Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin
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Quaderni di Discipline Filosofiche

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Tamara Tagliacozzo

Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin

Quodlibet

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Stampa: Copy card Center s.r.l., San Donato Milanese (MI) Finito di stampare: ottobre 2003 Volume pubblicato con un contributo dai fondi di ricerca universitari cofinanziamento MIUR – Dipartimento di filosofia, Università di Roma Tre.

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Indice

p.

7 16

Introduzione Abbreviazioni

Parte prima Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung Gli anni di Friburgo (1912-13) e di Berlino (1913-15) 19 35 53

73 115

1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù (1912-13) 2. La religione entro i limiti del “come se” 3. Pedagogia, arte e religione. Benjamin tra l’attività nella Jugendbewegung e la filosofia della religione di Hermann Cohen (1913-14) 4. Storia messianica e comunità scientifica nel saggio La vita degli studenti (1914-15) 5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù (1913-14)

Parte seconda Il compito del poeta e il sistema della verità Influenze neokantiane nel saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin (1914-15) 129 171 183 209 215 227 237 241

6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt 7. Dichtermut e Blödigkeit 8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita 9. Il tempo e l’ideale nell’Etica di Cohen: un excursus 10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica 11. Il poeta e gli dei: tempo messianico e conoscenza compiuta 12. Il coraggio del poeta come poetato e principio spirituale dell’esperienza 13. L’elemento orientale come principio infinito della moralità

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Parte terza Esperienza e compito infinito Il progetto di revisione della filosofia di Kant e della scuola di Marburgo e il saggio Sul programma della filosofia futura (1917-18) 251 297 333

339 351 369 387 395 399 403 407 411 423 441 449 479 481

14. L’amicizia con Gershom Scholem a Berlino e con Felix Noeggerath a Monaco (1915-17) 15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”: il progetto di una tesi di dottorato su Kant a Berna (1917-1918) 16. Sul programma della filosofia futura (1917-18): continuità storica e portata sistematica nel collegamento della filosofia futura al sistema kantiano 17. Il criterio della certezza della filosofia futura: la verità come unità sintetica e unità sistematica 18. La critica al concetto di esperienza in Kant 19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza sulla “tipica” del sistema kantiano 20. La critica al concetto di conoscenza di Kant 21. Il nuovo concetto di esperienza come possibilità logica della metafisica e dell’esperienza religiosa 22. Il neokantismo come sviluppo (incompleto) nella direzione della filosofia futura 23. La trasformazione del concetto di libertà e il mantenimento della tricotomia del sistema kantiano 24. Il concetto di identità 25. La fondazione di una nuova logica trascendentale 26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio 27. Filosofia e religione Bibliografia Ringraziamenti Indice dei nomi

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Introduzione

Uno dei temi centrali in tutta l’opera di Walter Benjamin è quello dell’esperienza. Esso emerge con chiarezza nei saggi Esperienza e povertà (1933), Il narratore. Osservazioni sull’opera di Nikolaj Leskow (1939) e Di alcuni motivi di Baudelaire (1939), ma è presente in modo più o meno esplicito fin dai primi scritti degli anni 1912-1913 (con il saggio Esperienza del 1913) e poi negli anni ’20 nel saggio “Le affinità elettive” di Goethe (1921-24), ed è riconoscibile nei concetti della lingua, dell’allegoria, dell’aura, dell’immagine dialettica, della tradizione, della rammemorazione e della storia, a partire da Il dramma barocco tedesco (192528) fino a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935), al Passagen-Werk (1928-40) e alle tesi Sul concetto di storia (1940). Questo concetto – spesso affrontato dalla critica, che ha indagato in questo senso soprattutto l’opera benjaminiana più tarda – è presente fin dall’inizio nella riflessione di Benjamin e assume molto presto una struttura teoretica forte che si riferisce alla discussione gnoseologica e estetica dell’ambiente intellettuale in cui egli si forma. Indagare la genesi e lo sviluppo del concetto benjaminiano di esperienza negli anni della sua formazione universitaria come studente di filosofia e della progettazione della sua tesi di dottorato, tra il 1912 e il 1918, si rivela quindi essenziale per ricostruire un luogo fondamentale per tutto il suo percorso intellettuale e politico. Negli anni 1917-1918 l’esperienza si presenta in Benjamin in stretta relazione con una “metafisica” che, al di là di ogni concezione empirica o di ogni filosofia dell’“esperienza vissuta”, comprende tutta la filosofia come “conoscenza pura” e coincide con il sistema della filosofia nella sua divisione in logica, etica ed estetica. Questo concetto di esperienza è molto vicino al concetto benjaminiano di “compito infinito”, di origine neokantiana, ed è al centro del suo progetto filosofico Sul programma della filosofia futura (1917-18). Intento del presente lavoro è quello di mostrare, attraverso una riscostruzione della vicenda del concetto di compito infinito a partire dalle sue origini in Kant  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

(come problema della ragione e noumeno), e poi nel suo sviluppo presso il fondatore della scuola di Marburgo Hermann Cohen e in Felix Noeggerath – un amico neokantiano di Benjamin – come questo concetto sia stato ripreso da Benjamin stesso e trasformato in vista di un progetto filosofico che si distacca dalla filosofia neokantiana. Le influenze del pensiero di Kant, di Cohen e di Noeggerath sono state analizzate cercando di ricostruire, per quanto possibile, le letture di Benjamin, e indicando le analogie dei suoi concetti di esperienza e compito infinito con i concetti kantiani e neokantiani nonché le trasformazioni che questi hanno subito nel suo pensiero, in vista di una filosofia futura. Nella prima parte si è ripercorsa la formazione universitaria di Benjamin (negli anni 1912-1914), a contatto con i filosofi della scuola neokantiana sud-occidentale Heinrich Rickert e Jonas Cohn a Friburgo, con i filosofi della scuola di Marburgo Hermann Cohen e Ernst Cassirer (ma il rapporto con lui è sviluppato soprattutto nella seconda parte) e con il filologo kantiano Benno Erdmann a Berlino. Il rapporto con questi filosofi è mediato dalle idee sull’etica, la religione, la storia, la pedagogia e la filosofia che Benjamin sviluppa a contatto con le idee di Gustav Wyneken e nel corso dell’attività all’interno del “movimento della gioventù” da lui ispirato, nonché da una lettura personale della Fondazione della metafisica dei costumi di Kant e degli scritti di Kierkegaard e Nietzsche, ma infine anche da un rapporto con l’ebraismo, che Benjamin vive soprattutto come ambiente intellettuale e letterario. Benjamin tematizza in questo periodo, nel contesto della ideologia wynekeniana, una concezione dell’esperienza come dimensione dei valori etici, ma anche conoscitivi ed estetici (su cui influisce la filosofia dei valori di Rickert e Cohn), che si presenta in un dualismo vita-idea, dove l’idea della gioventù wynekeniana opera come configurazione dell’imperativo categorico kantiano, come massima che deve guidare la “vita” etica e spirituale (ma anche scientifica ed estetica) degli studenti. In alcune lettere all’amico Ludwig Strauss del 1912, Benjamin riconosce il concetto dell’“essenza ebraica” (das Jüdische) come una configurazione dell’imperativo categorico, come un’idea che rappresenta “ciò che è morale” (das Moralische). Così facendo, egli sviluppa una concezione simbolica dell’etica kantiana, dove il principio del dovere trova la sua attualizzazione concreta in un’idea religiosa (sia essa l’ebraismo o l’idea di Wyneken) che porta in sé un contenuto normativo esibitivo dell’intenzione etica. Nel Dialogo sulla religiosità contemporanea del 1912 e in L’insegnamento della morale del  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

1913 egli elabora in tal senso una visione della religione come luogo concreto e simbolico in cui può risolversi il dualismo tra filosofia teoretica e pratica, dove vi può essere un concreto attuarsi della legge etica nella realtà. Nel saggio Esperienza del 1913 egli prospetta inoltre la possibilità di un’“esperienza” (Erfahrung) spirituale (che si distingue – anche se non sempre – dall’Erlebnis, dall’esperienza vissuta) dei valori della verità, del bene e della bellezza, valori che si presentano in modo tricotomico indicando un retroterra kantiano e neokantiano. Oltre alla Fondazione della metafisica dei costumi, Benjamin legge tra il 1912 e il 1913 la Critica della facoltà di giudicare nonché Bergson, Husserl, Rickert e Platone. La presenza della filosofia di Cohen nel pensiero di Benjamin si fa sentire già nel 1913 nel saggio La posizione religiosa della nuova gioventù (1914), nella concezione della religione come “punto infinitamente lontano”, come ideale e compito cioè in cui può attuarsi, secondo la coheniana Religione della ragione dalle fonti del giudaismo (1919), il rapporto tra il mondo dell’etica e il mondo della natura nel concetto della correlazione tra uomo e Dio. La concezione messianica della storia che emerge in Benjamin già in questo saggio ha probabilmente una delle sue origini nella filosofia messianica della storia di Cohen come via dell’umanità verso la santità, e quest’influenza si rafforza nel saggio La vita degli studenti (1914-15). In esso vi è un’analisi del ruolo storico della vita degli studenti, che si presenta come un ruolo simbolico: la vita intellettuale scientifica, etica ed estetica degli studenti deve rappresentare un momento messianico della storia, un momento di giustizia e compimento, il momento dell’arrivo del Messia. In questo primo periodo dell’elaborazione teorica di Benjamin emerge dunque una grande attenzione per i temi etici e religiosi, una concezione della storia messianica, e insieme l’interesse per la costruzione di un sistema della filosofia. Comincia inoltre a definirsi una concezione della religione che sarà importante per il sistema della filosofia progettato nel saggio Sul programma della filosofia futura (1917-18). In Benjamin è evidente anche un forte interesse estetico, che emerge nel saggio del 1914-15 Due poesie di Friedrich Hölderlin, al quale è dedicata la seconda parte del presente lavoro. In esso appare per la prima volta il concetto di “compito”, come compito poetico e struttura a priori che l’indagine estetica deve indagare nell’opera poetica. Tale compito si definisce come il “poetato”, come la struttura a priori, caratterizzata da un’unità delle funzioni spirituale e intuitiva, che è alla base della singola poesia, e viene esibita da questa come Gestalt, come  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

forma/figura. Quest’ultima è, quale opera poetica, l’“idea della soluzione” che rispecchia il poetato come “idea del compito”. L’idea del compito è per Benjamin la “vita” come unità funzionale ultima, come esperienza che va strutturata concettualmente, a cui si contrappone l’idea della soluzione come opera poetica effettivamente realizzata. Se si traduce il discorso estetico in termini di filosofia della conoscenza, il poetato si presenta come struttura filosofica concettuale (le forme dell’intuizione, in Benjamin come in Cohen, sono riportate alla logica) e ideale, in cui i concetti si pongono in rapporto esibitivo rispetto alle idee: questo rapporto prende il nome di “legge d’identità”. Sul “concetto d’identità” come concetto fondamentale di una nuova logica trascendentale Benjamin tornerà nel contesto di quella concezione simbolica della conoscenza che egli sviluppa in alcuni appunti frammentari degli anni 1917-1921 e che si presenta in modo implicito anche nel saggio Sul programma della filosofia futura. In questo saggio è forte l’influenza neokantiana, di Ernst Cassirer (per il concetto di funzione e per il rapporto tra “sensibile” e “spirituale”, nonché per la concezione filosofica del mito), ma anche di Hermann Cohen, soprattutto per il concetto di compito. Il compito infinito, come compito della “cosa in sé”, è in Cohen (e in parte in Natorp), un doppio compito. Esso riguarda da un lato la fondazione, con il metodo trascendentale (o della purezza), dell’esperienza come scienza della natura (come Faktum di cui la critica della conoscenza deve stabilire le condizioni di possibilità) su principi fisico-matematici, e dall’altro lato la fondazione dell’etica e dell’estetica su una legislazione analoga a quella della scienza della natura, nel riferimento alle scienze del diritto e dell’arte come “fatti”, senza riferimento a “dati” della sensibilità. Il compito della cosa in sé è però insieme anche quello dell’individuazione di un’unità dell’esperienza come massima per la ricerca che non può fondarsi sugli stessi principi dell’esperienza ma ha bisogno di riferirsi a un incondizionato. In Cohen appaiono, nella seconda e nella terza edizione di Kants Theorie der Erfahrung (18852, 19183), ma già in Kants Begründung der Ethik (1877, 19102), in stretto riferimento a Kant e alla sua concezione del noumeno, i concetti di concetto-limite (Grenzbegriff) e determinazione-limite (Grenzbestimmung) dell’esperienza, concetti che vanno intesi come il “compito” del noumeno e delle idee di limitare l’esperienza contingente riferendola a un’unità non condizionata, al concetto stesso dell’esperienza, nella sua totalità, come cosa in sé. Anche per l’etica e l’estetica i concetti di libertà e finalità indicano l’incondizionato cui riferirsi.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

Nella terza parte si è voluta delineare la formazione in Benjamin di un concetto dell’esperienza come “molteplicità unitaria e continua della conoscenza” pura, indipendente dall’intuizione sensibile e comprensiva anche dell’etica e dell’estetica, esperienza che coincide con l’intero sistema della filosofia e con l’idea di un compito infinito come compito delle idee dei diversi membri sistematici nel porsi come guide per la costruzione dei concetti e per la loro unità sistematica, e nell’indicare un’unità di tutto il sistema. Questa concezione del compito infinito prende spunto dalla concezione neokantiana e soprattutto coheniana della apriorizzazione dell’esperienza e del metodo della purezza, e del doppio compito della cosa in sé come compito infinito, ma se ne allontana nel rifiutare il riferimento, con il metodo trascendentale, ai “fatti” scientifici (della scienza della natura, del diritto e dell’etica), e nel prospettare una esperienza non esclusivamente scientifica o tale in modo analogico, bensì anche religiosa, storica, artistica, fondata su una visione teologica del linguaggio. Tra il 1915 e il 1918 Benjamin sviluppa una forte amicizia e una profonda intesa intellettuale con Gershom Scholem, studioso di ebraistica, matematica e filosofia, e conosce a Monaco nel 1915-16 Felix Noeggerath, un neokantiano sui generis con cui instaura un intenso rapporto filosofico e discute temi kantiani e di mitologia. Benjamin legge inoltre una piccola parte della tesi di dottorato di Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie. Ein Beitrag zur Kritik der Antirationalismus (1916), tesi rimasta inedita e qui analizzata. Questa lettura e le discussioni con l’autore lo influenzano nella composizione del saggio Sul programma della filosofia futura. Noeggerath si occupa in modo critico del concetto di sintesi e di sistema in Kant (nella Critica della ragion pura e nella Critica della facoltà di giudizio) oltreché di Cohen e di Natorp, affronta in modo originale i temi neokantiani del compito infinito e del sistema della filosofia e delinea un suo progetto filosofico che cerca di fondare una filosofia razionalistica che allarghi la conoscenza, come conoscenza filosofica non soltanto di oggetti teoretici, anche a prodotti ateoretici quali gli oggetti dell’etica e dell’estetica, andando al di là di Kant stesso e prendendo le distanze dal “metodo trascendentale” di Cohen e di Natorp e dalla loro critica a Kant. Benjamin progetta nel dicembre del 1917, nell’ambito di una ricerca su “Kant e la storia” una tesi di dottorato sul tema “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”, e poi sul più generale problema “Che cosa significa che la scienza è compito infinito?”, ma rinuncia infine al suo progetto nei primi mesi del 1918. Questa scelta appare pienamente  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

inserita nel clima culturale del suo tempo e del suo ambiente filosofico. Benjamin segue corsi e singole lezioni di Hermann Cohen a Berlino e legge parti della Logik der reinen Erkenntnis, della Ethik des reinen Willens e di scritti di filosofia della religione negli anni 1912-1915, e possiede dal 1919 Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften (1910) di Paul Natorp, mentre acquista i quattro volumi del System der Philosophie di Cohen nel febbraio del 1918. Nonostante rinunci ad affrontare il tema del compito infinito per la sua dissertazione, e abbandoni, nell’estate del 1918, lo studio della terza edizione del testo coheniano Kants Theorie der Erfahrung intrapreso con l’amico Scholem, rimane fermo il suo interesse per i temi neokantiani e coheniani fino agli anni ’20. Negli anni 1912-1919 egli si occupa di Kant, tenendo presente la discussione dell’ambiente neokantiano e la critica coheniana a Kant. Nell’ottobre del 1917 Benjamin presenta a Scholem il suo progetto di tesi su Kant e la storia, che vuole mettere in rapporto filosofia e storia, teoria della conoscenza e filosofia della storia e si propone di sviluppare il sistema kantiano in nuove direzioni. Questo progetto vuole comprendere anche una interpretazione del pensiero storicomessianico e religioso del primo romanticismo e della concezione messianica dell’ebraismo. La ricezione benjaminiana di Kant è determinata da un’idea della filosofia della storia che egli non ritrova in Kant, ma che in Benjamin (e in Scholem) è influenzata dalla dottrina ebraica del messianesimo e coinvolge tutta la filosofia, compresa la teoria della conoscenza (tutta la filosofia è “conoscenza pura”), in una visione processuale del compito di questa orientandola verso una sua “risoluzione” redentiva e messianica nella “dottrina”. La dottrina è un termine metafisico-religioso che in Benjamin e Scholem è spesso identificato con l’insegnamento etico-religioso della Torah e dei suoi commentari e comprende e in parte trascende la filosofia e il suo sistema, che tendono virtualmente, in un processo infinito, a coincidere con essa: la dottrina è in Benjamin il luogo delle idee e di tutto il sistema della filosofia. Egli individua il “pensiero” della dottrina nel sistema di Kant e nella sua dottrina delle idee, e intende mantenere il sistema kantiano (nella sua struttura tricotomica e nella sua “tipica”) per svilupparlo in nuove direzioni, rivedendone la teoria dell’esperienza e della conoscenza. Nel concetto di “compito infinito” che ravvisa in Kant Benjamin vuole rintracciare i germi – a partire dalla visione regolativa kantiana del rapporto tra idee e concetti dell’intelletto, e dall’interpretazione di essa e della cosa in sé come compito da parte di Cohen – della costruzione di un sistema metafisico di concetti e idee,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

indipendente dall’esperienza possibile e immesso in una visione storico-messianica dello sviluppo della conoscenza in direzione della dottrina come sistema della filosofia. La delusione dopo la lettura degli scritti storici kantiani (Per la pace perpetua e Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico), che egli non trova sufficienti come punto di partenza o oggetto di una discussione indipendente, lo portano a spostarsi sul tema non esclusivamente kantiano “Che cosa significa che la scienza è un compito infinito?”. L’interpretazione benjaminiana del concetto di “compito infinito” emerge da un appunto del dicembre 1917 ad esso intitolato, composto proprio nel momento in cui Benjamin decide di affrontare questo più ampio problema. Il frammento si chiarisce alla luce della filosofia benjaminiana della storia, in cui il “divenire storico della conoscenza” è portato alla sua “risoluzione” (Auflösung) dalla e nella dottrina, dove questa soluzione non è mai completa ma virtualmente presente come ideale e “compito”. Il compito infinito che Benjamin vede posto alla “scienza”, termine con cui egli sembra definire ciascun ambito della filosofia ma che potrebbe indicare anche tutto il sistema filosofico, coincide con il concetto dell’unità della scienza. L’unità della scienza si presenta come una idea sistematica, e la scienza, dal canto suo, come parte di un sistema di scienze con diversi compiti (conoscitivo, etico, estetico), dove ciascuna è guidata da un’idea e l’unità di ognuna sta nell’infinità del compito che l’idea le pone rispetto al suo campo di indagine, poiché non vi è un arresto di fronte a un “dato” sensibile, ma un’infinita produzione di concetti. L’unità della scienza consiste nell’unità sistematica perseguita dall’idea che la guida, mentre tutto il sistema riceve la sua unità dal ruolo delle idee e dal loro rapporto con l’idea di Dio. Benjamin è ormai molto distante dalla visione regolativa kantiana del compito delle idee e più vicino a una concezione idealistica neokantiana, tuttavia egli critica nel frammento Ambiguità del concetto di “compito infinito” nella scuola kantiana del 1918 la concezione neokantiana del “compito infinito” (la sua critica sembra rivolgersi a Cohen e a Natorp), perchè “empirica” e legata esclusivamente all’esperienza fisico-matematica delle scienze della natura, mentre nel frammento Sul metodo trascendentale (1918) egli rimprovera ai neokantiani di aver cercato il loro Faktum e i loro concetti nella scienza e non nel linguaggio. Il concetto di compito infinito che Benjamin elabora è strettamente correlato e di fatto coincidente con il concetto di esperienza che egli sviluppa, nel saggio Sul programma della filosofia futura (scritto nei mesi di novembre e dicembre del 1917 e completato con un’aggiunta nel  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

marzo del 1918), in rapporto con la filosofia di Kant, di Cohen e di Noeggerath. Partendo dalla critica alla concezione kantiana dell’esperienza e della conoscenza, di cui rifiuta il riferimento all’esperienza possibile, Benjamin vede come suo possibile risultato una logica trascendentale allargata, che deve contenere le forme dell’intuizione e i concetti puri della meccanica, della geometria, della biologia, della scienza del linguaggio, della psicologia e di molte altre scienze, e a cui devono riferirsi l’arte, la storia, il diritto. Egli vuole elaborare un concetto di conoscenza ampliato a queste discipline, in cui non ci deve essere riferimento all’empiria. A questo concetto di conoscenza deve corrispondere un’esperienza non solo scientifica, ma anche storica, artistica, religiosa: un’esperienza assoluta e metafisica che si presenta come “molteplicità unitaria e continua della conoscenza” pura e che coincide con la dottrina come ambito delle idee e dei concetti costruiti sotto la loro guida. Nel saggio, infatti, la continuità della conoscenza viene pretesa e riferita, insieme alla sua “unità”, alle idee, che già Kant – dice Benjamin – aveva indicato, nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, come fondamento dell’unità dell’esperienza. Le idee costituiscono a suo avviso il compito infinito della ricerca dell’unità continua della conoscenza e dell’esperienza metafisica, che come esperienza non più soltanto scientifica ma anche religiosa viene a coincidere con l’intero sistema della filosofia nella sua unità. In Benjamin tra idee e concetti puri si instaura (come in Noeggerath) un rapporto simbolico, che è determinato dal concetto di identità: concetto che deve essere al centro della sua nuova logica trascendentale e che mette i concetti in rapporto con le idee, perché esse determinino la loro unità e continuità. Le idee, che sono il nesso tra i concetti e vengono esibite da essi, devono portare in ogni ambito sistematico (come concetto di causalità per libertà, concetto di libertà e concetto di finalità) a un’unità sistematica dei concetti, ma anche a un rapporto reciproco di continuità dei diversi ambiti sistematici (logico, etico, estetico). Il ruolo delle idee per l’unità e la continuità dell’esperienza come conoscenza pura è il fulcro del concetto di compito infinito in Benjamin (e del suo concetto di esperienza come sistema unitario della filosofia, a cui il compito della conoscenza infinitamente tende), che riprende, usandolo per nuovi contenuti, un concetto coheniano e genericamente neokantiano il quale sviluppava a sua volta il concetto kantiano di problema della ragione. Benjamin sostituisce una concezione della fondazione della conoscenza e dell’esperienza sul linguaggio, di cui ha una visione teologica e simbolica, alla concezione  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

neokantiana e soprattutto coheniana della fondazione, con il metodo trascendentale, dell’esperienza su puri principi fisico-matematici, e dell’etica e dell’estetica sulla loro legislazione a partire dai fatti del diritto e dell’arte. Egli espone le sue idee sul linguaggio nel saggio del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo. Nel frammento del 1917 Sulla percezione Benjamin dichiara infatti che l’intera «filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso sistematico simbolico come lingua»; l’esperienza è da lui cioè concepita come sistema unitario e continuo della conoscenza e come l’intero ambito della filosofia, nonché come esibizione simbolica dell’unità del sistema della filosofia (delle idee) in quanto linguaggio. Per Benjamin la conoscenza e quindi l’esperienza devono riferirsi e trovare il loro fondamento nel linguaggio, e anche lo stesso concetto di religione, in cui le idee della filosofia – indispensabili per l’unità dell’esperienza – hanno la loro origine e che è dato alla filosofia come ambito della dottrina, è un concetto fondato, infine, sulla sua concezione teologica del linguaggio, elaborata a contatto con le conoscenze di mistica ebraica di Scholem.

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Abbreviazioni

GS

Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, unter Mitwirkung von G. Scholem und Th. W. Adorno, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1974-1989, Bände I-VII.

GB I

Walter Benjamin, Gesammelte Briefe. Band I 1910-1918, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1995.

GB II

Walter Benjamin, Gesammelte Briefe. Band II. 1919-1924, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1996.

GB III

Walter Benjamin, Gesammelte Briefe. Band III. 1925-1930, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1997.

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Parte prima Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung. Gli anni di Friburgo (1912-13) e di Berlino (1913-15)

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù

In particolare, e in sempre rinnovate letture, nel periodo dei miei studi universitari mi sono occupato di Platone e di Kant, e di conseguenza della filosofia di Husserl e della Scuola di Marburgo1.

In un Curriculum Vitae scritto all’inizio del 1928 per motivi sconosciuti, Walter Benjamin indica in Platone e Kant i punti di riferimento fondamentali per la sua formazione filosofica universitaria, e vede nei rappresentanti della scuola di Marburgo e in Husserl gli interpreti, continuatori e innovatori della tradizione platonica e kantiana. In un Curriculum Vitae precedente, presentato all’Università di Francoforte insieme alla sua tesi di abilitazione2 nel 1925, egli elenca tra i professori di filosofia da lui seguiti a Friburgo, Berlino, Monaco e Berna, dei rappresentanti della scuola neokantiana e husserliana: «ho seguito in modo particolare i professori Cohn, […] Rickert […] a Friburgo, Cassirer, Erdmann […] e Simmel a Berlino, Geiger a […] Monaco, e Häberlin […] [e] Herberz […] a Berna»3. Per individuare le influenze del pensiero kantiano e neokantiano – ma anche platonico e husserliano – sul pensiero giovanile di Benjamin, che rivela quasi subito una sua originalità e presenta temi e concetti che saranno centrali nella sua produzione filosofica successiva, è essenziale seguire il percorso della sua formazione universitaria. Benjamin, che già nel periodo scolastico comincia a pubblicare i suoi lavori nelle riviste «Der Anfang» (diretta da Georg Barbizon) e «Die Freie Schulgemeinde», diretta da Gustav Wyneken, il fondatore della libera comunità scolastica di Wickersdorf 4, e partecipa attivamente alla Jugendbewegung che si riferisce alle idee di quest’ultimo, nel semestre estivo del 1912 si immatricola nella facoltà di filologia della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo/Breisgau, dove studia filologia e filosofia e frequenta i seminari del rappresentante della scuola neokantiana del Baden Heinrich Rickert e le lezioni di Allgemeiner Geschichte dello storico Friedrich Meinecke5. Palesemente insoddisfatto, scrive a Herbert Blumenthal Belmore di poter sviluppare il suo «pro www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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prio pensiero scientifico dieci volte meno che a Berlino»6, e a Willi Wolfradt che «i seminari […] sono […] noiosi»7. Durante l’estate discute per la prima volta sul sionismo con Kurt Tuchler, e, tornato a Berlino, inizia un carteggio con l’amico poeta e sionista Ludwig Strauss, in cui espone, tra il settembre del 1912 e il gennaio del 1913, la sua posizione nei riguardi dell’ebraismo: Forse all’inizio è necessario che Le ripeta come si è formata la mia posizione circa l’ebraismo. Non tramite un’esperienza vissuta (Erlebnis) ebraica8 – né tramite un’esperienza vissuta di nessun genere. Bensì unicamente tramite questa sola esperienza (Erfahrung) importante, che là dove io mi rivolgevo all’esterno con le idee, nell’ambito intellettuale (im Geistigen) come in quello pratico mi si facevano incontro per lo più degli ebrei. (E questa non era però un’esperienza fornitami dal fatto che frequentassi unilateralmente e solo ebrei […]). La mia esperienza mi ha portato alla convinzione (Einsicht): gli ebrei rappresentano una élite nella schiera degli intellettuali. In essi presuppongo il senso dell’idea come cosa ovvia […]. Poiché l’ebraismo non è per me in nessun senso fine in sé, bensì un eminentissimo portatore e rappresentante di ciò che è spirituale9.

Comincia ad apparire in queste lettere il concetto di Erfahrung10 (contrapposto – ma non sempre – alla Erlebnis, all’esperienza vissuta) come esperienza di valori spirituali e etici rappresentati da un’idea, in questo caso l’idea ebraica. Benjamin fa dell’idea, come rappresentante dei valori, la massima soggettiva, la configurazione concreta dell’“imperativo categorico” kantiano. Egli dichiara di dover adottare come configurazione dell’imperativo categorico11, come massima che esprime l’intenzione (Gesinnung)12 etica, l’idea della gioventù di Wyneken, e non l’idea dell’essenza ebraica – altrettando degna rappresentante di ciò che è spirituale e forma del valore etico, di cui ha avuto esperienza proprio a partire da Wickersdorf, che riconosce come suo nucleo ma che non può più assumere (tantomeno nella forma del sionismo politico) – perché l’idea di Wickersdorf è stata la prima forma della sua educazione spirituale e a suo avviso vi può essere una sola idea che dia forma strutturata al valore etico e quindi, in una visione rigorosamente dualistica, alla vita13: Questa dimensione ebraica (das Jüdische) che riconosco e amo, io non la posso assumere. – Quanto è morale (das Moralische) si comprende sempre di per sé, dice Vischer. Bene! Quanto è ebraico (das Jüdische) si comprende di per sé, devo necessariamente dire io. […] Le ho già scritto che posso figurarmi come ancora quattro anni fa avrei potuto assumere a mia massi-

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù ma l’ebraismo. Adesso non posso più. Lei comprenderà ciò che io intendo per massima: non un qualsivoglia argomento per una qualche attività. Bensì quel pensiero, che esige in concreto ciò che è ovviamente onesto. (La maggior parte degli uomini ha bisogno di una configurazione [Gestaltung] determinata dell’imperativo categorico). Il pensiero della gioventù, così come Wickersdorf lo incarna, rappresenta per me il criterio di misura che ho davanti agli occhi. […] Io mi rallegro quando trovo una forma, una massima, in cui posso esprimere l’intenzione (Gesinnung) di Wickersdorf. […] [Nel sionismo] c’è una intenzione (Gesinnung) ebraica determinata strutturata anche in senso formale e particolare. E tutto quanto di ebraico oltrepassa ciò che vi è di ovviamente ebraico in me, è per me pericoloso. Una idea razionalizza, raffredda in buona parte la vita, purifica gli istinti. In ciò è insito un pericolo che è molto ben espresso nel «canto notturno» dello Zarathustra. Non posso assumere una seconda idea razionalizzante, strutturante. […] Ma capite […] che una persona può avere solo un punto, su cui si fondano idea e vita14.

Benjamin sviluppa qui in nuce una concezione simbolica dell’etica kantiana, dove il principio del dovere, che vuole il bene per il bene, trova la sua attualizzazione concreta in un’idea religiosa (l’ebraismo o l’idea di Wyneken) che porta già in sé un contenuto normativo esibitivo dell’intenzione etica. Nello stesso periodo egli espone alcune idee su Kant proprio nel contesto di una nuova idea di religiosità, legata alla concezione di Wyneken. Nel Dialogo sulla religiosità contemporanea15, scritto a Berlino nell’autunno del 1912, Benjamin individua il momento storico in cui secondo la sua opinione si era creata la necessità della fondazione di una auspicata nuova religione, che conducesse a una ritrovata totalità dell’uomo, nel «momento in cui Kant svelò la spaccatura tra sensibilità e intelletto e in ogni accadimento riconobbe l’onnipresenza della ragion pratica, della moralità (die sittliche, die praktische Vernunft). L’umanità si era destata dal suo letargo ma […] il risveglio le aveva tolto la sua unità»16. A suo avviso «nel momento in cui con Kant, Fichte e Hegel siamo divenuti coscienti dell’autonomia dello spirito, la natura ci si è rivelata nella sua incommensurabile cosalità. Nel momento in cui Kant additava nella ragion pratica le radici della vita umana, la ragione teoretica doveva fondare (ausbauen) con un lavoro infinito la moderna scienza della natura. […] E oggi men che mai siamo in grado di comprendere il primato kantiano della ragion pratica su quella teoretica»17. In queste parole c’è l’accenno alla divisione – a cui il neokantismo marburghese aveva cercato di porre rimedio ma solo in nome della scienza (come “lavoro infinito”) – tra forme dell’intuizione e intelletto18, come origine in Kant di un dua www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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lismo e di una spaccatura tra etica e scienza della natura, dove la seconda si era sviluppata, in rapporto all’esperienza possibile e senza avere più rapporto con contenuti etico-spirituali, nella direzione di una sempre maggiore astrazione fisico-matematica, mentre le idee metafisiche avevavano acquistato un primato come fonte dell’autonomia dell’uomo e guida costitutiva in campo etico e regolativa nel campo dell’esperienza. C’è in Benjamin l’esigenza di superare – con un peculiare scetticismo19 e con la consapevolezza che il dualismo20 tra dovere e persona, tra dominio della libertà e dominio della natura, nella sua «autenticità»21, deve rimanere – una visione panteistica22 del sapere scientifico. C’è inoltre l’esigenza di recuperare una unità e totalità interiore dell’uomo (teoretica e pratica) nel concepire una «religiosità del futuro»23 non come monismo24 ma come «dualismo, […] [come] tendere interiore all’unione con Dio»25, una religiosità che sia, nella sua «necessità storica»26 e al di là del misticismo, «custode [e forma] dei contenuti etici»27 e capace di «determinare la vita etica» e di «fondare in modo religioso la nostra vita collettiva»28 non con un estrinseco lavoro sociale caratterizzato da una vuota e progressiva infinità29, ma con un’«etica culturale»30 che trasmetta i valori etici, artistici e scientifici ai «giovani […] assetati di valori»31, e tenga conto del «fine (Ziel)»32 etico che si dà solo nell’interiorità, il solo luogo in cui l’uomo di cultura si può mantenere (eticamente) puro e autonomo. Questa religione non è per Benjamin solo dualismo, divisione tra spirito e natura, autonomia etica e bisogni della vita quotidiana, autenticità e menzogna, individuo e società, ma ha il suo «concetto moralmente unificante» nell’«autenticità (Ehrlichkeit) e [nel]l’umiltà»33 della «personalità spirituale» individuale34: di essa devono farsi promotori e rappresentanti i letterati35, che mettono in pratica nella loro vita, nell’«essere naturale della personalità»36 i valori spirituali scoperti nell’arte37. Essi sarebbero i più adatti a fare di questi valori delle norme di vita, delle “convenzioni” di tipo religioso (cultuale) da trasmettere in un lavoro culturale da compiersi in nome di una coscienza di classe di tipo nuovo, più generale, che non si sa se troverà la forma metafisica (le idee) per esprimere questi valori38 e per trasformarli in esperienza concreta. Il concetto di vita è qui ancora quello della Erlebnis39, dell’esperienza vissuta, ma questo termine, come espressione dell’esperienza del valore etico, ma anche dei valori della bellezza e della verità nella conoscenza, appare connotato dal significato meno intuitivo e più ideale che avrà in seguito in Benjamin il termine Erfahrung. In un saggio del 1913, Romantik, l’Erlebnis appare come l’esperienza vissuta della conoscenza dei nessi spirituali e della storia del lavoro conoscitivo, culturale, la “tradizione”, preludio di una azione  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù

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politica eticamente orientata, che deve essere propria della “gioventù” romantica in senso nuovo, autentico: Ho parlato di gioventù per diritto divino, della nostra vita come si configura nella tradizione, nella letteratura. […] [Vi ho indicato un] Romanticismo della verità, in grado di riconoscere le connessioni spirituali e la storia del lavoro [culturale], in grado di trasformare questa conoscenza in esperienza vissuta (Erlebnis), per poi agire nel modo più sobrio e antiromantico. Questa sarà la nuova gioventù: sobria e romantica. […] Ciò che non può essere superato è la romantica volontà di di bellezza, la romantica volontà di verità, la romantica volontà di azione. Romantica e giovanile: giacché questa volontà […] in noi è vissuta (erlebt) in modo spontaneo, originario, assoluto e tempestoso. Dà sempre alla storia la sua impronta etica, e se anche non le dà un contenuto le trasmette il suo pathos. […] il Romanticismo è risalito alle radici non fondabili di tutto il bene, il vero e il bello40.

Nonostante i toni fortemente nietzschiani41 non è difficile percepire qui una eco della filosofia dei valori di Rickert e Cohn, nel primato dell’etica e nella visione normativa – il Sollen42 – della ricerca in vista di un sistema dei valori, in questo caso estetici, scientifici ed etici, cioè concepiti in modo tricotomico secondo la divisione kantiana della critica della ragion pura43. È da notare inoltre il ruolo già importante della storia (qui introdotto – probabilmente in relazione alla concezione etico-religiosa wynekeniana del progresso dello spirito oggettivo nella storia – con toni hegeliani), come luogo della trasformazione dei valori e del lavoro spirituale conoscitivo, etico e artistico della gioventù, in cui essa forma la sua fede nella religione dello spirito: [Non ci viene] indicato lo spirito che è in loro [in Mosé, Cristo, Napoleone, Newton e Eulero], la realtà fanatica e attiva in cui questi uomini e tempi vivevano e in cui portavano a compimento la loro intenzione (ihre Gesinnung erfüllten). […] Dove potremo mai imparare la storia viva che porta lo spirito alla vittoria, in cui lo spirito fa le conquiste che egli stesso costruisce? Ci cullano, ci rendono incapaci di pensare e di agire nascondendoci la storia: il divenire della scienza, dell’arte, dello stato e del diritto. E così siamo anche privati della religione dello spirito, di ogni fede in esso44. […] [Non vediamo] ciò che è straordinario […] nel divenire dell’uomo e nella storia dell’umanità45.

Già nel 1913 Benjamin si scaglierà, in un breve, importante scritto dal titolo Esperienza (Erfahrung)46, contro l’uso filisteo di questo termine da parte degli adulti che vorrebbero spegnere gli ideali della gioventù, i valori di «tutto ciò che ha un senso, che è vero, buono e bello»,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che vorrebbero negare il fatto che «esiste una verità» e la «[volontà di] tener fede»47. Per Benjamin esiste un’altra esperienza, l’esperienza dei valori della verità, della bellezza e del bene, che la gioventù esperisce immediatamente nel proprio spirito: [Il filisteo] non ha mai compreso che c’è qualcos’altro come esperienza. […] Ognuna delle nostre esperienze ha già sempre un contenuto. Noi stessi glielo daremo dal nostro spirito. […] Conosciamo un’altra esperienza. Può essere nemica dello spirito e distrugge molti sogni in boccio. Tuttavia è la cosa più bella, intangibile, immediata (das Unmittelbarste), che non può essere mai senz’anima finché noi restiamo giovani. Ognuno sperimenta (erlebt) sempre solo se stesso, afferma Zaratustra alla fine del suo pellegrinaggio […]. Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini48.

Nel concetto di Erfahrung, connotato dal significato di luogo dei valori di cui la gioventù deve acquistare coscienza (trovandoli già in sé) come tradizione e storia dei valori stessi, della cultura, sono visibili, insieme agli echi nietzschiani, la divisione tricotomica della critica della ragion pura reinterpretata in senso rickertiano come sistema dei valori e la concezione hegeliana, ripresa da Wyneken49, della storia dello spirito, del cammino della coscienza verso il sapere assoluto50.

Note 1

W. Benjamin, Lebenslauf III (1928), in GS, VI, p. 218; trad. it. Curriculum 2, in W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929 (vol. V. delle Opere di Walter Benjamin, a cura di G. Agamben), trad. di G. Backhaus, M. Bertolini Peruzzi, G. Carchia, G. Gurisatti, A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino, 1993, p. 8 (traduzione leggermente modificata). In un Curriculum Vitae quasi contemporaneo al primo e suo modello, scritto per ottenere una borsa di studio dall’Università di Gerusalemme, Benjamin si esprime quasi negli stessi termini, senza però nominare Husserl: «In particolare, e in sempre rinnovate letture, nel periodo dei miei studi universitari mi sono occupato di Platone e di Kant, e di conseguenza della filosofia della scuola di Marburgo» (ivi, p. 216; trad. it. cit., p. 5). 2 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1925), in GS, I, 1, pp. 203-430; trad. it. Il dramma barocco tedesco, introd. di G. Schiavoni, trad. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino, 1999. Il saggio fu pubblicato presso l’editore Rowohlt di Berlino nel 1928. 3 Lebenslauf III, in GS, VI, p. 215. Il testo non è riportato nell’edizione italiana delle Opere di Benjamin. 4 Gustav Wyneken, pedagogo e filosofo, era stato insegnante di Benjamin nel Landerziehungsheim di Haubinda negli anni 1905-1906. La sua influenza era stata così importante, che anche nel periodo della scuola e successivamente all’università Benjamin

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù si adoperò per la diffusione delle sue idee, lavorando nelle Freie Studentenschaften di Friburgo per costruire una sezione per la riforma scolastica, e poi a Berlino con interventi pubblici e assumendo cariche ufficiali nel movimento. Per una idea della concezione filosofica e pedagogica di Wyneken, fondata sulla filosofia hegeliana, cfr. il suo testo Die Idee der Freien Schulgemeinde, in G. Wyneken, A. Halm (a cura di), Wickersdorfer Jahrbuch 1908. Abhandlungen zum Programm der Freien Schulgemeinde, Diederichs, Jena, 1909, a cui Benjamin stesso probabilmente si riferisce quando dice all’amico Ludwig Strauss di volergli inviare un testo di Wyneken perché possa conoscere le sue idee: «Egli [Wyneken] pensa l’idea (Gedanken) della scuola in modo nuovo con l’unico presupposto, che il fine (Ziel) della scuola sia quello di educare il giovane, nel nostro tempo, perché diventi un membro della società futura» (Benjamin a L. Strauss, 11-IX-1912, in GB I, p. 64 e cfr. la nota a p. 68; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, trad. e presentazione di G. Bonola, in «MicroMega», 3, 1997, p. 204). Cfr. inoltre G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, Diederichs, Jena, 1913. Per un profilo di Wyneken e dei movimenti giovanili del tempo cfr. G. Schiavoni, Benjamin e la pedagogia coloniale, in «Nuova Corrente», 71, 1976, pp. 239-287; cfr. inoltre l’ampliamento del saggio in G. Schiavoni, Walter Benjamin – Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo, 1980, e G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino, 2001, in part. le pp. 33-62. Per il rapporto di Benjamin con la Jugendbewegung cfr. M. Bröcker, Die Grundlosigkeit der Wahrheit. Zur Verhältnis von Sprache, Geschichte und Theologie bei Walter Benjamin, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1993, in particolare il capitolo I Ausgangspositionen: Benjamin und die Jugendkulturbewegung, pp. 13-67, e sul rapporto di Benjamin con l’ebraismo e il sionismo nel contesto della sua partecipazione ai movimenti giovanili cfr. l’articolo di G. Bonola Ebraismo della gioventù. Temi ebraici intorno al giovane Benjamin (1912-1915), in B. Bocchini Camaini e A. Scattigno (a cura di), Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, Quodlibet, Macerata, 1998 e di G. Smith “Das Jüdische versteht sich von selbst”. Walter Benjamins frühe Auseinandersetzung mit dem Judentum, in «Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», 2, 1991, pp. 318-334. Cfr. inoltre A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, Vorwerk 8, Berlin, 2000 (Diss. 1999), in particolare il terzo capitolo “Hoffentlich neukantianisch”. Dualismus und Judentum, pp. 282-379. 5 Cfr. la nota alla cartolina di Benjamin a H. Blumenthal del 24-IV-1912, in GB I, p. 46. 6 Ivi, p. 48. 7 Ivi, p. 52. Non si conosce l’argomento dei seminari seguiti da Benjamin. In quegli stessi anni, a Friburgo, sta completando i suoi studi di filosofia come allievo di Rickert Martin Heidegger. 8 Qui Benjamin si contrappone alla visione dell’ ebraismo come “esperienza vissuta” di Martin Buber. Cfr. a proposito G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, Suhrkamp, Frankfurt/M., 19903, pp. 41-42; trad. it. Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, trad. e note di E. Castellani e C. A. Bonadies, Adelphi, Milano, 1992, pp. 56-57, che riferisce di conversazioni avute con Benjamin nell’estate del 1916: «In tutti quei giorni passati insieme, parlammo a lungo di ebraismo. […] Tre vizi, secondo lui, dovevano essere eliminati dal sionismo: “l’impostazione agricola, l’ideologia razziale e l’argomentazione buberiana fondata sul sangue e sull’esperienza vissuta”. […] Ma parlammo soprattutto di Buber, nei cui confronti Benjamin non risparmiò aspre critiche […]. Dal punto di vista individuale, Buber gli aveva fatto l’impressione di un uomo che vivesse in una sorta di estasi permanente, in qualche luogo del tutto lontano da se stesso, uno “sdoppiamento” da se stesso […]. Benjamin respingeva con particolare durezza il culto dell’“esperienza vissuta” [Erlebnis], sottolineato con grande esaltazione dagli

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung scritti di Buber di quell’epoca (soprattutto quelli tra il 1910 e il 1917). Diceva con sarcasmo che, se si dava retta a Buber, la prima domanda che si doveva rivolgere a un ebreo era la seguente: “lei ha già vissuto l’esperienza ebraica?”». Anche Gershom Scholem, che è in questi anni un estimatore entusiasta di Buber, è critico nei confronti di alcuni suoi testi. Sui complessi rapporti tra Scholem e Buber cfr. K. S. Davidowics, Gershom Scholem und Martin Buber. Die Geschichte eines Mißverständnisses, Neukirchener Verlag, Neukirchener, 1995 (Wien, Univ., Diss. 1993). 9 Benjamin a L. Strauss, 21-XI-1912, in GB I, pp. 75-76; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 207-208. Strauss voleva invitare Benjamin a collaborare a una rivista ebraica in lingua tedesca, il cui progetto era sorto in seguito a una discussione molto accesa, che si era svolta sulla rivista «Der Kunstwart» (cfr. «Der Kunstwart. Halbsmonatschau für Ausdruckskultur auf allen Lebensgebieten», hrsg. von F. Avenarius, Jahrg. 25, Heft 22, 1912) sulla situazione degli ebrei tedeschi, sul loro ruolo nel mondo culturale tedesco e sul loro rapporto con la cultura ebraica. Cfr. a proposito la presentazione di Gianfranco Bonola (La consapevolezza ebraica del giovane Benjamin, in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 195-201) alle lettere di Benjamin a Ludwig Strauss. Bonola vede nel «precoce tentativo», proprio di queste lettere «di istituire la complessa problematica» che caratterizza il rapporto di Benjamin con l’ebraismo, «l’impalcatura di un assetto che si rivelerà duraturo» e «una straordinaria documentazione della presa di coscienza del giovane Benjamin circa la propria identità ebraica» (ivi, p. 198). 10 Per un’analisi della genesi del concetto di Erfahrung in Benjamin cfr. M. Pulliero Erfahrung. Genèse d’une problématique de l’expérience dans la pensée de Walter Benjamin, in «Internationale Zeitschrift für Philosophie», 2, 1, 1993, pp. 20-72. 11 Wyneken presenta in termini kantiani la sua concezione della volontà oggettiva che insieme all’intelletto oggettivo costituisce lo spirito oggettivo che si dispiega nella storia: «Kant ha insegnato per la prima volta il senso del suo “imperativo categorico” tante volte nominato ma raramente compreso. Questo è per lui niente altro che la volontà stessa, purificata degli intorbidimenti accidentali del mondo fenomenico (i motivi)» (G. Wyneken, Soziale Erziehung in der Freien Schulgemeinde, in G. Wyneken, A. Halm (a cura di), Wickersdorfer Jahrbuch 1909-1910. Abhandlungen zum Programm der Freien Schulgemeinde, Diederichs, Jena, 1910, p. 4; il testo verrà ripreso in G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, Diederichs, Jena, 1913, p. 8). 12 Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Werkausgabe, hrsg. v. W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1974, Band VII: Kritik der praktischen Vernunft. Grundlegung zur Metaphysik der Sitten; trad. it. Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano, 1994. Per Kant il valore delle virtù non consiste negli effetti utili, ma nelle «intenzioni (Gesinnungen), cioè nelle massime della volontà, che in questo modo sono pronte a rivelarsi in azioni» (ivi, p. 68; trad. it. cit., p. 159) e «la bontà essenziale dell’azione stessa consiste nell’intenzione, qualunque ne sia poi il risultato» (ivi, p. 45; trad. it. cit., p. 111). In queste lettere a Strauss si trovano, oltre a riferimenti a Kant, anche echi neokantiani. Nella lettera del 7 gennaio 1913 Benjamin evoca le opere coheniane Logik der reinen Erkenntnis e Ethik des reinen Willens: «Quanto poco la logica della conoscenza conosce il concetto di lotta o di fedeltà, altrettanto poco la logica del volere (vale a dire l’etica) conosce il concetto della comunicazione (comprensione) o conoscenza. (Perdoni questa formulazione speriamo neokantiana)» (Benjamin a L. Strauss, 7-I-1912, in GB I, p. 82; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., p. 210). Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis (1902, 19142), seconda edizione migliorata in Werke, hrsg. vom Hermann-Cohen-Archiv, unter der Leitung von H. Holzhey, Georg Holms Verlag, Hildesheim-Zürich-New York, 1977 ss., Band 6,

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù Einleitung von H. Holzhey, 1977; H. Cohen, Ethik des reinen Willens (1904, 19072), seconda edizione ampliata in Werke, cit., Band 7, Introduction by S. S. Schwarzschild, 1981; trad. it. della seconda edizione, Etica della volontà pura, a cura di G. Gigliotti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994. 13 Il 10 ottobre 1912 Benjamin scrive a Strauss: «sento l’ebraismo come il mio nucleo. […] La mia decisiva esperienza (Erlebnis) spirituale l’ho avuta ben prima che l’ebraismo divenisse importante o problematico per me. […] L’influenza decisiva [l’ha avuta] […] il mio docente il Dr. Wyneken […] [:] io potrei sciogliermi da queste mie saldissime connessioni con l’idea di Wickersdorf soltanto mettendo a repentaglio tutto quanto è ora in mio indiscutibile possesso. Quindi questa connessione è dominante. Una soltanto può essere dominante, ogni altra deve essere passata al vaglio, anche quella con l’ebraismo. Il risultato dell’esame è: […] [nel] lavoro di illuminismo, di riforma, al quale Wickersdorf mi impegna in profondità, vedo in gran parte agire degli ebrei. Presso di loro io trovo […] una concezione della vita rigorosamente dualistica che (non a caso!) trovo in me e nella concezione wickersdorfiana della vita. Anche Buber parla di questo dualismo. […] A partire da Wickersdorf ho trovato il mio ebraismo, non speculativamente, non semplicemente in modo sentimentale, bensì per esperienza (Erfahrung) interna ed esteriore. Quanto di idee e uomini era per me supremo, l’ho scoperto essere ebraico […]: io sono ebreo e se vivo da uomo consapevole, vivo da consapevole ebreo. Io vedo in Wickersdorf qualcosa che ha avuto la più intima influenza su di me e su altri ebrei. Ne vengono due conseguenze: o questa idea è ebraica nella sua essenza (anche se l’ha dieci volte pensata un tedesco!) oppure io e gli altri ebrei non siamo più dei veri ebrei, siccome veniamo afferrati nel più profondo della persona da qualcosa di non-ebraico. Io devo anzitutto assentire a ciò che è in me di più valido (das Wertvolle), e se mi si dovesse dire che ciò che è valido in me ed altri “ebrei” non è ebraico, non posso dolermene. Quanto è valido in me lo è in forza del mio bendisposto (gutgesinnte) assenso, e di null’altro. A Wickersdorf si attaglia magnificamente ciò che Buber, nel suo secondo e terzo discorso, chiama l’essenza dell’ebraismo» (Benjamin a L. Strauss, 10-X-1912, in GB I, pp. 69-71; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 205-206 e 207-208). Cfr. M. Buber, Drei Reden über das Judentum, Rütten & Loening, Frankfurt a. M., 1911, ora in Der Jude und sein Judentum. Gesammelte Aufsätze und Reden, Schneider, Gerlingen, 19932, pp. 9-44; trad. it. Sette discorsi sull’ebraismo, prefazione di C. Levi Coen, Carucci, Roma, 1986, pp. 27-65. Cfr. il terzo discorso, Il rinnovamento dell’ebraismo (Die Erneuerung des Judentums): «il popolo ebraico […] deve conquistare la vita assoluta, l’Ebraismo vivente […] la vita dello spirito. […] Perciò il rinnovamento deve significare anche questo: che la lotta per l’adempimento abbracci tutto il popolo, che le idee penetrino la realtà quotidiana, che lo spirito entri nella vita!» (ivi, p. 43; trad. it. cit, p. 63, traduzione modificata). 14 Benjamin a L. Strauss, 21-XI-1912, in GB I, pp. 75-76; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 207-208 (traduzione leggermente modificata). Per illustrare i pericoli insiti nell’idea razionalizzante rispetto alla vita e agli istinti, Benjamin porta come esempio il Canto della notte dello Zarathustra (cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, Kritische Studienausgabe, Band 4, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Deutsche Taschenbuch Verlag de Gruyter, München, 19933, pp. 136-138; trad. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1995, pp. 119-121). Benjamin cita spesso Nietzsche nelle lettere e nei suoi scritti del periodo 1912-1915, e lo considera uno dei profeti di una nuova religiosità. Cfr. W. Benjamin, Dialog über die Religiosität der Gegenwart (1912), in GS, II, 1, p. 35; trad. it. Dialogo sulla religiosità contemporanea, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918 (vol. I delle Opere di Walter Benjamin a cura di G. Agamben), trad. di I. Porena, A. Marietti

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung Solmi, R. Solmi, A. Moscati, Einaudi, Torino, 1982, p. 42. Di lui aveva letto sicuramento Così parlò Zarathustra e Sull’utilità e il danno della storia per la vita (cfr. F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen II, Von Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, Kritische Studienausgabe, cit., Band 1, pp. 243-334; trad. it. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 19919). Cfr. a proposito W. Benjamin, Unterricht und Wertung (1913), in GS, II, 1, p. 40; trad. it. Insegnamento e valutazione, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. 49: «Il nostro liceo dovrebbe richiamarsi a Nietzsche e al suo saggio Vom Nutzen und Nachteil der Historie; ostinatamente confidando in una gioventù che segue Nietzsche con entusiasmo, esso dovrebbe travolgere questi piccoli riformatori della pedagogia odierna»; cfr. inoltre il saggio del 1913 Erfahrung, in GS, II, 1, p. 56; trad. it. Esperienza, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. 66: «Ognuno sperimenta (erlebt) sempre solo se stesso, afferma Zaratustra alla fine del suo pellegrinaggio». Benjamin potrebbe aver derivato da Nietzsche elementi della sua filosofia della storia, e di una concezione della vita come materia di una esperienza spirituale strutturante da fondare su nuovi valori e da esprimere in un nuovo sentimento religioso, vita che una volta strutturata può trasformarsi in azione. Per una trattazione del rapporto di Benjamin con l’opera nietzschiana cfr. R. Reschke Barbaren, Kult und Katastrophen. Nietzsche bei Benjamin. Unzusammenhängendes im Zusammenhang gelesen, in M. Opitz e E. Wizisla (a cura di), Aber ein Sturm weht vom Paradies her. Texte zu Walter Benjamin, Reclam-Verlag, Leipzig, 1992, pp. 303-341. 15 Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, pp. 16-35; trad. it. cit., pp. 2543. Benjamin comunica a Strauss il 10 ottobre 1912 di aver scritto «un dialogo sul sentimento religioso del nostro tempo» (cfr. GB I, p. 73; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., p. 207, nota 10). 16 Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, pp. 31-32; trad. it. cit., p. 40 (traduzione modificata). 17 Ivi, p. 24; trad. it. cit., p. 33 (traduzione modificata). Il primato della ragion pratica sulla ragione teoretica in Kant è stata messa in risalto dal neokantismo sud-occidentale (o del Baden), da Wilhelm Windelband e poi da Heinrich Rickert e da Jonas Cohn (che sarà professore di Benjamin nel 1913), fautori di una filosofia dei valori, dove nella logica come nell’etica il valore dà la legge come prescrizione normativa. Cfr. W. Windelband, Die Erkenntnislehre unter dem völkerpsychologischen Gesichtspunkte, «Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft», 8, 1875, pp. 166-178; Id., Über Denken und Nachdenken, in Präludien. Aufsätze und Reden zur Einleitung in die Philosophie, Tübingen, 19196, Band II, pp. 57-58 (trad. it. Pensiero e riflessione, in Preludi. Saggi e discorsi d’introduzione alla filosofia, introd. di A. Banfi, trad. di R. Arrighi, Valentino Bompiani, Milano, 1947); Id., Die Geschichte der neueren Philosophie in ihrem Zusammenhang mit der allgemeinen Kultur und den besonderen Wissenschaften, Band II, Die Blütezeit der deutschen Philosophie, Leipzig 1880, p. 4. (cit. in M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, Laterza, Bari, 1997, pp. 75-76). Cfr. J. Cohn, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens. Untersuchungen über die Grundfragen der Logik, Verlag von Wilhelm Engelmann, Leipzig, 1908, in particolare nel capitolo XII della parte IV (Übergang zum System der Werte) il § 33 Der Primat der praktischen Vernunft und die Selbstgarantie der Wahrheit, pp. 483-488. 18 Si veda a proposito del problema, per Benjamin centrale, della divisione kantiana e della ricomposizione neokantiana di forme della sensibilità e intelletto, il frammento 19, probabilmente dell’ottobre del 1917, dal titolo Sulla percezione. La prima parte del testo, I. Esperienza e conoscenza, doveva essere seguito da una seconda parte poi non scritta, Esperienza e lingua (Erfahrung und Sprache), di cui rimangono pochi appunti nella parte finale del frammento. Cfr. W. Benjamin, Über die Wahrnehmung, in GS, VI, pp. 33-

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù 38, in particolare le pp. 33-34, e cfr. ivi, p. 657: «la conoscenza della natura e anche la metafisica della natura non solo erano messe [da Kant] in relazione allo spazio e al tempo come concetti d’“ordine” in essa, ma questi erano anche resi determinazioni completamente distinte dalle categorie. Così si evitava dall’inizio un centro gnoseologico unitario la cui troppo potente forza gravitazionale avrebbe potuto trascinare con sé tutta l’esperienza» (ivi, p. 34). Su questo frammento si tornerà in seguito, ma è interessante notare che temi che Benjamin affronterà più tardi sono già presenti nel 1912. 19 Alla fine del Dialogo sulla religiosità contemporanea Benjamin considera anche il sapere, nella sua problematicità, nell’orbita del sentimento religioso, a sua volta concepito all’interno della temporalità, della storia: «il sentimento religioso ha radici nella totalità (Gesamtheit) del tempo: ad essa appartiene il sapere. Se il sapere non fosse problematico, una religione che ha a che fare con l’essenziale non avrebbe a che fare con questo sapere. E forse non c’è stato un tempo in cui il sapere sia stato contestato naturalmente come problematico. Ci sono voluti i fraintendimenti storici per arrivare a questo» (Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, pp. 33-34; trad. it. cit., p. 42, traduzione modificata). 20 Di una concezione della vita rigorosamente dualistica come sua propria, come propria della visione di Wickersdorf e dei suoi seguaci ebrei Benjamin parla nella lettera a Ludwig Strauss su sionismo ed ebraismo del 10 ottobre 1912 (cfr. sopra la nota 13 e GB I, p. 71; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., p. 206). Benjamin vede la possibilità di una soluzione del dualismo tra libertà e natura, tra idea e vita, tra condizione morale e condizionamento empirico, nella spiritualizzazione del bisogno in coscienza etica: «Questo stato di cose […] [prendiamolo] piuttosto come qualcosa di eticamente necessario (sittlich notwendiges), spiritualizziamo ancora una volta la necessità in virtù. Certo viviamo in uno stato di necessità. Ma il nostro comportamento avrà valore soltanto se saprà comprendersi eticamente» (Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 33; trad. it. cit., p. 41). Benjamin riprende la visione di Wyneken di uno spirito oggettivo che nella storia dell’umanità deve arrivare a dominare la fase primitiva, istintuale, dell’umanità stessa, fondata sul sentimento di piacere e dispiacere: questo da una parte è intelletto oggettivo, e quindi fonte del linguaggio, dell’organizzazione sociale, della scienza, della religione della filosofia e dell’arte, dall’altra è volontà oggettiva, Sollen, nel senso dell’imperativo categorico kantiano. Cfr. a proposito il passo, citato sopra nella nota 11, in G. Wyneken, Soziale Erziehung in der Freien Schulgemeinde, in G. Wyneken, A. Halm (a cura di), Wickersdorfer Jahrbuch 1909-1910, cit., p. 4. Michael Bröcker legge la visione dualistica di Wyneken come antinomica tra lo spirito (colto in modo monistico come garante dei valori assoluti) e il mondo empirico, nel contesto della critica radicale di quest’ultimo alla moderna società borghese industrializzata (cfr. M. Bröcker, Die Grundlosigkeit der Wahrheit, cit., p. 16). Bernd Witte pone l’accento già nel suo Habilitationsschrift del 1976 «sulla visione dualistica del mondo di Benjamin, influenzata da [Hermann] Cohen (B. Witte, Walter Benjamin – Der Intellektuelle als Kritiker. Untersuchungen zu seinem Frühwerk, Stuttgart, 1976, p. 50). Per una discussione sulla visione filosofica dualistica nel primo Benjamin in relazione alla filosofia sistematica di Hermann Cohen e alla sua filosofia della religione legata alla religione ebraica, si veda A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., in particolare il terzo capitolo “Hoffentlich neukantianisch”. Dualismus und Judentum, pp. 282379). L’autrice – che si è impegnata nel suo testo in un confronto serrato e fecondo tra la filosofia di Walter Benjamin e il pensiero di Hermann Cohen ed è stata la prima ad aver dedicato al tema uno studio monografico – rimanda, a p. 31, al passo di Witte citato qui, ma critica la sua considerazione di Cohen solo come filosofo della religione, e non anche come filosofo sistematico.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 21

Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 32; trad. it. cit., p. 40. Per l’opposizione al panteismo da parte della filosofia della religione di Hermann Cohen, che Benjamin, come si vedrà, ha occasione di ascoltare a Berlino fin dal 1912, cfr. P. Fiorato, Problematologia divina. La filosofia dell’origine in Cohen tra ontologismo cristiano e nichilismo, in Ebraismo e filosofia: tradizione e modernità, a cura di B. Maj e A. Fabris, volume monografico di «Discipline Filosofiche», 9, 1, 1999, pp. 103-120. 23 Dialog über die Religiosität der Gegenwart, GS, II, 1, 27; trad. it. cit., p. 35. Il riferimento al futuro come luogo della realizzazione dei valori dello spirito nella storia è molto forte in Wyneken, ma è anche presente nella concezione religiosa ebraica, e nel terzo discorso delle Drei Reden über das Judentum di Martin Buber, che Benjamin aveva presente (cfr. M. Buber, Der Jude und sein Judentum. Gesammelte Aufsätze und Reden, cit., p. 32; trad. it., Sette discorsi sull’ebraismo, cit., p. 52: «Il processo spirituale dell’Ebraismo si compie nella storia come la tensione ad attuare in modo sempre più perfetto le tre idee legate fra loro: l’idea dell’unità, l’idea dell’azione e l’idea del futuro (Zukunft)». E più avanti: «La terza tendenza dell’ebraismo è l’idea dell’avvenire (Zukunft). […] La sua coscienza del popolo e di Dio traggono il loro alimento sostanziale dalla memoria storica e dalla speranza storica, e la speranza è per giunta l’elemento positivo e costruttivo. […] questa tendenza [all’avvenire] ridesta nell’Ebreo il messianesimo, l’idea dell’avvenire assoluto contrapposta ad ogni realtà del passato e del presente, come la vera e perfetta vita. Il messianesimo è l’idea più profonda e più originale dell’Ebraismo» (ivi, pp. 39-40; trad. it. cit., p. 60). 24 Il monismo era un movimento filosofico di ispirazione materialistica, seguito dagli “atei di sinistra”, fondato dal biologo E. Heckel (Der Monismus als Band Zwischen Religion und Wissenschaft, 1893) e dal chimico W. Otswald, che offriva una concezione della realtà come sistema unitario a cui si arrivava tramite una filosofia scientifica, in quanto filosofia non soggettivistica e capace di inglobare le dimensioni opposte dello scientismo e della religione. Per una critica si veda di R. Kroner Zur Kritik des philosophischen Monismus, in «Logos. Internationale Zeitschrift für Philosophie der Kultur», 3, 1912, pp. 206-229. Benjamin aveva forse avuto in visione il volume della rivista. A «Logos» collaboravano anche i suoi professori del momento e futuri H. Rickert e J. Cohn, oltre a G. Simmel, E. Husserl, F. Meinecke, E. Troeltsch, M. Weber e W. Windelband. Inoltre dal 6 al 10 settembre 1912 si era tenuta il sesto congresso del Deutsche Monistenbund a Magdeburgo (cfr. GB I, p. 67). 25 Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 22; trad. it. cit., p. 31. 26 Ivi, p. 27; trad. it. cit., p. 36. 27 Ivi, p. 20; trad. it. cit., p. 28 28 Ivi, pp. 21-22; trad. it. cit., p. 30. 29 Cfr. ivi, p. 30; trad. it. cit., p. 39. Qui il riferimento (polemico) è al lavoro sociale cui erano dedite le Freien Studentenschaften, ma anche all’idea del socialismo neokantiano, che vedeva la possibilità di ottenere la giustizia sociale solo nell’idea di un progresso tendente all’infinito, in un «pensiero sociale infinito» (ibid., traduzione modificata). 30 Ivi, p. 33; trad. it. cit., p. 41. Cfr. sopra un ulteriore riferimento a Kant nella definizione di cultura: «Direi che la cultura significa tradurre i comandamenti divini in leggi umane. […] La religione è il riconoscimento dei nostri doveri come comandamenti divini, dice Kant. Il che significa: la religione ci garantisce un manto di eternità nel nostro lavoro quotidiano e questa è la cosa più necessaria» (ivi, pp. 19-20; trad. it. cit., pp. 28-29). 31 Ivi, p. 21; trad. it. cit., p. 30. 32 Ivi, p. 25; trad. it. cit., p. 33. 33 Ivi , p. 34; trad. it. cit., p. 42 (traduzione modificata). Nello Zarathustra Nietzsche parla di Redlichkeit, di onestà. Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, cit., p. 37; trad.

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù it. Così parlò Zarathustra, cit., p. 31. Il termine “autenticità” è legato alla visione esistenziale e religiosa di S. Kierkegaard. 34 Dialog über die Religiosität der Gegegenwart, in GS, II, 1, p. 33; trad. it. cit., p. 41. Benjamin pensa a un nuovo tipo di legame sociale (un «socialismo autentico», cfr. ivi, p. 26; trad. it. cit., p. 34, traduzione modificata), che superi il rapporto convenzionale nell’assoggettarsi delle personalità immediate e autentiche all’etica culturale ed acquisti così «serietà metafisica» (ivi, p. 19; trad. it. cit., p. 28): «Nel momento in cui troviamo questo e al tempo stesso sappiamo piegarci di fronte all’etica culturale, possiamo dirci umili. Solo allora avremo il senso della dipendenza assoluta […] invece che di una dipendenza convenzionale» (ivi, p. 33; trad. it. cit., p. 41). 35 Cfr. Benjamin a L. Strauss, 11-IX-1912, in GB I, pp. 61-65, in particolare le pp. 6364; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 201-204, in particolare le pp. 205-206. In questa lettera Benjamin espone l’idea del letterato in riferimento ai letterati ebrei e in relazione alla discussione su ebraismo e sionismo e al rapporto tra ebrei e cultura tedesca: i letterati ebrei, essendo legati al movimento letterario, hanno il dovere dell’internazionalismo, e possono quindi aderire al movimento ebraico non nel senso di una partecipazione al sionismo politico, ma solo nel dare un contributo culturale alla causa ebraica in una visione cosmopolitistica europea di educazione e progresso culturale e spirituale (Benjamin è per un sionismo “culturale”, e in ciò sostiene la visione di Martin Buber). Cfr. a proposito la presentazione di G. Bonola alla sua traduzione italiana delle lettere a Ludwig Strauss, in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 195-201. Cfr. inoltre A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., in particolare del capitolo III il paragrafo 1 Kultur-Zionismus: Die Briefe an Ludwig Strauss, pp. 282-299. 36 Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 26; trad. it. cit., p. 34 (traduzione modificata). E cfr. poco oltre: «Poco a poco una nuova generazione oserà riconoscersi in se stessa. […] Si vedrà chiaramente il dualismo tra moralità sociale e personalità. E da qui nascerà una religione e diventerà necessaria, perché mai la personalità è stata imprigionata in tal modo nel meccanismo sociale». 37 Cfr. ivi, pp. 27-28; trad. it. cit., p. 36 (traduzione modificata): «Bölsche ha detto una volta che l’arte anticipa presentendo (vorahnend) la coscienza generale e la sfera di vita dei tempi futuri». E sopra: «Riceviamo dall’opera d’arte valori di vita! Bellezza, conoscenza della forma e sentimento» (ivi, p. 17; trad. it. cit., p. 26). 38 Cfr. la lettera di Benjamin a L. Strauss, dell’11-IX-1912, in GB I, pp. 63-64; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 203-204. Cfr. inoltre Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, pp. 28-29; trad. it. cit., pp. 37-38. La figura del letterato coincide in Benjamin con quella del dilettante, che pur non potendo essere creatore di opere d’arte può essere un educatore capace di intuire i contenuti artistici e il genio e di trasmettere questa cultura e sensibilità. Per far ciò e poter educare ai contenuti etici che intuisce nell’arte egli deve avere una personalità etica (cfr. W. Benjamin, Studentische Autorenabende (1913-14), in GS, II, 1, pp. 70-71; trad. it. Serate studentesche di lettura, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit, pp. 8990; il testo fu pubblicato nel gennaio del 1914). Benjamin prende in considerazione la figura del letterato ebreo: l’espressione Literaten-Jude è un’espressione antisemita, che emerge nella discussione che si era svolta sulla rivista «Der Kunstwart» e aveva coinvolto molti giovani intellettuali ebrei, fra cui il destinatario della lettera stessa Ludwig Strauss (cfr. F. Avenarius, Aussprachen mit Juden, in «Der Kunstwart. Halbsmonatschau für Ausdruckskultur auf allen Lebensgebieten», 25, 22, 1912, pp. 225-261, in particolare l’intervento di Franz Quentin alias Ludwig Strauss, pp. 238-244), e viene ripreso da Benjamin in termini positivi per indicare, nella figura di chi veniva considerato un

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung “povero in spirito, asservito e umile” (cfr. Benjamin a L. Strauss, 11-IX-1912, in GB I, p. 63-64; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, cit., pp. 203-204), il rappresentante di una nuova religione, come per il cristianesimo primitivo erano proprio i poveri in spirito e gli umili i protagonisti della nuova religione. Cfr. a proposito A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., in particolare del capitolo III il paragrafo 6b Der “intellektuelle Literaten-Jude” und die vergängliche Erfahrung, pp. 370-379. 39 Cfr. Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 23; trad. it. cit., p. 32: «Ma allora che cos’è per noi questo nostro sapere? Non domando cosa significhi per l’umanità quanto piuttosto che valore di esperienza (Erlebniswert) abbia per ciascun individuo. Dobbiamo infatti occuparci dell’esperienza (Erlebnis)». Qui l’Erlebnis è l’esperienza vissuta del valore del sapere (ma si vedrà che lo sarà anche dell’arte come bellezza, sentimento e forma, e della moralità). Proprio nell’estate del 1912 Benjamin aveva letto Das Erlebnis und die Dichtung di Wilhelm Dilthey (W. Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung. Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 197015; trad. it. Esperienza vissuta e poesia. Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin, a cura di N. Accolti Gil Vitale, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1947); cfr. il riferimento a questo testo in una lettera di Benjamin a H. Blumenthal del 12-VIII-1912, in cui però l’autore dice di aver letto solo la parte di esso che riguarda Hölderlin (in GB I, pp. 58 e 59). 40 W. Benjamin, Romantik (1913), in GS, II, 1, pp. 43 e 46; trad. it. Romanticismo, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 53 e 56 (traduzione modificata). Il saggio fu pubblicato in «Der Anfang», 2, 1913, e firmato con lo pseudonimo Ardor. Nel testo si accenna anche al Simposio di Platone, indicato come lettura che, almeno nella versione integrale, viene evitata nella scuola tradizionale, che non tiene conto dell’educazione erotica della gioventù (cfr. ivi, p. 46; trad. it. cit., p. 55). Di ciò Benjamin aveva già parlato nel saggio del 1913 Insegnamento e valutazione (Unterricht und Wertung, in GS, II, 1, p. 41; trad. it. cit., p. 50), è quindi verosimile che egli avesse letto il Simposio tra il 1912 e il 1913, o addirittura al liceo. 41 Nel saggio c’è un riferimento esplicito a Nietzsche: cfr. ivi, pp. 44-45; trad. it. cit., p. 54. Sicuramente nella visione della storia benjaminiana ha influito l’opera di Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Nell’ambito della concezione della “volontà” non deve sfuggire il fatto che in Benjamin c’è un primato dell’etica che agisce nella storia della cultura. 42 Cfr. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, Freiburg i. B., 1892, p. 84: «il doveressere e non l’essere costituisce ciò che logicamente è originario». 43 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, hrsg. von K. Vorländer, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 19907, § III, p. 15; trad. it. Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999, p. 15: «Sebbene dunque la filosofia possa essere divisa solo in due parti principali, teoretica e pratica; e sebbene tutto ciò che potremmo avere da dire dei principî propri della facoltà di giudizio debba essere ascritto alla parte teoretica, cioè alla conoscenza razionale mediante concetti della natura; tuttavia la critica della ragione pura, che deve stabilire tutto ciò riguardo alla possibilità di quel sistema prima che esso sia intrapreso, consiste di tre parti: la critica dell’intelletto puro, della facoltà di giudizio pura e della ragione pura, le quali facoltà sono dette pure perché sono legislative a priori». 44 In Romantik – Die Antwort der “Ungeweihten”, pubblicato in «Der Anfang» (19131914) in risposta a una replica al suo discorso Romantik , Benjamin mette in risalto, nella sua nuova concezione del romanticismo, il rapporto tra la fede (religiosa) nell’arte e nella storia come veicoli dei valori dello spirito, e la volontà di realizzarli:

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1. L’esperienza della moralità: Kant, Wyneken e l’ebraismo della gioventù «Romanticismo significherà quindi la volontà che agisce nella direzione di una nuova gioventù e una nuova scuola. Si aprirà una realtà spirituale. Soltanto ora abbiamo fede nell’arte e nella storia: poeti e eroi garantiscono per la scuola futura. E questa gioventù, che serve con fede lo spirito reale, sarà romantica» (W. Benjamin, Romantik – Die Antwort der “Ungeweihten” (1913-14), in GS, II, 1, p. 47; trad. it. Romanticismo – Replica del “non iniziato”, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. 75, traduzione modificata). 45 Romantik, in GS, II, 1, p. 44; trad. it. cit., p. 53-54 ( traduzione modificata). 46 Benjamin scriverà il testo Erfahrung (GS, II, 1, pp. 54-56; trad. it. cit., pp. 64-66) il 23 giugno del 1913 (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 23-VI-1913, in GB I, p. 124). Questo sarà pubblicato in «Der Anfang», 6, 1913, e firmato con lo pseudonimo Ardor. 47 Erfahrung, in GS, II, 1, p. 55; trad. it. cit., pp. 64-65. 48 Ivi, pp. 55-56; trad. it., cit., pp. 65-66 (traduzione modificata). La lotta contro il filisteismo borghese è uno dei principi del circolo di Wyneken. Cfr. G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, cit., p. 55. 49 La filosofia di Hegel è esplicitamente alla base dell’opera di Wyneken. È interessante per la ricerca delle influenze della filosofia kantiana su Benjamin il fatto che la dissertazione di Wyneken si occupi della critica di Hegel a Kant. Cfr. G. H. Wyneken, Hegels Kritik Kants, Diss., Julius Abel, Greifswald, 1898. 50 Bruno Moroncini mette in risalto la differenza tra Erlebnis ed Erfahrung, facendo emergere il modello hegeliano alla base del concetto: «Erfahrung è esperienza, se ci limitiamo al lessico filosofico, nel senso dell’esperienza possibile kantiana, ma anche esperienza nel senso dell’espressione ‘scienza dell’esperienza della coscienza’, titolo originario della Fenomenologia dello spirito. Che cosa indica il termine Erfahrung in contrapposizione all’Erlebnis? Erfahrung denota non un rapporto della coscienza a sé stessa nella forma della presenza-in-vita, ma il rapporto della coscienza ad un passato che la costituisce senza appartenerle. Se prendiamo proprio il modello hegeliano, il ‘cammino’ della coscienza verso il sapere assoluto richiede non solo che la coscienza riconosca il passato dello spirito come l’unico terreno a partire dal quale essa, come singolarità, può sorgere, ma anche che questa irruzione del passato faccia corto-circuito con il suo presente d’esperienza e la spinga ad uscire dalla immediata identità con sé. Il rapporto tra la coscienza e lo spirito è meno quello di una interiorizzazione, che quello di un esteriorizzarsi. Lo spirito è fuori dalla coscienza, o, in altri termini, Hegel mantiene sempre uno iato, una differenza tra i due» (B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Guida, Napoli, 1984, pp. 64-65).

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2. La religione entro i limiti del “come se”

Benjamin trascorre a Berlino il semestre invernale tra il 1912 e il 1913, e frequenta la facoltà di filosofia alla Königlichen Friedrich WilhelmsUniversität, dove tengono o hanno tenuto corsi Georg Simmel, Benno Erdmann, Ernst Cassirer, Ernst Troeltsch, ma non ci sono testimonianze dei corsi che può aver seguito. Dal 1912 al 1918 insegna nella Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums di Berlino Hermann Cohen. Secondo la testimonianza di Scholem, Benjamin segue alcune sue conferenze e lezioni universitarie: «Sia Benjamin sia io, in tempi diversi, avevamo seguito corsi (Vorlesungen) o singole conferenze di Cohen all’epoca in cui, già vecchio, questi viveva a Berlino, e avevamo per la sua persona una considerazione che giungeva alla reverenza»1. Per il semestre estivo Benjamin è ancora a Friburgo, dove si immatricola nella facoltà di filosofia e – occupandosi contemporaneamente della sezione per la riforma scolastica all’interno della libera associazione studentesca (Freie Studentenschaft) – frequenta il seminario dell’allievo di Rickert Jonas Cohn2 “Colloqui filosofici (la fondazione dell’estetica in Kant e Schiller)”, il seminario di Rickert “Esercizi di metafisica con riferimento agli scritti di Henri Bergson”3, e il suo corso “Logica (Fondamenti della filosofia teoretica)”4. Egli commenta i corsi in una lettera a Blumenthal del 7-VI-1913: «Il seminario di Cohn sulla Critica della facoltà di giudizio è chimicamente privo di pensiero. Non si ha nulla di più di ciò che si ha leggendo i testi. Successivamente rifletterò su di essi. Dopo il seminario Keller e io […] pensiamo di penetrare le questioni meglio di Rickert. Nel suo corso si trova ora la Friburgo letteraria; egli legge attualmente come introduzione alla sua logica uno schizzo del suo sistema, che fonda una disciplina completamente nuova: la filosofia della vita compiuta (La donna come sua rappresentante). Tanto interessante quanto problematica»5. Il 19 giugno Benjamin scrive a Wyneken, che gli ha affidato una ricerca su come viene affrontato il tema della “coeducazione” (di ragazzi e ragazze) nelle riviste psico-pedagogiche tedesche6, che si sta occupando  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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intensamente degli stessi temi in un altro contesto nel corso di Rickert sulla logica: Qui Rickert fa difatti lezione sulla logica, finora però solo sul suo sistema ancora inedito e sconosciuto perfino ai suoi studenti personali. È una filosofia dei valori. Egli fonda una disciplina completamente nuova: “Ambito dei valori della vita compiuta (Wertgebiet des vollendeten Lebens)” (accanto alla logica, l’estetica, l’etica, la filosofia della religione). Solo in connessione con la “vita compiuta” il principio della femminilità acquista il suo senso. È ora [pur] sempre un filosofo cattedratico tedesco che ha già parlato per cinque ore e ancora parlerà sulla donna e del rapporto tra i sessi. Non presupponga a causa del termine “vita compiuta” che si tratti di un piatto esteticismo! Questo no – di cosa si tratti invece, anche questo non è chiaro. Per me ciò che dice è inaccettabile, poiché egli dichiara che la donna non è capace, in via di principio, di arrivare al più alto compimento morale7 – essa ha il suo asilo nella “vita compiuta”. Le studentesse sono fuori di sé, ciò significa fuori di sé dalla gioia (!) (per quanto lo capiscono). A Berlino vorrei volentieri discutere con lei del nesso generale dell’argomento affrontato nel corso – adesso dovrei scriverle troppo. Ma naturalmente anche lei non può condividere il suo punto di vista. O in ogni modo: qui non si tratta di un problema della conoscenza (che cos’è la donna? – come minimo questo si può dire solo quando si conosce una cultura della donna – proprio così è per altro per quanto riguarda la gioventù), piuttosto si tratta qui del “come-se” secondo cui si agisce8.

Benjamin vorrebbe continuare la discussione sul rapporto della donna con la moralità con Wyneken stesso. La risposta di Wyneken arriva il 23 giugno: «quanto alla psiche femminile sono d’accordo con lei: “come se”. Per quanto riguarda il lato biologico-psicologico, certo, solo Dio lo sa»9. Egli riporta questa risposta in una lettera scritta lo stesso giorno a Herbert Blumenthal, e continua a discutere con lui sull’argomento facendo riferimento alla concezione di Wyneken, che fa sua, di una redimibilità dell’umanità (e non solo della donna) attraverso lo spirito e anche qui, come sopra, a un “come se” proprio delle massime che esprimono la norma etica secondo cui si deve agire, ben distinta dalla conoscenza della cultura dei soggetti che dovrebbero assumerle. In questo periodo si discute molto della “filosofia del come-se (Als Ob)”, dal titolo omonimo del saggio di Hans Vaihinger10, ma in Benjamin il “come se”, contrapposto al problema della conoscenza (qui la conoscenza della cultura della donna e della gioventù), si lega in questo momento alla concezione etica e pedagogica di Wyneken11, e alla lettura della Fondazione della metafisica dei costumi di Kant, e ha il signifi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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2. La religione entro i limiti del “come se”

cato di esprimere massime, principi soggettivi per agire conformemente alla legge morale del dovere, che siano motivo concreto per l’azione etica e diano realtà pratica all’idea: si deve agire secondo massime della libertà come se fossero leggi di natura e la propria massima potesse essere assunta a legge universale12, in una comunità etica che è stata fondata come se il singolo fosse effettivamente morale13. Nella lettera a Blumenthal Benjamin delinea inoltre, come nella lettera a Wyneken, un significativo parallelo tra la cultura della donna e la cultura della gioventù, ancora sconosciute ma (implicitamente) da fondare nel futuro: Anche le tue semplici formule per l’uomo e per la donna: spirito-natura/natura-spirito possono essere vere – anche se evito di parlare in termini concreti, e preferisco parlare di un fattore maschile e uno femminile: poiché quanto sono intrecciati l’uno con l’altro, in ogni essere umano! […] Quanto avanti si spinge la spiritualità della donna – chi lo può sapere? Che cosa sappiamo della donna? ben poco, come sappiamo poco della gioventù. Non abbiamo ancora sperimentato una civiltà (Kultur) della donna come non conosciamo una civiltà della gioventù. […]. «Sarebbe un supplizio delle Danaidi, voler redimere l’irredimibile». […] E l’esistenza dell’umanità è sicuramente un supplizio delle Danaidi, che deve generare uno spirito non terreno, con un suo fine proprio […]. Che quel «come se» e la redenzione dell’irredimibile siano un senso del mondo, dovremmo averlo imparato da Wyneken14.

Di cultura della gioventù, in stretto rapporto con l’etica, Benjamin aveva già parlato nel saggio del giugno del 1912 La riforma scolastica: un movimento culturale15, anch’esso fortemente influenzato da Wyneken, il quale considerava la gioventù portatrice e rappresentante di una cultura intesa come realizzazione dell’infinito valore etico nella forma della religione16. Benjamin definisce la riforma scolastica, di cui si occupa a Friburgo nell’ambito della locale Freie Studentenschaft, un movimento culturale caratterizzato da un’«intenzione (Gesinnung), un programma etico del nostro tempo», in cui si esprimono le necessità dell’epoca contemporanea che, «come tutte le sue necessità maggiori, si trovano in ambiti etico-culturali»17: egli considera il problema della cultura non meno serio e più chiaro del problema sociale e religioso. Per Benjamin sono culturali solo tre elementi: da una parte la «propagazione di ciò che è spirituale»18, la trasmissione dei valori nella storia attraverso l’educazione, perché educando «cresciamo oltre il nostro presente [e] […] pensiamo […] viviamo e agiamo sub specie aeternitatis»19, e in tal senso la cultura si fa problema perché la sua storia deve seguire le «finalità dello spirito», dev’essere «cura del naturale svilup www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

po progressivo dell’umanità: cultura»20, dunque «educazione» e «compito di trasformare l’individuo naturale in individuo culturale»21; dall’altra la «propagazione di ciò che è spirituale»22, cioè il problema della revisione dei valori stessi. Nella trasformazione e trasmissione di valori futuri ha un ruolo importante la gioventù, che essendo a servizio della scuola e portando in sé valori spirituali ancora da realizzare, «le offre il futuro» ed è «tutta piena delle immagini che porta con sé dalla terra del futuro», quella «cultura del futuro [che è] […] in ultima analisi lo scopo della scuola»23. La scuola deve però «lasciare che sia la gioventù stessa ad agire, deve accontentarsi di offrire libertà e di pretenderla», la pedagogia deve «creare spazio per la cultura in divenire»24 e lasciare che la gioventù si autoeduchi perché è già colma «di uno spirito che avverte in sé la gioia e il coraggio di essere un nuovo apportatore di cultura (Kulturträger)»25. In questa libertà consiste il terzo elemento. La gioventù appare come il supporto simbolico di una cultura futura26 di valori incondizionati, l’«intenzione (Gesinnung) di questa gioventù deve diventare un modo di pensare comune a tutti, un orientamento di vita»27. In questo senso il termine cultura diventa il ricettacolo di valori spirituali ed etici da esibire e trasmettere nell’educazione, istituendo un problematico rapporto tra conoscenza e etica, un dualismo che continua ad essere presente come problema filosofico e che in Wyneken sembra trovare una soluzione nell’arte come elevazione della realtà che diventa forma di contenuti religiosi e quindi spirito28, e in Benjamin nel simbolo come esibizione della norma etica, che può essere religioso, artistico, ma anche pratico o conoscitivo. Benjamin si occupa dell’etica di Kant fin dall’aprile del 1913: in aprile legge la Fondazione della metafisica dei costumi e discute di etica nelle lettere all’amica Clara Seligson. In aprile scrive a Clara Seligson: «Le mie letture: Kant: La fondazione della metafisica dei costumi. Kierkegaard: EnterEller. Quando un paio di pagine di Kant mi hanno stremato, cerco rifugio in Kierkegaard. […] Enter-Eller è l’ultimatum: esteticità o eticità? In breve questo libro, che mi ha posto problemi su problemi che avevo sempre intuito, ma mai espresso, mi ha commosso più di qualsiasi altro»29 e a giugno scrive ancora «leggo Kant, Schiller, Bergson per i seminari»30. Il 5 maggio scrive a Herbert Blumenthal: «ho in programma per questa mattina l’Introduzione alla Critica del Giudizio»31, ma nei suoi scritti di questo momento è l’opera etica di Kant a lasciare le tracce più evidenti. Nel saggio L’insegnamento della morale32 Benjamin pone il problema pedagogico (molto discusso allora) della possibilità di una educa www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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2. La religione entro i limiti del “come se”

zione etica, confrontandosi con Kant e facendo delle formulazioni della Fondazione della metafisica dei costumi33 la base teorica “necessaria” per impostare una «critica»34 dell’attuale insegnamento dell’etica, per sviluppare il suo pensiero su questo problema sullo sfondo della sua adesione alle idee di Wyneken. Egli delinea la possibilità (non fondata sistematicamente) di una educazione morale come formazione della volontà etica dell’individuo autonomo solo all’interno di una comunità morale come la Freie Schulgemeinde wynekeniana, dove la religiosità (che è a fondamento della cultura e dell’arte)35 diventa la forma (Gestalt) simbolica e, nella norma religiosa, il contenuto esibitivo concreto della norma morale che non si può dare in precetti empirici36, ma può essere solo una inattingibile «buona volontà»37 priva di motivazioni dell’individuo autonomo e libero: Cercheremo […] di delineare la possibilità di un’educazione morale come un tutto, pur senza una sistematica completezza nei particolari. Alla base di questa possibilità sembra esserci il principio della Libera comunità scolastica (Freie Schulgemeinde), della comunità morale (sittliche Gemeinschaft). La forma che in essa assume l’educazione morale è la religiosità. Questa comunità infatti sperimenta (erlebt) continuamente in se stessa un processo che genera religione e stimola la contemplazione religiosa, un processo che potremmo chiamare «conquista formale della moralità (Gestaltgewinnung38 des Sittlichen)». Come abbiamo visto, la legge morale non ha alcun rapporto con qualsiasi elemento empiricamente etico (in quanto empirico), tuttavia la comunità etica sperimenta di continuo come la norma si trasformi in un ordinamento legale empirico. Condizione di una simile vita è la libertà, che permette all’elemento legale di orientarsi verso la norma. Solo attraverso questa norma si arriva al concetto di comunità. Il compenetrarsi della serietà etica39 nella coscienza dell’obbligo comunitario, da una parte, e dell’affermazione dell’eticità nell’ordinamento (Ordnung) della comunità dall’altra, sembra essere l’essenza della formazione etica comunitaria40.

Questo compenetrarsi di norma etica e obbligo concreto comunitario, di moralità e legalità empirica, in quanto processo religioso che fonda il legame sociale e che si può dare solo in una comunità non già soggetta a un ordinamento legale che reprima la libertà dei singoli, sfugge secondo Benjamin a un’analisi più approfondita e rimane in qualche modo insondabile come processo della religiosità individuale che, come la moralità, «ci attendiamo che […] [scaturisca] dal rapporto diretto con Dio»41. Tuttavia a lui «sembra che proprio e soltanto nella religione la volontà pura trovi il suo contenuto», quindi secondo la sua visione la  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

«vita quotidiana di una comunità morale è improntata alla religione»42. Questa concezione della religiosità come veicolo concreto e simbolico della norma etica propria dell’individuo autonomo, come «convenzione spirituale, rituale», dove i valori vengono trasformati in «vita, nella convenzione»43 per dare dignità nuova alla vita quotidiana, era già presente nel Dialogo sulla religiosità contemporanea e di essa dovevano essere portatori i letterati. Qui il compito di coltivarla è affidato agli educatori e ai membri delle comunità scolastiche e studentesche, che devono quindi anche fare professione di letterato44. L’insegnamento della morale non ha però un sistema, può essere visto solo come un «compito irraggiungibile (unerfüllbare)»45 senza fondamento teorico, come «stadio di passaggio» e «espressione della carenza dell’educazione odierna»46. Il contenuto dell’educazione non può essere raggiunto dall’esterno, con l’«atteggiamento (Tendenz) dell’insegnamento morale», ma può essere solo esperito nella comunità47 e può essere colta soltanto, hegelianamente, la «storia di quel contenuto (Bildungsmaterial), la storia dello stesso spirito oggettivo»48: in questo senso l’insegnamento della morale deve rappresentare il punto di passaggio verso un nuovo insegnamento della storia, in cui «anche il presente trovi un suo inquadramento nella storia della cultura»49, come luogo attuale della trasmissione dei valori etici50. La trasmissione dei valori, che non è possibile cogliere con precetti empirici ma solo nel sentimento religioso che dà forma concreta e simbolica alla libertà del singolo, si attua dunque nel processo storico, in una storia delle rappresentazioni culturali dei valori stessi dove il presente della comunità etica scolastica e studentesca assume un preciso ruolo e significato storico-filosofico e politico, dove questa comunità diventa rappresentante dei valori e soggetto politico che li mette in atto. In una lettera del 4 agosto 1913 a Clara Seligson, che ha come principale argomento il tema della gioventù (che ancora non c’è, è futura) come idea e simbolo di valori etici, Benjamin sviluppa una concezione della storia della norma etica come storia delle sue rappresentazioni simboliche. L’azione etica, il seguire una massima è visto come simbolo della libertà di colui che agisce e la comunità come simbolo di un’etica che è sempre la stessa ma è stata, nella storia, rappresentata in sempre nuove forme simboliche nelle comunità fondate da pochi uomini liberi. Il “come se”, la massima concreta che nella conoscenza è una ipotesi per la ricerca, in una comunità fondata “come se” il singolo fosse morale è, per i fondatori che hanno avuto esperienza della norma, una realtà assoluta nell’azione:

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2. La religione entro i limiti del “come se” Infine ogni buona azione è solo il simbolo della libertà di colui che l’ha fatta. Azioni, discorsi, riviste non cambiano la volontà di nessuno, ma solo il comportamento, il giudizio ecc. (ma nella sfera morale ciò è del tutto indifferente). L’“Anfang” è solo un simbolo, tutta la sua efficacia interiore che va al di là di questo è grazia, incomprensibile. Si potrebbe pensare benissimo (ed è certamente così) che gradualmente ciò che vogliamo accade, senza che la gioventù psichica (seelische) che noi volevamo sia apparsa nei singoli. Così è stato sempre nella storia: il suo progresso etico è stato solo la libera azione di pochissimi. La comunità dei molti è diventata il simbolo super- ed extraumano di un’eticità caratterizzata da un nuovo contenuto (neu-erfüllten Sittlichkeit). Mentre la vecchia moralità era altrettanto esattamente forma simbolica, costruita da pochi liberi. Se le cose stessero altrimenti, non avrebbero mai potuto sorgere «nuove» moralità, moralità «nuove» ci sono solo per l’uomo amorale, istintuale. – Mentre gli uomini spirituali volevano qualcosa di completamente identico, eternamente cambiandolo, affinché gli altri, dormendo51, senza saperlo, si inserissero in quella comunità simbolica. (Tutto il resto era un atto singolo della grazia del singolo). La moralità della comunità è qualcosa che sussiste indipendentemente dalla moralità dei suoi membri, nonostante la loro immoralità. Dunque è soltanto simbolo – considerata dal punto di vista dell’uomo. Ma in coloro che sentono il valore simbolico, inutile (unnützlichen) della comunità, che hanno fondato una comunità «come se» il singolo fosse morale – soltanto in questi creatori della comunità l’idea morale è diventata reale; erano liberi. Ciò che è un «come se» della conoscenza, nell’azione è un assoluto52.

Qualunque sia il livello dell’autocoscienza culturale dei soggetti (qui la gioventù, ma precedentemente la donna) cui Benjamin si riferisce, il livello cioè della loro capacità di farsi nella loro vita coscienti portatori di valori etici, la norma etica non cambia, e bisogna assumerla e porsi nei confronti di questi soggetti come se fossero soggetti morali: solo allora l’eticità diventa assoluta. Il dualismo tra etica e conoscenza della natura, caratterizzati da un diverso ruolo metodico del “come se”, sfuma nel concetto di Kultur (e di Kunst) come luogo storico del divenire delle rappresentazioni simboliche dei valori. Qui, proprio nel “come se” analogico appare per Benjamin una possibile soluzione del dualismo, nel senso di un mantenimento della distinzione di livelli: l’azione buona reale (attuata nel mondo della natura) è simbolo dell’idea di libertà, la comunità concreta, con le sue regole plasmate dal sentimento religioso nella direzione della norma etica, deve essere vista come simbolo di una comunità ideale, così come la gioventù stessa, nella sua ancora arretrata cultura e autocoscienza, deve essere vista in toto come simbolo della libertà da conquistare nella storia.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

La concezione della storia non come tempo infinito, ma come luogo (anticipato da un’illuminazione e reso concreto nella festa) dell’attualizzazione futura dei valori e dell’idea di libertà nel sociale come «compito futuro» «assegnato (aufgegeben)» a una gioventù a servizio dell’«incondizionato»53, che prende come un «dovere»54 la concretizzazione della sua «intenzione (Gesinnung)»55 etica attraverso la lotta politica, è il tema del saggio di Benjamin Considerazioni sul Festspiel di Gerhart Hauptmann56, scritto nell’estate del 1913. Esso anticipa la visione etico-messianica della storia che troveremo nel 1914-15 nel saggio La vita degli studenti57 e poi in tutta l’opera di Benjamin fino alle tesi Sul concetto di storia del 1940: L’umanità non è ancora arrivata alla coscienza stabile del suo esserci storico. Solo di quando in quando un singolo o un popolo ha avuto l’improvvisa illuminazione di essere al servizio di un futuro ignoto e sarebbe concepibile il definire questo genere di illuminazione ‘senso storico’. […] Poiché non le conoscenze ma l’intenzione (Gesinnung) determina il […] comportamento storico, e le intenzioni (Gesinnungen) rimangono in ogni tempo le stesse. […] Non intorno a valori come il bene e il male: lottiamo piuttosto per la possibilità stessa dei valori, messa continuamente in pericolo, per la civiltà (Kultur), che vive in perpetua crisi: ché in ogni istante gli antichi valori si fanno più vecchi. Ciò che era slancio diventa inerzia, l’intelligenza stupidità. E inoltre va perso il più grande, l’unico dei beni storici: la libertà. La libertà però non è un programma, ma soltanto la volontà per essa, una intenzione (Gesinnung)58.

Appare chiaro che temi importantissimi per il pensiero benjaminiano successivo si stanno già formando in questi anni. La concezione della storia come luogo di trasmissione di valori dello spirito, ma anche di una azione politica volta a difendere e a portare a compimento questi valori di libertà e cultura, così come la concezione dei valori estetici ed etici stessi, è legata a Wyneken e al suo hegelismo, ma già prende forma un pensiero autonomo, legato a una visione redentiva della storia, che si esprime in un linguaggio originale, spesso connotato da contenuti e forme linguistiche di origine kantiana (come la Gesinnung) e neokantiana. Nel luglio del 1913, ancora a Friburgo, Benjamin legge il saggio di Husserl La filosofia come scienza rigorosa59 nel volume del 1910-11 della rivista «Logos», di cui però non si riscontrano echi immediati negli scritti o nelle lettere. Il 30 luglio scrive a Blumenthal Belmore di aver pianificato di portare con sé durante le vacanze, come lettura da viaggio, la Critica della ragion pura di Kant, accompagnata da un’opera di  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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2. La religione entro i limiti del “come se”

Alois Riehl. Si tratta, secondo i curatori delle Gesammelte Briefe benjaminiane, della sua opera in due volumi Der philosophische Kritizismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft60: «La mia lettura di viaggio è stata pianificata in modo avventuroso. Sai, sto per cominciare a leggere la Critica della ragion pura con i commenti: così ho con me Kant e Riehl»61. Nella stessa lettera Benjamin dice di aver letto il saggio di Rickert Das Eine, die Einheit und das Eins. Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs62: «Nei giorni scorsi ho letto molto. Per prima cosa dalle annate passate di “Logos”, specialmente il saggio di Rickert sulla logica dei numeri, che tra i suoi studenti ha fama di essere il suo saggio più geniale, e che qui bisogna conoscere»63. Dal Tirolo ancora a Blumentahl, nella seconda di due cartoline del 17 agosto, elenca tra le sue letture Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard: «Il concetto dell’angoscia: Di nuovo mi rendo conto, come in Aut Aut, della inconcepibile mescolanza di disprezzo e consonanza che queste opere mi oppongono. In ogni modo si striscia nel proprio guscio di fronte a questa persona e ci si vergogna del fatto che essa si trovi lì. Con ciò egli è uno dei più grandi scrittori che abbia mai letto»64. La prima cartolina rivela invece che Benjamin non ha portato con se la Critica della ragion pura, di cui ha molta voglia di occuparsi e che progetta di affrontare in settembre: «Veramente, brucio dalla voglia di lavorare. A casa c’è la Critica della ragion pura e si prepara – perché in settembre e nei mesi successivi la leggerò»65. Di questa lettura non parla però nei mesi che seguono.

Note 1 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin - die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 78; trad. it. cit., p. 100. Come risulta dal rapporto della “Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums” del 1913 Cohen aveva tenuto a Berlino, nel semestre invernale 1912-13, un corso sul concetto di religione e un seminario sul Trattato teologico-politico di Spinoza: «Semestre invernale 1912/13. 1) Il concetto di religione, lezioni e esercitazioni, martedì ore 20-21. 2) Seminario e esercitazioni sul Trattato teologico-politico di Spinoza, sabato sera» (H. Wiedebach, Einleitung a H. Cohen, Kleinere Schriften V. 1913-1915, in Werke, cit., Band 16, bearbeitet und eingeleitet von H. Wiedebach, 1997, p. XVII). 2 Per una prima presentazione della vita e dell’opera di Jonas Cohn cfr. la sua Selbstdarstellung in R. Schmidt (a cura di), Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, Band II, Leipzig, 19232 e il Nachwort di J. von Kempski a J. Cohn, Wirklichkeit als Aufgabe, a cura di J. v. Kempski, W. Kohlhammer Verlag, Stuttgart, 1955, pp. 353-359. Si è già accennato al suo testo più importante, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens. Untersuchungen über die Grundfragen der Logik, di cui si veda anche la recensio-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung ne di Bruno Bauch in «Kant-Studien», 17, 1912, pp. 457-459. Seguendo un interesse per le questioni epistemologiche, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens analizza la discussione più recente sui fondamenti dell’aritmetica e della geometria dal punto di vista gnoseologico dell’“utraquismo” (cfr. M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, cit., pp. 197198). Si veda inoltre la prima opera di J. Cohn, Geschichte des Unendlichkeitsproblems im abendlandischen Denken bis Kant, Leipzig, 1896 (rist. an. Darmstadt, 1960). 3 Cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 7-VI-1913, in GB I, p. 113, nota. Il rapporto di Benjamin con la filosofia della vita di Bergson, ancora poco studiato, viene trattato nel lavoro sul Passagen-Werk di H. Weidemann, Flanerie, Sammlung, Spiel, Wilhelm Fink Verlag, München, 1992. È probabile che uno dei testi letti da Benjamin per il seminario sia l’Introduzione alla metafisica di Bergson (H. Bergson, Introduction à la métaphysique, in Œuvres, textes annotés par A. Robinet, Introduction par H. Gouhier, PUF, Paris, 1959, 19915, pp. 1392-1432; trad. it. Introduzione alla metafisica, a cura di V. Mathieu, Laterza, Bari, 1998) mentre egli avrebbe letto Materia e memoria (H. Bergson, Matière et mémoire, in Œuvres, cit, pp. 161-315; trad. it. Materia e memoria, a cura di A. Pessina, Laterza, Bari, 20012)] solo nel 1917-18 a Berna: «Ho conseguito qui la laurea communis minor con relazioni su Bergson e su un paragrafo della Fenomenologia di Hegel» (Benjamin a G. Scholem, 31-I-1918, in GB I, p. 422). Cfr. inoltre ivi la nota p. 424, che rimanda alla lista dei testi letti da Benjamin, tra cui figura Materia e memoria, letto probabilmente nel 1917 (cfr. W. Benjamin, Verzeichnis der gelesenen Schriften, in GS, VII, 1, p. 438). Cfr. H. Rickert, Die Philosophie des Lebens. Darstellung und Kritik der philosophischen Modeströmungen unserer Zeit, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1920, un testo più tardo, ma probabilmente già in fase di gestazione negli anni 1912-13, dove Rickert analizza e critica la filosofia della vita nelle sue diverse correnti contemporanee. Rickert disegna un rapido profilo filosofico di Bergson alle pp. 22-25, e a p. 23 (nota 1) rimanda, elogiandola, alla sintesi dei principi fondamentali della filosofia bergsoniana del suo allievo Richard Kroner (Henri Bergson, in «Logos», 1, 1910, pp. 125-150). È possibile che Benjamin abbia letto il saggio di Kroner, poiché oltre ad aver letto testi di Bergson («Leggo Kant, Schiller, Bergson per i seminari», scrive il 5 giugno 1913 in una lettera a C. Seligson, in GB I, p. 108) egli aveva consultato i primi numeri di «Logos» alla fine di luglio dello stesso anno: «Negli ultimi giorni ho letto molto. In primo luogo i primi volumi di Logos» (Benjamin a H. Blumenthal, 30-VII-1913, ivi, p. 154). Inoltre Rickert aveva pubblicato nel 1911-12, sul numero 2 di «Logos», il saggio Lebenswerte und Kulturwerte (cfr. H. Rickert, Lebenswerte und Kulturwerte, in «Logos», 2, 1911-12, pp. 131-66), in cui critica le nuove filosofie della vita, specialmente la filosofia di Bergson e il biologismo. La critica che Rickert fa, dal punto di vista del criticismo, all’irrazionalismo della filosofia di Bergson, potrebbe non essere estranea alla concezione, che si sta formando in Benjamin, dell’Erfahrung come momento della scoperta di nuovi valori e della strutturazione della vita tramite idee, opposta alla concezione irrazionalistica della vita. 4 Cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 7-VI-1913, in GB I, pp. 114-115, nota. 5 Ivi, p. 112. Si veda, oltre al volume di Rickert in cui confluiranno le teorie esposte in quegli anni, Allgemeine Grundlegung der Philosophie, in System der Philosophie, Ersten Teil, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1921, anche il suo saggio Vom System der Werte, in «Logos», 4, 1913, pp. 295-327. Qui Rickert indica nel rapporto d’amore tra uomo e donna la possibilità di una sintesi, nell’ambito del sistema (aperto) dei valori (Werte), tra i due livelli dei valori personali, quello dei valori della vita personale compiuta nel presente (Gegenwartsgüter) propri della donna, e quello dei valori etico-sociali mai completamente raggiunti dal lavoro infinitamente volto al futuro (Zukunftsgüter) propri dell’uomo, in vista di quell’“ideale dell’umanità” che si compie nel completarsi reciproco di

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2. La religione entro i limiti del “come se” uomo e donna nella loro diversità (cfr. ivi, in part. p. 319). Secondo la testimonianza di Scholem, Benjamin considerava Rickert dotato di notevole acume, ma privo di profondità. Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 24; trad. it. cit., p. 34: «“Eppure” replicai “lei ha studiato con Rickert” (che allora passava per uno dei più acuti e affascinanti docenti di filosofia). Benjamin disse che Rickert lo aveva deluso: era, sì, acuto, ma mancava di profondità». Cfr. anche ivi, p. 32; trad. it. cit., p. 46: «In quegli anni parlava senza il minimo rispetto anche di Rickert, al quale tuttavia riconosceva un notevole acume: valutazione che fu di per sé sufficiente a indurmi a studiare un’edizione successiva della sua opera Der Gegenstand der Erkenntnis [L’oggetto della conoscenza]». 6 Benjamin scrive a Wyneken di non aver trovato se non pochi articoli assolutamente terribili, tra cui l’articolo di H. Gaudig Schulgesinnung, in «Zeitschrift für Pädagogische Psychologie und experimentelle Pädagogik», 14, 1913 (Heft 5, Mai 1913), pp. 255-270. Il titolo Schulgesinnung utilizzava in tutt’altro senso lo stesso termine usato da Wyneken in Die Idee der Freien Schulgemeinde, in G. Wyneken, A. Halm (a cura di), Wickersdorfer Jahrbuch 1908. Abhandlungen zum Programm der Freien Schulgemeinde, cit., p. 2 ss.; cfr. la lettera di Benjamin a G. Wyneken del 19-VI-1913, in GB I, pp. 115-116 e p. 120, nota. Il termine Gesinnung ricorre negli scritti di Benjamin di questo periodo ed è chiaramente, anche in Wyneken, ripreso dagli scritti etici di Kant. 7 Cfr. H. Rickert, System der Werte, in «Logos», 4, 1913, p. 318: «si dà quindi la possibilità di attribuire alla peculiarità femminile una posizione altrettanto elevata rispetto a quella maschile nel senso generale dell’esistenza, anche se non si può negare che il lavoro per la cultura pubblica che si sviluppa storicamente è fatto principalmente da uomini. L’“essenza femminile” (Weiblichkeit) è un valore (Wert) importante del tutto particolare nell’ambito dei valori personali del presente (Gegenwartsgüter), per quanto essa non abbia bisogno di giungere alla coscienza come dovere (Sollen), se è la vita a darle forma». 8 Benjamin a G. Wyneken, 19-VI-1913, in GB I, p. 117. 9 Benjamin a H. Blumenthal, 23-VI-1913, in GB I, p. 129; trad. it. in W. Benjamin, Lettere 1913-1940 , raccolte da G. Scholem e Th. W. Adorno, trad. di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino, 1978, p. 11 (traduzione modificata). 10 Cfr. H. Vaihinger, Die Philosophie der Als Ob. System der theoretischen, praktischen und religiösen Fiktionen der Menschheit auf Grund eines idealistischen Positivismus, Meiner, Leipzig, 1911, 19132 (ed. riveduta e ampliata), 19208; trad. it. parziale a cura di F. Voltaggio, La filosofia del “come se”. Sistema delle funzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano, Roma, 1967. Cfr. anche J. Schultz, Über die Bedetung von Vaihingers “Philosophie der Als Ob” für die Erkenntnistheorie der Gegenwart, in «Kant-Studien», 17, 1912, pp. 85-110. Schultz considera l’opera di Vaihinger influenzata dalla psicologia. F. Lötz presenta la particella als ob nella sua origine kantiana come principio critico della ragione, necessario alla facoltà riflettente di giudizio (cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § 75, pp. 262-266; trad. it. cit., pp. 230-233) per dare realtà pratica alle idee in campo morale e come regola euristica per la scienza da un punto di vista sistematico, perché si possa concepire nel suo procedere il riferimento a un tutto incondizionato come punto di partenza o di arrivo della conoscenza. In Vaihinger ci sarebbe una mediazione tra tropo e analogia reale: egli introduce il giudizio fittizio (cfr. F. Lötz, Als Ob, in J. Ritter (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, Band II, Schwabe & Co. Verlag, Basel/Stuttgart, 1971, pp. 198199). In Vaihinger (primo direttore della rivista «Kant-Studien» e fondatore della Kantgesellschaft nel 1905), la filosofia del “come-se” intende fornire un sistema delle finzioni teoretiche, pratiche e religiose dell’umanità sul fondamento di un idealismo posi-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung tivistico, finzioni soggettive che agiscono pragmaticamente “come se” fossero vere nell’organizzazione dell’esperienza per il raggiungimento di fini determinati da bisogni vitali che dipendono dalla costituzione generale dell’uomo e dalle circostanze in cui si viene a trovare. 11 Cfr. G. Wyneken Schule und Jugendkultur, cit., p. 7 (già in G. Wyneken, Soziale Erziehung in der Freien Schulgemeinde, in G. Wyneken, A. Halm (a cura di), Wickersdorfer Jahrbuch 1909-1910, cit., p. 3): «Dobbiamo comunque agire come se noi solo possedessimo la coscienza nel mondo: come se senza l’umanità l’universo dovesse essere di nuovo cieco e morto». Wyneken considera l’umanità (da svilupparsi nell’educazione) il solo luogo in cui il mondo può prendere coscienza di se stesso. 12 Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Werkausgabe, cit., Band VII, sezione II, p. 51; trad. it. cit., p. 125: «agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una l e g g e u n i v e r s a l e d e l l a n a t u r a ». Cfr. anche ivi, p. 30 (trad. it. cit., pp. 79-81), sezione I: «puoi tu anche volere che la tua massima divenga una legge universale? Se non è così, la tua massima va respinta […] perché essa non può entrare come principio in una possibile legislazione universale, verso la quale la ragione mi impone immediatamente rispetto» e la sezione III: «Di modo che, mediante il sovrano ideale di un regno universale dei fini in sé (degli esseri razionali) a cui possiamo appartenere come membri solo se ci comportiamo scrupolosamente secondo massime della libertà, come se fossero leggi di natura, si produce in noi un vivo interesse alla legge morale» (ivi, pp. 100-101; trad. it. cit., p. 225, traduzione modificata). Cfr. anche G. Wyneken, che vede la volontà oggettiva come volontà incarnata, rappresentata nello stato (che deve agire come se fosse effettivamente tale volontà), e la morale come compimento dello stato nel senso dell’agire per una umanità futura, in cui viene servito lo spirito; egli accoglie il precetto kantiano di dover agire secondo una massima che possa essere legge universale, ma considera come puramente formale solo il principio, ad esso superiore, per cui bisogna servire lo spirito: «Infatti agire moralmente significa agire nel senso del futuro; non del futuro accidentale, ma del futuro necessario; agire come se l’uomo attuale fosse superato – in questo senso il superamento di sé è l’essenza della morale. Essa è la continuazione e il compimento dello stato; essa regna dove esso non arriva. Noi possiamo certamente accettare la determinazione kantiana della sua legge: agisci come se il principio (Grundsatz) del tuo agire potesse essere principio dell’agire universale. Ma questa determinazione non è puramente formale, come crede Kant. Piuttosto il principio di ogni agire umano deve essere: servi lo spirito. Questa è la vera formula della morale. Ciò che lo stato ha soltanto preparato, soltanto reso possibile esteriormente, è compito della morale realizzarlo: accrescere lo spirito, aiutarlo ad avere un dispiegamento sempre più ampio, ad avere un potere sempre maggiore. Lo stato è soltanto formale, soltanto uno strumento. La morale deve impossessarsi di questo strumento, e lo farà, per presagire da lontano il fine (Ziel), il dominio del bene (“Regno di Dio”). Il compito della nostra generazione è però quello di proclamare questo fine: il compito e il senso dello stato è la cura e la pretesa dello spirito; dallo “stato dell’intelletto” (Notstaat), come la filosofia si è espressa cento anni fa, deve derivare lo “stato razionale” (Vernunftstaat), lo stato culturale (Kulturstaat), come forse si preferirebbe dire oggi» (G. Wyneken, Soziale Erziehung in der Freien Schulgemeinde, in G. Wyneken, A. Halm (a cura di), Wickersdorfer Jahrbuch 1909-1910. Abhandlungen zum Programm der Freien Schulgemeinde, cit., pp. 7-8; anche in G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, cit., pp. 11-12.). 13 Di comunità (come comunità della gioventù unita da comuni valori etici) Benjamin parla già nel saggio Romanticismo «Abbiamo bisogno di una comunità bella e libera che possa esprimere ciò che è generale senza diventare volgare» (Romantik, in GS,

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2. La religione entro i limiti del “come se” II, 1, p. 45; trad. it. cit., p. 55, traduzione modificata). Cfr. Benjamin a Clara Seligson, 4-VIII-1913, in GB I, p. 164; trad. it. cit., p. 18: «Ma in coloro che sentono il valore simbolico […] della comunità, che hanno fondato una comunità “come se” il singolo fosse morale – soltanto in questi creatori della comunità l’idea morale è diventata reale; erano liberi». 14 Benjamin a H. Blumenthal, 23-VI-1913, in GB I, pp. 126-127; trad. it. cit., pp. 89 (traduzione modificata). Nel seguito della lettera Benjamin critica aspramente la posizione di Blumenthal rispetto al significato morale della prostituta, e sviluppa una sua concezione simbolica del rapporto tra morale, eros e cultura: «Qual è il significato morale della vita della prostituta? – Se è un significato morale, non può essere diverso da quello della nostra vita. Poiché tu chiedi ancora […]: “O tutte le donne sono prostitute, oppure non lo è nessuna?” No: “O tutti gli uomini sono prostitute, oppure nessuno”. […] Ma io dico: lo siamo tutti. O dobbiamo (sollen) esserlo. Dobbiamo essere cosa e oggetto davanti alla cultura. Veramente: se vogliamo riservarci una dignità personale privata di questo tipo, non capiremo mai la prostituta. Ma se noi stessi sentiamo tutta la nostra umanità come un sacrificio allo spirito e non tolleriamo nessun animo privato, nessuna volontà, nessuno spirito privato – allora onoreremo la prostituta. Essa diventa ciò che siamo noi. Ora ciò che tu intendi oscuramente con i termini «sacerdotessa» e «simbolo» diventa vero. La prostituta rappresenta l’istinto culturale completo. Scrivevo: scaccia la natura dal suo ultimo santuario, la sessualità. Vogliamo tacere, per qualche tempo, della spiritualizzazione della sessualità. Di questo prezioso inventario maschile. E parliamo della sessualizzazione della spiritualità: questa è la moralità della prostituta. Essa rappresenta la cultura dell’Eros – Eros, che è l’individualista più violento, il massimo nemico della cultura, anch’egli può venir pervertito, può servire alla cultura» (ivi, pp. 127-128; trad. it. cit., pp. 9-10). Nella necessità dell’individuo di essere “oggetto” di fronte alla cultura nella sua unità, cioè di simbolizzarla, e di simbolizzare in essa i valori etici, spirituali, c’è un’eco della concezione wynekeniana della cultura come espressione dello spirito oggettivo (in un Weltbild), che si simbolizza nell’individuale. Cfr. a proposito l’articolo (che ha come oggetto il testo di G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, cit.) del professore di Benjamin – anche lui interessato a problemi pedagogici – J. Cohn, Gustav Wynekens Erziehungslehre. Darstellung und Kritik, in «Logos», 5, 1914-15, pp. 267-275, p. 272: «Inoltre però da W. stesso l’insegnamento enciclopedico viene nobilitato attraverso una aspirazione all’unità filosofica, il singolo è da lui sempre elevato a simbolo di qualcosa di eterno. Così nasce un Eros filosofico, che non può sostituire l’esattezza della visione, ma che ha certamente un altro valore formativo, forse superiore». 15 W. Benjamin, Die Schulreform, eine Kulturbewegung (1912), in GS, II, 1, pp. 12-16; trad. it. La riforma scolastica: un movimento culturale, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 21-24. Testo scritto da Benjamin a Friburgo sicuramente prima del 21 giugno 1912 e pubblicato, con lo pseudonimo “Ekhart, phil.” nel quaderno Student und Schulreform (Verlag von R. Steppacher o. J, Freiburg i. B., 1912) a cura della “Abteilung für Schulreform” della “Freie Studentenschaft” di Friburgo (Baden) (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 21-VI-1912, in GB I, p. 56 e p. 57, nota), 16 Per Wyneken, la cultura doveva concretizzare e trasmettere, nella forma della religione, un orientamento etico capace di dare unità e totalità razionale alla vita nell’orientarla verso il suo senso ultimo, in contrapposizione alla ragione strumentale. Cfr. a proposito M. Bröcker, Die Grundlosigkeit der Wahrheit, cit., p. 17: «Nella forma della religione Wyneken pensa di potersi impadronire di quei fini in sé, i quali soltanto possono fondare una totalità razionale. La religione funge da nesso e insieme (Inbegriff) di un orientamento etico, attraverso il quale deve essere sentita l’unità di una vita riconciliata. Wyneken chia-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung ma cultura una tale realizzazione dell’infinito». Cfr. inoltre G. Wyneken, Der Gedankenkreis der Freien Schulgemeinde, Leipzig, 1913, p. 17, dove la religiosità viene definita come quell’intenzione (Gesinnung) etica che pervade l’azione diretta verso il raggiungimento della cultura umana, che è a sua volta diretta verso l’instaurazione della natura divina, cioè di valori che sono al di là dei fini dell’uomo e devono essere voluti per se stessi. 17 Die Schulreform, eine Kulturbewegung, in GS, II, 1, p. 13; trad. it. cit., p. 21 (traduzione modificata). 18 Ivi, p. 14; trad. it. cit., p. 22 (traduzione modificata). 19 Ivi, p. 13; trad. it. cit., p. 22. Il “pensiamo, viviamo e agiamo” si riferisce chiaramente alle tre dimensioni della conoscenza, dell’arte e dell’etica. 20 Ivi, p. 14; trad. it. cit., p. 22. 21 Ivi, p. 14; trad. it. cit., pp. 22-23. Questo compito di uscire dalla contraddizione tra sviluppo naturale e autentico e educazione culturale «non sarà mai risolto senza un atto di forza (Gewalt)» (ivi, p. 14; trad. it. cit., p. 23). Qui appare per la prima volta il termine Gewalt (violenza, potere) che avrà una grande importanza nel pensiero successivo di Benjamin. 22 Ivi, p. 14; trad. it. cit., p. 22 (traduzione modificata). 23 Ivi, p. 15; trad. it. cit., pp. 23-24. Si ricordi che per Wyneken agire moralmente significa agire nel senso di un futuro necessario in cui l’umanità superi se stessa, aiutando lo spirito a dispiegarsi nella storia (cfr. G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, cit., p. 11). Il rapporto tra etica e futuro è presente, oltre che in Martin Buber, anche in Hermann Cohen, ed è in rapporto con la sua interpretazione filosofica dell’ebraismo: «Soltanto al futuro, sempre e soltanto al futuro, appartiene la realtà che deve essere l’aspirazione e la conquista dell’autocoscienza della volontà pura» (H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 282; trad. it. cit., p. 203). Per questo per Cohen il compito della volontà pura può essere visto solo come compito infinito dell’autocoscienza di ogni persona in quanto persona giuridica (come finzione del diritto dello stato) verso il compimento futuro dell’idea etica dell’accordo di tutte le persone in uno stato di diritto. Cfr. G. Figal, Recht und Moral als Handlungsspielräume [da una conferenza dal titolo Recht und Moral bei Kant, Cohen und Benjamin], in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 36, 3, 1982, p. 371: «così d’altra parte ogni stato di diritto si trova sotto la condizione di un accordo completo tra le persone. Da ciò Cohen deduce che il compito della volontà pura deve essere pensato come compito infinito. Per lui il compito infinito è l’espressione del dovere (Sollen)». 24 Die Schulreform, eine Kulturbewegung, in GS, II, 1, p. 15; trad. it. cit., p. 24 (traduzione modificata). 25 Ivi, pp. 15-16; trad. it. cit., p. 24. 26 Qui forse Benjamin segue Wyneken nel pensare che lo spirito oggettivo nel suo progressivo esprimersi in valori (nella gioventù) annulla o sminuisce i valori precedenti divenuti cultura, quindi anche, per esempio, le opere d’arte del passato Cfr. a proposito ancora J. Cohn, Wynekens Erziehungslehre. Darstellung und Kritik, cit., p. 273. 27 Die Schulreform, eine Kulturbewegung, in GS, II, 1, p. 16; trad. it. cit., p. 24. 28 Per Wyneken l’arte è ciò che dà unità all’educazione scolastica – non come qualcosa che si percepisce come storico, ma che fa parte della vita – e come elevazione della realtà alla forma e quindi allo spirito deve essere la più profonda esperienza vissuta (Erlebnis), poiché ha a fondamento un sentimento religioso e metafisico che supera la morte (cfr. J. Cohn, Wynekens Erziehungslehre. Darstellung und Kritik, cit., p. 271). 29 Benjamin a C. Seligson, 30-IV-1913, in GB I, p. 92. 30 Ivi, p. 108.

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2. La religione entro i limiti del “come se” 31

Ivi, p. 97. W. Benjamin, Der Moralunterricht (1913), in GS, II, 1, pp. 48-45; trad. it. L’insegnamento della morale, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 57-63. Il saggio fu pubblicato nel luglio del 1913 nella rivista diretta da Wyneken «Die Freie Schulgemeinde», 4, 1913. 33 Cfr. Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 49; trad. it. cit., p. 58. 34 Ivi, p. 50; trad. it. cit., p. 60. 35 Cfr. ancora J. Cohn, Gustav Wynekens Erziehungslehre. Darstellung und Kritik, cit., p. 271. Per Wyneken il sentimento religioso è a fondamento dell’arte e della sua esperienza, e non viene trasmesso in uno specialistico insegnamento di una religione unitaria (Volksreligion), che non c’è (semmai si deve dare una visione del sapere e dei valori delle religioni storiche più importanti nell’insegnamento di cultura generale), ma deve essere l’intenzione (Gesinnung) religiosa che deve dominare l’intera educazione. Cohn critica la concezione a suo avviso distorta e incompleta delle religioni sociali di Wyneken e considera la sua scuola una Sektenschule, il cui metodo non può essere applicato alla scuola statale (che non deve entrare nell’educazione religiosa) ma il cui ideale di fondo (di una comunità fondata sugli stessi principi etico-religiosi) è per lui benvenuto nella fondazione di comunità scolastiche di cui si dice, nonostante tutte le critiche formulate, sostenitore. 36 Su questo punto si esprime Michael Bröcker, il quale considera il nuovo fondamento della moralità, non empirico eppure concreto, che Benjamin ravvisa nel concetto di religione wynekeniano, una perdita di libertà da parte della ragione. Bröcker considera l’autonomia della ragione fondata antropologicamente, in opposizione alla concezione ontologica di uno spirito trascendente propria di Wyneken (cfr. M. Bröcker, Die Grundlosigkeit der Wahrheit, cit., p. 19). Benjamin però insiste molto sul fatto che proprio la libertà, l’assenza di condizionamenti estrinseci ed empirici, è la premessa essenziale perché possa darsi, in una “libera comunità scolastica”, un ordinamento legale orientato sulla norma morale. 37 Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 49; trad. it. cit., p. 58. Cfr. ibid.: «E con questo torniamo a Kant e alla sua famosa formulazione: “Nulla è concepibile al mondo – e anche fuori del mondo – che possa ritenersi buono in assoluto, se non una buona volontà”. Questa formulazione, rettamente intesa, contiene l’intera sostanza (Grundgesinnung) dell’etica kantiana, la sola che riteniamo importante in questa sede». Qui Benjamin cita dalla Sezione I della Fondazione della metafisica dei costumi. Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Werkausgabe, cit., Band VII, p. 18; trad. it. Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 55: «È impossibile pensare al mondo, e, in genere anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona senza limitazioni, salvo, unicamente, la v o l o n t à b u o n a ». Benjamin aveva citato la Prefazione della Fondazione della metafisica dei costumi all’inizio del saggio, volendo indicare una formulazione della distinzione kantiana tra legalità e moralità: «Ciò che ha da essere moralmente buono, infatti, non basta che sia conforme alla legge morale: esso deve anche avvenire per la legge morale» (ivi, p. 14; trad. it. cit., p. 47; cfr. Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 48; trad. it. cit., p. 57. La traduzione del testo kantiano riportata nel testo di Benjamin è leggermente diversa). Benjamin prosegue con queste parole «Con ciò si è data un’ulteriore definizione della volontà etica: essa è ‘immotivata’, è determinata unicamente dalla legge etica, dalla norma ‘agisci bene’» (ibid.). 38 Il termine Gestalt, che significa forma, figura, rimanda a una visione percettiva e simbolica della religione, che deve esibire concretamente il contenuto etico. 39 Il concetto di “serietà etica” deriva probabilmente dalla lettura dell’Enter-Eller di Kierkegaard.

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Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 50; trad. it. cit., p. 59 (traduzione modificata). Ivi, p. 51; trad. it. cit. p. 60. E cfr. sopra: «Più precisamente non è possibile cogliere la norma etica con i mezzi dell’intelletto, ossia in modo universalmente valido, giacché proprio quando attinge i suoi contenuti concreti la legge è determinata dalla religiosità del singolo. Superare questa barriera, penetrare nel rapporto ancora informe del singolo con l’etica ci è vietato dalla massima di Goethe: “Il lato più alto dell’uomo è informe e ci si deve ben guardare dal dargli altra forma che non sia quella di un nobile operare”. […] Non rimane quindi altro che impartire, al posto di una educazione morale, un singolare tipo di educazione civica nella quale tutto ciò che è necessario diventi volontario e viceversa» (ibid.). Cfr. inoltre una lettera a Clara Seligson dell’agosto 1913, su cui si tornerà, che si riferisce direttamente a L’insegnamento della morale e dove Benjamin si esprime sull’impossibilità di raggiungere la volontà etica: «La prego di leggere il mio saggio che uscirà nel numero di luglio della “Freie Schulgemeinde” – e che allego a questa lettera. In questo lavoro cerco di spiegare che non c’è nessuna certezza di un’educazione morale, poiché la volontà pura, che fa il bene per il bene, non può essere raggiunta con i mezzi dell’educatore. […] Credo che dobbiamo sempre tenere presente la possibilità che nessun uomo singolo, nel presente e nel futuro, nella sua anima, là dove è libero, sia influenzato e costretto dalla nostra volontà. Non abbiamo nessun diritto in questo senso, e neanche abbiamo il diritto di desiderarlo – poiché il bene nasce solo dalla libertà» (Benjamin, a C. Seligson, 4–VIII-1913, in GB I, p. 164; trad. it. cit, p. 18). Egli espone questa stessa obiezione nel saggio: «Se da un lato il fine dell’educazione morale è la formazione della volontà etica, dall’altro nulla è più inaccessibile di questa volontà, che non è, in quanto tale, un’entità psicologica trattabile per mezzo di strumenti» (Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 49; trad. it. cit., p. 58). 42 Ivi, p. 50; trad. it. cit., p. 60. È bene ricordare qui l’accenno a Kant, già citato, che Benjamin fa nel Dialogo sulla religiosità contemporanea: «La religione è il riconoscimento dei nostri doveri come comandamenti divini, dice Kant. Il che significa: la religione ci garantisce un manto di eternità nel nostro lavoro quotidiano e questa è la cosa più necessaria» (Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 20; trad. it. cit., p. 29). Qui Benjamin critica la visione dell’autonomia morale come lavoro infinito nella direzione dell’accumulo di conoscenze e come concezione tecnico-pratica, propria a suo avviso sia del pantesimo che del monismo. Egli ha invece una posizione dualistica, in cui la religione ha il ruolo di mediatrice tra la norma morale e la vita quotidiana con i suoi bisogni empirici. 43 Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 29; trad. it. cit., p. 37. 44 Cfr. Studentische Autorenabende, in GS, II, 1, p. 70; trad. it. cit., p. 89. Secondo questo testo il letterato dilettante deve essere una personalità etica e un educatore all’arte come forma dell’eticità e mostrare agli studenti della comunità studentesca «la via a partire dal loro condizionamento umano, dal loro indirizzo morale, verso l’arte» (ibid., traduzione modificata). Il tema dell’educazione artistica come mezzo essenziale per l’educazione ai valori dello spirito è fondamentale per Wyneken (cfr. G. Wyneken, Schule und Jugendkultur, cit., pp. 152-162). 45 Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 51; trad. it. cit., p. 60. Sia il concetto di “sistema” che di “compito irraggiungibile”, cioè inespletabile fino in fondo, quindi infinito, sono da Benjamin ripresi dall’ambiente filosofico neokantiano. In Hermann Cohen, in Paul Natorp e in tutto l’ambiente della scuola di Marburgo è presente il concetto di “compito” come infinito tendere della ricerca scientifica o dell’etica verso la totalità ideale e l’incondizionato, verso la costituzione di un sistema filosofico dei fondamenti puri che rimane sempre aperto e incompleto. Mentre nel neokantismo il sistema e il

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2. La religione entro i limiti del “come se” compito che tende alla sua realizzazione sono concetti complementari, in Benjamin sembra che il compito, che esprime la mancanza di fondamenti, occupi il posto (forse perché questo non esiste, o non esiste ancora) del sistema: «Dire che l’insegnamento della morale manchi di un sistema o che si proponga un compito irraggiungibile sono due modi di esprimere la stessa mancanza di un fondamento» (ibid.). Il concetto di compito come tendenza infinita è presente anche in Rickert e in J. Cohn. Benjamin doveva comunque avere letto di Paul Natorp Kant und die Marburger Schule, in «Kant-Studien», 17, 3, 1912, pp. 193-221 (pubblicato anche come estratto: cfr. P. Natorp, Kant und die Marburger Schule, Verlag von Reuther & Reichard, Berlin, 1912). 46 Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 53; trad. it. cit., pp. 62-63. 47 Ivi, p. 52; trad. it. cit., p. 61 (traduzione modificata): «Solo nella comunità, non nell’insegnamento della morale, [il bambino] […] avrà fatto esperienza (wird erfahren) [di che cosa siano simpatia e amore del prossimo]». 48 Ivi, p. 54; trad. it., cit., p. 63. Sulla concezione hegeliana di Wyneken dell’educazione come senso della vita umana al servizio dello spirito oggettivo che si sviluppa nella storia, quindi al servizio della cultura e della scuola della cultura, si veda ancora J. Cohn, Gustav Wynekens Erziehungslehre. Darstellung und Kritik, cit., pp. 267-269: «Il fine dell’educazione è paragonato da Wyneken con il senso della vita umana, questo però con il servizio nei confronti dello spirito oggettivo. Nell’umanità (e per quanto ne sappiamo, solo in essa) il mondo giunge ad avere coscienza di sé. […] [L’educazione] […] è determinata solo dall’idea (Gedanken) […] dello spirito oggettivo, della cultura. Esprimere la scuola culturale […] questa è la volontà della Libera comunità scolastica (freie Schulgemeinde)». 49 Der Moralunterricht, in GS, II, 1, p. 54; trad. it. cit., p. 63. 50 Cfr. a proposito il saggio Insegnamento e valutazione (Unterricht und Wertung, in GS, II, 1, p. 38; trad. it. cit. p. 47): «In che rapporto sia l’insegnamento con i valori, i valori vivi del presente, risulterà particolarmente chiaro in due campi: nell’insegnamento del tedesco e in quello della storia. Nell’insegnamento del tedesco si tratterà prevalentemente di valori estetici, in quello della storia di valori etici» (ivi, p. 35; trad. it. cit., p. 44). Più avanti Benjamin indica nella «storia della cultura […] [il luogo dove si illustrano] gli sviluppi del diritto, della scuola, dell’arte, dell’etica, della psiche moderna». 51 Qui si può notare un riferimento allo Zarathustra: «Zarathustra è un risvegliato: che cerchi mai presso coloro che dormono?» (cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, cit., p. 12: trad. it. cit., p. 4). 52 Benjamin a C. Seligson, 4-VIII-1913, in GB I, p. 164; trad. it. cit., p. 18. 53 W. Benjamin, Gedanken über Gerhart Hauptmanns Festspiel (1913), in GS, II, 1, pp. 56-60, p. 57; trad. it. Considerazioni sul Festspiel di Gerhart Hauptmann, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, pp. 67-70, p. 67. Pubblicato in «Der Anfang», 4, 1913. Si noti il ritorno del termine “compito” (Aufgabe) come dovere, assegnato alla gioventù, di affermare l’incondizionato, l’idea, nel reale. Il termine Aufgabe sarà molto usato, come si è già detto, in ambiente neokantiano (soprattutto da Hermann Cohen e Paul Natorp) per indicare il tendere verso la totalità dell’idea nella conoscenza, nell’etica e nell’arte. 54 Ivi, p. 60; trad. it. cit., p. 70. 55 Ivi, p. 58; trad it. cit., p. 69. 56 Il testo di Gerhart Hauptmann Festspiel in deutschen Reimen, che aveva come tema le lotte per l’indipendenza nazionale in Germania e doveva essere rappresentato per festeggiarne il centenario, fu rappresentato il 31 maggio 1913 e poi ritirato dal cartellone per intervento del principe ereditario. Benjamin propose a Wyneken di dedicare un

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung quaderno dell’Anfang alla discussione del testo di Hauptmann (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 23-VI-1913, in GB I , p. 123). 57 W. Benjamin, Das Leben der Studenten (1914-15), in GS, II, 1, pp. 75-87; trad. it. La vita degli studenti, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 137-149. 58 Gedanken über Gerhart Hauptmanns Festspiel, in GS, II, 1, pp. 56-60; trad. it. cit., pp. 67-70 (traduzione modificata). La visione della Kultur come luogo simbolico della rappresentazione di una idea (in questo caso l’idea della libertà nazionale tedesca) legato al linguaggio e al materiale, si può ritrovare poco sopra, quando si parla delle marionette usate nel Festspiel: «Ma i fatti hanno ricevuto un ordinamento dallo spirito, le marionette sono intagliate nel legno della loro idea, il linguaggio è tutta una ricerca dell’idea. […] Quest’ideale, non afferrato appieno da nessuno degli uomini, non espresso con chiarezza in nessuna delle loro parole, era ardentemente sentito in ogni loro azione: ed è questo lo spirito che pervade anche questo lavoro. Davanti ad esso gli uomini sono marionette (senza caratteri e senza capricci privati), marionette in balia del pensiero. I Knittelverse si susseguono secondo questa idea: come se gli uomini parlassero fino a quando dal loro linguaggio nasca il significato» (ivi, pp. 57-58; trad. it. cit., p. 68, traduzione modificata). Si può notare un riferimento alle idee estetiche kantiane della Critica della facoltà di giudizio. 59 E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», 1, 3, 1910-11, pp. 289341; trad. it., La filosofia come scienza rigorosa, ETS Editrice, Pisa, 1992. Cfr. Benjamin a F. Sachs, 11-VII-1913, in GB I, pp. 144 e 147. A partire dalla lettura di questo testo si svilupperà in Benjamin, negli anni tra il 1913 e il 1916, un interesse crescente per Husserl e la fenomenologia. 60 A. Riehl, Der philosophische Kritizismus und seine Bedeutung für die positive Wissenschaft, 2 Bände, Leipzig, 1876-1887. Si tratta probabilmente del primo volume, Geschichte und Methode des Philosophischen Kritizismus (1876). La seconda e terza edizione è stata rivista con il titolo Der Philosophische Kritizismus. Geschichte und System, Leipzig, 19082, 19243. 61 Benjamin a H. Blumenthal, 30-VII-1913, in GB I, p. 154 e cfr. la nota degli editori a p. 157. 62 H. Rickert, Das Eine, die Einheit und die Eins. Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, in «Logos», 2, 1911-12, pp. 26-78. Giorgio Maragliano fa esplicito riferimento al testo di Rickert come fonte in Benjamin del concetto di identità – sul quale Benjamin discuterà con Scholem nel 1916 – nel suo articolo Simbolo e sistema. La verità dell’estetico nel primo Benjamin, in C. Graziadei, A. Prete (a cura di), Tra simbolismo e avanguardie. Studi dedicati a Ferruccio Masini, Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. 275-293, in part. nelle pp. 283-284 e nella nota 20, p. 292. 63 Benjamin a H. Blumenthal, 30-VII-1913, in GB I, p. 154 e cfr. p. 158. 64 Benjamin a H. Blumenthal, 17-VIII-1913, in GB I, p. 168. Per un’analisi dell’influenza, molto importante, di Kierkegaard su Benjamin, cfr. G. Figal, Die doppelte Geschichte. Das Verhältnis Walter Benjamins zu Søren Kierkegaard, in «Neue Zeitschrift fur systematische Theologie und Religionsphilosophie», 24, 1982, pp. 295-310, e R. Habermeier, Schellings Zeitalter und Kierkegaards Stadien beim frühen Benjamin, in DämonGenius-Messias. Einflüsse auf den frühen Benjamin. Beiträge zum Symposion auf der Frühjahrstagung der Japanischen Gesellschaft am 11. 5 1996 in Tokio, in «Hitotsubashi Journal of Art and Sciences» (The Hitotsubashi Academy, Hitotsubashi University, KunitachiTokio), 37, 1, 1996, pp. 13-23. 65 Benjamin a H. Blumenthal, 17-VIII-1913, in GB I, p. 167.

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3. Pedagogia, arte e religione. Benjamin tra l’attività nella Jugendbewegung e la filosofia della religione di Hermann Cohen (1913-14)

Tornato a Berlino, Benjamin riprende una intensa attività nel movimento studentesco giovanile, che si riuniva nello Sprechsaal, un appartamento preso in affitto per discutere della scuola, della famiglia e della vita degli studenti. Il 6 e 7 ottobre 1913 partecipa, insieme a Wyneken e a Bernfeld, al congresso pedagogico studentesco di Breslavia, dove pronuncia la conferenza Ziele und Wege der studentisch-pädagogischen Gruppen an Reichsdeutschen Universitäten1, mentre dal 10 al 12 ottobre partecipa alla prima Giornata della libera gioventù studentesca a Burg Hanstein. Esprimerà la sua delusione per quella Giornata nell’articolo Die Jugend schwieg2. Da quanto emerge dalla conferenza, Benjamin è convinto che la coscienza dei valori etici e conoscitivi rappresentati dall’idea di gioventù non abbia ancora potuto prendere forma, in un orientamento teoretico e pratico, nella vita di una comunità studentesca, non abbia potuto concretizzarzi e farsi prassi, al di fuori di un’ottica di lavoro sociale, in una forma totale e organizzata di vita e di esperienza spirituale. Si sta formando in Benjamin la concezione di un’esperienza di conoscenza e sentimento3 che deve guidare la prassi: quest’esperienza, che deve portare a un lavoro di riforma con un «orientamento teoretico e pratico»4, è la vita studentesca, che deve essere plasmata dall’idea della gioventù di Wickersdorf, l’«idea studentesca (Idee des Studententums)»5. Per Benjamin la gioventù, la sola da cui si irraggia il nuovo spirito, nella riunione sull’Hohe Meißner aveva taciuto, si era lasciata sottrarre la «sacra serietà»6, quella serietà che per Kierkegaard era il fondamento etico dell’esistenza umana7. La stessa serietà e purezza etica è per Benjamin garante dei tentativi artistici dei letterati dilettanti della comunità studentesca. Egli concepisce l’arte, la volontà etica e, come si vedrà più avanti, la conoscenza, come tre modi della vita studentesca che aspirano, in una visione dualistica del rapporto vita-idea, alla purezza dello spirito. Tutti e tre devono misurarsi con la necessità di  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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uno sforzo, di una “volontà di”, e si costituiscono come possibilità soltanto nel rapporto con un vincolo comunitario: Una serata studentesca di lettura […] è soggetta a una legge, quella prescritta dall’arte; ritrovarsi insieme, in comunità davanti ad essa. […] Ha come premessa la comunità, quella degli studenti e ad essa non può rinunciare. Allora una serata studentesca di lettura significa: una serata in cui lo spirito comunitario degli studenti si confronta con l’arte. Con […] [questa connotazione comunitaria] cambia il rapporto tra autore e pubblico. […] È piuttosto la stessa arte a legarlo al pubblico. È questa volontà d’arte che fa la serata di lettura. Il pubblico […] è in attesa di se stesso, del dilettante, che esso ascolta mentre professa la sua fede nell’arte. Con ciò si fa evidente lo scopo dell’educazione artistica (Kunsterziehung) e quindi anche di un gruppo letterario studentesco. Educazione al dilettantismo, educazione al pubblico. In questo caso il dilettante non viene nobilitato dall’arte, ma dal suo sforzo. È senz’altro possibile conservare la serietà e l’incondizionatezza del creare anche fuori della grande arte, è possibile temprarsi per la conoscenza del genio ed a questo è chiamato il dilettante. […] Diventerà fiancheggiatore di una corrente artistica, seriamente; di una tendenza che più degli altri riesca a vincolare il suo sentimento della vita e il suo volere. […] Chi appartiene alla schiera dei dilettanti dovrà in prima istanza fare professione di letterato8.

La volontà d’arte come sforzo di produzione artistica e di educazione all’arte, propria del dilettante letterato della comunità studentesca (affine a quella del letterato ebreo di cui Benjamin discute nel 1912 con Ludwig Strauss), deve essere garantita dalla sua serietà e dalla purezza etica: l’etica, come contenuto dell’arte, è nelle grandi opere d’arte già data nell’opera, si esprime in essa in modo imperscrutabile nella dimensione religiosa della rivelazione (Offenbarung)9, mentre nell’opera del dilettante deve essere garantita dalla sua personalità etica. È interessante notare ancora una volta come l’arte sia in Benjamin già qui, e lo sarà poi ancora negli anni venti, forma di un contenuto etico, e ci sia una affinità con il Kant del § 59 della Critica della facoltà di giudizio10, dove il bello è il simbolo della moralità. L’arte e l’opera educativa del dilettante diventano lo sforzo di mediazione tra la vita sensibile e l’etica come luogo della purezza interiore e della libertà, attraverso la ricognizione della forma artistica: Dell’etica dell’artista si deve dire che essa è stata calata nella sua opera secondo modalità imperscrutabili. […] La propria opera dà all’artista il diritto di parlare. Ciò non vale per il dilettante. La sua personalità, la sua serietà, la sua purezza etica devono farsi garanti dei tentativi artistici che

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3. Pedagogia, arte e religione egli presenta. Non sono infatti da considerarsi come arte, come rivelazione (Offenbarung). Sono testimonianze della lotta di un uomo che dall’abisso della sofferenza indica coloro che hanno trovato una forma e a questa forma si piega. Incarna il condizionamento umano nell’arte, il suo nascere del proprio tempo, la sua tendenza immanente. Da educatore indicherà agli altri la via a partire dal loro condizionamento umano, dal loro indirizzo morale, verso l’arte e il nuovo genio. Per scorgere questa via, si deve continuamente tener d’occhio l’umanità, rispetto alla quale la forma è al tempo stesso sottomissione e scioglimento (Lösung)11. Il dilettante è il vero educatore a questa visione. E il letterato di cui parlavamo non è altro che la forma più alta e più pura del dilettante12.

Il letterato rappresenta concretamente nell’arte, nel suo sforzo artistico che cerca nell’arte dei grandi artisti una forma per lo spirito, la condizione umana della vita degli studenti, della gioventù e dell’umanità in genere, nella sua sofferenza e contingenza, nel suo condizionamento umano, ma anche nel suo sforzo verso l’idea: il letterato indica nell’arte13 la via d’uscita dal condizionamento (che però rimane, in quanto umanità, e non deve essere totalmente sottomesso alla forma) e la via verso l’eticità, di cui si fa garante esclusivamente la sua personalità morale, la sua percepibile serietà. Nel saggio pubblicato nel maggio del 1914 La posizione religiosa della nuova gioventù14, Benjamin lega più esplicitamente la scelta etica dell’autonomia alla concretezza, legata ai bisogni e alla condizionatezza empirica, della religione, non però di una religione positiva, né di una setta ideologica, ma di una dimensione religiosa totalmente nuova15, qualcosa di futuro di cui la stessa gioventù, che si trova «dove nasce il nuovo»16, sente un bisogno estremo17: autonomia, santità, la possibilità della «sacra decisione in genere»18. Egli individua la direzione verso la religione nel movimento (che è già una garanzia della giusta direzione) di risveglio e di presa di coscienza della gioventù, dove è più forte il «bisogno (Drang) di religione»19 e più facile per la religione «impossessarsi della comunità»20. La gioventù come comunità testimonia della sua serietà religiosa nell’invocare la scelta religiosamente e eticamente pregnante della propria autonomia, del trovare se stessa, e questo bisogno è in essa tanto «concreto»21 che Benjamin può dire che essa è «impregnata (verwachsen) di religione – una religione che è il suo proprio corpo, dove sente i suoi bisogni e i suoi dolori (Note)»22. Tutto il testo è fortemente influenzato, oltre che dal pensiero pedagogico di Wyneken23 e dal concetto di autonomia dell’etica kantiana, dal pensiero etico e religioso del Kierkegaard di Enter-Eller24  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

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e de Il concetto dell’angoscia, soprattutto nel concetto di scelta e di «serietà religiosa»25: Poiché l’itinerario formativo (Bildungsweg) della giovane generazione non ha senso, senza di essa. Rimane vuoto26 e tormentoso senza il luogo (Stelle) dove si biforca nell’aut-aut decisivo. Questo luogo deve essere comune a un’intera generazione, e vi sorge il tempio del suo Dio27.

Benjamin vede un unico bivio possibile in cui si può prendere una decisione, parla di una garanzia della decisione nella «obbiettività religiosa», ponendosi dunque al di fuori del soggettismo e invocando una scelta assoluta, che però appare anch’essa problematica poiché «c’è nuovamente una generazione che vuole trovarsi al bivio, ma il bivio non sta da nessuna parte»28. La nuova gioventù si trova davanti al «caos, dove scompaiono gli oggetti (sacri) della sua scelta»29, non vede niente di «“puro”30 […] [e] “santo”»31, si sente sola e disorientata: Che si senta sola e disorientata, è un fatto che testimonia della sua serietà religiosa, che prova che la religione non significhi più, per essa, una forma qualsiasi di spiritualità […]. Ma nulla desidera con più urgenza della scelta, della possibilità di scegliere, della sacra decisione in genere. La scelta si crea i suoi oggetti. Questa è la sua conoscenza (Wissen) più prossima alla religione32.

Ora proprio a questo punto, in cui la “conoscenza più prossima alla religione” appare come la scelta che si crea il suo oggetto, e si pone quindi l’autonomia della scelta etica che si crea un contenuto indipendente da condizionamenti empirici ed eteronomi, estranei, nel senso di Kant, al concetto della libertà, è interessante notare come Benjamin introduca in questo testo, al di là del linguaggio di Kierkegaard, dei concetti senza dubbio kantiani e neokantiani, o più precisamente coheniani (per Cohen, in Kants Theorie der Erfahrung33 e nella Logik der reinen Erkenntnis, l’autonomia è propria anche dell’ambito conoscitivo34) e questo in modo inequivocabile quando dice: Il movimento della gioventù che si risveglia indica la direzione di quel punto infinitamente lontano dove sappiamo esserci religione35.

Benjamin, che secondo la testimonianza di Scholem aveva seguito tra il 1912 e il 1915 conferenze e corsi che Hermann Cohen teneva nell’Istituto per la Wissenschaft des Judentums di Berlino, doveva senz’altro aver presente la filosofia della religione che Cohen esponeva in quegli  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

3. Pedagogia, arte e religione

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anni nei suoi corsi. Se si analizzano, per esempio, i programmi del semestre invernale 1913-1914 e del semestre estivo del 1914, si legge: Semestre invernale 1913/14. 1) I concetti fondamentali della filosofia ebraica nella valutazione etica, martedì ore 20-21. 2) Spiegazione di testi attinenti al corso, martedì ore 20-21. 3) Esercitazioni filosofiche su Maimonide […], 2 ore, mercoledì ore 11-13. 4) Esercitazioni sui Salmi. Semestre estivo 1914. 1) Dottrine etiche secondo le fonti dell’ebraismo, 1 ora, martedì ore 20-21. 2) Esercitazioni attinenti al corso, 1 ora, martedì ore 21-22. 3) Esercitazioni filosofiche su Maimonide […], 2 ore, mercoledì ore 11-13. 4) Esercitazioni sui salmi, 1 ora, mercoledì ore 13-1436.

Non si sa quali corsi Benjamin abbia seguito (o quali testi di Cohen ad essi contemporanei abbia effettivamente letto), ma appare chiaro nell’espressione «quel punto infinitamente lontano» il riferimento al concetto coheniano di “compito infinito” proprio sia del System der Philosophie (1902-1912)37 e riferito alla logica, all’etica e all’estetica, che di Der Begriff der Religion im System der Philosophie (1915)38 e più tardi del postumo Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (1919)39. Negli scritti di religione di Cohen il compito che si presenta come necessario è quello del tendere all’infinito alla concidenza tra quella religione storica, l’ebraismo, che, nelle sue fonti, rivelando già la presenza di un fondamento etico-razionale nel monoteismo e nel messianesimo, appare all’autore la più vicina alla religione della ragione come legge della ragione che si realizza nella storia, e la religione della ragione stessa come concetto a priori della religione, interno al sistema della filosofia: Nemmeno l’ebraismo, dunque, quale si è realizzato fino ad oggi e quale si rivela nelle sue fonti letterarie, è identico con la religione della ragione. Tra l’ebraismo e la religione della ragione vi è uno scarto che si chiama «compito»: non si tratta di un piccolo scarto, poiché è niente di meno che la differenza tra l’infinità del compito e la finitezza della sua realizzazione storica. […] il concetto come compito aperto e infinito è caratteristico della religione della ragione di Cohen, in antitesi con la filosofia della religione hegeliana […]. Il compito […] resta su un piano storico e morale: esso può, anzi deve, avere una funzione critica rispetto al presente, ma mai in antitesi con esso; il futuro del compito è in una continuità storica con il presente […] [e] può realizzarsi, senza mai esaurirsi, e tuttavia effettivamente realizzarsi, solo mediante un progresso storico del presente; di più ancora: il carattere morale del compito impone di saper apprezzare nel presente, non solo le condizioni del realizzarsi futuro dell’idea, ma anche, in un certo grado che solo lo humour sa scorgere e valutare, una realizzazione già effettiva del compito stesso. […] Certo Cohen fissa lo sguardo

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

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all’orizzonte finale della realizzazione compiuta del compito: là dove ebraismo e filosofia […] confluiranno sino all’unità realizzata. Ma […] egli lascia questo orizzonte nella lontananza infinita dell’ideale40.

Il compito appare, nel passo citato dello studioso di Cohen Andrea Poma, come lo scarto tra il concetto a priori di religione e la sua realizzazione storica. Esso è in generale la tensione tra l’idea guida, come compito da seguire, che per Cohen è appunto il concetto della religione come concetto della ragione, e la dimensione dell’uomo nel suo condizionamento empirico, che è comunque assoggettato allo sforzo etico nella misura in cui l’uomo è individuo che ha “storia” e si immette, riconoscendo nell’istantaneità del momento il suo rapporto correlativo con Dio come origine, nella storia infinita del genere umano verso la realizzazione morale. Possiamo esemplificare questa tensione con le parole di un altro studioso di Cohen, Pierfrancesco Fiorato: Secondo Cohen, com’è noto, la possibilità di ‘avere storia’ non è data all’individuo fin dall’inizio, ma si dischiude a lui solamente a partire dalla dimensione-limite del «momento» (cfr. R[eligion der] V[ernunft], 238 s., 269, 355 s.): qui l’individuo – emerso, in seguito alla crisi della sua identificazione immediata con il soggetto impersonale del «volere puro», come individuo «sensibile», ancora «prigioniero della indeterminatezza empirica» (RV 15) – attraverso una «riconferma dell’origine» (RV 356) può realizzare infatti quel nostos che ha per meta il «compito infinito» stesso (RV 355) e trasformarsi così in «individuo storico» (cfr. RV 15, 358 s.). […] anche in RV il «compito» non è semplicemente dato, ma ad esso si «ritorna» invece attraverso il recupero e la conferma dell’origine che avvengono nell’istantaneità del «momento»41.

Nella Religion der Vernunft Cohen parla di «santità come compito infinito» e come di «ciò che è specifico per l’uomo»42, il quale ha il suo ritorno a Dio come origine solo «nella beatitudine di un «momento»43 messianico e nella via verso la santità, come moralità nella correlazione tra Dio e uomo44 che «deve portare alla riconciliazione con Dio»45. La dimensione del “momento” è messianica nel senso che nell’istante viene esperita dall’uomo quella beatitudine che dovrebbere essere propria dell’età messianica futura, l’età della perfezione morale che si dovrebbe avere alla fine dello sviluppo storico (infinito) dell’umanità verso la santità. L’uomo diviene su questa via un «individuo dell’umanità» e acquista quell’immortalità che può essere pensata solo nel «concetto messianico dell’anima individuale umana»46 attuata nello «sviluppo infinito del genere umano verso il suo spirito ideale della santità»47, dunque nel futuro storico-messianico:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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3. Pedagogia, arte e religione L’immortalità acquista il significato della sopravvivenza storica dell’individuo nel permanere storico del suo popolo […]. Il messianismo […] rimane nel clima dell’esistenza umana. E se essa fa del futuro del genere umano un problema dell’uomo, è nel compito del futuro storico, del futuro della storia infinita del genere umano, che viene posto il compito dello spirito santo dell’uomo. […] L’uomo viene così sottratto alla sua riduzione a singolo essere biologico, ma non meno anche a quella di essere storico empirico. Il concetto della storia e della esperienza storica si è infatti ora innalzato al di sopra dei confini del passato e del presente, e soltanto nel futuro e nello sviluppo verso di esso è posta l’esistenza autentica, l’autentica realtà effettiva della vita umana e dell’intera storia dei popoli. […] E così anche l’individuo diviene, nel compito infinito della sua santità, un individuo dell’umanità. Anche l’immortalità può avere per l’individuo solamente questo significato messianico. L’anima umana è quella dell’individuo messianico. Solamente nello sviluppo infinito del genere umano verso il suo spirito ideale della santità può dunque attuare la sua immortalità anche l’anima individuale. Essa è sempre soltanto slancio, sempre soltanto somma (Inbegriff) di slanci che si raccolgono nello sviluppo infinito. Questa infinità dello slancio trova il proprio adempimento soltanto nello sviluppo messianico48.

Lo slancio etico dell’anima individuale trova il suo adempimento nello sviluppo messianico, nella dimensione del futuro che esso dischiude come compito del futuro storico, del futuro della storia infinita del genere umano verso il suo spirito ideale della santità, ma in esso non deve mancare – e per questo si può parlare in Cohen di messianismo antiescatologico49 – il rapporto con la materia, con la condizione umana e l’esistenza terrena dell’individuo: E dal momento che questo [sviluppo messianico] è distinto dalla forma di esistenza escatologica, non deve né può mancargli mai la connessione con il sostrato della materia. Già il Dio messianico garantisce la conservazione del fondamento naturale e quella della connessione con esso per il compito infinito della moralità. Così anche qui il messianismo si unisce al monoteismo per fondare l’immortalità dello spirito umano nello sviluppo del genere umano. Ed entrambi garantiscono con ciò al tempo stesso l’infinità per l’individuo50.

Cohen può parlare di un perfezionamento dell’individuo morale (la cui moralità si fonda sull’autonomia attuata nel concetto di umanità51) nello sviluppo storico prescritto dal messianesimo, quindi di un completamento52, dotato di «peculiari»53, dell’etica da parte della religione (come concetto a priori), proprio in quanto pone al centro il  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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problema dell’uomo e della sua totalità54, con la sua sensibilità e «indeterminatezza empirica»55 e insieme, in quanto individuo morale «portatore dell’umanità […] [e] simbolo di essa»56, con il suo slancio verso la santità, poiché egli diventa individuo storico e si inserisce in uno sviluppo infinito del genere umano verso la santità che non è altro che l’adempimento della legge etica nella riconciliazione e correlazione dell’umanità con il Dio unico: L’individuo morale è l’individuo della totalità (Allheit), ed esso pertanto, nello sviluppo storico quale è prescritto dal messianesimo, non solo non scompare, ma compie il proprio perfezionamento. Senza tale sviluppo il concetto morale dell’individuo non potrebbe trovare adempimento. Nel concetto storico dell’individuo culmina il valore di totalità della persona morale. Il concetto dell’immortalità viene così accordato da un lato con la somma degli slanci etici e d’altro lato con la vita fisiologica e con la sua ereditarietà infinitamente ramificata. Con ciò viene resa possibile un’armonizzazione delle condizioni materiali con le esigenze morali57. […] La religione […] valorizza quel concetto etico dell’io della totalità che il messianismo esige58.

Ecco che Cohen sembra trovare quella possibilità di risolvere il dualismo, comunque irriducibile, tra natura e libertà, tra essere e dover essere, nel concetto di religione visto come compito infinito nella direzione della santità come moralità e correlazione con Dio, che ha a suo fondamento il concetto dell’unicità di Dio. Nella dottrina etica, di cui Cohen sottolinea la «centralità sistematica»59 in quanto ha al suo centro il problema dell’uomo, l’idea di Dio identificata con la verità risolve il contrasto tra natura e moralità60 in quanto, oltre a essere principio dell’unità del metodo della logica e dell’etica, fonda l’unità oggettiva tra natura e azione morale, l’eternità della natura per la realizzazione dell’azione morale61, e in questo senso costituisce il centro unitario del sistema. L’idea di Dio però non fonda l’etica, ma interviene solo in conclusione come «un’idea regolativa dell’eternità della natura come ambito della realizzazione dell’azione morale»62. La filosofia della religione di Cohen, sviluppando e approfondendo l’idea di Dio dell’etica nel concetto dell’unicità di Dio (che diventa principio di fondazione) e nella correlazione Dio-uomo, acquista un ruolo fondamentale per tutto il sistema, riconnettendosi attraverso l’etica alla logica63. Secondo il critico Andrea Poma, oggetto della religione, come dell’etica, sono in Cohen l’uomo e Dio, ma nella religione Dio è nella sua unicità principio fondativo in quanto principio originario della natura  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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3. Pedagogia, arte e religione

e dell’uomo e fondamento della morale, che deve realizzarsi nella storia e nella politica. Dio, come principio della morale e della storia, nella sua correlazione con l’uomo, non è più idea regolativa, ma principio costitutivo. Il principio di verità connesso con l’idea regolativa di Dio si era presentato nell’etica, dal punto di vista dell’idealismo scientifico, come principio metodologico della connessione (in quanto si deve porre la distinzione, ma va anche ricercata l’unità) di logica ed etica: «Verità significa connessione e coincidenza (Einklang) tra il problema teoretico e il problema etico»64, ma si era anche posto, nell’etica, il problema di un fondamento ulteriore del principio della verità, che non aveva potuto essere risolto in quell’ambito, ma aveva potuto essere solo parzialmente affrontato nella identificazione della verità con l’idea di Dio o con la “trascendenza di Dio”. La filosofia della religione riprende il problema, non più come problema metodologico, ma sempre nell’ambito dell’idealismo critico, in quanto problema centrale del rapporto essere-dover essere, e lo affronta come «indagine sul limite», con metodi razionali, «al di là della scienza, ma non al di là della ragione»65. Così, dice Cohen parlando della differenza tra causalità naturale e creazione divina, «vi potrebbe ancora essere un altro tipo di causalità, che sorge al limite della scienza; essa, poiché è sorta al limite, può percorrere positivamente questo limite, per scoprire e colmare, al di là della conoscenza della natura e della scienza della natura, il mondo dello spirito, il mondo umano della moralità»66. Questo limite, che è il fatto della religione, è il luogo di unione tra essere e dover essere, che hanno la loro comune origine nell’idea del Dio unico. Per Cohen la ragione che riflette sulla religione deve muovere dalla religione ebraica, in quanto nelle fonti dell’ebraismo, che è caratterizzato dal monoteismo e dal messianesimo, sarebbero ravvisabili il fatto originario e la fonte della religione della ragione come concetto a priori della religione, che nella correlazione tra Dio e uomo istituisce l’unità tra religione e moralità: Il principio della ragione ci ha condotto così all’unità di religione e dottrina dei costumi. E se, per altro verso, le fonti dell’ebraismo svelano la religione della ragione, il concetto della ragione conferirà con ciò all’ebraismo, nella sua religione, anche la sua autentica unità. […] non sostengo che unicamente e solamente l’ebraismo sarebbe la religione della ragione: cerco di comprendere come anche altre religioni monoteistiche abbiano la loro partecipazione feconda alla religione della ragione, sebbene tale partecipazione non possa misurarsi con l’ebraismo quanto a originarietà. Tale originarietà costituisce la priorità dell’ebraismo. E tale priorità vale anche

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per la sua partecipazione alla religione della ragione. […] L’originarietà reca l’impronta della purezza. E purezza nella sua produzione è il segno distintivo della ragione67.

La religione acquista un suo posto peculiare nel sistema della filosofia in quanto indaga l’unità di natura e etica (nell’etica il problema di questa unità aveva una soluzione solo regolativa), nell’ambito della cultura, come unità di uomo (moralità) e natura nella storia a partire dal concetto di Dio unico e creatore. Si vede qui una forte analogia di questa concezione con il pensiero di Benjamin, che già nel Dialog über die Religiosität der Gegenwart, e anche negli anni successivi, si era espresso sul problema di un dualismo tra ambito teoretico e pratico, creatosi con Kant, che aveva portato a suo avviso all’esigenza di una «religiosità del futuro» che ponesse il problema del ripristino di una dimensione di totalità dell’uomo. Cohen inserisce la religione nel sistema con una sua peculiarità rispetto all’etica, ma non individua una ulteriore tendenza della coscienza oltre alle tendenze teoretica, etica, estetica e psicologica. La religione assume però, come si è visto, un’importanza sistematica fondamentale ponendosi al centro del suo sistema come filosofia del limite, dell’unità di essere e dover essere. Come si vedrà più avanti, in Benjamin la religione (la cui fonte, come in Cohen, è individuata nella religione ebraica) avrà un ruolo importante per il concetto di esperienza e per il sistema della filosofia delineato nel suo progetto filosofico del 1917-18 Sul programma della filosofia futura68, dove si pone come il luogo di origine delle idee per l’unità dell’esperienza e del sistema della filosofia. Tornando al saggio di Benjamin La posizione religiosa della nuova gioventù, appare chiaro che alcuni elementi coheniani sopra descritti sono presenti, ma in un’ottica ancora negativa di assenza, per la scelta eticoreligiosa, di un punto di riferimento (questo non è certo qui, come in Cohen, il Faktum delle fonti letterarie della religione storica ebraica), poiché Benjamin ancora non vede il “bivio” dove può essere fatta la “scelta”. Qui riemerge la sua concezione simbolica, legata alla sua visione nietzschiana della volontà, dell’idea morale e religiosa futura che si rappresenta come volontà e possibilità nella vita condizionata della gioventù e nelle cose che la circondano in modo caotico, senza fornire in modo esplicito oggetti che esibiscano il sacro per la scelta etica. Nella vita della gioventù, come momento condizionato e insieme caratterizzato dalla volontà di scelta dell’autenticità, in cui si trovano insieme scetticismo e abnegazione, si esprimono in modo simbolico (in quanto la gioventù la significa) la sua virtù e la religione futu www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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3. Pedagogia, arte e religione

ra, e in ogni cosa che la circonda nel mondo può apparire il «simbolo o il santo»69, nel “momento” messianico della rivelazione in cui la “grazia” (una grazia più che cristiana colorita di messianesimo ebraico) crea di nuovo il sacro da scegliere: La gioventù che professa la propria fede in se stessa (die sich zu sich selbst bekennt) significa quella religione che non c’è ancora. Circondata dal caos delle cose e delle persone, nessuna delle quali è santa, nessuna delle quali reietta, la gioventù invoca la scelta. E non potrà scegliere con la serietà più profonda prima che la grazia non abbia nuovamente creato il sacro e il suo opposto. Essa confida che il sacro e il maledetto si riveleranno nel momento (in dem Augenblick offenbaren) in cui la sua volontà comune di scelta raggiungerà il suo punto massimo di tensione. Ma per intanto essa vive una vita difficilmente comprensibile, piena di dedizione e di diffidenza, di venerazione e di scetticismo, di abnegazione e di egoismo. Questa vita è la sua virtù. Non può respingere nessuna cosa, nessuna persona, poiché in ciascuna (nell’edicola pubblicitaria e nel delinquente) può nascere il simbolo e il santo70.

Nell’estrema incertezza71 in cui si trova, la gioventù condivide con i primi cristiani, come era stato per i letterati ebrei e i dilettanti, la capacità di scorgere il sacro ovunque. Questo aveva portato i primi cristiani a non poter parlare e agire72, ma la gioventù supera questa condizione con il suo scetticismo (o estrema fiducia nel futuro), che la porta a lottare perché, simbolicamente, «si riveli la figura del sacro (das Heilige in seiner Gestalt sich offenbare)»73 in una redenzione non illusoria, mentre l’illusorietà è la caretteristica del misticismo, a cui è estranea la comunità religiosa e che viene criticato aspramente anche da Cohen74: Eppure il suo scetticismo sconfinato (che non è altro che sconfinata fiducia) lo costringe ad amare la lotta. Anche nella lotta può nascere Dio. Ma le sue lotte sono giudizi di Dio, in cui questa gioventù è ugualmente pronta a vincere e a soccombere. Poiché importante è soltanto che da queste lotte si riveli la figura del sacro. Questo suo lottare la tiene anche lontana dal misticismo, che potrebbe soltanto rappresentare, per il singolo, una redenzione (Erlösung) illusoria, finché la comunità religiosa non esiste ancora. […] Nella lotta, nella vittoria come nella sconfitta, vuole trovare se stessa – scegliendo tra il sacro e il suo opposto. Sa che in quel momento non conoscerà più alcun nemico, senza per questo diventare quietistica75.

La gioventù, che non è conoscibile da chi la combatte, «nobiliterà» infine, nella vittoria come nella sconfitta, i suoi avversari «attraverso la storia»76 in quanto riuscirà a trovare se stessa nella lotta, e attraverso la  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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scelta etica del sacro che appare in simboli nel «momento (Augenblick)»77 messianico, a realizzare i valori di cui si fa portatrice in un futuro messianico.

Note 1 W. Benjamin, Ziele und Wege der studentisch-pädagogischen Gruppen an Reichsdeutschen Universitäten (mit besonderer Berücksichtigung der «Freiburger Richtung») (1913-14), in GS, II, 1, pp. 60-66; trad. it. Finalità e metodi pedagogici dei gruppi studenteschi nelle università tedesche (con particolare riguardo per la “linea di Freiburg”), in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 77-83. La conferenza fu poi pubblicata nel volume Student und Pädagogik, Leipzig-Berlin, 1914, con la firma stud. Phil. Walter Benjamin. 2 W. Benjamin, Die Jugend schwieg (1913), in GS, II, 1, pp. 66-67; trad. it. La gioventù tacque, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit. pp. 84-85. Testo pubblicato il 18 ottobre 1913 in «Die Aktion», 3, 1913, con la firma Ardor. 3 Alla terminologia di Benjamin non è estranea la sua lettura della terza Critica di Kant. 4 Ziele und Wege der studentisch-pädagogischen Gruppen an Reichsdeutschen Universitäten, in GS, II, 1, p. 61; trad. it. cit., p. 77. 5 Ivi, p. 66; trad. it. cit., p. 82. 6 Die Jugend schwieg, in GS, II, 1, p. 67; trad. it. cit., p. 85. Benjamin parla, facendo eco a Nietzsche, della «volontà di gioventù» di cui si deve riempire lo spirito collettivo (ivi, p. 66; trad. it. cit., p. 85). 7 Cfr. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, trad. di M. Corssen, Sansoni, Firenze, 1942, pp. 189-194: «l’animo è una determinazione dell’immediatezza, mentre invece la serietà è l’originalità conquistata dall’animo, l’originalità conservata nella responsabilità della libertà e affermata nel godimento della beatitudine. L’originalità dell’animo nel suo sviluppo storico manifesta, nella serietà, proprio l’eterno […]. La serietà in questo senso significa la personalità stessa, e soltanto una personalità seria è una vera personalità; e soltanto una personalità seria può fare una cosa con serietà; infatti, per fare qualche cosa con serietà, bisogna in primo luogo sapere che cosa è l’oggetto della serietà. […] Questo oggetto l’ha ogni uomo, perché l’oggetto è egli stesso; e colui che non divenne serio per questo […] finirà per diventare comico: poiché l’ironia è gelosa della serietà. […] L’interiorità, la certezza, è serietà. […] Appena manca l’interiorità, lo spirito è finitizzato. Perciò l’interiorità è l’eternità, ovvero è la determinazione dell’eterno nell’uomo. […] Ma chi non ha compreso l’eterno nel modo giusto, cioè completamente concreto, manca d’interiorità e di serietà». Il termine originalità è tradotto in tedesco con Ursprünglichkeit, termine che si ritrova, insieme al termine ernst (serio), nella conferenza Ziele und Wege der studentisch-pädagogischen Gruppen an Reichsdeutschen Universitäten (cfr. la trad. tedesca di S. Kierkegaard, Der Begriff Angst, in Gesammelte Werke, Diederichs, Dusseldorf, 1951-1974, parti XI e XII , p. 154). 8 Studentische Autorenabende (1913-14), in GS, II, 1, pp. 68-70; trad. it. cit., pp. 88-89 (traduzione modificata). 9 La dimensione etica e religiosa come contenuto dell’opera d’arte tornerà successivamente in Benjamin, nel saggio del 1921-22 “Le affinità elettive” di Goethe, nel concetto del “privo di espressione” (das Ausdruckslose) come “parola morale”. Questo concetto ha la sua origine nella concezione ebraica della Bibbia (Torah), della Legge rivelata come fonte di ogni prescrizione per l’azione etica, per la cui origine, Dio, è vietata ogni raffigurazione.

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3. Pedagogia, arte e religione Cfr. W. Benjamin, Goethes Wahlverwandschaften (1921-22), in GS, I, 1, pp. 123-201, in part. le pp. 181-182; trad. it. “Le affinità elettive” di Goethe, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Saggi 1919-1922 (vol. II delle Opere di Walter Benjamin a cura di G. Agamben), trad. di C. Colaiacomo, R. Solmi, A. Marietti Solmi, A. Moscati, G. Agamben a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino, 1982, pp. 179-254, in part. le pp. 233-234. Il saggio fu pubblicato nella rivista «Neue Deutsche Beiträge», II. Folge, 1, 1924, pp. 83-138 e 2, 1925, pp. 134-168. Cfr. sul tema dell’Ausdrucksloses e in generale sul divieto d’immagine in Cohen e Benjamin A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., in part. il paragrafo 8 del capitolo I Bilderverbot und Erkenntniskritik, pp. 96-105. Cfr. inoltre per il tema dell’Ausdrucksloses B. Menke, Sprachfiguren. Name – Allegorie – Bild nach Walter Benjamin, München, 1991, p. 336 ss. 10 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § 59, pp. 211-215; trad. it. cit., pp. 185-189. 11 Nel termine Lösung, che esprime come soluzione del compito (Aufgabe) il rapporto con l’idea e rimanda all’autonomia, legata al proprio principio ideale indipendente da condizionamenti empirici e estrinseci, di ogni ambito della cultura umana, si trovano implicazioni neokantiane di cui si dirà in seguito, e il significato etico-politico di liberazione e libertà. 12 Studentische Autorenabende, in GS, II, 1, pp. 70-71; trad it. cit., pp. 89-90 (traduzione modificata). Benjamin istituisce più avanti un vero e proprio circolo virtuoso tra personalità etica e vocazione alla lotta artistica e culturale: «una serata studentesca di lettura deve dare la parola a uomini la cui personalità etica riesca a soggiogare. […] Possibile sarà solo percepire (vernehmen) chi sottomette il suo essere morale all’arte per poterla presagire; chi nobilita la propria incapacità col travaglio personale che lo lega alla lotta artistica del suo tempo; chi testimonia con la propria opera la lotta dell’uomo, in cui la forma ancora non ha trionfato. […] Come infatti il vero dilettantismo presuppone l’uomo etico, così anche la cultura chiede proprio a questi uomini etici, come un dovere, di servire la lotta artistica del loro tempo: chiede loro di essere dei dilettanti» (ibid.). 13 Il rapporto tra arte e eticità si ripropone in altra veste nel testo Erotische Erziehung (cfr. W. Benjamin, Erotische Erziehung, in GS, II, 1, pp. 71-72; trad. it. Educazione erotica, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 91-92. Il testo fu pubblicato in «Die Aktion», 3, 1914, con lo pseudonimo Ardor), che parallelamente alla Kunsterziehung e allo Moralunterricht presenta il problema dell’eros nel suo rapporto simbolico con la spiritualità (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 23-VI-1913, in GB I, pp. 125129; trad. it. cit., pp. 9-10). Benjamin si oppone all’educazione scolastica che reprime lo spirito, seguendo in questo Wyneken (cfr. G. Wyneken, Die neue Jugend. Ihr Kampf um Freiheit und Wahrheit in Schule und Elterhaus in Religion und Erotik, Georg Steinicke Verlag, München, 1914), ma si oppone anche, come quest’ultimo, all’educazione familiare che reprime l’eros, esatto contraltare della inciviltà moderna della prostituzione: «Ma finché gli studenti continueranno a compiacersi di una poesia imbevuta di sentimenti familiari, finché non oseranno vedere spiritualmente l’erotismo della prostituta, a cui sono vicinissimi (anziché giocherellare con un piacere lezioso e piccino) resteranno prigionieri di una stantia poesia del rapporto, e non riusciranno a produrre neanche un verso che possieda una sua chiarezza intuitiva e una sua forma» (Erotische Erziehung, in GS, II, 1, p. 72; trad. it. cit., pp. 91-92). 14 W. Benjamin, Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, I, pp. 72-74; trad. it. La posizione religiosa della nuova gioventù, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 19101918, cit., pp. 108-110. Pubblicato in «Die Tat» (Sozial-religiöse Monatschrift für deutsche Kultur), a cura di E. Diederichs e K. Koffman, fasc. 2, Jena, maggio 1914.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 15 Cfr. ivi, p. 72; trad. it. cit., p. 108: «La gioventù[…] [non] occupa neanche una sua posizione religiosa. Ma significa qualcosa per la religione, e a sua volta la religione comincia a significare molto per lei, in un senso interamente nuovo». 16 Ibid. 17 Cfr. ibid.: «Il suo bisogno è estremo, e l’aiuto di Dio le è vicinissimo». Il curatore del volume dell’edizione italiana degli scritti di Benjamin Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918 rimanda a riguardo all’ultimo verso della poesia di Hölderlin Dichterberuf: «Senza paura, così deve, sta l’uomo / solo di fronte a Dio, lo protegge la semplicità / e di nessun’arma ha bisogno e di nessuna / astuzia, finché la mancanza di Dio aiuta» (ivi, p. 110, traduzione del curatore). In una precedente versione manoscritta, l’ultimo verso è diverso: «finché Dio ci resta vicino» (ibid.). Cfr. F. Hölderlin, Dichterberuf, in Werke und Briefe, hrsg. von F. Beißner und J. Schmidt, 2 Bände, Insel Verlag, Frankfurt/M., 1982, Band 1: Gedichte. Hyperion, p. 84; trad. it. Vocazione del poeta, in F. Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano, 19992, p. 453). Anche Wyneken parla del bisogno di religione della gioventù, e di fronte al «bisogno (Not) religioso» della gioventù prospetta l’istituzione, nella scuola, di un Religionsunterricht che si occupi della religione in modo storico e non dogmatico e contemporaneamente non distrugga il «sentimento religioso degli scolari» (G. Wyneken, Die neue Jugend. Ihr Kampf um Freiheit und Wahrheit in Schule und Elterhaus in Religion und Erotik, cit., p. 49). 18 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 73; trad. it. cit., p. 109 (traduzione modificata). 19 Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 108. 20 Ivi, pp. 72-73; trad. it. cit., p. 108. 21 Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 108. 22 Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 109. 23 Wyneken, parla di «serietà religiosa» (G. Wyneken, Die neue Jugend. Ihr Kampf um Freiheit und Wahrheit in Schule und Elterhaus in Religion und Erotik, cit., p. 50), ma vede la possibilità di un nuovo e più profondo indirizzo religioso, legato alla coscienza e allo spirito di ognuno e non alla sottomissione spirituale, che ha portato la gioventù a reagire con il soggettivismo e l’individualismo, solo a partire dalla Freie Schulgemeinde: «La gioventù non combatte ancora, oggi, per una religione concepita in modo più profondo e alto; in ambito religioso essa è stata spinta in un completo soggettivismo e individualismo, e l’unica sintesi e riorganizzazione che viene tentata in ambito religioso all’interno del Movimento della gioventù proviene dalla Freie Schulgemeinde» (ivi, p. 54). 24 Cfr. S. Kierkegaard, Enter Eller. Un frammento di vita, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano, 19934, 5 tomi. 25 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 73; trad. it. cit., p. 109. 26 Il concetto di “vuoto” diventerà molto importante nel pensiero successivo di Benjamin, soprattutto nel progetto filosofico Sul programma della filosofia futura del 1917-18 (cfr. W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 157-171; trad. it. Sul programma della filosofia futura, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 214-227), dove rappresenta il termine opposto alla pienezza di spiritualità del pensiero religioso e storico-messianico, ed esprime la caratteristica del pensiero scientifico, fisico-matematico, astratto e connotato empiricamente (proprio ancora di Kant e del neokantismo) in contrapposizione alla concretezza religiosa. Come si vedrà più avanti, Benjamin contrappone nelle più tarde tesi Sul concetto di storia del 1940 il tempo messianico a cui si riferisce il materialista storico al tempo “omogeneo e vuoto” dello storicismo e del pensiero etico-politico neokantiano a fondamento della teoria della socialdemocrazia tedesca.

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3. Pedagogia, arte e religione 27

Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 73; trad. it. cit., p. 108. Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 108. 29 Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 109. 30 Per Benjamin, che si rifà a Kant e a Cohen e al suo platonismo, la purezza è la caratteristica del pensiero concettuale e sistematico, indipendente dall’empiria, ed è quindi il fondamento del progetto di sistema filosofico, in cui dovrebbe essere compresa anche la religione, esposto nel 1917-18 nel testo Sul programma della filosofia futura. L’indipendenza dall’empiria è per Benjamin il fondamento per la possibilità di concepire la religione e una filosofia della religione interna al sistema della filosofia, la purezza sia conoscitiva che morale è alla base della religione da una parte come luogo dove si costituiscono originariamente le idee che nel sistema sono a fondamento della sua unità, (cfr. il Nachtrag a Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226), e dall’altra come luogo della concretizzazione simbolica della moralità (come appare dagli scritti fin qui analizzati). 31 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 73; trad. it. cit., p. 109. 32 Ibid. (traduzione modificata). 33 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung (1871, 18852, 19183), terza edizione ampliata in Werke, cit., Band 1.1, Einleitung von G. Edel, 1987; le varianti rispetto alla seconda edizione in Werke, cit., Band 1.2, 1987; prima edizione in Werke, cit., Band 1.3, 1987; trad. it. della prima edizione La teoria kantiana dell’esperienza, a cura di L. Bartolini, Franco Angeli, Milano, 1990. 34 Cfr. A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., p. 58: «Nel rifiuto di Cohen nei confronti della sensibilità l’obbligo etico nei confronti dell’autodeterminazione influisce sulla logica. Così la critica della conoscenza non si distingue dalla teoria della conoscenza solo perché è interessata alla conoscenza come fatto (Vorgang) scientifico e non psichico, ma soprattutto perché integra la sensibilità come unità funzionale nel processo della conoscenza, invece di concepirla come nesso con un “mondo esterno”. La critica della conoscenza garantisce in questo modo l’autonomia del pensiero». Cfr. a proposito ivi, p. 158, nota 121: «Che la critica al concetto di esperienza in Kant sia motivata eticamente nel senso dell’autonomia del pensiero, appare anche nell’Etica della volontà pura». Astrid Deuber-Mankowsky sviluppa alle pp. 55-63 un confronto tra la concezione dell’esperienza e della conoscenza del primo Benjamin e del Cohen dell’ultima edizione della Kants Theorie der Erfahrung, confronto che occupa in senso più ampio – anche rispetto alla Logik der reinen Erkenntnis e alla Ethik des reinen Willens – il suo intero lavoro. Dei concetti di esperienza e conoscenza in Benjamin e Cohen (anche nella Logik der reinen Erkenntnis), alla luce di Über das Programm der kommenden Philosophie e di alcuni frammenti di Benjamin del 1917, e della letteratura critica relativa, si discuterà più avanti. 35 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, I, p. 72; trad. it. cit., p. 108 (traduzione modificata). 36 H. Wiedebach, Einleitung a H. Cohen, Kleinere Schriften V. 1913-15, in Werke, cit., Band 16, pp. XVII-XVIII. 37 H. Cohen, System der Philosophie, 1. Teil: Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6; 2. Teil: Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7; 3. Teil: H. Cohen, Ästhetik des reinen Gefühls (1912) in Werke, cit., Bände 8-9, Einleitung von G. Wolandt, 1982. La Logik fu riedita nel 1914, mentre l’Ethik aveva avuto una riedizione ampliata nel 1907. 38 H. Cohen, Der Begriff der Religion im System der Philosophie (1915), in Werke, cit., Band 10, Einleitung von A. Poma, 1996; trad. it. Il concetto di religione nel sistema della filosofia, a cura di G. Cammarota, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 39 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (1919), Kaufmann, Frankfurt/M., 19292 (rist. anast. Fourier, Wiesbaden, 19883); trad. it. Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, a cura di A. Poma, trad. e note di P. Fiorato, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1994. Benjamin aveva letto quest’opera nel 1920 (cfr. Benjamin a G. Scholem, 1-XII-1920, in GB II, p. 107). Nel novembre 1929 Benjamin scrive, in una voce dell’Encyclopedia Judaica (vol. V, Berlin, 1930) dal titolo Juden in der deutschen Kultur, in GS, II, 2, pp. 807-813; trad. it. Gli ebrei nella cultura tedesca, in W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, cit., pp. 514-528: «La dottrina di Cohen è idealismo rigorosissimo. In base alla sua concezione del mondo, Cohen congiunge la filosofia tedesca della humanitas con un’idea dello Stato eticamente fondata ma non meno rigorosa, e insieme con un monoteismo giudaico fondato in senso storico-filosofico, ma di analogo rigore. Il capolavoro filosofico-religioso di Cohen, Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums [La religione della ragione dalle sorgenti del giudaismo] del 1919, mette a confronto il giudaismo dei profeti con il mondo del mito per riconoscere nel monoteismo giudaico l’unica religione rigorosamente estranea al mito, etica. Cohen non è affatto un intellettualista, bensì un rigoroso razionalista» (ivi, p. 809; trad. it. cit., p. 519). 40 A. Poma, Religione della religione ed ebraismo in Hermann Cohen, in I. Kajon (a cura di) La storia della filosofia ebraica, Cedam, Padova, 1993, p. 302. 41 P. Fiorato, Storia e temporalità in Cohen, in I filosofi della scuola di Marburgo, a cura di B. Antomarini, numero monografico de «Il cannocchiale», 16, 1-1, 1991, pp. 209-210. 42 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 356; trad. it. cit., p. 447. 43 Ivi, p. 238; trad. it. cit., p. 317. Cfr. l’intero passo: «Il cuore nuovo e lo spirito nuovo sono e restano compiti. Anche l’io non può valere altro che come compito. Come l’etica così anche la religione deve avere a che fare sempre solo con compiti, che in quanto tali sono infiniti e dunque possono richiedere anche soluzioni solo infinite. L’io pertanto non può significare nulla di più alto e in generale nulla di diverso che un passo, un gradino nello slancio verso la meta che è infinita. Ma quando viene assorbito nella momentaneità di uno slancio, esso perviene invece a un’autentica vitalità morale. La penitenza produce per l’uomo questa nuova vita, che chiaramente può sussistere solo nella beatitudine di un momento. Ma questo momento può e deve ripetersi incessantemente: non deve mai invecchiare, ma deve e può ringiovanirsi e rinnovarsi costantemente. Tale costanza, pretesa dal compito di questo slancio, libera l’io, che nella continuità di tali momenti guadagna e afferma la propria consistenza dal sospetto di essere una mera astrazione. […] Il soggetto, in quanto io, dipende dal momento e dalla continuità dei momenti» (ivi, pp. 238-239; trad. it. cit., p. 317). 44 Cfr. ivi, pp. 111 e 123; trad. it. cit., pp. 178-179 e 190. 45 Ivi, pp. 234-235; trad. it. cit., p. 313. 46 Ivi, p. 357; trad. it. cit., p. 449. 47 Ivi, pp. 351-357; trad. it. cit., pp. 441-449. Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Band VII, pp. 252-254; trad. it. Critica della ragion pratica, trad. di F. Capra, Laterza, Bari, 19916, pp. 122-123 (parte I, libro II, par. 4: L’immortalità dell’anima come postulato della ragion pura pratica): «Ma la conformità completa della volontà con la legge morale è la s a n t i t à , una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza. Poiché essa, mentre nondimeno viene richiesta come praticamente necessaria, può essere trovata soltanto in un p r o g r e s s o che va all’ i n f i n i t o verso quella conformità completa, e, secondo i princìpi della ragion pura pratica, è necessario ammettere un tale progresso pratico come l’oggetto reale della nostra volontà […]. Ciò che soltanto può toccare alla creatura

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3. Pedagogia, arte e religione (Geschöpfe) relativamente alla speranza (Hoffnung) di questa partecipazione, sarà la sicura coscienza della propria intenzione (Gesinnung), onde sperare dal progresso avvenuto finora dal peggiore al moralmente migliore, e dal proposito immutabile che essa ha perciò conosciuto, un’ulteriore continuazione ininterrotta di tale progresso finché la sua esistenza può durare, e anche oltre questa vita; e così una piena adeguazione alla volontà di Dio […] nell’infinità (comprensibile solo a Dio), della propria durata». Per Cohen l’ideale della santità è proiettato nella storia infinita dell’umanità verso la santità e solo in questa dimensione messianica, che innalza l’uomo biologico ed empirico a membro della storia dell’umanità, ma si mantiene in senso antiescatologico nell’ambito della sua esistenza terrena, può avere la sua immortalità l’anima individuale. 48 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., pp. 357-358; trad. it. cit., p. 449. 49 Cfr. a proposito P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, in «Annuario filosofico», 12, 1996, pp. 299-327. 50 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 358; trad. it. cit., p. 449. Cfr. in riferimento all’infinità dell’individuo S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, cit., pp. 200-208: «l’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto questa angoscia ha, mediante la fede, la forza di formare assolutamente, distruggendo tutte le cose finite […]. Colui che è formato dall’angoscia è formato dalla possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità […]. Coll’aiuto della fede l’angoscia educa l’individuo ad acquietarsi nella conciliazione». 51 Cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, pp. 617-637; trad. it. cit., pp. 443-456. Cfr. anche P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, cit., p. 318: «L’attenzione di Cohen è rivolta soprattutto […] alla seconda formulazione dell’imperativo categorico, contenuto nella Fondazione della metafisica dei costumi: “Agisci in modo tale da trattare l’umanità nella tua persona, come in quella di ogni altro, sempre al tempo stesso come fine e mai meramente come mezzo” – una formulazione sulla cui scorta per Cohen “la formula dell’imperativo categorico può essere espressa convenientemente come il ‘principio dell’umanità’” (KBE 274)». Cfr. H. Cohen, Kants Begründung der Ethik (1877), Bruno Cassirer, Berlin, 19102, p. 274; trad. it. della seconda edizione, La fondazione kantiana dell’etica, a cura di G. Gigliotti, Milella, Lecce, 1983, p. 245. 52 Cfr. H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 14; trad. it. cit., p. 68. 53 Ivi, 18; trad. it. cit., p. 73. 54 La concezione dell’uomo nella sua totalità (Totalität ) è al centro della riflessione di Benjamin negli anni 1912-1915. 55 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 15; trad. it. cit., p. 69. 56 Ivi, pp. 15-16; trad. it. cit., p. 70. Si ricordi a proposito la visione simbolica della religione di Benjamin, che istituisce il rapporto tra dimensione naturale e dimensione etica umana. 57 Cfr. subito dopo il passo in cui Cohen vede nei patriarchi i rappresentanti storici del genere umano messianico, ma insieme i suoi progenitori biologici: «E questo collegamento del futuro messianico del genere umano con la sua origine provvidenziale nei patriarchi del monoteismo conferisce […] validità […] alla dottrina ebraica dell’immortalità. I patriarchi sono i rappresentanti storici del genere umano messianico, allo stesso tempo però essi rappresentano, in quanto progenitori, il sostrato biologico della propagazione e dell’ereditarietà» (ivi, p. 359; trad. it. cit., p. 450).

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 58

Ivi, pp. 358-359; trad. it. cit., p. 450. H. Cohen, Der Begriff der Religion im System der Philosophie, in Werke, cit., Band 10, p. 11; trad. it. cit., p. 18. In questo testo la religione ha una sua peculiarità rispetto all’etica, ma è condizionata dalla «sua derivazione dall’etica» (ibid.). 60 Cfr. A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, Mursia, Milano, 1988, p. 173. Poma vede una continuità e un approfondimento del concetto dell’idea di Dio dell’Ethik nel concetto dell’unicità di Dio della filosofia della religione di Cohen, nel suo ruolo di fondamento unitario di essere e dover essere: «al principio della verità, formulato nella Ethik des reinen Willens, non può essere attribuito un valore unicamente metodologico. L’identificazione della verità con l’idea di Dio conferisce alla prima, oltre al valore di principio dell’unità del metodo nella logica e nell’etica, anche quello di garanzia dell’armonia possibile tra la natura e la moralità, della possibile realizzazione dell’azione morale nel mondo esistente. Questa è la funzione fondamentale dell’idea di Dio nell’etica di Cohen, per cui egli può affermare che la sua etica “accoglie in modo più preciso di tutte quelle precedenti l’idea di Dio nel contenuto dottrinale dell’etica” (RV, 23). […] È chiaro […] che sviluppando il principio della verità nell’idea del Dio trascendente, Cohen sposta il discorso dal piano dell’unità metodologica tra logica e etica al piano dell’armonia tra natura e moralità (cfr. E[thik des] R[einen] W[illens], 466). È quindi innegabile che, con l’affermazione della trascendenza di Dio, Cohen pone nell’etica il problema di un fondamento unitario dell’essere e del dover essere, e non semplicemente della conoscenza di essi. Tale problema però nell’etica è posto, ma non esaurientemente affrontato e risolto mediante l’idea di Dio e la sua trascendenza: gli sviluppi adeguati di tale problema si possono trovare solo nel tema dell’unicità di Dio, così come viene elaborato da Cohen nella filosofia della religione». Cfr. anche sopra, a p. 172, dove Poma vede nel concetto di religione un elemento centrale del sistema e un approfondimento e un ampliamento dell’intero sistema a partire dall’etica: «Ciò che mi propongo qui di dimostrare è che proprio attraverso l’etica il contributo della religione si estende a tutto il sistema, e questo perché nell’etica esistono già i germi, non solo di un suo “ampliamento” nella religione, ma anche di un “ampliamento” di tutto il sistema, di una modificazione dei problemi fondamentali di esso e delle loro soluzioni attraverso la religione. La filosofia della religione di Cohen […] [è] lo sviluppo coerente di una serie di problemi rimasti aperti nei vari ambiti della filosofia ed emersi con particolare chiarezza nell’etica». Come si vedrà più avanti, la religione ha anche in Benjamin un ruolo importante per il concetto di esperienza e per il sistema della filosofia che egli delinea nel suo progetto filosofico del 1917-18 Sul programma della filosofia futura. 61 Cfr. H. Cohen, Kants Begründung der Ethik, cit., p. 364 ss.; trad. it. cit., p. 326 ss. Cfr. inoltre H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 440. 62 A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 174. 63 Cfr. A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 173. Anche Pierfrancesco Fiorato accenna al rapporto tra la filosofia della religione e la logica di Cohen, individuando in entrambe il concetto di origine come primo principio incondizionato ma anche “a-fondazione (Ungrundlegung)”, infondatezza come espressione della “autoironizzazione della ragione” (cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 429): «È appena il caso di sottolineare la sostanziale coerenza rintracciabile tra il discorso di L[ogik des reinen] E[rkenntnis] e quello di RV sul tema della “storia eterna” e delle condizioni che la rendono possibile: così come il “compito infinito” non è un dato ultimo per il pensiero di LE, che scopre piuttosto la propria eternità a partire dalla krisis dell’origine, anche in RV il “compito” non è semplicemente dato, ma ad esso si “ritorna” invece attraverso il recupero e la conferma dell’origine che avvengono nell’istantaneità del “momento”. […]

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3. Pedagogia, arte e religione Ma il fatto che tale compito non figuri più semplicemente come dato, bensì si dischiuda a partire dal ‘momento critico’, getta una nuova luce anzitutto sul significato di quel “futuro” con cui il compito ha essenzialmente a che fare. […] Il “futuro” qui introdotto […] costituisce […] il nuovo fondamento a partire dal quale va intesa la temporalità stessa del tempo. […] Focalizzare l’attenzione sul problema sfuggente della temporalità del tempo può consentire […] di trovare in essa la mediazione “logica” tra la dimensione empirica del contenuto temporale e l’ordine ideale dell’elemento puro, evitando l’unilateralità tanto dello psicologismo quanto del logicismo. Husserl ha saputo rendere produttivo tale suggerimento per la definizione della propria fenomenologia trascendentale» (P. Fiorato, Storia e temporalità in Cohen, cit., pp. 210-211). 64 H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 89; trad. it. cit., p. 67. 65 A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 176. 66 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 70; trad. it. cit., p. 131. 67 Ivi, pp. 39-40; trad. it. cit., pp. 96-97. 68 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 157-171; trad. it. cit., pp. 214-227. 69 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 74; trad. it. cit., p. 109. 70 Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 109. 71 Cfr. ivi, p. 74; trad. it. cit., p. 109: «Incerto è il nostro proprio Io, che non trovammo ancora nella scelta». Cfr. W. Benjamin, Metaphysik der Jugend (1913-14), in GS, II, 1, pp. 91-104; trad. it. Metafisica della gioventù, in W. Benjamin Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 106. 72 Cfr. in un’epoca successiva della sua produzione, nel testo Destino e carattere del 1919, la visione di Benjamin dell’eroe della tragedia greca che diventa muto quando si oppone agli dei dell’antico ordine mitico in nome della moralità e dell’autonomia (W. Benjamin, Schicksal und Charakter, in GS, II, 1, pp. 173-176; trad. it. Destino e carattere, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Saggi 1919-1922, cit., pp. 119-122. Il saggio, composto a Lugano tra il settembre e l’ottobre 1919, fu pubblicato in «Die Argonauten», I. Folge, 10-12, 1921). Anche nella filosofia del linguaggio di Benjamin c’è una dimensione dell’incomunicabile che si esprime nel simbolo, che viene ripresa nel concetto dell’Ausdrucksloses. Questo si presenta, nel saggio “Le affinità elettive” di Goethe del 1921-22, come la «parola morale» che nell’opera d’arte si oppone all’apparenza (cfr. Goethes Wahlverwandtschaften, in GS, I, 1, pp. 181-182; trad. it. cit., pp. 233-234). 73 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 74; trad. it. cit., p. 110. 74 Cfr. H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 449; trad. it. cit., p. 551: «La comunità è l’ineludibile stadio preliminare della messianità. La preghiera dell’individuo deve pertanto diventare preghiera della comunità. Mistica e pietismo imboccano vie pericolose isolando nella preghiera l’individuo. La solitudine può essere solo una condizione transitoria dell’animo umano. L’uomo è il portatore dell’umanità. Per questo scopo egli deve però prima raccogliersi nella comunità. La totalità dell’umanità deve essere la sua meta ultima, ma solamente l’unità della pluralità deve condurlo a tale totalità». 75 Die religiöse Stellung der neuen Jugend, in GS, II, 1, p. 74; trad. it. cit. p. 110 (traduzione modificata). 76 Ibid. (traduzione modificata). 77 Ibid.

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4. Storia messianica e comunità scientifica nel saggio La vita degli studenti (1914-15)

La riflessione autonoma di Benjamin sulla storia e il messianesimo appare negli anni 1914-1915 sempre più legata alla concezione messianica ebraica, e si unisce alla sua visione del simbolo fino a sovrapporvisi. Essa, svolta insieme alla critica – già espressa nel Discorso sulla religiosità contemporanea e poi ripresa venticinque anni dopo nelle tesi Sul concetto di storia1 (1940) – al concetto di progresso2 proprio dello storicismo e della socialdemocrazia, fondata su una concezione del tempo come tempo omogeneo e vuoto3, appare in tutta la sua forza nell’incipit del saggio più importante che Benjamin scrive all’interno del movimento studentesco, ma che sarà anche l’ultimo ad esso dedicato, La vita degli studenti 4 (1914-15): C’è una concezione della storia che, fidando dell’infinità del tempo, distingue solo il ritmo, la velocità degli uomini e delle epoche, che scorrono più rapidi o più lenti sui binari del progresso. A questa concezione corrisponde l’incoerenza, l’imprecisione e la mancanza di rigore delle pretese che essa avanza nei confronti del presente. Invece queste nostre considerazioni fanno riferimento a uno stato determinato, in cui la storia riposa come raccolta in un punto focale, come da sempre nelle immagini utopiche dei pensatori5.

L’immagine della storia che Benjamin ci presenta è quella di un tempo compiuto e raccolto in un’illuminazione momentanea, il tempo che chiamerà non molto più tardi Jetztzeit6, l’“adesso”, in cui si coglie nell’immanenza del presente l’immagine (catturata dal passato) dello stato della perfezione morale, della redenzione che ci sarà con l’arrivo del Messia7 alla fine della storia. Questo tempo messianico è esibito in immagini di pensiero utopiche8, cioè nella rappresentazione di pensatori e filosofi dell’idea metafisica di una nuova realtà politica, etica e conoscitiva perfetta attuabile nel futuro. Alla concezione del tempo messianico si oppone la concezione fisico-matematica di un tempo vuoto infinito come luogo degli accadimenti fisici, che è il  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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modello della storia come progresso infinito. Un’esemplificazione della contrapposizione tra le due visioni la dà uno scritto benjaminiano del 1916, Trauerspiel e tragedia9: Il tempo della storia è infinito in ogni direzione, e incompiuto (unerfüllt) in ogni attimo. Vale a dire che non è pensabile nessun singolo evento empirico che abbia un rapporto necessario con la situazione cronologica determinata in cui accade. Per l’accadere empirico il tempo è solo una forma, ma – ciò che è più importante – una forma in quanto tale non colma (unerfüllt). L’accadimento non adempie (nicht erfüllt) alla natura formale del tempo in cui ha luogo. Poiché non si deve affatto pensare che il tempo non sia altro che il metro con cui si misura la durata di un cambiamento meccanico. Questo tempo è certo una forma relativamente vuota, che non ha senso pensare ricolma. Ma il tempo della storia è diverso da quello della meccanica. […] la forza determinante della forma temporale della storia non può essere interamente compresa da alcun accadimento empirico, e non può essere interamente raccolta in alcuno. Un accadere siffatto, che sia perfetto (vollkommen) nel senso della storia, è invece del tutto indeterminato sul piano empirico – ossia è un’idea. Questa idea del tempo compiuto (erfüllt) è l’idea storica che domina nella Bibbia, dove ha nome: tempo messianico. […] Il tempo tragico sta al tempo messianico come il tempo compiuto dell’individuo sta al tempo compiuto da Dio10.

Benjamin, seguendo la dottrina ebraico-cabbalistica della “frantumazione dei vasi”, del recupero dei frammenti e della loro ricomposizione messianica (Tikkun), di cui forse era a conoscenza grazie alle sue conversazioni con Gershom Scholem, appena conosciuto nel luglio del 191511, o conosceva già da altre fonti, concepisce lo stato della perfezione morale e della giustizia come stato finale. Questo si presenta nella realtà in frammenti immanenti spesso denigrati, in opere artistiche e riflessioni filosofiche, che possono essere resi visibili per quello che sono e “salvati” – per la ricomposizione in un futuro di ripristino dello stato perfetto del mondo – solo con un lavoro storico e critico di recupero e esibizione simbolica che li ponga in riferimento “in modo puro”12 alla struttura metafisica dello stato finale stesso, ne faccia cioè un assoluto in quanto concetti puri che recuperano e rappresentano nell’immanenza un’immagine passata dello stato finale come idea metafisica: Gli elementi dello stato finale non sono tendenze informi di progresso, né sono chiaramente visibili; sono, al contrario, creazioni e pensieri sommamente minacciati, malfamati e derisi, che giacciono nel grembo profondo di ogni presente. Il compito storico (geschichtliche Aufgabe) è quello di dare in modo puro la forma dell’assoluto allo stato immanente della perfezio-

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4. Storia messianica e comunità scientifica ne, di renderlo visibile e sovrano nel presente. Ma non è possibile determinare questo stato ricorrendo a una descrizione prammatica di fenomeni particolari (istituzioni, costumi, ecc.)13 alle quali anzi si sottrae; può essere soltanto colto nella sua struttura metafisica, come il regno messianico o l’idea della rivoluzione francese14.

Benjamin porta come esempi della struttura metafisica dello stato della perfezione l’immagine del regno messianico e l’idea della rivoluzione francese (idea che si ripresenterà nel 1940 nelle tesi Sul concetto di storia15) istituendo un parallelo tra loro e individuando un loro comune denominatore nell’idea di giustizia come estrema realizzazione dell’idea kantiana di libertà. Si ripropone qui l’ipotesi, cui si è già accennato nelle pagine precedenti, di un’influenza su Benjamin del messianesimo di Hermann Cohen16, anche se il concetto di “compito infinito” nel pensiero neokantiano sarà criticato dal primo nelle tesi Sul concetto di storia17. Per Cohen (e per la tradizione biblico-talmudica che egli segue), la giustizia è uguale alla santità, cioè alla realizzazione della moralità, ed è l’attributo del Messia: [La giustizia è] la seconda virtù di primo grado. Tra gli attributi di Dio viene per prima. «Giusto è l’Eterno in tutte le sue vie e pieno di amore per tutte le sue azioni […] la tua giustizia è giustizia eterna [Sal 119,137. 142.]» La giustizia è uguale alla santità18. «E il Dio santo venne santificato con giustizia [Is 5,16].» La giustizia è l’attributo del Messia. «E sarà giustizia la fascia dei suoi lombi [Is 11,5].» La cessazione delle guerre è il segno distintivo negativo dell’età messianica, quello positivo è però, anche nel senso soggettivo dell’impararla e dell’abituarsi ad essa, la giustizia. «Essi non impareranno la guerra [Mic 4,3].» Positivamente significa: «Giustizia imparano gli abitanti della terra [Is 26,10].» La giustizia diviene così il segno distintivo dell’età messianica19.

Il Messia ha significato per Cohen in quanto idea metafisica e morale, ideale proiettato nella dimensione del futuro della storia (e non in una vita ultraterrena) di fronte a cui scompare l’esistenza individuale degli uomini: 29. Il futuro messianico è la prima espressione cosciente dell’opposizione alla concezione della sensibilità empirica dei valori morali. Esso può essere pertanto semplicemente designato come l’ideale, in opposizione alla realtà effettiva […] il nuovo di un futuro. Tale novità trova attuazione nel sorgere dell’ideale rispetto a tutta la realtà effettiva. Il mito [dell’età dell’oro] è ovunque l’aurora della cultura, ma il giorno solare20 della moralità in esso non irrompe ancora.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 30. L’idealità del Messia, il suo significato in quanto idea, rende testimonianza di sé nel superamento della persona del Messia e nella dissoluzione dell’immagine sensibile nel puro pensiero del tempo, nel concetto dell’età. Il tempo diviene futuro e soltanto futuro. Passato e presente sprofondano in questo tempo del futuro. Tale ritrarsi nel tempo è la più pura idealizzazione. Ogni esistenza scompare davanti a questo punto di vista dell’idea. L’esistenza degli uomini si supera in questo essere del futuro. Così sorge per la vita degli uomini e dei popoli la nozione della storia. Tale nozione della storia, che ha per contenuto il futuro, i Greci non l’ebbero mai. […] L’umanità non è vissuta in alcun passato né è diventata viva in alcun presente; solo il futuro può far emergere la sua figura luminosa. Tale figura però è un’idea, non l’ombra di un aldilà21.

In Cohen, e questo è il fondamento della critica di Benjamin in Sul concetto di storia, ma anche già qui ne La vita degli studenti, alla concezione del socialismo neokantiano e alla sua idea di progresso infinito (ma non direttamente a Cohen), la visione messianica è quella di uno sviluppo infinito cui deve contribuire l’uomo (perché il Creatore non basta) e di un progresso verso l’idea dell’umanità che si contrappone comunque a una concezione escatologica della storia, poiché vuole la perfezione in un futuro terreno22: 31. Sotto il potere di tale idea anche l’essere di Dio diviene un altro. Il creatore del cielo e della terra non basta per questo essere del futuro. Egli deve creare «un nuovo cielo e una nuova terra» [Is 65,17]. Anche per la natura l’essere della storia fino ad adesso è insufficiente; per il corso delle cose si esige sviluppo. E lo sviluppo presuppone una meta cui esso tende. Così nella storia del genere umano si esige il progresso. Questo è il senso del futuro in quanto fondazione dell’essere vero, dell’essere divino sulla terra: il futuro, questa idea dell’essere, rappresenta l’ideale della storia. Niente età dell’oro né paradiso. Entrambi sono già stati. Rispetto a tutti questi miti del passato, il futuro apporta un’altra modifica al «giorno del Signore»: questo diventa «la fine dei giorni». Con questo prospetto, in questa prospettiva della piana infinita dell’umanità23, il concetto dell’uomo si innalza a quello dell’umanità, così come il concetto di Dio a quello di «Signore della terra intera»24.

Dunque il messianesimo è creato secondo Cohen da una concezione della storia, quella dei Profeti, che non guarda al passato delle origini della cultura greca, né al mondo dell’aldilà dei cristiani, ma al mondo reale che si deve confrontare con l’idea etico-religiosa di umanità (idea prodotta dal messianesimo profetico): «Il messianismo va considerato come una creazione di idee prodotta dal concetto profeti www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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4. Storia messianica e comunità scientifica

co di storia. Il concetto di storia è una creazione del profetismo»25. La storia per Cohen è la dimensione del futuro in cui ogni individuo, elevandosi con la sua autonomia morale al livello dell’umanità, si immette diventando membro dell’umanità che percorre la strada della santità. La questione dell’influenza del pensiero messianico di Cohen su Benjamin rimane un problema, ma alle differenze tra i due autori si aggiungono, oltre al grande rispetto del secondo per il primo, innegabili affinità26. Si può vedere come nella Religion der Vernunft Cohen, oltre a ribadire, contro la visione cristiana del regno di Dio come concetto escatologico (egli lascia da parte la questione se la richiesta del “Padre nostro” “venga il tuo regno” si riferisca al regno dei cieli dell’aldilà, o riguardi anche la produzione del mondo morale storico), il fatto che la «fiducia nel regno di Dio è rivolta espressamente ai giorni terreni e ai giorni storici del popolo, e dunque, in senso messianico, ai giorni dell’umanità»27, veda nel dovere dell’adorazione di Dio (quindi della preghiera e del seguire i precetti, come preparazione perché l’uomo possa prendere su di sé il giogo del regno di Dio) il momento in cui il futuro messianico si fa reale e presente, e non spinto in una dimensione infinita: [Il dovere dell’adorazione di Dio] non attende il futuro, ma riempie la mia intera vita e ogni momento della mia esistenza. Così devono stare le cose anche riguardo al futuro messianico. […] Per il mio culto personale il regno di Dio non può essere soltanto futuro, ma deve essere costantemente presente. […] Io non attendo dunque che il regno di Dio venga e non prego soltanto che esso appaia, ma lo produco con la mia preparazione [kawwanà] e la mia volontà. Il regno di Dio diviene così un presente e una realtà effettiva personale per la mia coscienza del dovere, e questo è di più che se rimanesse soltanto un oggetto della speranza e della fiducia. Questa trasformazione del futuro messianico in una realtà effettiva e in un presente potè diventare possibile solamente ferma restando la distinzione; una distinzione che, nonostante ogni collegamento, rimase sempre viva nella coscienza ebraica, soprattutto poiché venne conservata attraverso la resurrezione28.

Come si è già visto, nel 1940, in Sul concetto di storia (tesi XVIIa), Benjamin parla di un “compito del tutto nuovo” e diverso dal compito infinito neokantiano, rivolto al recupero di un passato minacciato dall’oblio e riattualizzato nell’attimo della chance rivoluzionaria, recupero legato alla prassi, all’azione politica rivoluzionaria anche distruttiva: In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come una chance spe-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung cifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito (Aufgabe) del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi (Schlüsselgewalt)29 che un attimo (Augenblick) possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica30.

Tuttavia anche in Cohen, come si è già visto, l’attimo ha un’importanza fondamentale per l’individuo31, che nell’attimo entra in rapporto con l’origine e si immette nella storia messianica dell’umanità. Il messianesimo non è per lui una dimensione di attesa, ma è una forza politica di trasformazione dell’oggi: in questo senso Cohen cita nella conferenza Die Messiaidee (1892) il passo talmudico dove si dice che il Messia viene oggi, purché si ascolti la sua voce (Sanh. 98a)32. La concezione coheniana dell’etica è legata al rapporto fondamentale tra storia e eternità, dove quest’ultima, in quanto incondizionato «punto prospettico (Blickpunkt) per il tendere in avanti, senza requie né fine, della volontà pura»33 fornisce la condizione e il criterio di orientamento ideale e immanente per il compito etico, la cui infinità sarà familiare a Benjamin ancora nel 1917-18 e oltre, come si vedrà più avanti34: «A ogni singolo livello appartiene il punto infinitamente lontano cui esso è riferito secondo il suo concetto. Questo punto infinitamente lontano costituisce l’eternità per ogni punto finito. Occorre che essi siano presi insieme se si vuole capire che l’eternità significa la realtà effettiva della moralità»35. Certo il socialismo di Cohen non poteva bastare a Benjamin nel 1940, dopo la svolta marxista del 1926 (che rimaneva però all’interno di una concezione anarchico-rivoluzionaria) e di fronte alla necessità di combattere il nazifascismo. Nel 1914-15, nel momento in cui la sua visione è politica è già anarchica e nichilistica36, il suo sforzo è rivolto a un presente che deve simbolizzare un passato da ripristinare, ma anche un nuovo mondo utopico da costruire nel futuro. Benjamin concepisce nel 1914-15 la storia non come luogo di un progresso infinito (un tipo diverso di infinità è presente nella sua concezione della religione) ma come luogo presente (Gegenwart)37 della salvezza redentiva e riattualizzazione simbolica38, nel pensiero scientifico, nell’azione etica e nella produzione artistica degli studenti, dei frammenti passati e presenti di uno stato perfetto della giustizia che rinvia a un futuro utopico di ripristino e insieme di rinnovamento metafisico39. A rappresentare simbolicamente l’idea metafisica della  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

4. Storia messianica e comunità scientifica

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giustizia Benjamin chiama gli studenti nella loro vita scientifica e pratica, che è esistenza umana condizionata e sofferente (frammento malfamato) e insieme sforzo verso l’idea e esperienza di essa: Il significato storico attuale degli studenti e dell’università, la forma della loro esistenza (Dasein) nel presente, meritano dunque di essere descritti solo se sono intesi come metafora (Gleichnis), come mimesi (Abbild) di uno stadio della storia supremo e metafisico. Solo così sono comprensibili e possibili. Tale descrizione […] indica la crisi che è insita nell’essenza stessa delle cose e porta a quella decisione (Entscheidung) a cui i vili soccombono e i coraggiosi volontariamente si assoggettano40.

Si ripresenta qui il tema della decisione, del compito dell’assoggettamento all’idea che studenti e università devono porsi per poter rappresentare lo stato finale della giustizia e della libertà nella loro esistenza teoretica e pratica. Appaiono però anche i concetti fondamentali per Kant, per il criticismo e per Cohen, di sistema e di critica: L’unico modo di trattare della posizione storica41 degli studenti e dell’università è il sistema. Finché mancano certe condizioni della sua possibilità, non rimane altra alternativa che quella di liberare il futuro dalla forma falsa e guasta che lo imprigiona nel presente, conoscendo (erkennend). A questo soltanto serve la critica42.

La “critica” è qui il luogo di preparazione del sistema filosofico, si presenta come ricerca, sulle tracce di Kant, delle possibilità e dei limiti in genere della ragion pura come facoltà della conoscenza a partire da principi a priori nel suo uso teoretico e pratico. Soltanto in riferimento a un sistema dei principi della ragion pura si può definire il ruolo storico degli studenti come simbolo di uno stato perfetto originario di giustizia da ripristinare nel futuro, cioè soltanto in presenza di una determinazione di tutti i principi a priori della conoscenza, dell’etica e dell’estetica la vita degli studenti come esistenza simbolica può avere un punto di riferimento trascendentale cui adeguarsi. Al sistema, che ancora non si può dare, forse perché ancora manca il lavoro preparatorio, deve precedere l’analisi dei principi a priori della conoscenza, dell’etica e dell’estetica (per essa in Kant si dà solo un principio soggettivo), il lavoro critico. Questo deve partire dalla vita attuale degli studenti, per liberare il suo futuro attraverso la conoscenza, cioè per risalire alle condizioni a priori cui la vita deve riferirsi. Kant definisce la filosofia trascendentale e indica la differenza tra critica e sistema nell’Introduzione alla Critica della ragion pura:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung La filosofia trascendentale è l’idea d’una scienza, di cui la critica della ragion pura deve a r c h i t e t t o n i c a m e n t e , cioè per princìpi, abbozzare il disegno intero, con piena garanzia di solidità e sicurezza di tutte le parti che compongono un tale edificio. Essa è il sistema di tutti i princìpi della ragion pura. Se questa critica non si chiama essa stessa filosofia trascendentale, la ragione è che, per essere un sistema completo, dovrebbe contenere altresì un’analisi compiuta di tutta la conoscenza umana a priori. Ora la nostra critica deve bensì mettere sott’occhio l’enumerazione completa di tutti i concetti fondamentali (Stammbegriffe) che costituiscono la suddetta conoscenza pura: ma dall’analisi particolareggiata di questi concetti, e dalla rassegna completa di tutti quelli che ne derivano, è bene che si astenga43.

Per Kant il sistema completo di tutta la conoscenza umana a priori, la filosofia trascendentale (a rigore la filosofia della ragion pura semplicemente speculativa44), è già possibile, ma non è necessario ancora determinarlo in tutti suoi particolari in sede di critica, cioè di ricerca della possibilità e dei limiti della ragion pura come facoltà della conoscenza a partire da principi a priori. L’arte del sistema è per Kant l’architettonica45. Per sistema egli intende «l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea. Questo è il concetto razionale della forma di un tutto, in quanto per mezzo di esso l’ambito del molteplice, nonché il posto delle parti tra loro, viene determinato a priori. Il concetto razionale scientifico contiene dunque il fine e la forma del tutto ad esso corrispondente»46 ed essendo la filosofia, come sistema di ogni conoscenza filosofica, la «scienza della relazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana (teleologia rationis humanae)» bisogna determinare «quale unità sistematica, dal punto di vista dei fini, la filosofia prescrive secondo questo concetto cosmico»47. Il sistema della filosofia è costituito da due sistemi separati e poi unificati, legati all’uso teoretico e all’uso pratico della ragion pura: Ora, la legislazione della ragione umana (filosofia) ha due oggetti, la natura e la libertà, e abbraccia, quindi, tanto la legge naturale, quanto anche la legge morale, da prima in due separati, ma da ultimo in un unico sistema filosofico. […] Ora la filosofia pura o è p r o p e d e u t i c a (esercitazione preliminare), la quale studia la facoltà della ragione rispetto a ogni conoscenza pura a priori, e dicesi c r i t i c a ; o, in secondo luogo, sistema della ragion pura (scienza), l’intera conoscenza filosofica (sia vera, sia apparente) derivante dalla ragion pura nella connessione sistematica, e dicesi m e t a f i s i c a ; quantunque questo nome possa anche darsi a tutta la filosofia della ragion pura, compresa la critica, per raccogliere così tutta insieme la ricerca di quanto può essere conosciuto a priori, nonché anche

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4. Storia messianica e comunità scientifica l’esposizione di quel che costituisce un sistema di conoscenze filosofiche pure di questa specie, ma che è distinto da ogni uso empirico come dall’uso matematico della ragione. La metafisica si divide in metafisica dell’uso s p e c u l a t i v o e metafisica dell’uso p r a t i c o della ragion pura, ed è quindi o m e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a , o m e t a f i s i c a d e i c o s t u m i . La prima abbraccia tutti i princìpi razionali puri derivanti dai semplici concetti (quindi con esclusione della matematica) della conoscenza t e o r e t i c a di tutte le cose; la seconda i princìpi, che determinano a priori e rendono necessario il f a r e o i l n o n f a r e . […] la metafisica dei costumi è propriamente la morale pura […]. La metafisica della ragione speculativa, è ciò che si vuol dire in s e n s o s t r e t t o metafisica; ma in quanto la morale pura appartiene a un ramo a parte della conoscenza umana e filosofica derivante dalla ragion pura, noi le vogliamo mantenere questa denominazione […]48.

Per Kant ogni «conoscenza a priori, […] in virtù della speciale facoltà conoscitiva in cui essa può avere soltanto sua sede, costituisce una speciale unità, e la metafisica è quella filosofia che deve esporre codesta conoscenza in tale unità sistematica»49, come metafisica della natura e metafisica dei costumi. La metafisica dellla natura e la metafisica dei costumi «costituiscono da sole […] [la] filosofia […] [la quale] riferisce tutto alla saggezza, ma per la via della scienza» e quindi la «metafisica è il complemento di ogni c u l t u r a della ragione umana» poiché «considera la ragione nei suoi elementi e nelle sue massime supreme, che devono essere, a loro volta, a fondamento della p o s s i b i l i t à di alcune scienze e dell’uso di tutte»50. Il concetto di unità sistematica è per Kant un concetto fondamentale della ragione, e istituisce un compito che la ragione dà a se stessa anche se non può mai arrivare a soluzione, quello di guidare l’intelletto tramite idee nel loro uso regolativo per il raggiungimento di un ordine unitario delle leggi empiriche particolari dell’esperienza, così come essa determina un sistema dei fini dell’agire per il suo uso pratico51. Nella terza Critica Kant individua un principio a priori, anche se soggettivo, per l’unità sistematica della natura nelle sue leggi empiriche: esso è il principio trascendentale della conformità della natura a scopi che la facoltà riflettente di giudizio dà a se stessa (e non attribuisce alla natura) per indagare la natura stessa nelle sue molteplici leggi particolari52. Nella Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio Kant dichiara che la critica della ragion pura consiste di tre parti: «la critica dell’intelletto puro, della facoltà di giudizio pura e della ragione pura, le quali facoltà sono dette pure perché sono legislative a priori»53. La critica delle facoltà conoscitive, che ricerca «se e come […] sia possibile per loro mezzo una dottrina»54, le riferisce all’insieme delle facoltà dell’animo  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

(facoltà conoscitiva, sentimento di piacere e dispiacere, facoltà di desiderare) per le quali le facoltà conoscitive dell’intelletto, della facoltà di giudizio e della ragione contengono rispettivamente i principi costitutivi a priori (conformità a leggi, conformità a scopi e scopo finale) applicati ai domìni della natura, dell’arte e della libertà. L’arte non è però propriamente un dominio, poiché la facoltà conoscitiva ha soltanto due domìni in cui è legislativa apriori, il dominio dei concetti della natura e quello del concetto della libertà, quindi la filosofia si divide soltanto in teoretica e pratica, anche se la facoltà di giudizio, pur non avendo un dominio, può avere «un qualche territorio»55, il territorio dell’esperienza56. Queste facoltà, che sono considerate superiori in quanto contengono un’autonomia, hanno un’«unità sistematica»57 data dal ruolo mediatore della facoltà di giudizio: L’effetto secondo il concetto della libertà è lo scopo finale, il quale (o il suo fenomeno nel mondo sensibile) deve esistere e per il quale è presupposta la condizione di possibilità nella natura (del soggetto come essere sensibile, cioè come uomo). Ciò che presuppone a priori tale condizione e senza riguardo al pratico, la facoltà di giudizio, mette a disposizione con il concetto di una conformità della natura a scopi il concetto che fa da mediatore tra i concetti della natura e il concetto della libertà e che rende possibile il passaggio dalla ragione teoretica pura a quella pura pratica, dalla conformità a leggi secondo i concetti della natura allo scopo finale secondo il concetto della libertà; ché in tal modo viene riconosciuta la possibilità dello scopo finale, che può diventare effettivo solo nella natura e in accordo con le sue leggi . […] La facoltà di giudizio, mediante il suo principio a priori per giudicare la natura nelle sue possibili leggi particolari, fornisce […] [al] sostrato soprasensibile (così in noi, come fuori di noi) una determinabilità mediante la facoltà intellett u a l e . Ma la ragione dà appunto ad esso la d e t e r m i n a z i o n e mediante le sue leggi pratiche a priori; e così la facoltà di giudizio rende possibile il passaggio dal dominio del concetto della natura a quello del concetto di libertà58.

Il concetto della facoltà di giudizio, che è alla base dell’«unità del soprasensibile che sta a fondamento della natura con quello che il concetto di libertà contiene praticamente»59, non giunge nel suo uso riflettente «né teoreticamente né praticamente a una conoscenza, e perciò non ha alcun dominio proprio, rende tuttavia possibile il passaggio dal modo di pensare secondo i principi della natura al modo di pensare secondo i principi della libertà»60. Per la facoltà del giudizio non vi è una parte dottrinale speciale poiché esso ha un principio a priori «per  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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4. Storia messianica e comunità scientifica

ricercare leggi»61 semplicemente soggettivo, e non ha un dominio in cui i suoi concetti siano legislativi, perciò «a questo riguardo è la critica che serve, in luogo della teoria […] [e] secondo la divisione della filosofia in teoretica e pratica, e della filosofia pura proprio in queste due parti, costituiranno [il compito dottrinale] […] la metafisica della natura e la metafisica dei costumi»62. Il sistema della filosofia è composto dunque solo da due parti, ma le facoltà dell’animo e le facoltà conoscitive con i loro principi costituivi a priori sono tre, e la critica della ragion pura, che le pone nei confini della loro legittimità, consiste di tre parti, quindi si può parlare, per le facoltà dell’animo, di sistema tripartito o, secondo le parole di Kant, di tricotomia63. Per Cohen la critica si riferisce per ogni ambito del sistema, che si articola in una Logica della conoscenza pura (1902), in una Etica del volere puro (1904) e in una Estetica del sentimento puro (1912), ad un “fatto” (Faktum) scientifico da cui l’analisi deve partire per trovare le condizioni della sua possibilità. Il concetto coheniano di critica o di metodo trascendentale64, che si precisa a partire dalla seconda edizione di Kants Theorie der Erfahrung (1885)65, e si fonda sulla riaffermazione e trasformazione del metodo trascendentale kantiano, è il concetto fondamentale del criticismo di Cohen, che preferisce, a partire da Das Prinzip der infinitesimale Methode und seine Geschichte (1883)66, definire la filosofia “critica della conoscenza (Erkenntniskritik)” piuttosto che “teoria della conoscenza (Erkenntnistheorie)”, perché pensa che in quest’ultima espressione la conoscenza potrebbe essere vista come un processo psicologico. In Cohen la filosofia critica parte dal “fatto” della scienza della natura67, con cui identifica l’oggetto della filosofia, l’esperienza, per individuare le condizioni a priori della sua possibilità. Per lui «la filosofia critica ha valore di scienza, perché è indagine trascendentale sulle condizioni della possibilità della natura come oggetto della scienza, e perché […] scopre che tra i principi della scienza sono compresi anche principi filosofici. […] [Tale individuazione è] il frutto di una critica della scienza come “fatto”: i principi filosofici […] possono essere […] sempre solo trovati e determinati come “condizioni” per mezzo di una deduzione trascendentale»68. Se la scienza della natura è il Faktum da cui parte la logica, essa pone però alla base della conoscenza, come suo “compito” ideale e infinito, l’idea dell’“ipotesi” scientifica, da cui si parte per l’indagine dei concetti puri della conoscenza e del loro sistema. Cohen elimina il rapporto con il dato sensibile e introduce un rapporto più profondo tra idee e categorie, facendo rientrare le forme spazio-temporali nell’ambito della logi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ca e attribuendo la fondazione del pensiero e della conoscenza alla logica dell’origine sviluppata dall’idea dell’ipotesi69: egli considera l’idea l’«autocoscienza del concetto […] [che] dà la giustificazione del concetto»70 e istituisce il compito della costituzione del sistema dei concetti, che resta aperto e mai concluso. Oltre all’idea dell’ipotesi per l’indagine sistematica della scienza della natura, Cohen individua le idee di libertà e di finalità come compiti per gli ambiti etico ed estetico. Queste si rivolgono rispettivamente ai “fatti” scientifici del diritto e dell’arte per l’indagine sulla loro condizione di possibilità: «Se l’estetica del sentimento puro è così posta accanto alla logica del pensiero puro e all’etica del volere puro nel sistema dell’idealismo critico, essa è pure accumunata alla logica e all’etica nel riferimento idealistico all’idea come compito. L’idea regolativa di fine che, come idea del sistema, costituisce il compito della logica e, come idea della libertà, costituisce il compito dell’etica, come idea della finalità (Zweckmässigkeit) estetica, pone all’arte un compito ideale»71. Il sistema della filosofia di Cohen è tripartito, e alla sua base deve essere pensata un’unità metodologica che ha a suo fondamento la logica e l’idea dell’ipotesi, che, come fondazione pura del pensiero e della conoscenza, viene sviluppata nella logica dell’origine: «L’unitarietà del sistema esige un centro nel fondamento della logica. Questo centro metodico è costituito dall’idea dell’ipotesi, che abbiamo sviluppato nel giudizio e nella logica dell’origine (zum Urteil und zur Logik des Ursprungs)»72. L’unità dell’uomo e quindi del sistema ha per Cohen come fondamento metodologico la logica, ma è affidata, in quanto «ideale del suo compimento»73, a un quarto membro del sistema, a una “psicologia sistematica” che Cohen non arriverà mai a comporre, e che doveva presentare le tre parti del sistema come tre direzioni della coscienza della cultura74. Ciò che dà unitarietà al sistema, mantenendone i membri comunque separati e non unificati in un’idea ad essi superiore, è il metodo trascendentale o metodo della purezza, che come metodo della fondazione di ogni ambito sistematico attraverso il concetto di ipotesi, costitusce per ogni ambito la possibilità di produrre leggi (come Form der Gesetzmäßigkeit) in riferimento critico ad un Faktum scientifico, metodo che è fondato dalla logica e dai suoi concetti di purezza (poiché non vi è riferimento a un dato sensibile), origine, ipotesi, legge, ecc., e si pone come unità sistematica della ragione75, come quella “verità” sulla quale si fondano logica ed etica e il loro rapporto76. Insieme al metodo trascendentale e nel suo ambito, dà unità al sistema (e costituisce la possibilità della verità come unità sistematica)  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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4. Storia messianica e comunità scientifica

il riferimento di ogni membro del sistema stesso a un’idea-limite come compito: «Se l’“essere vero” della legge costituisce il fondamento dell’essere dell’esistente, il dover essere dell’idea etica costituisce il limite dell’essere, e solo nel compito infinito dell’unità della logica e dell’etica consiste la verità»77. In Benjamin, che in qualche modo segue Cohen e il suo metodo della purezza o metodo trascendentale, la critica deve compiere un’indagine intorno ai concetti puri che rendono conoscibile e fondano la vita scientifica, etica ed estetica degli studenti universitari partendo dalla loro vita presente (risalendo alle sue condizioni di possibilità), deve «liberare il futuro dalla forma falsa e guasta che lo imprigiona nel presente, conoscendo»78, e riconoscere rappresentati in questi concetti le idee (dell’ipotesi scientifica, di libertà e di finalità) che originano i concetti e guidano questi diversi ambiti e l’idea che è alla base dell’unità della vita studentesca come unità (interna) della coscienza79 e unità del sistema futuro della filosofia, l’idea della scienza80: Alla vita degli studenti si accosta il problema della sua unità cosciente. Questa domanda è preliminare, poiché non giova distinguere, nella vita degli studenti, problemi diversi – scienza, stato, virtù – se le manca il coraggio di assoggettarsi in generale. Di fatto, ciò che contraddistingue la vita studentesca è la riluttanza ad assoggettarsi a un principio, a permearsi dell’idea. […] Misurare la vita studentesca all’idea della scienza non significa affatto panlogismo, intellettualismo […], ma è critica legittima, poiché la scienza è il principale, ferreo baluardo eretto dagli studenti contro pretese «estranee». Dunque si tratta di unità interna, non di una critica dall’esterno81.

L’idea della scienza è l’idea dell’unità del sistema filosofico che comprende tutte le scienze (fisico-matematiche, scienza del diritto e dello stato, delle virtù, ecc.) nei loro principi puri, ed è il fondamento dell’autonomia del sistema da pretese estranee, empiriche o coercitive82. La scienza come unità del sistema che ancora non c’è, come idea, deve essere assunta come compito dagli studenti nella loro vita ed esperienza intellettuale, etica ed estetica, per la quale si può e deve porre il problema dell’unità solo in quanto unità della coscienza (quindi della vita culturale, e non ancora del sistema nei suoi principi). Il concetto di vita coincide in Benjamin con il concetto di esperienza come luogo esperito della totalità delle dimensioni spirituali e materiali dell’uomo condizionato, e si costituisce avendo come modello il concetto nietzschiano di vita (che ha il suo centro nel modello greco  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di moralità)83 che già nello Zarathustra Benjamin vedeva contrapposto e insieme assoggettato all’idea84. Alla vita egli contrappone come modello regolativo l’idea metafisica propria della filosofia critica, che guida l’intelletto nell’indagine sistematica della natura e la volontà nell’azione. La vita deve essere un’attualizzazione condizionata, umana, simbolica, dell’idea. L’idea della scienza come unità che deve guidare la vita studentesca (che deve assoggettarvisi) nella direzione di un sistema di principi puri, è fondata sull’idea, che deve molto alla filosofia teoretica e pratica di Cohen ed è a fondamento del suo antiontologismo e antiescatologismo etico85, dell’autonomia rispetto a pretese estranee e all’empiria e quindi della libertà, che diventa il compito principale dell’esperienza intellettuale (spirituale) degli studenti e futuri insegnanti: «Poiché la scienza per sua natura non ammette il minimo distacco (Lösung) da sé, impegna totalmente il ricercatore che in certo modo deve sempre insegnare»86, trasmettere alle generazioni future questa conoscenza. La vita non deve essere negata dall’idea, ma anzi essere la sua concretizzazione, la sua esibizione: «la tolleranza delle idee e delle teorie più libere non giova, finché non è concessa la vita che esse comportano»87. Benjamin critica aspramente il rapporto tra università e Stato, che impedisce l’autonomia della prima e nell’intesa tra autorità accademica e organi statali tende a esautorare l’indipendenza intellettuale degli studenti e a formare esclusivamente funzionari e professionisti. Egli vede il «compito» enorme e rivoluzionario degli studenti nel «fondare una comunità di uomini conoscenti, al posto della corporazione di funzionari e laureati»88, dove scienza e libertà siano le idee fondanti della loro esistenza e della loro azione nella sostituzione del ricercatore al professionista, nel ritorno delle scienze a quella «idea del sapere in cui hanno la loro origine una e comune»89 e che «nelle scienze attuali […] [a causa dello sviluppo] del loro apparato professionale […] è diventata per loro un mistero, se non addirittura una finzione»90. Benjamin vede nella vita studentesca l’accettazione passiva e acritica dello stato dell’università, dove c’è una intesa diretta tra autorità accademiche e Stato con l’esclusione degli studenti (e a volte dei professori). L’unica possibilità di salvezza consiste per lui nella costituzione di un «comunità capace di porre il problema della vita scientifica in genere»91, cioè nell’attività scientifica di una comunità scientifica universitaria che si pone il compito critico di avvicinarsi all’idea sistematica della scienza (il compito cioè di risalire al fondamento trascendentale, alle condizioni di possibilità della vita scientifica) e ne riconosce i germi in se stessa  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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4. Storia messianica e comunità scientifica

e nei propri sforzi di fondazione. Per creare una comunità e quindi un luogo per la vita scientifica è indispensabile «lo spirito della totalità»92, cioè che si impegni la natura intera e indivisa del singolo, gli «impulsi originari e non deviati dell’uomo interiore»93: «C’è un criterio molto semplice e sicuro per verificare il valore spirituale di una comunità. La domanda: trova la totalità di colui che opera la sua espressione in essa, impegna la comunità l’uomo intero, l’uomo tutto è per essa indispensabile? […] Tutti coloro che operano tendono alla totalità, e il valore di ogni azione sta appunto in essa, ossia nel fatto che vi si esprima la natura intera e indivisa del singolo. […] [»]94.

Questa comunità, come comunità scientifica ed etica e luogo d’espressione della totalità della natura umana per ogni individuo, come coscienza unitaria articolata nelle direzioni della logica, dell’etica e dell’estetica (che si rispecchierà puramente nel sistema unitario futuro della filosofia), deve fondarsi sul rapporto inverso rispetto all’attuale rapporto tra studenti e professori, che – pur dovendo questi ultimi per la loro professione avere un «legame interno con le lotte spirituali, con lo scetticismo95 e il criticismo (Kritizismus) degli studenti» – porta i professori a una «generalità spesso astratta», il contrario del «legame interno e originario»96 che potrebbero avere con gli studenti. C’è qui forse un accenno ai professori Rickert, Cassirer97, Erdmann98, e forse anche a Cohen: la loro generalità astratta potrebbe essere ascritta alla loro concezione del criticismo, più astratto del Kritizismus degli studenti, che pur avendo una origine, anche in Benjamin, neokantiana, ha in lui una parvenza di maggiore radicalità, e una maggiore vicinanza alla realtà esistenziale dell’uomo e all’unità delle sue facoltà, cui l’avvicinava anche la recezione di Kierkegaard e le sue nozioni di autenticità, serietà e interiorità. È quel Kritizismus che individua la meta ideale nella fondazione del sistema, nella sua articolazione tricotomica – che deve molto a Cohen – in logica, etica ed estetica, ma che insieme affronta questo compito con una grande attenzione nei riguardi della concretezza esistenziale dell’uomo e del problema della realizzabilità dell’ideale nella natura, nei riguardi cioè della vita (che come esistenza critica e spirituale deve risalire ai suoi principi filosofici), senza però rinunciare alla visione dell’unità e della totalità dell’uomo stesso, che riconosce nell’idea di unità della scienza il suo ideale. La critica di Benjamin si rivolge soprattutto alle idee delle comunità sociali attuali, delle organizzazioni dei Liberi studenti, che hanno un’«idea caotica […] della vita scientifica»99, cioè del lavoro critico.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Egli vede nel lavoro sociale100 degli studenti un dovere astratto101, un dovere estraneo a «un atteggiamento morale (Gesinnung) comunque legato con la propria vita intellettuale (mit dem eigenen geistigen Leben)»102. Benjamin non vede nel lavoro sociale «il potenziamento etico della vita intellettuale, […] [ma] una reazione di paura»103 di chi è incapace di «vita sintetica», cioè di quella fondazione sistematica concettuale e ideale della totalità della coscienza umana e di quella mediazione concreta tra conoscenza della natura ed etica resa possibile dalla religione (e dall’amore) che permettono il «rinnovamento del concetto e della valutazione del lavoro sociale in genere»104 per il tramite di una comunità che esprime la «totalità del soggetto volente (Totalität des Wollenden)»105. Il concetto di vita intellettuale o più esattamente spirituale coincide con quel concetto di esperienza che Benjamin aveva già presente nei suoi primi scritti: essa è la «vita spirituale creativa» che «l’arte esige»106, cui si giunge «con la sofferenza tollerata per amore della verità ideata (im Leiden für erdachte Wahrheit)»107 e che ha una sua «pericolosità»108, è quell’«esistenza spirituale critica (geistige kritische Dasein)»109 che deve rappresentare – attraverso gli studenti e la comunità scientifica ed etica che essi devono costituire, ma anche attraverso la loro creazione artistica – l’idea del regno messianico e la premessa per il sistema futuro della filosofia. Il «creare immediato (unmittelbar)» deve essere la «forma della comunità» scientifica, etica ed estetica come «comunità veramente seria» in cui gli studenti devono «dar forma alla loro necessità spirituale»110, la scienza deve essere «l’idea che domina nella vita dello studente»111. La «capacità di amare» deve costituire la «radice del creare» e alla «comunità […] [di] coloro che creano […] la filosofia soltanto può conferire la […] forma universale»112 come forma rigorosa e scientifica che superi il livello intuitivo: Lo studente deve essere insieme creatore, filosofo e docente, e questo nella sua natura essenziale e determinante. Di qui deriva la forma della professione e della vita. La comunità di uomini che creano eleva ogni specie di studio accademico al livello dell’universalità: nella forma della filosofia113.

Nella sua funzione creatrice lo studente dovrebbe essere considerato come il grande trasformatore che ha il compito di convertire in problemi scientifici le nuove idee, che di solito nascono nell’arte e nella vita sociale prima che nella scienza: «questa trasformazione dovrebbe avvenire grazie a un atteggiamento di tipo filosofico»114. La comunità dell’università deve generare e difendere la «forma comunitaria filosofi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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4. Storia messianica e comunità scientifica

ca»115 non nel porre problemi filosofici specialistici, ma nel proporre «i problemi metafisici di Platone e Spinoza, dei romantici e di Nietzsche»116. Solo questo porterebbe a una «connessione più profonda della professione con la vita – con una vita più profonda»117. Qui i termini metafisica e profondità sembrano coincidere: quella profondità in cui si nascondono i frammenti del regno messianico Benjamin la vede in una vita spirituale formata dalla filosofia, in cui si pongono i grandi problemi della metafisica, il problema del bene, della verità, della conoscenza, del bello, di Dio. Gli studenti devono «costruire la sede della rivoluzione spirituale permanente»118 dove si pongono nuovi problemi meno chiari di quelli scientifici ma «motivati talvolta – forse – da un’intuizione (Ahnung) più profonda»119, più vicina alle idee. Il compito degli studenti nella loro vita è prendere ciò che di spiritualmente creativo trovano nell’arte contemporanea (l’attività dei letterati, degli artisti e dei liberi studiosi), nei fenomeni sociali e politici, nella loro stessa attività creativa culturale, scientifica e filosofica, e trasformarlo, attraverso la riflessione filosofica sui concetti e i principi fondativi, in problema scientifico. Questa è la direzione che in quel momento prendeva il criticismo: per esempio Cohen nel suo sistema come riflessione sui fondamenti puri della scienza della natura e di tutta la cultura umana e (più tardi) Cassirer nella sua filosofia della cultura. Il sistema della filosofia può salvare i frammenti del regno messianico, e il compito di costruire il sistema è affidato alla vita spirituale degli studenti, alla loro attività creativa e scientifica di riconoscimento e conoscenza. Le università devono affrontare, secondo Benjamin, un compito enorme, quello di «dare unità alla vita spirituale»120 degli studenti che – per colpa dell’idea di professione e di quella di famiglia, che soffocano quell’«eros121 di coloro che creano» realizzabile solo in una comunità degli studenti – non si attua ancora come «unità […] [della] vita di colui che crea e che procrea»122, ma «è scissa nell’indipendenza intellettuale (spirituale) di colui che crea e nella forza naturale incontrollata (nella prostituzione) e ci guarda tristemente, distorta e spezzata, come un torso dell’eros spirituale»123 (un frammento dell’Endezustand). L’università può fare ciò garantendo l’indipendenza di colui che crea e l’inserimento suo e della donna (che per Benjamin non è produttiva nel senso dell’uomo) in «un’unica comunità di soggetti creanti – attraverso l’amore»124 così da poter «soddisfare all’immagine dell’umanità»125, che è il problema che ogni comunità si deve porre, insieme a quello di realizzare una comunità con donne e bambini. Questa «strutturazione (Gestaltung)»126 delle «forze spirituali e naturali»127 fondata sull’amore (l’opposto della man www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

canza di forma e del relativismo delle attività sociali e dell’idea di progresso), che è data dall’indipendenza del soggetto creatore e dall’inserimento nella comunità dei soggetti creatori delle donne come soggetti da amare che permettono la procreazione, deve essere pretesa dallo studente «perché è forma (Form) della sua vita»128, è «l’idea […] [cui si riferiscono] i suoi contenuti vitali» è il modo in cui la sua esperienza si dà forma in riferimento all’idea della scienza e del sistema filosofico. La «coscienza dei pensatori» e «la decisione dei coraggiosi»129 sono indispensabili per «dare vita e anima»130 al mondo studentesco, per mostrare l’idea scientifica ed etica che la gioventù deve fare sua per «costruire la propria vita sullo spirito unitario del creare, dell’eros, della gioventù»131, nella coscienza di invecchiare e quindi della necessità di insegnare i valori della gioventù a una generazione più giovane. Gli studenti devono rendersi conto della necessità della solitudine e dedicarsi a quella amicizia «potenzialmente infinita»132 che è propria di coloro che creano quando sanno accettare la solitudine. Benjamin lancia il suo ultimo appello agli studenti, ancora all’interno dello Jugendbewegung, perché assoggettino la propria esistenza all’idea educativa, scientifica e etica, perché conducano – nella prassi – un’esistenza insieme creativa e critica all’insegna della conoscenza e dei valori, al ritmo dei loro imperativi, per poter in essa liberare dalla sua forma irriconoscibile il futuro messianico di uno stato perfetto del mondo attraverso la conoscenza: La vita degli studenti è lontana da questa conoscenza, perché ha perso ogni coraggio. Ma ogni forma di vita, con il suo ritmo, consegue dagli imperativi (Gebote) che determinano la vita di coloro che creano. Finché li eludono, la loro esistenza li punisce – una brutta esistenza – e un senso di disperazione li colpisce profondamente al cuore […]. Ancora si tratta della necessità estrema che è minacciata, occorre un orientamento rigoroso e severo. Troverà gli imperativi suoi propri, chiunque assoggetti la sua vita all’istanza suprema. Libererà il futuro dalla forma degenerata che lo imprigiona nel presente, conoscendo (erkennend)133.

Note 1 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte (1940), in GS, I, 2, pp. 693-704; trad. it. Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997, pp. 20-57. 2 Nel Discorso sulla religiosità contemporanea Benjamin pensa che nel lavoro sociale si sia persa la «serietà metafisica» (Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 19; trad. it. cit., p. 28) che vede invece presente nello sforzo intellettuale, etico, estetico,

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4. Storia messianica e comunità scientifica politico e religioso degli studenti, attento alla totalità e all’interiorità dell’uomo e legato alla riflessione filosofica sui fondamenti metafisici di questa totalità, che deve avere la sua base nel sistema tricotomico di ascendenza kantiana e sulla sua unità: «Al punto in cui è la nostra cultura anche il lavoro sociale deve assolutamente sottomettersi al moto evoluzionistico piuttosto che a sforzi eroico-rivoluzionari […]: guai se per questo si dimentica lo scopo (Ziel), ci si getta fiduciosamente nel movimento quasi di gambero dell’evoluzione. […] non usciremo mai e poi mai da questa situazione in nome del progresso ma solo in nome del fine (Ziel). E questo fine non possiamo darcelo dall’esterno. L’uomo di cultura ha solo un luogo che può mantenere puro […]: la sua interiorità, se stesso. […] E il male di sempre […] è che perdiamo noi stessi […]: ci perdiamo, vorrei dire, proprio attraverso il progresso» (ivi, p. 25; trad. it. cit., pp. 33-34, traduzione modificata). Per la critica di Benjamin alla concezione della storia come progresso cfr. M. Löwy, L’anarchisme messianique de Walter Benjamin, in «Les Temps Modernes», 40, 1983, pp. 772-794. Löwy vede l’origine di questa critica nel romanticismo, indicando in Benjamin la presenza simultanea di una versione romantica del messianesimo ebraico e dell’utopia rivoluzionaria anarchica: «L’associazione intima tra temi messianici e utopico-anarchici – partendo dalla critica neo-romantica del “progresso”, è una delle figure capitali della filosofia politica di Benjamin. […] Non si può capire né il messianesimo né l’anarchismo di Benjamin senza il campo culturale romantico che serve loro da fonte primaria» (ivi, pp. 773-774). Di M. Löwy cfr. anche Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective, PUF, Paris, 1988; trad. it. Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, trad. di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, in part. il capitolo 6 Al di fuori di tutte le correnti e al crocevia di tutte le strade: Walter Benjamin, pp. 104-135, e sulle Tesi cfr. dello stesso autore Walter Benjamin: Avertissement d’incendie. Une lecture des thèses “Sur le concept d’histoire”, PUF, Paris, 2001. Per la critica al concetto di progresso si veda anche R. Beiner, Walter Benjamins Philosophy of History, in «Political Theory», 12, 1984, pp. 423-434. Beiner indica importanti analogie tra la filosofia della storia di Benjamin e le riflessioni sul giudizio di Hannah Arendt, formulate nei testi compresi in H. Arendt, Lectures on Kant’s political Philosophy, ed. by R. Beiner, University of Chicago Press, Chicago, 1982; trad. it. Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, con un saggio introduttivo di R. Beiner, Il Melangolo, Genova, 1990. Hannah Arendt critica la pretesa storicistica di un progresso dell’umanità, e contro questo assunto «si richiama all’autonomia dello spettatore giudicante. Il giudizio autonomo è identificato con ciò che essa chiama lo “sguardo retrospettivo” dello storico […]. La storiografia redime coloro che sono stati lasciati indietro dal processo storico» (R. Beiner, Walter Benjamins Philosophy of History, in «Political Theory», 12, 1984, p. 433, nota 12). 3 Benjamin criticherà nelle tesi Sul concetto di storia lo storicismo e la politica della socialdemocrazia (sostenuta e teorizzata dai neokantiani), vedendo nella sua concezione del tempo “omogeneo e vuoto” il contrario della concezione della Jetztzeit come tempo compiuto e messianico che deve essere propria a suo avviso del materialismo storico e della rivoluzione. Cfr. Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, pp. 700-701; trad. it. cit., pp. 45-47, la tesi XIII e l’inizio della tesi XIV: «La teoria socialdemocratica, e ancora più la prassi, fu determinata da un concetto di progresso che non si atteneva alla realtà, ma aveva una pretesa dogmatica. Il progresso, come si rappresentava nelle teste dei socialdemocratici, era, in primo luogo, un progresso dell’umanità stessa (e non solo delle sue abilità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso interminabile (in corrispondenza a una perfettibilità infinita dell’umanità). Esso valeva, in terzo luogo, come un progresso essenzialmente inarrestabile (come quello che descrive spontanea-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung mente un percorso [Bahn] diritto o a spirale). Ciascuno di questi predicati è controverso, e a ciascuno potrebbe applicarsi la critica. Però, se si fa sul serio, essa deve risalire a monte di quei predicati e indirizzarsi a qualcosa che è loro comune. L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso. […] La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso (Jetztzeit)». 4 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, pp. 75-87; trad. it. cit., pp. 137-149. Il testo fu pubblicato in «Der neue Merkur», aprile-settembre 1915, e successivamente nel volume a cura di Kurt Hiller Das Ziel. Aufrufe zu tätigem Geist, München-Berlin, 1916, e fu composto tra il maggio 1914 e il settembre 1915. Esso ha origine in due conferenze che Benjamin tenne nel maggio e nel giugno 1914 (la prima a Berlino per la sua elezione a presidente della della Comunità studentesca berlinese, la seconda a Weimar in occasione della quattordicesima Giornata del libero studente). La prima conferenza fu accolta con commozione (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 6-V-1914, in GB I, p. 216) mentre per la seconda Benjamin aveva previsto incomprensione a causa dell’ambiente impreparato ad accoglierla (cfr. la sua lettera del 23-V-1914 a E. Schoen, in GB I, p. 230). La vita degli studenti si pone come pendant essoterico rispetto a un saggio di poco precedente ma a cui si farà riferimento più avanti, Metafisica della gioventù (Metaphysik der Jugend, in, GS, II, 1, pp. 91-104; trad. it. cit., pp. 93-107). Già nella contrapposizione/coincidenza tra vita e metafisica si rende percepibile il tono esoterico del secondo saggio. Su La vita degli studenti e in generale sul pensiero etico-filosofico di Benjamin negli anni 1913-1915 cfr. G. Hartung, Das Ethos philosophischer Forschung, in M. Opitz e E. Wizisla (a cura di), Aber ein Sturm weht von Paradiese her. Texte zu Walter Benjamin, cit., pp. 14-51. 5 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 75; trad. it. cit., p. 137 (traduzione modificata). 6 Benjamin parla già nel 1920-21 di “ora della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit)” come momento temporale della conoscenza che deve essere fondato come tempo logico in contrasto con la concezione della validità atemporale della conoscenza. Lo Jetzt der Erkennbarkeit è il momento temporale messianico dello stato del mondo perfetto e del darsi della verità. Cfr. il frammento di Benjamin dal titolo Erkenntnistheorie, attribuito dagli editori agli anni 1920-21 (frammento 25), in GS, V, p. 46, su cui si tornerà. 7 Cfr. Sul concetto di storia: «Il messia infatti viene non solo come redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo» (Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, p. 695; trad. it. cit., p. 27), il mondo dell’ingiustizia. Si noti l’uso della figura cristiana dell’Anticristo. Cfr. a proposito la lettera di Jacob Taubes a G. Scholem del 16-III-1977, in J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata, 2000, p. 136: «In ogni caso la teologia che balena nelle Tesi, non mi sembra teologia ebraica – quanto piuttosto teologia ‘dialettica’ di speciale provenienza (in parte Carl Schmitt “riconvertito” a sinistra: “stato d’eccezione”; in parte anche Fritz Lieb e W. B. parlano espressamente di “Anticristo” – questo, Lei lo sa meglio di me, non è un teologumeno ebraico, piuttosto ha la sua origine “da qualche parte” nella tradizione apocalittica cristiana)». Sul concetto cristiano di Anticristo qui utilizzato, come suggerisce anche Taubes, sarebbe opportuno indagare il rapporto di Benjamin con Fritz Lieb, un teologo protestante di orientamento marxista autore di un saggio intitolato Der Christ und der Antichrist im Dritten Reich (Paris, 1936). Per la resistenza dei teologi protestanti contro il nazismo – a cui apparteneva Lieb, ma il cui più importante esponente era Bonhoeffer, Hitler era considerato l’Anticristo a cui bisognava opporre il katechon, “ciò che tiene”. Al

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4. Storia messianica e comunità scientifica di là della discussione sulla prevalenza degli elementi cristiani o ebraici nella concezione teologica di Benjamin, in lui i concetti teologici, ebraici o cristiani, rivestono soprattutto un ruolo per la prassi. Cfr. a proposito del rapporto di Benjamin con Lieb Ch. Kambas, Fritz Lieb – Walter Benjamin – Karl Barth, in J. Taubes (a cura di), Religionstheorie und Politische Theologie, Band I: Der Fürst dieser Welt, München-Padeborn-Wien-Zürich, Schöning, 1983, pp. 263-291. Cfr. anche T. Tagliacozzo, Jacob Taubes interprete della teologia politica di Benjamin, in “Paradigmi”, XIX, 56, 2001 (Nuova serie), pp. 283-311. 8 Le «immagini utopiche dei pensatori» (come concetto storico-filosofico) sono già presenti nel saggio benjaminiano del 1913 Considerazioni su “Festspiel” di Gerhart Hauptmann (cfr. Gedanken über Gerhart Hauptmanns Festspie, in GS, II, 1, pp. 56-57; trad. it. cit., p. 67), dove appare per la prima volta anche il concetto di “illuminazione” come momento messianico in cui si presenta la consapevolezza di «essere al servizio di un futuro ignoto» (ivi, p. 56; trad. it. cit., p. 67): «La nostra età ha un “senso storico” così vivo – questo senso dei fatti, dei vincoli, delle cautele – che forse finisce per essere un’età particolarmente povera di vere “idee storiche”. Queste ultime le chiama per lo piú ‘utopie’ e le fa naufragare sulle “leggi eterne della natura”. Rifiuta ogni compito che non si presti a essere circoscritto in un programma di riforma, che esiga un nuovo movimento dello spirito e un modo radicalmente nuovo di vedere» (ivi, p. 57; trad. it. cit., p. 67). Nella contrapposizione tra le idee storiche (che sono idee filosofiche presenti nella storia del pensiero e attuabili nella storia reale futura) e le “leggi eterne della natura” è visibile una polemica sia con una visione deterministica della natura e della storia, propria del monismo e del panteismo, sia con il riformismo della socialdemocrazia e delle stesse organizzazioni dei Liberi studenti (e del socialismo neokantiano). Nella critica al “senso storico” moderno c’è un accenno al testo di Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita. 9 W. Benjamin, Trauerspiel und Tragödie (1916), in GS, II, 1, pp. 133-137; trad. it. Trauerspiel e tragedia, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 168-171. Si è fatto però riferimento alla nuova traduzione del brano, in Trauerspiel e tragedia (1916), in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 273- 274. 10 Trauerspiel und Tragödie, GS, II, 1, p. 134; trad. it. cit., p. 168-169 (traduzione modificata). 11 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin und sein Engel, in Walter Benjamin und sein Engel. Vierzehn Aufsätze und kleine Beiträge, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1983; trad. it. Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano, 1981, p. 61: «Nella mente di Benjamin vi è il concetto kabbalistico di Tikkun, della restaurazione e della riparazione messianiche, che ricostituisce e ripristina l’essenza originaria delle cose, e anche della storia infranta e corrotta della “frantumazione dei vasi”». Di questo concetto Benjamin sarebbe stato a conoscenza, secondo Scholem, sia in seguito a colloqui avuti con lui, sia attraverso l’opera di Franz-Joseph Molitor Philosophie der Geschichte, oder über die Tradition in dem alten Bunden und ihre Beziehung zur Kirche des Neuen Bundes mit vorzüglicher Rücksicht auf die Kabbala, 4 Bände, Theissingschen Buchhandlung, Münster, 1827-1853. Scholem indica delucidazioni a proposito (cfr. G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., nota 24, p. 68) nella sua opera Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen, Metzner, Frankfurt/M., 1967, in part. alle pp. 294-300 e 320-324 (trad. it. Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Melangolo, Genova, 1986). Si veda inoltre di Scholem il saggio, da una conferenza tenuta ad Ascona per i “Colloqui Eranos” tra il 1957 e il 1865, Zum Verständnis der messianische Idee im Judentum, in G. Scholem, Über einige Grundbergriffe des Judentums, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1970, pp. 121-167; trad. it. Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo in G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova, 1986, 19952, pp. 107-147.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung Per il rapporto di Benjamin con l’opera di Molitor cfr. M. Löwy, L’anarchisme messianique de Walter Benjamin, cit., p. 784, nota 30: «Il concetto ebraico di Tikkun significa insieme riforma, restaurazione e redenzione. Nel libro di Franz Joseph Molitor sulla tradizione ebraica e la Cabbalà – probabilmente una delle fonti principali del pensiero religioso di Benjamin – la missione redentrice del Messia è descritta come “il ristabilimento dello stato anteriore” alla cacciata di Adamo. Cfr. F.-J. Molitor, Philosophie der Geschichte oder über die Tradition, Theissingschen Buchhandlung, Münster, 1939, Dritter Theil, p. 598». Per il concetto di Tikkun cfr. inoltre P. Consigli, Ricomporre l’infranto. Walter Benjamin e il messianesimo ebraico, in «Aut Aut», 36, 211-212, 1986, pp. 151-174. Consigli colloca la concezione della storia di Benjamin completamente nell’ambito del messianesimo ebraico, della teologia ebraica «garante del passato […] [e] in cui si illumina il futuro» (ivi, p. 161) e interpreta questa concezione come Toldot (parola che il ebraico significa contemporaneamente storia e la cosa che deve essere partorita), come «atto di nascita di […] di un’identità [ebraica] che si compie con i tempi messanici» (ivi, p. 161). La storia, dice Consigli, è concepita come insegnamento che va interpretato: «Il Toldot della Torah è la storia che ogni generazione può cambiare nel susseguirsi delle interpretazioni e dell’oralità» (ivi, p. 161), nel «tempo-ora del Toldot è santificato il momento» (ibid.) perché il futuro per gli ebrei non è un tempo omogeneo e vuoto, ma « “[…] ogni secondo [è] […] la piccola porta da cui […] [può] entrare il Messia”» (ibid.; cfr. Über den Begriff der Geschichte, in GS, 1, 2, p. 704; trad. it. cit., p. 57). Ogni momento può portare la redenzione come Tikkun, «restaurazione e […] riparazione di un ordine precedentemente lacerato» (P. Consigli, Ricomporre l’infranto. Walter Benjamin e il messianesimo ebraico, cit., p. 162). Nel cammino verso la redenzione, ogni elemento, anche il più insignificante e deforme, si ritroverà in quest’ordine restaurato, come una delle «scintille divine sparse per il mondo» (ivi, p. 163; qui Consigli si riferisce alle Shevirat Hakelim di cui parla Franz Rosenzweig in Der Stern der Erlösung, Suhrkamp, Frankfurt/M, 1988; trad. it. La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato, 1985). Seguendo questa concezione della storia, Benjamin pensa che la speranza della redenzione sia riposta in ciò che è piccolo, misero, deforme e nascosto, e perciò nelle tesi Sul concetto di storia la teologia è personificata da un nano gobbo, poiché essa «oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere» (Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, p. 693; trad. it. cit., p. 21). Benjamin incontra Scholem per la prima volta nel luglio del 1915, quando del saggio La vita degli studenti ha già presumibilmente scritto la versione definitiva, ma non è da escludere che l’influenza del pensiero ebraico di Scholem sia già presente nell’incipit dello scritto, come lo sarà fortemente in tutta la sua opera. Di fatto sembra che Scholem abbia letto il saggio La vita degli studenti quando era già pubblicato, in «Der neue Merkur» nel volume di aprile-settembre 1915 o nel febbraio del 1916 nel volume miscellaneo Das Ziel curato da Kurt Hiller (Berlin, 1916) (cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freunschaft, cit., pp. 25-26; trad it. cit., p. 35). Probabilmente Benjamin viene a conoscenza dell’opera di Molitor a Monaco nel 1915-1916, e non già qui a Berlino, ma senza dubbio quest’opera influenzerà la filosofia del linguaggio che svilupperà in quegli anni. 12 Il concetto della purezza è fondamentale per Hermann Cohen in tutto il suo System der Philosophie. Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 13: «Noi cominciamo con il pensiero. Il pensiero non deve avere altra origine che se stesso. […] Il puro pensiero in se stesso ed esso soltanto deve produrre in modo esclusivo le conoscenze pure». Cohen elimina così la differenza tra pensiero puro e intuizione pura, tra le forme dello spazio e del tempo e le categorie, e introduce un rapporto più profondo tra idee e categorie, ponendo la fondazione del pensiero e della logica nel princi-

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4. Storia messianica e comunità scientifica pio dell’origine sviluppata dall’idea dell’ipotesi (cfr. ivi, p. 601) e considerando l’idea «la coscienza del concetto. Essa è il logos del concetto; poiché rende conto (sie gibt Rechenschaft) del concetto» (ivi, pp. 15-16). L’idea dell’ipotesi istituisce il compito della costituzione del sistema dei concetti, che resta aperto e mai concluso. Anche le altre due parti del System der Philosophie, l’Etica del volere puro e l’Estetica del sentimento puro, si fondano sul principio della purezza. 13 Lo stato finale non deve essere cioè risolto nella descrizione pragmatica e fenomenica, antropologica, di istituzioni e costumi di origine storica, ma còlto soltanto come idea metafisica. 14 Das Leben der Studenten, GS, II, 1, p. 75; trad. it. cit., p. 137 (traduzione modificata). 15 Le tesi istituiscono un legame indissolubile tra il compito storico del recupero del passato e l’idea redentiva messianica del compimento dello stato finale, il regno della giustizia. Cfr. la tesi II in Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, pp. 693-694; trad. it. cit., p. 23: «In altre parole, nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. […] Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa». Cfr. ivi, p. 701 (trad. it. cit., pp. 45-47) la tesi XIV, dove Benjamin ripropone dopo venticinque anni la stessa immagine della Rivoluzione francese utilizzata ne La vita degli studenti, come momento storico attuale (a sua volta simbolo per la rivoluzione futura) che si riferisce al passato della Roma repubblicana come evento storico da riattualizzare, idea che rappresenta lo stato finale della redenzione. Qui egli espone il concetto del tempo compiuto del tempo messianico, la Jetztzeit, in contrapposizione al tempo omogeneo e vuoto delle scienze e dell’idea di progresso dello storicismo e della socialdemocrazia: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’adesso. Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. […] Essa è un balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione». 16 Per un confronto tra il messianesimo di Cohen e di Benjamin si veda H. Günther, Der Messianismus von Hermann Cohen und Walter Benjamin, in «Emuna. Horizonte zur Diskussion über Israel und das Judentum», n. 5/6, nov-dic. 1974, pp. 352-359, e P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, in «Annuario filosofico», 12, 1996, pp. 299-327. Una possibile fonte per Benjamin del pensiero messianico di Cohen può essere stato il saggio Das Gottesreich, pubblicato da Cohen nel 1913 in Soziale Ethik im Judentum, zur fünften Hauptversammlung im Hamburg 1913 [am 9. November], hrsg. vom Verband der Deutschen Juden, J. Kauffmann, Frankfurt/M., 1913, pp. 120-127 (ora in H. Cohen, Kleinere Schriften V 1913 – 1915, in Werke, cit., Band 16, pp. 41-50). 17 Nelle tesi Sul concetto di storia (ma già negli anni 1912-1915) Benjamin critica il concetto di progresso dello storicismo e della socialdemocrazia e il concetto politico neokantiano di un progresso infinito della società e della storia come “compito infinito” (che trasforma la rappresentazione dell’idea messianica di un brusco realizzarsi del regno della giustizia in “ideale”, cioè in uno scopo mai raggiungibile), Questo concetto si esprimeva in un

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung socialismo che era sulle stesse posizioni della socialdemocrazia tedesca, la quale considerava la riflessione neokantiana la sua base teorica. Cfr. la tesi XVIIa: «Nell’idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l’idea (Vorstellung) del tempo messianico. Ed è giusto così. La sciagura sopravviene per il fatto che la socialdemocrazia elevò a “ideale” (Ideal) questa idea. Nella dottrina neokantiana l’ideale veniva definito come il “compito infinito”. E questa dottrina è stata la scolastica del partito socialdemocratico – da Schmidt a Stadler fino a Natorp e Vorländer. Una volta definita la società senza classi come un compito infinito, il tempo omogeneo e vuoto si trasformò, per così dire, in un’anticamera nella quale si poteva attendere, con maggiore o minore tranquillità, l’ingresso della situazione rivoluzionaria. In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito (Aufgabe) del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi (Schlüsselgewalt) che un attimo (Augenblick) possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica» (Anmerkungen a Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 3, p. 1231; trad. it. Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 53-55). Questa tesi è tradotta per la prima volta nella nuova edizione italiana di Sul concetto di storia, e si trova in un solo manoscritto – l’ultima versione delle tesi – chiamato dai curatori dell’edizione italiana T4 (dove appare come tesi XVIII). La tesi è contrassegnata nei materiali preparatori dal numero XVIIa (cfr. la nota dei curatori in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 18-19, e la nota ivi, p. 52). I curatori considerano il concetto di “compito infinito” come uno sviluppo della dottrina kantiana della santità, o conformazione perfetta della volontà alla legge morale, per cui rimandano a I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Band VII, pp. 252-254; trad. it. Critica della ragion pratica, cit., pp. 122-123, parte I, libro II, par. 4: L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica (cfr. Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 53, nota 41). Nel testo delle tesi Benjamin non nomina però Cohen tra i destinatari del suo attacco, per rispetto nei suoi confronti o perché di Cohen aveva molto apprezzato, nel 1919, la Religion der Vernunft (cfr. Benjamin a G. Scholem, 1-XII-1920 ca., in GB II, p. 107) e forse non era totalmente critico nei confronti della sua concezione della storia; lo era piuttosto nei confronti del pensiero di August Stadler, di Paul Natorp e di Karl Vorländer, che era diventato la base teorica della socialdemocrazia. Paul Natorp aveva scritto Sozialidealismus. Neue Richtlinien sozialer Erziehung (Berlin, 1920), mentre Karl Vorländer cercava di unire teoricamente il neokantismo con un socialismo di ascendenza marxista, e in questa direzione avava scritto Kant und Sozialismus (1990) e Kant und Marx. Ein Beitrag zur Philosophie des Sozialismus (Tübingen, 1911, 19262) (cfr. Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 53, note 43, 44, 45, 46). August Stadler era stato allievo e collaboratore di Hermann Cohen all’università di Marburgo, mentre Conrad Schmidt era un ‘revisionista’ che disputava sulle riviste della socialdemocrazia tedesca insieme a Ludwig Woltmann sul rapporto tra l’etica di Kant e l’esperienza storica. Cohen è comunque al centro del socialismo neokantiano, per lui Kant è «il vero e effettivo fondatore del socialismo tedesco» e «il socialismo è nel giusto nella misura in cui è fondato sull’idealismo dell’etica» – H. Cohen, Einleitung mit kritischem Nachtrag zur neunten Auflage der Geschichte des Materialismus von Friedrich Albert Lange (1896, 19143, terza edizione in Werke, cit., Band 5, Einführung v. H. Holzhey, 1984, p. 112). Per una panoramica sul socialismo neokantiano cfr. il capitolo Il socialismo neokantiano, in M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, cit., pp. 140-151 e per un

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4. Storia messianica e comunità scientifica approfondimento cfr. il volume collettaneo a cura di H. Holzhey, Ethischer Sozialismus. Zur politischen Philosophie des Neukantianismus, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1994, e l’antologia a cura di H.J. Sandkühler e R. de la Vega, Marxismus und Ethik. Texte zum neukantianischen Sozialismus, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1970 (trad. it. Milano, 1974). 18 Cfr. i concetti di santità e giustizia in Kant nel paragrafo L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica della Critica della ragion pratica, in I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Band VII, pp. 253-254; trad. it. cit., p. 123: «A un essere razionale, ma finito, è possibile soltanto il progresso all’infinito dai gradi inferiori ai superiori della perfezione morale. L ’ i n f i n i t o , per cui la condizione di tempo è niente, vede in questa serie, per noi senza fine, l’intera conformità alla legge morale, e la santità, che il suo comandamento esige inflessibilmente per essere conforme alla sua giustizia (Gerechtigkeit), nella parte che assegna a ciascuno nel sommo bene, è da trovare completamente in un’unica intuizione intellettuale dell’esistenza degli esseri razionali. Ciò che soltanto può toccare alla creatura (Geschöpfe) relativamente alla speranza (Hoffnung) di questa partecipazione, sarà la sicura coscienza della propria intenzione (Gesinnung), onde sperare dal progresso avvenuto finora dal peggiore al moralmente migliore, e dal proposito immutabile che essa ha perciò conosciuto, un’ulteriore continuazione ininterrotta di tale progresso finché la sua esistenza può durare, e anche oltre questa vita; e così una piena adeguazione alla volontà di Dio (senza indulgenze o remissioni, che non si accordino con la giustizia), e non mai, a dir vero, qui, o in un momento immaginabile dell’esistenza, ma soltanto nell’infinità (comprensibile solo a Dio), della propria durata». In Cohen il messianesimo è l’idea guida per la giustizia da attuare sulla terra e non oltre la vita (l’immortalità dell’anima individuale è concepibile solo all’interno della storia dell’umanità nel suo procedere verso la santità), ma è concepito, come in Kant la volontà determinata dalla legge morale, come sforzo necessario di fronte a una legge vista come reale (cfr. ivi, p. 253; trad. it. cit., p. 123.: «lo s f o r z o incessante dell’osservanza esatta e continua di una legge razionale stretta e inflessibile, e tuttavia non ideale, ma reale»). Si noti la vicinanza di questi temi kantiani con la visione della speranza e della giustizia in Benjamin nei saggi scritti negli anni 1920-1922, rispettivamente per la speranza come condizione della creatura umana limitata “Le affinità elettive” di Goethe (Goethes Wahlverwandschaften in GS, I, 1, pp. 123-201; trad. it. cit., pp. 179-254), e per il concetto di giustizia (che si presenta in Benjamin come violenza divina messianica contrapposta al diritto umano fondato sul mito) il saggio composto nel 1920-21 Per la critica della violenza (W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in GS, II, 1, 179-203; trad. it. Per la critica della violenza, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Saggi 1919-1922, cit., pp. 133-156). Benjamin aveva letto la Critica della ragion pratica nel 1918 (cfr. Benjamin a E. Schoen, maggio 1918, in GB I, p. 455). 19 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 497; trad. it. cit., p. 602. 20 Benjamin parla, nei primi anni ’20, del «sole della rivelazione» (cfr. Benjamin a F. C. Rang, l 9-XII-1923, in GB II, p. 393; trad. it. cit., p. 72) in contrapposizione alla notte in cui possono brillare solo le stelle della speranza, l’unica possibilità concessa alle creature naturali e umane. Cfr. anche il saggio di Benjamin “Le affinità elettive” di Goethe del 1921-22, la cui ultima parte si articola sotto il segno della speranza (e delle stelle) mentre la penultima parte si svolge sotto il segno della redenzione e della scelta morale (dei personaggi della novella goethiana). Benjamin, come si è già visto, aveva letto la Religion der Vernunft nel 1920 (cfr. Benjamin a G. Scholem, 1-XII-1920, in GB II, p. 107). Nel 1940 il “sole della rivelazione” si connette in lui con la simbologia del movimento operaio, con il “sole dell’avvenire” socialista. Cfr. la tesi IV di Über den Begriff der Geschichte,

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung in GS, I, 2, pp. 694-695; trad. it. cit., p. 25: «Come i fiori volgono il capo verso il sole, così, per un eliotropismo di natura misteriosa, ciò che è stato (das Gewesene) tende a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo della storia. Di questo […] deve intendersi il materialista storico». 21 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., pp. 291-292; trad. it. cit., p. 375-376. 22 Cfr. ivi, p. 57; trad. it. cit., p. 117: «Qui compare già un elemento importante che getta un ponte tra la radice del monoteismo e il suo vertice, che è costituito dal messianismo: la distinzione dell’escatologia dal messianismo. La dignità dell’uomo non viene fondata semplicemente nell’individuo, bensì nell’idea dell’umanità». E cfr. ivi, p. 336, trad. it., pp. 425-426: «[In questa raccolta] di passi biblici messianici […] risulta anzitutto errata la concezione del messianismo come escatologia. Se si prescinde infatti dal passo di Isaia per il quale la morte dovrà essere “ingoiata per sempre”, tutti gli altri passi rinviano a un futuro terreno, sia esso anzitutto di Israele, o di tutti i popoli insieme». L’idea del rinvio messianico a una redenzione terrena, in rapporto all’idea di felicità, è a fondamento del testo di Benjamin del 1921 Frammento Teologico-politico (W. Benjamin, Theologisch-politisches Fragment, in GS, II, 1, pp. 203-204; trad. it. Frammento Teologico-politico, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Saggi 1919-1922, cit., pp. 171-172), che si confronta criticamente con il Geist der Utopie di Ernst Bloch. Cfr. E. Bloch, Geist der Utopie. Erste Fassung, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1985; Geist der Utopie. Zweite Fassung, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1964; trad. it. della 2a stesura del 1923 di V. Bertolino e F. Coppellotti, Spirito dell’utopia, a cura di F. Coppellotti, La Nuova Italia, Firenze, 1993. Cfr. per l’interpretazione del Fragment come critica alla concezione escatologica (di ascendenza cristiana) di Bloch A. DeuberMankowsky, Hoffnung statt Erlösung oder warum die Ordnung des Profanen nicht am Gottesreich aufgebaut werden kann. Walter Benjamins Theologisch-politisches Fragment gelesen als Antwort auf Ernst Blochs Geist der Utopie, relazione letta al convegno “Jewish Modernity and Political Theology”, Elmau, 1998. Della critica di Cohen all’interpretazione escatologica della storia e del messianismo si occupa in particolare Pierfrancesco Fiorato, che vuole mostrare una vicinanza tra le concezioni del messianismo di Benjamin e Cohen, al contrario di H. Günther (Der Messianismus von Hermann Cohen und Walter Benjamin, Der Messianismus von Hermann Cohen und Walter Benjamin, in «Emuna. Horizonte zur Diskussion über Israel und das Judentum», 5/6, 1974, pp. 352-359) che non andrebbe «oltre un accostamento estrinseco tra le due prospettive, lette comunque in termini di radicale opposizione reciproca» (P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, cit., p. 299, nota 2). Fiorato porta come esempio di filosofia della storia “forte” ed escatologica la visione di Karl Löwith, contrapponendo ad essa la versione “debole” e radicalmente antiontologica di Cohen, nel cui messianesimo vede un principio filosofico sistematico (identificato con il tema etico dell’umanità) che accosta poi alla concezione benjaminiana della filosofia della storia e del sistema della filosofia: «Questa [visione di Löwith] è parsa essenzialmente caratterizzata dal riferimento strutturale a qualcosa di ultimo che sia al tempo stesso fine e senso. È rispetto a tale modello che va ora precisato come la filosofia coheniana persegua una svalutazione sistematica dell’eschaton in quanto tale, vietandosi ogni speculazione sulla meta della storia. In realtà è proprio il compito di una simile svalutazione ciò che Cohen […] affida al messianismo. […] Sulla base di tali premesse risulta chiaro il valore di principio filosofico che si intende qui attribuire al messianismo. Come ha efficacemente scritto Peter A. Schmid [in P. A. Schmid, Ethik als Hermeneutik. Systematische Untersuchungen zu Hermann Cohens Rechts- und Tugendlehre, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1995, p. 195], il messianismo di Cohen riguarda non “un’idea particolare della religione ebraica, bensì un principio universale della ragione;

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4. Storia messianica e comunità scientifica anzi, in ultima analisi, addirittura il principio di unità della ragione stessa”. […] Con riferimento al messianismo, appare così inevitabile sollevare la questione preliminare relativa ai titoli con i quali esso entra in filosofia e pretende di essere accreditato come principio filosofico. […] La risposta, già anticipata per altro dal titolo del capitolo, per cui l’idea stessa d’umanità è una creazione del messianismo profetico, legittima, secondo i parametri del metodo trascendentale, l’inclusione nella filosofia di contenuti originariamente espressi dal messianismo (RV 278; tr. it. cit. 360 s). […] Soltanto la “deduzione” della funzione di baricentro che compete [al tema dell’umanità] […] potrà costituire dunque l’autentica giustificazione della necessità filosofica del messianismo. Il carattere squisitamente sistematico di tale problema impedisce però che esso possa trovare elaborazione e soluzione nel quadro di una sola delle parti (sia essa la più diretta competente, e cioè l’etica) di cui il sistema si compone. È invece soltanto all’interno della dimensione di verità del sistema stesso [cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, capitoli 1 e 9], ossia nell’ambito della definizione della relazione reciproca dei diversi Systemglieder, che la questione del messianismo come principio di unità della ragione può essere adeguatamente impostata» (ivi, pp. 310-311). 23 Cfr. a proposito dell’espressione “piana infinita dell’umanità” la critica che Benjamin fa già dal 1917-18 al concetto di “compito infinito” nella scuola neokantiana nel frammento Ambiguità del concetto di “compito infinito” nella scuola neokantiana (W. Benjamin, Zweideutigkeit des Begriffs der “unendlichen Aufgabe” in der kantischen Schule, in GS, VI, p. 53; frammento 32, datato dai curatori 1918). Benjamin vede prevalere presso i neokantiani una nozione di compito infinito vuota e non apriorica, cioè esclusivamente legata alle scienze fisico-matematiche e connotata empiricamente, che prevede al raggiungimento di ogni meta il sorgere di una nuova meta, ma rivolge la sua critica più che a Cohen (che non nomina) alla vulgata della sua filosofia propria degli epigoni. Proprio di Cohen potrebbe essere il significato, considerato più positivo anche se empirico, di “compito infinito” come ideale la cui meta risede in una lontananza infinita «nel senso che l’intera estensione della sua distanza viene progressivamente misurata a partire da ogni punto del cammino» (ibid.). Per un’interpretazione che va in questa direzione, cfr. P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli, L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori, cultura: Orizzonti e problemi del neocriticismo, Quaderni di «Discipline Filosofiche», anno VII, Nuova Serie, n. 2, Vallecchi, Firenze, 1997, pp. 361-386, p. 367, nota 32. 24 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 292; trad. it. cit., p. 376. 25 Ivi, p. 305; trad. it. cit., p. 391. 26 Non bisogna dimenticare la grande influenza che la filosofia dell’ebraismo di Cohen esercitava in Germania sulla cultura contemporanea, soprattutto sugli intellettuali ebrei (laici e non) e anche sulla fonte principale del pensiero ebraico per Benjamin, Gershom Scholem. Egli, che oltre ad aver seguito corsi e lezioni di Cohen a Berlino aveva letto, nel luglio 1918, Der Begriff der Religion im System der Philosophie (cfr. Scholem a W. Kraft, 8-IV-1918, in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, hrsg. von I. Shedletzky, C.H. Beck, München, 1994, p. 152 e nota 3, p. 159), e poco tempo prima – per metà – la Logik der reinen Erkenntnis, ricevuta in regalo nel 1915, mentre nello stesso luglio sarebbe stato deluso, insieme a Benjamin, dalla terza edizione di Kants Theorie der Erfahrung (cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 78-79; trad. it. cit., pp. 100-101), concepiva una grande rispetto per la concezione di filosofia della religione di questo pensatore, nella cui figura – scriveva a Werner Kraft nell’aprile del 1918 da Berna, poco dopo aver avuto la notizia della sua morte e avere scritto un Nachruf

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung ‘Dem Andenken Hermann Cohens’ (cfr. Scholem a W. Kraft, 8-IV-1918, in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, cit., p. 152 e nota 3, p. 379, lettera 58) sul suo diario – «in Germania l’ebraismo si è espresso in un modo grande e vero per l’ultima volta. […]. Per me è come se dopo la sua morte dovesse irrompere il giorno del Giudizio sugli ebrei tedeschi. […] Quanto Cohen fosse ebreo, l’ho sperimentato soltanto nell’ultimo inverno. […] Cohen sarà in un senso alto il mio modello (Vorbild)» (ivi, p. 152). Cfr. G. Scholem, Dem Andenken Hermann Cohens (5-IV-1915), in Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. 2. Halbband 1917-1923, hg. von K. Gründer, H. Kopp-Oberstebrink und F. Niewöhner, unter Mitw. von K. E. Grözinger, Jüdischer Verlag, Frankfurt/M., 2000, pp. 189-190. 27 H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 360; trad. it. cit., p. 452. 28 Ivi, pp. 360-361; trad. it. cit., p. 452. Cfr. a proposito P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, cit., p. 315: «Che tale futuro non possa essere inteso come mero “non-ancora”, ordinatamente allineato in un tempo letto come successione, risulta dal corto circuito che si instaura tra l’esigenza, sollevata nell’Etica, per cui “il futuro non può mai trasformarsi in un presente” (ErW 408; tr. it. cit. 294) e l’affermazione dell’opus postumum, secondo la quale il “futuro messianico” deve riempire ogni momento dell’esistenza, senza “attendere il futuro” (RV 360; tr. it. cit. 452)». 29 I curatori dell’edizione italiana delle Tesi indicano in questa espressione un concetto teologico cristiano «originariamente riferito al potere petrino (cfr. Matteo, 16, 18 sgg.: “A te [Pietro] darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”) a cui Benjamin fa ricorso per indicare la possibilità di un’operazione che infrange l’immodificabilità del passato» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 55, nota 47). 30 Anmerkungen a Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 3, p. 1231; trad. it. cit., pp. 53-55. 31 Cfr. H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., p. 269; trad. it. cit., p. 351: «Ma poiché al di là dell’uomo come simile abbiamo ormai posto l’uomo come io, per il concetto della sua redenzione abbiamo bisogno di questa determinazione-limite del momento della redenzione. La redenzione può essere concepita soltanto per un momento. Soltanto per un momento, cui possono seguire nuovamente momenti del peccato. Non fa nulla! Anche questi verranno nuovamente riscattati dal momento della redenzione». 32 Cfr. H. Cohen, Die Messiaidee, in Jüdische Schriften, a cura di B. Strauß, Schwetschke, Berlin, 1924, 3 Bände, Band I, p. 120; trad. it. L’idea di Messia, in H. Cohen, La fede d’Israele è la speranza. Interventi sulle questioni ebraiche (1880-1916), a cura di P. Fiorato, con una postfazione di G. Bonola, trad. di P. Fiorato e G. Bonola, pp. 61-84. Cfr. anche H. Cohen, Religion und Sittlichkeit. Eine Betrachtung zur Grundlegung der Religionsphilosophie (1907), in Jüdische Schriften, cit., vol. III, pp. 142-148, dove Cohen vede l’idea etica, l’umanità come compito infinito ma reale e non utopico, coincidere con la realtà del futuro: «Non solo ciò che il presente offre nella natura e nel mondo umano deve essere reale (wirklich), ma è reale in senso eminente ciò che non è ancora reale, ma viene anticipato nella speranza, richiesto come realtà nella visione della speranza. Speranza, futuro, umanità vanno insieme; esse costituiscono la protesta contro l’esclusiva realtà del presente nella natura e nella storia. […] Il fondamento irremovibile e profondissimo dell’etica dell’umanità non può più risiedere nella speranza profetica del futu-

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4. Storia messianica e comunità scientifica ro, ma, secondo il suo metodo, nella realtà del futuro. Questa realtà è idea, idea etica; l’idea nella quale l’idealismo dell’etica si distingue dall’utopia di un mondo bucolico trascendente, come una volta Jean Paul indicò l’al di là […]. Se la realtà etica è un’idea, allora essa è fondata nell’idealismo, quindi nella conoscenza. La conoscenza della moralità ha bisogno della sicurezza, della certezza di quel futuro dell’umanità». Cfr. su questi passi (e per la loro traduzione) A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 76. 33 H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 410; trad. it. cit., p. 295. 34 Cfr. ancora il frammento del 1917 Il compito infinito (W. Benjamin, Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, pp. 51-52, frammento 30), che verrà esaminato nella Parte terza. Benjamin, che nel dicembre 1917 progetta di dedicare la sua dissertazione di dottorato al tema «che cosa significa che la scienza è compito infinito?» (Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917, in GB I, p. 409), vede l’autonomia e l’unità della scienza e del sistema della filosofia fondate sul fatto che la scienza è, quanto alla sua forma, compito infinito, cioè non può essere un compito dato dall’esterno né la «risposta a una domanda finita» (Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, p. 51), ma è la «soluzione dominata da cima a fondo dal suo compito» (ivi, p. 52), la dimensione metodica dell’autonomo procedere del pensiero e dell’azione etica sulla scorta della sua interna idea guida (per la logica essa è l’idea dell’ipotesi scientifica che guida verso la totalità mai raggiunta delle determinazioni categoriali e per l’etica è l’idea di libertà, l’idea dell’autonomia e dell’umanità). 35 H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 411; trad. it. cit., p. 269. Cfr. P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen, cit., p. 322. Alla p. 325, Fiorato avvicina questa espressione di Cohen a uno dei concetti di compito infinito (il più positivo, che comunque viene criticato come empirico) che Benjamin attribuisce al neokantismo: «La meta risiede in una lontananza infinita nel senso che l’intera estensione della sua distanza viene progressivamente misurata a partire da ogni punto del cammino» (Zweideutigkeit des Begriffs der “unendlichen Aufgabe” in der kantischen Schule, in GS, VI, p. 53, frammento 32) 36 La continuità di una visione anarchico-libertaria di matrice romantica nell’arco di tutta la vita e dell’intera produzione di Benjamin è stata messa in risalto da Michael Löwy in Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective, cit., cap. 6; trad. it. cit., pp. 104-135, e più recentemente dallo stesso autore in Walter Benjamin: Avertissement d’incendie. Une lecture des thèses “Sur le concept d’histoire”, cit., in particolare nell’Introduzione dal titolo Romantisme, messianisme et marxisme dans la philosophie de l’histoire de Walter Benjamin, ivi, pp. 1-19. 37 Cfr. la tesi n. 84 delle 95 tesi sull’ebraismo e il sionismo di Gershom Scholem, un regalo per il ventiseiesimo compleanno di Benjamin (15 luglio 1918) mai consegnato perché le tesi furono considerate dall’autore non soddisfacenti. Cfr. G. Scholem, 95 Thesen über Judentum und Zionismus, in Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. 2. Halbband 1917-1923, cit., pp. 300-306; trad. it. 95 tesi su ebraismo e sionismo, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 295-303: «Il concetto di tempo dell’ebraismo è eterno presente» (ivi, p. 305; trad. it. cit., p. 302). Secondo i curatori dell’edizione italiana, il testo è stato ritrovato tra le carte di Scholem in occasione del trasferimento dell’Archivio Scholem alla Biblioteca Universitaria di Gerusalemme, e riporta, numerate, 95 tesi, ma il numero 73 vi figura due volte (cfr. 95 tesi su ebraismo e sionismo, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 295, nota 1). Nelle tesi vi sono molti riferimenti positivi alla filosofia di Hermann Cohen. 38 Cfr. ancora una tesi di Scholem: «Ordine e figura (Gestalt) coincidono nel concetto ebraico di Tikkun. Il “mondo del Tikkun” è il regno messianico» (G. Scholem, 95 Thesen über Judentum und Zionismus, in Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 2. Halbband 1917-1923, cit., p. 304; trad. it. 95 tesi su ebraismo e sionismo, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 301). 39 Il compito storico degli studenti consiste nel recupero simbolico di segnali (che essa stessa rappresenta nel suo lavoro scientifico e nel suo impegno etico e artistico), individuabili nel presente, di un futuro messianico, ma c’è un forte riferimento al passato, a un modello etico e politico (l’idea della rivoluzione francese) da citare ed evocare perché non vada perduto e sia immagine (Bild) di liberazione per il futuro redento della storia. Cfr. ancora Sul concetto di storia, la V tesi, dove si contrappone il materialismo storico all’immagine della storia dello storicismo: «Infatti è un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non sia riconosciuto inteso in essa» (Über das Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, p. 695; trad. it. cit., p. 27). Cfr. anche G. Scholem, Zum Verständnis der messianische Idee im Judentum, in G. Scholem, Über einige Grundbergriffe des Judentums, cit. p. 125; trad. it. cit., pp. 110-111, in cui si mette in risalto, nell’idea messianica che divenne operante con forza nell’ebraismo rabbinico dell’esilio, l’intreccio inestricabile tra visioni utopiche (volte al futuro) e restaurative (volte a un passato idealizzato): «L’utopia che prospettava all’ebreo […] un ideale da realizzare si divide del tutto naturalmente in due categorie. Può assumere la forma radicale della visione di un contenuto nuovo, il quale dovrà essere realizzato da un futuro che tuttavia altro non è, in fondo, che il ripristino della situazione originaria, la restituzione di ciò che è andato perduto. È questo contenuto ideale del passato che sta alla base anche della visione del futuro. Ma in questa utopia orientata in senso restaurativo, consapevolmente o inconsapevolmente, si insinuano elementi che in sé non hanno alcunché di restaurativo e che derivano invece dalla visione di una condizione del tutto nuova del mondo, da realizzarsi messianicamente. L’assolutamente “nuovo” porta, dunque, in sé, elementi dell’antico, ma questo “antico” stesso non è per nulla il realiter passato, bensì qualcosa di trasformato e trasfigurato dal sogno: qualcosa su cui si è posato il raggio dell’utopia». Scholem rinvia, per il concetto di “utopico”, alle analisi che su questa categoria ha condotto Ernst Bloch nelle sue due opere Geist der Utopie e Das Prinzip Hoffnung (Berlin, 1954-59, 3 Bände; trad. it. Il principio speranza, trad. it. a cura di T. Cavallo ed E. De Angelis, Garzanti, Milano, 1994, 3 voll.). 40 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 75; trad. it. cit., p. 137. 41 Si noti l’analogia con la “posizione” (Stelle) religiosa della gioventù. 42 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 75; trad. it. cit., pp. 137-138 (traduzione modificata). 43 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 27-28, p. 64; trad. it. Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice riveduta da V. Mathieu, introduzione e glossario a cura di V. Mathieu, Laterza, Bari, 19832, pp. 59-60. Cfr. per la definizione di filosofia trascendentale ivi, B 26, p. 63, trad. it. cit., pp. 58-59. 44 Cfr. ivi, B 29, p. 65; trad. it. cit., p. 61. 45 Per la specificazione del concetto di architettonica della ragion pura come sistematica delle conoscenze della ragion pura e della filosofia pura cfr. il capitolo “L’architettonica della ragion pura” nella Dottrina trascendentale del metodo, ivi, B 860-867, pp. 695-701; trad. it. cit., pp. 629-635: «Per a r c h i t e t t o n i c a intendo l’arte del sistema. Poiché l’unità sistematica è ciò che prima di tutto fa di una conoscenza comune una scienza, cioè di un semplice aggregato d’essa un sistema, l’architettonica è la dottrina della scientificità della nostra conoscenza in generale, e però appartiene necessariamente alla dottrina del metodo. […] Lo schema […] abbozzato secondo un’idea […] (in cui la ragione fornisce i fini a priori, e non li aspetta empiricamente), fonda un’unità a r c h i t e t t o n i c a . […] Noi ci contentiamo di completare la nostra opera, ossia

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4. Storia messianica e comunità scientifica unicamente di abbozzare l’architettonica di tutta la conoscenza derivante dalla ragion pura. […] Ora il sistema di ogni conoscenza filosofica è la filosofia. La si deve ammettere oggettivamente, se per essa si intende il modello della valutazione di tutti i tentativi di filosofare […]. In questo modo la filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, non mai data in c o n c r e t o , ma cui si cerca di accostarsi per diverse vie. […] Tutta la filosofia poi è conoscenza derivante dalla ragion pura, o conoscenza razionale derivante da princìpi empirici. La prima si dice filosofia pura, la seconda empirica». Cfr. inoltre la voce “sistema” in Wörterbuch der philosophischen Begriffe, historisch-quellenmässig bearbeitet von Dr. Rudolf Eisler, vierte völlig neubearbeitete Auflage, dritter Band SCI-Z, weitergeführt und vollendet durch Dr. Karl Roretz, hrsg. unter Mitwirkung der Kantgesellschaft, verlegt bei E.S. Mittler & Sohn, Berlin, 1930, p. 205: «Per Kant il sistema è “un tutto della conoscenza ordinato secondo principi” (Met. Anf. d. Naturwiss., Vorr. IV). Sistematico = metodico (Log., S. 229). La ragione umana è per sua natura architettonica, cioè essa considera tutte le conoscenze come appartenenti a un sistema possibile e perciò permette solo quei principi che almeno non rendono una conoscenza […] incapace di stare insieme ad altre conoscenze in un qualche sistema” (Kr. d. r. Vern.2, Transz. Dial. II, 2, 3, S. 427)». 46 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 861, p. 696; trad. it. cit., pp. 629-630. 47 Ivi, B 867, p. 700; trad. it. cit., p. 634. 48 Ivi, B 869-870, pp. 701-702; trad. it. cit., pp. 635-636. 49 Ivi, B 873, p. 704; trad. it. cit., p. 638. 50 Ivi, B 878-879, p. 708; trad. it. cit., p. 641. 51 Cfr. la voce “System” in R. Eisler (a cura di), Kant-Lexicon, Nachschlagewerk zu Kants sämtlichen Schriften/Briefen und handschriftlichem Nachlass, bearbeitet von Dr. Rudolf Eisler, hrsg. unter Mitwirkung der Kantgesellschaft, E.S. Mittler & Sohn/ Verlagsbuchhandlung und Pan-Verlag Kurt Metzner, Berlin, 1930, p. 524: «La ragione parte dall’unità sistematica […] dei suoi contenuti. Anche se la totalità della conoscenza d’esperienza non è raggiungibile, però è un compito [della ragione] quello di cercare di raggiungere la completezza sistematica e assegnare a ogni elemento della conoscenza il suo posto in un ordine unitario partendo dall’idea del sistema (Idee des Systems). Il materiale della conoscenza deve essere elaborato in modo sistematico, secondo principi. Le idee […] della ragione danno la direzione per l’unità di un sistema e così “estendono (erweitern)” le categorie dell’intelletto. Un ordine sistematico delle leggi […] dell’accadere appartiene alla mèta più alta della conoscenza, così come la ragion pratica sorge da un sistema dei fini dell’agire. L’idea di sistema (Systemgedanke) regola nel punto più alto la sintesi di tutto il materiale dell’esperienza». 52 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § IV, pp. 16-17; trad. it. cit., pp. 15-16: «La facoltà riflettente di giudizio, che ha il compito di risalire da ciò che è particolare nella natura all’universale, ha bisogno quindi di un principio che non può trarre dall’esperienza, dato che esso deve appunto fondare l’unità di tutti i principî empirici sotto principî ugualmente empirici ma superiori, e quindi la possibilità di una subordinazione sistematica di essi. Un tale principio trascendentale, la facoltà riflettente di giudizio può darlo come legge solo a se stessa, non ricavarlo da altrove (ché altrimenti sarebbe facoltà determinante di giudizio), né prescriverlo alla natura, poiché la riflessione sulle leggi della natura si regola sulla natura, ma questa non si regola sulle condizioni secondo le quali cerchiamo di ottenerne un concetto che è affatto contingente rispetto ad essa. Ora, questo principio non può essere altro che questo: […] le particolari leggi empiriche, rispetto a ciò che vi è lasciato indeterminato […] [dalle leggi universali della natura],

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung debbono essere considerate secondo un’unità tale, come se (als ob), anche qui, l’avesse data a vantaggio della nostra facoltà conoscitiva un intelletto (sebbene non il nostro), per rendere possibile un sistema dell’esperienza secondo leggi particolari della natura […]; con ciò […] questa facoltà dà solo a se stessa una legge e non alla natura». 53 Ivi, § III, p. 15; trad. it. cit., p. 15. 54 Ivi, § III, p. 12; trad. it. cit., p. 12. 55 Ivi, § III, p. 13; trad. it. cit., p. 13. Cfr. l’intero passo: «Ma nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori c’è ancora un membro intermedio tra l’intelletto e la ragione. Ed è la facoltà di giudizio, della quale si ha ragione di presumere, per analogia, che potrebbe anch’essa contenere in sé, seppure non una sua propria legislazione, però un suo proprio principio per ricercare leggi, in ogni caso un principio a priori semplicemente soggettivo, che, anche se non gli compete alcun campo di oggetti come suo dominio, può avere tuttavia un qualche territorio, con una costituzione tale per cui potrebbe essere valido appunto solo questo principio» (ivi, § III, p. 12-13; trad. it. cit., p. 13). 56 Cfr. ivi, § II, p. 10; trad. it. cit., p. 11: «Intelletto e ragione hanno quindi due legislazioni diverse in un unico e medesimo territorio dell’esperienza, senza che l’una pregiudichi l’altra». 57 Ivi, § IX, p. 35; trad. it. cit., p. 33. 58 Ivi, § IX, pp. 33-34; trad. it. cit., pp. 31-32. 59 Ivi, § II, p. 11; trad. it. cit., p. 12. 60 Ivi, § II, pp. 11-12; trad. it. cit., p. 12. 61 Ivi, § III, p. 12; trad. it. cit., p. 13. 62 Ivi, p. 5; trad. it. cit., p. 6. 63 Ivi, § IX, p. 35, nota; trad. it. cit., p. 33, nota. Per il concetto di tricotomia in Kant cfr. H. Hohenegger, Sul significato della tricotomia dei concetti filosofici in Kant, in P. Montani (a cura di), Senso e storia dell’estetica. Studi offerti a Emilio Garroni per il suo settantesimo compleanno, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1995, pp. 111-138. 64 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 738: «il concetto della critica, come metodo critico. Questo metodo è il metodo trascendentale». 65 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, Dümmler, Berlin, 18852. 66 H. Cohen, Das Prinzip der infinitesimale Methode und seine Geschichte (1883), in H. Cohen, Werke, cit., Band 5.1, hrsg. von P. Schultess, 1984, cfr. p. 5 s. 67 Cfr. G. Edel, Einleitung a H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung , in Werke, cit., Band 1.1, p. 23, che cita dalla seconda (B) e terza edizione (C) di Kants Theorie der Erfahrung: «critica della ragione, questo significa ora: critica della ragione oggettivata nella scienza». Cfr. inoltre ibid.: «Ma la teoria filosofica non è dottrina, non è essa stessa scienza degli oggetti (Gegenstände) della natura; come ‘critica’ non deve anticipare i metodi della scienza, ma soltanto riconoscerli. Essa insegna a determinare l’orizzonte della conoscenza, nello scoprire i concetti e i metodi su cui si basa la certezza che si esige, il “valore di validità” (B 76, 582/C 106, 740) della scienza. Così essa non è psicologia, non è analisi del sorgere (Entstehung) della conoscenza, ma critica della sua esistenza (Bestand) divenuta reale nel fatto (Faktum) della scienza, cioè critica della conoscenza (Erkenntniskritik)». Cfr. ivi, pp. 106 e 740. Sulla distanza presa da Cohen rispetto al termine Erkenntnistheorie in favore del termine Erkenntniskritik cfr. ivi la nota 21: «Cohen introduce, nella sua opera “Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte” (1883), l’espressione “critica della conoscenza” in sostituzione dell’espressione “teoria della conoscenza” con questa motivazione: egli deve “prendere distanza dall’espressione teoria della conoscenza, poiché essa fa sorgere l’idea che la conoscenza costituisca l’oggetto di questa ricerca in quanto processo psichico, che, come scomposizio-

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4. Storia messianica e comunità scientifica ne psicologica dell’apparato della conoscenza, può perfezionarsi nella direzione della teoria. Questa visione è completamente sbagliata…” (§ 7). Nella seconda edizione di “Kants Theorie der Erfahrung” si parla perciò di regola di critica della conoscenza; in tutti i passaggi ripresi dalla prima edizione l’espressione “teoria della conoscenza” è sostituita dall’espressione “critica della conoscenza”». 68 A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 59. 69 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 601. 70 Ivi, pp. 15-16. 71 A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 79. 72 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 601. 73 Ivi, p. 610. 74 Cfr. ivi, pp. 609-610: «L’unità della coscienza culturale nella psicologia. […] Questa unificazione dei singoli ambiti si compie nel sistema, come nella verità [come rapporto] tra logica e etica. Sarà compito della psicologia descrivere e determinare in modo preciso e portare alla luce questa unità della coscienza nella diversità delle sue direzioni, che sono commisurate alla diversità delle direzioni culturali, nella loro azione e compenetrazione reciproca, come unità vivente e vera. Certo per questo compito esiste l’apparenza di un singolare pericolo: che esso si possa trasformare da compito teoretico in compito pratico. Perché solo quest’unità produce l’unità dell’uomo e quindi il concetto dell’uomo. Nei riguardi dell’autonomia dell’oggetto, e anche nei riguardi dell’unità costituita dal suo sentimento di sé estetico, il concetto dell’uomo esige l’unità di quelle unità. Queste ultime devono mantenere la loro diversità, e tuttavia entrare nell’unità vera della coscienza culturale umana. L’unità dell’uomo ha come suo primo fondamento (Grundlage) metodologico la logica; la psicologia però costituisce l’ideale del suo compimento. Le “leggi del pensiero” (Denkgesetze) costituiscono il fondamento (Fundament) di quella unità dello spirito umano; la cultura però, nella sua totalità e unitarietà, è l’apice dello sviluppo umano. La rappresentazione di questo sviluppo e di questa unità, come suo apice, è il grande compito della psicologia sistematica, il compito più alto del filosofo sistematico». 75 Per il concetto di sistema e di unità del sistema in Cohen, cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (a cura di), Hermann Cohen, Peter Lang, Frankfurt am Main-Berlin-Bern-New York-Paris-Wien, 1994, pp. 339-362. Ponedosi il problema di come la conoscenza fisico-matematica, essendo la dottrina della conoscenza fondamento e membro del sistema, possa essere rilevante anche per l’azione e l’arte, di come dunque sia possibile il passaggio dalla dottrina della conoscenza all’etica e all’estetica, Holzhey paragona Cohen a Natorp, individuando nella sistematica del primo un’attenzione più forte al Faktum cui è riferito ogni ambito del sistema, a discapito dell’unità del sistema, e constatando nel secondo un risolversi dei Fakta in un Fieri che comprende tutto e dissolve la contrapposizione del fattuale rispetto al sistema. Cohen risolve la questione fondando le altre discipline sui rispettivi Fakta “per analogiam” rispetto alla dottrina della conoscenza (che dà il metodo trascendentale che assicura anche agli altri membri una conoscenza e il loro posto nel sistema) e affidando il compito dell’unificazione del sistema a una psicologia sistematica che non riuscirà a comporre (cfr. ivi, p. 344). Holzhey individua in Cohen il rifiuto di un’idea sistematica unificante a priori (anche l’idea di fine non funge da idea unificante) e mette piuttosto in risalto il rafforzamento in lui del metodo trascendentale (per cui, in analogia con la teoria della conoscenza, in ogni parte del sistema ci si riferisce a un Faktum da cui si risale ai principi a priori) che istituisce piuttosto una tensione permanente tra i membri del sistema. Comune a tutti e tre i membri del sistema è il doppio compito della

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung “cosa in sé”, che consiste da una parte nella “oggettivazione in leggi (Obiektivierung in Gesetzen)” (la fondazione di validità di un Faktum) dei fenomeni e dall’altra nella “limitazione in idee (Begrenzung in Ideen)” di queste leggi (cfr. ivi, pp. 348-349). Per tutte le parti del sistema sono centrali la «forma della legalità (Gesetzmäßigkeit)» (ivi, p. 347), che vede le forme a priori come metodi per l’oggettivazione in leggi, e la concezione (Betrachtungsweise) teleologica dell’idea come fine (preceduta e accompagnata dall’interpretazione del mondo matematico-meccanica, che si divide in tre modi: «la concezione teleologica della natura, che è guidata dall’idea di una conformità a scopi delle “forme della natura (Naturformen)”: la concezione morale, che pone la libertà e considera le persone come scopi finali [cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung (18852), cit., p. 600] […], e la concezione estetica, che vive nel libero gioco delle facoltà conoscitive. […] Non si proseguirà ulteriormente nel tentativo di unire i “regni” di essere e dover essere nell’idea di fine con il loro rapporto allo scopo finale, nel tentativo di indicare l’idea regolativa di libertà – concetto-limite della teoria dell’esperienza – come concetto di libertà etico. […] È caratteristico della concezione coheniana del sistema che anche nella giustificazione filosofica dei “fatti culturali” per lui sia in gioco una delimitazione (Abgrenzung) precisa, ma che l’unità del sistema non venga fondata precisamente su una idea. […] L’andare in quella direzione, dunque la tendenza idealistica nel concetto di sistema di Cohen, viene ostacolata attraverso l’obbligo assunto nei confronti del “metodo trascendentale”» (ivi, pp. 349-350). 76 Cfr. sul concetto di verità come concetto metodico dell’unità della ragione e del sistema ivi, p. 356: «Che cos’è questa verità del rapporto di logica ed etica? Niente altro che il metodo trascendentale o metodo della purezza, compreso come metodo unitario di logica ed etica [cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 90 s.; trad. it. cit., p. 68]. […] Costruire la “verità” unitaria sulla logica e sull’etica, è la ragione (Vernunft) del metodo o precisamente la ragione metodica. Se nella teoria della verità di Cohen il concetto della purezza descrive il […] lato metodologico della verità, il concetto dell’ipotesi (fondazione presuppositiva) accentua il momento razionale-teoretico (vernunftteoretisch). La verità va ricercata soltanto nella “metodica della fondazione” comune alla logica e all’etica [cfr. ivi, pp. 447 e 327; trad. it. cit., pp. 322 e 237]. Non c’è altra certezza che l’ipotesi, cioè ciò che è raggiungibile nel procedimento della fondazione presuppositiva (vorausseztende Grundlegung); questo vale anche proprio per la legge morale, per la quale si potrebbe aspirare a un accertamento assoluto o alla riconduzione a una legge di natura. Con la “legge fondamentale della verità” la sistematica filosofica viene fondata senza la garanzia metafisica di Dio, natura, essere, ecc.: l’unità sistematica della ragione è unità del metodo, “metodo” concepito come fondazione presuppositiva; la verità – compresa come metodo, attraverso cui possono essere prodotte logica e etica, entrambe contemporanemente e non una soltanto – è ricerca della verità [cfr. ivi, p. 91; trad. it. cit., p. 68]». 77 A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 75. Cfr. anche H. Cohen, Vom ewigen Frieden (1914), in Kleinere Schriften V. 1913 – 1915, in Werke, cit., Band 16, pp. 311-318, in part. le pp. 314-315: «La verità, così come noi comprendiamo quest’idea fondamentale dell’idealismo critico, consiste nella distinzione dell’idea come compito infinito per tutti i fini morali sia del genere umano sia dell’individuo singolo, nella distinzione di questo significato etico dell’idea da ogni realtà esistente della natura e da ogni esperienza storica. Ambedue le cose sono necessarie: la distinzione, ma anche la salvaguardia di ambedue gli elementi nel loro uguale valore logico, così come la realtà esistente mantiene il suo valore di fronte all’idea, e l’idea fonda solo il proprio significato nell’ammonimento e nella guida con cui si prende cura della realtà esistente. Questa verità dell’idea-

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4. Storia messianica e comunità scientifica lismo, che rende allo stesso tempo onore alla realtà esistente, ci assicura la veracità personale di tutto il nostro pensare, indagare e agire» (trad. it. cit. da A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., pp. 75-76). 78 Cfr. a proposito del primato, in Cohen, della logica nella definizione del metodo della purezza per tutto il sistema, e quindi della concezione della dottrina etica (e anche di quella estetica) come un modo di conoscenza, ancora H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (a cura di), Hermann Cohen, cit., p. 352: «Nel concetto di legge appare chiaro che e fino a che punto il primato metodico della logica si ripercuote fin nella concettualità genuinamente etica. Nella fondazione della legalità (Gesetzlichkeit) del pensiero come tale la “legge” ha il significato di principio o conoscenza pura (LRE B 517) e produce la fondazione metodica di tutte e tre le direzioni della cultura (B 40). Ma anche le differenziazioni di concetti legislativi speciali, prima di tutto dei concetti delle leggi della natura e dei costumi (Sitten), è ancora affare della logica, nella misura in cui essa si estende in modo metodico-trascendentale a tutte le forme di legalità culturale realizzate. Come si mostra già nel concetto della legge, che la logica abbia la precedenza comprende in sé d’altro canto che all’etica venga assicurata razionalità, più precisamente, che le venga assicurato lo status di una disciplina filosofica, che contiene conoscenza. “Se dunque l’etica è una dottrina della volontà pura, allora, come dottrina riferita alla purezza, deve essere un tipo di conoscenza” (E[thik des] R[einen] W[illens] B 29). Il collegamento con la logica garantisce questo attraverso il concetto del metodo della purezza, cioè nel rapporto trascendentale anche dell’etica a un fatto (Faktum) scientifico (come “analogon di un fatto teoretico” B 70 s.). – Il programma di una tale fondazione logica attraverso il metodo definisce un determinato concetto di etica». 79 Sul tema dell’unità della coscienza come problema fondamentale della filosofia di Hermann Cohen si veda la dissertazione di D. Adelmann, Einheit des Bewußtsein als Grundproblem der Philosophie Hermann Cohens, Diss., Heidelberg, 1968 (in parte ristampata in H. Holzhey (a cura di), Hermann Cohen, cit, pp. 269-292). 80 Anche per Kant la filosofia trascendentale è, come si è già visto, «l’idea di una scienza» come «sistema di tutti i principi della ragion pura», mentre la critica della ragion pura è «l’idea completa della filosofia trascendentale, ma non ancora questa scienza stessa, giacché nell’analisi va soltanto fin là dove è necessario, per giudicare perfettamente la conoscenza sintetica a p r i o r i » (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 27-29, pp. 64-65; trad. it. cit., pp 59-60). È importante inoltre tenere presenti l’idea della scienza e l’idea dell’università di Fichte e di Nietzsche, alle quali Benjamin si riferisce esplicitamente in una lettera a Blumenthal (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 15-4-1914, in GB I, p. 226). Egli scrive lì di voler utilizzare l’opera di J.G. Fichte, Deducirter Plan einer zu Berlin zu errichtenden höheren Lehranstalt, die in gehöriger Verbindung mit einer Akademie der Wissenschaften stehe (1807) (in Sämmtliche Werke, hrsg. von J.H. Fichte, Maner & Müller G. m. b. h., Leipzig, 1924, vol. 8, pp. 97-204), e l’opera di F. Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1871/72) (in Nietzsche Werke, hrsg. v. G. Colli u. M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1973, Band III, 2, pp. 135- 244) per un suo intervento (di cui non è pervenuta alcuna redazione, tranne una parte che è stata incorporata da Benjamin ne La vita degli studenti), che ebbe effettivamente luogo il 4 giugno 1914 al convegno per la “XIV Giornata dei Liberi studenti” a Weimar. 81 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 76; trad. it. cit., p. 138. 82 Nel frammento benjaminiano Il compito infinito (1917) emerge molto chiaro il concetto di autonomia della scienza (la scienza ha lì sia il significato di membro del sistema

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung – in quanto ogni membro è una scienza – sia quello di intero sistema della filosofia) fondata sul suo essere compito infinito, cioè sul fatto che non vi siano compiti dati dall’esterno e che essa sia indipendente da valori esterni e dall’empiria, e quindi sia, in ogni sua parte, fondata sul suo autonomo principio metodologico, la sua interna idea guida (cfr. W. Benjamin, Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, pp. 51-52, frammento 30). Il tema dell’autonomia della scienza e della libertà della ricerca nel pensiero kantiano è stata messo in risalto da Silvestro Marcucci in un convegno dedicato a Kant e l’attualità della Critica del Giudizio, che si è tenuto l’11e il 12 novembre 1999 al Goethe Institut di Roma in occasione della presentazione della nuova traduzione italiana della kantiana Kritik der Urteilskraft curata da Emilio Garroni e Hansmichael Hoenegger (cfr. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999). Il concetto di sistematicità e di unità sistematica e finalistica in Kant, dice Marcucci nella sua relazione Estetica ed epistemologia in Kant. Alcune osservazioni sul rapporto tra ragione e facoltà del giudizio, è per Kant sinonimo di scientificità, e la facoltà del giudizio fornisce la legge al giudizio estetico ma anche al giudizio scientifico, e permette la fondazione della libertà e autonomia della ricerca mettendo in rapporto ragione e intelletto. Né l’intelletto né la ragione, ma solo la facoltà del giudizio riflettente, con le sue massime, permette un’indagine sistematica della natura nelle sue leggi particolari. Gianna Gigliotti, nella sua relazione Sentimento e facoltà del giudizio, letta al medesimo convegno, ha messo in risalto la valenza etica che nella terza Critica può prendere la facoltà del giudizio come facoltà che deve essere acquisita, e il concetto di senso comune come “dover essere”, come sentimento senza carattere conoscitivo che ha l’universalità formale del Sollen. L’etica kantiana è a suo avviso un’etica del giudizio e nel sistema delle facoltà conoscitive il problema del rapporto tra costititutivo e regolativo si pone come problema che ha al suo centro il concetto di finalità senza scopo. 83 Cfr. F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen II, Von Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, Kritische Studienausgabe, cit., Band 1, pp. 243-334, pp. 330-334; trad. it. cit., pp. 96-99: «la vita è il potere più alto, dominante, poiché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe nel contempo se stessa. La conoscenza presuppone la vita […]. Quindi la scienza ha bisogno di una superiore vigilanza e sorveglianza […]. E qui io vedo la missione di quella gioventù […]. La sua missione consiste […] nello scuotere le idee che questo presente ha della “salute” e della “cultura”, e nel generare scherno e odio contro così ibridi mostri concettuali […]. [La gioventù] viene invece convinta solo da una forza in essa attiva, che lotta, stacca e divide, e in ogni ora buona da un sempre accresciuto sentimento della vita. […] Ognuno deve organizzare il caos [della cultura e della storia] in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri […]; comincerà allora a capire che la cultura può essere ancora qualcosa d’altro che decorazione della vita […]. Così gli si svelerà il concetto greco della cultura – in contrapposizione a quello romano – il concetto della cultura come una nuova e migliorata physis, senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della cultura come un’unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere. Così imparerà per esperienza propria che fu la forza superiore della natura morale, quella con cui i Greci riuscirono a vincere su tutte le altre civiltà, e che ogni accrescimento di veracità è destinato ad essere anche un avanzamento che prepara la vera cultura, sebbene questa veracità possa anche per caso nuocere seriamente proprio alla “culturalità” che è in stima, e sebbene essa possa contribuire a far cadere persino tutta una cultura decorativa». 84 Cfr. Benjamin a L. Strauss, 21-XI-1912, in GB I, p. 76; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, in «MicroMega», 3, 1997, p. 208. 85 Cfr. P. Fiorato, Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di

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4. Storia messianica e comunità scientifica Hermann Cohen, cit., pp. 316-320: «La sovranità del pensiero nei confronti dell’essere è però, innanzitutto, l’espressione della radicale assunzione di responsabilità che comporta il passaggio dalla condizione di suddito a quella di colegislatore – e anche nella necessità di restituire al futuro il significato pregnante di fronte decisivo della realizzazione si esprime, in realtà, un’esigenza analoga. Con il riferimento al concetto di responsabilità si è individuato il punto dove l’antiontologismo coheniano rivela, proprio alla sua radice, un’ispirazione e una valenza etiche. È questo infatti il luogo (inospitale) dell’etica. È da qui, da questa “abissale” coscienza di sé del pensiero, che l’etica deve prendere le mosse: non nel senso che in praktischer Absicht sia possibile attingere […] un nuovo fondamento assoluto, ma nel senso per cui l’etica non è propriamente altro che l’elaborazione di tale “non–attingimento”. […] È “l’esperienza metafisica dell’abisso della contingenza intellegibile di tutta la conoscenza” [P. A. Schmid, Ethik als Ermeneutik, cit., p. 147] a costituire il punto di partenza dell’etica. […] Proprio il riconoscimento del fatto che […] “l’autonomia […] è autotelia” (K[ants] B[egründung der] E[thik] 270; tr. it. cit. 241) conferisce al principio dell’autolegislazione un respiro e una portata tali da consentire di scorgere in esso il vero luogo di elaborazione del problema della contingenza e del senso. […] [Cohen pone] le fondamenta del suo antiescatologismo etico [quando dice:] […] “[…] [S]arebbe un cattivo uso dello schema pratico, che diventerebbe uno stereotipo, voler domandare ancora: fine in vista di che [zu was zu Ende]? La fine è qui. La legge morale è la legge finale [das Endgesetz]” (KBE 270; tr. it. cit. 241). […] È il “principio dell’umanità” a costituire così il criterio etico fondamentale che solo nell’apparente gratuità dello Selbstzweck, nel radicale riconoscimento che “la fine è qui” può essere rinvenuto». 86 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 75; trad. it. cit., p. 138. Qui c’è, oltre al significato di allontanamento, distacco dalla scienza e quindi dalla autonomia, un accenno terminologico alla «soluzione» (Lösung) di un compito conoscitivo e sistematico che di fatto non può mai essere adempiuto in singoli passi e singole soluzioni, perché la scienza (vista come sistema delle scienze e della filosofia) è compito infinito, ideale irraggiungibile ma immanente come idea. Si veda ancora il frammento di Benjamin del 1917 Die unendliche Aufgabe, su cui si tornerà in seguito: «Come si struttura (gestaltet) nel concetto del compito infinito il rapporto del compito con la soluzione? […] La scienza non è soluzione né è costituita di soluzioni (Aufgaben): per questo è “compito infinito”» (Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, p. 52). Benjamin, come si è visto in una nota precedente, critica nel frammento Zweideutigkeit des Begriffs der “unendlichen Aufgabe” in der kantischen Schule” (in GS, VI, p. 53, frammento 32, 1918 ca.) il concetto del compito infinito della scuola neokantiana, ma individua due concetti di compito infinito, uno dei quali, considerato da lui migliore anche se empirico, potrebbe essere vicino al concetto di compito infinito di Hermann Cohen. 87 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 77; trad. it. cit., p. 139. 88 Ivi, p. 76; trad. it. cit., p. 138. 89 Ivi, p. 76; trad. it. cit., p. 139. Qui si può forse vedere una concezione platonica dell’unità del sapere nella comune origine nell’idea del bene. Cohen stesso aveva visto l’origine della logica e della scienza nell’idea dell’ipotesi formulata da Platone, che egli sviluppa nel principio dell’origine: «Bisogna tenere qui presente il ruolo determinante della componente platonica nel pensiero di Cohen […]: nella Logik der reinen Erkenntnis, il riferimento a Platone è essenziale per la nuova impostazione della filosofia di Cohen. Come si ricorderà, già in Platons Ideenlehre und die Mathematik Cohen accentuava molto la continuità tra i due momenti della conoscenza intelligibile, dianoia e noésis; essi sono per Cohen due momenti essenziali e complementari del pensiero puro, in quanto que-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung sto consiste nella ricerca di un fondamento del concetto nella fondazione stessa, cioè nell’idea come ipotesi. […] Platone pensava di trovare il principio primo nell’idea del bene, nell’anypotheton; Cohen invece, nella Logik der reinen Erkenntnis, formula il “principio dell’origine” (LRE 35), che gli permette […] di dare una soluzione adeguata al “problema dell’origine” (LRE 35) mantenendosi all’interno del pensiero puro come “pura attività” (Tätigkeit) (LRE 29), come fondamento (Grundlage) che si risolve nella “fondazione” (Grundlegung)» (A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 96) e produce il suo contenuto. Le leggi-del-pensiero, come leggi della logica formale, non valgono in Cohen nella Logik solo per la scienza della natura, ma anche per tutta la conoscenza pura, quindi anche per le scienze dello spirito. Vi sarebbe in lui, soprattutto nell’elaborare il concetto fondamentale di verità come sistema dei concetti, un primato della logica, ma non della scienza della natura, anche se essa costituisce il modello storico e teorico da cui la filosofia è partita per determinare i suoi principi. Già nella Logik egli si rende però conto che il significato pieno della verità, come sistema dei concetti e della conoscenza pura, che nel carattere aperto di questo si pone come compito (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 395-397), non può «emergere unicamente nella logica, ma solo nell’unità complessiva del sistema, e in particolare nel rapporto tra logica ed etica (cfr. LRE 610)» (A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 111). Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 610: «Questa unificazione dei singoli ambiti (Gebiete) si compie nel sistema, come verità [nel rapporto] tra logica e etica». Si è già visto che il fondamento più profondo, non soltanto metodico ma legato all’uomo, dell’unità del sistema, e quindi della verità, lo darà in Cohen il concetto dell’unicità di Dio della filosofia della religione. 90 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 76; trad. it. cit., p. 139. 91 Ivi, p. 77; trad. it. cit., p. 139. 92 Ibid. 93 Ivi, p. 78; trad. it. cit., p. 140. 94 Ivi, pp. 77-78; trad. it. cit., p. 140. 95 Di scetticismo Benjamin aveva parlato già nel Dialogo sulla religiosità contemporanea: «La moralità sociale, che con entusiasmo giovanile vogliamo costruire, è legata alla profondità scettica delle nostre conoscenze (Einsichten)» (Dialog über die Religiosität der Gegenwart, in GS, II, 1, p. 24; trad. it. cit., p. 33, traduzione modificata). Lo scetticismo, come critica del sapere come sistema totalizzante che assume un significato religioso, come nel monismo e nel panteismo, è per Benjamin una caratteristica della gioventù studentesca attuale, ed è la possibilità di uscire da una concezione autoritaria della conoscenza e da una visione del lavoro sociale come attività astrattamente complementare alla teoresi ma non formativa per la totalità interiore dell’individuo. A una totalità di questo tipo Benjamin aspira già in questo testo, quando identificando il concetto di essa con l’«autenticità più personale (persönlichster Ehrlichkeit)» (ivi, p. 30; trad. it. cit., p. 39, traduzione modificata) vicina al pensiero di Kierkegaard, egli vede nel sentimento religioso, che si trova come il sapere (la filosofia della natura) in una dimensione temporale compiuta nel passato e aperta al futuro e alla trasformazione e al recupero di radici passate che possono (messianicamente) dare i loro frutti nel presente, la soluzione al dualismo necessario tra ambito teoretico e pratico: «il sentimento religioso ha radici nella totalità del tempo; ad essa appartiene il sapere. Se il sapere non fosse problematico, una religione che ha a che fare con l’essenziale non avrebbe bisogno di avere a che fare con questo sapere. E forse non c’è stato un tempo in cui il sapere sia stato contestato naturalmente come problematico. Ci sono voluti i fraintendimenti storici per arrivare a questo. […] Penso che in fin dei conti una religione non possa essere solo duali-

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4. Storia messianica e comunità scientifica smo, che l’autenticità e l’umiltà di cui abbiamo parlato sia il suo concetto moralmente unificante» (ivi, p. 34; trad. it. cit., p. 42, traduzione modificata). 96 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 78; trad. it. cit., p. 140. 97 Benjamin segue sicuramente un corso di Cassirer, che insegnava a Berlino dal 1906, nel semestre estivo del 1915, come si vede da una cartolina a Fritz Radt del maggio 1915: «Caro Franz, nel caso improbabile che lei non sia al corso (Cassirer), questa cartolina deve dirle […]» (Benjamin a F. Radt, 14-V-1915, in GB I, p. 266). Per la possibile influenza del pensiero di Cassirer su Benjamin, cfr. i prossimi capitoli. 98 Benjamin chiede in una cartolina all’amico Erwin Loewenson di apporre per lui, magari attraverso il comune amico Baumgart, la firma di frequenza per il seminario di Benno Erdmann: «Mi permetto di chiederti […] eventualmente tramite il Sig. Baumgart – di voler apporre la firma di frequenza per il seminario di Erdmann» (Benjamin a E. Loewenson, 3-IX-1914, in GB I, p. 253). Secondo i curatori delle lettere di Benjamin, il filosofo e psicologo Benno Erdmann era dal 1909 a Berlino, e Benjamin avrebbe frequentato il suo seminario “Esercitazioni sulla deduzione kantiana delle categorie” (cfr. ivi, p. 254); i risultati di questo seminario sono probabilmente contenuti nel testo di Benno Erdmann per la seduta della classe di storia della filosofia del 25 luglio 1915 alla Akademie der Wissenschaften di Berlino, pubblicato nei Sitzungsberichte: cfr. B. Erdmann, Kritik der Problemlage in Kants transzendentaler Deduktion der Kategorien, in Sitzungsberichte der Königlich. Preussischen Akademie der Wissenschaften. Sitzung der philosphisch-historischen Klasse von 25. Februar, Berlin 1915. Secondo la testimonianza di Scholem, Benjamin nel 1915 avrebbe letto la Critica della ragion pura solo fino alla “deduzione trascendentale”, dove si sarebbe arenato (cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 20; trad. it. cit., p. 29: «Benjamin mi confessò che in tutta sincerità di non essersi mai spinto al di là della “deduzione trascendentale”, che gli era risultata incomprensibile. Discutemmo della teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori, di matematica e di Henri Poincaré, la cui critica alla teoria di Kant mi aveva allora impressionato molto»). Sicuramente Benjamin ha frequentato il corso, ma ha avuto difficoltà con la parte più complicata dell’opera e, come emerge dai riferimenti che si trovano nelle opere successive, avrebbe in seguito letto la Dialettica trascendentale. È molto probabile un suo ulteriore tentativo di affontare la deduzione trascendentale negli anni 1917-18, come è anche indicato nei Briefe di Scholem. Scholem scrive il primo agosto 1918 di aver letto con Benjamin per metà Kants Theorie der Erfahrung di Cohen insieme alla Critica della ragion pura di Kant (cfr. Scholem a L. Strauss, 1-VIII-1918, in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, cit., p. 169, lettera 66), e di aver interrotto la lettura perché entrambi delusi da Cohen. Per un profilo di Benno Erdmann cfr. M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, cit. pp. 101-102: «Benno Erdmann, studioso ed editore di Kant […] ha lasciato un’impronta profonda nella storiografia kantiana. La principale preoccupazione di Erdmann […] era – come ebbe ad osservare il Dilthey – […] di […] [avvicinare Kant] da “un sano punto di vista storico” collegandolo al suo ambiente filosofico e culturale [cfr. Dilthey, Gesammelte Schriften, vol. XVII, hrsg. von U. Hermann, Göttingen, p. 373]. […] Erdmann si augurava che l’analisi degli scritti del maestro Kant potessero contribuire ad una migliore comprensione delle radici del criticismo […] [attraverso una] esatta cognizione delle mediazioni storiche e delle indispensabili scansioni cronologiche; […] [egli] si mostrava polemico con le impostazioni […] di Fischer e di Cohen, e rivendicava una “schietta filologia” come rimedio tanto alle genericità di certa storiografia amante delle formule sbrigative, quanto al disprezzo dell’accurato lavoro storico […]. Per Erdmann non vi era pertanto alcun dubbio sulla superiorità del metodo genetico rispetto all’interpretazione sistematica che accampa pretese di validità storiografica. […] Dei molti lavori che su queste basi Erdmann avrebbe dedicato a Kant – spaziando dall’edizio-

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung ne dei Prolegomeni ad un’analisi delle due redazioni della Critica della ragion pura – il più significativo rimane l’edizione delle Reflexionen kantiane pubblicata tra il 1882 e il 1884, cui spetta il merito di aver reso accessibili per la prima volta materiali inediti di fondamentale importanza per la comprensione della genesi del criticismo kantiano, e di averne offerto al tempo stesso un ordinamento cronologico e un’interpretazione complessiva di cui tutta la ricerca successiva non ha potuto non tener conto». 99 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 77; trad. it. cit., p. 140. 100 Cfr. ivi, pp. 77-78; trad. it. cit., pp. 139-140: «È vero che le organizzazioni dei Liberi studenti, come sono chiamate, e altre organizzazioni con finalità sociali, hanno intrapreso un apparente tentativo di soluzione. Ma esso si riduce in ultima istanza a una completa legittimazione dell’istituzione, e mostra, più chiaramente di quanto non sia accaduto prima, come gli studenti oggi non costituiscano una comunità capace di porre il problema di una comunità scientifica in genere, e di comprendere la sua irriducibile protesta contro la vita professionale del tempo. […] Ma l’operare socialmente fondato che incontriamo oggi non contiene la totalità, è interamente frammentato e deviato […] Nella stragrande maggioranza dei casi l’attività sociale dell’uomo medio serve a rimuovere gli impulsi originari e non deviati dell’uomo interiore ». 101 Il concetto di astrazione, opposto a quello di concretezza, si presenta come concetto parallelo a quello di “vuoto”, che indica ciò che è “privo di contenuto spirituale e religioso”, ciò che è puramente concettuale e astratto, fisico-matematico e meccanico. Cfr. ivi, p. 79; trad. it. cit., p. 141 (traduzione modificata): «Ma l’obiezione più propria e più profonda non è questa – che il lavoro sociale è sostanzialmente privo di legami con il lavoro proprio e peculiare dello studente, gli sta astrattamente di fronte (e costituisce perciò un’espressione estrema e quanto mai deplorevole di quel relativismo che vuole che ogni fenomeno spirituale sia accompagnato da un fenomeno fisico, che ogni tesi abbia la sua antitesi, che lo vuole con ansia e puntiglio, perché è incapace di vita sintetica); no, il punto decisivo non è che l’intera sua totalità sia un’utilità generale del tutto vuota, il punto decisivo è che nonostante tutto essa pretenda il gesto e l’atteggiamento dell’amore, là dove c’è solo un dovere meccanico, anzi, dove spesso non si fa che scantonare per sfuggire alle conseguenze dell’esistenza spirituale critica a cui lo studente è tenuto (verpflichtet). Poiché in realtà lo studente è tale al fine che il problema della vita spirituale gli stia a cuore più della prassi dell’assistenza sociale». 102 Ivi, p. 78; trad. it. cit., p. 141. 103 Ibid. 104 Ivi, p. 79; trad. it. cit., p. 141. Cfr. ivi, p. 79; trad. it. cit., pp. 141-142, traduzione modificata: «Per l’opinione pubblica il lavoro sociale continua ad essere quel peculiare miscuglio di dovere e di carità dei singoli. Gli studenti non hanno saputo dare forma alla loro necessità spirituale, e quindi non hanno neanche potuto fondare, in essa, una comunità veramente seria, ma solo una comunità zelante e interessata. Quello spirito tolstoiano che rivelò l’abisso che si spalanca tra la vita borghese e quella proletaria, il concetto che servire i poveri è un compito dell’umanità (Menschheitsaufgabe), non un’occupazione secondaria degli studenti, che qui, proprio qui volle tutto o nulla, quello spirito che si formò nelle idee degli anarchici più profondi e nei monasteri cristiani, questo spirito veramente serio di un lavoro sociale che non ebbe alcun bisogno dei tentativi puerili d’immedesimarsi nella psiche dei lavoratori e del popolo – questo spirito nelle comunità studentesche non si è sviluppato affatto. L’astrattezza dell’oggetto, il suo isolamento è lo scoglio contro cui naufragò il tentativo di organizzare la volontà di una comunità accademica in modo da trasformarla in una comunità sociale di lavoro. La totalità del soggetto volente non trovò espressione alcuna, poichè in questa comunità la

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4. Storia messianica e comunità scientifica sua volontà non poteva essere rivolta al tutto». Qui appare tutta la forza dell’impegno politico di Benjamin, che non rifiuta il lavoro sociale, ma prospetta una visione seria e totalizzante del lavoro sociale come “compito per l’umanità”, rimandando all’immagine sociale degli anarchici e del clero regolare cristiano come esempio e simbolo del principio etico e religioso che deve ispirare la comunità studentesca come comunità sociale di lavoro, dove ogni soggetto deve poter esprimere la sua volontà etica, cioè il suo sforzo verso l’idea etica, rispettando ed esaltando la sua totalità interiore come essere insieme naturale, etico e dotato di sensibilità estetica e rivolgendosi al prossimo e alla comunità come totalità. È interessante notare che la tesi X di Sul concetto di storia rimanda ancora nel 1940 alla regola monastica come modello di riflessione e di liberazione politica, contrapposto ai principi della socialdemocrazia: «I temi che la regola monastica assegnava ai frati per la meditazione avevano il compito di renderli estranei al mondo e alle sue faccende. Le riflessioni che veniamo svolgendo qui sono scaturite da un’analoga determinazione. In un momento in cui i politici nei quali avevano sperato gli oppositori del fascismo giacciono a terra e confermano la loro sconfitta col tradimento della loro stessa causa, esse si propongono di liberare i figli del secolo politici dalle pastoie in cui quelli li hanno irretiti. Questa considerazione muove dal fatto che l’ottusa fede di quei politici nel progresso, il loro confidare nella loro “base di massa”, e infine il loro servile inquadramento in un apparato incontrollabile, sono stati tre aspetti della stessa cosa» (Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, p. 698; trad. it. cit., pp. 38-39). 105 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 79; trad. it. cit., p. 142. 106 Ivi, p. 81; trad. it. cit., p. 143. 107 Ivi, p. 78; trad. it. cit., p. 141 (traduzione modificata). 108 Ivi, p. 83; trad. it. cit., p. 145. 109 Ivi, p. 81; trad. it. cit., p. 143. 110 Ibid. 111 Ivi, p. 81; trad. it. cit., p. 144. 112 Ivi, p. 82; trad. it. cit., p. 144. 113 Ibid. 114 Ivi, p. 83; trad. it. cit., p. 145. 115 Ibid. 116 Ivi, p. 82; trad. it. cit., p. 144. 117 Ivi, p. 82; trad. it. cit., p. 145. 118 Ibid. 119 Ivi, p. 83; trad. it. cit., p. 145. 120 Ivi, p. 84; trad. it. cit., p. 146. 121 Cfr. G. Wyneken, Eros, Adolf Saal Verlag, Launeburg/Elbe, 1921 e Id., Die neue Jugend. Ihr Kampf um Freiheit und Wahrheit in Schule und Elterhaus, in Religion und Erotik, Georg E. Steinicke Verlag, München, 1914. 122 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 83; trad. it. cit., p. 145. Sul rapporto tra creazione artistica e procreazione cfr. Platone, Simposio, 206b-209e. 123 Ivi, p. 84; trad. it. cit., pp. 146-147. 124 Ivi, p. 84; trad. it. cit., p. 147. 125 Ivi, p. 84; trad. it. cit., p. 146. 126 Ivi, p. 84; trad. it. cit., p. 147. 127 Ivi, p. 85; trad. it. cit., p. 148. 128 Ivi, p. 84; trad. it. cit., p. 147. 129 Ivi, p. 85; trad. it. cit., p. 147. 130 Ivi, p. 85; trad. it. cit., p. 148. Per il tema dell’anima, della Seele, Benjamin può

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung essere stato influenzato da Ludwig Klages, che egli incontra a Monaco e invita per una conferenza nello Sprechsaal. Klages tiene nello Sprechsaal di Berlino nel luglio del 1914 la conferenza Dualität der Persönlichkeit und Wesensunterschied von Geist und Seele (cfr. Benjamin a E. Schoen, 22/23-VI-1914, in GB I, pp. 237 e 239). Per il legame di Benjamin con il pensiero di Klages cfr. W. Fuld, Walter Benjamins Beziehung zu Ludwig Klages, in «Akzente. Zeitschrift für Literatur», 28, 1981, pp. 274-287. Klages aveva partecipato alla giornata dei movimenti giovanili sul Hohe Meißner dell’ottobre del 1913 con l’intervento Mensch und Erde (pubbl. in L. Klages, Mensch und Erde. Sieben Abhandlungen, Eugen Diederichs Verlag, Jena, 19337, pp. 9-41) che denunciava l’annientamento dell’ambiente naturale da parte della società capitalistica, rivolta a un “progresso” e a una Zivilization che non serviva più l’uomo e i suoi bisogni. Il discorso si chiudeva con la premonizione inquietante dell’avvicinarsi dello spettro della guerra (cfr. W. Fuld, Walter Benjamins Beziehung zu Ludwig Klages, cit., p. 275). 131 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 86; trad. it. cit., p. 149 (traduzione modificata). 132 Ibid. Qui si può vedere un accenno alla profonda amicizia che legava Benjamin al poeta Fritz Heinle, anche lui attivo nella Jugendbewegung. L’infinità rimanda anche alla concezione coheniana dell’infinità nella religione. 133 Ivi, p. 87; trad. it. cit., p. 149 (traduzione modificata).

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù (1913-14)

Il saggio Metafisica della gioventù, composto da Benjamin tra la fine del 1913 e l’inizio del 19141 e rimasto incompiuto, contiene, insieme a una concezione del tempo messianica, una concezione del linguaggio ad essa collegata, che arriverà a maturità a contatto con le conoscenze di ebraistica di Gershom Scholem, nel 1916. Esso è formato di tre parti (di cui l’ultima forse non appartenente al ciclo) Il colloquio, Il diario e Il ballo2, e si presenta, almeno in parte, più come una composizione letteraria che come un saggio teoretico, con un carattere fortemente personale. Il testo, non nato per la pubblicazione, era circolato tra stretti amici. Esso rivela perciò, in modo più libero rispetto ai testi pensati e composti per la pubblicazione, tendenze teoriche forse ancora immature, ma meno nascoste.

1. Il colloquio Proprio l’espressione che dà il titolo allo scritto, “metafisica della gioventù”, pone in risalto in modo evidente la ricerca in nuce, ma già avviata in Benjamin da tempo, di una metafisica come filosofia della conoscenza, come etica ed estetica cui l’esistenza, la vita spirituale e naturale dello studente, del giovane e dell’uomo in generale, nella sua totalità, deve riferirsi come a un compito cui assoggettarsi nella propria nuda umanità. Questo compito sembra qui affrontato nella «forma (Gestaltung)»3 del linguaggio, in cui il «genio»4, il poeta, fa emergere il passato, come possibilità spirituale e ideale insita nella propria gioventù e ormai sfuggita, nel «colloquio (Gespräch)»5 con un essere silente che rappresenta questo passato ed è l’origine del linguaggio. Questo essere si presenta come «fonte non contenuta del senso»6, esso «tiene pronto il vero linguaggio»7, esso è Dio e rivelazione. La «donna» e la «prostituta»8 diventano in Metafisica della gioventù il simbolo concreto di Dio e «dell’umanità dell’altro»9, sono il silenzio e il tempo passato10 che in  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

colui che parla cercano una forma per esprimersi. «Colui che ascolta […] [e] colui che tace», Dio, la rivelazione o la donna, sono il senso e la sua rappresentazione, il passato dell’esistenza della gioventù come forza spirituale e grandezza ormai trascorsa, che tramite la «conoscenza del passato (Vergangenheit) quale […] [propria] gioventù»11 – il contenuto del colloquio – acquista lo status di “ciò che è stato (das Gewesene)”, nel linguaggio arrivato al limite del silenzio, ad opera del «creatore di ciò che è stato (des Gewesenen)»12, il genio e poeta, che attualizza e redime il passato non nel «ricordo», come ripresentazione di un momento vissuto (poiché egli è «immemore, […] il suo passato è […] diventato destino, [e] […] nel genio Dio parla e ascolta la contraddizione del linguaggio»13), ma appunto nel linguaggio: Chi parla entra in colui che sta in ascolto. Il silenzio si genera dunque dal discorso stesso. Tutti i grandi hanno solo un discorso, al limite del quale sta in attesa la silente grandezza. Nel silenzio si rinnova la forza: l’ascoltatore condusse il colloquio fino al limite del linguaggio, e colui che parlava creò il silenzio di un nuovo linguaggio, che egli stesso fu il primo ad ascoltare14.

Chi ascolta « è il passato del grande parlatore – che è insieme il suo oggetto e la sua forza morta»15. Il genio che parla, il poeta che crea dal silenzio il nuovo linguaggio «fa emergere in esso il passato, nascosto nel linguaggio egli accoglie in sé, nel colloquio, la femminilità che egli stesso è stato (sein Weiblich-Gewesenes)»16, perché dai colloqui oscuri possa irradiarsi «l’essenza (das Wesen)»17, l’idea metafisica, il «suono» della «redenzione»18. Il linguaggio essenziale, che non è chiacchiera (Geschwätz), ha il suo limite (Grenze) e la sua idea guida nel silenzio divino, nel futuro messianico che si riferisce a un passato da far rivivere e portare a compimento, «è nascosto come il passato, futuro come il silenzio»19, è cioè quell’essenza divina e ideale nascosta che si deve rivelare nell’attualizzazione del proprio passato (Vergangenheit) come forza spirituale e possibilità già stata (gewesen) e nuovamente irradiabile, nel futuro, come Wesen e Offenbarung: «Colui che parla cala nelle parole il ricordo della sua forza, e cerca forme in cui l’ascoltatore si riveli (sich offenbart)»20. Come uomo improduttivo (nel senso della persona estranea all’idea di “ufficio”), il poeta, il genio, il creatore «pone la domanda della rivelazione»21, in lui «Dio parla e ascolta la contraddizione del linguaggio»22. Il genio raggiunge la «grandezza» etica come «eterno silenzio dopo il colloquio» percependo non il significato ma solo, musicalmente, «il ritmo delle proprie parole nel vuoto»23.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù

Nella donna lesbica24 che tace, come alter ego dell’intellettuale che produce parole (crea) e non procrea, Benjamin vede quell’unità di erotismo e silenzio che considera un ideale dell’umanità nella sua totalità: «Il silenzio e la voluttà – eternamente divisi nel discorso (Gespräch) – si sono congiunti e identificati. Il silenzio dei discorsi era voluttà futura, la voluttà era silenzio passato»25, la rivelazione spirituale diventa erotismo compiuto nel futuro, l’erotismo, come felicità creaturale, il compimento delle forze spirituali del passato («L’altro discorso del silenzio è la voluttà»26). Da quest’unione nasce la possibilità che s’irradi nuovamente l’essenza (das Wesen), quell’essenza che era viva nella forza spirituale della gioventù e nella tradizione spirituale dei padri e degli avi, espressa in un simbolismo inconscio contro cui la stessa gioventù con la sua forza, ormai trascorsa, ha combattuto inconsciamente, fino a distruggere e a ridurre in macerie una tradizione in cui si può facilmente riconoscere la tradizione religiosa dell’ebraismo27 (ma anche la tradizione filosofica, letteraria, o la tradizione legata al quotidiano o a fenomeni culturali declassati, dimenticati o considerati secondari, o a realtà innovative che rivoluzionano la tradizione stessa28) reinterpretata dalla filosofia nel senso di una metafisica: Ciò che facciamo e pensiamo è colmo dell’essere dei padri e degli avi. Un simbolismo incompreso ci soggioga senza solennità. – Talvolta, svegliandoci, ci ricordiamo di un sogno. E così rari lampi illuminano le macerie della nostra forza che il tempo oltrepassò rapidamente. Eravamo abituati allo spirito […]. Il contenuto di ogni colloquio è conoscenza del passato quale nostra giovinezza, e orrore di fronte agli immensi campi di macerie dello spirito. Non avevamo mai visto, prima d’ora, il luogo della battaglia silenziosa che l’Io condusse contro i padri. Ora vediamo che cosa abbiamo distrutto e soppresso, senza saperlo (ohne Wissen). Il colloquio lamenta (klagt)29 la grandezza perduta30.

Colui che parla e che cerca Dio e il passato, con il lamento e la preghiera, quindi con un linguaggio musicale31, con un «ritmo […] [che risuona] nel vuoto»32, «lo fa per essere convertito»33, per tornare a ciò che ha perduto, alla tradizione spirituale e al simbolismo religioso che sembrano il solo contenuto possibile del linguaggio, come «grandezza», e della forza naturale dell’erotismo, al limite del «silenzio di un nuovo linguaggio»34.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung

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2. Il diario Il concetto di tempo messianico è alla base del secondo brano di Metafisica della gioventù, come già nel silenzio «colmo e compiuto» come passato della gioventù, come dimensione spirituale della tradizione che si può rendere attuale nel futuro, era presente il tempo come possibilità messianica della redenzione: il silenzio e il linguaggio (come linguaggio essenziale, non comunicativo) sono patrimonio di questo tempo, mentre «le parole si spengono nello spazio»35. Questo tempo è il tempo «giovanile, immortale»36 del diario che si inizia a scrivere nella disperazione che nasce nelle anime quando si tendono nell’ascoltare la «melodia della […] [propria] gioventù» come musica e tempo del «loro futuro più futuro» non realizzato, e contemporaneamente devono respirare «nel vuoto presente»37 del tempo astratto e misurabile meccanicamente, nel «vuoto del tempo (Leere der Zeit)»38 del «calendario, degli orologi e delle borse»39. Ponendosi la domanda «in quale tempo vive l’uomo?», colui che scrive il diario, capace di pensare ed agire, già sa che egli non «vive in nessun tempo»40, ma in una «atemporalità (Zeitlosogkeit)»41 in cui lo confina «l’immortalità dei pensieri e delle azioni […] in mezzo a cui sta in agguato l’inconcepibile morte»42, «poiché l’immortalità esiste solo nella morte e il tempo si leva alla fine dei tempi»43: grandezza, immortalità, redenzione e morte coincidono nel tempo messianico del diario e nella messianica fine dei giorni, in cui alla catastrofe distruttiva seguirà la venuta del Messia e l’affermazione della giustizia44. All’uomo che scrive il diario è sfuggito nella quotidianità il tempo «giovanile, immortale»45 come Medium in cui ascoltare la «pura melodia della sua gioventù», è stato sottratto il «silenzio colmo e compiuto (erfüllte Stille) in cui doveva maturare la sua futura grandezza»46. Nel diario egli si aggrappa al tempo come a uno strumento da suonare, liberatorio, in cui poter vivere e portare a compimento quella vita non vissuta che, «con il suo ritmo, consegue agli imperativi che determinano la vita di coloro che creano»47: Questo libro insondabile di una vita mai vissuta, libro di una vita nel tempo della quale tutto ciò che non vivemmo a sufficienza si trasforma e si compie48.

L’Io49 che scrive nel diario diventa tempo, «raggio del tempo»50 e «sta sull’orlo dell’immortalità, in cui precipita», in lui «scorre il tempo immortale, il tempo della sua stessa grandezza», il tempo compiuto del  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù

silenzio, del linguaggio, il tempo religioso del «credente»51 che scrive ad «intervalli (Abständen)»52. In quegli intervalli il tempo si raccoglie come tempo puro e compiuto e il diario stesso diventa tempo che accade alle cose e alle persone che vengono raccontate: Ma il tempo è tolto e superato, e superato è l’Io che agisce nel tempo: io sono interamente collocato nel tempo, che si irradia da me. A questo Io, alla creazione del tempo, non può accadere nulla. A lui si piega tutto il resto, a cui accade ancora il tempo […] [tutte le cose] continuano a vivere per l’Io e nell’Io. Ma per quest’ultimo, per la nascita del tempo immortale, il tempo non accade più. Gli accade l’atemporale, tutte le cose sono raccolte in lui, sono presso di lui. Onnipotente vive nell’intervallo, nell’intervallo (nel silenzio del diario) accade all’Io il tempo suo proprio, il tempo puro53.

Nell’intervallo come momento messianico, in cui si redime il passato non vissuto, l’Io è al sicuro, e da lì attinge la forza per «disconoscere il proprio destino»54 di morte, quel destino che è proprio invece delle cose che gli stanno intorno, come morte provocata dall’immortalità dell’Io: «Quel tempo – che è la nostra essenza (Wesen) – è l’immortale di cui gli altri muoiono. Ciò che uccide questi ultimi, ci fa sentire essenziali nella morte (nell’ultimo intervallo)»55. Questa morte è la determinazione delle cose che delimitano (grenzen) l’esistenza umana con la loro esistenza interrogativa, cui l’Io, che vibra (e vive nell’avvicendarsi di queste vibrazioni) come tempo di fronte alle cose, risponde domandando. L’Io dà un nuovo nome ad esse e le fa esistere nel proprio tempo immortale, crea un linguaggio del silenzio, in cui il tempo diventa lo spazio del paesaggio: Come paesaggio ci circonda tutto l’accadere, poiché noi, il tempo delle cose, non conosciamo alcun tempo. […] Il paesaggio fa di noi il suo centro […] al paesaggio accadiamo noi, suo centro56.

L’ambiente che circonda colui che scrive – il tempo passato che si fa spazio e si fa avanti per essere da lui redento e che, se egli soltanto fosse tempo (come nella visione borghese antropocentrica e meccanica), scomparirebbe – lo santifica, è il luogo simbolico della gioventù e della spiritualità in cui percorre il sentiero verso se stesso e verso Dio, è il passato di cui egli è il futuro, è il paesaggio che lo accoglie nella sua grandezza e nella nudità del futuro: L’unica risposta è che percorriamo un sentiero. Ma, mentre camminiamo, ci santifica lo stesso ambiente. E come noi determiniamo le cose senza

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung rispondere, con il movimento del nostro corpo, siamo il centro […], così sciogliamo alberi e campi dai legami con i loro simili, li inondiamo col tempo della nostra esistenza (Dasein). Determiniamo campi e montagne, nel loro arbitrio: sono il nostro essere passato – così profetizzò la giovinezza (Kindheit). Siamo il loro futuro. Nella nudità dell’avvenire il paesaggio riceve noi, i grandi. Denudato risponde al brivido della temporalità con cui noi aggrediamo il paesaggio. Qui ci destiamo, e partecipiamo al convito mattutino della gioventù. Le cose ci vedono, il loro sguardo ci lancia nel futuro, poiché noi non rispondiamo alle cose, ma le percorriamo. Intorno a noi è paesaggio dove noi respingemmo l’appello [della gioventù]. […] Precipitiamo di nudità in nudità. Ci raggiungiamo, raccolti in noi stessi57.

Il futuro che viene incontro nel paesaggio è rappresentato dalla donna amata, che viene incontro al dormiente58 nel sonno «dal limite della morte»59. Essa entra nel diario «con la storia del suo futuro» e rappresenta il tempo non consumato, non vissuto, della gioventù, «che essa raccolse nella sua morte»60. Entrambi, l’amata-morte e l’amante, si trovano nel paesaggio nudi, nel tempo del futuro. La donna è il ritmo del tempo passato della gioventù che ritorna come possibilità futura nel diario, ma anche come morte e redentore, come nemico, che è l’Io stesso che pensa e scrive i suoi pensieri: Questo ritmo del tempo che da ogni parte ritorna a noi è un ritmo che addormenta. Chi legge un diario, si addormenta, e compie quello che fu il destino di colui che lo scrisse. Sempre di nuovo il diario evoca la morte di colui che lo ha scritto, nel sonno di colui che lo legge; il nostro diario conosce solo un lettore, che diventa redentore, poiché è soggiogato dal libro. Noi stessi siamo il lettore, e il nostro nemico. […] Egli non è altro che l’Io rimosso, purificato, che indugia invisibile al centro indicibile dei tempi. Egli non si abbandonò alla corrente del destino che ci circondava. […] in mezzo alla corrente (Ström) sta il nemico. Ma più potente. Manda incontro a noi paesaggio e amata, ed è il pensatore instancabile dei pensieri che solo ci vengono61.

Il nemico, l’Io che pensa, è il tempo che «si nasconde nella muta melodia degli intervalli»62, dei momenti messianici che compongono una melodia silenziosa, è «la coscienza (Gewissen) indefessa, coraggiosa che ci pungola [e pungola la nostra immortalità]. Il nostro diario scrive le sue parole, mentre egli è all’opera al centro dell’intervallo. Nelle sue mani riposa la bilancia del nostro tempo e di quello immortale», mentre sempre «mettiamo in gioco l’immortalità, e sempre la perdiamo»63. Quando la bilancia del tempo e dell’Io troverà un equi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù

librio tra la spinta all’avventura e il «luminoso sapere (erleuchten Wissen)» della riflessione, dice Benjamin, allora «noi accadremo a noi stessi»64, faremo esperienza del futuro e del passato, del tempo e dell’immortalità. Il destino della grandezza, dell’immortalità (e della morte) che non ha ancora incontrato, si fa incontro a chi scrive il diario nella sua incompiutezza, per essere compiuto: E il destino è questo contromovimento delle cose che ha luogo nel tempo dell’Io. E quel tempo dell’Io in cui le cose accadono – è la grandezza. Per lei ogni futuro è passato. Il passato delle cose è il futuro dell’Io-tempo. Ma le cose passate diventano future. Una volta entrate nella distanza (intervallo, Abstand), nuovamente emanano il tempo dell’Io. Con gli eventi (Geschehnissen) il diario scrive la storia del nostro essere futuro. E quindi ci profetizza il nostro destino passato. Il diario scrive la storia della nostra grandezza a partire dalla morte. Per una volta il tempo delle cose è superato (aufgehoben) nel tempo dell’Io, il destino è superato nella grandezza, gli intervalli sono riassorbiti nell’intervallo […] – il grande intervallo. La morte65.

Anche qui è presente come ne La vita degli studenti e poi in Sul concetto di storia il concetto del passato da attualizzare e compiere come possibilità e chance per il futuro, come unico suo contenuto valido. Nell’intervallo messianico del diario si compie all’inverso quello che non abbiamo vissuto, il futuro diventa profezia del passato, della grandezza che non siamo stati ma che siamo a partire dalla fine, dalla morte: Nella morte noi accadiamo a noi stessi, il nostro essere-morti ci stacca dalle cose. E il tempo della morte è il tempo che ci è proprio. Redenti, vediamo risolversi il gioco, il tempo della morte fu il tempo del nostro diario, la morte dell’ultimo intervallo, la morte del primo nemico che ci amò, la morte, che ci porta nel centro indicibile dei tempi, noi con tutta la nostra grandezza e con i destini della nostra vasta superficie (Fläche). La morte, che per un solo istante (Augenblick) ci dà l’immortalità. Questo è il contenuto dei nostri diari – […]. L’appello che la nostra giovinezza […] respinse […] non è altro che un richiamo all’immortalità66.

Il contenuto del diario è quindi la morte, che dà l’immortalità nell’istante messianico, facendo rispondere all’appello della gioventù, al richiamo all’immortalità e alla grandezza morale, che si compie pienamente soltanto alla fine messianica dei tempi, dove si raccoglie e toglie ogni tempo, nella morte:

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung Entriamo nel tempo che fu nel diario, simbolo della nostalgia (Sehnsucht), rito di purificazione. Con noi le cose calano al centro, con noi, al pari di noi attendono il nuovo irraggiamento. Poiché l’immortalità esiste solo nella morte e il tempo si leva alla fine dei tempi67.

La redenzione individuale della creatura per ciò che essa non ha vissuto, per ciò che essa non ha fatto, accade sempre a ritroso, a partire dalla morte, nel ricordo delle generazioni future, nel racconto di chi scrive del suo destino e così lo compie, in chi legge il suo diario, poiché «solo per chi non ha più speranza è data la speranza»68.

3. Il ballo Nella terza parte di Metafisica della gioventù Benjamin identifica i sogni della gioventù con i sogni che portano negli occhi le fanciulle, segreti e inquietanti69, «luminosi di fronte al compimento (Vollendung)»70, portatori della redenzione di un passato non vissuto in un futuro di compimento. I sogni sono identificati con la musica (sempre legata al tempo messianico, come ritmo dell’Io, richiamo all’immortalità, melodia silenziosa e catena di intervalli) e con la danza che essa accompagna, la danza di corpi casti che promettono una nudità che simboleggia la purezza dell’idea morale, purezza rappresentata dalla fanciulla che «si staglia lontana in una fuga di sale (in einer fernen Saalflucht)»71: La musica solleva noi tutti all’altezza di quella striscia luminosa […]. Incomincia la danza. […] I nostri corpi si toccano cauti, noi tutti non ci svegliamo reciprocamente dai nostri sogni, non ci richiamiamo a casa nell’oscurità – dalla notte della notte, che non è giorno. Come ci amiamo! Come proteggiamo la nostra nudità! Tutti noi l’abbiamo imprigionata nella maschera variopinta, che rifiuta la nudità, che la promette. C’è in noi qualcosa di inaudito, che dev’essere taciuto. […] Dove stiamo, soli, su un palco di fanfare, soli nella chiara notte delle notti che noi stessi evocammo, il nostro animo fuggiasco invita ancora a sé una donna – una fanciulla – che si staglia lontana in una fuga di sale72.

Le solitudini si uniscono «nel cerchio della danza» attraverso la musica, e per la musica il pavimento di legno (e la danza) crea lo spazio dove la fanciulla sceglie gli uomini che si muovono «come se camminassero su una corda tesa in alto, attraverso la notte»73, come il funambolo dello Zarathustra. Solo nella musica la notte si rischiara e  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù

viene irradiata, viene superato il tempo. Nella notte il giorno viene consumato e redento, illuminato, dalla «musica [che] rapisce i pensieri»74: «Qui il tempo è stato catturato» e racchiuso, redento in un tempo diverso, non progressivo ma messianico. Lo stesso tempo della giustizia, redento, cui rimandano «le realtà reiette»75, non toccate dalla grazia, che circondano la casa della musica e del ballo: I poeti col loro sorriso amaro, i santi e i poliziotti e le auto che attendono. Talvolta la musica giunge fino a loro, e li seppellisce76.

La musica della promessa redentiva, del tempo raccolto in sé, della giustizia e del compimento, raggiunge a volte i poeti e i santi, i reietti della società e i profeti di una nuova spiritualità, e la polizia come garante di una giustizia inesistente, e li seppellisce a una profondità in cui soltanto il Messia, che ricomporrà i frantumi dei vasi sparsi nel mondo, potrà raggiungerli.

Note 1 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, pp. 91-104; trad. it. cit., pp. 93-107. Scrive Scholem nella sua biografia: «Il 10 maggio [1918], in segno di congedo, Benjamin mi diede il manoscritto incompiuto della sua Metaphysik der Jugend […], redatta nel 19131914, di cui io mi trascrissi una copia» (G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 77; trad. it. cit., p. 99). 2 Il curatore della traduzione italiana delle Opere di Benjamin Giorgio Agamben afferma che non è certo che i tre testi che compongono Metafisica della gioventù costituiscano un ciclo: «il terzo (der Ball) è, infatti, conservato sempre in una copia di Scholem, ma in un quaderno diverso (con l’indicazione: Frammento della “Metafisica della Gioventù”, gennaio 1914)» (W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 106-107). 3 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 4 Ibid. 5 Ivi, p. 91; trad. it. cit., p. 93. 6 Ibid.. 7 Ivi, p. 92; trad. it. cit., p. 94. 8 Ivi, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 9 Ivi, p. 92; trad. it. cit., p. 94. Sulla figura della prostituta come esibizione della corporeità del pensiero e del suo eros, come oggetto simbolico di fronte alla cultura (lo stesso ruolo, si badi bene, della gioventù e degli intellettuali) e sul rapporto della sua vita con la moralità, cui si è già accennato, si veda la lettera a Blumenthal del 23 giugno 1913 (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 23-VI-1913, in GB I, pp. 127-128; trad. it. cit., pp. 9-10). Cfr. a proposito di questa lettera F. Spagnolo Acht, Benjamin errante: la Metafisica della gioventù, in E. Fintz Menascé (a cura di), L’Ebreo Errante. Metamorfosi di un mito,

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung “Quaderni di Acme” 21, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, Cisalpino, Milano, 1993, p. 324: «La prostituta, dunque, incarna – nel senso di una attenzione all’aspetto umano, corporeo, del pensiero – l’erraticità intellettuale del flâneur nei confronti della tradizione. Il tema, come si vede, è ricco di suggestioni, soprattutto per quanto riguarda le affinità tra intellettuali e prostituzione: è molto suggestivo poterlo isolare già negli scritti giovanili». Cfr. inoltre le indicazioni sulla letteratura critica che si è occupata della figura della prostituta nelle opere benjaminiane più tarde: «[in] Susan Buck-Morss, […] The Dialectic of Seeing [Walter Benjamin and the Arcade Project, Cambridge, MIT Press, Ma. – London, 1989] […] il tema della prostituzione è messo in relazione con un vasto spettro di argomenti: le case di tolleranza come parte del paesaggio berlinese dell’infanzia di Walter Benjamin (p. 39); il nesso tra prostituzione e moda (p. 101); le immagini del giocatore d’azzardo e della prostituta nel contesto metropolitano (p. 104); la prostituta come figura chiave, secondo lo stesso Benjamin, di tutto il Passagen-Werk (p. 176); la prostituta come ur-form del lavoratore salariato (pp. 184-185); Charles Baudelaire, il quale, secondo Benjamin, […] [“era ‘l’impresario di se stesso’, mostrandosi con identità diverse – ora flâneur, ora prostituta; ora staccivendolo, ora dandy”] (p. 187); la prostituta come articolo di massa, in stretta connessione con le tematiche della comunicazione di massa e della perdita dell’aura» (ivi, p. 323, nota 32). 10 Cfr. Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 93; trad. it. cit., p. 95: «Egli deve affidarsi a colei che ascolta, affinché essa prenda per mano la sua bestemmia e la porti fino all’abisso in cui giace l’anima del parlante, il suo passato, il morto campo che da solo non saprebbe raggiungere. Ma qui attende da tempo la prostituta. Poiché ogni donna possiede il passato, ma in nessun caso il presente. Poiché difende il senso della comprensione, impedisce l’abuso delle parole e non lascia abusare di sé. Custodisce il tesoro di ogni giorno, ma anche quello di ogni notte, il bene supremo (das höchste Gut). […] Il presente che eternamente è stato (Die ewig gewesene Gegenwart) sarà di nuovo. L’altro discorso del silenzio è la voluttà». Si noti il riferimento alla filosofia pratica di Kant nel concetto del sommo bene. 11 Ivi, p. 91; trad. it. cit., p. 93. 12 Ivi, p. 94; trad. it. cit., p. 96. 13 Ivi, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 14 Ivi, p. 92; trad. it. cit., p. 94. 15 Ivi, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 16 Ivi, p. 95; trad. it. cit., p. 97. 17 Ivi, p. 96; trad. it. cit., p. 98. Per la differenza tra das Gewesene e das Vergangene, cfr. D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi “Sul concetto di storia” di Walter Benjamin, Guida, Napoli, 2002. Gentili mette in rilievo l’importanza e la centralità di questa distinzione terminologica per la filosofia della storia di Benjamin, soprattutto nel suo periodo più tardo. Qui si vede che la distinzione era già presente nel pensiero dell’autore negli anni 191314. Il Gewesenes è per Gentili ciò che del passato (Vergangenheit) è recuperato e attualizzato attraverso l’opera concettuale e conoscitiva dello storico (qui attraverso l’opera del genio), mentre ciò che è vergangen è parte del passato non redento, è parte della totalità ideale del passato e potrebbe non essere mai recuperato. Attraverso la conoscenza del Gewesenes Benjamin sembra voler ripristinare l’essenza, il Wesen, l’idea spirituale che è la stessa totalità della Vergangenheit in cui è compresa la redimibilità futura, offrire una sua possibile rappresentazione simbolica. Gentili vede nel Wesen la struttura concettuale del presente, lo spazio in cui è raccolto il passato e in cui si struttura la sua autocoscienza, in cui si costruiscono nuove prospettive, si può dire che esso sia per lui un momento del dispiegarsi spaziale dell’idea che può far spazio ad altri momenti (cfr. ivi, p. 47).

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 95; trad. it. cit., p. 97. Ivi, p. 95; trad. it. cit., p. 97. 20 Ivi, p. 91; trad. it. cit., p. 93. 21 Ivi, p. 92; trad. it. cit., p. 94. 22 Ivi, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 23 Ibid. 24 Sul tema della figura del femminile, della lesbica e della prostituta in Metafisica della gioventù e nelle opere successive di Benjamin fino ai Passagen c’è stata una discussione vivace a partire dalla fine degli anni ’80, soprattutto ad opera di studiose che si occupano di Benjamin anche in rapporto alla filosofia femminista. Christine Buci-Glucksmann, che si è occupata soprattutto della produzione benjaminiana degli anni ’30 (gli studi su Baudelaire e il Passagen-Werk), mette in risalto in essa la visione del corpo femminile come allegoria del Moderno, e la concezione dell’androginia come rottura «con gli umanesimi […] dell’uomo universale» e come immagine utopica di un “mondo complementare” assimilata all’Angelo ebraico della storia, «figura di una ‘androginia divina’ propria delle correnti utopiche del messianesimo» (Ch. Buci-Glucksmann, Benjamin e l’utopia del femminile. Arianna e il labirinto, in E. Rutigliano e G. Schiavoni (a cura di), Caleidoscopio benjaminiano, a cura di Edizioni dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma, 1987, pp. 305-328, p. 308). Cfr. inoltre S. Weigel, From gender images to dialectical images in Benjamins writings, in The actuality of Walter Benjamin, «New Formations», 20, Summer 1993, pp. 21-32; J. Wolff, Memoirs and micrologies: Walter Benjamin, feminism and cultural analysis, ivi, pp. 111-122; Id., The invisible flaneuse: Women and the literature of modernity, in A. Benjamin (ed.) The problems of modernity. Adorno and Benjamin, Routledge, London and New York, 1989, pp. 141-156; J. Hodge, Feminism and postmodernism: Misleading divisions imposed by the opposition between modernism and postmodernism, ivi, pp. 86-111; S. Weigel, Body and Image-Space. Re-reading Walter Benjamin, ed. by A. Benjamin, Routledge, London and New York, 1996, in part. i saggi Body- and image-space: Traces through Benjamin’s writings, pp. 16-29, Toward a female dialectic of enlightenment: Julia Kristewa and Walter Benjamin, pp. 63-79, From images to dialectical images: The significance of gender difference in Benjamin’s writings, pp. 80-94, The other in allegory: A prehistory of the allegory of modernity in the Baroque, pp. 95-105. 25 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 96; trad. it. cit., p. 98. 26 Ivi, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 27 Per il rapporto della Metafisica della gioventù con il concetto di tradizione (che è implicitamente la tradizione dell’ebraismo) cfr. F. Spagnolo Acht, Benjamin errante: la Metafisica della gioventù, in E. Fintz Menascé (a cura di), L’Ebreo Errante. Metamorfosi di un mito, cit., in part. le pp. 319-322: «L’esordio della Metafisica contiene uno dei punti nodali dell’intero pensiero di Walter Benjamin: il rapporto con la tradizione. Rapporto, innanzitutto, poiché è solo in seguito a un processo di relazione che il concetto stesso di tradizione si costruisce. La relazione che instaura questo rapporto si gioca tra “noi” – chi incomincia a porsi il misterioso problema del pensiero: la “gioventù” del titolo – da un lato, e i “padri” – che incarnano l’accezione comune del termine tradizione – dall’altro. Il rapporto si concretizza in un colloquio tra chi parla e chi ascolta: la tradizione ascolta, ma è muta. Le possibilità del pensiero, occasionali lampi illuminanti come brani di sogni ricostruiti al risveglio, scaturiscono da un confronto generatore di senso. Il pensiero si costruisce in opposizione e grazie al silenzio della tradizione: tutto ciò che è stato può (e deve) essere messo in discussione. Questo è il contenuto della tradizione: il mutismo di chi ascolta autorizza chi parla a mettersi in relazione con la totalità delle fonti, ponendo queste in rapporto fra loro. La tradizione porge da sé al pensiero i materiali che consentono a esso di avere luogo costruendone il senso» (ivi, pp. 320-322). 18

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung 28 Cfr. a proposito del vasto campo degli oggetti della tradizione in Benjamin B. Tackels, Walter Benjamin. Une introduction, Presses Universitaires de Strasbourg, Strasbourg 1992, p. 15. 29 Sul tema del lamento in Benjamin cfr. W. Benjamin, Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel und Tragödie (1916), in GS, II, 1, pp. 137-140; trad. it. Il significato del linguaggio nel Trauerspiel e nella tragedia, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 173-176. 30 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 91; trad. it. cit., p. 93 (trad. it. modif.). 31 Sulla filosofia della musica di Benjamin, in cui (soprattutto ne “Le affinità elettive” di Goethe e ne Il dramma barocco tedesco) la musica, come puro suono, è considerata l’arte più vicina alla lingua divina della creazione e il medium che lega la creaturalità umana e la possibilità della redenzione, cfr. E. Matassi, Gefühl-Rührung-Geheimnis. Il primato della musica in Walter Benjamin e E. Bloch, in Il sentimento e le forme, «Quaderni di Estetica e Critica», 2, 1997, pp. 117-138. Cfr. inoltre T. Tagliacozzo, La filosofia della musica di Hermann Cohen e Walter Benjamin. Ipotesi per una possibile influenza del pensiero musicale di Cohen sul saggio di Benjamin“Le affinità elettive” di Goethe, in «Materiali di Estetica», 3, 2000, pp. 73-102 e Id., Musica, tempo della storia e linguaggio nei saggi di Walter Benjamin sul Trauerspiel del 1916, in A. Pinotti (a cura di), Giochi per melamconici? Sull’“Origine del dramma barocco tedesco” di Walter Benjamin, Mimesis, Milano, 2003, pp. 39-55. Per il legame del pensiero musicale di Benjamin con la concezione cabbalistica del linguaggio, cfr. il saggio di G. Scholem, Der Name Gottes und die Sprachtheorie der Kabbala, in G. Scholem, Judaica 3, Suhrkamp, Frankfurt/M., 19817, pp. 7-70; trad. it. Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, a cura di A. Fabris, Adelphi, Milano, 1998, pubblicato nel 1970. Questo saggio indica al centro delle concezioni cabbalistiche prese in esame il ruolo predominante del linguaggio e del suono (e non dei significati) e dell’impronunciabile Nome di Dio nella Creazione e nella Rivelazione: «Verità, nel senso ebraico originario, era la parola di Dio percepibile acusticamente, cioè nel linguaggio. La rivelazione, secondo la dottrina della Sinagoga, è un evento acustico, non visivo, o per lo meno ha luogo in una sfera connessa metafisicamente con la dimensione acustica, sensoriale. Questo carattere viene sottolineato di continuo richiamando le parole della Torah (Dt, 4, 12): “Non avete visto alcuna immagine – soltanto una voce”» (ivi, p. 7; trad. it. cit., p. 11). Benjamin aveva recepito molti elementi della tradizione cabbalistica da sue letture di testi romantici (F. von Baader, F.-J. Molitor) e di argomento ebraico, e probabilmente dallo stesso Hermann Cohen, ma soprattutto dalle sue conversazioni con l’amico Scholem, che con la sua conoscenza dei testi cabbalistici (soprattutto di Abraham Abulafia), l’aveva influenzato nel componimento del saggio del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, pp. 140-157; trad. it. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 177-193). Sul tema cfr. M. Idel, A. Abulafia, G. Scholem and Walter Benjamin on language, testo inedito presentato a un convegno su Benjamin (Gerusalemme, 1992). Moshe Idel ha scritto una monografia su Abulafia dove ha trattato la teoria abulafiana della musica come mezzo mistico per raggiungere una dimensione estatica di rapporto con Dio. Cfr. M. Idel, The Mystical Experience in Abraham Abulafia, State University of New York Press, Albany N. Y., 1988; trad. it. L’esperienza mistica in Abraham Abulafia, a cura di P. Fiorini, Jaca Book, Milano, 1992. 32 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 93; trad. it. cit., p. 95. 33 Ivi, p. 91; trad. it. cit., p. 93. 34 Ivi, p. 92; trad. it. cit., p. 94. 35 Ivi, p. 96; trad. it. cit., p. 98. 36 Ivi, p. 97; trad. it. cit., p. 99.

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5. Tempo, rivelazione e linguaggio nel saggio Metafisica della gioventù 37

Ivi, p. 96; trad. it. cit., p. 98. Ivi, p. 97; trad. it. cit., p. 98. 39 Ivi, p. 97; trad. it. cit., p. 99. 40 Ivi, p. 96; trad. it. cit., p. 98. 41 Ivi, p. 97; trad. it. cit., p. 98. 42 Ivi, pp. 96-97; trad. it. cit., p. 98. 43 Ivi, p. 103; trad. it. cit., p. 105. 44 Sul legame tra catastrofe e redenzione in alcune teorie messianiche cfr. sopra 4. Storia messianica e comunità scientifica nel saggio La vita degli studenti (1914-15). 45 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 97; trad. it. cit., p. 99. 46 Ivi, p. 96; trad. it. cit., p. 98. 47 Das Leben der Studenten, in GS, II, 1, p. 87; trad. it. cit., p. 149. 48 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 97; trad. it. cit., p. 99. 49 Qui l’Io non è l’Io psicologico dell’esperienza vissuta: «Non la torbida interiorità di quel soggetto psicologico (jenes Erlebenden) che mi chiama Io e mi tormenta con la sua confidenza, ma raggio dell’altro che parve incalzarmi e che pure io stesso sono: raggio del tempo» (ivi, p. 97; trad. it. cit., p. 99). 50 Ivi, p. 97; trad. it. cit., p. 99. 51 Ivi, p. 98; trad. it. cit., p. 99. 52 Ivi, p. 98; trad. it. cit., pp. 99-100. 53 Ivi, p. 98; trad. it. cit., p. 100 (traduzione modificata). 54 Ibid. 55 Ivi, p. 98; trad. it. cit., p. 100 (traduzione modificata). 56 Ivi, p. 99; trad. it. cit., p. 101. 57 Ivi, pp. 99-110; trad. it. cit., pp. 101-102. 58 Al legame con la visione dei dormienti nello Zarathustra di Nietzsche si è già accennato sopra. 59 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 100; trad. it. cit., p. 102. 60 Ibid. 61 Ivi, pp. 100-101; trad. it. cit., pp. 102-103. 62 Ivi, p. 101; trad. it. cit., p. 103. 63 Ibid. 64 Ibid. 65 Ivi, p. 102; trad. it. cit., p. 104. 66 Ivi, pp. 102-103; trad. it. cit., pp. 104-105 (traduzione modificata). 67 Ivi, p. 103; trad. it. cit., p. 105 (traduzione modificata). 68 Goethes Wahlverwanschaften, in GS, I, 1, p. 201; trad. it. cit., p. 254. 69 Benjamin parla degli occhi delle fanciulle come dei «nidi segreti degli inquietanti (heimliche Nester der Unheimlichen), dei sogni, inaccessibili, luminosi di fronte al compimento» (Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 103; trad. it. cit., p. 105, traduzione modificata). C’è qui un chiaro riferimento, nel concetto di unheimlich, “inquietante”, all’omonimo concetto freudiano, in contrapposizione all’aggettivo heimlich, che significa segreto, ma anche proprio. 70 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, p. 103; trad. it. cit., p. 105 (traduzione modificata). 71 Ivi, p. 104; trad. it. cit., p. 106. Qui l’espressione fernen Saalflucht evoca l’immagine che Benjamin si è fatta del concetto neokantiano di compito infinito, in cui l’idea morale e redentrice indirizza la ricerca e l’azione in un percorso infinito, nella lontananza infinita (unendliche Ferne). Cfr. W. Benjamin, Chaplin (1929), in GS, VI, p. 138; trad. it.

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Etica, religione e storia tra kantismo e Jugendbewegung Chaplin, in W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, cit., p. 596: «lo si vede di spalle che, lentamente, si allontana sempre più, con la tipica andatura di Charlie Chaplin, il suo caratteristico marchio di autenticità ambulante, così come di solito, alla fine dei film compare la sigla della casa di produzione. E proprio qui, nella scena in cui non c’è alcuna cesura e in cui lo si potrebbe seguire con lo sguardo dell’infinito, proprio qui è la fine!» 72 Metaphysik der Jugend, in GS, II, 1, pp. 104-105; trad. it. cit., pp. 105-106. 73 Ivi, p. 104; trad. it. cit., p. 106. 74 Ibid. (traduzione modificata). 75 Ibid. 76 Ibid.

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Parte seconda Il compito del poeta e il sistema della verità. Influenze neokantiane nel saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin (1914-15)

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

Negli anni 1914-1915 Benjamin frequenta l’Università a Berlino, e segue le lezioni di Georg Simmel, di Ernst Cassirer e di Benno Erdmann1. Nel maggio 1914, dopo una scissione del movimento giovanile, che egli cerca di evitare, tra il gruppo guidato da Georg Barbizon e un gruppo di cui fa parte, con lui, il poeta e suo grande amico Fritz Heinle, egli assume la presidenza della Freie Studentenschaft e pronuncia una conferenza che riprende in Das Leben der Studenten. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, egli vive il dramma del suicidio dell’amico Heinle2, e nel 1915 si distacca da Wyneken, che aveva preso una posizione a favore della guerra con lo scritto Der Krieg und die Jugend 3, con una lettera aperta, e esce dal movimento giovanile. Nella prima stesura dell’articolo per il sessantesimo compleanno di Stefan George, che uscirà su Die Literarische Welt il 13 luglio 1928, egli scrive: «Nella primavera del 1914 apparve lo Stern der Bundes [Stella dell’alleanza] e dopo pochi mesi fu la guerra […]. Il mio amico morì […]. Seguirono mesi dei quali non so più nulla. Ma in questi mesi [,] che avevo consacrato interamente al mio primo lavoro più ampio, un saggio su due poesie di Hölderlin, che era dedicato al mio amico [,] le poesie che lui aveva lasciato vennero a occupare il posto preciso in cui la poesia poteva ancora agire su di me» (la frase in corsivo è cancellata nel manoscritto)4. Dal 1913 era in corso l’edizione critica delle opere di Hölderlin curata da Norbert von Hellingrath, seguace di Stefan George, che aveva pubblicato nel 1910 la sua dissertazione, uno studio sulle traduzioni hölderliniane da Pindaro5. Benjamin comincia a comporre il suo saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin6 sotto l’influenza di questo studio, che ne è la «motivazione esterna»7, mentre la motivazione più interna è la morte dell’amico poeta8. La morte del poeta e il coraggio per questa morte sono infatti i temi centrali delle due poesie (Dichtermut e Blödigkeit) di Hölderlin che Benjamin analizza e che considera due stesure diverse (rispettivamente la prima e la seconda) di una stessa poesia9. L’analisi che Benjamin compie di queste poesie, un  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

«commento estetico»10 che vuole avere alla base un metodo filosofico, rivela forti influenze neokantiane. Appare centrale il concetto neokantiano di “compito” (Aufgabe). Esso ha, nel sistema della filosofia di Hermann Cohen, il significato di idea regolativa di fine, che costituisce il compito della logica come idea di sistema, il compito dell’etica come idea della libertà e, nella Estetica del sentimento puro (1912), pone all’arte un compito ideale come idea della finalità (Zweckmässigkeit) estetica11. Benjamin vuole individuare il «compito» proprio di una «estetica dell’arte poetica» come «estetica pura» e come «scienza»12, e usa una terminologia che rinvia all’Estetica coheniana, in cui il principio metodologico della purezza, che si oppone a ogni forma di naturalismo, empirismo e sensualismo nell’arte, è fondamento dell’oggettività e universalità del creare artistico, e in cui l’arte, come Faktum scientifico a cui si riferisce la critica per indagare sulle sue condizioni a priori, è concepita metodologicamente come un analogo della scienza della natura. Egli individua il compito dell’estetica pura come scienza non solo nella già iniziata esplorazione dei singoli generi dell’arte poetica e soprattutto delle opere della classicità e tra queste in primo luogo della tragedia13, ma anche nel commento estetico e non esclusivamente filologico di composizioni liriche, quale quello delle due stesure di Hölderlin che intende mettere a confronto. Al commento estetico, cioè alla determinazione della struttura a priori che è alla base di prodotti poetici, proprio di un’estetica pura e scientifica dell’arte poetica, in particolare delle due composizioni liriche di Hölderlin, egli considera preliminare la definizione del metodo. Prima di specificare, proprio in quanto premessa metodologica, la nozione di struttura a priori dell’opera poetica che viene qui introdotta da Benjamin, è importante ricordare che la centralità del metodo, come “metodo trascendentale”, è una caratteristica del pensiero di Cohen: è a suo avviso «l’eredità intramontabile della filosofia di Kant […] la conseguenza metodologica del […] principio kantiano, secondo il quale “ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza, ma non perciò essa deriva tutta dall’esperienza”»14, per cui la filosofia deve prendere le mosse dall’esperienza, ma d’altra parte deve indagare le condizioni di possibilità dell’esperienza stessa, come Faktum della scienza, e, analogalmente, deve indagare a partire dai Fakta del diritto e dell’arte le loro condizioni di possibilità nell’etica e nell’estetica15. Benjamin indica il metodo di un commento estetico nella determinazione del compito poetico16, cioè nell’esplicitazione della strut www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

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tura spirituale-intuitiva dell’opera poetica (Gedicht) come suo presupposto a priori: Qui ci proponiamo di tentare un commento estetico di due composizioni liriche, e il nostro tentativo richiede alcune osservazioni preliminari sul metodo. Ci proponiamo di mettere in luce, in queste poesie, la forma interna, quello che Goethe chiama il contenuto [Gehalt]. Si tratta di determinare il compito poetico, come premessa per una valutazione della poesia (Gedicht). […] è la stessa serietà e grandezza17 del compito a determinare la valutazione. Poiché questo compito viene dedotto dalla poesia stessa. Deve essere inteso anche come presupposto della poesia, come struttura spirituale-intuitiva di quel mondo di cui la poesia testimonia. Questo compito, questo presupposto qui deve essere concepito come l’ultimo fondamento che è accessibile a un’analisi. […] [Con esso] si determina la sfera particolare e unica dove ha sede il compito e presupposto della poesia. Questa sfera è insieme prodotto e oggetto della ricerca18.

La «struttura spirituale – intuitiva»19 come «sfera […] dove ha sede il compito e presupposto della poesia» è una struttura a priori, che assume una forma particolare, «la forma interna della particolare creazione» (il Gehalt goethiano20) in ogni poesia e che è chiamata «“il poetato” [das Gedichtete]»21. La sfera del poetato è prodotto della ricerca in quanto essa si costituisce solo nella sua ricognizione come struttura a priori del prodotto poetico. In questa sfera, e non nel «processo della creazione lirica», nella «persona del creatore» o nella sua «visione del mondo»22 deve essere individuato quel settore (Bezirk) che contiene «la verità della poesia (Wahrheit der Dichtung)»23, come oggettività del creare artistico e adempimento del compito artistico di volta in volta dato. La forma interna, il Gehalt di Goethe, concetto che viene tematizzato anche da Norbert von Hellingrath24 come «forma linguistica»25, viene identificata da Benjamin, in quanto sua concretizzazione in una figura (Gestalt) particolare come forma interna dell’opera poetica, con quella struttura unitaria spirituale e intuitiva insieme, l’«unità sintetica dell’ordine spirituale e di quello intuitivo»26 che costituisce il compito della poesia, il poetato della poesia come ideale a priori: «Ogni opera d’arte contiene un ideale a priori, una necessità di esistere» (Novalis). Nella sua forma universale (allgemeine Form) il poetato è unità sintetica dell’ordine spirituale e di quello intuitivo. Questa unità viene ad assumere una figura (Gestalt) particolare, quando si configura come forma interna della particolare creazione27.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

Il poetato, come concetto metafisico che determina a priori la struttura della poesia, può essere ricondotto alla terminologia kantiana e neokantiana nel suo determinarsi come «unità sintetica»28 del molteplice che dà a priori i concetti della connessione: il molteplice non è però qui costituito, come in Kant, dal molteplice sensibile, ma dalle stesse forme pure dell’intuizione e anche dai concetti puri, che procedono insieme nel loro compito di costruzione della scienza, di cui le idee regolativamente determinano l’unità e la connessione reciproca. Si potrebbe paragonare il concetto di poetato come compito all’idea regolativa kantiana e alla sua interpretazione da parte di Hermann Cohen – che supera la divisione kantiana tra forme dell’intuizione e concetti dell’intelletto e deriva la conoscenza dal pensiero puro29 – come cosa in sé e concetto-limite (Grenzbegriff)30, come compito per l’unità sintetica e la totalità dell’esperienza. Il poetato è per Benjamin infatti un Grenzbegriff, un «concetto-limite», la funzione ideale regolativa che guida nella loro produzione e connessione le forme intuitivoconcettuali: come presupposto e compito della poesia, il poetato è «unità sintetica» di ordini funzionali intuitivi e spirituali «connessi in un’unità funzionale»31, è «l’a priori della singola poesia»32, la struttura teoretica che sta alla base di essa, in quanto «concetto-limite (Grenzbegriff)» che istituisce una unità di funzioni. Questa unità sintetica «contiene la verità della poesia»33 come unità funzionale di forme intuitive, concettuali ed “ideali” (idee regolative), è una concezione funzionale34 dell’a priori poetico che Benjamin elabora nel confronto con i pensatori della scuola di Marburgo, con Cohen e, come si vedrà più avanti, con Cassirer. Il concetto di compito nella conoscenza, come compito che non arriva mai a una soluzione definitiva ed è quindi infinito, si articola, in Hermann Cohen ma anche in Paul Natorp, nei due sensi della fondazione dell’esperienza su principi fisici-matematici e dell’individuazione parallela di un’unità dell’esperienza come massima per la ricerca che non può fondarsi sugli stessi principi dell’esperienza, ma ha bisogno di riferirsi a un incondizionato. Nel primo senso si parla, ne I fondamenti logici delle scienze esatte (1910) di Natorp, dell’«oggetto come compito infinito»35, e in Cohen, nella Logica della conoscenza pura, del «pensiero come compito»36, che opera tramite la separazione (Sonderung) e unificazione (Vereinigung), nella direzione della conservazione (Erhaltung) dell’oggetto della conoscenza tramite le categorie, compito che non arriva mai al compimento37. Parallelamente in Cohen38 emergono, a partire dalla prima edizione de La fondazione  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

kantiana dell’etica (1877) e poi nella seconda e terza edizione de La teoria kantiana dell’esperienza (1885, 1918), in riferimento strettissimo a Kant, i concetti di Grenzbegriff e Grenzbestimmung dell’esperienza, come compito del noumeno e delle idee di limitare l’esperienza contingente riferendola a un’unità non condizionata, e di dare accesso a questo incondizionato nella critica: Eppure è uno schema inevitabile del nostro pensiero che sospinge a questa trasposizione dei concetti dell’esperienza al concetto e all’unità dell’esperienza stessa. Sembra così come se ogni categoria avesse il suo particolare sostrato (Hintergrund) problematico. […] Il sostrato delimita (begrenzt) dunque l’ambito dell’esperienza. […] Questo fondamento non è dato oggettivamente, è purtuttavia il compito inevitabile della ragione […] è […] il compito eternamente insoluto e tuttavia ineliminabile di far sì che anche la contingenza intelligibile39 abbia diritto di accedere alla critica […]40.

Per Cohen la «cosa in sé è posta come compito dalla categoria»41 e ha il suo significato «nel porre i limiti (in der Begrenzung)»; essa non è un oggetto «quanto piuttosto la serie dei punti nei quali gli oggetti dell’esperienza sfociano nei loro limiti»42. Qui viene ripreso e commentato il tema kantiano del noumeno come compito e concetto problematico, concetto-limite (Grenzbegriff) «di un oggetto per una intuizione affatto diversa e un intelletto affatto diverso dai nostri; concetto che per se stesso è già dunque un problema»43. Per Kant infatti il «concetto del noumeno […] non è il concetto di un oggetto, ma il compito inevitabilmente connesso con la limitazione (Einschränkung) della nostra sensibilità; se non possano esserci oggetti del tutto indipendenti da quelli dell’intuizione propria di essa; questione, la quale non può ricevere se non una soluzione indeterminata, cioè: che poiché l’intuizione sensibile non si applica a tutte le cose indistintamente, c’è posto per più diversi oggetti […]»44. Già nell’Introduzione alla seconda edizione della Critica della ragion pura Kant presenta quelle “irrinunciabili” ricerche, quegli «inevitabili compiti (Aufgaben) della ragion pura [che] sono D i o , l a l i b e r t à e l ’ i m m o r t a l i t à »45 e dichiara che la «scienza poi, il cui scopo finale (Endabsicht) è con tutti gli sforzi indirizzato propriamente soltanto alla soluzione di essi, si chiama m e t a f i s i c a »46. Da queste idee derivano quei «compiti che […] devono poter essere risoluti, perché la ragione certamente può e deve dare compiuto conto del suo procedere»47. Esse sono le «idee psicologiche, cosmologiche e teologiche»48, che sono concetti  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

puri di ragione che non possono essere dati in nessuna esperienza e che guidano l’intelletto nel suo procedere nell’esperienza con “massime” che portano il suo uso a compiutezza e unità sintetica nel procurare alla conoscenza un’unità sistematica. Le idee esprimono la destinazione propria della ragione, di essere «un principio dell’unità sistematica dell’uso dell’intelletto»49. Questa unità del modo di conoscere è «soltanto regolativa, […] essa serve soltanto a portare l’esperienza in se stessa più vicino che sia possibile alla compiutezza, cioè a non porre, nel progresso dell’esperienza, confini (einschränken) con qualcosa che non può appartenere all’esperienza»: quando si prende per costitutiva nasce una dialettica che «sconvolge l’uso della ragione nell’esperienza»50 e mette in discordia la ragione con se stessa. In Cohen c’è uno spostamento rispetto al concetto di esperienza kantiano, l’esperienza viene identificata con la scienza fisico-matematica che si costruisce nei suoi concetti in un sistema aperto e potenzialmente infinito, e non è più riferita ai dati della sensibilità: l’esperienza stessa come totalità e insieme mai raggiunto delle conoscenze scientifiche è concepita come cosa in sé e compito infinito51. Né Kant né Cohen parlano precisamente di “compito infinito”, ma in Cohen il tema dell’infinità del compito della cosa in sé si esplicita nella terza edizione di Kants Theorie der Erfahrung: La cosa in sé […] [come] complesso (Inbegriff) delle conoscenze scientifiche [è il][…] compito del porre limiti (Bergrenzungsaufgabe) [ed è] […] senza fine, si ricrea in ogni oggetto. Tutto il nostro sapere è frammento, soltanto la cosa in sé è un tutto; perché il compito della ricerca è infinito52.

Nella Logica della conoscenza pura è centrale per Cohen l’idea dell’ipotesi scientifica, che si sviluppa nel giudizio logico dell’origine (Ursprung)53, come compito metodico e regolativo della produzione pura formale infinita e mai conclusa delle determinazioni categoriali. Lì si definisce il «pensiero come compito (Denken als Aufgabe)»54: esso è il compito in cui il pensiero, come logica dell’origine pura della conoscenza sviluppata dall’idea dell’ipotesi, si determina a partire dal nulla come giudizio che opera con realtà infinitesimali55 e produce le categorie che formano il contenuto della scienza matematica della natura56. Questo «compito della logica»57 determina la centralità del concetto di “funzione”, e non di “sostanza”, come metodo fondamentale della scienza matematica della natura, nella conoscenza58. Il giudizio dell’origine, come premessa metodica del pensiero, come ipotesi e fondazione, guida la conoscenza nella determinazione pura infinita dei  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

suoi concetti categoriali, che come «somma delle categorie»59 non arrivano mai a completezza, ma formano un sistema aperto, il «sistema della verità»60, di cui l’idea dell’ipotesi, da cui si sviluppa la logica dell’origine, è fondamento e centro metodologico, come lo è di tutto il sistema della filosofia61. Il concetto regolativo di Grenzbegriff di Cohen e il suo concetto dell’Ursprung come compito formale del pensiero della produzione pura dei concetti della conoscenza, devono aver influenzato Benjamin sulla determinazione dell’a priori poetico, il poetato, nella singola opera poetica, come compito regolativo dell’unità sintetica funzionale62 di forme funzionali pure intuitivoconcettuali e ideali. Queste ultime danno la legge di determinazione e connessione delle prime e determinano la «verità della poesia»63 nel senso del «sistema della verità»64 della logica coheniana. L’opera poetica presenta come definiti e serrati i rapporti funzionali che nel poetato, come compito della determinazione dell’opera stessa, compito che mantiene in sé l’unità estetica di forma65 e materia (Stoff), si presentano ancora aperti nella molteplice potenzialità della loro determinazione. Il poetato è infatti per Benjamin un concettolimite nei confronti dell’opera poetica, come concetto del suo compito, come sua potenziale determinabilità, e non si distingue da essa per una differenza di principio: Dall’opera poetica, [il poetato] è distinto in quanto è un concetto limite, è il concetto del suo compito; non ne è invece distinto per qualche caratteristica di principio. Anzi, se ne differenzia solo per la sua maggiore determinabilità: non per una mancanza quantitativa di determinazioni, ma per l’esistenza potenziale di quelle determinazioni che sono presenti in atto nella poesia, e di altre. Il poetato è un allentamento degli stabili legami funzionali che regnano nella stessa opera poetica, e questi ultimi possono sorgere solo a condizione di prescindere da certe determinazioni: poiché solo così si può vedere come gli altri elementi si ingranino gli uni negli altri, siano connessi in un’unità funzionale. Poiché l’esistenza in atto di tutte le determinazioni determina l’opera poetica in modo che la sua unità può essere colta, ormai, solo in questa forma. Ma la percezione della funzione (die Einsicht in die Funktion) presuppone la molteplicità dei collegamenti possibili. […] Per questo suo rapporto con l’unità funzionale intuitiva e spirituale dell’opera poetica il poetato si rivela una determinazione limite (Grenzbestimmung) nei suoi confronti66.

Il poetato è un concetto limite nei confronti della poesia perché in esso sono ancora aperti e potenziali i nessi funzionali degli ordini intuitivo e spirituale, che nella poesia sono già serrati. Il poetato è inol www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

tre concetto-limite nei confronti di un’altra unità funzionale, dell’idea del compito (Idee der Aufgabe), a cui corrisponde la poesia come idea della soluzione (Idee der Lösung). Questo compito è per il «creatore»67, per il poeta, la “vita”. La vita è unità funzionale in quanto unità strutturata che contiene già in sé i momenti intuitivo e spirituale, come idea è il compito della strutturazione spirituale-intuitiva (tramite forme dell’intuizione, concetti e idee) dell’esperienza spirituale e sensibile umana (che può prendere forma teoretica, pratica ed estetica) cui il poeta deve dare forma in nessi teoretici nell’opera poetica: Quest’idea del compito per il creatore è sempre la vita. In essa risiede l’altra unità funzionale estrema. Il poetato si rivela come il passaggio dall’unità funzionale della vita a quello della poesia. In esso la vita si determina tramite la poesia, il compito tramite la soluzione. Alla base non sta la maniera individuale in cui l’artista sente la vita, ma un complesso di relazioni vitali (Lebenszusammenhang) che è determinato dall’arte. Le categorie che permettono di cogliere questa sfera, la sfera del passaggio delle due unità funzionali, non sono ancora state approntate e forse hanno il loro correlato migliore nei concetti del mito. Proprio le realizzazioni più deboli si riferiscono al sentimento immediato della vita, ma le più forti, nella loro verità, a una sfera affine a quella mitica: al poetato. La vita è, in generale, il poetato delle poesie68.

Benjamin non considera qui la vita nel senso di Dilthey come Erlebnis, esperienza vissuta nei cui confronti la poesia è organo della comprensione della vita. La poesia è per Dilthey “espressione della vita” e della sua comprensione a partire dalla vita stessa69, e organo della costruzione di una visione del mondo. Nel suo ambito il poeta è profeta del senso della vita. Benjamin non considera la vita neppure nel senso irrazionalistico e tragico di Simmel70, ma la intende come esperienza teoreticamente formata, come vita “in generale”, come struttura e complesso di relazioni cui corrisponde una “verità”, come il «poetato, che è identico con la vita»71 in quanto compito della strutturazione dell’esperienza umana. Alla base della poesia non c’è per Benjamin il sentimento immediato e l’Erlebnis individuale dell’artista – «poiché quanto più il poeta cerca di convertire direttamente l’unità della vita nell’unità dell’arte, senza trasformarla, tanto più si dimostra inetto»72 – ma un «complesso di relazioni vitali che è determinato dall’arte»73, una legge poetica che dà forma all’intuizione e fa della vita una unità funzionale già strutturata che si contrappone e corrisponde alla unità funzionale della poesia74. Benjamin cerca i concetti per queste relazioni funzionali nei concetti del mito come struttura che dà  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

forma. In questo anticipa Cassirer, i cui corsi egli probabilmente segue in questo periodo75, e il cui parallelo interesse per Kant e per Goethe (proprio anche di Simmel76), oltre ai temi che caratterizzano la sua formazione alla scuola di Marburgo, devono averlo influenzato più di quanto si sia pensato finora. Negli anni tra il 1914 e il 1915 Cassirer, cha aveva da poco scritto Sostanza e funzione – i concetti di questo testo, soprattutto il concetto di funzione, sono fortemente presenti in questo saggio benjaminiano77 – stava scrivendo Freiheit und Form (1916)78, in cui si occupava insieme ad altri di Leibniz, Kant, Goethe79, e in cui è presente una discussione sul simbolo e sul concetto di espressione in Leibniz80, e avrebbe poi pubblicato la raccolta di saggi su Goethe, Hölderlin, Schiller e Kleist Idee und Gestalt (1921)81, era quindi in lui già in gestazione quella riflessione sulle forme simboliche che vede nel mito una delle forme della strutturazione del pensiero, una sua funzione82. La concezione benjaminiana del mito, in contrasto con il concetto di «mitologia»83, rappresenta la vita non nel suo darsi immediato ma attraverso una «strutturazione (Gestaltung) dell’intuizione» e la «costruzione di un cosmo spirituale»84, che fa della vita stessa l’unità ultima del poetato (che rimane il suo concetto limite) come struttura ideale e funzionale: Il poetato [dà] […] la possibilità di valutare la poesia, considerando il grado di connessione e grandezza dei suoi elementi. Questi due requisiti sono inseparabili. Infatti, quanto più la grandezza e figura interna (Gestalt) (che chiameremo, approssimatamente, mitici) è sostituita da una floscia dilatazione del sentimento, tanto meno stretta diventa la connessione, tanto più nasce […] un lavoro […] estraneo all’arte e alla natura. La vita sta alla base del poetato, poiché è la sua unità ultima. Ma quanto prima l’analisi della poesia porta alla vita stessa come poetato, senza incontrare una strutturazione (Gestaltung) dell’intuizione e la costruzione di un cosmo spirituale, tanto più la poesia si rivela materiale (in senso stretto), informe, irrilevante. Mentre l’analisi delle grandi poesie non incontrerà il mito stesso, è vero, ma un’unità nata dalla forza (Gewalt) degli elementi mitici in conflitto tra loro – e che sarà espressione autentica della vita85.

L’unità data dalla forza degli elementi mitici in conflitto tra loro è la struttura della poesia come unione delle funzioni intuitiva e spirituale, dove la struttura spirituale (data dalle forme dello spazio e del tempo, dalle categorie e dalle idee) è espressa da figure intuitive. Il poetato come compito della strutturazione intuitivo-concettuale e ideale dell’esperienza, come espressione della vita strutturata in rapporti e  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

sfera in cui si trova la verità della poesia, si rappresenta nell’opera poetica concretamente come Gestalt, come forma/figura. La Gestalt86, come forma sensibile di nessi funzionali, è la concrezione sensibile della verità del poetato, la sua esibizione in quanto nesso tra concetti, forme dell’intuizione e idee: questo è un nesso simbolico in cui le forme dell’intuizione (che, come in Cohen, sono ricondotte alla logica trascendentale) e i concetti esibiscono le idee che permettono la loro connessione (questo nesso simbolico tra concetti e idee si chiarirà più avanti). Il concetto di Gestalt è fondamentale perchè esibitivo di principi spirituali, e avrà un ruolo anche in ambito ideale, come esibizione plastica e concreta dell’idea: «La plasticità della forma (Gestalt) si rivela come ciò che è spirituale (das Geistige)»87. Questo rapporto esibitivo tra figura e contenuto spirituale ristabilisce continuamente in Benjamin l’identità del momento intuitivo e del momento ideale. Nella Gestalt particolare, come forma e figura della singola poesia, il poetato si configura concretamente in una “forma pregnante” che rappresenta e mantiene l’unità del nesso delle funzioni spirituale e intuitiva. È palese l’origine di questo concetto nella morfologia di Goethe, secondo il quale «una forma spirituale non perde nulla se compare nel fenomeno»88, e precisamente nel concetto di fenomeno originario (Urphänomen), che in quanto «figura pregnante marcata in senso formale (gestaltlich) può essere concepito come funzione» e principio di serie89 – e che anche Benjamin riconosce negli anni ’20 come fonte per il suo concetto di origine (Ursprung)90. Questo concetto goethiano ha un’importanza fondamentale anche per Cassirer, da Freiheit und Form al saggio Goethe und die mathematische Physik in Idee und Gestalt fino alla Filosofia delle forme simboliche (1923-1929) (e oltre), dove egli definisce il concetto di “pregnanza simbolica”: Per “pregnanza simbolica” si deve quindi intendere la maniera in cui un’esperienza vissuta della percezione, in quanto esperienza di “senso” racchiude in sé un determinato senso non intuitivo e immediatamente lo esprime in modo concreto91.

La Gestalt è in Benjamin la “forma interna” (il Gehalt goethiano), la struttura spirituale-intuitiva della singola poesia che il commento estetico deve indagare come forma particolare del poetato, come esibizione della sua verità funzionale (come unità delle funzioni dell’ordine intuitivo e spirituale, di forme dell’intuizione, concetti e idee nel loro nesso simbolico) in una forma sensibile, come una delle realizzazioni del compito poetico. Gli elementi ideali e sensibili dell’opera poetica,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

nella Gestalt particolare, si rivelano in essa nessi, relazioni funzionali e non elementi sostanziali. Il poetato, come territorio tra i due confini della vita e della poesia, del compito e della soluzione, la cui determinazione rimane sempre uno scopo puramente metodico e ideale, un compito infinito della strutturazione e conoscenza teoretica della vita, non è composto di elementi ultimi, ma di unità di funzioni intuitivoconcettuali e ideali legate dal concetto d’identità: Di questa natura del poetato come territorio, settore delimitato (Bezirk) tra due confini (Grenzen), testimonia il metodo della sua esposizione (Darstellung). Non può proporsi di dimostrare l’esistenza di elementi cosiddetti ultimi, poiché all’interno del poetato non esistono elementi ultimi. Invece non si deve dimostrare altro che l’intensità della connessione (Verbundenheit) degli elementi intuitivi e spirituali, in primo luogo con riferimento a singoli esempi. Ma proprio questa dimostrazione deve necessariamente provare che non si tratta di elementi, ma di relazioni (Beziehungen) – e del resto lo stesso poetato è una sfera di relazione tra l’arte e la vita, di cui non è affatto possibile cogliere le unità singole in se stesse. Il poetato si rivelerà così come la premessa della poesia, come sua forma interna, come compito artistico. La legge secondo cui tutti gli elementi apparenti della sensibilità e delle idee si rivelano complessi (Inbegriffe) delle funzioni essenziali, di principio infinite, è chiamata la legge d’identità. Indichiamo così l’unità sintetica delle funzioni. Nella figura particolare che di volta in volta assume, essa è l’a-priori della singola poesia. […] la determinazione del poetato puro, del compito assoluto, resta necessariamente uno scopo puramente metodico, ideale. Altrimenti il puro poetato cesserebbe di essere un concetto limite: sarebbe vita, o poesia92.

Gli elementi apparenti della sensibilità e delle idee, si rivelano, secondo la legge d’identità, «complessi (Inbegriffe) delle funzioni essenziali, di principio infinite»93 delle idee e di concetti e forme dell’intuizione. Idee, concetti e forme dell’intuizione vengono infatti considerate come principi di serie funzionali di relazioni pure, e non elementi sostanziali, che nel loro connettersi danno luogo a relazioni erroneamente individuate come elementi sensibili e ideali. All’origine di questa concezione funzionale sia dei concetti matematici e geometrici legati alle forme dello spazio e del tempo, sia dei concetti della scienza della natura, è il testo di Cassirer Sostanza e funzione94 e, prima di questo, è la Logica della conoscenza pura di Cohen, dove l’idea, come ipotesi e origine della conoscenza nel pensiero, è concepita in senso funzionale poiché deriva tutte le conoscenze da grandezze infinitesimali95, mentre ne La teoria kantiana dell’esperienza Cohen parla della  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cosa in sé come Inbegriff delle conoscenze scientifiche pure (fisicomatematiche), come incondizionato e compito infinito della ricerca96. In Cassirer il concetto di Inbegriff 97 ha il significato di serie complessiva, ordinata secondo una fondamentale relazione generatrice, secondo un principio che regola la dipendenza dei termini variabili della serie e che pone le condizioni di inseribilità di questi termini, presentandosi come principio d’identità delle variabili: ogni formazione di concetti è legata a una determinata forma di costruzione di serie.Diciamo concettualmente compresa e ordinata una molteplicità offerta all’intuizione allorché i suoi termini non stanno l’uno accanto all’altro senza rapporti, ma derivano in successione necessaria da un determinato termine iniziale secondo una fondamentale relazione generatrice. L’identità di questa relazione generatrice, che viene mantenuta pur nel mutare dei singoli contenuti, è ciò che costituisce la forma specifica del concetto. […] [C’è] l’esigenza di considerare, in luogo della singola nota che viene eliminata nella formazione di un concetto, la totalità (Inbegriff) a cui quella nota appartiene come determinazione singola. Noi possiamo prescindere dal colore particolare purché venga mantenuta la serie complessiva dei colori in generale come schema fondamentale in rapporto al quale pensiamo come determinato il concetto che formiamo. Ma questa totalità (Inbegriff) viene da noi colta in quanto al posto di singole note costanti subentrano dei termini variabili, che rappresentano per noi l’intero gruppo dei possibili valori assunti dalle diverse note98.

Per Benjamin gli apparenti elementi sensibili e ideali dell’opera poetica si rivelano complessi (Inbegriffe) o nessi di serie funzionali infinite, e mantengono in sé la dimensione intuitiva e la dimensione spirituale, sono caratterizzati cioè dal rapporto tra forme dell’intuizione, concetti e idee, che si pongono in rapporto simbolico (le idee connettono i concetti e le forme dell’intuizione e vengono da questi esibite) e sono a loro volta esibiti, nella loro unità e “identità”, in singole figure poetiche o Gestalten. Questi nessi funzionali si formano in una «unità sintetica delle funzioni»99 delle forme dell’intuizione, dei concetti e delle idee, dove questa unità, che è anche quella del momento intuitivo e dello spirituale, è determinata dalla legge d’identità come identità funzionale e simbolica tra sensibile e spirituale. Da essa si distingue l’identità concettuale che in Cassirer, nel passo citato sopra di Sostanza e funzione, è data alle variabili dalla relazione generatrice, cioè dal principio della funzione, da un concetto per il quale i termini di una serie sono omogenei in quanto «legati tra loro da una regola univoca, la quale consente con la ripetuta applicazione identica della medesima rela www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt

zione fondamentale di passare da una molteplicità all’altra»100. Bisogna però ricordare che Cassirer elabora la sua visione delle forme simboliche ponendo al centro della riflessione il rapporto di espressione tra spirituale e sensibile, a cui non è estranea, insieme all’apporto fondamentale della morfologia di Goethe101 e della sua visione della Gestalt simbolica102, e della teoria del simbolo della Critica della facoltà di giudizio di Kant, l’influenza ad esse collegata dell’estetica di Leibniz, che si fa già sentire in Freiheit und Form: «in Leibniz il problema risale al rapporto di espressione in cui lo spirituale e il sensibile, l’anima e il corpo, l’universale e l’individuale trovano una mediazione in forza di un’“energia formatrice” che infrange ogni dualismo e fa dei segni sensibili la rappresentazione di una forma spirituale»103. Questo rapporto tra spirituale e sensibile, proprio del simbolo, è già presente in Substanzbegriff und Funktionsbegriff 104 nel concetto epistemologico di Grenzgebilde, figura-limite, termine con cui si indica per esempio il movimento per la meccanica, o nel «concetto limite puramente ideale (rein ideellen Grenzbegriff)»105, come il punto-massa, concetti che servono a determinare l’univocità e necessità dell’esperienza della scienza della natura: non sono mai i contenuti della percezione come tale a poter essere da noi impiegati per esprimere le leggi del movimento. Tutte queste leggi possono invece essere ragionevolmente espresse solo intorno alle ideali figurelimite (idealen Grenzgebilden), che noi mediante il concetto poniamo in luogo dei dati empirici della percezione sensoriale. Il movimento è un predicato che non è mai applicabile direttamente alle «cose» del mondo sensibile che ci circonda, ma vale solo per quelle altre classi di oggetti che il matematico sostituisce ad esse nella sua libera costruzione. Esso non è un fatto della sensazione (Empfindung), bensì di pensiero; non di «percezione», bensì di «concezione»106.

Perciò nell’esperimento concreto questo deve venir concepito come la migliore approssimazione empirica a un «caso ideale»107 che rappresenta un «limite ideale»108: «l’esperimento […] non riguarda mai, a rigor di termini, il caso reale come si presenta qui e ora […] bensì un caso ideale che noi gli sostituiamo»109, l’esperimento serve a mostrare in modo sensibile un caso ideale che serve all’ordinamento univoco e necessario dei fenomeni110. Mentre in Cassirer il principio della funzione, come relazione costante rispetto alle variabili, che si rappresenta nella loro serie complessiva, nel loro Inbegriff, è un “concetto” già definito che dà la definizione relazionale per queste, e può  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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essere rappresentato da un “caso ideale”, in Benjamin l’Inbegriff delle funzioni intuitiva e spirituale (come ambito sistematico in cui forme pure della sensibilità e categorie si sviluppano a partire da un’idea come origine e la rappresentano) viene rappresentato nella Gestalt concreta senza che ci siano già concetti a cui riferirla, che vanno piuttosto costruiti. Questi concetti, come funzioni, appaiono soltanto nella Gestalt, e più tardi, nella Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco, nel fenomeno storico di origine, l’Ursprungsphänomen111: questo rappresenta un’idea, è un fenomeno “ideale” e porta in sé la totalità virtuale dei concetti per la conoscenza del fenomeno, in un’infinità intensiva che rappresenta l’infinità del compito conoscitivo112. Anche in Cassirer rimane fondamentale la concezione marburghese, che emerge in Benjamin, del rapporto tra reale e ideale come compito infinito (contrapposto alla concezione dialettica hegeliana), della «natura dell’idea come “compito infinito” […] giacché la ragione mostra la sua unità nell’indicare […] le direzioni lungo le quali la cultura autonomamente si realizza nel suo infinito procedere»113. Per Cassirer «ogni conoscenza di una realtà empirico-effettuale si trasforma, per il pensiero funzionale della scienza, quale Galilei per primo ha riconosciuto ed esposto con chiarezza, in un compito infinito […] [e] l’unità che essa cerca è l’unità della legge di natura, come di una legge puramente funzionale», da cui si distinguono il tipo di conoscenza del mito e dell’astrologia, dove «l’unità è quella di un patrimonio permanente e continuo, di una struttura della totalità del cosmo [in cui la] […] struttura dell’intero si ripresenta […] nelle singole parti»114. Da queste due forme di conoscenza differisce a suo avviso la concezione di Goethe, una concezione che comunque, nell’assioma della “continuità”, segue la metodica della moderna scienza descrittiva della natura: Dal modo di pensare della matematica moderna anche Goethe è distante perché non vuole scomporre semplicemente la totalità del mondo nei suoi elementi, ma vuole intuirla in un tutto formato, come un complesso di pure forme (Gestalten). Ma questo “pensare per forme” (Denken in Gestalten) è in lui sottoposto a quel principio fondamentale che trova la sua espressione universale nell’idea di metamorfosi. Qui non si tratta di elevarsi dalla forma singola all’“universale” comparandola con le altre forme e unificandola con esse sotto i concetti generici di specie e di classe; qui, invece, ogni nesso si presenta come connessione del divenire (Zusammenhang des Werdens). Appare veramente rientrare nella connessione solo ciò che discende da un comune principio formativo (Bildungsprinzip) e che può essere pensato come risultante da esso. Come regola fondamentale di derivazione vale perciò la regola della continuità. Non possiamo mai mettere

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt immediatamente in rapporto un singolo caso e una singola intuizione con un’altra sulla base di una semplice somiglianza (Ähnlichkeit), ma sempre solo ciò che è più vicino può essere collegato a ciò che è immediatamente prossimo e associato con esso all’unità di una serie. In questo assioma della continuità Goethe segue la metodica della scienza moderna – anzi in tale assioma egli stesso riconosce la matematica come maestra115.

Nell’interpretazione cassireriana di Goethe, egli è vicino alla moderna scienza della natura e lontano dalla visione statica e realistica (legata a immagini sensibili, per esempio all’immagine del corpo umano nel rapporto di microcosmo e macrocosmo) dell’astrologia e del mito, perché le «oppone un’intuizione originariamente genetica, che cerca solo di costruire e di cogliere idealmente l’ente sia a partire dalla legge universale, sia a partire dalla forma individuale del divenire […] [ed è legata all’]idealità del concetto matematico di legge e del concetto organico di forma»116. Per Cassirer, sia nel pensiero scientifico che nel pensiero mitico la relazione di causa ed effetto è il risultato di «un’interpretazione spirituale dei fenomeni sensibili»117. Il concetto di causa ed effetto si deve “schematizzare” nell’intuizione, deve cioè crearsi un correlato spaziale o temporale, uno schema che contenga la «sintesi pura, conforme a una regola dell’unità»118, che ottiene in Kant come determinazione a priori del tempo: Più esattamente i diversi schemi si presentano in Kant come altrettante forme diverse della determinazione del tempo: gli schemi non sono altro che determinazioni a priori del tempo secondo regole, che si riferiscono, secondo l’ordine delle categorie, alla serie del tempo, al suo contenuto, al suo ordine e finalmente all’insieme del tempo rispetto a tutti gli oggetti possibili. In particolare anche il concetto di numero nella sua forma matematica pura è riferito in questo modo all’intuizione del tempo ed è vincolato ad essa […]. Solo attraverso questa riduzione all’intuizione del tempo vengono determinati in modo indiretto tanto il contenuto del concetto di spazio, quanto quello del concetto di causa119.

Per Cassirer, mentre nel pensiero di Kant è visibile il metodo della scienza matematica della natura, in cui sia la geometria che il rapporto di causa-effetto sono legati al tempo e, per quanto riguarda la geometria, alla costruzione genetica in cui le grandezze e i rapporti spaziali sorgono secondo una regola di successione, nel pensiero mitico c’è la priorità del concetto di spazio e di continguità spaziale rispetto al concetto di tempo, mentre la causalità magica si fonda sul rapporto  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

parte-tutto e quella astrologica sul rapporto spaziale tra certe configurazioni o “costellazioni”. Nella scienza della natura tutto è ridotto alle leggi del movimento, lo spazio (come dimostra la teoria generale della relatività) si risolve dinamicamente in forza, mentre nel pensiero astrologico la forza si risolve in spazio, in esso lo spazio è lo schema della causalità. Vediamo che nel saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin sono fondamentali i concetti di spazio e tempo, legati rispettivamente alle “figure” (Gestalten) dei viventi e degli dei (ma in entrambe si trovano sia lo spazio che il tempo), mentre la figura del poeta, con il suo coraggio nell’affrontare il suo destino di morte, si pone al «centro di tutte le relazioni»120 come figura di connessione spazio-temporale e concettuale. In queste figure i concetti di spazio e di tempo sono stratificati e contengono diversi significati, alcuni più legati a una visione miticosimbolica, altri rimandano alla teoria della conoscenza: per i viventi, che vivono nello spazio della comunità sociale fondata sul diritto e rappresentano simbolicamente sia questa struttura sociale che la possibilità di una conoscenza fisico-matematica della natura, lo spazio è sia lo spazio della società che quello della conoscenza temporale infinita, attuata dal poeta, nello spazio del sistema della conoscenza. Per gli dei, il tempo è la categoria fondamentale, come categoria delle idee che danno l’incondizionato per la totalità della conoscenza, che il poeta cerca di attuare riferendo i concetti della conoscenza propria del vivente alle idee divine. Lo spazio emerge però nella figura plastica degli dei che rappresentano spazialmente un tempo insieme infinito e concluso, messianico, che si dà intensivamente nell’idea.

Note 1 Di Benno Erdmann – a questo si è già accennato – Benjamin segue molto probabilmente a Berlino nel semestre invernale 1914-15 il seminario, Esercitazioni sulla deduzione kantiana delle categorie. Benjamin scrive nel 1920 a Scholem su un seminario di Erdmann sulla “psicologia del pensiero”, a cui, insieme a un seminario di Alois Riehl su Platone, preferisce un seminario di Troeltsch sulla filosofia della storia di Simmel. Cfr. Benjamin a G. Scholem, 4-XI-1920, in GB II, p. 104: «Domani farò domanda per partecipare al seminario di Troeltsch sulla filosofia della storia di Simmel, per poter consultare la biblioteca del seminario. Lo preferisco a un seminario di Erdmann sulla psicologia del pensiero (Denkpsychologie) e a un seminario di Riehl su Platone per molte ragioni, tra le quali il signor Troeltsch si trova solo a l’ultimo posto». 2 Sul profondo rapporto umano, poetico e teoretico tra Benjamin e Heinle cfr. E. Wizisla, “Fritz Heinle war Dichter”. Walter Benjamin und sein Jugendfreund, in L. Jäger/Th.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt Regehly (a cura di), “Was nie geschrieben wurde, lesen”. Frankfurter Benjamin-Vorträge, Aisthesis Verlag, Bielefeld, 1992, pp. 115-131. Cfr. inoltre sull’attività poetica di Heinle, di cui sono state ritrovate numerose poesie nei primi anni ’80, G. Carchia, Heinle e la lingua della gioventù, in «Aut Aut», 189-190, 1982, pp. 42-46. Cfr. anche I. e A. Götz von Olenhusen, Walter Benjamin, Gustav Wyneken und die Freistudenten vor dem Ersten Weltkrieg, in «Jahrbuch des Archivs der deutschen Jugendbewegung, Burg Ludwigstein», 13, 1981, pp. 99-128, e E. Wizisla, “Die Hochschule ist eben der Ort nicht, zu studieren.” Walter Benjamin in der freistudentischen Bewegung, in Berliner Studenten und deutsche Literatur (1810-1933/1945), in «Wissenschaftliche Zeitschrift der Humboldt-Universität zu Berlin», 36, 7, 1987, pp. 616-623. 3 G. Wyneken, Der Krieg und die Jugend, Steinicke, München, 1915. 4 W. Benjamin, (1928), in GS, II, 2, p. 623 (non vi è riportato il testo cancellato); trad. it. A proposito di Stefan George, in W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, cit., p. 138, traduzione modificata. Cfr. le Anmenkungen degli editori al saggio di Benjamin Due poesie di Friedrich Hölderlin, in GS, II, 3, p. 921, dove il testo cancellato è riportato, e le Anmerkungen a in GS, II, 3, pp. 1429-1432, in part. p. 1431. Cfr. W. Benjamin, Rückblick auf Stefan George. Zu einer Studie über den Dichter, in GS, III, pp. 392-399; trad. it. Sguardo retrospettivo su Stefan George. A proposito di un nuovo studio sul poeta, in W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, nota introd. di C. Cases, trad. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino, 1979, pp. 141-147. Sui rapporti tra Stefan George e la Jugendbewegung cfr. W. Riegger e O. Weise, Stefan George und die Jugendbewegung, in «Jahrbuch des Archivs der deutschen Jugendbewegung», 13, 1981, pp. 129-134. 5 Cfr. N. von Hellingrath, Pindarübertragungen von Hölderlin. Prolegomena zu eine Erstausgabe, Diederichs, Leipzig, 1910 (poi in N. von Hellingrath, Hölderlin-Vermächtnis (1936), hrsg. v. L. von Pigenot, Verlag F. Bruckmann, München, 2. vermehrte Auflage 1944, pp. 19-95). Hellingrath aveva scoperto le traduzioni da Pindaro di Hölderlin nella Biblioteca di Stoccarda e dal 1913 all’anno della sua morte, il 1916, aveva lavorato all’edizione storico-critica delle opere complete di Hölderlin, rivalutandone l’opera tarda, le traduzioni e gli inni: cfr. F. Hölderlin, Sämtliche Werke. Historisch-kritische Ausgabe. 6 Bände. Begonnen durch Norbert von Hellingrath, fortgef. durch Friedrich Seebass und Ludwig von Pigenot, Berlin, 1913-1923. Sull’influenza del lavoro di Hellingrath nella formazione del saggio di Benjamin su Hölderlin cfr. U. Steiner, Die Geburt der Kritik aus dem Geiste der Kunst. Untersuchungen zum Begriff der Kritik in den frühen Schriften Walter Benjamins, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1989, pp. 97-99. Cfr. inoltre A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., pp. 203-207. Sul rapporto insieme di vicinanza e distanza di Benjamin rispetto al George-Kreis cfr. F. Desideri, Il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma, 1980, pp. 53-60: «Lo Hölderlin della sua giovinezza era quello del George-Kreis. Ma qui si precisa “quale” George avesse inciso negli Jugendjahre benjaminiani […] e come proprio l’analisi del rapporto poesia-vita in Hölderlin l’allontani definitivamente dal cantore di Maximin, “l’eroe del compimento” [cfr. Rückblick auf Stefan George. Zu einer Studie über den Dichter, in GS, III, pp. 392-399; trad. it. cit, pp. 141147]. […] La produzione di George compresa in questo studio su Hölderlin […] non poteva essere quella di Der Stern der Bundes e solo raramente quella di Der siebente Ring. […] La poesia georgeana di cui Benjamin poteva testimoniare la forza era quella consapevole [della fragilità della parola] […]. Era la produzione che da Das Jahre der Seele e Der Teppich des Lebens giungeva fino ad alcune poesie di Der siebente Ring, fino all’addio alle forme […]. Non dunque il George delle rappresentazioni simboliche […] ma quello che riconosceva i “confini avvolti di profumo” di ogni parola, di ogni figura poetica». Cfr.

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Il compito del poeta e il sistema della verità inoltre lo studio del 1976 di M. Rumpf, Faszination und Distanz. Zu Benjamins GeorgeRezeption, in M. Rumpf, Elite ud Erlösung. Zu antidemokratischen Lektüren Walter Benjamins, Traude Junghans Verlag Cuxhaven & Dartford, Dartford, 1997, pp. 31-65. 6 W. Benjamin, Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin (1914-15), in GS, II, 1, pp. 105126; trad. it. Due poesie di Friedrich Hölderlin, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 111-133. Il testo è conservato in un manoscritto ciclostilato con correzioni di pugno di Benjamin, ed è stato pubblicato per la prima volta in W. Benjamin, Schriften, Frankfurt/M., 1955, pp. 375-400. 7 Cfr. Benjamin a E. Schoen, 25-II-1917, in GB I, p. 355. 8 Astrid Deuber-Mankowsky vede una stretta connessione nella composizione del saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin – che commenta due poesie al cui centro si trova il rapporto tra il poeta, la morte, la vita, il popolo e la poesia, – tra la morte di Heinle, vista forse dallo stesso Heinle come un sacrificio, e la poesia di George (soprattutto Der Stern des Bundes), e individua in questo saggio una critica di Benjamin alla concezione dell’estetizzazione della vita (e della morte) e dell’eroe proprie di George e della sua cerchia, che vede nel poeta, oltre al profeta e al genio, l’eroe che si sacrifica. Al contrario in Benjamin vi sarebbe una difesa della vita. Cfr. l’intera parte dedicata al saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin in A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., pp. 203-234. 9 L’impulso “esterno” di mettere a confronto le due poesie di Hölderlin viene a Benjamin dalla dissertazione di Hellingrath, che considera Blödigkeit una rielaborazione di Dichtermut, ma delle due stesure di quest’ultima poesia individua come seconda quella che Benjamin considera la prima stesura, seguendo la edizione precedente di Hölderlin (quella di Hellingrath esce nel 1916) curata da Wilhelm Böhm. Cfr. nelle Anmerkungen a Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 3, p. 923, la nota dei curatori, che rimandano a F. Hölderlin, Gesammelte Werke, hg. v. W. Böhm, Bd. 2: Gedichte, hg. von Paul Ernst, Jena, Leipzig, 1905, p. 210 s. (“Dichtermut”. Erster Entwurf), 212 s. (“Dichtermut”. Zweite Fassung), p. 287 s. (“Blödigkeit”). Hellingrath vede in Blödigkeit una rielaborazione di Dichtermut, e l’esempio di un cambiamento di stile in Hölderlin (cfr. N. von Hellingrath, Hölderlin Vermächtnis, cit., p. 70). Cfr. a proposito R. Speth, Wahrheit & Ästhetik. Untersuchungen zum Frühwerk Walter Benjamins, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1991, p. 9, che cita il passo di Hellingrath e mette in rilievo (cfr. ivi, p. 10) il suo interesse per l’analisi della struttura della poesia in genere, che si sviluppa nell’intenso confronto con Nietzsche e soprattutto con la struttura ritmica degli aforismi nietzschiani, a cui si accompagna l’influsso fondamentale del circolo di George (dove a Hölderlin era dedicato un vero e proprio culto) e di Dilthey, il cui concetto di Erlebnis nell’arte, nella recezione che di esso hanno gli autori del circolo di George, viene criticato da Benjamin in Due poesie di Friedrich Hölderlin (cfr. Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 107; trad. it. cit., p. 113). Speth pone l’accento sull’importanza data da Hellingrath alla “filosofia” di Hölderlin, al suo rapporto con Fichte, Schelling e la tragedia greca, e sul suo tentativo di costruire una teoria della traduzione che fosse adeguata alle traduzioni di Hölderlin dal greco. Hellingrath individua le caratteristiche peculiari di queste traduzioni nella fedeltà letterale della versione interlineare al testo originale e nel riconoscimento di un senso, di un significato dell’opera artistica nella struttura formale linguistica: in ciò “che è letterale, formale” (cfr. N. v. Hellingrath, HölderlinVermächtnis, cit., p. 41), nella posizione (Wortstellung) e nell’intreccio (Wortverschlingung) delle parole (cfr. ivi, pp. 43-44) che Hölderlin cerca di trasporre dal greco di Pindaro in tedesco e che chiama il carattere artistico (Kunstcharakter) (cfr. R. Speth, Wahrheit und

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt Ästhetik, cit., p. 10). È importante ricordare che questa teoria della traduzione come versione interlineare del testo è presente nella filosofia della traduzione di Benjamin degli anni successivi, soprattutto nel saggio del 1921 Il compito del traduttore. Cfr. W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers (1921), in GS, IV, 1, pp. 1-21; trad. it. Il compito del traduttore, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Saggi 1919-1922, cit., pp. 157170. 10 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, p. 105; trad. it. cit., p. 111. Il termine “commento” caratterizzerà nel saggio di Benjamin del 1921-22 “Le affinità elettive” di Goethe (Goethes Wahlverwandtschaften, in GS, I, 1, pp. 123-201; trad. it. cit., pp. 179-254) la trattazione del “contenuto reale” (Sachgehalt) dell’opera d’arte, mentre la “critica” dovrà determinare il suo “contenuto di verità” (Wahrheitsgehalt) (cfr. ivi, pp. 125-127; trad. it. cit, pp. 179-181) come contenuto filosofico: qui i due termini sembrano ancora intrecciati nel loro significato, e il Kommentar è la determinazione nell’opera poetica specifica dei nessi teoretici (idee e concetti) che sono alla base della sua struttura, come sua “verità”, come sfera a priori, struttura spirituale-intuitiva di un mondo d’esperienza di cui l’opera è esibizione e testimonianza. Cfr. a proposito G. Musik, Die erkenntnistheoretischen Grundlagen der Ästhetik Walter Benjamins und ihr Fortwirken in der Konzeption des Passagenwerks, Peter Lang, Frankfurt/M.-Bern, 1985 (Diss.), p. 49. 11 Cfr. H. Cohen, Ästhetik des reinen Gefühls, in Werke, cit., Bände 8-9. Cfr. a proposito A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 79: «Anche nell’estetica, il punto di vista in cui Cohen si pone è l’idealismo […]. Cohen si richiama alla tradizione dell’idealismo estetico, da Winckelmann a Kant a Schiller, che ha individuato nella forma il principio costitutivo del bello: “Con il termine di ‘forma’ Kant ha costruito l’intero suo sistema. Il suo significato però, come nella logica e nell’etica, così in particolare anche nell’estetica è che essa è la legge della produzione del contenuto. Così essa diventa identica con l’a priori creativo, con l’idea dell’ipotesi, e ogni realtà esistente riceve in essa il suo principio produttivo” [H. Cohen, Das deutsche Idealismus und die Antike, in Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, 2 Bände, hrsg. von A. Görland und E. Cassirer, Akademieverlag, Berlin, 1928, Band II, pp. 321-322] […]. Il principio formale dell’arte, il sentimento puro, è ricondotto al principio della purezza, che qualifica l’idealismo critico in ogni campo della cultura e ne garantisce il carattere di fondatezza e di oggettività (di universalità, nel caso dell’estetica). Se l’estetica del sentimento puro è così posta accanto alla logica del pensiero puro e all’etica del volere puro nel sistema dell’idealismo critico, essa è pure accomunata alla logica e all’etica nel riferimento idealistico all’idea come compito. L’idea regolativa di fine che, come idea del sistema, costituisce il compito della logica e, come idea della libertà, costituisce il compito dell’etica, come idea della finalità (Zweckmässigkeit) estetica, pone all’arte un compito ideale». Cfr. H. Cohen, Kants Begründung der Ästhetik, Dümmler, Berlin, 1889, p. 207 s. 12 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 105; trad. it. cit., p. 111. 13 Cfr. ibid.: «Questa scienza [l’estetica dell’arte poetica], in quanto estetica pura, ha dedicato le sue forze migliori all’esplorazione dei singoli generi dell’arte poetica, e soprattutto alla tragedia. Finora il commento è stato riservato esclusivamente alle grandi opere dell’epoca classica, e più esattamente a opere drammatiche; negli altri casi, possiamo dire che il commento è stato piuttosto filologico che estetico. Qui ci proponiamo di tentare un commento estetico di due composizioni liriche, e il nostro tentativo richiede alcune osservazioni preliminari di carattere metodologico». Non si sa se Benjamin si riferisca a qualche studio sulla tragedia in particolare, per esempio allo studio di J. Volkelt, Ästhetik des Tragischen (1896), E. H. Becksche Verlagsbuchandlung Oskar Beck, München, 19234, che egli critica ne Il dramma barocco tedesco (cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 279-280; trad. it. cit., pp. 76-77), oppure al testo di L. Ziegler, Zur Metaphysik des Tragischen. Eine philosophische Studie, Leipzig, 1902, che cita ancora nel saggio sul Trauerspiel valutandolo positivamente (cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 293; trad. it. cit., p. 90). È molto probabile che egli avesse letto la Metaphysik der Tragödie di György Lukács (in «Logos», 2, 1911-12, pp. 79-91; poi in G. Lukács, Die Seelen und die Formen, Egon Fleischel & Co, Berlin, 1911, pp. 235-273; trad. it. L’anima e le forme, a cura di S. Bologna, Sugar, Milano, 1972), che sembra averlo influenzato nella sua successiva concezione della tragedia nel suo nesso con la moralità e la libertà del volere proprie dell’eroe tragico. Cfr. a proposito M. Cometa, La tragedia tra mistica e utopia. Note sulla Metaphysik der Tragödie di György Lukács, in «Rivista di estetica», 10, 1982, pp. 28-49. Benjamin potrebbe qui riferirsi in generale all’attenzione specifica che la filosofia ha prestato, dall’idealismo in poi, passando per La nascita della tragedia di Nietzsche, al tema della tragedia come problema filosofico. Cfr. a proposito P. Szondi, Versuch über das Tragischen, in Schriften I, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1978, pp. 161-260; trad. it. Saggio sul tragico, a cura di F. Vercellone, introd. di S. Givone, trad. di G. Garelli, Einaudi, Torino, 1996. Szondi interpreta il pensiero dei rappresentanti della “filosofia del tragico” del XIX e XX secolo, da Schelling, Hölderlin, Hegel, Goethe, a Kierkegaard e Nietzsche, fino a Simmel e Scheler, per poi analizzare il concetto in singole opere tragiche, da Sofocle a Büchner. Tra le due parti si trova un paragrafo intitolato Transizione. Filosofia della storia della tragedia e analisi del tragico, dove Szondi presenta l’idea del tragico di Benjamin nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels: «Pertanto la filosofia non sembra poter concepire il tragico – ovvero il tragico non esiste. Questa è la conseguenza tratta da Walter Benjamin. La sua opera sull’origine del dramma barocco tedesco […] risponde alla crisi in cui era caduta l’elaborazione di questa problematica in Volkelt e Scheler, alla svolta del secolo. Sebbene Benjamin rinunci al concetto generale di tragico, la strada che egli intraprende non riconduce ad Aristotele. Giacché alla filosofia del tragico non subentra la poetica, ma la filosofia della storia della tragedia. Essa è filosofia, poiché vuole riconoscere l’idea e non la legge formale della poesia tragica; ma si rifiuta di vedere l’idea della tragedia quasi in sé, in un tragico che non sia connesso ad alcuna condizione storica, e neppure vuole vederla necessariamente nella forma dell’opera tragica, semplicemente nell’arte» (ivi, p. 201; trad. it. cit., pp. 64-65). Cfr. inoltre la voce “Tragico” a cura di T. Griffero, in G. Carchia, P. D’Angelo (a cura di ), Dizionario di estetica, Editori Laterza, Bari, 1999, pp. 302-305. Cohen, che analizza i diversi generi dell’arte poetica e la tragedia nella sua Estetica, tratta anche il tema della lirica, soprattutto dei salmi, della lirica medievale e di quella schilleriana e goethiana, senza avere però una particolare attenzione per Hölderlin. 14 A. Poma, L’idealismo critico di Hermann Cohen, cit., p. 25. In questo passo Poma si riferisce alla prima edizione di Kants Theorie der Erfahrung (H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung in Werke, cit., Band 1.3), del 1871, ma specifica che «questa convinzione resterà immutata non solo in tutto il pensiero di Cohen, ma anche in quello della sua scuola» (A. Poma, L’idealismo critico di Hermann Cohen, cit., p. 25). Il riferimento è inoltre all’esperienza identificata con la scienza fisico-matematica, ma il concetto di metodo trascendentale viene da Cohen applicato in modo analogico ai Fakta del diritto e dell’arte nell’etica e nell’estetica. 15 Di fatto per l’estetica c’è in Cohen un indebolimento del metodo trascendentale fondato sull’ipotesi scientifica, che già inizia nell’etica: «Nella Ästhetik des reinen Gefühls Cohen riesce a dimostrare in modo convincente il carattere idealistico dell’arte come produzione pura, ma effettivamente è meno chiaro il carattere trascendentale della sua indagine estetica, almeno nella accezione ormai consolidata che Cohen stesso ha dato al significato di “trascendentale”. Anche Cohen è cosciente di ciò e ne è prova il fatto che egli riconosca che già nell’etica il metodo dell’ipotesi “subisce […] un indebolimento” (Ästhetik des reinen Gefühls

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt I 76), in quanto, come abbiamo visto, la scienza del diritto è per l’etica solo un “analogo” della matematica per la logica: tale riconoscimento, nel contesto in cui compare, suggerisce implicitamente che nell’estetica si verifica un “indebolimento” almeno uguale, anzi probabilmente maggiore, del metodo critico. Una conferma di ciò è data dal fatto che, non potendo prendere le mosse da un’esperienza estetica determinata come scienza, Cohen è costretto a svolgere la deduzione del “sentimento puro” a partire dal soggetto, sulla base di argomentazioni nelle quali le considerazioni psicologiche, che già inficiavano (dal punto di vista del metodo della purezza) in alcuni momenti l’etica, sono preponderanti» (A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 146) . 16 Nell’Estetica di Cohen il compito dell’arte è, per l’uomo, quello di realizzare, compiere il proprio Sé, come volontà e azione morale, nella natura (dove dimensione etica e teoretica rimangono precondizioni dell’arte), ma mentre nell’etica questo resta un compito infinito, nell’arte il compito della realizzazione del Sé nel sentimento di sé (Selbstgefühl) si realizza, come compimento (Vollendung) dell’unificazione di uomo e natura, nella concretezza immanente di una nuova figura (Gestalt). L’ideale si realizza nell’opera d’arte singola, che porta in sé, come un mondo a sé, una assolutezza e totalità di condizioni e anche una infinità che va al di là dell’opera, ma si risolve sempre nella sua chiusa totalità. Nell’opera il compito infinito è considerato risolto, il compimento infinito avvenuto: «Il compito non rimane compito. Questa è la differenza tra arte e moralità. Il compimento deve essere costituito e sentito come soluzione del compito. Qui non c’è nessuna differenza tra idea e realtà. L’opera d’arte è ideale, ed essa rende l’ideale reale. Infatti l’opera d’arte, quindi l’ideale può essere prodotto solo come realtà singola. L’ideale toglie la differenza che c’è tra idea e realtà. Così l’ideale libera l’opera d’arte dall’ostacolo della particolarità limitata. Questa realtà è un mondo a sé: essa comprende in sé tutto ciò che le appartiene. […] Questa assolutezza è il carattere dell’opera d’arte, come lo è il compimento infinito (unendliche Vollendung). Infatti non c’è alcuna contraddizione tra i due concetti. L’isolamento assoluto e la totalità delle sue caratteristiche e delle sue condizioni porta con sé una infinità […] che rimane sempre chiusa nella sua totalità […]; nell’opera d’arte il compito infinito deve essere sempre pensato come risolto» (H. Cohen, Ästhetik des reinen Gefühls, Band I, in Werke, cit., Band 8, pp. 212-213). 17 Qui i termini “grandezza” e “serietà” rimandano a una terminologia etica che Benjamin deriva da Kierkegaard, ma in lui si riferiscono anche alla concezione etica kantiana e, nell’essere caratteristiche del “compito” artistico, rinviano alla concezione coheniana degli ideali etico, teoretico ed estetico. 18 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 105; trad. it. cit., p. 111 (traduzione modificata). 19 Ibid. 20 Cfr. a proposito la voce Gehalt in Goethe Handbuch, 4 Bände, hrsg. v. B. Witte, Th. Buck, H. D. Dahnke, R. Otto, P. Schmidt, Band 4.1: Personen. Sachen. Begriffe A-K, hrsg. v. H. D. Dahnke und R. Otto, Verlag J. B. Metzler, Stuttgart. Weimar, 1998, pp. 341-343, dove si individua per il termine Gehalt il significato di contenuto interiore, unità legata alla moralità del soggetto. 21 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 105; trad. it. cit., p. 112. 22 Ivi, p. 105; trad. it. cit., p. 111. Qui c’è una critica molto chiara ai concetti artistici che venivano derivati da Dilthey e utilizzati nella scuola di George, a cui il saggio è rivolto in modo polemico e a cui pure apparteneva Hellingrath. 23 Ivi, p. 105; trad. it. cit., p. 112. 24 Cfr. a proposito R. Speth, Wahrheit und Ästhetik, cit., pp. 11-13 e 20, che vede, come già aveva fatto Uwe Steiner (cfr. Die Geburt der Kritik aus dem Geiste der Kunst, cit,

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Il compito del poeta e il sistema della verità p. 98), che egli però non cita, l’origine dell’espressione “forma interna” in Hellingrath, dove ha il significato di forma linguistica, modo del movimento linguistico, nel caso specifico la forma della poesia greca che Hölderlin vuole riprendere: e per la quale gli è necessario inventare una forma linguistica per il tedesco. Hellingrath lega esplicitamente l’espressione “forma interna” al tentativo di Goethe di riprendere la forma linguistica antica, che avrebbe influenzato a sua volta Hölderlin: «Per poter adottare la forma interna della poesia greca, doveva essere costruita una forma linguistica. Per questo si considera prima di tutto l’influsso di Goethe, in particolare l’influsso dei ritmi liberi del Prometheus, di Grenzen der Menscheit, del Mahomets Gesang, del Parzenlied, influsso che ha agito nel più tardo periodo francofortese e il cui celebre monumento è il canto del destino di Iperione. Per Goethe stesso questa forma era sorta dal tentativo di impossessarsi dell’antico, soprattutto di Pindaro, vi era insomma una logica che ora ha effetto proprio su Hölderlin» (N. von Hellingrath, Hölderlin Vermächtnis, cit., p. 53; cfr. pp. 25 ss.). Secondo Speth, nella sua teoria della harte e glatte Fügung, derivata dalla retorica antica, Hellingrath individua nel tardo Hölderlin uno stile poetico in cui la posizione delle parole e il loro ritmo perdono il rapporto con l’immagine e la melodia e soprattutto con il significato, nella direzione di un’astrazione in cui anche i silenzi e le pause hanno un ruolo, che permette l’espressione dell’indicibile e che riproduce il ritmo del pensiero. Hellingrath sceglie per questa dimensione espressiva della lingua il concetto di “forma interna”. In seguito questo concetto è stato ripreso secondo Speth da Benjamin nel concetto di “forma linguistica” nel Trauerspielbuch (ma già prima nella sua teoria della traduzione), in cui equivale al concetto di “configurazione”. Speth individua nella recezione di Benjamin della “forma interna”, da Hellingrath stesso collegata all’influsso di Goethe, una quasi identificazione con il concetto goethiano di Urphänomen, come concretarsi di un figura ideale (cfr. R Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit. p. 20). Per un’altra origine dell’espressione “forma interna” in Benjamin è Astrid Deuber-Mankowsky, che nel suo testo Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung critica Uwe Steiner per aver visto una probabile derivazione del termine benjaminiano da Hellingrath (cfr. U. Steiner, Die Geburt der Kritik aus dem Geiste der Kunst, cit., p. 98), e ne indica la più probabile origine nel concetto di “forma interna” di H. Steinthal, che intende sotto questo concetto la “forma interna linguistica”, ricollegandosi a W. von Humboldt: Benjamin aveva infatti seguito un corso di Ernst Lewy, un linguista allievo di Steinthal, a Monaco negli anni 1915-16. La datazione della probabile recezione benjaminiana di temi steinthaliani non coincide però con il periodo in cui è stato scritto il saggio su Hölderlin (1914-15), e questo rende improbabile questa derivazione attraverso Steinthal e Lewy, ma probabile attraverso Hellingrath stesso, che nomina Humboldt (cfr. N. von Hellingrath, Hölderlin Vermächtnis, cit., p. 37) e che potrebbe averne letto i testi direttamente o averne recepito il tema attraverso la lettura di Dilthey, di cui cita Das Erlebnis und die Dichtung, 1906 (cfr. ivi, p. 28) . Cfr. A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit. p. 217, nota 335: «Hellingrath si occupa di questo concetto solo in modo molto superficiale e anche non in relazione a Goethe. È molto più probabile che il concetto di “forma interna” risalga a H. Steinthal. Per “forma interna” Steinthal intende la “forma linguistica interna”. Essa è il punto centrale delle sue riflessioni di filosofia del linguaggio, che egli ha sviluppato sulla scorta degli scritti di Wilhelm von Humboldt». Cfr. anche Gunar Musik, che indica all’origine della determinazione del poetato come concezione relazionale e unità sintetica di intuizione e concetto lo schema trascendentale kantiano e il concetto humboldtiano di “forma interna” del linguaggio: “Questa unità sintetica di intuizione e concetto mostra nella sua forma (Gestalt) par-

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt ticolare il rapporto, possibile solo per mezzo della concezione relazionale, dello schema trascendentale kantiano con la forma linguistica interna di Humboldt» (G. Musik, Die erkenntnistheoretischen Grundlagen der Ästhetik Walter Benjamins, cit., p. 50). 25 Cfr. N. von Hellingrath, Hölderlin-Vermächtnis, cit., p. 53 : «Nel concetto di “forma interna” non dovrebbe essere inteso nulla di contenutistico, è supposto ciò che che appartiene totalmente alla forma linguistica della poesia, […] il modo particolare del movimento». Secondo Speth Hellingrath deriva il concetto della “forma interna” dai tentativi di Hölderlin e di Goethe di impadronirsi dell’antico e lo vede come forma linguistica in cui deve esprimersi la forma interna della poesia greca, quindi come concretizzazione del carattere artistico e sforzo costruttivo che dipende dalla posizione delle parole e non dal loro senso, dal ritmo della lingua, dal corso dei pensieri, dalla disposizione antitetica delle parole, dalla tensione dell’ode, dalla serie dei toni, che istituiscono una propria dimensione di senso (cfr. R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., p. 21). 26 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 106; trad. it. cit., p. 112 (traduzione modificata). 27 Ibid. (traduzione modificata). 28 Ibid. Così intende il poetato Rudolph Speth (in Wahrheit & Ästhetik, cit. p. 17), che dedica ampio spazio all’ “influsso neokantiano” sul saggio di Benjamin su Hölderlin (cfr. ivi, pp. 27-43): «Così il poetato può essere inteso totalmente come un concetto metafisico che conia e contiene la struttura della poesia. Ma certo qui è percepibile il fatto che Benjamin cerchi di descrivere il poetato con una terminologia metafisica neokantiana. Benjamin ha usato per questo il concetto kantiano di “unità sintetica” per descrivere questa sfera della verità. Nella Critica della ragion pura di Kant la sintesi è “un’operazione dell’intelletto” attraverso la quale si raggiunge l’unificazione del molteplice [cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 130 s., pp. 135-136; trad. it. cit., pp. 130-131]» (ivi, p. 17) 29 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 785-786: «Non (so wenig) rimane un contrasto reale tra la matematica e la meccanica, né può rimanere in vigore, né può essere stato prodotto da Kant stesso tra spazio e tempo e le categorie. La purezza è il vincolo metodico che unifica sistematicamente le forme del pensiero puro, le coordina come membri sistematici ed elimina la differenza metodica». 30 Cfr. ivi, pp. 638-730, in part. le pp. 645-648, che trattano della cosa in sé come Grenzbegriff, come idea regolativa per l’unità sintetica dell’esperienza, che si presenta come compito, e le pp. 660-662 in cui si parla del compito della cosa in sé come Inbegriff delle conoscenze scientifiche. Si veda a proposito del rapporto tra il concetto di poetato come compito e il Grenzbegriff coheniano R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., p. 19: «Al di là della determinazione del poetato attraverso la necessità, Benjamin ha contrassegnato questo come compito, presupposto, unità sintetica e come concetto-limite. Tutte queste determinazioni si accordano nel determinare la poesia (Gedicht) in quanto idee regolative o principi regolativi. […] sono le determinazioni fondamentali del processo poetico a dirigerlo. Con ciò queste determinazioni si avvicinano alla idee trascendentali di Kant, che Cohen ha interpretato come concetti-limite nel suo libro La teoria kantiana dell’esperienza. Ciò che è specificamente neokantiano nella comprensione benjaminiana di questo concetto, è la sua definizione come compito. “Compito assoluto è la determinazione del poetato puro” (II, 108), che sarebbe l’idea o la cosa in sé». Qui Speth cita in modo errato, il testo originale recita «la determinazione del poetato puro, del compito assoluto» (Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 108; trad. it. cit., p. 114). 31 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 106; trad. it. cit., p. 112.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 32

Ivi, p. 108; trad. it. cit., p. 114 (traduzione modificata). Ivi, p. 106; trad. it. cit., p. 112. 34 Sui concetti dell’intelletto come funzioni cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 93-94, pp. 109-110; trad. it. cit., p. 105: «Tutte le intuizioni, in quanto sensibili, riposano su affezioni; i concetti, dunque, su funzioni. Ma io intendo per funzione l’unità dell’atto che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. I concetti si fondano dunque sulla spontaneità del pensiero, come le intuizioni sensibili sulla recettività delle impressioni». Cfr. anche ivi, A 108, p. 168; trad. it. cit., p. 657, una brano della prima edizione della Deduzione dei concetti puri dell’intelletto: «[L’]unità infatti della coscienza sarebbe impossibile, se lo spirito (Gemüt) nella conoscenza del molteplice non potesse avere coscienza dell’identità della funzione ond’essa lo aduna sinteticamente in una coscienza». 35 Cfr. P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, B. G. Teubner, Leipzig und Berlin, 1910, p. 16 ss. 36 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 62. 37 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 62-64: «L’unificazione non deve essere pensata come un evento il cui compimento sia arrivato al termine; piuttosto deve essere pensata come un compito, e l’ideale di un compito; […] solo la logica può porre un tale compito, un tale ideale. Perché il compito che viene affidato al pensiero nel giudizio non può mai essere concepito come giunto alla quiete, al compimento» (ivi, p. 64). 38 Per la stessa dimensione del compito in Natorp cfr. P. Natorp, Philosophie und Psychologie, in «Logos», 4, 1913, pp. 176-202, in part. le pp. 176-183. 39 Cfr. a proposito A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., pp. 55-57, che distingue tra i due compiti della cosa in sé in Cohen, quello di essere legge dei fenomeni, come fondamento della loro validità oggettiva, e quello di fondare l’esperienza stessa, come esperienza contingente, ma nella sua totalità, quindi come “contingenza intelligibile” e cosa in sé: «La legge [come fondamento del valore oggettivo del fenomeno] “è solo uno dei significati della cosa in sé” (K[ants] B[egründung der] E[thik] 39; tr. it., p. 43) […]. Il ruolo specifico della cosa in sé nel discorso kantiano viene fondato da Cohen sul riconoscimento della “contingenza intelligibile” (intelligible Zufälligkeit) dell’esperienza. I principi dell’intelletto fondano la necessità dell’esperienza possibile, da Cohen identificata con la scienza matematica della natura, ma tale “esperienza possibile”, pur fondata necessariamente al suo interno, è nel suo insieme “qualcosa di affatto contingente” [I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 764, p. 629; trad. it. cit., p. 567. Per la differenza tra “contingenza empirica” e “contingenza intelligibile” cfr. ivi, B 488, p. 438; trad. it. cit., pp. 378 e 380] non solo nel senso che il concetto di esperienza dipende dalla scienza (cfr. KBE 39; tr. it., p. 43), ma anche e soprattutto in quanto la necessità dell’esperienza si fonda sulla validità dei principi, ma questi ultimi “non hanno in sé soli la loro forza, ma unicamente nel loro rapporto con l’‘esperienza possibile’. Quest’ultima per contro è stata riconosciuta come ‘qualcosa di affatto contingente’. Quindi si tratta della necessità di ciò che è contingente” (K[ants] T[theorie der] E[rfahrung] 639). Proprio l’esigenza critica, quindi, muove la ragione a superare i limiti dell’esperienza per fondare l’esperienza stessa, considerata nella sua totalità come cosa in sé: “L’esperienza stessa quindi diventa la cosa in sé che si cercava” (KTE 641). La cosa in sé, pur non potendo essere data, è necessariamente oggetto del pensiero critico, in quanto pone il problema del “limite” dell’esperienza. È questo il significato del “concetto limite” kantiano: un’istanza che Cohen, sulle orme di Kant, considera essenziale al criticismo e distintiva di quest’ultimo rispetto allo scetticismo (cfr. KBE 39 ss.; tr. it.,

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt 43 ss.; KTE 645 s.). La cosa in sé, in quanto oggetto del pensiero che non può essere dato nell’intuizione, cioè in quanto noumeno, ha dunque una funzione di limite nei confronti dell’esperienza e quindi un significato trascendentale: essa è idea, nel senso che questo termine aveva già nell’idealismo platonico: “una cosa che non è intuibile, ma solo pensabile; che nella sua funzione, come concetto, adempie la sua validità” (KTE 643). E come l’idea platonica, anche l’idea kantiana non è l’“assoluto”, l’oggetto di una conoscenza puramente intellettuale, ma “uno strumento per la conoscenza di oggetti, uno strumento che il principio sintetico, l’insieme delle leggi di natura, non può né offrire né rendere utile” (KBE 44-45; tr. it., 48): essa è “compito” (Aufgabe). È proprio nell’approfondimento del significato trascendentale dell’idea, con cui ormai la cosa in sé viene identificata, che Cohen riprende e sviluppa altri concetti kantiani, collegati a quello di “idea”: incondizionato, principio regolativo, finalità. […] [L’idea è considerata] come un compito infinito, come una direzione della ricerca sistematica. […] L’idea assume dunque nel pensiero kantiano un ruolo di “ipotesi” che Cohen aveva già riconosciuto all’idea platonica: tale ruolo è il significato teoretico dell’idea come compito. In questo modo l’idea rivela in pieno la sua funzione trascendentale di massima logica, cioè di principio soggettivo, a cui però si riconosce una fondamentale funzione regolativa rispetto al carattere sistematico della conoscenza oggettiva della natura». 40 H. Cohen, Kants Begründung der Ethik, cit., pp. 39-43; trad. it. cit., pp. 44-47 (traduzione modificata). 41 Ivi, p. 44; trad. it. cit., p. 47 (traduzione modificata). 42 Ivi, p. 44; trad. it. cit., p.48. 43 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 344, p. 304; trad. it. cit., p. 279. 44 Ivi, B 344, p. 304; trad. it. cit., p. 279 (traduzione modificata). La differenza tra Grenzen e Schranken è tematizzata da Kant nel Capitolo III del Libro II dell’Analitica trascendentale, Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in Fenomeni e Noumeni, ivi, B 294316, pp. 267-285; trad. it. cit., pp. 245-260. 45 Ivi, B 7, p. 49; trad. it. cit., p. 44 (traduzione modificata). 46 Ibid. 47 I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, hrsg. von K. Vorländer, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 1976, § 56, p. 114; trad. it. Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, a cura di P. Carabellese, riv. da R. Assunto, Laterza, Bari, 1982, p. 116. 48 Ivi, p. 114; trad. it. cit., pp. 116-117. 49 Ivi, p. 115; trad. it. cit., p. 117. Cfr. ibid. (traduzione modificata): «Le quistioni che la ragione a loro riguardo [delle idee] ci presenta, non ci sono date (aufgegeben) dagli oggetti ma da semplici massime della ragione per la soddisfazione di se stessa, e devono poter essere risolute sufficientemente; il che avviene anche col mostrare che esse sono princìpi atti a portare l’uso del nostro intelletto a universale unanimità, compiutezza (Vollständigkeit) e unità sintetica, e così valgono soltanto per l’esperienza, ma nel tutto di essa. Sebbene, poi, un tutto assoluto dell’esperienza sia impossibile, pure l’idea di un tutto della conoscenza secondo princìpi in generale è ciò che solo può procurarle quella speciale unità, quella di un sistema, senza la quale la nostra conoscenza non è che opera frammentaria, che non può essere usata pel sommo fine (che è sempre soltanto il sistema di tutti i fini); ed intendo qui non soltanto il fine pratico ma anche il sommo fine dell’uso speculativo della ragione». 50 Ibid. 51 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 658-661:

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Il compito del poeta e il sistema della verità «[La felice espressione di Kant] fa risultare la richiesta della cosa in sé dalla totalità (Gesamtheit) dell’esperienza. […] La cosa in sé è “compito”». 52 Ivi, pp. 660-662. 53 La premessa metodica dell’ipotesi scientifica qualifica il pensiero puramente come “origine della conoscenza”, ed essa, sviluppata nel senso del «giudizio e della logica dell’origine» sarà per Cohen il punto centrale per l’unità del sistema della filosofia: «L’unitarietà del sistema esige un punto centrale nel fondamento della logica. Questo centro metodico è costituito dall’idea dell’ipotesi, che abbiamo sviluppato nel giudizio e nella logica dell’origine» – H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 601. 54 Ivi, p. 62. 55 La realtà infinitesimale, che si origina per mezzo delle operazioni del calcolo infinitesimale nei giudizi della matematica di realtà, molteplicità, universalità/totalità (Allheit), è il presupposto del giudizio della sostanza, che esiste solo come correlato del movimento, dove la correlazione (come mantenimento di divisione e unificazione) è data per mezzo dell’energia, per cui si passa dal giudizio di sostanza al giudizio della legge (Urteil des Gesetzes). La capacità di operare con realtà infinitesimali caratterizza la “funzione”, come metodo fondamentale della scienza matematica della natura, quindi l’energia, come capacità di operare con realtà infinitesimali e di determinare la correlazione tra sostanza e movimento, è causalità determinata in senso funzionale che diventa appunto energia. Questa tendenza a mettere insieme sostanza e realtà infinitesimale, a passare quindi a una dimensione funzionale, è propria secondo Cohen della via della scienza che tende al compimento della sua storia. Cfr. a proposito H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 589. Per la concezione del calcolo infinitesimale come metodo matematico a fondamento del giudizio matematico di realtà, che il giudizio dell’origine esige come punto di partenza per fondare i giudizi della scienza matematica della natura, cfr. ivi, pp. 121-143. Cfr. inoltre il testo di Cohen del 1883 Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte. Ein Kapitel zur Grundlegung der Erkenntniskritik (in Werke, cit., Band 5.1), che segna il passaggio dalla “teoria della conoscenza” alla “critica della conoscenza”, e che illustra la concezione coheniana del principio e della storia del metodo infinitesimale (e del suo ruolo fondamentale nella storia della conoscenza). 56 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 587: «La logica del giudizio produce formalmente a partire dal giudizio le categorie, come conoscenze pure […] L’origine si è attivata come origine infinitesimale». 57 Ivi, p. 589. 58 Cfr. ibid. 59 Cfr. ivi, p. 399. 60 Ivi, p. 395: «Il sistema dei concetti è il sistema della conoscenza pura. E così questo diventa il supremo significato del sistema, che qui ora emerge. Gli stessi concetti, i presupposti puri, le conoscenze pure costituiscono un sistema. Nessun sistema, come nessun concetto, è concluso. Nuovi compiti nascono da nuove soluzioni. Ma anche nuovi compiti devono crescere all’interno delle soluzioni precedenti. Questo esige il sistema. […] E in questa legge-del-pensiero riconosciamo la legge-del-pensiero della verità in rapporto al significato contenutistico dei concetti, che in essa si connettono. Questa è la differenza del sistema della verità rispetto alla verità dell’identità». Cfr. il commento di Andrea Poma a questo passo: «Le ultime righe del passo sopra citato sottolineano il carattere aperto del sistema, e quindi il carattere della verità come compito, che si oppone tanto alla verità dogmatica, conclusa e statica, quanto al rifiuto scettico di essa. Con questo significato della verità come sistema, la logica di Cohen conclude la sua analisi

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt della verità critica: essa è dunque davvero una logica della verità, poiché pone all’inizio e al termine della conoscenza i fondamenti e le garanzie della verità stessa: “Siamo partiti dal giudizio dell’origine e abbiamo posto in esso un inizio, tale che la completezza non poteva prenderne uno più radicale. E ci siamo innalzati, nel giudizio del concetto, alla categoria del sistema, il quale ha portato a compimento il suo significato supremo nell’idea del sistema delle conscenze pure, come sistema della verità. Il sistema significa anche il fine. Nel sistema della verità noi riconosciamo il fine supremo delle conoscenze” (LRE 397)» (A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 111). 61 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 601. 62 Per la determinazione della legge del poetato come legge dell’ «unità sintetica delle funzioni» cfr. Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS , II, 1, p. 108; trad. it. cit., p. 114. 63 Ivi, p. 105; trad. it. cit., p. 112. 64 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 395. 65 Si ricordi l’importanza del concetto di forma nell’estetica di Cohen, a cui si è accennato sopra. 66 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 106; trad. it. cit., pp. 112-113. 67 Ivi, p. 106; trad. it. cit., p. 113. 68 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 106; trad. it. cit., p. 113 (traduzione modificata). 69 Cfr. W. Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung. Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin (1906), Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 197015, pp. 126-127 e 184; cfr. anche le pp. 141-142; trad. it. Esperienza vissuta e poesia. Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin, a cura di N. Accolti Gil Vitale, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1947, pp. 162 e 176. Benjamin (cfr. Benjamin a H. Blumenthal, 12-VIII-1912, in GB I, pp. 58-59) aveva letto di Das Erlebnis und die Dichtung solo il saggio su Friedrich Hölderlin (cfr. W. Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung, cit., pp. 221-291; trad. it. cit., pp. 353-464) nel 1912. Cfr. per il rapporto tra Erlebnis e poesia l’intero capitolo Goethe und das dichterische Phantasie, ivi, pp. 110169; trad. it. cit., pp. 165-268. Cfr. per la storia del termine Erlebnis H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1960, pp. 56-66; trad. it. Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 86-98. Sulla «struttura tripolare di vita, poesia e poetato» in Benjamin come perfezionamento e critica della posizione di Dilthey, cfr. R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., p. 22: «La struttura tripolare di vita, poesia e poetato può essere vista come uno sviluppo e contemporaneamente anche come una critica della posizione di Dilthey, il cui contributo su Hölderlin nel suo libro ‘Esperienza vissuta e poesia’ ha rianimato la discussione. In lui l’arte si fonda sulla vita e sull’esperienza vissuta individuale; essa per prima porta questa vita alla comprensione. “L’arte è l’organo della comprensione della vita”, scrive Dilthey. Benjamin riprende l’enfatico concetto della vita di Dilthey come grandezza negativa». 70 Per la visione simmeliana della tragicità del rapporto vita-forma cfr. G. Simmel, Der Begriff und die Tragödie der Kultur, in «Logos», 2, 1911-12, pp. 1-25; trad. it. Concetto e tragedia della cultura, in G. Simmel, Saggi di cultura filosofica, a cura di M. Monaldi, Parma, 1993. Cfr. anche P. Szondi, in Versuch über das Tragische, cit., pp. 196-197; trad. it. Saggio sul tragico, cit., pp. 58-59: «La dialettica tragica, per cui la vita può essere concepita solo nella forma, Simmel – forse indipendentemente da Dilthey – l’ha illustrata variamente facendo ricorso alla concretezza della vita stessa, in cui altri momenti, a loro volta tanto necessari quanto contrari alla vita, sostituiscono il momento del concetto. Interamente su questo si fonda il saggio del 1912, Der Begriff und die Tragödie der Kultur […]. Esso muove dallo spirito quasi solidificato, fattosi oggetto, che “si contrappone alla corrente della vitalità, alle tensioni cangianti dell’anima soggettiva e alla sua interna autorespon-

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Il compito del poeta e il sistema della verità sabilità. Ma in quanto spirito intimamente legato allo spirito, il soggetto vive innumerevoli tragedie nel profondo contrasto di forma tra la vita soggettiva, che si muove senza posa ma è temporalmente finita, e i suoi contenuti che una volta creati, sono immobili e atemporalmente validi” [G. Simmel, Der Begriff und die Tragödie der Kultur, in «Logos», 2, 1911-1912, p. 21 s.; trad. it. cit., p. 208 s.]». Stando alla sua stessa testimonianza, Benjamin seguiva lezioni di Simmel a Berlino (cfr. il già citato Lebenslauf III del 1928 in GS, VI, p. 215: «ho seguito in modo particolare i professori Cohn, […] Rickert […] a Friburgo, Cassirer, Erdmann […] e Simmel a Berlino, Geiger a […] Monaco, e Häberlin […] [e] Herberz […] a Berna»), ma il fatto che Simmel si sia trasferito a Strasburgo nel 1914 fa pensare che egli lo abbia seguito quando si trovava a Berlino nel semestre invernale 1912-13, nel semestre invernale 1913-14 e nel semestre estivo 1914. I cicli di lezione che Benjamin può aver seguito sono i corsi sui fondamenti della logica, sulla filosofia da Fichte a Bergson, sulla storia generale della filosofia e sulla filosofia dell’arte: «Semestre invernale 1912/13: Fondamenti (Grundzüge) di logica. Filosofia degli ultimi 100 anni, da Fichte fino a Nietzsche e Bergson (2). Privatissimus filosofico per avanzati. Semestre invernale 1913/14: Storia generale della filosofia (4). Filosofia dell’arte» – K. Gassen, Georg Simmel Bibliographie, in K. Gassen, M. Landmann (a cura di), Buch des Dankens an Georg Simmel, Dunkler & Humblot, Berlin, 1958, pp. 348-349. Benjamin aveva un certo rispetto per Simmel, nel cui stile filosofico vedeva una somiglianza con il metodo del commento talmudico, come emerge dal racconto di Scholem: «gli descrissi in che modo si svolgeva quella discussione halakica, ove i sapienti affrontavano l’argomento da ogni lato, spesso sulla base di una differente interpretazione di un versetto della Bibbia. “Qualcosa di simile a ciò che accade in Simmel”, disse Benjamin con mia sorpresa. Allora non sapevo quasi nulla delle opere di Georg Simmel, che a quel tempo aveva già lasciato Berlino. L’osservazione di Benjamin mi spinse a leggere alcuni suoi scritti, che, benché fossero ben lontani da piacermi come il Talmud, presentavano effettivamente una profonda affinità con l’impostazione concettuale di questo» (G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 24; trad. it. cit., pp. 33-34). 71 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 112; trad. it. cit., p. 119. 72 Ivi, p. 107; trad. it. cit., p. 113. Il passo continua così: «Siamo abituati a vederla difesa, anzi incoraggiata questa inettitudine, a sentirla chiamare “senso immediato della vita”, calore umano”, “sentimento”. L’esempio importante di Hölderlin mostra chiaramente come il poetato dia la possibilità di valutare la poesia, considerando il grado di connessione (Verbundenheit) e grandezza (Große) dei suoi elementi» (ibid.). C’è qui un’aperta polemica nei confronti della poetica della scuola di George e della sua ripresa del concetti diltheyano di Erlebnis. Rudolph Speth (cfr. R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., pp. 23-26) vede in Benjamin una critica a questo concetto e alla sua ripresa in Hellingrath, in Gundolf e nella scuola di George, ma vede nello stesso tempo nella ripresa della concezione irrazionale della soggettività di Dilthey e della sua visione del poeta come profeta in un senso mitico-escatologico (non diltheyano) da parte di questa scuola, una concezione che, almeno in Hellingrath, è corretta a suo avviso dal concetto di forma (che ha influenzato Benjamin) e in Gundolf (anche influenzato da Hellingrath) dal concetto di forza, ed è per questo più vicina alla concezione propria di Hölderlin della «struttura dialettica del proprio, della sobrietà dell’esposizione, e dell’estraneo, del pathos celeste» (ivi, p. 25), di quanto lo sarà poi la concezione di Benjamin della vita come compito, legata piuttosto alla tradizione neokantiana della critica della metafisica. Speth avanza la tesi di un possibile influenza su Benjamin della concezione di Gundolf della forza come elemento formativo, ma essa appare forzata, così come la dichiarazione della totale estraneità del concetto di compito alla poetica di Hölderlin, che potrebbe far pensare a una lontananza da una effettiva comprensione del poeta da parte di

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt Benjamin stesso. Lo sforzo di quest’ultimo sembra invece sinceramente volto all’interpretazione di Hölderlin nella sua fondamentale capacità teoretica di strutturazione dell’esperienza poetica, e dove egli si serve degli strumenti metodologici del neokantismo certamente estranei a Hölderlin (ma non gli è estraneo Kant) lo fa per mettere in evidenza questa struttura, ma non intende oscurarne l’originalità. 73 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 107; trad. it. cit., p. 113. 74 Secondo Rudolph Speth, per «Benjamin vita e arte non vengono posti in relazione da un’esperienza vissuta formata. Entrambi convergono come momenti funzionali soltanto in un fondamento metafisico ultimo» (R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., p. 23). Questo fondamento metafisico ultimo, il poetato, acquista nell’interpretazione di Speth una veste ontologica che Benjamin almeno apparentemente rifiuta in nome di una visione funzionale. 75 Come si è già visto, Benjamin aveva seguito sicuramente un corso di Cassirer, che insegnava come Privatdozent a Berlino dal 1906, nel semestre estivo del 1915. Ne è la prova la cartolina a Fritz Radt del maggio 1915: «Caro Fritz, nel caso improbabile che Lei non sia al corso (Cassirer), questa cartolina deve dirle […]» (Benjamin a F. Radt, 14V-1915, in GB I, p. 266). Cassirer teneva in quel semestre lezioni e seminari su Platone e la storia del platonismo. Cfr. H. Paetzold, Ernst Cassirer. Von Marburg nach New York. Eine philosophische Biographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1995, p. 24: «Platone e la storia del platonismo sono stati oggetto frequente di lezioni e seminari [di Cassirer] (semestre estivo 1914; semestre estivo 1915; semestre estivo 1916)». Cfr. ivi, pp. 23-24, l’intero elenco dei corsi berlinesi di Cassirer, dei quali Benjamin può aver seguito soltanto quelli dei semestri invernali 1912-1913 (su Leibniz e Descartes e sulla storia della filosofia dal Rinascimento a Kant) e 1913-1914 (sulla storia dell’idealismo), perché negli altri semestri era ancora studente di scuola o di liceo oppure studente universitario a Friburgo o a Monaco: «In lezioni (Vorlesungen) e seminari il libero docente ha trattato spesso la filosofia teoretica di Kant (semestre estivo 1907, semestre invernale 1910/11, semestre invernale 1912/13), quindi Leibniz e Descartes (semestre invernale 1907/8, semestre invernale 1910/11, semestre invernale 1912/13). Inoltre vi erano […] delle panoramiche storiche: ‘Dal rinascimento a Kant’ (semestre invernale 1907/8, semestre invernale 1912/13). Quindi in corsi sistematici si affrontava la logica (semestre estivo 1909, semestre estivo 1913) o la critica della conoscenza (semestre estivo 1908, semestre invernale 1915/16). […] La storia dell’idealismo ha avuto un ruolo (semestre invernale 1913/14). Nel semestre invernale 1915/16 Cassirer ha fatto lezione su ‘Il pensiero dell’umanità nella storia delle idee (Geistesgeschichte) tedesca’. Si vede che i temi e gli oggetti delle lezioni e dei seminari erano per lo più paralleli alle nuove pubblicazioni. In generale si nota il forte orientamento verso Platone e Descartes, Leibniz e Kant». Cfr. però G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 104 (annotazione dell’8-V-1915), nota 118, dove si segnala un corso sulla “filosofia moderna da Kant ai giorni nostri” tenuto da Cassirer nel semestre estivo 1915: «L’elenco dei corsi della Königl. Friedrich-Wilhelm-Universität zu Berlin del semestre estivo 1915 nomina due corsi che hanno per oggetto Kant: “La filosofia moderna (da Kant ai giorni nostri), Dr. Ernst Cassirer, lunedì e giovedì, ore 18-19 […]». Forse è proprio questo il corso seguito da Benjamin, magari insieme alle esercitazioni di Cassirer nello stesso semestre sulla storia della filosofia antica in relazione al Teeteto di Platone, il lunedì alle ore 19-20 (cfr. ibid., nota 119). Tranne la cartolina del maggio 1915, non ci sono altre prove della frequenza di Benjamin dei corsi di Cassirer. Benjamin non esprime giudizi sull’insegnamento di Cassirer, mentre Scholem espone la sua personale valutazione del filosofo, che segue negli anni 1916-1917, con parole critiche che non si sa se

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Il compito del poeta e il sistema della verità fossero o no condivise dall’amico: «I docenti di filosofia non li prendevamo molto sul serio, ostentando rispetto ad essi un’arroganza forse eccessiva. Io, per esempio, ero stato assai deluso dal corso tenuto da Ernst Cassirer sulla filosofia greca fino a Platone, che seguii nell’inverno 1916/17 […]. Seguivamo le nostre stelle senza l’accompagnamento di guide accademiche […]. [Nell’estate del 1916] Benjamin mi aveva accennato al fatto di vedere nel suo futuro una docenza di filosofia. Fu sotto l’impressione di quei colloqui che annotai quanto segue “Se Benjamin terrà mai delle lezioni di filosofia della storia nel suo stile caratteristico, non ci sarà nessuno in grado di capirlo, ma il suo corso potrebbe essere qualcosa di straordinario se qualcuno volesse veramente sentire lui e non un luminare consacrato”: frecciata, quest’ultima, diretta contro le lezioni di Cassirer». (G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 32 e 48; trad. it. cit., pp. 46 e 63). 76 Nel problema della conciliazione tra forma e materia, soggetto e oggetto, natura e spirito, Simmel era arrivato alla conclusione, nel suo Kant und Goethe del 1906 e contrariamente al Freiheit und Form di Cassirer del 1916, che queste dimensioni opposte, impersonate dalle concezioni del mondo di Goethe e Kant, non potevano essere conciliate: «Non possiamo nasconderci che non è stata ancora trovata alcuna possibile equazione tra queste due concezioni del mondo; ed è certo che solo l’una e l’altra prese congiuntamente potrebbero soddisfare la nostra aspirazione a un rapporto spirituale con il mondo. Ma forse è di principio sbagliato cercare un equilibrio stabile tra le due posizioni. Forse il ritmo e la forma della vita moderna impongono che la linea di confine tra l’interpretazione meccanicistica del mondo e quella goethiana […] si sposti continuamente, e che proprio tale movimento tra le due posizioni, l’effetto che producono l’una sull’altra, l’alternarsi delle richieste e delle aspettative che esse muovono nei confronti dell’individuo, non cessino di attribuire alla vita quel fascino che noi ci aspettiamo di afferrare attraverso la decisione definitiva ed impossibile di accogliere l’una o l’altra delle due posizioni» – G. Simmel, Kant und Goethe. Zur Geschichte der modernen Weltanschauung (1906), Wolff, Leipzig, 19163, pp. 113-114; trad. it. G. Simmel, Kant e Goethe. Una storia della moderna concezione del mondo, trad. di A. Iadicicco, Ibis, Como-Pavia, 1995, pp. 8990. La differenza tra Simmel e Cassirer è visibile nel fatto che «mentre […] [i] due termini [opposti] sono costituiti per Simmel dal soggetto e dall’oggetto, dalla natura e dallo spirito, Cassirer li individua nella forma e nella libertà. È di tutta evidenza che le coppie non sono sovrapponibili, in quanto mentre tra soggetto e oggetto, natura e spirito vi è un rapporto di contrapposizione ontologica, Cassirer trasforma il problema in problema delle funzioni della coscienza. Libertà e forma, infatti, non sono entità appartenenti a due diverse regioni dell’essere, ma le due modalità in cui può estrinsecarsi la vita della coscienza. Tali modalità possono trovare una conciliazione se la coscienza riconosce di essere autonoma, se cioè nel suo dare forma si sa sottoposta soltanto alla sua legge interna. […] mentre per Simmel il parallelo Kant-Goethe determina la Grundverschiedenheit per cui Goethe statuisce l’uguaglianza dalla parte dell’oggetto e Kant dalla parte del soggetto, per Cassirer sia Kant che Goethe raggiungono una conciliazione tra l’esigenza della libertà e l’aspirazione alla forma nel concetto dell’autonoma coscienza formatrice» (G. Spada, Introduzione all’edizione italiana, in E. Cassirer, Libertà e forma. Studi sulla storia spirituale in Germania, a cura di G. Spada, Le Lettere, Firenze, 1999 pp. 8-9). 77 Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik (1910), Bruno Cassirer, Berlin, 19232; trad. it. Sostanza e funzione. Ricerche sui problemi fondamentali della critica della conoscenza, trad. di E. Arnaud, introd. di M. Ferrari, La Nuova Italia, Firenze, 19992. Questo testo è secondo Liselotte

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt Wiesenthal (cfr. L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, Athenäum, Frankfurt/M., 1973, pp. 9-17), insieme ai testi di Cohen, la fonte del concetto di funzione in Benjamin e una possibile fonte per la concezione epistemologica del Grenzbegriff. La Wiesenthal si riferisce alla concezione cassireriana del Grenzgebild come caso-limite ideale della ricerca scientifica, che viene esibito in un caso concreto per guidare la ricerca scientifica e rappresentare la legge teorica astratta nell’esperimento concreto, e individua parallelamente in Benjamin, nella Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco, una “teoria degli estremi”, dove i concetti scientifici verrebbero “esemplificati” in casi ideali concreti (cfr. L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit. pp. 7-33 e Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 210-214; trad. it. cit., pp. 11-12). La Wiesenthal è la prima a delineare le linee epistemologiche della ricerca di Benjamin, individuando in lui una teoria dell’esperienza che vuole approfondire a suo avviso la fondazione scientifica dell’esperienza stessa, fondazione che già Kant aveva intrapreso e i neokantiani avevano continuato. Benjamin vuole effettivamente affrontare una revisione della filosofia kantiana nella direzione della trascendentalizzazione completa della conoscenza, e in questo segue i neokantiani, e Cohen soprattutto, nella eliminazione della differenza tra intuizione e intelletto, ma non li segue poi nella riduzione di tutta l’esperienza ad esperienza scientifica. La Wiesenthal vede invece nel tentativo neokantiano il modello di Benjamin, e interpreta il suo tentativo in senso unilaterale come ricerca dei fondamenti scientifici dell’esperienza. 78 E. Cassirer, Freiheit und Form (1916), Wissenschaftliche Buchgesellscahft, Darmstadt, 19613; trad. it. Libertà e forma. Studi sulla storia spirituale in Germania, cit. 79 A proposito della diversa visione che Dilthey e Cassirer hanno di Goethe, rispetto al rapporto tra vita e poesia (e Cassirer, almeno come rappresentante della “continuità Kant-Schiller-Goethe” propria del neocriticismo della scuola di Marburgo può avere indirettamente influenzato Benjamin), cfr. l’importante libro di M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1996, pp. 75-77: «è interessante vedere come il tema sottolineato da Dilthey del rapporto in Goethe tra vita e poesia – della poesia come “espressione della vita” e della comprensione a partire dalla vita della vita medesima “nella sua pienezza e armonia” [W. Dilthey, Das Erlebnis und die Dichtung, cit., pp. 126-127, 184] – assuma in Cassirer un’intonazione diversa: non solo perché vita e opera tendono a fondersi, per Cassirer, in un tutto unitario, ma soprattutto perché è se mai a partire dall’oggettivazione della vita che la vita si svela nel suo “processo interiore” – come risultato [cfr. E. Cassirer, Freiheit und Form, Bruno Cassirer, Berlin, 1916, p. 172]. Ad esprimersi nella poesia del Faust – aggiunge Cassirer – non è mai il contenuto della vita, ma la sua “legge formale” (Formgesetz) [ivi, p. 259; trad. it. cit., p. 276]; e in questo senso, alla maniera ‘marburghese’, non si tratta di muovere da una intatta soggettività, quanto piuttosto di recuperare a partire dalla realizzazione oggettiva il senso della vita che altrimenti rimarrebbe inafferrabile. Ma questo […] potrebbe anche intendersi come un’ulteriore conferma – attraverso Goethe – dell’intuizione fondamentale della ‘psicologia critica’ di Natorp, secondo cui la conoscenza dell’Io necessita sempre della mediazione oggettiva e il rapporto soggetto-oggetto è solo da concepirsi come una mobile correlazione. In Goethe questa mediazione oggettiva è rappresentata dalla forma, e tutta la sua opera di poeta e di indagatore della natura appare a Cassirer sotto il segno del “regno della forma” […]: la “volontà di forma” è insomma comune a tutto Goethe, e il passaggio è semmai dalla forma come espressione ancora delle energie soggettive della vita alla “forma del divenire oggettivo”, all’“idea” [cfr. ivi, pp. 197, 200; trad. it. cit., pp. 220, 223]. L’accento di Cassirer cade così, non solo in Freiheit und Form, sul carattere dinamico della forma [che] […] non è tanto una Gestalt

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Il compito del poeta e il sistema della verità […] quanto appunto forma che sempre è saldata alla realtà umana e naturale, e […] [che] rivela per Cassirer tutta la sua potenzialità per la comprensione della realtà in generale (e non solo della forma artistica) in quanto il suo ‘essere’ si risolve in un “processo” [cfr. ivi, p. 258; trad. it. cit., p. 275]: il concetto di forma non può esibirsi altrimenti che nel suo stesso divenire ed essa è origine solo nel senso di qualcosa che scorre, non come immoto inizio». 80 Cfr. M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, cit., in part. il capitolo II Libertà, idea, forma, pp. 45-84 e il cap. VI Simbolo ed espressione. Fonti leibniziane della “Filosofia delle forme simboliche”, pp. 171-190. 81 Cfr. E. Cassirer (1921), Idee und Gestalt, Wissenschaftliche Buchhandlung, Darmstadt, 1971. 82 Sul primato della funzione, rispetto all’oggetto, nei diversi campi della cultura, tra cui il campo del mito, cfr. E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Ersten Teil: Die Sprache (1923), Bruno Cassirer, Oxford, 19542; trad. it. Filosofia delle forme simboliche, vol. I: Il linguaggio, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze, 1987. Cfr. ivi, pp. 10-11; trad. it. cit., p. 12: «La questione decisiva sta sempre nell’alternativa se noi cerchiamo di intendere la funzione partendo dal prodotto o il prodotto partendo dalla funzione, se facciamo in modo che quest’ultimo ‘si fondi’ sulla prima o viceversa […]. Infatti il principio fondamentale del pensiero critico, il principio del ‘primato’ della funzione rispetto all’oggetto, prende in ogni campo particolare una nuova forma ed esige una nuova fondazione (Begründung) indipendente». Cfr. la trattazione del mito in E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Zweiten Teil: Das mythische Denken (1925), Wissenschaftliche Buchgesellscahft, Darmstadt, 19733; trad. it. Filosofia delle forme simboliche, vol. II: Il pensiero mitico, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze, 1977. Cfr. inoltre lo studio scritto da Cassirer tra il 1921 e il 1922, Die Begriffsform im mythischen Denken, «Studien der Bibliothek Warburg», I, Leipzig-Berlin, 1922, in part. le pp. 7-9; trad. it. La forma del concetto nel pensiero mitico, in E. Cassirer, Mito e concetto, a cura di R. Lazzari, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1992, pp. 1-77, cfr. in part. le pp. 13-15: «E tuttavia è intrinseca anche al mito una precisa maniera di dare forma (Gestaltgebung), com’è vero che esso non persiste esclusivamente nella cerchia delle rappresentazioni indefinite e delle affezioni, ma si esprime in forme oggettive (objectiven Gestalten); gli è intrinseca una direzione dell’oggettivazione, che – per quanto poco coincida con la forma logica della “determinazione dell’oggetto” – implica tuttavia una maniera del tutto distinta della “sintesi del molteplice”, della riunione e della coordinazione reciproca degli elementi sensibili. Ogni formazione di concetti, indifferentemente in quale campo e con quale materiale abbia luogo, se con quello dell’esperienza “oggettiva” o della semplice rappresentazione “soggettiva”, è contraddistinta dal fatto di racchiudere in sé un determinato principio di collegamento e di “coordinamento in serie”. Solo attraverso questo principio sono distaccati dal flusso continuo delle impressioni determinati “costrutti”, determinate configurazioni dai contorni e dalle “qualità” stabili. La forma dell’ordinamento in serie determina con ciò la specie e il genere del concetto. È un’altra maniera del coordinare, è un’altra prospettiva del comparare che è caratteristica per esempio del concetto fisico e del concetto biologico; è un altro riguardo del riunire, ancora, che domina la formazione dei concetti storici. […] Che non sia un paradosso parlare di […] categorie della coscienza mitica, che la rinuncia alla forma logico-scientifica del collegamento e dell’interpretazione non sia equivalente all’assoluto arbitrio e alla mancanza di leggi, ma che una legge di tipo e di stampo particolare sia alla base del pensiero mitico – ciò è quanto la seguente esposizione cerca di dimostrare». Questo testo, in origine una conferenza tenuta nel 1921 presso la “Società di scienze religiose” di Amburgo, inaugura nel

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt 1922 la prestigiosa serie degli «Studien der Bibliothek Warburg». Esso figura tra le letture di Benjamin intorno al 1923 (cfr. Verzeichnis der gelesenen Schriften, in GS, VII, 1, p. 452). 83 Benjamin oppone al mito come struttura connettiva degli elementi poetici l’indeterminatezza del sentimento della vita proprio della mitologia: «l’analisi delle grandi poesie non incontrerà il mito stesso, […] ma un’unità nata dalla forza degli elementi mitici in conflitto tra loro – e sarà espressione autentica della vita. […] Il mitologico si rivela mito solo in forza della sua interconnessione» (Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, pp. 108-109; trad. it. cit., pp. 114-115). Rispetto alla concezione che Benjamin aveva del mito negli anni 1915-1916, Scholem riporta una discussione avuta con lui nel 1916 e le sue osservazioni e i suoi appunti in proposito: «Per Benjamin, solo il mito era “il mondo”. Disse di non sapere ancora che scopo avesse la filosofia, giacchè il “senso del mondo” non aveva bisogno di essere scoperto, essendo già dato nel mito. Il mito era tutto: il resto, matematica e filosofia comprese, era solo un mascheramento (Verdunkelung), un’apparenza (Schein) sorta all’interno del mito stesso. […] La filosofia non era qualcosa a se stante, e solo la religione poteva penetrare nel mondo del mito. […] Già allora Benjamin parlava […] della differenza tra diritto (Recht) e giustizia (Gerechtigkeit), dato che il diritto era un ordine che poteva fondarsi solo all’interno del mondo del mito. […] Lo spirito di Benjamin si aggira e si aggirerà ancora a lungo sul fenomeno del mito, al quale si avvicina dai versanti più disparati. Da quello della storia, prendendo le mosse dal romanticismo, da quello della poesia, ispirandosi a Hölderlin, da quello della religione, a partire dall’ebraismo, e infine da quello del diritto» (G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 44-45; trad. it. cit., pp. 59-61). Qui nel saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin il mondo mitico del diritto è il mondo della comunità umana fondato sui rapporti naturali e sulla violenza di un diritto antico e demoniaco, in cui non è ancora presente un diritto superiore (che il poeta in veste di eroe tragico rappresenta, nel suo sacrificio, come mondo interiore etico, come esempio per una comunità futura fondata sulla giustizia). 84 Due poesie di Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 107; trad. it. cit., p. 114. 85 Ivi, pp. 107-108; trad. it. cit., pp. 113-114. 86 Secondo Rudolph Speth il concetto della Gestalt ha origine nella plasticità del linguaggio stesso di Hölderlin, capace di rappresentare un ordine spirituale nella posizione delle parole, così come è interpretato da Hellingrath: «Benjamin ha concepito il concetto di “forma/figura” (Gestalt), in ciò influenzato da Hellingrath, come una struttura linguistica, una struttura della parola – oggi parleremmo di forma poetica –, in cui non sono tanto importanti il senso e il significato quanto la configurazione» (R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., p. 36). Speth si riferisce inoltre alla visione neoplatonica dell’espressione sensibile dell’idea in Cassirer (cfr. E. Cassirer, Idee und Gestalt, cit.), distinguendola però dalla concezione di Benjamin (cfr. R. Speth, Wahrheit & Ästhetik, cit., p. 36). Benjamin va infatti per altre strade, legate alla sua concezione del linguaggio, di cui si tratterà più avanti. 87 Due poesie di Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 119; trad. it. cit., p. 125 (traduzione modificata). 88 E. Cassirer, Freiheit und Form (19613), cit., p. 256; trad. it. cit., p. 273 (Cassirer parafrasa la n. 643 delle Massime e riflessioni di Goethe). 89 Cfr. L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit., p. 23. Per una trattazione del concetto di Urphänomen goethiano come figura pregnante, come Gestalt che è anche funzione e principio di serie per una molteplicità da ordinare, in Cassirer, Benjamin (nell’Ursprung des deutschen Trauerpiels) e Simmel, cfr. ivi, pp. 23-24: «per Goethe il “fenomeno originario” non testimonia solo di se stesso. Piuttosto egli scrive

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Il compito del poeta e il sistema della verità sui suoi studi di scienze naturali che l’osservazione della natura “in generale e in particolare” l’ha costretto a partire da un “tipo” (Typus) [J. W. Goethe, Naturwissenschaftliche Schriften, in Werke, hrsg. im Auftrage der Großherzogin Sophie von Sachsen, 143 Bände, Böhlhaus, Weimar, 1887-1919, Abt. II, Band. 6, p. 20] […]. Il tipo deve essere qui l’unità di misura, secondo la quale si deve ordinare la natura altrimenti non “tipica” e che appare nelle più diverse declinazioni (Abweichungen). Il “fenomeno originario “ è contemporaneamente “principio e prodotto (Gebilde)” [E. Cassirer, Idee und Gestalt, cit., p. 49]. È “modello” [ivi, p. 48] dato in senso fenomenico, non soltanto pensato, per l’interpretazione dei nessi strutturali dei fenomeni di un ambito. Cassirer ha visto che il tipo di Goethe è un “principio di serie” con cui possono essere stabiliti nell’intuizione (Anschauung) classificazioni dell’esperienza (Erfahrungsordnungen). I fenomeni che si presentano vari e con molteplici differenze vengono conosciuti e osservati come appartenenti a un’unità attraverso la “continuità nella serie delle forme” [G. Simmel (1913), Goethe, Leipzig, 19235, p. 78]. La forma (Gestalt) del “fenomeno originario” come “tipico caso per eccellenza di una relazione” [ivi, p. 57] è un “caso [che vale] per mille” [E. Cassirer, Idee und Gestalt, cit., p. 44]. Il “tipo” è così la “legge determinante” [ibid.], che lega la “molteplicità funzionalmente per costituire una unità” [G. Simmel, Goethe, cit., p. 69]. In questo senso Goethe parla del tipo come di un “concetto”. Il “fenomeno originario” come prodotto (Gebilde) eccellente dal punto di vista della forma, cioè pregnante, può quindi essere considerato come funzione, se si parte metodicamente dal fatto, “che solo l’entelechia totale [rimane] costante” [A. Meyer-Abich, Christian v. Ehrenfels’ Gestalttheorie als theoretische Vollendung der Naturwissenschaft Goethes und Humboldts, im Hinblick auf die heutige Biologie erörtet, in Gestalthaftes Sehen, Ehrenfels-Festschrift, Darmstadt, 1967, p. 310]. […]. Il tipo è così la relazione d’identità formale (gestaltlich), in cui possono entrare membri funzionalmente equivalenti di una relazione […] Il “tipo” è così il principio formale (gestaltlich) per la costituzione di una serie di forme (Gestaltenreihe), i cui membri sono variabili della relazione d’identità. Come il “tipo” di Goethe l’Extremphänomen di Benjamin è un eccellente prodotto gestaltico (gestaltlich). […] In questo senso i prodotti [che Benjamin chiama] “estremi” devono essere intesi come “fenomeni originari”. Tuttavia mentre in Goethe il “fenomeno originario” è già “concetto”, per Benjamin il fenomeno “estremo” costituisce il punto di partenza per la costruzione del concetto». 90 Proprio attraverso la lettura del Goethe di Simmel Benjamin riconosce nel suo concetto di Ursprung, che sviluppa negli anni ’20 nel suo testo Ursprung des deutschen Trauerspiels (pubblicato nel 1928 ma terminato intorno al 1925) una trasposizione del concetto goethiano dai nessi pagani della natura ai nessi ebraico-teologici della storia: «Nello studio della rappresentazione propria di Simmel del concetto di verità goethiano [cfr. G. Simmel, Goethe, cit.], in particolare nelle sue eccezionali spiegazioni del fenomeno originario, mi si è chiarito in modo inconfutabile che il mio concetto dell’“origine” nel libro sul Trauerspiel è una trasposizione rigorosa e cogente di questo concetto fondamentale goethiano dall’ambito della natura in quello della storia. “Origine” – questa è il concetto del fenomeno originario teologico e storicamente differente, teologico e storicamente vivente e che è stato portato dai nessi naturali pagani nei nessi ebraici della storia. “Origine” – questa è il fenomeno originario in senso teologico. Solo per questo essa può soddisfare (erfüllen) il concetto dell’autenticità» (W. Benjamin, Nachträge zum Trauerspielbuch, in GS, I, 3, pp. 953-954). 91 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Dritten Teil: Phänomenologie der Erkenntnis (1929), Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1994, p. 235; trad. it. Filosofia delle forme simboliche, vol. III: Fenomenologia della conoscenza, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze, 1984, Tomo primo, p. 270.

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt 92 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 108; trad. it. cit., p. 114 (traduzione modificata). 93 Ibid. (traduzione modificata). 94 Per la concezione dei concetti matematici e geometrici (legati alle forme del tempo e dello spazio) e dei concetti della scienza della natura come concetti funzionali, cioè come relazioni ideali che danno la regola per la serie delle variabili cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., pp. 3-310; trad. it. cit., pp. 9-311 (capitoli I-IV). 95 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 587: «La logica del giudizio produce le categorie formalmente a partire dal giudizio, come conoscenze pure. […] L’origine si è attivata come origine infinitesimale». Per il passaggio dalla sostanzialità alla funzionalità dell’idea platonica in Cohen e Natorp cfr. S. Ferretti, L’ispirazione platonica di Cassirer, interprete della matematica moderna, in «Il Cannocchiale», 16, 1991, p. 137: «Secondo […] [Cohen] tutte le idee in quanto enti sono condizionate dal pensiero (“tutto ciò che è conosciuto nel puro pensiero, in quanto tale, rappresenta per Platone l’essere vero” [H. Cohen, Platons Ideenlehre und die Mathematik (1874), in H. Cohen, Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, cit., Band I, p. 347]) e non è possibile concepirle alla maniera di Aristotele come enti separati. Da questa posizione alla definizione che darà Natorp all’idea come ‘simbolo’ […], e non come oggetto, il passo è breve. Questo è il passaggio dalla sostanzialità alla funzionalità dell’idea platonica, che Natorp segue attraverso alcuni dialoghi fino a coglierlo pienamente attuato nel Parmenide e nel Sofista. Secondo Natorp in questi dialoghi si svela il punto d’incontro fra idealismo platonico e idealismo critico, entrambi aventi a fondamento il principio della possibilità dell’esperienza». Cfr. P. Natorp, Platons Ideenlehre (1903), Leipzig, 19212, pp. 163-164. 96 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 660-662: «La cosa in sé […] [come] complesso (Inbegriff) delle conoscenze scientifiche […] [è il] compito del porre limiti (Bergrenzungsaufgabe) [ed è] […] senza fine, si ricrea in ogni oggetto. Tutto il nostro sapere è frammento, soltanto la cosa in sé è un tutto: perché il compito della ricerca è infinito». 97 Liselotte Wiesenthal per prima ha indicato nel concetto di Inbegriff di Hermann Cohen (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 70 e 129) e di Ernst Cassirer (cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit, pp. 28, 29, 57 e in modo particolare p. 102; trad. it. cit., pp. 33, 34 e 63) una possibile fonte del termine benjaminiano. Esso avrebbe il significato sia nei neokantiani che in Benjamin di funzione, di relazione costante rispetto a delle variabili, è la relazione che pone le condizioni di inseribilità. Si tratterebbe di un’“identità” che fonda la definizione relazionale e con questo, in Cohen e Cassirer (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 93 ss.; E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., pp. 20, 40, 44 e 52; trad. it. cit., pp. 25, 46, 50 e 58), fonda il sistema di relazioni che, come forma del sistema della filosofia, viene mantenuto come “invariante” rispetto ai contenuti variabili della conoscenza; in Cohen diventerà centrale in questo contesto il concetto di “origine”, che si configura nella forma del giudizio logico dell’origine, da cui derivano formalmente i contenuti scientifici (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, Band 6, cit., pp. 79-80), concetto poi ripreso e reinterpretato da Benjamin: «l’espressione “Inbegriff” in Benjamin [deve] essere inteso nel senso della versione di Cohen e Cassirer […]. Egli intende […] un principio di serie, in cui possono essere inseriti valori funzionalmente equivalenti analogicamente alla serie matematica. “Identità” significa quindi che la definizione data nell’“Inbegriff” garantisce il nesso delle variabili» (L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit., p. 26, cfr. pp. 24-26). 98 E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., pp. 19 e 28-29; trad. it. cit., pp. 25 e 33-34.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 99 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 108; trad. it. cit., p. 114. Per il concetto di “funzione”, che insieme al concetto neokantiano di Inbegriff e al concetto di Gestalt (caratterizzato dal gestaltismo come figura strutturata in modo pregnante) indica in Benjamin in questo momento un’attenzione a questioni epistemologiche, cfr. ancora L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit., pp. 27-29, e, per il concetto di Gestalt le pp. 39-40: la Wiesenthal indica in Frege la possibile fonte del concetto di funzione di Benjamin, attinto da conversazioni con Scholem sul linguaggio della matematica. Scholem dal 1915 studiava matematica e nel 1917 avrebbe seguito a Monaco lezioni di G. Frege, di cui conosceva il testo Funktion und Begriff [cfr. G. Frege, Funktion und Begriff, in Funktion, Begriff, Bedeutung, Göttingen, 19662, p. 22 ss.]. Fabrizio Desideri le obietta però che la vicinanza a Frege da parte di Scholem si è avuta soltanto nel 191617, e ciò fa presumere che Benjamin sia arrivato al concetto di funzione partendo da altre fonti (cfr. F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p. 54, nota 77). Desideri osserva, rispetto al gestaltismo, che «costante è in Benjamin l’interesse per la “fenomenologia della percezione” e nelle sue lettere cita spesso Linke, l’autore di Grundfragen der Wahrnemungslehre [P. Linke, Grundfragen der Wahrnemungslehre, zweite vermehrte Auflage, Verlag von Ernst Reinhard, München, 1929] (considerato uno degli iniziatori del Gestaltismo) [cfr. Benjamin a G. Scholem, 6-IX-1917, in GB I, p. 380, Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917, ivi, p. 410 e Benjamin a G. Scholem, 20, 25-V-1925, in GB III, p. 40], come un non ortodosso esponente della scuola fenomenologica husserliana» (ivi, p. 54, nota 77). 100 E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 40; trad. it. cit., p. 46. 101 Sugli elementi “morfologici” della filosofia di Cassirer cfr. S. Veca, Elementi di morfologia. Saggio su Cassirer, «Il pensiero», 14, 1969, pp. 35-70. Su Cassirer e Goethe cfr. J. M. Krois, Cassirer: Symbolic Forms and History, Yale University Press, New Haven and London, 1987, pp. 176-180, il saggio introduttivo di R. Pettoello a E. Cassirer, Goethe e il mondo storico. Tre saggi, trad. it. di R. Pettoello, Morcelliana, Brescia, 1995, pp. 7-44, e gli studi su Cassirer e Goethe di J. M. Krois, Y. Mori, H. G. Dosch, B. Naumann e Th. Knoppe in E. Rudolph, B. Küppers (a cura di), Kulturkritik nach Ernst Cassirer, Meiner, Hamburg, 1995, pp. 297-408. Cfr. inoltre per un inquadramento della Goethe-Rezeption dell’inizio del Novecento H. Kindermann, Das Goethe Bild der 20. Jahrhunderts, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 19662, e K. R. Mandelkow, Goethe in Deutschland. Rezeptionsgeschichte eines Klassikers, I, 1773-1918, Beck, München, 1980. Cfr. inoltre le belle pagine su Goethe e Cassirer in M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, cit., pp. 72-81, già in parte citate, da cui sono stati tratti questi cenni bibliografici. 102 Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band IV, Die Nachhegelianischen Systeme, W. Kohlhammer Verlag, Stuttgart, 1957, p. 153; trad. it. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia della scienza, vol. IV, trad. di E. Arnaud, Einaudi, Torino, 19642, p. 231: «Secondo Goethe, fra il generale ed il particolare non c’è la relazione della sussunzione logica, ma quella della rappresentazione ideale o simbolica». 103 M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, cit., p. 65. Massimo Ferrari ha messo molto bene in risalto l’importanza della riflessione di Cassirer sulla concezione leibniziana del simbolo e dell’espressione per lo sviluppo del suo pensiero sulle forme simboliche e la presenza di questa riflessione già in Freiheit und Form. Per la trattazione di Cassirer della concezione del “simbolo” in Goethe, e sulla connessione in questo senso tra Goethe, il Kant della Critica della facoltà di giudizio e Leibniz, cfr. ivi il capitolo II Libertà, idea, forma, pp. 45-84, il capitolo III Cassirer e la “Critica del Giudizio”, pp. 85-110 e il capitolo VI Fonti leibniziane della “Filosofia delle forme

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt simboliche”, pp. 171-190. Cfr. in part. le pp. 77-78: «ciò che di universale viene ad essere nella forma – e la forma non è mai un puro oggetto di contemplazione, ma un fare – non si contrappone all’individuale, bensì lo comprende in sé in quanto “simbolo concreto”: come Goethe interpretava la stessa vita in termini simbolici (secondo l’idea fondamentale che guida un’opera ‘autobiografica’ come Dichtung und Wahrheit), così in generale l’individuo è sempre da intendersi come il medium in cui si esprime il “tipico”. E in termini goethiani ciò significa pertanto che “la vera simbolica” è quella in cui il particolare rappresenta l’universale non come la sua ombra, bensì “come rivelazione vivente e istantanea di ciò che non si può indagare” [J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen, hrsg. von M. Eckers, Insel Verlag, Frankfurt/M., 1976, pp. 67-68 (n. 314); trad. it. Massime e riflessioni, introd. di P. Chiarini, a cura di S. Seidel, trad. di M. Bignami, TEA, Milano, 1988, p. 87]. […] Nella metamorfosi goethiana e nell’idea dell’Urpflanze (‘non un’esperienza ma un’idea’, secondo la celebre battuta di Schiller), Cassirer individua non a torto un “momento decisivo” dell’opera di Goethe: il luogo in cui – in questa Gestalt simbolica – vengono a incontrarsi il Goethe poeta e il Goethe studioso della natura sotto la comune egida di una “forza formatrice” (bildende Kraft) che spezza ogni rigidità, che nell’identico rinviene il mutevole, che nel particolare individua la regola e che nel moto pendolare tra idea ed esperienza lascia pulsare il ritmo della vita, ciò che Goethe chiamava “l’eterna sistole e diastole, l’eterna synkrisis e diakrisis, l’inspirare ed espirare del mondo in cui viviamo, agiamo e siamo” [J. W. Goethe, Zur Farbenlehre. Didaktischer Teil, in Werke, cit., Band XIII, p. 488; trad. it. La teoria dei colori, trad. di R. Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 183]. Che poi su questa base – più una base metodologica che non di ‘filosofia della natura’ – Goethe dovesse incontrare la Critica del Giudizio di Kant è, per Cassirer, quasi inevitabile: che cos’altro infatti l’Urpflanze se non un principio regolativo, una forma ideale che deve guidare “nel labirinto delle forme vegetali realmente esistenti” [cfr. E. Cassirer, Goethe und die mathematische Physik, in Idee und Gestalt, cit., p. 49, e cfr. E. Cassirer, Freiheit und Form (1916), cit., p. 238; trad. it. cit., pp. 178-179]. Ma altrettanto importante appare a Cassirer la connessione che in questo senso viene a realizzarsi tra Goethe e Leibniz: la molteplicità e la continuità delle forme viventi, il loro intreccio inesauribile e il loro infinito dinamismo non sono in realtà pensabili senza il retroterra leibniziano; e in questo senso Cassirer sembra propenso a riconoscere quell’“intima affinità” tra Goethe e Leibniz che suggerirà più tardi a Mahnke una serie di acute ‘variazioni’ sull’unico “tema musicale” intonato da entrambi in nome dell’unità armonica dell’universo [cfr. D. Mahnke, Leibniz und Goethe. Die Harmonie ihrer Weltansichten, Verlag Kurt Stenger, Erfurt, 1924, pp. 8, 32, 68-71]». 104 Come evidenzia Massimo Ferrari ne Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, Franco Angeli, Milano, 1988, p. 286, già in Sostanza e funzione Cassirer mette in rilievo la funzione del simbolo, cioè del rapporto tra rappresentazione fenomenica e dimensione ideale, per la conoscenza scientifica, in riferimento al testo di P.-M. Duhem La theorie physique, son objet et sa structure, Paris, 1907, ma il primo riferimento alla funzione del simbolo è nel primo volume delle Hauptschriften leibniziane curate da Cassirer stesso, terminato nel 1903 e pubblicato nel 1904 (G. W. Leibniz, Hauptschriften zur Grundlegung der Philosophie, übersetzt von A. Buchenau. Durchgesehen und mit Einleitungen und Erläuterungen hrsg. von E. Cassirer, Meiner, Hamburg, 19663, 2 Bände), è quindi legato all’interpretazione cassireriana di Leibniz. Questo legame emergerà anche nel capitolo su Leibniz dell’Erkenntnisproblem (cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band I, Bruno Cassirer, Berlin, 19112, Bd. I, p. 187; trad. it. Storia della filosofia moderna, vol. I, trad. di E. Arnaud, Einaudi, Torino, 1968, p. 218): «A tre anni di distanza dal capitolo su Leibniz

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Il compito del poeta e il sistema della verità dell’Erkenntnisproblem, Cassirer avrebbe messo chiaramente in rilievo – rifacendosi alla terminologia di Pierre Duhem – la funzione del simbolo nel processo di conversione del “fatto grezzo” in fatto scientifico: il simbolo – si legge in Substanzbegriff und Funktionsbegriff – non è correlato al singolo elemento della percezione, ma alla connessione legale tra i suoi singoli elementi [cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit. pp. 195-198; trad. it. cit., pp. 200-203]» (M. Ferrari, Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, cit., p. 286). Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit. p. 195 e pp. 197-198; trad. it., cit., p. 200 e pp. 202-203: «La “pura” esperienza, nel senso di semplice raccolta induttiva di osservazioni singole non può mai fornire la struttura fondamentale della fisica: le è infatti negato il potere di dar forma matematica. Solo quando il fatto grezzo è sostituito con un simbolo matematico, comincia il lavoro intellettuale del comprendere, che lo collega sistematicamente con la totalità dei fenomeni [cfr. specialmente P.-M. Duhem, La theorie physique, cit., p. 308 ss.]. […] Siamo costretti ad attribuire all’oggetto un determinato volume e una determinata massa […] per […] ordinarlo in una data classe concettuale. […] Le qualità sensibili delle cose diventano oggetto della fisica in quanto si convertono in una determinatezza seriale. Da somma di proprietà, la “cosa” diventa ora un complesso di valori matematici, stabiliti in base a una scala di confronto. I diversi concetti della fisica determinano ciascuno per sé una scala di tal genere e rendono così possibile una sempre più intima connessione e coordinazione degli elementi del dato. Il caos delle impressioni si trasforma in un sistema di numeri; ma questi numeri ricevono la loro denominazione e quindi il loro significato specifico solo dal contenuto dei concetti fondamentali, teoreticamente stabiliti come unità di misura universalmente valide. Solo in questo nesso logico si comprende il valore “oggettivo” che va riconosciuto alla trasformazione dell’impressione in “simbolo” matematico. Certamente, nella designazione simbolica è cancellata la particolare natura dell’impressione sensoriale; viene però mantenuto e messo in particolare evidenza tutto ciò che la caratterizza come termine del sistema. Il simbolo possiede il correlato perfettamente valido non in alcun elemento costitutivo della percezione stessa, bensì nella connessione regolare che sussiste tra gli elementi di essa; questa connessione però è ciò che si rivelerà in modo sempre più chiaro come il vero nucleo del concetto della stessa “realtà” empirica». Cfr. ancora M. Ferrari, Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, cit., p. 249, dove si indica il luogo dove Cassirer per la prima volta nel 1903 ricorre al termine di “forma simbolica”: «“Il mondo sensibile dei fenomeni – dice Cassirer a commento del carteggio Leibniz-Clarke, ma riferendosi qui proprio al § 61 della Monadologia – non è certo una “copia” delle monadi semplici; tuttavia si ritrovano in esso determinati rapporti e determinate relazioni che corrispondono in maniera precisa alle relazioni fondamentali che noi pensiamo negli elementi semplici e che ci si presentano, per così dire, in forma simbolica: ‘les composés symbolisent avec les simples’. Così ad esempio il fatto che ogni azione esercitata su un punto dell’universo materiale prosegua all’infinito e agisca infine in un rapporto determinato su ciascuna delle sue parti può servire come immagine sensibile della dipendenza ideale universale e della connessione reciproca che regna tra tutti i membri dell’universo ‘intelligibile’” [H[aupt]S[chriften] I, p. 173, nota 114, corsivo di Ferrari, che rimanda nella nota 262, p. 249, anche a Freiheit und Form (1916), cit., p. 78: «i rapporti nei “fenomeni” esprimono e riproducono i rapporti nelle “sostanze” simbolicamente»]. Se si tiene presente la notissima definizione che un ventennio dopo Cassirer darà di “forma simbolica” – ossia di un contenuto spirituale che si collega ad un “concreto segno sensibile” [E. Cassirer, Der Begriff der symbolischen Form im Aufbau der Geisteswissenschaften (1923), ora in Wesen und Wirkung des Symbolbegriffs, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1983, p. 175] – non è illegittimo chie-

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6. Il compito del poeta: il poetato e la Gestalt dersi se non sussista un sotterraneo legame tra le iniziali suggestioni leibniziane e l’esito, indubbiamente ben più complesso e mediato da fonti non solo ascrivibili a Leibniz, cui perverrà Cassirer alla soglia della Philosophie der symbolischen Formen». 105 E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 192; trad. it. cit., p. 197. 106 Ivi, pp. 159-160; trad. it. cit., p. 166. Cfr. più avanti nel saggio altri esempi di ideali figure-limite: «Così come lo spazio vuoto per Democrito, così il movimento d’inerzia per Galilei è sì un postulato del quale non possiamo fare a meno per la rappresentazione scientifica dei fenomeni, ma non è esso stesso un fatto concreto sensibilmente rilevabile della realtà esteriore. Esso indica un’idea che è stata concepita allo scopo dell’ordinamento dei fenomeni, ma che dal punto di vista metodologico non si trova sul medesimo piano di questi fenomeni. […] Neppure la materia, nel senso della pura fisica, è oggetto della percezione, ma è oggetto della costruzione. Gli stabili tratti e la determinatezza geometrica, che le dobbiamo attribuire, sono possibili solo per il fatto che noi trascendiamo il campo delle sensazioni e ci innalziamo ai loro limiti (Grenzen) ideali. […] Lo stesso fattore “peso” […] viene eliminato nel passaggio dal concetto di materia al puro concetto di massa. Dal concetto di massa arriviamo poi al semplice punto-massa che è indicato […] soltanto più da un determinato valore numerico, da un determinato coefficiente. La materia stessa diventa idea, giacché sempre più chiaramente si limita alle concezioni ideali che vengono prodotte e confermate dalla matematica» (ivi, pp. 224225; trad. it. cit., pp. 228-229). E poco sopra: «Di nuovo qui ci troviamo di fronte al concetto di punto-massa e quindi di fronte a un concetto-limite puramente ideale (rein ideellen Grenzbegriff)» (ivi, p. 192; trad. it. cit., p. 197) 107 Ivi, p. 336; trad. it. cit., p. 337. 108 Ivi, p. 231; trad. it. cit., p. 235. 109 Ivi, p. 336; trad. it. cit., p. 337. 110 Su questi temi in Cassirer e la loro vicinanza epistemologica – nel rifiuto comune nella teoria della scienza della natura sia del rapporto immediato con il fenomeno che della teoria dell’astrazione (e nella comune recezione della morfologia goethiana e della sua teoria dell’Urphänomen) – alla “teoria degli estremi” di Benjamin e alla sua concezione del rapporto tra fenomeni, concetti e idee nella Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco, cfr. L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit., pp. 9-17, in part. pp. 11-13: «Contro questo è sufficiente, nelle scienze della natura, che un caso sia pensato nei suoi “limiti (Grenzen) ideali”. Per rappresentare questo caso intuitivamente nella realtà, lo scienziato (Naturwissenschaftler) fa esperimenti: il processo sperimentale è esattamente la creazione di un “caso ideale” [cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 336; trad. it. cit, p. 336]. Il “caso ideale”, l’esperimento, è così una costruzione, che può essere compresa come la creazione di una “figura-limite”. E questa “figura-limite”, che viene prodotta nell’esperimento, è sufficiente come caso unico per un ordinamento univoco e necessario dei fenomeni. Il generale, a cui mira la costruzione della teoria nelle scienze naturali, nel particolare è già data, quando nell’esperimento a questo viene data la forma di una figura-limite ideale (es […] zu einem idealen Grenzgebilde gestaltet ist). A questo punto bisogna fare il paragone della concezione della conoscenza di Cassirer con quella di Benjamin […]. Concordemente Cassirer e Benjamin rifiutano la teoria dell’astrazione […]. [Benjamin fa] sviluppare la teoria da quei fenomeni […] “[che possono essere considerati] qualcosa di estremo” [Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 215; trad. it. cit., p. 10]. L’estremo si differenzia da ciò che è normale come qualcosa che sta al limite. Il rapporto dell’estremo benjaminiano con il concetto di Cassirer della figura-limite è dato a partire dall’uso linguistico. […] Nel fenomeno estremo sono così sintetizzati in un caso singolo il particolare e il gene-

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Il compito del poeta e il sistema della verità rale. Il fenomeno estremo ottiene con ciò il valore posizionale teorico-scientifico dell’esperimento». La Wiesenthal mette però in risalto anche le differenze nelle concezioni di Benjamin e Cassirer, poiché mentre per il secondo la teoria è già presupposta nell’esperimento, in Benjamin l’estremo non anticipa la teoria, ma fa scoprire una direzione per la costruzione concettuale quando viene interpretato: «L’esperimento concreto [in Cassirer] è quindi la derivazione da costruzioni logiche. […] L’esperimento stesso è anticipato nella costruzione logica. […] La costruzione concettuale non risulta dall’esperimento […]. In Benjamin […] la consistenza di un fenomeno estremo […] [è quella di essere un presupposto della costruzione concettuale]. Ciò che precede, ciò che è presupposto della rappresentazione concettuale del fenomeno estremo, può essere solo ipotesi […], ma non anticipazione concettuale e sostituzione dell’esperimento empirico. […] La forma logica [degli elementi essenziali in un fenomeno] deve essere esposta solo dopo la “scoperta” e l’interpretazione del fenomeno estremo» (L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit., pp. 15-16). 111 Cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 226; trad. it. cit., p. 20. Cfr. ancora L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, cit., p. 25, che vede nel concetto di fenomeno d’origine in Benjamin un concetto epistemologico da cui l’esperienza deve partire per strutturarsi e per trovare i suoi concetti, ed è per questo vicino, per quanto esplicitamente da Benjamin criticato in quanto categoria logica e non storica, al concetto di origine della Logica della conoscenza pura di Hermann Cohen, dove «Tutte le conoscenze pure devono essere variazioni del principio dell’origine» (H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 36). Sul concetto di origine in Benjamin si tornerà più avanti. 112 Cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 207-237; trad. it. cit., pp. 331. 113 M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, cit., p. 83. Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band III, Die Nachkantischen Systeme (1920), Berlin, Bruno Cassirer, 19232, pp. 372373; trad. it. Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia della scienza, vol. III, trad. di E. Arnaud, Einaudi, Torino, 1963, p. 469. 114 E. Cassirer, Die Begriffsform im mythischen Denken, cit., p. 34; trad. it. cit., pp. 52-53. 115 Ivi, pp. 36-37; trad. cit., p. 56. Cfr. le parole di Goethe: «È dai matematici che dobbiamo imparare l’avvertenza di ordinare in una serie le cose vicine, o meglio, dedurre ciò che è immediatamente successivo da ciò che è immediatamente precedente» [J. W. Goethe, Der Versuch als vermittler von Object und Subject, in Naturwissenschaftliche Schriften, in Werke, cit., vol. XI, p. 33; trad. it. L’esperimento come mediatore tra oggetto e soggetto, in La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, a cura di S. Zecchi, Parma, 1989, p. 131]. 116 E. Cassirer, Die Begriffsform im mythischen Denken, cit., p. 38; trad. it. cit., p. 58. 117 Ivi, p. 40; trad. it. cit., p. 60. 118 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 182, p. 190; trad. it., cit., p. 166. 119 E. Cassirer, Die Begriffsform im mythischen Denken, cit., pp. 40-41; trad. it. cit., p. 61. 120 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 124; trad. it. cit., p. 130.

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7. Dichtermut e Blödigkeit

Benjamin analizza secondo il metodo sopra analizzato, cioè cercando di indicare nelle singole figure l’unità sintetica delle funzioni intuitiva e spirituale propria del puro poetato, la poesia Dichtermut1, e indica in essa una mancanza di connessione interna, una «notevole indeterminazione del momento intuitivo e uno scarso collegamento (Unverbundenheit) dei particolari»: per questo la capacità di strutturazione del mito nella poesia sarebbe «ancora soffocato dal mitologico»2. Per Benjamin il mito è riconoscibile e si distingue dal mitologico «in proporzione alla sua interconnessione (Verbundenheit)», cioè in proporzione alla sua capacità di dare una struttura spirituale all’intuizione. Esso si rivela come «unità interna di Dio e del destino»3, e il destino è la morte del poeta, che deve tenere insieme la sua dimensione umana e quella divina. La poesia canta le fonti del coraggio per questa morte, la «morte è il centro da cui dovrebbe scaturire il mondo del morire poetico», e proprio esistere (Dasein) in questo mondo strutturato e connesso è «il coraggio del poeta»4. In questa poesia il mito è però ancora fondato sulla mitologia: la «legge (Gesetzlichkeit)» che nasce dal mondo del poeta è soltanto lontanamente intuibile, il morire del poeta si esprime nell’analogia con il morire del dio Sole, il destino dell’avo del poeta «dove la morte del poeta si realizza dapprima in forma riflessa»5. Una bellezza, fondata sul sentimento ma senza mediazione costruttiva, una bellezza di cui non si conoscono le fonti strutturanti «dissolve la figura (Gestalt) del poeta – non meno di quella del dio –, anziché formarla»6. Il coraggio del poeta, la capacità di vivere nel mondo della sua morte, si fonda inoltre su un «ordine diverso, estraneo», sulla «parentela (Verwandschaft) dei viventi», per il cui tramite si lega al proprio destino, una parentela che non può essere quel «legame naturale» che ha alla sua base un «ordine spirituale» fondato su quel «diritto più profondo», particolarmente caro a Hölderlin, su quel «superiore diritto»7 della giustizia (come rapporto armonico tra uomo e natura, che si rende visibile solo nella dissoluzione, nel trapassare)8 che, non trovandolo già, il poeta deve portare,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

con il suo sacrificio, nell’ordine dei viventi per farne un ordine spirituale, celebrando «con superiore diritto – l’Odi profanum»9 con la forza del suo canto e della sua «virtù»10. Le fonti significanti, linguistiche, della sua virtù, del suo imperativo categorico11, si trovano nel canto come interiorità del poeta, dotate di forza (Gewalt) e grandezza (Große), cioè di quella forza e grandezza etiche che plasmano un mondo spirituale. Invece il poeta si riferisce agli ordini estranei del popolo e del dio, alla bellezza del destino del dio Sole e alla parentela dei viventi non fondata su un principio spirituale, per edificare in se stesso il coraggio dei poeti: Nella poesia non si può avvertire il diritto più profondo per cui il poeta si appoggia al suo popolo, ai viventi, e si sente affine (verwandt) a loro. […] Tuttavia quel legame naturale che lo unisce a tutto il popolo non può qui per noi essere fondato come condizione della vita poetica. […] Ma il canto, l’interiorità del poeta, la fonte significante della sua virtù, quando è nominato appare debole, senza forza (Gewalt) né grandezza (Große)12.

Questa poesia è per Benjamin «animata da una bellezza prossima a quella greca, ed è dominata dalla mitologia dei greci», ma «il principio specifico del formare (Gestaltung) greco non è dispiegato in tutta la sua purezza», la reverenza per la forma (Gestalt) poetica a cui soddisfecero Pindaro e l’ultimo Hölderlin (l’unione tra forma greca e informità, limitato e illimitato) si trova qui solo in forma debole, non dà un «fondamento cosmico intuitivo (einen anschaulichen Weltgrund) a questo carme»13. Nella figura del dio c’è ancora un dualismo non superato e un’azione della natura idillica, «la bellezza non è ancora diventata interamente forma, figura (Gestalt)» e anche la rappresentazione della morte «non emana da un contesto plastico formale puro (aus reinem gestalteten Zusammenhang)», non turbato dal rapporto con la vita immediata, non è ancora «forma (Gestalt), nel suo nesso (Bindung) più profondo», non è nesso e struttura come sarà nella poesia Blödigkeit, ma è «dissolvimento dell’essere plastico, eroico, nella bellezza indeterminata della natura»14. La morte, il destino del poeta, è la «legge mitica»15 caratterizzata, in Blödigkeit16, dall’unità spazio-temporale (del popolo e degli dei, in cui entrambi vivono come mondo poetico formato) data dallo spirito formativo e strutturante, mentre in Dichtermut «spazio e tempo di questa morte non scaturiscono ancora, nella loro unità, dallo spirito della forma (sind noch nicht im Geiste der Gestalt als Einheit entsprungen)»17, e sull’intera poesia incombe la minaccia dell’indeterminatezza del principio formativo, che si contrappone alla pura forma poe www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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7. Dichtermut e Blödigkeit

tica greca che pure si vuole evocare. Alla base di questa poesia e della sua bellezza sta il «sentimento della vita, di una vita diffusa e indeterminata (un sentimento che ha ancora qualcosa di convenzionale) […] che costituisce l’elemento psicologico (die stimmungvolle Verbindung) che congiunge i singoli membri nella bellezza»18, una «vita come fatto fondamentale e indiscusso – amabile forse, forse sublime – [che] determina ancora questo mondo di Hölderlin (e fa anche ombra sul suo pensiero)»19, come vita immediata e non strutturata la cui prossimità, nel titolo della poesia Dichtermut, oscura la purezza, cioè la mancanza di legami con motivi empirici, della virtù etica del coraggio20. Solo la conclusione, nella frase «e allo spirito non verrà mai meno il suo diritto», si erge a un’altezza spirituale superiore come ammonimento nato dal coraggio, insieme all’immagine «noi […] sorregge con dande d’oro, come bambini», che esprime il legame che congiunge il dio con gli uomini ma non può, nel suo isolamento, «chiarire il fondamento di quelle forze vincolanti»21 e strutturanti. Potrà farlo soltanto quando «la forza della trasformazione» e «l’attuazione della legge poetica» si realizzeranno nella versione Blödigkeit, quando in essa si capirà cosa sia la «connessione più intima di quel mondo poetico che la prima redazione contiene e a cui accenna»22 soltanto, poiché il suo presupposto vincolante sta «in una rappresentazione non intuitiva della vita, in un concetto della vita non mitico, non fatale (schicksalloser), tratto da una sfera intellettualmente (geistlich) irrilevante […] [dove] la figura [è] […] isolata, l’accadere privo di rapporti»23. In Blödigkeit invece «subentra ora l’ordine intuitivo-spirituale, il nuovo cosmo del poeta»24, dove «la struttura formale del centro (die gestaltete Mitte) […] [impone] la forma (Gestaltung) di ciascun verso, necessariamente e secondo un ordine rigoroso»25. Questo mondo del poeta, il suo destino di morte nell’unione di umano e divino, il centro formativo e strutturante da cui tutte le figure sono formate e a cui fanno riferimento, è di difficile accesso, come mondo «unitario e unico» dove l’«impenetrabilità dei rapporti si oppone a ogni forma di comprensione che abbia carattere sensitivo (als fühlenden Erfassen)»26, sia cioè fondato sul sentimento immediato della vita. Il metodo della comprensione di questa poesia, della scoperta e insieme della costruzione del poetato come unità intuitiva e spirituale, in cui la figura fenomenica, come nell’Urphänomen goethiano27, rimanda all’idea che la struttura, «esige che si prendano le mosse da ciò che è interconnesso per comprendere la struttura (Fügung)»28, per risalire dal risultato alle sue condizioni: bisogna quindi confrontare le  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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costruzioni poetiche delle due stesure «a partire dalla connessione formale (Gestaltzusammenhang) […], per tendere così, lentamente, verso il centro dei collegamenti (Verbundenheiten)»29, per capire partendo dalle figure connesse l’origine della loro relazione e il loro principio formativo. Nella seconda redazione «s’impone il legame possente (gewaltig) che congiunge le singole sfere»30 del popolo e degli dei tra loro e con il poeta: gli «dei e i viventi sono legati nel nodo fermissimo del destino del poeta», rappresentato dal “canto” del poeta, che abolisce il rapporto gerarchico proprio della mitologia e conduce « “al raccoglimento” […] gli uomini “al pari dei celesti, e gli stessi celesti”»31. Il canto che conduce le diverse sfere, e le pone allo stesso livello, è il «centro della poesia», è la capacità strutturante, formativa, per cui «gli ordini degli dei e degli uomini sono singolarmente levati l’uno di fronte all’altro, l’uno è bilanciato dall’altro»32. Il canto come centro della poesia, come destino di morte del poeta e coraggio per questa morte è in Benjamin, oltre che l’hölderliniano dissidio e la ricomposizione, nella morte del poeta, tra arte umana e natura divina (tra organico e aorgico, limitato e illimitato)33, a cui si accennerà tra breve (e che è qui piuttosto il più tardo rapporto hölderliniano tra uomo e dio), la necessità di fondare infinitamente la conoscenza legandola poi all’incondizionato, ed è insieme il compito morale di portare ai viventi il diritto superiore che si presenta nel poeta come incondizionato etico. Il canto collega così i diversi ordini dei viventi e degli dei, il primo legato allo spazio della natura e al tempo infinito della conoscenza, a quel sistema di leggi naturali in cui il poeta interviene con la sua spiritualità e la sua attività conoscitiva, l’altro al tempo intensivo delle idee, alle quali il poeta riferisce la conoscenza per avere una totalità virtuale, e che costituiscono il fondamento dell’etica. Il canto mette in evidenza la legge del poetato, rappresenta questa stessa legge, la legge d’identità, della sintesi tra gli ordini funzionali dell’intuizione spazio-temporale e delle categorie34, e l’ordine funzionale delle idee, indicando chiaramente che ogni singolo elemento, ogni figura è già frutto della sintesi tra questi ordini: In tal modo viene in evidenza la legge formale fondamentale (das formale Grundgesetz) del poetato, l’origine di quella legalità (Gesetzlichkeit) il cui adempimento sta alla base dell’ultima redazione. Questa legge d’identità dice che nel carme tutte le unità appaiono già nella forma della compenetrazione reciproca, in un intreccio intensivo (intensive Durchdringung), che non è mai possibile cogliere gli elementi in se stessi, ma sempre soltanto il tessuto dei rapporti (das Gefüge der Beziehungen)35, nel quale l’identità del-

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7. Dichtermut e Blödigkeit l’essere singolo è funzione di una catena infinita di serie (eine unendliche Kette von Reihen)36, dove si dispiega (entfaltet) il poetato. La legge secondo cui tutte le singole entità del poetato si rivelano come unità delle funzioni per principio infinite, è la legge d’identità37.

Per Benjamin in questa poesia «nessun elemento può essere irrelato, nessuno può comunque staccarsi dall’intensità di questo ordine cosmico (Weltordnung)»38 che il sentimento avverte alla base della poesia, nessuna figura è libera dalla legge d’identità, ma tutte «le singole commessure (Fügungen), la forma interna (die innere Form) delle strofe e delle immagini rivelano l’adempimento di questa legge, per produrre infine, al centro di tutte le relazioni poetiche, questo risultato: l’identità delle forme intuitive e spirituali nei loro rapporti reciproci di subordinazione e coordinazione – l’interpenetrazione spaziotemporale di tutte le figure in un unico plesso (Inbegriff) spirituale, il poetato, che è identico con la vita»39 e ne è la sua forma, il compito ideale della sua strutturazione. Questo nesso di ordini si rappresenta nella poesia nell’allineamento, che scardina i vecchi ordini gerarchici della mitologia greca, di viventi e dei insieme con il terzo ordine dei “prìncipi”, un ordine che mette in evidenza la mediazione dei concetti tra la dimensione intuitiva spazio-temporale e quella spirituale, temporalmente intensiva, delle idee. Il nuovo ordine delle figure poetiche degli dei e dei viventi «poggia sul significato che hanno entrambe per il destino del poeta, e per l’ordine sensibile del suo mondo»40, un mondo insieme sensibile e spirituale, il mondo della conoscenza dove le forme dell’intuizione e i concetti dell’intelletto si legano e vengono riferiti dal poeta alle idee per la totalità della conoscenza stessa, e insieme il mondo dei legami sociali dove egli cerca di portare le idee metafisiche (kantiane) di Dio, mondo e anima come fondamento dell’etica, unite nell’idea platonica della bellezza41. L’origine autentica del destino e del mondo del poeta, nella visione di Hölderlin, si rivela più chiaramente e in forma più determinata in questa seconda poesia come «base e fondamento di tutti i rapporti (mentre dapprima visibile è soltanto la diversità delle dimensioni che questo mondo e questo destino assumono, rispettivamente, negli dei e nei viventi); solo alla fine si rivela la vita piena e perfetta di questi mondi di forme (Gestaltenwelten) già così divisi, nel cosmo poetico»42. Proprio il canto e il cosmo del poeta, come «immutabile destino poetico»43, è la legge d’identità44, la sintesi intuitivo-spirituale del poetato, è l’origine e l’espressione in ogni figura, sia essa il popolo, il dio o altro, dell’unità delle dimensioni intuitiva e spirituale, legate rispettivamente alle forme dello spazio (come  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ambito della natura, dello spazio-tempo e delle categorie) e del tempo (come ambito della dimensione spirituale e delle idee), che sono presenti, in modo diverso, sia nelle figure dei viventi che degli dei.

Note 1 Cfr. F. Hölderlin, Dichtermut, in Werke und Briefe, cit., Band 1: Gedichte . Hyperion, pp. 94-95; trad. it. Il coraggio dei poeti, a cura di G. Agamben, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Saggi 1910-1918, cit., p. 134. 2 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, p. 109; trad. it. cit., p. 115. 3 Ibid. 4 Ibid. 5 Ibid. 6 Ibid. 7 Ibid. 8 Cfr. R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, saggio introduttivo a F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano, 1989, pp. 7-71, pp. 46-48: «Empedocle e Iperione […] cercano di scatenare l’entusiasmo rivoluzionario, l’amore appassionato per il bene comune. Non si tratta di un kantiano fiat justitia et pereat mundus, perché la ricerca della giustizia non distrugge il mondo, ma lo rigenera. […] Nessun nuovo ordine è però stabile: anch’esso si dissolverà in una serie infinita di vicissitudini, di rinascite e rivoluzioni. […] Il formarsi del “mondo nuovo” [F. Hölderlin, Das Werden im Vergehen, in Werke und Briefe, cit., Band 2, p. 641; trad. it. [Il divenire nel trapassare], in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., p. 89] presuppone la scomparsa del vecchio e il costituirsi di una diversa azione reciproca fra uomo e natura, ciò che è la “patria”. Ma tale “declino o transizione della patria (in questo senso) si sente nelle parti del mondo sussistente, sicché, proprio nel momento e nel grado in cui ciò che sussiste si dissolve, si sente anche il nuovo, il giovane, il possibile. Giacché come la dissoluzione potrebbe essere sentita senza l’unificazione?” [ibid.]. Il divenire si avverte solo in quanto qualcosa trapassi e qualcosa nasca. Dissoluzione e sorgere sono inscindibili […]. Il mondo leibniziano dei possibili prende vita in Hölderlin dal deperire dell’effettuale, dallo slancio verso le generazioni dei secoli venturi, e l’utopia, se di essa si può parlare, non spunta in “possibili laterali”, in altri mondi lontani o ignoti al mondo sussistente, ma si innalza, quasi per generatio aequivoca, dalla corruzione della realtà effettuale […]. L’essere, il tutto in tutti, si rivela nel divenire e nel trapassare […]. L’intuizione intellettuale non è dunque una beata contemplazione di verità eterne e immobili, ma proprio questo cogliere la totalità, il mondo di tutti i mondi (i leibniziani mondi possibili?), nel sorgere e nel tramontare di un particolare mondo. Nel trapassare di un singolo mondo, nel suo balenare intermittente in una condizione tra “essere e non essere”, si manifesta il tutto. Nella distruzione, creatrice di possibili, del finito appare il volto dell’infinito. Nel trapasso, che è il “momento più bello”, nella catastrofe tragica, si ha la rivelazione dell’unitezza con tutto ciò che vive». Nella morte tragica del poeta si coglie e si realizza, pur provvisoriamente, il diritto più profondo, l’ideale di giustizia (che in Hölderlin si istituisce nell’unitezza con tutto ciò che vive, nel rapporto armonico tra uomo e natura), si rivela il volto dell’infinito. 9 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 109; trad. it. cit., p. 115. 10 Ivi, p. 110; trad. it. cit., p. 116. Cfr. ancora F. Hölderlin, Das Werden im Vergehen,

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7. Dichtermut e Blödigkeit in Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 641-646; trad. it. cit., pp. 89-94 e R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., pp. 48-49, dove si dice che il canto e l’arte permettono la rappresentazione della totalità vivente nella elaborazione concettuale della dissoluzione reale (la morte): «Hölderlin distingue tuttavia due forme di dissoluzione: la dissoluzione reale, la disgregazione di un mondo esistente […] che è “più oggetto di timore” [F. Hölderlin, Das Werden im Vergehen, in Werke un Briefe, cit., Band 2, p. 642; trad. it. cit., p. 90], e la dissoluzione ideale, l’elaborazione artistica e concettuale della disgregazione reale, che è “scevra di timore” [ibid.]. Solo nella dissoluzione ideale, “spiegazione e unificazione della lacuna che esiste tra il nuovo e il trapassato [ivi, p. 643; trad. it. cit., p. 91], ricordo-interiorizazione, Erinnerung, della dissoluzione reale, “scaturisce un sentimento totale della vita” [ibid.]. Essa ha il compito di conciliare con la dissoluzione reale, di comprendere la Auflösung come necessaria, come tributo pagato al nuovo sole che sorge, al possibile che evade dal carcere dell’effettualità. […] in Hölderlin, il linguaggio autenticamente tragico possiede una “perenne creatività”, è nella sua essenza “amore”, unificazione e vivificazione, non “violenza distruttrice” soltanto, come nella dissoluzione reale. Per questo esso giunge a “comprendere e vivificare non ciò che è diventato incomprensibile e funesto, bensì ciò che nella dissoluzione è incomprensibile e funesto, il conflitto della morte stessa, mediante ciò che è armonico, comprensibile, vivo” [ivi, p. 642; trad. it. cit., p. 90]. Il linguaggio tragico è in tal modo “espressione, segno, rappresentazione di una totalità vivente ma particolare” [ivi, p. 641; trad. it. cit., p. 89]». 11 Cfr. la lettera di Benjamin a Ernst Schoen del 28 febbraio 1918, che ricorda un incontro avvenuto tra la fine del 1916 e il 1917, in cui Benjamin aveva esposto a Schoen la sua teoria dell’origine linguistica di tutte le manifestazioni spirituali dell’uomo, dalla conoscenza, al diritto, all’arte, e del fondamento linguistico dello stesso imperativo categorico: «Mi ricordo che sembraste comprendermi straordinariamente bene quando vi […] comunicai la mia riflessione disperata sui fondamenti linguistici dell’imperativo categorico. […] Soprattutto: per me le domande sull’essenza della conoscenza, del diritto, dell’arte, sono inseparabili dalla domanda sull’origine di ogni espressione spirituale umana dall’essenza della lingua.» (Benjamin a E. Schoen, 28-II-1918, in GB I, pp. 436437). Cfr. W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), in GS, II, 1, pp. 140-157; trad. it. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 173-193. Cfr. anche Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 287; trad. it. cit., p. 84: «Il contenuto dell’agire eroico appartiene alla comunità come la lingua. Se la comunità lo rinnega, l’eroe tace. […] Solo alla sua physis, e non alla lingua, egli deve il fatto di poter restare fedele alla sua causa, e perciò deve farlo nella morte. […] Quanto più la parola tragica rimane indietro rispetto alla situazione – che non può più dirsi tragica se la parola la raggiunge – tanto più l’eroe sfugge agli antichi statuti, ai quali egli, quando alla fine lo incalzano, offre in sacrificio l’ombra muta del suo essere, del suo Sé, mentre l’anima si salva nella parola di una comunità lontana». Qui si accenna alla possibilità, anticipata dalla virtù dell’eroe che porta una nuova concezione etica ancora individuale, non accettata dalla comunità linguistica e quindi non ancora articolata dall’eroe silente, di un nuovo statuto e di un nuovo diritto per una comunità futura. 12 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, pp. 109-110; trad. it. cit., pp. 115116 (traduzione modificata). 13 Ivi, p. 110; trad. it. cit., p. 116. 14 Ibid. 15 Ibid.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 16 Cfr. F. Hölderlin, Blödigkeit, in Werke und Briefe, cit., Band 1: Gedichte . Hyperion, pp. 95-96; trad. it. Timidezza, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Saggi 1910-1918, cit., p. 134. 17 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 110; trad. it. cit., p. 116. 18 Ibid. (traduzione modificata). 19 Ivi, p. 111; trad. it. cit., p. 117. 20 «La bellezza che, musicalmente (stimmungsmäßig) congiunge la bella apparenza del canto con la serenità luminosa del dio, il cui destino mitico possiede solo, per il poeta, un significato analogico, questa singolarizzazione del dio, non scaturiscono dal centro di un mondo formato (der Mitte einer gestalteten Welt), che abbia la sua legge mitica nella morte. Ma un mondo poco compatto, poco serrato (schwach gefügte), muore in bellezza con il dio che tramonta. Il rapporto degli dei e degli uomini col mondo poetico, con l’unità spaziotemporale in cui vivono, non è plasmato con piena intensità (intensiv […] durchgestaltet), e neanche con ellenica purezza. […] una peculiare ambiguità contrassegna quella virtù, a cui si dà il nome del suo portatore, suggerendo così un’alterazione della purezza di questa virtù, provocata da un’eccessiva prossimità alla vita» (ivi, pp. 110-111; trad. it. cit., pp. 116-117). 21 Ivi, p. 111; trad. it. cit., p. 117. 22 Ibid. (traduzione modificata). 23 Ibid. 24 Ibid. (traduzione modificata). 25 Ibid. 26 Ivi, p. 111; trad. it. cit., p. 118 (traduzione modificata). 27 Sull’Urphänomen di Goethe come dimensione ideale che si concretizza nei fenomeni, e che la scienza deve individuare, cfr. l’Introduzione di Renato Pettoello a E. Cassirer, Goethe e il mondo storico. Tre saggi, a cura di R. Pettoello, Morcelliana, Brescia, 1995, pp. 24-27: «È possibile dunque per Goethe individuare delle costanti, degli elementi fissi che però hanno un’esistenza puramente ideale, perché reali sono soltanto i singoli casi concreti […]. Una volta individuato l’elemento invariante è poi possibile determinare il suo diverso modo di concretizzarsi, di riferirsi all’ambito empirico. Solo così sarà possibile classificare, ordinare i fenomeni naturali, le specie animali e vegetali non in modo arbitrario e casuale, ma secondo una precisa idea regolativa. E Goethe si sforzerà sempre di colmare la frattura tra idea ed esperienza […] “con la ragione, l’intelletto, la fantasia, la fede, l’illusione e, se null’altro ci soccorre, la follia” [J. W. Goethe, Werke, cit., Band II, 11, p. 56; trad. it. J. W. Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Guanda, Parma, 1983, p. 141]. L’Urphänomen, il fenomeno originario, è appunto una di queste costruzioni ideali; è ciò che appare come costante nella molteplicità e diversità dei fenomeni. Il fenomeno originario, il fenomeno puro, però non è immutabile e atemporale, come le idee platoniche dalle quali pure in parte deriva, o come un’essenza, irraggiungibile dai sensi; esso non è separato dalla molteplicità, ma immerso in essa, vivente in essa […]. Comunque […], l’unico dato effettuale rimane la varietà della natura, nelle sue infinite forme. Solo che di questa varietà è possibile fornire una visione “tipica”, ma non astratta però, se con ciò s’intende qualcosa di completamente separato dalla realtà effettuale. È possibile dunque, come s’è detto, organizzarla secondo una regola, definirla secondo criteri connessi alle leggi della percezione: l’apriori, per così dire, pulsa nell’aposteriori. A questa concezione di fondo Goethe rimarrà sempre sostanzialmente fedele, pur nel mutare delle prospettive. Ciò vale per l’idea di tipo, di archetipo, di simbolo, e prima ancora per l’idea di Urpflanze, la pianta originaria. Così il ricorso al concetto di tipo serve a Goethe per trovare un filo conduttore

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7. Dichtermut e Blödigkeit che gli consenta di mettere ordine nel regno animale […] un “modello”, una “immagine generale”, in cui sono contenute “tutte” le forme animali. […]. Così il simbolo diventa centrale soprattutto nella riflessione del vecchio Goethe. Il simbolo non va in alcun modo confuso con l’allegoria che significa direttamente ed in questo atto si dissolve. Il simbolo rimanda a qualcos’altro solo indirettamente e conserva comunque sempre una sua fisionomia e una posizione precisa nel mondo dell’intuizione sensibile. Il simbolo è e vale solo per se stesso e soltanto in seconda istanza significa qualcosa. […] Il simbolo consente finalmente a Goethe di rendere visibile l’incarnazione, la concretizzazione dell’idea che comunque conserva un carattere attivo e produttivo, mai statico, nella effettiva presenza vivente di una specie particolare. Il simbolo è dunque il tipico in cui il particolare rappresenta l’universale, senza perdere la sua individualità: “chi coglie questo particolare vivente coglie allo stesso tempo l’universale, senza prenderne coscienza, o prendendone coscienza più tardi” (Max.[imen] u.[nd] Reflex.[ionen], n. 279). Universale e particolare sono tutt’uno, intimamente fusi nel simbolo vivente: “l’universale e il particolare coincidono: il particolare è l’universale che si manifesta in condizioni diverse” (Max. u. Reflex., n. 569)». 28 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, GS, II, 1, p. 111; trad. it. cit., p. 118 (traduzione modificata). 29 Ibid. 30 Ivi, pp. 111-112; trad. it. cit., p. 118. 31 Ivi, p. 112; trad. it. cit., p. 118. 32 Ibid. 33 Cfr. R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., pp. 7-71. Per il rapporto di Hölderlin con Kant, che emerge nel primo nel problema della conciliazione tra senso e natura, tra dimensione sensibile e spirituale, e che Benjamin recepisce nella sua interpretazione “neokantiana” del poeta, cfr. ivi, p. 33. «Di conseguenza in questa epoca di contrasti incomponibili, dove il vecchio si scontra col nuovo, la filosofia di Kant, con tutte le scissioni di uomo e natura, senso e intelletto, passione e ragione, “anche se troppo uniteralmente insiste sull’autonomia della natura umana, è la sola possibile come filosofia del proprio tempo” [Hölderlin an der Bruder, 1-I-1799, in F. Hölderlin, Werke und Briefe, cit., Band 2: Empedokles. Aufsätze. Übersetzungen. Briefe, p. 889]. Le Dissonanzen del reale non si possono per decreto trasformare in armonici accordi: un “destino” potente lo impedisce». Bodei rimanda, per il concetto di destino in Hölderlin – che a suo avviso ha, come in Hegel, anche una radice spinoziana – a W. F. Koenitzer, Die Bedeutung des Schicksals bei Hölderlin, Würzburg, 1932, e alla tesi hegeliana del 1801 “Principium scientiae moralis est reverentia fato habenda” (cfr. K. Rosenkranz, Hegels Leben, Berlin, 1844; trad. it. Vita di Hegel, Milano, 19742, p. 176). 34 È importante tenere qui presente il grande cambiamento che si verifica rispetto alla concezione kantiana nell’interpretazione di Hermann Cohen del rapporto tra le forme pure dell’intuizione e i principi puri del pensiero nella Logica della conscenza pura: «“Ponendoci di nuovo sul terreno storico della critica, noi rifiutiamo di far precedere alla logica una teoria della sensibilità” (LrE 13). Non si tratta dunque […] di rinnegare la concezione kantiana della critica come indagine trascendentale sui principi puri della conoscenza, ma anzi di sviluppare coerentemente tale indagine e perciò di rifiutare la concezione kantiana della conoscenza come unificazione di intelletto e sensibilità (cfr. LrE 37 s.). Una volta eliminata l’Estetica trascendentale dalla Critica kantiana, non resta che la logica: la critica è logica. Cohen perciò risolve anche le intuizioni pure kantiane, spazio e tempo, in categorie del pensiero, e precisamente del pensiero matematico, e fonda la conoscenza pura unicamente nell’attività produttiva del pensiero» (A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., pp. 92-93).

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Il compito del poeta e il sistema della verità Cfr. ivi, nota 9, p. 112: «di ambedue Cohen tratta nella seconda classe dei giudizi, i giudizi della matematica: del tempo nel giudizio della molteplicità (cfr. LrE 149 ss.), dello spazio nel giudizio dell’universalità (Allheit; cfr. LrE 188 ss.)». Sul tema del dominio concettuale delle forme dell’intuizione sia in Kant und die moderne Mathematik (in «Kant-Studien», 12, 1907, pp. 1-49: ad esso fanno riferimento i rimandi alla pagina della citazione che non rinviano espressamente ad altri testi), sia nel secondo volume dell’Erkenntnisproblem (1907) di Cassirer e prima ancora in Kant cfr. S. Ferretti, L’ispirazione platonica di Cassirer, interprete della matematica moderna, in «Il Cannocchiale», 16, 1991, pp. 142-147: «[La ‘pura sensibilità’] è un problema per la teoria della conoscenza, ma non è più una fonte del sapere, e l’intuizione spazio-temporale è diventata qualcosa che noi abbiamo imparato a dominare del tutto concettualmente (pp. 31-32). Tutte queste considerazioni spiegano perché Cassirer all’inizio del saggio abbia detto che la matematica moderna è diventata dialettica nel vero senso platonico. Bisognerà verificare piuttosto se anche nella Critica kantiana le intuizioni di spazio e di tempo non siano in linea di principio dominate concettualmente. Se non si afferra infatti il senso intrinsecamente analitico della distinzione tra intuizioni e categorie, si perde il valore unitario del processo conoscitivo, come esso avviene secondo Kant [cfr. ivi, nota 10]. […] [Cassirer fa notare che il fatto che le definizioni della matematica abbiano origine nell’intuizione pura significa che esse] hanno […] la loro origine in un atto di costruzione. Come i concetti, così le intuizioni matematiche in Kant sorgono da una funzione originaria del pensiero, che è “condizione di possibilità di ogni essere dato”. La differenza tra intuizione e concetto è solo differenza fra due tipi di sintesi: un primo piano di oggettivazione dei fenomeni avviene attraverso lo spazio e il tempo, un secondo attraverso le pure categorie (unità e molteplicità, sostanza e causalità). Naturalmente si tratta qui di una separazione soltanto metodologica, che indica come “tutti i concetti, per dare una conoscenza oggettiva, si devono in realtà riferire non tanto immediatamente ai contenuti della percezione, quanto piuttosto ai puri ordinamenti ideali e fondamentali di spazio e di tempo, in cui quei contenuti prima di tutto si inseriscono” (p. 32). […] [Secondo Cassirer] le parti [della Critica] che veramente appartengono alla pienezza innovativa della dottrina, come la deduzione trascendentale delle categorie o lo schematismo, fanno emergere come le funzioni dell’intelletto puro siano presupposti (Vorbedingungen) della “sensibilità” (p. 35). Nel libro ottavo dell’Erkenntnisproblem [cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band II (1907), Bruno Cassirer, Berlin, 19223; trad. it. Storia della filosofia moderna, vol. II, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, Einaudi, Torino, 19644] Cassirer esprime con molta chiarezza ciò che egli vede nel rapporto tra intuizione e concetto. La funzione del concetto sembra essere quello di rendere possibile l’intuizione stessa, conferendole unità: senza l’intuizione nessun dato esisterebbe per essere ordinato, prima di tutto nello spazio e nel tempo, poi nel concetto. Ma la categoria è una componente necessaria dell’intuizione, da essa separata solo per questioni di metodo espositivo, in realtà imprescindibile, perché si esplichi la funzione stessa dell’intuizione […] [cfr. ivi, pp. 694 ss.; trad. it. cit., pp. 752 ss.]. […] “L’unità del genere è preceduta dall’unità di una norma ideale; il raffronto astrattivo presuppone una connessione costruttiva”, spiega Cassirer riguardo alla regola della sintesi appercettiva della coscienza. “L’unità analitica della coscienza presuppone così necessariamente quella sintetica” [ivi, p. 676; trad. it. cit., p. 733], continua citando un famoso passo di Kant concernente l’unità sintetica dell’appercezione, e conclude rilevando l’anteriorità della logica trascendentale delle relazioni rispetto alla logica formale classificatoria. Ma il significato di tale anteriorità del sintetico sull’analitico, e quindi il significato dell’intera costruzione della sfera intellettuale come sede della facoltà di unificare il molteplice attraverso le intuizioni pure di spazio e di tempo, il senso dell’intera costruzione concettuale, che include anche le

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7. Dichtermut e Blödigkeit verità matematiche, riposa sulla direzione necessaria della conoscenza concettuale verso una possibile esperienza». 35 Cfr. a proposito della risoluzione dei concetti di cosa in concetti di relazione, che si verifica nello sviluppo e nella predominanza, nella scienza moderna, del concetto di funzione, E. Cassirer, Substanzbegriff und Funtionsbegriff, cit., pp. 299-300; trad. it. cit., p. 301: «Se si riconosce con Rickert che tutti i concetti della scienza della natura esprimenti cose (Dingbegriffe) hanno in sé la tendenza a trasformarsi in puri concetti esprimenti relazioni (Beziehungsbegriffe), si ammette con ciò implicitamente che il vero valore logico dei concetti non risiede nella forma dell’astratta “universalità”». 36 Anche nel concetto di catena infinita di serie c’è un riferimento a Sostanza e funzione di Cassirer. 37 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 112; trad. it. cit., p. 118 (traduzione modificata). 38 Ibid. (traduzione modificata). 39 Ivi, p. 112; trad. it. cit., pp. 118-119 (traduzione modificata). 40 Ivi, p. 113; trad. it. cit., p. 119. 41 Cfr. F. Hölderlin, Entwurf (Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus), in Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 647-649; trad. it. Appendice (Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco), in F. Hölderlin, Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, SE, Milano, 1987, pp. 165-166: «Soltanto ciò che è oggetto di libertà può chiamarsi idea. Dobbiamo dunque superare lo Stato! Ogni Stato, infatti, necessariamente considera gli uomini liberi come ingranaggi meccanici, ma così non deve essere, e lo Stato deve dunque estinguersi. È chiaro che tutte le idee di pace eterna, ecc., sono soltanto idee subordinate a un’idea superiore. Intendo qui stabilire i princìpi di una storia dell’umanità e mettere a nudo – totalmente – i miserabili prodotti umani che rispondono al nome di Stato, di costituzione, di governo, di legislazione. Come ultime vengono le idee di mondo morale, di divinità, di immortalità – il rovesciamento di ogni falsa fede, la condanna del pretismo che di recente ha cominciato a fingere di aveve ragione utilizzando la stessa ragione. Assoluta libertà di tutti gli spiriti depositari del mondo ideale, che non devono cercare al di fuori di se stessi nessun Dio e nessuna immortalità. E infine l’idea che tutte le unifica, l’idea di bellezza, intesa nel superiore senso platonico. Ho la certezza che il supremo atto della ragione, quello con cui si comprende la totalità delle idee, è un atto estetico, e che verità e bontà sono intimamente fuse soltanto nella bellezza. Il filosofo deve dunque possedere un’attitudine estetica pari a quella del poeta. […] Non si può assolutamente essere ricchi di spirito, non si può meditare con pienezza di spirito sulla storia – se non si è dotati di senso estetico. Si conferisce così alla poesia una dignità superiore, e ridiventa alla fine ciò che era all’inizio – educatrice dell’umanità; infatti la filosofia e la storia scompariranno, e solo l’arte poetica sopravviverà a ogni scienza e a ogni altra arte. […] Non solo alla massa è necessaria [una religione sensibile], ma anche al filosofo. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: è questo ciò di cui abbiamo bisogno!» (ivi, pp. 647-648; trad. it. cit., pp. 165-166). 42 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 113; trad. it. cit., p. 119. 43 Ibid. 44«Ma la legge che pareva costituire la condizione formale e generale per la costruzione di questo mondo poetico incomincia ora a dispiegarsi, estranea e possente. – Tutte le figure acquistano identità nel contesto del destino poetico, dove sono sollevate tutte insieme, in un’unica intuizione; e per quanto sovrane e indipendenti posano apparire, alla fine ricadono sotto la legge del canto. Sono soprattutto i cambiamenti avvenuti rispetto alla prima versione, a mostrare perentoriamente come le forme siano potenzia-

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Il compito del poeta e il sistema della verità te e vieppiù determinate. Ovunque si affermerà la concentrazione della forza poetica; [da] […] un confronto rigoroso tra le due versioni […] [si] comprenderà […] il significato fondamentale dell’intenzione (Absicht) interna, anche quando, nella prima redazione, viene seguita solo in debole misura. Noi consideriamo la concatenazione delle forme (Gestaltenzusammenhang) per ritrovare la vita nel canto, nell’immutabile destino poetico, che è la legge del mondo hölderliniano» (ivi, p. 113; trad. it. cit., p. 119).

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita

Il viventi e gli dei formano nella poesia ordini e dimensioni che si muovono secondo ritmi opposti il cui movimento di ascesa e ritorno culmina nella strofa centrale, e si succedono secondo un ordine preciso. I viventi rappresentano la dimensione spaziale, «sono, chiaramente, l’estensione (Erstreckung) dello spazio, il piano dispiegato, dove (come dovremo ancora vedere) si estende il destino»1, dove il destino del poeta di dispiega come intervento conoscitivo (caratterizzato dalla forma del tempo) ed etico nello spazio della natura e della comunità dei viventi. Gli dei rappresentano invece la dimensione temporale intensiva (e, come si vedrà, messianica) delle idee. Le condizioni simbolizzate dai viventi, lo spazio e il tempo come forme dell’intuizione pura e i concetti dell’intelletto determinano il poeta, sono il suo destino come condizioni gnoseologiche necessarie, ma egli interviene liberamente su di esse con la dimensione temporale dell’intelletto utilizzandole. In un verso che ricorda più l’Oriente che la forma greca, nei termini di Hölderlin l’aorgico come elemento illimitato, la natura – che nell’interpretazione che Benjamin dà di Hölderlin ha capacità strutturante –, più che l’organico che caratterizza la forma greca della “sobrietà giunonica”2, la parentela dei viventi come condizione naturale, che non poteva essere, nella prima stesura, origine di un intervento spirituale, si trasforma nella seconda stesura in un atto conoscitivo: «“Non ti sono noti molti viventi?” […] La parentela del poeta con tutti i viventi era invocata come origine del coraggio. Ora non è rimasto altro che un essere-noti, una conoscenza dei molti»3, un atto di conoscenza da parte del poeta, una «determinazione della massa ad opera del genio, che la “conosce”»4. Sull’origine di questa determinazione Benjamin si interroga, e trova una risposta nel nesso teorico espresso dalle parole che sembrano provenire dall’Oriente e insieme essere «molto più originarie della Parca greca – parole che conferiscono altezza al poeta», e in cui «il supporto mitologico cede il passo alla connessione interna del  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Il compito del poeta e il sistema della verità

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proprio mito»5, al legame teorico e relazionale delle funzioni conoscitive: Non cammina il tuo piede sul vero, come su tappeti?6

L’atto del camminare, del conoscere, come «atto primo e originario (Setzung)»7, come libero atto la cui ascendenza, a prima vista fichtiana, è da cercare piuttosto nell’interpretazione cassireriana di Kant, che vede alla base del suo discorso teoretico e critico il puro fare della libertà8, questo atto nella sua “sobrietà” mitica prende il posto del rapporto di dipendenza proprio della parentela naturale con i viventi e rispetto alla Parca, che nutre il poeta nel suo “ministero” artistico, rapporti legati alla concezione mitologica9. Dal mitologico si passa alla relazionalità e connessione funzionale del mito come principio spirituale e ideale del mondo hölderliniano, in cui le idee prendono forma estetica10. L’attività del conoscere, che è il prodotto di un passaggio da un rapporto di dipendenza a un fare autonomo, si trasforma di nuovo nel mitico poiché è una attività conforme al destino11, cioè all’essere il poeta votato alla morte nel suo rapporto con l’incondizionato – nel dover unire in sé arte e natura, umano e divino, soggetto e oggetto. Questo destino, come canto, poesia e attività conoscitiva che si svolge nello spazio e nel tempo infiniti della natura, è simbolizzato dai viventi in quanto appunto esseri naturali mortali che esibiscono nel sensibile le condizioni della conoscenza e l’unità impossibile di condizionato e incondizionato. Infatti come «segno e scrittura dell’estensione infinita del […] destino [del poeta] esiste il popolo»12, «il popolo deve compiere (erfüllen) il cosmo di Hölderlin come simbolo del canto»13. Il poeta è condizionato dal suo destino, quello di soccombere nella solo momentanea unità di arte e natura, umano e divino, ma nello stesso tempo usa le determinazioni del destino rappresentate dal popolo, cioè le condizioni conoscitive intuitive e intellettuali, lo spazio e il tempo e i concetti della conoscenza, per conoscere lo spazio della natura e dei viventi, per percorrere l’ordine dei viventi come ordine sistematico della verità spazio-temporale e concettuale che Benjamin chiama «la verità della Lage: della posizione-situazione»14: Ma ora il carattere mitico di questa attività si fonda sul fatto che essa scorre conforme al destino, anzi comprende già in sé la propria esecuzione (Vollzug). Come ogni attività del poeta attinga a ordini determinati dal destino, e sia eternamente serbata (aufgehoben) da questi ordini ed eternamente li serbi, lo testimonia l’esistenza del popolo, la sua prossimità (Nähe) al poeta. La sua conoscenza dei viventi, la loro esistenza poggia sull’ordi-

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita

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ne che deve essere chiamato, nel senso della poesia, la verità della Lage: della posizione-situazione. […] [La] verità della situazione (Lage) […] [è un] concetto ordinatore (Ordnungsbegriff) del mondo hölderliniano15.

Il poeta percorre l’ordine spaziale e seriale (perché gli elementi apparenti dei viventi formano delle serie funzionali) della Lage, della posizione che è sua propria come è propria del popolo nello spazio della natura, della transitorietà16. Questo spazio della Lage è caratterizzato dall’identità, nell’intuizione delle Gestalten spaziali, dell’ordine spaziale e di quello spirituale, ordine questo che si presenta come intervento (caratterizzato dalla forma del tempo) della sintesi conoscitiva nello spazio della natura e come costruzione del sistema della sua conoscenza, poiché «decisivo, per il principio spaziale, è che esso soddisfa, nell’intuizione, all’identità di determinante e determinato»17. Sarebbe molto interessante indagare il nesso tra il termine Lage presente in questo saggio benjaminiano e la trattazione della Geometrie der Lage, della geometria proiettiva e di posizione, condotta da Cassirer in Sostanza e funzione18 a partire dalle prime critiche di Leibniz ai metodi analitici in geometria fino alle opere di J.-V. Poncelet (Traité des propriétés projectives des figures)19 e K.G.C. Staudt (Geometrie der Lage)20. Cassirer mette in risalto in questi ultimi due autori il ritorno alla comprensione intuitiva, che non riconduce però all’antica geometria elementare, ma pone al centro il nesso di correlazioni proiettive, prodotte secondo una regola di variazione, in cui una figura si trova rispetto ad altre figure geometriche affini che derivano da essa con la trasformazione continua di uno o più dei suoi elementi di posizione. Diventano centrali i rapporti spaziali che come condizioni generali del sistema sono invarianti del sistema stesso, si rivela quindi fondamentale l’unità tra la figura spaziale intuitiva e la regola di trasformazione o il principio seriale, per Benjamin l’unità di determinante e determinato21, di universale e particolare22. L’unità e identità di determinante e determinato, di pensiero ed essere23, è propria nel saggio hölderliniano di Benjamin sia del poeta che conosce che del popolo che viene conosciuto, poiché entrambi sono insieme determinanti e determinati, condizione (il popolo come dimensione delle condizioni della conoscenza della natura e suo sistema, il poeta come condizione dell’attività conoscitiva) e condizionato (il poeta ha bisogno delle forme del conoscere e dello spazio della natura – del popolo – che ha a sua volta bisogno dell’attività del poeta). Con le condizioni intuitive e intellettuali del conoscere (spazio-tempo e categorie) è già dato il condizionato stesso, in quanto que www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

ste (come nella Logik di Cohen) producono il loro contenuto e nella loro sintesi la conoscenza stessa24. Nello spazio della natura il poeta interviene con la sua attività conoscitiva determinata dalla forma del senso interno, il tempo, che in Kant è a fondamento dello schema trascendentale come prodotto dall’immaginazione25, che «media la sussunzione dei fenomeni alla categoria»26. L’immaginazione determina il tempo nella sintesi dell’apprensione alla cui base è l’appercezione trascendentale come principio dell’unità sintetica di ogni intuizione possibile27: l’appercezione originaria si riferisce a priori al senso interno e alla sua forma, il tempo28. Nell’attività sintetica del poeta è già compresa l’esecuzione del destino conoscitivo, è già percorso il cammino infinito delle forme della conoscenza come produzione di essa nella direzione di un suo sistema coerente, rappresentato nell’immagine del tappeto come «base per un sistema spirituale», come Lage, «ordine percorribile della verità» che «comprende a sua volta l’attività intensiva del camminare come forma plasticamente temporale interna e immanente»29, ha in sé la libera attività conoscitiva temporale del poeta divenuta contenuto intensivo30 rappresentato plasticamente come “decorazione del pensiero”: L’ordine spaziale e quello spirituale si rivelano congiunti da un’identità del momento determinante con quello determinato che è propria di entrambi. Questa identità non è la stessa, ma è identica, e fa sì che essi si interpenetrino tanto da costituire un’identità. Poiché decisivo, per il principio spaziale, è che esso soddisfa, nell’intuizione, all’identità del determinante con il determinato. La parola Lage è espressione di questa unità; lo spazio deve essere inteso come identità tra la Lage e il Gelegnes. A tutto ciò che determina nello spazio è immanente la sua propria determinatezza. Ogni Lage è determinata nello spazio soltanto, e solo in esso è determinante. Ora, come nell’immagine del tappeto (che costituisce una base per un sistema spirituale) si deve ricordare la sua esemplarità (Musterhaftigkeit), si deve vedere la libertà (Willkür) spirituale della decorazione del pensiero (des Ornaments im Gedanken) – e dunque la decorazione costituisce una vera determinazione della Lage, la rende assoluta –, così l’ordine percorribile della verità comprende a sua volta l’attività intensiva del camminare come forma plasticamente temporale interna e immanente31.

Qui la decorazione (Ornament)32 del pensiero del poeta è vicina alla libera produzione del pensiero, che in Hermann Cohen, nella Logica della conoscenza pura, costruisce un sistema dell’esperienza nel suo percorso di fondazione di essa e dei suoi concetti a partire dal giudizio  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita

dell’origine, che opera con grandezze infinitesimali, attraverso i giudizi matematici di realtà, pluralità e totalità (il giudizio della Mehrheit o pluralità, si fonda sul tempo, mentre quello della Allheit o totalità sullo spazio)33, e della scienza matematica della natura. La decorazione del pensiero del poeta è l’attività metodica di ricerca ipotetica delle conoscenze che «costituisce una vera determinazione della Lage, la rende assoluta»34. Il poeta interviene nello spazio infinito della natura con l’attività sintetica dell’intelletto, con il suo schematismo e la determinazione trascendentale del tempo35: le funzioni dell’intelletto, i concetti, producono la sintesi del molteplice dato nelle forme della sensibilità36, un molteplice legato qui alle grandezze infinitesimali della Logik di Cohen37 più che alla sensibilità di Kant. Questi concetti costruiscono un sistema di leggi fisico-matematiche che nella sua aperta infinità si presenta come «sistema della verità»38, così che il sistema delle conoscenze ha al suo interno questa attività come dimensione interna e immanente (poiché il tempo è per Kant e per Cohen la dimensione del senso interno)39, che appare in Cohen come compito infinito guidato dall’idea di ipotesi. La Lage è il dominio sistematico della fondazione critica della conoscenza, il sistema delle forme spazio-temporali40 e dei concetti dove l’attività conoscitiva pone le relazioni e le identità funzionali di questi ordini che istituiscono la verità: così nella poesia la «dissonanza nell’immagine del vero e del tappeto ha evocato la percorribilità come relazione unificante degli ordini»41 dello spazio-tempo e dei concetti, «come la Gelegenheit significò l’identità spirituale-temporale della Lage (la verità)»42. Nella Lage l’ordine temporale è l’ordine del pensiero e della conoscenza infinita e virtuale nella formazione del sistema, come relazione unificante degli ordini concettuali e dell’ordine intuitivo, come «identità temporale che è insita in ogni relazione spaziale, […] natura assolutamente determinante dell’esistenza (Dasein) spirituale all’interno dell’estensione identica»43. Portatori di questa relazione spazio-temporale intuitiva e spirituale insieme del pensiero e della conoscenza sono i viventi, dati in un’«intuizione […] [che ne fa] la funzione sensibile e spirituale insieme della vita poetica»44, la rappresentazione delle forme della sensibilità e dei concetti del sistema della conoscenza come funzioni di essa45. Questo spazio della Lage, questa «base per un sistema spirituale» che il poeta percorre con la sua attività, è un «territorio (Bezirk) spirituale» percorribile, è lo spazio delle condizioni a priori della conoscenza che «in certo modo mantiene colui che cammina, ad ogni passo del suo libero percorrere (mit jedem  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

Willkürschritte), nell’ambito del vero (Bereich des Wahren)»46, gli impedisce cioè come dimensione trascendentale della conoscenza un’uscita nel trascendente. I viventi rappresentano questi ordini dello spazio, del tempo e dei concetti della conoscenza, nel loro insieme e nesso (Inbegriff), come concetti del sistema virtualmente compiuto della verità, come regole che ordinano i membri di una serie, come elementi del destino poetico, in cui c’è identità di determinante e determinato (popolo/spazio e poeta/tempo, entrambi determinanti e determinati). Questi elementi sono disposti ed esibiti in una forma interna, in una Gestalt particolare, come «esistenza (Dasein) temporale nell’estensione infinita», come conoscenza temporale nello spazio infinito della natura regolata e condizionata da leggi fisico-matematiche organizzate in un sistema, la «verità della Lage, [che] lega i viventi al poeta»47, in quanto «l’ordine percorribile della verità comprende a sua volta l’attività intensiva del camminare come forma plasticamente temporale interna e immanente»48. Nella Lage si può parlare di verità (in Kant la verità è l’accordo del pensiero con l’oggetto49) perché il poeta tende a quella mai raggiunta totalità sistematica della conoscenza – il sistema della verità come sistema aperto e infinito delle conoscenze pure della Logica di Cohen – che deve far riferimento regolativamente a un’incondizionato, e che in Cohen ha come punto di partenza l’idea dell’ipotesi platonica50. Nella poesia di Hölderlin, come si vedrà più avanti, le idee a cui infine si rivolge il poeta per determinare virtualmente la totalità sistematica della conoscenza sono simbolizzate dagli dei, e sono dimensioni caratterizzate da una temporalità intensiva e raccolta, si potrebbe dire monadica e messianica, simile e insieme diversa rispetto alla temporalità della conoscenza che si svolge nell’estensione infinita dello spazio naturale, rappresentata dai viventi: Questi ordini spirituali-sensibili costituiscono, nel loro complesso (Inbegriff) i viventi, nei quali tutti gli elementi del destino poetico sono disposti in una forma interna e particolare. L’esistenza (Dasein) temporale nell’estensione infinita, la verità della Lage, lega i viventi al poeta51.

La temporalità ha però anche qui, come emergerà in seguito, degli elementi di idealità: come Dasein (con il significato di spiritualità, idea, che si chiarirà più avanti) si presenta tra i viventi nella veste dello schematismo ma insieme, essendo la conoscenza non empirica e mirando alla totalità, al sistema della verità, sembra avvicinarsi alla dimensione dell’incondizionato (come Inbegriff, totalità virtuale delle conoscenze,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita

costituita e simbolizzata dai viventi) e del simbolo, del rapporto analogico tra intuizione e idea52. Nella dimensione spaziale e conoscitiva della Lage, l’intreccio dell’ordine determinante con il determinato, che è suo proprio, si esprime ancora, nell’«ordine dell’arte»53, nella duplice caratterizzazione del poeta come geschickt, che significa insieme idoneo e inviato. Infatti egli è insieme idoneo e determinante nella sua attività che interviene temporalmente nello spazio dei viventi, nell’idoneità che è anche un “esser buono”, una determinazione etica, il suo “confine”, la sua condizionelimite (dovuta all’illimitato dell’incondizionato) rispetto all’esistenza umana, ed è come inviato determinato in funzione dei viventi, mentre a loro volta i viventi sono determinati nella loro esistenza concreta in funzione del poeta che è loro inviato54. Il popolo, insieme determinato e determinante rispetto al poeta, esiste come «segno e scrittura dell’estensione infinita del suo destino», come simbolo segnico e fonte linguistica (in quanto comunità linguistica) del canto del poeta, poiché il canto è il suo destino: «Questo stesso destino è il canto, come diventerà chiaro più avanti. E così il popolo deve entrare nel cosmo di Hölderlin come simbolo del canto»55. I viventi rappresentano insieme le condizioni sensibili e spirituali della conoscenza (le forme dell’intuizione e i concetti) e sono la fonte linguistica per questi concetti. Come si vedrà nello scritto di Benjamin del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo56, per lui il linguaggio, concepito in modo teologico, è la fonte di tutte le manifestazioni spirituali dell’uomo (che qui ancora si presentano come connessioni mitiche), dalla conoscenza, all’arte, al diritto. Le figure, nella poesia Blödigkeit, si trasformano rispetto a Dichtermut da «figure mutuate da una “vita” neutrale nei membri di un ordine mitico»57, da espressioni della vita immediata in prodotti dello spirito, in simboli, in cui la vita ha preso forma come produzione oggettivata della funzione mitica della coscienza58, come esibizione fenomenica di questa stessa capacità produttiva59: «In questa legge dell’attività formatrice, e quindi non già nella vicinanza del dato immediato, ma nel progressivo allontanamento da esso risiedono il valore e la natura specifica del linguaggio come dell’attività artistica. Questa distanza dall’esistenza immediata e dall’immediatamente vissuto è la condizione della sua perspicuità e della sua consapevolezza spirituale»60. Il poeta, insieme al popolo «di cui è la voce» diventa con esso parte e simbolo del sistema della conoscenza e del destino della sua esistenza, il canto: egli «viene interamente collocato all’interno del cerchio  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

del canto, e una unità piana del popolo col suo cantore (nel destino poetico) è nuovamente la conclusione»61, il popolo appare come nei mosaici bizantini (o nei tappeti) «come appiattito (in der Fläche gedrängt), intorno alla grande figura piatta (die flache große Gestalt) del suo sacro poeta»62. Questa dimensione piana è una rappresentazione sensibile, nell’ambito percettivo, dell’esperienza spirituale, una rappresentazione simbolica del nesso funzionale tra forme pure dell’intuizione e concetti puri63, che formano il sistema della verità. La «vita» è la dimensione spirituale e funzionale, oggettiva, simbolizzata dal popolo, in cui il poeta «entra» dall’esterno con la sua libertà di porre legalità funzionali: Qui la “vita” sta all’esterno dell’esistenza poetica, nella nuova redazione non è premessa, ma oggetto di un movimento eseguito con libertà possente: il poeta entra nella vita, non continua a camminare in essa64.

Il nuovo rapporto del popolo con il poeta si esprime nel fatto che il primo non si inquadra in quella «rappresentazione della vita della prima versione» trascendente e mitologica, ma il suo ordinarsi in essa «si è trasformato in un legame fatale (Schiksalverbundenheit) dei viventi col poeta», che «scaturisce dal centro della poesia (dal genio, potremmo dire)»65, da quella identità delle funzioni come dimensione della verità che è rappresentata dal canto e dal poeta come genio: “Was geschiehet, es sei alles gelegen dir” […] Gelegen […] attinge nuovamente al centro, significa un rapporto del genio stesso […]. L’estensione spaziale [la Gelegenheit] è nuovamente data […]. Nuovamente si tratta della legge (Gesetzlichkeit) del mondo buono, dove la Lage è insieme ciò che è gelegen – ossia: opportuno e insieme situato – mediante il poeta, che deve poter percorrere il vero (wie ihm das Wahre beschreitbar sein muß)66.

Benjamin indica l’unità di determinante e determinato, caratteristica della dimensione spaziale del vivente, identità «data come legge non in senso sostanziale, ma funzionale», nel verso «“Sei zur Freude gereimt”», dove è posto «alla base l’ordine sensibile del suono» nell’essere «la rima […] una relazione della gioia (non verso di essa)»67, una dissonanza sonora parallela alla dissonanza figurale del tappeto come immagine del vero, che evocava la «percorribilità come relazione unificante degli ordini» e, quindi, esprimeva la Gelegenheit del genio (non verso il genio). Questa aveva significato «l’identità spirituale-temporale della Lage (la verità)»68, l’identità tra l’attività temporale conoscitiva  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita

(il legame sistematico delle condizioni come relazione unificante degli ordini) e lo spazio e le condizioni della conoscenza nel sistema già realizzato di essa, identità che come relazione spaziale è simbolizzata dai viventi, funzione sensibile e spirituale della vita poetica e simbolo del destino poetico: Queste dissonanze mettono in risalto, nella compagine poetica, quell’identità temporale che è insita in ogni relazione spaziale, e quindi la natura assolutamente determinante dell’esistenza (Dasein) spirituale all’interno dell’estensione identica. Portatori di questa relazione sono, nel modo più chiaro, i viventi […] investiti del destino poetico […] [e dati qui] in una intuizione che fa del popolo la funzione sensibile e spirituale insieme della vita poetica69.

Note 1

Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 113; trad. it. cit, p. 120. Sull’elemento orientale, aorgico, infinito, come elemento originario e proprio contrapposto all’elemento organico, in origine estraneo, che caratterizza la “sobrietà giunonica”, entrambi propri della grecità, in Hölderlin, cfr. R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., p. 30: «Due forze opposte governano il tutto della natura: una forza che unisce, determina le figure particolari e le struttura, l’organico; un’altra che divide, che è la potenza infinita e panica della natura, al di fuori di ogni organizzazione datagli dalla coscienza, e dall’attività formatrice umana, dall’“arte”, l’aorgico. L’organico è, in termini categoriali, il particolare, il limitato; l’aorgico è l’universale, l’illimitato; il primo è principio d’ordine, il troppo formato, l’Allzuförmliches, il secondo è privo di ogni forma, è il Proteo della natura che tutte le assume, l’Unförmliches. L’aorgico produce il numinoso, il terrore panico, dinanzi al quale l’organico arretra spaventato; è l’infinito di fronte al quale ci si sente perduti e attratti a un tempo». Cfr. inoltre ivi, p. 51: «L’elemento nazionale, patrio dei greci (Das Vaterländische o Das Nationelle), quanto appartiene alla loro originale natura, è “il fuoco del cielo”, l’elemento panico, aorgico, “orientale” [cfr. Hölderlin a C. U. Böhlendorff, 4-XII-1801, in F. Hölderlin, Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 940-41], e all’indistinto fuoco, che tutto fonde e pone in fluidità, ritorna letteralmente Empedocle da vivo, così come ciascuno vi ritornava da morto nel fuoco della pira. L’elemento patrio, originario degli esperidi, è invece la “sobrietà giunonica”, lo spirito ordinatore, catalogatore, l’“organico” di chi ha alle spalle millenni di cultura [cfr. ibid.]. I greci, a partire da Omero, hanno cercato di raggiungere l’opposto, di impadronirsi dell’elemento “propriamente straniero” [ivi, p. 940], della sobrietà giunonica occidentale, della chiarezza dell’esposizione. Essi hanno organizzato culturalmente l’aorgico, mentre noi cerchiamo di raggiungere l’opposto del nativo, rendendo culturalmente aorgica la sobrietà giunonica originaria, anche se talvolta ci perdiamo nell’“entusiasmo eccentrico”. Questo spiega perché i moderni, che hanno difficoltà a riprendere “il libero uso di ciò che è proprio” [ivi, p. 941], a frenare la loro ricerca troppo indistinta dell’infinito e della natura, possono trarre giovamento da opere piene di culturale sobrietà come sono quelle greche, ad esempio l’Iliade o l’Edipo re (non l’Antigone, 2

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Il compito del poeta e il sistema della verità sotto questo riguardo tragedia quanto mai aorgica, con la rivendicazione, contro gli ordinamenti della Polis, di una legge pratica e non scritta degli dèi e dei morti». Ciò che è proprio nei greci è nei moderni, cui è propria ormai la sobrietà giunonica, l’estraneo da acquisire. 3 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin in GS, II, 1, p. 113; trad. it. cit., p. 120. 4 Ivi, p. 114; trad. it. cit., p. 120. 5 Ibid. 6 Ibid. 7 Ibid. 8 Cfr. E. Cassirer, Freiheit und Form (19613), cit., pp. 156-157 e p. 169; trad. it. cit., pp. 183-184 e pp. 193-194. Cfr. inoltre, G. Gigliotti, Libertà e forma. Ernst Cassirer interprete di Kant, in «Cultura e scuola», 18, 72, 1979, p. 97: «Cassirer deve almeno in parte, anche se in modo autonomo, riavvicinare il suo terminus a quo a quel primato del fare intuito da Fichte», « per Cassirer […] la soggettività kantiana si identifica con l’autentica oggetticità, in quanto sintesi di libertà e forma. […] L’analiticismo di Kant è […] per Cassirer il muovere al reperimento di certe condizioni di possibilità, di certe funzioni, partendo però non da un’unità, che non potrebbe che configurarsi allora come un indistinto, bensì dai multiformi aspetti dell’esperienza oggettica, la cui armonia è ritrovata proprio in quella validità oggettiva fondata da quelle legalità ad essi immanenti. Ecco allora che rispetto all’interpretazione di Cohen dell’etica kantiana non ci pare vi possano essere dubbi che a Cassirer risulti perfettamente naturale rifrangere sull’immagine complessiva che Kant propone della soggettività trascendentale quella libertà-autonomia, cioè quella sintesi perfetta di libertà e legge cui era pervenuto in sede etica. […] Mentre per Cohen la scoperta del Sollen era essenzialmente destinata a risolversi nella scoperta di un apriori categoriale della scienza giuridica, per Cassirer diventa la prova della libertà delle legalità della coscienza culturale. Ciò che preme a Cassirer, affermare che nessun aspetto dell’attività dello spirito ha bisogno di uscire dalla forma, di farsi arazionale, perché consiste sempre in una oggettivazione strutturata, che però non si riduce ad un insieme di leggi, ma appunto di funzioni, si rispecchia evidentemente nel suo accento posto sull’autonomia kantiana, perché essa più che ogni altro concetto del kantismo tutto, dimostra in un prodotto dello spirito umano la compresenza di libertà e forma, di libertà e legge. La ragion pratica di Kant non interessa dunque tanto a Cassirer come facoltà che consente specificamente la realtà dell’etico, quanto come indicazione che l’estrinsecarsi della forma nella realtà è un estrinsecarsi libero» (ivi, pp. 104-105). 9 Cfr. Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 114; trad. it. cit., p. 20: «Il supporto mitologico cede il passo alla connessione interna del suo mito. Poiché qui l’analisi resterebbe in superficie, se si limitasse a riconoscere il passaggio (Umsetzung) dall’intuizione mitologica a quella, sobria ed essenziale, del “camminare”; o a vedere come la dipendenza espressa nella redazione primitiva (“Forse non ti nutre la stessa Parca, nel tuo ministero?”) sia sostituita, nella seconda, da un atto primo e originario (Setzung) (“Non cammina il tuo piede sul vero”?) – Analogalmente, il “parenti” della prima redazione viene potenziato e diventa un “noti”, “conosciuti”: un rapporto di dipendenza si trasforma in una attività». 10 Per la concezione del mito in Hölderlin cfr. il frammento – già citato sopra – Entwurf (Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus), in F. Hölderlin, Werke und Briefe, cit, Band 2, pp. 647-649; trad. it. cit., pp. 165-166. Il frammento fu ritrovato da Rosenzweig nel 1913 e presentato dallo stesso a Heidelberg nel 1916 (di attribuzione incerta, non si è trovata ancora una risposta alla possibile attribuzione a Hegel, Hölderlin o Schelling); esso propone una mitologia della ragione come nuova mitologia che deve porsi al servizio delle idee:

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita «Esporrò ora un’idea che, a quanto mi risulta, non è ancora divenuta cosciente in nessun uomo – è necessario possedere una nuova mitologia, ma essa deve porsi al servizio delle idee, deve divenire una mitologia della ragione. Se non daremo alle idee una forma estetica, cioè mitologica, esse non avranno interesse per il popolo, e viceversa. Se la mitologia non è razionale, il filosofo ne deve provare vergogna. E così alla fine coloro che sono illuminati e coloro che non lo sono, si uniranno; la mitologia deve divenire filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve divenire mitologica, così da rendere sensibili i filosofi. Allora regnerà tra gli uomini un’eterna unità. […] E potremmo sperare allora in un armonico sviluppo di ogni capacità, nel singolo come nella totalità degli individui. Nessuna capacità verrà più repressa; finalmente regnerà una generale libertà e eguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare tra noi questa nuova religione; sarà l’estrema, la più alta opera dell’uomo!» (ivi, pp. 648-649; trad. it. cit., p. 166). Sul mito in Hölderlin e su questo frammento cfr. E. Cassirer, Hölderlin und der deutsche Idealismus, in «Logos», 7, 1917-1918, pp. 262-282; 8, 1919-20, pp. 30-49; poi in E. Cassirer, Idee und Gestalt, cit., pp. 113-155; trad. it. Hölderlin e l’idealismo tedesco, a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma, 2000. Cfr. inoltre P. Szondi, Antike und Moderne in der Ästhetik der Goethezeit, in Poetik und Geschichtsphilosophie I, a cura di S. Metz e H.-H. Hildebrandt, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1974; trad. it. Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, trad. di P. Kobau, introduzione di R. Bodei, Guerini e Associati, Milano, 1995 (cfr. in part. le pp. 193-222), e M. Cometa, Palingenesi e mito in Friedrich Hölderlin e nel preromanticismo, in Il romanzo dell’infinito. Mitologie, metafore e simboli dell’età di Goethe, Aesthetica, Palermo, 1990, pp. 87-132 (cfr. ivi, alle pp. 124125, la bibliografia sulla nozione di mito/mitologie in Hölderlin, che rimanda, per la letteratura sul Systemprogramm, a Ch. Jamme-H. Schneider, Mythologie der Vernunft. Hegels “ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1984, pp. 263-266, e a M. Cometa, Iduna. Mitologie della ragione, Novecento, Palermo 1984 pp. 253-263; essa rimanda da ultimo all’importante storia della ricezione del Systemprogramm di F.-P. Hansen, “Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus” Rezeptionsgeschichte und Interpretation, de Gruyter, Berlin-NewYork, 1989). Cfr. inoltre R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., pp. 7-71. Per la concezione di Hölderlin e il mito in Dilthey e nel seguace della scuola di George N. von Hellingrath, cfr. W. Müller-Seidel, Diltheys Rehabilitierung Hölderlins. Eine wissenschaftsgeschichtliche Betrachtung e P. Hofmann, Hellingraths “dichterische” Rezeption Hölderlins, in G. Kurz, V. Lawitschka, J. Wertheimer (a cura di), Hölderlin und die Moderne. Eine Bestandaufnahme, Attempto Verlag, Tübingen, 1995, pp. 4173 e 74-104. 11 Per il concetto di destino in Hölderlin cfr. J. Ritter e K. Gründer (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, cit., Band VIII, p. 1285, dove questo viene presentato come concetto storico-filosofico e rapporto reciproco, luogo di incontro (nel dissidio e nel tentativo di riunificazione) tra arte e natura, tra umano e divino. Il concetto di destino in Hölderlin è esemplificato dal suo testo teorico Il fondamento dell’Empedocle (Grund zum Empedokles, in F. Hölderlin, Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 570-583; trad. it. in F. Hölderlin, Sul tragico, cit. pp. 76-88) dove si presenta come divisione (e rapporto e scambio reciproco nella tendenza alla riunificazione) tra arte e natura, tra organizzazione, struttura e limite della soggettività umana (l’organico) e illimitato della natura (aorgico): in Empedocle, che vive la scissione del suo tempo e insieme rappresenta il suo superamento nella morte, organico e aorgico invertono la loro forma, l’aorgico come oggettività si soggettivizza, la soggettività dell’organico diventa illimitata. Cfr. R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., pp. 33-37: «Nell’Empedocle e nel Fondamento dell’Empedocle (cfr. più avanti, pp. 76 ss.), Hölderlin rappresenta la genealogia della crisi attuale, un altro periodo governato dalla forza cosmica disgregatrice dell’odio, il momento della

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Il compito del poeta e il sistema della verità transizione dall’equilibrio greco tra natura e attività plasmatrice umana (techne o “arte”) allo squilibrio del conflitto, quando la natura diventa incomprensibile agli uomini, che troppo si sono inoltrati nell’isolamento della cultura, dimenticando il tutto vivente. Per questo, nel primo abbozzo della tragedia, nel cosiddetto Frankfurter Plan, Empedocle, in “odio” alla cultura e nel disprezzo della divisione del lavoro, decide “di unirsi con la morte all’infinita Natura” [cfr. F. Hölderlin, Frankfurter Plan des Empedokles, in Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 567-570]. Il conseguimento dell’“unitezza con tutto ciò che vive” non può avere luogo per lui – come più tardi per Antigone nelle Note all’Antigone – se non attraverso l’opposto della morte, il dissolvimento della natura e della vita nel mondo “selvaggio” dei morti e della natura creatrice. […] con il passaggio dal sentimento alla conoscenza, inizia il contrasto e la lotta. L’eccesso di interiorità raggiunto da Empedocle si capovolge nello sforzo di penetrare l’intimo dell’oggettivo, della natura. E in questo fuoco più alto, nel tentativo di conoscere la vita, gli opposti si scambiano […]. [Nel Fondamento dell’Empedocle] l’uomo si è generalizzato, sente dentro di sé in un microcosmo la vita selvaggia della natura e la natura si è particolarizzata, plasmata, civilizzata, acquista i caratteri dell’organico [cfr. F. Hölderlin, Grund zum Empedokles, in Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 573-574; trad. it. Fondamento dell’”Empedocle”, in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., pp. 79-80] […]. L’aorgico ha scambiato se stesso con l’organico e l’organico ha scambiato se stesso con l’aorgico. Così l’uomo “sente se stesso e la natura come duplici” […] [:] “[Empedocle] doveva cercare di abbracciare la natura sopraffattrice, di intenderla fino in fondo e di diventarne consapevole, come poteva essere consapevole e certo di se stesso e lottare per l’identità con essa; il suo spirito doveva dunque assumere forma aorgica nel senso più alto, strapparsi da se stesso e dal suo punto centrale, penetrare sempre il suo oggetto in modo così eccessivo da perdersi in esso come in un abisso; mentre a sua volta l’intera vita dell’oggetto doveva afferrare l’animo abbandonato e diventato soltanto più infinitamente ricettivo a causa dell’illimitata attività dello spirito, e in esso diventare individualità, conferirgli la propria particolarità e accordarla più generalmente a sé nella misura in cui egli si era dedicato con tutta la sua attività spirituale all’oggetto: e così l’oggetto appariva in lui in forma soggettiva, come egli aveva assunto la forma oggettiva dell’oggetto” [ivi, pp. 579- 580; trad. it. cit., p. 85]. […] [Qui] Hölderlin si impone il compito di esprimere l’ignoto, di dire l’impensabile. Per fare questo, il soggetto si decentra, abbandona la sua “egoità” limitata e sprofonda nell’“abisso” dell’oggetto assumendo forma aorgica». 12 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 116; trad. it. cit., p. 122. Cfr. F. Hölderlin, Die Bedeutung der Tragödien, in Sämtliche Werke, Große Stuttgarter Ausgabe, hrsg. von Fr. Beißner, Stuttgart, 1943 ss., Band IV, p. 274; trad it. [Il significato delle tragedie], in F. Hölderlin, Sul tragico, cit., p. 94, dove la debolezza dell’eroe tragico (simbolizzata in Benjamin dai viventi) si presenta come il “segno” in cui la natura come forza originaria si esprime, annullandolo: «la luce della vita e il fenomeno appartengono propriamente alla debolezza di ogni totalità. Ora, nel tragico il segno è in se stesso insignificante, inefficace, mentre emerge appunto ciò che è originario. L’originario può infatti propriamente apparire solo nella sua debolezza: nella misura in cui il segno in se stesso, in quanto insignificante, viene posto = 0, può allora rappresentarsi anche ciò che è originario; il celato fondamento di ogni natura. Se la natura si rappresenta propriamente nella sua dote più debole, allora il segno è = 0 quando essa si rappresenta nella sua dote più forte». 13 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 116; trad. it. cit., p. 122 (traduzione modificata). 14 Cfr. la nota del curatore italiano di W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. 136: «Il termine Lage significa sia “situazione” in generale che anche, e in secondo luogo, “posizione” nello spazio. Secondo Benjamin, Hölderlin intende

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita esprimere l’identità dei due sensi di questa parola – quello “spaziale” e quello “traslato” – e dei suoi derivati gelegen e Gelegenheit. Gelegen. Come aggettivo significa “opportuno”; come participio passato del verbo intransitivo liegen, significa “situato”. Gelegenheit. Significa “occasione”, “opportunità”; e anche, secondo Benjamin, l’“esser-situato”». Poiché non è a suo avviso possibile una traduzione italiana che corrisponda esattamente a questa costellazione di termini tedeschi, il traduttore riporta sempre queste parole nell’originale tedesco, aggiungendo talvolta le traduzioni italiane. 15 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 114; trad. it. cit., p. 121. 16 Cfr. il frammento di F. Hölderlin Das Werden im Vergehen, in Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 641-646; trad. it. cit., pp. 89-94. 17 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 114; trad. it. cit., p. 121. 18 Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., pp. 100-119; trad. it. cit., pp. 106-126. 19 Cfr. J.-V. Poncelet, Traité des propriétés projectives des figures, Paris, 18652. 20 Cfr. K.G.C. Staudt, Geometrie der Lage, Nürberg, 1847. 21 Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 101; trad. it. cit., p. 108: «infatti il significato di ciò che ora viene inteso per “intuizione” geometrica si è approfondito e trasformato». In Jakob Steiner (cfr. Systematische Entwicklung der Abhängigkeit geometrischer Gestalten voneineander, Berlin, 1832) anche «quando la geometria di posizione (Lage) viene fondata puramente ed esclusivamente sull’intuizione, si intende con ciò non che ci si attenga alla singola figura sensibilmente data, bensì che si compia la libera costruzione di forme secondo un determinato principio unitario. […] tutto l’interesse si concentra sul modo in cui derivano le une dalle altre. Allorché viene considerata una figura singola, questa non sta mai solo per se stessa, ma sta come simbolo del nesso complessivo in cui rientra e come espressione di tutto l’insieme (Inbegriff) di forme (Gestaltungen) a cui è riconducibile, una volta stabilite determinate regole di trasformazione. Qui pertanto l’intuizione non si volge mai alla figura particolare con le sue note accidentali, ma è diretta – nel senso di Jakob Steiner – alla determinazione della dipendenza reciproca delle figure geometriche» (E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, cit., p. 102; trad. it. cit., p. 109). I singoli termini sono in una posizione secondaria rispetto alla relazione sistematica che li unisce: «la singola retta viene definita […] come elemento di un fascio di raggi, e il singolo piano viene definito come elemento di un fascio di piani. […] Il fondamentale punto di vista metodologico, che aveva condotto alla scoperta della geometria analitica […] viene […] mantenuto e condotto a nuova e feconda applicazione nel campo della spazialità stessa. L’argomento numero è messo da parte; tanto più compare nella sua purezza l’argomento serie. […] La teoria delle proprietà proiettive delle figure [di Poncelet] non vuole quindi essere un semplice ampliamento del campo della geometria, ma vuole recarle un nuovo principio di indagine e di scoperta. […] Il vero metodo sintetico […] si dimostra pari in valore ai metodi analitici solo se li eguaglia in ampiezza e universalità e […] raggiunge questa universalità di pensiero in base a presupposti puramente geometrici. Questo duplice compito viene attuato allorché consideriamo la figura concreta da noi studiata non già come lo stesso oggetto concreto dell’indagine, bensì soltanto come un primo punto di partenza, dal quale noi, in virtù di una determinata regola di variazione, deduciamo tutto un sistema di forme possibili. Le relazioni fondamentali, che caratterizzano questo sistema e che debbono essere mantenute inalterate in ogni figura particolare, formano solo nel loro complesso il vero oggetto della geometria. Ciò che lo studioso di geometria considera sono non tanto le proprietà di una figura data, quanto il nesso di correlazioni in cui essa si trova con altre figure affini. Diciamo che una determinata

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Il compito del poeta e il sistema della verità forma spaziale è correlativa di un’altra quando è deducibile da essa mediante la trasformazione continua di uno o più dei suoi elementi di posizione. In tal modo però si ammette il presupposto che certi fondamentali rapporti spaziali, da considerarsi come le condizioni generali del sistema, rimangano invariati. La forza e il rigore della dimostrazione geometrica poggiano dunque sempre su quelle invarianti del sistema considerato e non in ciò che è peculiare dei singoli termini come tali. È questa la concezione che Poncelet caratterizza filosoficamente chiamandola principio di continuità e che poi formula in modo più preciso ed esatto come principio della permanenza delle relazioni matematiche. L’unico postulato da cui partiamo si può esprimere concettualmente dicendo che è possibile mantenere il valore di determinati rapporti, definiti una volta per tutte, anche quando cambia il contenuto dei singoli termini, cioè degli elementi messi in rapporto. Cominciamo pertanto col considerare la figura da noi studiata geometricamente, in una posizione generale (in einer allgemeinen Lage); non la fissiamo fin da principio nelle sue singole parti, ma le consentiamo dei cambiamenti in queste parti entro l’ambito di un determinato campo stabilito dalle condizioni del sistema. Se questi cambiamenti procedono con continuità da un determinato punto di partenza, le proprietà sistematiche da noi scoperte in una figura saranno trasferibili ad ogni “fase” successiva in maniera che alla fine certe determinazioni accertate nei singoli casi potranno essere progressivamente estese alla totalità dei termini che si susseguono» (ivi, pp. 103-106; trad. it. cit., pp. 110-112). Cfr. anche oltre, dove a K.G.C. Staudt si aggiungono i nomi di Cayley, di Reye (Die Geometrie der Lage, Leipzig, 18994) e di F. Klein (tra gli altri testi, cfr. le Vorlesungen über Nicht-Euklidische Geometrie, Göttingen, 18932): «L’inserimento dei concetti spaziali nello schema dei puri concetti seriali è qui definitivamente compiuto. […] il numero viene usato […] non come espressione della misura e del confronto di grandezze, ma come espressione dell’ordine della successione. Si tratta qui non della riunione o della suddivisione di segmenti e di grandezze angolari, bensì soltanto della distinzione e gradazione di termini di una determinata serie, i cui elementi medesimi sono definiti come pure determinazioni di posizione. […] si postulano inizialmente una pluralità di punti e un determinato rapporto di posizione fra loro; in questo primo inizio viene inoltre già scoperto un principio, la cui universale applicazione genera il complesso delle possibili costruzioni spaziali. In virtù di questi rapporti, la geometria proiettiva è stata chiamata giustamente l’universale e fondamentale scienza apriori dello spazio, paragonabile all’aritmetica per rigore e purezza [cfr. B. Russell, The Foundations of Geometry, Cambridge, 1897, p. 118]» (E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, pp. 114-115; trad. it. cit., pp. 121-122). 22 Cfr. ancora ivi, pp. 107-108; trad. it. cit., pp. 113-114, su Poncelet: «Fra l’“universale” e il “particolare” sussiste qui proprio quel rapporto che caratterizza la genuina formazione matematica dei concetti: il caso generale non prescinde semplicemente dalle determinazioni particolari, ma conserva in sé la facoltà di svilupparle completamente e di coglierle nella loro totalità concreta in base a un principio […]. Come Poncelet fa rilevare, la trattazione proiettiva di una figura non prende mai come punto di partenza le semplici proprietà della specie, bensì le proprietà del genere; ma qui il “genere” indica semplicemente un nesso di condizioni in cui ogni singolo rientra, non già un insieme slegato di note che ricorrano costantemente in esso. Il ragionamento procede dalle proprietà della connessione a ciò che è connesso, dai principi della serie ai termini della serie. […] nel procedimento della proiezione [bisogna mettere in evidenza] […] quelle caratteristiche “metriche” e “descrittive” di una figura le quali rimangono invariate nella loro proiezione. Tutte le figure che in questo modo possono nascere le une dalle altre formano un’unità indivisibile; nel senso della pura geometria di posizione, esse sono

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita solo espressioni diverse di un solo e medesimo concetto […] un principio di trasformazione, che è mantenuto come identico». 23 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 93-103, dove si tratta della legge-del-pensiero dell’identità, come identità del pensiero con se stesso che permette e assicura l’identità tra pensiero ed essere, essere che è prodotto dal pensiero stesso nel giudizio dell’origine. L’origine crea il suo contenuto attraverso la leggedel-pensiero della continuità nel giudizio infinito: «L’essere se stesso (Selbigkeit) dell’essere è un riflesso dell’identità del pensiero. Questa soltanto può estendere la sua identità all’essere. […] E così riconosciamo nel significato dell’affermazione (Bejahung), come identità, l’intero nesso interno del problema della conoscenza pura. Concerne […] [il pensiero] assicurare attraverso l’affermazione (Affirmation) il contenuto del giudizio, che viene prodotto attraverso la continuità nel giudizio dell’origine. Questa assicurazione la produce l’identità» (ivi, pp. 94 e 104). 24 Cfr. A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 93: «Anche il concetto kantiano di “sintesi”, secondo Cohen, riflette questa […] concezione [ancora psicologica della conoscenza come rappresentazione]. Definendo la conoscenza come sintesi di pensiero e intuizione e il pensiero come sintesi del molteplice dato nella sensibilità, Kant non ha colto il vero carattere sintetico del pensiero puro. Cohen infatti non rifiuta il carattere sintetico del pensiero, ma lo interpreta, non nel senso kantiano di unificazione del molteplice dato nella sensibilità, bensì in un senso molto vicino alla dialettica platonica, come processo di separazione e di unificazione all’interno dell’unità del pensiero». Cfr. anche G. Edel, Einleitung a H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 28-29, che interpreta le forme dell’intuizione e le forme del pensiero in Cohen, nella seconda (B) e terza edizione (C) di Kants Theorie der Erfahrung, come modi e metodi della conoscenza: «così la differenza tra intuizione e pensiero, fondamentale anche per l’intera critica della ragione, non deve essere interpretata in senso psicologico. Nel quadro della ricostruzione dell’esperienza [secondo il metodo] della critica della conoscenza (im Rahmen der erkenntniskritischen Rekonstruktion der Erfahrung), che deve essere condotta come ricostruzione dell’oggetto della conoscenza, l’attestazione di momenti della coscienza costituisce solo la premessa per l’attestazione di concetti e metodi della conoscenza. Concepita come modo della coscienza, l’intuizione designa il mero esser dato di una pluralità (Mehrheit) di elementi nelle forme dell’esser l’uno accanto all’altro (spazio) e dell’essere l’uno dopo l’altro (tempo). Il pensiero, al contrario, è “libera creazione” (B 240/C 312), è trasformazione e modificazione, con l’aiuto dei concetti, di quei contenuti dati. Tuttavia, in quanto modi e metodi della conoscenza, l’intuizione costituisce il “metodo” della matematica, il pensiero [costituisce] il “metodo” della meccanica (B 584/C 743). Dal concorrere di matematica e meccanica nasce la scienza matematica della natura, le cui condizioni di possibilità trascendental-apriori sono i principi (Grundsätze). Perciò vale, come per lo spazio e il tempo, anche per le categorie, come concetti fondamentali del pensiero, che abbiano apriorità trascendentale nel pieno senso (B 291, 382, 411/C 375, 487f., 523)». 25 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 178-186, pp. 188-193; trad. it. cit., p. 164-169. 26 Ivi, B 178, p. 188; trad. it. cit., p. 164. 27 Cfr. ivi, B 164-165, pp. 156-157; trad. it. cit., p. 154 (§ 26). Cfr. anche ivi, pp. 149151; trad. it. cit., pp. 146-148 (§ 24). Nel § 25 si chiarisce il fatto che il soggetto, come “io penso”, si pensa come intelligenza e spontaneità, ma può conoscersi solo come fenomeno nel tempo (cfr. ivi, B 158-159, pp. 152-153; trad. it., p. 149). Cfr. ibid. la nota 1: «L’“io penso” esprime l’atto di determinare la mia esistenza. L’esistenza con ciò è già data; ma la maniera in cui io debba determinarla, cioè porre in me il molteplice ad essa

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Il compito del poeta e il sistema della verità appartenente, con ciò ancora non è data. Occorre l’auto-intuizione, che ha per base una data forma a apriori, cioè il tempo, che è sensibile e appartiene alla recettività del determinabile». La determinazione dei fenomeni nello spazio e nel tempo in generale avviene in virtù «del principio dell’unità sintetica o r i g i n a r i a dell’appercezione, in quanto forma dell’intelletto in rapporto allo spazio e al tempo, forme originarie della sensibilità» (ivi, B 158, p. 152; trad. it., p. 149). Cfr. anche l’Estetica trascendentale, ivi, B 60-69, pp. 92-93; trad. it. cit., pp. 89-90. 28 Cfr. ivi, B 220-221, p. 217; trad. it. cit., p. 192: «la determinazione dell’esistenza degli oggetti nel tempo può avvenire solo per via del loro collegamento nel tempo in generale, cioè solo per via di concetti che li connettano a priori. […] I tre modi del tempo sono p e r m a n e n z a , s u c c e s s i o n e , s i m u l t a n e i t à . Quindi tre regole proprie di tutti rapporti di tempo tra i fenomeni, secondo le quali l’esistenza di ciascuno di questi può essere determinata in rapporto all’unità di tutto il tempo, precederanno ogni esperienza e la renderanno primieramente possibile. Il principio generale di tutte e tre le analogie [dell’esperienza] riposa sull’unità necessaria dell’appercezione rispetto a ogni possibile coscienza empirica (percezione) i n o g n i t e m p o ; e per conseguenza, poiché questa unità serve a priori di fondamento, sull’unità sintetica di tutti i fenomeni quanto al loro rapporto nel tempo. Infatti, l’appercezione originaria si riferisce al senso interno (all’insieme [Inbegriff] di tutte le rappresentazioni); e si riferisce a priori alla sua forma, cioè al rapporto della coscienza empirica molteplice nel tempo. Ora nell’appercezione originaria tutto questo molteplice deve essere unificato quanto ai suoi rapporti di tempo; giacché questo appunto significa la sua unità trascendentale a priori, cui è sottoposto tutto ciò che deve appartenere alla mia (cioè, all’unica mia) conoscenza, onde può divenire oggetto per me. Questa u n i t à s i n t e t i c a nel rapporto temporale di tutte le percezioni, d e t e r m i n a t a a p r i o r i , è dunque la legge seguente: tutte le determinazioni temporali empiriche debbono sottostare a regole della determinazione generale del tempo; e le analogie dell’esperienza […] debbono essere regole di questo genere». 29 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 115; trad. it. cit., p. 121. 30 Sull’attività intensiva del pensiero che diviene, secondo il principio di continuità proprio del metodo infinitesimale (dove l’infinitesimale, come principio intensivo e puro concetto del pensiero, vale come principio produttivo della realtà estesa), contenuto della conoscenza ed essere, cfr. le considerazioni di Cohen sul principio della grandezza intensiva in Kant riportate da A. Poma in La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., pp. 53-54: «Kant […] libera il concetto della grandezza intensiva da quello di sostanza semplice e lo riconduce alla fondazione originaria del principio di continuità, rendendolo così adatto a costituire uno dei principi fondamentali della possibilità dell’esperienza: il principio dell’anticipazione delle percezioni (ma Cohen preferisce parlare di “principio della grandezza intensiva” o di “principio della realtà”, “o più esattamente della realizzazione mediante la grandezza intensiva” [H. Cohen, Kants Theorie der Erfarung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 543]. […] Kant […] fonda [l’unità relativa che entra nel confronto nella grandezza estensiva], non più in una sostanza metafisica, quale era la monade di Leibniz, ma in un principio, in una legge fondamentale del pensiero, cioè nel concetto di grandezza intensiva che, attraverso lo schema della continuità, costituisce il principio della realtà. La grandezza intensiva non ha solo un significato relativo, come quella estensiva: essa è l’“unità assoluta” (KTE 547) o, meglio ancora, la “grandezza produttiva” (Erzeugungsgrösse) (KTE 547), poiché è “l’origine […] dalla quale ha inizio ogni grandezza estensiva, nella quale essa ha il suo ‘fondamento’ (Fundament)” (KTE 547). […] In relazione a ciò però è anche necessario il riferimento alla sensazione.

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita […] Kant purtroppo non ha posto correttamente il rapporto tra sensazione e realtà. La formulazione del principio delle anticipazioni della percezione, nella prima edizione della Critica della ragion pura: “In tutti i fenomeni la sensazione e il reale, che le corrisponde nell’oggetto (realitas phaenomenon), ha una quantità intensiva, cioè un grado” [I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 208, p. 208; trad. it. cit., p. 183, nota 1] attribuisce grandezza intensiva alla sensazione, ma nota Cohen, “la sensazione non è nient’altro che l’espressione di un rapporto della coscienza con il suo contenuto, così come un’altra di tali espressioni è l’intuizione, un’altra il pensiero. Ma la grandezza, sia intensiva, sia estensiva, in quanto è il contenuto di un principio, può solo essere chiamata a determinare un oggetto. La sensazione in sé non è un oggetto, ma solo un tipo di rapporto della coscienza con il suo contenuto, allo scopo della determinazione di questo contenuto come oggetto” (KTE 553). Anche la nuova formulazione, nella seconda edizione della Critica della ragion pura (“In tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una quantità intensiva, cioè un grado” [I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 208, p. 208; trad. it. cit., p. 183]) resta ambigua, perché sembra che il reale abbia grandezza intensiva solo in quanto oggetto della sensazione. In questo modo la fondazione a priori della realtà dell’oggetto lascia il posto a una fondazione a posteriori nella sensazione. Questo errore […] oscura il carattere trascendentale [del principio e dello schema della grandezza intensiva] (cfr. KTE 554). […] Cohen ristabilisce il corretto rapporto tra realtà e sensazione, sottolineando che il fondamento della realtà dell’oggetto non risiede nella sensazione, ma per la sensazione, nel principio della grandezza intensiva e quindi nel pensiero (cfr. KTE 558)». 31 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, pp. 114-115; trad. it. cit., p. 121. 32 Sul concetto di decorazione/ornamento in estetica cfr. la voce di S. Velotti, Ornamento/decorazione, in G. Carchia e P. D’Angelo (a cura di), Dizionario di estetica, cit., pp. 206-208, in part. le pp. 207-208, che rimandano, insieme ad altri, a A. Riegl, E. Bloch, Th. W. Adorno, H.-G. Gadamer e J. Derida: «A. Riegl […], in Questioni di stile (1893) [A. Riegl, Stilfragen, 1893; trad. it. Questioni di stile, trad. di M. Pacor, Feltrinelli, Milano, 1963; ma cfr. Id., Spätromanische Kunstindustrie (1901), trad. it. Industria artistica tardoromana, trad. di Forlati Tamaro e Ronga Leoni, Sansoni, Firenze, 1953], tenterà una ricognizione dell’ornamento di grande importanza storico-artistica. […] Erede della filosofia classica tedesca, ma anche in stretta connessione con le avanguardie, in particolare l’Espressionismo, E. Bloch sviluppa una teoria dell’ornamento nel suo giovanile Spirito dell’utopia (1918) [E. Bloch, Geist der Utopie. Erste Fassung, cit.] dove si proclama che “l’esigenza […] di questi giorni” è “l’espressione puramente spirituale e musicale che vuole l’ornamento” come “incontro con il Sé”, mentre Th. W. Adorno parlerà della “decorazione assoluta” del barocco che, non essendo “niente altro che decorazione” non “orna più qualcosa” e “in tal modo gioca un tiro alla critica del decorativo” [Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1970; trad. it. Teoria estetica, trad. di E. De Angelis, Einaudi, Torino, 19772, p. 492]. Oggi l’ornamento e la decorazione sono tornati a stimolare riflessioni importanti: H.-G. Gadamer, criticando la “differenziazione estetica”, riconduce l’esemplarità dell’opera d’arte all’architettura, che “non abbraccia solo tutti i modi di organizzazione decorativa dello spazio, fino all’ornamentazione, ma è nella sua essenza stessa decorativa […] essa attrae su di sé l’attenzione dell’osservatore, soddisfa al suo gusto, e d’altra parte lo rimanda anche al di là di se stessa, verso quel più vasto contesto vitale che accompagna [H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1960, pp. 150-152; trad. it. Verità e metodo, trad. e introd. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 194-197]. […] In un notevole saggio del 1978, La verità in pittura [J. Derrida, La vérité en peinture, Flammarion, Paris, 1978;

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Il compito del poeta e il sistema della verità trad. it. La verità in pittura, trad. di G. e D. Pozzi, Newton Compton, Roma, 1981], J. Derrida, a partire da una riflessione su Kant si adopera invece a decostruire l’opposizione tra opera e ornamento». Sulla caratterizzazione dell’ornamento come autonoma “determinazione del senso” e «dono» in riferimento alla kantiana «bellezza libera» in sostituzione dell’ornamento simbolico come supplemento d’anima e dell’ornamento classico come cornice cfr. G. Carchia, L’ornamento come dono, in «Rivista di Estetica», 12, 1982, pp. 53-59, pp. 57-58: «l’improbabilità, la gratuità del “di più” ornamentale è la stessa della linea nomade della vita; essa “è meccanica, ma dotata di un’azione libera e vorticosa; è inorganica, ma ciò malgrado vivente […]” [cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Mille Plateaux, Minuit, Paris, 1980, p. 623]. In questa prospettiva, dove al “di più” dell’ornamento è tolta ogni qualificazione supplementare, ogni vicarietà, l’“obiettivazione d’improbabilità” che lo costituisce diventa lo stesso luogo di determinazione del senso. Come dono, nel suo “di più” assolutamente improbabile, l’ornamento spalanca il campo della significazione: è l’atto stesso del farsi senso del reale. Tutte le analisi kantiane intorno al concetto di “bellezza libera” si muovono precisamente in questo ambito. L’attributo della libertà spetta a questa gratuita donazione del senso, a quell’improbabile a partire dal quale soltanto si apre la costituzione del regno dei significati. Il primato della bellezza libera è l’affermazione di un’irriducibilità, teleologica o d’altro tipo, dell’ornamento. Esattamente all’opposto di ciò che accade nella sua teorizzazione “supplementare” sia simbolica che classica, l’ornamento non è il “di più” rispetto all’opera, bensì il “di più che apre la possibilità stessa che si dia un’opera. […] L’ornamento […] [è esornamentalità] pura e selvaggia, “barbarica” secondo l’accezione di Riegl che per primo ha elaborato una teoria non “reattiva” dell’ornamento, oltre la nostalgia del supplemento d’anima e il lamento della Entseelung praticata dall’astrazione moderna. Ma decadenza e transizione [Vergehen] sono solo la metafora storico spirituale per indicare l’ornamento come linea del passaggio, luogo nomade dell’apertura “improbabile” del senso». Benjamin cita nel Trauerspiel il testo di A. Riegl, Die Enstehung der Barockkunst in Rom, Wien, 1923 (cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 239 e 412). 33 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 121-209, e sulla categoria del tempo nel giudizio della pluralità, che crea nell’anticipazione (dove è in azione la dimensione del futuro) delle serie degli elementi da sommare i sommandi stessi, cioè il contenuto della conoscenza, cfr. le pp. 152-154, in part. p. 154: «La serie produce ciò che segue, come ciò che deve seguire (ein Folgensollendes, Folgenmüssendes). Ciò che segue viene dunque anticipato. Questa anticipazione (Vorwegnahme) è l’azione propria, fondamentale del tempo. L’anticipazione (Antizipation) è la caratteristica del tempo. Il futuro contiene e rivela il carattere del tempo». Sul tema del tempo e dell’anticipazione nella teoria della conoscenza della Logik der reinen Erkenntnis di Cohen cfr. P. Fiorato, Geschichtliche Ewigkeit. Ursprung und Zeitlichkeit in der Philosophie Hermann Cohens, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1993, in part. le pp. 128-159, e sul tempo come fondamento della realtà e dell’essere e prima forma di oggettivazione del contenuto della conoscenza cfr. ivi, pp. 144-145: «È piuttosto il rapporto più stretto che nella modernità viene richiesto tra il tempo e il fondamento d’essere della realtà, ciò che eccita l’attenzione di Cohen. In questo senso Cohen menziona qui anche l’identificazione galileiana della realtà con il differenziale temporale (Zeitdifferenzial) come esempio ulteriore della ‘riabilitazione’ moderna della problematica del tempo. […] Il tempo rappresenta nella LE (senza prendere in considerazione il caso particolare del “numero”) la prima categoria propria, cioè la prima forma dell’oggettivazione del contenuto». Sullo spazio in Cohen come contenuto interno del tempo che si estrinseca necessariamente per costruire la natura, poiché il tempo da solo non dà i fondamenti per una dimensio-

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita ne autonoma dell’essere, cfr. oltre, ivi, p. 146: «L’esteriorizzazione, che ha luogo per il tramite dello spazio, avviene in questo senso senza resto (ciò che è interno viene “gettato tutto insieme al di fuori […], per dare forma (zu gestalten), in questo al di fuori, alla natura” – LE 195 s.), la “secolarizzazione del tempo nello spazio” [cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, in GS, V, 1, p. 590, N 8 a, 4; trad. it. W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I Passages di Parigi (vol. IX delle Opere complete di W. Benjamin, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), a cura di R. Tiedemann, ed. it. a cura di E. Ganni, trad. di R. Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia, F. Porzio, G. Quadrio Curzio, H. Riediger, traduzione riveduta da H. Riediger, Einaudi, Torino 1986, p. 530] è completa: non resta posto per una interiorità spiritualistica. Sulla base di una necessità logica interna il tempo, che propriamente deve preparare soltanto l’“impianto” (Anlage) per il contenuto (LE 193), nel “volgersi al di fuori” di questo (cfr. LE 67), deve cioè trasformarsi nell’asse oggettivo (determinato in senso spaziale) delle coordinate dell’“ordine universale spaziale” (der “räumlichen Weltordnung”). Il tempo da solo non può quindi creare i fondamenti di una dimensione autonoma dell’essere. Come fondamento della realizzazione questo sembra poter “emanare” l’essere al più alto grado, per poi “divorare” questo stesso essere, come Crono (LE 188). L’“ordine universale spaziale” appare in questo senso alla fine la sola dimensione ammissibile dell’essere». Per il confronto di questi temi in Cohen e Benjamin cfr. anche P. Fiorato, Unendliche Aufgabe und System der Wahrheit. Die Auseinandersetzung des jungen Walter Benjamin mit der Philosophie Hermann Cohens, in R. Brandt e F. Orlik (a cura di), Philosophisches Denken-Politisches Wirken. Hermann-Cohen-Kolloquium Marburg 1992, Georg Olms Verlag, HildesheimZürich-New York, 1993, pp. 163-178. 34 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 115; trad. it. cit., p. 121. 35 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 185, p. 193; trad. it. cit., pp. 168-169 (traduzione modificata): «lo schematismo dell’intelletto, mercé la sintesi trascendentale dell’immaginazione, non mira ad altro che all’unità di ogni molteplice della intuizione nel senso interno, e perciò indirettamente alla unità dell’appercezione come funzione corrispondente al senso interno (di una recettività). Dunque gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le sole vere condizioni, che danno ad essi una relazione con oggetti, e quindi un s i g n i f i c a t o ; e le categorie quindi non hanno infine altro uso che quello possibile empirico, servendo soltanto a sottomettere, sul fondamento di una unità necessaria a priori (per via della necessaria unificazione di ogni coscienza in una appercezione originaria), i fenomeni a regole generali della sintesi, e a disporli così alla connessione completa in una esperienza». Cfr. Hermann Cohen sul tempo come «simbolo del trapassare» che diventa «fondamento dell’essere» e della realtà dell’oggetto, e sul tempo nello schematismo kantiano (il riferimento è a I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 185, p. 195; trad. it. cit., p. 169), per lui insieme segno dell’idealismo di Kant come strumento della “realizzazione” delle categorie, ma anche messa in dubbio della purezza della conoscenza come produzione della conoscenza stessa, in H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 150-151: «Il differenziale temporale (Zeitdifferenzial) doveva essere già stato pensato e reso valido da Galilei, come realtà. […] Così […] il simbolo della transitorietà [diventa] […] il fondamento dell’essere; questa segnatura del soggettivo per la garanzia dell’oggetto. […] La purezza deve essere solo di un tipo. Significa la produzione della conoscenza a tutti i suoi livelli per la produzione dell’oggetto. La differenziazione della purezza al contrario le porta […] a essere in pericolo. Come se il pensiero fosse più soggettivo dell’intuizione; e come se l’intuizione non dovesse piuttosto produrre la sua datità, come se il suo contenuto potesse valere altrimenti, come dato,

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Il compito del poeta e il sistema della verità che nel significato che essa gli dà. In realtà lo schematismo è un segno del fatto che Kant non ha riconosciuto sufficiente, nelle categorie in se stesse, la realizzazione (Realisierung). D’altro lato è però un sintomo significativo del suo idealismo che egli ha fatto del tempo uno schema: che ogni realizzazione delle categorie deve aver luogo nel tempo; che così egli ha fatto del tempo il letto per tutto il fluire (Fluß) della realtà. Tuttavia il tempo resta però la forma dell’intuizione che, come schema, fornisce soltanto una nuova prestazione (nur eine neue Leistung vollzieht). Il di più che ad esso, come intuizione, deve competere, rende però dubbia la sua purezza. La datità minaccia la purezza. Il pensiero vale forse meno per l’oggetto? Non deve anche l’oggetto (Gegenstand) del pensiero diventare oggetto dell’esperienza, quindi essere riferito all’esperienza, dunque essere dato? Così l’intuizione rende dubbi se stessa e il pensiero». Cfr. su questi temi e il confronto di Cohen con Kant ancora P. Fiorato, Geschichtliche Ewigkeit. Ursprung und Zeitlichkeit in der Philosophie Hermann Cohens, cit., pp. 144-146: «La concezione della genesi dello sviluppo delle forme di determinazione logiche del contenuto differenzia qui di nuovo l’interpretazione coheniana del criticismo da quella kantiana e permette […] [a Cohen] anche una ripresa di alcuni elementi dell’“intellettualismo” leibniziano, a partire dalla convinzione che le “debolezze e i punti scoperti, che si trovavano nella posizione di Leibniz, […] per noi oggi sono unite abbastanza chiaramente alla sua forza” (LE 12)» (ivi, p. 146). 36 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 169, p. 159; trad. it. cit., p. 157. E cfr. L’analitica dei principi, ivi, B 197, p. 201; trad. it. cit., p. 176. 37 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, cit., Band 6, pp. 125-126, dove egli indica nell’infinitesimale di Leibniz (che soddisfa le pretese della legge-del-pensiero dell’origine) il fondamento del finito, dell’estensione, della realtà: «[Leibniz] viene guidato, nella designazione del differenziale, dal punto di vista della differenza; ma osa determinare la stessa quale infinitamente piccola […]. Egli ha la franchezza […] di sottrarre un concetto, che dovrebbe diventare il concetto fondamentale del numero e della grandezza, non soltanto alla sensazione, ma anche all’intuizione; per non parlare del fatto di lasciare il controllo all’intuizione. Ciò che è finito ( das Endliche) , tutto ciò che è finito, fino a che si trova nell’ambito della matematica, deve ottenere il suo fondamento sufficiente in questo nuovo numero [del differenziale]; e questo fondamento del finito è infinitamente piccolo. È come se un’ironia fosse legata all’infinito (das Unendliche) che finora, come Ens realissimum, è stato reso il fondamento del finito. […] Leibniz designa il nuovo concetto con dx, ma è con l’origine della x che l’analisi fa i conti, e che è la rappresentante del finito. Anche questa definizione si impossessa del giudizio dell’origine, per definire l’infinitamente piccolo. E così anche l’infinitesimale, come la flussione, è il grande esempio per il significato fondamentale del giudizio dell’origine. […] l’infinitesimale precede l’estensione, ed è a suo fondamento: Imo extensione prius, così Leibniz denomina l’infinitamente piccolo. Dunque esso è fondato solo sul puro pensiero, e in forza di questo stesso può costituire il fondamento del finito. L’origine è dunque il fondamento, il giudizio; e non una sensazione (keine Empfindung) e non una intuizione (keine Anschauung)». Cfr. più avanti le pp. 133-134, dove il principio dell’infinitesimale è posto come principio della realtà, e delle leggi di natura: «si tratterebbe solo di un ripresentarsi del pregiudizio empirico […], se noi non riconoscessimo nel principio dell’infinitamente piccolo il principo della realtà. […] Non c’è alcun altro mezzo per […] fondare le leggi della natura, per dare loro fondamento e per rivederle, che quello che viene assicurato e elaborato nell’infinitamente piccolo». 38 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 395: «Il sistema dei concetti è il sistema della conoscenza pura. E così questo diventa il supremo

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita significato del sistema, che qui ora emerge. Gli stessi concetti, i presupposti puri, le conoscenze pure, costituiscono un sistema. Nessun sistema, come nessun concetto, è concluso. Nuovi compiti nascono dalle nuove soluzioni. Ma anche nuovi compiti devono crescere all’interno delle soluzioni precedenti. Questo esige il sistema. […] in questa legge-delpensiero del sistema riconosciamo la legge-del-pensiero della verità in rapporto al significato che riguarda il contenuto dei concetti, che in essa si connettono. Questa è la differenza del sistema della verità rispetto alla verità dell’identità. E tuttavia resta una legge-del-pensiero; poiché il pensiero è il pensiero puro, esso è il pensiero della conoscenza pura, che esige il sistema delle conoscenze pure». Ma sulla totalità (= sistema) dell’esperienza possibile cui corrisponde la verità trascendentale, cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 185-186, p. 193,; trad. it. cit., p. 169, il capitolo Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto: «Ma nella totalità d’ogni esperienza possibile stanno tutte le nostre conoscenze e nel generale riferimento a questa consiste la verità trascendentale, che precede ogni verità empirica e la rende possibile». 39 Cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 398; trad. it. cit., p. 288: «Non meno dello spazio, il tempo è un concetto costitutivo fondamentale della conoscenza pura; ma la differenza salta agli occhi. Lo spazio crea appunto il mondo esterno, l’immagine oggettiva della natura; il tempo, invece crea il mondo interno, l’immagine soggettiva della natura. La soggettività ha qui sicuramente evidenza oggettiva, infatti la natura è movimento, e il movimento dipende dal tempo. Rimane tuttavia la differenza che lo spazio tende alla creazione del mondo esterno, mentre il tempo crea le condizioni interne del pensiero, per fare di questa immagine esterna un oggetto della natura (Objekt der Natur). La formazione dell’interno è sempre sottoposta al tempo». 40 L’intuizione, come “intuire” è per Cohen – che supera la divisione tra forme dell’intuizione e concetti del pensiero, ma li mantiene distinti, in Das Prinzip der InfinitesimalMethode und seine Geschichte (1883) (cfr. H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, in Werke, cit., Band. 5.1, §§ 24-26, pp. 18-20), in quanto diversi modi di procedere nella produzione della conoscenza – un elemento della conoscenza nel senso puro di «mezzo della conoscenza», di «elemento di un metodo», in quanto «riferimento della coscienza come a un dato», fondato sul concetto di infinitesimale e di tempo, di successione. Cfr. su questo A. Deuber–Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., p. 56: «Il pensiero non deve, dice Cohen, riferirsi ad alcuna “cosa” data, che non possa essere pensata come prodotta […] [dal pensiero stesso]. In modo corrispondente egli interpreta diversamente l’intuizione. Essa non deve più essere intesa come una facoltà (Vermögen) propria (eigenes) della conoscenza, ma, come scrive Cohen in Das Prinzip der Infinitesimalmethode und seine Geschichte (1883), come “riferimento della coscienza [a se stessa] come a un dato” [H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, in Werke, cit., Band 5.1, § 25, p. 18]. Egli definisce corrispondentemente la differenza fra intuizione e intelletto come una differenza che non rimanda all’origine dei dati, ma soltanto a un rapportarsi differenziato (ein unterschiedliches Bezogensein). La differenza non deriva più da un differenziarsi delle facoltà stesse. L’intuizione (Anschauung) deve essere pensata, dice Cohen, come intuire, essa è “solamente un mezzo della conoscenza” e con ciò l’“elemento di un metodo” [ivi, § 25, p. 18]». 41 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 117; trad. it. cit., p. 123. 42 Ivi, p. 117; trad. it. cit., pp. 123-124. 43 Ivi, p. 117; trad. it. cit., p. 124. Il termine Dasein (che si chiarirà più avanti) esprime qui il momento spirituale della conoscenza, del concetto, dell’assoluto (e dell’idea, che guida regolativamente l’intelletto nella costruzione di un sistema delle conoscenze)

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Il compito del poeta e il sistema della verità nella sua purezza come momento determinante per la fondazione pura della conoscenza, e non esprime semplicemente l’esistenza umana. 44 Ivi, p. 118; trad. it. cit., p. 124. 45 Si potrebbe anche qui rimandare alla concezione funzionale delle forme della conoscenza di Cassirer. Per la «riduzione» in Cassirer, «delle facoltà kantiane a funzioni dell’oggetticità» cfr. G. Gigliotti, Libertà e forma. Ernst Cassirer interprete di Kant, cit., p. 96, e per la differenza tra la sua interpretazione di Kant e quella di Simmel cfr. più avanti, a p. 104: «Per Simmel l’essenza del kantismo è racchiusa nella formula Grundsetzung (mentre per Goethe vale l’unità) [cfr. G. Simmel, Kant und Goethe. Zur Geschichte der modernen Weltanschauung, cit., p. 33]; l’esigenza kantiana di definire uso, estensione e limiti delle diverse facoltà della ragione appare a Simmel il risultato complessivamente più importante che a Kant prema perseguire, mentre l’armonia sintetica si presenta ai suoi occhi come una sorta di dato di fatto naturale da prendere preliminarmente così com’è [cfr. ivi, p. 55]. Questa stessa capacità analitica della filosofia kantiana ha invece per Cassirer un diverso significato: l’unità e l’armonia non sono un dato, bensì un risultato, un prodotto; la sintesi kantiana è veramente tale perché ottenuta mediante la dimostrazione che le diverse facoltà non sono chiuse in sé, preesistenti ciascuna all’ambito cui è stata indirizzata, e sono invece la condizione tanto dell’unità come della molteplicità dell’essere. Simmel trovava invece “meccanica” l’unità della coscienza rivendicabile da parte di Kant […]. L’analiticismo di Kant è invece per Cassirer il muovere al reperimento di certe condizioni di possibilità, di certe funzioni, partendo però non da un’unità, che non potrebbe che configurarsi allora come un indistinto, bensì dai multiformi aspetti dell’esperienza oggettica, la cui armonia è ritrovata proprio in quella validità oggettiva fondata da quelle legalità ad essi immanenti». 46 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 115; trad. it. cit., p. 121. 47 Ibid. 48 Ivi, pp. 114-115; trad. it. cit., p. 121. 49 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 197, p. 201; trad. it. cit., p. 176: «Poiché dunque l’esperienza, come sintesi empirica, è, nella sua possibilità, l’unico modo di conoscenza che dia realtà a ogni altra sintesi; questa, come conoscenza a priori, possiede anche la verità (l’accordo coll’oggetto), solo in quanto non contiene se non ciò che è necessario all’unità sintetica dell’esperienza in generale». Ma cfr. sopra, ivi, B 186, p. 193; trad. it. cit., p. 169, sulla verità trascendentale come riferimento alla totalità di ogni esperienza possibile, che precede e rende possibile ogni verità empirica: «Ma nella totalità d’ogni esperienza possibile stanno tutte le nostre conoscenze, e nel generale riferimento a questa consiste la verità trascendentale, che precede ogni verità empirica e la rende possibile». 50 L’ipotesi platonica è vista da Cohen anche come centro di tutto il sistema della filosofia. Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 601: «L’unitarietà del sistema esige un centro nel fondamento della logica. Questo centro metodico è costituito dall’idea dell’ipotesi, che abbiamo sviluppato nel giudizio e nella logica dell’origine (zum Urteil und zur Logik des Ursprungs)». Cfr. i passi (già citati sopra) di A. Poma in La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 111: «[Cohen sottolinea] il carattere aperto del sistema, e quindi il significato della verità come compito […]. Con questo significato della verità come sistema, la logica di Cohen conclude la sua analisi della verità critica: essa è dunque davvero una logica della verità, poiché pone all’inizio e al termine della conoscenza i fondamenti e le garanzie della verità di essa […]. Tuttavia già nella Logik der reinen Erkenntnis Cohen è consapevole che il significato pieno della verità non può emergere unicamente dalla logica, ma solo dall’unità complessiva del sistema, e in

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita particolare dal rapporto tra logica ed etica (cfr. LRE 610)». Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 610: «Questa unificazione dei singoli domìni (Gebiete) si compie nel sistema, come nella verità [dell’unione] tra logica e etica». 51 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 115; trad. it. cit., p. 121. 52 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfarung, in Werke, Band 1.1, cit., pp. 496 s. e 505 s., dove Cohen priva l’analogia tra simbolo e schema di qualsiasi valore costruttivo, valore che le riconosce però in H. Cohen, Kants Begündung der Ethik, cit., p. 39 (trad. it. cit., p. 44), dove parla di «uno “schema inevitabile (ein unabwendliches Schema) del nostro pensiero” che inciterebbe a trasporre i “concetti dell’esperienza al concetto e all’unità dell’esperienza stessa”» (P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli e L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura, cit., p. 385, e cfr. p. 381), all’Inbegriff delle conoscenze scientifiche come cosa in sé (cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfarung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 660-662). Sul simbolo in Kant, contrapposto allo schema, cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § 59 (Della bellezza come simbolo della moralità), pp. 211-212; trad. it. cit., pp. 185-186: « L ’ i p o t i p o s i (esibizione, subjecto sub adspectum), in quanto presentazione sensibile, è duplice: o è s c h e m a t i c a , se a un concetto, che l’intelletto concepisce, viene data a priori la corrispondente intuizione, o è s i m b o l i c a , se per un concetto, che solo la ragione può pensare e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, ne viene fornita una rispetto alla quale il procedimento della facoltà di giudizio è solo analogo a quello che essa segue nello schematizzare, vale a dire che con quel concetto si accorda solo la regola di quel procedimento, non l’intuizione stessa, quindi solo secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto. […] Le intuizioni, che vengono fornite a concetti a priori, sono o s c h e m i o s i m b o l i , di cui i primi contengono l’esibizione diretta, i secondi l’esibizione indiretta del concetto. I primi fanno ciò dimostrativamente, i secondi per mezzo di un’analogia (per la quale ci si serve anche di intuizioni empiriche), in cui la facoltà di giudizio esegue un duplice compito: applicare in primo luogo il concetto all’oggetto di un’intuizione sensibile e poi, in secondo luogo, la semplice regola della riflessione su quell’intuizione a tutt’altro oggetto, di cui il primo è solo il simbolo». 53 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 115; trad. it. cit., p. 122. 54 Ivi, pp. 115-116; trad. it. cit., pp. 121-122: «Nello stesso tempo la congiunzione degli elementi del rapporto popolo-poeta si rivela anche nella strofe finale. “Gut auch sind und geschickt einem zu etwas wir”: buoni anche siamo e inviati a qualcuno per qualcosa”. […] Così nel duplice significato della parola geschickt si intrecciano due ordini. Il poeta insieme determina ed è determinato: così appare tra i viventi. Come nel participio geschickt una determinazione temporale conclude l’ordine spaziale dell’accadere, l’idoneità, così questa identità degli ordini è ancora ripetuta nella determinazione finale: “a qualcuno per qualcosa”. […] Come lo Schickliches, ossia l’opportuno, l’idoneo, si rivelerà come l’essenza più intima del cantore, come suo confine (Grenze) rispetto all’esistenza (Dasein), così qui, di fronte ai viventi, esso appare come il Geschicktes, l’idoneo e l’inviato: in una forma (Form) sorge l’identità: determinante e determinato, centro ed estensione. L’attività del poeta si trova a essere determinata in funzione dei viventi, ma i viventi a loro volta si determinano nella loro esistenza concreta – “a qualcuno per qualcosa” – in funzione dell’essenza del poeta». 55 Ivi, p. 116; trad. it. cit., p. 122. 56 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, pp. 140-157; trad. it. cit., pp. 173-193. 57 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, 116; trad. it. cit., p. 122.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 58 Cfr. ibid. Per il ruolo, in Cassirer, del simbolo nella mediazione tra soggetto e oggetto, che si attua nelle forme simboliche del linguaggio, del mito, dell’arte, in cui la soggettività produce un’oggettività in cui è compresa la funzione simbolica e teoretica, cfr. E. Cassirer, Der Gegenstand der Kulturwissenschaft, in Zur Logik der Kulturwissenschaften (1942), Darmstadt, 1961, p. 25; trad. it. L’oggetto della scienza della cultura, in Sulla logica delle scienze della cultura, La Nuova Italia, Firenze, 1979, pp. 27-28: «Una piega del tutto diversa prende però la questione se, invece di considerare la natura delle cose come un dato fisso fin dall’inizio, si vede piuttosto in essa una sorta di punto infinitamente lontano a cui tende ogni conoscere e capire. L’oggetto come “dato” si trasforma in questo caso nell’oggettività come “compito”: e a questo “compito” non è interessata soltanto la conoscenza teoretica ma a suo modo contribuisce ogni energia dello spirito. A questo punto è possibile attribuire il loro valore “oggettivo” anche al linguaggio e all’arte: non perché riproducano una realtà in sé sussistente, ma perché la producono, perché sono modi e direzioni specifiche dell’oggettivazione. […]. Anche qui la bipartizione “simbolo e oggetto” si rivela impossibile, poiché l’analisi più precisa ci insegna che la funzione simbolica è il presupposto di ogni comprensione di “oggetti” o fatti [ibid., nota 14: “Su ciò v. l’Introduzione alla Filosofia delle forme simboliche”]». Cfr. inoltre E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Zweiten Teil: Das mytische Denken, cit., p. 259; trad. it. cit., p. 303: «il linguaggio, il mito e l’arte sono attività che rivelano ciascuna un proprio mondo di produzioni, le quali non possono essere intese altrimenti che come espressioni dell’attività indipendente, della ‘spontaneità dello spirito’. Ma questa attività indipendente non si compie nella forma della libera riflessione e rimane quindi nascosta a se medesima. Lo spirito produce la serie delle forme linguistiche, mitiche e artistiche senza riconoscere in esse se stesso come principio creatore. Così per esso ognuna di queste serie diventa un mondo ‘esterno’ indipendente». Qui si «può quasi dire che la riflessione filosofica serva allo spirito per far suo, criticamente consapevole, quanto già inconsapevolmente prodotto» (G. Gigliotti, Libertà e forma. Ernst Cassirer interprete di Kant, cit., p. 90). Ciò ha però già – se pur inconsapevolmente – una forma teorica, poiché ogni manifestazione della vita ha bisogno della mediazione necessaria della forma per esprimersi: «Il prodotto della mediazione simbolica è connesso intimamente con un tratto fondamentale della filosofia di Cassirer: l’interdipendenza strettissima tra costituzione fondamentale del soggetto e teoria dell’oggettività. Lo ha messo bene in luce Wolandt nel suo saggio Cassirers Symbolbegriff und die Grundlegungsproblematik der Geisteswissenschaften, “Zeitschrift für philos. Forschung”, 1964, XVIII, pp. 614-626, [che fa notare] […] come la nozione di simbolo intervenga nel momento in cui Cassirer ha abbandonato la tradizionale dicotomia soggetto-oggetto e si è portato nel mezzo di una situazione di conoscenza in atto e nell’accezione più lata del termine, per esaminare le cui strutture fondamentali gli occorreva appunto un concetto diverso da quello tradizionale. La mediazione simbolica è un dato di fatto solo in questo senso, in un senso cioè che presuppone già un preciso impianto teorico» (ivi, p. 90, nota 6). Gianna Gigliotti vede giustamente in Cassirer un’influenza della lettura simmeliana di Kant, ma anche una contrapposizione rispetto al conflitto che Simmel individua nel rapporto forma-vita, per Cassirer una mediazione necessaria: «i temi della lettura simmeliana [di Kant], se non le sue soluzioni, continuano ad essere operanti nella riflessione di Cassirer. Così, fermo restando il fatto che la fondazione kantiana è e rimane il solo senso valido della filosofia, il tema delle ‘forme’ e del rapporto fra di esse e la ‘vita’ si viene sostituendo ai Fakta cui restava ancorata la filosofia di Cohen e l’istanza fondativa e deduttiva (in senso specifico) del kantismo può esercitarsi direttamente sulla creatività formatrice dello spirito, essendo ormai assodata l’intrascendibilità della mediazione in senso lato concettuale»

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8. Il poeta e i viventi: lo spazio e il tempo della conoscenza infinita (ivi, p. 89). Il contrasto con Simmel si esplica a suo avviso nel saggio di Cassirer Die «Tragödie der Kultur», in E. Cassirer, Zur Logik der Kulturwissenschaften, cit., pp. 103-127; trad. it., cit., pp. 97-119: «In questo studio […] Cassirer ribadisce che questo tipo di conflittualità [forma-vita] in tanto può essere affermato in quanto si assume che i due termini del conflitto sussistono indipendentemente l’uno dall’altro. La forma non è l’altro polo di una relazione nel quale la vita non può non imbattersi, è la necessaria mediazione per il suo esprimersi. L’oggettivazione della vita nelle opere è quanto lo “spirito” può vantare di superiore alla natura, poiché qui il rapporto del singolo col tutto veramente significa l’identificazione del particolare con l’universale […] [cfr. E. Cassirer, Die «Tragöedie der Kultur», cit., p. 126; trad. it. cit., p. 118]. La cultura dunque realizza pienamente la vita, e non lascia spazi al suo tentare di manifestarsi fuori dal “terreno della concettualità, il quale è tutt’uno col regno della forma” [G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, Torino, 1925, p. 72, nota] […]. Cassirer ha sempre rifiutato il dissidio cultura-vita, proprio perché convinto che solo la distanza dal vissuto immediato consenta il prendere forma della vita stessa» (G. Gigliotti, Libertà e forma. Ernst Cassirer interprete di Kant, cit., pp. 103-104, nota 68). Cfr. ancora ivi, p. 103: «Dicevamo al principio che era forse rimasto in Cassirer qualcosa del Kant simmeliano. Possiamo ora precisare meglio questo qualcosa come un intendere le forme di Kant quali forme non del razionale, ma del reale, del reale simbolico, cosa che a Cassirer può riuscir bene grazie anche al processo già avviato da Cohen di rendere immanenti quelle forme nei fatti della cultura, e che invece non era apparso possibile a Simmel. Né avrebbe potuto esserlo una volta istituito il divario-conflitto tra le forme e la vita». 59 Cfr. E. Cassirer, Formproblem und Kausalproblem, in Zur Logik der Kulturwissenschaften, cit., p. 102; trad. it. Problema della forma e problema della causa, in Sulla logica delle scienze della cultura, cit., pp. 94-95: «Esperienza e pensiero, empiria e filosofia si ritrovano qui nella stessa condizione, in quanto nessuna delle due è in grado di determinare l’“in sé” dell’uomo altrimenti che indicandone le manifestazioni. Possono giungere a conoscere l’“essenza” dell’uomo solo guardando l’uomo dentro la cultura e rispecchiato in essa, ma non possono girare lo specchio per vedere cosa c’è dietro». 60 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Ersten Teil: Die Sprache, cit., p. 138; trad. it. cit., p. 161. 61 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 116; trad. it. cit., p. 122. 62 Ibid. 63 Per il complesso problema del rapporto della percezione con il segno (Zeichen) e il simbolo, come si configura nella concezione della percezione di Benjamin degli anni 1914-1917, cfr. il suo frammento del 1917 Notizen zur Wahrnehmungsfrage (in GS, VI, pp. 32-33, frammento 18), dove si dice che vi sono, nella superficie (Fläche) assoluta (come rappresentazione di un sistema di nessi puri in nessi intuitivi), tre possibili configurazioni: segno, percezione e simbolo. Questi sono e possono essere in rapporto tra loro. Cfr. a proposito il ricordo di G. Scholem (del 1918): «Negli enunciati di Benjamin in materia filosofica era allora evidentissima una tendenza sistematica. […] Talvolta i termini “sistema” e “dottrina” erano per lui addirittura equivalenti. In tale ordine di pensieri rientrava, allora come prima, il suo confronto con il mondo del mito, come pure, in relazione ai suoi studi su Bachofen, le speculazioni sulla cosmogonia e sul mondo preistorico dell’uomo. Io gli esponevo spesso le mie idee sull’ebraismo e sulla lotta di questo contro il mito […]. [Benjamin distingueva] nella storia del mondo due epoche, precedenti a quella della Rivelazione (che io proponevo di chiamare piuttosto l’èra messianica): quella spettrale e quella demonica. Il contenuto peculiare del mito era, secondo lui, l’immane rivoluzione che, contrapponendosi allo spettrale, ne avrebbe concluso

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Il compito del poeta e il sistema della verità l’epoca. Già allora pensava alla percezione come a una lettura delle configurazioni sulla superficie piana, ossia delle modalità secondo cui l’uomo preistorico percepiva il mondo intorno a sé e soprattutto il cielo. Era questo il nucleo delle meditazioni che Benjamin avrebbe sviluppato parecchi anni dopo nel suo scritto Lehre vom Änlichen (Teoria del simile) [in GS, II, 1, pp. 204-210]. Affermava che il sorgere delle costellazioni come configurazioni sulla superficie del cielo era l’inizio della lettura, della scrittura, e coincideva con la formazione dell’èra mitica. Le costellazioni dovevano essere state per il mondo mitico ciò che più tardi fu la rivelazione della Sacra Scrittura» (G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 79-80; trad. it. cit., pp. 101-102). Si può pensare, nel commento alla poesia di Hölderlin, al mondo dei viventi e della vita come sistema di nessi spirituali rappresentato percettivamente come in una scrittura letta. 64 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 116; trad. it. cit., pp. 122-123. 65 Ivi, p. 116; trad. it. cit., p. 123. 66 Ivi, pp. 116-117; trad. it. cit., p. 123. 67 Ivi, p. 117; trad. it. cit., p. 123. 68 Ivi, p. 117; trad. it. cit., p. 124 (traduzione modificata). 69 Ivi, pp. 117-118; trad. it. cit., p. 124.

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9. Il tempo e l’ideale nell’Etica di Cohen: un excursus

Per un confronto con la concezione benjaminiana della spazialità della Lage dei viventi come ambito dello “spazio-tempo” della conoscenza, e della temporalità intensiva e messianica degli dei come simbolo delle idee etiche e dell’incondizionato, che il poeta ha il compito di mettere in relazione, si può ricordare che Hermann Cohen, nell’Etica della volontà pura, basa la determinazione della conoscenza della natura sullo spazio (e sul tempo come creatore delle condizioni interne del pensiero per fare dell’immagine esterna della natura un oggetto della natura, e come condizione del movimento), mentre riferisce il problema della volontà pura, e quindi dell’etica e dell’incondizionato, al tempo, in cui è centrale, anche se non fondamento esclusivo, il futuro messianico dei Profeti1 : Ma quella che domina qui, è anche una concezione estrinseca e inesatta dello spazio. Abbiamo appena ricordato che la categoria dello spazio nasce nell’ambito del giudizio della totalità (Allheit). Originariamente lo spazio non è una parte di spazio, un tratto, quanto piuttosto lo spazio della totalità, lo spazio infinito, come è stato pensato sin dal principio. […] Mentre la determinazione della realtà della natura si basa sullo spazio, il concetto della volontà pura si realizza appieno nel concetto fondamentale del tempo; neppure il problema della realtà della volontà pura si riferisce quindi allo spazio, bensì al tempo. Non meno dello spazio, il tempo è un concetto costitutivo fondamentale della conoscenza pura; ma la differenza salta agli occhi. Lo spazio crea appunto il mondo esterno, l’immagine oggettiva della natura; il tempo, invece crea il mondo interno, l’immagine soggettiva della natura. La soggettività ha qui sicuramente evidenza oggettiva, infatti la natura è movimento, e il movimento dipende dal tempo. Rimane tuttavia la differenza che lo spazio tende alla creazione del mondo esterno, mentre il tempo crea le condizioni interne del pensiero, per fare di questa immagine esterna un oggetto della natura (Objekt der Natur). La formazione dell’interno è sempre sottoposta al tempo. Per questo troviamo in esso l’origine tanto del desiderio che del movimento. E in virtù di questa origine pura abbiamo potuto fare anche del tempo un elemento fondamentale della volontà pura. […] Per la giusta comprensione del tempo, quello che conta è partire dal futuro. Questo viene anticipato, e dal suo

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Il compito del poeta e il sistema della verità

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sfondo si stacca il contenuto apparentemente presente che è il passato. […] Il futuro rappresenta dunque la caratteristica specifica della volontà 2.

Il tempo, come anticipazione del futuro, è per Cohen la categoria fondamentale dell’etica. Lo spazio, «in quanto spazio infinito, è la totalità dello spazio»3, ma per il tempo non è possibile una simile sintesi, esso «non si lascia riassumere in una totalità» e costituisce un processo «infinito soltanto in quanto processo»4 che può essere soggettivamente interrotto, ma oggettivamente non può mai essere concluso: neanche «la volontà deve dunque fissarsi in un essere temporale. Al fermarsi deve sempre fare da contrappeso l’andare oltre. Ogni figurazione (Gebilde) è una prefigurazione (Vorgebilde) del futuro»5 . Così all’infinità dello spazio, che è indicata dalla totalità, Cohen affianca e contrappone un analogon dell’infinità nel tempo, che oppone alla totalità il «concetto dell’eternità»6. Il concetto dell’eternità è il concetto guida della volontà che pone il compito infinito della moralità, in cui l’ideale non è mai raggiunto in un singolo livello, ma è presente in esso come punto infinitamente lontano, come “punto prospettico” (Blickpunkt) che rappresenta l’infinito tendere in avanti della volontà pura, il lavoro infinito dell’etica: L’eternità non significa così null’altro che la prospettiva (Blickpunkt) dell’incessante infinito tendere ad andare avanti da parte della volontà pura. Di per sé, non significa affatto un tempo eterno e un luogo eterno, ma solo il lavoro eterno. […] In [questa eternità a cui è indirizzata la volontà] possiamo […] riconoscere l’assicurazione che cerchiamo per la realtà effettuale dell’etico. La realtà dell’etico la riconosciamo […] nello scopo posto al lavoro etico: essere infinito. […] In ogni singolo livello è compreso il punto infinitamente lontano a cui concettualmente esso è intrinsecamente riferito. L’eternità è per ogni singolo punto, questo punto infinitamente lontano. Occorre che siano presi insieme se si vuole capire che l’eternità è la realtà effettuale dell’etico, e che il punto finito della realizzazione non rappresenta una contraddizione7.

Cohen arriva qui a un’importante conseguenza: l’eternità non sta nel pensiero e non è di sua pertinenza: infatti «per realizzarsi in una totalità, l’infinità del tempo deve tradursi in quella dello spazio»8 e così va perduta l’originalità del tempo. La volontà, che ha la sua origine nella tendenza, quindi nel pensiero puro del tempo, deve diventare una direzione autonoma «per produrre l’eternità», quale obiettivo e contenuto autentico della volontà pura, eternità che «significa il compito eterno, il compito dell’eternità»9: la soluzione, la realtà del compito «sono assicurati dall’eternità. L’eternità è la loro realtà». Sotto la stella  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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9. Il tempo e l’ideale nell’Etica di Cohen: un excursus

guida dell’eternità, la volontà pura, con il suo pensare e tendere, penetra fino in fondo al tempo, si sottrae al «finito della temporalità […] [e in] essa, tutto ciò che è temporale deve […] diventare specchio dell’eternità, tramutarsi in eterno»10. La volontà deve produrre quell’eternità che «il pensiero non è in grado di produrre nonostante la sua infinitezza. Il concetto dell’eternità diventa significativamente impensabile se il pensiero vuole rappresentare l’eternità. […] Il pensiero non può prescindere dallo spazio per il suo concetto di mondo»11. Nel concetto di eternità come realtà prodotta dalla volontà pura si stabilisce l’autonomia metodica dell’etica anche rispetto alla visione religiosa messianica dei Profeti, da Cohen considerata quasi una filosofia della storia che vede nella pace tra i popoli e nella giustizia de “i giorni del Messia” l’inizio di un tempo e un mondo nuovi, di una «nuova umanità in terra»12, che pur avendo un valore etico fondamentale nel riferimento al concetto di futuro, ed essendo l’esempio più istruttivo dell’«indissolubile nesso storico tra etica e religione»13, non è però sufficiente per l’etica. Il suo valore etico consiste nel suo significato politico, che si esprime in un linguaggio poetico con immagini di perfezione che possono portare però alla stasi, nel prospettare un futuro che può diventare presente14, mentre nell’etica il progredire del lavoro etico è eterno. L’eternità non è in rapporto né con lo spazio né con il tempo della conoscenza scientifica, è l’eternità della volontà pura e non ha nulla in comune con il pensiero scientifico. L’eternità, insieme all’“ideale” etico, come immagine e modello di perfezione, forma la realtà dell’etica: L’ideale è innanzitutto la norma, il modello. […] Eccola qui [la realtà]. L’ideale è l’immagine della perfezione. Racchiude tutti i livelli del perfezionamento, è il loro complesso (Inbegriff). E questo complesso soddisfa le pretese più solide in direzione della realtà. È come se la totalità (Allheit), che manca necessariamente al tempo, fosse sostituita, sia con l’eternità, sia con la perfezione racchiusa nel concetto dell’ideale. […] Non esiste una realtà adeguata all’ideale. […] Ogni perfezionamento, sebbene in esso prenda corpo l’ideale, rimane tuttavia imperfetto. […] Il simbolo dell’ideale, che traspare nell’opera, fa dell’opera un gradino dell’essere etico […] un aspetto dell’ideale, il vero significato dell’ideale è nel complesso (Inbegriff) di tutte le opere, in esso risiede la perfezione dell’essere. […] Nell’ideale etico sono contenuti […] la perfezione, il perfezionamento, l’imperfezione del perfezionamento15.

Per Cohen l’ideale, in cui, diversamente dal dover-essere, dalla legge e dal compito, c’è un rapporto di immanenza con l’essere, «indi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

ca la perfezione dell’essere, la rappresenta in sé», in esso l’«eternità è messa in rapporto con la temporalità»: in ogni più piccolo elemento del mondo, in «ogni guscio di noce sta [e si realizza] l’infinito», e contemporaneamente ogni «livello di immanenza mostra nello stesso tempo la distanza»16, l’incompiutezza dell’ideale. L’ideale rappresenta «l’autonomia della volontà pura di fronte al pensare e al conoscere», poiché la purezza si rivela nell’autonomia e soltanto «la volontà produce l’ideale»17. Esso fissa la differenza tra pensiero e volere, per il primo si dà l’essere, per il secondo l’ideale come peculiare tipo di essere, che «in ogni attimo diventa una incompiuta realtà, [che si] rivela […] [quale] nuovo essere nell’autocoscienza»18. Con l’ideale, l’etica partecipa alla metodica dell’idealismo: il «volere è l’essere dell’ideale», la volontà e l’eternità «diventano gli analoga del pensiero e della natura»19, l’essere è l’essere dell’ideale e della volontà quanto l’essere della natura e del pensiero, che non esaurisce il concetto dell’idealismo. La «volontà è un fattore dell’idealismo […], è la volontà dell’ideale»20. La volontà crea un’autentico essere, crea l’umanità come eternità, come ideale dell’autocoscienza etica. Questo senso dell’eternità «non si esaurisce nell’autocoscienza apparente dell’individuo, anche a considerarlo immortale», ma l’«essere dell’ideale dura ben oltre l’individuo» esplicitando la «superiorità della storia, della storia universale, della storia dell’umanità», come storia del genere umano nel suo sempre progrediente lavoro etico, «rispetto alla natura e a tutta la grandezza e la forza del suo essere»21. Non l’immortalità dell’individuo, bensì l’«eternità della coscienza morale, l’eternità dell’umanità che è portatrice di questa autocoscienza, è questa l’ideale; è questa l’essere del volere, questa l’essere sommo dell’idealismo»22. L’intenzione (Gesinnung) etica «è l’intenzione dell’eternità, se significa una vera, indubbia, creativa eticità. È l’intenzione dell’ideale»23. L’intenzione è entusiasmo «per l’ideale, per l’autocoscienza dell’umanità, per il futuro che è l’eternità del mondo morale»: essa non può avere la sua origine solo nel pensiero, ma proviene dalla volontà, in essa la volontà si dimostra una direzione della coscienza, «una potenza autonoma e pura, anzi la direzione dello spirito che produce il supremo contenuto puro dell’essere, l’ideale dell’eternità»24. Nel pensiero l’eternità, come analogon dell’infinità nel tempo, rimane un’astrazione, mentre la «volontà la pone in essere»25, così che si può parlare di un essere anche per il volere, oltre che per il pensiero: non si dice più solo essere del dover-essere e della legge (dove ogni singolo caso rappresenta l’intera legge), ma l’essere dell’ideale come essere della volontà pura26.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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9. Il tempo e l’ideale nell’Etica di Cohen: un excursus

Nel saggio che Benjamin dedica a Hölderlin, il tempo rappresentato dagli dei (che simbolizzano le idee etiche) è un tempo che ha in sé la totalità dell’eternità, che segue il modello etico-messianico come immagine della perfezione, ma insieme ha in sé la condizione della rappresentazione, della Gestalt, quindi la possibilità di diventare oggetto della relazione, rappresentata dal poeta, e farsi nella sua infinità intensiva oggetto plastico e finito, diventando un elemento del destino del poeta, come eternità e incondizionato.

Note 1 Cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, pp. 402-408; trad. it. cit., pp. 290-294. 2 Ivi, pp. 397-399; trad. it. cit., pp. 287-288. 3 Ivi, p. 400; trad. it. cit., p. 288. 4 Ibid. 5 Ivi, p. 400; trad. it. cit., pp. 288-289. 6 Ivi, p. 400; trad. it. cit., p. 289. 7 Ivi, pp. 410-411; trad. it. cit., pp. 295-296. 8 Ivi, p. 411; trad. it. cit., p. 296. 9 Ibid. 10 Ivi, p. 412; trad. it. cit., pp. 296-297. 11 Ivi, p. 412; trad. it. cit., p. 297. 12 Ivi, p. 406; trad. it. cit., p. 293. 13 Ivi, p. 407; trad. it. cit., p. 293. 14 «È questo il limite poetico dell’idea dei Profeti, la differenza dal concetto etico. Il futuro non può ridursi a un’immagine di pace. L’umanità deve essere orientata verso il futuro, ma il futuro non può mai diventare presente, anche se un presente del tutto diverso dal presente di qualsiasi passato storico. La pace del messianico regno di Dio […] può affermare con entusiasmo, e dipingere con immagini luminose, un’eticità migliore, più pura, più alta. Ma non possono esserci dubbi sul fatto che tutta l’esistenza storica, anche quella futura, quindi, debba assolutamente continuare a progredire e a svilupparsi, e non possa essere equiparata all’idea della pace perpetua, se deve significare qualcosa di più del riscatto dalla guerra dei popoli» (ivi, p. 408; trad. it. cit., p. 294). 15 Ivi, pp. 423-424; trad. it. cit., pp. 304-305. 16 Ivi, p. 424; trad. it. cit., p. 305. 17 Ivi, p. 425; trad. it. cit., p. 305. 18 Ibid. 19 Ivi, p. 425; trad. it. cit., p. 306. 20 Ibid. 21 Ivi, p. 426; trad. it. cit., p. 306. 22 Ivi, p. 427; trad. it. cit., p. 306. 23 Ivi, p. 427; trad. it. cit., p. 307. 24 Ibid. 25 Ibid. 26 Cfr. ibid.

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10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica

Il destino del poeta è quello di percorrere il vero e insieme di superare, con la morte e il coraggio per questa morte, il mondo mitico del diritto (che qui non ha ancora, come avrà pochi anni dopo, proprio in quanto legato al mito e al concetto di destino, valenza negativa), e di porsi come guida spirituale etica per il popolo. Il poeta forma con i viventi una comunità che è unita dal destino, in un «legame fatale (Schicksalverbundenheit) dei viventi con il poeta»1, che si potrebbe dire fondato sul diritto naturale nel senso del concetto successivo di Benjamin di un diritto legato alla natura condizionata dell’uomo2, su cui il poeta interviene nel prospettare una dimensione etica3. L’estensione spaziale infinita dell’esistenza dei viventi, dove «si estende il destino»4, è infatti il luogo della «legge (Gesetzlichkeit) del mondo buono», dove la Lage è contemporaneamente das Gelegene – ciò che è opportuno e insieme situato – mediante il poeta (nello stesso modo in cui per lui deve essere percorribile il vero), è il luogo del diritto e della legge morale come incondizionato che il poeta (che è in rapporto con le idee metafisiche) porta come «buona sorte»5. Ai viventi, alla comunità, viene presentato dal poeta l’incondizionato, la legge morale, prefigurata nel suo destino, «come buona sorte», dove i viventi sono l’oggetto «di questa relazione identica tra il poeta e il destino»6, e si configurano come rappresentazione (simbolo linguistico) dell’estensione del destino, della vita naturale e spirituale come esperienza temporale infinita e caduca che va conosciuta come struttura spirituale unitaria, e come rappresentazione dell’ambito del diritto, dominio mitico che va però sostituito da una dimensione etica, dalla legge morale. In un saggio di pochi anni successivo, Destino e carattere (1919)7, Benjamin connette esplicitamente il destino con l’ambito mitico del diritto in un senso però – contrariamente alla concezione relativamente positiva del mito del 1914-15 – totalmente negativo: egli pone il destino sulla «bilancia del diritto»8, dove le «leggi del destino, infeli www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

cità e colpa, sono poste dal diritto a criteri della persona»9, sono il «nesso colpevole del vivente (des Lebendigen)»10, che corrisponde alla «costituzione naturale del vivente»11, sono l’ordine mitico in cui si costituisce la legalità dei viventi che compongono una comunità determinata dalle condizioni e dai bisogni naturali, dal condizionato12, legalità che l’eroe della tragedia supera come uomo morale che conosce l’incondizionato. L’ordine del diritto è considerato da Benjamin qui, nel 1919, un residuo mitico dello “stato demonico” della cultura umana, superato e infranto per la prima volta dall’eroe nella tragedia e definitivamente vinto dalla concezione filosofica e metafisica della giustizia13: Per un errore, in quanto è stato confuso con il regno della giustizia, l’ordine del diritto, che è solo un residuo dello stato demonico di esistenza degli uomini, in cui statuti giuridici non regolarono solo le loro relazioni, ma anche il loro rapporto con gli dèi, si è conservato oltre l’epoca che ha inaugurato la vittoria sui demoni. Non è col diritto, ma nella tragedia, che il capo del genio si è sollevato per la prima volta dalla nebbia della colpa, perchè nella tragedia il destino demonico è infranto14.

La conoscenza dell’incondizionato, che l’eroe acquista per la prima volta nel rapporto tragico con gli dei, gli toglie il linguaggio e lo rende muto15, incapace di articolare nel linguaggio comunitario l’incondizionato stesso, la legge morale pura e interiore, autentica, di cui si fa portatore come origine di un nuovo ordine morale, quello della giustizia: Ma nella tragedia l’uomo pagano si rende conto di essere migliore dei suoi dèi, anche se questa conoscenza gli toglie la parola (die Sprache), e rimane muto. […] Non si può dire affatto che sia ristabilito “l’ordine etico del mondo”, ma l’uomo morale, ancora muto, ancora minore – come tale è l’eroe – cerca di sollevarsi nell’inquietudine di quel mondo tormentato. Il paradosso della nascita del genio nell’incapacità morale di parlare, nell’infantilità morale, è il sublime della tragedia16.

L’eroe tragico e il poeta, il genio, pongono nel loro ammutolire e nell’impossibilità di articolarlo il momento dell’incondizionato, dell’idea di libertà. Per l’incondizionato il linguaggio umano non è più sufficiente ed esso si configura come principio infinito che non si può esprimere, ma soltanto simbolizzare nel linguaggio comunitario. Per la sua articolazione, che sarà possibile solo quando il linguaggio comunitario si evolverà tanto da avere i termini per esso, ci sarà bisogno dell’ordinamento delle idee metafisiche nel sistema della filosofia, che si  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica

fonda in Benjamin su un ambito linguistico non semantico ma, come si vedrà, teologico17. L’ambito metafisico dell’idea di libertà si coglie nel linguaggio teologico e in una dimensione temporale redentiva, messianica, teologica e non naturale come quella umana. Il tempo esistenziale del destino, della comunità degli uomini soggetta al diritto, del contesto della colpa, si configura come «inautentico»18 (e, si potrebbe dire, infinito), non autonomo rispetto e in opposizione al «tempo della redenzione, o della musica, o della verità»19. Questo tempo è invece intensivo e messianico, è l’attimo della redenzione nel compimento della conoscenza come sistema metafisico (cioè guidato regolativamente dalle idee metafisiche), e della redenzione della storia dell’umanità nell’attuarsi immanente del regno messianico della giustizia e dell’idea metafisica di libertà nella comunità etica. Anche in questo saggio hölderliniano il poeta eroe affronta il suo destino che si presenta come momento di passaggio tra l’ordine mitico del diritto e la posizione dell’incondizionato, come coraggio di essere soggetto morale e di riferirsi all’ambito divino delle idee. La sua vita interna, il suo coraggio tragico che è prefigurazione di un ordine morale, portano al superamento del mitologico e anche del mito, come si vede nelle parole conclusive del saggio: «Ma la considerazione del poetato non porta al mito, ma – nelle creazioni massime – solo alle connessioni mitiche, che nell’opera d’arte sono plasmate così da costituire un’unica forma, non mitologica e neppure mitica, che non possiamo definire più esattamente. Ma se mai ci fossero parole in grado di esprimere il rapporto di quella vita interna da cui scaturì l’ultimo carme con il mito, sarebbero [queste parole] […]: “Le leggende che si allontanano dalla terra…si volgono verso l’umanità»20. Ci troviamo così, nell’ordine spaziale dei “viventi”, di fronte a categorie spazio-temporali e concettuali della conoscenza, linguistiche ed etiche, tutte date nell’ordine della comunità umana. La comunità umana conoscente e conosciuta è simbolo ed esibizione linguistica del sistema della conoscenza che è il compito del poeta, è il suo canto e il suo destino che trova nell’incondizionato il punto di partenza per la costruzione di un mondo spirituale. Infatti proprio sulla libertà interiore e nella virtù del coraggio per la morte (come destino), che permette al poeta, come si vedrà più avanti, di essere, nel suo rapporto con il mondo – poiché “gli dà forma” conoscitivamente con i principi intuitivo-concettuali e lo “raggiunge” sistematicamente e eticamente con le idee – il centro di tutte le relazioni, si fonda la possibilità della costruzione del cosmo poetico e la possibilità della connessione della  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

conoscenza con le idee metafisiche simbolizzate dagli dèi. Queste permettono alla conoscenza di strutturarsi in una totalità virtuale e alla comunità di potersi riferire all’incondizionato nella fondazione della comunità stessa sulla legge morale. Le idee devono, per il tramite del poeta, riferirsi al sistema della conoscenza, dove trovano un punto di riferimento gnoseologico e critico, così da determinarsi in un uso trascendentale e non trascendente, e il sistema della conoscenza deve a sua volta trovare nelle idee della metafisica un modello di totalità e di fondazione pura e non empirica di tutta l’esperienza . Così cercherà di fare Benjamin nel saggio del 1917-18 Sul programma della filosofia futura – che verrà analizzato più avanti – riferendo il concetto di conoscenza immediatamente (senza mediazione empirica) all’ambito religioso della dottrina come fonte delle idee religiose (che definisce come Dasein) per la totalità concreta dell’esperienza come conoscenza pura, dove le idee filosofiche hanno origine in ambito religioso, ma a loro volta si devono giustificare di fronte al concetto di conoscenza, poiché la fondazione critica della conoscenza ha nella filosofia il primato assoluto: Il concetto filosofico del Dasein deve legittimarsi a confronto con il concetto religioso di dottrina, ma quest’ultimo a sua volta deve legittimarsi a confronto con il concetto originario della teoria della conoscenza21.

Nel Programma Benjamin indica nella dottrina come conoscenza della religione, nella Lehre, la fonte dell’assoluto, delle idee per la totalità sistematica dell’esperienza (come molteplicità unitaria e continua della conoscenza pura), mentre nel saggio hölderliniano l’elemento unificante appare essere la dimensione etica dell’incondizionato, l’idea di libertà. La religione aveva già un forte ruolo, nei primi scritti benjaminiani come momento simbolico e concreto dell’eticità nella comunità, come ambito di passaggio tra legalità e moralità, e come luogo di riconciliazione nella grande divisione tra dominio teoretico e dominio pratico che si era avuta con Kant. Il momento etico dell’incondizionato del saggio hölderliniano, che si presenta come superamento del dominio del diritto e come connettivo relazionale tra l’ambito naturale e l’ambito spirituale dell’uomo, può essere considerato l’anticipazione etico-religiosa (dove la religione è simbolo e contenuto concreto e spirituale insieme della autonomia morale) del ruolo filosofico della religione nel saggio Sul programma della filosofia futura, come ambito unificante del sistema della filosofia e fonte delle idee, idee che danno il criterio della totalità dell’esperienza. La religione sarà comun www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica

que concepita nel sistema nella sua dimensione filosofica e riferita criticamente a concetti, in quanto fornisce le idee per l’unità sistematica della conoscenza: per Benjamin comunque «nella filosofia si pone sempre il problema della conoscenza»22, della fondazione critica che investe anche il mondo delle idee e dell’incondizionato.

Note 1

Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 116; trad. it. cit., p. 123. Qui, infatti, se si può parlare di diritto naturale – poiché nel saggio su Hölderlin si parla, di sfuggita, di “diritto”, e dal 1916 si tematizza in modo esplicito il problema del diritto tout court, come diritto legato alla natura condizionata dell’uomo, alla sensibilità, ma l’espressione “diritto naturale” non appare mai – è nella prospettiva di Fichte, e non di Cohen, né di Kant. Cfr. a proposito G. Gigliotti, Dalle facoltà alle forme. Introduzione al concetto di volontà in Cohen, saggio introduttivo a H. Cohen, Etica della volontà pura, cit., 1994, p. XXXVIII: «Fichte, nella Grundlage des Naturrechts nach Prinzipien der Wissenschaftslehre [(1796-1797) in J.G. Fichte, Gesamtausgabe, hrsg. von. R. Lauth und J. Jacob, Band I, 3, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann, 1966] aveva costruito un preciso sillogismo che esprimeva la determinazione della relazione tra esseri liberi l’uno rispetto all’altro, e che egli considerava “la base di tutta la nostra teoria del diritto” [ivi, pp. 351-352]. La condizione di questo sillogismo era rappresentata dall’effettivo operare del soggetto nel mondo sensibile, in conformità alla concezione che un certo particolare individuo C mi ha riconosciuto come essere razionale, e viceversa. La condizione, in altri termini, esprime in questo caso l’ingresso nella effettuale realtà del rapporto intersoggettivo. Coerentemente, Fichte aveva allora posto una scissione molto netta tra moralità e diritto attribuendo alla prima la posizione di leggi incondizionate, al secondo la subordinazione del darsi reale e concreto di “esseri razionali in rapporto mutuo e reciproco”. Ne deriva, cioè, che la legge giuridica è una legge condizionata, e perciò indeducibile dalla legge etica assolutamente incondizionata e quindi non circoscritta ad alcunché: “la legge morale […] comanda su tutto l’agire dello spirito razionale, e dunque non si doveva derivare da essa il concetto di diritto” [ivi, pp. 360 e 388]. Potremmo dire che è esattamente questa la posizione che Cohen si prefigge di rovesciare completamente. Se infatti al diritto e solo al diritto è riconosciuto il potere di rapportarsi alla effettiva estrinsecazione della volontà, l’etica non potrà che vedersi di nuovo sottratto quel valore dell’essere così essenziale da tener fermo che Cohen esprimeva perplessità e incertezza persino di fronte alla formula kantiana che separava essere e dover-essere». 3 Hermann Cohen, nella Ethik des reinen Willens, si pone in una dimensione di continuità tra diritto naturale ed etica (poiché il diritto naturale, da lui esplicitamente rifiutato come metafisica del diritto, può avere un senso solo in quanto etica, legge non scritta che la scienza giuridica deve scrivere) e tra diritto e giustizia come segnavia della virtù etica (che rappresenta l’ideale, mai raggiunto e futuro, da perseguire). Bisogna tener presente che la concezione di Cohen del diritto, come Faktum a cui la filosofia si riferisce per trovare la sua fondazione nell’etica della volontà pura, è positiva e si connette esplicitamente alla dottrina religiosa ebraica dei Profeti, mentre in Benjamin dal 1916 c’è una 2

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Il compito del poeta e il sistema della verità contrapposizione, forse originata o alimentata dall’amicizia con Scholem, tra il diritto, che si fonda sul mito e si riferisce alla dimensione naturale dell’uomo, e la giustizia, che si lega alla sua concezione etica ed ebraico-messianica. Cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, pp. 597-600; trad. it. cit., pp. 429-431: «Attraverso la giustizia, i Profeti mettono in rapporto religione e eticità, Dio e uomo. Rendono manifesto il profondo collegamento tra diritto e giustizia. Etica e diritto, e anche religione e diritto, risultano così strettamente uniti. La giustizia è la virtù del diritto e dello Stato. In essa si stabilisce il nesso tra etica e scienza giuridica. […] Se l’essere dell’eticità significa l’eternità dell’ideale, allora il livello etico degli uomini non può che essere sempre distante dall’ideale. Neppure la più alta adeguazione possibile consente di considerare inessenziali il diritto e lo Stato. La giustizia resta necessariamente un segnavia della virtù, e perché il progresso non si arresti mai non può che portare alla via del diritto, al binario dello Stato. […] La giustizia fuga ogni mio dubbio sul diritto e sullo Stato; mi impedisce di disperare, con l’anarchico o con il mistico, dell’assoluta eticità del diritto e dello Stato. La giustizia poggia direttamente sulla veridicità, perché forma una metodologia, una scienza del diritto […] una vera e propria scienza particolare accanto alle scienze della natura e della storia. Una vera scienza è quella che possiede e costruisce propri concetti. […] La scienza giuridica è un sistema metodologico di concetti ad essa propri e peculiari. Senza il consapevole riconoscimento di questa autonomia della scienza giuridica, continuerà sempre a ripresentarsi l’apparente e oltraggiosa contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo. Si crede che il diritto naturale produca i concetti che il diritto positivo ha solo il compito di elaborare tecnicamente, laddove il diritto naturale può sviluppare i suoi concetti specifici solo come etica, e più esattamente come dottrina della virtù e della giustizia; il suo contenuto sono le leggi non scritte; e il diritto naturale resta eternamente non scritto. Ogni volta che si è tentato di scriverlo, si è solo ingenuamente svelato – o, meglio, celato – il diritto positivo. L’autonomia della scienza giuridica sta nello scrivere in concetti il diritto eternamente non scritto, la legge etica, e nel dargli unità nel sistema concettuale. Accanto a questa autonomia, la legittimazione etica della scienza giuridica è però anche questa, che la virtù della giustizia vuole la sua metodologia, e che questa stessa virtù porta a quei concetti basilari i quali, pur nella loro aggrovigliata e confusa storia del diritto, appaiono tuttavia chiaramente come le stelle guida». Per Kant, nella Metafisica dei costumi, il diritto naturale è il diritto privato, che deve essere integrato e garantito con il diritto pubblico: «L’idea di una comunanza originaria del suolo trova applicazione in ogni stato sociale, cioè sia nello stato di natura che nello stato civile. La differenza tra l’uno e l’altro stato è che solo il secondo garantisce, mediante pubbliche leggi, ciò che nel primo risulta stabilito e determinato. Non è lo stato civile che conferisce titolo giuridico al possesso, sebbene sia esso che rende perentorio ciò che nello stato di natura è solo giuridicamente provvisorio. Di qui la conseguenza che la disponibilità piena ed effettiva degli oggetti esterni è assicurata non dal diritto privato (cioè dal diritto naturale), ma dal diritto pubblico» (A. Guerra, Introduzione a Kant, con un aggiornamento bibliografico di G. Gigliotti, Laterza, Bari, 199811, pp. 189-190). Cfr. I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, in Werke, hrsg. von E. Cassirer, in Gemeinschaft mit H. Cohen, A. Buchenau, O. Bueck, A. Görland, B. Kellermann, O. Schöndörfer, Band VII: Die Metaphysik der Sitten. Der Streit der Fakultäten, hrsg. von B. Kellermann, Bruno Cassirer, Berlin, 1922, pp. 59-60; trad. it. La metafisica dei costumi, trad. e note a cura di G. Vidari (riv. da N. Merker), Laterza, Bari, 19913, pp. 69-70. Cohen, oltre a criticare la dottrina del diritto naturale, critica la separazione che Kant compie tra etica come dominio della legge morale e diritto come dominio della coazione, mentre egli considera etica e diritto inscindibili. Cfr. a proposito G. Gigliotti, Dalle facoltà alle forme. Introduzione al concetto di volontà in Cohen, cit., p. XLII, e

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10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica cfr. più avanti, le pp. L-LIII: «L’errore di Kant – messo fuori strada da quel monstrum concettuale che per Cohen come già per Hegel era il diritto naturale – è stato proprio quello di aver considerato il diritto non già come un metodo, ma come corpo di leggi positive, di non aver distinto scienza del diritto e diritto positivo […]. Non si tratta infatti [in Cohen] di contrapporsi al diritto naturale per via della sua astrattezza razionalistica, in nome della intrinseca storicità del diritto, in nome, cioè, dei motivi ispiratori della scuola storica. La ragione è squisitamente teoretica: il diritto naturale può avere un senso solo in quanto etica. […] Esplicitamente, lo abbiamo visto, Cohen rigetta nettamente il diritto naturale: “nel diritto naturale si è infatti sempre cercato e affermato un tipo di metafisica del diritto”. […] È questa metafisica implicita in ogni diritto naturale che ha impedito a Kant di applicare al diritto il suo metodo trascendentale: come si è accennato, “il ‘fatto’ del diritto naturale ha nociuto al valore fondamentale del ‘fatto’ della scienza giuridica” [H. Cohen, Kants Begründung der Ethik, cit., p. 382; trad. it. cit., p. 340]. Il rifiuto del diritto naturale è in Cohen inequivocabile nella misura in cui significa il rifiuto di un apriori materiale; il nesso è sempre tra una connessione legale formale e una concreta scienza storica: “l’etica non deve riportarci al diritto naturale, bensì alla scienza positiva del diritto” [H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 70; trad. it. cit., p. 54]. […] Cohen dichiara l’inscindibilità di diritto ed etica. […]: proprio sul rapporto tra etica e diritto Cohen prende […] la massima distanza da Kant. Con la sua distinzione tra legalità come forma della legislazione esterna e moralità come forma della legislazione interna Kant ha gettato una pesante ombra sulla sua grandissima scoperta del formalismo etico. Ha rischiato di incoraggiare un’interpretazione della forma come puro rivestimento di contenuti assolutamente estranei e provenienti da realtà essenzialmente altre rispetto all’etico. […] Il diritto, proprio nella misura in cui è una dottrina pura, ha bisogno di un’origine logico-trascendentale, che è quella che solo l’etica, come etica della volontà pura, può fornirgli». 4 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 113; trad. it. cit., p. 120. 5 Ivi, p. 117; trad. it. cit., p. 123. 6 Ibid. 7 Schicksal und Charakter, in GS, II, 1, pp. 171-179; trad. it. cit., pp. 117-124. 8 Ivi, p. 174; trad. it. cit., p. 120. Cfr. ancora l’Ethik des reinen Willens di H. Cohen, che sicuramente Benjamin aveva presente quando ha scritto il saggio Destino e carattere, poiché aveva acquistato i quattro volumi del System der Philosophie coheniano già un anno prima (cfr. Benjamin a G. Scholem, 10-II-1918, in GB I, p. 429) e aveva inoltre citato esplicitamente Cohen (la citazione proviene probabilmente dall’Ethik des reinen Willens oppure dal secondo volume dell’Ästhetik des reinen Gefühls) in un passaggio finale del testo, per il rapporto tra carattere e libertà nel personaggio comico confrontato con il nesso colpa-destino nell’eroe della tragedia, che pure aspira alla libertà [cfr. Schicksal und Charakter, in GS, II, 1, p. 178; trad. it. cit., p. 124: «Il tratto di carattere non è, quindi, il nodo nella rete, ma il sole dell’individuo nel cielo incolore (anonimo) dell’uomo, che getta l’ombra dell’azione comica. (E questo situa la profonda osservazione di Cohen, che ogni azione tragica, per quanto sublime inceda sui suoi coturni, getta un’ombra comica, nel suo contesto più proprio)»]: «a suscitare l’interesse primario [del mito] è sempre la forza più sconvolgente del male. Il bene sembra essere una cosa naturale, risulta da ciò che le cose, la vita in comune, hanno già istituito, già stabilito. Il male rappresenta un’effrazione a quest’ordine, nel quale, altrimenti, si manifesta senza eccezioni ciò che vi è di inviolabile: la legge, la natura. E la cosa sorprendente è che non solo il male appare come un’uscita da quest’ordine, ma è questo stesso ordine che sembra causare e recare con sé questa uscita, questa caduta. Il mito, tuttavia, non può fermarsi all’idea che

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Il compito del poeta e il sistema della verità la causa della caduta sia insita nella consuetudine e nell’ordine generale. Il mito […] personifica le cose e le circostanze. La causa diviene per lui una persona originaria, e solo dalla persona originaria nasce la persona. […] Il mito muove così dal concetto del destino. La fatalità […] è il concetto sommo, il sommo Dio. È superiore a Zeus […]. Ora, qual è il vero tema dominante dell’idea del destino? […] È sempre […] in una caduta del destino che il destino si realizza e si manifesta compiutamente. L’idea centrale, il vero cuore del destino, va riconosciuto nel concetto della colpa. L’Ate abbraccia tutta una specie, una specie prediletta che illustra il destino umano. Il dominio esercitato dal destino consiste nel sottomettere gli individui a questa specie. […] Il male è la colpa. E la colpa è la fatalità. Il mito non arretra di fronte a questo collegamento di concetti. […] Il legame di sangue è concepito come un fatto naturale, come un’imposizione della natura. […] Questo legame naturale è rappresentato proprio dalla colpa del destino. Non c’è contraddizione, né differenza, tra la colpa degli avi e quella dei posteri. […] Esiste una loro unità nella colpa, perché c’è un’unità nella loro essenza naturale. Il destino incarna appunto questa unità, e non è pensabile senza il legame della specie. […] Ma la specie rappresenta l’uomo. E così il concetto di colpa diventa, nel mito, il motivo principale dell’uomo. Lo sviluppo del concetto di colpa può essere visto come una variazione della storia della cultura etica. Dal mito procedono sempre due direzioni: quella della religione e quella della poesia.[…] La libertà diventa necessariamente un problema, sia nella poesia che nella religione [pur non giungendo a maturazione in esse], perché l’individuo fa la sua comparsa in entrambe, liberandosi dalla specie. […] Con la libertà comincia la cultura teoretica, a questa soprattutto appartiene il concetto di libertà. Soltanto la scienza, l’etica, strappa il velo che cela l’individuo. Nel mito è la potenza del segreto (Geheimnis), del mistero (Mysterium), che lega nella specie colpa e destino. La libertà rischiara questo mistero, portando alla luce l’individuo. Adesso colpa e destino si ritraggono dalla specie. Il destino dell’uomo è la sua propria colpa, perché l’uomo è l’autore delle sue azioni. Nel mito non ci sono autori. Nella tragedia l’individuo si stacca dalla specie soltanto nell’impostazione del problema, ma la tragedia è ancora intrecciata al mito. L’Ate non ha però più il dominio assoluto. […] Il destino da solo non è più il centro di tutta l’azione, come accadeva nel dramma; il destino della specie si connette necessariamente alla colpa dell’individuo. […] si fa luce; la soluzione va nel senso dell’autocoscienza, della catarsi. Questa luce e questa liberazione […] [sono] rappresentate nell’originale dell’eroe. La sua morte, tutto l’arco della sua vita terrena, sono la realizzazione compiuta del suo riscatto e della sua liberazione dalla colpa che egli aveva assunto su di sé, e assumendo la quale aveva creato se stesso. Alla colpa si aggiunge così la forza della virtù. La colpa rimane, ma ricade sul destino; e solo nella misura in cui la colpa è necessaria come parte integrante per far risaltare la virtù umana, la forza dell’eroe, rimane nello sfondo come ombra nella luce della virtù; ma ora come ombra nella luce dell’individuo, e non più nel buio della specie e del destino» (H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, pp. 362-365; trad. it. cit., pp. 261263). 9 Schicksal und Charakter, in GS, II, 1, p. 174; trad. it. cit., p. 120. 10 Ivi, p. 175; trad. it. cit., p. 121. Si noti la vicinanza ai Lebendigen, ai viventi come comunità umana del saggio su Hölderlin. 11 Ibid. 12 Per Benjamin la costituzione naturale dell’uomo è “apparenza”, rispetto alla quale egli è rimasto “invisibile” nella sua parte migliore, che è la legge morale: «L’uomo non viene mai colpito [dal destino], ma solo la nuda vita (bloße Leben) in lui, che partecipa della colpa naturale e della sventura in ragione dell’apparenza (Schein)” (ivi, p. 175; trad. it. cit., p. 121). La nuda vita di cui si parla è il lato naturale, condizionato dell’esperien-

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10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica za umana, che Benjamin cercherà di superare nel saggio Sul programma della filosofia futura del 1917-18 (cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 157-171; trad. it. cit., pp. 214-227) con un concetto d’esperienza spirituale fondato sull’incondizionato. 13 Su diritto e giustizia, dove l’ultima si distingue dalla ricerca del bene come possesso (espressione della transitorietà) legato ai bisogni e si riferisce all’ambito divino e allo stato compiuto (come realizzazione del sommo bene) del mondo messianico, distinguendosi dalla virtù come dimensione etica connessa a un compito della realizzazione (vicina alla concezione etica di Cohen), e sul rapporto di diritto e giustizia come rapporto dello schema sensibile con la realizzazione, cfr. il testo di Benjamin su diritto e giustizia del 1916, copiato da Scholem sul suo diario l’8-9 ottobre 1916, Aus der mir geliehenen Notizbuche Walter Benjamins. Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit. Mit einem Kommentar vom Hermann Schweppenhäuser, in «Frankfurter Adorno Blätter», IV, 1995, pp. 41-51, ora (senza il Kommentar) in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, unter Mitarbeit von H. KoppOberstebrink, hrsg. von K. Gründer und F. Niewöhner, Jüdischer Verlag, Frankfurt/M., 1995, pp. 401-402; trad. it. a cura di G. Bonola, Dal taccuino di appunti prestatomi da Walter Benjamin. Appunti per un lavoro sulla categoria della giustizia, in G. Bonola, Antipolitica messianica. La giustizia di Dio come critica del diritto e del “politico” nel filosofare comune di G. Scholem e W. Benjamin (1916-1920), in «Fenomenologia e società», 2, 2000, anno XXIII, pp. 4-5: «Ad ogni bene (Gute), in quanto è delimitato entro l’ordine dello spazio-tempo, inerisce, ad espressione della sua caducità (Vergänglichkeit), il carattere-di-possesso (Besitzcharakter). Ma il carattere, in quanto imprigionato nella medesima finitezza, è sempre ingiusto. Ed è per questo che nessun ordine-del-possesso (Besitzordnung), in qualunque modo sia disposto, può condurre alla giustizia (Gerechtigkeit). Anzi, quest[’ultim]a risiede nella condizione di un bene, che non può essere un possesso. Tale è soltanto un bene mediante il quale i beni divengono esenti dal possesso. Nel concetto di società si cerca di dare al bene un possessore, che elimini il suo carattere-di-possesso. […] Esiste cioè la pretesa del tutto astratta del soggetto su, in linea di principio, ogni bene, una pretesa che non è riconducibile in alcun modo ai bisogni, bensì a giustizia, e la cui direzione ultima, per quanto può, non mira ad un diritto-di-possesso della persona, bensì ad un diritto-intrinseco-nel bene del bene [stesso] (Guts-Recht des Gutes). Giustizia è lo sforzo di fare del mondo il sommo bene (höchstes Gut). […] giustizia non è una virtù accanto ad altre virtù […], essa fonda bensì una nuova categoria etica, che forse non si dovrà neppure chiamare una categoria della virtù, ma una categoria diversa coordinata, al suo stesso livello, alla virtù. [La] giustizia pare non sia in relazione con la buona volontà del soggetto, bensì costituisce un [certo] stato (Zustand) del mondo, giustizia designa la categoria etica di ciò che esiste (des Existenten), virtù la categoria etica di ciò che si esige (des Geforderten). [La] virtù la si può esigere, [la] giustizia alla fin fine può solo essere, come stato del mondo o come stato di Dio. In Dio tutte le virtù hanno la forma della giustizia […]. Virtuoso può essere solo l’adempimento di ciò che si esige, giusto soltanto l’offrire garanzia dell’esistente (di un esistente forse non più determinabile mediante esigenze, tuttavia, è ovvio, non di uno qualsivoglia). Giustizia è il versante etico della lotta, giustizia è la potenza della virtù e la virtù della potenza. La responsabilità verso il mondo, che noi abbiamo, preserva dall’istanza [o “si invera di fronte all’istanza”] della giustizia. La richiesta del padrenostro: non c’indurre in tentazione, ma liberaci [lett.: redimici] dal male, un regno sia, […] è la richiesta della giustizia, del giusto stato del mondo. Il singolo atto empirico si rapporta alla legge morale in qualche modo come un (indeducibile) adempimento dello schema formale. Al contrario, il diritto si rapporta alla

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Il compito del poeta e il sistema della verità giustizia come lo schema all’adempimento (Erfüllung). L’immenso baratro che si spalanca, per la loro essenza, tra diritto e giustizia, altre lingue l’hanno indicato. […] ius […] themis […] mischpat, diritto (Recht) [;] fas […] dike […] zedek, giustizia (Gerechtigkeit)» (ivi, pp. 401-402; trad. it. cit., pp. 4-5, traduzione modificata). Si noti il riferimento al “sommo bene” di Kant. 14 Schicksal und Charakter, in GS , II, 1, p. 175; trad. it. cit., p. 120. 15 Una forte vicinanza del tema del silenzio dell’eroe tragico ne Il dramma barocco tedesco (1925) di Benjamin allo stesso tema nella Metaphysik der Tragödie (1911) di György Lukács (in «Logos», 2, 1911-12, pp. 79-91; poi in G. Lukács Die Seelen und die Formen, Egon Fleischel & Co, Berlin, 1911, pp. 235-273; trad. it. L’anima e le forme, a cura di S. Bologna, Sugar, Milano, 1972) e nella Stella della redenzione (1921) di Franz Rosenzweig (nel testo benjaminiano vi sono ampi riferimenti a entrambi i testi) è stato messo in risalto da Michele Cometa in La tragedia tra mistica e utopia. Note sulla Metaphysik der Tragödie di György Lukáks, in «Rivista di Estetica», 10, 1982, anno XXII, pp. 28-49, cfr. in part. le pp. 43-44. L’influenza lukácsiana può valere retrospettivamente anche per Destino e carattere (1919), per Trauerspiel e tragedia del 1916 (Trauerspiel und Tragödie, in GS, II, 1, pp. 133-137; trad. it. cit., pp. 168-172) e per Il significato del linguaggio nel Trauerspiel e nella tragedia anche del 1916 (W. Benjamin, Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel und Tragödie, in GS, II, 1, pp. 137-140; trad. it. Il significato del linguaggio nel Trauerspiel e nella tragedia, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 173-176), poiché Benjamin aveva letto nel 1913 il numero di «Logos» del 1911-12: «la Sprachlosigkeit dell’eroe tragico. Su quest’ultimo elemento Franz Rosenzweig e Walter Benjamin hanno costruito (riferendosi a Lukács) la loro definizione del tragico. […] È stato infatti Walter Benjamin ad attirare l’attenzione sulla Sprachlosigkeit e sul silenzio (Schweigen) dell’eroe nel suo Trauerspielbuch [cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 83 ss.; trad. it. cit., pp. 288 ss.]. Riferendosi a Franz Rosenzweig e a Lukács e inserendosi in una tradizione che va da Sofocle a Nietzsche, Benjamin riconosce nel silenzio dell’eroe la condizione essenziale del rapporto tragedia-polis: la Einsamkeit. Solo con l’“assoluta solitudine”, con l’incontaminata sicurezza di essere solo contro il destino e di dover portare a compimento la propria causa, l’eroe può ritagliare se stesso sullo sfondo della vita comune, della polis e sollevarsi alle vette dell’essenza. Anche Lukács parlando della decisione tragica ribadisce il principio dell’assoluta solitudine: “l’essenza di codesti momenti privilegiati dell’esistenza è la pura esperienza dell’egoità” [G. Lukács, Metafisica della tragedia, in L’anima e le forme, cit., p. 233]. E Franz Rosenzweig aveva riconosciuto l’importanza del silenzio nella tragedia. In un capitolo di Der Stern der Erlösung [F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung (1921), Frankfurt/M., 19302; trad. it. La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato, 19862] dedicato all’uomo metaetico si legge: “Poiché questo è il contrassegno del sé, il sigillo della sua grandezza come il momento della sua debolezza: esso tace. L’eroe tragico ha soltanto una lingua che gli si addica completamente: appunto il silenzio. Così è fin dall’inizio. Il tragico ha elaborato la forma artistica del dramma per poter rappresentare il tacere… Tacendo l’eroe rompe tutti i ponti che lo congiungono a dio e al mondo, e così si innalza al di sopra del piano della personalità, la quale parlando si delimita rispetto alle altre e si individualizza nella grande solitudine del sé” [ivi, p. 101; trad. it. cit., pp. 80-81]. Naturalmente la solitudine del Selbst, di cui Rosenzweig parla corrisponde all’esperienza della pura egoità lukácsiana. Per Rosenzweig il dialogo tragico non è comunicazione, non è parola, ma piuttosto dibattito: “Nude anime dialogano solitarie con nudi destini” aveva scritto Lukács nella Metafisica della tragedia per sottolineare questo dialogo con il Selbst. Il dialogo nella tragedia è però solo apparente; non esiste la possibilità di una media-

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10. Il mondo dei viventi e il poeta tra diritto e etica zione linguistica, non esiste comprensione. Tutto è deciso sin dal principio; il destino dell’eroe è scritto e nessun Logos potrà trasformarlo. È questo il senso delle parole di Lukács: “gli eroi morenti della tragedia…sono morti già da lunga pezza, prima di morire”. Nulla può salvarli. Il silenzio è quindi metafora dell’essere soli (isolati) di fronte al destino. La polis tace. Anche il silenzio è una forma della spoliazione mistica del creaturale. All’“ascesi intramondana” si addice il silenzio» (M. Cometa, La tragedia tra mistica e utopia. Note sulla Metaphysik der Tragödie di György Lukáks, cit., pp. 43-44). 16 Schicksal und Charakter, in GS , II, 1, p. 175; trad. it. cit., p. 120. 17 Cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie (1917-18), GS, II, 1, pp. 168-171; trad. it. cit., pp. 224-227 e Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), in GS, II, 1, pp. 140-157; trad. it. cit., pp. 177-193. 18 Schicksal und Charakter, in GS, II, 1, p. 176; trad. it. cit., p. 121. È stata modificata la traduzione, per mettere in risalto un termine che verrà usato in seguito da Benjamin per definire il tempo “naturale” dell’ambito esistenziale umano, contrapposto al tempo messianico della redenzione. Cfr. l’Erkenntniskritische Vorrede all’Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 227; trad. it. cit., p. 22, dove a proposito del fenomeno d’origine (in cui si rappresenta virtualmente l’idea) si dice che il «darsi fenomenico della sua preistoria e della sua storia futura – intese in senso inautentico, ovvero storico-naturale – è virtuale». Proprio la virtualità è caratteristica del compito infinito della conoscenza, che si confronta con una temporalità naturale, infinita e non redenta. 19 Schicksal und Charakter, in GS, II, 1, p. 176; trad. it. cit., p. 121. 20 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 126; trad. it. cit., pp. 132-133. 21 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226 (traduzione modificata). 22 Ivi, p. 170; trad. it. cit., p. 226.

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11. Il poeta e gli dei: tempo messianico e conoscenza compiuta

Mentre i viventi rappresentano «la direzione spaziale verso l’accadere infinito»1, il compito infinito della conoscenza, della sua fondazione critica e della virtuale comprensione dell’esperienza2 nel sistema filosofico delle forme dell’intuizione, dei concetti e delle idee regolative, e il poeta li conosce e quindi esperisce (erlebt), percorre «il vero»3 delle relazioni funzionali dei concetti tra loro, il rapporto d’identità del destino poetico con l’ambito divino delle idee si configura diversamente4: esso è, come si è già detto, caratterizzato da una diversa concezione del tempo. Il tempo è nell’ordine degli dei l’ordine dominante (mentre nell’ordine dei viventi dominava lo spazio temporalizzato della conoscenza), che acquista a sua volta determinazioni spaziali. Nel tempo la forma poetica del dio si configura come «concentrazione, […] [essa] reca in sé una plasticità puramente immanente come espressione della sua esistenza (Dasein) nel tempo»5; è la pura forma dell’idea come momento della conoscenza strutturato plasticamente nella Jetztzeit (tempo-ora o adesso)6, nel «tempo logico»7 del compimento messianico del pensiero, che è l’attualizzazione momentanea del compimento della totalità sistematica della conoscenza. Nella Jetztzeit, dove la «plasticità della forma rivela la sua natura spirituale (die Plastik der Gestalt wird als das Geistige erwiesen)»8, l’idea si palesa. Gli dei rappresentano «l’identità spirituale dell’essere (Wesen): il pensiero»9 nel momento in cui quest’identità si compie nel tempo messianico della conoscenza “metafisica” in cui si dà la totalità sistematica della conoscenza nell’unione di idee e concetti puri10. Gli dei rappresentano l’identità come «plasticità interna dell’esistenza (Dasein) […] a cui corrisponde l’identità dell’accadere nell’ordine dei viventi»11, la rappresentano come momento temporale messianico dell’identità del pensiero e della coscienza12 in rapporto all’idea nella sua plasticità e concentrazione, a cui si contrappone la temporalità infinita dell’esperienza e della conoscenza concettuale (nella virtualità del compito infinito della conoscenza) nell’ordine dei viventi. Gli dei sono, dice Benjamin,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

«vicinissimi alla forma (Gestalt) dell’idea»13, che «porta all’oggettivazione della forma (Versachlichung der Gestalt)»: per questo rappresentano nella loro plasticità la «quintessenza (Inbegriff) formata del tempo»14, sono la rappresentazione del tempo messianico del pensiero come concentrazione plastica della coscienza del poeta e come compimento del pensiero stesso, nella sua identità, nel rapporto dei concetti puri (e delle forme dell’intuizione, poiché i concetti contengono virtualmente tutti i dati della conoscenza) con le idee metafisiche. Questo tempo è il momento della totalità della conoscenza, dell’attuale compimento del compito infinito, che si espone sensibilmente in una forma plastica, quasi monadica. In quest’ordine divino il destino poetico è limitato e determinato «nel mondo puro delle forme»15, dalle «cose» che «tendono all’esistenza come pura idea (die Dinge [streben] zum Dasein als reine Idee)»16, dove il momento della «plasticità interna del tempo […] [è] centrale»17 perchè si determina come la «struttura plastica del pensiero nella sua intensità, per cui la coscienza contemplativa compiuta (erfüllte) costituisce l’ultimo fondamento (Grund)»18: è il momento logico-temporale della Jetztzeit contemplativa della coscienza in cui la conoscenza metafisica si determina come identità compiuta di idee e concetti puri, al di là dell’esperienza come dimensione empirica – l’esperienza è invece esperienza simbolica, rappresentazione dell’idea monadica in una configurazione concettuale19 – e in un’ottica non di infinita virtualità, ma di compimento e di redenzione del pensiero. Questo rapporto d’identità, considerato intensivamente, come momento plastico della coscienza, ha a sua volta, nell’essere considerato estensivamente, un lato infinito: l’idea come momento compiuto del pensiero, come figura e forma (Gestalt) del compimento, si identifica con “l’informe” (il principio orientale, in Hölderlin l’aorgico)20, con l’illimitato del pensiero. Infatti per Benjamin «l’oggettivazione della forma nell’idea significa, insieme: il suo ampliarsi sempre più illimitato e infinito, l’unificazione delle forme in quella forma assoluta, che gli dei diventano»21. L’idea è insieme forma e assenza di forma, confine con cui il destino poetico si delimita in quanto essa è forma nella sua oggettività, e con cui il poeta delimita il sistema della conoscenza, nel considerarla come meta ideale e regolativa della conoscenza, e incommensurabile al di là di questo confine, incondizionato. Gli dei, come figure dell’idea, dell’incondizionato come momento non delimitato, formato e infinito insieme del destino poetico, significano «l’incommensurabile struttura formale [Gestaltung]»22 del destino stes www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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11. Il poeta e gli dei: tempo messianico e conoscenza compiuta

so, nel suo ruolo formativo spirituale e nella dimensione di incommensurabilità che mantiene comunque, come imperativo morale non determinabile nel mondo empirico e determinante nel dominio della libertà. Il destino, come compito della conoscenza, viene determinato dalla dimensione spaziale dei viventi, che garantiscono che si rimanga sempre nell’ambito della fondazione critica della conoscenza nella sua estensione sistematica; esso viene determinato inoltre dalla strutturazione formale degli dei che determinano «l’oggettività del mondo poetico»23 come mondo della conoscenza oggettiva, e del rapporto unificante tra idee e concetti – e significano contemporanemente «il mondo puro della plasticità temporale della coscienza […] [dove] l’idea diventa sovrana»24, il mondo della conoscenza metafisica compiuta. Prima «il vero era incluso nell’attività del poeta», nel suo conoscere infinito e nel suo percorrere e costruire il sistema della verità, ora la verità del conoscere, come totalità dei concetti che si riferisce all’incondizionato e lo rappresenta, si presenta sovrana nell’idea, realizzata «in una forma sensibile compiuta (in sinnlicher Erfüllheit)»25, in una esperienza simbolica concreta del suo compimento come unità sistematica26 della filosofia o di uno dei suoi ambiti (conoscitivo, etico, estetico) esibita in un simbolo plastico. La concezione dell’esperienza come simbolo della molteplicità unitaria della conoscenza, che per Benjamin coincide, come si vedrà meglio più avanti, con l’intero sistema della filosofia, da lui fondata sul linguaggio come dimensione simbolico-sistematica e teologica propria dell’ambito religioso della dottrina (Lehre), è da lui delineata nel progetto del 1917-18 Sul programma della filosofia futura e precisata nel frammento del 1917 Über die Wahrnehmung27: [L’]esperienza come oggetto della conoscenza è la molteplicità unitaria e continua della conoscenza [un nesso conoscitivo]. […]. L’esperienza però è il simbolo di questo nesso conoscitivo e si trova quindi, rispetto ad esso, in un ordine completamente diverso. […] [Essa è] il simbolo dell’unità conoscitiva (Erkenntniseinheit). […]. [La] filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso sistematico [e] simbolico come lingua (Sprache). L’esperienza assoluta, per la concezione (Anschauung) della filosofia, è lingua; lingua concepita però come concetto simbolico sistematico. […] Tutta la filosofia, comprese le scienze filosofiche, è dottrina28.

Si potrebbe parlare di un passaggio dallo schematismo kantiano come esibizione diretta del concetto in una intuizione alla concezione kantiana del simbolo come esibizione indiretta di un concetto della  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

ragione, in cui la facoltà di giudizio procede per mezzo di un’analogia, nel senso che applica «il concetto all’oggetto di un’intuizione sensibile e poi […] [applica] la semplice regola della riflessione su quell’intuizione a tutt’altro oggetto, di cui il primo è solo il simbolo»29. Come nello schematismo di Kant «un’applicazione delle categorie ai fenomeni sarà possibile mediante la determinazione trascendentale del tempo»30, così nella concezione simbolica che Benjamin ha dell’esperienza come esibizione della molteplicità sistematica della conoscenza pura, il tempo è il momento messianico dell’esibizione simbolica del sistema della verità. L’idea viene a far parte del canto poetico, del cosmo strutturato del pensiero poetico, perchè il poeta la porta con sé come «essere oggettivato […], nel pensiero»31, come forma del suo mondo compiuto e redento, pervenuto alla quiete messianica della conoscenza metafisica. Il mondo divino e il mondo dei viventi vengono unificati e portati insieme dal poeta e, come «l’estensione spaziale dei viventi si determina nell’intervento temporalmente interiore del poeta»32, nell’attività conoscitiva temporale che interviene nello spazio umano del sistema della conoscenza, così il poeta si impadronisce del dio, dell’idea che diventa cosa, rappresentazione sensibile della realtà della sua coscienza contemplativa. Egli porta insieme i concetti e le idee nel suo destino, che si presenta come identità molteplice del popolo e di Dio: popolo e Dio sono «condizioni dell’esistenza (Dasein) sensibile»33, condizioni del destino poetico in cui sono presenti la dimensione sensibile (e concettuale) e la dimensione dell’idea (l’incondizionato), che vi è rappresentata sensibilmente. Alla fine anche il dio, l’idea, deve porsi al servizio del canto come dominio poetico34 ed eseguire la sua legge poetica come identità dell’ambito sensibile e dell’ambito spirituale: come il popolo deve rappresentare simbolicamente, nel linguaggio (come segno e scrittura), l’estensione dell’ambito conoscitivo del poeta e il suo principio spirituale come destino, il dio deve rappresentare sensibilmente, nella sua forma plastica immanente simbolo della temporalità concentrata e messianica, l’idea come ambito del compimento messianico della conoscenza, della sua totalità concettuale.

Note 1 2

Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 118; trad. it. cit., p. 125. Cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 169; trad. it. cit.,

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11. Il poeta e gli dei: tempo messianico e conoscenza compiuta p. 225: «la trasformazione dell’“esperienza” in una “metafisica” significa che nella parte metafisica o dogmatica della filosofia – in cui trapassa la parte suprema della teoria della conoscenza, ossia la parte critica – è virtualmente inclusa la cosiddetta esperienza». 3 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, GS, II, 1, p. 118; trad. it. cit., p. 125 4 Cfr. ivi, pp. 118-119; trad. it. cit., p. 125 «L’identità del mondo divino e il suo rapporto col destino del cantore sono diversi dall’identità nell’ordine dei viventi. Qui si riconosceva che un accadere determinato e dal poeta e per il poeta scaturiva da un’unica, identica fonte. Il poeta viveva (erlebte) il vero. Così il popolo era a lui conosciuto, a lui noto. Ma nell’ordine divino – come si vedrà – sussiste una particolare identità interna della forma. A questa identità alludeva già l’immagine dello spazio, e in particolare la determinazione della superficie (Fläche) tramite l’ornamento, la decorazione. Ma ora – eretta a principio sovrano di un ordine – produce una oggettivazione del vivente. Si determina una peculiare duplicazione della forma (che la lega con determinazioni spaziali) nel senso che ciascuna ritrova ancora una volta, in se stessa, la sua concentrazione, reca in sé una plasticità puramente immanente come espressione della sua esistenza (Dasein) nel tempo». 5 Ivi, p. 119; trad. it. cit, p. 125 (traduzione modificata). Il termine Dasein non ha semplicemente il significato di “esistenza”, ma, come si chiarirà in seguito, anche di “assoluto”, di “idea”. 6 La Jeztzeit, concetto che troviamo nel saggio Sul concetto di storia del 1940, e rappresenta per Benjamin il momento temporale messianico-redentivo in cui una immagine del passato torna nel presente come immagine dell’idea di libertà e modello per l’azione rivoluzionaria che redime il passato producendo la rottura del continuum storico, è già presente negli anni 1920-1921 nell’espressione Jetzt der Erkennbarkeit (ora della conoscibilità). L’ora della conoscibilità è il momento della temporalità messianica e della redenzione immanente nell’ambito della conoscenza e del pensiero, in esso si prepara lo “stato perfetto” della conoscenza metafisica come rapporto sistematico e simbolico tra concetti (che hanno in sé i dati della conoscenza) e idee, la verità, “lo stato del mondo compiuto”: nell’ora della conoscibilità, in cui la verità è nesso concettuale e sistematico, i fenomeni entrano frammentati e diventano concetti simbolici che esibiscono le idee. A questo stato di redenzione nel pensiero corrisponde nell’ambito etico il mondo della libertà, il regno messianico. Cfr. il frammento di Benjamin Erkenntnistheorie, datato dagli editori 1920-21, in GS, VI, pp. 45-46 (n. 25): «1) La costituzione della cosa nell’ora della conoscibilità e 2) la limitazione della conoscenza nel simbolo sono i due compiti della teoria della conoscenza. Su 1) La frase: La verità appartiene in un qualche senso allo stato del mondo compiuto (zum vollendeten Weltzustand) [,] si sviluppa in modo catastrofico nella direzione dell’altra, si sviluppa intorno alla dimensione dell’ora (Jetzt): Il mondo è conoscibile ora. La verità sussiste nell’“ora della conoscibilità” (Jetzt der Erkennbarkeit). Solo in questa è nesso [sistematicamente, concettualmente] (nesso con se stessa e con lo stato del mondo compiuto). L’ora della conoscibilità è il tempo logico, che deve essere fondato al posto del valere (Gelten) atemporale. […] Su 2) L’azione, come la percezione, entrano nell’ora della conoscibilità soltanto frammentate, inautentiche, non reali. Esse sono autentiche, non frammentate, nello stato del mondo compiuto. […] Esse entrano frammentate, in concetti simbolici (in Symbolischen Begriffen) nell’ora della conoscibilità, poiché questo “ora” è riempito e dominato dalla conoscibilità soltanto» (ivi, p. 46). Cfr. a proposito T. Tagliacozzo, Walter Benjamin: un tentativo di teoria della conoscenza in alcuni frammenti degli anni 1917-1921, in G. Coccoli, C. Marrone (a cura di), Simbolo, metafora, linguaggi, Edizioni Gutenberg, Roma, 1998, pp. 157-184, in particolare le pp. 166-173.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 7

Erkenntnistheorie, in GS, VI, p. 46. Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 119; trad. it. cit., p. 125. 9 Ivi, p. 119; trad. it. cit., p. 125. Cfr. a proposito dell’identità del pensiero in questo contesto una lettera di Benjamin a Scholem dell’agosto 1917, in cui l’identità del pensiero è concepita come la verità stessa: «“Pensare” (Denken), come assoluto è forse soltanto in qualche modo un’astrazione dalla verità. L’affermazione dell’identità del pensare sarebbe l’assoluta tautologia. L’apparenza (Schein) del “pensare” nasce tramite la tautologia. La verità non viene tanto pensata quanto essa stessa pensa. /a è a designa a mio avviso l’identità del pensato (Gedachten), [o per meglio dire: designa la verità stessa]. Allo stesso tempo questa proposizione non designa altra identità che quella del pensato. L’identità dell’oggetto, supposto che esista una tale identità in modo compiuto, avrebbe un’altra forma (forme di identità incompiute, che nella compiutezza diventano una delle forme a è a» (Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917, in GB I, p. 409). Il momento dell’identità del pensiero come dimensione della verità si configura qui come rapporto (simbolico) tra ordini intuitivo-concettuali ed ideali e non come risultato di un rapporto di soggetto e oggetto (accordo con l’oggetto). La verità nasce come identità del pensiero, come determinazione di relazioni pure tra ordini diversi, intuitivo-concettuali ed ideali, fondate sul concetto d’identità. Il momento della verità, dell’identità del pensiero, è per Benjamin un momento di compimento e redenzione del pensiero stesso. 10 L’espressione “metafisica” riferita all’esperienza come sistema della conoscenza pura apparirà in Benjamin solo più tardi, quando in Sul programma della filosofia futura esprimerà l’esigenza per la filosofia di costruire, sulla base del sistema kantiano e seguendo le trasformazioni a cui era stato soggetto da parte dei neokantiani (da Cohen per primo), che avevano ricondotto anche le forme dell’intuizione nell’ambito delle categorie e tutta la conoscenza al pensiero puro, un’esperienza metafisica come molteplicità unitaria e continua della conoscenza pura, come sistema della conoscenza pura unificato dalle idee, come sistema di idee che si esprime, nel suo essere esperienza pura – non empirica – in simboli. Il compimento di un sistema di questa conoscenza si può avere per Benjamin con l’aiuto del concetto religioso di dottrina, in cui le idee metafisiche hanno la loro origine, dottrina a cui la filosofia tutta nella sua storia tende virtualmente come suo compimento – si potrebbe dire – messianico. Ogni atto del pensiero in cui si compie anche solo momentaneamente l’unità di concetti (che hanno in sé virtualmente i dati della conoscenza) e idee che porta alla totalità sistematica, alla verità, è per Benjamin un momento redentivo e messianico del pensiero, la prefigurazione del mondo perfetto messianico. Questi temi saranno svolti nei capitoli seguenti. Cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 169; trad. it. cit., p. 225. 11 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 119; trad. it. cit., p. 125 (traduzione modificata). 12 «Così il “giorno lieto” si trasforma nel giorno “pensoso”. […] il giorno riceve il dono che è precisamente la condizione dell’identità spirituale dell’essere: il pensiero. […] [Il giorno] possiede la forma più alta, appare in quiete, in accordo con se stesso nella coscienza, appare come una figura che rappresenta la plasticità interna dell’esistenza (Dasein), e a cui corrisponde l’identità dell’accadere nell’ordine dei viventi» (ibid., traduzione modificata). 13 Ibid. (traduzione modificata). 14 Ibid. 15 Ibid. 16 Ibid. (traduzione modificata). Qui è evidente la coincidenza di Dasein e idea. 17 Ivi, p. 120; trad. it. cit., p. 126. In contrasto con la transitorietà dei viventi indi-

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11. Il poeta e gli dei: tempo messianico e conoscenza compiuta cata dalla prima redazione, emerge qui una nuova concezione del tempo e degli uomini come durata e persistenza: «In pieno contrasto con il “tempo fuggevole”, con gli uomini “transitori (Vergänglichen)”, nella nuova redazione di questi versi è stato sviluppato il momento persistente, la durata, nella forma (Gestalt) del tempo e degli uomini. La “svolta del tempo” evidentemente comprende ancora il momento della persistenza (Augenblick der Beharrung), proprio il momento della plasticità interna del tempo […] [che è] centrale. La stessa funzione espressiva possiede l’“uns die Entschlafende” – “noi che ci addormentiamo” – subito dopo. È nuovamente data l’espressione della più profonda identità della forma (nel sonno). Già qui si devono ricordare le parole di Eraclito: nella veglia noi vediamo certamente la morte, ma nel sonno il sonno» (ivi, pp. 119-120; trad. it. cit., p. 126). 18 Ivi, p. 120; trad. it. cit., p. 126. 19 Cfr. a proposito dell’idea come monade rappresentata dall’insieme dei concetti, in un fenomeno originario come “estremo” e costellazione di elementi concettuali, la Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco: «Con la loro funzione mediatrice, i concetti permettono ai fenomeni di partecipare all’essere delle idee. E appunto questa funzione mediatrice li rende idonei all’altro e non meno originario compito della filosofia: la rappresentazione delle idee. Mentre la salvazione dei fenomeni si compie per mezzo delle idee, la rappresentazione delle idee si compie nel medium dell’empiria. Poiché le idee si rappresentano non in se stesse, ma solo e unicamente attraverso una coordinazione di elementi cosali nel concetto: ossia in quanto configurazione di elementi. L’insieme dei concetti che serve alla rappresentazione di un’idea la concretizza in quanto configurazione appunto dei concetti. Poiché nelle idee non sono incorporati i fenomeni. Essi non vi sono contenuti. Piuttosto, le idee sono la loro coordinazione virtuale oggettiva, la loro interpretazione oggettiva. […] [Esse] raggiungono i fenomeni […] nella rappresentazione dei fenomeni stessi. […] il significato dei fenomeni per le idee si esaurisce nei loro elementi concettuali. Le idee sono costellazioni eterne, e se gli elementi vengono concepiti come punti di tali costellazioni, i fenomeni si troveranno ad essere, nello stesso tempo, analizzati e salvati. E va detto altresì che questi elementi, la cui estrapolazione dai fenomeni è compito del concetto, vengono in luce con la massima precisione negli estremi. […] L’empirico è […] penetrato tanto più a fondo quanto più precisamente può essere considerato come qualcosa di estremo. Dall’estremo procede il concetto. Le idee […] rimangono oscure là dove i fenomeni non si riconoscono in esse e non si raccolgono intorno ad esse. La raccolta dei fenomeni è un’incombenza dei concetti, e la frammentazione operata in essi dall’intelletto analitico è tanto più significativa per il fatto di conseguire in un solo colpo un duplice risultato: la salvazione dei fenomeni e la rappresentazione delle idee» (Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 214-215; trad. it. cit., pp. 9-10). 20 Cfr. Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 120; trad. it. cit., p. 126: «Lo stesso rapporto d’identità che qui, nel senso intensivo, porta alla plasticità temporale della figura, nel senso estensivo deve condurre a una figura infinita, a una plasticità come chiusa in una bara ( se possiamo usare questa immagine), in cui la figura, la forma viene a identificasi con l’informe (Gestaltlos)». Sul tema del rapporto tra forma e informe in Hölderlin (dove si parla di organico e aorgico) e in questo saggio di Benjamin, dove l’informe dell’elemento “orientale” si pone come limite e forma strutturante, come legge artistica del canto espressa dalla morte del poeta (e dal coraggio per essa) che si colloca al centro delle relazioni nel suo rapporto con il mondo, si è espresso Paolo Vinci nel saggio La critica e le forme. Considerazioni su Benjamin e Hölderlin, in «Almanacchi Nuovi», Rivista di filosofia e questioni sociali, 1, 1996, pp. 43-67, cfr. in part. le pp. 55-58: «Siamo

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Il compito del poeta e il sistema della verità davanti [in Benjamin] ad una visione dell’idea che nasce da letture kantiane e neokantiane, ma del tutto originalmente rielaborate. L’idea è qualcosa di infinito e illimitato che però non si circoscrive a una funzione essenzialmente regolativa, bensì mostra di avere un massimo di capacità di determinazione del sensibile. […]. Quel che viene chiamato “orientale” è […] la forza critica capace di dare alla creazione artistica la legge “propria”, in grado di spingerla in direzione della più pura oggettivazione […] [con] un bilanciamento tra forma e informità. […] è con il ruolo del divino, […] nella seconda stesura e, infine, con la nuova concezione della morte [del poeta come centro delle relazioni strutturanti], che l’orientale compare con tutta la sua forza determinante. Esso produce, pur nel superamento della forma, un effetto di equilibrio, qualcosa che a ragion veduta si può definire “sobrio” […] [una] cesura […] [un] presentarsi, nel cuore stesso di un determinato testo poetico, della sua condizione». 21 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 120; trad. it. cit., p. 126. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 120; trad. it. cit., p. 127. Cfr. ivi, p. 120; trad. it. cit., pp. 126-127: «Gli dei significano, per il poeta, l’incommensurabile strutturazione formale [Gestaltung] del suo destino, mentre i viventi hanno la funzione di garantire che anche l’estensione più ampia dell’accadere rientri nell’ambito del destino poetico. Questa determinazione del destino in virtù del mondo poetico costituisce l’oggettività del mondo poetico». 24 Ivi, p. 120; trad. it. cit., p. 126. 25 Ibid. È stata leggermente modificata la traduzione, per mettere in risalto la dimensione del compimento. 26 Cfr. Sul programma della filosofia futura, dove la verità coincide con l’unità sistematica: «Quanto più imprevedibile e audace si annuncia lo sviluppo della filosofia futura, tanto più profondamente essa deve lottare per quella certezza che ha il suo criterio nell’unità sistematica, o nella verità» (Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 158; trad. it. cit., p. 214). 27 W. Benjamin, Über die Wahrnehmung (probab. ottobre 1917), frammento 19, in GS, VI, pp. 33-38. 28 Ivi, pp. 36-38. 29 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § 59, p. 212; trad. it. cit., p. 186. 30 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, cit., Bände III-IV, B 178, p. 188; trad. it. cit., p. 164. 31 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 121; trad. it. cit., p. 128. 32 Ivi, p. 121; trad. it. cit., p. 128. 33 Ivi, p. 122; trad. it. cit., p. 128. 34 Cfr. ivi, pp. 121-122; trad. it. cit., p. 128: «Il dio cessa di determinare il cosmo del canto, la cui essenza si sceglie invece, liberamente, l’oggettività, con l’arte: il cosmo poetico porta il dio, poiché gli dei sono già diventati l’essere oggettivato del mondo, nel pensiero». Cfr. subito dopo la spiegazione che infine Benjamin dà della parola geschickt, che riferita ai viventi significa che essi diventano funzioni del destino poetico, come il dio diventa funzione e oggetto del destino poetico, così che il centro vero della poesia appare come arte, canto e, come si vedrà, rapporto del poeta con il mondo e coraggio per la morte che questo rapporto provoca: «L’estensione spaziale dei viventi si determina nell’intervento temporalmente interiore del poeta: si chiarisce così il senso della parola geschickt – nella stessa singolarizzazione con cui il popolo si è trasformato in una serie di funzioni del destino. “Gut auch sind und geschickt einem zu etwas wir” – il dio è diventato oggetto nella sua morta infinitezza, il poeta si impadronisce di lui. Gli ordini del popolo e di Dio, già separati, vengono a costituire una sola unità, nel destino del

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11. Il poeta e gli dei: tempo messianico e conoscenza compiuta poeta. È manifesta l’identità molteplice in cui sono superati il popolo e Dio, quali condizioni dell’esistenza sensibile. A un altro compete il centro di questo mondo» (ivi, pp. 121-122; trad. it. cit., p. 128, traduzione modificata). Cfr. l’ultima strofa della poesia Blödigkeit: «Gut auch sind und geschickt einem zu etwas wir, | Wenn wir kommen, mit Kunst, und von den Himmlischen | Einen bringen. Doch selber | Bringen schickliche Hände wir [Buoni anche siamo e inviati a qualcuno per qualcosa, noi quando veniamo, con arte, e dei celesti uno portiamo. Ma noi stessi portiamo mani opportune]» (F. Hölderlin, Werke und Briefe, cit., Band 1, p. 96; trad. it. Timidezza, a cura di G. Agamben, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. 135).

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12. Il coraggio del poeta come “poetato” e principio spirituale dell’esperienza

L’unità che è alla base delle due poesie che Benjamin pone a confronto si rivela essere non il popolo, né il dio, ma la funzione del poetato, come centro dei collegamenti, come «unità della funzione del momento che connette e di quello che è connesso»1 che si presenta come coraggio2. Il coraggio, come «atteggiamento verso il mondo», non è una proprietà ma una relazione, è la «relazione del’uomo col mondo e del mondo con l’uomo»3, è il «principio spirituale»4 che si determina come virtù etica e come conoscenza che pone relazioni pure intuitivo-spirituali per l’esperienza, che è la relazione sensibile e spirituale del poeta e dell’uomo con il mondo. Il coraggio del poeta, il quale ha in comune con la morte «un mondo intuitivo»5, si caratterizza come «dedizione al pericolo che minaccia il mondo»6, capacità da parte del poeta di affrontare nella propria morte l’incondizionato stesso come pericolo per sé che in questo processo diventa pericolo per il mondo e insieme viene superato, e la potenza delle forze che si oppongono all’incondizionato. Questo permette all’incondizionato stesso di raggiungere il mondo, di essere il fondamento per la relazione in esso e con esso, il fondamento della sua forma spirituale, poichè «nella morte le forze immense – che circondano quotidianamente il corpo, come cose limitate, queste forze insieme si liberano e si stabilizzano»7, si trasformano e si acquietano in lui in un’oggettivazione dell’incondizionato e in una strutturazione dell’esperienza che fa nascere per l’umanità un nuovo mondo, il mondo mitico dell’eroe morto, «saturo di pericolo»8. Questo è il mondo dove «regna sovrano un principio di ordine spirituale»9, che lo determina come mondo volto nella direzione dell’eticità e strutturato in modo puro (non empirico) nelle determinazioni relazionali e funzionali intuitive e spirituali della conoscenza, mentre nella versione precedente della poesia l’informità della «vita era ancora condizione preliminare della morte, la forma aveva origine nella natura, l’intuizione e la figura non ricevevano la loro forma conclusa da un principio spirituale»10 come «puro fondamento della forma»11 della vita. Questo principio spirituale è caratteriz www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

zato dall’«identificazione del poeta eroico con il mondo»: il poeta è il centro delle relazioni intuitivo-spirituali e il principio «della sovranità assoluta della relazione»12 nei confronti del mondo dell’esperienza, con cui ha il legame più intimo e in cui si rispecchia nel dargli struttura teoretica. Dal poeta hanno origine tutte le identità intuitive e spirituali, i nessi funzionali propri dell’esperienza non empirica, spirituale (come unità della conoscenza pura e suo simbolo)13 che egli ha della realtà. Questo legame, questo principio «della sovranità assoluta della relazione» è per Benjamin il principio del poetato in genere, che si configura in questa poesia particolare come coraggio, «come intimissima identità del poeta col mondo, di cui sono emanazioni tutte le le identità del momento intuitivo e di quello spirituale di questa poesia»14. Il mondo del coraggio del poeta, la relazione, si presenta come mondo della sua morte, del pericolo e del superamento del pericolo (sul quale, come fondamento della forma, si fonda la bellezza della poesia), in cui sono uniti insieme tutti gli ordini: «la forma infinita e suprema e l’informità, la plasticità temporale e l’esistenza (Dasein) determinata nello spazio, l’idea e la sensibilità»15. Qui ogni funzione sensibile o ideale della vita è destino, è ambito etico-conoscitivo del procedere poetico nella strutturazione di un mondo di esperienza etica, di conoscenza e di arte. Nella morte come raccoglimento, come unificazione di tutte le relazioni, è l’origine del canto come «complesso (Inbegriff) di tutte le funzioni», dove nascono le idee dell’«arte» e del «vero» come «espressione dell’unità fondante»16, del momento fondativo della poesia e del sistema della conoscenza come forme dell’esperienza che si configurano come sistemi di pure funzioni relazionali. Il poeta e il canto (il sistema) si identificano nel cosmo della poesia: il poeta è il confine con la vita, informe e irrelata, cui deve dare forma ponendosi immobile e passivo17 (poiché il coraggio è passività, timidezza) al centro delle relazioni, dove le «forze sensibili e […] l’idea»18 lo circondano, rappresentano la dimensione naturale e la dimensione ideale della sua esistenza, e contengono in sé la legge del canto, la legge d’identità che governa il suo mondo come sistema filosofico estetico, etico e conoscitivo. Gli dèi sono diventati simbolo, «segno della vita infinita, che tuttavia confina con lui»19, dell’esperienza spirituale etica dell’incondizionato che il poeta attinge e porta in sé. Egli si pone come centro, come «principio della forma (Gestalt), come principio che delimita»20 e dà forma teoretica, fondazione critica all’esperienza sensibile e spirituale, mantenendo distanza rispetto a ogni forma e al mondo, poichè è il principio della loro unità funzionale. Questa distanza è espressa nella poesia nella «imperiosa cesura»21 del  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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12. Il coraggio del poeta come “poetato” e principio spirituale dell’esperienza

verso finale, cesura che rimanda a quel principio orientale, che «supera continuamente […] il principio greco della forma»22, come momento critico e connettivo. Esso è rappresentato dal poeta che attinge al condizionato (e alla condizione in esso) e all’incondizionato, entrambi governati dalla stessa legge teoretica, la legge d’identità, che costruisce un mondo d’esperienza.

Note 1

Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 122; trad. it. cit., p. 128. «Ma dobbiamo mettere ancora in luce un luogo particolarmente centrale di questa connessione – nel quale il confine del poetato con la vita è spostato più avanti, lontanissimo, dove l’energia della forma interna si rivela tanto più possente, quanto più la vita significata è fluttuante e informe. In questo luogo diventa visibile l’unità del poetato, il dominio di tutti i collegamenti appare sovrano, e si può riconoscere con la massima chiarezza la diversità delle due versioni, e quanto sia approfondita l’ultima rispetto alla prima. […] [Nella seconda versione] la dualità dei mondi [del poeta e quella realtà in cui minaccia la morte nei panni della divinità] è scomparsa, con il morire è venuta a cadere la proprietà del coraggio, è data soltanto l’esistenza del poeta, e null’altro. […] [La] possibilità del confronto [delle due redazioni] non è data […] dall’identità di un elemento, ma solo dalla connessione delle due poesie, rispetto a una funzione. Si tratta del solo tipo di funzione che possa essere evidenziato, il poetato. I due carmi sono collegati per il loro poetato – e precisamente per un atteggiamento verso il mondo. Si tratta del coraggio, che, quanto più profondamente viene inteso, tanto meno è una proprietà, una qualità, tanto più diventa una relazione dell’uomo col mondo e del mondo con l’uomo. Il poetato della prima versione conosce il coraggio solo come proprietà. L’uomo e la morte stanno l’uno di fronte all’altra, senza avere in comune un mondo intuitivo» (ivi, pp. 122-123; trad. it. cit., pp. 128-129). Qui è evidente come la vita “significata” attraverso la funzione poetico-linguistica e teorica del poetato, nella sua dimensione infinita e informe sia da esso formata come “forma interna”. 3 Ivi, p. 123; trad. it. cit., p. 129. 4 Ivi, p. 123; trad. it. cit., p. 130 (traduzione modificata: il termine tedesco “geistig” è stato tradotto in modo letterale con il termine “spirituale”). 5 Ivi, p. 123; trad. it. cit., p. 129. 6 Ivi, p. 123; trad. it. cit., p. 130. 7 Ivi, pp. 123-124; trad. it. cit., p. 130. 8 Cfr. ivi, pp. 123-124; trad. it. cit., p. 130, l’intero passo: «Coraggio è il senso della vita dell’uomo che si abbandona al pericolo, e in tal modo, nella propria morte, dilata questo pericolo, lo trasforma nel pericolo del mondo e insieme lo supera. La grandezza del pericolo nasce nell’uomo coraggioso – e solo in quanto lo colpisce, nella sua piena dedizione al pericolo, quest’ultimo colpisce il mondo. Ma nella sua morte è superato, ha raggiunto il mondo, che non è più minacciato dal pericolo; nella morte le forze immense – che circondano quotidianamente il corpo, come cose limitate –, queste forze insieme si liberano e si stabilizzano. Nella morte queste forze che minacciavano il coraggioso, si sono già trasformate, si sono acquietate in lui. (Questa è l’oggettivazione delle forze che ha già 2

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Il compito del poeta e il sistema della verità avvicinato al poeta l’essenza degli dei). Il mondo dell’eroe morto è un nuovo mondo mitico, saturo di pericolo. Questo è precisamente il mondo della seconda stesura». 9 Ivi, p. 124 ; trad. it. cit., p. 130. 10 Ivi, p. 123; trad. it. cit., p. 129 (traduzione modificata). Cfr. più avanti: «Il dualismo: uomo e morte, [nell’ultima redazione] poteva poggiare solo su un facile sentimento della vita. Veniva a cadere, quando il poetato stesso si raccoglieva in un’unità più stretta e profonda, e un principio spirituale – il coraggio – dava spontaneamente forma alla vita» (ivi, p. 123; trad. it. cit., pp. 129-130, traduzione modificata). 11 Ivi, p. 123; trad. it. cit., p. 129. 12 Ivi, p. 124; trad. it. cit., p. 130. 13 Si tratta di quella concezione dell’esperienza metafisica, a cui si è già accennato e che sarà al centro del prossimo capitolo, che Benjamin svilupperà in Sul programma della filosofia futura, come sistema della conoscenza pura (dove questo comprende anche l’etica e l’estetica, quindi tutta la filosofia) ed esibizione simbolica sensibile di questo sistema. 14 Ivi, p. 124; trad. it. cit., p. 130. 15 Ivi, p. 124; trad. it. cit., p. 120. 16 Ivi, p. 124, trad. it. cit., p. 131 . 17 Cfr. P. Szondi, Versuch über das Tragische, cit., pp. 162-163; trad. it. cit., pp. 15-16: «[Un frammento di Hölderlin redatto tra il 1798 e il 1800] illustra il significato della tragedia. […] [La] dialettica, per cui ciò che è forte di per sé [e originario, la natura] può manifestarsi soltanto come debole e ha bisogno di qualcosa di debole perché la sua forza possa apparire, fonda la necessità dell’arte. In essa la natura non appare più “propriamente”, ma tramite la mediazione di un segno. Tale segno nella tragedia è l’eroe. Egli, non riuscendo ad avere ragione della potenza della natura e venendo annientato da essa, è “insignificante” e “inefficace”. Ma nel soccombere dell’eroe tragico, quando il segno è = 0, la natura si palesa vittoriosa “nella sua dote più forte” ed essa si presenta “come ciò che è originario”. Così Hölderlin interpreta la tragedia come sacrificio che l’uomo offre alla natura per aiutarla a manifestarsi in modo adeguato. La sua tragicità consiste nel fatto che egli può prestare questo servizio, che dà significato alla sua esistenza, soltanto nella morte, in cui egli come segno “in se stesso, in quanto insignificante, viene posto come = 0. Se questa lotta di natura e arte, il cui obiettivo invero è la conciliazione di entrambe, secondo la concezione hölderliniana si disputa nella tragedia come tale, essa è tematizzata solo in quella tragedia la cui composizione è accompagnata dagli scritti teorici [la Morte di Empedocle]». Cfr. il frammento di Hölderlin a cui Szondi si riferisce, Die Bedeutung der Tragödien, in F. Hölderlin, Sämtliche Werke, cit., Band IV, p. 274; trad. it. cit., p. 94: «la luce della vita e il fenomeno appartengono propriamente alla debolezza di ogni totalità. Ora, nel tragico il segno è in se stesso insignificante, inefficace, mentre emerge appunto ciò che è originario. L’originario può infatti propriamente apparire solo nella sua debolezza: nella misura in cui il segno in se stesso, in quanto insignificante, viene posto = 0, può allora rappresentarsi anche ciò che è originario; il celato fondamento di ogni natura. Se la natura si rappresenta propriamente nella sua dote più debole, allora il segno è = 0 quando essa si rappresenta nella sua dote più forte». 18 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 125, trad. it. cit., p. 131. 19 Ibid. 20 Ibid. Il passo continua così: «[Il poeta è visto] come principio che delimita, e che porta anche e addirittura il proprio corpo. Il poeta porta le proprie mani – e i celesti» (ibid.). 21 Ibid. 22 Ivi, p. 124; trad. it. cit., p. 131.

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13. L’“elemento orientale” come principio infinito della moralità

In questo mondo del morire poetico appare dunque «l’elemento orientale»1 il principio mistico informe e infinito, il principio che supera i confini, che «crea un cosmo spirituale sulla base di relazioni intuitive pure, relazioni dell’esistenza (Dasein) sensibile, in cui lo spirituale è soltanto espressione della funzione che tende all’identità»2. Questo è il principio che governa il cosmo poetico e presenta l’idea in modo sensibile come funzione dell’attività contemplativa del pensiero nella connessione di concetti e idee, e fa delle intuizioni espressioni del rapporto delle funzioni pure della sensibilità e dei concetti dell’intelletto e simboli dell’idea che li connette regolativamente, in un’identità che unifica tutti gli apparenti elementi ideali e sensibili rivelandoli come relazioni di funzioni pure intuitive, concettuali e ideali. Questo elemento orientale, che Benjamin non giustifica esplicitamente, ma presenta come il momento dell’«illimitato» (unbegrenzte) – l’aorgico hölderliniano – che si pone in opposizione al «fenomeno delimitato nella propria forma, in quiete e in sé concluso»3, è il momento che connette il limitato e l’illimitato ed è confine tra loro. Nell’interpretazione benjaminiana di Hölderlin il principio orientale, come informe fonte della forma, supera e controbilancia la forma greca e mostra così la via per una «sobrietà» poetica che è legge formatrice4 e logica poetica5, equilibrio e legge calcolabile6, e si esprime, come si chiarirà più avanti in riferimento alle traduzioni di Hölderlin da Sofocle, nella “cesura” come interruzione del ritmo: E infatti solo ora devono essere citate le parole hölderliniane della “santa sobrietà” (Nüchternheit), di cui solo ora è stato determinato esattamente il senso. Si è notato che queste parole contengono la tendenza delle sue creazioni ultime. Nascono dalla sicurezza profonda (innige) con cui esse si situano nella propria vita spirituale, in cui la sobrietà è ora permessa, comandata, poiché essa è santa in se stessa, indipendentemente e al di là di ogni sublimazione. Questa vita è ancora quella del mondo greco? […] Questa vita è plasmata secondo forme proprie del mondo greco, ma – ed

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Il compito del poeta e il sistema della verità è questo il punto decisivo – non soltanto secondo queste forme; proprio l’elemento greco nell’ultima stesura è superato e controbilanciato da un altro, che avevamo chiamato orientale (certo senza una giustificazione esplicita). Quasi tutti i cambiamenti dell’ultima redazione vanno in questa direzione: le immagini, l’introduzione delle idee, e infine il nuovo significato della morte, tutte queste variazioni rappresentano il momento dell’illimitato che si contrappone al fenomeno delimitato nella propria forma […]7.

Il principio orientale è per Benjamin il momento dell’incondizionato, della legge etica che non può avere forma conclusa né un contenuto particolare, ma diventa il principio spirituale supremo, che dà origine alla forma spirituale: egli chiamerà questo principio das Ausdruckslose, il «privo di espressione»8, nel saggio del 1921 su “Le affinità elettive” di Goethe. Nel passo di questo saggio in cui introduce il principio del “privo di espressione”, Benjamin si riferisce, citando le hölderliniane Note all’Edipo, alla struttura dei tardi inni di Hölderlin e alle sue traduzioni da Sofocle (dove si passa, in un’ottica di filosofia della storia, dal dissidio arte-natura all’espèrio “rapporto di infedeltà”9 tra uomo e dio), caratterizzate dalla interruzione controritmica, dalla “cesura”10 come espressione della “sobrietà giunonica” – termine che egli usa anche in Due poesie di Friedrich Hölderlin11 –, e alla figura tragica dell’eroe muto che non può articolare la dimensione dell’incondizionato, già incontrata in Destino e carattere: Categoria del linguaggio e dell’arte […], il privo d’espressione non si può definire più rigorosamente che mediante un passo delle annotazioni di Hölderlin all’Edipo, […] di fondamentale importanza […] per […] [la teoria] dell’arte in generale […]: “Per questo motivo nella ritmica successione delle rappresentazioni in cui il trasporto si rappresenta, diviene necessario ciò che nella metrica si chiama cesura, la pura parola, l’interruzione controritmica, così da fronteggiare il trascinante alternarsi delle rappresentazioni giunto al suo culmine in modo tale che in seguito appaia non più l’alternanza della rappresentazione, ma la rappresentazione stessa”. La “sobrietà occidentale, giunonica”, che Hölderlin […] prospettava come meta quasi inaccessibile di ogni arte tedesca, è solo un’altra definizione di quella cesura in cui vien meno – con l’armonia – ogni espressione, per far posto a una forza priva d’espressione pur entro la ricchezza dei mezzi artistici. Questa forza non è mai stata più chiara che nella tragedia greca da un lato, e dall’altra negli inni di Hölderlin. È percettibile nella tragedia come ammutolire dell’eroe, e nell’inno come arresto del ritmo. […] [In esso] qualcosa, al di là del poeta, chiude la bocca alla poesia12.

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13. L’“elemento orientale” come principio infinito della moralità

Benjamin concepisce il “privo d’espressione” come «parola morale»13, come forza critica. Esso, come in Hölderlin, è un concetto di filosofia della storia, che instaura un passaggio dal mito all’etica. Il privo d’espressione interviene nell’opera d’arte e la compie, superando in essa la falsa totalità dell’apparenza fenomenica naturale e indicandovi il contenuto di verità morale, l’essenza, così da farne un simbolo del mondo morale: Il privo d’espressione è la potenza critica, che se non può separare, nell’arte, l’apparenza dall’essenza, vieta però loro di mescolarsi. Esso possiede questa autorità come parola morale. Nel privo di espressione appare la potenza superiore del vero, che determina, secondo le leggi del mondo morale, la lingua di quello reale. […] Esso compie l’opera riducendola a un «pezzo», a un frammento del vero mondo, al torso di un simbolo14.

L’opera d’arte diventa un frammento simbolico del mondo della verità, del mondo morale, nell’impatto con il “privo di espressione”, che è il principio linguistico simbolo dell’incondizionato. L’Ausdrucksloses è in Benjamin la rappresentazione, nel linguaggio non semantico ma simbolico che egli teorizza nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo15, della legge morale immessa da Dio nella creazione del mondo e conosciuta dall’uomo come idea metafisica di libertà nel sistema della filosofia. Per Benjamin la legge morale, che egli si rappresenta come l’incondizionato kantiano, determina e struttura la realtà (l’esperienza) in nessi concettuali e ideali fondati sul linguaggio simbolico e teologico della dottrina, dell’ambito religioso e metafisico fonte delle idee16. La legge morale, che diventa forza critica nell’opera d’arte, fa contemporaneamente della realtà sensibile, dei fenomeni, il simbolo linguistico della legge morale (e in questo c’è un rimando al § 59 della Critica della facoltà di giudizio). Questa concezione teologica del linguaggio e del simbolo (e dell’ambito percettivo che lo riguarda) è esposta nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, dove la trattazione del linguaggio è legata al primo capitolo della Genesi e alla Creazione divina del mondo tramite la parola creatrice. La parola creatrice è la forza che imprime nella Creazione il marchio della moralità: essa diventa nel mondo umano “nome” conoscente e nel mondo delle cose linguaggio materiale che rimanda alla moralità della Creazione. Al linguaggio, al segno materiale e al nome è attribuita una funzione simbolica di espressione del «non comunicabile»17, che si determina come contenuto etico. Nel linguaggio il “nome”, come funzione conoscitiva pura del linguaggio umano, può  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

avere funzione simbolica18 e, come parola morale, viene investito di un ruolo teologico: esso rappresenta la parola creatrice (Wort) divina che condiziona il mondo moralmente. Anche un oggetto artistico può rappresentare, al di là della sua fenomenicità e apparenza, in un segno simbolico, la parola creatrice e il mondo morale della verità. L’Ausdrucksloses è la rappresentazione percettiva in un simbolo della moralità della Creazione nell’opera d’arte: questa può darsi anche nel linguaggio muto delle cose. Il “nome”, apostrofando questo contenuto morale nel sistema della filosofia, simbolizzandolo come idea morale, dà voce sonora alla moralità che l’Ausdrucksloses rappresenta. Benjamin concepisce, in un frammento preparatorio al saggio su “Le affinità elettive” di Goethe, l’opera d’arte che viene investita della forza morale del “privo d’espressione”, dell’incondizionato che si rappresenta linguisticamente in un simbolo e carica di simbolicità l’oggetto artistico, come «percezione utopica […] condizionata moralmente»19. L’Ausdrucksloses è «da interpretare come percezione e simbologia»20, come espressione quindi percettiva del contenuto spirituale etico in una forma simbolica. Benjamin parla della «sfera della percezione come figura (Gestalt) della Creazione (Schöpfung)»21, come ambito, mai completamente raggiunto nell’arte (che, nella grande arte, ha la Creazione come tema e contenuto), della rappresentazione intuitiva pura della Creazione divina come Creazione del mondo da cui il Creatore si distacca con un atto morale, condizionandola moralmente e costituendo a partire da essa la sua percezione (come percezione buona, che costituisce il vedere), come simbolo, figura del mondo morale: L’essenza della Creazione (Schöpfung) è esemplare del fatto che la percezione sia condizionata moralmente. Nella misura in cui un’opera sfonda l’ambito dell’arte e si fa percezione utopica, essa è Creazione ed è sottoposta a categorie morali […]. La moralità della Creazione imprime nell’opera il marchio del privo di espressione. In riferimento all’inizio della Genesi si può spiegare l’ordine, secondo il quale la Creazione può diventare percepibile solo moralmente22.

L’Ausdrucksloses è dunque la parola inarticolata della moralità della Creazione, al di là del lato di fenomenicità e apparenza (Schein), che pure è necessario, insito in essa come natura. La moralità della Creazione si rende percepibile nella percezione utopica soltanto simbolicamente e il suo simbolo linguistico è l’Ausdrucksloses. È così confermata, nella presenza del riferimento a Hölderlin nel  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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13. L’“elemento orientale” come principio infinito della moralità

passo del saggio di Benjamin su “Le affinità elettive” di Goethe riportato sopra, l’affinità dell’Ausdruksloses con il principio orientale e la sua interpretazione in senso etico, e appare chiaro il fatto che si stia definendo in Benjamin negli anni 1914-1915 una visione dell’etica con una forte impronta kantiana, che continuerà ad essere presente nei suoi scritti anche dopo il 1921. Qui nel saggio hölderliniano l’elemento orientale non viene meglio identificato, ma Benjamin dice che in esso si cela un problema determinante, non solo per la conoscenza di Hölderlin, ma per la conoscenza in genere, che non può ulteriormente indagare. Questo problema sembra però rimandare alla sfera eticoreligiosa, all’ambito teologico della dottrina cui la filosofia si rivolge, come si vedrà in Sul programma della filosofia futura, per trovare la fonte delle idee e della totalità e unità del sistema dell’esperienza metafisica come unità continua della conoscenza pura, e del rapporto di questo sistema con gli ambiti dell’etica e dell’estetica23. Qui il dominio non filosofico ma mitico del poetato non porta secondo Benjamin al mito, ma a «connessioni (Verbundenheiten) mitiche»24: queste sono relazioni spirituali pure nella dimensione del mito che nell’opera costituiscono una forma unica non mitologica e non mitica, che egli non può definire più esattamente. Benjamin distingue all’interno del mito un ambito ulteriore, completamente formale e funzionale25, che lo porta a superare la dimensione mitica tradizionale ed intuitiva nella direzione di una formalizzazione gnoseologica di essa. Si comincia a delineare il concetto di una sfera ulteriore rispetto a quella mitica, che sembra prendere forma filosofico-religiosa, dove questa forma veste il contenuto non esprimibile dell’incondizionato, dell’imperativo categorico, che come principio di autonomia e libertà non può avere nessun contenuto empirico. L’incondizionato diventa principio connettivo (come illimitato che confina con il limitato, come informe fonte della forma) di un sistema concettuale e ideale della conoscenza pura e metafisica di tutti i campi dell’esperienza umana. Proprio l’incondizionato è infatti la «vita interna», l’esperienza spirituale del valore etico, che Benjamin vede regnare nel mondo dell’ultimo Hölderlin, il cui rapporto con il mito il poeta esprime nelle parole «“Le leggende che si allontanano dalla terra | […] | si volgono verso l’umanità”»26.

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Il compito del poeta e il sistema della verità

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Note 1 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 124; trad. it. cit., p. 131. In un saggio appena più tardo del saggio su Hölderlin, Sul Medioevo (1916), Benjamin parla di uno “spirito asiatico”, di uno “spirito dell’Oriente” che definisce, in contapposizione con lo spirito medievale, con queste parole: «Anche lo spirito asiatico è caratterizzato da uno sprofondarsi incondizionato nell’assoluto, sul piano della filosofia e della religione. [...] La sua profonda diversità dallo spirito del Medioevo deriva dal fatto che l’assoluto a cui attinge il linguaggio delle sue forme gli è presente (gegenwärtig) e famigliare, costituisce il suo contenuto più possente. Lo spirito dell’Oriente dispone dei contenuti reali dell’assoluto – come è testimoniato già dall’unità dell’arte, della religione e della filosofia, e soprattutto dall’unità di religione e vita» (Über das Mittelalter, in GS, II, 1, p. 132; trad. it. Sul Medioevo, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. 166). Lo spirito orientale è qui il momento della presenza reale (la rappresentazione simbolica) dell’assoluto, dell’idea religiosa e filosofica che si potrebbe tradurre in termini filosofici nell’incondizionato, nel suo rapporto con la forma linguistica che lo esprime (nell’arte), e con la vita, con l’esperienza che determina. Esso pone in rapporto gli ambiti diversi della religione, della filosofia e dell’arte. Cfr. il saggio Sul programma della filosofia futura (1917-18), dove l’incondizionato, l’idea, nasce nella dimensione religiosa della dottrina, ma si legittima nel sistema della filosofia solo come idea sistematica, come totalità dell’esperienza (dove questa è la molteplicità della conoscenza pura) e possibile unione degli ambiti etico, estetico e conoscitivo, e come nucleo del rapporto tra religione e filosofia. L’idea è indicata nel termine Dasein; anche in Due poesie di Friedrich Hölderlin essa è l’assoluto come totalità dell’esperienza (che si espone simbolicamente come esistenza sensibile): «nelle idee deve essere ritrovata la ragione dell’unità e della continuità di quell’esperienza non volgare e non soltanto scientifica, ma metafisica. […]. Ma la fonte del Dasein sta nella totalità dell’esperienza, e solo nella dottrina la filosofia incontra un assoluto, come Dasein, e quindi quella continuità nell’essenza dell’esperienza che il neokantismo ebbe il torto di trascurare. […] Dire che una conoscenza è metafisica significa, in senso rigoroso: si riferisce, tramite il concetto originario della conoscenza, alla totalità concreta dell’esperienza – ossia al Dasein. Il concetto filosofico del Dasein deve legittimarsi a confronto con il concetto religioso di dottrina, ma quest’ultimo a sua volta deve legittimarsi a confronto con il concetto originario della teoria della conoscenza (dem erkenntnistheoretischen Stammbegriff ausweisen). Tutto ciò è solo un abbozzo […]. Ma la tendenza generale di questa nostra determinazione del rapporto della religione con la filosofia è di soddisfare in uguale misura a tre esigenze: in primo luogo a quella dell’unità virtuale di religione e filosofia, in secondo luogo all’esigenza di inserire nella filosofia la conoscenza della religione, in terzo luogo all’istanza di una tripartizione integrale del sistema» (Über das Programm der kommenden Philosophie, GS, II, 1, pp.167-170; trad. it. cit., pp. 224-227, traduzione modificata. Si è lasciato il termine tedesco Dasein nella traduzione). 2 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 124; trad. it. cit., p. 131 (traduzione modificata). 3 Ivi, p. 126; trad. it. cit., p. 132. 4 Cfr. P. Vinci, La critica e le forme. Saggio su Benjamin e Hölderlin, in «Almanacchi Nuovi», 1, 1996, p. 59: «In quanto modalità dell’efficacia delle idee, il principio orientale diventa generatore di sobrietà […] per cui si può parlare, nell’interpretazione benjaminiana, di via orientale alla sobrietà. […] Benjamin esprime un bisogno di alternanza, di limitazione reciproca tra la forma e l’informe, che riprende il dislocare hölderli-

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13. L’“elemento orientale” come principio infinito della moralità niano “fuoco celeste” e “sobrietà” in un gioco vicendevole di “proprio” ed “estraneo”. […] La sobrietà non coincide con un modello prefissato, ma è il risultato di una “logica poetica” capace di produrre bilanciamento ed equilibrio, di dare ordine, misura, ad una tensione insuperabile». Cfr. G. Carchia, Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Celuc Libri, Milano, 1979, pp. 65-67, sul Grund zum Empedokles, dove il destino di morte di Empedocle, come soluzione momentanea del conflitto tra organico e aorgico, è visto come destino tragico, come lotta destinata allo scacco, che porta però a un “di più” di conoscenza, all’autocoscienza, e dove viene indicato il modello di una nuova mediazione degli estremi, non più sacrificale ma anche non più tragica, nel Gegner, l’antagonista di Empedocle. 5 Cfr. F. Hölderlin, Anmerkungen zur Antigonä, in Werke und Briefe, cit., Band 2, p. 783; trad. it. Note all’“Antigone”, in Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, SE Studio Editoriale, Milano, 1987, p. 145: «La regola, la legge calcolabile dell’Antigone si rapporta a quella dell’Edipo […] di modo che l’equilibrio inclina più dall’inizio verso la fine […]. È questa una delle diverse successioni in cui rappresentazione, sentimento e ragionamento si sviluppano secondo una logica poetica. Così come la filosofia tratta sempre e soltanto una facoltà dell’anima, per cui la rappresentazione di questa unica facoltà forma un tutto e la pura e semplice connessione degli elementi di quest’unica facoltà vien detta logica, allo stesso modo la poesia tratta le diverse facoltà dell’uomo in modo tale che la rappresentazione di queste diverse facoltà formi un tutto e la connessione delle parti più autonome delle diverse facoltà possa essere detta ritmo, in senso superiore, o legge calcolabile». 6 Cfr. F. Hölderlin, Anmerkungen zum Oedipus, in Werke und Briefe, cit., Band 2, pp. 730-731; trad. it. Note all’“Edipo”, in F. Hölderlin, Scritti di estetica, cit., pp. 139-140: «La legge, il calcolo, il modo in cui un sistema di sensazioni, l’uomo intero, quando si sviluppa sotto l’influenza dell’elemento, e la rappresentazione e il sentimento e il ragionamento si producono l’uno dopo l’altro in diverse successioni, ma sempre secondo una regola sicura, tutto ciò nel tragico è maggiormente equilibrio che pura successione» (ivi, p. 730; trad. it. cit., p. 139). 7 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, pp. 125-126; trad. it. cit., p. 132 (traduzione modificata). 8 In un saggio di Benjamin del 1916, Socrate, si trova il primo accenno al “privo di espressione”, che viene caratterizzato come la luce dello “spirituale” che si irradia dalla creatività del genio emergendo dall’oscurità: «Lo splendore è vero solo se trionfa nella notte, solo allora è grande, solo allora è senza espressione (ausdruckslos). Colui che così si irradia è il genio, il testimone di ogni creazione veramente spirituale […] il genio […] [è] […] il “privo di espressione” (das Ausdruckslose) […] che emerge trionfalmente nella notte» (W. Benjamin, Sokrates, in GS, II, 1, p. 130; trad. it. Socrate, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., pp. 163-164. La traduzione è stata leggermente modificata, per mettere in risalto il concetto dell’Ausdrucksloses). 9 Cfr. P. Szondi, Versuch über das Tragisches, cit., pp. 163-165; trad. it. cit., pp. 17-19: «Le Anmerkungen zum Ödipus [Note all’Edipo], redatte da Hölderlin nel 1803, seguono insieme con quelle di Antigone gli inni più tardi […]. La definizione della tragedia in esse contenuta è vicinissima a quella fornita in precedenza [nel Grund zum Empedokles], ma riceve un significato nuovo dalla prossimità agli inni. Segno esteriore di questo mutamento è già la circostanza per cui la frequentazione hölderliniana del tragico adesso non si lega più alla sua produzione poetica, ma è connessa alla traduzione delle due tragedie di Sofocle. La soluzione tragica del rapporto oppositivo tra natura e arte, che nel tardo Hölderlin, concepita in modo più radicale, riguarderà il rapporto fra dio e uomo, non

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Il compito del poeta e il sistema della verità costituisce più il tema della sua poesia lirica. Certo Hölderlin non ha preso le distanze dalla dialettica tragica che aveva cercato di configurare nel Tod des Empedokles […]. Ma la concezione che egli ha del rapporto che intercorre fra dio e uomo è ora, per così dire, il tragico in forma immanente. Si tratta dell’idea dell’“infedeltà divina”. Hölderlin concepisce in chiave di filosofia della storia l’epoca in cui ha luogo l’azione dell’Edipo, così come anche il proprio tempo, quale età di mezzo, notte in cui “il dio e l’uomo – affinché il corso del mondo non conosca lacune e il ricordo dei celesti non finisca – comunicano nella forma, dimentica di tutto, dell’infedeltà: poiché l’infedeltà divina si ricorda più di tutto” [F. Hölderlin, Anmerkungen zum Oedipus, in Werke und Briefe, cit., Band 2, p. 736; trad. it. cit., p. 101]. Questa dialettica di fedeltà e infedeltà, di memoria e di oblio, è il tema fondamentale delle tarde poesie di Hölderlin. Esse definiscono e realizzano a un tempo il compito del poeta in un’epoca alla quale gli dèi possono essere vicini soltanto nella loro lontananza. Hölderlin è deciso, nella notte in cui gli dèi sono lontani – che comunque costituisce un presente, il solo che non annienti l’uomo – a restare saldo e a preparare il loro futuro ritorno. Ciò conferisce alla sua poesia, per esempio a Friedensfeier [Festa di pace], la struttura utopica che le è propria […]. Il futuro chiliastico in cui gli dèi saranno vicini irrompe anzitempo nel presente, che non ne è all’altezza; scocca la scintilla, e nell’incendio cui essa dà luogo la notte si tramuta in giorno fiammeggiante. [Edipo] […] nella visione di Hölderlin […] raggiunge il ricongiungimento con dio. Ma proprio questo “illimitato diventar uno”, spiegano le Note, deve trapassare nell’“illimitato scindersi”, affinché divenga riconoscibile il portentoso che esso rappresenta. Il giorno conquistato con la forza si ribalta tragicamente in una notte ancora più oscura: la tenebra dell’Edipo accecato». 10 Cfr. a proposito ancora G. Carchia, Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, cit., pp. 67-71. Carchia mette in risalto il cambiamento nell’Hölderlin delle traduzioni da Sofocle e degli ultimi inni – in cui è presente una dialettica tra ellenico ed espèrio che si pone come una filosofia della storia, nel passaggio dalla contrapposizione orizzontale artenatura al rapporto verticale uomo-dio (come trascendenza espèria e del cristianesimo) – rispetto alla conclusione irrisolta, e solo accennata nel Gegner, del Grund zum Empedokles. Nelle traduzioni sofoclee l’equilibrio tra forma e informe, il luogo della legge calcolabile delle rappresentazioni, è data dalla cesura: sia nell’Edipo che nell’Antigone essa è rappresentata dal discorso di Tiresia. 11 «Il poeta porta le proprie mani – e i celesti. L’imperiosa cesura di questo luogo esprime la distanza che il poeta deve avere rispetto a ogni forma e al mondo, poiché è la loro unità» (Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 125; trad. it. cit., pp. 131-132). 12 Goethes Wahlverwandtschaften , in GS, I, 1, pp. 181-182; trad. it. cit., p. 234. La traduzione è stata modificata inserendo la traduzione del passo di Hölderlin della traduzione italiana delle Note a Sofocle, in F. Hölderlin, Scritti di estetica, cit., p. 140. Sono stati riportati anche i corsivi dell’originale hölderliniano, che però Benjamin non riporta. 13 Goethes Wahlverwandtschaften, in GS, I, 1, p. 181; trad. it. cit., p. 234. 14 Ivi, p. 181; trad. it. cit., p. 234. Si veda a proposito anche Über Schein (1920-21), un frammento preparatorio a “Le affinità elettive” di Goethe, in GS, I, 3, pp. 831-833; trad. it. Sull’apparenza, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 19191922, cit., pp. 261-263, dove la definizione dell’Ausdrucksloses è pressocchè identica a quella del saggio, ma al posto del riferimento al linguaggio c’è un riferimento diretto al simbolico del linguaggio: «Il privo d’espressione (das Ausdruckslose) è quella potenza critica che, se non riesce certo a separare nell’arte l’apparenza dal vero, vieta però loro di mescolarsi. Questo potere esso ha, però, come parola morale. Nel privo di espressione

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13. L’“elemento orientale” come principio infinito della moralità si mostra la sublime potenza (Gewalt) del vero, così come esso determina, secondo le leggi del mondo morale, il simbolismo del mondo esistente (der seienden). La vita tremante [dell’opera d’arte] non è mai simbolica, poichè è priva di forma, ancora meno lo è la vita bella, poichè è apparenza. Ma proprio la vita fissata, in quanto irrigidita e mortificata, può ben accennare al simbolico. Lo fa grazie al potere (Gewalt) del privo di espressione» (ivi, p. 832; trad. it. cit., p. 263). 15 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, pp. 140-157; trad. it. cit., pp. 177-193. 16 Cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 168; trad. it. cit., pp. 224-225: «ogni conoscenza filosofica trova la sua espressione esclusivamente nella lingua. […] Un concetto della conoscenza nato dalla riflessione sulla sua natura linguistica creerà un concetto corrispondente dell’esperienza, che abbraccerà anche settori che Kant non è veramente riuscito a collocare nel suo sistema. Di queste sfere la prima e suprema è quella della religione. E così l’istanza che rivolgiamo alla filosofia futura può essere formulata in ultima analisi in questi termini: sulla base del sistema kantiano creare un concetto della conoscenza a cui corrisponda il concetto di un’esperienza la cui conoscenza è dottrina. Una filosofia siffatta sarebbe essa stessa teologia, nella sua parte generale, oppure quest’ultima le sarebbe subordinata, nella misura in cui comprende anche elementi di filosofia della storia. L’esperienza è la molteplicità unitaria e continua della conoscenza». 17 Cfr.Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 156; trad. it. cit., p. 192. 18 La questione del lato simbolico e teologico del linguaggio, che verrà trattata più avanti in riferimento al saggio Sulla lingua in generale sulla lingua dell’uomo, sarà importante per la concezione dell’esperienza nel saggio Sul programma della filosofia futura. Cfr. a proposito del simbolo legato al “nome”, che oltre al ruolo di forma del linguaggio umano conoscente diventa simbolo della parola (Wort) creatrice, della dimensione morale che Dio attribuisce alla Creazione, ed è restaurazione redentiva di questa dimensione, B. Regazzoni, Walter Benjamin tra storia naturale e redenzione, in «Annali del dipartimento di filosofia», 1, 1985, p. 197, nota 49: «A partire da[l nome come simbolo] […] si aprirebbe lo spazio per una ricerca sul contenuto positivo della nozione di simbolo in Benjamin. È qui questione del simbolo mistico […] del quale […] [Benjamin] riconosce l’esser decaduto, l’improponibilità; ma del quale, pure, […] egli mostra la possibilità della ‘restaurazione’ (risulta qui decisivo il concetto ebraico di Tikkun [restaurazione: cfr. G. Scholem, Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Zürich, 1960; trad. it. La Kabbalà e il suo simbolismo, Einaudi, Torino, 1980, pp. 144-150]) che contiene al proprio interno il riferimento alla dimensione storica; capacità di riferimento, questa, che Benjamin considerava connaturata all’ebraismo». Questa dimensione teologica della simbolicità nel linguaggio, che Benjamin aveva sicuramente recepito dalla dottrina cabbalistica nelle sue conversazioni con Scholem tra il 1915 e il 1917, si lega alla visione ebraica della storia come storia messianica della redenzione. Così Benjamin instaura il rapporto tra simbolo e moralità – dove essa si configura come il regno messianico della giustizia e della libertà – in una dimensione temporale messianica di rappresentazione immanente nel simbolo di un mondo futuro e compiuto della moralità: il mondo della verità messianica, della conoscenza metafisica compiuta. 19 W. Benjamin, Kategorien der Ästhetik (1920-21), in GS, I, 3, p. 830; trad. it. Categorie dell’estetica, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, cit., p. 259. 20 Ivi, p. 828; trad. it. cit., p. 277.

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Il compito del poeta e il sistema della verità 21

Ivi, p. 830; trad. it. cit., p. 259 (traduzione modificata). Ivi, p. 830; trad. it. cit., pp. 259-260 (traduzione modificata). 23 Cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 167-171; trad. it. cit., pp. 224-227. 24 Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 126; trad. it. cit., p. 132. 25 In Benjamin è chiara la distinzione tra forma mitologica e forma mitica, dove quest’ultima è l’ambito formale di connessioni relazionali («Il mitologico si rivela mito solo in proporzione alla sua interconnessione», ivi, p. 109; trad. it. cit., p. 115); ma si accentua in lui anche la distinzione, all’interno del mito, della dimensione della connessione stessa. Infatti nel poetato, come dimensione affine a quella mitica, non si tratta tanto di elementi mitici, (così Benjamin chiama approssimativamente gli elementi del poetato), del mito stesso, ma di «un’unità nata dalla forza degli elementi mitici in conflitto tra loro» (ivi, p. 108; trad. it. cit., p. 114): nell’analisi della poesia non si arriva al mito ma a questa unità. 26 Ivi, p. 126; trad. it. cit., p. 133.

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Parte terza Esperienza e compito infinito. Il progetto di revisione della filosofia di Kant e della scuola di Marburgo e il saggio Sul programma della filosofia futura (1917-18)

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14. L’amicizia con Gershom Scholem a Berlino e con Felix Noeggerath a Monaco (1915-17)

Benjamin conobbe Gershom Scholem, che si stava già occupando delle fonti della tradizione ebraica, oltre che di matematica e filosofia, nell’estate del 1915. Quest’ultimo riferisce, descrivendo uno dei primi loro incontri di quell’anno, di aver avuto una lunga conversazione su Kant: Passammo poi a parlare abbastanza a lungo di Kant, di cui stavo leggendo a quel tempo, insieme a Max Dessoir, la Critica della ragion pura. Benjamin mi confessò in tutta sincerità di non essersi mai spinto al di là della “deduzione trascendentale”, che gli era risultata incomprensibile. Discutemmo della teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori, di matematica e di Henri Poincaré1, la cui critica alla teoria di Kant mi aveva allora impressionato molto. Stranamente, anche Benjamin, che di matematica non sapeva granché, conosceva nei suoi tratti essenziali il pensiero di Poincaré, ma non lo trovava altrettanto convincente. In compenso si mise a illustrarmi la soluzione schellinghiana del problema, che io ignoravo totalmente2.

Più avanti apparirà chiaro che Benjamin approfondirà lo studio della Critica della ragion pura, e contemporaneamente resterà viva in lui la curiosità per i problemi della matematica (pur non avendo una profonda vocazione per questa disciplina), mentre diventerà sempre più importante, a partire da Kant e in vista di una revisione della sua filosofia, l’esame di questioni legate alla teoria della conoscenza e al concetto di sintesi a priori, e l’indagine del concetto di sistema filosofico; inoltre crescerà in cui l’interesse (collegato a questi problemi) per la filosofia della storia. Già nel loro primo incontro Benjamin aveva detto a Scholem che «si stava occupando molto della natura del processo storico e di essere sprofondato in riflessioni sulla filosofia della storia»3, e la loro conversazione aveva affrontato poi i temi del sionismo (di cui Benjamin si era già occupato, dichiarandosi per un sionismo culturale, nel 1912) e del socialismo, che in entrambi erano legati a simpatie anarchiche4.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

Appare subito evidente l’intreccio di interessi comune a Benjamin e Scholem: l’ebraismo, la filosofia della storia5, la politica nei suoi aspetti teoricamente più radicali e la filosofia di Kant, che – pur criticata a volte aspramente – era uno degli interessi principali anche di Scholem. Questo nel 1916-17 era intenzionato a seguire un seminario di Alois Riehl sui Prolegomena, ma Benjamin lo sconsigliò: «Benjamin, che non aveva la minima considerazione di Riehl, sconsigliandomi di partecipare al suo seminario sui Prolegomena di Kant, al quale avevo intenzione di iscrivermi, mi riferì la battuta che circolava sui due cattedratici Stumpf e Riehl: “La filosofia a Berlino è stata estirpata con Stumpf e Riehl (mit Stumpf und Riehl ausrotten)”»6. L’interesse comune per Kant avrebbe portato Benjamin a scrivere a Scholem, il 22 ottobre del 1917: però ho continuamente riflettuto su ciò che Lei scrive – a eccezione dei suoi pensieri su Kant, di cui non posso dire questo, perché già da alcuni anni sono anche e semplicemente i miei. Il nostro accordo non mi era mai apparso più sbalorditivo: potrei fare mie, alla lettera, tutte le Sue parole sull’argomento. Proprio per questo è forse quello su cui sento meno la capacità di scriverLe7.

Benjamin parlò all’amico anche del suo testo su Hölderlin, e dell’edizione di von Hellingrath dei suoi scritti8: di questo testo a Scholem non sfuggirono i riferimenti al neokantismo, e anni dopo, in una lettera a Adorno del 25 febbraio 1951, lo avrebbe messo in relazione con l’insegnamento di Rickert: Naturalmente il saggio su Hölderlin è quello che le è già arrivato su Dichtermut e Blödigkeit. Già in una lettera del 1942 le avevo scritto una rettifica del suo errore nel considerare Patmos l’oggetto del saggio, che insieme alla mia copia ha cercato la strada che portava a lei, ma non l’ha trovata. Cosa dice di questo testo singolare (che è stato scritto nell’inverno 1913/14, se non erro)? W. B. era allora allievo di Rickert, cosa che non bisogna trascurare9.

Quale era il livello di conoscenza e di considerazione di Kant da parte di Scholem, nel 1915? Egli cominciò a seguire le lezioni di filosofia alla Königl. Friedrich-Wilhelm Universität di Berlino nel semestre estivo 1915, e l’8 maggio 1915 scrisse sul suo diario: «FrischeisenKöhler e Kant hanno su di me un effetto molto stimolante. Lunedì comincia il seminario filosofico»10. Nel 1915 Kant era oggetto di due seminari, uno tenuto da Cassirer su “La filosofia moderna da Kant ai giorni nostri” e uno da Max Dessoir su “La filosofia di Kant, in rela www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath

zione con la lettura della Critica della ragion pura” (il primo era forse seguito da Benjamin, mentre non ci sono indicazioni di una sua frequenza di Dessoir) 11. Nel suo diario Scholem parla di filosofia e di Kant in modo frammentario e assumendo una posizione che rivela un forte interesse e insieme un atteggiamento critico, che gli viene dalle sue idee personali sulla filosofia e dagli studi matematici: «Speculazione relativistica sulla filosofia. Filosofia e scienza. Kant e il triangolo. Della probabilità nella filosofia. La filosofia non è forse una tautologia? Kant l’ha intuito nei giudizi “analitici” della Ragion pura»12. L’atteggiamento polemico di Scholem si giustifica con il fatto che egli vede negli oppositori lo stimolo ad avere e sviluppare pensieri propri: «Io ho bisogno di una persona, che dica qualcosa di diverso da me, ma io ho avuto i miei pensieri già prima, in una qualche occasione. Perciò Kant o Frischeisen-Köhler mi stimolano così tanto: essi mi incitano all’obiezione»13. Pochi anni dopo, nel maggio del 1918 (ma già si era espresso in termini simili nel 191714), Benjamin scrive a Ernst Schoen del suo rapporto con Kant (di cui sta leggendo la Critica della ragion pratica) nei termini di un confronto con un avversario che porta i suoi pensieri a maturazione e maggiore saldezza15. Per Benjamin, negli anni tra il 1915 e il 1918, lo studio della filosofia di Kant era centrale, anche in vista di una sua revisione e di un suo sviluppo. «Parlammo della necessità di studiare Kant, che lo appassionava molto»16, riferisce Scholem di una conversazione con lui del luglio 1916, in cui aveva comunicato a quest’ultimo il suo cambiamento di atteggiamento nei confronti dello studio di Kant: «Gli annunciai insieme anche la mia “conversione” a Kant, cioè la convinzione della necessità dello studio di Kant»17. Insieme continuava ad essere presente in Benjamin un forte interesse per l’ebraismo, e il fatto che Scholem unisse le sue idee sioniste e socialiste allo studio del Talmud lo incuriosiva e affascinava. Benjamin aveva delle idee ancora in formazione su molte questioni ebraiche, ma già chiare per quanto riguardava il modo di esporle e farle diventare motivo per l’azione politica: egli era stato interpellato da Martin Buber in vista di una sua possibile collaborazione alla rivista Der Jude, diretta da quest’ultimo, ma aveva rifiutato di collaborare spiegando le motivazioni del suo rifiuto in una lettera a lui indirizzata nel luglio del 1916. In questa lettera egli poneva il problema del rapporto tra scrittura e azione politica nei termini di una concezione del linguaggio non come mezzo, e per questo motivo per l’azione, ma come ambito di puri principi spirituali indicibili che si comunicano immediatamente in  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

essa (poiché la lingua comunica solo se stessa), che chi scrive deve far uscire dall’indicibilità in uno stile per questo da lui definito “obiettivo” (sachliche Schreibart), dove si può instaurare la «relazione tra coscienza e azione appunto all’interno della magia linguistica» e può scoccare la «scintilla magica tra la parola e l’azione movente»18. Delle idee di Benjamin sull’ebraismo nel giugno del 1916 ci dà notizia ancora Scholem, che aveva l’impressione che l’amico avrebbe presto sentito la necessità di studiare l’ebraico: Nel secondo fascicolo della rivista [Der Jude], un articolo di Hillel Zeitlin, che proveniva dal centro stesso dell’ebraicità, ebbe l’approvazione di Benjamin. Quanto al resto, egli rimproverava alla rivista che in essa non si parlasse dei contenuti dell’ebraismo, della Torah, del Talmud e dei profeti, ma che tutto questo venisse dato semplicemente per scontato. Inoltre, secondo lui, tutto ciò che veniva pubblicato nella rivista dava in qualche modo per acquisito il sionismo […]. In tutti quei giorni passati insieme, parlammo a lungo di ebraismo, e per la prima volta si affacciò tra noi l’eventualità di un trasferimento in Palestina. Benjamin criticava il sionismo agricolo, io lo difendevo19.

Benjamin aveva idee particolari sul sionismo, lo vedeva come un percorso dell’ebraismo intellettuale internazionale volto a trasmettere contenuti culturali e spirituali universali (un sionismo dello spirito) soprattutto in Europa, per una evoluzione spirituale europea in senso cosmopolitico, e non come una rivendicazione di terre fondata sull’ideologia razziale e sul nazionalismo20, e come fenomeno esclusivamente politico. Benjamin criticava l’ideologia sionista nazionalista e criticava Martin Buber per la sua visione dell’ebraismo come esperienza vissuta. Egli era invece interessato alle fonti più tradizionali dell’ebraismo, la Torah, il Talmud21, l’insegnamento dei Profeti: Tre vizi, secondo lui, dovevano essere eliminati dal sionismo:“l’impostazione agricola, l’ideologia razziale e l’argomentazione buberiana fondata sul sangue e l’esperienza vissuta”. Dinanzi alle critiche mosse da Benjamin a Buber, elogiai gli scritti di Achad Ha-am22 (che lui non aveva mai sentito nominare) e di certi suoi saggi sulla natura dell’ebraismo, di cui alla fine del 1916 gli prestai un’antologia in tedesco. […] quello che gli dissi a proposito di Achad Ha-am, e in particolare della concezione del ruolo della giustizia all’interno dell’ebraismo, gli parve molto convincente, e in quell’occasione egli definì la giustizia come “la volontà di fare del mondo il bene supremo”. […] Affrontammo anche la questione se Sion fosse una metafora: a quell’epoca io ero ancora di quell’idea (dato che soltanto Dio non era una metafora), mentre Benjamin la rifiutava. Tra l’altro egli affer-

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath

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mò – il che ci portò a discutere dei profeti nella Bibbia – che non era lecito servirsi metaforicamente dei profeti, una volta che si riconosca l’autorità della Bibbia23.

Sulla giustizia, distinta dal diritto e dalla virtù, Benjamin scrisse tra l’agosto e il settembre del 1916 – a seguito di discussioni avute con Scholem a Seeshaupt nell’agosto del 1916 – degli Appunti su un lavoro sulla categoria della giustizia (Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit) che Scholem, preso in prestito il quaderno degli appunti, copiò sul suo diario l’8 o il 9 ottobre del 191624. Tra l’ottobre e il novembre del 1916 Benjamin scrisse, a seguito di una lunga lettera di Scholem su matematica e linguaggio, matematica e pensiero e matematica e Sion, e rielaborando la sua lettera di risposta, il saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo25, «in rapporto immanente con l’ebraismo e con il primo capitolo della Genesi»26. Tra il novembre e il dicembre del 1916 Benjamin lesse parecchi saggi di Achad Ha-am, le 19 Briefe über das Judentums di Samson Raphael Hirsch27 e Rom und Jerusalem di Moses Hess28, e discusse con Scholem anche il problema filosofico e matematico dell’identità, su cui Benjamin aveva messo per iscritto alcune tesi29. Il problema dell’identità, che Benjamin aveva già affontato nel saggio sulle due poesie di Hölderlin riferendosi anche alla concezione di Cohen e Cassirer (di identità parla anche il saggio di Rickert Das Eine, die Einheit und die Eins. Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs30, che Benjamin aveva letto), e che aveva indagato a contatto con la riflessione di Scholem sull’argomento, sviluppata soprattutto leggendo testi matematici (tra i quali Das Anwendungsproblem di Edgar Zilsel31), diventerà importante, come si vedrà, per la teoria benjaminiana della conoscenza32. Il rapporto di Benjamin con l’ebraismo, nel 1916, si lega alla sua concezione della filosofia della storia e, secondo quanto riferisce Scholem, al nesso tra religione e mito, dove questo è concepito come l’ambito in cui si sviluppano la teoria della conoscenza, il diritto, la filosofia tutta, la poesia, la matematica. Al contrario la storia e la religione sembrano rappresentare nel pensiero di Benjamin degli strumenti critici che, partendo dall’interno del mito, indicano la via per uscirne; per lui solo la religione, che pone rispetto al concetto di diritto l’alternativa ideale della giustizia, è capace di penetrare filosoficamente nel mondo del mito, e la storia da una parte illustra il percorso e lo sviluppo dell’umanità all’interno del mito stesso, ma dall’altra può rappresentarsi un fine messianico, un tempo mondano in cui è realizzata la giustizia:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito Per Benjamin, solo il mito era “il mondo”. Disse di non saper ancora che scopo avesse la filosofia, giacché il “senso del mondo” non aveva bisogno di essere scoperto, essendo già dato nel mito. Il mito era tutto; il resto, matematica e filosofia comprese, era soltanto un mascheramento, un’apparenza sorta all’interno del mito stesso. Replicai che oltre al mito c’era pur sempre la matematica, fino a quando si fosse scoperta la grande equazione differenziale capace di esprimere il mondo, oppure, com’era più probabile, si fosse dimostrata l’impossibilità di tale equazione. Allora il mito sarebbe stato giustificato. La filosofia non era qualcosa a se stante, e solo la religione poteva penetrare il mondo del mito. Contestai l’idea che la matematica potesse essere parte del mito. Era la prima volta che si manifestava in Benjamin il preciso intento di operare quella penetrazione filosofica del mito che a partire dal lavoro su Hölderlin, avrebbe dominato la sua mente per tanti anni, e in fondo fino alla fine […]. Già allora Benjamin parlava, a questo proposito, della differenza tra diritto e giustizia, dato che il diritto era un ordine che poteva fondarsi solo all’interno del mito […]. Ovviamente tutto ciò aveva a che fare molto da vicino con il suo interesse per la filosofia della storia. Ne discorremmo per un intero pomeriggio sulla scorta di una sua astrusa affermazione secondo cui la successione degli anni poteva essere contata ma non numerata33. […] Il mio diario conserva ancora un appunto relativo a questa parte della conversazione: «Lo spirito di Benjamin si aggira e si aggirerà ancora a lungo intorno al fenomeno del mito, al quale si avvicina dai versanti più disparati. Da quello della storia, prendendo le mosse dal romanticismo34, da quello della poesia, ispirandosi a Hölderlin, da quello della religione, a partire dall’ebraismo, e infine da quello del diritto. “Se mai avrò una mia filosofia” mi ha detto, “essa sarà, in un modo o nell’altro, una filosofia dell’ebraismo”»35.

Le riflessioni di Benjamin sul mito, e il suo interesse storico per civiltà non occidentali e arcaiche, cominciano durante il suo soggiorno di studio a Monaco, dove raggiunge la sua fidanzata Grete Radt e segue dall’autunno del 1915 all’estate del 1916 lezioni di filosofia, di linguistica e un corso sulle civiltà precolombiane, e conosce studiosi che si occupano di mitologia e del legame del mito con la filosofia. Benjamin frequenta l’Università di Monaco durante il semestre invernale 1915-16 e il semestre estivo 1916, e vi segue le lezioni su Humboldt del Privatdozent di lingue ugro-finniche Ernst Lewy36 e le lezioni sulla Critica della facoltà di giudizio di Kant del fenomenologo Moritz Geiger37 (che insieme a Rickert e Lewy sarà l’unico docente universitario ad avere un’influenza su di lui38). Nel seminario di Geiger conosce Felix Noeggerath, uno studente di filosofia, indologia e lingue indogermaniche che aveva studiato filosofia a Marburgo e stava termi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath

nando la sua tesi di dottorato. Insieme frequentano anche il seminario sulle civiltà precolombiane del Messico in casa dell’americanista Walter Lehmann, al quale partecipa il poeta Rilke39. Fin dai primi incontri con Noeggerath (che è assistente di Lehmann), e ancora fino agli anni venti, quando l’ha ormai perso di vista (riprenderà i rapporti con lui solo dopo molti anni), nelle sue lettere a Fritz Radt e poi a Scholem Benjamin si riferisce a lui chiamandolo “il genio universale” (das Universalgenie)40, o più di semplicemente “il genio” (das Genie); si tratta di un appellativo problematico e non puramente teoretico rispetto a quello di “Genius”41 – “sobrio in modo santo (heilig-nüchtern)” – ma è comunque il segno della grande considerazione che ha per la sua cultura e per il suo talento filosofici, matematici, linguistici, e per la sua educazione e i suoi rapporti anche personali con George: Vedo l’assistente del docente [Noeggerath] anche agli incontri con Geiger. Egli ha le più eccezionali conoscenze matematiche, linguistiche, di filosofia della religione, e quant’altro si può immaginare. Come aspetto e educazione mondana completa – è più alto di me di due teste. È stato allievo di un raffinato collegio svizzero […]. Qui ha contatti stretti con il circolo di George, e […] anche con George stesso. Naturalmente è cristiano, tra l’altro di origini […] aristocratiche42.

Benjamin ha con Noeggerath lunghe discussioni e un intenso scambio intellettuale, e viene invitato a incontri su Kant a cui partecipano Rilke e l’astronomo von Aretin: Ho appreso tutto questo in un colloquio con lui durato molte ore, in cui sono emerse affinità di pensiero scientifiche molto interessanti, a volte di grande portata. Per il momento [Noeggerath] mi ha invitato a discussioni su Kant, che egli ha con Rilke e l’astronomo di Gottinga. Mi aspetto anche un invito da lui, che in tali circostanze è per me molto prezioso. […] Non comincio con il mio lavoro personale finché non ho portato avanti alcuni lavori di teoria della conoscenza, che proprio adesso diventano importanti. […] [Io e Grete] leggiamo insieme un libro su Goethe e Platone43.

I lavori di teoria della conoscenza di cui Benjamin si sta occupando sono probabilmente delle esercitazioni per il seminario di Moritz Geiger sulla Critica della facoltà di giudizio di Kant. Tra il novembre e il dicembre 1915 Benjamin comincia a leggere i Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses44 di Geiger, e contemporaneamente «il difficile testo di Husserl sui fondamenti e i principi [della sua  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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filosofia] (Husserls schwere, prinzipielle Grundlegung)»45, secondo Scholem le Ideen zu einer reinen Phänomenologie (1913)46, ma non si può escludere che si tratti delle Logische Untersuchungen (1900-1901)47. Questo indica un interesse di Benjamin per i temi della fenomenologia, ma anche che egli prosegue nei suoi studi kantiani e nella riflessione sui principi gnoseologici della filosofia di Kant, che proprio nel momento dell’incontro con Noeggerath diventano importanti come base per un confronto con lui. Il 4 dicembre Benjamin scrive ancora di Noeggerath a Fritz Radt, illustrandogli le proprie riflessioni e le discussioni con lui su un nuovo «territorio scientifico […] [la] mitologia comparata»48: Si tratta della mitologia comparata [una scienza le cui idee hanno un importante significato per la conoscenza]. In colloqui tra me e il signore (che le ho già presentato come il “genio universale” [Universalgenie]) in breve: nei lunghi colloqui tra me e il genio (Genie) essa ha sempre il ruolo più importante. In questi colloqui lo spirito teoretico puro diventa per me così vitale, che io acquisto coscienza dei miei compiti e delle mie capacità, anche se per un tempo successivo. La mitologia comparata non è solamente in sé una scienza nuova, ma rappresenta contemporaneamente un regno emergente della scienza in genere, e quanto più grande è il sentimento di un ampio nesso, a partire dal quale si esprimono le sue conoscenze, tanto più prematuro sarebbe voler indicare questo nesso. […] Le relazioni [nel seminario di Lehmann] sono […] estremamente informate e insieme istruttive, si occupano […] solo di mitologia49.

All’uscita dagli incontri bisettimanali da Lehmann, Benjamin trascorre spesso delle ore discutendo con Noeggerath di problemi di mitologia e di filosofia della storia, e di altri problemi filosofici, anche con riferimento a Kant e alla Critica della ragion pura, di cui Noeggerath si occupa nella tesi. Benjamin è sconcertato dall’enorme cultura dell’amico, che definisce “universale” perché egli è attivo nei campi delle più diverse scienze, si occupa contemporaneamente di fondare un sistema filosofico nella sua tesi, di problemi filologici nelle ricerche mitologiche, e della prova della proposizione del matematico Fermat. Benjamin vede nel pensiero di Noeggerath una unificazione e un approfondimento del pensiero mitologico di George e della Critica della ragion pura di Kant: Dopo trascorro spesso tre ore al caffè con il genio, dove parliamo di problemi di mitologia. Oltre a ciò [parliamo] del concetto dell’esistenza storica (des historischen Daseins) e della storia (Historie), nel senso in cui me ne

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath occupo io, e, a partire da questo punto centrale, di tutti i problemi che per noi sono importanti. I primi tempi ero addirittura sconcertato dalla sua formazione assolutamente universale, poiché egli si occupa della fondazione di un sistema filosofico da un punto di vista molto significativo, e contemporaneamente della mitologia dall’Oriente fino all’America, e, sempre in riferimento a questa, si occupa in modo intensivo di studi filologici e della prova della proposizione di Fermat. I colloqui, in cui mi riferisce nel modo più accurato di questi lavori, sono veramente belli. […] [Egli] ha avuto una formazione filosofica in contatto personale con George, contatto che mantiene ancora adesso, e a Marburgo. Tutto si fonda su una unificazione e un approfondimento della Critica della ragion pura e del pensiero di George. Recentemente mi ha fatto incontrare Wolfskehl. […] Egli è interessato agli stessi problemi che interessano il genio e la discussione ha riguardato esclusivamente le questioni del mito. A parte questi colloqui, che da tempo mi insegnano molto, anche se in senso limitato, cosa che non dimentico mai né posso mai dimenticare, all’Università non c’è niente da prendere particolarmente in considerazione. […] Il seminario di Geiger ha troppo poche ore, egli è troppo preso dalla carica, e i problemi sono troppo difficili perché il seminario porti a dei grandi risultati. Sono occupato a leggere un suo lavoro filosofico50, e leggo anche il difficile testo di Husserl sui fondamenti e i principi [della sua filosofia] (Husserls schwere, prinzipielle Grundlegung)51.

I risultati che Noeggerath comunica a Benjamin sul suo lavoro filosofico e filologico, e le discussioni sul mito, gli insegnano molto e sono per lui fondamentali, ma sempre “in senso limitato”, un senso che diventerà chiaro soprattutto nelle discussioni anche epistolari tra lui e Scholem che avranno luogo nei due anni seguenti. Quasi due anni più tardi, infatti, il 22 ottobre 1917, dopo aver ribadito la coincidenza delle idee sue e di Scholem su Kant, e dopo aver illustrato il senso in cui vorrebbe mantenere e sviluppare il sistema kantiano (di ciò si dirà più avanti), Benjamin scrive a Scholem che quanto lui ha appena scritto su Kant concorda con le convinzioni del genio Noeggerath, ma che il loro rapporto intellettuale deve ancora svilupparsi nella direzione di un’affinità interiore, poiché in loro l’ebreo e il tedesco si contrappongono come due estremi affini: ho continuamente riflettuto su ciò che Lei scrive – a eccezione dei Suoi pensieri su Kant, di cui non posso dire questo, perché già da alcuni anni sono anche e semplicemente i miei. Il nostro accordo non mi era mai apparso più sbalorditivo: potrei fare mie, alla lettera, tutte le Sue parole sull’argomento. Proprio per questo è forse quello di cui sento meno la necessità di scriverLe […]. So che quanto ho detto finora concorda con le

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Esperienza e compito infinito convinzioni del genio. Non ho il suo indirizzo attuale, ma potrei trovarlo. A questo proposito voglio osservare quanto segue: ho dovuto sentire nel modo più profondo che nonostante la più profonda uguaglianza dell’immagine della verità che due uomini portano in sé, per una loro comunione in ogni senso e anche in quello della scoperta di tale verità è indispensabile un’affinità interiore, perché altrimenti non si può affatto andare al di là di un’aperta comunicazione e stima reciproca. Questo risultato – nella misura in cui non è ancora stato raggiunto – sarebbe anche il massimo che io mi posso ripromettere dai miei rapporti con il genio; poiché in ogni punto diverso da questo estremo punto di contatto nell’intuizione, che non fluisce, nell’uno e nell’altro di noi, da fonti diverse, no, probabilmente scaturisce da fonti contrarie, i metodi di lavoro diventano disparati; in modo che potremo solo parlare tra noi, ma non potremo affatto lavorare in comunione di spirito (in Gemeinschaft). Per quanto riguarda i miei rapporti con il genio, credo di poterlo affermare: l’ebreo e il tedesco si contrappongono l’uno all’altro come due estremi tra loro affini, come ebbi a dirgli un giorno. Ma nel caso suo e mio sarebbe ancor sempre essenziale il tentativo intrapreso con serietà, se ciò fosse possibile, e così può essere anche nel Suo caso. Dopo di che non ho bisogno di dirLe come nell’ultimo senso mi riprometta, da una nostra attività comune, un grande incremento del nostro sapere52.

Il significato delle fonti contrarie da cui scaturisce la loro intuizione della verità si chiarisce nel confronto tra il diverso rapporto che il “cristiano” Noeggerath53 da una parte e l’“ebreo” Benjamin (e con lui Scholem) – che seguono piuttosto la concezione del rapporto di trascendenza tra Dio e uomo, e quindi della divisione già kantiana tra etica e logica, su cui Cohen fonda la sua filosofia della religione e la sua filosofia sistematica54 – dall’altra hanno con la concezione della filosofia (soprattutto kantiana e neokantiana) nel suo rapporto con il mito55 e con la visione immanentistica della filosofia (visione che avrebbe dovuto permettere a Noeggerath di allargare il campo della conoscenza e di fondare l’esperienza mitica sul terreno della razionalità56) propria della cultura classica57 e cristiana58. Della necessità di una filosofia razionalistica dell’immanenza, che si opponga all’intellettualismo59, parla la conclusione della tesi di dottorato di Noeggerath Synthesis und Systembegriff in der Philosophie. Ein Beitrag zur Kritik der Antirationalismus60, discussa nel dicembre del 1916 a Erlangen, che vede nello “Humor” il suo stile e nella filosofia dell’antichità il suo punto di riferimento e la sua guida: [Lo] “ h u m o r ” [del razionalismo] sta nella chiara oggettività, in cui esso trasforma negazioni in posizioni di ordine più alto e le rende fecon-

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath de; in cui trasforma ciò che è senza condizione (das Bedingunslose) nell’incondizionato (das Unbedingte), ciò che è senza fine (das Endlose) nell’infinito (das Unendliche), in cui cambia l’oggetto (das Objekt) in oggetto (der Gegenstand) [della conoscenza]. Nel principio dell’immanenza questo diventa per lui la leva e il punto archimedico di fronte al quale ogni intellettualismo deve ritirarsi. Infatti la sua formula – nel suo sviluppo più conseguente – è sempre lo spostamento del centro in un assoluto ultraumano, e questo segna del resto il preciso distacco da tutta la nostra cultura (Bildung): l’antichità61.

Come appare dalle lettere, sopra esaminate, scritte a Fritz Radt nel 1915 e ritrovate solo nel 1979 nel suo lascito, e dalle notize raccolte a seguito di questo ritrovamento da Scholem all’inizio degli anni ’80 62, Noeggerath era dunque un neokantiano sui generis, formatosi in numerose università e alla scuola di Marburgo63, interessato alla filosofia, alla matematica, alla scienza delle religioni, alla teologia, alla linguistica comparata, alla mitologia64 e alla parapsicologia e inserito nel circolo di George65, che stava terminando proprio in quei mesi la sua tesi di dottorato in filosofia sistematica. In quel lavoro egli si occupava in modo critico del concetto di sintesi e di sistema in Kant (nella Critica della ragion pura e nella Critica della facoltà di giudizio), e insieme di Cohen e Natorp; vi delineava inoltre un suo progetto filosofico che partendo da Kant (e dalla ripresa della sua presunta concezione della «c o n t i n u i t à (Kontinuation) attraverso il passaggio del limite (Grenzübergang)»66 tra concetto e idea, criticata dai neokantiani, cercava di fondare una filosofia razionalistica che allargasse la conoscenza, come «conoscenza (filosofica)»67 non soltanto di oggetti teoretici, anche a «prodotti ateoretici»68 quali gli oggetti dell’etica e dell’estetica, al di là di Kant stesso e prendendo le distanze dal “metodo trascendentale” di Cohen e di Natorp e dalla loro critica a Kant. Il metodo trascendentale di Cohen e Natorp era infatti limitato al modello scientifico e contemporaneamente veniva applicato anche agli oggetti dell’etica e dell’estetica, per cui si poteva parlare di una limitazione del suo concetto e di una generalizzazione della sua applicazione69. Noeggerath prospettava uno sviluppo radicale delle idee della scuola di Marburgo, soprattutto della sua concezione del «primato della purezza della logica (Reinheitsprimat der Logik)»70 e del metodo trascendentale fondato sulla scienza fisico-matematica come modello analogico per le scienze dell’etica e dell’estetica71. Questo doveva essere sviluppato «secondo il grado (dem Grade nach)»72 (tramite un passaggio del limite, un Grenzübergang – che Noeggerath riprendeva dal Kant delle  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

Antinomie e dei primi paragrafi dell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio – dal concetto all’idea, per esempio, per gli oggetti teoretici considerati come “esperienza in genere” o “conoscenza stessa”, dal concetto di causalità della meccanica alla causalità per libertà73) e doveva subire una integrazione «secondo la specie (der Art nach)»74 (come garanzia di una distinzione dei membri sistematici, in ognuno dei quali si doveva verificare un passaggio di grado dal concetto all’idea). Si poteva così arrivare a un superamento del concetto di esperienza scientifica di Cohen, che avrebbe potuto portare alla comprensione nella conoscenza, oltre all’etica e all’estetica, anche di un’esperienza non scientifica75 come quella presa in considerazione dalla religione, dalla mitologia e dalla parapsicologia. Queste possibilità non erano prospettate esplicitamente nella tesi mentre lo erano verosimilmente nelle conversazioni con Benjamin, che ne fu influenzato soprattutto nell’elaborazione del suo concetto di esperienza nel saggio Sul programma della filosofia futura del 1917-1876. Noeggerath era molto addentro anche agli studi matematici: due Excurse alla fine della sua tesi si occupavano del concetto del metaxy (il frammezzo) in Platone e di problemi di geometria non euclidea77. Il 23 maggio 1917 Benjamin scrisse a Scholem di aver incontrato Noeggerath – che nel frattempo aveva discusso la dissertazione a Erlangen – dopo più di un anno a Monaco, e gli riferì che egli si occupava degli stessi problemi che occupavano l’amico, ma non nella prospettiva del sionismo e dell’ebraismo. Scrisse di aver avuto con lui conversazioni importantissime sulla teoria matematica della verità e su altre questioni filosofiche su cui aveva sviluppato nella discussione riflessioni che erano di enorme portata: La teoria matematica della verità – o meglio il suo sviluppo si trova […] in buone mani. A Monaco ho parlato dopo più di un anno con il mio conoscente (il genio), che nel frattempo ha discusso la tesi di dottorato ottenendo la lode. Egli lavora – anche se non esplicitamente nella prospettiva del sionismo – agli stessi problemi a cui lavora lei. Ho avuto con lui colloqui importantissimi sulla teoria matematica della verità e su come questa disciplina in Europa sia stata scoperta per la prima volta dai Pitagorici. Non ho ancora sufficientemente penetrato concettualmente queste cose – e altro dello stesso tipo, che ho sviluppato parlando e che è per me di portata straordinaria78.

La “teoria matematica della verità” è un problema filosofico a cui Scholem lavora intensamente negli anni 1916-191779 e che riguarda in  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath

lui il rapporto di correlazione, che egli riconduce a Platone, tra verità e essere, e la capacità della matematica di accedere alla verità e di affrontare il compito della fondazione di una metafisica. In alcune pagine di diario del 5 giugno 1917, sotto il titolo “Concetto di una teoria matematica della verità”, egli parla della verità come correlato dell’essere (entrambi devono essere indagati sulla base di principi matematici) e la definisce in via ipotetica una dottrina degli ordini spirituali delle cose come rapporti matematici, riferendosi alla proposizione 7 della seconda parte dell’Etica di Baruch Spinoza80. La matematica non può secondo Scholem dare quello che lui desidera, cioè una metafisica, ma può fondare la metafisica in quanto eleva la logica a dottrina degli ordini, e, concepita in un senso più profondo dell’odierno, può accedere alla verità in quanto dottrina delle qualità dell’essere e delle sue relazioni (le quantità). Gli ordini della matematica determinano a suo avviso certe classi di verità (il termine verità è inteso al plurale), ma non è sicuro che le determinino tutte. Egli mette in relazione in queste pagine matematica, verità e simbolica, e dice che solo a partire dalla teoria simbolica (poiché essa tende a superare la teoria matematica della verità e a fondarla in una sfera più profonda) matematica e storia possono avere una risposta: la verità, come l’essere, si rappresenta infatti nel linguaggio e nella sua simbolica81. Nel giugno del 1917 Benjamin invia a Scholem, che gli chiede notizie della “teoria matematica della verità” di Noeggerath, alcune osservazioni sulla teoria matematica della verità e il suo legame con il concetto di simbolo, anche in riferimento a ciò che egli ha scritto a proposito in una sua lettera precedente. Gli scrive inoltre di aver letto una parte del manoscritto della tesi di Noeggerath. Tra la fine del 1915 e il marzo del 1916, o forse addirittura nella primavera-estate del 1917, un periodo in cui incontra più volte Noeggerath a Monaco, Benjamin legge infatti una piccola parte della sua tesi di dottorato (forse l’Introduzione, oppure la seconda parte ), e ritiene che ciò che ha letto e ascoltato nelle loro numerose discussioni (che vertono, nel 1917, anche sulla “teoria matematica della verità” del “genio”) sia qualcosa di enorme importanza: Quanto alle ricerche del genio, non posso parlarGliene per lettera, data la grande difficoltà che l’oggetto presenta per me. Per ciò che riguarda il legame importantissimo con la simbolica, centrale per la stessa teoria matematica della verità, legga assolutamente il saggio di Haase sul simbolo egiziano della piaga nell’ultimo numero di Das Reich82. Non credo a un «discendere di territori ulteriori della simbolica dalla teoria matematica della veri-

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Esperienza e compito infinito tà»83: piuttosto la teoria matematica della verità stessa è forse doppia: [è] la teoria degli oggetti (Gegenstände) come oggetti costruibili (matematici) e la dottrina degli stessi come oggetti dati (simboli). […] La dissertazione del genio non è ancora stata stampata. Una piccola parte, che conosco dal manoscritto, è estremamente importante (höchst bedeutend)84.

La straordinaria portata delle riflessioni che Benjamin sviluppa a contatto con Noeggerath, lo portano ancora il 30 marzo del 1918 a desiderare di leggere la sua dissertazione e a cercare di procurarsene una copia a Erlangen: Una mia lettera al genio o non è arrivata, o è rimasta senza risposta. Io sono estremamente desideroso di avere la sua dissertazione [che avrebbe dovuto essere pubblicata più o meno nell’ottobre del 1917]. La posso pregare di scrivere […] all’usciere dell’Università di Erlangen e di informarsi presso di lui su se e dove è stata pubblicata la dissertazione del signor Felix Noeggerath, che ha discusso la tesi di dottorato lì alla facoltà di Filosofia nell’ottobre o nel novembre del 1916? [Può chiedergli] anche se egli conosce [il suo] indirizzo odierno […]? Le sarei molto grato se potesse fare lei questa richiesta, che non farei volentieri a mio nome85.

Queste stesse riflessioni, che riguardano la filosofia della conoscenza, l’etica, l’estetica e la filosofia della storia (è importante in Benjamin l’influenza – soprattutto per la teoria del messianesimo – degli esponenti del primo romanticismo Schlegel e Novalis, di Franz von Baader e della tradizione cristiana della Cabbalà di cui era rappresentante Franz Joseph Molitor86), la matematica, la filosofia della religione e il mito, in relazione alla filosofia di Kant e dei neokantiani Cohen e Natorp, insieme alle riflessioni sviluppate nel confronto con le idee di Scholem – sulla teoria matematica della verità, sul linguaggio, sulla concezione ebraica della Torah come “tradizione” e “dottrina” (Lehre) interpretata come “dottrina degli ordini” categoriali e ideali con al centro Dio, che si esprime in simboli e comprende tutta la filosofia e la tendenza del suo sviluppo87 – portano Benjamin, tra il 1917 e il 1918 a scrivere Sul programma della filosofia futura. Questo è un progetto filosofico di ripresa e superamento della teoria della conoscenza kantiana e della sua concezione dell’esperienza, che va nella direzione, propria della scuola di Marburgo, di una trascendentalizzazione dell’esperienza, ma critica di questa scuola il riferimento esclusivo alla metodologia delle scienze della natura, elaborando un concetto di esperienza metafisica fondato su una concezione religiosa del linguaggio. Contemporaneamente egli progetta una tesi di dottorato su Kant all’u www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath

niversità di Berna, dove si era trasferito nel 1917, prima in generale su «Kant e la storia»88 – tema specificato con il titolo «Il concetto di “compito infinito” in Kant»89 – e poi sulla più ampia questione «che cosa significa che la scienza è un compito infinito?»90. Il problema del “compito infinito” è, come si è già visto, un problema centrale in Cohen e Natorp. Prima di descrivere in modo particolareggiato il percorso che porta Benjamin a progettare e poi ad abbandonare la tesi di dottorato su Kant, può essere d’aiuto esaminare la posizione di Scholem rispetto a Kant (e Cohen), e chiedersi quanto gli altri elementi della sua riflessione (matematica, linguistica, ebraico-religiosa) possano aver esercitato la loro influenza sul pensiero dell’amico e sul suo progetto di tesi negli anni tra il 1916 e il 1918. Tra il 1916 e il 1917, Scholem sviluppa alcune sue idee sulla matematica e la storia91 e il legame tra loro in riferimento all’ebraismo e alla mistica (nella Torah e nel concetto di infinito)92, sulla filosofia e la logica matematica, sulla filosofia ebraica del linguaggio93 e su Kant. Nel marzo del 1916 Scholem annota sul suo diario, insieme alle sue riflessioni sulla matematica e la storia, le sue idee sulla concezione kantiana dei giudizi sintetici a priori. Sulla scia dei suoi studi sul calcolo infinitesimale svolti nell’ambito del seminario di Konrad Knopp sull’equazione differenziale ordinaria94, egli critica la concezione kantiana secondo cui la matematica si fonda su giudizi sintetici a priori: a suo avviso i giudizi (cioè i teoremi) matematici sono derivati da Kant in modo analitico dai principi, cioè da definizioni e principi (Grundsätzen) considerati come giudizi sintetici a priori, mentre gli assiomi e le definizioni, come è stato scoperto dopo Kant, non hanno necessità logica (neanche la definizione della retta), potrebbero essere pensati diversamente e creare altre geometrie. Non è perciò possibile considerare le definizioni dei giudizi. Egli critica anche il tentativo di Henri Poincaré di salvare questa concezione kantiana con l’attribuzione a Kant della conclusione da “n” a “n+1”, come unico giudizio sintetico a priori95. Per Scholem la matematica si fonda su giudizi analitici, è una tautologia (A=A) infinita che non esaurisce mai la grande quantità (Fülle) delle verità e, per questo, essendo infinita, dal punto di vista umano non è una tautologia: non c’è un termine per la conoscenza matematica e possono essere sempre trovate nuove verità – che già esistono nel “regno delle idee”: alla fine «i giudizi sono tutti analitici e tutti sintetici»96. Inoltre egli critica aspramente Hermann Cohen, perché la Logik der reiner Erkenntnis, che sta leggendo, non lo soddisfa dal punto di vista matematico97, mentre ha  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

un’alta considerazione del pensiero sistematico98 del filosofo, del suo pensiero sull’ebraismo e della sua figura di ebreo99. Nell’estate del 1917 la considerazione che Scholem ha di Kant cambia, egli comunica a Benjamin la svolta e la sua idea che sia necessario studiare la filosofia kantiana100. Scholem trascorre il semestre invernale 1917-1918 all’Università di Jena, dove studia matematica e filosofia e frequenta corsi e seminari di Bruno Bauch (sulla logica di Lotze e sull’Introduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant), del fenomenologo Paul F. Linke e di Gottlob Frege, e dove legge Kant (la Critica della facoltà di giudizio e i Prolegomeni) e testi su Kant, le Ricerche logiche di Husserl, i Fondamenti dell’aritmetica di Frege, alcuni scritti di Bachmann e Louis Couturat101. Egli descrive a Benjamin con toni entusiastici l’impressione che gli hanno fatto i Prolegomeni di Kant, ma non è altrettanto soddisfatto del seminario di Bauch su Lotze, dove, in polemica sia con Bauch che con Lotze, esprime le sue idee sulla logica matematica e sulla sua simbolica, frutto del suo interesse per essa e per i tentativi di arrivare a un puro linguaggio del pensiero, affiancate però in lui dalla riflessione sulla simbolica mistica (soprattutto sulle teorie cabbalistiche del linguaggio): Da quando avevo scovato, in una libreria antiquaria di Berlino, le Vorlesungen über die Algebra der Logik [Lezioni sull’algebra della logica] di Schroeder, avevo cominciato a nutrire un grande interesse per la logica matematica, e questi e analoghi tentativi di arrivare a un puro linguaggio del pensiero esercitavano su di me una grande forza di attrazione. Nel corso del seminario principale di Bauch leggemmo altresì gli scritti di logica di Lotze, che mi lasciò peraltro indifferente. La mia relazione seminariale consistette in una difesa della logica matematica contro Lotze e Bauch, il quale reagì col silenzio. Il carattere filosofico di un linguaggio concettuale totalmente depurato dalla mistica mi appariva chiaro, insieme ai suoi limiti. Scrissi a Benjamin su questo tema, ed egli mi chiese di mandargli la mia relazione102. Oscillavo allora tra i due poli della simbolica matematica e della simbolica mistica: assai più di Benjamin, il quale, poco dotato com’era per la matematica, si atteneva allora, come avrebbe continuato a fare ancora a lungo, a concezioni mistiche del linguaggio103.

Riguardo a Kant, Scholem è convinto che prima di aver riconosciuto oppure confutato le sue conclusioni sulla metafisica, cioè l’attacco più terribile ad essa condotto fino a questo momento, egli non può costruire qualcosa sulla base del suo pensiero e che vada al di là di esso, e riuscire a presentare la metafisica come possibile, in quanto essa è, egli crede, la filosofia stessa. Nei suoi appunti di diario del 1917  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath

egli è convinto che la prova portata da Kant a favore del fatto che le categorie fondamentali, utilizzate nella metafisica e nella sfera comune, abbiano un senso soltanto in quanto rendono possibile l’esperienza, sia falsa, ma che finché egli non viene confutato, la metafisica resta una pura visione della dottrina (che è per Scholem la dimensione spirituale e divina alla base dell’ebraismo, è sionismo come esigenza per il popolo ebraico di essere un popolo santo), la sua parte centrale104. Nel marzo del 1918, quando ancora cerca di ottenere la tesi di Noeggerath, Benjamin ha già rinunciato a scrivere una tesi su Kant, ma non ha rinunciato a occuparsi della filosofia kantiana e neokantiana, che è al centro dei suoi interessi, tanto da invitare Scholem, che trascorre un lungo periodo a Berna, ad affrontare con lui la lettura dell’opera di Cohen Kants Theorie der Erfahrung105, che, delusi, non porteranno a termine106. Egli affianca questa lettura con lo studio, insieme a Scholem, della Critica della ragion pura107 (mentre legge già da mesi la Critica della ragion pratica108) e con il progetto di una nuova lettura comune della Critica della facoltà di giudizio109. Emergono soprattutto attraverso le lettere e le testimonianze di Scholem e le lettere di Benjamin, un profondo disaccordo di entrambi con il Kant della prima e della seconda Critica e una speranza nelle possibilità di sviluppo della terza110, ma anche la necessità di affrontare un “avversario” per poter fondare su basi solide il proprio pensiero a contatto con i fondamenti del suo pensiero, cercando di criticarlo, rivederlo e svilupparlo: In parte i miei pensieri sono ancora troppo poco sviluppati, fuggono continuamente da me. E ciò che afferro ha bisogno del fondamento più solido per poter essere espresso. Certi pensieri – per così dire rivoluzionari – portano in sé la necessità che io studi molto a fondo i loro grandi avversari, per poter restare irremovibilmente obiettivo nella loro esposizione. Dovunque questo grande avversario è Kant. Ora sono ostinatamente alle prese con la sua etica – è incredibile come si debba andare in traccia di questo despota, in traccia del suo spirito che costruisce spietatamente certi giudizi filosofici che sono precisamente tra i più detestabili dell’etica. Aizza, specialmente nei suoi ultimi scritti, e colpisce dissennatamente il suo cavallo, il logos111.

Il 30 marzo del 1918 Benjamin aveva scritto a Scholem che non poteva rispondere alle sue domande sul problema del compito infinito. Egli era arrivato a un punto importante e insieme difficile della sua riflessione personale, in cui gli si aprivano «nessi della più ampia por www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

tata»112 che per la prima volta si univano nel suo pensiero. Ciò che in quel momento scriveva (il progetto filosofico Sul programma della filosofia futura) e pensava rappresentava il seguito del suo lavoro Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo del 1916, il modo di pensare che aveva ispirato quel lavoro (di cui faceva parte anche la riflessione sui fondamenti linguistici dell’imperativo categorico) – che aveva poi cercato di sviluppare – non aveva portato a soluzione i problemi, ma era entrato in un nesso più ampio, in cui la revisione del sistema kantiano era progettata a partire dall’approfondimento dei fondamenti linguistici dei concetti della conoscenza e dell’esperienza: egli poneva i problemi dell’essenza della conoscenza, del diritto e dell’arte in relazione con l’origine di tutte le manifestazione spirituali umane dall’essenza del linguaggio113. I suoi pensieri erano però ancora troppo poco sviluppati per poter essere affontati in una tesi di dottorato114. Egli doveva abbandonare momentaneamente il suo «lavoro gnoseologico molto importante»115 e rimandare il confronto con Kant e Cohen per affrontare un tema di tesi di dottorato che, pur essendo in relazione con le sue idee su Kant e la filosofia della storia116, gli permettesse di avere un maggiore distacco (un «anonimato interiore»117) rispetto al suo oggetto e di conseguire il titolo accademico118. Per la sua tesi di dottorato Benjamin sceglie di indagare, sotto la guida di Richard Herberz, i fondamenti filosofici del concetto di critica nel romanticismo e le sue premesse nella Critica della facoltà di giudizio di Kant: Aspetto la proposta di un tema dal mio professore; nel frattempo ne ho trovato uno io. Per la prima volta dalla Romantik giunge la concezione in modo dominante che un’opera d’arte (Kunstwerk) potrebbe essere concepita in sé e per sé, senza la sua relazione alla teoria o alla morale. Ad essa potrebbe essere sufficiente il riferimento al contemplante. La relativa autonomia dell’opera d’arte (des Kunstwerkes) nei confronti dell’arte o piuttosto la sua dipendenza esclusivamente trascendentale dall’arte è diventata la condizione dell’opera d’arte romantica. Il compito sarebbe dimostrare che l’estetica di Kant è la premessa essenziale della critica d’arte romantica in questo senso. Per quanto riguarda la vostra domanda riguardo al “compito infinito”, non la affronto più intenzionalmente. Esso appartiene a quei temi che non si possono trattare per lettera – […]. Per il momento […] concentrerò tutte le mie forze [sul] […] mio lavoro di dottorato, cioè sull’inizio della mia dissertazione. La matematica, come il confronto ulteriore con Kant e Cohen deve essere rimandato. Lo sviluppo del mio pensiero filosofico è arrivato a un momento centrale (Zentrum). Per quanto mi sia difficile devo lasciare anche lui così com’è nel suo stadio attuale per

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath dedicarmi completamente alla preparazione del mio esame in tutta libertà. Se si presentano impedimenti nella preparazione della mia tesi di dottorato, li considero come l’indicazione per me di occuparmi dei miei propri pensieri. […] Il mio più grande rincrescimento resta quello di non poter comunicarle nulla del movimento filosofico dei miei pensieri; ma questo non si accorda con la forma epistolare119.

Benjamin aspetterà l’arrivo di Scholem a Berna per poter discutere con lui del “compito infinito”, del concetto di esperienza e di Kant, di matematica e dei risultati delle sue riflessioni. Il fatto che Benjamin abbia continuato a leggere le opere di Kant e abbia affrontato l’opera di Cohen120 è il segno della continuità del suo interesse in un progetto di interpretazione, revisione e sviluppo personale della filosofia critica (di Kant e di Cohen) in riferimento alla filosofia della storia e alla concezione del messianesimo dell’ebraismo e dei romantici, che dovrà metter da parte per scrivere la tesi di dottorato su Il concetto di critica nel romanticismo tedesco121, ma che rimarrà sotteso nelle sue opere successive, in “Le affinità elettive” di Goethe122 e ne Il dramma barocco tedesco123 (dove Kant e Cohen sono citati più volte) fino a Sul concetto di storia124 (1940) e al Passagen-Werk (1927-1940)125.

Note 1 Già nel maggio del 1915 Scholem possedeva di Henri Poincaré Wissenschaft und Hypothese, author. Deutsche Ausgabe m. erläuternden Anm. V. F. u. L. Lindemann, 3. Verb. Aufl., Leipzig, 1914 (cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 118, nota 7, dove si dice che il riferimento al testo di Poincaré è ripreso da una annotazione di Scholem del I maggio 1915). Cfr. gli appunti sulla conversazione con Benjamin che egli scrisse sul suo diario: «Benjamin è stato qui nel pomeriggio. Si è avvicinato in misura significativa. Abbiamo parlato dell’Anfang […]. Quindi discussioni su Kant. Era molto sincero e ha detto che era arrivato solo fino alla Deduzione trascendentale. Che non l’aveva capita. Quindi [discussioni] sui giudizi sintetici e la matematica. Conosceva Poincaré, anche se solo superficialmente. [Mi ha illustrato] la soluzione schellinghiana del problema. E [ha detto] molte cose interessanti. […] Mi ha fatto un’impressione simpatica» (ivi, p. 134, annotazione del 24-VII-1915). 2 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 20; trad. it. cit., p. 29. 3 Ivi, p. 13; trad. it. cit., p. 21. 4 Cfr. ivi, p. 14; trad. it. cit., p. 22: «Leggevo allora la biografia di Bakunin scritta da Nettlau [Max Nettlau, The Life of Michael Bakunin. Michael Bakunin. Eine Biographie, London, 1896-1900] e le opere di Kropotkin e di Elisée Reclus mi avevano fatto una forte impressione; a ciò si era aggiunta, nel 1915, la lettura degli scritti di Landauer, in particolare il suo Aufruf zum Sozialismus [Appello per il socialismo]. Tentavo allora di far

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Esperienza e compito infinito coincidere in me le due vie del socialismo e del sionismo. Ne parlai lungamente con Benjamin, il quale ammise che potevano essere due vie percorribili». Sul tema del legame tra ebraismo messianico e utopia libertaria, cfr. il testo di M. Löwy Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective, cit.; trad. it. cit. Oltre alle figure di Benjamin e Scholem, Löwy analizza anche quelle di Landauer, Bloch, Lazare, Rosenzweig e molti altri. Cfr. in part. i capp. 4 e 6. Cfr. inoltre E. Jacobson, Anarchismo e tradizione ebraica: Gershom Scholem, in L’anarchico e l’ebreo. Storia di un incontro, Elèuthera, Milano, 2001, pp. 55-76, e M. Graur, Anarchismo e sionismo: il dibattito sul nazionalismo ebraico, ivi, pp. 119-130. 5 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 22; trad. it. cit., p. 31: «Il fascicolo [della rivista “Der Aufbruch” (Insorgere)] conteneva altresì contributi di Gustav Landauer e Kurt Hiller che, pur male assortiti, si trovavano l’uno accanto all’altro in una rivista che giudicavamo affetta da una sorta di tabe generale e, a dispetto del suo antimilitarismo, priva di un chiaro indirizzo. Benjamin fece un’analisi molto precisa del saggio di Landauer, che io in certo modo approvavo. Al contrario dell’“Aufbruch”, Benjamin lodò molto il fascicolo dell’“Internationale”, i cui articoli lo colpivano soprattutto per la loro rigorosa oggettività. Ci mettemmo così a parlare di socialismo, di marxismo e di filosofia della storia, chiedendoci come avrebbe dovuto essere un’opera di storia, che avesse per contenuto veramente la storia. Pur ammettendo che in ambito storico non è possibile stabilire leggi rigorose, Benjamin si atteneva alla sua definizione secondo la quale la storia è “l’oggettività del tempo, ciò che può essere riconosciuto come oggettivo”. In questa definizione egli vedeva il punto di partenza che rendeva possibile una prova scientifica. Mentre Benjamin riconobbe che non gli era ancora riuscito di costruire tale prova, io mi sforzavo di dimostrargli piuttosto che si trattava di un’impresa impossibile. Alla fine ognuno di noi si disse convinto che l’altro, al momento di trarre le conclusioni, gli avrebbe dato ragione. Benjamin giudicava negativamente la storiografia di indirizzo psicologico di Karl Lamprecht, su cui io gli avevo chiesto un parere, e tornò in questa circostanza a parlare di Buber, colpevole a suo avviso di professare una filosofia della storia a sfondo schematicamente psicologico. Io apprezzavo allora la filosofia di Buber molto più di lui, ragion per cui contestai il suo giudizio. Benjamin non attribuiva il minimo valore al Daniel di Buber (1913) e mi disse di averne a lungo discusso con l’autore stesso al tempo della “Freie Studentenschaft”». 6 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 32; trad. it. cit., p. 46. Cfr. ibid., nota 1: «Si tratta di un gioco di parole intraducibile sul modo di dire “Mit Stumpf und Stiehl ausrotten” = estirpare con il tronco e il fusto, cioè svellere, sradicare». Anche di Rickert Benjamin non aveva una grande consideraziome, ma gli riconosceva un notevole acume: questa valutazione indusse Scholem a leggere Der Gegenstand der Erkenntnis (cfr. ibid.). 7 Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, in GB I, p. 389; trad. it. cit., p. 34. 8 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 26-27; trad. it. cit., pp. 36-37: «Il Io ottobre mi parlò di Hölderlin, e mi diede (ciò che in seguito mi parve un’evidente prova di grande fiducia) una copia dattiloscritta del saggio Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin [Due poesie di Friedrich Hölderlin], che aveva scritto nell’inverno 1914-1915, il primo da quando era scoppiata la guerra. Si trattava di un’analisi delle due poesie Dichtermut e Blödigkeit [Il coraggio dei poeti e Timidezza] caratterizzata a tratti da profonde incursioni nel metafisico. In virtù della riscoperta che ne aveva fatto la scuola di George, Hölderlin era divenuto, negli ambienti in cui Benjamin si muoveva tra l’’11 e il ’14, una delle figure più alte della poesia; e per Benjamin il suo defunto amico Heinle – un “purissimo poeta lirico”, come successivamente lo definì dinanzi a

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath me Ludwig Strauss – si configurava come un fenomeno affine a quello del grande poeta svevo. […] Fu sempre nel corso di quel colloquio su Hölderlin che sentii per la prima volta da Benjamin un accenno all’edizione delle opere di Hölderlin curate da Herbert von Hellingrath, e agli studi compiuti da costui sulle traduzioni hölderliniane da Pindaro, che avevano suscitato in Benjamin una forte impressione. Ma io allora non capivo un granché di questo genere di cose». È interessante leggere la parafrasi e il commento, legate al suo entusiasmo per l’ebraismo e il sionismo, che Scholem fa di un verso di Hölderlin nel novembre del 1914, prima di conoscere Benjamin: «Uns aber ist gegeben/Nirgends zu ruhen (A noi è dato / Di non poter riposare da nessuna parte [dall’Hyperions Schicksalslied di Hölderlin: “Doch uns ist gegeben. /Auf keine Stätte zu ruhn, /” (A noi è dato / Di non poter riposare in alcun luogo)]. Hölderlin era un ebreo? Questi versi si trovano in una poesia Ahasver? No! Come ha potuto dunque scrivere qualcosa del genere? Con queste parole egli si è posto da un altro lato. Non per niente è diventato pazzo. Solo un ebreo può sopportare la vita. Cosa ha fatto Nietzsche, dunque? Anche lui si è abbandonato al cretinismo che tutto beatifica. Perché non siamo diventati pazzi già 1500 anni fa? Avremmo risparmiato molto male a noi e al mondo!…» (G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 47, annotazione del 15-XI-1914). 9 Scholem a Th. W. Adorno, 25-II-1951 (lettera 14), in G. Scholem, Briefe. Band II. 1948-1970, hrsg. von Th. Sparr, C.H. Beck, München, 1995, p. 24 e p. 238, nota 2. Il nome Rickert nell’originale è sottolineato. 10 G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 19131917, cit., p. 104 (annotazione dell’8-V-1915). Si trattava dei seminari sull’introduzione alla filosofia di Freischeisen-Köhler e delle esercitazioni sulla storia della filosofia antica, in relazione al Teeteto di Platone, di Cassirer (lunedì, ore 19-20). Cfr. ivi, p. 104, nota 119. 11 Cfr. ibid., nota 118: «L’elenco dei corsi della Königl. Friedrich-WilhelmUniversität zu Berlin del semestre estivo 1915 nomina due corsi che hanno per oggetto Kant: “La filosofia moderna (da Kant ai giorni nostri)”, Dr. Ernst Cassirer, lunedì e giovedì, ore 18-19, e “La filosofia di Kant, in relazione con la lettura della Critica della ragion pura”, Prof. Dessoir, mercoledì, ore 16-17». Cfr. anche ivi, alle pp. 423-424, le annotazioni del 19-IX-1916 (e ivi, p. 423, la nota 254), dove Scholem si riferisce a un corso di Cassirer da lui seguito sulla “Storia del problema della conoscenza come introduzione storica alla critica della conoscenza” (semestre invernale 1916/17, lunedì, ore 16-18) dando un giudizio molto critico sul suo modo di fare filosofia. Per quanto riguarda la frequentazione dei corsi di Cassirer da parte di Benjamin, cfr. la cartolina a Fritz Radt del 14 maggio 1915, in GB I, p. 266. Benjamin potrebbe aver seguito il corso sulla filosofia moderna tenuto da Cassirer durante il semestre estivo 1915 il lunedì e il giovedì dalle ore 18 alle ore 19 e il suo seminario “Esercitazioni sulla storia della filosofia antica” tenuto sempre nello stesso semestre il lunedì dalle ore 19 alle ore 20, preso in considerazione anche da Scholem. Scholem però non parla di loro incontri all’Università. 12 G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 19131917, cit., pp. 104-105. 13 Ivi, p. 108 (annotazione del 21-V-1915). 14 Cfr. Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 403. In questa lettera Benjamin esprime la necessità, per problemi fondamentali per lui e per Scholem come il problema della filosofia della storia, di sviluppare un pensiero nuovo, autonomo e solido che permetta loro di confrontarsi con ciò che la filosofia di Kant – ma la sua filosofia della storia è secondo Benjamin ancora poco sviluppata – può insegnare a riguardo (cfr. Benjamin a G. Scholem, 6-XII-1917, in GB I, p. 400, e Benjamin a G. Scholem,

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Esperienza e compito infinito 1-II-1918, in GB I, p. 426): «Per la seconda cosa mi è diventato più chiaro riflettendoci l’altro argomento di cui mi scrive: che eventualmente, se si dà il caso, per quello che riguarda i problemi ultimi bisogna prima, nel proprio pensiero, mettersi in condizione di essere saldi sulle proprie gambe. In ogni modo vi sono certi problemi come quelli per noi centrali della filosofia della storia, per i quali noi possiamo certo imparare qualcosa in modo decisivo da Kant solo quando ce li siamo posti in modo nuovo». 15 Cfr. Benjamin a E. Schoen, IV-1918, in GB I, p. 455; trad it. cit., p. 43. 16 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 39; trad. it. cit., p. 53. 17 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 383-384 (annotazione del 23-VIII-1916). 18 Benjamin a M. Buber, 17-VII-1916, in GB I, p. 326; trad. it. cit., p. 24, ma cfr. l’intero passo, dove emergono le idee sul linguaggio che Benjamin esprimerà nei mesi successivi nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916): «Posso concepire lo scrivere, in generale, solo come attività poetica, profetica, obiettiva, per quanto concerne il suo effetto, ma in ogni caso soltanto magica, vale a dire im-mediata (un-mittel-bar). Ogni influenza salutare, sì, ogni influenza della scrittura che non sia profondamente distruttiva riposa sul suo mistero (della parola, della lingua). Per quanto siano diverse le forme in cui il linguaggio può rivelarsi efficace, esso non lo diventa comunicando contenuti, ma solo dischiudendo nel modo più puro la sua dignità e la sua essenza. E se prescindo, qui, da altre forme di influenza (diverse dalla poesia e dalla profezia), vedo continuamente che la purissima eliminazione dell’indicibile nel linguaggio è la forma che ci è data e per noi più naturale, per agire all’interno del linguaggio e in questo senso attraverso di esso. Questa eliminazione dell’indicibile mi pare coincidere esattamente con lo stile veramente obiettivo, sobrio e spoglio, e delineare la relazione tra conoscenza e azione appunto all’interno della magia linguistica. Il mio concetto di stile e di modo di scrivere obiettivo e insieme altamente politico è questo: condurre a ciò che si rifiuta alla parola, solo dove si schiude questa sfera del muto nella sua pura indicibile notte, può scoccare la scintilla magica tra la parola e l’azione movente, dove sta l’unità di questi due momenti ugualmente reali. Solo la direzione intensiva delle parole dentro il nucleo del più profondo ammutolire (des innersten Verstummens) raggiunge la vera efficacia (Wirkung). Non credo che la parola sia più lontana dal divino dell’agire “reale” (das “wirkliche” Handeln), dunque è capace di portare nel divino solo attraverso se stessa e la propria purezza; presa come mezzo si sviluppa in modo abnorme e parassitario. Nel caso di una rivista non si tratta del linguaggio dei poeti, dei profeti o anche dei despoti, del canto, del salmo e dell’imperativo, che a loro volta possono costituire relazioni completamente diverse con l’indicibile ed essere fonte di una magia completamente diversa, si tratta soltanto dello stile obiettivo. Se essa riesca a raggiungerlo, è umanamente ben difficile da prevedere, e non è accaduto in molti casi. Ma penso all’“Athenäum”. Come mi è impossibile capire uno scrivere praticamente efficace (wirkendes Schrifttum), così sono incapace di scrivere a mia volta in questa forma. […] In ogni caso imparerò da quello che si dice su “Der Jude”. E come la mia incapacità di dire, ora, qualcosa di chiaro intorno al problema dell’ebraismo coincide con questa fase della rivista, che è a sua volta in fieri, così nulla vieta di sperare che ci possa essere, in futuro, un più favorevole incontro nel compimento (Erfüllung)» (ivi, pp. 326-327; trad. it. cit., pp. 24-25, traduzione modificata). 19 G. Scholem, Walter Benjamin - die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 41; trad. it. cit., pp. 55-56. 20 Sul rapporto di Benjamin con l’ebraismo e il sionismo nel contesto della sua partecipazione ai movimenti giovanili cfr. le lettere di Benjamin a Ludwig Strauss del set-

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath tembre-novembre 1912 in GB I, pp. 61-87; trad. it. in W. Benjamin, Quattro lettere su ebraismo e sionismo, in «MicroMega», 3, 1997, pp. 201-212. Cfr. inoltre la presentazione alla traduzione delle lettere a Strauss di Gianfranco Bonola (ivi, pp. 195-201) e il suo articolo Ebraismo della gioventù. Temi ebraici intorno al giovane Benjamin (1912-1915), in B. Bocchini Camaiani, A. Scattigno (a cura di), Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, cit., pp. 47-77. 21 Per il significato del termine Torah cfr. la nota esplicativa di G. Bonola e M. Ranchetti in W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Sul concetto di storia, cit., p. 57, nota 50: «Termine ebraico (alla lettera insegnamento, dottrina) che designa i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, tradizionalmente fatti risalire a Mosè e quindi dotati della massima autorevolezza e, nelle loro parti descrittive, vincolanti. Per questo Torah viene spesso tradotto con Legge. Nell’ebraismo è usato anche estensivamente, come sinonimo di Sacra Scrittura e per indicare l’intera rivelazione scritta». Il Talmud, nelle due compilazioni del Talmud palestinese o di Gerusalemme e del Talmud babilonese, raccoglie l’interpretazione della Torah, la “Legge orale” (Mishnah) e la sua esegesi (Gemarah). 22 Su Achad Ha-am cfr. G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 56, nota 1: «Pseudonimo di Asher Ginzberg (1856-1927), pubblicista di origine ucraina, propugnatore, nei suoi numerosi saggi, del “sionismo spirituale”, cioè di una rinascita spirituale del popolo ebraico come presupposto della sua riscossa politica». 23 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 41-42; trad. it. cit., pp. 55-57. 24 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 401-402 (annotazione dell’8/9-X-1916), e ivi, a p. 390, una annotazione del 24-VIII-1916 in cui Scholem scrive che Benjamin gli aveva letto dei passi da un quaderno in cui probabilmente sarebbero stati scritti poco dopo gli Appunti su un lavoro sulla categoria della giustizia. Cfr. ivi, p. 392, un passo dove si trovano termini in ebraico utilizzati negli Appunti. Benjamin non sapeva l’ebraico, quindi è verosimile o che Scholem lo abbia influenzato nella terminologia (a sua volta ripresa da Achad Haam), oppure che questo abbia semplicemente copiato sul suo diario in lettere ebraiche quei termini che Benjamin aveva probabilmente scritto in lettere latine. Cfr. il commento agli Appunti di H. Schweppenhäuser, Benjamin über Gerechtigkeit. Ein Fund in Gershom Scholems Tagebüchern, in «Frankfurter Adorno Blätter», IV, 1995, pp. 43-51, e il commento di G. Bonola, Antipolitica messianica. La giustizia di Dio come critica del diritto e del “politico” nel filosofare comune di G. Scholem e W. Benjamin (1916-1920), in «Fenomenologia e società», 13, 2, 2002, pp. 3-36. Sulla vicinanza del pensiero di Benjamin (già allora molto sviluppato) sul ruolo della giustizia nell’ebraismo alla concezione della giustizia di Achad Ha-am, di cui egli sentì parlare dal suo amico solo nell’agosto del 1916, cfr. un’annotazione di Scholem del 23-VIII-1916, ivi, p. 386: «Già qui è chiaro quanto Benjamin sia vicino a Achad Haam: ciò diventerà ancora più chiaro più tardi in un punto centrale [del suo pensiero], quello della concezione del ruolo della “giustizia (Gerechtigkeit)” nell’ebraismo». Cfr. anche ivi, p. 391. 25 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), in GS, II, 1, pp. 140157; trad. it. cit., pp. 177-193. 26 Benjamin a G. Scholem, 11-XI-1916, in GB I, p. 343. Cfr. l’intero brano: «Una settimana fa ho iniziato una lettera diretta a lei lunga diciotto pagine. Era il tentativo di rispondere, ponendole in relazione, ad alcune delle domande delle molte che mi ha sottoposto. Nel frattempo, per comprendere meglio l’oggetto [della riflessione], mi sono dovuto decidere a trasformare la lettera in una piccola trattazione, mi sto ora occupan-

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Esperienza e compito infinito do della sua redazione in bella copia. In essa non mi è stato possibile occuparmi di matematica e lingua, matematica e pensiero, matematica e Sion, poiché i miei pensieri su questo tema infinitamente difficile sono ancora incompiuti. / Del resto però cerco di confrontami, in questo lavoro, con l’essenza della lingua e precisamente – per quanto lo capisco – in rapporto immanente con l’ebraismo e con il primo capitolo della Genesi. Aspetto il suo giudizio su questi pensieri con la sicura speranza di esserne molto incoraggiato. Posso mandarle il lavoro solo tra qualche tempo – non so prevedere quando – forse tra una settimana, forse anche più tardi; come le ho detto non è ancora finito. Nel titolo “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo” può vedere un certo proposito sistematico, che però mi rende evidente la frammentarietà delle idee, poiché io non sono ancora in grado di toccare molti argomenti. In particolare la concezione teoretico-linguistica della matematica – che per me è molto preziosa anche se non posso ancora cimentarmi con essa – ha un’importanza fondamentale per la teoria della lingua in generale» (ivi, pp. 343-344). Nella stessa lettera Benjamin scrive a Scholem che riceverebbe volentieri da lui il libro di S. R. Hirsch, Neunzehn Briefe über Judenthum [Als Voranfrage wegen Herausgabe von “Versuchen” desselben Verfasser “über Israel und seine Pflichten”, hrsg. von Ben Usiel (alias S. R. Hirsch), Altona 1836], e un saggio di Hillel Zeitlin sulla Schekhinah (la personificazione e ipostatizzazione della presenza di Dio nel mondo) – saggio del 1911 che Scholem aveva tradotto – perché riguardano da vicino il suo lavoro sul linguaggio. Gli chiede inoltre di aggiungere la traslitterazione tedesca delle parole ebraiche più importanti nel libro di Hirsch. Di Hirsch Benjamin aveva utilizzato la traduzione del capitolo sulla Genesi del Pentateuco (Der Pentateuch, übers. und. Erl. v. Samson Raphael Hirsch, erster bis fünfter Theil, 2. Aufl., Frankfurt am Main, 1893). Infine egli indica a Scholem l’uscita di un saggio di Hans Ludwig Held sul Golem e la mistica ebraica sulla rivista «Das Reich» (cfr. H. L. Held, Von Golem und Schem. Eine Studie aud der ebräischen Mystik, in «Das Reich», 3, 1916, pp. 334-379). 27 Cfr. S. R. Hirsch, Neunzehn Briefe über Judenthum. Als Voranfrage wegen Herausgabe von “Versuchen” desselben Verfasser “über Israel und seine Pflichten”, cit., p. 58, dove Hirsch parla, nella nona lettera, della giustizia (Gerechtigkeit), oltre che dell’amore e dell’educazione: «Giustizia, cioè rispetto per ogni essere (Wesen) come creatura di Dio, per ogni proprietà come determinazione divina, di ogni ordine come legge divina, e sufficienza di tutto ciò che essa esige». Su S. R. Hirsch cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 316-318 (annotazione del 22-VI-1916). 28 Cfr. M. Hess, Rom und Jerusalem, die letzte Nationalitätsfrage (1862), M. W. Kaufmann Verlag, Leipzig, 1899; trad. it. Roma e Gerusalemme. L’ultima questione nazionale, trad. e note a cura di G. Giannini, Presentazione di G. Lissa, Guida, Napoli, 2002. 29 Cfr. W. Benjamin, Thesen über das Identitätsproblem (1916), in GS, VI, pp. 27-29, frammento 14. 30 H. Rickert, Das Eine, die Einheit und die Eins. Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, in «Logos», 2, 1911-12, pp. 26-78. 31 E. Zilsel, Das Anwendungsproblem. Ein philosophischer Versuch über das Gesetz der großen Zahlen und die Induktion, Liepzig, 1916. Cfr. in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 314, l’annotazione del 18-VI-1916 dove Scholem scrive, a Seeshaupt, di aver comprato questo testo subito dopo aver incontrato Benjamin. Scholem citerà spesso Zilsel nel diario, mentre Benjamin indica a Scholem una presentazione di Das Anwendungsproblem da parte dell’autore nei «Kant-Studien» (21, 2-3, 1916, p. 335 s.), nella stessa lettera dell’11 novembre 1916 in cui gli parla del suo lavoro sul linguaggio. Cfr. Benjamin a G. Scholem, 11-XI-1916, in GB I, p. 344 : «Nell’ultimo numero dei Kant-Studien Herr Zilsel fa un’autopresentazione del suo libro».

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath 32 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 50; trad. it. cit., p. 66. 33 Cfr. ivi, p. 60; trad. it. cit., p. 45, il seguito della conversazione sul tempo: «Questo ci portò a parlare del significato dei termini “decorso”, “numero”, “serie” e “direzione”, e a chiederci se il tempo, che indubbiamente costituisce un decorso, abbia anche una direzione. Dissi che non eravamo in grado di sapere se il tempo non si comporti come certe curve che, se hanno un decorso stabile in ogni punto, in nessun singolo punto posseggono una tangente, ossia una direzione determinabile. Ci chiedemmo se gli anni, al pari delle cifre, siano intercambiabili così come sono numerabili». Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 390-391 (annotazione del 24-VIII-1916). 34 S’intende qui la filosofia della storia di F. Schlegel e Novalis, in cui è implicita una visione messianica a cui Benjamin si riferisce (dicendo di non poterla affrontare nel suo lavoro) in una lettera a E. Schoen, e a cui accenna nell’introduzione alla sua tesi di dottorato Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Cfr. Benjamin a E. Schoen, 7-IV1919, in GB II, p. 23 e W. Benjamin, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (1919), in GS, I, 1, pp. 12-13; trad. it. Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, cit., pp. 6-7. 35 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 44-45; trad. it. cit., p. 59-61. Cfr. anche G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 389-391 (annotazione del 24-VIII-1916). 36 Di Ernst Lewy Benjamin leggerà Die Sprache des alten Goethe und die Möglichkeit ihrer biologischen Fundamentierung, Sonderdruck aus: «Zeitschrift für Sexualwissenschaft und Sexualpolitik», 17, 1, 1930 (A. Markus & E. Weber’s Verlag , Berlin, 1930), pp. 36-42. 37 Moritz Geiger (1880-1937), allievo di Husserl, insegnò dal 1915 a Monaco come professore straordinario di filosofia. Benjamin seguì le sue esercitazioni sulla psicologia, e su Kant e Descartes (cfr. Benjamin a F. Radt, 21-XI-1915, in GB I, p. 294, nota). 38 Cfr. il Curriculum Vitae scritto da Benjamin alla fine del luglio 1940 su preghiera di Adorno, che si dava da fare per il suo trasferimento in America, per l’Institut für Sozialforschung: «Le lezioni del filosofo monacense Moritz Geiger, così come quelle del Privatdozent di lingue ugro-finniche, Ernst Lewy, hanno prodotto su di me un’impressione duratura. Le esercitazioni che quest’ultimo ha tenuto sullo scritto di Humboldt “Über den Sprachbau der Völker” così come le idee da lui sviluppate nel suo scritto “Zur Sprache der alten Goethe”, hanno destato il mio interesse filosofico» (W. Benjamin, Curriculum Vitae VI, in GS, VI, p. 225, fine giugno 1940). Su Lewy cfr. anche G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 33; trad. it. cit., p. 47: «Parlammo di Ernst Lewy nell’aprile 1916, quando io gli raccontai di avere acquistato da un antiquario l’edizione Steinthal delle Sprachphilosophische Schriften [Scritti di filosofia del linguaggio] di Wilhelm von Humboldt, in cui mi ero imbattuto durante la lettura dei Beiträge zu einer Kritik der Sprache [Contributi a una critica del linguaggio] di Mauthner. Benjamin ne fu molto sorpreso e mi disse di avere preso parte, nel corso di uno dei suoi primi semestri [a Monaco], alle esercitazioni di Ernst Lewy sulla filosofia del linguaggio di Humboldt essendo stato colpito, in particolare, delle lezioni introduttive». Cfr. G. Agamben, Cronologia delle opere di Walter Benjamin, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, cit., p. XIX: «A parte le lezioni di Rickert a Friburgo e a quelle di Geiger a Monaco, il solo docente universitario che abbia esercitato su Benjamin un durevole influsso è Ernst Lewy, Privatdozent di lingue ugro-finniche all’Università di Berlino». Su Rickert cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 24; trad. it. cit., p. 34.

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Esperienza e compito infinito 39 Cfr. Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, p. 300. Cfr. ancora il Curriculum Vitae del 1940: «Fin dall’inizio l’interesse per la filosofia del linguaggio, insieme all’interesse per la teoria dell’arte, è stato per me predominante. Mi ha spinto, nel periodo in cui studiavo all’Università di Monaco, a dedicarmi al messicano – una decisione a cui devo la conoscenza di Rilke, che nel 1915 studiava la lingua messicana» (Curriculum Vitae VI, in GS, VI, p. 226). Cfr. inoltre G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 47; trad. it. cit., pp. 62-63: «Benjamin rimase fin verso il 20 dicembre 1916 a Monaco, dove già nel semestre estivo aveva iniziato, presso l’americanista Walter Lehmann, lo studio della cultura messicana e della religione dei Maya e degli Atzechi. Era uno studio che corrispondeva da vicino ai suoi interessi mitologici. In quelle lezioni che solo pochi – soprattutto fra gli studenti – frequentavano, Benjamin fu colpito dalla memorabile figura del prete spagnolo Bernard Sahagún, al quale si deve la conservazione di molte delle tradizioni maya ed atzeche. A Monaco, tra metà novembre e metà dicembre, Benjamin fece fugacemente la conoscenza di Rilke, della cui gentilezza parlò con ammirazione […]. Sulla sua scrivania di Berlino vidi poi il grande vocabolario atzeco-spagnolo di Molinos, che Benjamin si era procurato per studiare la lingua atzeca, progetto che tuttavia rimase sempre irrealizzato. Il ricordo di quanto Benjamin mi aveva raccontato dell’atmosfera che regnava nelle lezioni di Lehmann spinse anche me, in seguito, quando nel 1919 andai a Monaco, a frequentarle». 40 Cfr. Benjamin a F. Radt, 21-XI-1915, in GB I, p. 291: «Il genio universale è un giovane di alcuni anni più vecchio di me, che ora lavora alla sua tesi di dottorato in filosofia». 41 Cfr. quanto Benjamin scrive a Fritz Radt (fratello di Grete Radt) nel dicembre del 1915, poco prima di cominciare a parlare di Noeggerath, sulla differenza tra der Genius e das Genie, dove il primo termine indica a suo avviso la purezza della produttività nella cui direzione la teoria ordina la creatività, poiché la produttività proviene solo dalla coscienza chiara delle sue fonti oggettive, mentre il secondo termine è problematico e non è importante: «Secondo le condizioni della teoria la vita del creatore si appaga ritmicamente con la produzione. Essa garantisce la sua purezza nel tenere lontana ogni violenza (che è l’impurità propria del creatore) e può farlo in quanto illumina costantemente quella prima e più semplice idea, a cui la produttività si riallaccia sempre per poter crescere e dispiegarsi. La luce della teoria è infinita, per quanto gli oggetti possano essere determinati. […] Non è importante il genio (Genie) ma il Genius. In questo incomparabile termine Genius, il cui significato forse è stato dimenticato dopo Hölderlin e Wilhelm von Humboldt e Goethe, si trova nel modo più chiaro quella purezza della produttività, che sgorga solo dalla più chiara coscienza delle sue fonti oggettive. Il genio (Genie), nell’opera e nel creare, rimane problematico, il Genius è “sobrio in modo santo” (heilig-nüchtern). Legga il “Gesang der Deutschen” di Hölderlin. Della purezza (o del “valore culturale”) della scienza si può parlare solo se si riconosce attiva in essa in modo eccellente la teoria in questo significato; il significato della ratio si trova solo in questo nesso, e ad esso corrisponde il fatto [,] in modo caratteristico per l’epoca, che a una scienza, che è diventata ateoretica, ha perso la coscienza delle sue idee e tutt’al più ha il vago concetto di “ipotesi”, sta di fronte l’attivismo e l’estetismo […], fidando che si dia purezza di un mondo senza teoria. Questo […] non è pensabile neanche per gli dei» (Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, pp. 298-299). 42 Benjamin a F. Radt, 21-XI-1915, in GB I, p. 291. 43 Ivi, pp. 291-292. Il libro su Goethe e Platone è lo studio dell’allieva di Natorp Elisabeth Rotten Goethes Urphänomen und die platonische Idee (Gießen, 1913), che affronta un tema che restò sempre negli interessi di Benjamin. Il testo è citato nella sua Dissertazione del 1919, nel capitolo dove si tratta de La teoria dell’arte primo-romantica e

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath Goethe. Cfr. Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, in GS, I, 1, p. 110; trad. it. cit., p. 103: «Per la complessiva problematica della seguente trattazione, deve essere fatto rimando soprattutto a quella del tutto corrispondente, anche se insufficientemente trattata, in E. Rotten, Goethes Urphänomen und die platonische Idee, cap. VIII». 44 M. Geiger, Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», in Gemeinschaft mit M. Geiger/München, A. Pfänder/München, A. Reinach/Göttingen, M. Scheler/Berlin, hrsg. von E. Husserl, Band. I, Teil II, Halle a. d. S., 1913, pp. 567-684. Cfr. Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, pp. 302 e pp. 304-305. 45 Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, p. 302. 46 Cfr. ivi, p. 305. Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Buch I: Allgemeine Einführung in die reine Philosophie: Nachwort (1930) (Text nach Husserliana III/1 und V. - 1992), in Gesammelte Schriften, Band 5, hrsg. von E. Ströker, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 1992; trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro primo, a cura di V. Costa, introd. di E. Franzini, Einaudi, Torino, 2002. L’ipotesi di Scholem sembra trovare conferma nella voce che Benjamin scrisse nel novembre del 1929 per l’Encyclopedia Judaica (vol. V, Berlin, 1930), dal titolo Juden in der deutschen Kultur, in GS, II, 2, pp. 807-813; trad. it. Gli ebrei nella cultura tedesca, in W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, cit., pp. 514-528. In essa Benjamin si riferisce esplicitamente, nella sezione I. Nelle scienze dello spirito dedicata ai filosofi ebrei, nella parte dedicata a Husserl, alle Ideen I e all’estetica e alla teoria della matematica fenomenologiche di Moritz Geiger: «Se l’opera di Cohen rappresenta il compimento storico di un grande movimento di pensiero, quello dell’idealismo tedesco, quella di Edmund Husserl (n. 1859) è volta alla fondazione di una nuova scuola, feconda e ricca d’influenza: la fenomenologia. Contro la dottrina idealistica del conoscere puro che genererebbe i suoi oggetti, Husserl pone quella fenomenologica secondo cui il pensiero (come del resto anche il sentimento etico, il valutare) incontra le fattispecie (Sachverhalte). Il capolavoro di Husserl, le Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie [Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica] del 1913 si pone il compito di esporre il processo logico che conduce il ricercatore dalle datità (Gegebenheiten) empiriche a quelle “pure”. Queste ultime vanno trovate tanto nelle impressioni sensoriali quanto nelle valutazioni di natura etica o estetica. La sua scuola ha intrapreso la rappresentazione delle fattispecie “eidetiche” (“eidetischer” Sachverhalte) nei più diversi campi. Per l’estetica e per la matematica sono fondamentali sotto questo aspetto le ricerche di Moritz Geiger» (ivi, p. 810; trad. it. cit., pp. 519-520). L’articolo, di cui è andato perduto l’originale, fu rimaneggiato redazionalmente e firmato, oltre che da Benjamin, da Nahum Goldmann e Benno Jacob. Sulla copia in suo possesso Benjamin scrisse: “fortemente accorciato e privato di tutto l’essenziale” (cfr. la nota del curatore italiano a Gli ebrei nella cultura tedesca, in Ombre corte. Scritti 19281929, cit., p. 528). 47 E. Husserl, Logische Untersuchungen, erster und zweiter Band (Text nach Husserliana XVIII, XIX/1 e XIX/2) in Gesammelte Schriften, Bände 2, 3, 4, in Gesammelte Schriften, hrsg. von E. Ströker, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 1992; trad. it. Ricerche logiche, 2 voll., a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano, 19882. 48 Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, p. 299. 49 Ivi, pp. 299-300. 50 M. Geiger, Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», Band I, Teil II, 1913, pp. 567-684; cfr. Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, pp. 304-305, nota.

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Esperienza e compito infinito 51 Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, pp. 301-302. Come si è visto, il testo di Husserl è probabilmente Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1913). Cfr. Juden in der deutschen Kultur, in GS, II, 2, p. 810; trad. it. cit., pp. 519-520, e Benjamin a F. Radt, 4-XII-1915, in GB I, p. 305, nota. 52 Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, in GB I, p. 390; trad. it. cit., pp. 35-36. Dal rapporto con Scholem, alla cui visione della verità – forse per la comune radice ebraica della loro cultura e del loro modo di porsi nei confronti dell’interpretazione della filosofia, della storia e della religione – si sente profondamente affine, Benjamin si aspetta un grande sviluppo nel sapere di entrambi e nell’elaborazione filosofica individuale e comune. Scholem travisa però il senso delle sue parole e Benjamin gli scrive – spiegando meglio il senso della lettera precedente – il 7 dicembre 1917 che tra loro c’è un rapporto positivo che non c’è tra lui e il genio (cfr. Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 402). 53 Cfr. Benjamin a F. Radt, 21-XI-1915, in GB I, p. 291: «Naturalmente è cristiano». 54 Cfr. A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., pp. 48-50: «Al contrario di Noeggerath sia Benjamin che Cohen tengono fede al dettato kantiano, che senza trascendenza non si può avere critica (e senza critica non si può avere trascendenza). Questo costituisce lo sfondo della critica di Benjamin al concetto di simbolo classico e il motivo per la salvazione (Rettung) dell’allegoria […] che [resta] […] fedele al concreto, al finito e apre nel suo fallire lo spazio per la speranza. Così anche la differenza benjaminiana tra l’intuizione cristiana e quella ebraica ha a che fare con la questione, se illuminismo e autonomia esigono una filosofia dell’immanenza o della trascendenza. Essa conduce alla questione della legge, più precisamente alla legge in quella forma che è alla base del divieto d’immagine veterotestamentario e che secondo Cohen vuole dire che l’uomo non può voler essere Dio. Cohen collega il metodo filosofico della critica della conoscenza (Erkenntniskritik) con la tradizione religiosa e culturale dell’ebraismo. Mentre il cristianesimo con il dogma dell’incarnazione di Dio favorì la confusione (Vermischung) di Dio e mondo, quindi la secolarizzazione della religione, l’ebraismo sarebbe rimasto rigorosamente fedele, secondo Cohen, alla differenza tra Dio e mondo, che impedisce una coincidenza di religione e ragione e di logica e etica e quindi rende impossibile la secolarizzazione della religione in un sapere (Wissen) assoluto, divino, per legge (per Gesetz). […] La legge ebraica vieta quindi la divinizzazione dell’uomo e proprio con questo garantisce la posizione della critica. Viceversa: La critica della conoscenza garantisce la salvaguardia della legge. Benjamin riprenderà da Hermann Cohen proprio questo collegamento (Verbindung) della legge ebraica, che vieta una divinizzazione dell’uomo, con una critica della conoscenza che rifiuta la coincidenza di sapere e religione, di sapere e “sovrasensibile”. Nel legame tra critica della conoscenza e divieto d’immagine ebraico c’è la differenza che divideva l’intuizione di Benjamin da quella dell’amico cristiano, e fondava la disparità dei metodi di lavoro». 55 Cfr. Juden in der deutschen Kultur, in GS, II, 2, p. 809; trad. it. cit., pp. 519: «Il capolavoro filosofico-religioso di Cohen, Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums [La religione della ragione dalle sorgenti del giudaismo] del 1919, mette a confronto il giudaismo dei profeti con il mondo del mito per riconoscere nel monoteismo giudaico l’unica religione rigorosamente estranea al mito, etica». 56 Cfr. A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., pp. 47-48. 57 Cfr. P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, relazione inedita tenuta il 12 aprile 1999 alla Terza Università di Roma, pp. 10-

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath 11: «se comune a tutti gli autori considerati, infatti, può essere considerata la radicale fedeltà alla dimensione di contingenza propria dell’umano ed il rifiuto di ogni suo assoluto trascendimento in direzione di un assoluto “An sich” oggettivisticamente inteso e tale da annullare le differenze tra problema etico e ragione teoretica [cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 429] […], in Cohen (e in Benjamin?) ciò si traduce nell’invito a vivere l’apertura che questa contingenza dischiude nella prospettiva del messianesimo etico [cfr. H. Cohen, Kants Begründung der Ethik, cit.; Peter A. Schmidt; Ethik als Hermeneutik, cit., pp. 167 ss.] […], in Noeggerath invece il modello secondo il quale il medesimo tema della contingenza viene coniugato è piuttosto quello greco di una voluta chiusura nell’immanenza, con il conseguente affacciarsi come centrale della categoria del tragico. Cfr. la centralità riconosciuta al problema del tragico-contingente (Problem des Tragisch-Zufälligen) (p. 72)». 58 Cfr. A. Deuber-Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., pp. 46-50, in part. le pp. 47-48: «Se soltanto ci chiediamo il motivo, per il quale Noeggerath dalle conversazioni a Monaco fino alla sua morte […] fece pensare a un tentativo di ampliamento della conoscenza (Erweiterung der Erkenntnis), ci avviciniamo ancora di più alla differenziazione di Benjamin tra l’intuizione cristiano-tedesca e l’intuizione ebraica e tra i i due metodi di lavoro conseguentemente diversi. Già nella sua dissertazione si chiariva che cosa infine era in gioco in Noeggerath, al di là della problematica della teoria della conoscenza; era in gioco una filosofia dell’immanenza, che doveva poter fondare sul terreno della razionalità l’esperienza mitica». 59 Cfr. Juden in der deutschen Kultur, in GS, II, 2, p. 809; trad. it. cit., p. 519 «Cohen non è affatto un intellettualista, bensì un rigoroso razionalista». Qui è evidente l’influenza dell’interpretazione di Noeggerath del neokantismo e di Cohen sulla ricezione di Benjamin di quest’ultimo. 60 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie. Ein Beitrag zur Kritik der Antirationalismus. Mit zwei Excursen: “Über den Urteilscharakter der Metageometrie” und “Über den Platonischen Begriff des metaxy”, Diss., Erlangen, 1916 (dattiloscritto, Università di Erlangen). La tesi fu terminata e discussa sotto la guida di Paul Hensel. Si ringrazia Piefrancesco Fiorato – che ha in preparazione un libro su Benjamin e Noeggerath – per aver gentilmente messo a disposizione una copia del manoscritto della tesi di Noeggerath, da lui personalmente richiesta all’Università di Erlangen. 61 Ivi, p. 76. Trattandosi di un manoscritto non pubblicato, si riporta in nota il testo tedesco: «Sein “Humor” liegt in der einfachen Sachlichkeit, wie er Negationen zu Positionen höherer Ordnung umbildet und fruchtbar macht; wie er das Bedingungslose zum Unbedingten, das Endlose zum Unendlichen umbiegt, wie er das Objekt zum Gegenstand umwertet. Im Prinzip der Immanenz wird ihm gerade das zum Hebel und Archimedischen Punkt, woran jeder Intellektualismus resignieren muss. Denn dessen Formel – in seiner konsequentesten Entwicklung – ist immer die Verlegung des Zentrums in ein aussermenschlich Absolutes, übrigens die gerade Abkehr von dem Leitbegriff unserer gesamten Bildung: der Antike». 62 Per un ritratto di Noeggerath cfr. G. Scholem, Walter Benjamin und Felix Noeggerath, in Walter Benjamin und sein Engel. Vierzehn Aufsätze und kleine Beiträge, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1983, pp. 78-127. 63 Cfr. ivi, pp. 92-93: «Così egli studiò [a Monaco] e a Berlino, dove annoverava tra i suoi insegnanti Benno Erdmann, Simmel e Ernst Cassirer, a Bonn, dove seguì i corsi di Leitzmann, a Jena, dove seguì Eucken, e soprattutto studiò per più semestri a Marburgo, dove subì il forte influsso del neokantismo della “scuola di Marburgo” di

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Esperienza e compito infinito Hermann Cohen e Paul Natorp. Anche nel semestre invernale 1912/13 era di nuovo lì. Nicolai Hartmann (1882-1950), che a quel tempo era libero docente a Marburgo, dove si era abilitato con Cohen, racconta queste cose di lui – che aveva preso parte al suo corso e al suo seminario – in una lettera del 1912 al suo amico Heinz Heimsoeth (18861975), il quale chiaramente aveva conosciuto le pecularietà di Noeggerath nel semestre precedente a Marburgo (dal 1907 in poi): “Con mia meraviglia ho visto [nel corso di logica] alcuni signori più vecchi e pretenziosi, tra questi Nöggerat [!] […]”. Nel resoconto del suo seminario su Kant si esprime poi in modo più personale: “[…] [Nöggerat] mi disse che veniva espressamente per imparare ad esprimersi filosoficamente attraverso la partecipazione” [cfr. N. Hartmann, H. Heimsoeth, Briefwechsel, Bonn, 1978, p. 132]. Noeggerath deve essere capitato già anni prima alle conferenze di Cohen. Il suo particolare modo di parlare è attestato ripetutamente anche da altri che lo hanno conosciuto. A Monaco nomina tra i suoi insegnanti i fenomenologi Max Scheler, Wilhelm Pfänder e Moritz Geiger, lo psicologo Lipps, gli indologi Kuhn e Schermann e l’americanista Walter Lehmann, ma anche l’eminente storico della filosofia medievale Clemens Bäumker. Egli studiò ovunque, oltre alla filosofia, anche l’indologia e la scienza della lingua indogermanica, ma seguì anche storici della religione e teologi. Già in questi anni doveva aver iniziato studi matematici e doveva essersi occupato in modo serio di geometria non-euclidea, anche se non nomina i suoi insegnanti in questi campi. In questi dodici lunghi anni di studio Noeggerath sviluppò quella profonda cultura (Bildung) e quegli orizzonti straordinariamente ampi, che non affascinarono solo Benjamin». 64 Sui rapporti di Noeggerath con Alfred Schuler, la cui personalità e le cui idee sulla “vita del mito”, vicine a quelle di Klages, interessò molto anche Benjamin, e con Karl Wolfskehl, che gli fece conoscere Schuler, cfr. ivi, pp. 93-94. Su Benjamin e Schuler, dal quale secondo Scholem Benjamin riprende il concetto dell’aura, cfr. anche ivi, p. 125, la nota 39, in cui si ricorda anche il rapporto di Benjamin con Max Pulver, autore di una dissertazione sull’ironia romantica (Benjamin lo aveva conosciuto a Monaco nel 191516 e riteneva il valore delle sue opinioni filosofiche molto problematico): «Questa esposizione del concetto dell’aura potrebbe essere arrivata anche tramite […] Noeggerath così come attraverso Max Pulver. […] doveva essere completamente accessibile per l’interesse particolare che Noeggerath aveva allora per le idee di Schuler sulla vita del mito. Ma in ciò che io ho appuntato nell’agosto del 1916 sulle idee di Benjamin sulla mitologia, si trova molto più Bachofen o Konrad Theodor Preuß (il rappresentante principale del “preanimismo” in etnologia, 1869-1938) che Schuler. Sono però sicuro che egli fosse soggetto a quel tempo all’impressione prodotta dai suoi colloqui con Noeggerath sulla nuova scienza della mitologia». 65 Sui rapporti di Noeggerath con George e il suo circolo, con von Hellingrath e lo storico delle religioni Hans Ludwig Held, e sul suo interesse per i fenomeni della parapsicologia e della scienza delle religioni, cfr. ivi, pp. 94-97; sui rapporti con Benjamin, cfr. ivi, pp. 96-97: «All’inizio del semestre invernale 1915 […] Benjamin conobbe Noeggerath e precisamente prima al seminario di Moritz Geiger e poi anche alle lezioni di Walter Lehmann. Veramente [Benjamin] […] avrebbe sperato di incontrare a Monaco Ludwig Klages, che aveva già conosciuto quando era presidente della Freie Studentenschaft a Berlino, e del quale stimava molto gli scritti grafologici. Ma Klages era andato già nel 1915 in Svizzera, poiché anche lui non voleva sapere niente della guerra […]. Al suo posto Benjamin incontrò Noeggerath, che gli fece una grande impressione come filosofo e mitologo. Quanto Noeggerath fosse a quel tempo profondamente immerso in riflessioni sulla storia delle religioni si vede del resto anche dal fatto che Hans Ludwig Held, una figura importante della vita spirituale di Monaco tra il 1905 e il 1950, lo invitò a

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath partecipare alla costituzione […] della “Hochschule für Religionswissenschaft” da lui progettata nel 1916. […] al suo posto uscirono le tre annate della memorabile rivista trimestrale “Das Reich”, che si occupava in modo degno di nota ancora adesso di ambiti che erano di grande interesse anche per Noeggerath e Benjamin (Benjamin lesse questi quaderni, almeno in parte). Benjamin e Noeggerath devono aver avuto uno scambio di idee molto vivace in questo semestre invernale. Il rapporto si protrasse per tutto il semestre, si interruppe tuttava con la sua fine alla metà di marzo del 1916». 66 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit. pp. 10, 21, 65: «Kontinuation durch Grenzübergang». Lo spunto per la ripresa di questo tema è dato a Noeggerath da un passo kantiano tratto dal capitolo sulle antinomie della Critica della ragion pura in cui si dice che l’idea oltrepassa l’esperienza solo secondo il grado ma non secondo la specie (Art) (cfr. ivi, p. 71). Cfr. il passo della Critica della ragion pura, in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 447, p. 409; trad. it. cit., p. 349: «Considerato che, oltracciò, queste idee sono tutte trascendenti e, benché non oltrepassino veramente, quanto al modo (Art), l’oggetto, cioè i fenomeni, ma abbiano a che fare unicamente col mondo sensibile (non coi noumeni), tuttavia spingono la sintesi fino a un grado, che sorpassa ogni possibile esperienza, si può con tutta proprietà, secondo la mia opinione, denominarle tutte quante concetti cosmologici». L’indicazione del passo kantiano, citato da Noeggerath solo in piccola parte, è ripresa da P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 7. 67 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 6: «(philosophische) Erkenntnis». 68 Ibid.: «atheoretischer Gebilde» Cfr. il contesto: «solo la forma di oggetti in genere [può] diventare contenuto della conoscenza che riflette su di essi […], d’ora in poi [può esserci] con certezza la possibilità di una teoria anche degli oggetti ateoretici. Ciò che sembra comprometterla ogni volta, è la relativa incommensurabilità del pensiero come essere teoretico di fronte all’essere ateoretico. Infatti è e rimane qualcosa di diverso se la stessa e unica conoscenza (filosofica) una volta affronta la particolare sintetica del giudizio, l’altra al contrario affronta unità che con questa non hanno più nulla in comune, tranne l’astrazione totalmente priva di contenuto di una “sintesi in genere” [einzig die Form von Gegenständen überhaupt Inhalt der auf sie reflektierenden Erkenntnis werden [kann], nunmehr positiv die Möglichkeit einer Theorie auch atheoretischer Gebilde. Was diese immer wieder zu kompromittieren scheint, das ist die relative Inkommensurabilität des Denkens, als theoretischen gegenüber dem atheoretischen Sein. Denn es ist und bleibt etwas anderes, wenn ein und dieselbe (philosophische) Erkenntnis das eine Mal der besonderen Urteilsynthetik, das andere Mal hingegen Einheiten gegenüber tritt, die mit dieser zunächts nichts mehr gemein haben, als das völlig inhaltlose Abstraktum einer “Synthesis überhaupt”]» (ibid.). 69 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit. p. 24: «E l’esame dell’impossibilità in linea di principio del procedere di Kant è stato ciò che chiaramente ha portato questi [Cohen e Natorp] a limitare il concetto del metodo trascendentale e poi a generalizzare la sua applicazione in un modo che nel senso degli accenni kantiani non c’è sicuramente (cfr. a proposito le nostre argomentazioni sull’Introduzione alla “Critica della facoltà di giudizio” verso la fine di questo lavoro) [Und die Einsicht in die prinzipielle Unmöglichkeit des Kantischen Verfahrens ist es denn auch offenbar gewesen, die diese veranlasste, den Begriff der transzendentalen Methode so zu beschränken, ihre Anwendung dann aber so zu verallgemeinern, wie es im Sinn der Kantischen Ansätze sicher nicht gelegen ist (vgl. dazu unsere Ausführungen über die Einleitung zur “Urteilskraft” gegen Schluss dieser Arbeit)]».

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Esperienza e compito infinito 70

Ivi, p. 6. Cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 346-347: «I “fatti culturali” (invece di una “scienza dei problemi morali”) costituiscono il fatto di riferimento per l’etica e l’estetica, metodicamente analogo alla scienza della natura matematica […]. Il ricavare l’apriori trascendentale della scienza, della morale (Sittlichkeit) e dell’arte non ordina però ancora le relative discipline trascendental-filosofiche in un nesso sistematico. Piuttosto la fondazione del sistema per mezzo della teoria della conoscenza (die erkenntnistheoretische Grundlegung des Systems) viene limitata in modo da sviluppare i concetti fondamentali del “metodo trascendentale” in modo prototipico e vincolante per tutti i membri del sistema». 72 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit. p. 6. 73 Cfr. ivi, p. 71: «La “causalità per libertà” riguarda la “conoscenza stessa”, l’“esperienza in genere” e permette in questo ampliamento la precisa definizione della sua u n i t à a partire dalla relazione ipotetica e dalla sintesi. Così si abbandona secondo il g r a d o il semplice metodo trascendentale [“Kausalität durch Freiheit” […] betrifft “Erkenntnis selber”, “Erfahrung überhaupt” und ermöglichst in dieser Erweiterung die genaue Definition ihrer E i n h e i t von der hypotetischen Relation und Synthesis her. Damit ist, den G r a d e nach die einfache transscendentale Methode verlassen]». Cfr. P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 4. Sulla causalità per libertà cfr. la terza Antinomia di Kant, la tesi del “Terzo conflitto delle idee trascendentali”, in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 428, p. 492; trad. it. cit., p. 369. 74 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 7. Cfr. l’intero passo, ivi, pp. 6-7: «Secondo il grado, e così già in modo valido per la teoria della conoscenza, […] [il metodo trascendentale] si riferisce all’“esperienza in genere”, all’unità di contro alla sua articolazione in “oggetti”, comprende inoltre l’estensione delle sue possibilità e applicazioni – inclusa quindi forse anche la scienza del diritto – sotto un punto di vista. Secondo la specie esso delimita reciprocamente in modo periferico i diversi ambiti e permette così il loro confronto e infine la comprensione profonda della loro incommensurabilità [Dem Grade nach, und so schon für die Theorie der Erkenntnis geltend, bezieht sie sich dann auf “Erfahrung überhaupt”, auf die Einheit gegenüber ihrer Artikulation zu “Gegenständen”, fasst ausserdem den Umfang ihrer Möglichkeiten und Anwendungen – einschliesslich also etwa auch der Rechtswissenschaft – unter einen Gesichtspunkt. Der Art nach grenzt sie peripherisch die verschiedenen Bereiche gegen einander ab und ermöglicht so ihren Vergleich und endlich die tiefere Einsicht in jene Inkommensurabilität]». 75 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin und Felix Noeggerath, in Walter Benjamin und sein Engel, cit., pp. 97-98: «Il 19 dicembre 1916 [Noeggerath] ottenne [con la sua dissertazione] il dottorato summa cum laude in filosofia sistematica, indologia e linguistica comparata. […] In questo periodo conobbi anche Helmut Plessner. […] L’ampio trattato di Noeggerath comincia con un motto di Goethe: “Il punto fondamentale che sembra perdersi di vista nell’impiego esclusivo dell’analisi è che ogni analisi presuppone una sintesi” [J. W. Goethe, Analyse und Synthese, in Zur Naturwissenschaft im allegmeinen, in Werke, Hamburger Ausgabe, textkritisch durchgesehen und kommentiert von E. Trunz, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1982, 14 Bände, Band 13, p. 51; trad. it. Analisi e sintesi, in J. W. Goethe, La metamorfosi delle piante, cit., p. 157]. Sotto questa bandiera vengono presentate spiegazioni straordinariamente acute del concetto di sintesi in Kant e delle sue trasformazioni tra la Critica della ragion pura e la Critica della facoltà

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath di giudizio, che portano in parte ancora l’impronta del pensiero di Hermann Cohen, ma in fondo mirano a una ripresa e a uno sviluppo (Weiterführung) radicale di [alcune] idee della scuola di Marburgo e così a un nuovo ordine categoriale, cose che sarebbero state adatte a ampliare molto il concetto coheniano dell’esperienza scientifica. Anche qui è presente una palese affinità con idee che Walter Benjamin espose due anni dopo nel suo “Programma della filosofia futura” (cfr. II, 157-171). La difesa di Noeggerath del razionalismo è rivolta principalmente contro Henri Bergson, il cui pensiero egli definisce “intellettualismo scettico”, cioè un intellettualismo che finisce per autodistruggersi». 76 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 77-78; trad. it. cit., pp. 99-100: «Fin dall’inizio [nella primavera-estate del 1918] discutemmo a lungo del suo Programma della filosofia futura. Egli parlò del contenuto del concetto di esperienza, su cui l’opera si fondava, e che secondo il suo intendimento abbracciava il legame spirituale e psicologico dell’uomo con il mondo, quale si realizza negli ambiti che non sono stati ancora penetrati dalla conoscenza. Quando osservai che, di conseguenza, si sarebbero legittimamente potute includere in tale concetto di esperienza anche le discipline divinatorie, egli mi rispose con questa formulazione estrema “Una filosofia che non comprenda in sé e non sia in grado di esplicare la possibilità della divinazione a partire dai fondi di caffè non può essere una vera filosofia”. Tale metodo divinatorio, disse, è forse da condannare in alcuni ambiti, come accade nell’ebraismo, ma deve essere riconosciuto come possibile a partire dal contesto naturale delle cose [Zusammenhang der Dinge]. E in effetti i suoi appunti degli ultimi anni relativi alle esperienze occulte non escludevano – neppure in termini più espliciti – tale possibilità. È partendo da queste prospettive […] che si spiega il vivo interesse da lui saltuariamente dimostrato per le esperienze di hashish. Già in Svizzera, dove in seguito vidi sul suo tavolo Les paradis artificiels di Baudelaire, egli mi parlò, nel corso di una conversazione sul saggio citato, dell’ampliamento dell’esperienza umana che ha luogo durante le allucinazioni, che a suo parere includevano sempre qualcosa di più di quanto non sia espresso in un termine come “illusione”. Di Kant diceva che aveva “posto i fondamenti di un’esperienza di rango inferiore”». 77 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 77-104 (“Über den Urteilscharakter der Metageometrie”), e pp. 104-107 (“Über den Platonischen Begriff des metaxy”). Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin und Felix Noeggerath, in Walter Benjamin und sein Engel, cit., pp. 98-99: «Due lunghi e approfonditi Excurse sulla discussione filosofica della geometria non-euclidea che concludono il saggio dimostrano quanto l’autore fosse già immerso in riflessioni sulla filosofia della matematica. Anche Max Krell lo conosceva in quel periodo come matematico». 78 Benjamin a G. Scholem, 23-V-1917, in GB I, p. 358. 79 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 63; trad. it. cit., p. 80: «A quell’epoca [nell’estate del 1917] scrissi più volte a Benjamin a proposito della “teoria matematica della verità”, sulla quale mi abbandonavo a ogni sorta di speculazioni». Cfr. gli appunti del 14-XI-1916 in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 416-418, nei quali si delinea un rapporto funzionale tra verità ed essere, e dove viene usata una terminologia mutuata dalla teoria delle funzioni e dalla geometria analitica. Cfr. ivi, p. 418: «Si vede che potrebbe essere una ricerca molto interessante e per nulla uno scherzo, il formulare la teoria matematica della verità, con l’aiuto della teoria delle funzioni e della geometria analitica. La verità è costante? È sempre differenziabile, cioè ogni cosa ha un concetto e ogni verità una forma interna? Che cos’è una funzione intera dell’essere? Ciò che è storico (das Historische) si può indagare come concetto-limite? Questo sarebbe il vero testo

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Esperienza e compito infinito della logica e della dottrina della scienza, che solo il Messia scriverà, il libro più obiettivo e metafisico della letteratura mondiale. La forma interna di una cosa è la sua struttura, vista nella direzione verso Dio; il concetto è senza struttura, visto come segno di differenza nei confronti di Dio. Il concetto della matematica è qualcosa di diverso rispetto alla sua forma interna, che dice o anche tace qualcosa sulla sua direzione verso il divino (ins Göttliche)». 80 B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata (1677); trad. it. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Boringhieri, Torino, 1983, p. 73: «L’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose». 81 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. 2. Halbband 1917-1923, cit., pp. 25-26. 82 Cfr. J. Haase, Das Dreieck als harmonisierendes Maßelement ägyptischer Tempelanlagen und das Geißelsymbol ihrer Gottheiten, in «Das Reich», 2, 1917 (Buch I), pp. 36-56. Alla rivista collaborava anche Max Pulver, che Benjamin aveva conosciuto a Monaco nel 191516 e che gli aveva fatto conoscere gli scritti di Franz von Baader. Alla fondazione di «Das Reich» a cui collaborava anche Rudolf Steiner, aveva partecipato anche Noeggerath. 83 Citazione letterale da una lettera di Scholem (non pervenuta). Cfr. Benjamin a G. Scholem, VI-1917, in GB I, pp. 363 e 365. 84 Ivi, pp. 363-364; trad. it. cit., p. 29 (traduzione integrata). 85 Benjamin a G. Scholem, 30-III-1918, in GB I, pp. 444-445. 86 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 53; trad. it. cit., pp. 68-69, dove l’interessamento di Benjamin per Franz von Baader e Molitor è ricordato nel contesto di notizie sul lavoro dell’amico sul linguaggio, che era fortemente influenzato da temi ebraico-cabbalistici: «Nei mesi precedenti il suo matrimonio [che fu celebrato il 16 aprile 1917], mi ero dedicato per un po’ di tempo al tentativo di tradurre in ebraico alcune parti del suo lavoro sul linguaggio, che mi toccava molto da vicino e nel quale erano confluiti alcuni motivi dei nostri colloqui di Seeshaupt. Benjamin mi chiese insistentemente di leggere a lui e a Dora le prime pagine che avevo scritto, per ascoltare nella “lingua originale” – come lui diceva in tono semiserio – il suono prodotto dalle sue frasi. Risale ad allora il suo interessamento per Franz von Baader, che Max Pulver gli aveva fatto scoprire a Monaco, e per Franz Joseph Molitor, discepolo di Schelling e Baader, unico importante filosofo di lingua tedesca a essersi interessato alla cabbala, alla quale aveva dedicato quarantacinque anni di studi, e che aveva pubblicato anonimamente, tra il 1827 e il 1857, quattro volumi di introduzione a un testo di esposizione della cabbala, ai quali aveva dato il titolo memorabile di Philosophie der Geschichte oder über die Tradition [Filosofia della storia o sulla tradizione]. Benché quest’opera cercasse, senza alcun fondamento, di imprimere alla cabbala un indirizzo cristologico – l’autore apparteneva all’ala liberale dei cattolici tedeschi –, il libro è tutt’ora degno di considerazione. Avevo cominciato a leggerlo all’inizio del 1915 e nelle mie conversazioni con Benjamin mi capitò di parlarne più volte; gli dissi anche che tre volumi dell’opera erano ancora reperibili presso l’editore. Furono questi i nostri primi discorsi intorno alla cabbala, dal cui mondo mi sentivo già attratto, pur essendo allora ancora assai lontano dallo studio delle sue fonti. Non molto tempo prima di sposarsi, Benjamin ordinò le opere di Baader e il libro di Molitor, ma li ricevette solo a matrimonio avvenuto». Sull’influenza di Molitor sulla concezione della filosofia del linguaggio di Scholem e Benjamin cfr. E. Jacobson, Metaphysics of the Profane: The Political Theology of Walter Benjamin and Gershom Scholem, (Diss., Freie Universität-Berlin, 1999), Columbia University Press, New York, 2003, in part. il capitolo Jewish linguistic theory and christian Kabbalah. Su Baader e Molitor cfr. la lettera di Benjamin a Scholem del maggio 1917:

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath «Oggi sono arrivati i tanto attesi Scritti completi di Baader e, dal momento che spero ora di studiarli con intensità, potrò così disporre insieme di due opere strettamente connesse. Sono incapace di imparare in modo diverso. E Baader e Molitor sono così strettamente connessi, che tra le prime cose che ho letto di Baader erano proprio due importanti lettere a Molitor, che dicono, fra l’altro, cose belle e essenziali sulla Shekhinah» (Benjamin a G. Scholem, 23-V-1917, in GB I, p. 357). Le due lettere di Molitor a Baader sono nei Sämtliche Werke (F. von Baader, Erstes Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt e Zweites Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt, in Sämtliche Werke. Systematisch geordnete, durch reiche Erläuterungen von der Hand der Verfasser bedeutend vermehrte, vollständige Ausgabe der gedruckten Schriften samt dem Nachlasse, der Biographie und dem Briefwechsel, hrsg. durch einen Verein von Freunde der Verewigten: Prof. Dr. Franz Hoffmann u. a., I. Hauptabteilung, Band 4: Gesammelte Schriften zur philosophischen Anthropologie, Neudruck der Ausgabe Leipzig, 1853, Scientia Verlag, Aalen, 1963, pp. 327-362). Cfr. la lettera successiva a Scholem del giugno 1917: «È arrivato il Molitor. […] Il possesso del libro mi ha molto rallegrato […]. Non è andato oltre la prima sezione del quarto volume, vero? Solo per avere un’idea generale della disposizione della materia, Le chiedo qual è il tema del secondo volume. / Certamente Baader ha molto a che fare con il romanticismo, così ha esercitato una forte influenza su Schelling, nascosta da quest’ultimo. È stato proprio l’autore del saggio che lei menziona, un giovane laureato, poeta e anche interessato alla filosofia, con cui ho parlato spesso a Monaco, in un seminario e anche altrove, a richiamare la mia attenzione su Baader. Conosco anche un suo saggio su questo autore [M. Pulver, Franz von Baader religiöse Philosophie. Umwelt und Ausgangpunkte. Sein eigener Standpunkt. Vier Kapitel, in «Das Reich», 1, 3, 1916, pp. 310-333], non so se è quello che lei menziona. Il valore delle opinioni filosofiche del dottor Pulver per me è ancora molto problematico. Ha scritto una dissertazione sull’ironia romantica che è molto confusa, anche se ha avuto una valutazione brillante [cfr. M. Pulver, Romantische Ironie und romantische Kömodie, Diss., St. Gallen, 1912]. / È la prima volta che mi addentro profondamente, con soddisfazione, nello studio del romanticismo. – Kant, che in un certo senso sarebbe estremamente urgente, deve continuare ad aspettare tempi migliori, poiché posso studiare lui (e anche [Hermann] Cohen, che del resto pare seriamente ammalato) solo secondo il piano più ampio, che deve dunque fare i conti con grandi periodi di tempo. Dapprima studierò il primo romanticismo, Friedrich Schlegel soprattutto, poi Novalis, Tieck, e più tardi, se sarà possibile, Schleiermacher» (Benjamin a G. Scholem, VI-1917, in GB I, pp. 361-362; trad. it. cit., pp. 27-28, traduzione modificata). Appare chiaro il legame tra la lettura di Baader e Molitor e dei romantici progettata da Benjamin per la sua tesi di dottorato (che, come si vedrà, doveva vertere su Kant e la filosofia della storia) e la progettata lettura di Kant, che doveva essere accompagnata dalla lettura di Hermann Cohen, probabilmente di Kants Theorie der Erfahrung. Benjamin leggerà effettivamente questo testo con Scholem nell’estate del 1918. 87 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 73-74; trad. it. cit., pp. 94-95: «In quegli anni, quelli che vanno dal 1915 fino al 1927 almeno, la sfera religiosa assunse per Benjamin un significato centrale, nettamente estraneo al principio del dubbio; al centro di essa si trovava il concetto della “dottrina” che, pur includendo per lui l’ambito filosofico, lo trascendeva totalmente. I suoi scritti giovanili tornano sempre di nuovo su tale concetto, che Benjamin intendeva, secondo l’originario significato della Torah ebraica, come “insegnamento”: insegnamento non solo sulla vera condizione e sulla vita dell’uomo nel mondo, ma anche sul nesso transcausale delle cose e sul loro essere inscritte in Dio. Ciò aveva molto a che fare con la sua idea di tra-

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Esperienza e compito infinito dizione, contrassegnata da una nota mistica sempre più accentuata. Molti dei nostri discorsi […] ruotavano intorno alle relazioni sussistenti fra questi due concetti. La religione, che non può affatto essere ridotta a mera teologia […] rappresentava per lui un ordine supremo. (Il termine “ordine” oppure “ordine spirituale” era in quegli anni una delle sue espressioni preferite, e nell’esposizione del suo pensiero sostituiva solitamente quello di “categoria”). Nelle conversazioni di allora, Benjamin non mostrava la minima timidezza a parlare apertamente di Dio. Dato che credevamo entrambi in Dio, non abbiamo mai discusso della sua esistenza. […] Dio per Benjamin era reale. […] Ma anche negli appunti citati [scritti da Benjamin nel periodo della Jugendbewegung] Dio costituisce il centro irraggiungibile di una dottrina del simbolo che, se gli doveva togliere ogni carattere oggettivo, lo allontanava insieme da ogni tratto simbolico. Mentre in Svizzera [nel 1918] egli parlava generalmente della filosofia come di una dottrina degli ordini spirituali, questa definizione che allora trascrissi attinge alla sfera religiosa: “La filosofia è esperienza assoluta, dedotta come linguaggio attraverso un nesso sistematico-simbolico”, e perciò fa parte della dottrina. Che Benjamin in seguito non si sia più servito di una teoria schiettamente religiosa, anche se la sfera religiosa rimase per lui qualcosa di vicino e vitale, non è in contraddizione con il tenore di queste espressioni». 88 Benjamin a G. Scholem, 22-VIII-1917, in GB I, p. 390; trad. it. cit., p. 36. 89 Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 403. 90 Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917, in GB I, p. 409. 91 Cfr. in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 260-261, le annotazioni del 1o marzo 1916, dove la storia e la matematica sono presentate come i pilastri della vita spirituale umana, a partire dai quali è possibile determinare un concetto di scienza, anche se fino ad ora, e anche ora, la via della matematica sembra la sola che possa dare questo concetto senza salti o senza pericolo di obiezioni scettiche. Nella matematica viene concepito un sistema in sé, nella storia il suo sviluppo, questa dice ciò che qualcosa è diventato, quella ciò che è, nella matematica il relativo viene assolutizzato, nella storia l’assoluto, cioè il processo storico, viene relativizzato. Scholem si propone di leggere, per approfondire il problema, Bolzano, Mach e Kant, e trova buoni spunti di riflessione nella rivista «Das Ziel» diretta da Kurt Hiller (cfr. «Das Ziel. Aufrufe zu tätigem Geist», hrsg. v. Kurt Hiller, München-Berlin, 1916), e in discussioni con i partecipanti al seminario di Troeltsch, da lui frequentato, sulla Religionsphilosophie auf religionsgeschichtlicher Grundlage (Berlino, semestre invernale 1915-1916). Egli si riferisce nel suo diario al testo di B. Bolzano, Wissenschaftslehre (hrsg. v. A. Höfler, Leipzig, 1914) e possiede dello stesso autore Paradoxien des Unendlichen (hrsg. a. d. schriftl. Nachlasse d. Verf. v. Fr. Prihousky, 2. Unveränd. Aufl., Berlin, 1889) e il testo di E. Mach Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen (6. Aufl., Jena, 1911), e ha letto di E. Mach Erkenntnis und Irrtum. Skizzen zu einer Psychologie der Forschung (Leipzig, 1905). 92 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 351-354, in part. le pp. 353-354 (annotazioni dell’11-VII-1917). In queste pagine Scholem cerca di immaginare una legge meccanico-matematica, fondata sul calcolo differenziale, in cui sia possibile comprendere il “processo del mondo”, la storia, senza lasciarla in balia dello scetticismo. Per ottenere questa legge egli prospetta l’arrivo di un nuovo mistico, un mistico matematico o un matematico mistico, sicuramente un ebreo: il Messia. A suo avviso l’idea della mistica significa Sion, e quella della matematica la Torah. Perciò, conclude citando la Bibbia, la Torah proviene da Sion, quindi la matematica proviene da Sion e dalla mistica (ebraica). Scholem spera che la legge matematica da lui immaginata possa essere la legge dei grandi numeri (Gesetz der

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath groben Zahlen) trattata da Edgar Zilsel, che dice che la probabilità a priori e quella a posteriori coincidono quando il numero dei casi diventa infinito (cfr. E. Zilsel, Das Anwendungsproblem. Ein philosophischer Versuch über das Gesetz der großen Zahlen und die Induktion, cit., pp. 1-2). 93 Oltre alla lettera (che non ci è pervenuta) di Scholem a Benjamin su matematica e pensiero e matematica e Sion (in Sion infatti la mistica e la matematica entrano per lui in rapporto, cfr. su questo in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 407, l’appunto del 13-X-1916) dell’ottobre 1916, che aveva portato Benjamin a scrivere il saggio sul linguaggio, bisogna ricordare una pagina del diario di Scholem del 12 ottobre 1916, in cui egli ricorda una conversazione avuta durante l’estate con Benjamin stesso sul problema dell’identità (in riferimento a Das Anwendungsproblem di E. Zilsel), sulla teoria del linguaggio di S. R. Hirsch e sulla figura del Messia come ultimo e primo filosofo del linguaggio: «La proposizione dell’identità A=A si regge solo sull’“enigma dell’universo”, la legge dei grandi numeri: che l’irrazionale alla fine si toglie [cfr. E. Zilsel, Das Anwendungsproblem, cit., pp. 156-157]. A è A perché gli elementi intermedi del calcolo, l’incalcolabile irrazionale viene alla fine miracolosamente tolto. Se il mondo non fosse retto dalla legge dei grandi numeri, probabilmente la proposizione d’identità non varrebbe. […] Il chassidismo, se fosse la verità ebraica, dovrebbe emergere da un’analisi (Untersuchung) della lingua ebraica. […] Le interpretazioni e i momenti psichici della lingua oggi sono derisi e sconosciuti. Samson Raphael Hirsch – che sapeva quanto detto sopra – ha fondato in modo incredibilmente esatto la sua concezione alla fin fine su una teoria della lingua (il commentario al Pentateuco), che gli odierni hanno lasciato cadere considerandola falsa e di secondaria importanza. Questo è un errore grave. Il Messia sarà anche l’ultimo, il primo filosofo del linguaggio. Egli deriverà l’ebraismo dalla sua lingua. Benjamin mi ha raccontato che Ernst Lewy è molto vicino a questa idea. La santificazione dell’uomo non consiste in uno sviluppo (Entfaltung) dalla possibilità alla realtà, ma nel portare da una realtà dentro un’altra realtà più alta, divina» (G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 405-406). Cfr. anche un appunto dell’11 ottobre 1916, in cui la matematica, considerata in un contesto cabbalistico, è vista superare la magia della lingua e entrare direttamente in Dio: «A un certo punto la matematica supera la magia della lingua e entra completamente in Dio, riceve (empfängt) una magia immediata, che operando in se stessa forse rende comprensibile la concordanza di natura e pensiero matematico, il “problema dell’applicazione (Anwendungsproblem)”. Il fatto che la matematica non possa esprimersi per paragoni (Gleichnislosigkeit der Mathematik) si chiarisce nella sfera del […] [nefesch], dove essa supera ciò che è linguistico, ciò che può rappresentare attraverso paragoni (das Sprachliche, Gleichnismäßige)» (ivi, p. 404). 94 Cfr. ivi, p. 187, la nota 3 a un appunto del novembre 1915. 95 Cfr. ivi, pp. 267-268 (annotazione del 2-III-1916). Cfr. anche ivi, pp. 276-277 (annotazione del 6-III-1916). Scholem si riferisce a H. Poincaré, Wissenschaft und Hypothese, cit., p. 13 e pp. 9-14. 96 G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 19131917, cit., p. 278, e cfr. ivi, pp. 276-278 (annotazioni del 6-III-1916). Scholem trova in parte un supporto per le sue idee in un testo di Aurel Voss (Über das Wesen der Mathematik. Rede, gehalten am 11. März 1908 in der öffentlichen Sitzung der Konigl. Bayerischen Akademie de Wissenschaften, erw. U. m. Anm. Vers. 2., sorgf. durchges. u. verm. Aufl., Leipzig-/Berlin, 1913) che difende le geometrie non euclidee, ma critica in Voss il timore di considerare la matematica fondata su giudizi analitici: «L’affermazione che la matematica sia una grande tautologia A=A non ha nulla di intimidatorio se la si com-

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Esperienza e compito infinito prende nel giusto modo: le proposizioni e le verità matematiche sono già tutte lì dall’eternità, la matematica infinita è dunque finita (abgeschlossen), per quanto possa suonare paradossale, bisogna solo che lo spirito umano conosca ognuna di queste proposizioni infinitamente numerose attraverso la connessione logica di ciò che è già conosciuto. Le proposizioni affermano forse realmente solo ciò che si trova nelle definizioni, ma in queste si trova anche, ripiegato, un intero mondo. Il compito del pensiero matematico è solo quello di dispiegarlo. […] E riposa proprio nella verità che si danno infinite combinazioni, come è facile riconoscere, che non si possa indicare la matematica come tautologia nella lingua umana (da parte di Dio tranquillamente sì!), poiché la gran quantità delle verità non può mai essere esaurita, dunque non può mai presentarsi un termine della conoscenza matematica, dunque vengono trovate sempre nuove verità già disponibili nell’“eterno mondo delle idee”. Dal punto di vista umano una tautologia infinita non è una tautologia, questo è il punto saliente. E qui si vede che non è una visione schematica e fredda, ma molto viva. […] Questa mi sembra essere la concezione ovvia di uno che è convinto dell’unità della scienza, che deve essere ottenuta senza pregiudizi sintetici. Alla fine la differenza tra giudizi analitici e sintetici è un gioco inessenziale e vuoto, perché se si vuole i giudizi sono tutti analitici e tutti sintetici. […] Tutto questo non contribuisce alla conoscenza essenziale» (ivi, pp. 277-278). 97 Cfr. ivi, p. 276: «Egli [Aurel Voss] liquida in modo particolare Wundt e Natorp. Posso aggiungere anche Cohen, che si concede nella Logik der reinen Erkenntis a p. 199 la frase insuperata: “Le coordinate costituiscono una sostituzione importante dell’idea (Gedanken) della sostanza.” Ciò che si intende con questa chiacchiera, e di chiacchiere è pieno l’intero libro di Cohen, è chiaro solo a filosofi che hanno idee affini, in ogni caso non al matematico – se posso già considerarmi tale. Ho giurato però a me stesso di leggere questo scarabocchio fino alla fine, per demolire Cohen in modo ancora più completo. […] Se si pensa che nelle cinquecento pagine di Cohen avrebbe potuto trovarsi tutto ciò che è importante, e non ci sta, si può essere molto tristi. Ma la cosa più triste è l’indifferenza che gli esperti, i matematici, mostrano di fronte a questo abborracciamento, o non ci si occupa per niente di queste cose e “lo si lascia al filosofo”, così egli ne fa il peggio che può, oppure lo si schernisce con ironia […]». Cfr. anche ivi, p. 261: «Oggi ho di nuovo criticato Cohen severamente di fronte a due testimoni […]. […] [Ho criticato] l’opinione molto cretina di Cohen, secondo la quale il calcolo integrale, e proprio questo, sarebbe un istinto elementare dello spirito umano [cfr. H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte in Werke, cit., Band 5.1, p. 160], ciò che si elimina già […] con l’impossibilità di scrivere un integrale senza il segno dx: questo significa: il calcolo integrale, che non conta su un tutto semplicemente esistente come totalità, che non è soggetto poi al calcolo come unità, poiché è senza connessioni, si occupa di questo: costruire un palazzo con le macerie […]; con le grandezze frantumate proprio nel calcolo differenziale viene prodotto di nuovo qualcosa di inverso: dunque, poiché il calcolo integrale non è qualcosa di semplice (Naiv), il calcolo differenziale deve averlo preceduto». 98 Cfr. ivi, p. 335 (annotazione del 15-VII-1916 sul sistema di Simmel): « In nessun luogo – forse con la sola eccezione di Hermann Cohen – la traduzione della pienezza della vita in un sistema di astrazioni difficilissime e, secondo la mia sensazione, puramente meccaniche, è stata realizzata in modo così completo come in Simmel». 99 Cfr. in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, cit., p. 163, la lettera di Scholem a Aharon Heller del 23 giugno 1918 (lettera 58) dove egli scrive che sta leggendo Der Begriff der Religion im System der Philosophie di Cohen e si esprime su di lui con reverenza, e a p. 152 la lettera a Werner Kraft da Jena dell’8 aprile 1918 (già citata nel quarto capitolo).

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath 100 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 383-384 (annotazione del 23-VIII-1916): «Gli annunciai anche la mia “conversione” a Kant, cioè la convinzione della necessità dello studio di Kant». 101 L. Couturat, Les principes des mathématiques, avec un appendice sur la philosophie des mathematiques de Kant, F. Alcan, Paris, 1905. Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 65; trad. it. cit., p. 82 : «Ero piuttosto irritato dagli studi di filosofia che seguivo a Jena. Disprezzavo Eucken […]. Era […] obbligatoria la frequenza del corso di Bruno Bauch, e d’altronde quello che diceva su Kant mi interessava. In quel semestre, infatti, lessi moltissimo su Kant. Era appena uscita la grande monografia kantiana di Bauch [B. Bauch, Immanuel Kant, Leipzig, 1917], nella quale si annunciava quella divergenza da Hermann Cohen che avrebbe assunto forme assai aspre. Ero come rapito dai Prolegomeni di Kant, e ricordo di aver descritto in una lunga lettera a Benjamin l’impressione che mi aveva fatto quel libro. A ciò si aggiunse la lettura, che ebbe luogo in un seminario privato di Bauch, di una parte della Critica del giudizio, e in particolare dell’introduzione “Della filosofia in generale”, che esercitò su di me un durevole influsso. Nel corso del semestre venni a conoscenza della polemica su Cohen avviata da una signora che, sulle “Kant-Studien”, lasciava presagire presso un’ala dei neo-kantiani una svolta in senso nazionalistico e lievemente ma inequivocabilmente antisemita. In compenso ero attratto da due docenti di carattere nettamente opposto: uno era Paul F. Linke, un discepolo eterodosso di Husserl, che mi indusse a studiare un’ampia parte delle Ricerche logiche husserliane, delle quali Benjamin, nel periodo di Monaco, aveva solo un’idea molto vaga; l’altro era Gottlob Frege, di cui lessi allora i Fondamenti dell’aritmetica, insieme a scritti dello stesso argomento di Bachmann e di Louis Couturat (Les principes des mathématiques). Seguii una lezione di un’ora di Frege sulla “scrittura concettuale”». 102 Cfr. Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 404. 103 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., pp. 65-66; trad. it. cit., pp. 82-83. 104 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. 2. Halbband 1917-1923, cit., pp. 42-44 (annotazione del 27-IX-1917): «Concepire il sionismo come esigenza significa: essere un popolo santo. È lavoro sionista solo quello indirizzato alla realizzazione di quest’esigenza. […] La vita secondo una grande legge, la vita secondo la dottrina – che è proprio la vita sionista – non permette alcun altro lavoro. […] Sion è uguale alla somma dei sacrifici che si fanno per esso […]. Un’esperienza vissuta (Erlebnis) significativa alla pura altezza dell’idea. La grande porta di Kant era chiusa per me fino a questo momento. Ora le sono passato attraverso. Ho letto i Prolegomena per poter capire con questi l’idea fondamentale della Critica della ragion pura. Penso di aver capito. Ho finalmente davanti a me il mio assalitore, perché se è vero quello che viene affermato e deve essere provato in questi inflessibili paragrafi dei Prolegomena, sarebbe una cosa enorme. Finché non ho riconosciuto o confutato Kant, non posso pensare di costruire sopra e oltre [il suo pensiero]. […] Non c’è ancora mai stato, né è pensabile, un attacco più terribile alla metafisica, la quale so che è possibile e che significa soltanto filosofia. […] No, io compirò piuttosto in modo insuperabile la deduzione trascendentale del fatto che le categorie fondamentali che […] [egli usa] nella metafisica e nella sfera comune, qui non sono affatto spiegate, ma ricevono il loro senso solo dal fatto che rendono possibile l’esperienza. Egli prova, in modo preciso, questo. Ma io sono convinto fermamente di questo: la prova è falsa, per quanto sia profonda. Ma finché egli non viene confutato, la metafisica è di fatto solo una pura visione della dottrina nel centro [di essa]». Cfr. la pagina di diario del 29 settembre 1917, che si riferisce anche al “genio” Noeggerath: «Dovrebbe essere vero dunque che la

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Esperienza e compito infinito nostra metafisica, la dottrina degli ordini, non è affatto una scienza, che ha il suo posto in un altro luogo? Sì e no. Sicuramente ha il suo posto in un altro luogo – proprio in quel grande nesso della dottrina in sé, ma essa non può essere esclusa dall’ambito della sua scienza, che dunque – concepita in modo vero – porta anche solo a questo ultimo centro della dottrina. Walter [Benjamin] mi ha scritto una volta che il “genio” indaga la teoria matematica della verità. Come fa dunque a fare questo? È un kantiano! Oppure i kantiani hanno già ritrovato la via verso le grande verità? Vorrei conoscerlo subito. Sicuramente una cosa Kant non poteva mettere in dubbio, poiché non può essere soggetta a dubbio: Sion. Ma questo dubbio oppure questa conoscenza non spezza la dottrina di Sion, applicata alle altre cose? Non si dovrebbe pretendere alcuna risposta da me. Posso solo domandare» (ivi, p. 44). L’annotazione del 9-VI-1917 (ivi, p. 27) accenna invece a una lettera spedita a Benjamin, che non ci è pervenuta, ma che probabilmente affrontava temi kantiani e la teoria della verità. Di Benjamin cfr. la lettera del giugno 1917 già citata sopra in cui dice che lo studio di Kant e di Hermann Cohen, pur molto urgente, deve essere ancora rimandato perché deve essere collocato in un’ampia prospettiva di lavoro, che presuppone lo studio dei primi romantici, e l’analisi dei frammenti di F. Schlegel e Novalis secondo i loro «pensieri sistematici fondamentali» (cfr. Benjamin a G. Scholem, VI-1917, in GB I, p. 362; trad. it. cit., p. 28). 105 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 76; trad. it. cit., p. 98: «Dato che in quel momento egli si interessava particolarmente a Kant, dopo qualche incertezza stabilimmo di scegliere l’opera fondamentale della scuola di Marburg Kants Theorie der Erfahrung [La teoria kantiana dell’esperienza] di Cohen, che analizzammo e discutemmo per parecchie ore». 106 Cfr. ivi, cit., pp. 65-66; trad. it. cit., pp. 82-83. Cfr. ivi, pp. 78-79; trad. it. cit., pp. 100-101 (traduzione modificata): «Di Kant egli diceva che aveva “posto i fondamenti di un’esperienza di rango inferiore”. Questa tesi influì non poco sulla grande delusione che ci procurò il libro di Cohen. Sia Benjamin sia io, in tempi diversi, avevamo seguito corsi o singole conferenze di Cohen all’epoca in cui, già vecchio, questi viveva a Berlino, e avevamo per la sua persona una considerazione che giungeva alla reverenza, ragion per cui affrontammo quella lettura animati da grandi aspettative, e pronti a un confronto critico su di essa. Ma le deduzioni e interpretazioni di Cohen ci parvero talmente discutibili da essere meritevoli di una confutazione assai severa. Conservo ancora gli appunti, da me redatti dopo alcuni di quegli incontri, sulla critica dei sillogismi kantiani contenuti nell’“estetica trascendentale” e sulla dimostrazione della sua insostenibilità. Ecco in quali termini si espresse Benjamin a proposito della posizione di un razionalista qual era Cohen di fronte al problema dell’interpretazione: “Per il razionalista non soltanto i testi di valore assoluto, come la Bibbia [e secondo Benjamin anche Hölderlin] sarebbero suscettibili di un’interpretazione a più strati; in realtà tutto ciò che è oggetto verrebbe assunto dal razionalista come assoluto e sarebbe perciò passibile di un commento che giunge a usargli violenza: Aristotele, Descartes, Kant”. Nella critica di Kant Benjamin trovava pure una giustificazione per il ritorno dei fenomenologi a Hume. Al positivismo razionalistico, di cui ci occupammo durante quella lettura, Benjamin non attribuiva il minimo valore, perché, come diceva, egli cercava l’“esperienza assoluta”. Alla fine, la nostra delusione per l’interpretazione di Kant da parte di Cohen giunse a tal punto che, mentre nel mese di luglio avevamo dedicato a quella lettura due ore al giorno, in agosto, dopo l’inizio delle vacanze estive, la interrompemmo. Benjamin deplorava la “confusione trascendentale” delle sue elucubrazioni: “Tanto vale diventare cattolici, allora!”. Da parte mia trovavo sorprendente, quantunque le due opere apparissero strettamente collegate, la differenza tra questo libro su Kant e la Logik der reiner

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath Erkenntnis [Logica della conoscenza pura] dello stesso Cohen, che avevo letto per metà. Di certe frasi del libro Benjamin affermava che erano “capolavori negativi di minuscoli zibaldoni”, e definiva l’opera “un vespaio filosofico”». 107 Cfr. Scholem a L. Strauss, 1-VIII-1918 (lettera 66), in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, cit., p. 169: in questa lettera a Ludwig Strauss Scholem esprime tutta la sua delusione per il testo di Cohen Kants Theorie der Erfahrung, letto con Benjamin insieme alla Critica della ragion pura di Kant, e poi abbandonato a metà (anche la lettura di Kant viene interrotta, ma non si dice a che punto). Di Cohen Scholem apprezza invece Il concetto di religione nel sistema della filosofia: «Leggo con Benjamin la famosa e insensata opera di Cohen (sulla quale, in modo lento ma sicuro, sto diventando un esperto e ho tante cose da dire […]) su “La teoria kantiana dell’esperienza”. È la più grande delusione filosofica che io abbia mai vissuta finora […]. L’abbiamo distrutta (insieme al relativo Kant [si tratta della Critica della ragion pura, cfr. ivi, p. 384, nota 8]) a tal punto che della metà che finora abbiamo studiato a fondo non è rimasto [niente] […]. È ancora una consolazione il fatto che il “sistema” di Cohen [cfr. H. Cohen, Der Begriff der Religion im System der Philosophie, in Werke, cit., Band 10; trad. it. cit.] abbia veramente un’altra fisionomia, altrimenti sarebbe addirittura una débacle. […] Ora posso documentare anche con le fonti l’affermazione che Kant era un mistico di grande stile. / L’incanto della scuola di Marburgo si è dileguata nel nulla (in ein Nichts)». 108 Cfr. Benjamin a E. Schoen, V-1918, in GB I, pp. 455-456; trad. it. cit., pp. 43-44: «Ora sono ostinatamente alle prese con […] [l’]etica [di Kant]» 109 Cfr. ancora Scholem a L. Strauss, 1-VIII-1918, in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, cit., p. 169 (lettera 66): Scholem scrive che in inverno lui e Benjamin cominceranno a leggere insieme la Kritik der Urteilskraft, dopo che Benjamin avrà completato una prima lettura della Critica della ragion pratica, che deve essere a suo avviso criticata e smontata (si era espresso in termini simili su La teoria kantiana dell’esperienza di Cohen). Riguardo alla terza Critica gli amici nutrono invece ancora delle speranze di accordo con Kant e di un possibile sviluppo delle sue idee: «In inverno leggeremo insieme la Critica della facoltà di giudizio, l’ultima di Kant, in cui ancora riponiamo qualche speranza, dopo che Benjamin ha esaminato una volta rigorosamente l’etica, e anch’essa deve essere andata in pezzi» (ibid.). 110 Cfr. la nota precedente. 111 Benjamin a E. Schoen, V-1918, in GB I, pp. 455-456; trad. it. cit., pp. 43-44. 112 Benjamin a E. Schoen, 28-II-1918, in GB I, p. 436. Nel febbraio del 1918 Benjamin aveva già rinunciato ad occuparsi del suo progetto filosofico di revisione e sviluppo della filosofia di Kant nella tesi di dottorato. Nella lettera a Schoen del 28 febbraio dice di dover rimandare il lavoro su questo progetto a dopo la Promotion per avere la strada completamente aperta per “la vera ricerca”; egli considera le possibili difficoltà che possono presentarglisi nel (nuovo) progetto di tesi come l’indicazione di dover prima condurre a termine le sue proprie riflessioni. 113 Cfr ivi, pp. 436-437. 114 Cfr. Benjamin a G. Scholem, 13-I-1918, in GB I, p. 420: «La mia tesi di dottorato mi mette in grande difficoltà. Questa situazione sconfortante dell’Università attuale. I miei pensieri non sono ancora maturi, non voglio fare un qualsiasi lavoro storico – […] se ancora qualcuno me lo desse!». 115 Benjamin a E. Schoen, V-1918, in GB I, p. 455; trad. it. cit., p. 44. 116 Cfr. ivi, pp. 455-456; trad. it. cit., pp. 43-44: «Finora non ho avuto la possibilità di condurre a termine un lavoro gnoseologico molto importante, che ho interrotto ormai da mesi. Inoltre: ho chiesto al mio professore di approvare il tema della mia tesi,

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Esperienza e compito infinito ed egli lo ha fatto molto volentieri. Si tratta, in linea generale, dei fondamenti filosofici della critica d’arte romantica. Avrei alcune cose da dire su questo argomento, ma la materia si rivela insolitamente refrattaria. Se voglio estorcerle il suo nucleo più profondo, e una dissertazione richiede l’indicazione delle fonti, che peraltro nel caso del romanticismo, per alcune delle sue tendenze più profonde, sono pressoché irreperibili. Penso alla sua importante coincidenza con Kant, che ha un’importanza storica fondamentale (Ich meine ihre geschichtlich fundamental wichtige Koinzidenz mit Kant), ma a cui potrebbe risultare impossibile dare una forma “dissertatoria”». 117 Ivi, p. 456; trad. it. cit., p. 44. 118 Ibid. (traduzione modificata): «D’altro lato il lavoro, se può essere compiuto, mi permette quell’anonimato interiore che devo assicurarmi in ogni lavoro fatto per questi scopi. Voglio discutere la mia tesi di dottorato, e se ciò non dovesse o non dovesse ancora avvenire la cosa potrebbe essere solo l’espressione di inibizioni profondissime. Quante ce ne siano di evidenti, di questo voglio tacere, e non è neanche il caso che Gliene parli. – In questa occasione La prego di volermi mandare per lettera, in ordine, le indicazioni relative alla Sua antologia di frammenti [dei romantici ]. […] Ho assolutamente bisogno di questa collezione per il mio lavoro». 119 Benjamin a G. Scholem, 30-III-1918, in GB I, pp. 440-446. 120 In una lettera del febbraio 1918 Benjamin chiede a Scholem di ordinare per lui i quattro volumi del System der Philosophie di Cohen (cfr. Benjamin a G. Scholem, 10-II1918, in GB I, p. 429). 121 Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (1919), in GS, I, 1, pp. 7-122; trad. it. cit., pp. 3-116. 122 Goethes Wahlverwandschaften, in GS, I, 1, pp. 123-201; trad. it. cit., pp. 179-254. Cfr. ivi i riferimenti a Cohen (pp. 128 s., 134 e 191; trad. it. cit., pp. 183, 188 e 244) e più in generale il tema dell’ “ideale del problema”, che come questione dell’unità del sistema della filosofia coincide con il problema, di origine neokantiana, del “compito infinito” (pp. 172-173; trad. it. cit., pp. 224-226). Cfr. a proposito P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli, L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., pp. 361-386. 123 Cfr. il riferimento alla Logik di Cohen in Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 226; trad. it. cit., p. 20: «Sicché la categoria dell’origine non è, come ritiene Cohen, una categoria puramente logica, bensì storica [cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 35 ss.]». Come si vedrà più avanti, il concetto di verità delineato nella Erkenntniskritische Vorrede (cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 207-228; trad. it. cit., pp. 3-22) appare legato al concetto di “compito infinito” come lo concepisce Benjamin nel 1917. Cfr. a proposito il frammento di Benjamin Erkenntnistheorie, in GS, VI, p. 45 (frammento 25), a cui si è già accennato e su cui si tornerà: «Verità di uno stato di cose è la funzione della costellazione dell’esser-vero dei restanti stati di cose. Questa funzione è identica alla funzione del sistema. L’esser-vero […] è in rapporto con il compito infinito (hängt mit der Unendlichen Aufgabe zusammen)». Cfr. su questo T. Tagliacozzo, Walter Benjamin: un tentativo di teoria della conoscenza in alcuni frammenti degli anni 1917-1921, in C. Marrone, G. Coccoli (a cura di), Simbolo, metafora, linguaggi, cit., pp. 172-173. 124 Über den Begriff der Geschichte, in GS, I, 2, pp. 693-704; trad. it. cit., pp. 20-57. Sulla presenza di temi gnoseologici legati alla recezione kantiana e neokantiana di Benjamin in questo testo e nel Passagen-Werk, cfr. P. Fiorato, Teoria della conoscenza e concetto di storia. Una questione di metodo in margine alle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, in «Nuova corrente», 44, 1997, pp. 303-324.

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14. L’amicizia con Gershom Scholem e con Felix Noeggerath 125 W. Benjamin, Das Passagen-Werk (1927-1940), in GS, V, 1 e 2; trad. it. I “passages” di Parigi, vol. IX delle Opere complete di Walter Benjamin, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. di E. Ganni, trad. di R. Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia, F. Porzio, riveduta da H. Riediger, Einaudi, Torino, 2000.

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”: il progetto di una tesi di dottorato su Kant a Berna (1917-1918)

Occorre a questo punto ripercorrere le tappe che hanno portato Benjamin a sviluppare il suo interesse per Kant e per Cohen, a contatto con Noeggerath a Monaco e Scholem a Berlino, fino a progettare una tesi su «Kant e la storia»1, tema precisato con il titolo «Il concetto di “compito infinito” in Kant»2 (e compreso poi nel più generale problema «Che cosa significa che la scienza è un compito infinito?»3, anch’esso di origine neokantiana), e a scrivere Sul programma della filosofia futura (1917-18). Si è già visto come nelle università di Friburgo e di Berlino egli sia stato in qualche modo influenzato dalla filosofia di Cohen, di Rickert, di Cassirer e dalle ricerche filologiche di Benno Erdmann, e come abbia sviluppato negli anni della sua amicizia con Scholem un’interpretazione della filosofia kantiana in cui la sua già matura filosofia messianica della storia si è incontrata, nelle discussioni con l’amico, con una teoria matematica della verità, con una teoria teologica del linguaggio di radice ebraico-cabbalistica e con una concezione della dottrina come esegesi della Torah, che comprende tutta la filosofia nel suo sviluppo storico-messianico. Già prima di esplicitare il suo progetto di occuparsi di Kant per la tesi di dottorato, Benjamin progetta e rimanda la lettura delle sue opere (probabilmente della Critica della ragion pura), che vuole affiancare con la lettura di Cohen (forse di Kants Theorie der Erfahrung, che leggerà nel 1918), perché occupato nello studio del primo romanticismo. La filosofia del primo romanticismo entra nel suo progetto di tesi per l’importanza dei suoi concetti di “religione” e “storia”, per il suo rapporto con la tradizione mistica e cabbalistica e per la sua concezione del messianesimo4: In un certo senso la cui profondità dovrebbe essere ancora illustrata, il romanticismo cerca di fare, con la religione, ciò che Kant aveva fatto con gli oggetti teoretici: di mettere in luce la sua forma. Ma c’è una forma della religione? In ogni caso il primo romanticismo si era fatta un’idea analoga a proposito della storia5.

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Esperienza e compito infinito

Benjamin vuole indagare, seguendo le orme dei primi romantici, i concetti di religione e di storia (nella loro unione e coincidenza in una sfera superiore di pensiero e di vita), secondo la loro forma teoretica e il loro ruolo sistematico, servendosi del metodo kantiano dell’indagine critica. Nel suo progetto di revisione e sviluppo del sistema kantiano, Sul programma della filosofia futura, la religione avrà un ruolo centrale come luogo dell’unità e della totalità della conoscenza, mentre la storia (che dovrà cercare i suoi concetti in una nuova logica trascendentale) sarà alla base del divenire della conoscenza come processo verso il compimento (messianico) di essa nella “dottrina” come sistema compiuto della filosofia, dove religione e storia coincidono. Egli scrive a Scholem nel giugno del 1917 che, poiché egli è occupato con lo studio del primo romanticismo, «Kant, che in un certo senso sarebbe estremamente urgente, deve continuare ad aspettare tempi migliori, perché lui (e anche [Hermann] Cohen […]) posso studiarli solo secondo il piano più ampio, che deve dunque fare i conti con grandi periodi di tempo»6. Nella stessa lettera scrive a Scholem, che gli chiede della teoria matematica della verità di Noeggerath, che non può dire nulla per lettera data l’enorme difficoltà che il soggetto ha per lui, ma aggiunge osservazioni sulla teoria matematica della verità e il simbolo. In una lettera del 22 ottobre 1917 Benjamin presenta a Scholem un progetto di lavoro su Kant (di cui non ha ancora cominciato la lettura), che vuole mettere in rapporto filosofia e storia, teoria della conoscenza e filosofia della storia e che si propone di sviluppare il sistema kantiano in nuove direzioni, ma scrive anche che la possibilità di partire da esso per la sua tesi di dottorato dipende dal risultato della lettura delle opere storiche di Kant: Quest’inverno comincerò a lavorare su Kant e la storia. Non so ancora se troverò, negli scritti storici di Kant, il contenuto positivo necessario da questo punto di vista. Ne dipenderà anche la possibilità di sviluppare, da questo lavoro, la mia tesi di dottorato. Poiché non ho ancora letto gli scritti di Kant sull’argomento7.

Il tema del lavoro viene specificato il 7 dicembre 1917 in un’altra lettera a Scholem, in cui lo avverte che non può ancora mandargli un saggio che sta scrivendo su Kant, Sul programma della filosofia futura, perchè ancora allo stato di abbozzo, né può confrontarsi con lui su questo filosofo (ancora non ha terminato di leggere gli scritti kantiani sulla  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”

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filosofia della storia), ma si ripromette un vero avanzamento nella sua conoscenza e capacità di comunicare veramente le questioni gnoseologiche di cui si sta occupando dal rapporto di lavoro con lui8: riguardo alla domanda […] [su] come io possa vivere nella posizione che mi sono creato rispetto al sistema kantiano, sono costantemente al lavoro per rendermi possibile questa vita attraverso l’esame della teoria della conoscenza (die Einsicht in die Erkenntnistheorie), e devo avere pazienza, insieme all’entusiasmo, per il compito enorme che questo significa per persone con il nostro modo di vedere. Ciò che ho scritto fino ad ora è così allo stato di abbozzo, che non glielo posso mandare fino a che non l’ho perfezionato […]. La mia speranza di poter sapere e comunicare un giorno veramente queste cose riposa non da ultimo sulla mia certezza di poter lavorare con lei. […] Il nostro confronto su Kant, per quanto mi riguarda, deve essere rimandato. Tuttavia di ciò che mi scrive mi appaiono sicure due cose, o piuttosto una di queste: che è proprio necessario per prima cosa occuparsi della lettera della filosofia kantiana. Proprio lo studio della terminologia kantiana, l’unica nella filosofia che non è solo sorta ma è stata anche portata a termine nel complesso (im ganzen), porta alla conoscenza della sua straordinaria potenza e in ogni modo si può imparare molto mentre si sviluppa e precisa in noi in modo immanente. In questo senso sono giunto a un tema di tesi di dottorato che prenderei eventualmente in considerazione: Il concetto di “compito infinito” in Kant9.

Il tema “Il concetto di compito infinito in Kant”, che Benjamin esplicita parallelamente all’esigenza (nata anche dalla lettura delle lettere di Scholem su Kant) di studiare con attenzione la “terminologia” e la “lettera” del sistema kantiano, cioè l’esatta pregnanza logico-linguistica e la determinazione dell’ambito e della possibilità di applicazione dei suoi concetti e delle sue idee, per poter sviluppare immanentemente un’interpretazione che porti a una revisione del pensiero gnoseologico e metafisico kantiano, pone il problema di interpretare Kant in una nuova prospettiva, che passa per l’interpretazione coheniana della cosa in sé kantiana e del ruolo delle idee nell’indagine dell’esperienza, per poi superarla in una direzione che va al di là dell’esclusivo riferimento del metodo trascendentale alla scienza fisicomatematica della natura. Benjamin vuole individuare infatti un nuovo concetto di conoscenza e un nuovo concetto di esperienza che si fondino su una visione religiosa del linguaggio e si sviluppino in un processo storico messianico che abbia come fine la risoluzione della filosofia nella dimensione metafisico-religiosa e linguistica (caratterizzata da una “magia della lingua”10) che egli, insieme a Scholem, chiama  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

“dottrina”, e identifica con la Torah. Nella stessa lettera, dopo aver chiesto a Scholem il suo giudizio su questo progetto, nomina ancora il tema della filosofia della storia in rapporto a Kant (ma solo dopo aver già sviluppato le proprie idee sulla storia pensa di poter imparare qualcosa di decisivo da Kant) e alla Torah: Per seconda cosa mi è diventato più chiaro riflettendoci l’altro argomento di cui mi scrive: che eventualmente, se si dà il caso, per quello che riguarda i problemi ultimi bisogna prima, nel proprio pensiero, mettersi in condizione di essere saldi sulle proprie gambe. In ogni modo vi sono certi problemi come quelli per noi centrali della filosofia della storia, per i quali noi possiamo certo imparare qualcosa in modo decisivo da Kant solo quando ce li siamo posti in modo nuovo. […] Della Torah e della filosofia della storia parleremo in modo pienamente reciproco quando saremo di nuovo insieme11.

La “lettera” kantiana è messa da Benjamin in relazione con una concezione di filosofia della storia che egli non ritroverà in Kant, ma che in lui e in Scholem è legata alla concezione ebraica dell’interpretazione del testo sacro e con l’idea messianica della giustizia12 e coinvolge tutta la filosofia, compresa la teoria della conoscenza (ma tutta la filosofia sembra essere compresa in questa conoscenza, come “conoscenza pura”13), in una visione processuale del compito di questa nella direzione di una sua “risoluzione” (Auflösung) redentiva e messianica nella dottrina come ambito metafisico, fondato sul linguaggio teologico della rivelazione14, degli ordini concettuali e ideali, matematici ed etici, il cui centro è Dio, e che coincide con la Torah (che in ebraico significa appunto dottrina, insegnamento). Il termine “dottrina” (Lehre) è in stretto collegamento con il concetto che Benjamin ha in quel periodo di tradizione15 e insegnamento: la dottrina si presenta come il contenuto “linguistico” spirituale ed etico (per questo la Torah si chiama anche “Legge”) che va tramandato e sviluppato nell’insegnamento – l’ordine dell’educazione per Benjamin «coincide interamente con l’ordine religioso della tradizione» e educare «è solo arricchire (nello spirito) la dottrina»16 – e si sviluppa in un processo storico-messianico, nella direzione del suo compimento come giustizia (come presenza di Dio nel mondo, Shekhinah)17. La dottrina è secondo Scholem Torah e storia, la storia della Torah è la storia interna del mondo, il processo storico si gioca nello sviluppo (Entfaltung) della Torah, la storia è la scienza delle leggi interne della Torah:

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” L’equazione storia (Historie) = Torah esprime forse questo momento importante [in cui l’ebraismo con la storia e nella Torah supera il mito e il magico], la Torah è la storia (Historie), la storia (Geschichte) della Torah è la storia (Geschichte) interna del mondo18, il processo storico si svolge nel dispiegarsi (Entfaltung) della Torah. La storia (Geschichte) è la scienza delle leggi interne della Torah, certo una storia che non è stata ancora […] indagata. Molitor ha avuto un’intuizione di ciò, ma lo ha visto in modo cristologico, e bisogna vederlo in modo ebraico. Questa sarebbe quindi una verace ideologia del sionismo. Questo sarebbe il legame interno tra la matematica e la storia (Historie): in Sion19. Perché altrimenti non ve n’è alcuna20.

Della dottrina Scholem dice «che pur includendo per Benjamin l’ambito filosofico, lo trascendeva totalmente» e che Benjamin la intendeva, «secondo l’originario significato della Torah ebraica, come «“insegnamento” […] sul nesso transcausale delle cose e sul loro essere inscritte in Dio»21. La religione, che non coincideva con la teologia, rappresentava per lui un ordine supremo (il termine “ordine”, oppure “ordine spirituale”, sostituiva a quel tempo nell’esposizione del suo pensiero quello di “categoria”22). Presentando a Scholem il suo progetto di lavorare su Kant e la storia, il 22 ottobre del 1917, Benjamin lo motiva mettendo in una relazione necessaria la filosofia (e la conoscenza) con il suo divenire storico nella direzione della sua risoluzione nella dottrina: Oltre a certi suggerimenti interessanti credo ora che la ragione ultima che mi ha indirizzato verso questo tema sia il riconoscimento che l’ultima dignità metafisica di una visione filosofica che vuole essere veramente canonica si rivelerà nel modo più chiaro nel suo confronto con la storia; a mio giudizio è nella filosofia della storia che l’affinità specifica di una filosofia con la vera dottrina (Lehre) dovrà risultare con la massima chiarezza; poiché qui dovrà apparire il tema del divenire storico della conoscenza (des historischen Werdens der Erkenntnis), che la dottrina porta alla sua risoluzione (Auflösung). Però non è del tutto escluso che da questo punto di vista la filosofia di Kant sia ancora poco sviluppata. Dal silenzio che regna sulla sua filosofia della storia si dovrebbe crederlo (o credere il contrario). Ma penso che per colui che lo affronterà con il giusto atteggiamento mentale questo problema sarà risolto più che a sufficienza23.

Sia in Benjamin che in Scholem la dottrina comprende e in parte trascende la filosofia, che tende a coincidere con essa. Benjamin individua questa dimensione nella dottrina delle idee di Kant o addirittura in tutta la sua filosofia, che concepisce come un pensiero tradendum, quasi un testo sacro da interpretare (nell’analisi della lettera dei suoi  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Esperienza e compito infinito

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concetti e delle sue idee) e trasmettere, quindi da sviluppare, proprio come la dottrina stessa della Torah si sviluppa nella trasmissione. Infatti scrive a Scholem sempre il 22 ottobre 1917: Senza avere in mano, finora, prove che lo dimostrano, sono fermamente convinto che nel senso della filosofia e quindi della dottrina, a cui essa appartiene, se non la costituisce addirittura, non si può mai trattare di mettere in crisi, di abbattere il sistema kantiano, ma, al contrario, di fondarlo sul granito e svilupparlo universalmente. La più profonda tipica (Typik) del pensiero della dottrina finora mi è sempre venuto incontro dalle sue parole e dai suoi pensieri, e anche se la parte della lettera kantiana che deve cadere fosse enorme, tuttavia deve restare in piedi quella tipica del suo sistema, che per quanto ne so io all’interno della filosofia può essere paragonata solo a quella di Platone. Esclusivamente nel senso di Kant e di Platone, e, credo, attraverso una revisione e uno sviluppo ulteriore di Kant, la filosofia può diventare dottrina, o almeno essere conglobata in essa. […] In verità vedo chiaramente […] solo il compito di cui ho detto prima, di conservare l’essenziale del pensiero kantiano. In che cosa consista questo nucleo essenziale e come debba essere rifondato il sistema, affinché esso venga in luce, finora non lo so. Ma sono convinto che chi non sente lottare, in Kant, il pensiero della stessa dottrina, e quindi non lo coglie, con la sua lettera, come pensiero tradendum, da tramandarsi con un senso di profonda riverenza (anche se più tardi dovesse essere ampiamente trasformato) costui non sa niente di filosofia24.

Il termine “tipica” (Typik) tornerà nel progetto Sul programma della filosofia futura: la pretesa fondamentale di Benjamin nei confronti della filosofia contemporanea sarà infatti quella di «intraprendere la fondazione, per mezzo di una teoria della conoscenza (die erkenntnistheoretische Fundierung), di un più alto concetto di esperienza sulla base della tipica del sistema kantiano»25 . La tipica del sistema di Kant è individuata da Benjamin, come si vedrà meglio in seguito, nei concetti dell’intelletto, nelle idee della ragione e nel principio della facoltà di giudizio, e nella capacità di questo, come principio della conformità a scopi della natura, di mettere in rapporto i domini del concetto di libertà e del concetto di natura attraverso una esibizione simbolica. Nelle idee della ragione Benjamin vede la presenza della dimensione della dottrina come campo religioso che si costituisce filosoficamente in principi puri, che hanno un ruolo gnoseologico nel porre in rapporto sistematico i concetti, come guide per la loro unità sistematica e simboli di questa unità. Benjamin cerca di creare un ponte tra la sfera religiosa e la sfera filosofica, recuperando il sistema kantiano e colle www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”

gandolo, attraverso la “dottrina”, quale sfera filosofica suprema che egli vede presente in esso, al territorio della religione. Scholem dice di Benjamin, nel 1918, che «talvolta i termini “sistema” e “dottrina” erano per lui addirittura equivalenti» e annota: «Egli naviga a vele spiegate verso il sistema»26. Tornando al problema del “compito infinito”27, questo si caratterizza in Benjamin come determinazione mai conclusa dei concetti della conoscenza per una conoscenza dei fenomeni che li spogli dal loro contenuto empirico, e come compito nel riferimento di questi concetti a un’unità incondizionata, a un’idea che dia loro unità sistematica – e si caratterizza contemporaneamente come ricerca dell’unità del sistema della filosofia. Questo compito, che si svolge parallelamente anche negli ambiti etico ed estetico, si riferisce alle idee kantiane (e alla loro interpretazione coheniana) come luogo regolativo di questa ricerca infinita, e come possibilità della totalità virtuale dei concetti della conoscenza stessa, in una comprensione della storia delle idee nel loro interno28. Il problema della conoscenza, che in lui ha un significato più ampio rispetto alle concezioni di Kant e Cohen e va oltre l’ambito della scienza fisico-matematica, si definisce completamente in una costellazione storica e si lega alla sua concezione del linguaggio, come luogo fondativo dei concetti e delle idee filosofiche, di cui si parlerà più avanti. Se considerato nella sua relazione con il progetto di dottorato su “Il concetto di compito infinito in Kant” e in una visione di filosofia della storia che deve condurre il «divenire della conoscenza» verso la sua risoluzione metafisica nella dottrina, una soluzione che non si ha mai ma che è virtualmente presente come ideale e “compito”, si comprende il significato di un frammento del dicembre 1917 intitolato Il compito infinito29. Questo deve essere stato composto proprio nel momento in cui Benjamin, deluso dagli scritti storici di Kant30, che non trova sufficienti come punto di partenza o oggetto proprio di una discussione indipendente, non avendo essi alcun punto di contatto con gli scritti di filosofia della storia più vicini a lui e a Scholem (probabilmente la tradizione messanico-cabbalistica presente nella filosofia della storia dei romantici31 e negli scritti di Molitor e Baader32), decide un nuovo piano della sua tesi, fondato sulla domanda «Che cosa significa che la scienza è un compito infinito?»33: Per quanto riguarda il nuovo piano che ho per la tesi di dottorato […] [mi rincresce] che Lei non sia qui, vi sarebbe per lo meno materia per i colloqui più istruttivi. La domanda suona più o meno: Che cosa significa che la scienza è un compito infinito? Questa frase, quando la si osserva più da

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Esperienza e compito infinito vicino, è molto più profonda e filosofica di quanto non si creda a un primo sguardo. Bisogna essersi chiariti che si parla di un “compito infinito” e non di una “soluzione perseguita per un tempo infinitamente lungo”, e che il primo concetto non può né deve essere in nessun modo tradotto nel secondo34.

Il compito infinito che Benjamin, nel frammento Il compito infinito, vede posto alla “scienza”35, termine con cui definisce ciascun ambito della filosofia ma che indica insieme, seguendo la definizione che Kant dà della metafisica come «sistema della ragion pura (scienza)»36, tutto il suo sistema, coincide per lui con il concetto dell’unità della scienza. La scienza è compito infinito rispetto alla sua forma e alla sua unità, è un compito che non può essere dato come domanda, ma è di livello superiore rispetto a tutte le domande che si possono porre sul mondo e sull’essere37, e proprio questo determina la sua autonomia e il suo metodo: Come fondazione dell’autonomia: il compito infinito non è dato (come domanda). Il numero infinito di tutte le possibili domande sul mondo e l’essere non renderebbe necessaria la scienza. La scienza è un compito infinito rispetto la sua forma (non rispetto alla sua materia). Che cosa significa compito infinito rispetto alla forma? Non significa un compito la cui soluzione è infinita (rispetto al tempo o a che altro). È infinito quel compito che non può essere dato. Dove si trova allora il compito, se non può essere dato? Si trova nella scienza stessa, o piuttosto è questa scienza. L’unità della scienza si fonda sul fatto che essa non è la risposta a una domanda finita, non può essere interrogata. L’unità della scienza si fonda sul fatto che il suo complesso (Inbegriff) è di potenza maggiore rispetto all’unità che può esigere il complesso (Inbegriff) del numero infinito di tutte le domande finite, cioè date, che si possono porre. Questo significa che l’unità della scienza si fonda sul fatto che è compito infinito. Come tale non si può neanche riuscire a afferrarla da fuori nella forma della domanda, essa è autonoma38.

L’unità della scienza appare qui chiaramente come un’idea, un Inbegriff, e la scienza può essere interpretata come una parte di un sistema di scienze con diversi compiti (conoscitivo, etico, estetico), ciascuna guidata da un’idea, dove l’unità di ogni scienza sta nell’infinità del compito che l’idea le pone rispetto al suo campo di indagine, sta proprio nell’unità e totalità perseguita dall’idea che la guida, mentre tutto il sistema riceve la sua unità dall’identità del metodo dell’autonomia in ogni suo ambito (dato dal rapporto tra idee e concetti, al di là del www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”

l’empiria), dal rapporto tra gli ambiti reso possibile dal concetto di conformità a scopi della natura e dal rapporto tra idee, e dall’idea di Dio (il compito “infinito” dell’unità sistematica39, che, come si chiarirà in seguito, in Benjamin coincide con la verità). A proposito è interessante il passo di una lettera a Scholem del 31 gennaio 1918, in cui si chiarisce il rapporto tra scienza e metafisica e in cui l’etica viene considerata una scienza “autonoma” in quanto a priori, all’interno degli ordini della “dottrina”: È metafisica quella conoscenza che concepisce a priori la scienza come una sfera nel nesso dell’ordine divino assoluto, la cui sfera più alta è la dottrina e il cui complesso (Inbegriff) e causa prima (Urgrund) è Dio, e che considera anche l’“autonomia” della scienza sensata e possibile solo in questo nesso. Questo è per me il fondamento metodico per cui non ritengo possibile a priori l’etica né ogni altra scienza senza metafisica, cioè al di fuori di questo nesso indicato40.

In questa lettera i termini Urgrund e Inbegriff rimandano al concetto di ideale trascendentale della Critica della ragion pura, dove appaiono i termini Inbegriff , Urbegriff e Grund41, rivelando la presenza costante di un riferimento kantiano. Il frammento sul compito infinito prosegue chiarendo il metodo della scienza, la cui «unità consiste nell’infinità del suo compito»: la scienza è la «soluzione dominata dal suo compito», il «compito della scienza è la solubilità tout court», alla «scienza è dato quel compito che rimane sempre in essa, cioè la cui soluzione è metodica»42. Appare chiaro che si è completamente in un ambito di apriorità, in cui ogni scienza si muove con i suoi concetti (nella loro mai completa determinazione) all’infinito nella direzione di un’idea, ogni scienza è una «infinita sintesi assoluta (non relativa)» in cui il rapporto tra compito e soluzione è interno alla scienza stessa, formalmente in quanto «ogni progresso, ogni soluzione è metodica», materialmente in quanto «ogni soluzione pone un nuovo compito»43. L’autonomia della scienza consiste invece formalmente nel fatto che non vi siano compiti «dati»44 e materialmente nel fatto che non vi sia dipendenza da altri valori45. Sia per il concetto di compito infinito che per il concetto – ad esso strettamente legato – di autonomia del pensiero (in quanto fondazione a priori autonoma delle conoscenze, indipendente dall’empiria e da ogni condizionamento esterno o idea dogmatica) e della scienza, siamo in presenza di una chiara influenza neokantiana e soprattutto coheniana, anche se c’è in Benjamin un passaggio dalla concezione del  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

Faktum della scienza come punto di partenza per la riflessione trascendentale, al Faktum del linguaggio nella sua dimensione teologica e redentiva. Infatti l’errore del neokantismo, influenzato dal positivismo, era stato secondo Benjamin il disconoscimento del fatto «che non la scienza, ma il linguaggio costituisce il fatto (Faktum) che si offre»46. In questo senso, egli critica la concezione neokantiana del compito infinito (verosimilmente egli si rivolge nella sua critica a Cohen e Natorp), nel frammento Ambiguità del concetto di “compito infinito” nella scuola kantiana47 del 1918, perché “empirica” e “vuota”, cioè esclusivamente orientata sulla scienza fisico-matematica (e non “piena” di contenuti linguistico-etico-religiosi). Egli dichiara che «presso i neokanti sembra essere sempre intesa […] [quella] seconda forma non apriorica, ma totalmente vuota di compito infinito»48, che vede sorgere a ogni traguardo una nuova meta. Egli si esprime in termini più positivi a proposito di una prima forma di compito infinito, che anche critica considerandola «sostenibile solo empiricamente e quindi mai aprioricamente», per la quale «la meta risiede in una lontananza infinita nel senso che l’intera estensione della sua distanza viene progressivamente misurata a partire da ogni punto del cammino»49, cioè l’ideale appare presente in ogni momento della ricerca come misura interna del suo procedere50. Si è già visto come il concetto di compito infinito sia fondamentale nell’ambito della scuola di Marburgo in due sensi, che trovano poi un punto di riunificazione. È compito infinito la fondazione dell’esperienza su principi fisico-matematici: in Natorp si parla di «oggetto come compito infinito»51, in Cohen di «pensiero come compito»52 della separazione (Sonderung) e unificazione (Vereinigung) nella direzione della conservazione (Erhaltung) dell’oggetto della conoscenza tramite le categorie, che non arriva mai al compimento53. Questo compito di fondazione, in Cohen, ha come «presupposto» il Faktum della scienza come «idea dell’ipotesi» e «conoscenza scientifica nel suo divenire»54 e il suo risultato mai completo nel «sistema della verità» come «somma delle categorie»55 e «sistema delle conoscenze pure»56 che non pretende una determinazione completa. Si tratta di quell’unità della scienza e di quel compito che, come in Benjamin, non può essere dato come domanda, ma che trova nell’origine la determinazione (con il giudizio dell’origine come giudizio infinito che opera con il nulla57) e la risposta «più profonda»58 all’infinità delle domande che possono essere poste59. Il secondo significato del compito infinito, parallelo e legato al primo, è quello dell’individuazione di un’unità dell’esperienza come  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”

massima per la ricerca che ha bisogno di riferirsi a un incondizionato60. In Cohen – in Kants Begründung der Ethik e poi nella seconda e nella terza edizione della Kants Theorie der Erfahrung – i concetti di Grenzbegriff e Grenzbestimmung dell’esperienza esprimono il “compito”, proprio del noumeno e delle idee, di limitare l’esperienza contingente riferendola a un’unità non condizionata, che ha il diritto di avere accesso alla critica61. Cohen, come si è già visto, si riferisce al tema kantiano del noumeno come compito e concetto problematico62. In Kant le «idee psicologiche, cosmologiche e teologiche»63 sono compiti della ragione umana e la scienza che volge i suoi sforzi alla soluzione di questi compiti è la metafisica64. Essi esprimono la destinazione propria della ragione, di essere «un principio dell’unità sistematica dell’uso dell’intelletto»65. Questa unità del modo di conoscere è soltanto regolativa66. Come si è visto, in Kant non appare mai l’espressione “compito infinito”, ma solo l’espressione “compito” anche se questo concetto è sviluppato da Cohen in riferimento a Kant. Neanche Cohen parla precisamente di “compito infinito”, ma in lui il tema dell’infinità del compito della cosa in sé (che si identifica con l’idea e con il concetto di fine) è presente nella terza edizione di Kants Theorie der Erfahrung, dove la «cosa in sé […] [come] complesso (Inbegriff) delle conoscenze scientifiche […] [è] il compito del porre limiti (Bergrenzungsaufgabe) [ed è] senza fine, si ricrea in ogni oggetto. Tutto il nostro sapere è frammento, soltanto la cosa in sé è un tutto: perché il compito della ricerca è infinito»67. Le conoscenze non sono per Cohen una serie conclusa, ogni «concetto giusto è una nuova domanda, nessuno un’ultima risposta. La cosa in sé, pensata come “ambito e connessione (Umfang und Zusammenhang)” delle conoscenze, deve essere contemporaneamente l’espressione delle domande, che sono rinchiuse in quelle risposte delle conoscenze»68. Proprio questo significato di infinito porre nuove domande, che si aggiunge al significato della cosa in sé come insieme delle conoscenze (e di unità sistematica della ragione), descrive secondo Cohen un’«altra espressione, con cui Kant determina e approfondisce la x con cui più volte indica l’oggetto trascendentale. La cosa in sé come compito»69. La cosa in sé come compito appare in ogni singola domanda della conoscenza come il «punto interrogativo», è la «grande serie di domande» contenuta in essa come ambito e connessione delle conoscenze, essa deve essere oggettivata «sinteticamente» come compito di cui va cercata la soluzione, ed essendo gli oggetti dell’esperienza inesauribili, essa è «senza fine», il suo compito è «infinito»70.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

Oltre che nel campo dell’esperienza scientifica, anche nel campo dell’etica e dell’estetica si pone in Cohen un compito infinito, proprio della critica della conoscenza (erkenntniskritisch), un compito della cosa in sé che, nei suoi due significati di «forma della legalità (Form der Gesetzmäßigkeit)»71 in cui le forme a priori sono metodi per l’«oggettivazione in leggi (Objektivierung in Gesetzen)»72, e di «limitazione in idee (Begrenzung in Ideen)»73, dà rispettivamente alla volontà nell’azione etica e al sentimento nella creazione e fruizione artistica la direzione verso un fine mai raggiunto o raggiungibile. La visione teoretica del limite, interpretata come idea (regolativa) di fine, e declinata nei tre modi del concetto di finalità delle forme della natura, del concetto della libertà (della persona considerata come fine) e del libero gioco delle facoltà conoscitive, non crea però, nei tre domini sistematici, un passaggio dalla idea regolativa di libertà come concetto-limite della teoria dell’esperienza al concetto etico di libertà, ma l’unità del sistema è piuttosto affidata alla tensione tra i membri provocata dal metodo trascendentale (per cui, in analogia con la teoria della conoscenza, in ogni parte del sistema ci si riferisce a un Faktum da cui si risale ai principi a priori)74, al prezzo di una «sistematica più allentata»75. L’interesse di Benjamin per il “concetto di compito infinito in Kant” o più in generale per la domanda “che cosa significa che la scienza è un compito infinito” rivela dunque una sua forte vicinanza a una tema fondamentale nella filosofia di Cohen (e di Natorp), ma la interpretazione e utilizzazione metodica di questo concetto si volge in direzioni diverse rispetto a quelle neokantiane, come era già avvenuto in Noeggerath, che rivendicava un razionalismo caratterizzato da un immanentismo che non poteva però soddisfare Benjamin. Anche nella dissertazione di Noeggerath emerge il tema neokantiano del “compito infinito”, e prima ancora quello del «compito del sistema»76, cioè della determinazione del numero, dell’ordine della serie e dei rapporti funzionali reciproci dei membri del sistema della filosofia (logica, etica, estetica), in riferimento a un nuovo «metodo trascendentale», «più generale»77, che, superando il rapporto soggettooggetto nella conoscenza (come già era avvenuto in Cohen78 e come sarà nei progetti di Benjamin) a favore di un rapporto forma-contenuto, si consideri non più come un modello per cui ogni ambito si fonda analogicamente su un Faktum scientifico, ma superi questo modello «secondo il grado»79 prendendo come punto di vista unitario – per esempio per la “teoria della conoscenza”, ma non per l’etica e l’estetica, che hanno le loro idee e i loro compiti – una esperienza in genere  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”

come «unità dell’esperienza»80, quindi un’idea. Questo sviluppo del metodo trascendentale – in cui esso descrive il rapporto tra categoria e oggetto81 – deve poi determinare «secondo la specie»82 i confini dei diversi ambiti del sistema e l’incommensurabilità dei loro oggetti. Noeggerath pone come concetto fondamentale di questa conoscenza, nella sua parte teoretica, la “causalità per libertà”, e indica la presenza di questo nuovo metodo negli stessi Cohen e Natorp: Ora la menzionata “unità dell’esperienza” non è né un oggetto (del pensiero categoriale) né, a partire da un altro fondamento (aus einem anderen Grunde), dell’essere etico o estetico. […] Detto altrimenti: Il “fatto (Faktum) delle scienze” non deve essere più premessa generale, ma è, nella logica, un problema speciale della filosofia. Nell’istruzione di questo ampliamento prenderemo le mosse dalla terza Antinomia di Kant, interpreteremo dunque in questo nuovo senso la sua “causalità per libertà”83. È sicuramente interessante che in C o h e n e N a t o r p , gli stessi principali sostenitori della teoria del fatto (Faktum) come presupposto, si possa attestare proprio questo nuovo concetto di metodo in luoghi chiaramente visibili […] senza che gli autori abbiano dato conto in modo adeguato ai loro lettori di esso e delle sue conseguenze. In C o h e n questo avviene nella Logik der reinen Erkenntnis nei “giudizi delle leggi-del-pensiero (Urteile der Denkgesetze)84”, in Natorp nei Grundlagen85 nella trattazione del carattere processuale della conoscenza86.

La considerazione dell’impraticabilità del metodo kantiano della « c o n t i n u i t à attraverso il passaggio del limite (Kontinuation durch Grenzübergang)»87 per il quale «[la] natura e la moralità (Sittlichkeit) erano […] concetti limite, l’idea di libertà si sviluppava in […] [Kant] in modo continuo dal concetto naturale della causalità»88 costituisce per Noeggerath la premessa della riforma metodologica (del metodo trascendentale) introdotta dal neokantismo: egli vuole riprendere questo presunto metodo kantiano (sostenuto anche dalla divisione della filosofia in due parti, presupposta ancora nella Critica della ragion pura89), del passaggio dal concetto all’idea, per esempio, per gli oggetti teoretici considerati come «esperienza in genere» o «conoscenza stessa»90, dal concetto di causalità della meccanica alla causalità per libertà91, riferendosi al Kant delle Antinomie92 e dei primi paragrafi dell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio: Noeggerath espone nell’Introduzione alla sua tesi i risultati della sua ricerca in poche righe, ma in esse si ritovano numerosi concetti che Benjamin, come si vedrà, riprenderà poi nel suo saggio del 1917-18 Sul programma della filosofia futura:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito 1) Il sistema della filosofia ha tanti membri reciprocamente indipendenti, quanti sono i modi di r e l a z i o n e , oppure – se ci accontentiamo della q u a n t i t à [nota 1: concepiamo […] come quantità il modo particolare dell’articolazione dell’oggetto] – quanti sono i modi dei “compiti infiniti” come forme di questo i n f i n i t o stesso; quindi tre, né più né meno. Il fatto che noi con ciò concepiamo il concetto del compito in modo oggettivo come connessione sintetica (synthetisches Verknüpfsein) e non in modo genetico-psicologico o storico, deriva già dal fatto che non lo colleghiamo con la particolare infinità della s e r i e (per la quale soltanto potrebbe avere senso la [sua] interpretazione come via e esecuzione). Noi lo sostituiamo del resto dopo per il livello della quantità con il concetto temporaneamente ancora problematico della d i s e q u a z i o n e (Ungleichung), per il livello della relazione con la s i n t e s i e simili. La prova si fonda sul nesso tra sintesi e relazione e sulla possibilità di differenziare le idee che sono a fondamento dei tre ambiti di oggetti come loro forma nel senso degli schemi della relazione93. La serie dei membri è a) etica, b) logica, c) estetica94.

Noeggerath collega i tre membri del sistema filosofico (etica, logica, estetica) alle relazioni categorica, ipotetica, disgiuntiva, alle idee psicologica, cosmologica e teologica di anima, mondo e Dio. Egli individua all’interno di ogni ambito un compito infinito dell’idea, un Grenzübergang che si svolge come “connessione sintetica” dei concetti e principio della “disequazione” tra questi e sé. Egli pone come primo membro l’etica non perché veda un primato dell’etica nel senso di Platone o di Kant, ma perché, riferendosi al «metodo kantiano della c o n t i n u i t à (Kontinuation) attraverso il passaggio del limite (Grenzübergang) […] [che] può portare solo a l l ’ idea, che supera il mondo condizionato della natura solo per il g r a d o ma non per la s p e c i e »95, vede un primato del rapporto tra idea e categoria, tra incondizionato e condizionato in genere, quindi del concetto di «libertà […] (come origine e autonomia96) […] [in quanto] presupposto problematico (Problemvoraussetzung) di ognuno dei tre metodi filosofici (non soltanto dell’etica)»97. La «“causalità per libertà”» non è un principio etico, come «causalità assoluta»98 non ha più a che fare con la vera e propria logica trascendentale, ma con la «“metafisica della natura” o conoscenza»99, cioè con quella conoscenza ampliata (che coinvolge anche i concetti di libertà e finalità) che deve essere uno dei compiti del nuovo metodo trascendentale – insieme al compito dell’etica come «solidarietà categorica e libera responsabilità»100, e al compito dell’estetica come libero gioco delle facoltà conoscitive, compiti  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant”

reciprocamente indipendenti proprio perché ognuno attua un Grenzübergang nel proprio ambito. I membri sistematici si comportano reciprocamente, dice Noeggerath, «come gli schemi delle loro relazioni»101 e, corrispondentemente al rapporto della relazione disgiuntiva con la categorica e l’ipotetica (come avviene nella Critica della ragion pura102 nella tavola delle categorie e nella Logik di Cohen nei concetti di integrale, differenziale e serie103), si può verificare il sorgere del terzo membro del sistema, l’estetica (egli porta come esempio il concetto di Idealisierung della Ästhetik des reinen Gefühls104 di Cohen), dai primi due, l’etica e la logica, e dal loro rapporto: questo motivo caratterizza dunque il sistema stesso e «il r a p p o r t o r e c i p r o c o d e l l e i d e e »105. Individuare i rapporti funzionali106 tra i membri del sistema fa parte di quel «c o m p i t o d e l s i s t e m a »107 che la filosofia come razionalismo è chiamata a svolgere. Molte questioni affrontate da Noeggerath saranno riprese dal progetto filosofico di Benjamin Sul programma della filosofia futura. In questo testo Benjamin auspica la fondazione di un concetto di esperienza che coincida con il suo concetto di compito infinito. Partendo dalla critica alla concezione kantiana dell’esperienza e della conoscenza, Benjamin intende sviluppare il sistema kantiano in nuove direzioni e vede come possibile risultato di questa critica un concetto di conoscenza non più legato all’esperienza possibile e una logica trascendentale allargata all’arte, alla storia, al diritto, a cui deve corrispondere un’esperienza non solo scientifica, ma anche storica, artistica, religiosa: un’esperienza assoluta e metafisica che si presenta come «molteplicità unitaria e continua della conoscenza»108 pura. Nel saggio tale continuità viene richiesta e riferita, insieme all’unità, alle idee (kantiane) come compito infinito e metodico della ricerca dell’unità continua della conoscenza e dell’esperienza (che coincide con l’intero sistema della filosofia) e dei loro concetti: Già nella versione kantiana la dialettica trascendentale indica le idee, su cui si fonda l’unità dell’esperienza. Ma, come si è detto, per un concetto approfondito di esperienza la continuità è indispensabile non meno dell’unità, e nelle idee deve essere ritrovata (aufgewiesen) la ragione dell’unità e della continuità di quell’esperienza non volgare e non soltanto scientifica, ma metafisica109.

Il rapporto tra idee e concetti puri, in cui le idee devono portare a un’unità dell’uso dell’intelletto nell’indagine dell’esperienza (un’esperienza a priori e allargata), ma anche a un rapporto di continuità nei  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

diversi ambiti sistematici tra di loro (logico, etico, estetico)110, è il fulcro del concetto di compito infinito in Benjamin, che riprende, usandolo per nuovi contenuti, un concetto kantiano e poi coheniano e neokantiano in genere di grande portata. La visione neokantiana dell’esperienza come scienza fisico-matematica (il cui metodo trascendentale viene trasposto analogicamente all’etica e all’estetica) viene da lui sostituita con la concezione della fondazione della conoscenza e dell’esperienza sul linguaggio, di cui ha una concezione teologica e simbolica111. Nel frammento del 1917 Über die Wahrnehmung112, Benjamin dichiara infatti che l’intera «filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso sistematico simbolico come lingua»113: l’esperienza è da lui concepita come sistema unitario e continuo della conoscenza e intero ambito della filosofia (logica, etica, estetica), e esibizione simbolica dell’unità di ogni parte del sistema e dell’unità del sistema della filosofia (delle idee) in quanto linguaggio.

Nota 1

Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, in GB I, p. 390; trad. it. cit., p. 36. Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 403. 3 Benjamin a Scholem, 23-XII-1917, in GB I, p. 409. 4 Sul messianesimo nel primo romanticismo cfr. la tesi di dottorato di Benjamin, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, in GS, I, 1, pp. 12-13; trad. it. cit., pp. 6-7 e la sua lettera a E. Schoen del 7-IV-1919 in GB II, p. 23. Sui concetti di religione e storia nel primo romanticismo cfr. la lettera del giugno 1917 a Scholem, in parte già citata sopra: «Il centro del primo romanticismo è: religione e storia. La sua infinita profondità e bellezza in confronto con tutto il tardo romanticismo sta nel fatto che essi non si richiamavano, per l’interna connessione di queste due sfere, ai fatti religiosi e storici, ma cercavano di produrre nel proprio pensiero e nella propria vita la sfera superiore in cui religione e storia dovevano coincidere. Non ne deriva “la religione”, ma l’atmosfera in cui tutto ciò che era senza di essa e che si pretendeva che essa fosse ardeva, andava in cenere. E questa silenziosa dissoluzione del cristianesimo stava davanti agli occhi di Friedrich Schlegel, non perché – come si potrebbe forse credere – egli contestasse la sua parte dogmatica, ma perché la sua morale non gli appariva abbastanza romantica – e cioè tacita e viva –, ma eccitata, virile (nel senso più ampio) e in ultima analisi astorica. Queste parole non si trovano nei suoi scritti, sono interpretazione: ma i romantici devono essere interpretati (ragionevolmente). Nel fuoco sovraterreno di questa atmosfera Friedrich Schlegel ha respirato più a lungo di altri, soprattutto più a lungo di Novalis, che cercava di realizzare, col suo ingegno pratico in senso profondo, o meglio pragmatico, ciò che necessitava Schlegel. Poiché il romanticismo è certamente l’ultimo movimento che abbia ancora salvato la tradizione, ne abbia avuto necessità, e in primo luogo, decadendo, è dovuto diventare schiavo della tradizione cattolica. Il suo tentativo, prematuro in questo tempo e in questa sfera, ha portato a un’apertura eleusina e orgiastica di 2

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” tutte le fonti segrete della tradizione, che avrebbe inondato incessantemente l’intera umanità» (Benjamin a G. Scholem, VI-1917, in GB I, pp. 362-363; trad. it. cit., pp. 2829, traduzione modificata e integrata). Per il rapporto di Benjamin con la tradizione cristiana, cattolica e protestante, cfr. la sua lettera a Scholem dell’ottobre 1917, dove egli scrive che – prima di poter cominciare la progettata lettura di Kant – sta leggendo il Trattato di storia dei dogmi (1885-1889) di Adolf von Harnack (1951-1930) (cfr. A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Tubingen, 19104), il teologo luterano tedesco seguace del pensiero di A. Ritschl che era diventato il più prestigioso rappresentante del prostestantesimo liberale. È interessante osservare come la progettata lettura di Kant voglia porsi in rapporto con un’analisi delle concezioni religiose e di filosofia della storia cristiane ed ebraiche, come dunque la religione sia considerata da Benjamin un problema filosofico fondamentale che, come si vedrà, pretenderà un posto centrale nel progetto di sviluppo del sistema kantiano che Benjamin prospetterà in Sul programma della filosofia futura: «Attualmente, prima di poter cominciare la lettura di Kant, leggo il Lehrbuch der Dogmengeschichte [Trattato di storia dei dogmi] di Harnack, in tre volumi. Sono alla fine del primo. Il libro mi fa pensare molto, perché mi permette per la prima volta di farmi un’idea di quello che è il cristianesimo e mi propone continuamente confronti con l’ebraismo per i quali il mio sapere – detto eufemisticamente – è del tutto insufficiente. Tuttavia ne sono emersi alcuni determinati problemi, ciascuno dei quali richiederebbe una lettera, per essere esposto bene. Accennerò a due, sotto forma di domanda: I) c’è, nell’ebraismo, il concetto di fede nel senso del comportamento adeguato verso la rivelazione? 2) C’è, nell’ebraismo, una qualche separazione e distinzione di principio fra la teologia ebraica, la dottrina religiosa, e l’ebraismo religioso del singolo ebreo? La mia intuizione risponde di no ad entrambe le domande, e in questo caso entrambi questi punti costituirebbero importantissimi elementi di contrasto con il concetto cristiano di religione. Di un altro grosso problema del cristianesimo che è scaturito da questa lettera Le dirò un’altra volta» (Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, in GB I, p. 391-392; trad. it. cit., pp. 36-37). Sulla differenza tra cristianesimo ed ebraismo riguardo al tema della fede e dell’azione (giusta) cfr. in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 391-392, gli appunti del 24 agosto 1916, dove si trova anche un’interessante riflessione sulla differenza tra paganesimo mitologico e ebraismo sul tema della trasgressione e della conversione, che nell’uno è legato al diritto e nell’altro alla giustizia, differenza riferita al progetto di Scholem di leggere, del cristiano Franz von Baader, Vorlesungen über eine künftige Theorie des Opfers oder des Kultus (Münster, 1836): «Devo leggere Baader: Theorie des Opfers. Diverso senso del sacrificio e della trasgressione nella mitologia e nell’ebraismo. Lì la comunità di Dio diventa immediata, quella dei singoli viene distrutta, nell’ebraismo [c’è] solo il singolo, solo la “conversione” solleva. Nel paganesimo mitologico la cosa suprema è il diritto, nell’ebraismo la giustizia. […] [Nell’ebraismo mischpat (diritto) è qualcosa di umano e zedaka (giustizia) è qualcosa di divino, in ebraico sono due radici completamente diverse]. Diritto (Recht) e giustizia (Gerechtigkeit) sono due cose completamente diverse. L’essenza dell’ebraismo è la giustizia. Una categoria divina. Il cristianesimo ha voluto ricreare lo spazio, che costituisce l’ebraismo, con le tre coordinate fede, amore, speranza; se l’ebraismo pervade lo spazio come lo pervade un punto, rimane sempre a un livello dimensionale inferiore. Nell’ebraismo non si crede, ma si è giusti. In questo senso l’“azione” ebraica deve essere interpretata come ciò che riempie lo spazio (das Raumerfüllende)». 5 Benjamin a G. Scholem, V-1917, in GB I, p. 363; trad. it. cit., p. 29. 6 Ivi, p. 362; trad. it. cit., p. 29 (traduzione modificata). 7 Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, in GB I, pp. 390-391; trad. it. cit., p. 36.

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Esperienza e compito infinito 8 Benjamin scrive a Scholem tra le altre cose che con lui ha un rapporto positivo che diverge completamente dal suo rapporto con il “genio” Noeggerath (cfr. Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 402). 9 Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1918, in GB I, pp. 402-403. 10 Cfr. le osservazioni di Scholem sulla Cabbalà, la matematica e la magia della lingua in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 19131917, cit., pp. 403-404 (annotazioni dell’11-X-1916): «L’idea della Cabbalà delle tre parti dell’anima […] [ruach, la parte mediana dell’anima], […] [nefesch, la parte inferiore dell’anima] e […] [neschama, la parte superiore dell’anima] è immensamente profonda. La matematica è nella parte spirituale [ruach], e certo anch’essa ha ancora un archetipo (Urbild) metafisico in una sfera della parte centrale […] [nefesch], che una volta ho chiamato rispetto del pensiero, l’ultima però è il centro magico della cosa, ciò che è immediatamente divino, attraverso cui sia la forma centrale che la forma interna vengono prodotti in modo continuo nella loro infinita identità, la […] [neschama]. C’è un centro che è il più interno dell’anima, della lingua, per lo meno dell’ebraico, e nel collegamento di […] [nefesch] e […] [neschama] nel “centro più interno” è fondata la magia della lingua, che si trova perciò, tramite un altro centro, ben al di là della traduzione e della riproduzione. A un certo punto la matematica supera la magia della lingua e entra completamente in Dio, riceve (empfängt) una magia immediata, che operando in se stessa forse rende comprensibile la concordanza di natura e pensiero matematico, il “problema dell’applicazione (Anwendungsproblem)”. Il fatto che la matematica non possa rappresentare per paragoni (Die Gleichnislosigkeit der Mathematik) si chiarisce nella sfera del […] [nefesch], dove essa supera ciò che è linguistico, ciò che può rappresentare per paragoni (das Gleichnismäßige). Nella divinità come l’essere più reale non c’è alcuna possibilità. Cfr. Molitor II, § 94 [cfr. F. J. Molitor, Philosophie der Geschichte oder über die Tradition, cit., zweither Teil, 1834, p. 58: “Nella divinità come l’essere più reale non c’è nessuna semplice possibilità, piuttosto ogni possibilità è allo stesso tempo anche una realtà (Wirklichkeit)”]». Scholem stava leggendo in quel momento lo Zohar, il cabbalistico Libro dello splendore, nella traduzione di Jean de Pauly (cfr. Sepher de Ha-Zohar (Le livre de spendeur). Docrine esotérique des Israélites, trad. pour la première foi sur le texte chaldaique et accompagnié de notes par Jean de Pauly, éd. Par E. Lafuma-Giraud, 6 tom., Paris, 19061911). Cfr. l’accenno al testo in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 407, e cfr. ibid. la nota 185; si tratta di un appunto del 13 ottobre 1916. Sulla filosofia del linguaggio e la Torah, anche in riferimento a Molitor, cfr. gli importanti appunti del 18 novembre 1916, scritti dopo aver mandato a Benjamin la lettera che gli aveva ispirato la composizione del saggio sul linguaggio: «La filosofia del linguaggio è una scienza, che deve essere prima fondata sotto tutti gli aspetti. Veramente io ho relazioni molto forti con le sue idee fondamentali. […] [Bisogna] essere un filosofo straordinario, per tirare fuori ovunque i problemi difficili, dalla storia e dalla matematica e da altre dieci sfere, che non sono quelle della scienza. La filosofia del linguaggio sarà in sommo grado la sola scienza che si potrà con ragione chiamare “intuitiva”. Il suo compito è l’indagine della lingua come rivelazione della verità (Offenbarung der Wahrheit), essa deve determinare il contenuto di verità (Wahrheitsgehalt) della lingua. Per questo bisogna presumere che Wilhelm von Humboldt sia stato un filosofo del linguaggio in senso assoluto. E per questo forse anche il signor Mauthner […]. Nell’ebraismo la filosofia del linguaggio è un centro assolutamente, sì (assolutamente) nascosto, che è stato ovunque attivo dove la Torah è stata insegnata e trasmessa. Nella Torah come libro divino questo problema appare come il primo e il meno problematico; come lingua di Dio la lingua deve essere necessariamente lingua della verità, di ogni

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” verità, e la verità generale e particolare espressa in ogni frase deve essere necessariamente una funzione della parola usata, poiché in altre parole in ogni circostanza appare un’altra verità. […] Si può del tutto a ragione dire che qui la verità è una funzione costante del linguaggio. La verità è la forma interna della frase o della parola, e se la parola viene cambiata anche solo di un differenziale, la verità sarà un’altra, precisamente la forma interna della nuova parola. […] È ancora possibile indicare un centro profondo comune a entrambe, la tangente delle due: il concetto comune che è alla loro base. Dunque la seconda parola deve esprimere necessariamente un’altra verità, ma una verità che ha rapporti con la prima. […] Questa ricerca può essere condotta sia in riferimento a singole lettere, […] sia in riferimento a parole, frasi e interi libri come funzioni composte. Qui valgono poi determinate leggi divine, per esempio la verità di una frase è maggiore della somma della verità delle singole parole, questo può essere forse anche ciò che pensano i cabbalisti, quando nelle simboliche dei numeri a volte aggiungono l’“insieme (Inbegriff)” della parola o della frase il “[kolel]” come 1 [cfr. F. J. Molitor, Philosophie der Geschichte oder über die Tradition, cit., ersther Theil, 1827, p. 63], così che per esempio […] [la Torah] non è 611, ma 612, precisamente il contenuto di verità del tutto, per così dire l’eccedenza. […] La verità della Torah è maggiore della somma della verità delle sue parti, quali che siano. […] “Le lettere, che sono l’espressione di forze spirituali (potrebbe averlo scritto letteralmente Hirsch nel commentario al Pentateuco!), hanno le loro radici sopra” (Molitor I.) [cfr. F. J. Molitor, Philosophie der Geschichte oder über die Tradition, cit., ersther Theil, p. 59], cioè nella verità, nel senso dei cabbalisti ogni ricerca sulla verità che sia veritiera è nel suo centro ricerca sulla lingua, in quanto si devono ricercare le radici delle lettere, l’“alfabeto celeste” (Zohar II 130 b), e le forze spirituali che vi sono rappresentate. La definizione della linea retta deve conseguire sia per i cabbalisti che per i primi filosofi del linguaggio dalla parola [jaschar, retta]. […] Il libro su questo potrebbe avere il titolo: “Sulla teoria matematica della verità” oppure: “Sulla forma interna della lingua ebraica”» (G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 420-422). Il legame tra la teoria matematica della verità e la forma interna della lingua ebraica è data dal fatto che in entrambe è centrale la pura forma spirituale, rispettivamente la struttura matematica e la stuttura linguistica, e non sono fondamentali i contenuti empirici o i significati. 11 Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 403. 12 Cfr. l’appunto dell’11 ottobre 1916 in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 404, dove l’idea di giustizia nell’ebraismo è vista come una categoria storico-messianica che porta l’ebraismo stesso a vincere, nella Torah, la dimensione mitica e magica: «Nell’ebraismo l’amore e la giustizia non sono categorie dello stesso ordine. L’ultima si trova più in alto, più vicina a Dio. Con la giustizia non si può esercitare la magia, mentre con l’amore sì. L’ebraismo è una vittoria continua di ciò che è storico (des Historischen) su ciò che è mitico. Il mito vincola l’uomo in modo magico, l’ebraismo [lo vincola] con la storia (Historie)». 13 Cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 169; trad. it. cit., p. 225: «L’intera filosofia si divide nella teoria della conoscenza e nella metafisica, o per usare le parole di Kant, in una parte critica e una dogmatica. […] L’intera filosofia è dunque teoria della conoscenza, è solo e precisamente teoria, critica e dogmatica, di ogni conoscenza». 14 Cfr. Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS , II, 1, p. 146; trad it. cit., p. 183. 15 Del primo romanticismo, Benjamin pensa che sia «l’ultimo movimento che abbia ancora salvato la tradizione» (Benjamin a G. Scholem, V-1917, in GB I, p. 363; trad. it.

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Esperienza e compito infinito cit., p. 29). Si tratta della tradizione cabbalistica ebraica ripresa e reinterpretata (sulle orme di Böhme) dai cristiani Baader e Molitor, che, dice Benjamin, hanno influenzato sicuramente Schelling (cfr. ivi, p. 361; trad. it. cit., p. 28). Il titolo del testo più importante di Franz Joseph Molitor si riferisce proprio alla filosofia della storia come tradizione, cioè come Scrittura e sua interpretazione (soprattutto cabbalistica) e trasmissione: Philosophie der Geschichte oder über die Tradition in dem alten Bunden und ihre Beziehung zur Kirche des Neuen Bundes mit vorzüglicher Rücksicht auf die Kabbala. A questo testo, una delle sue letture in questo periodo, si riferisce anche Scholem in una lettera a Siegfried Lehmann dell’ottobre del 1916, in cui descrive il modo in cui intende il rapporto dell’ebraismo con la religione, la tradizione della Torah e la magia della lingua contenuta nel suo testo ebraico (Scholem a S. Lehmann, 9-X-1916, lettera 17, in G. Scholem, Briefe. Band I 1914-1948, cit., pp. 47-48): «[il concetto di Dio] è il concetto e la realtà della Torah, questo è il concetto ebraico della dottrina (Lehre), è il concetto ebraico della “tradizione (Tradition)” incredibilmente profondo, vero e che dobbiamo in verità realizzare. Non con leggerezza Franz Molitor, il grande cabbalista cristiano, ha dotato il suo straordinario libro sulla Cabbalà – e con questo [ha mostrato] tutta la grandezza dell’uomo – del titolo che lo caratterizza veramente in una parola: filosofia della storia o sulla tradizione!!! Herr Lehmann, un libro sulla mistica ebraica di un mistico con il titolo sulla tradizione! Certo, chi ha la “parola”, ha l’ebraismo, ma questa parola non si comprende se non si conosce l’opera, l’essenza della Torah non la si comprende se non la si conosce, e il concetto di Dio ebraico non si comprende, non lo si “esperisce” (erlebt), se non si conosce l’opera (Werk) di Dio. L’azione di Dio. Ma l’azione di Dio è la “tradizione”, la “Torah”. La Torah non è solo il Pentateuco, la Torah è l’insieme (Inbegriff), l’integrale delle tradizioni (Überlieferungen) del giudaismo da Mosche Rabbenu fino a Israel Hildesheimer, fino a lei, signor Lehmann, se lei è ebreo, e la Torah – secondo le parole dei mistici – sarà perfetta nei giorni del Messia. […] La Torah però, nella parola dei profeti – proviene da Sion, e questo lo intendo anche dal punto di vista interno [in questo senso]: che il punto di partenza intimo della Torah per noi deve essere Sion – Sion è un simbolo religioso –, che Sion è il centro più intimo della Torah, esternamente e internamente, e che chi è un sionista deve aspirare alla Torah, non all’esperienza vissuta (Erlebnis) ma alla vita (Leben), e che il sionista può percepire la parola di Dio solo da Gerusalemme. Isaia II,4. Ma questo, signor Lehmann, significa per me che la parola vivente di Dio agli ebrei non può essere compresa nella lingua tedesca, la forma interna dell’ebraismo può essere compresa solo a partire dal centro più interno dell’anima dell’ebraico. Le parole chassidiche hanno un’anima, e quest’anima è in qualche modo legata alla forma magica della lingua – paragonabile certo non nel modo, ma nell’essenza al discorso profetico, per il quale sicuramente vale lo stesso – e con una traduzione viene piegata nel centro. […] già dalla posizione intimamente centrale dell’ebraico nella mistica ebraica […] lei doveva poter desumere la fondatezza della mia visione». 16 Benjamin a G. Scholem, 6-IX-1917, in GB I, p. 383; trad. it. cit., p. 33. Cfr. l’intero brano ivi, pp. 381-383; trad. it. cit., pp. 32-33 (traduzione modificata): «(Unterricht) significa educazione attraverso la dottrina (Lehre) in senso proprio, e quindi deve stare al centro di tutti i pensieri sull’educazione (Erziehung). […]. Ora vorrei che nella ulteriore elaborazione del suo saggio Lei eliminasse il concetto di esempio, e anzi che lo risolvesse in quello di tradizione. Sono convinto di questo: la tradizione è il medium in cui il discente si trasforma continuamente nel docente, e questo per tutta l’estensione dell’educazione (Erziehung). Nella tradizione tutti sono educatori ed educandi e tutto è educazione. Questi rapporti sono simboleggiati e sintetizzati dallo sviluppo della dottrina (Enrwicklung der Lehre). / Chi non ha imparato non può educare, poiché non vede in

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” quale punto è solo, dove dunque comprende a sua maniera la tradizione e insegnando la rende comunicabile. Il sapere diventa tramandabile solo in colui che lo ha concepito come tramandato – e che diventa libero in una maniera incredibile. A questo proposito penso all’origine metafisica della barzelletta del Talmud. La dottrina è un mare ondoso, ma per l’onda (se la prendiamo come immagine dell’uomo) tutto sta nell’abbandonarsi al suo movimento, così da salire e rovesciarsi spumeggiando. Questa inaudita libertà del rovesciarsi è l’educazione, in senso stretto: della lezione (Unterricht), dove la tradizione diventa visibile e libera, si rovescia sotto l’impulso della sua pienezza di vita. Se è così difficile parlare di educazione, è perché il suo ordine coincide interamente con l’ordine religioso della tradizione. Educare è solo arricchire (nello spirito) la dottrina; solo chi ha imparato ne è capace: e quindi è impossibile, per coloro che verranno, vivere altrimenti che imparando. I posteri nascono dallo spirito di Dio (dell’uomo), salgono dal movimento dello spirito, come onde. La lezione è l’unico punto dove la generazione più vecchia si congiunge liberamente con quella nuova, allo stesso modo che le onde trapassando l’una nell’altra lanciano la cresta di spuma. Ogni errore di educazione è dovuto al fatto che si pensa che in ultimo i nostri discendenti dipendano in qualche modo da noi. Ora essi non dipendono da noi altrimenti che da Dio e dal linguaggio, in cui quindi dobbiamo immergerci, se vogliamo giungere a una comunione (Gemeinsamkeit) con i nostri figli». Si vedrà in seguito come la dottrina (e all’interno di essa la filosofia) sia concepita da Benjamin all’interno di una visione teologica del linguaggio, in cui esso è originato dalla parola divina che crea il mondo e di cui è fatta la Torah. 17 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 411 (annotazione del 27-X-1916): «Ora so che anche la discussione “giuridica” più arida del Talmud è una questione religiosa – detto semplicemente: Poiché l’ebraismo vuole la giustizia e il Talmud non contiene una dottrina del diritto, ma una dottrina della giustizia». Sulla giustizia, come preparazione alla venuta del Messia e segno della presenza di Dio nel mondo (Schekhinah) cfr. un appunto del 16 novembre 1916, ivi, p. 419: «L’essenza dell’idea (Vorstellung) ebraica della giustizia (Gerechtigkeit), come “sforzo di fare del mondo il sommo bene (höchstens Gut)”, come ha scritto Benjamin [cfr. ivi, p. 401], si rivela in modo molto profondo nelle parole molto intraducibili del saggio che Hirsch riporta su Gen. 24,1 [cfr. S. R. Hirsch (a cura di), Der Pentateuch, cit., Erster Theil: Die Genesis, p. 319]: […] i giusti prepareranno (l’arrivo della) Shekhinah in terra […]: I giusti preparano la terra [per farne il] […] luogo del divino, per trascinare la Shekhinah in basso. […] l’essenza della Shekhinah è la giustizia. E perciò la crescita della giustizia è di fatto solo la crescita della rivelazione della giustizia, la vera crescita del potere divino sulla terra, della Shekhinah; perciò la giustizia è la massima rivelazione di Dio e la sua massima venerazione. I giusti chiamano il Messia, nessun altro. Si traduce spesso Shekhinah con “Splendore di Dio”, bene, questa è la […] [zedaka, giustizia], la giustizia è in verità un riflesso di Dio. Si può amare anche senza Dio, essere giusti no». 18 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 411 (annotazione del 27-X-1916): «La divinità della Bibbia […] si trova […] [nella ] storia (Historie) […]. L’ebraismo è la storia stessa, e poiché esso è l’assoluta verità, la Bibbia, la Torah è divina, per questo si potrebbe provare qualcosa della Bibbia, e per questo anche la “tradizione” ebraica è diversa da ogni altra. La letteratura ebraica è, come nessun’altra, indirizzata verso la verità. […] Perché dunque queste discussioni del Talmud, se non le sostenesse il volere santo di determinare la verità divina esistente, e che deve esistere, anche delle cose più piccole [?]». 19 Sul matematica e Sion, il centro spirituale dell’ebraismo da cui proviene la Torah,

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Esperienza e compito infinito dove si realizza l’incontro tra matematica e mistica, cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 407 (annotazione del 13X-1916): «Alcune persone cercano il rapporto tra matematica e mistica in una certa matematica occulta, io penso che questo non sia abbastanza profondo, il rapporto si trova alcuni mondi più in profondità: in Sion. Perché in sé la concezione che i numeri sono le lettere del libro del mondo non è ancora un ponte decisivo verso la mistica. Perché essa sostiene [esservi] un modo di rappresentare per paragoni (Gleichnishaftigkeit) della matematica; il che a questo livello è assolutamente falso. La matematica non è un paragone, una parabola (Gleichnis), poiché ve ne sarebbe una per Dio. Ma questo in un’altra sfera, che non sembra essere la sfera occulta. Sion è una categoria profetica, ma non una categoria occulta. Con l’aiuto dell’occultismo si può forse fraintendere la matematica. (Questo può anche essere un errore, ne so troppo poco.)». Come è già stato ricordato, Scholem stava leggendo allora lo Zohar, il Libro dello splendore, un testo fondamentale della tradizione cabbalistica, nella traduzione di Jean de Pauly. 20 G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 19131917, cit., p. 405 (annotazione dell’11-X-1916). 21 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 73; trad. it. cit., p. 94. 22 Cfr. ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 95. 23 Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, in GB I, pp. 390-391; trad. it. cit., p. 36 (traduzione modificata). 24 Ivi, p. 389; trad. it. cit., pp. 34-35 (traduzione modificata). 25 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 160; trad. it. cit., p. 216 (traduzione modificata). 26 G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einerFreundschaft, cit., p. 79; trad. it. cit., p. 101. 27 Anche Scholem ha una sua concezione del “compito infinito”, come compito dello spirito umano di trovare le verità matematiche, che sono verità analitiche, in se stesso e nella sua produzione. Poiché non ha di fronte un tempo infinito, lo spirito umano si trova costretto a procedere sinteticamente, con lo strumento abbreviante dell’intuizione, in cui, in un “momento” (Augenblick), viene riassunta la pensabilità infinita. Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 19131917, cit., pp. 427-428 (annotazione del 19-XI-1916): «Io sono convinto del fatto che in qualche modo ci sia una “matematica in sé”. Questa matematica pura è assolutamente logica, analitica, dall’eternità, ne ho già parlato e scritto abbastanza. Che ∞ = ∞ non è una tautologia ecc. Di contro lo spirito umano ha, secondo la sua essenza, il compito infinito di rinvenire queste verità matematiche, di produrle da se stesso, e questo potrebbe forse accadere – non lo so con esattezza – in modo puramente analitico, se […] esso avesse un tempo infinito: […] ma poiché non ha tempo per questo, si è creato uno strumento di abbreviazione straordinariamente buono e divino: l’intuizione rappresentativa (die Anschauungsintuition). Attraverso questa introduzione di un metodo di abbreviazione assolutamente necessario e essenziale per l’uomo lo stato delle cose cambia: la riproduzione (Wiedererzeugug), la produzione, cioè il ritrovare la verità che dall’eternità riposa o si muove in Dio è una questione sintetica, ciò che la verità in sé non è. Perché l’Essente assoluto (das absolut Seiende) non è una sintesi, altrimenti non sarebbe assoluto. (L’Essente assoluto non è naturamente neanche un’analisi, queste categorie sono qui completamente insensate, e con ciò che è stato detto sopra si intende soltanto: Se ci si immagina che esse siano prodotte da Dio, esse sono analitiche, non vi si aggiunge nulla in alcun punto che non abbia posto nella premessa.) Ora anche nella nostra ricerca non

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” si aggiunge nulla, l’elemento sintetico si trova nell’uomo pensante: Egli compie una sintesi, ha un’intuizione, in quanto compie una scelta. L’essenza dell’intuizione è: Che ciò che si trova nella verità infinita viene “visto (geschaut)” in un attimo (Augenblick) e in questo modo la pensabilità analitica viene abbreviata infinitamente. Io non dico: Dio non è sintetico, ma: Egli non ha bisogno di esserlo, se lo sia è una questione che non ci riguarda qui. Forse Egli abbrevia infinitamente e guarda la verità infinita in un attimo atemporale, ma questo non tocca l’essenza della matematica, fino a che non è provato che non può essere concepita diversamente. E questo non lo proverà nessuno perché è falso». Cfr. anche ivi, pp. 429-430 (appunti del 22-XI-1916), il paragone di Sion, del centro spirituale dell’ebraismo, con la fonte della verità matematica, l’addizione di grandezze infinitamente grandi secondo la formula “da n a n+1”, e il paragone matematico e morale delle figure del saggio e dello stolto con i simboli matematici che tendono rispettivamente all’infinito e a zero: «Occuparsi delle cose essenziali, cioè di Sion, è come la conclusione (Schluß) da n a n+1, la perenne fonte della verità, è come l’addizione di numeri infinitamente grandi, certo infinitamente difficile ma anche incredibilmente feconda. Lo Zaddik [il saggio,] si occupa dell’addizione (Summierung) infinita, l’uomo comune dell’addizione finita, il […] [rascha, l’empio, il senza Dio] invece dello zero. Morale della matematica. […] Il confine dell’uomo comune verso l’alto → ∞ è lo Zaddik, il confine verso il basso → 0 il […] [rascha]. Ma in verità lo Zaddik non è un concetto limite (Grenzbegriff) assolutamente no. Lo Zaddik è nella sfera di ciò che è attuale, non di ciò che è potenziale». Oltre che al problema della matematica e del suo compito infinito il 19 novembre Scholem si riferisce nei suoi appunti a Kant, dicendo che i concetti della sua psicologia gli sono poco chiari, ma questo è forse dovuto al fatto che se n’è occupato ancora troppo poco. Aveva programmato di occuparsene quell’inverno, ma non vi era ancora arrivato, e non avrebbe potuto farlo fino alle vacanze di Natale, poiché prima doveva leggere le Vorlesungen über eine künftige Theorie des Opfers (Münster, 1836) di F. von Baader. Questo indica il suo interesse per Kant, ma conferma in lui l’esigenza, propria anche di Benjamin, di paragonare Kant con i romantici e di trovare conferme – prima di poter affrontare Kant per poterlo criticare con idee forti – rispetto a un’idea (ancora intuitiva) della filosofia della storia più vicina alle concezioni cabbalistiche (cfr. ivi, p. 429). 28 Cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 227; trad. it. cit., p. 21: «La storia filosofica come storia dell’origine è la forma che, dagli estremi più remoti, […] fa emergere la configurazione dell’idea come totalità contrassegnata da una possibile coesistenza di quegli opposti. La rappresentazione di un’idea non può in nessun caso considerarsi riuscita finché non si è passato virtualmente in rassegna il cerchio degli estremi in essa possibili. La rassegna rimane virtuale. Poiché ciò che si raccoglie nell’idea dell’origine ha una storia solo come contenuto, e non come un accadere che lo riguarderebbe. Esso conosce la storia solo dall’interno, e non più nel senso di un divenire senza fine, ma in un senso riferito all’essenziale, che permette di connotarla come la preistoria e la storia futura di quell’essere particolare». 29 Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, pp. 51-52, frammento 30, dicembre 1917 (la datazione è dei curatori delle Gesammelte Schriften, cfr. ivi, p. p. 665). 30 Il 23 dicembre 1917 Benjamin scrive a Scholem di essere stato deluso nelle sue aspettative dalla lettura di Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, in Schriften zur Geschichtsphilosophie, mit einer Einleitung hrsg. von M. Riedel, Philipp Reclam jun., Stuttgart, 1985, pp. 21-39; trad. it. Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Bari, 1999,

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Esperienza e compito infinito pp. 29-44) e de La pace perpetua (I. Kant, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, hrsg. von R. Malter, Philipp Reclam jun., Stuttgart, 1995; trad. it. Sulla pace perpetua, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 163-207). Cfr. GB I, p. 408: «Per ciò che riguarda la filosofia della storia di Kant sono stato deluso nelle mie grandi aspettative dalla lettura di entrambi i suoi scritti specifici [sull’argomento] (Idee per una storia…, Sulla pace perpetua). Questo è molto spiacevole ai fini dei miei piani per il tema del mio lavoro di dottorato, ma in entrambe le opere di Kant non trovo assolutamente nessun punto di rapporto essenziale rispetto agli scritti di filosofia della storia a noi più vicini, e prevedo in realtà solo una posizione puramente critica nei loro confronti. Si tratta, in Kant, meno della storia che di certe costellazioni storiche di interesse etico. E inoltre il lato etico della storia come […] considerazione particolare viene presentato in modo insufficiente e viene enunciato il postulato di un modo di considerare e di un metodo [proprio] delle scienze naturali. (Introduzione a “Idea di una storia…”[cfr. I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, in Schriften zur Geschichtsphilosophie, cit. pp. 21-22 trad. it. Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 29-30]). Mi interesserebbe molto sapere se lei è della stessa opinione sull’argomento. Trovo i pensieri di Kant completamente non idonei come punto di partenza o oggetto proprio di una dissertazione autonoma» (Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917, in GB I, p. 408). 31 Cfr. F. Schlegel, Philosophie der Geschichte. In achtzehn Vorlesungen gehalten zu Wien im Jahre 1828, Band I, Wien, 1829, cit. come lettura di Benjamin nell’estate del 1916 in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 385 (annotazione del 18-VIII-1916). 32 Su Baader e Molitor cfr. la lettera di Benjamin a Scholem del maggio 1917, che individua in due lettere di Baader a Molitor dei passi molto belli sulla Shekhinah, la presenza di Dio nel mondo: «Stamattina sono arrivati gli scritti completi di Baader e poiché ora spero proprio di studiare con una certa intensità, avrò insieme ciò che è affine. Non posso studiare in altro modo. E Baader e Molitor sono così affini (gehören so sehr zusammen), che subito tra ciò che ho letto per primo c’erano due sue importanti lettere a Molitor, che fra le altre cose dicono qualcosa di essenziale e bello sulla Shekhinah» (Benjamin a G. Scholem, 23-V-1917, in GB I, p. 357). Le due lettere di Molitor a Baader si trovano nei Sämtliche Werke (F. von Baader, Erstes Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt e Zweites Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt, in Sämtliche Werke, cit., I. Hauptabteilung, Band 4: Gesammelte Schriften zur philosophischen Anthropologie, pp. 327-362). I passi a cui Benjamin si riferisce (sulla Shekhinah) sono soprattutto nella seconda lettera, alle pp. 343-349. Della prima lettera, dice a Scholem che la conclusione, a p. 340, è forse interessante anche per lui: chiede a proposito informazioni sull’idea della creazione avvenuta due volte. Benjamin dà queste indicazioni bibliografiche nella lettera a Scholem del giugno 1917, in cui scrive anche che la visione della verità di Baader è vicina alla propria (e a quella dell’amico): «Può prendere in biblioteca il libro di Baader dove ho trovato il passo sulla Shekhinàh: l’argomento è trattato qua e là, e sarebbe faticoso fare un riassunto. Del resto credo che la sua opinione possa essere vicina alla verità. Sämtl. Werke ed. da F. Hoffmann, vol. IV, pp. 343-349. Del resto nello stesso saggio è molto interessante la discussione del tempo e della storia (pp. 356 sg.). Non l’ho ancora capita. Forse è anche interessante per Lei, la conclusione dello studio precedente (p. 340). Mi farebbe un favore, se mi potesse scrivere qualcosa sull’idea della creazione avvenuta due volte (zweimalige Schöpfung), che mi interessa molto per determinate ragioni» (Benjamin a G. Scholem, V-1917, in GB I, p. 364; trad. it. cit., pp. 29-30). Sul tempo e la storia come simultaneità di passato e futuro nell’eternità di Dio, in cui tutto

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” ciò che è nel tempo e nella storia si ritrova all’“interno” del tempo come un tutto che tende al compimento della formazione di tutti i suoi membri, quindi sul tempo come tempo messianico che si trova nel ricordo, cfr. F. von Baader, Zweites Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt, in Sämtliche Werke, cit., I. Hauptabteilung, Band 4: Gesammelte Schriften zur philosophischen Anthropologie, pp. 356- 357. 33 Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917, in GB I, p. 409. 34 Ibid. 35 Cfr. un appunto di Scholem del 14 gennaio 1917, in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 468, in cui egli definisce la scienza come introduzione alla Torah, come dottrina degli ordini (Ordnungslehre) o dottrina degli ordini spirituali delle cose, a cui appartengono anche gli oggetti matematici, e cfr. ivi, p. 467, dove si trova in disaccordo con Benjamin (di cui aveva letto la lettera-saggio sul linguaggio), rispetto al ruolo, per Scholem assolutamente predominante, della matematica nella dottrina degli ordini: «[le] cose matematiche […] appartengono alla dottrina degli ordini. […] La matematica è la dottrina senza nome [:] è una conoscenza e precisamente una conoscenza metafisica. Questa definizione è precisamente quella necessaria e adatta alla dottrina degli ordini – quanto la mia: profondo rispetto per il pensiero. D’altronde le osservazioni di Benjamin sulla mia definizione non sono giuste, perché non l’avevo intesa così. È lo specifico, è l’ordine della matematica, che soltanto essa sia profondo rispetto per il pensiero. O tutta la dottrina è matematica o c’è una dottrina che non è profondo rispetto per il pensiero, ma altro. Su questo non ho ancora le idee chiare. È sicuro che la Torah sia un’ordine più alto rispetto alla matematica stessa». 36 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 869-870, pp. 701-702; trad. it. cit., p. 635. Cfr. il cap. III della Dottrina trascendentale del metodo, L’architettonica della ragion pura, ivi, B 860-880, pp. 695-709; trad. it. cit., pp. 629-642. Cfr. ivi, B 869-870, pp. 701-702; trad. it. cit., pp. 635-636. Sulla scienza come unità sistematica cfr. anche ivi, B 873, p. 704; trad. it. cit., p. 638: «Ogni conoscenza pura a priori, dunque, in virtù della speciale facoltà conoscitiva in cui essa può avere soltanto sua sede, costituisce una speciale unità, e la metafisica è quella filosofia, che deve esporre codesta conoscenza in tale unità sistematica». 37 La questione della non interrogabilità si ritrova nel saggio “Le affinità elettive” di Goethe (1922) nel concetto dell’ «ideale del problema» (Goethes Wahlverwandtschaften, in GS, I, 1, p. 172; trad. it. cit., p. 225), come domanda non formulabile sull’unità del sistema della filosofia, come non è dato come domanda il compito infinito nel frammento del 1917 Il compito infinito. Nel saggio su Goethe le opere d’arte, nella loro molteplicità, sono, grazie alla loro affinità con l’ideale del problema, manifestazioni (Erscheinungen) simboliche della domanda non formulabile sull’unità del sistema. La stessa domanda sull’unità del sistema si presenta nel 1925 nella Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco (Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 209-210 e 228; trad. it. cit., pp. 5-6 e 22) nel problema della non interrogabilità della verità come insieme di idee e rapporto fra loro: la teoria delle idee che si presenta in questo testo recupera il tema del compito infinito (con sostanziali variazioni e un più forte riferimento alla teoria delle idee platonica). Ma già nel 1917-18 in Sul programma della filosofia futura Benjamin identifica la verità con l’unità del sistema (cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 158; trad. it. cit., p. 214). 38 Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, p. 51, frammento 30. Si riprende in parte la traduzione italiana del testo da P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli, L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., p. 365.

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Esperienza e compito infinito 39 Per il problema dell’unità del sistema come compito in Cohen e Natorp cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, 2 Bände, Schwabe & Co, Basel/Stuttgart, 1986, Band I: Ursprung und Einheit, pp. 308-352. Cfr. anche H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 346-361. 40 Benjamin a G. Scholem, 31-I-1918, in GB I, p. 422. 41 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 599-611, pp. 515-523; trad. it. cit., pp. 454-461. Cfr. P. Fiorato L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli, L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., p. 367, nota 36. 42 Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, p. 52. 43 Ibid. 44 Ibid. 45 Cfr. Ibid.: «L’infinità del compito fa apparire tutte le qualità della scienza come formali non materiali: Autonomia (formale: nessun compito dato materiale: indipendenza da altri valori). Metodo (formale: ogni progresso, ogni soluzione (Lösung) della scienza è metodica materiale: ogni soluzione pone un nuovo compito) Alla scienza non corrisponde alcuna analisi numericamente infinita (unendlich zahlreiche Analysis), essa è piuttosto una sintesi infinita assoluta (unendliche absolute Synthesis) (non relativa). La scienza non è né soluzione né è costituita da compiti (Aufgaben): perciò “compito infinito”». 46 W. Benjamin, Über die transzendentale Methode, in GS, VI, p. 53, frammento 31. 47 Cfr. Zweideutigkeit des Begriffs der “unedlichen Aufgabe” in der kantischen Schule, in GS, VI, p. 53, frammento 32. Per la proposta di datazione dei curatori delle Gesammelte Schriften, l’estate del 1918, cfr. la nota editoriale in GS, VI, p. 665. La datazione è stata proposta con l’idea che i toni critici nei confronti del neokantismo siano da ricondurre alla delusione di Benjamin dovuta alla lettura del testo di Cohen Kants Theorie der Erfahrung, intrapresa con Scholem nel maggio del 1918. 48 Zweideutigkeit des Begriffs der “unedlichen Aufgabe” in der kantischen Schule, in GS, VI, p. 53. 49 Ibid. 50 Cfr. a proposito P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli, L. Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., pp. 366-367, in cui l’autore considera questo primo significato della concezione del compito infinito vicina alla concezione del metodo della solubilità di Benjamin e alla concezione coheniana dell’ideale, e confronta il passo di Benjamin con un passo dell’Ethik di Cohen: «In modo per certi versi analogo, nell’Etica di Cohen, là dove la realtà dell’etico viene individuata nella stessa meta di essere infinito, si cerca di definire in termini positivi, proprio con ricorso al concetto di ideale, la relazione tra l’infinito e ogni singolo momento del processo, affermando che “ad ogni singolo livello appartiene il punto infinitamente lontano cui esso è riferito secondo il suo concetto. Questo punto infinitamente lontano costituisce l’eternità per ogni punto finito. Occorre che essi siano presi insieme se si vuole capire che l’eternità significa la realtà effettiva dell’etico.” [H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 411; trad. it. cit., p. 296]» (ivi, p. 367, nota 32). Come si è già detto, Benjamin potrebbe aver rivolto in questo frammento la sua critica agli epi-

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” goni neokantiani e non a Cohen stesso (o a Natorp), ma è probabile che siano proprio Cohen e Natorp i suoi bersagli. 51 Cfr. P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, cit., p. 16. Benjamin si procurerà questo testo solo nel gennaio del 1919 (cfr. Benjamin a G. Scholem, 23-I-1919, in GB II, p. 9). 52 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 62 53 Cfr. ivi, pp. 62-65, in part. le pp. 64-65, a cui si è già fatto riferimento: «[Separazione e unificazione] e altrettanto i loro contenuti non devono essere stabilite in un presente, ma [devono essere] portate dal presente attuale in un futuro, devono essere poste in rapporto con il futuro. L’unificazione non deve essere pensata come un evento il cui compimento sia arrivato al termine; piuttosto deve essere pensata come un compito, e l’ideale di un compito; come solo la logica può porre un tale compito, un tale ideale. Perché il compito che viene affidato al pensiero nel giudizio non può mai essere concepito come giunto alla quiete, al compimento. […] La separazione [e l’unificazione non sono] […] mai pensate come concluse. […] Così l’affermarsi di entrambe le direzioni si fa intendere in virtù della conservazione e devono rimanere sempre compiti. Ma solo la logica può assegnare e risolvere questi compiti». 54 P. Fiorato, Unendliche Aufgabe und System der Wahrheit. Die Auseinandersetzung des jungen Walter Benjamin mit der Philosophie Hermann Cohens, in F. Orlik, R. Brandt (a cura di) Philosophisches Denken-Politisches Wirken, cit., p. 173. Cfr. ibid., l’intero brano: «È rilevante in questo senso prima di tutto il fatto che secondo l’impostazione di Cohen il discorso su un’infinità della scienza si giustifica in realtà solo quando si smette di concepire il “fatto (Faktum) della scienza” come l’orizzonte non problematico per l’attivamento (Betätigung) del pensiero nella riflessione trascendentale, e si tematizza invece questo stesso come “presupposto del pensiero (Voraussetzung des Denkens)” [cfr. H. Holzhey, Heidegger und Cohen. Negativität im Denken des Ursprungs, in G. Hauff, H. R. Schweizer, A. Wildermut (a cura di), In Erscheinung treten. Heinrich Barths Philosophie des Ästhetischen, Schwabe, Basel, 1990, pp. 97-114, in part. 107 s.]. È in questo nesso che bisogna intendere l’asserzione di Cohen secondo la quale egli avrebbe “sviluppato nella direzione del giudizio e della logica dell’origine” l’“idea dell’ipotesi” in quanto “centro metodico” del suo sistema (LrE 601): con una formulazione più aspra si potrebbe dire che il carattere di presupposto del fatto (Faktum) costituisce il tema proprio e il punto centrale della logica dell’origine coheniana. […] Dal teorema dell’origine, che Cohen pone al centro della sua logica, non ci si può aspettare alcun ‘superamento dell’ipotesi’, cioè nessun superamento dell’orizzonte della conoscenza scientifica nel suo divenire. D’altra parte, nel ‘presupposto dell’ipotesi (Hypothesis–Voraussetzung)’ del teorema dell’origine dovrà essere tematizzato il principio delle rispettive diverse ipotesi che il pensiero utilizza nella determinazione del reale. In questo senso Cohen scrive che solo se il “fondamento (Grund)” è diventato “origine” e “il significato universale (die allgemeine Bedeutung) del principio come fondazione (Grundlegung)” si è approfondito come “fondazione dell’origine”, diventerà possibile riconoscere che “il principio …[è] fondazione in senso letterale” (LrE 36)». 55 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 399. 56 Ivi, p. 397. 57 Sul giudizio dell’origine come giudizio infinito che opera con il nulla cfr. A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., pp. 104-106, in part. p. 105: «L’origine del qualcosa non può essere posta in un altro qualcosa: essa dovrà perciò essere trovata in un non-qualcosa, in un “niente” (Nichts). […] si tratta di […] indicare una via, un metodo (per questo Cohen parla di “giudizio” dell’origine) attraverso il quale il pensie-

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Esperienza e compito infinito ro puro produce il determinabile stesso prima delle sue determinazioni: non quindi una produzione ex nihilo ma ab nihilo. La strada per la produzione del “qualcosa” è una “via indiretta” (Umweg) (LRE 84), che passa per il niente, secondo il principio dell’origine, per il quale l’essere è fondato nel non-essere, nel pensiero. È questo il senso della particella [mé] […] in greco […] (cfr. LRE 85 ss.), dei prefissi in- in latino e un- in tedesco: non una negazione assoluta (Nicht) ma un “niente (Nichts) relativo” (LRE 93; cfr. LRE 104 s.), che costituisce il “vero passaggio” (Übergang) (LRE 91) al qualcosa. Il giudizio dell’origine è dunque il giudizio infinito o limitativo […] compreso nella sua importanza dalla scienza […] soprattutto da quella moderna (Leibniz), che sul principo dell’infinito come origine del finito ha costruito il suo grandioso edificio». Sullo stesso tema cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 193-197: «Il giudizio dell’origine è il giudizio infinito, anche se non nel senso di una specie o forma di giudizio che una categoria produce, come la categoria di genere o di realtà. Il giudizio infinito espone il giudizio come giudizio dell’origine; la specie di giudizio che il “giudizio dell’origine” costituisce mette in risalto il significato fondamentale del pensiero per la conoscenza, il porre e determinare l’oggetto della conoscenza, come prestazione principale del pensiero. Ma il giudizio dell’origine o giudizio infinito non esaurisce la certezza (Bestimmtheit) propria della legge-del-pensiero, precategoriale, vicino ad esso compaiono il giudizio d’identità e di contraddizione. Originarietà (relazione negativo-infinita con se stesso), identità (affermazione) e contraddizione (negazione) costituiscono il giudizio dell’origine – riguardo alla sua certezza per quanto riguarda la legge-del-pensiero (logica) [hinsichtlich seiner denkgesetzlichen (logischen) Bestimmtheit], che è alla base di tutte le determinazioni conoscitive. […] [La] “conservazione (Erhaltung)”, come la costituisce il giudizio, è anche caratteristica determinante dell’originarietà del pensiero, della produzione dell’x […] a partire dall’origine. La produzione si compie come “separazione (Sonderung)…dai concetti operativi (Operationsbegriffe) del nulla” (LrE 93). Anche questa separazione è il correlato di una unificazione (Vereinigung). La “domanda rafforzata” che la produzione del qualcosa dispiega a partire dall’origine, “conserva” come domanda entrambe le opposte direzioni del pensiero. Riguardo alla relazione al nulla che separa, però, che specifica il giudizio come giudizio originario, infinito, la “conservazione ” trova “una nuova espressione e una pregnanza profonda” (ibid.) nel concetto della continuità (Kontinuität). La “continuità”, intesa come “conservazione”, “descrive e regola…il primo carattere fondamentale del pensiero”. L’origine si mostra come giudizio dell’origine, questo però come “giudizio dell’origine” determinato (geprägt) dalla continuità. […] In LRE si parla poco di giudizio infinito. […] “Come ci si deve immaginare questa posizione che emerge nell’ambito dell’attività del pensiero stesso, che deve consistere nel fatto [che l’origine] […] fonda la datità in genere prima di tutto tramite se stessa? […]” [J. Gordin, Untersuchungen zur Theorie des unendlichen Urteils, Berlin, 1929, p. 98]. Se si collega subito questa domanda, come permette di fare solo il testo coheniano, alla produzione del “qualcosa”, la risposta va allora nella direzione in cui la via infinita della rinuncia al “qualcosa” nel passaggio attraverso l’infinità del “nulla” include (einschließt) il volgersi al “qualcosa”. Il ‘ricordo’ del giudizio infinito (limitativo), in cui un oggetto viene posto come determinabile attraverso non A, si articola nella prima legge-del-pensiero in modo che qui la qualità del pensiero viene determinata come “tensione tra il nulla quanto a certezza (Bestimmtheit) del mero qualcosa e l’esser-legge del qualcosa” [W. Marx, Transzendentale Logik als Wissenschaftstheorie. Systematisch-kritische Untersuchungen zur philosophischen Grundlegungsproblematik in Cohens ‘Logik der reinen Erkenntnis’, Frankfurt/M., 1977, p. 130], una tensione che non si scioglie nella determinazione ulteriore del pensiero puro. La determinabilità si “conserva” nella determinazione [cfr. ivi, p. 123], la pro-

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” duzione è il prodotto». Sulla legge-del-pensiero della continuità come luogo del giudizio infinito (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, Band 6, cit., p. 119) come espressione del passaggio, nel giudizio dell’origine, dal nulla al qualcosa, cfr. ancora H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 200-201: «Cohen fonda perciò la fecondità del giudizio infinito già in PIM [H. Cohen, Das Prinzip der InfinitesimalMethode und seine Geschichte, in Werke, cit., Band 5.1] nella continuità della coscienza, grazie alla quale il pensiero, nella deteminazione, è al sicuro da “bruschi salti” e “idee stravaganti” con l’aiuto dei predicati negativi; la continuità garantisce per le concrete determinazioni “il naturale confinare” con il soggetto del giudizio (§ 41). La continuità logica assicura “che i prodotti del pensiero (Denk-Gebilde) in quanto tali abbiano in non-A un asilo che dia loro un grande orientamento, dove ciò che va insieme si riunisce” (§ 68)». 58 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 15. 59 Cfr. P. Fiorato, Unendliche Aufgabe und System der Wahrheit. Die Auseinandersetzung des jungen Walter Benjamin mit der Philosophie Hermann Cohens, in F. Orlik, R. Brandt (a cura di), Philosophisches Denken-Politisches Wirken, cit., pp. 174-175: «Anche nell’impostazione di Cohen il compito infinito della scienza non è dato semplicemente come domanda, e Cohen avrebbe potuto condividere in questo senso l’idea di Benjamin che il complesso (Inbegriff) (cioè l’unità) della scienza “è di potenza superiore a quanto può pretendere il complesso (Inbegriff) del numero infinito di tutte le domende finite, e cioè date, che si possono porre” (GS VI 51). […] “Ma vi è sempre un problema in tutte le domande: l’origine” (LrE 118). Ed essa significa che l’origine costituisce il “fondamento del sistema” solo come “centro di gravità per la forza portante di tutte le domande” (LrE 601), come quella “risposta più profonda” alla domanda “Cos’è”, che rappresenta l’idea come logos della domanda (LrE 15). Per Cohen così la determinazione dell’unità della scienza come compito infinito non è data fin dall’inizio, ma deriva piuttosto da quella determinazione dell’unità del giudizio che può realizzare soltanto la logica sulla base della sua teoria del giudizio infinito come “giudizio dell’origine” che opera con il nulla. Con l’introduzione del concetto di compito Cohen sottolinea con forza in questo senso che “solo la logica …[può] porre e risolvere questi compiti” (LrE 65; cfr. anche p. 64). Fino a ché però “la logica non ha ancora rafforzato il suo centro nella conoscenza pura dell’origine, […] essa non si è ancora accertata dell’eternità del suo compito” (LrE 37). Le considerevoli conseguenze di questo “‘finire’ del flusso delle domande” nella ‘rivelazione negativa’ dell’origine – dove il “coincidere” dell’‘ultima’ domanda con l’‘ultima’ risposta implica un modello di fondazione che non porta a considerare un fondamento assoluto, ma trasmette piuttosto il pensiero del compito infinito della determinazione – possono essere misurate al meglio nella concezione del “sistema della verità” che Cohen sostiene. Quel “sistema della verità” che egli mette alla pari con il “sistema delle conoscenze pure” (LrE 397) sulla base dell’identificazione dell’ultimo con la “somma delle categorie” (LrE 399), non richiede più alcuna pretesa di una determinazione completa. Il motivo per questo non consiste semplicemente nel fatto che questa determinazione non sia stata ancora raggiunta effettivamente, ma deve essere piuttosto cercato nel fatto che essa, in un senso molto più sostanziale che può essere compreso solo a partire dalla teoria dell’origine, è esclusa in via di principio e come tale non costituisce più nessuna direttiva». 60 Cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., p. 348. Per quanto riguarda il compito infinito in Natorp e il rapporto del progresso della conoscenza con un incondizionato, che si pone anche come punto di riferimento per l’unità del sistema della filosofia come Sollen, idea e «legge originaria della legalità», cfr. ivi, pp. 359-361.

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Esperienza e compito infinito 61 Cfr. H. Cohen, Kants Begründung der Ethik, cit., pp. 39-43; trad. it. cit., p. 44-47 (traduzione modificata): «Eppure è uno schema inevitabile del nostro pensiero che sospinge a questa trasposizione dei concetti dell’esperienza al concetto e all’unità dell’esperienza stessa. Sembra così come se ogni categoria avesse il suo particolare sostrato (Hintergrund) problematico; ma non appena questo volesse fare il suo ingresso nell’esperienza sgancerebbe la categoria dalla concatenazione dell’esperienza, quella stessa categoria che lo ha prodotto. Se però l’in sé è ricacciato nel sostrato, se ne sentirà comunque di nuovo l’esigenza. Il sostrato delimita (begrenzt) dunque l’ambito dell’esperienza. L’intera esperienza (die Ganze der Erfahrung) è quindi sospesa sul “baratro” della contingenza intelligibile. […] Il cosiddetto intelletto invece limita (begrenzt) la sensibilità e quindi l’esperienza. Dà a questa ricettività il correlato corrispondente, il sostrato. Questo fondamento non è dato oggettivamente, è purtuttavia il compito inevitabile della ragione, è la chiusura del baratro spalancato dalla contingenza intelligibile. [Questa cosalimite] è […] il compito eternamente insoluto e tuttavia ineliminabile di far sì che la contingenza intelligibile abbia diritto di accedere alla critica». 62 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, Bände III-IV, cit., B 344, p. 304; trad. it. cit., p. 279. 63 I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 56, p. 114; trad. it. cit., pp. 116-117. 64 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 7, p. 49; trad. it. cit, p. 44 (traduzione modificata). Cfr. anche I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 60, pp. 130-131; trad. it. cit., p. 132: «Quando io considero tutte le idee trascendentali, il cui insieme (Inbegriff) costituisce il compito (Aufgabe) proprio della ragion pura naturale, dal quale questa è costretta ad abbandonare la semplice considerazione della natura, a salire oltre ogni possibile esperienza, e ad effettuare in questo sforzo la cosa (sia essa sapere o sofisticare) che dice metafisica: credo allora di accorgermi che questa disposizione naturale sia indirizzata a liberare il nostro concetto dai vincoli dell’esperienza e dai confini della pura considerazione della natura, tanto che esso veda almeno aperto dinnanzi a sé un campo, che contiene soltanto oggetti per l’intelletto puro, i quali la sensitività non può raggiungere; e ciò non allo scopo che ce ne occupassimo speculativamente (che non troviamo fondo (Boden) sul quale possiamo prender piede) ma perché [possano essere ammessi] i princìpi pratici, che, se non trovassero dinanzi a sé un tale spazio per la loro necessaria aspettazione e speranza, non potrebbero estendersi fino alla universalità, di cui ha indispensabile bisogno la ragione sotto il punto di vista morale». 65 Ivi, § 56, p. 115; trad. it. cit., p. 117. Cfr. anche ivi, § 60, pp. 132-133; trad. it. cit., p. 134. 66 Cfr. ivi, § 56, p. 115; trad. it. cit., p. 117. 67 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 660-662. 68 Ivi, p. 661. 69 Ibid. 70 Ivi, p. 662. Nella concezione della cosa in sé come ambito e connessione (Umfang und Zusammenhang) delle conoscenze Cohen prende le mosse da una interpretazione di I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 522 s., pp. 462-463; trad. it. cit., p. 403: «A questo oggetto trascendentale possiamo ascrivere tutto l’ambito (Umfang) e la connessione (Zusammenhang) delle nostre percezioni possibili». Ai termini Umfang e Zusammenhang Cohen fa corrispondere il termine Inbegriff, che in Kant è usato nella discussione sulla natura dell’ideale trascendentale ed è impiegato, insieme a Kontext, per definire l’unità , cioè la singolarità dell’esperienza (cfr. ivi, B 282 s., pp. 259-

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” 260; trad. it. cit., p. 235). Su questo cfr. P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in S. Besoli, Luca Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., pp. 379, nota 89, ma cfr. le pp. 378-380. Sul tema della cosa in sé in Cohen cfr. W. Ritzel, Das Ding-an-sich Hermann Cohens, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 177187. 71 H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., p. 347. 72 Ivi, p. 348. 73 Ivi, p. 348. 74 Cfr. ivi, pp. 348-349: «Oggettivazione in leggi e limitazione in idee – come è presente l’unità sistematica della filosofia nel così formulato compito della critica della conoscenza, che si fa indicare anche come “il compito della cosa in sé” “a partire da un punto di vista comparativo”? […] La differenza tra la legge meccanica e l’idea regolativa di fine nella “cosa in sé” non è eliminata […]. Per la fondazione dell’unità sistematica per mezzo di una critica della conoscenza (die erkenntniskritische Begründung der systematischen Einheit) deve emergere da ciò in primo luogo che il doppio compito della “cosa in sé” sviluppato nella riflessione teoretica è obbligatorio (verbindlich) in modo corrispondente anche per la riflessione etica e estetica, che come la riflessione sulla teoria della conoscenza mirano alla fondazione della validità di un “fatto (Faktum)” (oggettivazione in leggi)». In Cohen sono centrali in tutte le parti del sistema, in quanto compiti della cosa in sé, la «forma della legalità (Form der Gesetzmäßigkeit)» (ivi, p. 347), in cui le forme a priori sono metodi per l’oggettivazione in leggi, e la visione teleologica dell’idea come fine (preceduta e accompagnata dall’interpretazione del mondo matematico-meccanica) [cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 602], che si divide in tre modi: «la concezione teleologica della natura, che è guidata dall’idea di una conformità a scopi delle “forme della natura (Naturformen)”: la concezione morale, che pone la libertà e considera le persone come scopi finali [cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 600] […], e la concezione estetica, che vive nel libero gioco delle facoltà conoscitive. […] Non si proseguirà ulteriormente nel tentativo di unire i “regni” di essere e dover essere nell’idea di fine con il loro rapporto con lo scopo finale, nel tentativo di indicare l’idea regolativa di libertà – concetto-limite della teoria dell’esperienza – come concetto di libertà etico. […] È caratteristico della concezione coheniana del sistema, che anche nella giustificazione filosofica dei “fatti culturali” per lui sia in gioco una delimitazione (Abgrenzung) precisa, […] che l’unità del sistema non venga fondata precisamente su una idea. […] L’andare in quella direzione, dunque la tendenza idealistica nel concetto di sistema di Cohen, viene ostalcolata attraverso l’obbligo assunto nei confronti del “metodo trascendentale”» – H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 349-350. 75 Ivi, p. 344. Per il problema dell’unità del sistema come compito in Cohen e Natorp cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 308-352: «Nel seguire il problema fondamentale sistematico Cohen e Natorp prendono strade diverse: Cohen con un rispetto più forte nei confronti dell’impegno filosofico trascendentale, ma a costo di una sistematica […] più allentata; Natorp con la rigidità di un sistematico rigoroso, ma a costo dell’annullamento dei “fatti (Fakta)” in un “fieri” comprensivo, che alla fine coincide con la costruzione sistematica, senza opporle la resistenza del reale. La fondazione (Grundlegung) coheniana del sistema nella logica della conoscenza, una fondazione delle altre discipline per analogiam, desidera una determinazione conclusiva dell’unità siste-

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Esperienza e compito infinito matica – il compito verrà affidato a una psicologia sistematica, che deve costituire la quarta parte del sistema; Natorp da parte sua, confrontandosi nella redazione della “Psicologia generale” con l’esigenza di una fondazione più profonda del sistema, premette una logica generale come nuova scienza del sistema al sistema delle discipline filosofiche, compresa la dottrina della conoscenza (la teoretica)» (ivi, pp. 308-309). 76 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 9: «A u f g a b e d e s S y s t e m s ». 77 Ivi, p. 6: «einer allgemeineren [transscendentale Methode]». 78 Cfr. a proposito H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 131-133: Holzhey discute dell’abbandono da parte di Cohen in Kants Begründung der Ethik dell’analisi gnoseologica orientata sul soggetto a favore – con il metodo trascendentale – di una fondazione e giustificazione dell’oggetto della conoscenza dato nella scienza fisico-matematica (come Faktum storicamente determinato, come “esperienza” apriorizzata nel concetto della conoscenza scientifica) senza riferimento all’intuizione e alla percezione. 79 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 6: «Dem Grade nach». 80 Ivi, p. 7: «Einheit der Erfahrung». 81 Cfr. ibid.: «[Il metodo trascendentale] descrive il rapporto di categoria e oggetto [Sie beschreibt das Verhältnis von Kategorie und Gegenstand]». 82 Ibid.: «Der Art nach». 83 Cfr. La tesi del “Terzo conflitto delle idee trascendentali”, in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 428, p. 492; trad. it. cit., p. 369: «La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono essere derivati tutti i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità per libertà». 84 Sul ruolo degli Urteile der Denkgesetze nella Logik di Cohen cfr. (H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 79-120) come luogo della “fondazione”, da parte del pensiero dell’origine, dei principi della conoscenza prima della derivazione da questi delle categorie, cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 339-344, in part. le pp. 341-342: «Con il pensato, cioè con ciò che è prodotto originario, è certo in vista solo il “presupposto” dell’oggetto, non questo stesso secondo i suoi diversi fattori di determinazione (categorie) – il principio, non già le sue “variazioni (Abwandlungen)”. […] [L’ambito dell’apriorità costitutiva teoretica] comprende dunque i principi della certezza formale o peculiare del pensiero (die Prinzipien der Form- oder Eigenbestimmtheit des Gedankens), (per usare le parole di Cohen:) le “leggi-del-pensiero (Denkgesetze)” (come pensieri logico-formali), più fondamentali però “in quanto principi che mettono il pensiero (Gedanken) in grado di assumersi la funzione della determinazione dell’oggetto per mezzo della sua propria certezza (Eigenbestimmtheit)”, (per usare le parole di Cohen:) in quanto “giudizi delle leggi-del-pensiero”. Nell’apriorità costitutiva primaria non viene già compiuta una differenziazione contenutistico-oggettuale del pensiero, viene piuttosto fondata la possibilità della determinazione dell’oggetto [cfr. H. Wagner, Philosophie und Reflexion, 2 unv. Aufl., München-Basel, 1967, p. 170]. La fondazione della determinazione dell’oggetto nell’autodeterminazione (Selbstbestimmung) del pensiero è precisamente il compito che scorge anche la LRE con la separazione dei “giudizi delle leggi-delpensiero” dal complesso (Inbegriff) dei puri modi di produzione del pensiero (Denken). La struttura di questi “giudizi”, almeno in linea di principio, sarà concepita in modo tale che essa rappresenti la certezza propria del pensiero come produttività originaria, fondi però contemporaneamente la determinazione dell’oggetto nel rapporto di produzione e

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” prodotto (attività e contenuto). Il rapporto che sussiste tra produzione e prodotto, attività del pensiero e contenuto del pensiero – un rapporto dell’identità e della differenza – costituisce, sviluppato nel senso dei principi logici (prinzipienlogisch) nei “giudizi delle leggi-del-pensiero”, il “presupposto” per il pensiero dell’oggetto. L’autore della LRE mette per così dire in scena l’origine del riferimento all’oggetto (Gegenstandsbezug) nell’autodeterminazione del pensiero». Cfr. anche H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 185-187, dove negli Urteile der Denkgesetze è vista, tramite il «presupposto dell’origine come problema» (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 36 e 118), la «fondazione del procedimento secondo il metodo trascendentale (transzendentalmethodisch)». 85 Cfr. P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, cit., pp. 11-22. Cfr. in H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 308-309, il passo citato poco sopra sull’unità del sistema della filosofia in Natorp, che coincide con la processualità della conoscenza (e sarà fondato su una logica generale superiore alle parti, anche alla teoretica), in cui viene però indicata la mancanza del contrasto con il fattuale. Cfr. anche ivi, pp. 331-343. Cfr. inoltre H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 357-361, dove nell’idea di Natorp dell’unità del sistema come idea del Sollen (che agisce regolativamente nell’ambito della conoscenza teoretica, mentre nel dominio pratico è costitutiva) è indicato il punto di vista al di sopra dei membri del sistema, come loro metodo (processuale) e legislazione comune, nella conoscenza teoretica come compito infinito della determinazione dell’oggetto che riferisce la conoscenza contemporaneamente a un incondizionato, e nell’ambito pratico come determinazione del volere tramite uno scopo finale (Endzweck). A ogni direzione della coscienza Natorp attribuisce una componente conoscitiva, un momento cognitivo. 86 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 7-8: «Nun ist weder die erwähnte Einheit der Erfahrung ein Gegenstand (kategorialen Denkens) noch gar – aus einem anderen Grunde – ethisches oder ästhetisches Sein. […] Mit anderen Worten: Das “Faktum von Wissenschaften” soll nicht allgemeine Voraussetzung sein, sondern ist, in der Logik, ein Spezialproblem der Philosophie. Wir werden nun bei der Instruktion dieser Erweiterung von Kants dritter Antinomie ausgehen, in diesem neuen Sinne also seine “Kausalität durch Freiheit” deuten. Es ist aber gewiss von Interesse, dass bei C o h e n und bei N a t o r p , den Hauptvertretern der Theorie des Faktums als Voraussetzung selber, eben dieser neue Methodenbegriff an deutlich sichtbaren Stellen nachzuweisen ist. Beidemal allerdings, ohne das die Verfasser ihren Lesern von ihm und seinen Konsequenzen genauere Rechenschaft ablegten. Bei C o h e n geschiet das in der “Logik der reinen Erkenntnis” unter den “Urteilen der Denkgesetze” bei Natorp in den “Grundlagen” bei der Behandlung des Prozesscharakters der Erkenntnis». 87 Ivi, p. 10, e cfr. pp. 21 e 65. 88 Ivi, p. 24: «Natur und Sittlichkeit wahren ihm ja ohne weiteres Grenzbegriffe, die Idee der Freiheit entwickelte sich ihm kontinuierlich aus dem Naturbegriff der Kausalität». 89 Cfr. ivi, p. 10. 90 Ivi, p. 71: «“Erkenntnis selber”, “Erfahrung überhaupt”». 91 Cfr. P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 4: «Lo Übergang in questione (impraticabile appunto [secondo i neokantiani]) è quello “dalla categoria della causalità all’idea di una ‘causalità per libertà’ che nell’ambito pratico ha o deve avere una posizione legislativa simile a quella che la categoria di causalità ha nell’ambito teoretico” [cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff

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Esperienza e compito infinito in der Philosophie, cit., p. 65: “von der Kategorie der Kausälitat zur Idee einer ‘Kausalität durch Freiheit’ die im Praktischen eine ähnlich gesetzgebende Stellung hat oder haben soll wie jene im Theoretischen”]. Per Kant infatti [secondo Noeggerath] (e il richiamo è alla Antinomielehre e ai primi paragrafi della Einleitung della Kritik der Urteilskraft sul rapporto Logik-Ethik) “natura e la moralità (Sittlichkeit) erano senz’altro concetti limite, l’idea di libertà si sviluppava in in modo continuo dal concetto naturale della causalità” [cfr. ivi, p. 24]». 92 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 447, p. 409; trad. it. cit., p. 349. 93 Già alla prima pagina, presentando la sua tesi, Noeggerath scriveva: «Dunque la triplicità degli oggetti – e con ciò la triplicità dei membri del sistema – non deve essere derivata da un arbitrio né da un pregiudizio, ma dalla non superabile triplicità delle stesse relazioni. Dunque il compito di d i f f e r e n z i a r e , al livello del sistema, l e idee nel senso delle relazioni e porle come limiti dei l o r o a m b i t i d ’ o g g e t t i , corrisponde – al livello inferiore dell’intralogico – al semplice problema dell sintesi [Also ist die Dreizahl der Gegenstände – und damit die der Glieder des Systems – keine Willkür und keine historische Voreingenommenheit, sondern aus der unüberschreitbaren Dreizahl der Relationen selber herzuleiten. Die Aufgabe also, auf der Stufe des Systems d i e I d e e n z u d i f f e r e n t i e r e n i m Sinn der Relationen und sie als Grenzen ihrer G e g e n s t a n d s b e r e i c h e a n z u s e t z e n , entspricht – auf der niederen Stufe des Innerlogischen – dem einfachen Problem der Synthesis]» (F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. I-II). 94 Ivi, pp. 9-10: «1) Das System der Philosophie hat so viel von einander unabhängige Glieder, als es Arten der R e l a t i o n , oder – wenn wir uns mit der Q u a n t i t ä t begnügen [nota 1: Wir verstehen unter Quantität durchweg die besondere Art der Gegenstandarticulation] – als es Arten der “unendlichen Aufgaben” selber gibt: mithin drei, nicht mehr und nicht weniger. Dass wir dabei den Begriff der Aufgabe objektiv als synthetisches Verknüpfsein und nicht genetisch-psychologisch oder historisch fassen, geht schon daraus hervor, dass wir ihn ja nicht nur mit der besonderen Unendlichkeit der R e i h e verbinden (für die allein die Deutung als Weg und Vollzug einen Sinn haben könnte). Wir ersetzen ihn vorübrigens später für die Stufe der Quantität durch den vorläufig noch problematischen Begriff der U n g l e i c h u n g , für die der R e l a t i o n durch S y n t h e s i s und Verwandtes. Der Nachweis beruht auf dem Zusammenhang zwischen Synthesis und Relation und auf der Möglichkeit, die den drei Gegenstandbereichen als deren Form zugrunde liegenden Ideen zu differenzieren im Sinne der Schemata der Relatione. 2) Die Reihenvolge der Glieder ist: a) Ethik, b) Logik, c) Aesthetik». 95 Ivi, p. 10: «die Kantische Methode der K o n t i n u a t i o n durch Grenzübergang […] [die] nur zu d e r Idee führen kann, die die bedingte Welt der Natur zwar dem G r a d e aber nicht der A r t nach überschreitet». 96 Il concetto di “origine”, insieme a quello di “autonomia” del pensiero, a cui è strettamente collegato, sono centrali nella filosofia di Cohen. Si tratta dello stesso concetto di autonomia del pensiero e della scienza come compito infinito che Benjamin sviluppa nel frammento Il compito infinito (Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, pp. 51-52). 97 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 10: «Freiheit aber (als Ursprung und Autonomie) ist Problemvoraussetzung einer jeden der drei philosophischen Methode (nicht nur der Ethik)». 98 Ibid.: «absolute Kausalität».

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15. “Il concetto di ‘compito infinito’ in Kant” 99

Ibid.: «“Metaphysik der Natur” oder Erkenntnis». Ivi, p. 26: «kategorische Solidarität und freie Verantwortung». 101 Ivi, p. 10: «wie die Schemata ihrer Relationen». 102 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 111, p. 122; trad. it. cit., p. 117: «Si noti inoltre, che la terza categoria deriva sempre dall’unione della seconda con la prima della sua classe […] [così] la r e c i p r o c i t à (Gemeinschaft ) è la causalità di una sostanza in vicendevole determinazione con un’altra». 103 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 178. 104 Cfr. H. Cohen, Ästhetik des reinen Gefühls, ersten Band, in Werke, cit., Band 8, cit., p. 221. 105 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 11: «das Ve r h ä l t n i s d e r I d e e n u n t e r e i n a n d e r ». 106 Cfr. ivi, p. 9. 107 Ibid.: «A u f g a b e d e s S y s t e m s ». 108 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 168; trad. it. cit., p. 225. 109 Ivi, p. 167; trad. it. cit., p. 224. 110 Per il problema dell’unità del sistema in Cohen e Natorp cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 308-352. 111 Cfr. Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, pp. 140157; trad. it. cit., pp. 177-193. 112 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, pp. 33-38, frammento 19. 113 Ivi, p. 37.

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16. Sul programma della filosofia futura (1917-18): continuità storica e portata sistematica nel collegamento delle filosofia futura al sistema kantiano

Se si paragonano l’opera di Noeggerath e le testimonianze di Scholem con ciò che Benjamin scrive nel saggio Sul programma della filosofia futura1, composto nei mesi di novembre e dicembre del 1917 e completato con un’Aggiunta2 nel marzo del 1918, si vede che il confronto benjaminiano con Kant e Cohen (e la scuola di Marburgo in genere) è stato sicuramente condizionato dal suo rapporto con entrambi. Il saggio si apre con un riferimento alla portata sistematica della continuità storica che viene garantita attraverso il collegamento della filosofia “futura” con il sistema kantiano. Il compito della filosofia per Benjamin deve essere proprio quel compito storico-filosofico e messianico3 di recuperare e trasformare in conoscenze, dando loro una giustificazione e risalendo alle loro condizioni di possibilità, «le intuizioni più profonde che essa può attingere dal proprio tempo e dal presentimento di un grande avvenire»4, cioè quegli elementi contemporanei di un’esperienza scientifica, storica, religiosa, linguistica, etica, artistica, “profonda” e “metafisica” in quanto vicina alla dimensione ideale, religiosa e linguistica della dottrina. Questi elementi non possono essere ridotti alla scienza fisico-matematica e devono essere trasformati in quella conoscenza pura che nel suo divenire cerca la sua risoluzione redentiva nella dottrina. Questa trasformazione in conoscenza può avvenire per Benjamin solo attraverso il rapporto della filosofia che auspica per il futuro e di cui vuole indicare le basi, con il sistema kantiano, poiché Kant è a suo avviso l’unico, dopo Platone, ad aver messo al centro della sua filosofia la giustificazione della conoscenza, la ricerca dei suoi concetti puri a priori; Kant e Platone hanno in comune la certezza che la conoscenza più pura sia anche la più profonda, entrambi hanno identificato l’istanza della giustificazione con l’istanza della profondità, poiché nella conoscenza l’indipendenza dall’empiria data dalla ricerca dei suoi concetti e principi a priori (in Platone nella dottrina delle idee) e la determinazione dell’ambito e dei confini in cui sono legislativi a priori la rende una conoscenza metafi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

sica5, capace poi di caricarsi di significati ideali e religiosi. La profondità è per Benjamin la caratteristica della dimensione esclusivamente pura dei concetti a priori della conoscenza teoretica e pratica in Kant, e il risultato della determinazione critica delle loro possibilità e del loro ambito come concetti a priori dell’intelletto e della ragione6: La continuità storica che è garantita dal collegamento col sistema kantiano è insieme l’unica che possieda una portata sistematica decisiva. Poiché, di tutti i filosofi che non si curano direttamente dell’ampiezza (Umfang)7 e della profondità, ma soprattutto e in primissimo luogo della giustificazione della conoscenza, Kant è l’ultimo e possiamo anche dire l’unico dopo Platone. Questi due filosofi hanno in comune la certezza che la conoscenza di cui diamo la giustificazione più pura sarà insieme la più profonda. Non hanno bandito dalla filosofia l’istanza della profondità, ma ne hanno reso ragione in una maniera singolare, identificandola con l’istanza della giustificazione8.

Ma il problema del rapporto tra «continuità storica (historische Kontinuität)»9 e portata sistematica, cioè il significato sistematico della ripresa, da parte della filosofia contemporanea, di sistemi precedenti da sviluppare per perfezionare il proprio sistema di concetti a priori (nella direzione di un compimento “redentivo”) è già coheniano. In Cohen il riferimento a Platone e a Kant è costante, ma l’indagine trascendentale si orienta sulla giustificazione dei concetti a priori (l’a priori metafisico di Kant) come condizioni di possibilità della conoscenza scientifica, della scienza matematica della natura (poiché l’esperienza di cui bisogna indagare i concetti a priori è il “fatto” della scienza). La storia cui Cohen si rivolge è la «storia della ragione scientifica»10, come mette molto bene in risalto Massimo Ferrari: Hermann Cohen aveva inaugurato l’esegesi di Kant che dava avvio all’interpretazione marburghese della filosofia critica chiarendo immediatamente come non si potesse parlare di Kant senza rivelare «che mondo si abbia in testa»11, ovvero senza una presa di posizione sistematica. […] In effetti ciò che è veramente peculiare di Cohen (e della scuola di Marburgo in genere) non è solo la rivendicazione della prospettiva teorica come guida nell’indagine storica, quanto piuttosto il tentativo di assumere il piano storico all’interno di quella rifondazione metodica del trascendentale che si risolve nella «critica della conoscenza», nella riflessione sulle condizioni di possibilità del «fatto della scienza»12. A partire dalla seconda edizione di Kants Theorie der Erfahrung Cohen ha messo in luce il nucleo fondamentale di questa ‘storicizzazione’ dell’a priori sia dedicando un nutrito gruppo di pagine ai presupposti storici della critica kantiana, ossia alla ‘linea’ che

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16. Sul programma della filosofia futura da Platone, passando per Descartes e Leibniz, giunge a Kant stesso13, sia soprattutto ponendo l’accento sulla reciproca «complicazione» di filosofia e scienza, sull’«immanenza» della filosofia alla scienza, sul carattere filosofico «latente» dei concetti scientifici fondamentali14. Nella prospettiva del metodo trascendentale ciò significa che la scienza matematica della natura ruota intorno a quei concetti a priori (l’a priori metafisico di Kant) che l’indagine trascendendentale deve poi giustificare come condizioni di possibilità della conoscenza scientifica, come gli strumenti a priori che, storicamente, sin da Platone, hanno alimentato l’idealismo critico15. […] «la storia della ragione scientifica» diviene l’«ideale di ogni conoscenza»16, ovvero – come Cohen dice altrove17 – la filosofia si pone in una relazione immediata e privilegiata con la storia della scienza18.

Questa visione storica del “fatto della scienza”, da cui si deve risalire alle condizioni di possibilità (e che comporta una “dinamicizzazione” dell’apriori) della conoscenza avrà pieno esito nella Logik der reinen Erkenntnis, dove la coscienza della «continuità storica (geschichtliche Kontinuität)»19 della ragione scientifica si unisce alla visione delle categorie e delle forme del giudizio come storicamente condizionate e quindi suscettibili di sviluppo e rinnovamento. Il sistema della logica è concepito come un sistema aperto, in esso entra la dimensione storica, e nella continuità storica, nel riferimento al fatto dei principi sistematici già rintracciabili nella filosofia (soprattutto di Platone e di Kant), esso ritrova anche la possibilità dello sviluppo sistematico come possibilità infinita della creazione di nuovi presupposti della conoscenza: L’esito più compiuto di questa visione storica del ‘fatto della scienza’, e quindi della ‘dinamicizzazione’ dell’a priori che essa comporta, sarà poi affidato alla Logik der reinen Erkenntnis, ove la consapevolezza della «continuità storica» che deve caratterizzare la «forza della ragione»20 si salda alla rivendicazione della natura storicamente condizionata delle categorie e delle forme del giudizio: lungi dal rappresentare un immobile apparato, esse si connettono piuttosto a quegli «elementi autenticamente creativi» che si sono affermati nel pensiero scientifico21. E poiché già nella Kants Theorie der Erfahrung il concetto veniva inteso non tanto come «risposta» conclusiva quanto come sempre «nuova domanda»22, il compito di una ‘logica della conoscenza pura’ non consiste nel chiudere e fissare una volta per tutte il sistema dei giudizi del pensiero puro, ma di orientarlo storicamente: «nuovi problemi – afferma Cohen – renderanno necessari nuovi presupposti»23. […] È indubbio che la scuola di Marburgo si è in gran parte identificata con il tentativo impostato da Cohen di coniugare una visione sistematica della storia della filosofia con la storicità del trascendentale24.

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Esperienza e compito infinito

Dal recupero e dallo sviluppo dei concetti dell’intelletto e delle idee della ragione del sistema kantiano, Benjamin si aspetta la possibilità di fondare un nuovo concetto di esperienza, non più riferito all’intuizione empirica, ma “a priori” e “metafisico” , anche se non coincidente – come in Cohen – con il “fatto” delle scienze fisico-matematiche, ma capace di dare conto anche della dimensione religiosa, storica, etica ed estetica della cultura umana.

Note 1 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 157-171; trad. it. cit., pp. 214-227. 2 Cfr. a proposito P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., p. 369: «Secondo la ricostruzione fornita da Scholem la Programmschrift sarebbe stata redatta da Benjamin nel novembre 1917 e avrebbe dovuto essergli inviata per il ventesimo compleanno il 5 dicembre di quell’anno. All’ultimo momento però Benjamin mutò avviso, perché riteneva indispensabile integrare lo scritto con una “aggiunta”, cosa che fece effettivamente nel marzo dell’anno successivo. La Programmschrift venne così consegnata a Scholem, provvista del Nachtrag, per festeggiare il suo arrivo a Berna ai primi di maggio del 1918». Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 67; trad. it. cit., p. 84 s. e la nota editoriale in GS, II, 3, p. 936 ss. 3 Anche Cohen manifesta la sua fede nella verità religiosa del messianesimo profetico (e insieme manifesta la gioia per l’insegnamento, che lo collega al presente, in cui fiorisce il futuro), e lo fa nella Premessa a un testo teoretico come la Logik der reinen Erkenntnis. Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. XIII: «io sono saldo nella mia fiducia nella vittoria della libertà e della verità. E non è solo la mia fede nella verità religiosa del messianesimo profetico a far sì che questo ottimismo sia una stella guida in ogni situazione del tempo e della vita. Insieme ad essa vi è il sentimento gioioso dell’attività d’insegnamento senza mediazioni, di cui potrei considerare anche questo libro un risultato, attività che mi mantiene in un nesso felice con il presente, in cui sboccia il futuro». 4 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 157; trad. it. cit., p. 214. 5 Cfr. il rapporto tra logica e metafisica in H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 605: «Sappiamo che non deve esserci alcuna contraddizione tra logica e metafisica. La logica, in quanto logica della conoscenza pura, è sempre stata metafisica; o ha costituito il fondamento della metafisica». 6 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 25, p. 62; trad. it. cit., p. 58. 7 Cfr. ivi, B 791, p. 647; trad. it. cit., p. 584: «Noi siamo realmente in possesso di conoscenze sintetiche a priori, come lo dimostrano i princìpi dell’intelletto, che anticipano l’esperienza. […] [Qualcuno può dubitare che esse siano in noi realmente a priori, ma egli] può dire soltanto: se noi scorgessimo la loro origine (Ursprung) ed autenticità (Echtheit), potremmo determinare l’ambito (Umfang) e i confini (Grenzen) della nostra ragione; ma, prima che ciò accada, tutte le affermazioni di questa sono ciecamente arrischiate. […] Noi poi non abbiamo il diritto di respingere questi problemi (Aufgaben) [che ci propone la

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16. Sul programma della filosofia futura ragion pura] […] sotto il pretesto della nostra impotenza, e di rifiutarci a una loro ulteriore indagine, poiché solo la ragione, dal suo seno, ha prodotto queste idee, della cui validità o apparenza dialettica, pertanto, essa è tenuta a rendere conto». Sui confini della ragione cfr. anche poco sopra, ivi, B 790, p. 647; trad. it. cit., pp. 583-584: «La nostra ragione non è, per così dire, un piano (Ebene) di estensione illimitata, i cui limiti (Schranken) perciò si conoscano soltanto in generale, ma deve piuttosto paragonarsi a una sfera, il cui raggio si può trovare in base alla curvatura del suolo alla sua superficie (la natura delle proposizioni sintetiche apriori); donde per altro, anche il volume (Inhalt) e la limitazione (Begrenzung) di essa si possono assegnare con sicurezza. Fuori di questa sfera, campo dell’esperienza, non c’è per lei oggetto, e le stesse questioni sopra i presunti oggetti di questa fatta non concernono se non i princìpi soggettivi di una determinazione completa dei rapporti che possono incontrarsi, tra i concetti dell’intelletto, dentro di questa sfera». Sulla ricerca della possibilità, dei principi e dell’ambito della conoscenza in Kant cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 62-63: «In lui [Kant] si trattò piuttosto di tentare una metafisica come scienza. La filosofia aveva bisogno prima di tutto – e precisamente in primo luogo con questa intenzione propedeutica – di una scienza particolare, che avesse la possibilità di determinare a priori la possibilità, i principi e l’ambito della conoscenza in genere. Questa nuova scienza era quindi la critica della ragion pura [Ihm galt es vielmehr, eine Metaphysik als Wissenschaft zu versuchen. Es bedurfte also vor allem die Philosophie – und zwar zunächts nur in dieser propädeutischen Absicht – einer besonderen Wissenschaft, welche die Möglichkeit, die Prinzipien und den Umfang, von Erkenntnis überhaupt apriori zu bestimmen hatte. Diese neue Wissenschaft war dann die Kritik der reinen Vernunft]». 8 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 157-158; trad. it. cit., p. 214. 9 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. XI. 10 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 10. 11 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung (1a ed.), in Werke, cit., Band 1.3, p. V; trad. it. cit., p. 32. 12 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band. 1.1, p. 108. 13 Cfr. ivi, pp. 1-110. Cfr. inoltre H. Cohen, Einleitung mit kritischem Nachtrag zur “Geschichte des Materialismus” von F. A. Lange, in Werke, cit., Band 5, Einführung v. H. Holzhey, 1984, pp. 58 ss. L’Introduzione alla terza edizione di Kants Theorie der Erfahrung era stata letta da Benjamin sicuramente nel 1918, ma forse anche prima. Egli la cita, riferendosi alla storia della filosofia come storia dei sistemi che descrivono l’ordine delle idee e in esse rappresentano il mondo, negli scritti preparatorii alla Premessa gnoseologica a Il dramma barocco tedesco: «Le grandi filosofie rappresentano il mondo nell’ordine delle idee […] Cionondimeno in quei sistemi può affermare la sua validità l’abbozzo di una descrizione del mondo delle idee – come [gli] Eleati con l’essere sferico, Platone con il Parmenide, Leibniz con la monadologia, Hegel con la dialettica. È proprio di tutti questi tentativi affermare ancora il proprio senso, e anzi spesso dispiegarlo persino molto potenziato, quando, invece che al reale, sono riferiti al regno delle idee. Queste formazioni di pensiero (Gedankenordnungen) sono sorte infatti come descrizione di un ordine di idee. E quanto più grande poteva essere l’intensità con cui i pensatori perseguivano in esse un’immagine del reale, tanto più ricca doveva essere in questi tentativi l’elaborazione di un ordine concettuale, [Sp. 7] che all’interprete successivo sarebbe apparsa come la rappresentazione originaria del mondo delle idee. [*] [Rimando all’Introduzione di Cohen a “La teoria kantiana dell’esperienza”]» (Anmerkungen a Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 3, pp. 930-931. Cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 221; trad. it. cit., pp. 7-8).

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Esperienza e compito infinito 14 Cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 33-34, 9596, 741. 15 Cfr. ivi, pp. 13 ss. e pp. 108-109. 16 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 10. 17 Cfr. H. Cohen, Einleitung mit kritischem Nachtrag zur “Geschichte des Materialismus” von F. A. Lange, in Werke, cit., Band 5, pp. 18-19. 18 M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, cit., pp. 2022. 19 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. XI, Vorrede zur ersten Auflage. Cfr. l’intero contesto, in cui Cohen dichiara che, poiché la forza della ragione non deve esser divisa dalla sua continuità storica, per lui è stato necessario svolgere il lavoro sistematico in rapporto di continuità storica con sistemi precedenti, soprattutto con il sistema di Kant, il cui pensiero e la cui terminologia (si ricordi l’accenno di Benjamin alla terminologia kantiana in Benjamin a G. Scholem, 7-XII-1917, in GB I, p. 402 e alla “lettera” kantiana in Benjamin a G. Scholem, 22-X-1917, ivi, p. 389; trad. it. cit., p. 35) ha conosciuto, approfondito e sviluppato immanentemente: «Si sa che io non posso pensare la forza della ragione separata dalla sua continuità storica. […] Quando più di trent’anni fa ho cominciato la ricostruzione del sistema kantiano […] è sorta in me, come una speranza, la visione storica che Kant ha un tempo espresso nei riguardi di Platone: che si può comprendere un autore, attraverso l’ordinamento comparativo delle sue proposizioni, meglio di quanto egli abbia compreso se stesso. Dall’inizio per me si ha a che fare con lo sviluppo (Weiterbildung) del sistema di Kant. Il Kant storico è per me la pietra angolare, nella cui direzione deve avvenire lo sviluppo, il passaggio costante, come Kant stesso dice della scienza, anche della filosofia e della sua storia [si può dire che] devono essere perseguite fiduciosamente. Il triste risultato delle filosofie dell’originalità mi si è esplicitato a partire dal loro rapporto disorientante con Kant, dal loro totale fraintendimento della sua sistematica, della sua metodologia e della sua terminologia. Una originalità veritiera, una produttività feconda della filosofia nel senso di una storia continua, mi è apparsa legata alla condizione essenziale per la quale non si torna a Kant e ci si ricollega di nuovo a lui soltanto in generale, ma con totale dedizione si penetra fino ai più intimi motivi dentro la grande struttura del suo mondo di idee (Gedankenwelt), per viverci. Soltanto quando tutti questi profondi motivi saranno attinti e trasformati sempre di nuovo in una forma più rigorosa e libera, si avrà in questo ambito una originalità e una produttività. Per questo potrei mantenere il senso e il contenuto dei miei libri su Kant: e proprio accanto alla dura polemica che conduco in questo libro contro i pilastri più importanti di quel sistema. Le due cose non si escludono […], né si accordano in me soltanto in modo accidentale, ma si completano nella direzione dell’unità di un lavoro sistematico» (ivi, pp. XI-XII). 20 H. Cohen Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. XI. 21 Ivi, p. 50. Cfr. anche p. 595: «L’idealismo, con il quale noi caratterizziamo la logica della conoscenza pura lo intendiamo piuttosto in senso storico. E abbiamo perciò perseguito ovunque in modo pressante il collegamento dello sviluppo sistematico con l’orientamento storico. L’idealismo, quello classico, provoca questo intimo collegamento». 22 H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, p. 661. 23 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 396 (e pp. 586-587 per quanto precede). Ma cfr. anche p. 76, dove Cohen parla della «nostra logica, orientata sul fatto in divenire della scienza matematica della natura». 24 M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, cit., pp. 22-23.

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17. Il criterio della certezza della filosofia futura: la verità come unità sintetica e unità sistematica

Tanto più il dispiegamento, «lo sviluppo (Entfaltung) della filosofia futura» (la dimensione futura rimanda a una visione redentiva della filosofia stessa), dice Benjamin, si annuncia imprevedibile e ardito, tanto più «profondamente essa deve lottare per quella certezza che ha il suo criterio nell’unità sistematica, o nella verità»1: tanto più essa deve andare nella direzione di un approfondimento del sistema kantiano, nello sviluppare il suo principio della giustificazione, della deduzione dei concetti a priori dell’intelletto e della ricognizione critica dei concetti della ragione, per avere un concetto di certezza e verità il cui criterio non sia quello dell’accordo con l’oggetto2, ma quello dell’unità sintetica di concetti a priori che si riferiscono a un’idea per avere un’unità sistematica (che coincide con la verità), e dell’unità del sistema della filosofia. Questo criterio è già emerso nei primi accenni all’opera di Noeggerath e in generale nel concetto di compito infinito benjaminiano e in parte coheniano. Per Cohen la verità si ha infatti nel rapporto tra i concetti come sistema mai compiuto guidato dall’idea dell’ipotesi, nel «sistema della verità» come «somma delle categorie»3 e «sistema delle conoscenze pure»4 e nel rapporto tra logica ed etica, nel loro comune metodo trascendentale come metodo della purezza, che dà unità sistematica in quanto comune metodo di fondazione delle conoscenze5. «La logica realizza e fonda la purezza […] mediante il giudizio dell’origine»6 come giudizio infinito, con la legge-del-pensiero (Denkgesetz) della continuità, che deve essere operante anche nell’elaborazione del concetto della volontà pura7. Riferendosi al concetto di unità sintetica della Logica8 e dell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio9 di Kant, Noeggerath delinea un concetto di «sintesi in genere (Synthesis überhaupt)»10 come concetto di una conoscenza che al di là del giudizio sintetico, limitato all’ambito teoretico, può essere valido anche per gli oggetti ateoretici, per l’etica e l’estetica. Per chiarire la problematica «c o n o s c e n z a s i s t e m a t i c a di quelle unità più alte, comprese le ateoretiche,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

senza intercalarle con una scienza speciale di mediazione»11, per chiarire il «concetto generale della sintesi (allgemeine Synthesisbegriff)»12, di quella «sintesi possibile s i s t e m a t i c a ( systematisch mögliche Synthesis)»13, il cui caso speciale per l’ambito teoretico è il giudizio sintetico, egli prende esempi dal dominio della matematica in senso lato14. Come elemento centrale della sintesi in generale, della sintesi sistematica, egli prende i giudizi di “relazione”, i giudizi categorico, ipotetico e disgiuntivo, che caratterizzano rispettivamente i membri sistematici etico, teoretico ed estetico, e a questi giudizi prepone per ognuno degli ambiti la loro dottrina della qualità e quantità (come modo di articolazione dell’oggetto e luogo in cui si definisce l’importante concetto di “infinito”), in cui consiste il loro compimento (Vollzug) materiale e il rinvio al rapporto con la matematica15. Per illustrare questi giudizi di relazione, che mettono in rapporto non più un concetto con un’intuizione, ma un’idea con una serie di concetti (nei due significati per cui da una parte come elemento di unione quella è la “forma” e questi sono il “contenuto” del giudizio, al di là della coppia soggettooggetto, dall’altra, per esempio nel giudizio di relazione categorico, soggetto e predicato sono Koordinaten dell’idea16, sono in essa e la rappresentano – e questo è il compito della conoscenza – esibendola come verità17), Noeggerath li riferisce a tre diversi modi di rapporto funzionale (del valore limite con la serie) e di calcolo infinitesimale – attraverso una “disequazione” (Ungleichung)18 (di qui il riferimento alla sua teoria, da parte di Benjamin, come teoria matematica della verità) – come tre «forme dell’infinito»19 come «concetto-limite»20: 1.) categorico: due variabili coordinate, la variabile dipendente eventualmente come gruppo unitario (con i suoi elementi subordinati). 2.) ipotetico: subordinazione di una pluralità (Mehrheit) infinita21. 3.) disgiuntivo: coordinazione di una unità con una pluralità finita di nuovo pensata come congiuntiva (coordinata), […] [con un] sistema di variabili22.

Noeggerath fornisce le espressioni matematiche di riferimento (che non sono equazioni o identità, ma disequazioni in cui c’è dipendenza tra “diversi”, in ciascuna delle quali è ravvisabile lo schema di una relazione23, come nesso funzionale) per l’infinità (das Unendliche) delle relazioni disgiuntiva e ipotetica (per la categorica, come coordinazione, aveva fatto riferimento al triangolo rettangolo e all’ellissi), dove alla seconda a una serie infinita corrisponde un integrale, alla prima, nell’addizione (come attribuzione coordinata di due variabili coniugate a  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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17. Il criterio della certezza della filosofia futura

una costante come valore-limite), a una somma come sistema corrispondono gli elementi da sommare: le espressioni matematiche “asintotiche” sono a = _a2 +_a4 + _a8 + … _a2 00 per la relazione ipotetica e 3+4=5 per la disgiuntiva24, mentre le formule 3+4= 7 per la disgiunzione e _62 =3 per la relazione ipotetica, che esprimono «rapporti fin qui chiamati “finiti”»25, distinguono i due lati solo riguardo alla modalità (delle relazioni), dal cui punto di vista esprimono la non coincidenza tra possibilità e realtà26. La copula esprime per tutte queste funzioni il segno di equazione, l’abbreviazione della relazione tra i termini, in cui essa, come “forma”, dal punto di vista dell’unità è lo stesso di questi, come materia, dal punto di vista di una pluralità (Mehrheit)27. Questa relazione è per Noeggerath la base per l’«equazione tra forma e contenuto o immanenza dell’oggetto»28, che non gli permette di perseguire la conoscenza come riproduzione equivalente, per esempio, di oggetti ateoretici.

Note 1

Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 158; trad. it. cit., p. 214. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 197, p. 201; trad. it. cit., p. 176: «Poiché dunque l’esperienza, come sintesi empirica, è, nella sua possibilità, l’unico modo di conoscenza che dia realtà a ogni altra sintesi; questa, come conoscenza a priori, possiede anche la verità (accordo con l’oggetto), solo in quanto non contiene se non ciò che è necessario all’unità sintetica dell’esperienza in generale». 3 H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 399. 4 Ivi, p. 397. Cfr. tutta la parte sul giudizio del concetto (Das Urteil des Begriffs), ivi, pp. 310-403. 5 Cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, pp. 89-90; trad. it. cit., pp. 67-68: «La verità va cercata soltanto nell’unione di logica e etica. […] Senza questa unità potevamo contentarci […] dell’esattezza e della necessità logica. Avremmo dovuto rinunciare, però, all’etica come conoscenza. […] Nessun membro della conoscenza può dunque rivendicare a sé soltanto la verità; la verità può darsi, può consistere solamente nella concatenazione (Kette) costituita dai membri (Glieder). È questa catena, questo legame spirituale, che vogliamo come legge fondamentale della verità». Cfr. a proposito P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 5: «in questo senso è significativo – anche in funzione di un confronto con Benjamin – che proprio il metodo trascendentale, inteso come metodo unitario (einheitliche Methode) di logica e etica [cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 90 s.; trad. it. cit., p. 68], risulti essere per Cohen la verità (Wahrheit) . La verità, dunque, anche per Cohen – come per Benjamin – ha a che fare con la relazione tra i membri del sistema (Systemglieder), con la fragile, debole relazione tra i membri del sistema. – Se infatti [solo] “la logica di per sé possiede però correttezza, legalità, universalità, necessità (Richtigkeit, Gesetzlichkeit, Allgemeinheit, Notwendigkeit), ma non verità”, d’altro lato “Non è dalla sola etica, quando si affianca alla logica e quasi si misura con essa, che sca2

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Esperienza e compito infinito turisce la verità; la verità sgorga da entrambi i tipi e gli interessi della ragione, come una nuova definizione della conoscenza e come sua connessione intrinseca”. È in questo senso che va inteso che la “verità che l’etica deve pensare non può essere che verità di conoscenza” [ivi, p. 87; trad. it. cit., p. 66]». Sul metodo trascendentale come metodo della purezza e legge della verità che unisce logica ed etica in Cohen cfr. anche H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 354-357, in part. p. 356: «Che cos’è questa verità del collegamento (Verbindung) di logica e etica? Nient’altro che il metodo trascendentale o metodo della verità, compreso come metodo unitario di logica e etica [H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 90 s.; trad. it. cit., p. 68] […]. Costruire la “verità” unitaria sulla logica e l’etica è la ragione (Vernunft) del metodo o la ragione metodica (methodische Vernunft). Se il concetto della purezza descrive il […] lato metodologico della verità, il concetto dell’ipotesi (fondazione presuppositiva) (voraussetzende Grundlegung) descrive il momento teoretico della ragione (das vernunfttheoretische Moment) nella dottrina della verità di Cohen. La verità deve essere cercata soltanto nella comune “metodica della fondazione” nella logica e nell’etica [cfr. ivi, pp. 447 e 327; trad. it. cit., pp. 322 e 237] […]. Non c’è altra certezza (Gewißheit) che quella dell’ipotesi, cioè di ciò che si può raggiungere nel procedimento della fondazione presuppositiva; questo vale anche per la legge morale (Sittengesetz), per la quale di potrebbe aspirare a un accertamento assoluto o alla riconduzione a una legge naturale. Con la “legge fondamentale (Grundgesetz) della verità” verrà fondata una sistematica filosofica senza [cercare] una garanzia metafisica in Dio, nella natura, nell’essere, ecc.: l’unità sistematica della ragione è unità del metodo, “metodo” inteso come fondazione presuppositiva; la “verità” – compresa come metodo, per mezzo del quale logica ed etica possono essere prodotte, non una sola ma entrambe nello stesso momento” – è ricerca della verità [cfr. ivi, p. 91; trad. it. cit., p. 68]». Cfr. anche H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 610: «Questa unificazione dei singoli domìni si compie nel sistema, come nella verità [come rapporto] tra logica e etica». 6 H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 101; trad. it. cit., p. 76. Cfr. ibid.: «L’origine è il più profondo ancoraggio che il pensiero puro possa fissare. Per il pensiero puro nulla può valere come dato, anche il dato deve produrlo esso stesso. Il “che cosa” in quanto “qualcosa”, non può rappresentare per il pensiero puro l’ultima parola del linguaggio concettuale. Non può retrocedere spaventato davanti al nulla, che certo rimane un non-pensiero, ma che viene riconosciuto come uno strumento del pensiero puro. È una via indiretta che il pensiero si trova costretto ad imboccare perché non può arrestarsi dinanzi al qualcosa. Per giungere sino al fondamento (Grund) del qualcosa bisogna non considerare questo qualcosa come un fondamento ultimo». 7 Cfr. ivi, pp. 101-104; trad. it. cit., pp. 76-78, cfr. in part. p. 102; trad. it. cit., p. 77: «la continuità […] dovrebbe potersi trasferire proprio al volere stesso, se questo volere, stando alla continuità, deve essere prodotto a partire dalla sua origine, e deve diventare così un volere puro. […] Il metodo della purezza, sulla base della verità, esige che sia mantenuto il significato rigoroso della continuità [che non deve essere ridotta a una metafora storica]». Sulla legge della continuità cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 92 (si segue la traduzione del brano in A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., pp. 106-107): «Se il concetto in generale significa la domanda: che cos’è?, e perciò la fondazione dell’essere nel pensiero, il giudizio, che produce il concetto, sarà la domanda: che cosa non è? Ma il non deve corrispondere a un […] [mé]. Così la via indiretta viene giustificata con la via retta. E in ciò si dimostra la forza profonda della connessione: che la continuità passa attraverso questo niente. Essa dà la direzione,

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17. Il criterio della certezza della filosofia futura dicendo: vi è una connessione tra gli elementi se essi vengono pensati e richiesti solo come elementi da produrre e non come dati. La continuità è dunque la legge-del-pensiero di quella connessione che rende possibile e conduce a ininterrotta realizzazione la produzione dell’unità della conoscenza, e, attraverso di essa, dell’unità dell’oggetto [… ] Grazie alla continuità tutti gli elementi del pensiero, in quanto possono valere come elementi della conoscenza, vengono prodotti traendoli dall’origine» 8 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 42. Cfr. I. Kant, Logik, in Werkausgabe, cit., Bände V-VI: Schriften zur Metaphysik und Logik, pp. 417582, in part. le pp. 579-580; trad. it. Logica, a cura di L. Amoroso, Laterza, Bari, 19902, p. 142 § 113, (Dicotomia e politomia): «Una divisione in due membri si chiama dicotomia: se invece la divisione ha più di due membri viene detta politomia. […] 2) La politomia non può venire insegnata nella logica, perché comporta la conoscenza dell’oggetto. La dicotomia, invece, ha bisogno solo del principio di contraddizione, senza che il concetto che si vuole dividere sia conosciuto quanto al contenuto. La politomia ha bisogno dell’intuizione: o dell’intuizione a priori, come nella matematica (per es. la divisione delle sezioni coniche) o di quella empirica, come nella descrizione della natura. Ma la divisione in base al principio della sintesi a priori comporta una tricotomia, vale a dire: 1) il concetto come condizione, 2) il condizionato e 3) la derivazione del secondo dal primo». 9 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § IX, p. 35, nota; trad. it. cit., p. 33, nota: «Si è trovato sospetto che le mie divisioni nella filosofia pura riescano quasi sempre tripartite. Ma ciò è nella natura della cosa. Se si deve fare una divisione a priori, essa sarà o a n a l i t i c a , secondo il principio di contraddizione; e allora essa è sempre bipartita (quodlibet ens est A aut non A). Oppure è s i n t e t i c a ; e, se in questo caso essa deve essere eseguita a partire da c o n c e t t i a priori (non, come nella matematica, a partire dall’intuizione a priori che corrisponde al concetto), allora, secondo ciò che è stato richiesto per una unità sintetica in genere, vale a dire: 1) condizione, 2) condizionato, 3) il concetto che nasce dall’unione del condizionato con la sua condizione, la divisione deve essere necessariamente una tricotomia». Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 43. 10 Ivi, p. 36. 11 Ibid. Per il testo tedesco cfr. sotto. 12 Ibid. 13 Ivi, p. 37. Cfr. il brano riportato sotto. 14 Cfr. ivi, pp. 36-37: «Se riassumiamo i fatti che qui sosteniamo, allora noi vogliamo collegare la l o g i c a per esempio all’oggetto matematico, in modo immediato e senza inserimento del giudizio (come asserzione), proprio come abbiamo previsto la possibilità di porre come problema la c o n o s c e n z a s i s t e m a t i c a di quelle unità più alte, comprese le ateoretiche, senza intercalarle con una scienza speciale di mediazione. A prescindere dal significato di principio emerge qui la conseguenza pratica (come è senz’altro ragionevole) che possiamo ora utilizzare – per il chiarimento del concetto generale della sintesi e di tutti i casi speciali che derivano da esso – esempi che provengono da ogni ambito della matematica in misura ampliata [Fassen wir den hier behaupteten Sachverhalt zusammen, so wollen wir also unmittelbar und ohne Einschaltung des Urteils (als Aussage) die L o g i k z. B. auf den mathematischen gegenstand beziehen, ebenso wie wir die Möglichkeit vorausahen s y s t e m a t i s c h e r E r k e n n t n i s jene höheren Einheiten, einschliesslich der atheoretischen, ohne Zwischenschaltung einer vermittelnden Spezialwissenschaft zum Problem zu machen. Abgesehen von der prinzipiellen Bedeutung ergibt sich hier (wie ohne weiteres einsichtig ist) die praktische Folge, dass wir nun – zur Klärung des allgemeinen Synthesisbegriffs

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Esperienza e compito infinito und aller von him vorkommenden Spezialfälle – Beispiele aus jedem Gebiet der Mathematik in weitem Umfang heranziehen können]». 15 Cfr. ivi, p. 37: «Dunque il giudizio era per noi per prima cosa un caso particolare della sintesi teoretica, per seconda cosa deve però essere, come giudizio teretico, un caso particolare della sintesi possibile s i s t e m a t i c a : nei suoi confronti anche l’intero dominio e l’unità della c o n o s c e n z a rimangono sempre qualcosa di totalmente contingente. Se guardiamo la relazione come la nervatura di ogni sintesi, abbiamo in mano una forma vuota e incomprensibile finché non ci decidiamo a studiare a fondo il suo compimento materiale nella quantità e nella qualità. La logica ha bisogno in questo nuovo senso, e in generale ne ha bisogno ogni membro del sistema, di una propria dottrina della qualità e della quantità, come di una propria dottrina della relazione. Poiché ora i suoi fondamenti, in particolare il concetto estremamente importante dell’infinito, non possono essere d e f i n i t i altro che qua; e poiché oltre a ciò quella quantitas, come suo modo particolare dell’articolazione, presuppone una qualitas tout court, per completarsi con essa – allora risiede in entrambi questi problemi l’indicazione che cercavamo, il secondo rapporto con la matematica che cercavamo [Denn erstens war uns das Urteil Spezialfall theoretischer, zweitens aber soll es uns ja, als theoretische, Spezialfall s y s t e m a t i s c h möglicher Synthesis werden: der gegenüber auch das Gesamtgebiet und die Einheit der E r k e n n t n i s immer ein gänzlich Zufälliges bleibt. Sehen wir als den Nerv jeder Synthesis die Relation an, so halten wir eine leere und unverständliche Form in Händen, wofern wir uns nicht entschliessen, ihrer materialen Vollzug in Quantität und Qualität nachzugehen. Es bedarf also in diesem neuen Sinn die Logik, und allgemein jedes Glied des Systems, einer eigenen Qualitäts– und Quantitätslehre, wie sie einer eigenen Relationslehre bedarf. Da nun deren Grundlagen, besonders der überaus wichtige Begriff des Unendlichen, nirgends anderswo d e f i n i e r t werden können, als eben hier; und da überdies jene quantitas, als deren besondere Artikulationsart, eine qualitas schlechthin voraussetzt, um an ihr sich zu vollziehen – so liegt in diesen beiden Problemen der gesuchte Hinweis, die gesuchte zweite Beziehung zur Mathematik]». 16 Cfr. ivi, pp. 49-51: «Avevamo detto che il predicato del soggetto è contenuto non nel concetto, ma nell’idea del soggetto. […] L’idea non deve affatto essere pensata come sfera di suddivisione proprio nel giudizio categorico. […] Se parlo di sostanza e accidenti, parlo della relazione categorica; questa non divide però l’oggetto ideale […] ma lo intende da due p u n t i d i v i s t a che le sono propri, che solo in quanto tali s i escludono r e c i p r o c a m e n t e . Avevamo piuttosto già introdotto un’espressione corrispondente per il conservarsi del predicato nell’idea del soggetto, quando volevamo interpretare entrambi i termini come c o o r d i n a t e . […] L’indipendanza relativa di entrambe le linee [x e y, rispettivamente il termine indipendente soggetto-idea, e il predicato], di entrambi i punti di vista, è con questo ciò che era stato indicato prima come “contingenza”; questa viene cioè “relativizzata” attraverso il rapporto con l’idea, attraverso la coincidenza nell’oggetto ideale; essa è quindi lo stesso dell’“ampliamento” di Kant come principio del giudizio sintetico e in questa forma di ogni sintesi in genere [Wir hatten gesagt, das nicht ihm Begriff, wohl aber in der Idee des Subjekts sein Predikat enthalten sei. […] Die Idee ist ja am allerwenigsten gerade im kategorischen Urteil als Einteilungssphäre zu denken. […] Rede ich also etwa von Substanz und Akzidens, so rede ich von kategorischer Relation: diese “zerfällt” aber nicht den idealen Gegenstand […], sondern sie fasst ihn unter zwei ihr eigentümlichen G e s i c h t s p u n k t e auf, die nur als solche e i n a n d e r s e l b s t ausschliessen. Einen entsprechenden Ausdruck für das Enthaltensein des Prädikats in der Subjektsidee

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17. Il criterio della certezza della filosofia futura hatten wir vielmehr schon eingeführt, als wir die beiden Termini als Koordinaten auffassen wollten. […] Die relative Unabhängigkeit der beiden Linien, der beiden Gesichtspunkte ist dabei das, was früher als “Zufälligkeit” bezeichnet worden war; diese wird nämlich “relativiert” durch die Beziehung zur Idee, durch die Koinzidenz im idealen Gegenstand; sie ist also dasselbe, wie K a n t s “Erweiterung” als Prinzip des synthetischen Urteils und in dieser Form jeder Synthesis überhaupt]». Noeggerath aveva descritto il giudizio categorico con il giudizio sul contenuto del triangolo rettangolo e con il concetto limite dell’ellissi (cfr. ivi, pp. 48-49). 17 Per Noeggerath la rappresentazione dell’idea è il compito proprio della conoscenza: come il giudizio analitico espone il concetto del soggetto, così il giudizio della sintesi (sistematica) espone l’idea del soggetto e il modo in cui ciò accade si regola formalmente secondo gli schemi della relazione. Cfr. ivi, pp. 44-46: «L’unità ovunque presupposta dalla sintesi è chiaramente l ’ i d e a d e l l ’ o g g e t t o , o meglio: è l’oggetto come idea, del valore dell’idea – a differenza di questo stesso come c o n c e t t o nella funzione. Con ciò avremmo dunque ottenuto due significati dell’idea. Esse corrispondono ai due problemi (Fragen) che prima erano divisi. Primo: l’idea come forma, come si presenta o ha la sua analogia nella copula, nel segno di uguaglianza di contro ai membri come m a t e r i a della sintesi. In questo senso anche le categorie sono idee (di secondo grado) e la causalità assoluta è forse [una] idea (di primo grado). Secondo: al di là di questa funzione che dà unità, essa è l’elemento unitario che viene presupposto in ogni scomposizione, e contiene “in sé” – non “sotto di sé” – cioè è r a p p r e s e n t a b i l e attraverso il soggetto e il predicato. Dunque essa è certamente una interpretazione razionale possibile dell’“intuizione pura” kantiana. Dunque la qualità di un determinato contenuto particolare non è contenuta nel concetto del triangolo rettangolo, ma certamente lo è nella sua i d e a . L’idea come f o r m a risponde alla domanda: se il predicato non è c o n t e n u t o nel soggetto, quale altro rapporto vi è dunque fra di essi? L’idea come “ i n t u i z i o n e p u r a ” : se non è contenuto nel s o g g e t t o come concetto, dove altro è contenuto dunque il predicato? Se concepisco addirittura soggetto e predicato come coordinate dell’idea (non del giudizio), si impone qui definitivamente il paragone con la dottrina delle funzioni. […] Le idee sono in sé unità completamente non problematiche, cioè determinate infinitamente sotto tutti gli aspetti e perciò infinitamente determinanti. Tuttavia non posso mai ricorrere ad esse in senso empirico. Non posso “verificare” o “intuire” quali predicati debba aggiungere al mio soggetto, e altrettanto poco come una tale unità sia infine calcolabile e esauribile. Un tale compito non sarebbe mai [il] compito della conoscenza: esso è sempre il giudizio rappresentativo stesso. E in questa visione si trasforma in definitiva la domanda intorno alla sua “verità” o “esattezza” nel momento puramente oggettivo della comunione originaria di soggetto e predicato nell’idea presupposta come data. La logica oggettiva è dunque principalmente la dottrina del rapporto dell’idea con il giudizio sintetico, nella cui determinazione in verità, se è contenuta una tautologia, ogni rapporto deve accordarsi con l’idea in quanto non sintetico. La scomposizione oppure, come ora possiamo dire più esattamente, la rappresentazione dell’idea è dunque il vero compito (Aufgabe) della conoscenza. Come il giudizio analitico espone il concetto, così il giudizio sintetico espone l’idea del soggetto. Il modo in cui questo accade si regola formalmente secondo gli schemi della relazione [Die überall von der Synthesis vorausgesetzte Einheit ist offenbar die I d e e d e s G e g e n s t a n d e s , oder besser: ist der Gegenstand als Idee, vom Werte der Idee – im Unterschied zu ihm selber in der Funktion als B e g r i f f . Damit hätten wir also zwei Bedeutungen der Idee gewonnen. Sie entsprechen den beiden früher getrennten Fragen. Erstens die Idee als Form, wie sie auftritt oder ihre Analogie hat in

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Esperienza e compito infinito der Copula, im Gleichheitszeichen gegenüber den Glieder als der M a t e r i e der Synthesis. In diesem Sinn sind auch die Kategorien Ideen (zweiten Grades) und ist etwa die absolute Kausalität Idee (ersten Grades). Zweitens, über diese einheitgebende Funktion hinaus, ist sie das jeder Zerlegung vorausgesetzte Einheitliche selbst, und enthält “in sich” – nicht “unter sich” – d. h. ist d a r s t e l l b a r durch Subjekt und Prädikat. Und so ist sie wohl eine mögliche rationale Deutung von Kantens “reiner Anschauung”. Also nicht im Begriff des rechtwinkligen Dreiecks ist die Eigenschaft eines bestimmten besonderen Inhals enthalten, wohl aber in seiner I d e e . Die Idee als F o r m beantwortet die Frage: wenn das Prädikat im Subjekt nicht e n t h a l t e n ist, welche andere Beziehung besteht denn dann zwischen ihnen? Die Idee als “ r e i n e A n s c h a u u n g ” : wenn nicht im S u b j e k t als Begriff, worin sonst ist dann das Prädikat enthalten? Fasse ich Subjekt und Prädikat geradezu als Koordinaten der Idee (nicht des Urteils), so drängt sich hier endgültig der Vergleich mit der Funktionslehre auf. […]. Die Ideen sind an sich völlig unproblematische, d. h. allseitig unendlich bestimmte und deshalb unendlich bestimmende Einheiten. Empirisch kann ich allerdings nie auf sie rekurrieren. Ich kann nicht “nachsehen” oder “intuieren”, welche Prädikate ich meinem Subjekt zuzufügen habe, ebensowenig wie überhaupt eine solche Einheit endlich übersehbar und erschöpfbar ist. Uebrigens wäre derartige nie Aufgabe der Erkenntnis: sie ist immer das darstellende Urteil selbst. Und unter diese Auffassung transformiert sich schliesslich die Frage nach dessen “Wahrheit” oder “Richtigkeit” in das rein objektive Moment der ursprünglichen Zusammengehörigkeit von Subjekt und Prädikat in der als gegebenen vorausgesetzten Idee. Gegenständliche Logik ist so in erster Linie die Lehre vom Verhältnis der Idee zum synthetischen Urteil, in welcher Bestimmung allerdings insofern eine Tautologie enthalten ist, als ja nichtsynthetischen jede Beziehung zur Idee abzusprechen ist. Die Zerlegung oder, wie wir jetzt richtiger sagen werden, die Darstellung der Idee ist also die eigentliche Aufgabe der Erkenntnis. Wie das analytische Urteil den Begriff, so exponiert das synthetische die Idee des Subjekts. Die Art, wie das geschiet, richtet sich formal nach den Schematen der Relation]». Per la visione, in Benjamin, della verità come costellazione di idee, dove queste sono a loro volta rappresentate (dargestellt) dai fenomeni divisi in concetti, cfr. la Erkenntniskritische Vorrede a Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 212-214; trad. it. cit., pp. 9-11. 18 La disequazione è una «disuguaglianza nella quale compaiono una o più quantità incognite» (N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 198411, p. 575), che «può essere soddisfatta soltanto per valori opportuni (compresi in uno o più intervalli) di una variabile» (S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, UTET, 1966, vol. 4, p. 656). Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 4748: «4) Se “disequazione” è l’espressione matematica o meglio quantitativa, il compimento (Leistung) quantitativo o il motivo quantitativo contenuto in ogni relazione, allora il valore limite (come un lato) in genere non deve più essere separato dalla serie stessa (come l’altro lato); quindi questa non deve essere trattata sotto la pluralità, quella sotto la totalità. Piuttosto entrambe vanno insieme o con l’una o con l’altra, per noi: appartengono alla pluralità. 5) Anche per l’addizione bisogna esigere una disequazione. Come il segno di uguaglianza tra l’integrale e la serie indica la relazione ipotetica, così il segno di uguaglianza dell’addizione indica la relazione disgiuntiva. Appare qui alla fine un nuovo, vale a dire un puro integrale della somma, che è completamente diverso da quello della serie. Il suo uso matematico si riconosce nel modo più chiaro nella cosiddetta analisi dei vettori [4) Wenn “Ungleichung” der mathematische oder besser quantitative Ausdruck, die quantitative Leistung oder das in jeder Relation enthaltene quantitative Motiv ist, so ist der Grenzwert (als die eine Seite) überhaupt nicht mehr von der Reihe selbst (als der anderen

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17. Il criterio della certezza della filosofia futura Seite) zu trennen; also nicht diese unter die Mehrheit, jener unter der Allheit zu behandeln. Vielmehr gehören sie dann beide zusammen entweder der einen oder der anderen, für uns: der Mehrheit an. 5) Auch für die Addition ist eine Ungleichung zu fordern. Wie das Gleichheitszeichen zwischen Integral und Reihe auf hypothetische, so weist das der Addition auf disjunktive Relation hin. Es erscheint hier endlich ein neues, nämlich ein reines Summenintegral, das von dem der Reihe völlig verschieden ist. Sein matematischen Gebrauch ist am deutlichsten aus der sogenannten Vectoranalysis bekannt]». 19 Ivi, p. 47. Cfr. ivi, pp. 46-47, dove Noeggerath indica una difficoltà nella traduzione della sua teoria dei modi di relazione come forme dell’infinito (in cui l’infinito si sviluppa dal finito – per es. nel rapporto tra la serie e l’integrale) e delle loro relazioni, in termini logici, mentre essa è soddisfacente in termini matematici. Cfr. anche ivi, pp. 9-10, il brano già citato sopra sul sistema della filosofia, che ha tanti membri reciprocamente indipendenti quanti sono i modi di relazione (categorico, ipotetico, disgiuntivo) cioè quanti sono i modi dei “compiti infiniti” come forme di questo infinito stesso, e sulla possibilità di differenziare le idee che sono a fondamento dei tre ambiti di oggetti (etica, logica, estetica) come loro forma nel senso degli schemi della relazione. Per la sua descrizione dei modi di relazione e delle loro rispettive forme dell’infinito Noeggerath parte dalla Logik di Cohen, ma se ne distacca in molti punti, per esempio non considerando il tempo (ma solo lo spazio) una categoria matematica: «Fondamentali rimangono, per ogni teoria simile [a questa], le esposizioni d i C o h e n nella sopra menzionata “Logica della conoscenza pura”. Corrispondono qui per la quantità ai concetti kantiani della singolarità, particolarità e universalità [nota 1: nella tavola delle categorie: unità, pluralità, totalità]: realtà, pluralità e totalità. E proprio parallelamente per la relazione: sostanza, legge e concetto. In C o h e n tra l’altro alla realtà appartiene il differenziale, alla pluralità la serie, alla totalità l’integrale e esattamente come valore-limite della serie. […] 1) il tempo non è una categoria matematica, ma lo è soltanto lo spazio, e le sue pretese vengono soddifatte qui, nel giudizio della pluralità, completamente attraverso la serie (atemporale). In N a t o r p l’interpretazione della serie come qualcosa di temporale porta coerentemente nel s i s t e m a alla determinazione della conoscenza = quantitas come fieri (processo), nella g e o m e t r i a all’introduzione del movimento [Grundlegend für jede derartige Theorie bleiben die Ausführungen C o h e n s in der oben erwähnten “Logik der reinen Erkenntnis”. Es entsprechen hier für die Quantität den Kantischen Begriffen der Einzelheit, Besonderheit und Allgemeinheit [nota 1: In der Kategorientafel: Einheit, Vielheit, Allheit]: Realität, Mehrheit und Allheit. Und genau parallel dazu für die Relation: Substanz, Gesetz und Begriff. Zur Realität gehört bei C o h e n übrigens das Differential, zur Mehrheit die Reihe, zur Allheit das Integral und zwar als Grenzwert der Reihe. […] 1) die Zeit ist keine mathematische Kategorie, sondern allein ist das der Raum, und ihre Ansprüche werden hier, im Urteil der Mehrheit, durchweg durch die (zeitlose) Reihe erledigt. Bei N a t o r p führt die Auffassung der Reihe als eines Zeitlichen im S y s t e m konsequenterweise zur Bestimmung der Erkenntnis = quantitas als fieri (Prozess), in der G e o m e t r i e zur Einführung der Bewegung]» (ivi, p. 47). 20 Ivi, p. 28. Cfr. ivi, pp. I-II: «Dunque la triplicità degli oggetti – e con ciò la triplicità dei membri del sistema – non deve essere derivata da un arbitrio né da un pregiudizio, ma dalla non superabile triplicità delle stesse relazioni. Dunque il compito di d i f f e r e n z i a r e , al livello del sistema, l e i d e e n e l s e n s o d e l l e r e l a zioni e porle come limiti (Grenzen) dei loro ambiti d ’ o g g e t t i , corrisponde – al livello inferiore dell’intralogico – al semplice problema dell sintesi» (il testo originale è stato riportato in una citazione precedente dello stesso passo).

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Esperienza e compito infinito 21 Cfr. ivi, p. 54: «Qui ora soltanto è tuttavia decisa l’essenza della relazione ipotetica. Con la subordinazione in senso pregnante, dunque non nel senso di una dipendenza universale in genere (che si presenta nell’appartenenza categorica e disgiuntiva come coordinazione), è data l’infinità particolare della serie [Hierin liegt nun allerdings erst das Wesen der hypothetischen Relation beschlossen. Mit der Subordination in prägnanten Sinn, also nicht in dem einer allgemeinen Abhängigkeit überhaupt (die ja bei kategorischer und disjunktiver Zugehörigkeit als Koordination auftritt) ist erst die besondere Reiheunendlichkeit gegeben]». 22 Ivi, p. 57: «1.) kategorisch: zwei koordinierten Variabeln, die abhängige eventuell als einheitliche G r u p p e (mit ihren subordinierten Elementen). 2.) hypothetisch: Subordination einer endlichen Mehrheit. 3.) disjunktiv: Koordination einer Einheit mit einer wieder konjunktiv (koordiniert) gedachten endlichen Mehrheit, mit einem System von Variabeln]». 23 Cfr. ivi, p. 53: «E con questo deve essere facilmente determinato in quale modo della relazione si è trasformata dunque di volta in volta l’identità, cioè per il nostro modo di considerare: ad ogni modo della relazione deve essere assegnato un particolare infinito, e viceversa in ogni forma della disequazione deve essere rivelato lo schema di una relazione. Con ciò anche l’intero problema del concetto-limite deve orientarsi a partire dalla relazione e precisamente in tutti i suoi livelli e sottospecie [Und dabei muss sich genau bestimmen lassen, in welcher Art der Relation sich denn jeweils die Identität verwandelt hat, d. h. für unsere Betrachtungsweise: jeder Art der Relation ist ein besonderes Unendliches als ihr quantitatives Motiv zuzuweisen, und umgekehrt in jeder Form der Ungleichung das Schema einer Relation aufzudecken. Damit ist auch das ganze Problem des Grenzbegriffs und zwar in allen seinen Stufen und Abarten von der Relation aus zu orientieren]». 24 Cfr. ivi, p. 59, dove l’addizione 3+4=5 è vista come un caso speciale (asintotico) che fa riferimento a un triangolo rettangolo, triangolo che, con angolo a 180 0, dà come addizione il caso speciale 3+4=7: «Se poi vediamo che il segno di uguaglianza non significa identità o commutabilità finita, ma riguarda sempre solo la dipendenza tra diversi, non c’è allora nulla che impedisca di riunire i lati a formare anche un altro angolo, magari un angolo retto e così dire “3+4=5”. Il contenuto di questa equazione non è più sorprendente di quanto lo era quello di a=a/2+a/4+a/8… [Halten wir uns ferner vor Augen, dass das Gleichheitszeichen nicht Identität oder endliche Vertauschbarkeit bedeutet, sondern immer nur auf die Abhängigkeit zwischen Verschiedenen geht, so steht nichts dagegen, die Strecken auch unter einen anderen Winkel, etwa einem Rechten zusammentreten zu lassen und dann zu sagen “3+4=5”. Der Inhalt dieser Gleichung ist um nichts erstaunlicher als der von a=a/2+a/4+a/8… es war]». 25 Ivi, p. 60. 26 Cfr. ivi, pp. 60-61: «Mentre la quantità riguarda i membri della sintesi come loro materia, soltanto la relazione riguarda la stessa forma della connessione. Cosa rimane lì ancora come contributo particolare della modalità per noi, che abbiamo voluto interpretare la “realtà” (e anche la “possibilità” e “necessità”) in modo puramente logico e immanente; così che non possiamo confrontare l’“oggetto” con la “nostra conoscenza di esso”? Ora, in quanto – con K a n t – abbiamo indicato la copula come forma ma i termini come materia, abbiamo già fatto un passo oltre la disposizione che riguarda il contenuto del rapporto e della sua struttura e che è durata fino ad ora, e siamo già con ciò su un terreno totalmente diverso. Se si pensa ai tre schemi della relazione messi insieme, si determina, al di là di ogni differenza, la modalità di una funzione dei l u o g h i universale e persistente, che può precedere ogni realizzazione delle sue parti nella dire-

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17. Il criterio della certezza della filosofia futura zione di particolari valori. Con ciò la modalità è diventata topografia o terminologia della sintesi. E sempre la f o r m a , la relatio ipsa, sta qui nella posizione “necessità”, la materia si divide tra le posizioni “possibilità” e “realtà” in modo tale, che con ciò la particella indipendente (S) corrisponde alla dynamis, la particella dipendente (P) però corrisponde al compimento attuale. Possiamo dunque interpretare in conclusione le forme delle relazioni fin qui chiamate “finite”: 3+4=7 per la disgiunzione, 6/2=3 per la relazione ipotetica, in modo tale che in esse entrambi i lati si differenzino ancora soltanto per quanto riguarda la loro modalità (senza per questo essere “identiche”), una determinazione che corrisponde di nuovo proprio alla concezione k a n t i a n a , per la quale il compito posto (possibilità) non implica ancora concettualmente la soluzione (realtà, compimento attuale) [Während die Quantität die Glieder der Synthesis als deren Materie anging, betraf Relation allein die Form der Verknüpfung selber. Was bleibt da als besondere Leistung der Modalität noch übrig für uns, die wir die “Wirklichkeit” (und ebenso die “Möglichkeit” und “Notwendigkeit”) rein logisch und immanent deuten wollen; daher nicht den “Gegenstand” “unserer Erkenntnis von ihm” gegenüberstellen können? Nun, indem wir – mit K a n t – die Copula als Form, die Termini aber als Materie bezeichneten, taten wir bereits einen Schritt über die bisherigen, den Inhalt der Verbindung und seiner Struktur angehenden Anlagen hinaus, und stehen schon damit auf einem ganz neuen Boden. Denkt man sich die drei Schemata der Relation etwa untereinander geschrieben, so bestimmt, über alle Verschiedenheit hinaus, die Modalität eine allgemeine und beharrliche Funktion der O e r t e r , die jeder Realisierung zu besondere Werten ihrer Stücke vorauszugehen kann. Damit ist die Modalität zur Topographie oder Terminologie der Synthesis geworden. Und immer steht hier die F o r m , die relatio ipsa, an der Stelle “Notwendigkeit”, verteilt sich die Materie so auf die Stelle “Möglichkeit” und “Wirklichkeit”, dass dabei die Unabhängige (S) der […] [dynamis], die Abhängige (P) aber dem aktualen Vollzug entspricht. Wir können also schliesslich die Formen der bisher “endlich” genannten Verbindungen: 3+4=7 für die Disjunktion, 6/2=3 für die hypothetische Relation, so deuten, dass sich in ihnen die beiden Seiten nur noch hinsichtlich ihrer Modalität unterscheiden (ohne dessalb etwa “identisch” zu sein), eine Bestimmung, die wieder genau der K a n t i s c h e n Auffassung entspricht, nach der die gestellte Aufgabe (Möglichkeit) noch nicht die Lösung (Wirklichkeit, Aktualen Vollzug) begrifflich involviert]». 27 Cfr. ivi, p. 55. 28 Ivi, p. 55. Cfr. tutto il brano, ivi, pp. 54-55: «Se innanzitutto quantità [il modo dell’infinità, in cui essa articola il suo oggetto] e relazione vanno insieme così strettamente che con la [relazione] ipotetica senz’altro sono date insieme integrale e serie ( e viceversa), che è data ugualmente senz’altra disgiunzione con la somma e i sommandi (e viceversa), questo ha il suo motivo nel fatto che la copula si aggiunge al termine come abbreviazione della relazione, per es. come segno di uguaglianza, però non come un terzo n u o v o momento rispetto ai primi due, per unirsi estensivamente ad essi – ma piuttosto ha il suo motivo nel fatto che essa come forma è lo stesso, dal punto di vista dell’ u n i t à , di ciò che essi erano, come m a t e r i a , dal punto di vista di una pluralità. E in questa stretta relazione reciproca vediamo il motivo per ciò che prima chiamammo l’equazione tra forma e contenuto o l’immanenza dell’oggetto e che tra l’altro non permise di esigere la conoscenza come riproduzione equivalente per es. di oggetti ateoretici, o di sentirne la mancanza [Wenn zunächst Quantität und Relation so eng zusammengehören, dass mit hypotetischer ohne weiteres Integral und Reihe gegeben sind (und umgekehrt); dass mit Summe und Summanden ebenso ohne weitere Disjunktion gegeben ist (und umgekehrt), so hat das seinen Grund darin, dass die

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Esperienza e compito infinito Copula als Abbreviatur der Relation, z. B. als Gleichheitszeichen, ja nicht wie ein drittes n e u e s Moment zu den beiden ersten, dem Terminus hinzutritt, um sich extensiv mit ihnen zu vereinigen – sondern dass sie als Form, unter dem Gesichtspunkt der E i n h e i t dasselbe ist, was jene, als M a t e r i e , unter dem Gesichtspunkt einer Mehrheit waren. Und in dieser engen Bezogenheit aufeinander sehen wir den Grund für das, was wir früher die Gleichung zwischen Form und Inhalt oder die Immanenz des Gegenstandes nannten und die es unter anderem nicht zuliess, Erkenntnis als äquivalente Reproduktion z. B. atheoretischer Gegenstände zu fordern oder zu vermissen]».

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant

Si tornerà sul significato di unità sistematica in Benjamin quando si sarà chiarito il significato del nuovo concetto di esperienza (Erfahrung) che egli vuole fondare collegandosi al sistema kantiano. Per fondare questo nuovo concetto, egli vede la necessità di una critica della concezione kantiana dell’esperienza e, come si vedrà, della sua concezione della conoscenza. Infatti «l’ostacolo più importante che si oppone al programma di collegare a Kant una filosofia veramente consapevole del tempo e dell’eternità», cioè del proprio tempo e del proprio ruolo redentivo nel procedere nella direzione di una coincidenza futura tra filosofia e dottrina, è che «quella realtà (Wirklichkeit) di cui e con cui egli volle fondare la conoscenza sulla verità e sulla certezza, è una realtà di ordine inferiore, forse infimo»1. Quella realtà la cui certezza e verità (come accordo con l’oggetto) Kant aveva voluto fondare su concetti a priori era una realtà di ordine inferiore perché il suo concetto di esperienza aveva «la sua caratteristica principale nel suo rapporto non solo con la coscienza pura, ma anche e insieme con quella empirica»2 . Benjamin si pone il problema di quale debba essere l’oggetto di una teoria della conoscenza, e di quale fu l’oggetto della teoria kantiana della conoscenza, e distingue in essa il problema della conoscenza da quello dell’esperienza. A suo avviso «il problema della teoria della conoscenza (Erkenntnistheorie) kantiana – e di ogni grande teoria della conoscenza in genere – ha due lati, e solo di uno Kant potè dare una spiegazione valida»3: il primo di questi è la questione «della certezza della conoscenza che rimane»4, la questione cioè della deduzione di quei concetti puri a priori dell’intelletto che sono per Kant il solo nostro modo di conoscere gli oggetti. Di questi concetti Kant avrebbe dato una spiegazione valida e compiuta nella Logica trascendentale. Il secondo lato della questione è «il problema della dignità di un’esperienza»5 come percezione della realtà fenomenica a cui queste forme si rivolgono. Per Benjamin l’interesse filosofico universale è sempre volto  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

«alla validità atemporale della conoscenza», come determinazione dei suoi concetti a priori, in cui non entra in questione la temporalità come condizione di tutti i fenomeni, e alla «certezza di un’esperienza temporale, che costituisce il suo oggetto più prossimo, se non l’unico»6. Si tratta nella prospettiva benjaminiana della determinazione della certezza di un’esperienza come concezione della natura e della realtà fondata su principi a priori, che devono darle certezza proprio perchè non empirici, dove essa si prospetta e si prospetterà sempre come condizionata temporalmente. L’esperienza temporale di Kant appare a Benjamin connotata empiricamente: dicendo che essa in lui «era transitoria (vergänglich)»7 egli intende dire che l’esperienza dopo Kant, nella filosofia futura, non dovrà essere transitoria, ma caratterizzata da una temporalità “messianica”8 che non dovrà essere più forma dell’intuizione sensibile, ma, come si vedrà, di una percezione simbolica. Nel concepire l’esperienza nelle sue condizioni universali, date a priori, di possibilità, nella sua interpretazione come «struttura della conoscenza della natura»9 (la natura è per Kant l’intero oggetto di tutta l’esperienza possibile10), secondo Benjamin Kant non aveva avuto coscienza del fatto – come tutti gli altri filosofi si erano occupati della certezza dell’esperienza temporale – che quell’esperienza temporale che si trovava di fronte era «nel suo complesso (in ihrer gesamten Struktur) […] un’esperienza temporale determinata, singolare (singulär zeitliche)»11, un’esperienza particolare che si dava nell’intuizione sensibile e nelle sue forme (lo spazio e il tempo): Anche se Kant – soprattutto nei Prolegomeni12 – ha voluto trarre i principî dell’esperienza dalle scienze, e specialmente dalla fisica matematica13, tuttavia in un primo tempo, e anche nella Critica della ragion pura, per lui l’esperienza stessa non si identificava semplicemente e incondizionatamente con il complesso di oggetti trattati da quella scienza; e persino se essa avesse già assunto in Kant quella forma che le avrebbero dato i pensatori neokantiani14, persino se il concetto di esperienza fosse stato così definito e determinato, sarebbe sempre rimasto il vecchio concetto di esperienza, che ha la sua caratteristica principale nel suo rapporto non solo con la coscienza pura, ma anche e insieme con quella empirica15.

Per Benjamin la concezione dell’esperienza, come visione del mondo e orizzonte culturale, che Kant aveva di fronte era l’«idea dell’esperienza nuda, primitiva e ovvia (die Vorstellung von der nackten primitiven und selbstverständlichen Erfahrung), che apparve a Kant come l’u www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant

nica data, anzi l’unica possibile – a Kant che condivideva in qualche modo l’orizzonte mentale del suo tempo»16. Essa era l’esperienza come struttura a priori della natura fondata su principi fisico-matematici ma anche come intuizione empirica, come «esperienza singolare, temporalmente limitata»17. Al di là di questa forma singolare, dice Benjamin, «che essa condivide in certo modo con ogni esperienza»18 (anche con un’esperienza non legata all’intuizione sensibile), «quest’esperienza, che si potrebbe anche chiamare, in senso pregnante, Weltanschauung, era quella dell’illuminismo»19, della sua visione scientifica e meccanica del mondo, fondata su leggi fisico-matematiche e connotata empiricamente, propria anche di tutta l’epoca moderna (e poi anche del neokantismo, che ne avrebbe portato a estremo sviluppo il lato meccanico20). Per Benjamin quella dell’illuminismo era «una delle esperienze o intuizioni (Anschauungen) del mondo situate più in basso»21, per quanto riguardava il suo livello di spiritualità, ed era caratterizzata da uno scarso rapporto con il divino: Ma nei tratti che sono fondamentali in questo contesto [l’esperienza dell’illuminismo] […] non fu troppo diversa da quella degli altri secoli dell’età moderna. Fu una delle esperienze o intuizioni del mondo situate più in basso. Che Kant abbia potuto affrontare la sua opera immensa proprio sotto la costellazione dell’illuminismo, significa che essa fu intrapresa a confronto con un’esperienza ridotta in certo modo al punto zero, al significato minimo22.

La grandezza del tentativo teoretico di Kant (e anche la sua grande libertà di movimento) appare a Benjamin proprio dovuto al fatto che egli si sia trovato di fronte una visione dell’esperienza esclusivamente scientifica e connotata empiricamente, priva di significato e autorità religiosi, e il radicalismo del suo intervento è stato a suo avviso proprio quello di confrontarsi con essa e di affrontare l’enorme e duro compito gnoseologico (erkenntnis-theoretische Aufgabe) di darle un significato nella ricerca della sua certezza, nel suo lavoro di deduzione dei suoi concetti a priori23, nella fondazione di una teoria della conoscenza: Anzi si può dire che appunto la grandezza del suo tentativo, il radicalismo suo proprio ebbe come presupposto un’esperienza il cui valore intrinseco si avvicinava allo zero, e che avrebbe potuto acquistare un suo significato (un triste significato, potremmo dire) solo grazie alla sua certezza. Nessun filosofo prekantiano aveva affrontato in questa maniera il compito gnoseologico (erkenntnis-theoretische Aufgabe), nessuno – è vero – aveva neanche avuto pari libertà d’intervento, poiché un’esperienza che aveva la sua quin-

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tessenza, il meglio in una certa fisica newtoniana, poteva essere trattata con tirannica durezza senza soffrirne24.

Per l’illuminismo infatti «non c’erano autorità – non nel senso di istanze a cui ubbidire acriticamente, ma di forze spirituali che avrebbero potuto dare all’esperienza un grande contenuto»25. Si trattava per Benjamin di un «concetto di esperienza inferiore», in cui l’esperienza aveva un livello basso e uno «scarso peso metafisico», e questo concetto aveva influenzato e limitato il pensiero kantiano: la «cecità religiosa e storica dell’illuminismo»26, la sua mancanza di forze spirituali religiose e storiche (forze che erano invece presenti nel primo romanticismo) era propria a suo avviso di tutta l’età moderna, l’età delle grandi teorie e scoperte scientifiche. L’esperienza che Benjamin vuole fondare deve invece essere caratterizzata da una dimensione spirituale religiosa e storico-messianica. Benjamin distingue tra due diversi livelli della concezione dell’esperienza in Kant. Il primo è la concezione dell’esperienza come conoscenza aprioristica fisico-matematica della natura. Il secondo è la concezione dell’esperienza come sintesi dell’intuizione sensibile spazio-temporale, che Kant avrebbe legato al primo nel porre come necessario per la conoscenza della natura il rapporto delle categorie con le forme spazio-temporali e con il loro contenuto sensibile. Per Kant la conoscenza teoretica di un oggetto di natura «comprende due punti: in primo luogo, un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria), e, in secondo luogo, l’intuizione, in cui esso è dato»27 e «senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato»28. La sensibilità riceve nell’essere modificata da un oggetto il molteplice della materia delle sensazioni e lo organizza in un’intuizione tramite le forme pure dell’intuizione sensibile, lo spazio e il tempo; i concetti dell’intelletto poi unificano il molteplice dell’intuizione in una conoscenza nell’unità sintetica dell’appercezione. Le categorie danno una conoscenza dell’oggetto soltanto se hanno la possibilità di essere applicate, tramite le forme pure dell’intuizione, a una intuizione empirica, «esse cioè servono solo alla possibilità della conoscenza empirica […] [che] si chiama esperienza»29: solo un’esperienza possibile può dar loro senso e significato. In Kant la possibilità dell’esperienza è ciò che conferisce realtà obiettiva alle nostre conoscenze, ma «l’esperienza poggia sull’unità sintetica dei fenomeni, cioè su una sintesi, secondo concetti, dell’oggetto dei fenomeni in generale, senza la quale non sarebbe mai conoscenza, ma una rapsodia di percezioni»30: essa ha dunque a suo fondamento  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant

«princìpi della sua forma a priori, cioè regole universali dell’unità della sintesi dei fenomeni»31 – regole la cui realtà deve essere sempre provata poi nell’esperienza (come sintesi empirica) – come condizioni necessarie di essa, della sua possibilità. L’esperienza come sintesi di intuizioni date nella sensibilità, «come sintesi empirica, è nella sua possibilità, l’unico modo di conoscenza che dia realtà ad ogni altra sintesi»32 e, «come conoscenza a priori, possiede anche la verità (accordo con l’oggetto), solo in quanto non contiene se non ciò che è necessario all’unità sintetica dell’esperienza in generale»33, in quanto sottostà «alle condizioni necessarie del molteplice dell’intuizione in una esperienza possibile»34. Nel frammento Sulla percezione35 contemporaneo al saggio Sul programma della filosofia futura, Benjamin critica la concezione gnoseologica che Kant ha della struttura dell’esperienza come «struttura della conoscenza della natura»36, fondata sui concetti a priori dell’intelletto, ma riferita all’intuizione sensibile. Egli critica la divisione che Kant determina tra categorie e forme dell’intuizione, tra Estetica e Logica trascendentale. Mentre esalta e intende mantenere nella filosofia futura, come una delle determinazioni più alte della conoscenza, il sistema delle categorie di Kant, critica il fatto che Kant abbia reso dipendente l’uso delle categorie, per la conoscenza della natura come oggetto d’esperienza, dalle forme pure dell’intuizione, lo spazio e il tempo, e dal loro contenuto sensibile, la «materia delle sensazioni»37, in quanto «nessi determinati spazio-temporali»38. Proprio su questa determinazione di dipendenza delle categorie dall’intuizione sensibile, come determinazione del loro uso immanente nell’applicazione esclusiva all’esperienza possibile, si fonda secondo Benjamin il contrasto di Kant con la metafisica. Infatti nel chiedersi se la metafisica sia possibile come scienza, Kant si pone a suo avviso di fronte almeno tre significati del termine metafisica, uno solo dei quali accetta, mentre rifiuta gli altri due: dei due significati che rifiuta, il primo consiste nella concezione dell’«applicazione illimitata delle categorie», cioè nel loro uso trascendente, al di là dell’esperienza possibile, e il secondo nella concezione della «deducibilità del mondo dal principio o nesso supremo di conoscenza, in altre parole il concetto della conoscenza speculativa nel senso pregnante della parola»39, della deducibilità della conoscenza della natura, nella sua totalità e completezza, esclusivamente dai principi a priori dell’intelletto e della ragione, senza riferimento ad un’esperienza possibile. L’accezione di metafisica che invece Kant accetta è quella di una «metafisica della natura»40, vista da Benjamin come «conoscenza pura della natura»41 e scienza  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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pura della natura42. Secondo Benjamin Kant ha infatti concepito una «metafisica della natura, e ha trattato in essa quella parte della scienza della natura che è pura, cioè che non proviene dall’esperienza ma semplicemente dalla ragione a priori, nel determinarsi della conoscenza come sistema della natura»43: è il sistema dei principi a priori e delle leggi cui si deve uniformare la natura44, la cui unità e disposizione sistematica, per avere una conoscenza organica ed unitaria della natura stessa, Kant cerca nelle idee della ragione nel loro uso regolativo45. La metafisica della natura di Kant ricerca per Benjamin ciò che appartiene a priori al «concetto dell’esistenza (Dasein) di una cosa (Ding) in genere o di una cosa particolare»46, come oggetto della natura, e in questo senso «la metafisica della natura sarebbe da designare su per giù come costituzione aprioristica degli oggetti di natura (Naturdinge) sulla base delle determinazioni della conoscenza in genere»47. Ora Benjamin è convinto che proprio questo concetto di metafisica (di cui non considera – in Kant – il lato applicativo della fisiologia razionale48) avrebbe potuto facilmente condurre in Kant a una fatale coincidenza di questo concetto con il concetto dell’esperienza che egli individua in lui, come scienza pura della natura, come insieme di leggi universali e date a priori cui è soggetta la natura come insieme di tutti gli oggetti dell’esperienza49. Questo concetto di esperienza, un concetto scientifico, meccanico, fondato sulle leggi fisiche universali della natura e distinto dalla esperienza particolare legata alla sensibilità, a cui pure è riferita, è ritenuta da Benjamin, pur nella sua apriorità, una concezione caratterizzata da un basso livello spirituale e religioso. Egli pensa che Kant fosse cosciente di questo livello spirituale dell’esperienza meccanica e avesse voluto per questo motivo distinguere e dividere «metafisica e esperienza, cioè secondo la terminologia di Kant conoscenza pura e esperienza»50. Perciò Kant avrebbe collegato secondo Benjamin la metafisica della natura, nelle sue determinazioni categoriali, alle forme dello spazio e del tempo come «concetti di ordine in essa», per l’applicazione delle categorie all’intuizione sensibile, e avrebbe prospettato la necessità di «un qualche fundus a posteriori della possibilità dell’esperienza»51, di un contenuto empirico dell’intuizione sensibile per la conoscenza della natura. Contemporaneamente avrebbe reso queste forme pure dell’intuizione determinazioni totalmente divise dalle categorie, per garantire la completa estraneità di queste ultime rispetto alla sensibilità e all’empiria, per garantire la «certezza della conoscenza della natura»52:

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant Si dette come espressione della divisione delle forme dell’intuizione dalle categorie la cosiddetta “materia delle sensazioni”, che sarebbe stata, per così dire, tenuta lontana artificialmente dal centro vivificante del nesso categoriale dalle forme dell’intuizione in cui sarebbe stata assorbita in modo incompleto53.

Si evitava infatti così nella teoria della conoscenza di Kant un nesso unitario tra forme pure dell’intuizione e categorie, un «nesso gnoseologico unitario (ein einheitliches erkenntnistheoretisches Zentrum) la cui forza gravitazionale troppo potente avrebbe potuto portare con sé tutta l’esperienza»54, nel riferire l’esperienza della natura (come conoscenza di essa) soltanto alla conoscenza pura. In questo modo veniva mantenuto in Kant il nesso tra conoscenza pura ed esperienza della natura (perchè la natura veniva comunque conosciuta nelle forme categoriali), ma non la continuità. Benjamin attribuisce in parte questa determinazione di Kant della divisione tra forme dell’intuizione e categorie e della loro dipendenza reciproca al timore di quest’ultimo degli eccessi possibili di un uso dell’intelletto che non fosse legato all’intuizione sensibile, in parte alla volontà da parte sua di salvaguardare la «particolarità della conoscenza etica»55, come conoscenza pura che non doveva assolutamente essere determinata da leggi meccaniche (né da principi empirici), e che quindi doveva essere tenuta lontana dall’ambito della conoscenza teoretica della natura condizionata da leggi fisicomatematiche, e distinta da essa. Il motivo, però, che determina a suo avviso questa scelta in Kant, e che è contemporaneamente componente principale e risultato dei motivi precedenti, è il rifiuto di quello che Benjamin definisce in lui come il terzo concetto della metafisica: «il concetto della deducibilità del mondo dal principio o nesso supremo di conoscenza, in altre parole della conoscenza speculativa nel senso pregnante della parola»56, il rifiuto della deduzione della natura stessa dai concetti a priori dell’intelletto riferiti alle idee della ragione come principi della totalità della sintesi delle condizioni57. Benjamin si spiega questo rifiuto del concetto di una conoscenza speculativa in Kant con il fatto, sopra accennato, che il concetto kantiano di esperienza, come visione della realtà propria del suo tempo, come «Weltanschauung […] dell’illuminismo»58, era percepito come un concetto di scarso valore spirituale. Esso non aveva più la pienezza del concetto di esperienza dei filosofi precedenti, che lo concepivano in una dimensione religiosa: era il «concetto dell’esperienza scientifica»59, la visione e percezione del mondo, proprio di Kant e dell’illuminismo, di una natura soggetta a leggi tratte dalle scienze fisico-matematiche,  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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una natura dominata dalla necessità meccanica del nesso causa-effetto. Kant cercò a suo avviso di tenere a distanza questo concetto dell’esperienza scientifica dalla parentela con il «concetto volgare di esperienza»60, con il concetto empirico legato alla sensibilità. Non riuscì però in pieno a tenerli divisi, poichè il riferimento all’empiria apparteneva in qualche modo al concetto dell’esperienza scientifica illuminista e perché c’era il rischio di incorrere nel terzo concetto della metafisica, il concetto della deducibilità del mondo dal principio supremo della cooscenza. Egli avrebbe perciò tenuto a distanza il concetto di questa esperienza scientifica dal «centro del nesso conoscitivo», dal nesso categoriale, con la «dottrina dell’apriorità di entrambe le forme dell’intuizione, […] in contrasto con l’apriorità delle categorie»61. Con questo avrebbe dato all’esperienza scientifica come conoscenza fisicomatematica una determinazione in fondo negativa, distinguendola tramite le forme pure dell’intuizione sia dalla dimensione empirica dell’esperienza, sia del centro gnoseologico delle categorie, quindi dal centro della conoscenza pura. Kant avrebbe avuto infatti paura che questo centro categoriale potesse comprendere in sé tutta l’esperienza meccanica. Con ciò veniva mantenuto il nesso, ma non la continuità tra conoscenza pura ed esperienza. Proprio la dottrina delle forme pure dell’intuizione, come dottrina di forme a priori che si devono però riferire alla dimensione empirica, è per Benjamin il modo in cui Kant si oppose alla conoscenza speculativa: «il ragionamento dell’estetica trascendentale è veramente l’obiezione che si oppone ad ogni trasformazione dell’idealismo trascendentale dell’esperienza in un idealismo speculativo»62, che si oppone cioè alla pretesa della deduzione dell’esperienza (come contenuto della conoscenza della natura) direttamente dai concetti a priori dell’intelletto. Questa è la pretesa di una «metafisica speculativa, che concepisce […] il complesso (Inbegriff) della conoscenza in modo deduttivo»63. Benjamin si pone la domanda di perchè Kant rifiuti questa idea di una metafisica speculativa, di un pensiero speculativo che «deduce tutta la conoscenza dai suoi princìpi»64, e considera questa domanda tanto più autorizzata perché si trova di fronte il tentativo neokantiano, soprattutto di Hermann Cohen, di eliminare la rigorosa differenza tra forme dell’intuizione e categorie, per ricondurre anche le forme dello spazio e del tempo alla logica trascendentale ed eliminare il rapporto con la dimensione empirica della sensazione65. Questo sembra portare alla «trasformazione della filosofia trascendentale dell’esperienza in una filosofia trascendentale ma speculativa»66, che  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant

non riferisce più i concetti a priori dell’intelletto a un’esperienza possibile, ma deriva tutta la conoscenza da questi concetti nel loro uso trascendentale67, al di là di questa esperienza. Benjamin attribuisce all’esperienza dell’illuminismo, come concezione del mondo scientifica in cui era centrale il concetto della «contingenza (Zufälligkeit)»68 del mondo, un valore spirituale particolarmente basso, che Kant avrebbe avvertito. Per questo motivo, a suo avviso, Kant non avrebbe avuto interesse a salvare («Rettung»69) questa esperienza per il concetto di conoscenza derivandola dalla conoscenza stessa, egli non avrebbe voluto far derivare questa esperienza del mondo vuota di significato spirituale dalla conoscenza pura. In questo rifiuto agisce secondo Benjamin una confusione che avrebbe portato prima di Kant alla metafisica speculativa, cioè a voler dedurre l’esperienza dalla conoscenza, quei filosofi che avevano una percezione e un’esperienza spirituali del mondo: tra questi Spinoza, ma non per questa confusione. Questa avrebbe portato invece Kant a rifiutare questa deduzione: la confusione era tra il «concetto immediato e naturale di esperienza», l’intuizione sensibile, l’esperienza particolare, temporale e singola di cui Benjamin parla in Sul programma della filosofia futura, e il «concetto di esperienza del nesso di conoscenza»70, che è invece un nesso conoscitivo. Si tratta della confusione tra «esperienza e conoscenza dell’esperienza»71. Ora, nel concetto della conoscenza dell’esperienza, l’esperienza è per Benjamin sempre conoscenza, è la conoscenza stessa in un’altra forma: «l’esperienza come oggetto della conoscenza è la varietà unitaria e continua della conoscenza»72, è il nesso unitario della conoscenza pura, la dimensione della totalità e continuità dei suoi principi. Come dirà in Sul programma della filosofia futura, l’«esperienza è la molteplicità unitaria e continua della conoscenza»73. Per Benjamin l’esperienza, nel modo in cui, come si vedrà, egli la concepirà nel saggio Sul programma della filosofia futura, come dimensione non empirica ma spirituale, come concezione del mondo, è «il simbolo di questo nesso conoscitivo»74. In quanto simbolo questa esperienza si trova in un “ordine” concettuale diverso rispetto a quell’altro “ordine” che è dato dalla conoscenza dell’esperienza, in una dimensione non conoscitiva ma percettiva, propria di un’esperienza che non è sensibile ma spirituale75. Questo simbolo rappresenta una dimensione più alta e divina dell’esperienza, come immagine percettiva76 dell’unità continua della conoscenza pura, come rappresentazione dell’idea o delle idee metafisiche (le idee psicologiche e cosmologiche e l’idea teologica), che in Kant unificano  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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non costitutivamente ma regolativamente la conoscenza della natura in un sistema77. Benjamin sviluppa in questo periodo, in frammenti contemporanei al progetto Sul programma della filosofia futura, una concezione della percezione come livello non sensibile ma spirituale dell’esperienza: la percezione diventa in lui il simbolo esibitivo di un’idea78. Questa esperienza, che Benjamin concepisce dunque come «simbolo dell’unità della conoscenza»79, come visione del mondo che rappresenta un nesso conoscitivo, era prima di Kant, a suo avviso, un simbolo alto e spirituale, e perciò si cercava di dedurla nella conoscenza, era un’esperienza piena di senso del divino, religiosa, che si rappresentava simbolicamente Dio come centro unitario di ogni conoscenza, quindi era vista come esperienza degna di essere dedotta. All’epoca di Kant invece l’esperienza aveva perso il rapporto con la dimensione divina e si rappresentava il mondo come regolato e governato da leggi meccaniche ed esperibile in parte nella dimensione dell’empiria: essa era il simbolo dell’unità della conoscenza scientifica. Kant, che non riconosceva la differenza in generale tra questo simbolo dell’unità conoscitiva, l’“esperienza”, e la “conoscenza dell’esperienza” come nesso della conoscenza, credeva che si fosse voluta dedurre fino a quel momento, dalla conoscenza e come conoscenza, un’esperienza bassa come quella che si trovava di fronte nell’orizzonte dell’illuminismo, l’esperienza scientifica. Egli quindi rifiutò per essa e per l’esperienza in generale la deduzione nella conoscenza e la divise, pur mantenendo la connessione con essa (nei suoi principi a priori), dalla conoscenza pura. Benjamin vede l’interesse filosofico illuministico concentrarsi più sulla «contingenza» e «indeducibilità» che sulla «necessità» del mondo, perchè l’illuminismo si trovava di fronte un’esperienza vuota e bassa, esclusivamente scientifica e connotata empiricamente, e si era ormai perso l’interesse per la «deducibilità del mondo»80 e per la «salvezza di […] [quell’]esperienza per il concetto di conoscenza»81, per la sua deducibilità dalla conoscenza. Kant, come i suoi precedessori, non distinse secondo Benjamin tra l’“esperienza” e la “conoscenza dell’esperienza”, la sola deducibile: per questo di fronte all’esperienza vuota ed «empia»82 (gottlos) dell’illuminismo, l’esperienza scientifica, credendo che proprio questa fosse la realtà che si era voluta dedurre nella conoscenza fino ad allora, «dichiarò la non deducibilità dell’esperienza nella conoscenza»83, rifiutò la deducibilità dell’esperienza della natura dalla conoscenza (scienza) pura della natura, nell’ottica di Benjamin dalla “metafisica della natura”84.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant

Benjamin vede invece la possibilità di una derivazione dell’esperienza dalla conoscenza concependo l’esperienza come conoscenza dell’esperienza e quindi come sistema della conoscenza pura, come nesso conoscitivo di cui l’esperienza spirituale e non empirica (come simbolo divino della sua unità) sarebbe esibizione concreta. Per lui la questione fondamentale, nella determinazione semantica del concetto di “esperienza”, consiste nel rapporto tra il significato che questo concetto ha nell’espressione “conoscenza dell’esperienza” e il significato che esso ha nel semplice concetto “esperienza”: egli considera l’«esperienza che noi esperiamo nell’esperienza la stessa, identica, che noi conosciamo nella conoscenza dell’esperienza»85, quindi considera ciò che noi percepiamo nell’esperienza il simbolo percettivo dell’unità molteplice, nella sua continuità, della conoscenza pura della natura e del mondo in un sistema. Si tratta in entrambi i casi dello stesso contenuto puro della conoscenza, che viene esperito nell’esperienza e dedotto nella conoscenza86. Egli si chiede dove si fondi «l’identità dell’esperienza in entrambi i casi e dove […] in entrambi i casi la differenza del comportamento nei suoi confronti, poiché essa nell’esperienza è esperita, nella conoscenza è dedotta»87. L’identità, lo si vedrà meglio più avanti, risiede nella concezione della conoscenza e dell’esperienza (come unità sistematica della conoscenza stessa e sua esibizione simbolica in un ordine più alto, che coincide – come esperienza assoluta – con tutta la filosofia e con la dottrina) come linguaggio: La filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso simbolico sistematico come lingua (Sprache). L’esperienza assoluta, per la concezione (Anschauung) della filosofia, è lingua; lingua però concepita come concetto simbolico sistematico. Essa si specifica in modi del linguaggio (Spracharten), uno dei quali è la percezione (Wahrnehmung); le dottrine della percezione così come di tutti i fenomeni immediati (unmittelbare Erscheinungen) dell’esperienza assoluta appartengono alle scienze filosofiche in senso lato. Tutta la filosofia comprese le scienze filosofiche è dottrina88.

Note 1

Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 158; trad. it. cit., p. 214. Ivi, p. 158; trad. it. cit., p. 215. 3 Ivi, p. 158; trad. it. cit., p. 214 (traduzione modificata). 4 Ibid. 5 Ibid.

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Ivi, p. 158; trad. it. cit., p. 215. Ibid. 8 Per la concezione della temporalità “messianica” dell’esperienza e della conoscenza, in cui è centrale l’“ora della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit)” e la “limitazione (Einschränkung) della conoscenza nel simbolo” in Benjamin cfr. il frammento 25, Erkenntnistheorie, in GS, VI, pp. 45-46 (1920-21), a cui si è fatto già riferimento. Nella Jetzt der Erkennbarkeit, come momento della temporalità messianica e della redenzione immanente nell’ambito della conoscenza e del pensiero, si prepara lo “stato perfetto” della conoscenza metafisica come rapporto sistematico e simbolico tra concetti e idee, la verità, “lo stato del mondo compiuto”: nell’ora della conoscibilità, in cui la verità è nesso concettuale e sistematico, i fenomeni entrano frammentati e diventano concetti simbolici che esibiscono le idee. Nell’ambito etico, a questo stato di redenzione del pensiero corrisponde il mondo della libertà, il regno messianico. 9 Über die Wahrnehmung (1917), in GS, VI, p. 33, frammento 19. 10 Cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 16, pp. 50-51; trad. it. cit., p. 53: «Natura, quindi considerata materialiter, è l’insieme di tutti gli oggetti dell’esperienza. Soltanto con l’esperienza noi abbiamo a che fare, poiché altrimenti cose che non possono mai essere oggetti di un’esperienza, se dovessero essere conosciute secondo la loro natura, ci costringerebbero a concetti il cui significato non potrebbe mai essere dato in concreto (in qualche esempio di una esperienza possibile). Sarebbe iperfisica la conoscenza di ciò che non può essere un oggetto dell’esperienza e noi qui non dobbiamo affatto occuparci di tale conoscenza, bensì di quella conoscenza naturale, la cui realtà può essere confermata dall’esperienza, sebbene sia possibile a priori e preceda l’esperienza». 11 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 158; trad. it. cit., p. 215. 12 Non ci sono prove che Benjamin avesse effettivamente letto i Prolegomeni, ma proprio questa osservazione e altre più avanti nel testo fanno pensare che li conoscesse. Comunque aveva avuto discussioni su questo testo di Kant nel 1917 con Scholem, che lo stava studiando a Jena (cfr. G. Scholem, Walter Benjamin - die Geschichte einer Freundschaft, cit., p. 65; trad. it. cit., p. 82). 13 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 62-63: «In lui [Kant] si trattò piuttosto di tentare una metafisica come scienza. La filosofia aveva bisogno prima di tutto – e precisamente in primo luogo con questa intenzione propedeutica – di una scienza particolare, che avesse la possibilità di determinare a priori la possibilità, i principi e l’ambito della conoscenza in genere. Questa nuova scienza era quindi la critica della ragion pura. Come punto di partenza e di appoggio le si presentò, per quanto riguardava la sua forma, la fisica teoretica a priori, compresi i concetti matematico-quantitativi immanenti in essa, come un complesso e un tipo di giudizi necessari e universali e necessariamenti collegati a un oggetto, quindi sintetici [Ihm galt es vielmehr, eine Metaphysik als Wissenschaft zu versuchen. Es bedurfte also vor allem die Philosophie – und zwar zunächts nur in dieser propädeutischen Absicht – einer besonderen Wissenschaft, welche die Möglichkeit, die Prinzipien und den Umfang, von Erkenntnis überhaupt apriori zu bestimmen hatte. Diese neue Wissenschaft war dann die Kritik der reinen Vernunft. Als Anfang- und Anhaltspunkt bot sich ihr die hinsichtlich ihrer Form apriorische theoretische Physik einschliesslich der ihr immanenten mathematisch-quantitativen Begriffe dar, als ein Inbegriff und Typus notwendiger und allgemeingültiger und auf einen Gegenstand notwendig bezogner, d. h. synthetischer Urteile]». 14 Benjamin vede l’esperienza di Kant assumere, nei pensatori neokantiani (soprattutto in Hermann Cohen, suo punto di riferimento nella critica all’esperienza di Kant),

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant la forma di un’esperienza trascendentalizzata, apriorizzata, come conoscenza della natura scientifica, come “fatto” della scienza a partire dal quale il metodo trascendentale deve risalire ai suoi principi a priori; in questa esperienza egli rintraccia tuttavia ancora un legame con la sensibilità. Sulla apriorizzazione dell’esperienza in Cohen cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, p. 131 ss., in part. p. 133. Come si è già visto, di Cohen Benjamin avrebbe letto Kants Theorie der Erfahrung solo nell’estate del 1918, ma è molto probabile che conoscesse il testo già in parte, o almeno le sue linee portanti, e che conoscesse in parte anche la Logik, che avrebbe ordinato nel febbraio del 1918 insieme agli altri volumi del System der Philosophie (cfr. Benjamin a G. Scholem, 10-II-1918, in GB I, p. 429). Cfr. a proposito della lettura benjaminiana di Kants Theorie der Erfahrung P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., pp. 370-371: «non pare […] del tutto credibile che l’atteggiamento con il quale Benjamin nell’estate del 1918 si accostò a Kants Theorie der Erfahrung fosse così ingenuo come Scholem sembra implicitamente voler far credere» . 15 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 158; trad. it. cit., p. 215. 16 Ibid.(traduzione modificata). 17 Ibid. 18 Ibid. 19 Ivi, pp. 158-159; trad. it. cit., p. 215. 20 Cfr. ivi, pp. 164-165; trad. it. cit., p. 221: «Ma la correzione neokantiana di uno dei pensieri metafisicizzanti di Kant [la divisione tra forme dell’intuizione e categorie], e non di quello fondamentale, è stata accompagnata da un cambiamento del concetto di esperienza; che in un primo tempo consiste proprio – significativamente – nello sviluppo estremo del lato meccanico del concetto illuministico di esperienza, un concetto relativamente vuoto». 21 Ivi, p. 159; trad. it. cit., p. 215. 22 Ibid. 23 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 118, p. 126; trad. it. cit., p. 122: «Chiamo quindi d e d u z i o n e t r a s c e n d e n t a l e la spiegazione del modo in cui concetti a priori si possono riferire a oggetti, e la distinguo dalla d e d u z i o n e empirica», e cfr. ivi, B 166, p. 157; trad. it. cit., p. 157: «Questa [deduzione] è l’esposizione dei concetti puri dell’intelletto (e perciò di tutta la conoscenza teoretica a priori), come princìpi della possibilità dell’esperienza, ma di questa come d e t e r m i n a z i o n e dei fenomeni nello spazio e nel tempo i n g e n e r a l e ; e infine, di questa determinazione in virtù del principio dell’unità sintetica o r i g i n a r i a dell’appercezione, in quanto forma dell’intelletto in rapporto allo spazio e al tempo, forme originarie della sensibilità». 24 Ivi, p. 159; trad. it. cit., pp. 215-216. 25 Ivi, p. 159; trad. it. cit., p. 216. 26 Ibid. 27 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 146, p. 145; trad. it. cit., pp. 141-142. 28 Ivi, B 76, p. 98; trad. it. cit., p. 94. 29 Ivi, B 148, p. 146; trad. it. cit., p. 142. 30 Ivi, B 196, p. 200; trad. it. cit., p. 175. 31 Ibid. 32 Ivi, B 196-197, pp. 200-201; trad. it. cit., p. 176.

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Ivi, B 197, p. 201; trad. it., cit., p. 176. Ibid. 35 Über die Wahrnehmung (ottobre 1917), in GS, VI, pp. 33-38, frammento 19. Il testo è costituito da una prima parte, I. Erfahrung und Erkenntnis, che doveva essere seguita da una seconda parte, II. Erfahrung und Sprache, di cui i tre appunti alla fine del testo potrebbero essere un primo abbozzo (cfr. le Anmerkungen dei curatori a Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 657). 36 Ivi, p. 33. 37 Ivi, p. 34. 38 Ivi, p. 33. 39 Ivi, p. 35. 40 Ivi, p. 34. Per la definizione kantiana della “metafisica della natura” cfr. il cap. III della Dottrina trascendentale del metodo, L’architettonica della ragion pura, in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 869-870, pp. 695-696; trad. it. cit., pp. 635-636. Sull’unità sistematica delle conoscenze come compito della metafisica cfr. anche ivi, B 873, p. 704; trad. it. cit., p. 638: «Ogni conoscenza pura a priori, dunque, in virtù della speciale facoltà conoscitiva in cui essa può avere soltanto sua sede, costituisce una speciale unità, e la metafisica è quella filosofia, che deve esporre codesta conoscenza in tale unità sistematica». Cfr. anche I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, in Werke, Band VII, cit., p. 15; trad. it. cit., pp. 15-16: «È già stato dimostrato altrove [nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (1786)], che per la scienza della natura, la quale si occupa degli oggetti che cadono sotto il senso esterno, ci devono essere dei princìpi a priori, e che è possibile, anzi necessario, stabilire, sotto il nome di scienza metafisica della natura, un sistema di questi princìpi, prima di passare alla scienza che si fonda su esperienze particolari, vale a dire alla fisica. Ma quest’ultima può (almeno se desidera premunire le sue proposizioni contro l’errore) accettare come universali alcuni princìpi sulla testimonianza dell’esperienza, quantunque però questi princìpi, se debbono avere valore universale in senso stretto occorrerebbe che venissero derivati da princìpi a priori. Così Newton accettò come fondato sull’esperienza il principio dell’uguaglianza dell’azione e della reazione nell’influenza reciproca dei corpi, e ciononostante lo estese a tutta la natura materiale». 41 I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 17, p. 52; trad. it. cit., p. 54. 42 Sulla possibilità di una scienza pura della natura, cfr. ivi, § 14-39, pp. 49-87; trad. it. cit., pp. 51-89. 43 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 34. 44 Cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 36, p. 79; trad. it. cit., p. 82: «l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad essa». 45 Cfr. ivi, § 56, p. 115; trad. it. cit., p. 117: «Le idee trascendentali adunque esprimono quella destinazione che è propria della ragione, l’essere, cioè, un principio dell’unità sistematica dell’intelletto […] [per] portare l’esperienza in se stessa più vicina che sia possibile alla compiutezza». 46 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 34. Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § V, pp. 17-18; trad. it. cit., p. 17, dove Kant distingue tra concetto trascendentale e concetto metafisico e vede nell’ultimo un’applicazione a oggetti il cui concetto è dato empiricamente: «Un principio trascendentale è quel principio con il quale è rappresentata la condizione universale a priori sotto di cui, soltanto, le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Un principio si chiama invece metafisico, se esso

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant rappresenta la condizione a priori sotto di cui, soltanto, possono essere ulteriormente determinati a priori oggetti il cui concetto deve essere dato empiricamente. Così il principio della conoscenza dei corpi, in quanto sostanze e in quanto sostanze che mutano, è trascendentale, se con ciò si dice che il loro mutamento deve avere una causa; ma è metafisico, se con ciò si dice che il loro mutamento deve avere una causa e s t e r n a : perché nel primo caso, affinché la proposizione sia conosciuta a priori, il corpo può essere pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto), per esempio come sostanza; mentre nel secondo caso deve essere posto a fondamento della proposizione il concetto empirico di un corpo (come forma mobile nello spazio) e poi però può essere visto interamente a priori che al corpo spetta quest’ultimo predicato (del movimento solo mediante causa esterna)». Benjamin concepisce il concetto metafisico come concetto applicato a un contenuto non empirico. 47 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 34. 48 In Kant la metafisica della natura come «filosofia trascendentale studia soltanto l’intelletto e la ragione stessa in un sistema di tutti i concetti e princìpi che si riferiscono a oggetti in generale, senza assumere oggetti che sarebbero dati» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 873-874, pp. 704-705; trad. it. cit., p. 638), ma come fisiologia razionale «si rivolge alla natura, in quanto la sua conoscenza può applicarsi all’esperienza (in concreto)» (ivi, B 874, p. 705; trad. it. cit., p. 638). Come fisiologia trascendente, quindi come cosmologia razionale e teologia razionale, la metafisica della natura come metafisica nella sua parte speculativa si rivolge invece a quella «connessione degli oggetti dell’esperienza che trascende ogni esperienza» (ibid.). 49 Sulla possibilità di una scienza pura della natura e sulla natura come intero oggetto di tutta l’esperienza possibile soggetta a leggi a priori come condizioni universali della sua possibilità, cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 14-39, pp. 49-87; trad. it. cit., pp. 51-89. Cfr. in particolare, ivi, § 17, pp. 52-53; trad. it. cit., p. 55 «Noi dunque qui avrem da fare soltanto con l’esperienza e con le condizioni, universali e date a priori, della sua possibilità; e determineremo così la natura come l’intero oggetto di tutta l’esperienza possibile. […] non dunque come noi possiamo dalla natura imparar le leggi (con l’esperienza), poiché queste non sarebbero allora leggi a priori e non darebbero una scienza pura della natura; ma, come le condizioni a priori della possibilità dell’esperienza siano nel tempo stesso le fonti da cui devono esser dedotte tutte le leggi universali della natura». Cfr. anche ivi, § 23, pp. 62-63; trad. it. cit., p. 65: «Ora i princìpi della esperienza possibile sono nel tempo stesso leggi universali della natura che possono essere conosciute a priori. Ed è così risoluta la quistione posta con questa seconda domanda: Come è possibile una scienza pura della natura? Poiché devesi qui trovare tutto l’elemento sistematico che è richiesto per la forma di una scienza; ed infatti, oltre le dette condizioni formali di tutti i giudizi in generale, e quindi di tutte le regole in generale che la logica presenta, non ne sono possibili più; or queste regole costituiscono un sistema logico: i concetti, poi, fondati su di esse, i quali contengono le condizioni a priori di tutti i giudizi sintetici e necessari, appunto per questo costituiscono un sistema trascendentale; e finalmente i princìpi, per mezzo dei quali tutti i fenomeni sono subordinati a questi concetti, costituiscono un sistema fisiologico, cioè un sistema naturale, il quale precede ogni conoscenza empirica della natura, la rende anzi possibile, e quindi può essere chiamato la vera scienza universale e pura della natura». 50 Über die Wahrnehmung, GS, VI, p. 34. 51 Ibid. 52 Ibid.

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Esperienza e compito infinito 53

Ibid. Ibid. 55 Ivi, pp. 34-35. 56 Ivi, p. 35. 57 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 383, p. 384; trad. it. cit., p. 307: «Ora il concetto razionale trascendentale non si riferisce mai se non alla totalità assoluta della sintesi delle condizioni, e non finisce se non nell’incondizionato assolutamente e sotto ogni rapporto. […] [La ragion pura] si riserva soltanto la totalità assoluta nell’uso dei concetti dell’intelletto e cerca di portare l’unità sintetica, che è pensata nella categoria, fino all’assolutamente incondizionato». Sulle idee cosmologiche come principi della totalità assoluta della sintesi dei fenomeni e sull’ideale trascendentale come principio della sintesi delle condizioni di tutte le cose possibili in generale cfr. ivi, B 435, p. 401; trad. it. cit., 341: «Io chiamo tutte le idee trascendentali, in quanto concernono la totalità assoluta della sintesi dei fenomeni, c o n c e t t i c o s m o l o g i c i (Weltbegriffe): sia appunto a causa di questa totalità incondizionata, su cui si fonda il concetto dell’universo, che è esso stesso semplicemente un’idea; sia perché esse tendono unicamente alla sintesi dei fenomeni, quindi alla sintesi empirica, laddove la totalità assoluta della sintesi delle condizioni di tutte le cose possibili in generale darà luogo a un ideale della ragion pura, che è affatto distinto dal concetto di mondo, benché stia in relazione con esso. […] così l’antinomia della ragion pura ci farà vedere i princìpi trascendentali di una pretesa cosmologia pura (razionale) […] per esporla in tutta la sua abbagliante ma falsa apparenza, come un’idea che non è compatibile con i fenomeni». 58 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 158-159; trad. it. cit., p. 215. 59 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 35. 60 Ibid. 61 Ibid. 62 Ibid. 63 Ivi, p. 36. 64 Ibid. 65 Nella Logik e nella Kants Theorie der Erfahrung di Cohen il giudizio infinito come giudizio d’origine, operando con il numero infinitesimale come realtà infinitesimale, fonda “puramente” la realtà e lo stesso contenuto fisico della sensazione (cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1., p. 792; cfr. su questo F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p. 63). 66 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 36. 67 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 353, p. 319; trad. it. cit., p. 287. 68 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 36. 69 Ibid. 70 Ibid. 71 Ibid. 72 Ibid. 73 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, p. 168; trad. it. cit., p. 225. 74 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 36. 75 Adorno considera in questo senso Benjamin un pensatore non astratto, ma comunque non un pensatore dell’intuizione: per lui Benjamin si riferisce all’assoluto non «ricavandolo dal concetto, ma lo cerca nel contatto fisico con i contenuti. Tutto ciò

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18. La critica al concetto di esperienza di Kant contro cui sono solite irrigidirsi le norme dell’esperienza deve pervenire all’esperienza […], nella misura in cui essa si limita ad insistere sulla propria concrezione invece di vanificare questa sua parte universale assoggettandola allo schema dell’universale astratto» (Th. W. Adorno, Einleitung zu Benjamins Schriften, in Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1a ed. riveduta 1990, pp. 35-36; trad. it. Introduzione agli Scritti di Benjamin, in Th. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-68, Einaudi, Torino, 1976, pp. 244-245). Questi contenuti Benjamin li cerca secondo Adorno già nel progetto Sul programma della filosofia futura e li acquisisce alla filosofia «anche nel mezzo degli oggetti più sensoriali» (ivi, p. 36; trad. it. cit., p. 245) come esperienza spirituale concreta, in cui il particolare non nega il riferimento all’assoluto. Di fatto per Benjamin anche in questa concezione simbolica e concreta dello spirituale che si dà nell’esperienza, il concetto filosofico (e l’idea come connessione dei concetti) sono primarii e originarii, sono proprio ciò che viene simbolizzato nell’esperienza. La concezione del simbolo in Benjamin è legata, come si è già visto, alla concezione goethiana del fenomeno originario. 76 Forse si presenta già qui la dimensione dell’“allegoria” de Il dramma barocco tedesco e delle “immagini dialettiche” del Benjamin più tardo, dei saggi su Baudelaire e del Passagen-Werk, e infine della monade delle tesi Sul concetto di storia: queste strutture rimandano in un simbolo esperito in un frammento, in un oggetto particolare, ad un’intera visione del mondo e della storia e alludono alla sua possibilità di redenzione. A questa dimensione non è estranea la concezione cabbalistica che vede nei frammenti del reale, dopo la “rottura dei vasi”, i segni e i simboli della redenzione e della ricomposizione utopica dell’ordine divino e del regno messianico. Per un’indagine accurata del tema dell’ “immagine dialettica” cfr. M. Pezzella, L’immagine dialettica, ETS Filosofia e…, Pisa, 1982. 77 Cfr. I. Kant, Appendice alla dialettica trascendentale, Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura, in Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 670-697, pp. 563-582; trad. it. cit., pp. 503-521. 78 Cfr. a proposito W. Benjamin, Notizen zur Wahrnehmungsfrage (1917 ca.), in GS, VI, pp. 32-33, frammento 18. Qui non si parla di idee, ma della percezione come schema esibitivo di una significatività (Bedeutbarkeit), e ciò dà alla percezione un riferimento esplicito al linguaggio. 79 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 37. 80 Ibid. 81 Ivi, p. 36. 82 Ivi, p. 37. 83 Ibid. 84 Sulla metafisica della natura in Kant, che ha una parte trascendentale (che coincide con la scienza pura della natura) e una applicata (mentre per Benjamin si può avere applicazione solo a un contenuto non empirico) cfr. la voce Naturwissenschaft, in K. Eisler, Kantlexikon, cit., p. 383. 85 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 37. 86 Cfr. a proposito P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., p. 373, nota 58: «È quasi superfluo sottolineare che nella distinzione tra esperienza esperita ed esperienza conosciuta o dedotta si annunciava effettivamente un problema reale e centrale non solo per il concetto kantiano di esperienza, ma per il concetto di esperienza in generale. Sul fatto che l’oscillazione kantiana sull’uso di tale termine corrisponda ad un problema oggettivo relativo al concetto stesso di esperienza cfr. H. Holzhey, Kants Erfahrungsbegriff, Schwabe, Basel-Stuttgart, 1990

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Esperienza e compito infinito [trad. it. Il concetto kantiano di esperienza, presentazione di G. Gigliotti, traduzione di A. Ermanno, Le Lettere, Firenze, 1997]». 87 Über die Wahrnehmung, GS, VI, p. 37. 88 Ivi, p. 38.

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza sulla “tipica” del sistema kantiano

Benjamin vede come estremamente importante per la filosofia futura, che deve collegarsi al sistema kantiano e svilupparlo, il compito di «conoscere e sceverare gli elementi del sistema kantiano che devono essere adottati e coltivati, quelli che devono essere trasformati e infine quelli che devono essere respinti»1, così che essa possa sviluppare quegli elementi che più sono adatti a fondare una più alta concezione dell’esperienza, non più esclusivamente meccanica. Se la concezione dell’esperienza come si presenta in Kant va a suo avviso rifiutata, il suo sistema va preservato perchè esso, «nella ricerca elevatasi fino alla genialità della certezza e giustificazione della conoscenza, ha attinto e sviluppato quella profondità, che lo farà apparire adeguato a una forma ancora futura, nuova e superiore di esperienza»2. Esso, proprio nella critica trascendentale3 e nel volersi determinare come «sistema della ragion pura (scienza), [come] l’intera conoscenza filosofica (sia vera, sia apparente) derivante dalla ragion pura nella connessione sistematica»4, come metafisica della natura e dei costumi, ha raggiunto quel livello di “profondità” metafisica, che si esprime nei principi a priori della conoscenza della natura e dell’etica, che appare la base adeguata per la costruzione di un più alto e spirituale concetto di esperienza, che deve essere fondato «per mezzo della teoria della conoscenza»5: È così formulata la principale richiesta che poniamo alla filosofia presente, e insieme affermata la possibilità di soddisfarla: la richiesta di intraprendere, sulla base della tipica del pensiero kantiano, la fondazione di un concetto superiore di esperienza per mezzo della teoria della conoscenza (erkenntnistheoretische Fundierung)6.

Come si vedrà chiaramente più avanti, Benjamin parla di fondazione «per mezzo della teoria della conoscenza (erkenntnistheoretische Fundierung)» perché reputa necessario metodologicamente, per la fondazione di un’esperienza più alta, partire dalla teoria della conoscen www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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za, «come procede ogni filosofia in genere»7. Benjamin vuole partire da una revisione della teoria della conoscenza di Kant nel senso di una sua radicalizzazione e completa apriorizzazione, nella direzione già presa dal neokantismo, che aveva eliminato il riferimento alla sensazione, e di una ampliamento di essa in una nuova prospettiva che superi la visione esclusivamente meccanica kantiana e neokantiana. Per lui, secondo le conclusione a cui arriva nel Nachtrag del marzo 1918 «l’intera filosofia è […] teoria della conoscenza», «è solo e precisamente teoria, critica e dogmatica di ogni conoscenza» 8, è fondazione critica dei concetti puri della conoscenza in genere dei diversi ambiti del sistema della filosofia e determinazione del loro contenuto come «conoscenza pura [della ragione] in quanto scienza […] rigorosamente dimostrativa per sicuri principi a priori»9. Nella visione benjaminiana anche l’etica e l’estetica sono parte della conoscenza e hanno una parte critica e una parte metafisica o dogmatica, il cui rapporto sistematico (in quanto si instaura un rapporto – un compito infinito – tra una serie virtualmente infinita di concetti generali e particolari e un’idea guida) egli postula in analogia con il rapporto delle due parti che si offre nella dottrina della natura: L’intera filosofia si divide nella teoria della conoscenza e nella metafisica, o, per usare le parole di Kant in una parte critica e una dogmatica. Ma questa suddivisione – se considerata non nel contenuto che indica, ma nel suo principio – non possiede un valore di principio. Significa solo che ogni accertamento critico dei concetti della conoscenza e del concetto di conoscenza può costituire la base su cui costruire una dottrina di ciò il concetto della cui conoscenza è stato determinato in primissimo luogo sul piano critico. Forse non è possibile dire esattamente dove cessa il momento critico e inizia quello dogmatico, poiché il concetto di dogmatico si propone semplicemente di contrassegnare il passaggio dalla critica alla dottrina, da concetti fondamentali più generali a concetti fondamentali particolari. […] Entrambe le parti, quella critica e quella dogmatica, rientrano nell’ambito della filosofia. E […] poiché la parte dogmatica non coincide – poniamo – con le singole scienze, si pone naturalmente il problema del confine che separa la filosofia dalla scienza particolare. Ora il significato del termine «metafisica», così come è stato usato da noi, comporta che questo confine non sia presente; e la trasformazione dell’«esperienza» in una «metafisica» significa che nella parte metafisica o dogmatica della filosofia – in cui trapassa la parte suprema della teoria della conoscenza, ossia la parte critica – è virtualmente inclusa la cosiddetta esperienza. […] [Per il problema del] rapporto fra il momento critico e quello dogmatico nell’etica e nell’estetica […] ci limitiamo a postulare una soluzione nel senso sistematico di tipo analogo a quella che si offre nell’ambito della dottrina della natura10.

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza

Appare chiaro da queste parole, che si trovano nell’Aggiunta al termine del testo Sul programma della filosofia futura e servono per chiarire fin da ora il concetto di esperienza di Benjamin, che la filosofia che egli prospetta, concepita come teoria della conoscenza nei suoi due lati critico e dogmatico, coincide con il sistema della filosofia, il cui contenuto “puro” è già virtualmente in esso. Una simile teoria della conoscenza permette a Benjamin di fondare un concetto dell’esperienza come metafisica: l’esperienza coincide in pieno con la teoria della conoscenza comprensiva del suo contenuto puro, infatti l’«esperienza è la molteplicità unitaria e continua della conoscenza»11, è la conoscenza stessa in senso ampio nella sua continuità e unità, un’unità e continuità data dalle idee metafisiche (poiché le idee danno unità sistematica ai concetti in ogni ambito del sistema, e possono determinare un rapporto tra gli ambiti12), che Benjamin considera parte di ciò che va mantenuto del sistema kantiano. L’esperienza è anche, considerata nel suo lato percettivo, come si è visto, l’unità della conoscenza come simbolo: è quindi esibizione di quell’unità e continuità che ha a suo fondamento le idee (soprattutto l’idea teologica). L’unità e continuità della conoscenza presuppone anche una unità del sistema della filosofia, nei suoi diversi ambiti, che devono rimanere divisi, ma contemporanemente permettere quel passaggio che li mette in relazione. Si comprende allora perché Benjamin voglia fondare il suo concetto di esperienza “più alto” sulla “tipica” del sistema kantiano, cioè – nella sua interpretazione di questo termine – sull’intero sistema e sui suoi principi a priori, per mezzo di un concetto di conoscenza che si applica ai suoi tre ambiti. Egli concepisce infatti il sistema kantiano come triadico, diviso in logica o dottrina della natura, etica ed estetica, e non come in Kant nella metafisica della natura e nella metafisica dei costumi: in questo è influenzato dalla critica coheniana al Kant delle tre Critiche (e dal System der Philosophie di Cohen). Anche il concetto di conoscenza benjaminiano, per quanto in modo critico, fa riferimento al metodo trascendentale di Cohen, non più visto come esclusivamente legato al fatto della scienza, come tentativo di dare unità e continuità al sistema della filosofia come sistema di scienze unite dal metodo della purezza (il cui modello rimane quello delle scienze della natura). In questo senso egli è vicino allo sviluppo del metodo trascendentale coheniano intrapreso da Noeggerath, e alla sua concezione del sistema della filosofia e della sintesi13. Benjamin intende con il termine “tipica” (Typik) del sistema kan www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

tiano ciò che in Kant è la tricotomia delle facoltà superiori (conoscitive) nella loro unità sistematica che è costituita dai principi a priori dell’intelletto, della ragione e della facoltà di giudizio. Questa tripartizione viene indicata in Kant, come si è già visto, nel paragrafo IX dell’Introduzione alla Critica della facoltà di giudizio14, dove i due domini in cui si divide la filosofia, il dominio del concetto della natura (sottoposto alla legislazione dell’intelletto) e il dominio del concetto della libertà (sottoposto alla legislazione della ragione), sono posti in rapporto nel passaggio, reso possibile dal principio di conformità a scopi della natura proprio della facoltà riflettente di giudizio, dalla conformità a leggi propria dell’intelletto allo scopo finale proprio della ragione. La tricotomia non è propria della filosofia, che è divisa in filosofia teoretica e pratica, ma della critica della ragion pura: Sebbene dunque la filosofia possa essere divisa solo in due parti principali, teoretica e pratica; e sebbene tutto ciò che potremmo avere da dire dei principî propri della facoltà di giudizio debba essere ascritto alla sua parte teoretica, cioè alla conoscenza razionale mediante concetti della natura; tuttavia la critica della ragione pura, che deve stabilire tutto ciò riguardo alla possibilità di quel sistema prima che esso sia intrapreso, consiste di tre parti: la critica dell’intelletto puro, della facoltà di giudizio pura e della ragion pura, le quali facoltà sono dette pure perché sono legislative a priori15.

Nel principio di conformità a scopi proprio della facoltà di giudizio si conosce la possibilità di uno scopo finale (l’effetto prodotto secondo il concetto di libertà) realizzato nella natura, natura dove il sostrato sovrasensibile dei fenomeni, per l’intelletto, resta totalmente indeterminato. Nella facoltà di giudizio si dà la possibilità di determinarlo tramite la facoltà intellettuale, quindi si dà la possibilità del passaggio tra i domini della ragion pura teoretica e della ragion pura pratica, e si spiega l’effetto in natura del concetto di libertà: La facoltà di giudizio, mediante il suo principio a priori per giudicare la natura nelle sue possibili leggi particolari, fornisce a quel sostrato soprasensibile (così in noi, come fuori di noi) una d e t e r m i n a b i l i t à m e d i a n t e l a f a c o l t à i n t e l l e t t u a l e . Ma la ragione dà appunto ad esso la d e t e r m i n a z i o n e mediante le sue leggi pratiche a priori; e così la facoltà di giudizio rende possibile il passaggio dal dominio del concetto della natura a quello del concetto della libertà16.

Il passaggio tra il dominio del concetto di natura e il dominio del concetto di libertà si attua attraverso il simbolo in cui viene esibita  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza

nella natura, per analogia, l’idea della legge morale. Come si è già visto, Kant parla di esibizione “simbolica” nel paragrafo § 59 della Critica della facoltà di giudizio, dal titolo Della bellezza come simbolo della moralità17: essa si ha «se per un concetto, che solo la ragione può pensare e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, ne viene fornita una rispetto alla quale il procedimento della facoltà di giudizio è solo analogo a quello che essa segue nello schematizzare, vale a dire che con quel concetto si accorda solo la regola di questo procedimento, non l’intuizione stessa, quindi solo secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto»18. L’intuizione simbolica è un’esibizione indiretta del concetto della ragione, e procede per mezzo di un’analogia19 nel senso che applica il concetto all’oggetto di un’intuizione sensibile e poi applica la semplice regola della riflessione ad un oggetto completamente diverso, per il cui concetto non si può avere intuizione adeguata, e di cui il primo oggetto è il simbolo. Per Kant la bellezza è il simbolo della moralità. Ora non è un caso che in Kant il termine Typik venga usato nella Critica della ragion pratica20 (e qui soltanto), nel paragrafo intitolato Della tipica (Typik) del giudizio puro pratico21, dove questo termine sta ad indicare l’esibizione simbolica di un concetto intelligibile proprio della ragione, l’idea del moralmente buono, dove può determinarsi un rapporto tra dominio della natura e dominio della libertà. Alla legge della libertà, per l’applicazione al caso singolo, non può essere sottoposta una intuizione (come a un concetto dell’intelletto) e, quindi, neanche lo schema di un caso secondo leggi (l’esibizione in concreto di un concetto) da parte dell’immaginazione per la sua applicazione in concreto, perchè la volontà può essere determinata soltanto da una legge e non da motivi empirici: soltanto l’intelletto (non l’immaginazione) può sottoporre a un’idea della ragione non uno schema della sensibilità, ma una legge «tale che può essere manifestata in concreto negli oggetti dei sensi, e quindi una legge naturale, ma solo quanto alla forma, come legge per il giudizio (Urteilskraft)», e questa legge Kant la chiama «il tipo della legge morale»22. Se la massima delle azioni non regge il confronto con la forma di una legge naturale in genere, è per Kant moralmente impossibile. Questo confronto con la legge naturale è alla base del giudizio puro pratico, che nei casi in cui giudica la causalità della libertà fa della legge naturale di causalità «il tipo di una l e g g e d e l l a l i b e r t à »23, per avere un esempio nel caso empirico e procurare alla legge della ragion pura pratica l’uso nell’applicazione. Si usa la natura del mondo sensibile come tipo di una natura  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

intelligibile, soltanto riferendosi alla « f o r m a d e l l a c o n f o r m i t à a l l a l e g g e i n g e n e r e »24, e non al contenuto intuitivo soggetto alla legge di natura, perciò il tipo della legge morale è un « s i m b o l o »25 che della natura del mondo sensibile prende soltanto la forma pura intellegibile, la forma della legge naturale, per l’applicazione della legge morale al caso concreto. Così la purezza dei principi che Benjamin vede come un merito della filosofia di Kant viene garantita dalla Typik del giudizio puro pratico, che preserva la ragion pratica dall’empirismo, e permette il passaggio dal concetto di natura al concetto di libertà senza inficiare la purezza di quest’ultimo. Il compito che Benjamin attribuisce alla filosofia futura è quello di «indicare e delineare chiaramente, nel sistema kantiano, la presenza di una certa tipica che è in grado di rendere ragione di un’esperienza superiore»26: la tipica del sistema che Benjamin individua in Kant è la disposizione dei principi puri dell’intelletto, della ragione e della facoltà di giudizio a costituire un sistema tripartito dove il passaggio tra gli ambiti di applicazione di questi si instaura attraverso un rapporto simbolico (esclusivamente formale, per la riflessione, e non empirico) tra il concetto della natura e il concetto della libertà. Questa strutturazione dei principi a priori individuata dalla critica della ragion pura, in cui è implicita la disposizione a rapportarsi analogicamente, va per Benjamin indicata e messa in risalto nella sua purezza nel sistema di Kant, e gli offre la dimensione gnoseologica adeguata (i concetti dell’intelletto e le idee della ragione) per fondare un concetto di esperienza metafisico. In Benjamin, ma anche in Noeggerath esplicitamente come sintesi in genere27, il rapporto simbolico si instaura in un Grenzübergang, tra concetti di ogni ambito del sistema (come materia) e la loro idea guida come forma28 e compito infinito. Benjamin progetta tale passaggio nel contesto di una nuova logica trascendentale, che si esaminerà più avanti. In entrambi, Benjamin e Noeggerath, è messa in risalto la necessità della distinzione tra i membri della tricotomia sistematica, ma anche il loro necessario rapporto e l’indagine delle loro relazioni29, in nome di una continuità della conoscenza che non deve comunque portare a confondere i confini tra gli ambiti30: Se è vero che una nuova logica trascendentale rende necessaria e inevitabile la trasformazione del campo della dialettica, del passaggio dalla dottrina dell’esperienza a quella della libertà, è altrettanto vero che questa metamorfosi non deve sfociare in una confusione di libertà e esperienza,

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza anche se il concetto di esperienza in senso metafisico può essere trasformato da quello della libertà in un senso ancora ignoto. La tricotomia del sistema kantiano appartiene a una di quelle parti principali di quella tipica che deve essere conservata, e deve essere preservata prima di ogni altra cosa. Si può chiedere se la seconda parte del sistema (per tacere della difficoltà della terza) si deve ancora riferire all’etica, o se la categoria della causalità per libertà può avere un altro significato31; la tricotomia – di cui non si sono ancora scoperte le relazioni metafisicamente più profonde – nel sistema kantiano trova la sua fondazione decisiva già nella triplicità delle categorie di relazione […] [la relazione categorica, la relazione ipotetica e la relazione disgiuntiva]32.

Se si confronta questo passo di Sul programma della filosofia futura di Benjamin con un passo di Noeggerath già esaminato in precedenza, appare lampante il rapporto tra i due autori: Il sistema della filosofia ha tanti membri reciprocamente indipendenti, quanti sono i modi di r e l a z i o n e , oppure – se ci accontentiamo della q u a n t i t à [nota: concepiamo […] come quantità il modo particolare dell’articolazione dell’oggetto] quanti sono i modi dei “compiti infiniti” come forme di questo i n f i n i t o stesso; quindi tre, né più né meno. […] noi con ciò concepiamo il concetto del compito in modo oggettivo come connessione sintetica (synthetisches Verknüpfsein) […]. Noi lo sostituiamo del resto dopo per il livello (Stufe) della quantità con il concetto temporaneamente ancora problematico della d i s e q u a z i o n e (Ungleichung), per il livello della relazione con la s i n t e s i e simili. La prova si fonda sul nesso tra sintesi e relazione e sulla possibilità di differenziare le idee che sono a fondamento dei tre ambiti di oggetti come loro forma nel senso degli schemi della relazione. La serie dei membri è a) etica, b) logica, c) estetica33.

Noeggerath, come si è già visto, collega i tre membri del sistema filosofico (etica, logica, estetica) alle relazioni categorica, ipotetica, disgiuntiva34, e alle idee psicologica, cosmologica e teologica (immortalità, libertà, Dio), individuando all’interno di ogni ambito un compito infinito dell’idea, un Grenzübergang che si presenta come “connessione sintetica” dei concetti e principio della “disequazione” tra sé e questi. La «causalità per libertà (Kausalität durch Freiheit)», come «causalità assoluta (absolute Kausalität)»35 non ha più a che fare «con la vera e propria logica trascendentale ma ora senz’altro con la “metafisica della natura” o conoscenza»36, cioè con quella conoscenza ampliata – che coinvolge anche i concetti di libertà, come causalità per libertà, e di finalità e non deve essere riferita all’empiria – che deve essere uno dei  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

compiti del nuovo metodo trascendentale. Gli altri sono il compito dell’etica come solidarietà categorica e libera responsabilità «sulla base di un rapporto continuo, tragico [dell’uomo] con l’ambiente che lo circonda altrimenti in modo casuale»37, e il compito dell’estetica come libero gioco delle facoltà conoscitive. Questi compiti sono tra loro indipendenti perché ognuno attua un Grenzübergang nel proprio ambito. Anche secondo il progetto di Benjamin il concetto di libertà può portare alla trasformazione del campo dell’esperienza, applicandosi ad esempio come causalità per libertà all’ambito teoretico, per portare a una «“metafisica della natura”»38 come unità sistematica della conoscenza pura della natura (egli lascia invece indeterminati gli ambiti etico ed estetico). Il concetto di libertà in generale è in Benjamin – come in Noeggerah – «(come origine e autonomia39) presupposto problematico»40 (Problemvoraussetzung, come si potrebbe definire l’Ursprung di Cohen41) di tutti e tre i metodi filosofici (della logica, dell’etica e dell’estetica) come compiti “infiniti”, infatti per lui «il concetto di esperienza in senso metafisico può essere trasformato da quello della libertà in un senso ancora ignoto»42. Per Benjamin Kant non aveva mai contestato la possibilità della metafisica, aveva semplicemente rifiutato le pretese deboli e ipocrite della metafisica della sua epoca e aveva anzi orientato la sua ricerca in modo da «disporre i criteri […] [per] dimostrare la sua possibilità nel singolo caso»43, per poter dimostrare la sua possibilità come scienza nel caso particolare, non soltanto per la conoscenza in genere. Probabilmente Benjamin pensava che la concezione empirica dell’esperienza di Kant avesse impedito a quest’ultimo di portare alle estreme conseguenze la sua ricerca rispetto alla possibilità della metafisica. Il compito fondamentale di una filosofia futura è per Benjamin quello di fondare con un più alto concetto di esperienza (una visione del mondo superiore) una nuova metafisica, di «realizzare i prolegomeni di una futura metafisica sulle basi della tipica kantiana, e di individuare così la fisionomia di questa metafisica avvenire, di quest’esperienza superiore»44: di fondare per mezzo della teoria della conoscenza (critica e dogmatica) e riferendosi ai concetti dell’intelletto e alle idee della ragione nel loro rapporto simbolico (per mezzo del principio di conformità a scopi), un concetto di esperienza che sia «il luogo logico e la possibilità logica della metafisica»45, come luogo unitario della totalità sistematica della conoscenza pura, totalità resa possibile dalle idee metafisiche46, in cui deve essere compresa analogicamente anche la “conoscenza” etica ed estetica:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza Già nella versione kantiana la dialettica trascendentale indica le idee, su cui si fonda l’unità dell’esperienza. Ma, come si è detto, per un concetto approfondito di esperienza la continuità è indispensabile non meno dell’unità, e nelle idee deve essere ritrovata (aufgewiesen) la ragione dell’unità e della continuità di quell’esperienza non volgare e non soltanto scientifica, ma metafisica47.

Il concetto che Benjamin ha del sistema della filosofia e della verità fondata sulla sua unità (e continuità), non sui nessi tra concetti riferiti all’esperienza possibile, ma sui rapporti reciproci dei membri del sistema stesso, è basato su una concezione del rapporto sistematico come rapporto simbolico, in cui i concetti – che diventano concetti simbolici48 – esibiscono le idee (quale loro metodo filosofico e compito infinito) per ogni ambito sistematico e queste si rapportano tra loro nell’unità funzionale e simbolica della verità49 (che, nella visione teologica di Benjamin, coincide con l’idea di Dio). Questo rapporto è fondato, come si vedrà più avanti, sul linguaggio teologico della rivelazione: La verità non è qualcosa di confuso e racchiuso nell’ontologia, ma si fonda sul rapporto dell’ontologia con i restanti membri del sistema. Il sistema ha una struttura tale che le conoscenze dell’ontologia sono appese alle sue pareti. L’ontologia non è il palazzo. Per restare nell’immagine: le conoscenze dell’ontologia devono mantenere la dimensione di quadri. Per chiarire l’immagine: tutte le conoscenze devono essere portatrici, attraverso il loro latente contenuto simbolico, di una potente (gewaltigen) intenzione simbolica, che li classifica sotto il nome dell’ontologia nel sistema stesso, la cui categoria decisiva è la dottrina, anche la verità [,] non la conoscenza. Il compito della conoscenza è quello di caricare così tanto le conoscenze di intenzione simbolica, che esse si perdono in verità o dottrina, si dissolvono in essa, senza però fondarla, poiché la loro fondazione è rivelazione, lingua. […] // Il ruolo del sistema, la cui necessità è evidente solo a quei filosofi, che sanno che la verità non è un nesso conoscitivo, ma un’intenzione simbolica (quella reciproca dei membri del sistema), in Platone lo ha proprio il DIALOGO50.

Benjamin pensa che trovare un concetto di esperienza come luogo logico (cioè fondato sui principi generali e particolari della conoscenza pura) e simbolico di una metafisica che comprenda l’intero sistema della filosofia sarà possibile basandosi sui principi a priori che Kant ha individuato, con la sua critica, per il sistema della ragion pura, indagandoli ulteriormente e sviluppandoli, soprattutto dopo aver sottoposto a revisione la sua teoria della conoscenza.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Esperienza e compito infinito Note

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1

Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 159; trad. it. cit., p.

216. 2

Ivi, pp. 159-160; trad. it. cit. , p. 216 (traduzione modificata). Cfr. la definizione di filosofia trascendentale e di critica trascendentale in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 26, p. 63, trad. it. cit., pp. 58-59: «Chiamo t r a s c e n d e n t a l e ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori. Un sistema di siffatti concetti si chiamerebbe f i l o s o f i a t r a s c e n d e n t a l e . Ma questa filosofia […] è ancora troppo per cominciare. […] noi vogliamo spingere l’analisi solo fin dove sia indispensabilmente necessario, affinché si possano cogliere in tutta la loro portata (Umfang) i princìpi della sintesi a priori […]. Questa ricerca, che non possiamo chiamare dottrina, ma solo critica trascendentale, poiché non mira all’allargamento delle conoscenze stesse, ma soltanto alla loro rettificazione, e ci deve dare la pietra di paragone del valore e della vanità di tutte le conoscenze apriori, è ciò di cui ora ci occupiamo. Una tale critica è dunque una preparazione, se è possibile, ad un o r g a n o ; e se questo non dovesse riuscire, almeno ad un canone della ragione, secondo il quale in ogni caso si potrebbe esporre, così analiticamente come sinteticamente, il sistema completo della filosofia della ragion pura, abbia esso a consistere nell’estensione (Erweiterung) o nella semplice limitazione (Begrenzung) della sua conoscenza». 4 Ivi, B 869, pp. 701-702; trad. it. cit., p. 635. Cfr. l’intero brano: «Ora la filosofia della ragion pura o è p r o p e d e u t i c a (esercitazione preliminare), la quale studia la facoltà della ragione rispetto a ogni conoscenza pura a priori, e dicesi c r i t i c a ; o, in secondo luogo, sistema della ragion pura (scienza), l’intera conoscenza filosofica (sia vera, sia apparente) derivante dalla ragion pura nella connessione sistematica, e dicesi m e t a f i s i c a ; quantunque questo nome possa anche darsi a tutta la filosofia della ragion pura, compresa la critica […]. La metafisica si divide in metafisica dell’uso s p e c u l a t i v o e metafisica dell’uso p r a t i c o della ragion pura, ed è quindi o m e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a , o m e t a f i s i c a d e i c o s t u m i ». 5 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 160; trad. it. cit., p. 216 (traduzione modificata). 6 Ivi, p. 160; trad. it. cit., p. 216 (traduzione modificata). Si riprende la traduzione del termine erkenntnistheoretisch da P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, in Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, cit., p. 374; cfr. ivi la nota 67: «Preferisco evitare di tradurre Erkenntnistheorie con “gnoselogia”, per cercare di salvaguardare il più possibile la specificità del termine tedesco. Un termine affermatosi nel secolo scorso nel contesto della critica ad Hegel e fin dall’inizio (cfr. F. E. Beneke, Kant und die philosophische Aufgabe unserer Zeit, Posen u. Bromberg, Berlin, 1932) esplicitamente legato al programma di una rifondazione della filosofia nel segno di una ripresa di Kant». Su questo cfr. K. Ch. Köhnke, Entstehung und Aufstieg des Neukantianismus, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1986, pp. 58 ss.: Die Entstehung einer autonomen Disziplin namens “Erkenntnistheorie”. 7 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 160; trad. it. cit., p. 217. 8 Ivi, p. 169; trad. it. cit., p. 225. 9 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B XXXVI, p. 36; trad. it. cit., p. 31. Cfr. l’intero brano della Prefazione alla seconda edizione della Critica della 3

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza ragion pura, ivi, B XXXVI-XXXVII, pp. 36-37; trad. it. cit., pp. 31-32: «La critica per altro non è contraria al p r o c e d i m e n t o d o m m a t i c o della ragione nella sua conoscenza pura in quanto scienza (giacché questa sempre deve essere dommatica, cioè rigorosamente dimostrativa, per sicuri princìpi a priori); ma al dommatismo, cioè alla pretesa di procedere innanzi solo con una conoscenza pura ricavata da concetti (la conoscenza filosofica), secondo princìpi come quelli di cui la ragione fa uso da molto tempo, senza ricercare in che modo e con qual diritto essa vi sia arrivata. Il dommatismo dunque è il procedimento dommatico che segue la ragion pura, s e n z a u n a c r i t i c a p r e l i m i n a r e d e l s u o p r o p r i o p o t e r e . […] la critica è […] la preparazione necessaria allo svolgimento di una metafisica bene fondata, come scienza che deve essere trattata necessariamente in modo dommatico e secondo rigorosissime esigenze sistematiche, e però scolasticamente (non in maniera popolare); poiché tale esigenza, in essa, è impreteribile, dal momento che prende l’impegno di adempiere al suo ufficio del tutto a priori, e però con piena soddisfazione della ragione speculativa. Nell’esecuzione, dunque, del disegno che la critica traccia, cioè nel sistema futuro della metafisica, ci toccherà un giorno di seguire il metodo rigoroso del celebre Wolff, il più grande dei filosofi dommatici, il quale per primo diede l’esempio (e per questo esempio divenne in Germania il creatore di quello spirito di sistema [Gründlichkeit], che non s’è ancora smarrito) di come si possa prendere il sicuro cammino di una scienza, stabilendo regolarmente i princìpi, definendo nettamente i concetti, cercando il rigore nelle dimostrazioni, e rifiutandosi ai salti temerari nel trarre le conseguenze; e perciò sarebbe stato mirabilmente capace di mettere una scienza come la metafisica su questa via, se avesse avuto l’idea di prepararsi in precedenza il terreno con la critica dell’organo, cioè della stessa ragion pura: difetto da attribuire piuttosto alla maniera dommatica di pensare del tempo suo, che a lui stesso». Sulla conoscenza dogmatica cfr. anche la Dottrina del metodo, dove essa è definita una proposizione direttamente sintetica proveniente da concetti, che non si addice alla ragione nel suo uso speculativo; questa può avere però un metodo sistematico in quanto sistema di ricerca secondo principi di unità cui l’esperienza deve fornire la materia: «Divido tutte le proposizioni apodittiche (siano suscettibili di dimostrazione o immediatamente certe) in dogmata e mathemata. Una proposizione direttamente sintetica derivante da concetti è un dogma; per contro, una proposizione dello stesso genere derivante dalla costruzione di concetti è un mathema. […] Tra le due mentovate specie di proposizioni sintetiche a priori, secondo l’ordinario uso linguistico, possono portare tal nome soltanto quelle appartenenti alla conoscenza filosofica […] soltanto i giudizi derivanti da concetti, e non quelli dalla costruzione di concetti, possono dirsi dommatici. Ora tutta la ragion pura, nel suo semplice uso speculativo, non contiene un solo giudizio direttamente sintetico per concetti. Essa infatti, come abbiamo dimostrato, non è capace di formare con le idee un giudizio sintetico che abbia valore oggettivo; ma con i concetti dell’intelletto stabilisce per vero princìpi sicuri, non certo direttamente da concetti, bensì sempre soltanto indirettamente mediante la relazione di questi concetti con qualcosa di affatto contingente, cioè con l ’ e s p e r i e n z a p o s s i b i l e ; poiché se questa (qualcosa come oggetto di esperienze possibili) è presupposta, essi possono essere assolutamente certi in modo apodittico, ma in se stessi (direttamente) non possono punto essere conosciuti mai a priori. Così nessuno può conoscere fondatamente la proposizione “tutto ciò che accade ha la sua causa” soltanto da questi concetti dati. Quindi non è un domma, quantunque […] nell’esperienza, possa essere dimostrato benissimo e apoditticamente […] [ma] esso dicesi p r i n c i p i o […] perocché esso ha la proprietà particolare di rendere possibile la sua stessa prova, l’esperienza, e di dover essere presupposto sempre in questa. Ora, se nell’uso speculativo della ragion

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Esperienza e compito infinito pura, anche secondo il contenuto, non ci sono dommi, ogni metodo d o m m a t i c o , preso a prestito dalla matematica, o con un suo proprio carattere, per sé non le si addice. […] Tuttavia il metodo può sempre essere s i s t e m a t i c o . Infatti la nostra ragione (soggettivamente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso, per semplici concetti, essa è soltanto un sistema di ricerca, secondo princìpi dell’unità, cui l’esperienza può fornire soltanto la materia. Ma del metodo speciale di una filosofia trascendentale non è possibile parlare qui, dove ci occupiamo solo di una critica delle nostre facoltà, per sapere se noi possiamo costruire, e fino a che altezza, col materiale che abbiamo (coi concetti puri a priori), possiamo elevare il nostro edifizio» (ivi, B 764-766, pp. 629-630; trad. it. cit., pp. 566-567). 10 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 169; trad. it. cit., pp. 225-226. 11 Ivi, p. 168; trad. it. cit., p. 225. 12 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 386, p. 332; trad. it. cit., p. 309: «[Le idee] posso renderci possibile un passaggio dai concetti della natura a quelli morali, e procurare in tal modo alle idee morali stesse una specie di sostegno e un nesso con le conoscenze speculative della ragione». 13 Per l’ampliamento del metodo trascendentale dei neokantiani, cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 6-7. Cfr. inoltre per il rapporto in lui tra il sistema (i cui membri derivano dalla triplicità dei giudizi di relazione e dall’idea psicologica, cosmologica e teologica – anima, mondo, Dio – come limiti dei loro ambiti di oggetti) e la sintesi (come tricotomia) ivi, pp. 8-10 e I-II. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 395, p. 338; trad. it. cit., p. 315, la nota di Kant alla seconda edizione: «La metafisica ha lo scopo peculiare d’indagare tre sole idee: D i o , l a l i b e r t à e l a i m m o r t a l i t à , in modo che il secondo concetto, unito col primo, debba condurre al terzo come conseguenza necessaria. Tutto il resto, di cui si occupa questa scienza, le serve soltanto di mezzo, per giungere a coteste idee e alla loro realtà. Essa non ne ha bisogno in servizio della scienza della natura, ma per andare al di là della natura. […] In una rappresentazione sistematica di quelle idee l’ordine già dato, come ordine s i n t e t i c o , sarebbe il più adatto, ma nella elaborazione, che deve di necessità precederle, l’ordine analitico, che è inverso del precedente, sarà più appropriato allo scopo di procedere da ciò che l’esperienza ci fornisce immediatamente, l a d o t t r i n a d e l l ’ a n i m a a l l a d o t t r i n a d e l m o n d o e fino alla conoscenza di Dio, per eseguire il nostro grande disegno». 14 È importante ricordare che Noeggerath cita proprio questo paragrafo e in particolare la nota kantiana sulla divisione a priori sintetica e la tricotomia quando vuole spiegare il suo concetto di sintesi (cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § IX, p. 35; trad. it. cit., p. 33). Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 4243. Cfr. a proposito del rapporto tra sintesi e sistema in Noeggerath P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 7: «Il filo conduttore per l’articolazione sistematica diviene per Noeggerath il collegamento delle considerazioni kantiane [nella Logica e nella Kritik der Urteilskraft] sulla tricotomia come divisione (Einteilung) sintetica a priori [cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 42 s. e p. 67] con le categorie di relazione». 15 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § III, p. 15; trad. it. cit., p. 15. 16 Ivi, § IX, p. 34; trad. it. cit., p. 32. 17 Ivi, § 59, pp. 211-215; trad. it. cit., pp. 185-189. 18 Ivi, § 59, p. 211; trad. it. cit., p. 186. 19 Di conoscenza per analogia Kant parla anche nel paragrafo § 58 dei Prolegomeni,

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza in I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 58, pp. 124-128; trad. it. cit., pp. 126-129: «la conoscenza per analogia […] significa […] una somiglianza di due rapporti tra cose del tutto dissimili. […] [Per] avere cioè, con un principio, il più grande uso della ragione nel mondo […] noi pensiamo il mondo COME SE esso, per la sua esistenza e la sua interna determinazione, tragga origine da una Ragione suprema» (ivi, pp. 124-127; trad. it. cit., pp. 126-128). Questa conoscenza permette l’uso della ragione per spingere l’indagine dell’esperienza possibile da parte dell’intelletto alla maggiore coerenza sistematica possibile. Proprio in questo paragrafo Kant paragona la causalità di un Essere alla causalità della ragione umana riguardo alle opere d’arte, un tema che si ritroverà nella Critica della facoltà di giudizio: «La causalità della causa suprema è, riguardo al mondo, ciò che la ragione umana è riguardo alle sue opere d’arte» (ivi, p. 127; trad. it. cit., pp. 128-129). 20 La lettura di Benjamin della Critica della ragion pratica, avvenuta solo nella primavera del 1918 (quando Sul programma della filosofia futura era già stato completato), è documentata oltre che dalla lettera a Schoen del maggio del 1918 citata sopra (cfr. Benjamin a E. Schoen, V-1918, in GB I, p. 455; trad. it. cit., p. 43), anche dall’elenco delle letture benjaminiane (cfr. Verzeichnis der gelesenen Schriften, in GS, VII, 1, p. 441). 21 Von der Typik der reinen praktischen Urteilskraft, in I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Band VII, pp. 186-191; trad. it. cit., pp. 68-71. 22 Ivi, p. 188; trad. it. cit., p. 69. 23 Ivi, p. 189; trad. it. cit., p. 70. È interessante qui ricordare il Grenzübergang che Noeggerath vede in Kant dalla causalità empirica (relativa) alla causalità (assoluta) per libertà. Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 66 e 7273. 24 I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Band VII, p. 189; trad. it. cit., p. 70 25 Ivi, p. 190; trad. it. cit., p. 71. 26 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 160; trad. it. cit., p. 216 (traduzione modificata). 27 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 36-37, e p. 19, dove Noeggerath si confronta con il concetto di sintesi in Kant: «[Kant] non ha sviluppato il concetto della sintesi al di là dell’ambito teoretico: egli si è posto in altre parole il problema della possibilità della conoscenza sintetica delle formazioni ateoretiche, ma non ha applicato a queste stesse esplicitamente il concetto di sintesi [hat er den Begriff der Synthesis nicht über das theoretische Gebiet hinaus erweitert: er hat mit anderen Worten wohl nach der Möglichkeit synthetischer Erkenntnis atheoretischer Gebilde gefragt, nicht aber explicite auf diese selbst den Synthesisbegriff übertragen]». 28 Cfr. ivi, pp. 44-45: «Con ciò avremmo dunque ottenuto due significati dell’idea. Esse corrispondono ai due problemi (Fragen) che prima erano divisi. Primo: l’idea come forma, come si presenta o ha la sua analogia nella copula, nel segno di uguaglianza di contro ai membri come m a t e r i a della sintesi. In questo senso anche le categorie sono idee (di secondo grado) e la causalità assoluta è forse [un’]idea (di primo grado). Secondo: al di là di questa funzione che dà unità, essa è l’elemento unitario che viene presupposto in ogni scomposizione, e contiene “in sé” – non “sotto di sé” – cioè è r a p p r e s e n t a b i l e attraverso il soggetto e il predicato» (l’originale tedesco è stato citato sopra). Kant usa nella Logica i termini “forma” e “materia” per indicare, nei giudizi di relazione, la loro forma rispettivamente come copula, conseguenza e disgiunzione, e la loro “materia” nel soggetto e nel predicato, nei due giudizi congiunti come fondamento e conseguenza, e nei molteplici giudizi dati come membri della disgiunzione

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Esperienza e compito infinito e opposizione. Cfr. I. Kant, Logik, in Werkausgabe, Bände V-VI, cit., §§ 24-29, pp. 535539; trad. it. cit., pp. 98-101. 29 Per Noeggerath i membri sistematici si comportano reciprocamente, come gli «schemi delle loro relazioni [die Schemata ihrer Relationen]» (F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 10) e corrispondentemente alla relazione della relazione disgiuntiva con la categorica e l’ipotetica – come avviene nella Critica della ragion pura nella tavola delle categorie (cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 111, p. 122; trad. it. cit., p. 117) e nella Logik di Cohen (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 178) nei concetti di integrale, differenziale e serie – si può verificare il sorgere del terzo membro, l’estetica (l’esempio è il concetto di Idealisierung della Ästhetik des reinen Gefühls di Cohen, cfr. H. Cohen, Ästhetik des reinen Gefühls, ersten Band, in Werke, Band 8, cit., p. 221), dai primi due, l’etica e e la logica, e dal loro rapporto: questo motivo caratterizza il sistema stesso e « il r a p p o r t o r e c i p r o c o d e l l e i d e e [das V e r h ä l t n i s d e r I d e e n u n t e r e i n a n d e r ] » (F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 11). Noeggerath fa riferimento anche alla Critica della facoltà di giudizio di Kant, indicando nel gioco delle facoltà dell’animo, che egli definisce ragione e intelletto (sulla sua identificazione delle facoltà dell’animo e delle facoltà conoscitive della terza Critica cfr. ivi, pp. 68-70), l’espressione dell’unità, come risultato, di logica ed etica (cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., § IX, p. 35; trad. it. cit., p. 32, dove si parla della spontaneità del gioco delle facoltà conoscitive, immaginazione e intelletto, nel giudizio estetico, spontaneità che «rende […] [il concetto di una conformità della natura a scopi] idoneo come mediatore del collegamento dei domini del concetto della natura e del concetto della libertà nelle sue conseguenze»): «Questo significava per l’estetica il compito di rappresentare, per il fine dell’analisi, la sua legalità come risultato dei componenti modificati della logica e dell’etica. È chiaro il nesso con il gioco di entrambe le “facoltà dell’animo”, intelletto e ragione, che conosciamo dalla “Critica della facoltà di giudicare” [Das bedeutet für die Ästhetik die Aufgabe, zum Zweck der Analyse ihre Gesetzlichkeit darzustellen als Resultante aus der m o d i f i z i e r t e n Komponenten der Logik und Ethik. Der Zusammenhang mit der aus der “Urteilskraft” bekannten Spiel der beiden “Gemutskräfte”, Verstand und Vernunft ist deutlich» (Felix Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 11). Individuare i «rapporti funzionali [funktionale Beziehungen]» (ivi, p. 9) tra i membri del sistema fa parte di quel «c o m p i t o d e l s i s t e m a [A u f g a b e d e s S y s t e m s ]» (ivi, p. 9) proprio, secondo Noeggerath, della filosofia come razionalismo (alla difesa della filosofia come razionalismo si riferisce il sottotitolo della sua tesi: Ein Beitrag zur Kritik der Antirationalismus). 30 Non è un caso che Noeggerath citi nell’intestazione della sua tesi, insieme a Goethe, un passo di Kant, dalla Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, sulla necessità di non confondere i confini delle scienze. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B VIII, p. 20; trad. it. cit., p. 16: «Non è un accrescimento, ma uno storpiamento delle scienze, quando se ne confondono i confini (Grenzen)». 31 Per esempio (come anche in Noeggerath), quello di essere un’idea guida nella conoscenza pura della natura. Per la nozione di causalità per libertà in Kant cfr. il Terzo conflitto delle idee trascendentali in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 472-474, pp. 426-428; trad. it. cit., p. 368: «La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono esser derivati tutti i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità per libertà». Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 71: «Ora la “causalità per

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza libertà” può non essere un principio etico, se noi cerchiamo qui in altro modo un dominio totalmente nuovo. Ma qual è il suo compito? Essa riguarda la “conoscenza stessa”, l’“esperienza in genere” e permette in questo ampliamento la definizione esatta della sua u n i t à a partire dalla relazione ipotetica e dalla sintesi. Con ciò il semplice metodo trascendentale viene abbandonato per quanto riguarda il g r a d o . Lo stesso passo che qui viene fatto per la r e l a z i o n e , l’ha fatto C o h e n per il livello della q u a l i t à nei suoi “giudizi delle leggi-del-pensiero”. […] lo stesso vale per N a t o r p nella q u a n t i t à , quando egli considera il pensiero o la conoscenza come un “fieri”. Entrambe le determinazioni sono chiaramente già “idee” nel senso d i K a n t , però a un altro livello [Also kann doch “Kausalität durch Freiheit” kein ethisches Prinzip sein, wenn anders wir hier nach einem ganz neuen Gebiet suchen. Was aber ist ihre Aufgabe? Sie betrifft “Erkenntnis selber”, “Erfahrung überhaupt” und ermöglichst in dieser Erweiterung die genaue Definition ihrer E i n h e i t von der hypothetischen Relation und Synthesis her. Damit, ist der G r a d e nach die einfache transzendentale Methode verlassen. Den gleichen Schritt, der hier für die R e l a t i o n vollzogen wird, hat nun C o h e n für die Stufe der Q u a l i t ä t in seinen “Urteile der Denkgesetze” vollzogen. […] das gleiche gilt für N a t o r p in der Q u a n t i t ä t , wenn er das Denken oder die Erkenntnis selber als “fieri” betrachtet. Beide Bestimmungen sind offenbar schon “Ideen” im Sinne K a n t s allerdings auf einer anderen Stufe]». 32 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 165-166; trad. it. cit., pp. 221-222 (traduzione modificata). 33 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 9-10. 34 In Kant i concetti puri della ragione, le idee trascendentali, derivano dai sillogismi, che si dividono secondo i modi di relazione, che si rappresenta l’intelletto mediante le categorie, e si distinguono rispetto al modo in cui esprimono la relazione della conoscenza nell’intelletto. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 380, p. 328; trad. it. cit., pp. 305-306: «Ora quante sono le specie di relazione (Arten des Verhältnisses) che si rappresenta l’intelletto mediante le categorie, altrettanti anche saranno i concetti puri della ragione: si dovrà quindi cercare: 1) un i n c o n d i z i o n a t o della sintesi c a t e g o r i c a in un s o g g e t t o , 2) della sintesi i p o t e t i c a dei membri di una s e r i e , 3) della sintesi d i s g i u n t i v a delle parti di un s i s t e m a . Vi sono infatti altrettante specie di sillogismi, ciascuno dei quali, per mezzo di prosillogismi, mette capo all’incondizionato; l’una al soggetto, che non è più a sua volta predicato; l’altra al presupposto, che non presuppone più altro; e la terza a un aggregato dei membri della divisione, al quale non occorre aggiunger altro per completare la divisione di un concetto. Quindi i concetti razionali puri della totalità della sintesi delle condizioni sono necessari per lo meno come problemi (Aufgaben) per spingere l’unità dell’intelletto, se possibile, fino all’incondizionato, e sono fondati nella natura della ragione umana; quntunque, del rimanente, questi concetti trascendentali possano non avere in concreto un uso ad essi adeguato, e non avere perciò altra utilità se non di mettere l’intelletto per la direzione in cui il suo uso, mentre si estende più largo che sia possibile, vien tuttavia ad essere perfettamente d’accordo con se medesimo». Cfr. anche I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., § 43, pp. 91-92; trad. it. cit., p. 94. 35 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 10. 36 Ibid.: «wohl aber jetzt mit der “Mataphysik der Natur” oder Erkenntnis» 37 Ivi, p. 22. Cfr. l’intero passo: «Volto nell’etico, ciò significa la solidarietà e la responsabilità incondizionata sulla base di un rapporto continuo, tragico, [dell’uomo] […] con l’ambiente che lo circonda altrimenti in modo casuale [Ins Ethische gewendet,

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Esperienza e compito infinito bedeudet das die Solidarität und unbedingte Verantwortung auf Grund eines kontinuierlichen, eines tragischen Verknüpfseins mit der sonst ihn zufällig umgebenden Umwelt]». 38 Über das Programm der kommenden Philosophie, GS, II, 1, p. 161; trad. it. cit., p. 217. Cfr. tutto il passo: «in ogni modo il senso in cui Kant usa, per esempio, l’espressione “metafisica della natura” pare chiaramente situato sulla linea di un’indagine dell’esperienza fondata su principî assicurati per mezzo della teoria della conoscenza (erkenntnistheoretisch gesicherter Prinzipien)» (ibid., traduzione modificata). 39 Si ricordi la caratterizzazione del compito infinito come autonomia (del pensiero, del volere e forse del sentimento, indipendenti da compiti estrinseci ed esterni alla loro idea guida, e dall’empiria) nel frammento 30 Die unendliche Aufgabe, in GS, VI, pp. 51-52. 40 F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 10: «Freiheit aber (als Ursprung und Autonomie) ist Problemvoraussetzung einer jeden der drei philosophischen Methode (nicht nur der Ethik)». 41 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 36 e 118. 42 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 165; trad. it. cit., pp. 221-222. 43 Ivi, p. 160; trad. it. cit., p. 216. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 357-359, pp. 313-314; trad. it. cit., pp. 290-291: «Direi quindi conoscenza per princìpi quella in cui conosco il particolare nel generale mediante concetti. […] L’intelletto, adunque, non può procurare conoscenze sintetiche ricavabili da concetti. […] [La ragione] non si indirizza mai immediatamente all’esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un’unità a priori per via di concetti». 44 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 160; trad. it. cit., p. 217 (traduzione modificata). 45 Ivi, p. 163; trad. it. cit., p. 220. 46 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 359, p. 314; trad. it. cit., p. 291: «Se l’intelletto può essere una facoltà dell’unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell’unità delle regole dell’intelletto sotto princìpi. […] unità, che può dirsi unità razionale, ed è di tutt’altra specie da quella che può essere prodotta dall’intelletto». 47 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 167; trad. it. cit., p. 224. 48 Cfr. il frammento 25 Erkenntnistheorie (1920-21), in GS, VI, pp. 45-46, a cui si è già fatto riferimento, dove Benjamin elenca due «compiti della conoscenza» (ivi, p. 46), la costituzione delle cose nell’ora (Jetzt) della conoscibilità e la limitazione della conoscenza nel simbolo. 49 Cfr. Erkenntnistheorie, in GS, VI, p. 45 (e cfr. le Anmerkungen ivi, p. 661): «Verità di uno stato di cose è la funzione della costellazione dell’esser-vero di tutti i restanti stati di cose. Questa funzione è identica alla funzione del sistema. L’esser-vero (che naturalmente è inconoscibile in quanto tale) è legato al compito infinito (Unendliche Aufgabe). Bisogna però interrogarsi sul medium, in cui l’esser-vero e la verità si trovano nella condizione della non divisione. Qual è questo medium neutrale?». Il medium tra l’esser-vero di ogni compito infinito (in senso lato conoscitivo, come esser-vero di uno stato di cose) di ciascun ambito del sistema, e l’unità tra essi come verità, è il simbolo. La verità stessa è l’insieme delle conoscenze in quanto simbolo – vicina quindi a quell’esperienza simbolica che esprime come esperienza esperita l’unità della conoscenza pura nel fram-

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19. La fondazione di un più alto concetto di esperienza mento Über die Wahrnehmung (cfr. ivi, pp. 36-37) – e si rappresenta, come simbolo, nel sistema, come Benjamin dice in un altro frammento contemporaneo a questo: «La verità è il complesso (Inbegriff) delle conoscenze come simbolo. […] La verità si esprime nel sistema o nella denominazione (Titel) concettuale di questo» (W. Benjamin, Wahrheit und Wahrheiten. Erkenntnis und Erkenntnissen, ivi, p. 47). Cfr. anche Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 216; trad. it. cit., pp. 11-12: «La verità è un essere aintenzionale formato di idee. […] L’idea è qualcosa di linguistico, più precisamente qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide con quel momento per cui la parola è simbolo». Sulla simbolicità nella conoscenza in questi e altri frammenti di Benjamin cfr. T. Tagliacozzo, Walter Benjamin: un tentativo di teoria della conoscenza in alcuni frammenti degli anni 1917-1921, in C. Marrone, G. Coccoli (a cura di), Simbolo, metafora, linguaggi, cit., pp. 166-183. 50 Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntnis, in GS, VI, p. 39, frammento 20. Questo frammento è attribuito dagli editori agli anni 1917-1918 (cfr. le Anmerkungen ivi, p. 658). In esso vi è un accenno alla “mistica” di Kant come tendenza della sua terminologia a caricare simbolicamente le conoscenze (i concetti): «Per tornare all’immagine: riempire così tanto le mura del palazzo con immagini, fino a che le immagini non sembrano essere le mura. Questa intenzione potente nella direzione dell’ingravidamento simbolico di tutte le conoscenze è la base (Grund) della mistica kantiana. La sua terminologia è mistica, è assolutamente determinata dalla premura di dare dall’origine ai concetti trovati in essa il carico simbolico, la dimensione, da esaltare in modo non appariscente, della conoscenza autentica, del quadro nel palazzo. Ogni acribia è solo l’orgoglio per il mistero di questa loro nascita, che la critica non può cancellare, anche se non lo capisce. Questa è l’esoterica di Kant» (ivi, p. 39). Sulla “mistica kantiana” cfr. Scholem a L. Strauss, 1-VIII-1918 (lettera 66), in G. Scholem, Briefe. Band I. 1914-1947, cit., p. 169 e pp. 384-385, nota 10, e il testo composto probabilmente nell’agosto 1918, in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. 2. Halbband 1917-1923, cit., pp. 315-316.

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20. La critica al concetto di conoscenza di Kant

La filosofia futura non deve «provvedere a rivedere Kant […] solo per quanto riguarda l’esperienza e la metafisica», ma deve «procedere metodicamente (ossia come procede ogni filosofia in genere) prendendo le mosse dallo stesso concetto di conoscenza»1. Per Benjamin gli errori della teoria della conoscenza kantiana sono dovuti alla sua concezione dell’esperienza connotata empiricamente, che ha influenzato il suo concetto di conoscenza, così «i due compiti, di creare un nuovo concetto di conoscenza e una nuova immagine del mondo della filosofia, si riducono a uno solo»2. Si è avvertito, dice Benjamin, che la dottrina kantiana della conoscenza non è abbastanza radicale e coerente, a suo avviso perché essa non dà accesso all’ambito della metafisica, in quanto contiene «gli elementi primitivi di una metafisica sterile che ne esclude ogni altra», come germi patogeni che isolano la conoscenza e non le danno accesso al «territorio dell’esperienza in tutta la sua libertà e profondità»3, non permettono la costruzione di un concetto di esperienza con un significato etico e religioso più profondo (come molteplicità e unità ideale di tutta la conoscenza). Questo concetto potrà essere fondato quando la distruzione di questi elementi metafisici «porrà insieme le basi di un’esperienza metafisica compiuta e più profonda»4. Ciò si potrà avere se si capisce il rapporto profondo (che è il nucleo storico-sistematico, l’elemento di continuità proprio della filosofia futura) tra l’esperienza come luogo delle «verità metafisiche» e quella teoria della conoscenza «che non ha ancora saputo determinare in misura soddisfacente il luogo logico della ricerca metafisica» e che deve condurre a un’indagine dell’esperienza fondata su principi assicurati per mezzo della teoria della conoscenza (erkenntnistheoretisch), sulla cui linea si trova il «senso in cui Kant usa, per esempio, l’espressione “metafisica della natura”»5: Le insufficienze che si riscontrano relativamente all’esperienza e alla metafisica si esprimono all’interno della stessa teoria della conoscenza

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Esperienza e compito infinito (Erkenntnistheorie), nella forma di elementi di una metafisica speculativa (ossia rudimentale). I più importanti di questi elementi sono: in primo luogo una concezione della conoscenza come rapporto tra soggetti e oggetti comunque intesi, o tra soggetto e oggetto – concezione che Kant non ha superato definitivamente, nonostante tutti gli spunti e i suggerimenti in questo senso; in secondo luogo, il rapporto della conoscenza e dell’esperienza con la coscienza empirica, che viene a sua volta superato da Kant solo in una forma incipiente e incompiuta6.

Benjamin considera questi due problemi strettamente connessi tra loro: anche se Kant e i neokantiani hanno superato «la natura oggettuale della cosa in sé come causa delle sensazioni7, resta sempre da eliminare la natura soggettiva della coscienza conoscente», che è tale perché «è stata concepita in analogia con […] [la coscienza] empirica, che ha certamente degli oggetti di fronte a sé»8. Questo è «un rudere metafisico» sopravvissuto nella teoria della conoscenza, in cui si è insinuato come parte dell’esperienza «piatta», scientifica e legata alla sensibilità, dell’illuminismo e dell’età moderna, è l’«idea, ancorché sublimata, di un Io individuale psicosomatico, che riceve le sensazioni per mezzo dei sensi e si forma le sue rappresentazioni sulla base di esse»9; un’idea che ha carattere mitologico, è un elemento metafisico primitivo, il cui valore di verità è pari a quello di ogni altra mitologia gnoseologica (Erkenntnismythologie), è cioè nullo10. Appare qui la concezione benjaminiana della filosofia come mitologia, come concezione del mondo primitiva, a cui si è accennato sopra, ma emerge anche il tentativo di Benjamin di superare la mitologia nella direzione di un’esperienza più alta e vicina alla dottrina, ai suoi contenuti etici e teologici. L’“esperienza” di Kant è considerata una metafisica o mitologia come quelle dei popoli preanimistici, dei chiaroveggenti e dei folli, una mitologia moderna e «sterile sul piano religioso»11, incapace di farsi portatrice (diversamente da altre mitologie), proprio perché empirica e non pura, e meccanica, di valori spirituali: Ora l’idea della conoscenza comune umana sensibile (e intellettuale) [Die gemeinmenschliche Vorstellung von sinnlicher (und geistiger) Erkenntnis] concepita sia nella nostra epoca che in quella kantiana e anche prekantiana è una mitologia proprio come quelle indicate. Da questo punto di vista, per quanto concerne la concezione ingenua della ricezione delle percezioni, l’“esperienza” di Kant è metafisica o mitologia – anzi, è solo e precisamente una mitologia moderna e particolarmente sterile sul piano religioso12.

L’esperienza è concepita da Kant «in relazione all’individuo umano psicosomatico e alla sua coscienza, anziché come specificazione siste www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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20. La critica al concetto di conoscenza di Kant

matica della conoscenza»13, cioè come articolazione e specificazione generale (della fondazione) e particolare (dei contenuti originati puramente, nel senso della Logik coheniana14, da quella fondazione) in un sistema di tutta la conoscenza pura (teoretica, ma, volendo applicare analogicamente il metodo trascendentale – non più modellato sul fatto scientifico ma ampliato nel senso di Noeggerath di una sintesi in genere15– anche etica ed estetica), la cui unità sistematica è il criterio della verità. Quest’ultimo è invece il significato che deve avere l’esperienza per il progetto filosofico di Benjamin, essa è “conoscenza reale”. L’esperienza di Kant, nel suo legame con la coscienza empirica è invece «in tutti i suoi modi semplice oggetto di questa conoscenza reale, e precisamente del suo lato psicologico»16, la coscienza empirica è una «specie della coscienza delirante»17 il cui valore di verità, diversamente dal valore di verità dell’esperienza come specificazione sistematica della conoscenza pura, non è diverso da quello dell’allucinazione: [La conoscenza reale] suddivide sistematicamente la coscienza empirica nelle diverse specie di follia. L’uomo che conosce, la coscienza empirica conoscente è una specie della coscienza delirante. Ciò significa solo e semplicemente che all’interno della coscienza empirica le differenze tra i suoi diversi modi sono solo differenze di grado. Queste differenze sono anche differenze di valore, valore che tuttavia non può avere il suo criterio nell’esattezza di conoscenze (Richtigkeit von Erkenntnissen), di cui non è mai questione nella sfera empirica, psicologica; determinare il vero criterio della differenza di valore dei modi diversi di coscienza sarà uno dei compiti più importanti della filosofia futura. Ai modi della coscienza empirica corrispondono altrettanti modi dell’esperienza, i quali hanno un valore di verità non diverso da quello della fantasia o dell’allucinazione (welche […] was die Wahrheit angeht den Wert der Phantasie oder Halluzination haben), se si considera il loro rapporto con la coscienza empirica. Poiché una relazione obiettiva fra la coscienza empirica e il concetto obiettivo dell’esperienza è semplicemente impossibile18.

Per Benjamin ogni esperienza autentica, in quanto specificazione sistematica della conoscenza pura, si fonda sulla coscienza trascendentale pura, cioè sui concetti puri della teoria della conoscenza: Ogni esperienza autentica si fonda sulla coscienza gnoseologica pura (trascendentale) [beruht auf dem reinen erkenntnis-theoretischen (transzendentalen) Bewußtsein] – se possiamo ancora usare il termine “coscienza” una volta che sia privato di ogni elemento soggettivo. La coscienza trascendentale pura è di specie diversa da ogni coscienza empirica, e quindi dobbiamo

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Esperienza e compito infinito chiederci se l’uso del termine “coscienza” sia ancora lecito in questo caso. Quale rapporto esiste tra il concetto psicologico di coscienza e il concetto della sfera della conoscenza pura19? Si tratta tuttora di un problema fondamentale della filosofia, che risale, forse, al periodo della scolastica. È questo il luogo logico di molti problemi che sono stati ultimamente ripresi dalla fenomenologia20.

A questo punto Benjamin arriva al fulcro della sua teoria dell’esperienza: La filosofia si fonda sul presupposto che la struttura della conoscenza comprenda anche quella dell’esperienza (in der Struktur der Erkenntnis die der Erfahrung liegt), e che la seconda possa essere derivata (entfaltet) dalla prima21.

L’esperienza deve essere derivata e sviluppata dalla conoscenza, i principi di questa devono produrre il contenuto di quella, nello stesso modo in cui Cohen deriva nella Logica, dalle leggi-del pensiero come fondazione del pensiero e fondamento dell’essere, e dai giudizi della matematica, della scienza naturale e della metodica, l’“essere”, il contenuto oggettuale della conoscenza che per lui è contenuto nella scienza fisico-matematica. L’“esperienza” come conoscenza pura che Cohen ha in mente, il cui concetto svilupperà nel confronto con Kant in Kants Begründung der Ethik e nelle ultime due edizioni di Kants Theorie der Erfahrung (e il cui metodo trascendentale applicherà poi anche all’etica e all’estetica), coincide con il “fatto” della scienza fisico-matematica, è quindi una radicalizzazione e una apriorizzazione del lato meccanico dell’esperienza, e non soddisfa Benjamin. Egli cerca invece un’esperienza che, come conoscenza pura, includa anche la religione, cioè permetta l’«esperienza di Dio e la sua dottrina»22, ma soltanto in quanto la filosofia può e deve pensare Dio solo come Inbegriff, complesso e unità sistematica (come idea metafisica) della conoscenza pura, e non come entità metafisica e oggetto di un’esperienza del soggetto conoscente (l’uomo): Allora quest’esperienza include anche la religione, ossia la vera religione, dove né Dio né l’uomo sono oggetto o soggetto dell’esperienza, ma quest’esperienza si fonda sulla conoscenza pura, come cui complesso (Inbegriff) soltanto la filosofia può e deve pensare Dio23. La teoria della conoscenza futura ha il compito di trovare, per la conoscenza, la sfera della neutralità totale rispetto ai concetti «oggetto» e «soggetto»; in altri termini, di determinare la sfera autentica e autonoma della conoscenza24, in cui questo concetto non indica più affatto la relazione fra due entità metafisiche25.

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20. La critica al concetto di conoscenza di Kant

La necessità di superare la concezione della conoscenza come rapporto soggetto-oggetto era già chiara a Noeggerath, che aveva contrapposto a questo il rapporto forma-contenuto e forma-materia, come correlazione e rapporto funzionale tra un’idea e una serie di concetti26, e a Cohen27. Anche Benjamin vuole superare questa contrapposizione tra soggetto e oggetto nella conoscenza attraverso una “purificazione” (Reinigung) della teoria della conoscenza, cioè attraverso una eliminazione del suo rapporto con l’intuizione sensibile28, e quindi anche in lui il rapporto che si pone non è tra i concetti e l’intuizione sensibile nell’esperienza possibile, ma tra i concetti e le idee come concetti-limite e guide per la loro ricognizione.

Note 1Über

das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 160; trad. it. cit., p. 217

2 Ibid. 3 Ibid. 4 Ivi,

p. 161; trad. it. cit., p. 217.

5 Ibid. 6 Ivi,

p. 161; trad. it. cit., pp. 217-218 (traduzione modificata). F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 20: «[in Kant c’è] il distacco da una “cosa in sé” pensata come transeunte e come data in modo finito con intenzione oggettiva, e la restrizione del mezzo conoscitivo al fenomeno [die Abkehr von einem als transeunt und endlich gegeben gedachten “Ding an sich” in gegenständlichen Absicht und die Restriktion der Erkenntnismittel auf die Erscheinung]». Cfr. anche ivi, p. 22: «Quindi emerge in primo piano [in Kant] la lotta contro ogni trascendenza di una cosa in sé finita e data in modo assoluto con intenzione oggettiva [Dann tritt bestimmend in der Vordergrund der Kampf gegen jede Transzendenz eines endlich und absolut gegebenen Ding an sich in gegenständlicher Absicht]». 8 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 161; trad. it. cit., p. 218. Nella lotta contro la cosa in sé finita e data in modo assoluto, nella lotta per l’immanenza, Kant usa secondo Noeggerath i concetti della sintesi e della relazione, il concetto dell’infinito e la divisione in fenomeni e noumeni: Kant non si pone il problema dei confini (Schränke) del conoscere umano – che smarriscono la strada tra soggetto e oggetto e la rendono senza fine (endlos) – ma dei limiti (Grenzen) della conoscenza stessa, che forniscono (vermitteln) una relazione (Relation) tra forma e contenuto e rendono questa relazione infinita (unendlich) (cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 22). Tuttavia per Noeggerath l’interpretazione della filosofia di Kant come rapporto di forma e contenuto incontra delle difficoltà, tra le quali quella di una concezione metafisica del soggetto, concezione che anche Benjamin critica. Cfr. ancora Noeggerath ibid.: «I presupposti della concezione cosiddetta metafisica, dominata dal soggetto, intervengono veramente in modo troppo profondo e determinante nelle pri7 Cfr.

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Esperienza e compito infinito missime impostazioni della critica teoretica [Zu tief und zu bestimmend greifen eben doch die Voraussetzungen der sogenannten metaphysichen, der vom Subjekt beherrschten Anschauungsweise in allererste Ansätze der theoretischen Kritik tatsächlich ein]». 9 Über das Programm der kommenden Philosophie, GS, II, 1, p. 161; trad. it. cit., p. 218. 10 Cfr. ibid. Benjamin porta degli esempi di Erkenntnismythologien: «Sappiamo di popoli naturali dello stadio cosiddetto preanimistico che si identificano con animali sacri e piante, che si chiamano come loro. Sappiamo di folli che in parte si identificano anch’essi con gli oggetti della loro percezione, che dunque per loro non sono più “obiecta”, contrapposti; sappiamo di ammalati che non attribuiscono le sensazioni del proprio corpo a se stessi, ma ad altri esseri, e di chiaroveggenti che perlomeno affermano di poter recepire le sensazioni di altri come se fossero loro proprie» (ivi, pp. 161-162; trad. it. cit., p. 218). 11 Ivi, p. 162; trad. it. cit., p. 218. 12 Ibid. (traduzione modificata). 13 Ibid. 14 Sul principio dell’Ursprung come fondazione nel pensiero e fondamento dell’essere (come contenuto delle scienze fisico-matematiche) nella Logik e sugli Urteile der Denkegesetze come riflessioni logiche sui principi della conoscenza e conoscenze che precedono la conoscenza oggettuale (sempre creata dalla conoscenza pura, gegenstandlogisch) delle scienze fisico-matematiche, cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 183-193, in part. le pp. 185-187. 15 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 6-7 e p. 37. 16 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 162; trad. it. cit., p. 218-219. 17 Ivi, p. 162; trad. it. cit., p. 219. 18 Ibid. 19 Qui c’è un rimando implicito alla Logica della conoscenza pura di Cohen, che anche prende le distanze dalla conoscenza psicologica. Anche Noeggerath aveva criticato l’intellettualismo dicendo che le forme universali in cui si manifesta sono il «panlogismo e [la] concezione psicologica della teoria della conoscenza in genere e della teoria degli oggetti in genere [Panlogismus und psychologische Auffassung der Erkenntnis- und der Gegenstandstheorie überhaupt]» (F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. I). 20 Si ricordi che Benjamin aveva letto le Ideen I (oppure, ma è meno probabile, le Ricerche logiche) di Husserl, e che aveva frequentato i corsi di Moritz Geiger. Inoltre egli aveva letto nel 1916 un saggio di Paul F. Linke sui «Kant-Studien», che gli aveva permesso di capire meglio l’essenza della fenomenologia e di cui aveva discusso con Scholem. Sulla scia delle riflessioni e discussioni nate da quella lettura aveva scritto il testo, considerato improvvisato e ancora incompleto, ma con alcune riflessioni giuste, Eidos e concetto (W. Benjamin, Eidos und Begriff, in GS, VI, pp. 29-31, 1916; cfr. Benjamin a G. Scholem, 6-IX-1917, in GB I, p. 380, Benjamin a G. Scholem, 23-XII-1917 ca., ivi, p. 410 e Benjamin a G. Scholem, 10-II-1918, ivi, pp. 427-428). Cfr. P. F. Linke, Das Recht der Phenomenologie. Eine Auseinandersetzung mit Th. Elsenhans, in «Kant-Studien», 21, 1916, pp. 163-221. 21 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 163; trad. it. cit., p. 219. 22 Ivi, p. 164; trad. it. cit., p. 220. 23 Cfr. la lettera di Benjamin a Scholem del gennaio 1918: «È metafisica quella conoscenza che concepisce a priori la scienza come una sfera nel nesso dell’ordine divino

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20. La critica al concetto di conoscenza di Kant assoluto, la cui sfera più alta è la dottrina, e il cui complesso (Inbegriff) e causa prima (Urgrund) è Dio, e che considera anche l’“autonomia” della scienza sensata e possibile solo in questo nesso. Questo è per me il fondamento metodico per cui non ritengo possibile a priori l’etica né ogni altra scienza senza metafisica, cioè al di fuori di questo nesso indicato» (Benjamin a G. Scholem, 31-I-1918, in GB I, p. 422). La dimensione dell’autonomia nella conoscenza, nell’etica e nell’estetica (nelle idee dell’origine e dell’umanità come fine e nella interiorizzazione attraverso il sentimento puro delle precondizioni etiche e conoscitive nell’arte) è anche al centro della filosofia di Cohen. Sull’idea di Dio come Grund ma non Inbegriff della possibilità di tutte le cose cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 608-609, pp. 520-521, trad. it. cit., pp. 459-460: «La realtà suprema, piuttosto, starebbe alla base della possibilità di tutte le cose come un f o n d a m e n t o (Grund) e non come un c o m p l e s s o (Inbegriff), e la molteplicità di queste proverebbe non dalla limitazione dell’Essere originario stesso, bensì dal suo completo sviluppo (Folge), di cui anche la nostra sensibilità tutta quanta, insieme con tutta la realtà del fenomeno, farebbe parte: sensibilità, che non potrebbe appartenere come un ingrediente all’idea dell’Essere supremo. […] Quindi io domando: in che modo la ragione giunge a considerare ogni possibilità delle cose come derivante da una sola, che ne è alla base, ossia dalla possibilità della realtà suprema, e a presuppore quindi questa realtà come contenuta in uno speciale Essere originario?». 24 Qui c’è un altro accenno alla Logik di Cohen. 25 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 163; trad. it. cit., p. 219 (traduzione modificata). 26 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 12-17 e 4347. Cfr. il sommario (Inhalstverzeichnis) a p. 109: «Due interpretazioni del problema della conoscenza: primo l’opposizione soggetto-oggetto, secondo la correlazione tra forma e contenuto (principium e principiatum) (12-17). […] La domanda sulla “terza parte” e di una nuova funzione del soggetto che vada al di là del c o n c e t t o . (38-40) […] La terza parte = forma: la nuova funzione del soggetto = idea. La possibilità che con ciò è data della trasposizione del concetto di sintesi a domini ulteriori. (43-44) Il nesso con il concetto di funzione. Soggetto e predicato come coordinate dell’idea. (44-47) [Zwei Auffassungen von Erkenntnisproblem: erstens der Gegensatz Subjekt-Objekt, zweitens die Korrelation zwischen Form und Inhalt (Principium und Principiatum). (12-17) […] Die Frage nach dem “dritten Stück” und nach einem neuen, über den B e g r i f f hinausgehenden Subjektsfunktion. (38-40) […] Der dritte Stück = Form: die neue Subjektsfunktion = Idee. Die damit gegebene Möglichkeit der Übertragung des Synthesisbegriff auf weitere Gebiete. (43-44) Der Zusammenhang mit dem Begriff der Funktion. Subjekt und Prädikat als Koordinaten der Idee”. (44-47)]». 27 Nella prima edizione della Kants Begründung der Ethik (Bruno Cassirer, Berlin, 1877) Cohen abbandona l’analisi gnoseologica orientata sul soggetto e ricerca, con il metodo trascendentale, la fondazione e giustificazione dell’oggetto della conoscenza dato nella scienza fisico-matematica, come Faktum storicamente determinato e “esperienza” apriorizzata, senza riferimento all’intuizione e alla percezione. Cfr. su questo H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 131-132: «La nuova impostazione era determinata dall’abbandono dell’analisi gnoseologica indirizzata in modo soggettivo a favore di una fondazione che affrontava e giustificava l’oggetto della conoscenza. Questo significava: d’ora in poi la conoscenza non doveva più essere spiegata come prodotto (Vollzug) di un soggetto conoscente, ma come “esperienza divenuta reale in libri stampati” (KBE A 27), questa spiegazione doveva rendere validi non più fattori soggettivi della sensibilità o del pensiero, ma principi (Grundsätze), e doveva rendere valido come

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Esperienza e compito infinito fondamento ultimo di tutta la conoscenza l’“unità della coscienza” solo come “espressione della legalità (Gesetzmässigkeit) all’interno di un’unica esperienza che comprende tutto”, cioè come legge (ivi, 47). Lo stabilire il “metodo trascendentale” (KBE A 20 ss.) significò che si doveva partire dall’esperienza data e si dovevano scoprire le condizioni della sua possibilità, dal concetto d’esperienza spiegato nelle sue caratteristiche costitutive doveva però essere dedotto ciò “che sempre esige il valore conoscitivo della realtà oggettiva” (24). La rinuncia alla fondazione soggettiva della conoscenza implicò una formulazione modificata del compito teoretico rispetto all’oggetto (objektstheoretische Aufgabe)». Per un quadro delle posizioni neokantiane sulla questione “soggetto-oggetto” cfr. M. Brelage, Studien zur Transzendentalphilosophie, de Gruyter, Berlin, 1965, pp. 94 ss. 28 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 18-19: «così devono, come concetti e giudizi definiti in modo sintetico, contenere momenti essenziali che li esimono dal ricorrere a tali elementi dati primari (dunque anche all’intuizione di Kant). E questo non perché la sintesi li ordini in un “nulla” (quindi coincida alla fine di nuovo con la logica formalistica), ma perché essa non ordina affatto (meno di tutti [ordina] “rappresentazioni”) e “ p r o d u c e ” i suoi contenuti nel senso che essa, come loro forma, può essere divisa da essi solo nell’astrazione. Da questo punto di vista la rappresentabilità nell’intuizione sarà o un sintomo secondario oppure una domanda empirica, di cui non si può trattare qui. Essa non deve essere in nessun caso derivata dal c o n c e t t o della sintesi [so müssen als synthetisch definierte Begriffe und Urteile Wesensmomente enthalten, die sie jedes Rekurrierens auf solche primär gegebene Elemente (also auch auf Kants Anschauung) entheben. Und dies nicht etwa deshalb, weil Synthesis ihr Ordnen an einem “Nichts” vollzieht (also letzten Endes wieder mit der formalistischen Logik zusammenfällt) sondern weil sie überhaupt nicht “ordne” (am wenigsten “Vorstellungen”) und in einem Sinn ihre Inhalte “ e r z e u g t ” , dass sie, als deren Form, nur in der Abstraktion von ihnen zu trennen ist. Unter diesem Gesichtspunkt wird die Darstellbarkeit in der Anschauung entweder ein sekundäres Symptom oder aber eine empirische Frage, um die es sich hier überall nicht handeln kann. Dem B e g r i f f der Synthesis ist sie auf keinen Fall zu entnehmen]». La rappresentabilità nell’intuizione (die Darstellbarkeit in der Anschauung) come sintomo secondario del contenuto della conoscenza rimanda alla concezione di Benjamin dell’esperienza “esperita” come «simbolo dell’unità della conoscenza» (Über die Wahrnemung, in GS, VI, p. 37). Noeggerath riprende la concezione del contenuto della conoscenza come contenuto “prodotto”, centrale nella Logik di Cohen e nel giudizio dell’origine, ed è probabile, come si è già detto, che Benjamin riprenda molti temi della Logik coheniana attraverso la mediazione di Noeggerath.

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21. Il nuovo concetto di esperienza come possibilità logica della metafisica e dell’esperienza religiosa

Benjamin enuncia per il programma della filosofia futura il principio che con la «purificazione della teoria della conoscenza, che Kant ha permesso e reso necessaria come problema radicale»1, non sarà stabilito soltanto «un nuovo concetto della conoscenza, ma anche e insieme dell’esperienza», conformemente «alla relazione che Kant ha stabilito tra le due strutture»2. Entrambe non devono essere in rapporto con la coscienza empirica: anche qui resterebbe fermo il principio, che anzi «realizzerebbe per la prima volta il suo significato autentico», che «le condizioni della conoscenza sono quelle dell’esperienza»3. Questo nuovo concetto dell’esperienza fondato su nuove condizioni della conoscenza sarebbe «il luogo logico e la possibilità logica della metafisica»4, cioè il luogo di una metafisica come unità – data dalle idee – della conoscenza pura, di una conoscenza di cui siano state assicurate precedentemente le condizioni di apriorità: Questo nuovo concetto dell’esperienza che sarebbe fondato su nuove condizioni della conoscenza sarebbe a sua volta il luogo logico e la possibilità logica della metafisica. E infatti per quale motivo Kant si sarebbe posto continuamente il problema della metafisica e avrebbe ripetutamente affermato che l’esperienza è l’unica base della conoscenza, se non perché il suo concetto di esperienza doveva implicare l’impossibilità di una metafisica che avesse lo stesso significato di quella precedente (beninteso non di una metafisica in genere)? Ma evidentemente ciò che caratterizza il concetto della metafisica non è l’illegittimità delle sue conoscenze (almeno non per Kant, che altrimenti non avrebbe scritto i prolegomeni per la metafisica): è la sua capacità universale di collegare direttamente l’esperienza intera con il concetto di Dio5, mediante le idee6.

Benjamin riprende la concezione di Kant delle idee regolative come schemi7, come guide per l’intelletto nell’esperienza della natura, ma, considerando l’esperienza come conoscenza non più riferita all’intuizione sensibile e come intero ambito della filosofia e sistema della  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

conoscenza pura (anche scientifica), fa delle idee la base (non più solo regolativa) per la sua unità e continuità (perché deve essere assicurata la continuità e il rapporto – pur nella distinzione – tra i diversi ambiti del sistema) come conoscenza pura: Già nella versione kantiana la dialettica trascendentale indica le idee, su cui si fonda l’unità dell’esperienza8. Ma, come si è detto, per un concetto approfondito di esperienza la continuità è indispensabile non meno dell’unità, e nelle idee deve essere ritrovata (aufgewiesen) la ragione dell’unità e della continuità di quell’esperienza non volgare e non soltanto scientifica, ma metafisica9.

Il compito della filosofia futura è quello di «scoprire o creare quel concetto di conoscenza che rapporta lo stesso concetto di esperienza solo ed esclusivamente alla coscienza trascendentale», e che nell’eliminazione del riferimento alla coscienza empirica «assicura la possibilità logica», fondata solo sui principi della conoscenza (e sulle idee della ragione per la loro unità) «non solo dell’esperienza meccanica», che comunque rimane una parte dell’esperienza, «ma anche di quella religiosa»10. Benjamin considera infatti la religione il luogo della «totalità concreta dell’esperienza»11, in cui le idee hanno la loro origine. Esse possono essere però date alla filosofia solo nella loro veste filosofica di concetti dell’unità della conoscenza, come idee della dottrina, dove la dottrina è per lui l’intero ambito dell’esperienza nella sua unità e continuità come conoscenza pura: Ma c’è un’unità dell’esperienza che non può essere affatto intesa come somma di esperienze, e a cui si riferisce direttamente il concetto della conoscenza, come dottrina nel suo dispiegamento (Entfaltung) continuo. L’oggetto e il contenuto di questa dottrina, questa totalità concreta dell’esperienza è la religione, che tuttavia dapprima è data alla filosofia solo come dottrina. Ma la fonte del Dasein12 sta nella totalità dell’esperienza, e solo nella dottrina la filosofia incontra un assoluto13, come Dasein, e quindi quella continuità nella natura dell’esperienza che il neokantismo ebbe il torto di trascurare14.

Nel progetto di Benjamin, le idee, a cui egli si riferisce anche con il termine Dasein, devono permettere il rapporto (che si dà nel simbolo) tra gli ambiti del sistema della filosofia, e l’unità sistematica di ciascun ambito (anche fondato – come in Noeggerath – su un rapporto esibitivo tra idee e concetti), quindi la continuità dell’esperienza come sistema della filosofia; mentre il neokantismo, considerando l’esperienza e tutta la filosofia un «sistema delle scienze»15, aveva trascurato  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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21. Il nuovo concetto di esperienza come possibilità logica della metafisica

questa continuità, e l’aveva fondata solo sul metodo trascendentale come riferimento a un “fatto” scientifico (in analogia con la scienza fisico-matematica) per ogni ambito sistematico, da cui bisognava risalire alle condizioni di possibilità. Il fatto che il nuovo concetto di conoscenza e quindi di esperienza assicuri la possibilità logica dell’esperienza religiosa, come luogo filosofico dell’unità e continuità della conoscenza-esperienza e come esperienza percettiva e simbolica di questa unità, non significa per Benjamin che la conoscenza renda possibile Dio, ma «solo e precisamente che essa soltanto consente l’esperienza di Dio e la sua dottrina»16.

Note Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 163; trad. it. cit., p. 220 (traduzione modificata). 2 Ibid. 3 Ibid. 4 Ibid. 5 Sull’unità dell’esperienza come oggetto trascendentale (a cui fa riferimento anche Hermann Cohen quando definisce l’esperienza come cosa in sé e compito, quindi problema del pensiero; cfr. H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, in Werke, cit., Band 1.1, pp. 659-664) cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, cit., Bände III-IV, B 522-523, pp. 462-463; trad. it. cit., pp. 403: «Possiamo tuttavia chiamare la causa meramente intelligibile dei fenomeni in generale “oggetto trascendentale” unicamente per avere qualcosa che corrisponda alla sensibilità in quanto recettività. A questo oggetto trascendentale possiamo ascrivere tutto l’ambito (Umfang) e la connessione (Zusammenhang) delle nostre percezioni possibili, e dire che esso è dato in sé prima di ogni esperienza. Ma conformemente ad esso i fenomeni sono dati non in sé, bensì soltanto in quest’esperienza, perché son mere rappresentazioni, che soltanto come percezioni importano (bedeuten) un oggetto reale, quando cioè questa percezione si riconnetta con tutte le altre secondo le regole dell’unità dell’esperienza». Sull’ideale trascendentale (l’idea di Dio) come idea del complesso (Inbegriff) di ogni realtà e dell’esperienza, cfr. ivi, B 611-612, pp. 522-523; trad. it. cit., p. 461: «niente è p e r n o i un oggetto, se esso non presuppone il complesso (Inbegriff) di tutta la realtà empirica come condizione della sua possibilità. E per una illusione naturale noi consideriamo questo come un principio che debba valere di tutte le cose in generale, laddove propriamente vale soltanto di quelle che sono date quali oggetti de’ nostri sensi. […] Ma che noi poscia ipostatizziamo questa idea del complesso (Inbegriff) di ogni realtà, nasce da qui: che l’unità d i s t r i b u t i v a dell’uso sperimentale (Erfahrungsgebrauch) dell’intelletto, noi la mutiamo nell’unità collettiva d’un tutto d’esperienza (Erfahrungsganze); e in questo tutto del fenomeno pensiamo una cosa singola che contiene in sé ogni realtà empirica, e che pertanto mediante la già nota surrezione trascendentale, viene scambiata col concetto di una cosa che sta in cima alla possibilità di tutte le cose, la cui determinazione completa fornisce le condizioni reali». 6 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 163-164; trad. it. cit., 1

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Esperienza e compito infinito p. 220. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, cit., Bände III-IV, B 359, p. 314; trad. it. cit., p. 291: «[La ragione] non si indirizza mai immediatamente all’esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un’unità a priori per via di concetti» 7 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, cit., Bände III-IV, B 699, p. 583; trad. it. cit., p. 522: «il concetto di un’Intelligenza suprema è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò, che esso si riferisca direttamente a un oggetto (poiché in tal senso noi non potremmo giustificare il suo valore oggettivo), ma esso non è se non uno schema, ordinato secondo le condizioni della massima unità razionale, del concetto d’una cosa in generale; schema che ci serve soltanto per mantenere nell’uso empirico della nostra ragione la massima unità sistematica, in quanto l’oggetto dell’esperienza, in qualche modo, si ricava dall’oggetto escogitato di quest’idea, quasi suo principio e causa». 8 Cfr. I. Kant, Appendice alla dialettica trascendentale, Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura, ivi, B 670-697, pp. 563-582; trad. it. cit., pp. 503-521. 9 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 167; trad. it. cit., p. 224. 10 Ivi, p. 164; trad. it. cit., p. 220. 11 Ivi, p. 170; trad. it. cit., p. 226. 12 Il termine tedesco Dasein ha anche qui – lo si è già trovato nel saggio Due poesie di Friedrich Hölderlin – il significato di “assoluto” e di “idea”, piuttosto che quello di “esistenza”. Si preferisce lasciare il termine in tedesco anche nella traduzione. 13 Sull’uso della parola “assoluto” nei riguardi delle idee cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, cit., Bände III-IV, B 381-383, pp. 329-330; trad. it. cit., pp. 306-307. 14 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., pp. 226-227 (traduzione modificata). 15 Ivi, p. 164; trad. it. cit., p. 221. 16 Ibid.

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22. Il neokantismo come sviluppo (incompleto) nella direzione della filosofia futura

Benjamin pensa che il neokantismo si muova nel senso di quegli sviluppi della filosofia che egli ritiene «opportuni e necessari»1, soprattutto con l’eliminazione della distinzione tra intuizione e intelletto, quindi con l’eliminazione del riferimento al dato sensibile, e la conseguente apriorizzazione dell’esperienza2, concepita come contenuto della scienza fisico-matematica. L’intuizione coincide in Cohen con l’intuire, è un «mezzo della conoscenza», è l’«elemento di un metodo» che si riferisce alla «coscienza come a un dato»3: Uno dei principali problemi del neokantismo è stato quello di eliminare la distinzione fra intuizione e intelletto – un residuo metafisico come tutta la dottrina della facoltà così come viene presentata da Kant. In tal modo – ossia con la trasformazione del concetto di conoscenza – si è trasformato anche e immediatamente il concetto di esperienza4.

Questo aveva portato in Cohen a una applicazione sia all’esperienza come conoscenza della natura che all’etica e all’estetica del metodo trascendentale come riferimento a una scienza storicamente determinata da cui risalire alle condizioni di possibilità: la scienza fisicomatematica, il diritto e il Faktum dell’arte. Queste formano un sistema delle scienze, ognuna con una propria legalità (Gesetzmäßigkeit) di cui è forma la cosa in sé5. La riduzione di tutta l’esperienza all’esperienza scientifica, che aveva portato allo sviluppo estremo (nell’eliminazione della sensibilità) del lato meccanico e vuoto (non religioso) del concetto illuministico di esperienza, non era però secondo Benjamin nelle intenzioni di Kant: Infatti è fuor di dubbio che la riduzione di tutta l’esperienza a quella scientifica non era nelle intenzioni di Kant, anche se può essere per certi aspetti lo sviluppo del suo pensiero effettivo. In Kant c’era sicuramente una tendenza contraria alla dispersione e suddivisione dell’esperienza nei singoli settori della scienza, e anche se la teoria della conoscenza successiva dovrà

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Esperienza e compito infinito escludere il ricorso all’esperienza abituale6, come si ritrova in Kant, d’altro lato, nell’interesse della continuità dell’esperienza la sua rappresentazione come sistema delle scienza, come la dà il neokantismo, è ancora incompleta. […] Ma la correzione neokantiana di uno dei pensieri metafisicizzanti di Kant, e non di quello fondamentale, è stata accompagnata da un cambiamento del concetto di esperienza; che in un primo tempo consiste proprio – significativamente – nello sviluppo estremo del lato meccanico del concetto illuministico di esperienza – un concetto relativamente vuoto7.

Benjamin pensa che la possibilità di un «sistema puro e continuo di tutta l’esperienza»8 dovrà trovarsi nella metafisica: il suo significato più autentico dovrà essere cercato proprio nel suo essere insieme e connettivo di tutta l’esperienza non solo scientifica, ma anche religiosa. Per renderla possibile sarà importante il concetto di libertà, che è stato approfondito e sviluppato anche dal neokantismo, poiché è «in una peculiare correlazione con il concetto meccanico di esperienza»9, come concetto limite dell’esperienza, come cosa in sé, compito e idea di fine10.

Note 1

Ivi, p. p. 164; trad. it. cit., p. 220. Sulla «apriorizzazione dell’ “esperienza” nel concetto della conoscenza scientifica» cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 131-133. 3 H. Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, in Werke, cit., Band 5.1, § 25, p. 18. Cohen supera la divisione tra forme dell’intuizione e concetti del pensiero, ma li mantiene distinti in quanto diversi modi di procedere nella produzione della conoscenza. In Das Prinzip der Infinitesimal Methode und seine Geschichte (1883), l’intuizione, come “intuire”, è un elemento della conoscenza nel senso puro di “mezzo di conoscenza”, di “elemento di un metodo”, in quanto “riferimento della coscienza come a un dato”, fondato sul concetto di infinitesimale e di tempo, di successione. Cfr. ivi, §§ 24-26, pp. 18-20 (il passo è stato già citato sopra). Su questo cfr. A. Deuber–Mankowsky, Der frühe Walter Benjamin und Hermann Cohen. Jüdische Werte, Kritische Philosophie, vergängliche Erfahrung, cit., p. 56. 4 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 164; trad. it. cit., p. 220. 5 Per H. Holzhey la cosa in sé ha in Cohen il doppio compito di essere forma della legalità (Gesetzmäßigkeit) e concetto-limite, idea di fine come idea guida per l’unità degli ambiti sistematici. Cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., p. 348. 6 Si tratta dell’intuizione sensibile. 7 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 164; trad. it. cit., pp. 220-221 (traduzione modificata). 2

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22. Il neokantismo come sviluppo (incompleto) nella filosofia futura 8

Ivi, p. 164; trad. it. cit., p. 221. Ivi, p. 165; trad. it. cit., p. 221. 10 Benjamin si riferisce qui al concetto di Cohen dell’intero ambito (come unità e nesso) dell’esperienza come cosa in sé e compito, come concetto-limite, che implica un riferimento della scienza della natura all’idea regolativa della libertà e dell’autonomia. Compiti della cosa in sé, in tutti e tre gli ambiti del sistema, sono la «forma della legalità (Gesetzmäßigkeit)» (H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., p. 347), in cui le forme a priori sono metodi per l’oggettivazione in leggi, e la visione teleologica dell’idea che si divide nei tre modi della concezione teleologica della natura (che è guidata dall’idea di una conformità a scopi delle forme della natura), la concezione morale (che pone la questione della libertà e considera le persone come scopi finali), e la concezione estetica (che si esplica nel libero gioco delle facoltà) (cfr. ivi, p. 349). Secondo Holzhey il tentativo di unire i domini dell’essere e del dover essere e di vedere l’idea regolativa di libertà come concetto di libertà etico, viene da Cohen abbandonato dopo la seconda edizione di Kants Theorie der Erfahrung (1885): «Non si proseguirà ulteriormente nel tentativo di unire i “regni” di essere e dover essere nell’idea di fine con il loro rapporto allo scopo finale, nel tentativo di indicare l’idea regolativa di libertà – concetto limite della teoria dell’esperienza – come concetto di libertà etico» (ivi, p. 349).

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9

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23. La trasformazione del concetto di libertà e il mantenimento della tricotomia del sistema kantiano

Ma anche qui si deve sottolineare che l’intero complesso dei problemi dell’etica non si risolve nel concetto dell’eticità che hanno l’illuminismo, Kant e i kantiani, allo stesso modo che la metafisica non si riduce a quella che essi chiamano esperienza. E quindi il nuovo concetto d’esperienza comporterà una trasformazione decisiva non solo del concetto dell’esperienza, ma anche di quello della libertà1.

Benjamin concepisce un ambito dei problemi dell’etica che supera il concetto di etica di Kant e del neokantismo (fondato sull’autonomia del pensiero e del volere e sull’uomo considerato come fine), forse perché questo concetto è considerato troppo formale (e in Cohen è legato al “fatto” scientifico del diritto), e perché per la filosofia futura è previsto un ruolo fondamentale del concetto di libertà in tutti e tre gli ambiti della filosofia (come in Noeggerath)2, ruolo di fatto presente anche in Cohen, ma all’interno di una visione scientifica dell’esperienza come scienza fisico-matematica e dell’etica e dell’estetica riferite alle “scienze” del diritto e dell’arte (in analogia con la “legalità” della scienza della natura)3. Per Benjamin invece l’ambito della metafisica è più ampio dell’ambito del concetto d’esperienza kantiano e neokantiano, di Cohen e anche, sembra intendere, di Natorp4: etica e metafisica devono superare il metodo trascendentale legato al Faktum della scienza e riferirsi, come si vedrà, a un metodo che comprenda religione e linguaggio. Benjamin pensa che la trasformazione del concetto di conoscenza comporterà una trasformazione non solo del concetto di esperienza, ma anche di quello della libertà, intendendo l’esperienza nel senso tradizionale kantiano di dominio del concetto della natura, a cui si contrappone il dominio del concetto di libertà. Egli intende dire contemporaneamente che il nuovo concetto di esperienza (come sistema della filosofia) sarà trasformato da un nuovo significato del concetto di libertà, in tutti i suoi ambiti, che dovranno però sempre rimanere distinti (come anche in Noeggerath5). Il concetto di libertà  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

avrà un nuovo significato poiché la sua applicabilità verrà estesa a tutti gli ambiti del sistema (come causalità per libertà e conformità a scopi della natura, come legislazione della ragion pratica e come libero gioco delle facoltà conoscitive, immaginazione e intelletto, nel giudizio estetico), e permetterà di metterli in relazione: Ora qualcuno potrebbe forse sostenere che la scoperta di un concetto di esperienza che determinasse il luogo logico della metafisica finirebbe per cancellare la differenza fra i regni della natura e della libertà. Ma qui, dove non si tratta di dimostrare, ma solo di indicare un programma di ricerca, dobbiamo precisare quanto segue: se è vero che una nuova logica trascendentale rende necessaria e inevitabile la trasformazione del campo della dialettica, del passaggio dalla dottrina dell’esperienza a quella della libertà, è altrettanto vero che questa metamorfosi non deve sfociare in una confusione di libertà e esperienza, anche se il concetto di esperienza in senso metafisico può essere trasformato da quello della libertà in un senso ancora ignoto. Poiché, per quanto imprevedibili possano essere le trasformazioni che si schiuderanno alla ricerca: la tricotomia del sistema kantiano è uno degli elementi fondamentali di quella tipica che deve essere conservata, e deve essere preservata prima di ogni altra cosa6.

Il concetto di libertà, come causalità per libertà, potrà, come in Noeggerath7, riferirsi all’esperienza come scienza della natura, per la sua unità sistematica: Si può chiedere se la seconda parte del sistema (per tacere della difficoltà della terza)8 si deve ancora riferire all’etica, o se la categoria della causalità per libertà può avere un altro significato; la tricotomia – di cui non si sono ancora scoperte le relazioni metafisicamente più profonde – nel sistema kantiano trova la sua fondazione decisiva già nella triplicità delle categorie di relazione. La tricotomia assoluta del sistema, che proprio in questa sua tripartizione si riferisce a tutta la sfera della cultura9, costituisce una delle ragioni della superiorità storica del sistema di Kant su quello dei suoi precursori. Ma la dialettica formalistica dei sistemi postkantiani non è fondata sulla determinazione della tesi come relazione categorica, dell’antitesi come relazione ipotetica e della sintesi come relazione disgiuntiva10.

Qui, come si è già visto, è fondamentale l’influenza di Noeggerath11 e la sua concezione della sintesi e del sistema in rapporto alle tre categorie di relazione.

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23. La trasformazione del concetto di libertà Note

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1

Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 165; trad. it. cit., p.

221. 2

Cfr. quanto detto sopra sul ruolo in Noeggerath del concetto di libertà come origine e autonomia e presupposto problematico di ognuno dei tre metodi filosofici, della logica, dell’etica e dell’estetica. Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 10. 3 Cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 91; trad. it. cit., p. 69: «La verità consiste nel riconoscimento della ragione scientifica. […] Soltanto la logica fa del sapere una scienza e soltanto l’etica, in accordo con la logica e sulla base di essa, rende possibile l’eticità secondo la legge fondamentale della verità». 4 Come si è già visto, non si sa molto sulla conoscenza che Benjamin ha di Natorp, ma nel gennaio del 1919 Benjamin scrive a Scholem che sta per ricevere Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, e che il testo sarà poi a sua disposizione (cfr. Benjamin a Scholem, 23-I-1919, in GB II, p. 9). Sul sistema della filosofia (e la sua unità) in Natorp cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 357-361 e H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, pp. 331-343 e pp. 349-352. 5 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 7: «Secondo la specie [il metodo trascendentale più generale] delimita reciprocamente in modo periferico i diversi ambiti e permette così il loro confronto e infine la comprensione profonda della loro incommensurabilità [Der Art nach grenzt sie peripherisch die verschiedene Bereiche gegen einender ab und ermöglicht so ihren Vergleich und endlich die tiefere Einsicht in jene Inkommensurabilität]» e p. 10: «Ma il nostro inizio con l’etica non significa il suo primato nel senso di Platone e di Kant, né la “causalità per libertà” è un principo etico. Piuttosto: Il primato caratterizza il rapporto di idea e categoria, di incondizionato e condizionato in genere; la libertà però (come origine e autonomia) è presupposto problematico di ognuno dei tre metodi filosofici (non solo dell’etica), e una tale causalità assoluta ha unicamente a che fare – certo non più con la logica trascendentale stessa in senso proprio – ma ora certamente con la “metafisica della natura” o conoscenza [Ausdrücklich bedeutet uns also unser Anfang mit der Ethik nicht ihren Primat im Sinne Platons oder Kants, noch ist irgendwie “Kausalität durch Freiheit” ein ethisches Prinzip. Sondern: Der Primat charakterisiert das Verhältnis von Idee und Kategorie, von Unbedingten zu Bedingten überhaupt; Freiheit aber (als Ursprung und Autonomie) ist Problemvoraussetzung einer jeden der drei philosophischen Methode (nicht nur der Ethik), und jene absolute Kausalität hat es allein zu tun – zwar nicht mehr mit der eigentlichen transcendentalen Logik selbst – wohl aber jetzt mit der “Metaphysik der Natur” oder Erkenntnis]». 6 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 165; trad. it. cit., pp. 221-222 (traduzione modificata). 7 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 7: «Noi non ci rivolgiamo contro la definizione sopra introdotta del metodo trascendentale come tale, ma solo espressamente contro la pretesa che esso sia il solo nella filosofia. Esso descrive il rapporto tra categoria e oggetto, e in ogni considerazione esaurisce con questo il suo contributo. Esso non si fa assolutizzare, né tantomeno potrebbe – andando al di là di se stesso – voler delimitare altri compiti. Ora la menzionata “unità dell’esperienza” non è né un oggetto (del pensiero categoriale) né – a partire da un altro fondamento (Grund) – dell’essere etico o estetico. Dovessero per questo non poter divenire

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Esperienza e compito infinito affatto immediatamente problematici. Detto altrimenti: Il “fatto delle scienze” non deve essere più premessa generale, ma è, nella logica, un problema speciale della filosofia. Nell’istruzione di questo ampliamento prenderemo le mosse dalla terza Antinomia di Kant, interpreteremo dunque in questo nuovo senso la sua “causalità per libertà” [Wir wenden uns also nicht gegen die oben eingeführte Definition der transscendentale Methode als solche, sondern ausdrücklich nur gegen den Anspruch, dass sie die einzige in der Philosophie sei. Sie beschreibt das Verhältnis von Kategorie und Gegenstand, und in jedem Betracht erschöpft sich hierhin ihre Leistung. Verabsolutieren lässt sie sich nicht, und noch weniger darf sie – über sich selbst hinausgehend – andere Aufgaben beschränken wollen. Nun ist weder die erwähnte Einheit der Erfahrung ein Gegenstand (kategorialen Denkens) noch gar – aus einem anderen Grunde – ethisches oder ästhetisches Sein. Sollten sie deshalb überhaupt nicht unmittelbar können fraglich werden: Mit anderen Worten: Das “Faktum von Wissenschaften” soll nicht allgemeine Voraussetzung sein, sondern ist, in der Logik, ein Spezialproblem der Philosophie. Wir werden nun bei der Instruktion dieser Erweiterung von Kants dritter Antinomie ausgehen, in diesem neuen Sinne also seine “Kausalität durch Freiheit” deuten]». Cfr. ivi, p. 10 8 Benjamin intende qui la difficoltà della collocazione degli organismi, la cui trattazione egli vuole far rientrare nell’ambito della logica (cfr. Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 166-167; trad. it. cit., p. 223). Cfr. a proposito F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 63. Noeggerath pensa che proprio negli organismi Kant abbia trovato quella difficoltà che gli ha prospettato il bisogno di un rapporto e di un passaggio tra intelletto e ragione: «[In Kant] non furono compresi nell’ambito della trattazione i problemi della natura organica che superavano il mezzo della pura meccanica […] La caratterizzazione della c o n o s c e n z a i n g e n e r e apriori e sintetica doveva avere il suo sviluppo a partire da questo tipo, doveva infine essere compiuto il passaggio dall’ambito della natura alla conoscenza metafisica, dall’“intelletto” alla “ragione” [Nicht in den Kreis der Betrachtung wurden aufgenommen die über die Mittel der reinen Mechanik hinausgehenden Probleme der organischen Natur […]. Von diesem Typus aus sollte dann die Charakteristik apriorischer synthetischer E r k e n n t n i s ü b e r h a u p t ihrer Fortgang nehmen, sollte schliesslich der Übergang vom Bereich der Natur zu dem metaphysischer Erkenntnis, vom “Verstand” zur “Vernunft” vollzogen werden]» (ivi, p. 63). 9 Sull’unità, in Cohen, della coscienza e la diversità delle sue direzioni e delle direzioni della cultura che si riferiscono ad esse, la cui descrizione è compito della psicologia, cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 610: «Questa unificazione dei singoli domini si compie nel sistema, come verità [dell’unità] tra logica e etica. Compito della psicologia sarà quello di descrivere e determinare […] questa unità della coscienza nella diversità delle sue direzioni, che sono conformi alla diversità delle direzioni della cultura, come unità vera e vivente, e di portarla alla luce nella interazione e compenetrazione [dei suoi elementi]». 10 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 165-166; trad. it. cit., 222. 11 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 9-10.

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24. Il concetto di identità

L’influenza di Noeggerath si fa sentire anche nella considerazione di un altro concetto benjaminiano, il «concetto di identità»1, che rappresenta la possibilità di «una certa non sintesi di due concetti in un altro»2, di due concetti in un’idea, ed è vicino al concetto noeggerathiano di “disequazione” (Ungleichung)3 tra idea e serie dei concetti e frutto anche del confronto serrato con Scholem (per il quale la legge dell’identità, come identità di razionale e irrazionale – in quanto l’irrazionale diventa all’infinito razionale, le probabilità a priori e a posteriori coincidono –, finito e infinito, può essere la legge dei “grandi numeri” di Edgard Zilsel4) e della discussione sulle Thesen über das Identitätsproblem (1916)5 di Benjamin (che erano già un prodotto di questo confronto e delle sue riflessioni sulla legge d’identità nel saggio su Hölderlin6): Eppure oltre al concetto della sintesi, acquisterà un’importanza sistematica estrema anche quello di una certa non-sintesi di due concetti in un altro, poiché oltre alla sintesi è ancora possibile un’altra relazione tra tesi e antitesi. Ma possiamo escludere che ciò porterà a quattro le categorie di relazione.7 […] – La definizione del concetto di identità – un concetto ignorato da Kant – svolgerà prevedibilmente una parte molto importante nella logica trascendentale: l’identità non è presente nella tavola kantiana delle categorie, eppure costituisce probabilmente il concetto supremo di una tavola logico-trascendentale, e forse è veramente in grado di dare una fondazione autonoma alla sfera della conoscenza, al di là della coppia terminologica soggetto-oggetto. […] Si deve dimostrare come le idee convergano nel concetto sommo di conoscenza8.

Nel rapporto tra i concetti di una nuova logica trascendentale, le idee e il concetto che ne indica la loro necessaria relazione in una nonsintesi – permessa da un rapporto simbolico, esibitivo tra concetti e idee – si rende possibile quella conoscenza che al di là del rapporto soggetto-oggetto permette una conoscenza “pura”, molteplice e conti www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Esperienza e compito infinito

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nua coincidente con l’esperienza come metafisica e con la verità9 come unità sistematica10.

Note 1

Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II,1, p. 167; trad. it. cit., p. 223. Ivi, p. 166; trad. it. cit., p. 222. 3 Come si è già visto, la disequazione è una disuguaglianza nella quale compaiono una o più quantità incognite, che può essere soddisfatta soltanto per valori opportuni (compresi in uno o più intervalli) di una variabile. Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit, pp. 9 e 47-48. Cfr. il passo ivi, pp. 47-48, già citato nel capitolo 15. Si ricordi inoltre che nella Logik di Cohen, tra gli Urteile der Denkgesetze in cui Noeggerath vede la possibilità di un ampliamento del metodo trascendentale, c’è il giudizio di identità (Das Urteil der Identität). Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 93-103. 4 Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., pp. 351-354, in part. p. 354 (annotazioni dell’11-VII-1916). Come si è già visto, in queste annotazioni Scholem immagina una legge meccanico-matematica, fondata sul calcolo differenziale e capace di comprendere il processo del mondo, portata dal Messia come mistico-matematico, proveniente dall’idea della mistica (da Sion) e coincidente con la Torah (come idea della matematica), e immagina che questa legge possa essere la legge dei grandi numeri (das Gesetz der großen Zahlen) trattata da Edgar Zilsel, che dice che la probabilità a priori e quella a posteriori coincidono quando il numero dei casi diventa infinito (cfr. E. Zilsel, Das Anwendungsproblem, cit., pp. 1-2): «Ciò alla fine sarebbe desiderabile, che la nuova immagine del mondo meccanica possa essere dedotta completamente da una premessa “metafisica”, come gli Elementi di Euclide, così che non sia possibile alcuna contraddizione, questa sarebbe infatti contro l’una premessa. Forse ha buon esito indicare la legge dei grandi numeri come un tale punto di partenza e di riferimento, che può essere quindi visto come fondamento (Grundstein) del mondo, fondamento della conoscenza del mondo. Forse! Questa legge afferma che la probabilità a priori e quella a posteriori coincidono se il numero dei casi diventa infinito [cfr. E. Zilsel, Das Anwendungsproblem, cit., pp. 1-2]» (G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 354). Cfr. inoltre le pagine del diario di Scholem del 12 ottobre 1916 (cfr. ivi, pp. 405-406) in cui egli ricorda una conversazione avuta durante l’estate con Benjamin stesso sul problema dell’identità (in riferimento a Das Anwendungsproblem di Zilsel), sulla teoria del linguaggio di S. R. Hirsch e sulla figura del Messia come ultimo e primo filosofo del linguaggio: «La proposizione dell’identità A=A si regge solo sull’“enigma dell’universo”, la legge dei grandi numeri: che l’irrazionale alla fine si toglie [cfr. E. Zilsel, Das Anwendungsproblem, cit., pp. 156157]. A è A perché gli elementi intermedi del calcolo, l’incalcolabile irrazionale viene alla fine miracolosamente tolto. Se il mondo non fosse retto dalla legge dei grandi numeri, probabilmente la proposizione d’identità non varrebbe» (ivi, p. 405). Cfr. anche l’appunto dell’11 ottobre 1916, ivi, p. 404, in cui la matematica, considerata in un contesto cabbalistico, è vista superare la magia della lingua e entrare direttamente in Dio, e rendere così comprensibile la coincidenza di natura e pensiero matematico, il “problema dell’applicazione” di cui parla Zilsel. 5 Cfr. W. Benjamin, Thesen über das Identitätsproblem, in GS, VI, pp. 27-29. Qui il proble2

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24. Il concetto di identità ma dell’identità è posto nei termini di una relazione di non reversibilità che non è resa possibile dalle tre categorie di relazione: «Il problema dell’identità si può porre anche così: che una non-reversibilità consiste in un rapporto che non è reso possibile da nessuna delle tre categorie di relazione (inerenza o sostanza, causalità, reciprocità o comunanza)» (ivi, p. 28). 6 Cfr. Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin, GS, II, 1, p. 108; trad. it. cit., p. 114 (traduzione modificata): «Il poetato si rivelerà così come la premessa della poesia, come sua forma interna, come compito artistico. La legge secondo cui tutti gli elementi apparenti della sensibilità e delle idee si rivelano complessi (Inbegriffe) delle funzioni essenziali, di principio infinite, è chiamata la legge d’identità. Indichiamo così l’unità sintetica delle funzioni». Se si considera che le forme della sensibilità rientreranno poi, come si vedrà, nella logica trascendentale, appare evidente la vicinanza con il “concetto d’identità” di Sul programma della filosofia futura, dove i concetti (in cui i fenomeni sono contenuti virtualmente) sono in un rapporto simbolico con le idee, le esibiscono. Nel testo non si parla esplicitamente di simboli né di esibizione simbolica delle idee tramite i concetti ma, come si vedrà, della fondazione della conoscenza sul linguaggio. 7 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 166; trad. it. cit., p. 222. 8 Ivi, p. 167; trad. it. cit., p. 223-224. 9 Cfr. a proposito dell’identità a=a come designazione dell’identità del pensato, cioè della verità stessa (e non di un pensiero o di un oggetto), Benjamin a G. Scholem, 23XII-1917, in GB I, pp. 409-410: «Sull’argomento del problema dell’identità possiamo progredire in modo decisivo solo in un colloquio. Perciò non attribuisco alle frasi seguenti una sicurezza incondizionata. La cosa mi appare pur sempre così: io non riconoscerei una identità del pensiero come identità di un pensiero particolare, né “oggetto” né “pensato”, poiché contesto un “pensiero” come correlato della verità. La verità è “pensante (denkicht)” (devo inventarmi la parola perché non ne ho una a disposizione). “Pensiero (Denken)” come assoluto è forse soltanto in qualche modo un’astrazione a partire dalla verità. L’affermazione dell’identità del pensiero sarebbe l’assoluta tautologia. L’apparenza di un “pensiero” sorge solo tramite tautologie. La verità non viene pensata né pensa. / a è a designa a mio modo di vedere l’identità del pensato [nota: o per meglio dire (precisamente): l’identità della verità stessa]. Allo stesso tempo questa proposizione non designa altra identità che quella del pensato. L’identità dell’oggetto, posto che esista una tale identità in modo completo, avrebbe un’altra forma (forme di identità incomplete, che nella completezza diventano una delle forme a è a) – Come oggetto concreto concepisco tutto ciò che non è la verità stessa e non è concetto. Per es. il concetto è un oggetto concreto. Il concetto del concetto è un [oggetto] astratto. Questo porta probabilmente alla dottrina dell’eidos. A proposito: per quanto ne so la stima per Linke nella scuola fenomenologica ortodossa non è molto grande: naturalmente questo non significa nulla». È importante ricordare il fatto che il giudizio dell’identità è una delle Denkgesetze della Logik coheniana e determina la verità come affermazione dell’identità del contenuto del giudizio dell’origine: «La verità non è solo fondazione ma anche affermazione. […] L’affermazione va dunque piuttosto intesa come “assicurazione (Affirmatio)” (LRE 96) dell’identità del contenuto con se stesso: “Il giudizio dell’affermazione non deve provvedere a nient’altro che all’assicurazione di A” (LRE 97). L’affermazione dell’identità del contenuto del giudizio è però, allo stesso tempo, “affermazione del giudizio” (LRE 97), poiché non vi è conoscenza vera, se i giudizi della conoscenza non pongono dei contenuti stabili e permanenti. Il principio dell’identità è perciò posto a buon diritto accanto a quello dell’origine, come condizione del giudizio stesso, poiché se il giudizio dell’origine costituisce l’origine del giudizio (LRE 104), in quanto giustifica la possibilità del contenuto, il giudizio dell’identità “rende il giudizio giu-

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Esperienza e compito infinito dizio” (LRE 95), in quanto conferisce al contenuto del giudizio la stabilità che distingue il giudizio della conoscenza dalla semplice rappresentazione» (A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 108). 10 Cfr. il frammento 25 Erkenntnistheorie (1920-21), in GS, VI, pp. 45-46, dove Benjamin dice che deve essere superata la concezione della conoscenza come conoscenza presente nella coscienza di un soggetto conoscente o nell’oggetto e l’apparenza di un uomo che conosce ed elenca come compiti della conoscenza la costituzione delle cose nell’ora (Jetzt) della conoscibilità (dove la verità diventa nesso sistematico di concetti) e la limitazione della conoscenza nel simbolo: «Su 1) La frase: la verità appartiene in un qualche senso allo stato del mondo compiuto [,] si sviluppa in modo catastrofico nella dimensione dell’altra, si sviluppa intorno alla dimensione dell’“ora”: Il mondo è conoscibile ora. La verità sussiste nell’“ora della conoscibilità”. Solo in questa è nesso [sistematicamente, concettualmente] (nesso con se stessa e con lo stato del mondo compiuto)» (ivi, p. 46).

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25. La fondazione di una nuova logica trascendentale

Ma se dev’essere conservata la grande tricotomia, se la filosofia deve articolarsi in tre parti sebbene questi membri non siano stati finora determinati in modo soddisfacente, lo stesso non vale per tutti i singoli schemi del sistema1.

Benjamin considera necessaria la revisione della tavola kantiana delle categorie e il suo inserimento in una più ampia «dottrina degli ordini (Lehre von der Ordnungen)»2 (in cui dovrebbero essere presenti anche le forme dell’intuizione), in cui la tavola kantiana potrebbe avere un posto tra altri membri, oppure potrebbe essere sviluppata fino a diventare una tale teoria degli ordini, fondata su concetti originari e logicamente anteriori oppure connessa con questi: Per esempio, come la scuola di Marburgo ha già cominciato a eliminare la differenza tra la logica trascendentale e l’estetica (anche se non è del tutto escluso che una divisione analoga possa ripresentarsi a un livello superiore3), così la tavola delle categorie deve essere interamente rivista, soddisfacendo a quella che è del resto una richiesta generale. Proprio qui la trasformazione del concetto di conoscenza si configurerà come acquisizione di un nuovo concetto di esperienza, poiché da un lato la tavola delle categorie aristoteliche è arbitraria, ma d’altro lato Kant l’ha utilizzata in un senso del tutto unilaterale, in funzione di un’esperienza esclusivamente meccanica. Si dovrà considerare anzitutto se la tavola delle categorie deve conservare la forma isolata e non mediata che presenta ora, o se invece non deve essere inserita in una dottrina degli ordini (Lehre von der Ordnungen) con una posizione determinata accanto ad altre componenti, o ancora perfezionata e sviluppata così da costituire essa stessa questa teoria generale, fondata su concetti originari o logicamente anteriori, o collegata con essi4.

Questa «dottrina generale degli ordini»5 sarebbe fondata su concetti logicamente anteriori rispetto alle categorie, o collegata con essi: forse qui Benjamin intende quei principi degli Urteile der Denkgesetze della Logik di Cohen, il principio di identità e contraddizione e soprat www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

tutto, primo fra tutti, il principio dell’origine. Questi sono presupposti delle categorie della scienza della natura6 e, secondo Noeggerath, indicano in Cohen l’abbozzo di quel metodo trascendentale più generale che vede la possibilità di una declinazione del concetto di libertà, come “origine” e “autonomia”7, per ogni ambito (una delle cui declinazioni è la causalità assoluta per l’unità dell’esperienza come conoscenza della natura – nell’idea dell’ipotesi che si sviluppa nel giudizio dell’origine8), che vede la possibilità di una premessa generale del pensiero, di una Problemvoraussetzung non già caratterizzata dal modello del Faktum delle scienze, per tutti i concetti secondo la specie diversa dei loro ambiti rispettivi9. Questa teoria generale degli ordini dovrà essere sicuramente più ampia sia dell’insieme dei concetti primitivi della tavola delle categorie kantiana e dei concetti da essi derivati10, che della logica coheniana (i cui concetti, mai determinati nella loro completezza, sono esclusivamente fisico-matematici), e dovrà comprendere, oltre alle forme dell’intuizione, anche i principi della scienza del linguaggio, della psicologia, della scienza descrittiva della natura. Benjamin pensa che secondo la dottrina delle categorie debbano orientarsi anche l’arte, il diritto11 e la storia, quelle scienze che in Cohen (tranne la storia, che entra in lui nell’ambito etico come luogo in cui l’umanità di sviluppa sulla via della santità) sono le scienze che costituiscono il “fatto” dell’etica e dell’estetica: Questa teoria generale degli ordini comprenderebbe anche ciò che Kant discute nell’Estetica trascendentale, e inoltre tutti i concetti fondamentali non solo della meccanica, ma anche della geometria, della scienza del linguaggio, della psicologia, della scienza descrittiva della natura (beschreibender Naturwissenschaft) e di molte altre, nella misura in cui abbiano un rapporto diretto con le categorie o con ulteriori concetti ordinatori (Ordnungsbegriffe) supremi e filosofici. Un esempio eccellente è costituito dai concetti fondamentali della grammatica. […] Arte, giurisprudenza (Rechtslehre) e storia, tutti questi settori ed altri devono orientarsi secondo la dottrina delle categorie, in una misura assolutamente maggiore di quanto non abbia fatto Kant12.

In Benjamin la storia ha un ruolo nella teoria della conoscenza: ha il ruolo redentivo di portare la teoria delle conoscenza a sviluppare un concetto di esperienza che tenda a coincidere con la dottrina (come intero ambito del sistema della filosofia), e per questo egli prende in considerazione la “portata sistematica” della continuità storica data dal rapporto del suo futuro sistema con il sistema kantiano. Per questo  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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25. La fondazione di una nuova logica trascendentale

inoltre egli parla di “divenire della conoscenza” (Werden der Erkenntnis) introducendo il problema del falso e dell’errore13, che non deve più riferirsi all’“errare”, e della verità che non può più essere spiegata con il “giusto intelletto” (rechte Verstand) (come gesunde Verstand14 nel più generale significato di retto uso delle regole dell’intelletto nel riferimento all’esperienza possibile). L’errore e la verità devono cercare le loro categorie nella dottrina degli ordini, al di là della pietra di paragone dell’esperienza possibile. La verità dovrà essere vista (come in Cohen) come un nesso tra concetti puri, come unità del sistema dei concetti e nesso tra logica e etica, mentre per l’indagine della natura logica dell’errore Benjamin non dà molti indizi: Inoltre si deve tener presente che l’eliminazione radicale di tutti quegli elementi che, nella teoria della conoscenza, dànno la risposta nascosta al problema nascosto del divenire della conoscenza, permetterà anche di porre correttamente il grande problema del falso e dell’errore, di cui si deve determinare la struttura e l’ordine logico, proprio nello stesso modo in cui deve essere determinata la struttura logica del vero. Non si può continuare a spiegare l’errore con l’errare, così come la verità non può essere spiegata con il giusto intelletto (rechte Verstand). Anche per quest’indagine della natura logica del falso e dell’errore le categorie dovranno essere probabilmente cercate nella dottrina degli ordini; in tutta la filosofia moderna si riconosce che l’ordine categoriale e affine (die kategoriale und verwandte Ordnung) ha un’importanza centrale per la conoscenza di un’esperienza ampiamente differenziata e graduata e non solo meccanica (mannigfach abgestufter und auch nicht mechanischer Erfahrung). Arte, giurisprudenza e storia, tutti questi settori (Gebiete) e altri devono orientarsi secondo la dottrina delle categorie, in una misura assolutamente maggiore di quanto non abbia fatto Kant15.

Se l’arte, il diritto, la storia, la scienza descrittiva della natura (le scienze biologiche, che si occupano degli organismi16, ma anche l’ambito sperimentale della fisica e della chimica)17 si devono riferire a una nuova dottrina degli ordini, a un nuovo ordine categoriale, per Benjamin si pone il problema del ruolo degli altri membri del sistema rispetto a quelle scienze che si riferivano ad essi: Ma nell’ambito della logica trascendentale si pone un altro problema, uno dei principali di tutto il sistema: il problema della sua terza parte, in altre parole di quei modi di esperienza scientifici (biologici) che Kant non ha trattato sul terreno della logica trascendentale; e perché non l’ha fatto?18 Ancora si pone il problema della connessione dell’arte con questa terza parte del sistema, e dell’etica con la seconda parte19.

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Esperienza e compito infinito

La seconda parte del sistema, fondata sul concetto di libertà, presta secondo Benjamin questo concetto, come causalità per libertà, alla scienza della natura come – nella terminologia di Noeggerath – «“conoscenza stessa”, “esperienza in genere”»20, che con il concetto di finalità (proprio della terza parte del sistema) comprende gli organismi in essa. Secondo Noeggerath in Kant gli organismi non erano stati trattati sul terreno della logica trascendentale perché questo, nel suo passaggio del confine (Grenzübergang) tra la causalità relativa e la causalità assoluta – in questo passaggio come sviluppo continuo dell’idea della libertà dal concetto della causalità naturale (Naturbegriff der Kausalität) – aveva concepito natura ed etica come concetti-limite (Grenzbegriffe), e aveva visto nel rapporto tra il dominio del concetto di natura e il dominio del concetto di libertà – e non, come vuole Noeggerath, in un Grenzübergang dal concetto all’idea nello stesso ambito della conoscenza come conoscenza in genere – la possibilità della spiegazione degli organismi, e per questo li aveva trattati nella Critica della facoltà di giudizio21. Benjamin, sulla scia dell’interpretazione di Noeggerath, si chiede il motivo per il quale Kant non abbia trattato gli organismi sul terreno della logica trascendentale e si pone il problema di trattarli nella nuova logica trascendentale, mantenendo aperto il problema del loro rapporto con la terza parte del sistema (e il suo principio di conformità a scopi della natura). Si chiede inoltre dove si collochi l’etica, o più probabilmente si chiede quale sia il rapporto tra il principio etico (il concetto di libertà) e l’azione (come “essere” dell’etica)22 una volta che il diritto come scienza sia stato riportato nell’ambito logico e la causalità per libertà sia in gioco nella conoscenza della natura: il fatto che egli consideri l’ambito dell’etica più ampio rispetto a quello dei neokantiani fa pensare che questo rimanga fondamentale come luogo delle idee e, come si vedrà, della religione. Egli si chiede infine quale sia il rapporto dell’arte, acquisita – nei suoi possibili concetti – alla logica, con la dimensione della finalità nel libero gioco delle facoltà23. Come si è già visto, egli intende mantenere, come Noeggerath, la tricotomia del sistema, ma si interroga, forse più di lui, sulle relazioni metafisiche tra i membri, che in quest’allargamento della logica (che sembra quasi comprendere i concetti dei contenuti di tutto il sistema, ma non comprende le idee) e con il ruolo delle idee entrano in un rapporto più stretto. Con il concetto d’identità (che permette il rapporto simbolico tra concetti e idee) come concetto centrale della logica trascendentale, Benjamin pensa di poter garantire sia l’indipendenza di ogni ambito del  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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25. La fondazione di una nuova logica trascendentale

sistema, sia il rapporto tra gli ambiti, e quindi la continuità unitaria dell’esperienza, data dalle idee metafisiche. Queste sono idee della ragione – e, come si vedrà, della dottrina – ma guidano, secondo l’interpretazione di Noeggerath, ogni ambito di concetti come loro concetto-limite24, quindi garantiscono – secondo Benjamin – , prendendo questo ruolo, il rapporto tra i membri del sistema, con la mediazione simbolica del concetto di conformità a scopi della natura: – La definizione del concetto di identità – un concetto ignorato da Kant – svolgerà prevedibilmente una parte molto importante nella logica trascendentale: l’identità non è presente nella tavola delle categorie, eppure costituisce probabilmente il concetto supremo di una tavola logico-trascendentale, e forse è veramente in grado di dare una fondazione autonoma alla sfera della conoscenza, al di là della coppia terminologica soggetto-oggetto. Già nella versione kantiana la dialettica trascendentale indica le idee, su cui si fonda l’unità dell’esperienza25. Ma, come si è detto, per un concetto approfondito di esperienza la continuità è indispensabile non meno dell’unità, e nelle idee deve essere ritrovata la ragione dell’unità e della continuità di quell’esperienza non volgare e non soltanto scientifica, ma metafisica. Si deve dimostrare come le idee convergano nel concetto sommo della conoscenza26.

Forse si può individuare una differenza tra la concezione del sistema di Noeggerath (dove esiste una volontà più rigorosa di mantenere la divisione tra i membri sistematici) e quella di Benjamin, nella tendenza di quest’ultimo a vedere nell’esperienza e nella logica trascendentale, che deve fornirle i concetti, tutto l’ambito della conoscenza, anche estetica (l’arte) e pratica (il diritto: che, attenzione, per Benjamin non coincide con l’etica, come luogo del concetto di libertà!) oltre che storica, ma nella ragione (o, nella sua terminologia, nella “dottrina”) come fonte del concetto di libertà e del concetto di Dio – e nella facoltà di giudizio come luogo del principio di conformità a scopi della natura, che mette in rapporto simbolico i domìni della natura e della libertà –, i principi per l’unità e la continuità dell’esperienza. Nella dottrina è compreso tutto l’ambito dell’esperienza e della conoscenza: dalle idee, come compiti, vengono derivati i concetti27. Come si vedrà tra breve, in Benjamin la dottrina come luogo delle idee coincide con tutta l’esperienza come conoscenza nella sua molteplicità unitaria e continua, che ha la sua fondazione (e qui vi è una grande differenza rispetto a Noeggerath) nel linguaggio, e con l’intero sistema della filosofia.

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Esperienza e compito infinito Note

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1

Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 166; trad. it. cit., p.

222. 2 Ivi, p. 166; trad. it. cit., p. 223. Come si è già visto, di Lehre von der Ordnungen parlavano sia Benjamin che Scholem quando volevano indicare l’ambito categoriale della dottrina (Lehre). 3 Una divisione analoga a quella tra logica e estetica trascendentale può ripresentarsi secondo Benjamin nella differenza tra esperienza esperita e esperienza dedotta, tra conoscenza dell’esperienza come nesso conoscitivo e esperienza come simbolo di questo nesso (cfr. il frammento 19 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, pp. 36-37). 4 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 166; trad. it. cit., pp. 222-223 (traduzione modificata). 5 Ivi, p. 166; trad. it. cit., p. 223. 6 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, pp. 79-120. Cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., pp. 339-344. 7 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 10. 8 Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 601. Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 71: «Secondo le parole dello stesso K a n t le idee non oltrepassano “l’oggetto, cioè l’esperienza, q u a n t o a l l a s p e c i e … ”, ma “spingono” soltanto la “sintesi fino a un g r a d o , che sorpassa ogni possibile esperienza.” [cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 448, p. 409; trad. it. cit., p. 349] Dunque la “causalità per libertà” può non essere un principio etico, se noi cerchiamo […] qui un dominio totalmente nuovo. Ma qual è il suo compito? Esso riguarda la “conoscenza stessa”, l’“esperienza in genere”, e permette in questo ampliamento l’esatta definizione della sua u n i t à a partire dalla relazione ipotetica e dalla sintesi. Così viene abbandonato s e c o n d o i l g r a d o il semplice metodo trascendentale. Lo stesso passo che viene qui fatto per la r e l a z i o n e , Cohen lo ha fatto per il livello della q u a l i t à nei suoi “giudizi delle leggi-del-pensiero” [H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, Band 6, cit., pp. 79120]; che espressamente non sono categorie e che perciò si distinguono una volta per tutte dal resto del materiale trattato nella sua logica; che non indicano né la “natura…dell’oggetto”, “né quella di ciò che è, ma quella del pensiero puro”. “Q u i n d i a n c h e i l p e n s i e r o p u r o h a u n a q u a l i t à . ” [Nach K a n t s eigenen Worten überschreiten die Ideen “das Objekt, nämlich Erfahrung d e r A r t n a c h n i c h t … ”, sondern “treiben” nur die “Synthesis auf einen G r a d , der alle mögliche Erfahrung übersteigt.” Also kann doch “Kausalität durch Freiheit” kein ethisches Prinzip sein, wenn anders wir hier nach einen ganz neuen Gebiet suchen. Was aber ist ihre Aufgabe? Sie betrifft “Erkenntnis selber”, “Erfahrung überhaupt” und ermöglichst in dieser Erweiterung die genaue Definition ihrer E i n h e i t von der hypothetischen Relation und Synthesis her. Damit ist, dem G r a d e nach die einfache transscendentale Methode verlassen. Den gleichen Schritt, der hier für die R e l a t i o n vollzogen wird, hat nun C o h e n für die Stufe der Q u a l i t ä t in seinen “Urteilen der Denkgesetze” getan; die ausdrücklich nicht Kategorien sind und die sich damit ein für alle Mal von den übrigen in seiner Logik behandelten Material unterscheiden; die weder die “Beschaffenheit…des Gegenstandes” bezeichnen, “noch die des Seienden, sondern die des reinen Denkens”. “A l s o a u c h d a s r e i n e D e n k e n h a t e i n e Q u a l i t ä t . ”]». Cfr. ibid. la nota 2: «[Si pone] nel senso di questa idea qualitativa

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25. La fondazione di una nuova logica trascendentale anche l’“io penso” che deve accompagnare tutte le mie rappresentazioni, in Kant [Im Sinn dieser qualitativen Idee wohl schon das “Ich denke”, das alle meine Vorstellungen begleiten muss, bei Kant]». Cfr. anche ivi, p. 72, il brano dove la conoscenza è definita da Noeggerath una funzione del problema (come idea e concetto limite), e il luogo in cui il problema “appare”: «Noi pensiamo che già lo sviluppo originario (della conoscenza) non proceda nella direzione di ciò che è di volta in volta più oggettivo, ma nella direzione di ciò che di volta in volta è più semplice, e pensiamo che il limite (Grenze) si trovi nello stesso problema infinito (cioè inesauribile per principio); che quindi la conoscenza sia una funzione del problema (non viceversa) e determini questo stesso da ogni parte infinitamente. E se per K a n t non deve avere alcun senso domandarsi che cosa appaia nelle “apparenze (Erscheinungen)”, quale sia dunque il loro substrato, allora è anche forse giusto dire che nella conoscenza “appare” appunto il problema [nota 1: Il fainestai è qui un’espressione per il dispiegarsi e lo svolgersi del valore-limite tramite la serie]. Ciò che il problema acquista in determinatezza, lo perde in modalità. Il problema è una mera domanda a cui la conoscenza risponde, cioè la cui “possibilità” compie come “realtà” – sotto la guida della relazione ipotetica e della causalità assoluta come copula [Wir glauben, dass schon die ursprüngliche (Erkenntnis-) Entwicklung nicht zum jeweils Objektiveren fortschreitet, sondern etwa zum jeweils Unproblematischeren und dass die Grenze im ueberendlichen (d. h. prinzipiell unerschöpflichen) Problem selber liegt; dass also die Erkenntnis eine Funktion der Problem ist (nicht umgekehrt) und dieses selber allseitig unendlich bestimmt. Und wenn nach K a n t es keinen Sinn haben soll nach dem zu fragen, was denn in den “Erscheinungen” erscheine, wass also ihr Substrat sei, so ist vielleicht auch richtig zu sagen, dass in der Erkenntnis eben das Problem “erscheint” [nota 1: Das fainestai ist hier ein Ausdruck für das Entfalten und Aufrollen des Grenzwerts durch die Reihe]. Was aber dem Problem an Bestimmtheit zuwächst, das fehlt ihm an Modalität. Das Problem ist eine blosse Frage, die die Erkenntnis beantwortet, d. h. deren “Möglichkeit” sie als “Wirklichkeit” vollzieht – unter der Leitung der hypothetischen Relation und der absoluten Kausalität als Copula]». 9 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 7-8 e p. 10. 10 Nella Logica trascendentale Kant parla delle categorie, o predicamenti, come di concetti originari (Ur- e Stammbegriffe) e dei predicabili come concetti derivati, e critica Aristotele. Benjamin riprende la critica di arbitrarietà rivolta da Kant a Aristotele e alla scelta delle categorie della sua tavola (Kant lo accusa anche di avervi posto modi della sensibilità pura e un modo empirico, oltre a concetti derivati), e la rivolge a Kant, colpevole a suo avviso di aver ripreso la tavola aristotelica nella sua arbitrarietà e averla usata solo per l’esperienza meccanica. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-VI, B 107-109, pp. 119-120; trad. it. cit., pp. 114-116: «Ecco dunque l’enumerazione di tutti i concetti puri originari (ursprünglich reinen Begriffe) della sintesi, che l’intelletto contiene in sé a priori, e soltanto in virtù dei quali è anche intelletto puro; solo per mezzo di essi potendo comprendere qualche cosa nel molteplice della intuizione, cioè pensare un oggetto di essa. Questa divisione ricavata sistematicamente da un principio comune, cioè dalla facoltà di g i u d i c a r e (che equivale a facoltà di pensare), non deriva, rapsodicamente, da una ricerca dei concetti puri fatta affidandosi alla buona ventura, della cui compiutezza non si può mai esser certi, poiché non la si può inferire se non per induzione, senza pensare che, in questo modo, non si scorge mai perché siano precisamente questi e non altri i concetti inerenti all’intelletto puro. Ricercare questi concetti fondamentali era un’impresa degna di quella mente acuta di Aristotele. Ma, non avendo nessun principio, Aristotele li raccolse affrettatamente, come gli si presentavano, e ne mise insieme dieci, che chiamò c a t e g o r i e (predica-

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Esperienza e compito infinito menti). Dopo, credette averne trovate altre cinque, che aggiunse alle precedenti, col nome di post-predicamenti. Ma la sua tavola rimase sempre difettosa. Oltre di che, vi si trovano anche modi della sensibilità pura (quando, ubi, situs, e così prius, simul) e anche un modo empirico (motus), i quali non appartengono punto a questo albero genealogico (Stammregister) dell’intelletto; e vi si incontrano pure concetti derivati, frammisti ai concetti originari (Urbegriffe) (actio, passio), e parecchi di questi ultimi mancano affatto. Quanto a questi ultimi concetti, resta infatti ancor da notare che le categorie, essendo i veri c o n c e t t i p r i m i t i v i (Stammbegriffe) dell’intelletto, hanno per ciò stesso i loro c o n c e t t i d e r i v a t i (abgeleitete Begriffe), ugualmente puri, che non si possono in niuno modo trasandare in un completo sistema di filosofia trascendentale; ma io, in un semplice saggio critico, posso accontentarmi di una semplice menzione. Mi sia concesso di chiamare questi concetti puri, ma derivati, dell’intelletto, p r e d i c a b i l i (in contrapposto ai predicamenti) dell’intelletto puro. Quando si hanno i concetti originari e primitivi (die ursprüngliche und primitive Begriffe), è facile poi aggiungere ad essi i concetti derivati e subalterni, e disegnare così in modo definitivo l’albero genealogico (Stammbaum) dell’intelletto puro. Non dovendomi occupare qui della esecuzione completa del sistema, ma solamente dei princìpi per fare un sistema, riservo questo completamento ad altro lavoro. Ma si può ottenere sufficientemente questo scopo, prendendo i manuali di ontologia, e aggiungendo, per es., alla categoria della causalità, i predicabili della forza, dell’azione, della passione; alla categoria della reciprocità, i predicabili della presenza, della resistenza; ai predicamenti della modalità, i predicabili del sorgere, del perire (Vergehen), del cangiamento, ecc. La categorie, combinate coi modi della sensibilità pura, o fra di loro, forniscono un gran numero di concetti a priori derivati. […] Analizzerò questi concetti, in seguito, quanto sarà necessario alla dottrina del metodo, alla quale attendo. In un sistema della ragion pura si potrebbe, a buon diritto, chiedermele […]». 11 Anche Noeggerath inserisce il diritto nell’ambito della logica e non dell’etica. 12 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 166-167; trad. it. cit., p. 223. 13 Sull’errore come apparenza empirica o trascendentale cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-VI, B 350-352, pp. 308-309; trad. it. cit., pp. 285287: «tanto la verità quanto l’errore, nonché l’apparenza come via a quest’ultimo, non ha luogo se non nel giudizio, ossia nella relazione dell’oggetto col nostro intelletto. In una conoscenza che si accordi completamente con le leggi dell’intelletto, non c’è errore. In una rappresentazione dei sensi (poiché essa non contiene punto un giudizio) né anche c’è errore. […] Ma nell’accordo con le leggi dell’intelletto consiste il lato formale di ogni verità. […] l’errore non nasce se non dall’influsso inavvertito della sensibilità sull’intelletto, onde accade che i princìpi soggettivi del giudizio si mescolino ai princìpi oggettivi e li facciano deviare dalla loro destinazione […]. Per distinguere l’atto proprio dell’intelletto dalla forza che vi si mescola sarà quindi necessario considerare il giudizio erroneo come la diagonale tra due forze, che determinano il giudizio per due diverse direzioni, le quali formano, per così dire, un angolo, e risolvere quell’azione composta nelle azioni semplici dell’intelletto e della sensibilità; ciò che deve avvenire nei giudizi puri a priori mediante la riflessione trascendentale, per cui (come già è stato mostrato) a ciascuna rappresentazione vien assegnato il posto che le spetta nella facoltà conoscitiva corrispondente, e quindi viene anche distinto l’influsso della seconda sul primo [nota di Kant: 2) La sensibilità […] in quanto influisce sull’atto stesso dell’intelletto, e lo determina al giudicare, è il principio dell’errore]. A noi non spetta qui di trattare dell’apparenza empirica (per es. di quella ottica), che ha luogo nell’uso empirico di regole, del

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25. La fondazione di una nuova logica trascendentale resto giuste, dell’intelletto, e per cui il giudizio è sviato dall’influsso dell’immaginazione; ma dobbiamo solo occuparci d e l l ’ a p p a r e n z a t r a s c e n d e n t a l e , che influisce sui princìpi, il cui uso non si appoggia mai sull’esperienza – nel qual caso noi pure avremmo, almeno, una pietra di paragone della loro esattezza; ma malgrado tutte le avvertenze della critica ci attrae affatto fuor di strada del tutto al di là dell’uso empirico delle categorie, e ci attrae col miraggio di una estensione dell’intelletto puro». 14 Cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, cit., p. 139; trad. it. cit., p. 140: «Che cos’è, infatti, il buon senso (gesunde Verstand)? È il senso comune (gemeine Verstand), in quanto giudica rettamente. E che cosa è il senso comune? È la facoltà della conoscenza e dell’uso delle regole in concreto, a differenza dell’intelletto speculativo, che è una facoltà della conoscenza delle regole in abstracto. Così il senso comune comprenderà a stento la regola: che tutto ciò che avviene, è determinato dalla sua causa; non potrà mai intenderla nella sua universalità. Ha bisogno di un esempio tratto dall’esperienza […]. Il senso comune, adunque, non ha uso, se non in quanto può vedere confermate nell’esperienza le sue regole (quantunque queste realtà siano presenti in lui a priori); perciò il conoscerle a priori e indipendentemente dall’esperienza appartiene all’intelletto speculativo e sta del tutto fuori dall’orizzonte del senso comune. La metafisica ha da fare soltanto con quest’ultima specie di conoscenza». 15 Über das Programm der kommenden Philosophie, GS, II, 1, p. 167; trad. it. cit., p. 223 (traduzione modificata). 16 Kant si è occupato degli organismi come “esseri organizzati” e “scopi naturali” nella Critica della facoltà teleologica di giudizio (cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., §§ 6191, pp. 267-361; trad. it. cit., pp. 193-317). 17 Cfr. il frammento 20, Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntnis (1917), in GS, VI, p. 38: «Nelle scienze descrittive della natura la percezione è costitutiva. Questo significa: nella fisica e nella chimica si può astrarre, nell’ambito teoretico, dall’intuitività (Anschaubarkeit), nelle scienze biologiche no. Dove si tratta della vita si tratta sempre dell’intuitività, della percezione. Nella vita c’è un momento di percezione irriducibile, al contrario dei fenomeni fisici e chimici» 18 Cfr. a proposito F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 66: «K a n t stesso nota in più di un passo della Critica della facoltà di giudizio che il concetto di fine avrebbe potuto essere trattato anche nella Logica. Si pensi alla terza analogia: della “simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o reciprocità” in ogni ordine disgiuntivo in genere [Dass der Zweckbegriff auch in der Logik hätte können behandelt werden, bemerkt K a n t selber in mehreren Stellen der Urteilskraft. Man denkt etwa an die dritte der Analogien: Des “Zugleichseins nach dem Gesetz der Wechselwirkung” an jede disjunktive Ordnung überhaupt]». Noeggerath pensa che proprio negli organismi Kant abbia trovato quella difficoltà che gli ha prospettato il bisogno di un rapporto e di un passaggio tra intelletto e ragione; di qui sarebbe iniziato lo sviluppo di una «conoscenza in genere aprioristica e sintetica» conoscenza che Kant avrebbe voluto prospettare nel Grenzübergang dalla causalità relativa alla causalità assoluta come passaggio tra ambiti sistematici, mentre per Noeggerath si tratta di un passaggio all’interno dello stesso ambito (della conoscenza in genere): «[In Kant] non sarebbero presi in considerazione i problemi della natura organica, che eccedono il mezzo della pura meccanica. La caratterizzazione della c o n o s c e n z a i n g e n e r e sintetica a priori doveva svilupparsi a partire da questo tipo, doveva infine essere compiuto il passaggio dall’ambito della natura all’ambito della conoscenza metafisica, dall’“intelletto” alla “ragione” [Nicht in den Kreis der Betrachtung wurden aufgenommen die über die Mittel der reinen Mechanik hinausgehenden Probleme der organischen

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Esperienza e compito infinito Natur […]. Von diesem Typus aus sollte dann die Charakteristik apriorischer synthetischer E r k e n n t n i s ü b e r h a u p t ihrer Fortgang nehmen, sollte schliesslich der Uebergang vom Bereich der Natur zu dem metaphysischer Erkenntnis, vom “Verstand” zur “Vernunft” vollzogen werden]» (ivi, p. 63). È probabile che Benjamin abbia letto queste pagine della tesi di Noeggerath. 19 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 167; trad. it. cit., p. 223. 20 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 71: «“Erkenntnis selber”, “Erfahrung überhaupt”». 21 Cfr. ivi, p. 62: «la [formulazione della domanda] sui rapporti interni delle due critiche deve derivare dal rapporto fissato dall’inizio uno dei motivi per i quali i problemi del fine di natura e dell’organico non sono emersi già lì [nella Critica della ragion pura], ma rinviati a una parte speciale del sistema [die des inneren Verhältnisse der beiden Kritiken soll aus eben diesem, dem von vornherein festgelegten Verhältnis selbst, einen der Gründe ableiten, warum nicht schon dort die Probleme des Naturzwecks und des Organischen zur Sprache kamen, sondern in einen besonderen Teil des Systems verwiesen wurden]». Cfr. ivi, p. 24: «Natura e moralità erano [per Kant] senz’altro concettilimite, l’idea della libertà si sviluppava per lui in modo continuativo dal concetto della causalità proprio della natura [Natur und Sittlichkeit waren ihm ja ohne weiteres Grenzbegriffe, die Idee der Freiheit entwickelte sich ihm kontinuierlich aus dem Naturbegriff der Kausalität]». 22 Sull’etica come conoscenza dell’“essere” etico, e sulla relativa incommensurabilità tra pensiero (come conoscenza) e essere ateoretico in Noeggerath (che è estranea a Benjamin) cfr. P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 8: «Così la categoricità dell’imperativo riguarda per lui non tanto la sua incondizionatezza (mera differenza di grado) quanto il fatto che è stato qui abbandonato “secondo la specie e secondo principi il dominio dell’oggettività ipotetica in genere, vale a dire quella dell’esperienza, della conoscenza” [“der Art nach und prinzipiell das Gebiet hypothetischer Gegenständlichkeit überhaupt, nämlich das der Erfahrung, der Erkenntnis” (F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 64]. […] ne andrebbe qui infatti, sulla base di una differenziazione della “sintesi in genere [Synthesis überhaupt]” dalla “sintetica particolare del giudizio [besondere Urteilssynthetik]” (ivi, p. 6), della possibilità di definire “la possibilità dello stesso ‘agire sintetico’ [die Möglichkeit ‘synthetischen Handelns’ selbst]” (ivi, p. 64)». Sulla differenza tra essere etico e etica cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 26: «Già il dominio vicino, quello dell’essere etico (a differenza dell’etica come conoscenza di esso), non solo non conosce la prova: la rinuncia esplicita [ad essa] impedisce apertamente il semplice livellamento di questo al problema della conoscenza e costituisce la condizione almeno negativa di quella necessità etica, che chiamiamo solidarietà categorica e libera responsabilità. Lo stesso vale per l’estetica e per l’essere estetico [Schon das nächstliegende Gebiet, das des ethischen Seins (im Unterschied zur Ethik als Erkenntnis von ihm), kennt den Beweis nicht nur nicht: sein ausdrücklicher Verzicht verhindert geradezu die einfache Nivellierung dieses auf das Erkenntnisproblem und macht so die wenigstens negative Bedingung derjenigen ethischen Notwendigkeit aus, die wir kategorische Solidarität und freie Verantwortung nennen. Änliches gilt für die Ästhetik und für das ästhetische Sein]». 23 Per Noeggerath si passa nell’ambito estetico, con un passaggio di grado analogo a quello dell’“esperienza in genere” tra causalità empirica e causalità per libertà, dal fine (Zweck) biologico alla finalità senza scopo (Zweckmässigkeit ohne Zweck) e al libero gioco

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25. La fondazione di una nuova logica trascendentale come verità della relazione disgiuntiva (cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 66 e 72 ss.). Egli vede la finalità senza scopo nel gioco delle Gemütskräften, delle facoltà dell’animo identificate con le facoltà conoscitive, ragione e intelletto. In Kant invece c’è un libero gioco solo nel giudizio estetico, tra le facoltà conoscitive dell’immaginazione e dell’intelletto. Cfr. P. Fiorato, Walter Benjamin e Felix Noeggerath. Variazioni postume sul concetto di sistema, cit., p. 9: «Alla sospensione teoretica che la causalità per libertà (Kausalität durch Freiheit) attua rispetto alla relazione ipotetica (hypothetische Relation) propria della prova (Beweis) (in uno Grenzübergang che non attinge un fondamento assoluto, ma lascia semplicemente essere la relazione ipotetica nella sua sospesa verità), corrisponde la sospensione estetica del libero gioco (freies Spiel), quale verità della relazione disgiuntiva. In modo analogo Noeggerath cerca di pensare anche la verità della relazione categorica, come la sintesi etica di “solidarietà categorica e libera responsabilità [kategorische Solidarität und freie Veranwortung]” [F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 26]». 24 Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. I e 9-11. 25 Cfr. I. Kant, in Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-VI, B 670697, pp. 563-582; trad. it. cit., pp. 503-521. 26 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 167; trad. it. cit., pp. 223-224. 27 Cfr. il frammento 20, Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntnis (1917), in GS, VI, p. 38, dove nel fenomeno originario di Goethe Benjamin individua l’ideale come simbolo e nesso sistematico (dei concetti), in rapporto con l’arte e la percezione, ma anche, in senso teoretico puro, l’idea come origine dei concetti e compito della loro derivazione, riferendosi alla dottrina dell’idea come compito del neokantismo: «Il fenomeno originario è un concetto sistematico simbolico. Esso è, in quanto ideale, simbolo. In quella conclusione perduta [sulla simbolica della conoscenza] esso era anche indicato come idea. Ma in quale senso? Nel senso teoretico puro in cui i concetti derivano dalle idee. Nel senso dell’idea come compito. – L’ideale, al contrario, espone il rapporto con l’arte, o per parlare in modo più preciso, con la percezione (Wahrnehmung)».

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio

Benjamin pensa che, per trovare i suoi principi e quindi l’unità e continuità dell’esperienza, la teoria della conoscenza della filosofia futura dovrà riferirsi a un Faktum, a una scienza, come aveva fatto Kant cercando i principi della conoscenza e dell’esperienza nella scienza fisicomatematica, e che questa sarà la scienza del linguaggio: Come la stessa dottrina kantiana poté trovare i suoi princîpi solo a condizione di considerare una scienza particolare e di definirli in rapporto ad essa, anche la filosofia moderna dovrà procedere in modo analogo. La grande trasformazione e correzione che deve subire il concetto unilateralmente matematico e meccanico della conoscenza potrà essere attuata solo se la conoscenza verrà rapportata al linguaggio, come aveva già cercato di fare Hamann1 quando Kant era ancora in vita. Se Kant ebbe coscienza del fatto che la conoscenza filosofica è assolutamente sicura a priori, se ebbe coscienza di questi requisiti per cui la filosofia non è inferiore alla matematica, invece trascurò completamente il fatto che ogni conoscenza filosofica trova la sua espressione esclusivamente nella lingua, e non nei numeri e nelle formule2.

Il fatto che ogni conoscenza filosofica trovi la sua espressione “esclusivamente” nella lingua consente a Benjamin di affermare, «in ultima istanza, la supremazia sistematica della filosofia su tutte le altre scienze, e anche sulla matematica»3, al contrario di Scholem, che vedeva nella matematica la possibilità di rapportarsi immediatamente al centro dell’ebraismo, a Dio4. Per Benjamin un «concetto della conoscenza nato dalla riflessione sulla sua natura linguistica creerà un concetto corrispondente dell’esperienza, che abbraccerà anche domìni (Gebiete) che Kant non è veramente riuscito a collocare nel suo sistema», e di questi «il supremo è il dominio della religione»5, come luogo che ha espressione e fondamento nell’esprimersi linguistico della rivelazione. Si uniscono qui la sfera della religione (come luogo delle idee per l’unità dell’esperienza) e quella del linguaggio, che erano strettamente connesse nel saggio di  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

Benjamin del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo6. In questo saggio egli illustra, ispirandosi al primo capitolo della Genesi7 e alla teoria cabbalistica, una concezione del linguaggio teologica in cui vede nel linguaggio l’origine di tutte le manifestazioni spirituali dell’uomo8, e l’origine del linguaggio stesso, come linguaggio dei nomi e delle cose, dalla parola di Dio che crea con essa il mondo. Benjamin sviluppa una teoria dei “nomi” in cui l’essere spirituale dell’uomo «si comunica a Dio»9. I nomi10 contengono in sé «la parola creatrice»11, che in essi è il germe che conosce le cose create da Dio12, e completa, nella conoscenza delle natura, «la creazione di Dio»13. I nomi, in cui l’uomo perviene alla conoscenza delle cose attraverso la loro essenza linguistica (il residuo della parola creatrice14) non devono avere riferimento a contenuti semantici15 empirici ma essere puri e formali medii della comunicazione e della conoscenza pura. I nomi sono in Benjamin il riflesso della parola creatrice divina e sono il luogo di raccordo del linguaggio con la religione, nel «concetto di rivelazione»16, nel rappresentare la potenza puramente spirituale, asemantica e creatrice della parola divina. I nomi determinano il darsi delle idee della conoscenza filosofica17 e indicano il luogo dell’unità della conoscenza. La religione – identificata da Benjamin storicamente con la tradizione talmudica dei commenti al testo “rivelato” della Torah e con la tradizione cabbalistica ebraica – è per lui, come si è visto e si vedrà più avanti, la fonte di quell’assoluto che si dà alla filosofia solo come dimensione delle idee nella dottrina, e queste idee si danno come nomi, esibiti simbolicamente dai concetti (dalle parole), nel linguaggio teologico e simbolico della rivelazione18. Le parole rappresentano in lui il livello del linguaggio in cui questo diventa comunicazione di contenuti estrinseci, e si libera di questi contenuti solo nell’astrazione19: esse determinano la fondazione dei concetti del sistema della filosofia. Nella parola si deve istituire il collegamento del concetto con il nome20, che le dà, facendone un concetto simbolico, il legame con l’essenza degli oggetti la cui conoscenza essa determina in quanto concetto. In Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo Benjamin afferma che l’uomo comunica la sua essenza spirituale (come facoltà della conoscenza) nella sua lingua, che è lingua delle parole e dei nomi, quindi egli comunica «la propria essenza spirituale (in quanto essa è comunicabile) nominando tutte le altre cose»21. Egli soltanto ha la lingua denominante», quindi «l’essenza linguistica dell’uomo è [...] di nominare le cose»22, e le denomina conoscendole, comunicando in questo  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio

modo la sua essenza spirituale come facoltà della conoscenza filosofica. Le cose della natura si comunicano nella loro conoscibilità all’uomo. L’uomo comunica la sua essenza spirituale, la sua facoltà conoscitiva e filosofica nei nomi che dà alle cose, nomi che sono elementi linguistici in rapporto diretto con l’essenza delle cose, e ne determinano la conoscenza. Benjamin distingue tra parola significante e nome: il nome è considerato qualcosa che proviene dall’oggetto della conoscenza, si rapporta alla sua essenza e permette quindi alla parola umana, di cui è il nucleo più intimo, di porsi rispetto all’oggetto in una relazione di immediatezza intenzionale23. L’intenzionalità24 è il rapporto di significazione (e conoscenza) che si instaura tra l’oggetto della significazione e la parola che lo significa: il primo è un oggetto la cui oggettualità è determinata a priori, è un oggetto non empirico, costituito dalla propria essenza spirituale e dal nome conoscente25, nome che si collega immediatamente, senza mediazioni, all’essenza dell’oggetto, ma non è quell’oggetto stesso. La parola ha in sé il nome, legato ad un segno, come fondamento per l’intenzione significante verso l’oggetto significato, come struttura ideale della sua conoscenza, e in essa il nome si lega ad un concetto, così da determinare nel rapporto tra nome e concetto26 la compagine a priori (categoriale e ideale) dell’oggetto significato e conosciuto. Come dice Benjamin in un frammento del 1916-17, la conoscenza di un oggetto si costituisce soltanto in rapporto con la sfera costitutiva del linguaggio, nella sfera dei suoi elementi significanti, e la logica è perciò costituita e compiuta nella sfera dei significanti, delle parole: La logica ha una ipotesi fondamentale; ogni significato (jedes Bedeutete) (ogni oggetto) è conoscibile (esiste per la conoscenza) soltanto attraverso il suo correlato nella sfera del significante. La logica è analisi del significato (Bedeutungsanalyse). Nella sfera dei significanti hanno il loro compimento (werden […] vollendet) tutte le categorie logiche fondamentali27.

La logica, come dimensione delle categorie, dei concetti puri della conoscenza, che Benjamin chiamerà in un altro frammento «ontologia»28, si sviluppa dagli oggetti con un rapporto di derivazione29 non empirica, ma esclusivamente logico-linguistica e pura del significato (il concetto deriva, discende dall’oggetto ed è affine ad esso), che è in rapporto al significante, alla parola come elemento linguistico fondamentale. Questa mette in rapporto il concetto con il nome (l’idea) che in lei costituisce il rapporto con l’essenza (Wesen) dell’oggetto. Il concetto si fonda sulla parola:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito La parola è un elemento linguistico di incomparabile semplicità e del più alto significato. La teoria dei concetti deve porre come fondamento il fatto che la parola è in un qualche senso la loro base. Da ciò crescono per il concetto forze straordinarie, rapporti altamente significativi della sua funzione logica con la metafisica30.

Con ciò «nella parola c’è “verità”», come rapporto tra concetti e idee (nomi), che dà la verità metafisica (come unità sistematica), nel concetto invece c’è «intenzione o se mai conoscenza, verità in nessun caso»31, perché nella teoria della conoscenza il concetto rappresenta il gradino della fondazione critica, da completarsi nel rapporto con la dimensione metafisica delle idee. Nella dimensione linguistica della conoscenza «il significante mira al significato (das Bedeutete) e si fonda contemporaneamente su di esso»32, la sfera linguistica costituisce la conoscenza ma contemporaneamente si fonda sull’oggetto significato, nella dimensione però del modus essendi del significato, che è sempre determinato nell’ambito linguistico, nello Sprachliches: In quanto l’essenza linguistica (das Sprachliches) si lascia ottenere e differenziare dal significato [,] è da indicare come suo modus essendi e con ciò come fondamento del significante. L’ambito linguistico si estende come un medium critico tra l’ambito del significante e quello del significato. Così si può dire: il significante mira al significato e contemporaneamente si fonda su questo per quanto riguarda la sua determinazione materiale, non però in modo illimitato, ma solo riguardo al modus essendi, che la lingua determina33.

Se la realtà del significato è esclusivamente linguistica, la logica è immanente al linguaggio e «la funzione del linguaggio è essenziale quindi alla formazione del significato»34. La lingua è il dominio da cui la conoscenza non può uscire, le parola e in essa il nome si riferiscono ad un oggetto non fuori dal linguaggio, ma già costituito in esso. Il concetto si distingue in Benjamin dal nome, per il fatto che non è un’intenzione, ma è oggetto di un’intenzione conoscente e significante. Il concetto si fonda sulla parola significante, la sua funzione logica è in rapporto con essa: la parola, avendo in sé la dimensione del nome come fondamento per il suo rapporto intenzionale con l’essenza dell’oggetto significato, permette al concetto di entrare in relazione con il nome (l’idea) e acquistare così dal suo legame con la parola un rapporto con la metafisica35. Il concetto non ha un rapporto intenzio www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio

nale, significativo, con l’oggetto (come invece ha la parola, grazie al nome), ma un rapporto di derivazione e di affinità, e prepara affermazioni su «oggetti originari»36 che si svolgono poi in giudizi e non in concetti, poiché i concetti sono contenuti (aufgehoben) nel giudizio (il giudizio si collega all’oggetto tramite il concetto, che identifica l’oggetto per la conoscenza): il nome invece si pone in rapporto direttamente con l’essenza dell’oggetto, è «l’analogo della conoscenza dell’oggetto nell’oggetto stesso» e designa «il rapporto dell’oggetto con la sua essenza»37. Sulla base della considerazione dell’uomo come parlante la lingua dei nomi, in cui la lingua coincide assolutamente con la sua essenza spirituale, con la facoltà della conoscenza (come nesso funzionale e sistematico di idee e concetti), Benjamin pone il problema dell’identità tra essere spirituale e linguistico, considerandolo un problema di «somma importanza metafisica»38, perchè investe la questione del ruolo della lingua nell’ambito della pura spiritualità, l’ambito religioso. Si pone la questione se «l’essenza spirituale – non solo dell’uomo (poichè questa lo è necessariamente) – ma anche delle cose, e quindi l’essenza spirituale in generale vada definita, dal punto di vista della teoria del linguaggio, come linguistica»: se l’essenza spirituale è identica a quella linguistica infatti la cosa diventa «nella sua essenza spirituale, medio della comunicazione, e ciò che in essa si comunica è – conforme al rapporto mediale – questo stesso medio (la lingua)»39, essa diventa cioè il veicolo per la lingua stessa, che è la sua essenza spirituale. Le lingue (dell’uomo, delle cose) si distinguono come medii di diverso spessore e livello linguistico (comunicativo) e spirituale, per una minore o maggiore capacità di comunicare la loro essenza spirituale, nel duplice rispetto dello spessore del comunicante e del comunicabile, che si corrispondono costantemente, mentre nel nome le due sfere coincidono completamente. La lingua delle cose è materiale, la lingua dell’uomo ha il suono40 come dimensione assolutamente spirituale, quindi il suo livello è il più alto, e può apostrofare il campo spirituale della religione, che si esprime come rivelazione41. L’essenza spirituale è posta dall’inizio come comunicabile, «o posta piuttosto nella comunicabilità stessa»42: la comunicabilità come dimensione formale e assoluta è la dimensione spirituale stessa di tutti gli esseri, al di là di ogni contenuto, è la forma stessa che lo spirito prende nella sua espressione. Infatti «non c’è un contenuto della lingua; come comunicazione la lingua comunica un essere spirituale, e cioè una comunicabilità pura e semplice»43, e questa comunicabilità è la dimensio www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

ne formale della spiritualità (che nell’uomo è la conoscenza) come strutturazione di se stessa puramente relazionale e non caratterizzata da un contenuto empirico. In un frammento databile intorno al 191617 Benjamin, occupandosi del significato della parola “torre” dice: Se ora si dice che la parola “torre” significa “torre” (non: designa “torre”) con ciò si intendono due cose, poiché il significato si fonda su due condizioni, che una volta soddisfatte lo rendono possibile. Si intende per prima cosa che la parola “torre” comunica qualcosa, per seconda cosa che essa simbolizza qualcosa, ma né ciò che viene comunicato, né ciò che viene simbolizzato sono però “torre”, “torre” è solo e soltanto il significato (das Bedeutete). La parola “torre” comunica per prima cosa una comunicabilità di se stessa. Essa comunica, come parola, che essa è comunicabile, e questo “essa” è un essere spirituale. È qualcosa di [o]riginario, e una parola comunica dunque che un essere spirituale e originario è comunicabile. Con questo soltanto non significa ancora nulla. Essa comunica però qualcosa, qualcosa di totalmente [d]eterminato e definitivo, vale a dire una comunicabilità: ciò però di cui comunica la comunicabilità, non lo comunica, ma lo significa. E per determinare l’oggetto del suo significato, ha bisogno, nella parola, di un’altra virtus, che non è quella del comunicante44.

Per Benjamin «le figure linguistiche, e perciò anche la parola (Wort), comunicano una comunicabilità e simbolizzano una noncomunicabilità»45; la parola comunica che un’essenza spirituale è comunicabile, tuttavia con ciò non comunica la cosa che apparentemente designa, ma comunica ciò che in verità la parola stessa significa46. Per determinare ciò che significa, l’essenza di un oggetto, la parola oltre alla comunicabilità ha bisogno dell’intervento del nome, che la lega come fondamento della sua immediatezza intenzionale all’essenza dell’oggetto, e si presenta connesso ad un segno simbolico47. Nella parola la lingua comunica la comunicabilità di una essenza spirituale, ma ne rappresenta il contenuto che la trascende (un contenuto ideale, l’essenza che si lega al nome) in forma simbolica. La realtà della lingua e dell’essenza spirituale è la pura funzionalità e medialità (come comunicabilità pura e semplice), al di là di ogni contenuto, e questa è la caratteristica che Benjamin attribuisce alla conoscenza filosofica, dove non si tratta di contenuti empirici, ma di un puro rapporto funzionale tra concetti puri e idee della metafisica, dove idee e concetti sono funzioni relazionali e non elementi sostanziali48. L’uomo «conosce nella lingua» e «attraverso l’essenza linguistica delle cose [...] [arriva] alla loro conoscenza linguistica», ad una conoscenza delle cose (che si comunicano in una lingua muta), che è possibile per  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio

l’uomo come «conoscenza perfetta [soltanto] attraverso la lingua, e non per la loro essenza spirituale nel pensiero»49, essendo l’essenza spirituale delle cose, per il fatto che esse sono mute e dominate dalla materia, non completamente comunicabile e comunicata. Per esprimere la loro essenza spirituale le cose hanno bisogno della mediazione linguistica della lingua della conoscenza umana. L’essenza spirituale dell’uomo è invece di fatto la sua lingua, «nella sua lingua la sua essenza spirituale si comunica perfettamente, [e] questo si esprime nel fatto che l’uomo conosce nella lingua»50, che lingua e sistema della conoscenza coincidono. La conoscenza è infatti possibile soltanto in quella sfera in cui «lo spirito si comunica nella lingua»51: le cose non conoscono perchè la loro essenza spirituale non si comunica interamente, mentre l’essenza dell’uomo sì. Come uno dei suoi gradini conoscitivi nei riguardi della natura Benjamin pone la matematica, che pensa se stessa e le cose e parla in “segni” (la sua «lingua [è] la dottrina/La sua scrittura il segno»52) senza contenuti empirici: egli schematizza il processo conoscitivo a partire dalla «dottrina della natura (fisica) e dalla dottrina», che si costruisce attraverso la «designazione (Bezeichnung) linguistica e matematica» fino ad arrivare alla conoscenza che consiste nella «denominazione (Benennung) [della] scienza naturale [(]Biologia[)]»53, la conoscenza dell’ambito della conoscenza naturale non puramente matematica, della conoscenza biologica, che è una Benennung perchè è presente in essa l’idea della finalità della natura, quindi un nome. Dio invece non comunica la sua essenza spirituale nella lingua, «il suo Nome non è più pronunciabile (sprachhaft)»54. Egli crea attraverso la Parola (Wort), in lui la lingua è la lingua della Creazione, ma il suo Nome non si può pronunciare e conoscere nel linguaggio umano. Benjamin considera il linguaggio dei nomi, collegato al linguaggio concettuale delle parole (che hanno in sé un riferimento al nome, lo rappresentano simbolicamente), la struttura pura di tutta la conoscenza e il fondamento dell’esperienza come luogo unitario della conoscenza e della filosofia. I nomi si collegano come idee ai concetti-parole per sintetizzarli, nel dotarli di una simbolicità che fa loro rappresentare i nomi e le idee stesse55, e li ordina nel sistema della filosofia come conoscenze: La filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso sistematico-simbolico come lingua. L’esperienza assoluta, per la visione (Anschauung) della filosofia, è lingua; lingua però concepita come concetto simbolico-sistematico. Essa si specifica in modi del linguaggio, uno dei quali è la percezione

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Esperienza e compito infinito (Wahrnehmung); le dottrine della percezione e di tutte i fenomeni (Erscheinungen) immediati dell’esperienza assoluta appartengono alla scienze filosofiche in senso lato. Tutta la filosofia, comprese le scienze filosofiche, è dottrina (Lehre)56.

L’esperienza è la filosofia stessa come unità sistematica della conoscenza, è «la molteplicità unitaria e continua»57 della conoscenza che si ordina nel sistema con l’aiuto delle idee, in un rapporto simbolico con esse. L’esperienza si specifica in «modi del discorso, uno dei quali è la percezione»58: nella percezione come modo del linguaggio l’esperienza si dà singolarmente (come esperienza esperita) come simbolo percettivo dell’unità molteplice della conoscenza, come simbolo dell’idea – per esempio dell’idea di Dio, che ha la sua origine nella religione e nel linguaggio teologico della rivelazione – che si dà nel nome59. Dell’esperienza come della filosofia fanno parte tutte le scienze filosofiche, che vengono comprese nella loro totalità nella “dottrina”: «Tutta la filosofia, comprese le scienze filosofiche, è dottrina»60. La dottrina è per Benjamin il luogo teologico che coincide storicamente con la tradizione e l’interpretazione della Torah61, il cui «fondamento è rivelazione, lingua»62, è la lingua teologica e asemantica, puramente formale e spirituale della parola creatrice divina, della conoscenza e dei nomi, ed essa comprende tutta la filosofia come esperienza, come conoscenza pura connessa sistematicamente. La dottrina è per Benjamin in modo specifico la dimensione filosofica della religione come «conoscenza della religione»63, in cui si danno le idee, ma anche l’intero ambito della filosofia (e, come religione, un ambito ancora più vasto). La dottrina è dunque il luogo teoretico di tutta l’esperienza metafisica, che ha nella religione la fonte delle idee per la sua unità, fondate sul linguaggio dei nomi e della rivelazione. Così Benjamin può formulare in questi termini l’istanza che rivolge alla filosofia futura: Sulla base del sistema kantiano creare un concetto della conoscenza a cui corrisponda il concetto di un’esperienza la cui conoscenza è dottrina64.

Con la trasformazione del sistema e del concetto di conoscenza kantiano in senso linguistico si avrebbe a suo avviso la deduzione dalla conoscenza di un’esperienza metafisica e anche religiosa, che avrebbe il suo status conoscitivo come dottrina e sarebbe la conoscenza stessa nella sua unitaria continuità, connessa in un sistema unitario in nessi concettuali e ideali linguistico-simbolici, come «molteplicità unitaria e continua della conoscenza»65 (dove la continuità sarebbe data dalla  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio

comune origine di tutta la conoscenza nel linguaggio). Essa sarebbe nel suo simbolo unitario religioso (percettivo) esperienza e – come conoscenza dell’esperienza e della religione – dottrina. Una tale filosofia sarebbe da designare, nella sua parte generale, come «teologia», oppure, nella misura in cui essa contiene quegli «elementi di filosofia della storia»66 che determinano il divenire della conoscenza nella direzione della dottrina, la teologia le sarebbe subordinata.

Note 1 Benjamin si riferisce a Hamann nel saggio del 1916 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 147; trad. it. cit., p. 183. 2 Nel rapporto dell’esperienza e della conoscenza con il linguaggio si instaurerà la differenza rispetto al neokantismo, che non aveva riconosciuto «che non la scienza, ma il linguaggio dà i concetti da ricercare» (Über die transzendentale Methode, 1918, in GS, VI, p. 53, frammento 31). 3 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 168; trad. it. cit., p. 224. 4 Cfr. l’appunto dell’11 ottobre 1916 in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 404: «A un certo punto la matematica supera la magia della lingua e entra completamente in Dio, riceve (empfängt) una magia immediata, che operando in se stessa forse rende comprensibile la concordanza di natura e pensiero matematico, il “problema dell’applicazione (Anwendungsproblem)”. Il fatto che la matematica non possa esprimersi per paragoni (Gleichnislosigkeit der Mathematik) si chiarisce nella sfera del […] [nefesch], dove essa supera ciò che è linguistico, ciò che può rappresentare attraverso paragoni (das Sprachliche, Gleichnismäßige)». Su matematica e linguaggio cfr. W. Benjamin, Fortsetzungsnotizen zur Arbeit über die Sprache, in GS, VII, 2, p. 788: «{La matematica parla in segni}. La lingua della matematica è la dottrina/ La sua scrittura è il segno. I segni della matematica si trovano per così dire anche di nuovo in cielo: solo che essi sono i segni letti – e i segni scritti nella matematica. / Il cielo è, nelle costellazioni, il luogo dei segni l e t t i e della musica (u d i t a )». Si tratta di un passaggio da fogli preparatorii per un seguito del saggio sul linguaggio. 5 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 168; trad. it. cit., p. 224 (traduzione modificata). 6 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, pp. 140-157; trad it. cit., pp. 177-193. 7 Come si è già visto, Benjamin ha utilizzato il Pentateuco nell’edizione curata da S. R. Hirsch. Cfr. S. R. Hirsch (a cura di), Der Pentateuch, cit., erster Teil. 8 Cfr. Benjamin a E. Schoen, 28-II-1918, in GB I, p. 437: «Prima di tutto: per me le domande sull’essenza della conoscenza, del diritto e dell’arte sono in rapporto con la domanda sull’origine di ogni espressione spirituale umana dall’essenza della lingua». Lingua significa per Benjamin «il principio volto alla comunicazione di contenuti spirituali» (Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 140; trad. it. cit., p. 177) nei diversi ambiti in cui si manifesta la vita spirituale umana: tra questi elenca gli ambiti della tecnica, dell’arte, della giustizia e della religione, che in Sul programma della filosofia futura saranno compresi nella logica trascendentale (la religione non

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Esperienza e compito infinito è compresa perché non è un concetto ma è il luogo – al di fuori essa – che rende possibile l’unità dei concetti). Il linguaggio non è secondo Benjamin però limitato alla parola umana, ma «ogni comunicazione di contenuti spirituali è linguaggio» (ibid.), non soltanto la comunicazione tramite la lingua vocale e scritta umana (su cui si fonda il linguaggio della giurisprudenza e della poesia), ma anche la comunicazione animale e la comunicazione muta delle cose. Il linguaggio si estende a tutta la natura animata e inanimata, poichè «è essenziale ad ogni cosa comunicare il proprio contenuto spirituale» (ivi, p. 141; trad. it. cit., p. 177). La lingua è intesa da Benjamin non come veicolo di contenuti che si trasmettono attraverso di essa, ma come immediata espressione di un contenuto spirituale, di una essenza (Wesen) spirituale, che nella misura in cui è comunicabile si identifica con la lingua stessa. Per questo la lingua viene definita come “medio”, come espressione immediata della dimensione spirituale dell’uomo, di Dio e delle cose nella loro purezza. La medialità della lingua è la lingua stessa come struttura formale e concettuale, questa medialità come «immediatezza di ogni comunicazione spirituale, è il problema fondamentale della teoria linguistica» (ivi, p. 142; trad. it. cit., p. 179). Questa immediatezza della lingua è chiamata da Benjamin (come anche da Scholem) “magica”: la magia della lingua è dunque, come immediatezza e come “infinità” (perchè non sono i contenuti ma è la sua essenza linguistica a delimitare i confini della lingua), il problema originario e fondamentale della lingua. Nella concezione della magia del linguaggio Benjamin si collega alla concezione cabbalistica della Torah che vede, nella combinazione delle lettere e delle parole del testo sacro, un modo per mettersi in contatto con il divino ed esercitare un potere sulla natura e sul divino stesso, combinando le lettere e le parole e pronunciandole in modo particolare. Egli è influenzato da discussioni avute con Scholem sulla teoria del cabbalista Abraham Abulafia, che si occupa della magia del nome divino, nome che con la combinazione delle sue lettere dà forma alla creazione e da cui hanno origine il nome umano e tutti i linguaggi (cfr. sulla teoria del linguaggio di Abulafia G. Scholem, Der Name Gottes und die Sprachtheorie der Kabbala, in Judaica 3, cit., pp. 7-70; trad. it. cit.). Sulla “magia della lingua” cfr. W. Menninghaus, Walter Benjamins Theorie der Sprachmagie, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1980. 9 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 144; trad. it. cit., p. 180. 10 Per Benjamin «Ogni lingua comunica se stessa», nel senso che «ciò che in un essere spirituale è comunicabile, è la sua lingua», e lo è immediatamente perchè «la lingua di un essere spirituale è immediatamente ciò che in esso è comunicabile» (Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 142; trad. it. cit., p. 179), è l’espressione di questo essere (Wesen) che si autoesprime e non il mezzo di un rapporto comunicativo tra un soggetto e un oggetto della comunicazione rispetto a un contenuto di essa. Nell’uomo, l’essere spirituale si comunica nella conoscenza e nella lingua della conoscenza, che è per Benjamin la “lingua dei nomi”. Cfr. ivi, p. 144; trad. it. cit., p. 181: «Il nome ha, nel campo della lingua, unicamente questo significato e questa funzione incomparabilmente alta: di essere l’essenza più intima della lingua stessa. Il nome è ciò attraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua stessa e assolutamente si comunica. Nel nome l’essenza spirituale che si comunica è la lingua. Dove l’essenza spirituale nella sua comunicazione è la lingua stessa nella sua interezza, là soltanto vi è il nome, e là vi è il nome soltanto. Il nome come retaggio della lingua umana garantisce quindi che la lingua stessa è l’essenza spirituale dell’uomo; e solo perciò l’essenza spirituale dell’uomo è interamente comunicabile. È ciò che fonda la differenza fra la lingua umana e quella delle cose. Ma poiché l’essenza spirituale dell’uomo è la lingua stessa, egli non può comunicarsi attraverso di essa, ma soltanto in essa. L’estratto di questa tota-

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio lità intensiva della lingua come essenza spirituale dell’uomo è il nome. L’uomo è colui che nomina, e da ciò vediamo che parla in lui la pura lingua. Ogni natura, in quanto si comunica, si comunica nella lingua, e quindi in ultima istanza nell’uomo. Perciò egli è il signore della natura e può nominare le cose. Solo attraverso l’essenza linguistica delle cose egli perviene da se stesso alla loro conoscenza – nel nome. La creazione di Dio si completa quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo, da cui nel nome parla solo la lingua». 11 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 151; trad. it. cit., p. 187. 12 Cfr. ivi, trad. it. cit., p. 187: «L’oggettività [della traduzione di ciò che non ha nome nel nome, che aggiunge la conoscenza] […] è garantita in Dio. Poiché Dio ha creato le cose, il verbo creatore in esse è il germe (Keim) del nome che le conosce, come anche Dio alla fine chiamò per nome ogni cosa, dopo che essa fu creata. Ma evidentemente questa denominazione è solo l’espressione dell’identità della parola divina e del nome conoscente in Dio, e non la soluzione anticipata del compito (Aufgabe) che Dio assegna espressamente all’uomo: quello cioè di nominare le cose. Accogliendo la lingua muta e senza nome delle cose e trasponendola in suoni nel nome, l’uomo risolve (löst) questo compito. Esso sarebbe insolubile se la lingua nominale dell’uomo e quella innominale delle cose non fossero imparentate in Dio, rilasciate (entlassen) dal verbo creatore, che è divenuto nelle cose comunicazione della materia in magica affinità (Gemeinschaft), e nell’uomo lingua del conoscere e del nome in spirito beato». Cfr. ivi, pp. 148-150; trad. it. cit., pp. 185-186: «[L’atto della creazione] ha inizio con l’onnipotenza creatrice della lingua, e alla fine la lingua s’incorpora, per così dire, l’oggetto creato, lo nomina. Essa è ciò che crea e ciò che compie, è il verbo [Wort, la parola creatrice] e il nome. In Dio il nome è creatore perché è verbo (Wort), e il verbo di Dio è conoscente perché è nome. […] Il rapporto assoluto del nome alla conoscenza sussiste solo in Dio, solo in esso il nome, essendo intimamente (im innersten) identico al verbo creatore, è il puro medio (Medium) della conoscenza. Vale a dire che Dio ha fatto le cose conoscibili nei loro nomi. Ma l’uomo le nomina a misura della conoscenza […]. Dio riposò quando ebbe affidato a se stessa, nell’uomo, la sua forza creatrice (sein Schöpferisches). Questa forza, privata della sua attualità divina, è divenuta conoscenza. L’uomo è conoscente nella stessa lingua in cui Dio è creatore. Dio lo ha creato a propria immagine, ha creato il conoscente a immagine del creatore. […] [L’essere spirituale dell’uomo] è la lingua in cui è avvenuta la creazione. La creazione è avvenuta nel verbo, e l’essenza linguistica di Dio è il verbo. Ogni lingua umana è solo riflesso del verbo nel nome. Il nome eguaglia (erreicht) tanto poco il verbo quanto la conoscenza la creazione. L’infinità di ogni lingua umana rimane sempre di ordine limitato e analitico in confronto all’infinità assoluta, illimitata e creatrice, del verbo divino […] il nome che l’uomo dà alla cosa dipende dal modo in cui essa gli si comunica. Nel nome la parola di Dio non è rimasta creatrice, essa è divenuta in parte ricettiva, anche se linguisticamente ricettiva. Questa ricezione è rivolta alla lingua delle cose stesse, da cui a sua volta s’irraggia, senza suono e nella muta magia della natura, la parola divina». 13 Ivi, p. 144; trad. it. cit., p. 181. 14 Ivi, p. 157; trad. it. cit., p. 193. 15 Ivi, pp. 145-146; trad. it. cit., p. 182: «Non c’è un contenuto della lingua; come comunicazione la lingua comunica un essere spirituale, e cioè una comunicabilità pura e semplice». 16 Ivi, p. 146; trad. it. cit., p. 183: «Il supremo campo spirituale della religione è (nel concetto di rivelazione) anche il solo che non conosce l’inesprimibile. Poiché esso viene apostrofato nel nome e si esprime come rivelazione. Ma qui si mostra che solo l’essere

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Esperienza e compito infinito spirituale supremo, come appare nella religione, poggia puramente sull’uomo e sulla lingua in lui». 17 Cfr. la Erkenntniskritische Vorrede a Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, p. 216; trad. it. cit., pp. 11-12: «La verità non consiste in un intendere (Meinen) che troverebbe nell’empiria la sua determinazione, ma è la potenza che plasma l’essenza di quell’empiria. L’essere sottratto a ogni fenomenicità, l’unico essere a cui pertiene questa potenza, è quello del nome. Esso determina il darsi delle idee. Ma esse si danno non tanto in una lingua originaria, quanto in una percezione originaria (Urvernehmen), nella quale le parole non avrebbero ancora perduto la loro aura denotativa a vantaggio del significato conoscitivo. […] L’idea è qualcosa di linguistico, più precisamente: qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide con quel momento per cui la parola è simbolo». Il testo, come si è visto, è stato completato nel 1925 e pubblicato nel 1928. Nella concezione delle idee di Benjamin nel 1925 è più forte il legame con Platone e meno forte (almeno apparentemente) il legame con Kant, rispetto al Programmaufsatz. 18 Cfr. il frammento 20, Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntnis (1917), in GS, VI, p. 39: «Il compito della conoscenza è quello di caricare così tanto le conoscenze di intenzione simbolica, che esse si perdono in verità o dottrina, si dissolvono in essa, senza però fondarla, poiché la loro fondazione è rivelazione, lingua». 19 Cfr. Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, pp. 153154; trad. it. cit., pp. 189-190: «Il nome esce da se stesso in questa conoscenza [del bene e del male]: il peccato originale è l’atto di nascita della parola umana, in cui il nome non vive più intatto, che è uscita fuori dalla lingua nominale, conoscente, quasi si potrebbe dire: della propria magia immanente, per diventare espressamente magica, per così dire dall’esterno. La parola deve comunicare qualcosa (fuori di se stessa). Ecco il vero peccato originale dello spirito linguistico. La parola esteriormente comunicante, quasi una parodia della parola espressamente mediata nei confronti della parola espressamente immediata, del verbo creatore divino, e la rovina del beato spirito linguistico, dello spirito adamitico, che si trova fra di esse. Poiché in effetti tra la parola che conosce, secondo la promessa del serpente, il bene e il male, e la parola esteriormente comunicante, c’è una fondamentale identità. La conoscenza delle cose è fondata nel nome, mentre quella del bene e del male è – nel senso profondo in cui Kierkegaard intende questo termine – “ciarla”, e conosce solo una purificazione e elevazione: il giudizio (Urteil). […] Nel peccato originale, essendo stata offesa la purezza eterna del nome, si alzò la più severa purezza della parola giudicante (richtende Wort), del giudizio. Per il nesso fondamentale della lingua il peccato originale ha un triplice […] significato. […] In quanto l’uomo esce dalla pura lingua del nome, fa della lingua un mezzo (di una conoscenza ad esso inadeguata), e quindi anche, almeno in parte, un semplice segno (Zeichen); ciò che ha più tardi per conseguenza la pluralità delle lingue. Il secondo effetto è che dal peccato originale – come ripristino dell’immediatezza, in esso violata, del nome –, sorge una nuova magia, quella del giudizio, che non riposa più beata in se stessa. Il terzo significato, che si può, forse, azzardare come ipotesi, è che anche l’origine dell’astrazione come facoltà dello spirito linguistico vada cercata nel peccato originale. Bene e male, infatti, sono, come innominabili, senza nome […]. Ma il nome, nella lingua esistente, è solo il terreno in cui hanno le loro radici i suoi elementi concreti. Ma gli elementi astratti della lingua – come si può forse supporre – hanno le loro radici nella parola giudicante, nel giudizio. L’immediatezza (cioè la radice linguistica) della comunicabilità dell’astrazione è sita nel verdetto giudicante (im richterlichen Urteil). Questa immediatezza della comunicazione dell’astrazione ha preso la forma del giudizio, quando l’uomo abbandonò, nella caduta, l’immediatezza della comunicazione del concreto, il nome, e cadde nell’abisso

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio della mediatezza di ogni comunicazione, della parola come mezzo, della parola vana – nell’abisso della ciarla». C’è qui un gioco tra il termine “giudizio” proprio del diritto e quello proprio della grammatica e della logica (che si fonda sull’astrazione), dove ha il significato di proposizione. Avendo anch’essa una propria immediatezza e radice linguistica, l’astrazione può avere per Benjamin un ruolo positivo di presa di distanza rispetto all’empiria, per esempio nella teoria della conoscenza, come momento critico della fondazione dei concetti generali. Le radici linguistiche degli elementi concreti della lingua date dal nome e dalla sua immediatezza sono intese nel significato che dà loro Molitor. Cfr. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923. I. Halbband 1913-1917, cit., p. 422 (annotazione del 18-XI-1916): «“Le lettere, che sono l’espressione di forze spirituali (potrebbe averlo scritto letteralmente Hirsch nel commentario al Pentateuco!), hanno le loro radici sopra” (Molitor I.) [cfr. F. J. Molitor, Philosophie der Geschichte oder über die Tradition, cit., ersther Theil, p. 59], cioè nella verità, nel senso dei cabbalisti ogni ricerca sulla verità che sia veritiera è […] ricerca sulla lingua, in quanto si devono ricercare le radici delle lettere, l’“alfabeto celeste” (Zohar II 130 b), e le forze spirituali che vi sono rappresentate». 20 Cfr. Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 150; trad. it. cit., p. 186: «mediante la parola [divina] l’uomo è unito con la lingua delle cose. La parola umana è il nome delle cose». Cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 216-217; trad. it. cit., pp. 11-12: «L’idea è qualcosa di linguistico, più precisamente: qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide con quel momento in cui la parola è simbolo. Nella percezione (Vernehemen) empirica, in cui le parole si sono decomposte, alle parole inerisce, accanto al loro più o meno nascosto significato simbolico, un esplicito significato profano. È compito del filosofo restituire il suo primato, mediante la rappresentazione (Darstellung), al carattere simbolico della parola: quel carattere nel quale l’idea giunge all’autotrasparenza, che è il contrario di una comunicazione rivolta verso l’esterno». 21 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, p. 143; trad. it. cit., p. 180. 22 Ibid. 23 Cfr. a proposito W. Beniamin, Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit… (191617), in GS, VI, pp. 11-12, frammento 3: «Il fondamento dell’immediatezza intenzionale, che è proprio di ogni significante, quindi in primo luogo della parola, è il nome in esso. Il rapporto di parola, nome e oggetto dell’intenzione è il seguente: 1) Né la parola né il nome sono identici all’ogg[etto] dell’intenzione [;] 2) il nome è qualcosa (un elemento) nell’oggetto dell’intenzione stesso, che viene fuori da esso; per questo il nome non è contingente [;] 3) la parola non è il nome, tuttavia il nome si trova nella parola, legato a altri elementi o a un altro elemento (quali? quale? il segno?). […] Il nome puro […] si riferisce alla substantia o all’essenza (Wesen). Tuttavia non è significante, piuttosto è qualcosa nella cosa stessa che si riferisce alla sua essenza». In questo frammento c’è un accenno ai Beiträge zur Logik di Alois Riehl (cfr. A. Riehl, Beiträge zur Logik, 2. durchges. Aufl., Reisland, Leipzig, 1912, p. 3): «Significato e concetto da un lato, parola e segno linguistico dall’altro vengono usati da Riehl (Beiträge zur Logik [I 1., p.] 3) come sinonimi. Due concetti – come Riehl dice giustamente – non sono mai identici» (Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit…, in GS, VI, p. 13). 24 Per il concetto di intenzionalità nella sua filosofia del linguaggio forse Benjamin ha presente il discorso husserliano e comunque si lega ad esso nella sua estraneità all’empiria linguistica, pur non condividendone la concezione della convenzionalità del segno. In questo senso si esprime F. Desideri, in Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit.,

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Esperienza e compito infinito pp. 93-94: «Qui [nell’Husserl della prima e quarta ricerca] la separazione tra essere-dellinguaggio e essere-delle-cose è perfetta, in quanto presupposto necessario di una chiarificazione a priori degli Erlebnisse del pensiero e delle loro connessioni. Il significato coincide così con l’oggetto che un “atto del pensiero” intenziona, ma questo a prescindere dal riferimento dell’oggetto a dati empiricamente esistenti [cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, trad. di G. Piana, Milano, 1968, II, p. 104 e I, p. 363]. Ogni atto di pensiero, in quanto tale, significa un oggetto, ma l’oggettualità di tale oggetto intenzionato è del tutto a priori. Il significato non è “immagine riflessa” dell’oggetto empirico (cfr. ivi, II, p. 89). Il segno linguistico esprime solamente ciò che l’atto di pensiero vuol significare. [...] Poiché la questione fondamentale delle ricerche husserliane è la descrizione della “costituzione a priori” delle leggi del pensiero, delle connessioni categoriali come “morfologia dei significati” (ivi, II, p. 111), legalità che determina a priori le possibili complessioni di significato, le possibili espressioni (ivi, II, p. 122), in quanto segni significativi; è il problema di “una grammatica universale” (ivi, II, p. 125) come “grammatica puramente logica”, dell’“apriori della forma del significato”, “impalcatura ideale” delle esistenti e possibili lingue storiche (ivi, II, pp. 126-127)». Anche J. P. Schobinger, in Variationen zu Walter Benjamin Sprachmeditationen, Basel/Stuttgart, 1979, p. 102, riferisce la dimensione conoscente del nome, come fondamento dell’intenzionalità significante della parola e dimensione significante che struttura a priori la realtà, all’Husserl delle Logische Untersuchungen, soprattutto della sedicesima ricerca, che si collega alle differenziazioni linguistiche della prima e all’analisi delle esperienze intenzionali della quindicesima ricerca. Tra la percezione della realtà e la sua rappresentazione linguistica c’è per Husserl l’atto indipendente del significare, e il testo (Wortlaut), il significato e la percezione costruiscono l’unità del nome, a cui viene attribuita una funzione conoscente. Anche in Benjamin il nome ha una funzione conoscente, nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, ma poggia su un fondamento teologico (cfr. ivi, p. 102). 25 Cfr. Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit…, in GS, VI, p. 14: «Il nome è l’analogo della conoscenza dell’oggetto nell’oggetto stesso. L’oggetto si scompone in nome e essenza. Il nome è sovraessenziale, indica il rapporto dell’oggetto con la sua essenza. (?)». 26 Nel frammento 10 Schemata zur Habilitationsschrift (1920-21), GS, VI, p. 22, la parola è presentata da Benjamin come unione di concetto e essenza. Il nome si trova nella parola come fondamento della sua intenzionalità immediata, grazie ad esso la parola può riferirsi all’essenza dell’oggetto significato. Cfr. a proposito W. Benjamin, Der Gegenstand: Dreieck…, in GS, VI, p. 14, fammento 4: «[La lingua] conosce solo parole per essa, in cui i nomi giacciono nascosti. In forza del nome le parole hanno la loro intenzione nei confronti dell’oggetto; attraverso il nome esse partecipano ad esso». 27 W. Benjamin, Das Wort imprädikabel… (composto tra il 1916-17 e il 1920), in GS, VI, pp. 20-21, frammento 9. 28 Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntis (1917), GS, VI, p. 39, frammento 20. 29 Cfr. Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit…, in GS, VI, pp. 13-14: «Il rapporto del concetto non è una relazione intenzionale, ma di derivazione, di discendenza (Abstammungsverhältnis); il concetto deriva dall’oggetto; è imparentato (verwandt) con esso [gli è affine]». 30 Der Gegenstand: Dreieck…, in GS , VI, p. 15. 31 Ibid. 32 W. Benjamin, Wenn nach der Theorie des Duns Scoto… (fine 1920 ca.), in GS, VI, p. 22, frammento 11.

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio 33 Ivi, pp. 22-23. Rolf Tiedemann stesso sottolinea «l’autonomia e l’effettualità del linguaggio come medium, che pone in relazione “contenuto logico” e “forma significante”» (Studien zur Philosophie Walter Benjamins, Frankfurt/M., 1973, p. 45; citato da F. Desideri in Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p. 97, nota 102). 34 F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p. 97. 35 Cfr. Der Gegenstand: Dreieck…, in GS, VI, p. 15. 36 Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit…, in GS, VI, p. 14. Cfr. ivi, pp. 13-14: «Il giudizio si riferisce all’oggetto tramite il concetto. L’identificazione per la conoscibilità dell’oggetto viene eseguita nel concetto. […] Il riferimento (Beziehung) del concetto all’oggetto non è un riferimento intenzionale, ma un rapporto di derivazione, di discendenza (Abstammungsverhältnis); il concetto deriva dall’oggetto; è imparentato con esso [gli è affine]. È un oggetto affine. I concetti sono quegli oggetti che preparano le asserzioni sugli oggetti originarii. Queste asserzioni stesse hanno luogo in giudizi, non in concetti. I concetti sono contenuti nel giudizio. (I giudizi non sono neanche intenzioni, ma oggetti, proposizioni in sé (an sich). I rapporti (Beziehungen) tra concetti non sono mai oggetto di giudizi, ma solo di definizioni». 37 Ivi, p. 14. 38 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 145; trad. it. cit., p. 182. 39 Ibid. 40 Cfr. ivi, p. 147; trad. it. cit., pp. 183-184: «L’incomparabile del linguaggio umano è che la sua comunità magica con le cose è immateriale e puramente spirituale, e di ciò il suono è il simbolo. Questo fatto simbolico è espresso nella Bibbia col dire che Dio ha ispirato all’uomo il fiato: che è insieme vita e spirito e lingua». 41 Cfr. ivi, p. 147; trad. it. cit., p. 183. 42 Ibid. 43 Ivi, pp. 145; trad. it. cit., p. 182. 44 W. Benjamin, Es ist seltsam… (1920-21), in GS, VI, p. 16, frammento 6. 45 Ivi, p. 15. 46 Cfr. ibid.: «Una parola quindi non comunica la cosa che essa apparentemente designa, indica (bezeichnet); piuttosto la parola comunica ciò che in verità essa stessa significa». 47 Per la concezione del nome come fondamento dell’intenzione significante della parola nei confronti di un oggetto significato, che così avrebbe accesso all’essenza dell’oggetto stesso, cfr. il frammento Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit..., in GS, VI, pp. 11-14. Il nome si presenta in genere nella parola, di cui costituisce l’intenzione significante, il rapporto all’essenza dell’oggetto, legato ad un segno simbolico: «[la lingua] conosce solo parole […] in cui i nomi si trovano nascosti. Le parole hanno la loro intenzione nei confronti dell’oggetto grazie al nome; esse partecipano dell’oggetto grazie al nome [.] Il nome non si trova in esse allo stato puro, ma è legato a un segno. […] Su IV [:] comunicazione, simbolo, segno e nome nella parola. La parola deve essere costruita a partire da questi quattro elementi» (Der Gegenstand: Dreieck..., in GS, VI, p. 14). I segni che si riferiscono ai nomi sono segni particolari, annessi ai nomi, nomi di second’ordine, che non si fondano, come i nomi, sulla lingua sonora, ma sono segni scritturali e immagini, non sono segni autentici, ma simboli: «Forse vi sono segni di nomi, questi sarebbero però segni in senso improprio, simboli [...]. I simboli non sono segni autentici, non devono, sensatamente, nemmeno essere indicati come nomi, ma sono annessi di nomi, nomi di second’ordine, vale a dire tali che non si fondano sulla lingua sonora, su cui si basano i nomi di prim’ordine» (Der Grund der intentionalen Unmittelbarkeit..., in

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Esperienza e compito infinito GS, VI, pp. 11-12). Cfr. anche il W. Benjamin, Wenn sich in einer Region… (1920-21), in GS, VI, pp. 16-17, frammento 7: «Quando in una regione si presenta solo una esistenza che indica semplicemente, questa indicazione non è un simbolo, ma un segno. Quando essa è colmata da un senso pieno in una mera indicazione, quella indicazione è un simbolo. Grafica – lingua [.] Vi è in tale regione un senso, che si riempie della mera indicazione, interpretazione di (Hindeutung auf) se stesso? Un simbolo designa un senso all’interno di una regione, che si riempie fino all’appagamento attraverso la mera indicazione di se stesso. La lingua si trova su una sfera (verità) in cui il senso si riempie dell’indicazione di se stesso (rapporto creativo?). Come è possibile il carattere simbolico del sistema in riferimento al mondo assoluto della lingua? In cosa consiste il carattere simbolico del sistema ». 48 Si ricordi quanto detto da Benjamin nel saggio su Hölderlin a proposito del concetto di identità, come identità di funzioni (del poetato e della Gestalt). Cfr. Zwei Gedichten von Friedrich Hölderlin, in GS, II, 1, p. 108; trad. it. cit., p. 114 (traduzione modificata): «Il poetato si rivelerà così come la premessa della poesia, come sua forma interna, come compito artistico. La legge secondo cui tutti gli elementi apparenti della sensibilità e delle idee si rivelano complessi (Inbegriffe) delle funzioni essenziali, di principio infinite, è chiamata la legge d’identità. Indichiamo così l’unità sintetica delle funzioni». 49 Fortsetzungsnotizen zur Arbeit über die Sprache, in GS, VII, 2, p. 786. Si tratta di un passaggio da fogli preparatorii per la continuazione del saggio sul linguaggio. Questi fogli (cfr. ivi, pp. 785-791) danno elementi ulteriori di comprensione rispetto al saggio, e schemi visivi per i concetti. 50 Ibid. 51 Ibid. 52 Ivi, p. 788. Cfr. ibid. il contesto, dove i segni della matematica, il cui linguaggio fa parte dell’ambito filosofico-religioso della dottrina, sono paragonati alle costellazioni come segni da leggere (e alla musica come dimensione del suono e dell’ascolto). 53 Ivi, p. 787. 54 Cfr. ivi, p. 786: «Dio non comunica la sua essenza spirituale nella lingua. Dio è il solo per cui la lingua è comunicabile. Il suo nome non è più pronunciabile (sprachhaft). Dio crea attraverso la Parola. Il circolo magico della lingua significa: Dio crea → La lingua significa → La matematica pensa → L’uomo conosce». 55 Cfr. il frammento Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntnis, GS, VI, p. 39: «tutte le conoscenze devono essere portatrici, attraverso il loro latente contenuto simbolico, di una potente (gewaltigen) intenzione simbolica, che li classifica sotto il nome dell’ontologia nel sistema stesso, la cui categoria decisiva è la dottrina, anche la verità, non la conoscenza. Il compito della conoscenza è quello di caricare così tanto le conoscenze di intenzione simbolica, che esse si perdono nella verità o dottrina, si dissolvono in essa, senza però fondarla, poiché la sua fondazione è rivelazione, lingua.». 56 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, pp. 37-38. 57 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 168; trad. it. cit., p. 225. 58 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 38. Sulla percezione come modo del linguaggio che si riferisce a simboli cfr. W. Benjamin, Wahrnemung ist lesen (1917 ca.), in GS, VI, p. 32, frammento 16: «La percezione si riferisce a simboli». Cfr. inoltre il frammento 18 Notizen zur Wahrnehmungsfrage (1917 ca.), in GS, VI, pp. 32-33, dove la percezione è descritta come la superficie piana assoluta (una immagine, ripresa da Kant, del com-

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26. La fondazione della conoscenza sul linguaggio plesso dell’esperienza) configurata, che può essere solo letta, nella cui forma si manifestano sia i segni che i simboli; la percezione è descritta inoltre come lo schema, il canone, la condizione e il il significato di una significatività (mentre la parola è la comunicazione di una comunicabilità). La superficie piana (Fläche) rappresenta in Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, il complesso (Inbegriff) di tutti gli oggetti possibili (dell’esperienza). Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 787-788, p. 645; trad. it. cit., p. 582: «Il complesso (Inbegriff) di tutti gli oggetti possibili è, per la nostra conoscenza, come una superficie piana (Fläche) che ha il suo orizzonte apparente, quello, cioè, che abbraccia tutto l’àmbito di essi, ed è stato detto da noi il concetto razionale della totalità incondizionata. Raggiungerlo empiricamente è impossibile, e tutti i tentativi per determinarlo a priori secondo un certo principio sono stati vani. Intanto tutte le questioni della nostra ragion pura mirano a ciò che può essere fuori di questo orizzonte, o in ogni caso sulla linea del suo confine». Cfr. anche poco più avanti, ivi, B 790, p. 647; trad. it. cit., pp. 583-584. 59 Cfr. Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, I, 1, pp. 216-217; trad. it. cit., pp. 1112. Cfr. Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 156; trad. it. cit., p. 192: «Poiché la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile. Questo lato simbolico del linguaggio è collegato al suo rapporto al segno, ma si estende ad esempio, per certi aspetti, anche al nome e al giudizio. Questi hanno non solo una funzione comunicante, ma anche, con ogni probabilità, una funzione simbolica in stretto rapporto con essa». 60 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, p. 38. 61 Secondo alcune interpretazioni cabbalistiche Dio ha creato il mondo con la Torah, che coincide con le lettere del suo Nome: «Questa struttura mistica della Torah come serie di Nomi divini spiega anche, secondo […] [Nachmanide, che scrisse un commento alla Torah divenuto famoso], perché in essa ogni singola lettera possieda un suo valore e perché un rotolo della Torah diventi inutilizzabile per il rituale sinagogale se contiene anche solo una lettera in eccesso o in difetto. Fu facile passare di qui a una tesi ancora più radicale: quella per cui la Torah non solo è costituita dai Nomi di Dio, ma addirittura forma, nel suo insieme, un unico grande Nome di Dio. E questa non è più una tesi magica, ma una tesi puramente mistica. Essa venne formulata a più riprese […]. Questa tesi diventò una dottrina cabbalistica universalmente accettata quando venne ripresa con forza in numerosi passi dell’autore dello Zohar, l’opera classica della Qabbalah spagnola del XIII secolo. […] “L’affermazione che la Torah, per sua natura, non è altro che un unico grande Nome di Dio è certamente una tesi audace, quasi temeraria, che richiede qualche spiegazione. Qui la Torah viene concepita come un’unità mistica, il cui scopo primario non è quello di comunicare un senso specifico, ma piuttosto di dare espressione a quella stessa infinita potenza di Dio che appare concentrata nel suo “Nome”. Questa concezione della Torah come un unico Nome divino non significa però che si tratti di un nome pronunciabile come tale, né ha qualcosa a che fare con una concezione razionale delle possibili funzioni comunicative e sociali del nome. Affermare che la Torah è il Nome di Dio significa che Dio ha espresso in essa il suo essere trascendente, o almeno quella parte o aspetto del suo essere che può venir rivelato alla creazione e attraverso la creazione. O meglio: dal momento che già la vecchia haggadah considerava la Torah come lo strumento della creazione, grazie al quale il mondo aveva cominciato a esistere, questa nuova concezione della Torah poteva essere intesa come un ampliamento e una reinterpretazione mistica della dottrina più antica. Infatti lo strumento che ha permesso al mondo di venire alla luce è qui assai più di un semplice strumento, perché rappresenta la stessa forza concentrata di Dio, che viene portata a espres-

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Esperienza e compito infinito sione nel Nome” [G. Scholem, Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Rhein Verlag, Zürich, 1960; trad. it. La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino, 1980, pp. 52-55]. In tal modo, dunque, si va ben oltre la vecchia concezione secondo cui la Torah racchiude le segrete leggi e l’ordine armonico che reggono e governano l’intero creato, formando così la legge suprema del cosmo, e si afferma invece una tesi di portata ancora maggiore, in base alla quale tutti i livelli concreti di senso presenti nella Torah come lingua del Nome sono solo aspetti relativi di quell’unico assoluto che, nell’ambito del linguaggio, è il Nome di Dio. Questi aspetti relativi potranno anche rivelarsi verità profonde sulla creazione e sulla vita dell’uomo, e tanto più profonde a ogni ulteriore livello di senso, ma resteranno pur sempre frammenti, negli infiniti percorsi della creazione, di quella parola assoluta che è il Nome. […] Che il processo della manifestazione di Dio, nel suo esternarsi, venga rappresentato con il simbolismo della luce […] o che lo si intenda invece come attività del linguaggio di Dio, come differenziarsi della parola della creazione o il dispiegarsi del Nome divino, per i cabbalisti si tratta solo di fare una scelta fra due simbolismi» (G. Scholem, Der Name Gottes und die Sprachtheorie der Kabbala, in Judaica 3, cit., pp. 28-32; trad. it. cit., pp. 38-43). Cfr. anche ivi, p. 20; trad. it. cit., p. 27: «Tutto viene creato combinando le lettere della lingua divina. Esse sono però le lettere della lingua ebraica, in quanto idioma originario e linguaggio della rivelazione». 62 Zum verlornen Abschluss der Notiz über die Symbolik in der Erkenntnis, in GS, VI, p. 39. 63 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226. 64 Ivi, p. 168; trad. it. cit., p. 224. 65 Ivi, p. 168; trad. it. cit., p. 225. 66 Ivi, p. 168; trad. it. cit., pp. 224-225.

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27. Filosofia e religione

Benjamin termina Sul programma della filosofia futura nel novembre del 1917, ma lo completa nel marzo del 1918 con un’Aggiunta, in cui dichiara di voler chiarire, nel saggio, il rapporto tra filosofia e religione e di dover quindi ritornare sulla parte di esso che concerne lo schema sistematico della filosofia, in primo luogo sul rapporto fra i tre concetti della teoria della conoscenza, della metafisica e della religione. Si è già visto come Benjamin abbia delineato, in termini generali, il «rapporto che sussiste fra la teoria della conoscenza, la metafisica e le scienze particolari»1, per cui si può infine dire che l’«intera filosofia è […] teoria della conoscenza, è solo e precisamente teoria, critica e dogmatica, di ogni conoscenza. Entrambe le parti, quella critica e quella dogmatica, rientrano nell’ambito della filosofia»2 . Per quanto riguarda il rapporto tra la filosofia e le scienze particolari, si può dire che il confine con queste ultime non esiste, i loro contenuti rientrano virtualmente, come leggi e concetti puri indagati con l’aiuto delle idee come compiti3, nella filosofia. Virtualmente perché – per esempio nella fisica – è proprio del mondo dei fenomeni il momento della contingenza, e l’ipotesi scientifica ha il compito virtualmente infinito di salvare i fenomeni nel concepire in essi un momento della necessità, un momento matematico nelle leggi fisiche4: il significato del termine metafisica, così come è stato usato […] [da Benjamin], comporta precisamente che questo confine non sia presente; e la trasformazione dell’ “esperienza” in una metafisica significa che nella parte metafisica e dogmatica della filosofia – in cui trapassa la parte suprema della teoria della conoscenza, ossia la parte critica – è virtualmente inclusa la stessa esperienza. (L’esemplificazione di questo rapporto per il campo della fisica nel […] saggio su spiegazione e descrizione)5.

Anche per i momenti critico e dogmatico nell’etica e nell’estetica Benjamin ha postulato (senza soffermarsi su di essi) «una soluzione di tipo analogo, in senso sistematico, a quella che si offre nell’ambito della dottrina della natura»6.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito

A questo punto resta da risolvere «il problema del rapporto tra la filosofia e la religione»7. A rigore, dice Benjamin, non si deve trattare del rapporto tra filosofia e religione, ma del rapporto tra la filosofia e la «dottrina (Lehre) della religione – in altri termini, del rapporto tra la conoscenza in genere e la conoscenza della religione»8, di un problema della conoscenza, in questo caso del ruolo gnoseologico (come unità della conoscenza) delle idee, per le quali egli usa, come aveva già fatto nel saggio su Hölderlin, il termine Dasein, che usualmente significa esistenza: Anche il problema del Dasein della religione, dell’arte ecc. può svolgere una funzione filosofica, ma solo nell’ambito del problema della conoscenza filosofica di tale Dasein. La filosofia si pone sempre il problema della conoscenza, e il problema della conoscenza del suo Dasein è solo una modificazione – seppure infinitamente rilevante – del problema della conoscenza in genere. Sì, possiamo dire che che ogniqualvolta affronta un problema la filosofia non può mai approdare all’unità del Dasein, ma sempre soltanto a nuove unità di leggi (Gesetzlichkeiten) il cui integrale è «Dasein»9.

Per spiegare il ruolo delle idee e la loro origine, come assoluto, nella religione, e il loro necessario inserimento nella filosofia come conoscenza in quanto idee della dottrina e luogo della continuità della conoscenza, Benjamin premette una descrizione della «doppia funzione del concetto gnoseologico radicale o originario (der erkenntnistheoretische Stamm-oder Urbegriff )»10, forse di quel concetto più originario rispetto alle categorie kantiane che egli identifica nel concetto di identità (o in genere di quei concetti più originari che esige la nuova logica trascendentale), e che si specifica, come il principio dell’origine della Logica di Cohen, nelle conoscenze della scienza matematica della natura11, e al di là di Cohen (che comunque metteva i Denkgesetze, come fondamento del metodo della purezza, alla base di tutto l’ambito del sistema della cultura12) in tutti i modi particolari di conoscenza e di esperienza (non solo – anche solo analogicamente, come in Cohen – scientifici): Il concetto gnoseologico radicale e originario ha una doppia funzione. Da un lato dopo la fondazione logica generale della conoscenza in genere approda, specificandosi, fino ai concetti di modi particolari di conoscenza, e quindi a modi particolari di esperienza. E questo è il suo significato propriamente gnoseologico (seine eigentlich erkenntnistheoretische Bedeutung), che è insieme uno dei due lati del suo significato metafisico, quello più debole13.

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27. Filosofia e religione

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Si tratta qui del concetto della teoria della conoscenza nei suoi due lati critico e dogmatico14, nella sua specificazione nelle diverse scienze: Però in questa sua funzione il concetto primo e originario della conoscenza (der Stamm- und Urbegriff der Erkenntnis) non perviene a una totalità concreta dell’esperienza, né a un qualche concetto di Dasein. Ma c’è un’unità dell’esperienza che non può essere affatto intesa come somma di esperienze, a cui si riferisce direttamente il concetto della conoscenza, come dottrina nel suo dispiegamento continuo. L’oggetto e il contenuto di questa dottrina, questa totalità concreta dell’esperienza è la religione, che tuttavia innanzitutto è data alla filosofia solo come dottrina. Ma la fonte del Dasein sta nella totalità dell’esperienza, e solo nella dottrina la filosofia incontra un assoluto15, come Dasein, e quindi quella continuità nella natura dell’esperienza che il neokantismo ebbe il torto di trascurare16.

La religione è per Benjamin quella totalità dell’esperienza, come dimensione della totalità di ogni realtà data dalla concezione di Dio, che è la fonte dell’assoluto come Dasein, come idea religiosa. Questa totalità dell’esperienza, la religione, può essere data alla filosofia solo come dottrina, come «dottrina della religione»17, e in essa soltanto la filosofia incontra un assoluto come idea metafisica e nesso delle conoscenze per la loro continuità, ad essa si riferisce il concetto di conoscenza per l’unità continua dell’esperienza18: Sul piano metafisico puro il concetto originario dell’esperienza passa nella sua totalità in un senso completamente diverso da quello delle sue singole specificazioni, le scienze: ossia immediatamente – dove resta ancora da determinarsi il senso di questa immediatezza contrapposta a questa mediazione. Dire che una conoscenza è metafisica significa, in senso rigoroso: si riferisce, tramite il concetto originario della conoscenza (durch den Stammbegriff der Erkenntnis), alla totalità concreta dell’esperienza – ossia al Dasein19.

Il rapporto tra il concetto di conoscenza e l’idea (o le idee), che Benjamin ha già indicato e ritiene fondamentale per l’unità e continuità dell’esperienza, produce una conoscenza metafisica: questo rapporto è dato a suo avviso non mediatamente, in un rapporto tra concetti, ma immediatamente20, in un rapporto simbolico tra concetti e idee, tra parole e nomi, rapporto che ha in sé quell’immediatezza propria della lingua che «in un essere spirituale è immediatamente ciò che in esso è comunicabile»21. L’idea ha però una legittimazione in filosofia solo nel ruolo gnoseologico di Inbegriff delle conoscenze:  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Esperienza e compito infinito Il concetto filosofico del Dasein deve legittimarsi a confronto con il concetto religioso di dottrina, ma quest’ultimo a sua volta deve legittimarsi a confronto con il concetto originario (Stammbegriff) della teoria della conoscenza.22.

La conclusione di Benjamin non può che essere problematica, egli indica in ciò che ha detto solo un abbozzo, un suggerimento. Nel determinare il rapporto tra filosofia e religione egli ha voluto soddisfare a tre esigenze: in «primo luogo a quella dell’unità virtuale di religione e filosofia»23, dove la religione è considerata l’ambito della dottrina e del sistema perfetto a cui la filosofia deve tendere – messianicamente – nel suo divenire (è quindi più ampio dei sistemi della filosofia fin qui costruiti, è la Torah stessa nel suo dispiegarsi nell’interpretazione talmudica, cabbalistica e filosofica). In «secondo luogo all’esigenza di inserire nella filosofia la conoscenza della religione», come luogo gnoseologico delle idee per l’unità continua dell’esperienza, e in «terzo luogo all’istanza della tripartizione integrale del sistema»24. Deve esser infatti mantenuta la differenza tra gli ambiti della dottrina della natura, dell’etica e dell’estetica, anche se le idee permettono il rapporto tra questi e la continuità di tutta la conoscenza, nell’essere concetto limite dei rispettivi ambiti (come causalità per libertà e conformità a scopi della natura, come concetto di libertà in quanto autonomia e dell’uomo come fine, e come finalità nel libero gioco delle facoltà conoscitive – immaginazione e intelletto – nel giudizio estetico)25. Nella ragione, come dottrina, si trovano quelle idee che permettono la continuità dell’esperienza come conoscenza pura, e la possibilità del rapporto tra concetti e idee è dato dal principio della conformità a scopi della natura e dalla tipica della ragion pratica: in questo rapporto tra i membri sistematici è data anche l’originaria distinzione della tricotomia, distinzione necessaria perché non si crei una confusione di «libertà e esperienza»26. La concezione dell’esperienza di Benjamin, come sistema della filosofia mai compiuto e mai coincidente con l’ambito ideale religioso della dottrina, si distingue dalla concezione del sistema della filosofia di Cohen e di Noeggerath nel suo fondarsi su una visione teologica del linguaggio, ma mantiene in sé le suggestioni e, in parte, la forma metodologica, della concezione neokantiana della cosa in sé come idea di fine e compito infinito nelle tre direzioni della coscienza e nel sistema della filosofia. Solo in Benjamin la «filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso sistematico-simbolico come lingua […] concepita però come concetto simbolico-sistematico. […] Tutta la filosofia […] è dottrina»27.

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27. Filosofia e religione Note

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Ivi, p. 169; trad. it., cit., p. 226. Ivi, p. 169; trad. it. cit., p. 225. 3 Sull’idea come compito in Cohen cfr. A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, cit., p. 79. 4 Cfr. il frammento di Benjamin – che corrisponde al saggio menzionato – datato da lui stesso febbraio 1918, dal titolo Versuch eines Beweises, dass die wissenschaftliche Beschreibung eines Vorgangs dessen Erklärung voraussetzt, in GS, VI, pp. 40-42, in particolare p. 41: «Ora però l’origine logica dell’ipotesi non si trova nell’esperienza, ma nel compito (Aufgabe) – con il presupposto che vi siano in genere fenomeni (Phänomene) – di salvare questi stessi, il compito cioè di concepire e tener fermo in essi un momento della necessità, un momento matematico. In questo presupposto vi è tuttavia un momento della contingenza, e proprio per il fatto che possiamo pensare in modo assoluto la necessità solo nella sfera della matematica. Perciò l’esperienza (Erfahrung) è contingente nella misura in cui non possiamo pensare la necessità (la matematicità) dei fenomeni (Erscheinungen) in modo immediato. Vale perciò sempre il problema platonico che quando vogliamo pensare un mondo, dobbiamo […] [tà fainomena sozein, salvare i fenomeni]. Questo fa l’ipotesi (Hypothese). In riferimento alle proposizioni matematiche l’ipotesi pensa fenomeni (Erscheinungen) con un grado massimo di matematicità. La fisica è dunque la scienza di fenomeni (Erscheinungen) anche solo possibili, la cui caratteristica essenziale è la misura massima di matematicità rispetto a tutto ciò che è pensabile. La fisica giunge fino a qui senza ricorso all’esperienza, quindi anche senza osservazione o esperimento. Vi è ora tuttavia una possibilità incomparabile di verificare la necessità delle leggi fisiche (der physikalischen Gesetze). La domanda è: se esse sono valide nella nostra esperienza (nel nostro mondo fenomenico), vale a dire [nel]l’esperimento. Il valore delle leggi fisiche consiste ora però così poco nel fatto che esse sono valide immediatamente per la nostra esperienza, che questa validità (Geltungsart) è piuttosto il sintomo di un’altra validità, quella sua propria. Quando cioè nel nostro mondo fenomenico totalmente contingente è valida una legge fisica, questo significa che essa possiede il grado massimo di matematicità dei fenomeni in genere (la matematicità possono averla solo i fenomeni in genere). Se il nostro mondo fenomenico non fosse così completamente contingente, la validità di una legge fisica non avrebbe alcun significato per la sua necessità; ma il nostro mondo fenomenico, essendo contingente, dà una risposta solo alla domanda su ciò che nei fenomeni è semplicemente necessario, cioè alla domanda matematica. Se il nostro mondo fenomenico non fosse contingente, non potremmo avere nessuna fisica, ma tantomeno ne avremmo bisogno». 5 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 169; trad. it. cit., pp. 225226. Cfr. Versuch eines Beweises, dass die wissenschaftliche Beschreibung eines Vorgangs dessen Erklärung voraussetzt, in GS, VI, p. 42: «Nell’esperimento viene data una risposta alla domanda sulla dignità sistematica (vale a dire la matematicità) di un’ipotesi, nella forma della risposta alla domanda intorno alla validità per la nostra esperienza. In linea di principio è tuttavia possibile una fisica senza esperimento, poiché siamo d’accordo sul fatto che l’esperimento è unicamente un mezzo metodologico della verifica della relazione dell’ipotesi con la matematica, che in linea di principio deve poter essere trovato anche nel pensiero. L’ipotesi non riconduce se stessa, per quanto riguarda il suo motivo giuridico, all’osservazione. Perciò il solo luogo in cui l’esperienza entra nella fisica è quello dell’esperimento, che è in primo luogo in via di principio un aiuto metodologico di cui servirsi, in secondo luogo, qualora dovesse diventare una verifica della legge di natura, esso presuppone questa stessa, cioè la sua stessa spiegazione. Se dunque l’osservazione non entra 2

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Esperienza e compito infinito in questione come fonte logica dell’ipotesi, e l’esperimento (l’osservazione) o la sua descrizione ha come presupposto per il suo riuscire la validità della legge fisica corrispondente, l’osservazione scientifica di un processo presuppone la sua spiegazione. Descrizione e spiegazione: la presentazione (Darstellung) di un esperimento determinato è la descrizione di un processo fisico (eines physikalischen Vorgang), la legge fisica, che viene verificata nell’esperimento, [è] la sua spiegazione». 6 Ivi, p. 169; trad. it., cit., p. 226 (traduzione modificata). 7 Ibid. 8 Ibid. 9 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226 (traduzione modificata). Si ricordi qui l’idea della relazione ipotetica in Noeggerath, considerata come integrale della serie. Cfr. F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., p. 53. 10 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226. Come si è visto, nella Logica trascendentale Kant parla delle categorie, o predicamenti, come di concetti originari (Ur- e Stammbegriffe) e dei predicabili come concetti derivati. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 107-109, pp. 119-120; trad. it. cit., pp. 114-116. 11 Cfr. H. Holzhey, Cohen und Natorp, cit., Band I, p. 187: «Se per adempiere a questo compito deve essere fornita la prova che tutte le conoscenze pure sono “declinazioni (Abwandlungen) del principio dell’origine”, è affidato quindi alla logica un compito della logica dell’essere (eine seinslogische Aufgabe); in esso si tratta dell’origine (fondamento) dell’essere nel pensiero». 12 In Cohen le Denkgesetze sono la base metodica di tutte le direzioni della coscienza (logica, etica, estetica) e della sua unità, dunque dell’unità dell’uomo e del suo sviluppo culturale. La descrizione di questo sviluppo e di questa unità come suo culmine è compito della psicologia sistematica. Cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, Band 6, cit., p. 610. 13 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226. 14 Cfr. ivi, p. 169; trad. it. cit., p. 225: «L’intera filosofia si divide nella teoria della conoscenza e nella metafisica, o, per usare le parole di Kant in una parte critica e una dogmatica. Ma questa suddivisione – se considerata non nel contenuto che indica, ma nel suo principio – non possiede un valore di principio. Significa solo che ogni accertamento critico dei concetti della conoscenza e del concetto di conoscenza può costituire la base su cui costruire una dottrina di ciò il concetto della cui conoscenza è stato determinato in primissimo luogo sul piano critico. Forse non è possibile dire esattamente dove cessa il momento critico e inizia quello dogmatico, poiché il concetto di dogmatico si propone semplicemente di contrassegnare il passaggio dalla critica alla dottrina, da concetti fondamentali più generali a concetti fondamentali particolari. […] Entrambe le parti, quella critica e quella dogmatica, rientrano nell’ambito della filosofia». 15 Sull’uso della parola “assoluto” nei riguardi delle idee cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 381-383, pp. 329-330; trad. it. cit., pp. 306307. 16 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 170; trad. it. cit., p. 226227 (traduzione modificata). 17 Ivi, p. 170; trad. it. cit., p. 226. 18 Sulla necessità di un riferimento della conoscenza a un principio della totalità, come si ha nell’etica, cfr. H. Cohen, Ethik des reinen Willens, in Werke, cit., Band 7, p. 90; trad. it. cit., p. 68: «È una nuova luce che il principio della verità diffonde sul metodo fon-

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27. Filosofia e religione damentale della logica mostrando come sia proprio la logica stessa a esigere l’etica». 19 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, pp. 170-171; trad. it. cit., p. 227 (traduzione modificata). 20 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werkausgabe, cit., Bände III-IV, B 795, p. 650; trad. it. cit., p. 386, dove il rapporto del concetto con l’esperienza possibile dà l’elemento della mediazione: «Al contrario, noi abbiamo visto nella Logica trascendentale che, sebbene non ci sia dato mai di sorpassare i m m e d i a t a m e n t e il contenuto del concetto, nondimeno possiamo interamente a priori, ma in rapporto a un terzo elemento, ossia all’esperienza p o s s i b i l e , quindi tuttavia a priori, conoscere la legge del rapporto di una cosa con altre». 21 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, p. 142; trad. it. cit., p. 179. 22 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 171; trad. it. cit., p. 227 (traduzione modificata). 23 Ibid. 24 Ibid. 25 Per Holzhey, che si riferisce al capitolo conclusivo della seconda edizione della Kants Theorie der Erfahrung (Dümmler, Berlin, 1885), in Cohen sono centrali in tutte le parti del sistema, in quanto compiti della cosa in sé, la “forma della legalità”, in cui le forme a priori sono metodi per l’oggettivazione in leggi, e la visione teleologica dell’idea come fine che si divide in tre modi: la concezione teleologica della natura, che è guidata dall’idea di una conformità a scopi delle “forme della natura” (Naturformen), la concezione morale, che pone la libertà e considera le persone come scopi finali, e la concezione estetica, che vive nel libero gioco delle facoltà conoscitive. Cfr. H. Holzhey, Erkenntnislogische Grundlegung und Systemkonzeption bei Cohen, in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, cit., p. 349. Cohen ammette il concetto di finalità delle forme della natura nella sua Logica, nella sezione dell’Urteil des Begriffs (cfr. H. Cohen, Logik der reinen Erkenntnis, in Werke, cit., Band 6, p. 349), dove tratta degli organismi in riferimento al giudizio disgiuntivo. Cfr. a proposito F. Noeggerath, Synthesis und Systembegriff in der Philosophie, cit., pp. 66 e 72. 26 Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS, II, 1, p. 165; trad. it. cit., p. 221. 27 Über die Wahrnehmung, in GS, VI, pp. 37-38.

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Bibliografia

OPERE DI WALTER BENJAMIN Edizioni originali

Schriften, 2 Bände, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1955. Briefe, a cura di G. Scholem e Th. W. Adorno, 2 Bände, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1966. Gesammelte Schriften, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, nnunter Mitwirkung von G. Scholem und Th. W. Adorno, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1974-1989, Bände I-VII. Aus der mir geliehenen Notizbuche Walter Benjamins. Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit. Mit einem Kommentar vom Hermann Schweppenhäuser, in Frankfurter Adorno Blätter IV, hrsg. vom “Theodor Adorno Archiv”, edition text+kritik, München, 1992, pp. 41-51. Gesammelte Briefe. Band I 1910-1918, hrsg. von Ch. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1995. Gesammelte Briefe. Band II. 1919-1924, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1996. Gesammelte Briefe. Band III. 1925-1930, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1997. Gesammelte Briefe. Band IV. 1931-1934, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1998. Gesammelte Briefe. Band V. 1935-1937, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1999. Gesammelte Briefe. Band VI. 1938-1940, hrsg. von Ch. Gödde und H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 2000.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Traduzioni italiane Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. a cura di R. Solmi, Torino, 1962, 19812; prima ed. negli Einaudi Tascabili, con un saggio di F. Desideri, 1995. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1966. Il dramma barocco tedesco, trad. it. a cura di E. Filippini, introd. di C. Cases, 1971, 19802; trad. it. della nuova edizione a cura di F. Cuniberto, introd. di G. Schiavoni, Einaudi, Torino, 1999. Immagini di città, trad. it. di M. Bertolini Peruzzi, Einaudi, Torino, 1971, nuova ed. 1980. Infanzia berlinese, trad. it. di M. Bertolini Peruzzi, Einaudi, Torino, 1973. Lettere.1913-1940, raccolte da G. Scholem e T. W. Adorno, trad. it. a cura di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino, 1978. Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, nota introduttiva di C. Cases, trad. it. a cura di A. Marietti, Einaudi, Torino, 1979. Critiche e recensioni. Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino, 1979. Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918 (vol. I delle Opere di Walter Benjamin a cura di G. Agamben), trad. it. a cura di I. Porena, A. Marietti Solmi, R. Solmi, A. Moscati, Einaudi, Torino, 1982. Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Saggi 1919-1922 (vol. II delle Opere di Walter Benjamin a cura di G. Agamben), trad. it. a cura di C. Colaiacomo, R. Solmi, A. Marietti Solmi, A. Moscati, G. Aganben, Einaudi, Torino, 1982. Strada a senso unico. Scritti 1928-1927 (vol. IV delle Opere di Walter Benjamin a cura di G. Agamben), trad. it. a cura di B. Cetti Marinoni, G. Carchia, A. Marietti Solmi, A. Moscati, G. Agamben, Torino, Einaudi, 1983. Diario moscovita, trad. it. a cura di G. Carchia, Einaudi, Torino, 1983. Parigi, capitale del XIX secolo. I “passages” di Parigi (vol. XI delle Opere di Walter Benjamin, a cura di G. Agamben), trad. it. a cura di R.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia, F. Porzio, Einaudi, Torino, 1986; ed. riveduta con il titolo I “passages” di Parigi (vol. IX delle Opere complete di Walter Benjamin, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), ed. it. a cura di E. Ganni, trad. it. a cura di R. Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia, F. Porzio, riveduta da H. Riediger, trad. it. dei testi dei curatori a cura di G. Quadrio Curzio, H. Riediger, E. Agazzi, G. Backhaus, F. Desideri, A. Marietti, Einaudi, Torino, 2000. Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940 (con Gershom Scholem), a cura di G. Scholem, trad. it. a cura di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino, 1987. Ombre corte. Scritti 1928-1929 (vol. V. delle Opere di Walter Benjamin, a cura di G. Agamben), trad. it. a cura di G. Backhaus, M. Bertolini Peruzzi, G. Carchia, G. Gurisatti, A. Marietti. Solmi, Einaudi, Torino, 1993. Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997. Quattro lettere su ebraismo e sionismo, trad. it. e presentazione di G. Bonola, in “MicroMega”, 3, 1997, pp. 195-212. Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ultima redazione (1938), trad. it. e note di E. Ganni, note al testo di Rolf Tiedemann. Con due scritti di Th. W. Adorno e P. Szondi, Einaudi, Torino, 2001. Scritti 1923-1927, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhauser (vol. IV delle Opere complete di W. Benjamin, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), ed. it a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2001. Scritti 1930-1931, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, con la collaborazione di H. Riediger (vol. IV delle Opere complete di W. Benjamin, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), trad. it. a cura di G. Backhaus, M. Bertolini, F. Desideri, P. Di Segni, E. Filippini, U. Gandini, E. Ganni, A. Marietti Solmi, G. Quadrio Curzio, H. Riediger, G. Schiavoni, P. Teruzzi, Einaudi, Torino, 2002.

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ALTRE OPERE CITATE

Dieter Adelmann, Einheit des Bewußtsein als Grundproblem der Philosophie Hermann Cohens, Diss., Heidelberg, 1968, in parte ristampata in H. Holzhey (hrsg.), Hermann Cohen, Peter Lang , Frankfurt am MainBerlin-Bern-New York-Paris-Wien, 1994, pp. 269-292. Ferdinand Avenarius, Aussprachen mit Juden, in «Der Kunstwart. Halbsmonatschau für Ausdruckskultur auf allen Lebensgebieten», hrsg. von F. Avenarius, 25, 22, 1912 (Zweites Augustheft), pp. 225-261. Theodor W. Adorno, Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1970, prima edizione rivista 1990. Theodor W. Adorno, Einleitung zu Benjamins Schriften, in Über Walter Benjamin, pp. 34-53; trad. it. Introduzione agli Scritti di Benjamin, in Note per la letteratura 1961-1968, Einaudi, Torino, 1976. Theodor W. Adorno, W. Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, hrsg. von H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1994, 19952. Franz von Baader, Vorlesungen über eine künftige Theorie des Opfers oder des Kultus, Münster, 1836. Franz von Baader, Erstes Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt e Zweites Sendschreiben an der Herrn Professor Molitor in Frankfurt, in Sämtliche Werke. Systematisch geordnete, durch reiche Erläuterungen von der Hand der Verfasser bedeutend vermehrte, vollständige Ausgabe der gedruckten Schriften samt dem Nachlasse, der Biographie und dem Briefwechsel, hrsg. durch einen Verein von Freunde der Verewigten: Prof. Dr. Franz Hoffmann u. a., I. Hauptabteilung, Band 4: Gesammelte Schriften zur philosophischen Anthropologie, Neudruck der Ausgabe Leipzig 1853, Scientia Verlag, Aalen, 1963, pp. 327-362. Bruno Bauch, recensione a Jonas Cohn, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens. Untersuchungen über die Grundfragen der Logik, in “KantStudien”, 17, 1912, pp. 457-459. Bruno Bauch, Immanuel Kant, Göschen, Berlin u. a., 1917, terza edizione riveduta 1923. Roland Beiner, Walter Benjamins Philosophy of History, in «Political Theory», 12, 1984, pp. 423-434.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ringraziamenti

Devo la realizzazione di questo libro alla fiducia che in me hanno avuto Gianni Carchia – la cui prematura e dolorosa scomparsa non ha impedito che in me maturasse la comprensione, dapprima intuitiva, dei suoi consigli per l’indagine del pensiero di Walter Benjamin – e Elio Matassi, che mi ha seguito e sostenuto costantemente con il suo pensiero e il suo aiuto per l’intero percorso della mia ricerca: questo libro è il risultato della revisione della mia Tesi di Dottorato di Ricerca, discussa nel 2000 presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Ringrazio Giacomo Marramao per le discussioni avute con lui sul pensiero teologico-politico di Benjamin, e per aver dato così nuovo slancio alla mia ricerca verso direzioni ancora inesplorate, e Franco Bianco per avermi dato occasione di scrivere su questi argomenti. Ringrazio Francesca Brezzi per il suo supporto costante e per la sua fiducia, e con lei tutti i professori, i ricercatori, e il personale amministrativo del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre. Ringrazio inoltre Katrin Tenenbaum, che nel lontano periodo in cui scrivevo la Tesi di Laurea è stata testimone dei miei primi tentativi di interpretazione del pensiero di Benjamin, mi ha seguita e mi ha trasmesso il suo sapere e le sue idee. Senza di lei questo libro non avrebbe visto la luce. Con lei ringrazio Paolo Vinci, che mi ha sostenuto con il suo entusiasmo e mi ha offerto le prime occasioni per pubblicare le mie riflessioni. Un ringraziamento particolare va a Pierfrancesco Fiorato, che è stato una guida costante nell’elaborazione della mia ricerca e che con suggerimenti e materiali, con critiche e soprattutto con la sua interpretazione originale di Benjamin e Cohen ha fatto dei nostri incontri un momento essenziale per lo sviluppo della mia riflessione. Con lui ringrazio Astrid Deuber-Mankowsky, che con la sua amicizia e la sua ricerca sul pensiero di Benjamin e Cohen è stata ed è un prezioso punto di riferimento, e ringrazio Eric Jacobson, che mi ha spinto ad approfondire le fonti ebraiche dell’opera di Benjamin. Ringrazio Fabrizio Desideri per i nostri incontri e per avermi dato, con i suoi scritti, importanti chiavi d’accesso al complesso mondo benjaminiano.  www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ringraziamenti

Ringrazio Stefano Besoli per le sue osservazioni e la sua fiducia. Ringrazio, per le belle e importanti discussioni avute con loro, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli, Gabriele Guerra e Francesca D’Amico. Infine vorrei ringraziare Dario Gentili, che con la sua amicizia, il suo pensiero e il suo sostegno costante è stato per me un aiuto fondamentale per la realizzazione di questo libro. Dedico questo libro a Mirella, Armando, Alessia, Livio e Federico.

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Indice dei nomi

Abulafia, A. 126, 432 Accolti Gil Vitale, N. 32, 157 Adamo 94 Adelmann, D. 107 Adorno, Th.W. 45, 199, 254, 273, 277, 366-367 Agamben, G. 24, 27, 65, 123, 176, 235, 277 Amoroso, L. 343 Antigone 194 Antomarini, B. 68 Arendt, H. 91 Aretin, E. von 259 Aristotele 150, 165, 292, 417 Arnaud, E. 160, 162, 164, 166-167, 170 Arrighi, R. 28 Assunto, R. 155 Avenarius, F. 26, 31

Beißner, F. 66, 194 Beneke, F.E. 378 Benjamin, A. 125 Benjamin, D.S. 286 Bergson, H. 9, 35, 38, 44, 158, 285 Bernfeld, S. 53 Bertolini Peruzzi, M. 24 Bertolino, V. 98 Besoli, S. 99, 205, 294, 321-322, 327 Bidussa, D. 91 Bignami, M. 167 Bloch, E. 98, 102, 199, 272 Blumenthal Belmore, H. 19, 25, 3233, 35-38, 42-45, 47, 52, 65, 92, 107, 123, 157 Bocchini Camaini, B. 25, 275 Bodei, R. 176-177, 179, 191, 193 Böhlendorff, C.U. 191 Böhm, W. 148 Böhme, J. 316 Bologna, S. 150, 224 Bölsche, W. 31 Bolzano, B. 288 Bonadies, C.A. 25 Bonaparte, N. 23 Bonhoeffer, D. 92 Bonola, G. 25-26, 29, 31, 90, 94, 100, 223-224, 275 Brandt, R. 201, 323, 325 Brelage, M. 394 Bröcker, M. 25, 29, 47, 49 Buber, M. 25-27, 30-31, 48, 255-256, 272, 274 Buchenau, A. 220 Büchner, G. 150 Buci-Glucksmann, C. 125

Baader, F. von 126, 266, 286-287, 303, 313, 316, 319-321 Bachmann, F. 268, 291 Bachofen, J.J. 207, 282 Backhaus, G. 24, 45 Bakunin, M.A. 271 Banfi, A. 28 Barbizon, G. 19, 131 Bartolini, L. 67 Battaglia, S. 346 Bauch, B. 44, 268, 291 Baudelaire, Ch. 124-125, 285, 367 Baumgart, D. 111 Bäumker, C. 282 Beck, C.H. 273 Beiner, R. 91

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Indice dei nomi

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Buck, T. 151 Buck-Morss, S. 124 Bueck, O. 220

Crono 201 Cuniberto, F. 24 D’Angelo, P. 150, 199 Dahnke, H.D. 151 Davidowics, K.S. 26 De Angelis, E. 102, 199 De Carolis, M. 201, 295 Deleuze, G. 200 Democrito 169 Derrida, J. 199-200 Descartes, R. 159, 277, 292, 335 Desideri, F. 147, 166, 366, 435, 437 Dessoir, M. 253-255, 273 Deuber-Mankowsky, A. 25, 29, 31-32, 65, 67, 98, 147-148, 152, 203, 280281, 400 Diederichs, E. 65 Dilthey, W. 32, 111, 138, 148, 151152, 157, 161, 193 Dosch, H.G. 166 Duhem, P.-M. 167-168

Cammarota, G. 67 Carabellese, P. 155 Carchia, G. 24, 147, 150, 199-201, 247-248, 295 Cases, C. 147 Cassirer, E. 8, 10, 19, 35, 87, 89, 111, 131, 134, 139-145, 149, 158-170, 178, 180-181, 185, 192-193, 195196, 204, 206-207, 220, 254, 257, 273, 281, 297 Castellani, E. 25 Cavallo, T. 102 Cayley, A. 196 Chaplin, Ch.S. 128 Chiarini, P. 167 Clarke, S. 168 Coccoli, G. 231, 294, 385 Cohen, H. 8-14, 26-27, 29-30, 35, 43, 48, 50-51, 53, 56-63, 65, 67-71, 7579, 83-87, 89, 94-101, 104-107, 109111, 126, 132, 134-137, 140-141, 149-151, 153-157, 161, 165, 170, 179-180, 186-188, 192, 197-207, 209-211, 213, 219-223, 232, 257, 262-264, 266-267, 269-271, 279283, 285, 287, 290-294, 297-298, 303, 306-309, 311, 322-323, 325331, 333-339, 341-342, 347, 358, 362-363, 366, 371, 376, 382-384, 390, 392-394, 397-401, 403, 405406, 408, 411-413, 416, 442, 444447 Cohn, J. 8, 19, 23, 28, 30, 35, 43-44, 47-49, 51, 158 Colaiacomo, C. 65 Colli, G. 27, 107 Cometa, M. 150, 193, 224-225 Consigli, P. 94 Coppellotti, F. 98 Corssen, M. 64 Cortese, A. 66 Costa, V. 279 Couturat, L. 268, 291

Eckers, M. 167 Edel, G. 67, 104, 197 Edipo 248 Eisler, R. 103, 367 Empedocle 176, 191, 193-194, 247 Eraclito 233 Erdmann, B. 8, 19, 35, 87, 111, 131, 146, 158, 281, 297 Ermanno, A. 368 Ernst, P. 148 Eucken, R. 281, 291 Euclide 408 Eulero (Euler, L.) 23 Fabris, A. 30, 126 Fermat, P. de 260-261 Ferrari, M. 28, 44, 96, 111, 160-162, 166-168, 170, 334, 338 Ferretti, S. 165, 180 Fichte, J.G. 21, 107, 148, 158, 219 Fichte, J.H. 107 Figal, G. 48, 52 Fintz Menascé, E. 123, 125 Fiorato, P. 30, 58, 68-71, 95, 98-101,

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Indice dei nomi 108, 200-202, 205, 280-281, 283284, 294, 321-323, 325, 327, 329, 336, 341, 363, 367, 378, 380, 420421 Fiorini, P. 126 Fischer, K. 111 Franzini, E. 279 Frege, G. 166, 268, 291 Frischeisen-Köhler, M. 254-255, 273 Fuld, W. 114

Guidetti, L. 99, 205, 294, 321-322, 327 Gundolf, F. 158 Günther, H. 95, 98 Gurisatti, G. 24 Ha-am, A. (Ginzberg, A.) 256-257, 275 Haase, J. 265, 286 Häberlin, P. 19, 158 Habermeier, R. 52 Halm, A. 25-26, 29, 45-46 Hamann, J.G. 423, 431 Hansen, F.-P. 193 Harnack, A. von 313 Hartmann, N. 282 Hartung, G. 92 Hauff, G. 323 Hauptmann, G. 51-52 Heckel, E. 30 Hegel, G.W.F. 21, 33, 44, 150, 179, 192, 221, 337, 378 Heidegger, M. 25 Heimsoeth, H. 282 Heinle, F. 114, 131, 146-148, 272 Held, H.L. 276, 282 Heller, A. 290 Hellingrath, N. von 133, 147-148, 151-153, 158, 163, 193, 254, 273, 282 Hensel, P. 281 Herberz, R. 19, 158, 270 Hermann, U. 111 Hess, M. 257, 276 Hildebrandt, H.-H. 193 Hildesheimer, I. 316 Hiller, K. 92, 94, 272, 288 Hirsch, S.R. 257, 276, 289, 315, 317, 408, 431, 435 Hitler, A. 92 Hodge, J. 125 Hoffmann, F. 287 Hofmann, P. 193 Hohenegger, H. 32, 104, 108 Hölderlin, F. 66, 131-132, 139, 147148, 150, 152-153, 157-159, 163, 171-173, 175-179, 181, 183-184, 188-189, 191-195, 208, 213, 219,

Gadamer, H.-G. 157, 199 Galilei, G. 144, 169, 201 Ganni, E. 201, 295 Garelli, G. 150 Garroni, E. 32, 108 Gassen, K. 158 Gaudig, H. 45 Geiger, M. 19, 158, 258-259, 261, 277, 279, 282, 392 Gentile, G. 102 Gentili, D. 124 George, S. 131, 147-148, 151, 158, 193, 259-261, 263, 272, 282 Gesù Cristo 23 Giannini, G. 276 Gigliotti, G. 27, 69, 192, 204, 206-207, 219-220, 368 Givone, S. 150 Goethe, J.W. von 50, 133, 139-140, 143-145, 150, 152-153, 160-161, 163-164, 166-167, 170, 178-179, 204, 259, 278, 284, 321, 382, 421 Goldmann, N. 279 Gonnelli, F. 319 Gordin, J. 324 Görland, A. 149, 220 Götz von Olenhusen, A. 147 Götz von Olenhusen, I. 147 Gouhier, H. 44 Graur, M. 272 Graziadei, C. 52 Griffero, T. 150 Grözinger, K.E. 100 Gründer, K. 100, 193, 223 Guattari, F. 200 Guerra, A. 220

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Indice dei nomi 222, 228, 233, 235, 240-248, 254, 257-258, 272-273, 278, 292, 407, 438, 442 Holzhey, H. 26, 96-97, 105, 107, 284, 322-325, 327-329, 331, 337, 342, 363, 367, 392-393, 400-401, 405, 416, 446447 Humboldt, W. von 152-153, 258, 277278, 314 Hume, D. 292 Husserl, E. 9, 19, 24, 30, 42, 52, 71, 259, 261, 268, 277, 279-280, 291, 392, 436

53, 55-56, 64, 66, 69, 87, 110, 150151, 434 Kindermann, H. 166 Klages, L. 114, 282 Klein, F. 196 Kleist, H. von 139 Knopp, K. 267 Knoppe, Th. 166 Kobau, P. 193 Koenitzer, W.F. 179 Koffman, K. 65 Köhnke, K.Ch. 378 Kopp-Oberstebrink, H. 100, 223 Kraft, W. 99, 290 Krell, M. 285 Krois, J.M. 166 Kroner, R. 30, 44 Kropotkin, P.A. 271 Kuhn, E. 282 Küppers, B. 166 Kurz, G. 193

Idel, M. 126 Iperione 152, 176 Isaia 98 Jacob, B. 279 Jacob, J. 219 Jacobson, E. 272, 286 Jäger, L. 146 Jamme, Ch. 193 Jean Paul 101

Lamprecht, K. 272 Landauer, G. 271-272 Landmann, M. 158 Lauth, R. 219 Lawitschka, V. 193 Lazare, B. 272 Lazzari, R. 162 Lehmann, S. 316 Lehmann, W. 259-260, 278, 282 Leibniz, G.W. 139, 143, 159, 166-169, 185, 202, 335, 337 Levi Coen, C. 27 Lewy, E. 152, 258, 277, 289 Lieb, F. 92-93 Linke, P.F. 166, 268, 291, 392, 409 Lipps, Th. 282 Lissa, G. 276 Loewenson, E. 111 Lombardo Radice, G. 102 Lötz, F. 45 Lotze, R.H. 268 Löwith, K. 98 Löwy, M. 91, 94, 101, 272 Lukács, G. 150, 224-225

Kajon, I. 68 Kambas, Ch. 93 Kant, I. 7, 10-12, 14, 19, 21, 26, 28, 30, 32-33, 35-36, 38-39, 42-46, 49-50, 54, 56, 62, 64-68, 79-81, 83, 96-97, 102-104, 107-108, 111, 124, 132, 134-136, 139, 143, 145, 149, 153156, 159-161, 166-167, 170, 179-180, 184, 186-188, 192, 197-207, 218-221, 224, 230, 234, 249, 251, 253-255, 258-261, 263, 266-271, 273, 277, 283285, 287-288, 291-294, 297-304, 307310, 313, 315, 319-322, 326, 328331, 333-339, 341, 343-345, 348349, 351-360, 362-367, 369-374, 376378, 380-385, 387-391, 393-395, 397, 399-400, 403-407, 411-421, 423, 434, 438-439, 446-447 Keller, G. 35 Kellermann, B. 220 Kempski, J. von 43 Kierkegaard, S. 8, 31, 38, 43, 49, 52-

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Indice dei nomi Mach, E. 288 Mahnke, D. 167 Maimonide, M. 57 Maj, B. 30 Mandelkow, K.R. 166 Mandruzzato, E. 66 Maragliano, G. 52 Marcucci, S. 108 Marietti Solmi, A. 24, 27-28, 45, 65, 147 Marrone, C. 231, 294, 385 Marx, K. 95-96 Marx, W. 324 Matassi, E. 126 Mathieu, V. 26, 44, 102 Mauthner, F. 277, 314 Mecacci, A. 193 Meinecke, F. 19, 30 Menke, B. 65 Menninghaus, W. 432 Merker, N. 220 Metz, S. 193 Meyer-Abich, A. 164 Molitor, F.-J. 93-94, 126, 266, 286-287, 301, 303, 314-316, 320, 435 Monaldi, M. 157 Montani, P. 104 Montinari, M. 27, 107 Mori, Y. 166 Moroncini, B. 33 Moscati, A. 28, 65, 201, 295 Mosè 23, 316 Müller-Seidel, W. 193 Musik, G. 149, 152-153

Niewöhner, K.E. 100, 223 Noeggerath, F. 8, 11, 14, 253, 258-266, 269, 278, 280-286, 291, 297-298, 308-311, 314, 328-331, 333, 337, 339-341, 343, 345-347, 362, 371, 374-376, 380-384, 389, 391-394, 396, 403-408, 412, 414-421, 444, 446-447 Novalis 133, 266, 277, 287, 292, 312 Omero 191 Opitz, M. 28, 92 Orlik, F. 201, 323, 325 Otswald, W. 30 Otto, R. 151 Pacor, M. 199 Paetzold, H. 159 Pasquinelli, G. 176 Pauly, J. de 314, 318 Pettoello, R. 166, 178 Pezzella, M. 367 Pfänder, A. 279, 282 Piana, G. 279, 436 Pietro 100 Pigenot, L. von 147 Pindaro 131, 147, 152, 172, 273 Platone 9, 19, 24, 32, 89, 109-110, 113, 146, 159-160, 165, 259, 264265, 273, 278, 302, 310, 333-335, 337-338, 377, 405, 434 Plessner, H. 284 Poincaré, H. 111, 253, 267, 271, 289 Poma, A. 58, 60, 67-68, 70-71, 101, 105-107, 110, 149-151, 154, 156157, 179, 197-198, 204, 323, 342, 410, 445 Poncelet, J.V. 185, 195-196 Porena, I. 27 Porzio, F. 201, 295 Pozzi, D. 200 Pozzi, G. 200 Prete, A. 52 Preuß, K.Th. 282 Prihousky, F. 288 Pulliero, M. 26 Pulver, M. 282, 286-287

Nachmanide, M. 439 Natorp, P. 10-13, 50-51, 96, 105, 134, 154, 161, 165, 263, 266-267, 278, 282-283, 290, 306, 308-309, 322323, 325, 327-329, 331, 347, 383, 403, 405 Naumann, B. 166 Nettlau, M. 271 Newton, I. 23, 364 Nietzsche, F.W. 8, 27-28, 30, 32, 51, 64, 89, 93, 107, 127, 148, 150, 158, 224, 273

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Indice dei nomi

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Quadrio Curzio, G. 201 Quentin, F., pseudonimo di Strauss, L. (v.)

Schermann, L. 282 Schiavoni, G. 24-25, 125 Schiller, J.C.F. 35, 38, 44, 139, 149, 161, 167 Schlegel, F. 266, 277, 287, 292, 312, 320 Schleiermacher, F.D.E. 287 Schmid, P.A. 98, 109, 281 Schmidt, C. 96 Schmidt, J. 66 Schmidt, P. 151 Schmidt, R. 43 Schmitt, C. 92 Schneider, H. 193 Schobinger, J.P. 436 Schoen, E. 92, 97, 114, 148, 177, 255, 274, 277, 293, 312, 381, 431 Scholem, G. 10-12, 15, 25-26, 35, 4345, 52, 56, 68, 74, 92-94, 96-97, 99102, 111, 115, 123, 126, 146, 158160, 163, 166, 207-208, 220-221, 223, 232, 249, 253-257, 259-269, 271-282, 284-294, 297-303, 305, 312-323, 336, 338, 362-363, 385, 392-393, 405, 407-409, 416, 423, 431-432, 435, 440 Schöndörfer, O. 220 Schroeder, E. 268 Schuler, A. 282 Schultess, P. 104 Schultz, J. 45 Schwarzschild, S.S. 27 Schweizer, H.R. 323 Schweppenhäuser, H. 201, 275, 295 Seebass, F. 147 Seidel, S. 167 Seligson, C. 38, 40, 44, 47-48, 50-51 Shedletzky, I. 99 Simmel, G. 19, 30, 35, 131, 138-139, 146, 150, 157-158, 160, 163-164, 204, 206-207, 281, 290 Smith, G. 25 Sofocle 150, 224, 241-242, 247-248 Solmi, R. 28, 65, 201, 295 Spada, G. 160 Spagnolo Acht, F. 123, 125 Sparr, T. 273

Radt, F. 111, 159, 259-260, 263, 277280 Radt, G. 258-259, 273, 278 Ranchetti, M. 90, 275 Rang, F.C. 97 Reclus, E. 271 Regazzoni, B. 249 Regehly, Th. 147 Reinach, A. 279 Reschke, R. 28 Reye, Th. 196 Rickert, H. 8-9, 19, 23, 25, 28, 30, 32, 35-36, 43-45, 51-52, 87, 158, 181, 254, 257-258, 272-273, 276-277, 297 Riedel, M. 319 Riediger, H. 201, 295 Riegger, W. 147 Riegl, A. 199-200 Riehl, A. 43, 146, 254, 435 Rilke, R.M. 259, 278 Ritschl, A. 313 Ritter, J. 45, 193 Ritzel, W. 327 Robespierre, M.-F.-I. 95 Robinet, A. 44 Roretz, K. 103 Rosenkranz, K. 179 Rosenzweig, F. 94, 192, 224, 272 Rotten, E. 278-279 Rudolph, E. 166 Rumpf, M. 148 Ruschi, R. 181, 247 Russell, B. 196 Russo, G. 201, 295 Rutigliano, E. 125 Sachs, F. 52 Sahagún, B. 278 Sandkühler, H.J. 97 Scattigno, A. 25, 275 Scheler, M. 150, 279, 282 Schelling, F.W.J. 148, 150, 192, 286287, 316

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Indice dei nomi Volkelt, J. 149-150 Voltaggio, F. 45 Vorländer, K. 32, 96, 155 Voss, A. 289-290

Speth, R. 148, 151-153, 157-159, 163 Spinoza, B. 43, 89, 265, 286, 359 Stadler, A. 96 Staudt, K.G.C. 185, 195-196 Steiner, J. 195 Steiner, R. 286 Steiner, U. 147, 151-152 Steinthal, H. 152 Stimilli, E. 92 Strauß, B. 100 Strauss, L. 8, 20, 25-29, 31-32, 54, 108, 111, 273-275, 293, 385 Ströker, E. 279 Stumpf, K. 254 Szondi, P. 150, 157, 193, 240, 247

Wagner, H. 328 Weber, M. 30 Weidemann, H. 44 Weigel, S. 125 Weise, O. 147 Wertheimer, J. 193 Wiedebach, H. 43, 67 Wiesenthal, L. 161, 163, 165-166, 169-170 Wildermut, A. 323 Winckelmann, J.J. 149 Windelband, W. 28, 30 Witte, B. 29, 151 Wizisla, E. 28, 92, 146-147 Wolandt, G. 67, 206 Wolff, C. 379 Wolff, J. 125 Wolfradt, W. 20 Wolfskehl, R. 261, 282 Woltmann, L. 96 Wundt, W. 290 Wyneken, G. 8, 19-21, 24-27, 29-30, 33, 35-39, 42, 45-51, 53, 55, 65-66, 113, 131, 147

Tackels, B. 126 Tagliacozzo, T. 93, 126, 231, 294, 385 Taubes, J. 92 Tieck, J.L. 287 Tiedemann, R. 201, 295, 437 Tiresia 248 Troeltsch, E. 30, 35, 146, 288 Troncon, R. 167 Trunz, E. 284 Tuchler, K. 20 Vaihinger, H. 36, 45 Vattimo, G. 199 Veca, S. 166 Vega, R. de la 97 Velotti, S. 199 Vercellone, F. 150 Vidari, G. 220 Vinci, P. 233, 246 Vischer, F.Th. 20

Zecchi, S. 170, 178 Zeitlin, H. 256, 276 Zeus 222 Ziegler, L. 150 Zilsel, E. 257, 276, 289, 407-408 Zingarelli, N. 346

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Discipline Filosofiche Quaderni Volumi pubblicati (i volumi attualmente disponibili sono contrassegnati da un asterisco)

Roberto Brigati, Il linguaggio dell’oggettività. Saggio su Meinong 1992, 154 pagine, L. 16.000 Maurizio Matteuzzi, La macchia di colore. Appunti per una filosofia della teoria 1993, 262 pagine, L. 24.000 * Roberto Dionigi, Nomi Forme Cose. Intorno al Cratilo di Platone 1994, 155 pagine, L. 20.000 ora in Scritti filosofici di Roberto Dionigi (2000-2001), vol. III Nomi Forme Cose. Intorno al Cratilo di Platone, prefazione di Umberto Eco 2001, 166 pagine, euro 13,42 Stefano Besoli, La coscienza delle regole. Tre saggi sul normativismo di Windelband 1996, 178 pagine, L. 20.000 Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo 1997, 567 pagine, L. 50.000 * Roberto Dionigi, La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia 1998, 430 pagine, L. 40.000 ora in Scritti filosofici di Roberto Dionigi (2000-2001), vol. IV La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia, prefazione di Eva Picardi 2001, 568 pagine, euro 24,45 * Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap 1999, 199 pagine, L. 28.000

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* Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla «Metafisica della conoscenza» di Nicolai Hartmann 1999, 377 pagine, L. 34.000 * Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente 1999, 304 pagine, L. 35.000 * Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga 2000, 972 pagine, L. 80.000 * Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi 2001, 197 pagine, L. 30.000, Euro 15,49 * Girolamo De Michele, Felicità e storia 2001, 216 pagine, L. 30.000, Euro 15,49 * Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts 2001, 185 pagine, L. 30.000, Euro 15,49 * Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale 2001, 265 pagine, L. 34.000 Euro 17,56 * Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski 2001, 235 pagine, L. 32.000, Euro 16,53 * Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico 2002, 219 pagine, Euro 16,50 * Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein 2002, 184 pagine, Euro 16 * Stefano Besoli, Massimo Ferrari, Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza 2002, 204 pagine, Euro 16,50

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* Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza 2002, 395 pagine, Euro 22.00 * Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno 2003, 168 pagine, Euro ,

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Scritti filosofici di Roberto Dionigi 2000-2001, 5 volumi

Volume I

Gaston Bachelard La “filosofia” come ostacolo epistemologico A cura di Alberto Gualandi 2001, 188 pagine, euro 13,42 Volume II

Il doppio cervello di Nietzsche Prefazione di Massimo Cacciari 2000, 158 pagine, euro 13,42 Volume III

Nomi forme cose. Intorno al Cratilo di Platone Prefazione di Umberto Eco 2001, 166 pagine, euro 13,42 Volume IV

La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia Prefazione di Eva Picardi 2001, 568 pagine, euro 24,45 Volume V

Saggi e conferenze A cura di Roberto Brigati 2001, 348 pagine, euro 20,37

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