Esperienze Introduzione all'ontologia critica

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Introduzione all'ontologia critica

Table of contents :
Introduzione all’ontologia critica
Introduzione
L’ETHOS FILOSOFICO DI NICOLAI HARTMANN
II
LE MACERIE DEI SISTEMI E LA CONOSCENZA SCHIETTA
Ili
IV
Ili
Ontologia nuova in Germania (* )
I
II
IV
VI
INDICE DEI NOMI
INDICE GENERALE

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NICOLAI HARTMANN

Introduzione all’ontologia critica Traduzione e introduzione

di REMO CANTONI

GUIDA EDITORI - NAPOLI

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49®,

CL 30 - 0032-X

Proprietà letteraria riservata © COPYRIGHT 1 972 BY

Guida Editori di Mario e Giuseppe Guida Napoli, Via Port’Alba 20-23

REMO CANTONI

Introduzione

L’ETHOS FILOSOFICO DI NICOLAI HARTMANN Il nome di Nicolai Hartmann (1882-1950) non è, ancor oggi, famoso tra noi come quelli di Edmund Husserl, di Ernst Cassirer, Martin Heidegger o Karl Jaspers, per citare soltanto alcuni filo­ sofi contemporanei tedeschi che possono stare al suo livello. Solo in questi anni, recenti o recentissimi, si stanno moltiplicando le traduzioni e gli studi italiani che sembrano voler restituire a que­ sto grande pensatore — nato a Riga e vissuto fino a 23 anni nel­ l’ambito della cultura baltica e russa, ove frequentò le Università di Tartu e Pietroburgo — l’alto rango che gli spetta. Uomo riservato e schivo, tutto e soltanto dedito al proprio infaticabile lavóro di ricerca filosofica e di insegnante universitario a Mar­ burg, ove succedette al suo maestro Natorp, a Colonia, a Ber­ lino, a Göttingen, Hartmann non cercò mai. nella sua vita in­ tellettuale i facili successi, né seguì mai le virate improvvise e demagogiche della moda o quelle del corso, spesso effimero, della storia. L,’ethos del lavoro filosofico di Hartmann è, volutamente, impopolare e inattuale perché nulla concede a ciò che è mondano, sensazionale, o comunque gradito alle emozioni oscil­ lanti e contraddittorie della pubblica opinione. A oltre vent’anni dalla sua morte, la sua figura riemerge, in un impetuoso Revival, dalla penombra in cui la cultura italiana, e non solo italiana, lo avevano distrattamente relegato e sembra riconquistare, con rapida ascesa, quella posizione di primaria grandezza che giustamente gli compete, mentre tante fame im­ meritate si avviano a un malinconico tramonto e si dissolvono o si annullano in un crepuscolo degli idoli piu simile alla farsa che al dramma. La scarsa popolarità e l’apparente ‘ inattualità ’ dell’ontologia critica di Hartmann hanno avuto piu di un motivo. Lo stile filosofico di questo pensatore, che trascorse la vita nella piu raccolta meditazione, senza mai portarsi alla ribalta sulla scena della società, senza mai apparire istrionicamente sul proscenio

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della storia, è .severamente sobrio e disadorno anche se non privo di tuia sua severa bellezza. Nei suoi numerosi libri, di grande mole e complessa struttura, Hartmann dà prova di una profondità e di un rigore inadatti al lettore frettoloso. Inutilmente si cerca, in questa filosofia, l’atteggiamento clamoroso, if pathos dì una * visione del mondo ’ o di una ‘ ideologia ’ che serva come stru­ mento diTòtta.' L’ethos intransigente della schietta ricerca intellettuale, Yethos del lavoro intellettuale e scientifico come Beruf — che significa ‘ vocazione ’ piu ancora che ‘ mestiere ’ o ‘ professione ’, per intender meglio la notissima espressione di Max Weber che parla di una Wissenschaft als Beruf — consiste per Nicolai Hartmann in una vigile e quanto mai scrupolosa analisi critica che diffida d’ogni smania o impazienza conclusive e sottolinea piuttosto, nel discorso filosofico che voglia presentarsi come scienza, le difficoltà o quelle che egli, aristotelicamente, chiama le aporie, insite' in ogni autentico problema di pensiero e spesso latenti o inconsapevoli nei grandi edifici speculativi e dottrinari. L’ontologia critica poco o nulla ha della vetusta ontologia classica. Essa è filtrata attraverso il contatto approfondito con il neokantismo marburghiano di Cohen, Natorp e Cassirer, con la fenomenologia di Husserl, di Scheier e dei loro discepoli. Ed è arricchita dalla meditazione si­ stematica di tutte quante le esperienze piu valide della filosofia classica antica e moderna, sottoposte a un vaglio che inesorabil­ mente vuol sceverare ciò che è vivo e ciò che è morto, l’oro e l’or­ pello, il grano e il loglio. Si direbbe cjuasi che la tecnica filosofica “di Hartmann consista in una operazione di smontaggio dei grandi sistemi filosofici per ricavare dalle macerie del sistema, ridotto in pezzi, le singole pietre che possono ancora servire come preziosi SatènairZi còsfruziònè.“'”“““” - La critica di Hartmann non mette capo a un ennesimo sistema di massiccia ontologia. È, piuttosto, una .indagine minuziosa e raffinata per scorgere quali siano.i principi ele strutture, le categorie e i valorTTlenorme e le leggi di un essere o mondo che, in ultima, analisi, esiste..in se e_non si risolve mai appieno ò esaustivani ente nel suo semplice essere conosciuto o nel suo divenire c oggetto ’. Questo induce a rompere con le gnoseologie dell’idealismo, del soggettivismo e, in generale, con tutte le gnoseo­ logie che, in forme varie e vari intenti, si richiamano pur sempre al valore supremo e centrale della soggettività, quand’anche la soggettività affermi di limitare i propfTcompìti a operazioni epi­ stemologiche particolari. Che il neopositivismo si illuda di muo­ versi nell’atmosfera rarefatta di pure ipotesi di lavoro, quasi pre­

Introduzione di R. Cantoni

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scindendo dai sostrati reali cui le ipotesi fanno riferimento, o che la fenomenologia dichiari di descrivere le pure essenze che le sToffrono come dati immanenti alla coscienza, mettendo tra pa; rentesi gli atteggiamenti naturalistici del senso comune e della stessa scienza;, ritornando cosi ai fenomeni, poco muta alle loro più o meno consapevoli attrazioni per tesi di sapore soggettivi-, stico o idealistico. L’essere è. invece, per Hartmann, una realtà intrecciata e stratificata, che dischiude la sua struttura, il suo rafffial^mpiahToT^ìtaSo^fzràEéì^ eTapcosamenteagcfii.sappia "adoperare, coti asraluta umiltà e dedizione, con puntuale scrupolo, j d’inscghàmehtò coniinuo é progressivo che giunge dalle conoscenze | "Hie’sò’no^wZzZ^r'contenute'nelle scienze filosofiche e nelle varie 'è “naturafi "e'storiche. ■ I. ”peciSclie“scienzè —MW Della rinascita vigorosa di studi hartmanniani nel nostro paese, costituiscono una riprova indiscutibile le edizioni sempre piu fre­ quenti che stanno oggi apparendo dei suoi scritti principali. Cito, ad esempio, La fondazione dell’ontologia, a cura di F. Barone (Fabbri, Milano, 1963), VEfica, a cura di V. Filippone Thau-. lero (Guida, Napoli, 1969, 1970 e 1972), il libro antologico L’estetica, a cura di D. Formaggio (Liviana, Padova, 1969), ' la monumentale opera II problema dell’essere spirituale, a J cura di A.. Marini (La Nuova Italia, Firenze, .1971).;, Le pri- ? me traduzioni italiane di Hartmann, che avevo conosciuto ( * all’Università di Berlino, le feci io stesso e risalgono all’ormai ■ lontano 1943. Le ristampo qui in una edizione interamente rive; duta e corretta, in virtù di un nuovo raffronto con i testi originali ■ apparsi ora nei voll. I e II delle Kleinere Schriften (Walter de / . , Gruyter, Berlin, 1955 e 1957). Già l’esistenza di questa edizione , postuma degli scritti di Hartmann da me tradotti, mi obbligava a tener conto della redazione originale definitiva degli scritti stessi. La vecchia traduzione, inoltre, che dei primi due testi (Der philosophische Gedanke und seine Geschichte (1936) e Sy­ stematische Selbstdarstellung (1933) avevo compiuto con la colla­ borazione della dott. M. A. Denti, non corrispondeva più, in vari punti e per varie ragioni, alle mie esigenze filologiche e filosofiche di oggi. Trent’anni, o quasi, non passano certo senza lasciare una evidente traccia. Oggi il rigore filologico negli studi di filosofia è molto più inderogabile e avvertito che non alcuni decenni or sono. Nel linguaggio da me adoperato nel 1943 constato oggi alcuni residui involontari della tradizione idealistica allora egemonica anche per quanti dall’idealismo si venivano nettamente distac­ cando. Il tempestoso e difficile periodo della guerra in corso non aveva, infine, consentito revisioni scrupolose di alcune sviste

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o disattenzioni. Queste revisioni sono state così frequenti e le modificazioni così numerose, che mi par giusto figurare ormai come l’unico responsabile della traduzione delle prime due parti del libro. La terza (Neue Ontologie in Deutschland, scritta nel 1940 e da me tradotta, in anteprima, per così dire, nel 1943), apparve in italiano nella rivista Studi filosofici diretta da Antonio Banfi (Anno IV, aprile-dicembre 1943, pp. 83-124). Il saggio era allora inedito in lingua tedesca e Hartmann lo aveva cortese­ mente messo a disposizione della nostra rivista, appunto in ante­ prima. Fu stampato piu tardi, nel 1946 nel ‘ Felsefe Arkivi ’ di Istambul. * **

Hartmann si sente, e indubbiamente è, un pensatore ‘ inat­ tuale ’ nel senso positivo e anticonformistico in cui Nietzsche ha genialmente usato tale aggettivo nelle sue ‘ Considerazioni inat­ tuali ’. Come Nietzsche, da lui pur così lontano nello stile di pen­ siero, Hartmann ha condotto una critica molto aspra e sprezzante contro i non pochijpregiudizi che aduggiano,daoltre unsecolo, l’uomo moderno, "eche non sono affatto scomparsi oggi nell’epoca dégli“udminì ‘ unidimensionali ’, ‘ eterodiretti ’ e imbottiti aneh essi di pregiudizi vecchi e nuovi che assumono sovente la torma '"dozzinale" di"c7zcFéf," d’ogginon è favorevole all’approfondimento. Essa sisottrae alla calma e alla contemplazione, è una vita di affanno e di fretta, un gareggiare senza meta e_senza meditazione. Chi si ferma per un attimo è .già_superato nelPattimq_ seguente. Come le richieste della vita esteriore, si rincorrono anche le impressioni, le esperienze, le sensazioni. Guardiamo sempre la novità piu recente, ci domina ogni volta ciò che è accaduto" per ultimò, è quello che precede è dimenticato prima che si abbia tempo non già di comprenderlo ma, addirittura, di vederlo con precisione. Viviamo di sensazione ~5n“ sensazióne. La nòstra “capacità di penetrazione si appiattisce e il nostro sentimento del valore si ottunde...’. L’immagine di que­ st’uomo ‘ eterodiretto ’, che rincorre l’ultima moda, l’ultimo evento, pronto sempre ad allinearsi con l’ultima tendenza, falsamente impegnato e falsamente disponibile, ci è stata trasmessa infinite volte dalle « scienze umane » contemporanee. Quest’uomo è ‘ uni­ dimensionale ’ non già perché sia una vittima di una sopraffazione

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sociale o storica che si verifichi oggi per la prima volta, in seguito alle ultime rivoluzioni industriali o perché sia la preda impotente ~^^lnass mé3.ia. Tutte le grandi filosofie.,e,i grandi capolavori letterari, fin dai tempi di Socrate e Platone, ci hanno reso fami­ liare questo personaggio solo preoccupato di essere up-to-date, di scegfiereTa via piufacile. Basta leggere senza prevenzioni le Sàtire di Giovenale d gli Epigrammi di Marziale, i Caratteri di Teofrasto, le Pensées di Pascal, gli Essais di Montaigne, La leggenda del grande inquisitore nei Fratelli Karamazov di Do­ stoevskij o L’uomo senza qualità di Musil, anche senza giungere alle descrizioni caricaturali di Jonesco e di Beckett, per renderci conto che, ai nostri giorni, abbiamo solo la radicalizzazione di un fenomeno che anche altre epoche hanno conosciuto. Il nostro tempo ci appare caratterizzato, semmai, da una esa- ' operazione dei fénomeni deteriori e involutivi dell'hegeliano ‘ spi- j ' > rito obiettivo ’ che ha ormai perduto ogni alone sacrale e avanza disordinatamente senza che ad esso provveda alcuna interna teleologia ^ alcuna divineggiante ‘ astuzia della, ragione \ Esso ci appare, via via, ora intollerante e fazioso, ora, a rovescio, apatico e indifferente, ora attivistico e faccendiero, ora, a rovescio, trascu­ rato e ozioso, perché, nella fenomenologia dello ‘ spirito obiettivo ’ unecht, ossia inautentico e spurio, gli estremi finiscono per coinci­ dere. Il minimo comun denominatore delle involuzioni dello ‘spirito obiettivo’ desacralizzato è la figura dell’uomo irrespon­ sabile, che fugge la libertà e la teme, costantemente travolto dalle j correnti rapide e mutevoli della pubblica opinione. Quest’uomo |del Man heideggeriano, questo Monsieur Tout le Monde, è sem< pre integrato, con debole senso critico e scarsa consapevolezza ! intellettuale e morale, nel ‘ corso del mondo ’, quale che sia la dij rezione che tale ‘ corso del mondo ’ assume. È qualunquistico je generico anche quando predica i non allineamenti7Te-nön'_integrazioni, Pininterrotta protesta e l’ininterrotto rifiuto. È superfidale anche quando parla da mattina a sera di critica e autocritica • Si rifugia .infatti nella coralità.,. nel gruppo,, nella... eterodire-. j zione pur di non portare in proprio responsabilità alcuna,. La filosofiae l’arte fanno certo parte dello ‘ spirito obiettivo ’ e non sono espressione di uno spirito isolato. Ma esse non si allineano con ciò che lo ‘ spirito obiettivo ’ ha di ripetuto, di conformi­ stico, di irresponsabile. Contro queste manifestazioni degeneri e superficiali dell’opinione pubblica eternamente fluttuante, Hartmann raccomanda sempre il metodo del dubbio, già caro a Socrate e a Cartesio. Nell’etica, nella filosofia, in ogni esistenza non eterodiretta (an-

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critica

che se Hartmann non usa mai questo termine contemporaneo), V ethos intellettuale di Hartmann è l’invito a una analisi ejLuno stüdiömhe“sia~cömprensi5ne 'déHè'sFruttufe' molteplici e complesse di iuna fealfaclìè ‘ e stratificata) e quihdi 'aporeticà è intrecciata fino''àll’ènigma,in"noi”e"fuòrr diinoi, * nella natura e nella società, nella vita organica come nella vita psichica e nella vita spirituale. L ethos filosofico richiede sempre 1 apertura piu ampia e spregiu­ dicata alla ricchezza davvero sconfinata dei fenomeni e dei pro­ blemi della vita. Il filosofo, o ogni uomo che alla filosofia si accosti con mente scientifica, non fa uso di ‘ prenozioni ’, non si affida a conclusioni premature, non si atteggia a ideologo o a profeta. La filosofia, insomma, non è un abito confezionato o un prodotto di rapido smèrcio. Richiede, per dirla con Hartmann, il fiato lungo della ricerca, e non muta dall’oggi al domani come le mode o i capricci.

L’ontologia critica di Hartmann è una forma di modernissimo ^realismo. Essa distingue quattro diversi strati o piani dell’essere — quello fisico, quello organico, quello psichico e quello spiri­ tuale — ognuno caratterizzato da categorie e valori che la ri­ cerca fenomenologica e aporetica, parallelamente alle scienze specifiche, di continuo analizza e mette in rilievo, ricercando } dipendenze e autonomie, continuità e discontinuità, omogeneità |ed eterogeneità, il ritorno e il novum. Filosofare èdunque unzarte I e_ una scienza, e non si obbedisce aHe norme dell’arte e _deB& 1 scienza quando si costruiscono ideologie e Weltanschauungen unilaterali, sistemi dottrinari monolitici e dogmatici, edifici di pensiero che pretendano, partendo dall’alto o dal basso, dallo spi­ rito o dalla materia, da Dio o dalla natura, dalla ragione o dalla spontaneità istintiva, di concludere sub specie MternitatisJ&jfò scorso sulla realtà e sull’uomo. La filosofia è, piuttosto, lo spirito vigile.. e paziente, capace di ...."descrivere la . varietà sconcertante dei ................ ........ .... ■ . —... ... .. - : ; .. .. • • ■■■■•' "A fenomeni accettati per quei che sono, la pluralità spesso contrad­ dittoria e urtante, delle categorie e delle leggi che emergono dallo studio scrupoloso e scientifico dei piani intrecciati che la realtà cT^‘*m sénta"ò7 églIò7 ci impone, con il peso greve della sua invalicabile ‘ durezza ’. Se dovessimo esprimerci in termini di moderna psicoanalisi si potrebbe dire che l’ethos della filosofia non ’ è una libido che si abbandoni al narcisismo, all’autismo, a un ■ principio del piacere che si rifiuti di fare i conti con il contrapl posto principio della realtà. È, invece, il monito a non distac...............

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carsi mai dal principio della realtà per inventare, immaginare, sognare fantasticare, sognare un mondo costruito seguendo la scala del solo desiderio o del solo impulso inconscio. Solo,"’ facendo i conti con la realtà, con le sue leggi, con le sue ; "3efeimmaziöi®7^^^si^ implacabili condizionamenti, l’uomo può davvero intervenire con la sua teleologia e la sua volontà ‘ffi’TnodificàreTessere "HatoTEo""sconGnàto mondo è difficile da ca- ■ pire perche ciò che e noto non e per questo conosciuto. 11 para- 'i dosso umano, per dirla con Alain, è che tutto è detto e nulla è rrapito. Il punto d’onore dell’intelligenza consiste nell’evitare ogni ! angustia di giudizio, rintolleranza perentoria e faziosa nelle valu•fazioni, che e sempre attestato di debolezza e frustrazione, perche la forza si esprime con argomentazioni ben altrimenti consistenti e persuasive. Nell etica in genere, e nell etbos hlosofaco in parti~cofere7Tìmpegno~ vero sta nel non chiedere mai l’esonero^dalle responsaEffità morali e" intellettuali, nell’evitare quel furor aggres­ sivo che "nasce "da~una incapacità di lavoro paziente, da un vuoto interiore che vuole subito nascondere il proprio volto per non doversi riconoscere. Nell’etica e nella filosofìa l’uomo interior- , mente inconsistente detesta ogni autocritica e cerca subito nelle ’ presunte colpe morali e intellettuali degli altri, degli avversari, | un comodo capro espiatorio per non fare i conti con se stesso. —. Una buona filosofia evita le ‘ razionalizzazioni ’, le ‘ deriva­ zioni ’, le ‘ ideologie ’, le ‘ prenozioni ’, gli stereotipi dell’intelli­ genza, tutto ciò che costituisce un pretesto che si offre all’uomo in ‘ mala fede ’ per smobilitare la ricerca e sentirsi, finalmente, in possesso della verità, di una verità che non lascia margini per il dubbio o l’incertezza. Se aporà è parola, dotta che significa difficoltà, dubbio, problema, Yaporetica, come ci insegna Hart­ mann, è quel momento della ricerca filosofica in cui, nello studio deTTènomeni reali, si enucleano e si affrontano le concrete diffi­ coltà^ le antinomie reali, i residui che, almeno per noi, sono ininteljegibili. Proprio i filosofi piu grandi, da Platone a Aristotele, da Kant a Hume, sono quelli piu dotati di talento aporetico. Il sistema è la parte caduca, il castello di carte della filosofia. Ciò che sopravvive al crollo di tutti i sistemi è il pensiero-pro- ; blérna, la capacità di vivere e comprendere la tensione dei pro­ blemi che nascono da una considerazione sobria e attenta del mondo reale. Solo chi raffina il proprio sguardo intellettuale e il proprio gusto morale, penetra la problematicità del mondo e si accosta alla sconfinata pienezza e ricchezza dei suoi problemi, significati e valori. Al fondo del pensiero di Hartmann vi è una antropologia non

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priva di elementi stoici, anche se egli non ha grande simpatia per la Stoa filosofica, La posizione dell’uomo, nel mondo non è centrale, come ritengono le filosofie antropomorfiche che decla*~mänö~lun,önnipotenza e sulla infallibilità dell’uomo.“È*, .. anzi; una posizione decentrata e periferica, tipica di un ente ontólogìcamente fragile e fallibile.^on rsuoi'disegnri^ologlciTpoicKe nessun altro ente nel mondò è provvisto di orizzonti teleologici e assiologici, l’uomo tenta di inserirsi nel gioco complesso,;e spesso enigmatico, delle forze che governano la natura e la storia. L’etica, filosofia, la scienza, la politica, le attività culturali sono iniziai Sve dello spirito personale e dello spirito obiettivo, che però devono fare i comi con tutto ciò che'nella natura e nella storia, ' nell’ésseré “in “gèhéfé"'höh e spirito ö‘"e"fefräftäfid alle 'iniziàfivé teleologiche. L uomo, ad esempio, e 1 amministratore dei valori. Egli e iJ mediatore che li trasferisce dall’esangue e depotenziato mondo ideale nella durezza e nelle leggi del mondo reale, ove si , incrociano le determinazioni piu diverse, dal basso e dall’alto: ■ L’impotenza dei valori piu alti, il loro pallido essere ideale, è ila condizione paradossale perché abbia senso e merito l’iniziativa ! responsabile dell’uomo che acquista così libertà d’azione, anche > se si tratta di una libertà difficile, assai diversa da un libero ! arbitrio sganciato da ogni vincolo con le determinazioni della na­ tura e della storia. In poche opere come nell’E/'zc«, affiora V ethos filosofico di Hartmann, insofferente di ogni relativismo e soggettivismo. Egli riconosce che la coscienza dei valori soffre per una specie di an­ gustia costituzionale. Le morali positive e storiche sono sempre necessariamente unilaterali. L’uomo che aderisce ad esse consi­ dera normativi e validi solo quei valori che cadono nell’oriz­ zonte centrale del suo campo visivo e non è mai in grado di co­ gliere con uno sguardo libero e limpido’Tmtefò régno dei valori. La coscienza morale, che si rivolge a nuovi valori e cerca di at­ tuarli, trasferendoli dal mondo ideale a quello reale, tende a lasciar dietro di sé i valori da cui si stacca. L’etica, come scienza filosofica, non può tuttavia far propria la ristrettezza di orizzonti morali che ogni volta caratterizza la sfera dell’azione. Anche se la coscienza dei valori muta storica­ mente, non per questo il regno dei valori si riduce a qualcosa di effimero, di transitorio o soggettivo, legato solo alle circostanze e alle situazioni. La protesta filosofica di Hartmann è rivolta contro AL dogmatismo di “una coscienza che àssólufizza il proprio punto di vista e diviene cieca e sorda per esigenze, valori, sigmncati, atteggiamenti diversi dai propri.

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L ’uomo nella vita passa accanto a un’insospettata '■-■»-e —, w.-.-, . . ricchezza ri»u—• di valori“ e diviene impermeabile a quei significati e a quei fini che non abbiano per lui un richiamo immediato e strumentale. La filo­ sofia insegna l’ampiezza e la profondità dell’universo etico e riaf- ‘ ferma 1 esigenza di educarsi e risvegliarsi alla percezione dei valori. Ciò che Hartmann critica è ‘ l’incapacità di vedere moral­ mente’, la distrazione, la mancanza di amore: ‘La sovrabbon­ danza dell’ethos umano si ammala e muore per la meschinità e la mancanza di cultura dello sguardo etico ’. L’etica è qui una scienza-guida che fa da pioniere a tutte quante le altre scienze filosofiche, perché non vi è filosofia se non vi è interesse, amore, apertura emozionale, intellettuale, morale per ciò che il mondo,, pur nella sua durezza e inesorabilità per l’uomo, ha di infinita­ mente vario e ricco. Sconfinata, è la pienezza~dèT valori’'nono­ stante l’angustia della nostra coscienza assiologica. Sconfinato è il mondo dei significati e dei problemi, nonostante le restrizioni e le obnubilazioni della nostra coscienza semantica e problematica. Il filosofo è colui che dilata gli orizzonti del mondo e restituisce ad esso quella plenitudo assiologica e problematica che il mondo realmente possiede.

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Presentando nel 1943 due tra gli scritti che si trovano rac­ colti in questo volume, io scrivevo: ‘ Con il decadere dei grandi sistemi filosofici, delle grandi sintesi speculative, un profondo smarrimento si è impadronito degli spiriti. Pare crollare, insieme con le maestose impalcature sistematiche, la fede stessa nel .valore universale del pensiero, La.jjita_non_.ritrpya_piu il suo ..senso unitario e si dirompe in forme irriducibili, conflitti insanabili, antinomie che nessuna logica sa riconciliare. Il nostro secolo, nelle idee e nei fatti, vive piu l’antinomia che la sintesi, e non sono pochi oggi i pensatori per i quali il compito della filosofia si ri­ duce a una presa di coscienza dell’antinomismo radicale dell’esi­ stenza, a una descrizione delle sue lacerazioni e delle sue con­ traddizione, a una confessione dell’impotenza della ragione a do­ minare la contraddizione stessa. Una venatura di irrazionalismo colora quasi tutte le filosofie contemporanee, e gli aspetti detenon e pericolosi di questa invadenza irrazionale sono la rivalu­ tazione smodata, piu nietzschiana che hegeliana, della vita impulsmTe™sèhsibile, inconscia e tellurica, l’adeguazione massiccia e acritica al livello di una storicità che si dispiega in fatti, eventi, istituzioni, divenuti idoli o feticci, l’abbandono ai flutti caotici

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della vita, su cui galleggia, navicella senza nocchiero, la smarrita coscienza. In questa situazione di cultura la pubblicazione di questi scritti di Nicolai Hartmann acquista un significato particolare. Una fede serena nella filosofia, una consapevolezza chiara dei suoi compiti, un’assoluta dedizione alla ricerca teoretica, illumi­ nano le sue pagine. Per Hartmann il crollo fragoroso dei sistemi non indebolisce la filosofia, anzi la rafforza e la riconduce al suo compito dì scienza rigorosa. Dopo le ubriacature metafisiche delle grandi Weltanschauungen, la filosofia deve diventare ricerca ispirata a un criterio di assoluta sobrietà teoretica. Il nostro tempo Tia'"in^räfö^^iffidäTe“'dei‘'gfändi~cäsTeIlr"di carta dei sistemi metafisici. La vita evade sempre dalle camicie di forza del sistema; i problemi, coartati e angustiati entro il letto di Procuste delle grandi visioni dogmatiche, intristiscono invece di espandersi nella loro vita naturale, le Weltanschauungen, portando un loro prin­ cipio di verità a generalizzazioni e illazioni arbitrarie, scontano il loro peccato decadendo in manifesti errori teoretici, e il neofita rimane disorientato e deluso della variopinta contraddizione dei sistemi e dubita della serietà e del valore della filosofia stessa. Il pensiero di Hartmann segna l’aperta dichiarazione di guerra ai sistemi e a quelle perfette quanto fragili architetture speculative che, con il miraggio di una irreale coerenza, in realtà uccidono la ricerca e offrono un risultato dove è un problema, uno schema I definito dove è la fluidità della vita stessa. Al pensiero-sistema Hartmann contrappone il pensiero-problema, e cioè un pensiero che non sottopone la varietà elei fenomeni dell’esperienza all’an­ gustia di alcune inadeguate categorie. I problemi della filosofia jion sono quelli creati dall’arbitrio del singolo filosofo, ma vivono di una loro vita obiettiva e costituiscono, nel loro insieme, la trama teoretica, universalmente valida del pensiero. Amare i pro­ blemi senza precipitose impazienze, diffidando delle soluzioni troppo facili, ecco il vero ethos della filosofia. Riconoscere l’infi­ nita problematicità della vita, la misteriosa enigmaticità dei suoi interrogativi, affrontare coraggiosamente la disperante contraddi­ zione, ecco “dò cEé~disfihgué~la’ricerca teoretica dalla vanità specrulativaTLa filosofia "non rinuncia älLüriitä, ma non la pone piu come un postulato a priori-, vuol essere sistematica senza cadere nel sistema. Sono i problemi stessi che si coordinano e si armo­ nizzano, ma quest’armonia è il risultato e non la premessa della ricerca filosofica ’ (R. Cantoni, Introduzione a Filosofia sistema­ tica, 1943, pp. 9-11). A queste pagine della mia gioventù, scritte quasi trent’anni

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fa presentando un filosofo del tutto sconosciuto tra noi, o noto solo a pochissimi studiosi, come Antonio Banfi o Piero Marti­ netti, non credo di dover oggi togliere qualcosa. Già allora difen­ devo l’ethos della filosofia contro gli irrazionalisti da un lato e contro i sistemi idealistici dall’altro. Irrespirabile mi sembrava allora l’atmosfera politica e filosofica dominata dalle dittature fascista e nazista su di un versante, e dalla dittatura del­ l’idealismo sull’altro versante. Oggi abbiamo altre forme di irrazionalismo dominante e altre forme di chiusura ideologica che minacciano V ethos della filosofia come un tempo. In fi­ losofia esiste tutta una letteratura che contesta il significato e il valore della civiltà scientifica e tecnologica, in genere, por­ tandola sul banco degli imputati quale responsabile delle non poche contraddizioni e dei moltissimi disagi in cui si dibatte la civiltà industriale. La pars destruens di questo atteggiamento la si comprende se si pensa che_scignza e tecnica npri hanno saputo evitare le calamità della guerra, della fame, della sqvrapojpolazione, deirìnquinamento atmosferico^ della ‘"denaturazione, ’ in genere, che è il dramma forse piu acuto dei nostri tempi. La pars construens non si intravede perché tecnica e scienza, in sé, non sono affatto disvalori e solo un rozzo e informe romanticismo, a sfondo utopistico e irrazionale, può predicare il ritorno rousseauiano a un inesistente stato di natura o a un idillio da paradiso terrestre, senza macchine, senza produzione di beni economici, senza con­ flitti tra uomo e uomo, tra gruppo e gruppo. La civiltà del pia­ cere e dell’ercn illimitati è l’ennesima edizione dell’irrazionalismo vitalistico e naturalistico. E, sul piano etico e pratico, l’irrazio­ nalismo edenico, libero da ogni rimozione e sublimazione, dedito al puro culto del piacere illimitato e crescente, si trasforma, per interiore Nemesi, in predicazione di un ribellismo assai grezzo e puerile, senza esiti o sbocchi veramente civili. La difesa dello spirito scientifico, illuminato da traguardi assiologici e teleologici positivi, e ancor oggi una Bestimmung o un Beruf per la filosofia. E proprio in questo senso Hartmann è più attuale che mai. Questo ethos filosofico e scientifico va ancor oggi difeso contro ogni prevaricazione compiuta da parte delle potenze sociali e po­ litiche detentrici del potere economico e burocratico o aspiranti a un potere incondizionato che abbia nei suoi programmi l’umilia­ zione della ragione, la mortificazione della libertà di ricerca e creazione. ‘Non è la politica in quanto tale che vuole l’asservimento e la strumentalizzazione dei valori culturali, ma soltanto una politica a sfondo totalitario e dispotico che revoca tutte le libertà creative dell’uomo teorizzando il carattere subalterno e

2. N. Hartmann _ Introduzione all’ontologia critica

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servile della scienza, .della filosofia, dell’arte, della morale stessa. Proprio per le insidie che si annidano nel ‘ politicismo ’ esaspe­ rato e assoluto, l’ethos intellettuale di Hartmann conserva intatto il suo significato progressivo. * »»

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Bisogna riconoscere ad Hartmann il merito di avere, tra i primi, avuto il coraggio di riaffermare, in_chiaye laica e mondana, ' la ineluttabilità della jnetafisica e dei suoi grandi temi di fondo. . L’uomo non può non porsi i problemi del significato e del valore | I propria esistenza. E questi problemi hanno profili e dimen-~ ■ J sioni che soltanto gli atteggiamenti scettici e agnostici di una / filosofia ammanierata e superficiale, di stampo positivistico e otto­ centesco, dichiarano non-metafisici. A badar bene lo stesso., scettico, lo stesso agnostico danno risposte di carattere metafisico quando dichiarano che non è possibile sapere o conoscere i fonda­ menti del problema dell’essere e dell’esistente. Rispondere nega­ tivamente non significa uscire da un certo quadro problematico o sconfessare il senso e il peso della domanda. Significa solo che la domanda si affaccia alle soglie del mistero e dell’enigma, ma già il mistero e l’enigma sono problemi schiettamente metafisici, che non si possono risolvere con una alzata di spalle o con una eccezione di inammissibilità. La fin de non recevoir può valere come procedura formale nel diritto, ma non è certo una proce­ dura legittima nella filosofia ove i problemi reali hanno tutti un loro innegabile ‘ diritto ’ intellettuale al riconoscimento, anche se le soluzioni sono spesso ardue, aporetiche o, in ultima analisi, negative. Il negativismo e il nichilismo, che sono tesi relativistiche o scettiche, non sono dunque meno metafisici di altre filosofie che intendono essere metafisicamente positive e costruttive in termini dichiarati. Se per metafisica si intende la possibilità di ricostruire un sistema metafisico, dall’alto o dal basso, teistico o ateistico, nessuno è piu antimetafisico di Hartmann. Proprio contro simili pretese di un discorso esaustivo e assoluto, conclusivo, Hartmann ha sollevato critiche radicali, rivendicando il carattere fenomeno­ logico e aporetico di ogni schietto filosofare. Hartmann piu di ogni altro ha sottolineato con vigore il fatto che la metafisica non è un punto di partenza né può mai concludersi con affermazioni esaustive. Non avviene nel suo pensiero alcun ritorno restauraf tóré a una metafisica tradizionale, dissociata dalle scienze in fieri ! ed eretta in vero e proprio monumentum aere perennius. Egli

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si è limitato a dire che la tematica metafisica si ritrova, ad esem­ pio, nel problema della conoscenza, nella logica, nella psico­ logia, héir’ética e "intutti i campi deLsapere filosofico. chsLnpp può arrestarsi a metà nell’indagine, sospenderla; ò affermare che là" realtà" coincide solo con ciò che sappiamo e conosciamo in mòdo certo, JJ sapere e la conoscenza hanno contenuti e oggetti reali, ma incontrano sempre una specie di barriera d’ignoto che siamo sòliti chiamare V irrazionale o, al limite, il trans-intelligibile. Ma si tratta di un irrazionale che non pregiudica i caratteri dell’es- i sere, di un irrazionale per noi e non in. sé. Se si abolisce la di­ stinzione tra il per noi e l’in sé, se si riduce quest’ultimo a qual- |' cosa privo di senso al di fuori della correlazione con il sog­ getto, si confonde il dato con l’essere, il percepibile con il reale. È questo il pregiudizio correlativisticq_che consiste nell’allon- ’ tanarsi artificiosamente dall’oggetto e dall’impostazione naturale per ricadere nel soggettivismo e nell’impostazione riflessa. Que- * sta conversione è penetrata anche nella filosofia della scienza. Quest’ultima, preoccupata di procedere criticamente, non parla piu di leggi della natura ma, soltanto, di leggi della scienza na­ turale. Secondo Hartmann è questo un cammino insensato e pericoloso perché ‘ una scienza che si ritrae in questo modo nei suoi concetti e nelle sue formule, diviene una scienza senza og­ getto ’. La ratio essendi non è identica alla ratio cognoscendi e chi non tiene conto di questo scarto, ritorna, inconsapevol­ mente, a un gnoseologismo in cui si annidano i vecchi pregiudizi metafisici dell’idealismo, del relativismo estremo, o di una antro­ pologia enfatica che mette al centro di ogni problema e di ogni indagine il per me o il per noi, quasi che l’uomo non fosse un ente ontologicamente periferico che ha giustamente subito umiliazioai alproprio narcisismo dalla rivoluzione copernicana, da quella darwiniana e, infine, da quella freudiana. Per una specie di riflesso condizionato la parola metafisica evoca in molti, soprattutto in quanti si richiamano a premesse laiche, mondane e scientifiche, un complesso di insofferenza e diffidenza che deriva, in larga parte, dall’eredità positivistica e dalla sua illusione di far tabula rasa di ogni filosofia che non punti tutte le sue carte sulla scienza e sul progresso, sui dati certi e verificabili che ci porteranno a calcolare e dominare il mondo. Oggi occorre disfarsi da quel riflesso condizionato e riconoscere come il problema metafisico, nella forma critica di un minimum di metafisica è~nóh glà di una metafisica deduttiva o speculativa posta al di là del mondo reale, riemerge quando si pensi radicai-

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mente e non si resti nel limbo di un pensare provvisorio che si rifiuta di pofrèT problèmi "del significato e del valore/dèi Tonda-, menti stessi del nostro pensare, agire e vivere. Si fa strada oggi il convincimento che all interno delle stesse singole scienze si riapra uno spazio ulteriore che e una sorta di varco per quel fnìnimum 'di' metafisica che i pröblenirHell’uomo sempre conten­ gono quando l’uomo non si' abbandoni all’inerzia della ignava "räüö che lo induce a non pensare ulteriormente. Proprio oggi possiamo far nostre le accuse kantiane alla ragione pigra, a quella faule Vernunft che Kant, nella Critica della ragion pura ha criticato. È ragione pigra^_cqme afferma Kant, ‘ ogni principio il quale porti a considerare come assolutamente compiuta la propria "ricerca cosi che la ragione si metta tranquilla, come se avesse completamente terminato il suo compito ’

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Anche il termine ontologia subisce la stessa sorte del termine metafisica e suscita il medesimo senso di fastidio o irritazione. Ma già l’esistenzialismo, ad esempio con Heidegger, Jaspers e Sartre, ha ripreso in esame i problemi dell’essere, dell’esistente e dei suoi fondamenti. Il pensiero di Lukàcs, nelle sue ultime espressióni, ha anch’esso una decisa svolta ontologica e si ri­ chiama esplicitamente alla lezione di Hartmann (cfr. G. Lukàcs, Lavoro e teleologia in G. Markus, La teoria della conoscenza nel giovane Marx, Lampugnani Nigri, Milano, 1971, pp. 85-111). L’ontologia di Hartmann si distingue nettamente dalla vec­ chia e antiquata ontologia che già Kant aveva severamente cri­ ticato. Se i problemi metafisici sono quelli non risolvibili senza residui e che, nel loro oggetto, contengono un residuo transin­ telligibile, imposto dall’essere—così del mondo, anche i problemi ontologici, presenti a ogni livello dell’essere, non si possono abro­ gare o rifiutare e ci accompagnano in permanenza anche nel caso che non si possano risolvere. Per Hartmann esiste uno sfondo ontologico persistente nella logica, nel mondo biologico, nel mondo psichico, nel mondo spirituale. Mentre la vecchia ontologia con­ siderava l’uomo come centro e fine di tutto quanto il cosmo e subordinava tutti gli strati dell’essere alla cuspide teleologica dell’uomo, immagine di Dio, l’ontologia moderna ha, invece, una visione della realtà assai piu spregiudicata e critica. L’essere spi­ rituale o ideale è, certamente, un livello ontologico della realtà e possiede una sua relativa autonomia nei confronti degli altri strati della realtà che gli fanno da premessa o da supporto. Ma

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sarebbe del tutto irreale la visione di un essere spirituale — in questo caso l’uomo — sganciato dagli strati portatori che esi­ stono in lui e fuori di lui. Non esiste alcun privilegio ontologico né in alto né in basso, pèrche ogni livello ontologico possiede una sua particolare struttura. Lo spirito non è dunque piu reale della materia né quest’ultima, a sua volta, può pretendere di cp“stìtuire la’sedè privilegiata dell’essere. La vecchia metafisica con­ fondeva spesso, ad esempio, la realtà con la materialità e si vedeva cosi costretta ad attribuire ai destini umani, agli eventi storici, ai processi sociali un carattere di irrealtà,. sebbene proprio "quésti dèstim” questi eventi e questi processi abbiano nella vita’ umana l’importanza piu alta e il maggior peso di realtà. Vi è realtà specifica soprattutto in ciò che è unico e indivi­ duale, mentre la vecchia ontologia era portata ad attribuire un essere di grado piu elevato proprio al mondo dell’universale nella sua atemporalità. Mentre per l’ontologia passata il regno delle essenze era considerato una realtà perfetta che riduceva le cose t singole e individuali al rango subalterno di copie pallide e ! sbiadite, per l’ontologia moderna le essenze si sono svelate come , il mondo-"deUbncòmpiufo'è' dell’astratto, che ha bisogno di rea- : lizzarsi cotposàment^ìn~inodò vitale è concreto, in un mondo . sénsiljjid è materiale. 'L’època moderna" si avvia a una metafisica molto diversa "dall’antica, a una riflessione non piti ‘ speculativa ’, ma sobria e modesta. Anche questa metafisica, afferma Hartmann, ha bisogno di una ontologia come fondamento. Questa nuova on­ tologia ‘ non dovrà mai essere abbozzata come un tutto ‘ dall’alto ’ é neppure dovrà essere concepita mai come sistema. Deve pren­ dere Tavvio’ ^dàl basso ’, deve sorgere dall’indagine "del' particq^ lare, dall’analisi di contenuti di problemi che si possono dimo­ strare. Qui non può servire di modello l’ontologia tradizionale del .Medio evo. Questa poneva il reale completamente sotto le forme dell’essenza e intendeva perciò queste ultime nel senso di forme sostanziali. Proprio questo si è rivelato dubbioso, si è rivelato un presupposto speculativo. Il reale è assai piu differenziato del regno dell’essenza; la individualità dell’esistente va a cadere molto al di là "dei limiti dell’essenza e delle sue leggi (e ogni reale è individuale); lo stesso si dica del carattere dell’essere di ciò che è veramente reale, come della processualità e della unità indisso­ lubile dei rapporti dell’essere in ogni reale determinato ’ (da Filo­ sofia sistematica, p. 167). Analogamente la ‘ fenomenologia ’ commette un errore quan­ do, per dare un nuovo fondamento all’ontologia, ricostituisce il regno delle essenze senza tener conto delle caratteristiche del

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reale. I principi della realtà non possono essere sostituiti dalle ' essenze. L’essere reale non è identico all’essere ‘ come si mostra ’. _Se così fosse, la ricerca ontologica sarebbe superflua e non vi sa­ rebbe nel mondo alcun enigma, alcun residuo irrazionale o transin'Telligibile che fa resistenza o pone un limite alla nostra volontà Sconoscere e signoreggiare il mondo in cui viviamo. * **

Uethos filosofico di Hartmann è una proposta di sobrietà intellettuale in un’epoca concitata e inquieta, impaziente e fretto­ losa. In questo nostro tempo di estrema ‘ mobilità ’ sociale, sia orizzontale che verticale, tutto sembra mutare vertiginosamente, impetuosamente, a cominciare dallo ‘ status ’ e dal ruolo degli uomini. Si trasformano i beni e i valori, i gusti e gli stili di vita, le forme e i linguaggi. Si è impadronita dell’uomo moderno una febbre del nuovo, una attesa irrequieta del sensazionale, di cui sono, ad esempio, una riprova i giornali con i loro titoli sempre piu allarmanti e vistosi e con la loro tendenza a interpretare emo­ tivamente ogni evento soprattutto in termini di stimolante ‘ no­ tizia ’. Gli spettacoli cinematografici sono una rassegna della rivo­ luzione dei costumi con un indugio, spesso morboso e compia­ ciuto, sui temi del sesso e della brutalità, per quanto non man­ chino, in questo campo specifico, produzioni di ottimo livello e lodevoli eccezioni. Le metamorfosi tecnologiche e scientifiche, che sono state davvero impressionanti, provocano un senso di vertigine nella nostra vita quotidiana, ma in questa vertigine si insinuano, sempre piu corrosive e insidiose, la paura, la nausea e l’angoscia. Il profluvio di oggetti stravaganti e spesso inutili, irrazionalmente cangianti, immesso nel mercato del consumo, in­ genera curiosità, stupore e, in fine, noia o malessere. Mentre informazioni e comunicazioni fanno cumulo e pressione attraverso i canali o vettori dei mass media, che manipolano quantità e qua­ lità dei messaggi, la profusione stessa dei messaggi lascia traspa­ rire il volto squallido dell’incomunicabilità. Classi, gruppi, gene­ razioni, nazioni, stirpi non si comprendono tra loro o si compren­ dono solo attraverso penosi veicoli di malefede, equivoco, e malinteso. L’incomprensione e l’incomunicabilità vengono, a volte, idoleggiate come spie di presunti e inconciliabili stili di vita. La conseguenza del contrasto dei valori e dei modelli culturali viene razionalizzata come fatalità e moralità di un dissenso e di un conflitto permanenti. Arte e letteratura sono testimonianze e simboli drammatici di una società frequentata dagli spettri del­

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l’assurdo e del nulla. Il percorso della letteratura che va, negli ultimi decenni, da Kafka a Musil e mette capo alle esperienze-li­ mite dell’assurdo balbettante di Jonesco e Beckett o allo speri­ mentalismo delle varie avanguardie, è la parabola di un itinerario che termina nel grottesco, nel caricaturale, nell’antiromanzo, nell’antiteletteratura, negli antieroi, nell’antivicenda come sintomi dello sfacimento e della crisi degli antichi valori. Se questi sono tra i caratteri dominanti del nostro tempo,■ che sembra il teatro di una violenza e di una aggressività in cre­ scendo — contrappasso o risvolto tragico quest’ultimo, di una j frustrazione psichica e sociale — in questa civiltà del disagio | quale attualità può avere oggi un pensiero come quello di Hart- ; mann? Un ethos filosofico scrupolosamente e rigorosamente sobrio, ' nemico di ogni concitazione e di ogni retorica, alieno da tutto ciò che è sensazionale, quale significato assume nel momento pre­ sente? Uno stile filosofico che ha il proprio nucleo intellettuale e morale in una coraggiosa revisione critica di ogni pregiudizio, di ogni affermazione unilaterale o precipitosa, in una disponibilità aperta e serena per il dubbio metodico e la descrizione obiettiva dei fenomeni reali, per il rilievo delle aporie insite in ogni pro­ blema, non è, per ipotesi, oggi una impopolare vox clamantis in deserto? L’attualità dell’“ antimoderno ’ Hartmann consiste, paradossalmerrté,"proprio nel carattere ‘ inattuale ’ del suo filosofare, nella *ihtfärisigehte suä? fedeltà all’ethos di una ricerca sobria e paziente che non ha mai soluzioni o conclusioni trionfalistiche da offrire, ma soltanto fenomeni reali da analizzareu senza preclusioni ideo­ logiche, difficoltà reali da indicare, senza astratte semplificazioni, distinzioni critiche da sottolineare tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, tra quello che concretamente si può conoscere e fare e ciò, invece, che non si riesce a conoscere appieno o a realiz­ zare davvero, perché l’uomo, singolo o associato, è pur sempre un ente parziale e fallibile, posto com’è alle soglie dello sconoj sciuto e dell’inconoscibile. Se nell’epoca attuale il detto manzo­ niano che ‘ la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’uno ’ spiace ai detentori di infallibili ricettari filosofici, lo stile di pensiero della fenomenologia e dell’aporetica di Hartmann, contrario a ogni monopolio della verità, rischia anch’esso di spiacere a quanti ritengono di aver già fatto i loro conti con questo nostro mondo che * attuale è, invece, ancora tutto da studiare e da scoprire. Ma proprio nel rischio di questo assoluto andare contro corrente

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e sfidare il facilismo filosofico sta, secondo me, il fascino e l’at­ tualità di Nicolai Hartmann.

lYethos filosofico di Hartmann ridona alla filosofia la sua fun­ zione più schietta e autentica, che non è quella di stare al rimor­ chio o in posizione ancillare nei confronti di altre scienze settoriali e neppure quella, tutta pragmatica e strumentale, di offrire j. joropri servizi alle potenze economiche o politiche di una parti­ colare situazione storica. La sudditanza o l’ancillarità della filo­ sofia, come quella analoga della scienza e dell’arte, portano al dissolvimento e al crollo della ricerca filosofica, sostituita da altre occupazioni ritenute più utili, agevoli e attuali. Chi non vuole la morte della filosofia, la morte della scienza o la morte dell’arte, ipotesi oggi tutt’altro che peregrine, deve difenderne l’autonomia e salvaguardare quell’etóor che consente ad esse di sopravvivere f mentre è indubbiamente in corso una trasmutazione o un crepu' scolo delle forme culturali. ' Accennerò assai brevemente ad alcuni pericoli che minacciano la sopravvivenza di quella forma culturale che ha nome ‘ filosofia ’. Un primo pericolo proviene dal pregiudizio positivistico che la filosofia debba seguire le sorti della teologia e della metafisica, dissolvendosi nel sapere metodicamente più rigoroso costituito dal progresso evidente della scienza. Filosofia e scienza sono mo­ menti convergenti ma non coincidenti della cultura. £ verissimo che oggi la filosofia non può che procedere affiancata al lavoro scientifico -— e Hartmann lo ha visto benissimo — ma Yethos della filosofia non sopporta l’abbraccio soffocante e prevaricatore di una singola scienza.nLa,filosofia non è logica, matematica, fisica, bio­ logia, psicologia, sociologia, antropologia culturale, scienza della politica. È un discorso più vasto e universale, interessato a tutti gli aspetti dell essere, a tutti i livelli o strati della realtà. Il matematismo o il logicismo, il fisicalismo o il biologismo, lo psicolo­ gismo o il sociologismo, l’antropologismo o il politicismo tra- ! sformano la parte del tutto e hanno ragione solo settorialmente. J Se Hartmann ha con tanto vigore denunciato le unilateralità e i dogmatismi impliciti negli ‘ sconfinamenti categoriali ’, si deve evitare l’inflazione categoriale, il riduzionismo che applica indebi­ tamente principi validi per uno strato alla totalità intrecciata e molteplice degli strati. La goffaggine e la grossolanità dei tentativi di interpretare con schemi solo logici, matematici, fisici, psicologici o biologici

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i fenomeni dell’esperienza artistica, ad esempio, sono troppo note perché metta conto dilungarsi su tale argomento.,'Questi tentativi screditano le singole scienze e recano assai deboli contributi alla comprensione del fenomeno artistico che non può esser veduto solo dal basso con un sistema inadeguato di categorie, anche se resta vero che molte categorie degli strati inferiori dell’essere conservano una loro parziale validità negli strati superiori. È solo, l’attenta considerazione del novum artistico, non dissociato dallo studio degli altri momenti categoriali che ritornano nell’oggetto artistico, il metodo corretto per non deformare la struttura, il senso e il valore di una estetica non proclive a violentare e di- : struggere il proprio specifico oggetto. J La storia della filosofia di un tempo soffriva di anemia e di astrattezza quando si isolava dal circuito del sapere scientifico o quando si considerava un sopramondo al di là del mondo sto­ rico e sociale. Ma resta altrettanto vero che la filosofia si nutre di scienza in generale e di ‘ scienze umane ’ in particolare senza risolversi, ad esempio, in sociologia, in antropologia culturale o in psicologia. La sociologia è una scienza recente, del piu alto i interesse per la filosofia, ma il sociologismo o, ancora peggio, il sociocentrismo sono atteggiamenti dogmatici e settoriali. Ridurre ogni fenomeno alle sue componenti sociologiche crea una meta; Tìsica” dell’essere sociale é uno sconfinamento categoriale, tanto "^u^ericolpso quanto piu il" sociòlogo o il filosofo-sociòlogo jy illudono di aver messo finalmente i piedi sulla terra promessa e ignorano tutte le aporie di un analisi genetica unilaterale dei, fenomeni indagati. Lo stesso si dica dell’antropologia culturale, che ci ha dato studi del piu grande pregio quando ci ha fatto conoscere dall’in­ terno le ‘ eteroculture ’ e ha criticato i limiti dogmatici dell’etno­ centrismo, ma diviene addirittura ridicola quando si arroga il di­ ritto di raccogliere per intero l’eredità complessissima della filo­ sofia. Il monito rivolto da Apelle al ciabattino, che giustamente ' criticava un difetto nelle scarpe dipinte dal pittore, presumendo tuttavia di giudicare con la sua osservazione anche il quadro, è, ancor oggi, l’esortazione a non compiere sconfinamenti categoriali. Ne sutor sùpra crepidam è una sentenza-metafora per ridimen­ sionare le singole scienze e invitarle a non gettarsi con impru­ denza in imprese che vanno al di là delle loro concrete e precise possibilità. L’antropologia culturale o sociale rischia davvero di deformarsi interiormente o addirittura annullarsi come indagine scientifica quando perde il gusto della ricerca sul campo o quando ritiene che la semplice giustapposizione acritica dei vari modelli

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culturali costituisca già di per sé una forma rammodernata di filo­ sofia. È proprio la filosofia a mostrare tutte le aporie insite nel relativismo culturale o nell’ingenuo principio che basti mettersi dal punto di vista della eterocultura per uscire dai guai o dai vizi della propria monocultura. Antropologia culturale e filosofia fanno bene a prestarsi un mutuo soccorso, senza indulgere tutta­ via a identificazioni nocive sia all’una che all’altra. Di questi pro­ blemi particolari riguardanti le scienze umane Hartmann non si occupa in questi termini, ma è solo oggi che il problema del rap-, porto tra ‘scienze umane ’ e filosofia è divenuto attuale. Il modo I corretto di impostare tale problema consiste nel consigliare alla filosofia il massimo di apertura verso queste nuove e preziose scienze, "senza tuttavia dissolvere in esse il proprio compito. E quel che vale per la sociologia e l’antropologia culturale, vale anche per la psicologia e la linguistica, che sono nuovi e affascinanti ter­ ritori di indagine per il filosofo moderno ma non già alternative che possano colmare il vuoto creatosi in seguito all’atteggiamento ) dimissionario di tanta filosofia. A quei critici che hanno mosso ad Hartmann il rimprovero di voler costruire una filosofia senza presupposti (‘ voraussetzun­ glose Philosophie ’), il filosofo ha replicato duramente di non avere mai avuto in mente niente di simile. Nella prefazione a Der Aufbau der realen Welt (1939) Hartmann ha scritto senza equivoci: ‘ La filosofia non comincia con se stessa; essa presup­ pone sapere accumulato nei secoli e l’esperienza metodica dl^ i' tutte le scienze. Dalla mostruosa sciocchezza di una ‘ scienza /; sènza’presupposti ' essa, in ogni caso, è piu lontana di ogni altro /i ramo del sapere. Ciò che essa deve realmente cercar di evitare, < sono 1 presupposti di un determinato tipo: quelli speculativi e costruttivi che anticipano la ricerca e determinano preliminar­ mente le sue mete. Ancora nel neokantismo ha predominato la tendenza a costruire sistemi artificiosi. Noi reagiamo oggi contro questa tendenza. La filosofia non deve costruire castelli in aria. Essa non deve neppure dare a intendere di occuparsi di cose fuori del tempo. Essa deve affrontare i problemi partendo dalle situa­ zioni nel tempo e nella misura in cui tali problemi sono divenuti maturi per potersene occupare,’ (Der aufbau der realen Welt, Vorwort, p. Vili). Raffigurarsi la metafisica o l’ontologia di Hartmann come se fossero simili ai vecchi sistemi di una filosofia antiquata, incurante dello sviluppo concreto e positivo delle scienze, equivale a co­ struire un falso storico. La fenomenologia e l’aporetica di Hart­ mann distruggono i castelli di carta dei sistemi e costituiscono

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una replica critica contro ogni forma di visione unilaterale e dogmatica che deforma l’esperienza partendo da presupposti arbi­ trari e soggettivi. Questa tendenza alla deformazione dei feno­ meni, al salto delle aporie, alla costruzione di miti e utopie soggettivi che si risolvono in declamazioni sulla onnipotenza de­ miurgica dell’uomo sono mode reviviscenti oggi. A questo neoro­ manticismo che confonde i vagheggiamenti e le ubbie con la dura realtà che non si lascia manipolare ad arbitrio quasi fosse una làbìle'cera, la filosofia di Hartmann può servire come correttivo assai utile. Vi sono oggi, per dirla con Hegel, troppi ‘ cavalieri della.virtu, tropppDon Chisciotte cfie si abbandonano al delirio, dellapresunzione ’ dimenticando che la realtà ha leggi proprie e strutture definite che non si lasciano fare e disfare a proprio talento. La filosofìa di Hartmann fa un larghissimo posto ai valori e ai fini che l’uomo, unico ente assiologico e teleologico, tenta di realizzare. Solo l’uomo è l’intermediario tra il dover essere e la realtà. Ma questo suo compito demiurgico l’uomo può assol­ verlo soltanto se conosce davvero la realtà in cui vive. E può conoscerla solo se la indaga nella complicata ricchezza dei suoi fenomeni, nella varia struttura delle leggi complesse che la go­ vernano. La filosofia è questo esercizio laborioso e difficile e l’ethos filosofico consiste nella volontà di intraprendere questo lungo e paziente cammino. Remo Cantoni

PARTE PRIMA

Il pensiero filosofico e la sua storia

I PENSIERO-SISTEMA E PENSIERO-PROBLEMA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA

Non vi può essere alcun dubbio che la storia della filosofia, come oggetto di ricerca, esposizione e dottrina, sia "ri'divèhtata un argomento preoccupante per il pensiero di oggi. Al principio del secolo la situazione si presentava diversamente. La cono­ scenza,, del passato e dello svolgimento del pensiero filosofico appariva elaborata e ben custodita in compendi dai numerosi volumi. Il conflitto delle concezioni non era certo morto, ma non riguardava la totalità del sapere, né la « realtà effettiva » come veniva intesa. Lo /storicismo ha distrutto questo sogno. I punti di vista mediante i quali il passato ha valutato, scelto, interpretato e costruito, sono divenuti per noi problematici, nel loro condi­ zionamento storico; le connessioni che sembravano evidenti, le unità dei periodi e delle direzioni che valevano come date, ci sembrano unilaterali; i confini tra ciò che è realtà di fatto e ciò che è ricostruzione si sono dimostrati ambigui. La grande elabo­ razione di un’immagine complessiva, che incominciò dopo la morte di Hegel e fece maturare tanto sapere positivo, non ha raggiunto lo scopo. Nel momento in cui giungeva al proprio termine, dimostrò di riportarci piuttosto di nuovo al punto di partenza. A questo destino partecipa la storia della filosofia con quasi ogni altra indagine storica. Ma tale situazione non è dappertutto così avvertibile e non ha condotto dappertutto a così numerose scissioni. Come materia di insegnamento la storia della filosofia

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diviene in questo modo quasi una pretesa illusoria. Se, come la cosa richiede, si pone chi deve apprendere non solo davanti alla molteplicità dei sistemi e delle dottrine, ma anche a quella delle interpretazioni e delle opinioni, gli si toglie ogni possibilità d’orientarsi in questa sconfinata varietà; invece di fargli raggiun­ gere un orientamento e una comprensione lo si porta addirittura a disperare di capire ed egli giunge cosi ad una prematura delu­ sione e si allontana dalla filosofia. Come ogni sano di mente, egli cerca naturalmente il contenuto spirituale delle visioni del mondo, e il relativismo delle « opinioni » che si alternano, deve sembrargli un semplice surrogato di quello che cerca. Dove l’incertezza diviene abituale, per il genere della materia di insegnamento, l’intelletto che sta formandosi si disabitua a decidere — e con ciò anche a criticare e a conoscere. Evidentemente deve esserci qualcosa di errato nel modo di considerare la ricerca e l’esposizione storica. Il problema è questo: dove si trova l’errore? Non certo nella semplice incom­ piutezza dei risultati raggiunti; l’esperienza ha insegnato che ogni completamento rende l’errore soltanto piu sensibile ancora. Bene o male lo si dovrà cercare nell’orientamenta fondamentale del la­ voro storico. Ma per scoprirlo dobbiamo rifarci da lontano. Tutto ciò che nella vita chiamiamo nostra conoscenza, è in realtà un miscuglio di conoscenza e di errore. Un criterio diretto della verità non l’abbiamo; la verità non e un contenuto palpabile nell’oggetto conosciuto, ma un rapporto con qualcosa, che non possiamo conoscere altrimenti che per mezzo della nostra conoscenza, e precisamente un rapporto con l’oggetto. Ogni verificazione, attraverso un lungo cammino, trova la sua conferma nell’oggetto. La coscienza che si ha comunemente dell’oggetto nella vita è incapace il piu delle volte di attendere tale conferma, ma fa delle anticipazioni, dei completamenti, delle combinazioni e senza prove considera ciò che ha prodotto come una verità. Anche le scienze non si sottraggono a questa legge; ogni investigatore lo sa bene e calcola tenendo conto di questa sorgente di errore; ma anch’egli deve tener conto degli infiniti elementi imprevisti dell’esperienza, deve far valere ipoteticamente l’indimostrato, per cui il giusto apprezzamento dei gradi della certezza non può mai essere sicuro, pascono le teorie, sono com­ battute e difese e di nuovo debbono esser lasciate cadere. Sem­

Parte prima - Il pensiero filosofico e la sua storia

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pre esse si correggono nel corso del tempo; la scienza avanza continuamente e ciò che "si dimostra valido continua a vivere. Nella filosofia la situazione è molto piu difficile. Per la sua essenza essa porta su ciò che è totale, ultimo, essenziale, dunque succiò che non può minimamente venir afferrato dalla cono­ scenza limitata. Per ciò essa tende sempre e soprattutto a com­ pletare, a costruire, a fantasticare liberamente. Piu fortemente di tutti gli altri, gli oggetti piu inaccessibili incitano al pensiero costruttivo. Sono appunto questi oggetti, lo si deve dire, che fin dal principio eccitano le teste fantasiose, ma tengono quelle assennate ad una salutare distanza. Nella maggior parte dei suoi rappresentanti, la filosofia è uscita da immagini preconcette nelle quali, in seguito, dovette far entrare a forza ciò che l’orizzonte particolare dei suoi oggetti non riusciva a comprendere. Le co­ struzioni che cosi ne risultano sono i cosiddetti sistemi filosofici: essi costruiscono un tutto prima di aver dominato i relativi pro­ blemi e deducono questi ultimi dalle conseguenze del tutto. Queste sono cose ben note e non avrebbero bisogno di alcun commento se si trattasse soltanto di esse. Ma non si tratta di esse soltanto. La filosofia non si esaurisce in quelle costruzioni-, procede vicino a queste, e nello stesso tempo quasi velato da esse, un altro tipo di lavoro spirituale che avanza per problemi, analizza, esamina, approfondisce e ha la tendenza a non far valere se non ciò che è dimostrabile. È 'il lato che la filosofia ha in comune con le salutari tendenze di ogni scienza. Accanto al pensiero-sistema procede il pensiero-problema. Per lo piu questo è vivo nelle teste di coloro che sono anche costruttori di sistemi. Spesso in una unica testa le due tendenze entrano tra loro in contrasto. Tuttavia in ogni tempo si possono facilmente distinguere due tipi di pensatori: gli uni che sono prevalentemente spiriti volti al sistema, gli altri che sono in prevalenza spiriti volti ai problemi. I primi sono in maggio­ ranza. I maestri della scolastica, appartengono quasi senza ecce­ zione a questi; nel tardo nominalismo si fa strada, per la prima volta, la tendenza opposta; nell’antichità appartenevano a questo tipo Plotino e Proclo, nell’età moderna, Bruno, Spinoza, Wolf, Fichte, Schelling, Hegel. Gli spiriti problematici sono in minor numero. Relativamente puro possiamo ritrovare il loro tipo in Platone e in Aristotele; ma è possibile riconoscerlo chiaramente

3. N. Hartmann _ Introduzione all’ontologia critica

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anche in Descartes, Leibniz e Kant. Ciò che li distingue è il fatto che il loro pensiero o non si inserisce affatto in un sistema, oppure continuamente supera e rompe il sistema stesso. Ma qui non interessa tanto la tipologia dei pensatori quanto i due tipi del pensiero filosofico stesso, i quali nel loro lavoro ora si distinguono, ora si confondono. Uno dei due modi di pensare bada alle conseguenze del sistema, cerca di portarle a termine ad ogni prezzo; gli importa non già di approfondire, ma di accordafèiNon può fare a meno di violentare i problemi, di far valere soluzioni forzate. O, quando i problemi non vogliono adattarsi al sistema, tende a scartarli, a spiegarli come domande mal poste. L’altro modo di pensare segue i problemi nelle loro conse­ guenze. Non anticipa conclusioni, non presuppone un’immagine del mondo nella quale tutto debba andare a finire, oppure è sempre pronto" a " rivederla. Non lascia che i suoi principi gli vengano dati, ma prima di tutto li cerca. Prende le mosse dai problemi che incontra o da quelli nei quali si imbatte nella ri­ cerca; se si tratta di risolvere i problemi e non può risolverli, persiste nella ricerca e rimane nell’incertezza. Non respinge pro­ blemi perché non quadrano con i suoi calcoli; persevera in essi, con essi percorre tutti i cammini ai quali possono condurre. Il pro­ blema con le sue conseguenze lo costringe a spezzare continuamentel’edificio del sistema. Per lo piu, quindi, questo modo di procedere appare, dal punto di vista del sistema, come « in­ coerente ». In ciò si distinguono univocamente i due cammini; se al pen-, siero spetti di raggiungere l’unità del sistema o la conoscenza. È questo fatto che permette di distinguerli senza possibilità di equivoci, anche là dove vengono ad intrecciarsi, in modo esterior­ mente indissolubile, nell’opera di uno stesso pensatore. In fondo è una differenza dell’atteggiamento del pensiero, dell’eidos filo­ sofico. Nel primo caso si tratta di difendere e provare una posi. zione che si mette da un certo punto di vista, nel secondo caso di riuscire a raggiungere la comprensione e la verità. Per questo, ciò che ^pensiero—sistema jiroduce è qualcosa di condizionato nel tempo, un edificio" effimero, ciò che invece il pensiero-problema riesce a raggiungere è una conquista perenne della cono­ scenza, qualcosa di supertemporale. Così almeno nei fondamenti: i sistemi mutano, sono i ca-

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stelli in aria del pensiero, che la piu leggera scossa fa precipitare; r i risultati effettivi della ricerca problematica restano, si manten­ gono nell’andare e venire dei sistemi. Non precipitano con questi, quando essi crollano. Ritornano ancora, su di essi si costruisce di nuovo; si attua in essi il corso continuo della cono­ scenza progressiva. E questo corso continuo non dipende soltanto dai risultati, effettivi raggiunti. I problemi stessi piuttosto hanno una conti­ nuità storica. Non certo nel senso che ogni pensatore sappia comprendere ogni problema, né che i problemi siano già dati fin daH’inizio. Ma un problema, una volta scoperto, progre­ disce — attraverso la serie dei tentativi di soluzione — fino a che non viene realmente risolto. Ma i problemi filosofici sono dei veri abissi e non è facile che raggiungano una vera solu­ zione, così sono essi che, in quanto ne costituiscono l’eterno contenuto, legano in una continuità il pensiero di teste assai differenti e di intere epoche. Ciò naturalmente non vale tanto per la posizione e la com­ prensione dei singoli problemi e nemmeno per la situazione momentanea dei problemi, la quale è relativa al livello del sa­ pere raggiunto in una determinata epoca, quanto per il vero e proprio contenuto dei problemi. Ciò che chiamiamo il problema dell’anima, del bene, della giustizia, della sostanza non è qual­ cosa di arbitrario, di fatto dagli uomini; si tratta di interrogativi fondamentali che sono inevitabili, che continuamente si impon­ gono, indipendentemente da ogni situazione storica e da ogni orientamento di interessi. Possiamo non riuscire a raggiungerli nel nostro pensiero, ignorarli, tralasciarli, ma non per questo toglierli dal mondo, impedire che essi affiorino sempre di nuovo. Poiché è il mondo stesso in quella forma in cui ci si presenta, è la nostra stessa vita che ce li pongono. Per principio l’uomo non può sfuggirvi, perché non sta in suo potere di cambiare il mondo. Sul fondamento di queste riflessioni possiamo ora chiederci in un ben determinato senso: che cosa ha fatto finora la storia della filosofia? Si è preoccupata di quello che è l’acquisto impe­ rituro della storia del pensiero? dei risultati effettivi delle con­ quiste durature? Che registri anche questi in quanto appartengono al conte-

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nuto totale è evidente. Ma si chiede se ha distinto i risultati / della conoscenza in quanto tali e se li ha messi in luce fuori da I quella che è l’opera momentanea dei sistemi. Ci sarebbe voluto I per ciò uno sforzo particolare, uno sforzo rivolto in primo luogo al riconoscimento stesso dei problemi. Infatti i contenuti dei pro­ blemi risultano sempre a prima vista; essi si nascondono spesso dietro a impostazioni elaborate in forma assai diversa dai pen­ satori. Sovente si svelano soltanto in ciò che sembra margi­ nale — in ciò almeno che è alla periferia del sistema; e non sono pienamente riducibili in concetti o in termini, poiché nuUa è piu mobile, nella storia, della formazione dei concetti e della , terminologia. La medesima espressione muta già di significato da un pensatore all’altro e, dopo un po’ di tempo, il suo significato deve venir sempre ricostruito. Per questo le connessioni che il sistema attua sono tanto inadeguate quanto le intuizioni che rimangono rinchiuse entro i limiti di una data epoca; con le prime si ottiene sempre solo un risultato superficiale ed effimero nell’edificio logico di un pensatore, con le ultime si ottengono soltanto presupposti prefilosofici e pregiudizi. È necessario rico­ noscere già i contenuti dominanti dei problemi per penetrare piu a fondo nell’indagine. Ma per i problemi filosofici bisogna’ possedere l’organo adatto, bisogna anche sapersi muovere in essi! come ricercatori e investigatori, dunque, bisogna persino essere’ un pensatore sistematico. In linea di principio si deve qui affermare: l’organo che permette di comprendere al di là degli intervalli della distanza storica si sviluppa in un pensatore prima di tutto lavorando con i problemi. Poiché, se in questo comprendere si tratta di riconoscere i contenuti dei problemi, storicamente si può cono­ scere soltanto ciò in cui il proprio pensiero si è cimentato. Il puro storico, che non sia filosofo, non può farlo, come non sa­ rebbe possibile scrivere una storia della matematica senza essere matematico. La differenza è soltanto che nell’ultimo caso si tratta di una cosa talmente evidente che a nessuno verrebbe in mente di dubitarne, mentre nel caso della filosofia, dove ogni dilettante può immaginarsi di essere filosofo, si arriva a comprendere que­ sto fatto solo quando si abbia raggiunto un alto livello d’espe­ rienza intellettuale. Dunque, che cosa ha prodotto fin’ora l’indagine storica della

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filosofia? Di fronte a questa domanda dobbiamo in primo luogo. pensare alle grandi esposizioni del secolo XIX, a paragone delle quali il tempo presente non ha ancora prodotto nulla di uguale ' valore — all’opera di Johann Eduard Erdmann, di August Brandis, di Heinrich Ritter, di Karl Prantl, di Eduard Zeller, di Kuno Fischer, di Wilhelm Windelband, come di tutti quelli che hanno cercato con lo stesso spirito e a loro modo hanno con­ tribuito a quella immagine generale che questa epoca « classica » della storiografia ci ha tramandato. Ciò che qui importa rilevare non sono le differenze di orientamento e comprensione e nem­ meno di valutazione, accentuazione e rilievo, ma unicamente ciò che costituisce il momento fondamentale del metodo, il modo stesso di porre i problemi e di ricercare. Su questo punto si può registrare una notevole unità. Si deve affermare: questa storiografia classica obbediva essen­ zialmente all’esigenza di ricercare le concezioni, le dottrine, le intuizioni del mondo, i sistemi. Si indagava il fatto storico, ma si t interpretava il fatto di una filosofia come un fatto di pensiero. Per ogni pensatore ci si chiedeva: « che cosa ha insegnato, che cosa ha propriamente voluto dire, a quale visione complessiva tendeva »; non si chiedeva: « che cosa ha visto, conosciuto, capito, quali conquiste ha lasciato dietro di sé ». Certamente non vi è alcun dubbio che anche con questo modo di procedere si registrassero parecchie conquiste, parecchi risultati imperituri: chi legge queste esposizioni con occhio critico può riceverne maggior profitto di quanto esse non offrano intenzionalmente. Ma deve fare una scelta e introdurvi quindi un senso sistematico per i problemi di cui le esposizioni stesse sono sprovviste. Si richiede per ciò di saper meditare sul problema della conoscenza e del­ l’errore \

1 Che valore abbia la differenza tra la ricerca della « opinione dottri­ naria » e quella delle « acquisizioni durature » si può mostrare solo con degli esempi. Duns Scoto giunse alla definizione di un concetto della indi­ vidualità che non è valido, se si ammettono i suoi presupposti del realismo degli universali. Egli « pensò » qualcosa di impensabile e quindi incontrò una giusta critica; ma ciò malgrado, fu il primo a « scoprire » quel senso imperituro di una vera « unicità » qualitativa (non soltanto numerica) che molto piu tardi fu messo in luce da Leibniz. Ci troviamo nelle stesse con­ dizioni con la celebre soluzione della terza antinomia kantiana. Kant « pensò » l’opposizione della cosa in sé e del fenomeno come condizione della possi-

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Non si può sostenere però che i maestri della storiografia non abbiano fatto altro che ricostruire gli edifici di pensiero delle visioni filosofiche. Essi hanno rielaborato, l’una dopo l’altra, le connessioni, le opposizioni, le suture trasversali, le subordinazioni, le direzioni, le tendenze come i loro effetti reciproci. E non manca nemmeno una certa dose di riflessione critica; qui il pro­ blema è però di sapere fin dove il loro pensiero filosofico abbia saputo elevarsi al punto di vista decisivo. Ma colpisce il fatto che tutti, nella misura della loro dedizione al modo di pensare dei pensatori sistematici che venivan trattando, non siano stati capaci di sottrarsi alla magia dei sistemi; anche il loro proprio pensiero viene, per cosi dire, trascinato sulla via di quella conse­ quenzialità tipica dei sistemi, è imprigionato dalla potenza delle grandi costruzioni e non può liberarsene. Ogni punto di vista che non sia immanente a un « sistema » sembra loro inadeguato, anzi antistorico e perciò viene rifiutato. Ciò che questa storia della filosofia ci ha lasciato, in definitiva, non è dunque molto piu della serie delle visioni del mondo e dei sistemi. f Ma presi nel_loro .complesso, proprio i sistemi sono i proI dotti di concezioni preconcette, di pregiudizi e costruzioni, cioè : sono, in sostanza, gli errori della filosofia, ciò che vi è in essa cIFtransitorio o almeno di precario. Quindi, in definitiva, quello che cosi si presenta non è tanto la storia delle conoscenze umane, > quanto la storia degli errori umani. La storia della filosofia cosi intesa ed esposta è proprio quel « brancolare » descritto da Kant, al quale manca il « sicuro procedere della scienza » 2. Questa tendenza verso il sistema è antica. Si può rintracciarla

bilità di una coesistenza della causalità e della libertà. Con ciò fece del­ l’idealismo trascendentale il presupposto di questa soluzione. Ma appunto questo presupposto fu a ragione contestato. £ caduta per questo la solu­ zione della terza antinomia? Sarebbe da miopi giudicare così. Ciò che qui importa non è l’idealismo, ma la dualità di strati eterogenei dell’essere con diversi modi dell’essere — nel mondo che è uno e persino nell’unità del­ l’essere umano. Questo è ciò che Kant « vide », ciò che « scoprì » attraverso il suo idealismo. Cfr. il mio scritto Diesseits von Idealismus und Realismus, Berlin 1924. In generale: ciò che i grandi pensatori « sanno » e « accolgono » nella loro dottrina è raramente identico a ciò che « vedono » o « scoprono ». (""Pochissimi scopritori sanno tutto quello che hanno realmente scoperto; quasi tutti condividono il destino di Colombo. I primi a saperlo sono gli '“-epigoni. 2 Kant, Kritik der reinen Vernunft, Prefaz. alla II Ediz.

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fino nell’antica doxografia, si può ritrovarla nell’attività dei com­ mentatori 3. Essa non deriva a tutta prima dall’interesse di una vera e propria indagine storica; deriva da un certo orientamento ; ! popolare verso la filosofia, il quale si attiene a ciò che è più j ì facilmente raggiungibile, a ciò che colpisce di più, al sonoro, al variopinto, a ciò che in generale la gente prende in conside­ razione e discute, a ciò che raggiunge la celebrità. Ciò non è mai lo studio riservato, esoterico, dei problemi con i suoi risul­ tati, i quali, per lo più, producono un’impressione che sembra molto modesta; è piuttosto l’opinione dottrinaria, il detto, l’im­ magine del mondo, il sistema. In tempi assai diversi quella ten­ denza ha destato l’entusiasmo per le grandi e magnifiche costru­ zioni del pensiero puramente per se stesse. Spesso fu la gioia" di costruire in quanto tale, spesso il bisogno metafisico, spesso anche uno sfuggire alla realtà, talvolta un semplice bisogno in­ tellettuale di sensazioni o la gioia di pensare per se stessa. Il più serio tra i motivi di questo tipo, l’esigenza di veder risolti gli enigmi, è così profondamente radicato nella natura dell’uomo che il suo persistere attraverso il mutare dei tempi non può mera­ vigliare. Anche la storiografia filosofica moderna subisce il suo fascino; e l’intensificarsi dell’indagine storica — verso la ricerca delle prime sorgenti di un pensiero, degli influssi storici, delle elaborazioni e modificazioni dei motivi — a questo riguardo si è modificata ben poco. Anche la più felice scoperta di rapporti è ancora assai lontana dalla differenza che vi è tra una mera opinione dottrinaria e la conoscenza genuina. Wilhelm Windelband si impose nella sua epoca per il pro­ gramma di costruire una storia dei problemi, e cercò di portarlo a termine. Sarebbe stato legittimo ritenere che questa storia ci consentisse di raggiungere una progressiva penetrazione, di risol­ vere problemi particolari e di spostare quella che è la situazione dei problemi. Avrebbe dovuto darci come risultato un progresso della conoscenza. Invece l’esposizione si accontenta di suddividere la materia in « campi » o discipline entro le epoche. Vengono pro­ 3 Del resto un’eccezione assai significativa si trova proprio in chi è a capo di tutta la storiografia filosofica: si tratta di Aristotele, il quale svolse la storia della filosofia in modo diverso (soprattutto nella Metafisica A). Ricercò infatti, coloro che nei problemi e nei risultati erano stati i prede­ cessori.

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posti soltanto gruppi di problemi secondo sezioni limitate, non diversamente di come del resto venivano esaminati i singoli pen­ satori secondo il complesso dei loro sistemi. Perciò va persa in parte, o si oscura, quella che è la connessione tra i vari gruppi di problemi; e si rimane per altro ai concetti e alle opinioni dottrinarie, ai sistemi e agli ismi. Le conquiste conoscitive non si sollevano dalla massa del materiale di pensiero di piti di quan­ to consentirebbe una chiusa esposizione dei sistemi. La storia reale dei problemi, che avrebbe dovuto fondarsi sul riconosci­ mento dei problemi nel lavoro filosofico dei pensatori, non è stata scritta. Anche la direzione di Wilhelm Dilthey e della sua scuola, che si ispira alle scienze dello spirito, non ha portato a questo riguardo alcun mutamento. Qui tutto va a finire nelle connessioni strutturali storiche dei movimenti e delle correnti spirituali; nel centro dell’interesse vengono spinte le forze extra-filosofiche dello spirito — siano esse quelle della fede, del gusto, dei rapporti sociali o del modo di vivere secondo le proprie inclinazioni. Da tutte le parti si rendono visibili i « motivi » del pensiero; si comprende perché la filosofia di una epoca sia spinta in quella determinata direzione che ora segue, perché coltivi e sviluppi certi concetti preferiti, perché si attenga a certi pregiudizi, ma non sia sensibile ad altri. Ciò che il pensiero produce nel corso , della conoscenza, fino, a qual punto, esso colga i vecchi pro­ blemi fondamentali, li promuova o li trasformi, rimane perciò di importanza secondaria 4.

4 È un aspetto particolare di questa direzione la storia della gioventù dei grandi pensatori a cui Dilthey stesso si accinse in modo esemplare. A fondamento di essa sta il concetto che ogni conoscenza storica deve risa­ lire fino alle origini. Questa direzione ha avuto egregi continuatori. Ma quali ne sono i risultati? La storia della gioventù di Hegel ci è stata di molto aiuto per comprendere la personalità spirituale di questo pensatore, e anche la storia della sua epoca; ma su ciò che Hegel « ha conosciuto » e su ciò che il suo tempo e la posterità poterono imparare da lui ci ha ben poco edotti. Forse che comprendiamo noi meglio il contenuto filosofico della dialettica dell’infinito quando sappiamo che essa fu in un primo tempo una dialettica del concetto di Dio? Può affermarlo soltanto colui al quale importano i dati tradizionali della rappresentazione divina, ma non colui che nel proprio pensiero è colpito dalle aporie dell’infinito. Ci troviamo nella stessa situazione con le grandi speranze che accompagnarono, alcuni anni or sino, la pubblicazione della Jenenser Logik und Metaphysik. Questo

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Naturalmente non si tratta di restringere la legittimità di un simile atteggiamento. Entro i suoi limiti esso è nel suo pieno di­ ritto e necessario, cosi come l’interesse per le scienze dello spi­ rito è del tutto autonomo e relativamente indipendente dai pro­ blemi della filosofia. Esso ci serve anzi, anche indirettamente, per l’indagine storica della filosofia; la filosofia è sempre portata, ! infä.tti1_daj)rgsjjpppsti e tendenze che hanno le proprie radici I fuori di essa. Non possiamo minimamente rinunciare ai motivi / e alle connessioni strutturali dello spirito storico, nello stesso modo in cui non e possibile rinunciare alla ricostruzione dei si­ stemi nel senso della storiografia classica. L’errore incomincia t piuttosto quando si prende una simile ricerca come il tutto o anche soltanto come il punto centrale nell’analisi del divenire, della conoscenza filosofica. Ma questa opinione è quella che oggi ‘ si fa strada nei circoli specializzati di ogni grado. Con tale impostazione può prevalere, in ogni esposizione, soltanto ciò che è attuale per l’epoca; poiché di qui vengono gli impulsi più evidenti. E in ricercatori meno profondi tutto svanisce per lo più nelle correnti popolari, nei modi di pensare é nelle espressioni alla moda delle varie epoche. Che ci sia anche un cammino specifico dei problemi, che in tutti i tempi i concetti basilari si fondino su conoscenze che possono anche venir capo­ volte e che queste non si pongano altrimenti che inserendosi nella continuità del lavoro progressivo della conoscenza —r una continuità che scorre nascosta dietro la lotta delle opinioni palesi e sempre richiede una scoperta particolare — ecco tutto ciò che non si può certamente vedere in una impostazione simile. Il suo orientamento stesso è cosi difficile da cogliere, appunto perché a suo fondamento ritroviamo, vicino ad unilateralità d’ogni genere, una tendenza salutare — quella verso la effettiva fedeltà storica. Questa tendenza, naturalmente, è assolutamente intan­ gibile. Il problema è soltanto: cosa vale per essa come « fatto » nel corso storico della filosofia? È il gioco variopinto e caotico scritto ha portato alla nostra intelligenza un’idea di Hegel essenzialmente nuova e preziosa? Io non trovo. Ci permette soltanto di vedere molto chia­ ramente da quali intuizioni storte e unilaterali le posteriori si siano purifi­ cate. Dunque queste intuizioni sembrano piuttosto oscurare che non chia­ rire quelle dell’Hegel maturo. E forse sono ancora piu necessarie quest’ultime per capire quelle, che non quelle all’intelligenza di queste.

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dei concetti o la lotta seria dello spirito che indaga, la lotta che esso combatte con il suo oggetto — il mondo, la vita, l’essere umano particolare? Sembra che si tratti qui di un triplice pregiudizio, che si è posto di fronte al pensiero storico come un muro. Dobbiamo sfondarlo per avere la visuale libera. / In primo luogo si tende a ritenere che tutto ciò che un (pensatore insegna sia, in fondo, di ‘ uguale valore ’. Naturalmente àr stabilisce una certa gradazione nell’importanza delle diverse parti di una dottrina e anche nel significato di ciò che è centrale e di ciò che è periferico (nel sistema), di ciò che è originale e di ciò che è stato acquisito e altre cose ancora. Ma ci si guarda bene dal riconoscere una vera e propria gerarchia dei pensieri quanto al loro valore conoscitivo. Allo storico di questo tipo ciò sembra troppo pericoloso, egli crede di abbandonare con ciò il sentiero sicuro della fedeltà storica ai fatti. Certamente egli, per lo piu, non si accorge che già nella scelta che fa è determinato anche da distinzioni di questo genere; ma poiché non lo sa, non se ne dà pensiero e si guarda dall’introdurre co­ scientemente degli apprezzamenti. Molto probabilmente vedrebbe, sotto molti riguardi, piu oggettivamente se si rendesse aperta­ mente conto del fatto inevitabile che nel valore conoscitivo vi sono diversi gradi. In secondo luogo si pensa come Fichte nella sua ammiratissima frase: « La filosofia che si sceglie^dipende dall’uomo che si è ». piu non comprendono affatto questa frase nel senso rigoroso che essa ha per Fichte; generalmente si pensa che l’opera di un filosofo sia l’espressione della sua personalità, delle sue inclina­ zioni, della sua volontà. E se si aggiunge a questo che in ogni uomo la sua infanzia è un fattore potente, si può introdurre in questa formula una profusione di motivi storici. Allora sembra più che evidente che la filosofia non possa consistere altro che in costruzioni di pensiero mal fondate, le quali sono estremamente condizionate dal tempo e soggettive e perciò sono storicamente „fenomeni fugaci. Non ci si accorge che in questo modo si giunge 'ad un concetto della filosofia che esclude a priori da sé ogni pretesa conoscitiva. Ed allora diventa molto problematico il perché ci si occupi soprattutto della sua storia come oggetto di insegnamento, perché i pensatori viventi continuino sempre

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a rivedere criticamente i pensatori del passato o ne cerchino l’in­ segnamento. E in terzo luogo, si tende a pensare che tutto ciò che è essenziale nelle dottrine debba derivare da qualche sorgente al di fuori della filosofia, dalle tendenze vitali delle circostanze sto­ riche, da taciti presupposti e pregiudizi. Si pensa così a tutte le forze possibili, soltanto non si pensa alla forza della conoscènza, a quella dei problemi, a quella dell’enigma eterno del mondo — come se si fosse dimenticata del tutto la continua inquietudine che emana da questi interrogativi5. Certamente vi sono delle forze extrafilosofiche —■ spirituali e aspirituali, in noi e fuori dinoi, ma non sono le uniche nella filosofia e in generale non sono quelle che determinano il progresso della conoscenza. Le piti fatali dovrebbero essere qui proprio le grandi forze storiche, quelle della Chiesa nel Medioevo, quelle economiche, sociali, uti­ litarie nell’età moderna. È vero che tutti i sistemi dipendono ma­ nifestamente da convinzioni dominanti; ma è proprio contro que­ ste, prima di tutto, che le nuove idee, quelle che rivoluzionano il pensiero, devono lottare. ’ Se ci si attiene soltanto al predominio di quelle convinzioni si giunge molto presto alla conseguenza che sia « vero » in ogni tempo soltanto ciò che conviene alle sue tendenze. E con ciò si annulla il senso originario della conoscenza e dell’errore e si sfocia nel piu crudo pragmatismo.

5 Ricordo qui le prime parole della Critica della Ragion Pura di Kant: « La ragione umana in una classe delle sue conoscenze ha il destino parti­ colare di essere tormentata da interrogativi che non può rifiutare... ma a cui non può rispondere... ».

II LE MACERIE DEI SISTEMI E LA CONOSCENZA SCHIETTA

Eravamo partiti dalla domanda perché la storiografia filo­ sofica classica non ha potuto soddisfare né il bisogno della filo­ sofia stessa, né quello deU’insegnamento accademico che essa ha determinato; perché, nonostante apporti ingegnosi, essa ha con­ dotto in definitiva ad un disorientamento. La risposta è ora evidente: è cosi perché la storia della filosofia, che fu scritta da questa storiografia, non ha nulla a che vedere con la vera storia della filosofia. Ciò che si scrisse fu e rimane essenzialmente ’ una storia dei pensieri delle intuizioni, delle opinioni dottrinarie e dei diversi tipi di rappresentazione, come dei loro « motivi », i motivi che hanno radici nelle vaste circostanze stesse della vita; spesso fu anche semplicemente storia delle costruzioni, delle fan­ tasie, dei sogni — dunque di ciò che è in sommo grado relativo agli uomini e ai tempi. E si riteneva che appunto questa fosse j la vera e propria storia della filosofia. Si scriveva la storia della filosofia come si scrive la storia della religione o dell’arte, non come si scrive la storia di un ramo della conoscenza, di una scienza. Ciò che si scrisse fu e divenne sempre piu una semplice storia dello spirito; e nel senso di una simile storia i risultati sono anche di gran valore. Invece ne scapitarono la lotta per il dominio dei problemi, come anche quello che è il progresso nel divenire del conoscere — progresso lento in verità e che spesso si ritrova ricacciato al punto di par­ tenza. L’enorme fatica che il pensiero storico ebbe qui a impie­

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gare, l’affinamento dei metodi, la preoccupazione sempre maggiore dell’interpretazione — dà tuttavia al filosofo l’impressione che gli storici non sapessero che cosa propriamente sia la filosofia, come se avessero dimenticato che in essa si tratta della cono­ scenza. Ciò che si intende per la vera storia della filosofia dipende da ciò che si intende in realtà per filosofia. In tutta serietà affermo: in generale i classici della storiografia nel secolo XIX, — come già gli antichi doxografi — hanno considerato essenza della filosofia le opinioni dottrinarie e l’edificazione dei sistemi. Di qui il loro senso acuto per la ricchezza dei pensieri, la pro­ fondità, l’originalità e la serrata compiutezza delle immagini del mondo, per l’efficacia storica dei sistemi e quindi per l’oscil­ lare dei motivi di pensiero e per il mutare delle loro forme. Ma di qui anche la loro sensibile mancanza di senso per il corso , . storico dei problemi.eper ciò che nella vita dei grandi pensatori e di intere epoche è penetrazione progressiva, conoscenza, con­ quista. Invece emerge ora l’esigenza di una indagine storica, la quale tenga conto delle conoscenze e delle conquiste filosofiche. Per una tale storia non è la cosa piu importante e definitiva quella di « comprendere » ciò che i pensatori abbiano concepito, pen- . sato, insegnato, voluto, ma di « riconoscere » che cosa abbiano conosciuto. I È appunto quanto nella storia delle altre scienze va da sé, ad es. delle scienze naturali. Certamente in queste la conoscenza della propria storia non ha una funzione così grande, come nella filosofia; queste scienze hanno un proprio cammino continuo e tale cammino consiste nel fatto che esse nel corso della loro storia ininterrottamente raccolgono e assommano le proprie con­ quiste e le valutano nel superarle. Lo stesso avviene per parec­ chie scienze dello spirito che sono in stato di progresso, ad esempio le scienze del linguaggio. Tali scienze non hanno bisogno, in ugual misura, di conoscere la propria storia. Ma dove in esse sorge l’esigenza di questo sapere, il .progresso della conoscenza forma naturalmente il punto sostanziale, di fronte al quale tutti i modi di una fantasiosa anticipazione passano assolutamente in seconda linea. Soltanto nella filosofia la conoscenza della sua storia è andata per un altro cammino — come se essa, che non può

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I presentare quello svolgimento costante che hanno invece le scienze, non avesse nemmeno bisogno di raccogliere e selezionare, po. steriormente, quelle che sono le sue conquiste. “* Tn ‘verità si tratta di un rapporto rovesciato: essa ha bisogno di questo lavoro supplettivo di raccolta e selezione tanto piu in quanto non raccoglie e non valuta, per solito, quei risultati che essa conquista nella lotta per i suoi problemi rivolti alla co­ noscenza. Vi è una differenza sostanziale nello svolgimento storico della filosofia rispetto alla maggior parte delle altre scienze, so­ prattutto rispetto alle scienze naturali. Ma la differenza non si­ gnifica che la filosofia si debba preoccupare meno delle altre scienze di quello che è il divenire del suo patrimonio conoscitivo, ma che proprio inonesta conoscenza essa ha un interesse molto piu suo, interesse radicato in ogni singola conoscenza '. Appunto perché essa non accumula continuamente, deve in seguito dissotter­ rare quei risultati conoscitivi che rimangono sepolti sotto le macerie dei «sistemi». Già il solo fatto di questo continuo prender posizione nel pensatore vivente con i pensatori del pas­ sato doveva bastare per dimostrare ad oculos questa necessità. n Nessuna scienza può rinunciare a servirsi del valore del pro■ Pri° svolgimento storico. È appunto un rapporto naturale che co­ lui che ci segue spiritualmente costruisca sulle conquiste di chi precede. Dove tale valutazione non avvenga abitualmente nel pro­ gresso della conoscenza, deve essere poi ricuperata. E questo ricu­ perare assume appunto la forma di un sapere storico. Ma sono soltanto le conoscenze e le conquiste quelle a cui questo ricu­ pero si estende. Il filosofo potrà imparare anche dagli errori del passato, ma negativamente, come ogni uomo nella vita impara anche dai propri sbagli e dai propri errori. E ciò che è decisivo a questo riguardo non è la conoscenza storica delle opinioni e dei motivi, ma la maturità dello sguardo per la conoscenza e per l’errore. 1 La filosofia contemporanea si è posta qui in un’opposizione che a torto si inasprisce contro la scienza. L’opposizione fu salutare finché cercò di rimediare a quell’orientamento verso il metodo delle scienze che col posi­ tivismo si era spinto troppo oltre. Ma è caduta nell’estremo contrario, e cosi ha perso il contatto con quello che è il fenomeno fondamentale e cioè il corso continuo della conoscenza da perseguire seguendo una linea univoca di problemi. Questa è una delle ragioni del disorientamento che essa pre­ senta in rapporto alla sua storia.

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Se ora si pensa che qui non ci sia nulla da valutare, si parte già dal presupposto che nella filosofia non vi sia alcun progresso della conoscenza. E cosi si deve giudicare quando si guarda sol­ tanto la serie dei sistemi o esclusivamente la struttura di pen­ siero delle intuizioni dei diversi popoli e delle varie epoche. Infatti ogni pensatore è immerso nelle intuizioni della sua epoca: non può in nessun modo uscirne. Ma lotta con esse e ciò che elabora in questa lotta è la sua conoscenza. Anche zavorra. | dei pregiudizi non è la stessa in ogni pensatore; essa è diversa c non solo per il. con tenuto, ma anche per l’importanza che ha nel pensiero di '.ciascuno. | TLsenzädubbio in questi pensatori, che si trovano sotto l’in­ flusso delle circostanze storiche, vi sono conoscenze che vanno al di là di questo vincolo limitativo. In tali risultati consiste il progresso storico della conoscenza filosofica. Vi è infatti un certo campo entro il quale il pensiero filosofico è libero rispetto ai legami di tal genere. Questa libertà non è il campo delle fantasie speculative, né deve essere intesa invidualisticamente. Il pensiero filosofico professa sempre solo ciò che realmente gli appare evidente; in questo senso non è affatto libero. La libertà \ di cui si tratta qui consiste piuttosto nel subordinarsi ad un’altra forza 2. Che la conoscenza abbia una propria « consequenzialità »,i la quale esercita una coercizione sul pensiero per se stessa — « con-' ' sequenzialità » quindi che non è determinata dal rapporto con , \ l’oggetto — questo è il solo fatto che permette al pensatore, il s \ quale è" necessariamente legato alla sua epoca, di elevarsi al di sopra della sua relatività storica. Vi è ancora un’altra necessità nel corso storico della conoscenza, oltre quella che è esercitata dal predominio delle opinioni e dei pregiudizi; e poiché è di

2 Con la cosidetta « libertà di pensiero » si è sempre ripetuto un falso gioco. L’esigenza che sorse al principio del Medioevo e dell’età mo­ derna non fu quella della libertà di pensiero, ma del diritto di potere difendere il proprio pensiero. Appunto perché si vide che il pensiero è sotto un’altra intima necessità, si dovette respingere la costrizione esteriore dell’opinione. Il pensiero non scorre come noi vogliamo, ma come esso deve. Sempre si attiene a ciò che gli si presenta come evidente e perciò il bene­ placito degli uomini non ha alcun potere. Cosi il Medioevo quando puniva chi pensava diversamente credeva nella libertà di pensiero; lo scostarsi dalla norma comunemente accettata gli appariva come cattiva volontà.

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Introduzione all’ontologia

critica

un’origine diversa da questa, cosi è inevitabilmente in lotta con­ tinua con essa e deve sempre farsi strada lottando. Ma dove essa riesce a farsi strada rimuove la massa inerte dell’opinione dominante. | Il pensiero diviene veramente libero da ogni costrizione sol­ tanto quando si pone sotto la legge di un’altra necessità. La dif­ ferenza è soltanto che l’altra necessità non è una necessità esteriore come quella dell’opinione tradizionale, — non si tratta di im­ porre al pensiero delle rotaie prefissate — ma è una necessità in­ tima ad esso: essa è connessa allo stadio in cui sono i problemi insoluti, di fronte ai quali il pensiero si vede posto. Per questo anche tale intima necessità è certamente una necessità condizio­ nata storicamente; poiché lo stato storico di un problema — la « situazione » data del problema — non è altro che i confini che si pongono volta per volta tra ciò che si conosce e ciò che non si conosce degli oggetti, in quanto ciò che quei confini fissano e precisano, diviene per questo ritrovabile, afferrabile e in con­ dizione di essere giudicato. Ma la necessità in questione non è quella che ci imprigiona in intuizioni date, ma proprio quella che lotta con esse e si spinge oltre esse. È la legge propria della conoscenza, la quale è un avanzare nello sconosciuto, che qui si ' raggiunge. Per la storiografia filosofica non si tratta dunque qui di una inversione del pensiero storico, ma di una diversa accentuazione dei suoi compiti nello studio dei contenuti. Non si tratta di dover vedere in certo qual modo meno storicamente la storia della filosofia. Non importa erudirsi su ciò che è condizionato e rela­ tivo storicamente, ma su ciò che in questa relatività storica si conserva e si dimostra valido al di là di essa. Il condizionamento storico delle òpinioni e dei sistemi non è affatto in contraddizione con il valore duraturo delle conoscenze acquisite, anche quando, queste si trovano in quelli soltanto sporadicamente. Nel lavoro dello storico non si procede mai assolutamente senza una scelta in ciò che concerne il problema e il valore cono­ scitivo. Ma si deve dire che qui si è sovente partiti da uno stadio molto primitivo del proprio pensiero filosofico: in questo modo non si giungeva nella sfera interna dei problemi che venivano affrontati dai pensatori studiati. Perciò non se ne poterono nep­ pure « riconoscere » le conoscenze. L’erudizione piu profonda,

Parte prima - Il pensiero filosofico e la sua storia

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la più grande padronanza del linguaggio, della letteratura, della storia dei concetti, delle circostanze storiche non erano elementi sufficienti3. Non si sapeva evidentemente che alla comprensione filosofica sono richieste anche altre condizioni preliminari oltre quella dell’erudizione. Gli epigoni non si accorgevano che non è poi tanto facile raggiungere il livello dei problemi con i quali gli antichi maestri si erano cimentati. Appunto coloro che indaga­ rono ed interpretarono il patrimonio storico non furono ricer­ catori e indagatori filosofici — la maggior parte almeno — e quando lo furono non seppero arrivare con i loro propri pro­ blemi sistematici ai problemi di coloro le cui opere avevano assunto l’impegno di interpretare e di esporre4.

3 La letteratura platonica costituisce un esempio classico di questa situazione. Hermann Bonitz nei suoi Platonischen Studien tratta minuta­ mente, a proposito del Sofista, della dicotomia, della tecnica del definire e simili, mentre non possiede intuito per la profondissima problematica del non essere e della aupTtXoxf;. Riferisce bensì alcuni punti e alcune tesi a questo tema, ma non scorge che qui si tratta di un problema ontologico fondamentale. La costruzione del dialogo è per lui di gran lunga più impor­ tante dell’analisi del problema e dei nuovi risultati conoscitivi che ne deri­ vano. Questo della interpretazione filologica è rimasto l’atteggiamento do­ minante; è anche quello seguito da Julius Stenzel nell’analisi del medesimo dialogo. Si ritrova nella grossa opera su Platone del Wilamowitz; e in questa si estende all’aspetto complessivo della dottrina delle idee di Pla­ tone, abbassandole cosi quasi alla trivialità di una metafisica popolare. Ognu­ no di questi studiosi ha certamente « compreso » molto bene ciò che Pla­ tone ha « pensato », almeno nei limiti del compito che si pone. Si tratta dunque di chiedersi come intenda questo compito. Inoltre che attraverso il « pensato » si possa vedere anche qualche altra cosa, ciò che Platone ha « conosciuto », quando esso non sia già esplicitamente espresso, tutto questo essi non sono in grado di vederlo. E non possono farlo, perché manca ad essi il contatto filosofico con i problemi. 4 Colpisce ad es. il fatto che storici notevoli come August Brandis e Eduard Zeller non posseggano alcun acume critico per il possente valore conoscitivo dell’aporetica aristotelica, la quale occupa, a non tener conto che della estensione, uno spazio tanto vasto negli scritti principali. L’inte­ resse per l’opinione dottrinaria ha quasi interamente assorbito l’interesse per lo studio propriamente analitico; che questo lavoro sia spesso di gran lunga superiore alle opinioni dottrinarie sostenute sfugge a questa impo­ stazione. Nello stesso modo passa inosservata qui la ricchezza di problemi di certi concetti fondamentali di Aristotele, cosi pieni di enigmi e tali da colpire anche chi ne resti, fuori per i paradossi che contengono, a