico divino dell’Incarnazione e mostra all’uomo il Volto di Gesù Cristo, ma allo stesso tempo essa non può aggiungere nulla a Dio. Lo stesso discorso vale per la stessa Creazione, laddove «questo libero atto attraverso cui Dio si decide per la creazione è per Schelling riassorbito nel processo di esplicitazione e potenziamento della vita divina […] rinunciando alla creazione, Dio avrebbe rinunciato ad una possibilità di potenziamento della sua vita, avrebbe lasciato latenti certe possibilità del suo essere […] la libertà divina, chiaramente affermata, è indebolita dal tentativo di fonderla in maniera sottile con una necessità intrinseca del suo essere, che è spinto per così dire dall’interno al completo sviluppo, alla piena realizzazione di sé» (G. Riconda, Tradizione e avventura, SEI, Torino 2001, p. 129).

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anche esterna, con il che tutto il creato e tutta la storia potranno essere santificati e Dio potrà essere, secondo il notissimo detto paolino citato da Schelling, «tutto in ogni cosa»22. Ancora una volta, come vedemmo da principio con quel notwendig (“necessariamente”), il sistema si chiude. Che però l’argomentare schellinghiano proceda secondo un crescendo che potremmo definire “teologizzante” ce lo dimostrano le stesse parole del Nostro: il rapporto dei due principi è quello della connessione del principio tenebroso (dell’individualità) con la luce. Ci sia concesso di esprimerlo con il termine religiosità, secondo l’originario significato della parola (SW VII, p. 392; RF, p. 119).

Il senso originario della parola latina religio, stante alla base di quella tedesca Religiosität, è, com’è noto, quello di “legame”, di “relazione”. E di legame si parla anche qui, ove per l’appunto è in primo luogo Dio, ed in secondo l’uomo, a consistere nel legame reso stabile, nella relazione equilibratasi fra i due princìpi, fra i due voleri. Il discorso fatto sinora ha messo a tema soprattutto la natura di tale relazione nell’uomo e la conseguente realtà del male nella storia e nell’uomo. Ma non può sfuggire a Schelling come tale ragionamento debba trovare il suo compimento in una trattazione analitica di tale problema in Dio. Come già abbiamo avuto modo di dire, la domanda sul male nasce dallo statuto della creatura, ma esige risposta nel chiarimento di quello del creatore. Con la franchezza e l’onestà intellettuale che da sempre ne contraddistinguono i pensieri, Schelling non si nasconde di fronte all’enormità delle questioni evocate dal corso del ragionamento stante alla base delle Ricerche, un corso che probabilmente fluisce in modo non del tutto previsto dallo stesso filosofo, data la forma “libera” dei ragionamenti e la natura stessa degli argomenti in esse presenti. Schelling dovrà pertanto dedicare le pagine successive proprio a quella “teodicea idealistica” che era sua intenzione esorcizzare: Dio finora è stato considerato come un essere che rivela se stesso. Ma come si comporta verso questa rivelazione come essere morale? È essa un’azione che segue con necessità cieca e inconscia, o è un atto libero e cosciente? E se è libera e cosciente, come si comporta Dio come essere morale verso il male, la cui possibilità e realtà dipende dalla sua rivelazione? Ha egli voluto anche il male, quando ha voluto questa, e come questo volere si può conciliare con la santità e l’altissima perfezione che è in lui, o, secondo l’espressione comune, come si può giustificare Dio nei riguardi del male? (SW VII, p. 394; RF, p. 121). 22

Il senso dell’accettazione schellinghiana del detto paolino consiste nel fatto che così come in Dio il male è ricondotto a residuo di opacità latente mai attuale, questo avverrà anche nell’uomo e nell’intero creato al termine della storia.

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DAVIDE SISTO

L’INSOPPRIMIBILE MALINCONIA DI OGNI VITA (SW VII, 394-406)1

1. La personalità come compenetrazione armonica di natura e spirito La giustificazione di Dio come essere morale nei confronti della rivelazione di sé e del male rappresenta, per Schelling, la più alta questione per una ricerca sull’essenza ultima della libertà. Sebbene il discorso relativo al male in Dio e nel creato sia stato ampiamente sviluppato nelle pagine precedenti della Freiheitsschrift, tanto che Heidegger definisce la parte qui in questione come dotata di minor forza e rigore argomentativi2, il problema del comportamento divino dinanzi al male permette a Schelling di delucidare quanto sostenuto sinora con la dialettica di fondamento ed esistenza, mettendo in gioco elementi concettuali inediti, i quali svolgeranno un ruolo basilare non soltanto nell’economia complessiva dello scritto del 1809, ma anche nelle opere immediatamente successive. La questione classica della teodicea, innanzitutto, non fa altro che accentuare la distanza profonda che separa coloro i quali prediligono una rigida unilateralità speculativa, identificando ciò che non è spirituale sensu 1

2

Per quanto concerne le citazioni dalle opere schellinghiane, si farà riferimento a F. W. J. Schelling, Sämmtliche Werke, hrsg. von K. F. A. Schelling, Cotta, Stuttgart-Augusta 1856-1861, 14 Bände, edizione indicata con la sigla SW, a cui seguono il numero romano corrispondente al volume e la cifra araba corrispondente alla pagina. Dopo il riferimento al testo tedesco, verranno citati gli estremi della traduzione italiana, qualora sia disponibile, nel modo seguente: AFN = Aforismi sulla filosofia della natura, a cura di G. Moretti e L. Rustichelli, Milano, Egea, 1992; C = Clara ovvero Sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, a cura di M. Ophälders, Zandonai, Rovereto 2009; EM = Le età del mondo, a cura di C. Tatasciore, Guida, Napoli 2000; ESF = Esposizione del mio sistema filosofico, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari 1969; LS = Lezioni di Stoccarda, in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974; RF = Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit. Cfr. M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, a cura di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli 1994, pp. 263-265.

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eminenti con ciò che è materiale nel senso più grossolano, da chi invece mira a preservare i concetti intermedi in vista di un sapere – di per sé – molto più genealogico che sistematico. L’unilateralità speculativa, stabilita un’artificiale separazione del polo spiritualistico da quello materialistico, si limita a determinare la libertà divina come libertà di un puro Io astratto e autoreferenziale, a cui sono estranee l’idea del divenire in Dio e il pensiero di un’impronta spirituale nelle forme della natura. Se seguiamo la via intrapresa tanto dal puro idealismo – Fichte come prosecutore di Cartesio, il cui Cogito veniva definito da Schelling già negli Aphorismen zur Einleitung in die Naturphilosophie (1806) «l’errore fondamentale di ogni conoscenza» (SW VII, 148; AFN 34) – quanto dal puro realismo – Spinoza – ci troviamo innanzi a un Dio concettualizzato secondo schemi razionali che, nella loro inflessibilità, ne mettono in luce l’astrattezza e la debolezza vitale di fondo; un Assoluto inteso, quindi, come astrazione logica o mera identità di sé con sé, la cui perfezione è necessaria e a priori garantita. Un impersonale ordine morale del mondo, da cui tutte le cose seguono meccanicamente o con necessità logica. Tanto l’idealismo quanto il realismo, considerati nella loro artificiale unilateralità, erigono infatti la propria cattedrale filosofica sul concetto – confortante per la ragione umana, ma di per sé illusorio – di fondamento (Grund) quale ratio o principio di causalità, un fondamento che se è fondante non «non ha da essere fondato», dunque una Ursache priva di vita a partire da cui ogni cosa viene dedotta more geometrico3. A tali sistemi aridamente razionalistici Schelling contrappone una concezione – per così dire – narrativa della filosofia, il cui elemento portante consiste nella preservazione di quella centralità o intermedietà speculativa, in grado di garantire la libertà di Dio come libertà di una persona in fieri. Dunque, se la personalità, per definizione, «si fonda sul vincolo (Verbindung) di un principio autonomo con una base (Basis) indipendente da esso, in maniera cioè, che ambedue si compenetrano interamente e sono un essere solo», Dio non può che essere la «più alta personalità», nonché «spirito in senso eminente e assoluto» (SW VII, 394-395; RF 121), in quanto fondamento ed esistenza in Lui si unificano necessariamente in una realtà assoluta; tale realtà appare, ai nostri occhi, come una dinamica e vivente unità di forze armoniche. Nei più tardi Weltalter, tali concetti troveranno una loro precisa corrispondenza, là dove Schelling definisce Dio come «una sola e medesima sostanza, che da un lato, cioè da quello inferiore, assume proprietà corporee, dal lato superiore, ovvero dal lato rivolto allo spirito, si risolve 3

Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, a cura di F. Tomatis, Mursia, Milano 1998, p. 27.

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in un’essenza spirituale» (SW VIII, 284; EM 120). Ora, tenuto conto dell’insegnamento del Timeo platonico, secondo cui è impossibile che due cose si compongano bene da sole, prescindendo da una terza quale elemento che vincola l’una all’altra e, in tal modo, compie la proporzione4, la Verbindung, su cui si fonda la personalità divina come una sola e medesima sostanza corporeo-spirituale, va pensata nei termini di un legame (Band) – analogico-produttivo – di natura e spirito, il quale esplicita drammaticamente se stesso come identità che salvaguarda la differenza, che non sopprime la contraddizione ma, anzi, la produce. “Tra” (zwischen) che fa romanticamente percepire natura e spirito in senso “relazionale”, l’identità divina si distingue da qualsivoglia identità finita, giacché lega assieme due principi opposti di cui ciascuno potrebbe essere per sé, e tuttavia non lo è e non può essere senza l’altro (SW VII, 408; RF 131); questo è il mistero eterno dell’eros, con cui si identifica il Band divino e che struttura, anima e sostanzializza i due principi opposti, instaurando liberamente una relazione d’intermittenza fondata su un costante oscillare (schweben) tra visibile e invisibile. L’oscillazione tra visibile e invisibile, in cui consiste la personalità divina quale Verbindung di fondamento ed esistenza, fa sì che la libertà in Dio non possa essere mai scissa da una necessità di fondo, nella quale si rispecchia l’intento schellinghiano di salvaguardare la spiritualità – seppur embrionale – della natura, di contro all’oltraggio perpetratole dai cosiddetti «puri uomini d’intelletto» (SW VIII, 15). Il filosofo tedesco mostra, infatti, come il volere del fondamento sia un volere di natura intermedia, «un appetito o desiderio [...] strettamente paragonabile al bello slancio di una natura che diviene, che cerca di svilupparsi» (SW VII, 395; RF 122); l’appetito o il desiderio, in cui consiste la natura in Dio, attesta una volta ancora l’impossibilità da parte delle forme naturali di sussistere in virtù 4

Cfr. Platone, Timeo, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2003, pp. 93-95, 31b32a. Ma si vedano anche 36a, 38e, 41b, 43a, 73b-d, 77e. Beierwaltes mette in luce come la teoria schellinghiana del Band possa essere ricondotta, oltre al Timeo platonico, anche alle dottrine neoplatoniche dell’Anima del mondo e dell’Uno: «Come il legame schellinghiano, così l’Anima del mondo di Plotino o di Proclo “tiene unito” il tutto, lo compenetra ordinandolo, ne fonda e garantisce l’armonia col ricondurre pensando il singolo al suo principio: essa è la causa di un’analogia, mobile in sé, fra il mondo e il suo fondamento, è causa al tempo stesso della “simpatia” e dell’amore che le singole cose nutrono nel cosmo l’una per l’altra; quanto al suo essere essa è eterna, ha però per effetto il tempo e agisce nel tempo» (W. Beierwaltes, Platonismo e idealismo, il Mulino, Bologna 1987, p. 158). Sul ruolo del Band nel precedente IdentitätssystEM di Schelling si veda S. Peetz, Die Freiheit im Wissen. Eine Untersuchung zu Schellings Konzept der Rationalität, Klostermann, Frankfurt am Main 1995, pp. 122-129.

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di una semplice geometrica necessità. Irriducibile a schemi razionalmente garantiti, la natura, grazie alla Verbindung quale Band organico garante della scambievolezza reciproca tra spirituale e corporeo, contiene in sé già personalità e spirito; dimostrazione di ciò è la patente inconciliabilità dell’intelletto geometrico, che intende risolvere il mondo nella catena delle sue relazioni causali, con il carattere olistico della natura, il quale travalica qualsivoglia spiegazione meramente logico-razionale, facendoci supporre l’irrazionale rapporto della natura a sé. Ciò conduce Schelling a integrare la precedente descrizione morfogenetica del processo della creazione del mondo, inteso come «trasmutazione interna o rischiararsi nella luce del principio originariamente oscuro» (SW VII, 362; RF 99), con l’idea che la creazione sia un atto libero da parte di un Dio personale che decide di uscire dal proprio sé indifferente, contraendosi nel reale per espandersi al tempo stesso come ideale e subordinando sensim il Grund all’Existenz, in modo da attuare istante per istante una compenetrazione armonica di natura e spirito quale contemporanea trasfigurazione della natura in spirito (elevazione) e dello spirito in natura (abbassamento), in vista del raggiungimento finale di un essere spirituale-corporeo perfetto5. 2. Il sole nero della malinconia Per determinare il rapporto di Dio come essere morale al mondo e per stabilire se tutte le conseguenze dell’autorivelazione siano state da lui previste non basta, però, ancora l’esposizione della teoria del Band organico tra natura e spirito, né la conoscenza superficiale della libertà divina in un processo di creazione analogo alla metamorfosi di una forma. Semmai, l’analogia morfologica ci permette di pensare a Dio non come sistema, bensì come vita, incanalando la dialettica vigente tra spirito e natura verso quell’orizzonte teorico nel quale Schelling può finalmente esplicare in concreto la profonda differenza ontologica tra il Creatore e le creature. Il fatto che la vita presupponga necessariamente la contraddizione e il conflitto – «dove non c’è lotta, non c’è vita» (SW VII, 400; RF 125) – fa sì che ogni esistenza, compresa quella di Dio, esiga «una condizione (Bedingung) per realizzarsi, cioè per diventare esistenza personale» (SW VII, 399; RF

5

Sull’importanza che assume la mistica tedesca – soprattutto Böhme e Oetinger – nei confronti del contemporaneo processo di elevazione e abbassamento descritto da Schelling, si veda T. Griffero, Il corpo spirituale. Ontologie “sottili” da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger, Mimesis, Milano 2006, soprattutto pp. 30-42.

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124); la personalità come vita implica, in altre parole, l’impossibilità che un volere espansivo, tendente verso l’esterno e volto all’estrinsecazione, sia autenticamente reale senza la contrapposizione di un volere contrattivo, tendente – viceversa – verso l’interno e volto all’introversione. Dal momento che non ha nulla prima o fuori di sé, Dio ha la condizione della propria esistenza in sé, quindi è in grado, attraverso una decisione come atto cosciente e moralmente libero, di compenetrare amorevolmente il volere espansivo con quello contrattivo, fondando la propria assolutezza e unicità a partire dall’introversione della sua natura. Le creature, invece, hanno la condizione della loro esistenza fuori di sé, precisamente in ciò che Dio non è in sé stesso (il Grund come Natur in Dio). Nate dall’oscurità primordiale e gettate nel mondo per divenire esistenze personali, le creature ricercano strenuamente la loro identità vivente e reale, ma invano, poiché la Bedingung gli è data solo in prestito come un alcunché di indipendente; perciò, gli esseri finiti non possono mai rimuovere dallo loro esistenza quell’”oscura macchia” che rammenta lo status creaturale6. Questa è la tristezza [Traurigkeit] connessa a ogni vita finita, e sebbene in Dio pure vi sia una condizione almeno relativamente indipendente, sì che in lui vi è una sorgente di tristezza [Quell der Traurigkeit], essa però non arriva mai a realizzarsi, e serve soltanto all’eterna gioia del trionfo. Donde il velo di tristezza [Schwermut], che si stende su tutta la natura, la profonda, insopprimibile malinconia [Melancholie] di ogni vita (ibid.)7.

Lungi dall’essere il mero frutto della direzione errata presa dalle sensazioni umane o la fonte temibile della perniciosa confluenza del raccoglimento nella fantasticheria8, la malinconia in Schelling rappresenta, pertanto, uno degli snodi teorici fondamentali per accedere al centro nevralgico del suo sistema filosofico antro-cosmo-teogonico, quindi alle profondità dell’anima quale legame divino tra natura e spirito9. Condizione primaria 6

7 8 9

Cfr. F. Moiso, Dio come persona, in F. W. J. Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, commentario a cura di A. Piper e O. Höffe, edizione italiana a cura di F. Moiso e F. Viganò, Guerini e associati, Milano 1997, p. 298. Da questo noto passo schellinghiano trae ispirazione il testo di G. Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti, Milano 2005. Si vedano le considerazioni sul temperamento malinconico svolte da I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, in Id., Scritti precritici, pref. di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 306-307. Per quanto concerne il tema della malinconia nel pensiero di Schelling, ci permettiamo di rimandare al nostro Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura, pref. di G. Moretti, AlboVersorio, Milano 2009.

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del mondo, la malinconia rispecchia l’attestazione ultima del fatto che la produttività naturale e la creatività spirituale siano rette da un’unica struttura profonda, su cui si fonda l’inestricabile dialettica di necessità e libertà in Dio. Ma, per comprendere il ruolo che essa ricopre nella Freiheitsschrift, occorre integrare il passo summenzionato con quanto il filosofo tedesco afferma a riguardo nelle Stuttgarter Privatvorlesungen (1810). In tali lezioni Schelling introduce il tema della malinconia, nel momento in cui analizza la prima delle tre potenze o lati dello spirito umano, vale a dire l’animo (Gemüt). Quale stato naturale, interiore e prevalentemente inconscio, giacché non ancora rischiarato dalla luce della coscienza e dell’intelletto, l’animo rappresenta la potenza ipsistica e tellurico-notturna – il Grund – dello spirito umano lato sensu, un torbido “sottosuolo” odogetico, in cui giace il più antico ricordo delle cose e per mezzo di cui lo spirito rimane – suo malgrado – in rapporto costante con la propria preistoria. L’animo è, dunque, «il principio oscuro dello spirito» (SW VII, 465; LS 177), il basamento dell’edificio spirituale che impedisce all’uomo di dissociarsi dalla natura e che rende caliginoso il suo rapporto con il mondo ideale10. Ora, quanto vi è di più cupo e profondo nell’animo umano è la nostalgia (Sehnsucht) che è, per così dire, la forza di gravità interiore dell’animo [die innere Schwerkraft des Gemüts], e che perciò nella sua manifestazione più profonda è malinconia [Schwermut]. È in particolare per mezzo di essa che viene mediata la simpatia dell’uomo con la natura. Anche ciò che vi è di più profondo nella natura è malinconia [Schwermut]: anch’essa s’attrista per un bene perduto, e ogni vita è accompagnata da un’indistruttibile malinconia [Melancholie] perché ha sotto di sé qualcosa di indipendente da sé (ciò che sta sopra innalza, ciò che sta sotto attira in basso) (SW VII, 465-466; LS 177-178).

Sulla base di quanto appena riportato, soprattutto in relazione alla malinconia come ciò per mezzo di cui viene mediata la simpatia tra l’uomo e la natura, occorre svolgere alcune necessarie considerazioni di carattere semantico, al fine di cogliere appieno il significato simbolico che il sentire malinconico riveste nel pensiero schellinghiano. La parola Schwermut, convergente con il termine Melancholie almeno sino a quando le scienze psicopatologiche non ritengono doveroso relegare quest’ultimo nel territorio poetico della Stimmung, deriva dai termini dell’alto tedesco medio schwaermuetic, con il quale venivano indicati gli “animi abbattuti” (gedrückten Mutes), e swarmueti, che inizialmente rimandava alla “collera” 10

Si veda, a proposito, M. Maesschalck, Essai sur l’anthropologie schellingienne, in «Revue philosophique de Louvain», 85, 1987, p. 486.

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(Zorn) e successivamente alla “tristezza” (Traurigkeit)11. Schwaermuetic e swarmueti sono riconducibili, a loro volta, alla radice muot che, similmente al greco maíomai, indica una brama talmente ardente, da poter indurre la forza del sentire a ricadere su se stessa, vittima della violenza dell’anelito, e quindi ad andare a fondo, impedendo al Gemüt di risalire dal desiderio oscuro del fondo (Sehnsucht) sino al sentimento vero e proprio (Gefühl), passando per l’appetito (Begierde)12. Non a caso, Schelling descrive – nel tardo Psychologisches Schema (1837-38) – il temperamento malinconico come un’inclinazione naturale o un dono spontaneo della natura che, attivo non tanto nella chiarezza della coscienza quanto nel Grund del sentimento, rende l’uomo soggetto alla nostalgia e alla predilezione per rappresentazioni oscure (per il misticismo)13. Ora, la pesantezza che, stando sotto e tirando verso il basso, spinge ogni forma di vita finita verso la malinconia, come una «seduzione di un abisso, come una vertigine o un protendersi verso l’ammaliamento delle sirene»14, trova una sua precisa collocazione teorica all’interno della corrispondenza semantica e concettuale tra Schwer-mut, malinconia come peso dell’animo, e Schwer-kraft, forza di gravità come peso fisico. Schelling è convinto che la volontà contrattiva, quindi l’introversione, la chiusura all’altro-da-sé, il raccoglimento ipsistico attorno al proprio centro, il negativo tout court quale mancanza, bisogno e desiderio, rappresentino – se rettamente orientati – la pressione, la trazione e la spinta che conferiscono forza all’estroversione, all’apertura all’altro e al positivo tout court. Come sostiene infatti Guardini, solo nell’oscura mestizia si coglie autenticamente il gravitare interiore dell’anima attorno al proprio centro, in quanto la tristezza – generata dall’esistenza nuda e cruda – è fonte di inesauribile fruttuosità, almeno nel momento in cui viene posi-

11 12 13

14

Cfr. J. Ritter – K. Gründer (Hrsg.), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Schwabe & Co. AG. Verlag, Basel 1992, Bd. VIII, p. 1495. Cfr. H. Maldiney, Pensare l’uomo e la follia, a cura di F. Leoni, Einaudi, Torino 2007, p. 11. W. E. Ehrhardt, Schelling Leonbergensis und Maximilian II. von Bayern. Lehrstunden der Philosophie, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989, pp. 20-21. Tale testo è contenuto – con qualche modifica, postdatato 1840 e con il titolo Anthropologisches Schema – anche nell’edizione delle opere complete. Cfr. soprattutto SW X, 293. Per una descrizione dettagliata dello «schema antropologico o psicologico», rimandiamo a J. Hennigfeld, Der Mensch im Absoluten System. Anthropologische Ansätze in der Philosophie Schellings, in J. Jantzen – P. L. Oesterreich (Hrsg.), Schellings philosophische Anthropologie, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, pp. 1-22. Cfr. R. Gigliucci (a cura di), La melanconia, Bur, Milano 2009, p. 24.

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tivamente stimolata15. Non stupisce, pertanto, il fatto che Schelling ravvisi proprio nel Gemüt, di cui la malinconia è il fondo abissale che lo radica perennemente al suolo, il primo movens dello spirito umano tout court, quell’oscura esperienza pulsionale e (semi)inconscia di raccoglimento senza cui il Geist mai può essere fecondo. Ora, la relazione tra la malinconia e la forza di gravità, il principio egoistico delle cose, risulta essere tutt’altro che meramente linguistica e metaforica. La malinconia è propriamente la forza di gravità delle creature e, come tale, presenta le stesse ambivalenze della gravità in natura: da una parte, cioè, è indice dell’incompletezza e dell’imprecisione delle forme naturali, dall’altra indizio della loro autonomia rispetto al piano spirituale. In quanto fondamento della realtà materiale quale primum existens (SW IV, 146; ESF 67), la forza di gravità, precedendo la luce come «suo eterno, oscuro fondamento» (SW VII, 357; RF 95), oppone resistenza alla produttività libera e senza freno della natura, limitando il suo inarrestabile impulso generativo all’interno di un processo metamorfico che plasma una forma naturale, nella quale le forze oppositive di attrazione ed espansione vengono sottratte alla loro congenita caoticità autopotenziante e, quindi, conciliate dalla forza di gravità all’interno di una precisa struttura morfologica, in cui sia possibile l’esistenza effettiva. La Schwerkraft come elemento coesivo è ciò che garantisce la forza dell’aquila in volo, la quale si serve della tendenza negativa che sente verso il basso come strumento per innalzarsi; è ciò che permette all’albero, conficcando nella terra le sue radici, di spingere al cielo la cima fiorita (SW X, 177). O, ancora, ciò che rende possibile «la prima tensione dell’arco» (SW VIII, 224; EM 63), quella trazione in cui lo slancio dipende esclusivamente dalla compressione di partenza. All’interno degli Aphorismen (1806), Schelling definisce la gravità come «la festa silenziosa della natura, con cui essa celebra l’unità nell’infinità, cioè il suo compimento» (SW VII, 228; AFN 145), dal momento che impedisce alla produzione naturale di disperdersi nella caoticità informe del suo dinamismo incontrollato, quindi preserva il processo morfologico dalla tragica minaccia di un esito sterile o amorfo. Ciò non toglie, comunque, che la Schwerkraft rappresenti la Schwermut della natura anche in un’accezione profondamente negativa. Scansato, infatti, il pericolo dell’infecondità e della deriva nell’informe, la natura non smette di soffrire, dal momento che la gravità rimane un elemento negativo di resistenza, che ogni singola creatura ha sotto di sé come un alcunché di indipendente da sé; essa, tirandola verso il basso, le impedisce di dissociare il superiore dall’inferiore, rinfacciandole costantemente l’origine terrena e 15

Cfr. R. Guardini, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 1954, p. 46.

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lasciando aperta la possibilità di una nuova recrudescenza dell’informe16. La forza di gravità, attraverso la sintesi di attrazione ed espansione, fornisce difatti un fondamento all’esistenza della materia, ma non è in grado – per definizione – di attuare da sé la sua effettiva esistenza visibile, almeno fino a quando non s’incontra dinamicamente con la luce. In altre parole, essa è tale solo in funzione di qualcosa di effettivamente esistente da sostenere e da sorreggere, solo come ciò da cui la realtà effettiva procede, in quanto sua conditio sine qua non. Senza l’incontro con la luce, la gravità rimane una negazione fine a se stessa, un ipsistico ritrarsi in sé senza vita, il cui dinamismo intrinseco non è niente più che una stasi camuffata. Come la Schwerkraft in ambito fisico, così la Schwermut, se lasciata sussistere in sé stessa, cagiona la tendenza depressiva ad andare a fondo, quindi la chiusura ipsistica in sé come patologia; se, invece, stimolata rettamente come condizione dell’esistenza, si traduce in quell’energia positiva che fornisce forza propulsiva alla vita e all’estroversione. Si pensi, a proposito, alle considerazioni che Agamben fa nei confronti del concetto di acedia, strettamente correlato al temperamento malinconico, al quale non appartiene soltanto una polarità negativa, quale mortifera e torbida «fuga da», ma anche una polarità positiva, quale «fuga per», che è in rapporto con il suo oggetto nella forma della negazione e della carenza17. D’altronde, nell’antichità si riteneva che l’uomo malinconico attribuisse un valore positivo al suo dolore sub specie aeternitatis, in quanto egli intuiva che proprio la sua malinconia lo rendeva partecipe dell’eterno18. 3. La vita come contraddizione e conflitto L’ambivalenza concettuale intrinseca alla Schwermut permette a Schelling di evidenziare tutta la tragicità che contraddistingue la vita e l’impossibilità di disgiungere sin dall’inizio il positivo dal negativo, poiché – come 16

17 18

Sul legame tra Schwerkraft e Schwermut, si vedano soprattutto W. Hogrebe, Schwermut. Der späte Schelling und die Kunst, in T. S. Hoffmann – S. Majetschak (Hrsg.), Denken der individualitàt. Festschrift für J. Simon zum 65. Geburtstag, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1995, pp. 171-175, e T. Griffero, Grund ed Existenz. Classicità e melanconia alla luce della «Teoria dei principi» di Schelling, in C. Tatasciore (a cura di), Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo di Giuseppe Semerari, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 262. Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, pp. 11-13. Cfr. R. Klibansky – E. Panofsky – F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino 1983, p. 222.

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osserva Pareyson – la vita è sottoposta al «vortice dell’enantiodromia», quindi è segnata dal continuo e imprescindibile rincorrersi dei contrari19. Ogni possibile composizione del contrasto è, per definizione, escatologica, dunque fuori dal tempo. «Se nel corpo – spiega con una metafora Schelling – non ci fosse una radice del freddo, il caldo non potrebbe essere percepibile» (SW VII, 400; RF 125): quando si ritrae e si raffredda, il corpo, infatti, propaga attorno a sé un calore prima inesistente o, comunque, non attivo. Allo stesso modo, la negazione originaria (Grund), a cui perviene Dio uscendo dall’indifferenza (Ungrund), diviene «il fondamento immediato, la potenza generatrice dell’essere vero e proprio», che pone Dio fuori di sé, «come un essere deposto ed anzi opposto, come l’eterno essente in se stesso» (SW VIII, 226; EM 64)20. La radice del freddo insita nel corpo è un esempio che dà la possibilità a Schelling di ribadire, una volta ancora, che il male non viene dalla condizione; non è, cioè, causato dal fondamento. Lo scopo ultimo del fondamento è, infatti, soltanto il risveglio della vita e la sua sollecitazione avviene esclusivamente in vista della realizzazione del bene; senza il volere contrattivo del fondamento vi sarebbe un’eterna catatonia e quindi il languire del bene. Dio «si contrae» a partire da una condizione iniziale d’indistinzione tra principi contrapposti affinché, una volta generati il nulla e il vuoto in cui possano porsi gli esseri non-divini, sia possibile la creazione del mondo. In Lui la forza di rinchiudersi in sé coincide propriamente con l’atto amorevole del voler-si (sich-Wollen), da cui segue quel processo progressivo di dispiegamento nel quale l’originaria introversione divina si apre al mondo e a partire dal quale si realizza man mano l’assoluta unità dell’essere divino nell’inseparabilità di fondamento ed esistenza, quindi si creano le condizioni necessarie per l’eterna gioia del trionfo21. L’uomo, dal momento che la condizione gli è data solo in 19 20

21

Si veda L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., p. 30. Osserva Moiso: «Nell’uomo come nell’intera natura viene alla luce la “radice del freddo”. Il freddo e il secco sono gli attributi del principio della terra, che corrisponde al temperamento della “Melancolia”: questa – come è noto universalmente dall’incisione di Dürer – è dotata degli opposti attributi stereometrici dei solidi spigolosi e della sfera. L’elemento spigoloso – il cubo nella tradizione – è la base, che significa la contrazione in se stessi dei solidi, come “precipitazione” del mestruo cosmico in un solido. La sfera è la “buona sorte”, il liquido, che come “Fortuna” rappresenta il sempre minacciato buon esito della vita […] La radice del mondo, come scaturì dalle mani di Dio, è questo “principio di coagulazione”, che come nella figura allegorica della melancolia, significa “avarizia”, “contrazione” e angoscia di comunicarsi» (F. Moiso, Dio come persona, cit., p. 298). Innegabile è l’influenza su questi pensieri schellinghiani di Jakob Böhme. Cfr. soprattutto J. Böhme, De signatura rerum, oder Von der Geburt und Verzeich-

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prestito e quindi la sua natura e il suo spirito non sono un unico e assoluto Verbo, presenta un’imperfezione tale da indurlo a scegliere radicalmente in che modo attuare la malinconia connaturata alla sua esistenza: o in senso positivo, come pressione che conferisce forza alla vita e che permette di trasfigurare spiritualmente la natura, cosicché egli possa compiere il suo dovere quale microcosmo, o in senso negativo, come fattore patogeno che comporta la dislocazione ex-centrica delle creature, strappando il volere contrattivo dal rapporto che lo lega al volere espansivo. La colpa è infatti, per Schelling, lo sciogliersi dell’individualità dal bene universale e il suo conseguente dirigersi dal centro alla periferia. Nel bene, dunque, la reazione del fondamento è una causa che produce il bene, nel male una causa che produce il male, come dice la Scrittura; nei pii tu sei pio, negli empi empio [...] Il bene e il male sono la stessa cosa, visti soltanto da diverse parti, ossia il male considerato in sé, cioè nella radice della sua identità, è il bene, così come per contro il bene, considerato nella sua divisione, o nella sua non-identità, è il male (SW VII, 400; RF 125).

Per tale ragione, Schelling è convinto che chi non ha predisposizioni particolari per l’odio e per il male, non può averne nemmeno per l’amore e per il bene, dal momento che le passioni e le virtù corrispondenti hanno una radice comune. In un simile ragionamento troviamo la giustificazione ultima del ruolo fondamentale attribuito dal filosofo tedesco – tanto nelle Stuttgarter Privatvorlesungen quanto nelle più tarde lezioni della Philosophie der Offenbarung – alla follia (Wahnsinn), intesa come «l’essenza più profonda dello spirito umano» (SW VII, 470; LS 181), giacché la “normalità” non è se non una forma disciplinata di psicosi22. Nullum magnum ingenium sine quadam dementia, dice Schelling citando Seneca: l’autentico intelletto vivente non è altro che «follia regolata» e gli uomini che non hanno nemmeno un briciolo di follia in sé sono «uomini d’intelletto vuoto e infecondo» (ibid.). Salendo dalle profondità più recondite dell’essere umano, la follia è, infatti, un alcunché interno all’uomo già potentiā, il quale non deve essere attualizzato – pena quell’«inquietudine interiore»

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nung aller Wesen, in Id., Sämmtliche Werke, Frommann-Holzboog, StuttgartBad Cannstatt 1955-60, Bd. VI, p. 10. Si tenga conto anche della nota dottrina cabbalistica dello Tzimtzùm di Yitzchàq Luria, presente implicitamente nei testi di Schelling. A proposito, cfr. C. Schulte, Zimzum bei Schelling, in E. GoodmanThau – G. Mattenklott – C. Schulte (Hrsg.), Kabbala und Romantik, Niemeyer, Tübingen 1994, pp. 97-118. Cfr. S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, trad. it. di D. Cantone e di L. Chiesa, Cortina, Milano 2003, pp. 42-51.

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e quell’«agitazione senza senso né scopo» che caratterizzano l’intero creato (SW VIII, 261; EM 97) – ma piuttosto dominato e lasciato agire sullo sfondo. Infatti, «quando è dominata dall’influsso dell’anima, questa follia – leggiamo nelle Lezioni private di Stoccarda – è veramente una facoltà divina, è il fondamento dell’entusiasmo, dell’ispirazione, dell’attività in generale» (SW VII, 470; LS 181). Ma, se il bene e il male sono la stessa cosa, visti soltanto da diverse parti, e la follia è alla base dell’intelletto, allora dobbiamo ammettere l’idea leibniziana del male quale conditio sine qua non della perfezione finale del creato? La risposta schellinghiana è affermativa, ma solo nel caso in cui si applichi la concezione della necessità del male esclusivamente al fondamento e al suo compito di eccitare il volere creaturale per la realizzazione del bene sempiterno. Non bisogna chiedersi, in altre parole, perché Dio permetta necessariamente il male; ciò «varrebbe quanto dire che, affinché non ci sia nessuna opposizione all’amore, non debba esserci nemmeno l’amore, vale a dire che l’assoluto positivo debba essere sacrificato a ciò che ha un’esistenza solo come antitesi, l’eterno al semplicemente temporale» (SW VII, 402; RF 126-127). In quanto vita e persona, Dio è soggetto al divenire e alla sofferenza, e il dolore che accompagna l’attuarsi del male nel mondo assume un senso preciso, se pensato in vista della separazione finale del bene dal male e della completa realizzazione dell’amore. La lacerazione del legame che tiene assieme reale e ideale e l’incomunicabilità tra il mondo naturale e il mondo spirituale, quali conseguenze prime del peccato originale, una volta che Adamo fonda la sua libera scelta sull’inclinazione negativa della malinconia del suo essere, vengono vinte in ultimo da Cristo, il quale ripristina il delicato e simbolico equilibrio tra presenza e assenza nel rapporto che il divino intreccia con il mondo, colmando il vuoto d’amore frapposto da Adamo tra la Naturwelt e la Geisterwelt e ristabilendo così una nuova compatibilità tra fisico e spirituale. Nella vita odierna, tuttavia, il processo di progressiva trasfigurazione del naturale nello spirituale, ripristinato da Cristo, implica l’ineludibilità della morte, evento che rende visibile in tutto il creato la malinconia dell’essere come effetto postlapsario. Tali pagine della Freiheitsschrift anticipano, pertanto, quella tragica visione dell’esistenza, che sarà rappresentata pochi anni dopo da Schelling, con dolce enfasi poetica, nel dialogo incompiuto Clara (1810-1811): La natura stessa […] soffre di un veleno nascosto che essa vorrebbe eliminare o rigettare senza tuttavia riuscirci. Non partecipa forse anch’essa al nostro lutto? Noi possiamo lamentarci, ma la natura soffre in silenzio e può parlarci solo attraverso segni e gesti. Quale silenziosa melanconia pervade molti fiori nella rugiada del mattino e nell’impallidire dei colori verso sera! (SW IX, 29; C 31).

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MARTINO DALLA VALLE

FILOSOFIA E SALVEZZA Commento alle Ricerche sulla libertà di Schelling (SW VII, 406-416)

1. Miseria e splendore del nostro destino «Die Liebe aber ist das Höchste» (406; 129)1. Con l’affermazione che «l’amore è la cosa suprema» si apre la quinta e ultima parte del nostro commentario alle Ricerche sulla libertà di Schelling. Se in conclusione della sezione precedente l’autore, parafrasando il celebre omnia in omnibus di Paolo2, aveva indicato nel lavoro dello spirito la completa instaurazione del bene, con il ricacciare il male nel fondamento, ora apprendiamo che la redenzione non è compiuta sinché non sopravviene l’amore. «Giacché nemmeno lo spirito è l’essere più alto [das Höchste]; esso è soltanto lo spirito, ossia l’afflato dell’amore [der Hauch der Liebe]» (405; 129). L’amore è il coronamento dell’opera di salvezza che lo spirito ha ereditato dal verbo creatore (das schaffende Wort). Nel disegno escatologico delle Ricerche, infatti, la successione di verbo spirito ed amore scandisce i tempi o periodi (Perioden) della creazione (404; 127). La nascita della luce nel primo periodo, coincidente con il verbo, simboleggia la volontà divina di assurgere all’esistenza, traendo dal fondamento, insieme alla propria, anche la vita della creatura. Con l’apparizione del verbo la luce si separa dalla tenebra o, in altre parole, l’essere si innalza dalla potenza all’atto, emerge dal fondamento come da un’oscura matrice, da una notte popolata di presagi. Ma in quel frangente si verifica una crisi cosmica (404; 128) che attraversa tutti i periodi della creazione e vede contrapposti i due principi, fondamento ed esistenza, reale e ideale, individuale e universale, separati dall’azione creatrice (405; 129). Soltanto alla fine dei tempi, quando la separazione sarà completa e il male respinto nel non-essere, il principio ideale, il verbo, che 1

2

Il primo numero indica la pagina dell’originale tedesco (dai Sämmtliche Werke, hrsg. v. K. F. A. Schelling, Cotta, Stuttgart 1856-61, Bd. VII, pp. 333-416), il secondo la pagina della traduzione di S. Drago del Boca per la scelta pareysoniana degli Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano 1990. Opere ed autori diversi compaiono per esteso in nota. 1Cor. 15,28.

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frattanto ha risvegliato nella coscienza dell’uomo l’originaria esigenza di unità, cioè lo spirito (404; 128), confluirà insieme al principio reale, la natura, nella coscienza divina che dimora ugualmente in entrambi ed è perciò Spirito in senso eminente (395; 121). Tuttavia, lo spirito non è l’ultima parola della rivelazione. Come sul verbo era sorto lo spirito, così ora più in alto dello spirito vive in ogni cosa l’amore. Lo spirito è l’anelito, la volontà, il “soffio” (Hauch) dell’amore, che rischiara nel cuore dell’uomo la sua destinazione morale, il suo ruolo “messianico” di «redentore della natura» (Erlöser der Natur) (411; 132). L’uomo, infatti, pur essendo un essere naturale, non è completamente periferico rispetto a Dio come le altre creature, relegate nel fondamento, ma è un «essere centrale» (Centralwesen), ossia intellettuale, spirituale (ibid.), che ha la propria casa in Dio, sebbene possa in ogni momento rifiutare la sua vera identità e perseverare in una diabolica separatezza (diabolus è “colui che si interpone per dividere”)3. Mentre «la natura è il primo o l’antico Testamento, […] l’uomo è il principio del nuovo patto» (ibid.). Ma proprio l’ambiguità dell’uomo, la sua natura incerta e ambivalente, la sua in-firmitas, è paradossalmente la prova che in lui si nasconde una chance di salvezza (o di perdizione). L’infermità è salute, la debolezza forza, come nelle parole dell’apostolo4. L’indeterminatezza dell’uomo, che agli albori del moderno suscitò il canto ammirato di Pico, dipende dalla dualità dei principi di «luce e tenebra» (374; 107) o, in altri termini, dal divario fra volontà e intelletto, che in Dio sono invece indissolubilmente annodati. Proprio questo divario, che sin dal principio espone l’uomo alla tentazione diabolica di eguagliarsi all’assoluto, rappresenta d’altra parte la condizione generale dell’articolazione e quindi anche dell’accordo o del disaccordo fra detti principi. Se la nascita dello spirito nella “seconda creazione”, che coincide con l’inizio della storia (377; 109), ha comportato inevitabilmente la separazione di Dio dalla natura, soltanto la mediazione dell’uomo può riconciliarli, contribuendo allo stesso tempo al compimento della rivelazione divina. Ma l’uomo non può ritornare a Dio, né ricondurvi la natura, se prima Dio stesso non si rivela come il principale attore della salvezza. Tale è il significato dell’incarnazione, della teandria, mistero supremo d’amore (380; 111). Ma è giunto il momento di dare un nome alla prerogativa dell’uomo: libertà, miseria e splendore del nostro destino. 3 4

F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, p. 1283. 2Cor. 12,10.

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2. La “noche oscura” di Schelling L’amore è più dello spirito perché «è ciò che era prima che fosse il fondamento e prima che fosse l’esistente (come separati)» (406; 129, corsivo nostro), o anche prima della separazione di spirito e natura. L’amore è più antico di ogni divisione, più antico persino di Dio, se non fossero, come vedremo, una cosa sola. Ma con la semplice evocazione dell’amore non abbiamo ancora trovato l’unità di fondamento ed esistenza. Se, infatti, non si vuole che il sistema della ragione vada incontro alle assurde conseguenze di un assoluto monismo, prima fra tutte, l’identità di bene e male (ibid.), e se, d’altra parte, si deve evitare il dualismo, pena la disperazione della ragione (354; 93), la sola via percorribile resta quella di interrogare l’essenza del fondamento. D’ora in poi e per tutte le pagine finali Schelling non farà altro che chiarire il significato del «fondamento originario» o, meglio, dell’infondatezza a cui, in definitiva, è abbandonata ogni esistenza. Deve darsi un essere [Wesen] prima di ogni fondamento e prima di ogni esistente, quindi in genere prima di ogni dualità: come potremmo chiamarlo altrimenti che fondamento originario [Urgrund] o anzi non-fondamento [Ungrund]? (406; 129).

Siamo così giunti «al punto più alto di tutta la ricerca» (ibid.). Nella tradizione mistica e, in particolare, nell’opera di Jakob Böhme5, a cui lo stesso Schelling si ispira, l’Ungrund designa l’abisso imperscrutabile della divinità (Un-grund significa letteralmente senza fondo), ed è probabile che in questo concetto agisca, con la mediazione di Meister Eckhart, anche il ricordo dei profunda dei di un famoso versetto paolino6. Nella ricerca di Schelling, tuttavia, l’Ungrund ha in primo luogo il significato filosofico dell’unità originaria di fondamento ed esistenza; unità che, però, non deve essere confusa con una vuota medesimezza (Einerleiheit) o una connessione immediata degli opposti (341; 84), poiché ne va della differenza e dunque dello spessore ontologico dell’individuale. L’unità deve essere piuttosto «absolute Indifferenz», assoluta indifferenza degli opposti (406; 129). Fin qui niente di nuovo, se l’indifferenza, come è noto al lettore di Schelling, era la parola d’ordine della filosofia dell’identità. Nuovo e per certi versi sorprendente è invece l’accostamento di indifferenza e Ungrund. Se prima l’indifferenza descriveva un assoluto sottratto al tempo, confinato 5 6

Per avvicinarsi all’autore si può leggere l’introduzione di F. P. Cuniberto, Jakob Böhme, Morcelliana, Brescia 2000. 1Cor. 2,10.

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in una statica eternità, ora invece si coniuga con il divenire e lo sviluppo dell’assoluto stesso implicato in una dinamica di effettiva manifestazione e realizzazione nel mezzo della storia. Con il risultato che l’assoluto non si risolve più interamente in quell’indeterminatezza del principio che attirò a Schelling numerose critiche, prima fra tutte quella di Hegel nel fin troppo celebre passo della Fenomenologia dello spirito7, poiché, come vedremo, l’Ungrund-Indifferenz riguarda solo il primo momento dell’epifania storica dell’assoluto, all’interno della nuova concezione della legge d’identità quale connessione dinamica e «creatrice» dei contrari (345; 87). Spostando il campo di indagine dal terreno della ragion pura a quello della storia e dell’ermeneutica filosofica del racconto biblico, inoltre, anche la scienza acquista quella profondità storica che prima le mancava. Se la “svolta” che avviene in questi anni può essere riassunta nel graduale passaggio da una ragione pura a una ragione storica, allora le Ricerche sulla libertà, sebbene per tanti versi dipendano ancora dal lessico dell’identità, tuttavia, possono a buon diritto essere considerate come una prefigurazione della filosofia positiva. Ma il valore di quest’opera non ha certo bisogno di luce riflessa per risplendere come un raro e prezioso gioiello della letteratura schellinghiana ed anche della storia della filosofia. In origine, dunque, l’amore non era ancora come amore, perché non si distingueva dal nulla siderale, dall’eternità indifferente che precede la creazione (406; 129). Benché esista dal principio, inizialmente l’amore è “velato”, avvolto nella notte dell’Ungrund, prigioniero del “cuore di tenebra” del premondo. Quando non era ancora desto come amore, il Primum, l’Assoluto, era torpida indifferenza dei contrari. Né può essere diversamente, se è necessario che gli opposti abbiamo un’origine comune (ed abbiamo visto che l’unità è un’esigenza irrinunciabile della ragione). Tuttavia, l’indifferenza non è un prodotto dell’antitesi [der Gegensätze], né gli opposti sono contenuti in essa implicite, ma essa è un essere [Wesen] proprio, separato da tutte le antitesi, nel quale tutte le antitesi si infrangono, che non è altro appunto che il non essere [das Nichtsein] delle medesime, e che perciò quindi non ha altro predicato che l’esser priva di predicati, senza per questo essere un nulla o un inconsistente [Unding] (ibid.).

Se l’unità fosse il prodotto dell’antitesi sarebbe derivata e non originaria. Lo stesso può dirsi nel caso in cui gli opposti siano contenuti in poten7

Alludo naturalmente alla «notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere», in G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1966, p. 10.

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za nell’unità, dato che anche in questo modo, come insegna Aristotele8, gli opposti, considerati come fine, vanterebbero una precedenza logica, se non cronologica, sull’unità ridotta a loro prefigurazione. Ma l’assoluto non può essere per definizione un essere derivato o relativo. Rimane soltanto una possibilità: che l’unità-indifferenza abbia un’essere proprio, separato, indipendente dagli opposti, anche se parlare di “essere”, in questo caso, è almeno problematico, dato che l’indifferenza è piuttosto il non-essere (Nichtsein) degli opposti. L’assoluto, allora, si comporta indifferentemente (gleichgültig) verso entrambi (407; 130). Il che significa che è libero di determinarsi nell’uno o nell’altro senso, o, al limite, anche di non determinarsi affatto, ma che in ogni caso rimane slegato, sciolto (ab-solutus), da ogni necessità. In tal senso, Schelling può dire che, a confronto con l’essere determinato, l’essere dell’assoluto è come nulla, poiché non ammette alcun predicato, tranne quello, paradossale, dell’assenza di predicati. D’altra parte, l’indifferenza non è nemmeno il nulla simpliciter o un essere totalmente insussistente (Unding significa letteralmente “non-cosa”), poiché è precisamente un’assurdità (Unding nel significato corrente), ritenere che un pensato non sia in qualche modo una cosa diversa dal niente. Quest’ultima osservazione, apparentemente marginale, comporta in realtà delle conseguenze fondamentali. Se, infatti, il non-essere o l’assenza di predicati in cui consiste l’assoluto è pur sempre un predicato, l’assoluto non è mai veramente quello che intendiamo con questa parola. L’assoluto non è mai veramente assoluto, perché anche l’assolutezza, l’astrazione da tutte le determinazioni, è in ultima analisi ancora una determinazione. Qual è il significato di quest’aporia? Non significa forse che la sola determinazione irrinunciabile dell’assoluto è, in fin dei conti, il pensiero? Che altro può significare la conclusione di Schelling nel passo citato se non che è il pensiero a determinare l’assoluto come un qualcosa e non come un niente, pur in assenza di predicati? Tolte tutte le determinazioni, ciò che resta è il pensare. Se abbiamo presente l’etimologia di soggetto (subjectum traduce il greco ὐποκέιμηνον, che vale sostanza, substrato, “ciò che sta sotto”), non pare fuori luogo affermare che il pensare è il soggetto, la sostanza, dell’assoluto9. E si capisce allora perché Schelling, nonostante tutto, gli attribuisca ancora un’essenza (Wesen), addirittura un’essenza propria e separata. Dato che l’indifferenza deve pur essere un qualcosa, per non ridursi a un’assurdità, questo qualcosa non può essere nient’altro che l’essere del 8 9

Metaph., Θ 8, 1049b 10 (tr. it. di G. Reale, Vita e pensiero, Milano 1993, p. 417). Va da sé che il più coerente svolgimento di questo assunto non si trova in Schelling, ma nella logica di Hegel.

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pensiero. L’essere del pensiero è la “cosa” dell’assoluto, nel senso appunto della base, del substrato, della sostanza. Detto altrimenti, l’essere dell’assoluto è uguale all’essere del pensiero. Non siamo così di nuovo in piena filosofia dell’identità? Così potrebbe sembrare se, come ho anticipato, l’indifferenza non costituisse solo il primo momento della manifestazione dell’assoluto. Se l’assoluto non si avventurasse fuori della sua olimpica indifferenza contaminandosi con il mondo e la storia. Nella filosofia dell’identità l’assoluto era la Ragione con l’iniziale maiuscola, ora esso può essere immaginato solo come la vita e la personalità di Dio (395; 121-122, anche 403; 127), così che l’indifferenza riguarda la condizione anteriore alla decisione creatrice di Dio e il punto di partenza del sistema. Ma il punto di partenza non è il tutto e se si travisa la posizione dell’indifferenza nel sistema si rischia di sopprimere il concetto autentico dell’assoluto, che è appunto «la personalità dell’essere supremo» (412; 133). Tuttavia, non è lecito concludere che l’indifferenza è anteriore a Dio o, che è lo stesso, che il pensiero pone l’essere supremo. Al contrario, Dio è colui che dall’eternità ha scelto di creare (né poteva volere altrimenti)10 e perciò ha già da sempre infranto l’indifferenza originaria dell’Ungrund. Ciò concorda con l’inizio del racconto genesiaco in cui lo spirito di Dio aleggia fin dal principio sulle acque del caos primigenio. La decisione (Entscheidung) per la creazione determina contemporaneamente la scissione, la divisione (scheiden significa letteralmente dividere, separare) dell’indifferenza in due inizi (Anfänge) ugualmente eterni, il fondamento e l’esistenza (395; 121), che nello spirito di Dio si trovano uniti, mentre nell’uomo, come sappiamo, permangono divisi. L’atto della creazione rappresenta, in breve, la decisione, il “taglio” che squarcia il velo della notte ancestrale. Ma si tratta di un atto che non può essere inserito in una sequenza cronologica perché accade fuori del tempo, nell’eternità e dall’eternità, sebbene nel tempo e attraverso il tempo si concreti e si realizzi. Qual è allora la posizione dell’indifferenza rispetto a Dio? Da un punto di vista ideale o meramente logico è possibile ammettere un principio informe prima del Dio personale, ma se si guarda alla realtà o all’esistenza soltanto la volontà può costituire un effettivo inizio. «Wollen ist Urseyn», il volere è l’essere originario (350; 91). Da ciò discende che il concetto principale delle Ricerche, quello a cui si lega il nuovo corso della

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«La creazione non è un avvenimento [Begebenheit], ma un atto [That]» (396; 122). Non però un atto arbitrario, né logicamente necessario, bensì un atto moralmente necessario (eine sittlich-nothwendige That) (402; 127). Moralmente necessario, si intende, «in rapporto al bene e all’amore» che ne derivano (397; 123).

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filosofia schellinghiana, non è affatto, come si crede, quello di Ungrund, che, infatti decadrà presto, bensì quello di decisione. Con tutto ciò, forse, non abbiamo però ancora toccato l’essenziale. È possibile, infatti, che oltre alla valenza di “ipotesi” razionale, l’Ungrund abbia anche il significato “mistico” della rinuncia del pensiero a ogni immagine di Dio e persino a se stesso. Il filosofo deve apprendere non solo il ripudio di qualunque concetto o rappresentazione dell’assoluto, ma, cosa molto più difficile, anche dell’io o del pensiero. Se l’essenza dell’assoluto esige, infatti, la negazione di tutti predicati, quello che rimane alla fine di questa “teologia negativa” non è però il nulla, ma piuttosto il mero pensato, ovvero il pensiero soggettivo (nel senso precisato), l’Io trascendentale. Ma l’io non è ancora l’assoluto, anzi, è il maggior falsario di valori. D’altra parte, come insegna Fichte, l’assoluto, se pensato al di fuori dell’io, decade a supposizione dogmatica. L’aporia logica diventa infine tragedia dell’esistenza: l’io, l’individualità, è condizione e nello stesso tempo limite alla conoscenza dell’assoluto. Proprio ciò che permette di intraprendere il cammino verso l’assoluto si rivela alla fine come il principale ostacolo al raggiungimento della meta. È a questo punto, in fondo a questo cul de sac, che prende senso l’introduzione dell’Ungrund nel sistema. Esso indica la via per uscire da un’impasse che non è solo teorica ma, prima di tutto, esistenziale, e che coincide per Schelling con l’angoscia della perdita del centro da parte dell’uomo, con la sua essenziale “eccentricità” rispetto alla creazione (381; 112). Se la via all’assoluto è un cammino di negazioni, il pensiero, giunto al fondo o, meglio, al senza-fondo, all’Ungrund, deve compiere ancora un’ultima negazione e questa volta negare se stesso. Solo da un estremo ripiegamento su se stessi, da uno sprofondarsi nell’interiorità, abbandonando tutte le nozioni e le conoscenze in nostro possesso, finanche la nostra individualità – un’esperienza simboleggiata, appunto, nella nozione di Ungrund –, può scaturire un nuovo inizio per il pensiero. Dall’esperienza di questa “noche oscura”, che Schelling più avanti chiamerà estasi razionale, il filosofo deriva l’intuizione che il vero primum non è mai un concetto, sia pure il più indeterminato, ma è sempre l’esistenza, la vivente personalità, e che tra i due non vi è continuità ma uno iato che solo la decisione può oltrepassare11. Perciò Dio, in quanto persona morale, è più “antico” dell’antichissimo Ungrund. La sua esistenza è un atto primario che non si può dimostrare perché è reale e libera autoposizione (385; 114). Il caos presuppone il cosmo, parimenti l’Ungrund presuppone l’esistenza 11

Cfr. W. J. Jacobs, Leggere Schelling, a cura di C. Tatasciore, Guerini e Associati, Milano 2008, pp. 108-111.

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di Dio e non viceversa. L’atto precede la potenza, l’esistenza è primaria rispetto all’essenza o al concetto12. L’importante tesi di Kant sull’essere13 diventa in Schelling esperienza della “morte mistica”, della rinuncia all’io e al sapere in vista di una conoscenza superiore, più aderente alla vita (381; 112). Più tardi paragonerà esplicitamente la filosofia alla morte: chi vuole collocarsi nel punto iniziale della filosofia veramente libera deve abbandonare anche Dio. Vale qui il detto: chi vorrà conservarlo lo perderà, e chi lo abbandonerà lo ritroverà. Colui soltanto è arrivato al fondo di se stesso ed ha conosciuto tutta la profondità della vita, che in un punto ha abbandonato tutto ed è stato abbandonato da tutto, per il quale tutto è sprofondato, e che si è visto solo, di fronte all’infinito: un passo enorme che Platone ha paragonato alla morte14.

3. Filosofia e mysterium iniquitatis Mentre Hegel proseguirà sulla strada dell’identità di reale e razionale, della perfetta compenetrazione del concetto e della storia, Schelling, dal canto suo, approfondirà sempre più l’estraneità e quasi la riluttanza della realtà a lasciarsi imbrigliare in strutture concettuali. Il concetto non si sovrappone alla realtà nella costruzione dialettica di un mondo completamente informato dalla ragione, perché l’esistenza contiene sempre un resto di irrazionalità, un “necessario retaggio di tenebra” (360; 97), che proviene dalla volontà cieca del fondamento, dalla brama (Sehnsucht) o dal desiderio (Begierde) inconscio di essere. Ma proprio per questa iniziale e mai del tutto dissipata oscurità, proprio perché l’inizio è il mare tenebrarum, la storia della salvezza è il processo della «trasmutazione interna» (362; 99) o del graduale rischiararsi del principio, con la conseguenza che le tenebre dileguano sempre più sotto la spinta della luce o del verbo. Tuttavia, finché si rimane sul piano della natura «neppure la luce dischiude 12

13 14

Secondo Heidegger, però, è proprio questa distinzione tra fondamento ed esistenza a far fallire il progetto sistematico di Schelling. «Questo naufragio si rivela in ciò, che i momenti della commessura dell’Essere – fondamento ed esistenza, nonché la loro unità – non soltanto sono sempre meno conciliabili, ma vengono persino a tal punto disgiunti, che Schelling ricade nella tradizione, ormai irrigidita, del pensiero occidentale, senza trasformarla in maniera creativa». Heidegger allude naturalmente alla distinzione scolastica fra essentia ed existentia, quidditas e quodditas, Wesenheit e Dasein. Cfr. M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, a cura di E. Mazzarella e C. Tatasciore, Guida, Napoli 1998, p. 256. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 382. F. W. J. Schelling, Conferenze di Erlangen, in Scritti, cit., p. 203.

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completamente il suggello, sotto cui è rinchiusa» (358; 96), poiché la forza di gravità la trattiene nel fondamento oscuro. Il verbo nella natura è ancora «oscuro, profetico (non ancora completamente espresso)» (411; 132). Solo innalzandosi a un livello superiore, Übercreatürliche, sovracreaturale (364; 100), cioè al livello della moralità e della storia, esclusive dell’essere umano, il verbo si trasfigura nella «luce superiore dello spirito» (380; 111), cioè diviene manifesto, ausgesprochene (reale) Wort, parola realmente espressa (363-364; 100). L’uomo è l’individualità assurta a spirito, cioè a libera e vivente unità dei principi, in una parola, personalità15. Ed è, forse, interessante notare en passant come la libertà si esprima compiutamente solo nell’uomo quale essere parlante, provvisto del logos, della parola, giacché «nella parola espressa si rivela lo spirito, cioè Dio come esistente actu» (364; 100). Ma spirito e logos (parola e intelletto) non potrebbero sorgere se contemporaneamente il fondamento non si innalzasse, a sua volta, da potenza meramente naturale a «spirito della discordia» (365; 101), che è la volontà deliberata di separare il principio particolare da quello universale. Tanto che solo all’apparire dello spirito, «am Ziel der Natur» (377; 108), quando cioè il processo naturale è giunto al termine o, meglio, alla meta, allo scopo, per il quale è sorto, cioè all’essere umano, è possibile parlare propriamente di “male”. Quando, insomma, a fronteggiare lo spirito dell’amore insorge lo «spirito del male» (377; 108). Il male, infatti, non si riduce a un’imperfezione ontologica, privatio boni, ma richiede sempre il concorso del volere, è un atto deliberato che si vale dell’eccellenza e non della manchevolezza delle proprie forze indirizzate al sovvertimento dell’ordine, alla disarmonia o atassia della creazione (368-370; 103-104). «Come si dà un entusiasmo per il bene, altrettanto si dà un’esaltazione [Begeisterung] del male» (372; 105). Viceversa, «chi non ha in sé elementi né forze [Kräfte] per il male, è anche incapace di bene» (400; 125)16. Ne segue che, se «ogni essere può rivelarsi soltanto nel suo 15 16

Personalità è sempre il legame di un principio autonomo con una “base” indipendente da esso (394; 121). Il vincolo di base ed esistenza è detto spirito, e dunque Dio, per via della stabile unità fra i principi, è Spirito in senso eminente e assoluto (395; 121). «Le passioni, cui la nostra morale negativa fa la guerra, sono forze [Kräfte], ciascuna delle quali ha una radice comune con la virtù che le corrisponde. L’anima di ogni odio è l’amore, e nella collera più accesa si mostra soltanto una calma assalita e irritata nel suo più intimo centro» (400-401; 125-26). In questo passo si può riconoscere un’anticipazione della polemica di Nietzsche contro la morale astratta del dovere che pretende di imporre alcuni comportamenti prescindendo dalle passioni e dagli istinti. Al contrario, le passioni, in una condizione di «misura ed equilibrio organico», sono, secondo Schelling, «la forza stessa della virtù e i suoi immediati strumenti» (401; 126).

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opposto, l’amore solo nell’odio, l’unità nella discordia» (373; 106), allora il male rappresenta, seppur indirettamente e non per decreto divino (402; 126), la condizione del bene, con la conseguenza, apparentemente assurda, per cui senza la manifestazione del male neanche Dio potrebbe rivelarsi17. Forse è qui la radice di quel mistero dell’iniquità di cui parla San Paolo18, secondo cui l’apocalisse, la rivelazione finale di Dio, viene ritardata proprio dai suoi ministri che si oppongono al dilagare del male. Che il male spesso si insinui fra quanti lo avversano e prenda le sembianze della verità e della giustizia, è l’astuzia del principe di questo mondo. D’altra parte, però, il male non sa di annientare se stesso quando, per il desiderio di innalzare il particolare ad universale, la creatura al rango del divino, sovverte l’ordine in cui soltanto è possibile l’esistenza del particolare e della creatura. Così, il malvagio, «per la presunzione di esser tutto, cade nel nulla» (390-391; 118). Mentre estende il suo dominio nella storia, il male crea contemporaneamente le condizioni del suo annientamento. Il suo trionfo coincide con la sua caduta. Così, mentre l’amore è la ragion d’essere della creazione, il male, che pure gioca un ruolo centrale nell’economia della salvezza, ha soltanto una natura meteorica (379; 110). «Il termine [Ende, questa volta nel senso della fine, del compimento] della rivelazione è perciò il distaccarsi del male dal bene, la chiarificazione

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Distinguendo in Dio fra natura e intelletto, Schelling può respingere l’idea che Dio consapevolmente permetta o addirittura ricorra al male in vista di un bene superiore. In polemica con la tradizione e, in particolare, con la teodicea di Leibniz, secondo cui il male è conditio sine qua non del migliore dei mondi possibili, Schelling sostiene, al contrario, che Dio in nessun caso approva il male nella sua creazione. Se è vero che il male riposa nella natura o nel fondamento oscuro e, dunque, ha la sua radice ultima in Dio (in ciò che non è Dio stesso pur essendo indiviso da Lui), tuttavia, è la creatura che attua ciò che nella natura o nel fondamento si trova solo in potenza. Pertanto, il male “evocato” dalla creatura si realizza nel corso della storia del tutto indipendentemente ed, anzi, contro il volere di Dio. È chiaro, però, che in una prospettiva del genere il tradizionale attributo dell’onnipotenza divina è messo fuori gioco o, almeno, fortemente limitato. Diverso il discorso per l’onniscienza. Se, infatti, il sorgere del male non poteva non essere previsto da Dio, tuttavia, rinunciare alla creazione per escludere il male e la sofferenza avrebbe significato rinunciare nello stesso tempo al bene e all’amore, sacrificando l’eterno a ciò che è inessenziale e temporale. «Perché dunque il male non fosse, non dovrebbe essere nemmeno Dio». Ma si tratta di un’eventualità in palese contrasto con il concetto morale di Dio, per il quale la creazione/rivelazione è un «atto moralmente necessario» in vista del bene e dell’amore (402-403; 126-127). Infatti, «se Dio è essenzialmente amore e bene, allora anche quello che in lui è moralmente necessario ne segue con una necessità veramente metafisica» (397; 123). 2Tess. 2,7-8.

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di quello come completa irrealtà [Unrealität]» (405; 128). Il male è destinato a sprofondare nell’irrealtà poiché la sua stessa natura è, in certo senso, irreale o, meglio, non-essente [Unwesen]. Dato che il male si realizza solo in opposizione al bene (come questa stessa opposizione), mentre per sé non ha alcuna sussistenza, giocoforza la sua carica si esaurisce con la «crisi finale» (403; 127), ovvero quando la separazione è completa19. Senza il “contrappeso” del bene anche il male va a fondo, ricade nella matrice da cui è stato risvegliato e in cui torna a riassopirsi (409; 131). Per tutte queste ragioni la ricerca di Schelling non può essere ascritta né al panteismo (o monismo assoluto) né all’assoluto dualismo. Bene e male, infatti, non sono originariamente identici, né tanto meno opposti, dal momento che vi può essere identità od opposizione solo là dove i termini della relazione siano entrambi essenti (Wesen). Ma per Schelling il male non ha realtà al di fuori del polemos, dell’avversione per il bene, anzi, è il polemos stesso, ed entrambi, bene e male, scompaiono (verschwinden) nell’indifferenza dell’origine (ibid). Perciò, infine, «l’assoluta identità, lo spirito dell’amore, è prima del male, appunto perché questo può apparire solo in opposizione ad esso» (ibid.). Il cerchio si chiude. L’amore è prima del male che la creazione ha “evocato”, sebbene non per volere di Dio, ma come effetto concomitante, previsto ma inevitabile, della creazione stessa, poiché Dio è sin dall’inizio amore e volontà di rivelazione/creazione. Ed è anche alla fine (nel duplice senso di Ende e Ziele) perché è, appunto, il fine o lo scopo della rivelazione che l’amore riporti l’unità dov’è l’odio e la divisione. Appartiene al concetto dialettico di Dio come rivelazione o communicativum sui che l’opposto nel quale Egli si realizza, cioè il volere individuale (Eigenwille) della creatura, sia destinato gradualmente a scomparire affinché la rivelazione stessa sia completa (397; 123). Ciò beninteso non significa che la volontà naturale, che è sì il principio del male ma anche il necessario supporto del bene, debba essere completamente annullata. Deve essere piuttosto ridotta a potenza e subordinata al volere più alto dello spirito. Il male, insomma, deve essere risospinto nel buio della matrice, nel quasinulla dell’infondato, affinché l’assurdo della storia universale si chiarisca, infine, come la “sequela della luce”, la filiazione dell’amore divino. In conclusione, siamo forse in grado di collocare il male nella giusta posizione entro il sistema della filosofia. La definizione preliminare del male come effetto concomitante, involontario, della rivelazione divina si chiari19

«Poiché il male, quando è completamente separato dal bene, non è nemmeno più come male. Esso poteva agire soltanto attraverso il bene (male usato), che era in lui stesso a sua insaputa» (404; 128).

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sce ora alla luce della nuova prospettiva dialettica del concetto di Dio. Allo stesso modo in cui l’opposizione del fondamento “provoca” la rivelazione di Dio (375-376; 107-108), anche il male accade «soltanto perché l’amore trovi nell’uomo un elemento [Stoff] o un’antitesi [Gegensatz], in cui possa realizzarsi» (401; 126). Fondamento e rivelazione, in breve, sono lo stesso volere originario, o Urwesen, considerato dialetticamente, cioè nella dinamica di introversione ed estroversione, egoismo ed amore, in cui si realizza, appunto, il concetto di rivelazione. Dato che, come sappiamo, la rivelazione è una riflessione, cioè una mediazione fra opposti, anche Dio può rivelarsi soltanto distinguendo in se stesso il revelatum dall’elemento (Stoff) in cui esso si chiarisce e si rivela, vale a dire, distinguendo lo spirito dalla natura (375; 107). L’essere manifesto suppone sempre l’essere nascosto. Analogamente, «ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi anche essere il fondamento della conoscenza» (413; 134). L’intelletto è l’organo della dialettica, cioè «quello che trae fuori ciò che è nascosto e contenuto solo potenzialmente nel fondamento e lo innalza all’atto» (ibid.), cioè, in ultima istanza, natura rischiarata, natura autocosciente. Ma se questo è vero, allora è la natura (dentro e fuori di noi), e non la storia, lo scrigno più antico di formule ancora misteriose, la miniera più preziosa di segni e simboli ancora da decifrare. E Schelling può concludere, coerentemente con i suoi esordi di Naturphilosoph: «noi abbiamo una rivelazione più antica di qualsiasi rivelazione scritta, la natura» (223; 135). La ricerca di Schelling può dunque essere definita anche un saggio di teodicea della natura o «teodicea del finito»20, in cui si fondono genialmente filosofia trascendentale e messianismo ebraico-cristiano, Kant e Paolo, e nella quale la novità più rilevante è forse che l’apocalisse non comporta né la condanna eterna del male, simboleggiata dall’inferno, né tanto meno la «riparazione» (Wiederbringung) di tutte le cose, il cabalistico tiqqun (405; 128). Nel modello escatologico di Schelling il male dipende dalla libertà e indipendenza della creatura da Dio, libertà e indipendenza che essa conserva fino alla separazione finale, quando tutto il bene sarà diventato reale e il male, invece, richiuso per l’eternità nelle tenebre, come «fondamento eternamente oscuro di individualità, come caput mortuum del suo processo di vita e come potenza che non può mai riuscire all’atto» (408; 131). Come un’efflorescenza di sangue che la terra assorbe, il male scompare nella chiarezza nella parusia ma grava eternamente sul fondo del passato immemore come un ultimo sospeso interrogativo. 20

La definizione è di G. Strummiello nella sua introduzione a Schelling, Sull’essenza della libertà, Rusconi, Milano 1996, p. 48.

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4. La linea d’ombra La storia, per il nostro autore, è sempre storia della salvezza. E la storia della salvezza è la storia della rivelazione del verbo, dal primo oscuro balbettio della natura, fino alla piena espressione della parola umana e, da ultimo, alla completa compenetrazione di ogni cosa nell’amore divino. La rivelazione racchiude insieme in un unico, identico processo creazione e redenzione. Tuttavia, è per noi ancora un enigma il modo in cui avviene la scissione da cui tutto ha avuto inizio. Perché Dio si riveli è oramai acquisito. Perché Egli è amore e l’amore è communicativum sui, contiene in sé il desiderio della partecipazione. Ma come dall’indifferenza iniziale si produca l’autorivelazione dell’assoluto è ancora misterioso. Non occorre dire che si tratta del punto più controverso dell’intera ricerca. Conviene, allora, fare un passo indietro alle poche, fondamentali righe che Schelling dedica alla divisione dell’Ungrund. Il reale e l’ideale, le tenebre e la luce, o come altrimenti vogliamo indicare i due principi, non possono mai venir predicati del non-fondamento come opposti. Ma questo non impedisce che essi vengano predicati di esso come non-opposti, cioè nella disgiunzione [Disjunktion] e ciascuno per sé, con il che viene posta la dualità [Dualität] (la reale duplicità [Zweihiet] dei principi) (407; 130).

In primo luogo, apprendiamo che non è corretto assegnare all’indifferenza gli opposti come opposti (als Gegensätze), ma soltanto come non-opposti (als Nichtgegensätze). Nell’indifferenza, infatti, gli opposti sono indifferenti o equivalenti (gleichgültig), cioè, appunto, non (ancora) opposti. L’indifferenza non è espressa, perciò, da un’identità, ma da una disgiunzione. Abbiamo già parlato dell’aporia cui va incontro il pensiero rigoroso dell’indifferenza. Se, da un lato, l’indifferenza è per definizione impensabile, poiché il pensiero introduce necessariamente un elemento di differenza (anzitutto quella fra pensare e pensato, essere e conoscere), dall’altro, essa non può nemmeno rimanere del tutto impensata, dato che ciò sarebbe un’assurdità (Unding). Vi è tra l’indeterminato e il determinato come una sottile linea d’ombra che impedisce di fissare un confine netto e il preciso momento in cui l’abbiamo varcato. L’accenno alla disgiunzione ci aiuta, forse, a comprendere in che modo Schelling tenti di trarsi d’impaccio. L’intuizione dell’Ungrund si realizza solo al termine di una sofferta “ascesi” filosofica in cui ogni contenuto del pensiero, compreso l’io, viene abbandonato a vantaggio di una “percezione pura”, di un’esperienza del vuoto e della libertà a cui rinvia in ultima analisi ogni

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esistenza. Dio stesso, se è vita e personalità, deve avere la sua nascita in questa immemorabile origine, nel cono d’ombra della sua coscienza, ed anche, chissà, ereditare parte di quest’oscurità (si pensi al grido di Cristo sulla croce). Ma dall’estasi razionale si deve tornare al mondo delle forme. E il ritorno riproduce inevitabilmente la differenza che era stata messa fra parentesi. Allorché il pensiero indugi sulla soglia del nulla, là dove intuisce l’indifferenza originaria, immediatamente ne provoca l’esteriorizzazione e quasi il “rovesciamento” nell’essere. Così l’Uno o l’indifferenza si scinde «in seinen zwei Wirkungsweisen», nei suoi due modi di agire (409; 131), che sono, come sappiamo, il fondamento e l’esistente. Ed è significativo che siano definiti azioni, poiché ciò segnala una volta di più che si non tratta affatto di una «distinzione puramente logica» (407; 130), ma di un divenire in cui è in gioco il comportamento dell’Uno nei riguardi di se stesso. L’indifferenza non può essere pensata altrimenti che nella forma disgiunta del fondamento o dell’esistenza. Non “et… et…”, ma “aut… aut…”. Pensare l’assoluto equivale a dividerlo in due opposti modi di essere ed agire, uno che recalcitra allo svelamento, l’altro che invece lo asseconda. Natura e intelletto, abisso e luce (363; 99-100). Ma l’assoluto non è l’identità, né la differenza degli opposti, perché l’una implica l’altra e dunque nessuna ha realmente la precedenza. E tuttavia non basta nemmeno porre che l’assoluto è più originario dell’identità (e della differenza), se poi queste si ritrovano contenute nell’assoluto stesso, come accade nel fortunato concetto di coincidentia oppositorum. In tal caso, infatti, a nulla è servito riconoscere che nell’assoluto gli opposti scompaiono realmente, dal momento che essi continuano a sussistere in potenza nel suo concetto. Quando si concepisce l’assoluto in termini di identità o coincidenza degli opposti si introduce necessariamente un’indebita limitazione nell’assoluto stesso. Proprio questo è l’errore più comune (406; 129). Ma se non è identità o coincidenza degli opposti, come dev’essere concepito l’assoluto? In che modo il concetto dell’assoluto risulta modificato dalla categoria della disgiunzione? La seconda considerazione riguarda, insomma, la possibilità di pensare l’assoluto senza snaturarlo. A tal fine è necessario prima sgombrare il campo da un grave malinteso. Molti hanno dato fondo al pensiero razionale e alla tradizione religiosa nel vano tentativo di chiarire il passaggio dall’Uno al molteplice, ma la verità è che «non si dà nessun passaggio (Übergang) dall’assolutamente indeterminato al determinato» (384; 113). Tutte le soluzioni offerte, dall’emanazionismo neoplatonico al mito biblico della caduta, dallo tzim tzum cabalistico alla deduzione logica del razionalismo, falliscono nella misura in cui postulano

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la possibilità di un simile passaggio21. Ma passaggio non v’è. Questo è per Schelling un punto fermo. Tanto che può essere considerato quasi il segno distintivo della sua filosofia. È in osservanza a questo assunto che Schelling pone di nuovo l’accento sulla disgiunzione: l’essenza [Wesen] del fondamento, come quella dell’esistente, può essere solo anteriore a ogni fondamento, quindi solo l’assoluto schiettamente considerato, il non-fondamento [Ungrund]. Ma essa non può esser tale (come si è dimostrato) altrimenti che distinguendosi in due principi [Anfänge] ugualmente eterni, non essendo ambedue insieme [zugleich], ma essendo in ognuno alla stessa maniera [gleicherweise], cioè in ognuno come totalità, come un essere [Wesen] proprio (408; 130).

Vietando che gli opposti siano simultaneamente (zugleich) espressioni dell’Uno, la disgiunzione esclude contemporaneamente che si dia un passaggio da questo a quelli, cioè, in generale, un passaggio dall’indeterminato al determinato. In questo modo infatti l’assoluto, pur determinandosi, non esce mai da se stesso. Ciascuno degli opposti è ugualmente (gleicherweise) l’Uno o l’intero, considerato però ora come nascosto ora come manifesto. Quando l’intelletto si applichi all’indeterminato non può che determinarlo nell’una o nell’altra maniera, come fondamento riottoso al pensiero stesso o come esistenza illuminata dalla coscienza. Ciò che invece non può fare è determinarlo contemporaneamente in tutti e due i modi, come se l’assoluto fosse l’astratta coincidenza degli opposti senza una reale successione e un concreto divenire, poiché ciò equivale, come sappiamo, a introdurre una differenza nel concetto dell’assoluto. Del resto, due totalità non possono per definizione sussistere accanto. Dal corretto modo di intendere l’assoluto non segue pertanto l’opposizione (Gegensatz), ma la dualità (Dualität) dei principi, la quale si distingue dalla prima appunto per il fatto che non li risolve in un’astratta identità, sempre insidiata dalla differenza, ma li lascia essere nella loro reale duplicità (Zweiheit) o, che è lo stesso, nella loro individualità. Immediatamente dal né-né [Weder-Noch], ossia dall’indifferenza scaturisce dunque la dualità [Dualität] (che è qualcosa di completamente diverso dall’antitesi [Gegensatz], anche se noi finora, non essendo ancora giunti a questo punto della ricerca, dovevamo usare i due termini come equivalenti), e senza indifferenza, cioè senza un non-fondamento, non ci sarebbe duplicità [Zweiheit] di principi. Invece quindi di togliere di nuovo la distinzione, come si è creduto, l’indifferenza la pone anzi e la conferma (407; 130). 21

Il concetto che si avvicina maggiormente all’idea di Schelling è, forse, la differenza ontologica di cui parla Heidegger.

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Fondamento ed esistenza non coappartengono all’assoluto, ma sono ciascuno a suo modo l’assoluto stesso. È un errore definire l’essenza dell’assoluto in termini di identità (e differenza) degli opposti, perché l’assoluto, considerato assolutamente, esclude rigorosamente la presenza degli opposti. L’essenza dell’assoluto non può essere definita se non come l’indifferenza di identità e differenza, cioè, di nuovo, come l’annullamento di ogni opposizione. A questo punto è chiaro in che senso l’indifferenza (A = B) sia toto coelo diversa dall’identità (A = B). Mentre l’identità non toglie realmente gli opposti e così non tiene fede all’impegno di porre l’Uno come principio del sistema, l’indifferenza, invece, distinguendo fra opposizione e dualità, può ammettere due diversi modi di agire dell’Uno senza per questo limitarlo e snaturarlo. Ma ciò non significa che dal sistema sia escluso il lavoro dell’identità. Se l’indifferenza è il momento iniziale della rivelazione, l’identità segna invece l’ingresso in una nuova epoca della salvezza, in corrispondenza con il sorgere dello spirito il quale ha per compito appunto quello di sanare la scissione originaria. Ma al di sopra dello spirito sta il non-fondamento iniziale, che non è più indifferenza (equivalenza) [Gleichgültigkeit], e tuttavia non è identità [Identität] dei due principi, ma l’unità [Einheit] comune, uguale verso ogni cosa e tuttavia non compresa da alcuna, la carità [Wohltun] libera da tutto e che agisce in tutto, in una parola l’amore, che è tutto in tutto (408; 131).

Soltanto l’amore, infine, è in grado di offrire un’unità comune a tutte a le cose senza spogliarle della loro individualità, anzi, compenetrandole tutte dell’esistenza divina che diventa perciò omnia in omnibus. La grazia (Wohltun) che lega fra loro anche i destini individuali apparentemente più estranei (408; 131), permette di intravedere nell’amore la presenza dell’originario, dell’Ungrund, non più soltanto nella forma dell’indifferenza, ma arricchito del lavoro dello spirito ed elevato così a perfetta unità (Einheit). 5. Conclusione Le battute conclusive delle Ricerche sulla libertà sono quasi un saggio miniaturizzato di “dottrina delle facoltà”. Contrariamente a un’opinione diffusa, è razionale e non irragionevole solo quella scienza in cui sentimento (Gefühl) ed intelletto (Verstand) collaborano insieme a unificare le esigenze del cuore e dello spirito, del concetto e della moralità (413; 134). Il sentimento deve servire quasi da fondamento all’intelletto, che attraverso la scienza e la dialettica reca alla luce ciò che nel sentimento è solo

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oscuramente presagito. Ma, come l’ostentazione del sentimento è segno di grossolanità del sentire, così la voglia spasmodica di conoscere, tipica di un intelletto faunesco, dimostra soltanto la mancanza di riserbo (Zucht) e verecondia (Verschämtheit) nelle cose dello spirito (414; 134). Solo una corretta armonizzazione delle facoltà può essere di vantaggio alla verità. La quale non trionfa davvero se prima la ragione (Vernunft) non riporta l’unità dove l’intelletto ha prodotto l’estrema scissione e separazione (414-415; 135). Non è difficile, a questo punto, scorgere in filigrana la sapiente trama di corrispondenze fra il ritmo dell’assoluto e l’ordine delle facoltà, che Schelling ha celato sotto il manto di una prosa suggestiva e a prevalenza di chiaroscuri. Se, infatti, sentimento ed intelletto si comportano rispetto alla conoscenza allo stesso modo in cui fondamento e verbo si comportavano nella vita dell’assoluto, non ci sono dubbi che la definizione della ragione come indifferenza suggerisca infine una sorprendente similitudine o addirittura equivalenza della saggezza, a cui la filosofia aspira, con l’amore e l’oblio, il nulla e la grazia dell’Ungrund. La ragione è nell’uomo ciò che è secondo i misteri il Primum passivum in Dio, ossia la saggezza iniziale, in cui tutte le cose sono insieme eppur separate, unite e tuttavia libere ciascuna alla sua maniera. Essa non è attività, come lo spirito, non assoluta identità dei due principi della conoscenza, ma l’indifferenza; la misura e come il luogo universale della verità, la sede tranquilla in cui si contiene l’originaria saggezza, secondo la quale, come guardando al suo modello, l’intelletto deve raffigurare. La filosofia ha il suo nome, da un lato dall’amore, che è il principio che mette entusiasmo in ogni cosa, dall’altro da questa saggezza originaria, che è il suo termine [Ziel] proprio (415; 135).